Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti
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DeriveApprodi 80

I edizione: settembre 2009 © 2009 DeriveApprodi srl Tutti i diritti riservati DeriveApprodi srl piazza Regina Margherita 27 00198 Roma tel 06 85358977 fax 06 97251992 [email protected] www.deriveapprodi.org Progetto grafico di Andrea Wöhr ISBN 978-88-89969-77-9 Finito di stampare nel mese di settembre presso la tipografia Iacobelli – Pavona (Roma) per conto delle edizioni DeriveApprodi

DeriveApprodi

Karl Marx

Il capitalismo e la crisi Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché

L’equilibrio stesso – dato il carattere primitivo di questa produzione – è un caso K. Marx, Il Capitale, II libro, cap. 21

Premessa Immaginiamo di incontrare un tipo che fa discorsi strani. Che dice che la crisi non è un’eccezione, ma la norma. Che questa crisi non è stata causata né da qualche speculatore troppo avido, né da qualche proprietario di casa troppo credulone. E neppure dalla nuova casta dei banchieri, dai governatori delle banche centrali e dagli analisti delle società di rating. E non perché tutti costoro siano innocenti, ma per un motivo più profondo. Perché la crisi non è un infortunio del nostro sistema economico, ma il prodotto delle sue leggi di funzionamento più elementari. Del modo in cui nella nostra società sono ripartite la proprietà e la ricchezza, si scambiano le merci e si adopera il denaro. Immaginiamo che questo tizio, sfruttando il nostro sconcerto, si faccia sempre più insolente. E affermi che la crisi non solo non è un problema per il sistema, ma è il solo modo attraverso cui il sistema può risolvere i propri problemi, e riprendere a funzionare senza intoppi. Anche se comunque il suo funzionamento regolare è soltanto una tregua, più o meno breve, prima della prossima crisi. Immaginiamo di superare il fastidio e l’imbarazzo, e di chiedergli chi gli dia il diritto di raccontarci tutte queste sciocchezze. E che lui ci risponda che tutto questo l’ha inteso, dimostrato e scritto in prima persona. Osservando le crisi di 150 anni fa e scrivendone su un quotidiano degli Stati Uniti, dopo essere stato espulso per attività sovversive da Germania, Belgio e Francia. E poi chiuso a studiare nella British Library di Londra, o a scrivere nella sua casa traboccante di libri e assediata dai creditori. Chiunque non dia per scontato che questo tipo sia un folle potrà trovare qualcosa di interessante in questo libro.

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Karl Marx e le crisi del XXI secolo Vladimiro Giacché

A quanto pare non è proprio possibile liberarsi di Marx. E dire che sembrava fatta. Appena venti anni fa, con il crollo dei regimi dell’est europeo e la vittoria del capitalismo in salsa thatcheriano-reaganiana, anche su Marx e le sue teorie sembrava calato definitivamente il sipario. L’ennesima «crisi del marxismo» era in scena già dai primi anni Ottanta, ma ora, con la fine ingloriosa dell’Unione Sovietica, sembrava che non sarebbe andata come tutte le altre volte. La pagina del marxismo sembrava definitivamente voltata, e gli scritti di Marx destinati agli storici e a un pugno di nostalgici fuori dal tempo. I volumi dell’edizione delle opere di Marx ed Engels che nella ex Berlino Est dei primi anni Novanta affollavano le bancarelle dei libri usati tra il disinteresse dei passanti sembravano la riprova più chiara di questo destino. Purtroppo, però, per risolvere ed eliminare le contraddizioni del reale non basta sostenere che esse non esistono. E questo vale per gli individui come per le società. La società capitalistica dei nostri tempi non fa eccezione. E così, nel 2007, è arrivata la crisi: la peggiore dal 1929 in avanti. Il capitalismo tronfio e trionfante degli ultimi decenni, con il suo sano egoismo generatore e dispensatore di ricchezza per tutti, con le sue capacità autoregolative superiori a ogni goffa imposizione di regole dall’esterno, ha così ceduto il passo a un insieme di meccanismi inceppati, che hanno bisogno di fiumi di denaro degli Stati per tornare malamente a funzionare. Risultato: l’immagine che oggi il capitalismo dà di sé è quella di un sistema in cui ingiustizie intollerabili vanno di pari passo con una drammatica inefficienza nell’allocazione delle risorse. Si capisce, quindi, il disorientamento nelle folte schiere dei suoi seguaci, sia nel mondo dell’economia che in quello della politica e dell’informazione. Ma quanto sta accadendo non è un fatto che ri7

guardi soltanto le cerchie ristrette degli addetti ai lavori. Molte delle certezze su cui erano state edificate la visione del mondo e la filosofia della storia diffuse a livello di massa negli ultimi decenni sembrano oggi – se non proprio in frantumi – quantomeno incrinate. Per capire i motivi del rinnovato interesse nei confronti di Marx bisogna partire da qui: da queste certezze che non sono più tali. 1. La crisi dell’ideologia neoliberale e la riscoperta di Marx A essere stato investito direttamente dalla crisi è il principale feticcio ideologico degli ultimi venti anni: il mercato. Hanno appena finito di convincerci che il mercato è l’artefice di tutto quanto vi è di buono nel nostro mondo, mentre lo Stato può soltanto rovinarne l’opera, ed ecco che arriva la crisi. E avviene l’impensabile: tutt’a un tratto la «mano visibile» dello Stato non solo ridiventa gradita, ma viene addirittura invocata da voci insospettabili. Fa un certo effetto notare che il «Financial Times» non trova nulla da ridire sulla nazionalizzazione della Northern Rock o della Royal Bank of Scotland sull’orlo del fallimento. Ma fa ancora più effetto osservare come lo stesso governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, giustifichi il salvataggio della banca Bear Stearns dicendo che si tratta in realtà di un «salvataggio dei mercati». E le sorprese non sono finite: dal finanziere George Soros che si scaglia contro il «fondamentalismo di mercato» all’ex ministro Domenico Siniscalco (poi a Morgan Stanley) che approva l’atteggiamento «pragmatico» e anti-ideologico di chi ha finalmente abbandonato «il dogma che il mercato possa risolvere ogni problema»; dal vecchio Paul Samuelson per il quale «urge un po’ di statalismo» al direttore di «Repubblica», Ezio Mauro, che parla della fine dell’«unica ideologia superstite – un mercato universale senza Stato e senza governo». Insomma: i «convertiti allo Stato interventista» – come li ha definiti il sociologo tedesco Ulrich Beck – non si contano veramente più1. A cominciare, si direbbe, dagli stessi mercati finanziari. Quando è stato lanciato il primo piano di riacquisto delle obbligazioni dalle banche elaborato dal governo degli Stati Uniti, il «Financial Times» ha potuto titolare in prima: I mercati mondiali ruggiscono d’approvazione. Pochi giorni prima il ministro del tesoro Usa Paulson aveva dato involontariamente il segnale della fine del 1. M. Valsania, Fed: ‘Non abbiamo salvato Bear Stearns ma i mercati, «Il Sole 24 Ore», 4 aprile 2008; G. Soros, Questa crisi figlia dell’ideologia, «Il Sole 24 Ore», 6 aprile 2008; D. Siniscalco, Mercato, addio al dogma, «la Stampa», 23 marzo 2008; P. Samuelson, Tutta colpa della Fed e di Bush, «il Mondo», 28 marzo 2008; E. Mauro, Il nuovo disordine mondiale, «la Repubblica», 2 ottobre 2008; U. Beck, «I convertiti allo Stato interventista», «la Repubblica», 29 marzo 2008.

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mito dell’autosufficienza del mercato, allorché aveva suggellato la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers con una solenne affermazione: «è il mercato che deve prendersi cura del mercato»2. E tutte le borse del mondo all’unisono avevano risposto cosa ne pensavano: crollando. È entrato in crisi il modello di deregulation dei mercati che era stato avviato da Reagan a partire dagli anni Ottanta. Emerge ora, e viene anche detto pubblicamente, quello che molti già sapevano: che l’autoregolamentazione dei mercati ha sempre significato assenza di regolamentazione. Persino sul Financial Times si può leggere che l’invito a «lasciar fare al mercato» ha ormai perso ogni credibilità. E anche Tommaso Padoa Schioppa ora denuncia «la crisi di una visione ideologica dell’economia, quella secondo cui i mercati hanno sempre e comunque ragione e non hanno bisogno di interventi»; e sostiene che «la crisi nasce dall’incapacità del mercato di compiere, giorno per giorno, “giuste” valutazioni». La teoria dei mercati efficienti è ormai pubblicamente sbugiardata su libri e giornali. A questa e ad altre teorie economiche influenti si addebita ora, e con ragione, di aver fornito «una fondazione apparentemente scientifica a preferenze ideologiche»3. Ma è più in generale alla razionalità del mercato che non sembra più credere nessuno. Non è un caso, insomma, che la metafora antropomorfica del mercato come soggetto razionale, uno dei pezzi forti dell’ideologia neoliberale degli scorsi decenni, abbia ceduto il passo a inquietanti metafore teratologiche. Come quella adoperata dal presidente tedesco, Horst Köhler (già direttore generale del Fondo Monetario Internazionale): «i mercati finanziari si sono sviluppati a tal punto da diventare dei mostri che ora devono essere domati»4. 2. Vedi Global markets roar in approval, «Financial Times», 20 settembre 2008 e J. Sapir, Une décade prodigieuse. La crise financier entre temps court et temps long, «Revue de la régulation», n. 3, 2008, p. 2 (http://regulation.revues.org/document4032.html ). 3. M. Niada, intervista all’economista W. Buiter, «Il Sole 24 Ore», 20 settembre 2008; M. Skapinker, Every fool knows it’s a job for government, «Financial Times», 18 novembre 2008. Interviste di A. Orioli e M. Giannini a T. Padoa Schioppa, «Il Sole 24 Ore», 9 novembre 2008, «la Repubblica», 6 ottobre 2008. J. Fox, The Myth of the Rational Market. A History of Risk, Reward and Delusion on Wall Street, HarperCollins, New York 2009; vedi la recensione di J. Authers, An economic model turned to myth, «Financial Times», 8 giugno 2009. L. Spaventa, The crisis: a survey, Istiseo, 22 giugno 2009 (draft) e cfr. R. Artoni, La cultura economica e la crisi, Università Bocconi, Centre for Research on the Public Sector, maggio 2009. 4. Sull’ideologia del mercato e le sue metafore vedi V. Giacché, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, DeriveApprodi, Roma 2008, pp. 82-93. Per Köhler vedi Markt des Grauens, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 15 maggio 2008. Più recentemente Paul Krugman ha parlato della necessità di stabilire regole per la fi-

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In parallelo al crescere della necessità di un intervento dello Stato nell’economia, in proporzioni superiori a quelle dell’epoca della Grande Depressione, si profila insomma una vera e propria crisi di legittimità del mercato. La gravità di questa crisi di legittimità è tale da aver indotto la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» a dedicare un editoriale molto preoccupato alla «crisi di fiducia nell’economia di mercato». Non a caso è ampiamente circolato il paragone tra il crollo del Muro di Berlino e il crollo di Wall Street. Lo stesso Anthony Giddens, tra i padrini teorici di Tony Blair e del new labour, afferma che «siamo all’inizio di una nuova era, un po’ come nel 1989, alla caduta del muro di Berlino». Il «Financial Times» è giunto a pubblicare uno struggente editoriale «in lode dei liberi mercati», e perfino a ospitare una pagina, pagata dalla John Templeton Foundation, sull’avvincente tema: Il libero mercato corrode la tempra morale?. Ovviamente la risposta degli «esperti» interpellati è negativa, ma la pagina è decisamente un segno dei tempi. E a questo punto non riusciamo a stupirci neppure della lettera pubblicata sullo stesso quotidiano con un titolo redazionale decisamente ardito: Il capitalismo non può essere considerato un dogma in ogni circostanza5. In realtà, il punto è proprio questo: mercato sta per capitalismo. Quando gli ideologi neoliberali parlano di mercato, non parlano in prima istanza né di libero scambio delle merci, né di libera concorrenza. Parlano di titolarità dei diritti di proprietà: di proprietà privata, e più in particolare di proprietà privata dei mezzi di produzione. Cioè di capitalismo. Questa è la traduzione di espressioni apparerentemente neutre quali: società di mercato, ordine economico del mercato, sistema economico di mercato, sistema di mercato e, soprattutto, economia di mercato. Non siamo i soli ad affermarlo: anche il presidente di una delle principali banche italiane ha parlato anni fa del «sistema economico dominante – prima chiamato capitalismo, oggi di mercato»6. I motivi tutt’altro che innocenti di questa ridefinizione del capitalismo attraverso il mercato li aveva spiegati molto chiaramente in uno dei suoi ultimi saggi John Kenneth Galbraith. «A suo nanza, per «imbrigliare il mostro»: cfr. l’intervista di W. Hutton, Paul Krugman’s fear for lost decade, «the Observer», 14 giugno 2009. 5. H. Steltzner, Nach dem Untergang, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 19 settembre 2008; E. Silva, intervista ad A. Giddens, «Il Sole 24 Ore», 19 ottobre 2008; In praise of free markets, «Financial Times», 26 settembre 2008; Does the free market corrode the moral character?, «Financial Times», 28 ottobre 2008; Robert McDowell, Capitalism can’t be considered sacrosanct in all circumstances, «Financial Times» 12 novembre 2008. 6. G. Bazoli, Mercato e democrazia più vicini, «Il Sole 24 Ore», 13 ottobre 2004. Corsivi miei.

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tempo – ricordava Galbraith – “capitalismo” non era solo la definizione accettata del sistema economico vigente; nella parola era implicito il riferimento a coloro che esercitavano il potere economico e di conseguenza politico. Si parlava di capitalismo mercantile, capitalismo industriale, capitalismo finanziario». Poi, dopo la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti «prese piede il termine market system, sistema di mercato. Sarebbe stato difficile escogitare un’espressione più anodina. Proprio per questo ebbe successo. Il riferimento al mercato come alternativa benevola al capitalismo è un’operazione cosmetica, fiacca e insipida, destinata a coprire una scomoda realtà». Per essa «nessuno domina il mercato, né i singoli né le imprese. Nessuna forma di supremazia economica è mai invocata. (...) C’è solo l’impersonalità del mercato»7. Sta di fatto che oggi è proprio questo mercato «impersonale» a essere sotto accusa. Intendiamoci: non sono mancate le difese ideologiche basate sull’assunto che i problemi siano nati dalle imperfezioni del mercato. Talvolta si giunge a negare che i mercati che hanno creato problemi meritino il nome di «mercati». Così, un importante finanziere europeo ha scritto: «La mia opinione è che chiamiamo «mercati finanziari» un insieme di alvei di transazioni che, per almeno tre quarti, è un’accozzaglia di domini artificialmente segmentati e totalmente opachi di poche grandi banche oligopoliste che devono la loro posizione alle distorsioni del too big to fail». Secondo questa tesi sarebbe addirittura «vergognoso» chiamare questi alvei «mercati»8. A maggior ragione, in crisi non sarebbe il capitalismo, ma al massimo un modello di capitalismo. Per chi segue questa impostazione, da un lato ci sono i meccanismi di mercato, dall’altro le loro degenerazioni. Da un lato l’ideale del mercato perfettamente concorrenziale, dall’altro ciò che ne impedisce il pieno dispiegarsi. La nostra – questa è la tesi – costituisce senz’altro una società di mercato: quindi è sulla strada giusta, ma deve superare ancora molte imperfezioni. A qualcuno questo schema propagandistico potrà risultare familiare. E in effetti, se si sostituisce «società socialista» a «società di mercato», si ha precisamente uno dei principali dispositivi retorici in uso nell’Urss brezneviana per celebrare la superiorità del socialismo. Da questo punto di vista, gli odierni apologeti del capitalismo reale non sembrano molto innovativi. 7. J.K. Galbraith, Un nuovo nome per il sistema, cit. in V. Giacché, La fabbrica del falso, cit., pp. 88-89. 8. Cit. in M. Vitale, Tutti i fondamentalismi da battere, «Il Sole 24 Ore», 2 novembre 2008. Il principio «too big to fail» (troppo grandi per fallire) è stato il criterio ispiratore di molti salvataggi bancari attuati dall’inizio della crisi.

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Un’ulteriore linea di difesa attua un curioso rovesciamento dell’uso eufemistico del mercato. Quando, ad esempio, Joseph Stiglitz afferma che «la caduta di Wall Street è per il fondamentalismo di mercato quello che la caduta del Muro di Berlino è stata per il comunismo», è evidente intanto che abbiamo a che fare con un parallelo asimmetrico (perché non parlare di capitalismo così come si parla di comunismo?); ma è evidente soprattutto che qui è il mercato a essere adoperato in un contesto dispregiativo, pur di salvare il capitalismo. In questo caso il capitalismo viene messo al riparo dai suoi critici potenziali semplicemente non menzionandolo. Qualcuno ha fatto di meglio: il premier francese Fillon ha sostenuto che quello che è successo sui mercati finanziari a opera dei «protagonisti della finanza» statunitensi ha comportato uno «sviamento del capitalismo»9. In questo caso, pur di salvare il capitalismo, il mercato viene abbandonato. Il prestanome è lasciato al suo destino. Come la spia di un romanzo di Le Carré: troppo esposta e quindi bruciata. Difese a parte, una cosa è ormai certa: dobbiamo andare avanti «senza la narrazione che ha sostenuto con successo per tre decenni le società occidentali: che il mercato veda più lontano dello Stato»10. La brutalità della crisi mette impietosamente in questione i presupposti di cui si è nutrita in questi anni l’ideologia dominante, divenuta così pervasiva e trasversale agli stessi schieramenti politici da poter essere definita il «pensiero unico»11. Si pensi alla presunta maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto a quella pubblica. Non esiste alcuna ricerca empirica che dimostri tale superiorità, ma essa è diventata senso comune12. Quando però negli Usa, nel Regno Unito, in Germania e altrove vengono nazionalizzate le banche, e sia pure per socializzare le perdite, è il presupposto stesso della superiorità della proprietà privata dei mezzi di produzione a essere posto de facto in discussione. Più in generale, è il mito del mercato capitalistico quale miglior sistema di allocazione delle risorse a essere confutato di fatto dalla crisi attuale: come si può parlare di efficienza del mercato in una situazione in cui viene distrutta ricchezza per decine 9. J. Stiglitz, The fall of Wall Street is to market fondamentalism what the fall of the Berlin Wall was to communism, in www.huffingtonpost.com/nathan-gardels/stiglitz-the-fallof-wall_b_126911.html . Discorso di F. Fillon all’università estiva del PPE-DE, Fiuggi, 18 settembre 2008. 10. M. Skapinker, Dangers in a world of disillusionment, «Financial Times», 31 marzo 2009. 11. La paternità della definizione è di Ignacio Ramonet: vedi La pensée unique, «Le Monde Diplomatique», gennaio 1995. 12. In merito vedi: G. Bognetti, Il processo di privatizzazione nell’attuale contesto internazionale, Università degli Studi di Milano, Dipartimento Economia Politica e Aziendale, Working Paper n. 23, dicembre 2001; V. Giacché, Parlar male di Garibaldi, in R. Martufi, L. Vasapollo, Vizi privati… senza pubbliche virtù, Cestes-Proteo, Roma 2003, pp. 1-5.

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di migliaia di miliardi di euro, e nel giro di pochi mesi nel mondo i disoccupati diventano 230 milioni? Che efficienza è mai questa? Come è possibile negare questo gigantesco sperpero di risorse umane e materiali? E, soprattutto, cosa si deve fare per evitarlo? In fondo, sono questi dubbi e queste domande ad avere riportato Karl Marx agli onori delle cronache. Con modalità semplicemente impensabili sino a pochi mesi fa. La barba del rivoluzionario di Treviri torna ad affacciarsi da giornali e periodici: dalle pagine del «Financial Times» alla copertina di «Foreign Policy», dal francese «Le Point» – che gli ha dedicato un numero monografico – alla copertina del «venerdì di Repubblica»13. Vediamo il presidente francese Nicolas Sarkozy che si fa fotografare mentre sfoglia Il capitale e leggiamo il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück il quale, bontà sua, concede che «ci sono parti della teoria di Marx che non sono poi così sbagliate»14. Ovviamente, è fin troppo facile obiettare che queste riscoperte sono viziate da equivoci (uno su tutti: vedere in Marx un fautore pre-keynesiano dell’intervento dello Stato nell’economia). Su un punto, però, la rinnovata attenzione nei confronti di Marx, per quanto superficiale possa essere, coglie nel giusto: sulla crisi attuale Marx dice di più e meglio di legioni di economisti mainstream dei giorni nostri. Per convincersene è sufficiente leggere i brillanti articoli scritti da Marx per il «New-York Daily Tribune», che rappresentano una cronaca di estrema attualità delle crisi della sua epoca. Ma ovviamente il tema della crisi attraversa tutte le opere principali edite da Marx, dal Manifesto del partito comunista al primo libro del Capitale. Non per caso, nel primo progetto complessivo della sua opera sul modo di produzione capitalistico, risalente al 1857, la parte culminante e finale della trattazione è «il mercato mondiale e le crisi»15. Le riflessioni più complete di Marx sull’argomento sono 13. P. Kennedy, Read the big four to know capital’s fate, «Financial Times», 13 marzo 2009; L Panitch, Thoroughly Modern Marx e J.B. Judis, Confessions of a True Believer, in «Foreign Policy», May/June 2009 (in copertina: Marx, Really? Why He Matters Now); Marx, «Le Point hors série», giugno-luglio 2009; Marx factor, «il venerdì di Repubblica», 22 maggio 2009. 14. Intervista a P. Steinbrück di Th. Toma, W. Reuter, In einen Abgrund geblickt, «der Spiegel», 29 settembre 2008. 15. Così nel testo noto come Introduzione del 1857: vedi K. Marx, F. Engels, Werke vol. 42, Dietz Verlag, Berlin 1983, p. 42; tr. it. in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. 29, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 41 (d’ora in avanti citati rispettivamente come MEW e MEOC seguiti dal numero del volume e delle pagine). Nella più sintetica esposizione del «sistema dell’economia borghese» contenuta nelle prime righe della prefazione del 1859 al Per la critica dell’economia politica resterà il solo riferimento al mercato mondiale: cfr. MEW 13.7 = MEOC 30.297. In merito si vedano comunque già la lettera di Marx

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però contenute in manoscritti pubblicati soltanto dopo la sua morte, e in qualche caso soltanto pochi anni fa: in particolare nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, nelle Teorie sul plusvalore e nei lavori preparatori per il secondo e terzo libro del Capitale. Di particolare importanza sono le pagine del manoscritto marxiano per il terzo libro del Capitale, in cui è contenuta la più organica e dettagliata esposizione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, fondamentale per intendere la concezione marxiana della crisi. Queste pagine, da cui Friedrich Engels ha tratto i capitoli 13-15 della edizione a stampa del terzo libro del Capitale edita nel 1894, sono di grande interesse: leggerle significa entrare nel laboratorio di Marx, verificare in vivo la sua impressionante capacità deduttiva e il suo continuo approfondimento dei concetti di fondo della teoria economica. 2. La crisi «impossibile» e la ricerca del colpevole Leggendo le pagine dedicate da Karl Marx alle crisi economiche del suo tempo, la prima impressione è quella di una sorprendente familiarità. Leggiamo osservazioni che si riferiscono a crisi di 150 anni fa, e sembra che si parli di oggi. Quanto ai banchieri e agli uomini d’affari, troviamo testimonianze dell’assoluta incapacità – allora come oggi – di prevedere la crisi ancora alla vigilia del suo scoppio: Marx ad esempio ricorda come essi nel 1857 «si congratulassero reciprocamente per l’andamento fiorente e sano degli affari un mese prima dello scoppio della crisi»16. Venendo agli economisti, troviamo – allora come oggi – la fede nell’impossibilità della crisi, che a crisi scoppiata si rovescia in moralismo e in critica all’imprudenza degli uomini d’affari: «quando mai questi ottimisti borghesi hanno previsto o preconizzato una crisi? Non c’è stato periodo di prosperità in cui essi non abbiano approfittato dell’occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale e industriale con banalità moralistia Ferdinand Lassalle del 22 febbraio 1858: MEW 29.551 = tr.it. di M. M. Montinari in MEOC 40.578, e la lettera a Joseph Weydemeyer del 1° febbraio 1859: MEW 29.572 = MEOC 40.601. 16. K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. «Das Kapital» und Vorarbeiten, Band 4: K. Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1867. Text - Teil 2. Hrsg. von der Internationalen Marx-Engels-Stiftung, Amsterdam. Bearbeitet von M. Müller (Leiter), J. Jungnickel, B. Lietz, Chr. Sander u. A. Schnickmann, Dietz Verlag, Berlin 1992, p. 540 (d’ora in avanti citato come MEGA II/4.2 seguito dal numero di pagina).

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che, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza». Sono parole tratte dall’articolo Pauperismo e libero scambio, pubblicato sul «New-York Daily Tribune» del 1° novembre 1852 (p. 65)17. Tre anni dopo, questa volta in un articolo per la «Neue OderZeitung», Marx avrebbe ribadito analoghi concetti, in un’invettiva che sembra rivolta a certi odierni apologeti della globalizzazione, prontamente trasformatisi in fustigatori degli eccessi che a loro dire avrebbero condotto alla crisi attuale: «la crisi commerciale e industriale (…) dal settembre scorso aumenta ogni giorno in veemenza e universalità. La sua ferrea mano ha subito tappato la bocca agli apostoli superficiali del libero scambio che andavano predicando da anni che dopo la revoca delle leggi sul grano, la saturazione dei mercati e le crisi sociali erano per sempre bandite nel regno delle ombre del passato. I mercati sono saturi, e adesso a gridare più forte sulla mancanza di prudenza che ha impedito ai fabbricanti di limitare la produzione sono quei medesimi economisti che ancora 5 mesi fa insegnavano con dogmatica infallibilità che non è mai possibile produrre troppo»18. Quello che vale per gli economisti, vale a maggior ragione per i giornalisti di cose economiche. Anche in questo caso, l’esultanza per il buon andamento degli affari cede facilmente il passo, quando le cose non vanno più bene, all’indignazione morale. A fare le spese del sarcasmo di Marx a tale proposito è il «London Times», con le sue invettive contro le «bande di speculatori e falsificatori di cambiali senza scrupoli» che infestavano la City di Londra e, più in generale, contro un «ceto degli affari marcio sino al midollo». Marx commenta: «Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca delle crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del Libero Commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno» (p. 70). Ma il punto che sta a cuore a Marx è un altro: «Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo» (ibidem). Marx individua qui, nella ricerca moralistica del colpevole della 17. I numeri di pagina riportati direttamente in testo si riferiscono alle pagine della presente edizione. 18. K. Marx, La Costituzione britannica, «Neue Oder-Zeitung», n. 109, 6 marzo 1855, MEW 11.96 = MEOC 14.53-54 (cfr. anche MEOC 14.59-60).

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crisi (lo speculatore), l’altra faccia della medaglia della fede ingenua nell’evitabilità delle crisi. Tale fede riposa sulla convinzione che la crisi sia qualcosa di estraneo al normale funzionamento dell’economia capitalistica. Secondo questa illusione ideologica, la crisi viene sempre da fuori, è una patologia esterna al sistema. Quindi è dovuta a errori o colpe specifiche di qualcuno. Ma a questo riguardo Marx ha gioco facile nell’osservare che «proprio il ripetuto insorgere di crisi a intervalli regolari nonostante tutti i moniti del passato smentisce l’idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui» (ibidem)19. Venendo ai giorni nostri, è facile osservare come proprio la ricerca del colpevole abbia rappresentato uno degli sport preferiti di politici, economisti/opinionisti e giornalisti. Nel nostro caso, vista la gravità e complessità della crisi stessa, l’elenco degli accusati è molto lungo. Senza pretesa di completezza, si possono citare: i mutui subprime, le obbligazioni strutturate, i derivati sui crediti (credit default swaps), l’avidità dei banchieri, le società di rating colluse con i banchieri, l’orientamento al profitto di breve termine (short-termism), la creazione di veicoli finanziari fuori bilancio (lo shadow banking system), l’inefficacia del risk-management, i buchi nella regolamentazione, la politica monetaria della Federal Reserve, l’eccesso di consumo degli Stati Uniti, l’eccesso di risparmio della Cina; con il passare del tempo (e l’aggravarsi della crisi) si sono inoltre tirati in ballo la perdita di fiducia (che creerebbe o aggraverebbe la crisi), la crisi finanziaria (che avrebbe contagiato l’economia reale), il fallimento di Lehman Brothers (che avrebbe creato una crisi mondiale). Ma vediamo più da vicino almeno le cause citate più di frequente. La prima in ordine di tempo sono stati gli ormai celebri mutui subprime. Però, strano a dirsi, l’entità complessiva di questi mutui è enormemente inferiore alle perdite che essi avrebbero provocato20. Poi è stata la volta dell’avidità dei banchieri. Si tratta senz’altro della causa che ha goduto di maggiore popolarità. Ne ha parlato anche Barack Obama nel discorso inaugurale della sua presidenza. Peccato che sino a pochi mesi prima la stessa caratteristica fosse lodata e chiamata in un modo diverso: «capacità di creare valore». La verità è che la spasmodica tensione verso i profitti, quando le cose 19. All’epoca in cui Marx scriveva queste righe effettivamente le crisi avvenivano ad «intervalli regolari» di dieci anni l’una dall’altra: cfr. Ch. P. Kindleberger, Storia delle crisi finanziarie, 2a. ed. 1989, tr.it. di F. Grossi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 17. 20. Si vedano i dati riportati nel miglior testo sulla crisi oggi disponibile in Italia: A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 41. Vedi anche I. Fender, M. Scheicher, The pricing of subprime mortgage risk in good times and bad: Evidence from the ABX.HE indices, BIS Working Papers, marzo 2009, in particolare il graph 1.

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vanno bene viene lodata, quando non vanno più bene viene rimproverata come un vizio. In questi casi si rimprovera al capitalismo proprio quello che sino a ieri era visto come la ragione della sua superiorità sugli altri sistemi sociali: cioè il suo trovarsi in sintonia con quella caratteristica della natura umana che spinge gli individui alla ricerca del proprio utile21. In tempi di crisi le prospettive si ribaltano. E allora anche il quotidiano-simbolo della finanza internazionale va alla ricerca di un «capitalismo meno egoistico»22. Ricerca senz’altro meritoria, ma le cui probabilità di successo purtroppo non si discostano granché dalla possibilità di trovare il Santo Graal. Lo stesso discorso vale per le critiche allo short-termism e alla veduta corta, che ora anche Tommaso Padoa Schioppa rimprovera più in generale alla società contemporanea. Giusto rilievo, che sarebbe ingiusto non apprezzare per il fatto che esso giunge nel bel mezzo di una crisi, e non è giunto prima. Il problema però è che non si tratta di un vizio contingente, ma di una caratteristica strutturale del nostro sistema economico: per il semplice motivo che il modo di produzione capitalistico è per sua natura orientato verso il conseguimento della massima valorizzazione del capitale nel minor tempo possibile. Immancabile, poi, come in tutte le crisi, il forte richiamo all’etica e l’individuazione dell’elemento fondante della crisi nella mancanza di moralità. Sino a vere e proprie prediche da parroco di campagna. Come questo imbarazzante programma di governo enunciato dal primo ministro inglese Gordon Brown: «il nostro obiettivo è ora allineare il sistema finanziario ai valori tipici di una famiglia». Nelle spiegazioni della crisi non sono mancati e non mancano neppure accenti mistico-religiosi: a sorpresa, anche sul «Financial Times» si è potuto leggere che a causare questa crisi altro non era stato se non la «fragilità umana». Rispetto a questo sperpero di buoni sentimenti risulta un salutare bagno di realismo l’affermazione del patriarca di Venezia, Angelo Scola, il quale ha rammentato che «la crisi attuale si è manifestata dopo un decennio caratterizzato dal fiorire di discorsi sull’etica degli affari e della finanza e dalla pratica adozione di codici etici»23. Sul piano delle pseudo-spiegazioni tecniche, la più gettonata è stata senz’altro l’inefficacia del risk-management. In realtà si tratta di 21. Su questo vedi M. Siemons, Gier, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 12 maggio 2009. 22. R. Layard, Now is the time for a less selfish capitalism, «Financial Times», 12 marzo 2009. 23. L. Mais, Appello del premier inglese per una nuova etica finanziaria», «Il Sole 24 Ore», 1 aprile 2009. R. Thaler, C. Sunstein, Human frailty caused this crisis, «Financial Times», 12 novembre 2008. A. Scola, Il sonno della ragione genera crisi, «Il Sole 24 Ore», 27 maggio 2009.

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una tautologia vestita da spiegazione: se si materializzano dei rischi è ovvio che la gestione dei rischi non è stata ottimale. Ciò nonostante, questa teoria ha avuto autorevoli seguaci. A cominciare da Alan Greenspan, che da ex governatore della Federal Reserve ha buttato tutto il peso della sua autorevolezza nell’asserire gravemente che «nell’agosto del 2007 è saltato il sistema di risk-management». Prima, quando era governatore della Fed, diceva cose un po’ diverse. Come questa: «una regolamentazione del mercato dei credit default swaps non soltanto non è necessaria, ma potrebbe fare danni»24. Insomma, mentre prima la deregulation era considerata il modo migliore per far funzionare i mercati, oggi si scopre che c’è stato un insufficiente controllo sui rischi assunti. Ma chi avrebbe dovuto controllare i rischi, se si partiva dal presupposto che il mercato fosse il miglior regolatore e controllore di se stesso? Quelli citati sono soltanto alcuni degli esempi di cause della crisi a cui ci si è rivolti per spiegarla a posteriori. Una cosa è certa: nessuna, ma proprio nessuna di queste presunte cause sembra in grado di originare una perdita di ricchezza che secondo le stime della Banca Asiatica di Sviluppo a inizio 2009 ammontava a oltre 50.000 miliardi di dollari (l’intero prodotto interno lordo mondiale di un anno)25. E tanto meno il crollo della produzione a livello mondiale e la brusca caduta del commercio internazionale. Ma niente paura. Anche per questo c’è un rimedio: può sempre soccorrerci la teoria secondo cui si tratta di una crisi finanziaria che ha contagiato l’economia reale. Circa le spiegazioni della crisi, ci sono pochi dubbi che proprio questa sia l’ultima frontiera. Sostenuta anche molto autorevolmente: Carlo Azeglio Ciampi, ad esempio, ha parlato di una «crisi durissima figlia delle distorsioni della finanza ma che ha contagiato i gangli nevralgici dell’economia reale». Non diversamente, l’avvocato d’affari Guido Rossi dalle colonne del «manifesto» ammonisce: «i banchieri, … questi moderni animal spirits, senza alcun controllo, hanno spinto l’economia mondiale sull’orlo del più grande disastro degli ultimi decenni»; coerentemente, lo stesso Rossi ravvisa la soluzione in una «authority internazionale sui mercati finanziari». Francamente, rispetto ai problemi che si vedono in giro, ci sembra un po’ poco...26 24. A. Greenspan, We need a better cushion against risk, «Financial Times», 27 marzo 2009. La seconda affermazione è del 30 luglio 1998: cfr. G. Braunberger, Das Produkt, das die Finanzkrise verschärfte, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 3 aprile 2009. 25. C.M. Loser, Global financial turmoil and Emerging Market Economies: Major Contagion and a shocking loss of wealth?, ADB, marzo 2009, p. 7. 26. C.A. Ciampi, La sfida che l’Europa non può perdere, «Il Messaggero», 1 aprile 2009. Intervista di B. Perini a G. Rossi, «Le belve moderne? I banchieri», «il manifesto», 12 marzo 2009.

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Si tratta della versione contemporanea della concezione, ben nota a Marx, secondo cui la crisi sarebbe dovuta «all’eccesso di speculazioni e all’abuso del credito» (p. 66). Precisamente questa spiegazione delle crisi era stata sostenuta dalla commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di redigere un rapporto sulla crisi del 1857-8. A questo Marx ribatteva che «la speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione» (p. 61). In termini analoghi Marx si sarebbe poi espresso nel primo libro del Capitale: «la superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi» (p. 99). Per Marx i motivi per cui le crisi si presentano come crisi creditizie e monetarie sono senz’altro radicati in alcune caratteristiche di fondo del modo di funzionamento dell’economia capitalistica. Ma le crisi non sono in primo luogo creditizie e monetarie: alla loro base si trova la sovrapproduzione di capitale e di merci. 3. Alle radici delle crisi: limiti e contraddizioni del capitale Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze produttive (questo è secondo Marx anche il suo principale merito storico). D’altro lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l’appropriazione privata della ricchezza prodotta, e l’orientamento della produzione al profitto anziché al soddisfacimento dei bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci che non riescono a essere vendute a un prezzo tale da remunerare adeguatamente il capitale impiegato per produrle).

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La crisi è il momento in cui tale contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si manifesta e, al tempo stesso, il mezzo brutale attraverso cui si ripristinano le condizioni di accumulazione del capitale: «le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato» (p. 154). Profitto e accumulazione vengono ripristinati per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, deprezzamento di beni capitali, macchinari e materie prime e quindi miglioramento dei margini di profitto per chi li mette in opera. Ma vediamo più da vicino i due lati della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Per un verso abbiamo la tendenza del capitale a superare ogni barriera: «il capitale (…) è l’impulso illimitato e smisurato a oltrepassare il suo limite» (p. 80). Esso quindi tende a riprodursi su scala sempre più ampia e a esportare i propri rapporti di produzione e di scambio sul mondo intero. Da questo punto di vista, dice Marx, «la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso»; «il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito» (pp. 80, 83). Di contro, l’«universalità» alla quale il capitale tende irresistibilmente «trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso è l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo superamento» (p. 83). Queste parole dei Lineamenti sono riecheggiate nel manoscritto del terzo libro del Capitale, dove Marx adopera una formulazione più tagliente: «il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come fine della produzione» (p. 155). La crisi è, appunto, il momento in cui si manifestano le contraddizioni del capitalismo e i limiti allo sviluppo del capitale che sono connaturati al capitale stesso.

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Da un punto di vista formale, la possibilità delle crisi è già insita nella duplice natura che la merce assume nella società capitalistica. Da un lato la merce ha la proprietà di essere utile, di soddisfare bisogni umani: è valore d’uso. Dall’altro essa è depositaria del valore di scambio, ossia ha la proprietà di potere essere scambiata con altre merci, e in particolare col denaro. Per il venditore la merce ha un valore di scambio, mentre il compratore la acquista per il suo valore d’uso. Solo dopo aver venduto, il venditore – con il denaro che gli è stato pagato per la vendita della merce – potrà a sua volta comprare un’altra merce che rappresenti per lui un valore d’uso. Il processo di scambio che ha luogo nel modo di produzione capitalistico differisce quindi dallo scambio diretto e immediato dei prodotti che si ha, ad esempio, nel baratto. Esso è infatti mediato dal denaro (passaggio merce-denaro-merce). Marx definisce tale processo come la metamorfosi della merce. «Il processo di scambio si compie in due metamorfosi opposte e integrantisi reciprocamente: trasformazione della merce in denaro e retrotrasformazione del denaro in merce (…): vendita, scambio della merce con denaro; compera, scambio del denaro con merce»27. La metamorfosi di ogni singola merce rappresenta l’anello di una catena di metamorfosi connesse tra loro. Quando tutto va bene, questa metamorfosi ha luogo senza intoppi. Ma è sempre aperta la possibilità che essa si interrompa, e in particolare che la merce non riesca a trasformarsi in denaro, in quanto il venditore non trova compratori che abbiano la possibilità o l’intenzione di acquistare la merce che vende. In questo senso Marx afferma che «la forma semplice della metamorfosi include la possibilità della crisi» (p. 90). Quando la metamorfosi della merce si interrompe risulta impossibile per il capitalista realizzare il valore delle merci creato nel processo di produzione: in tal caso si interrompe il «processo complessivo di riproduzione del capitale», che è «l’unità della sua fase di produzione e della sua fase di circolazione» (p. 95). Se questa interruzione si verifica su larga scala, abbiamo la crisi. A questo punto erompe anche la contraddizione insita nel denaro nella sua funzione di mezzo di pagamento. Il denaro, in una situazione normale, ossia non di crisi, funziona «solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori». Ma quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo, quale che sia l’origine di essi, il denaro improvvisamente si trasforma: «da figu27. Il capitale, libro I, sez. I, cap. 3: MEW 23.120; tr.it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1968, 19809, p. 138 (d’ora in avanti i tre volumi di questa edizione saranno citati con ER seguito dal numero di volume e di pagina).

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ra solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro-contante. Non è più sostituibile con merci profane». Esso si autonomizza, viene tesaurizzato in quanto tale anziché venire scambiato con merci, diviene «merce assoluta». Si produce in tal modo «quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria» (pp. 102, 101). Ma cosa fa sì che la semplice possibilità della crisi si trasformi in realtà? Cosa innesca le crisi effettive? Un fattore essenziale secondo Marx è rappresentato dalla capacità di consumo dei lavoratori. Questa capacità è a suo avviso strutturalmente limitata. Per un motivo ben preciso: il valore di ogni merce è determinato dal lavoro impiegato in media per produrla, e i profitti del capitalista derivano dal plusvalore, ossia dal fatto che al lavoratore è pagato non l’equivalente dell’intero valore prodotto, ma soltanto una parte di esso (cioè non l’intera giornata lavorativa effettivamente lavorata, ma soltanto una sua parte). È questa estorsione di valore supplementare che, secondo Marx, determina i profitti del capitalista ma al tempo stesso anche i limiti della capacità di consumo dei lavoratori. Questo perché «i produttori, i lavoratori, possono consumare un equivalente per il loro prodotto, soltanto finché producono più di questo equivalente – il plusvalore o plusprodotto. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del loro bisogno» (p. 84). E qualora il plusvalore non ci sia (o non sia realizzato sul mercato, perché la merce prodotta non viene venduta), il lavoratore viene licenziato e quindi non riceve neppure la quantità di denaro necessaria per i suoi consumi. Per Marx è caratteristico del modo di produzione capitalistico che la produzione non avvenga «tenendo conto dei limiti esistenti del consumo», ma sia al contrario «limitata solo dal capitale stesso» (p. 85): ossia dalla capacità produttiva e al tempo stesso dalla necessità per il capitalista di conseguire un profitto. La produzione capitalistica infatti non ha lo scopo di soddisfare i bisogni, ma quello di conseguire un profitto: la produzione di merci che soddisfano bisogni è soltanto un mezzo per conseguire questo fine. Per questo motivo i bisogni al cui soddisfacimento si rivolge la produzione capitalistica sono soltanto quelli solvibili, cioè soltanto quelli di chi può pagare per soddisfarli: non la domanda in genere, ma soltanto la domanda pagante. Si produce in tal modo il caratteristico paradosso per cui si può avere sovrapproduzione di merci (che in quanto tali sono destinate esclusivamente alla domanda pagante) mentre, allo stesso tempo, molti bisogni sociali restano insoddisfatti.

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Questo induce Marx a fare una precisazione di carattere lessicale: «il termine sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i suoi bisogni immediati, naturalmente non si può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire al contrario che in questo senso, in base alla produzione capitalistica, si sottoproduce continuamente» (p. 85). È quindi corretto affermare che la sovrapproduzione è sempre relativa e mai assoluta: relativa, cioè, ai rapporti di produzione e di scambio che caratterizzano il modo di produzione capitalistico. «Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione» (p. 164). Il punto è un altro: «vengono prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo peculiari della produzione capitalistica, realizzare il valore e plusvalore in esse contenuti e riconvertirli in nuovo capitale» (ibidem). Sono insomma i rapporti di produzione (e quindi quelli di distribuzione e di consumo) che caratterizzano la società capitalistica a rappresentare il principale ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Infatti – dice Marx – «la causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre da un lato la povertà delle masse, dall’altro l’impulso del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze produttive come se la capacità di consumo assoluta della società ne rappresentasse il limite» (p. 87). Quando si dice che «le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare», si enuncia un’assoluta ovvietà. Ma attenzione: quando si pensa di porre rimedio al problema asserendo che «la classe lavoratrice riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario», si pecca di ingenuità. Perché questo – oltre un certo limite – è strutturalmente impossibile fintantoché perdura il modo di produzione capitalistico: il problema, infatti, è il mantenimento delle condizioni di profittabilità del capitale, e queste «solo momentaneamente consentono una relativa prosperità della classe operaia» (pp. 87-88)28. Nel contesto dei rapporti capitalistici di pro28. Un’eccellente interpretazione di questi passi in un’ottica non sottoconsumistica si trova in G. Carchedi, The return from the grave, or Marx and the present crisis, Amsterdam, marzo 2009, pp. 9-10 (draft).

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duzione, ogni politica redistributiva incontra prima o poi dei limiti insormontabili: essa può infatti essere posta in atto solo fintantoché non intacchi la profittabilità del capitale. 4. La caduta tendenziale del saggio di profitto Ma c’è di più: secondo Marx la società capitalistica è comunque caratterizzata da una tendenza di lungo periodo alla diminuzione di questa profittabilità, ossia alla caduta del saggio di profitto. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è tra gli aspetti più dibattuti delle teorie di Marx. Una trattazione di questi dibattiti richiederebbe non un’introduzione, ma un libro a parte. Perciò qui ci si limiterà a esporre le linee generali del pensiero di Marx, quali emergono dal manoscritto del terzo libro del Capitale, mettendole a confronto non con le opinioni in proposito, ma con gli sviluppi più recenti dell’economia capitalistica. Si è visto che per Marx il valore di una merce è dato dal lavoro in essa incorporato. Soltanto il lavoro umano può creare valore e al tempo stesso conservare e sfruttare il valore già incluso nei macchinari (che altrimenti, se nessun lavoratore li facesse funzionare, non soltanto non creerebbero nuovo valore, ma perderebbero anche il valore che posseggono). È il lavoro umano in atto (il lavoro vivo) a procurare al capitalista i suoi profitti, fornendogli lavoro non pagato (pluslavoro), cioè ossia lavoro supplementare rispetto a quello necessario per riprodurre la forza lavoro (lavoro necessario): questo pluslavoro produce infatti un valore supplementare, un plusvalore, rispetto al valore della forza-lavoro affittata dal capitalista all’inizio del processo di produzione Proprio a motivo di questa peculiarità del lavoro umano di creare nuovo valore, Marx definisce il capitale impiegato per comprare l’uso della forza lavoro capitale variabile e quello adoperato per acquistare macchinari e mezzi di lavoro capitale costante. Ora, il problema è che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico aumenta la proporzione del capitale investito in macchinari rispetto a quello investito in forza-lavoro: si verifica, in altri termini, «una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento» (p. 110). Marx definisce questo processo anche come una progressiva crescita della «composizione organica del capitale». Si tratta di «un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in

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prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro» (ibidem). La diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante fa sì che a parità di condizioni il saggio di profitto - ossia il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo investito nella produzione (la somma di capitale variabile e capitale costante) - diminuisca. Questa, in sintesi, la legge della «caduta tendenziale del saggio di profitto». Se esaminiamo i dati economici degli ultimi decenni, questa tendenza è riscontrabile oppure no? La risposta è senz’altro affermativa. E questo vale per un ampio arco di tempo. Nel periodo che va dal 1973 al 2003, il saggio di crescita del Pil pro capite è stato di poco superiore alla metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe inferiore di quasi due terzi29. E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti30. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto a un ritmo inferiore al 4%; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto a un ritmo superiore al 4%, ed è invece quasi sempre risultato molto inferiore31. E per quanto riguarda specificamente il saggio di profitto? La più approfondita ricerca recente in materia dimostra una tendenza generale al calo del saggio di profitto negli ultimi decenni e il suo convergere su livelli simili nei principali Paesi dell’Occidente industrializzato, sia pure con andamenti tra loro non uniformi. Particolarmente eloquenti i dati riguardanti Germania, Francia e Italia, che evidenziano un dimezzamento del saggio di profitto tra i primi anni Sessanta e i primi anni di questo decennio32. Per quanto riguarda specificamente l’Italia, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ha recentemente potuto affermare che «negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte»33. Il Giappone, che muoveva da livelli relativamente più elevati del saggio di profit29. A. Kliman, «The Destruction of Capital» and the Current Economic Crisis, 15 gennaio 2009 (reperibile su http://akliman.squarespace.com/crisis-intervention/ ). 30. In proposito vedi i dati riportati in J. Halevy, «Stagnazione e crisi: Usa, Asia nippoamericana e Cina», in L. Vasapollo (a cura di), Lavoro contro capitale. Precarietà, sfruttamento, delocalizzazione, Jaca Book, Milano 2005, pp. 181 sgg. 31. A. Freeman, In our lifetime: long-run growth and polarisation since financial liberalisation, intervento per il convegno For Historical Materialism, dicembre 2006. 32. M. Li, F. Xiao, A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical trends: a study of the long-term movement of the profit rate in the capitalist world economy, «Journal of World-Systems Research», vol. XIII, n. 1, 2007, pp. 33-54, partic. pp. 38-40. 33. Considerazioni finali, Banca d’Italia, 29 maggio 2009, p. 19.

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to, evidenzia una diminuzione ancora maggiore dal 1970 ai primi anni del decennio in corso. Stati Uniti e Gran Bretagna, che muovevano invece da livelli più bassi, sembrano evidenziare una relativa ripresa a partire dagli anni Ottanta34. Come vedremo più avanti, le cause che hanno reso possibile questa ripresa hanno molto a che fare anche con la crisi mondiale attualmente in corso. Comunque sia, a dispetto di pregiudizi molto diffusi, negli ultimi decenni neppure gli Stati Uniti hanno conosciuto un boom dei profitti. Tutt’altro. Se si considerano i profitti medi delle imprese americane prima delle tasse dopo il 1940, si osserva una costante diminuzione: dal 1941 al 1956 il saggio di profitto era del 28%, dal 1957 al 1980 è stato del 20%, per scendere ancora al 14% nel periodo 1981-200435. Nell’ultimo di questi periodi il livello di utilizzo degli impianti industriali negli Stati Uniti è sempre stato inferiore all’82%, ed è sceso al 78% nel 200536 – cioè due anni prima dello scoppio della crisi. 5. Fattori di controtendenza I dati riportati sopra sono eloquenti. Ma la caduta del saggio di profitto è in verità una tendenza alla diminuzione e non un crollo – tantomeno un crollo improvviso. Questo perché la diminuzione del saggio di profitto può essere in parte controbilanciata da altri fattori, a cominciare dalla concentrazione dei capitali. A causa di tale concentrazione, pur calando la proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un numero maggiore di lavoratori lavora per un singolo capitalista: aumenta quindi la massa del plusvalore e questo fa sì che «la massa dei profitti aumenti contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto» (p. 119). Inoltre le rendite di monopolio che si possono conseguire attraverso la concentrazione dei capitali permettono il mantenimento di margini di profitto significativi. È appena il caso di ricordare, a questo riguardo, che il processo di concentrazione dei capitali ha fatto progressi da gigante negli ultimi decenni. Basti pensare che già nel 2000 il valore delle fusioni tra imprese a livello mondiale aveva raggiunto i 5.000 miliardi di dollari, un valore pari a 10 volte quello delle fusioni transnazionali nel 1990. Si sono così formati dei veri e propri colossi (a New York hanno creato anche un indice di borsa apposta per loro: 34. M. Li, F. Xiao, A. Zhu, cit.. 35. A. Kliman, cit.. 36. J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation. Back to the Real Economy, «Monthly Review», dicembre 2008, edizione online (http://monthlyreview.org/081201foster-magdoff.php )

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i Global Titans). Per avere un’idea delle dimensioni di queste imprese basti pensare alla multinazionale petrolifera Exxon Mobil: nel 2008 questa società ha realizzato oltre 45 miliardi di dollari di profitti, pari grosso modo al Pil di 150 Stati messi assieme37. In certi settori la concentrazione è così avanzata da creare situazioni di semi-monopolio da parte di una singola impresa: si è ad esempio calcolato che oltre l’80% dei computer del mondo giri sui sistemi operativi della Microsoft. Ma la concentrazione dei capitali non è sufficiente a invalidare gli effetti della legge. In effetti – osserva Marx – «se si considera l’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale anche soltanto degli ultimi 30 anni rispetto a tutti i periodi precedenti, se si considera soprattutto l’enorme massa di capitale fisso che entra nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al macchinario propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale spiegazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra quella opposta: come si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande o più rapida?». La risposta di Marx è questa: entrano in gioco «fattori di controtendenza, che frenano e contrastano l’efficacia della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza» (pp. 127-128). Ripercorrere i fattori di controtendenza individuati da Marx ponendoli a confronto con gli sviluppi economici dei nostri ultimi 30 anni è piuttosto istruttivo. 1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro (plusvalore assoluto) e l’intensificazione del lavoro (plusvalore relativo). Per Marx questo fattore consente di fare da contrappeso alla caduta del saggio di profitto aumentando la quota di lavoro non pagato, ossia il saggio del plusvalore (pp. 128 sgg.). È quanto è avvenuto negli scorsi anni nei paesi a capitalismo avanzato. Un caso da manuale di aumento del plusvalore assoluto è rappresentato dall’accordo integrativo della contrattazione aziendale raggiunto in Germania nel 2004 fra la Siemens e il sindacato dei metalmeccanici IG-Metall, che prevedeva il prolungamento dell’orario di lavoro settimanale da 35 a 40 ore a parità di retribuzione (in cambio della conservazione di 2000 posti in due impianti produttivi, che Siemens minacciava di delocalizzare in Ungheria); analoghi accordi furono poi conclusi per la Volkswagen e la Daimler-Chrysler. Quanto all’intensificazione del lavoro (ossia all’au37. L. Davi, Utili recordo per Exxon e Chevron, «Il Sole 24 Ore», 31 gennaio 2009.

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mento del plusvalore relativo), essa si verifica ogni qual volta un’innovazione di processo aumenta la produttività del lavoro, ossia incrementa la quantità di merci prodotte dalla medesima forza-lavoro in uno stesso intervallo di tempo. 2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Secondo Marx questa è «una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto» (p. 132). Cosa significa questa compressione in concreto? Per intenderlo bisogna partire da questo: per Marx «il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro»38. D’altra parte, però, questo valore è storicamente determinato: «il volume dei cosiddetti bisogni necessari, come pure il modo di soddisfarli, è anch’esso un prodotto della storia, dipende quindi in gran parte dal grado d’incivilimento di un paese e, fra l’altro, anche ed essenzialmente dalle condizioni, quindi anche dalle abitudini e dalle esigenze fra le quali e con le quali si è formata la classe dei liberi lavoratori. Dunque la determinazione del valore della forza-lavoro, al contrario che per le altre merci, contiene un elemento storico e morale»39. Sotto questo profilo, è indubbio che oggi in un paese a capitalismo avanzato il valore della forza-lavoro (ossia l’insieme dei mezzi di sussistenza ritenuti socialmente accettabili) è superiore a quello dell’Ottocento. Ma è altrettanto indubbio che la riduzione dei salari avvenuta negli ultimi anni, in parallelo ai processi di precarizzazione della forza-lavoro, collochi i salari attuali in molti casi nettamente al di sotto del loro valore storico medio dei 2-3 decenni precedenti. Ciò è ancora più evidente se si tiene conto non soltanto del salario diretto (il netto in busta paga), ma anche della riduzione che hanno conosciuto le varie componenti del salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni), attraverso l’aumento dei prezzi dei servizi pubblici, la generalizzata diminuzione della protezione sociale, la privatizzazione dei sistemi pensionistici, ecc. Per avere un esempio concreto di cosa significhi la compressione del salario al di sotto del suo valore, si pensi a un precario impiegato in un call center, che non può permettersi un affitto e deve vivere presso i genitori. In questo caso il prezzo che il capitalista paga per l’utilizzo della forza-lavoro è inferiore al prezzo delle sue condizioni di riproduzione. Un buon punto di osservazione per misurare la compressione 38. Il Capitale, libro I, sez. II, cap. 4, § 3: MEW 23.185 = ER 1.203. 39. Ivi, MEW 23.185 = ER 1.204.

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dei salari medi negli ultimi decenni è rappresentato dalla crescita della disuguaglianza sociale. Facciamo parlare le cifre, a cominciare da quelle che riguardano gli Stati Uniti. Tra il 1973 e il 2002 i redditi del 90% più povero della popolazione statunitense sono scesi del 9% in termini reali. Quelli dell’1% più ricco sono cresciuti del 101%, e quelli dello 0,1% più ricco addirittura del 227%. Risultato: nel 2005 il reddito dopo le tasse del quinto più povero della popolazione era di 15.300 dollari annui, quello del quinto mediano di 50.200 dollari, mentre quello dell’1% più ricco era superiore al milione di dollari. Negli anni tra il 1993 e il 2006 all’1% più ricco della popolazione americana è andata quasi la metà della crescita del reddito complessiva (proporzione che cresce a tre quarti se si considerano soltanto gli anni tra il 2002 e il 2006). Nel 2005, secondo dati dell’US Census Bureau, l’indice della disuguaglianza tra i redditi ha raggiunto il massimo storico. Nel 2006 la quota di reddito che andava al 10% più ricco delle famiglie americane era il 49,6% del totale, la quota più elevata dal 1917 in poi. Nel 2007 l’1% più ricco della popolazione statunitense si appropriava di circa il 16% del reddito nazionale (nel 1980 tale percentuale era «appena» dell’8%)40. La stessa divaricazione tra i redditi si registra in Gran Bretagna, dove la tendenza si è accentuata dopo l’ascesa al potere dei laburisti di Blair nel 1997: anche qui, secondo dati governativi pubblicati nel maggio 2009, la forbice della disuguaglianza è la più alta di sempre41. Ma la riduzione della quota del prodotto interno lordo che va ai salari, e per contro la crescita della quota destinata ai profitti, è una tendenza che investe tutti i paesi a capitalismo maturo, come ha evidenziato una ricerca della Banca dei Regolamenti Internazionali: in Italia, ad esempio, dal 1983 al 2005 i lavoratori hanno perso 8 punti percentuali di reddito, andati in maggiori profitti (che infatti sono saliti nel periodo dal 23% al 31% del totale)42. E la 40. T. Piketty, E. Saez, Income inequality in the United States 1913-1998, in «The Quarterly Journal of Economics», n. 1/2003, passim; E. Saez, Striking it richer: the Evolution of Top Incomes in the United States (Update using 2006 Preliminary Estimates), 15 marzo 2008; T. Piketty, E. Saez, How Progressive is the US Federal Tax System? An Historical and International Perspective, CEPR Discussion Paper n. 5778, CEPR, London, 2006; J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, «Financial Times», 8 aprile 2008. Vedi anche i dati OCSE citati in R. Artoni, C. Devillanova, Dal 1929 al 2008, Università Bocconi, Centre for Research on the Public Sector, Short note n. 5, novembre 2008, p. 4. 41. Sulla situazione britannica vedi M. Kelly, Povera middle class, «il manifesto», 15 giugno 2008, e M. Engel, A Faustian pact that backfired spectacularly, «Financial Times», 26 maggio 2009. 42. L. Ellis – K. Smith, The global upward trend in the profit share, Bank for International Settlements, luglio 2007. La ricerca è stata ripresa in un ottimo articolo di M. Ricci, Il declino degli stipendi, «la Repubblica», 3 maggio 2008. Vedi anche M. Mucchetti, Torna il tema della redistribuzione, «Corriere della Sera», 24 agosto 2008.

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stessa Commissione Europea nello studio Employment in Europe 2007 ha dovuto ammettere: «nella maggior parte dei Paesi UE la quota distributiva del lavoro ha raggiunto un picco nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, successivamente riducendosi a livelli inferiori a quelli antecedenti il primo shock petrolifero». Infine, secondo una ricerca dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i salari medi mondiali nel 1995-2007 sono rimasti al di sotto della crescita del Pil. Nella maggior parte dei Paesi la quota del reddito andata ai salari è scesa ulteriormente nel 2001-2007 rispetto al periodo 1995-2000. Nell’intero periodo considerato essa è diminuita rispetto ai profitti43. 3) Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante. Al riguardo Marx osserva: «la stessa evoluzione che accresce la massa del capitale costante in rapporto a quello variabile, riduce attraverso l’accresciuta forza produttiva del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che il valore del capitale costante – che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce il volume materiale del capitale costante, cioè l’entità materiale dei mezzi di produzione che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro» (p. 132). Ne consegue che in realtà il mutamento della proporzione tra capitale variabile e capitale costante è nei fatti molto inferiore a quanto si potrebbe desumere dall’aumento dell’entità materiale degli elementi (macchinari ecc.) che compongono quest’ultimo. 4) La sovrappopolazione relativa. Questo aspetto negli ultimi anni si è manifestato in particolare sotto forma di pressione di un gigantesco esercito industriale di riserva presente nei paesi emergenti: soprattutto in Asia, ma anche nell’Europa dell’est. Questo ha comportato una massiccia delocalizzazione di produzioni industriali verso i paesi di nuova industrializzazione. In generale, l’accentuata concorrenza di produzioni realizzate in paesi a minor costo della forza-lavoro (e, in misura molto minore, l’immigrazione di manodopera a basso costo) ha esercitato una fortissima influenza calmieratrice sui salari dei paesi industrialmente più avanzati44. Con riferimento a questo fattore di controtendenza, Marx osserva come tra le conseguenze «del prezzo a buon mercato e della massa 43. Global Wage Report 2008/9, International Labour Organization, Ginevra, novembre 2008. Si vedano in particolare le pp. xiii, 20, 59. Ma tutta la ricerca è di estremo interesse. 44. Come si è visto sopra, in molti casi è stata sufficiente la minaccia di spostare le produzioni in quei paesi.

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di salariati disponibili, o messi in esubero», a loro volta determinati dalla sovrappopolazione relativa di lavoratori, vi sia il fatto che «in molti rami della produzione perdura la sussunzione più o meno meramente formale del lavoro sotto il capitale, e perdura più a lungo di quanto il livello generale dello sviluppo a prima vista renderebbe possibile» (p. 133). Questo significa produzioni più arretrate e a maggiore intensità di lavoro di quanto in astratto sarebbe consentito dallo sviluppo tecnologico, dovute al fatto che il basso prezzo della forza-lavoro le rende comunque convenienti. A questo proposito è interessante osservare, ad esempio, che il tanto decantato ruolo dei servizi nel creare occupazione negli Stati Uniti dei tardi anni Novanta va ricondotto in massima parte a occupazione a bassi salari e bassa produttività del lavoro, resa possibile dalla disponibilità di molta manodopera in eccedenza45. E un discorso analogo deve essere fatto in relazione alla riluttanza di molti industriali nostrani a investire in innovazione tecnologica. 5) Il commercio estero. Secondo Marx il commercio estero rappresenta un fattore di controtendenza rispetto alla caduta del saggio di profitto per vari motivi. In primo luogo, grazie a esso il volume della produzione si accresce consentendo un ampliamento di scala della produzione e quindi una riduzione dei suoi costi unitari: questo «rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile (mezzi di sussistenza necessari)» (p. 133). In tal modo il commercio estero agisce in modo favorevole all’aumento del saggio di profitto, per un verso accrescendo il saggio del plusvalore (in quanto il valore della forza-lavoro cala, e quindi una maggior parte della giornata lavorativa può essere rappresentata da lavoro non pagato) e per un altro diminuendo il valore del capitale costante (la qual cosa rallenta l’aumento della composizione organica del capitale). È indubbio il ruolo che questo fattore ha giocato negli ultimi anni, in termini di bassa inflazione e di maggiori margini di compressione dei salari. In secondo luogo, la superiorità tecnologica delle merci prodotte in un determinato paese può consentire un sovrapprofitto nel fare concorrenza a merci prodotte altrove con tecnologia meno avanzata: «i capitali investiti nel commercio estero possono fruttare un saggio di profitto superiore» – osserva Marx a questo proposito – perché qui «si concorre con merci che sono prodotte da altri 45. Sul punto vedi N. Colajanni, Il miracolo americano: un modello per l’Europa?, Sperling & Kupfer, Milano 2000, p. 30 sgg.

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paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei paesi concorrenti» (p. 134). A questo riguardo va osservato che, per quanto riguarda i paesi a capitalismo avanzato, questo aspetto – che per un lungo periodo ha giocato un ruolo molto importante, dando origine a molte teorizzazioni sullo «scambio ineguale» come elemento permanente del dominio dei paesi del «centro» capitalistico rispetto a quelli della «periferia» – ha perso relativamente peso negli ultimi anni, grazie agli impressionanti progressi tecnologici compiuti da paesi quali India, Cina e altri stati del sud-est asiatico. In terzo luogo, «per quanto d’altro lato riguarda i capitali investiti in colonie», Marx osserva che «essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo (…) vi è un maggiore sfruttamento del lavoro» (p. 135). È facile vedere come questo aspetto si applichi perfettamente a molti odierni investimenti diretti esteri effettuati in paesi emergenti. Tutto questo vale per il breve periodo. Gli effetti di medio-lungo periodo del commercio estero, invece, non sono così favorevoli al saggio di profitto. Infatti, come Marx rileva con chiaro riferimento all’Inghilterra dei suoi tempi, «lo stesso commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò ha di nuovo alla lunga l’effetto opposto» (ibidem). Qui va però sottolineata una peculiarità della situazione attuale. Negli ultimi decenni l’ampliamento del commercio è certamente stato considerevole innanzitutto in termini di estensione spaziale (si pensi cosa ha significato l’apertura di mercati prima chiusi quali quelli dell’est europeo). Esso deve tuttavia essere considerato anche nel senso più generale di un ampliamento della sfera del commercio, ossia di ciò che è commerciabile e viene messo a profitto. Tra le concrete contromisure alla caduta del saggio di profitto vi è stata infatti la messa a profitto dei beni comuni, ossia di valori d’uso in precedenza gratuiti che si è cercato e si cerca di trasformare in valori di scambio (si pensi alle risorse idriche), e l’ampliamento di ciò che è coperto da brevetto (a questo riguardo si spazia ormai dal genoma, a determinati tipi di piante, alla proprietà intellettuale). Da questo punto di vista, negli ultimi decenni si è manifestata con prepotenza la tendenza alla colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza da parte del capitale.

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6) Aumento del capitale produttivo di interesse. Questo fattore, al quale Marx accenna al termine della propria trattazione dei fattori di controtendenza, consiste nella destinazione di una parte crescente del capitale a capitale produttivo d’interesse, ossia all’investimento in obbligazioni o azioni (più in generale, in attività creditizie e finanziarie). L’importanza assunta da questo fattore negli ultimi decenni è stata notevolissima, e probabilmente assai superiore a quanto Marx stesso avrebbe ritenuto possibile. Essa è stata consentita da specifiche circostanze storiche e ha larga parte, come vedremo, nella relativa ripresa dei profitti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che è stata per l’appunto drogata da un abnorme sviluppo delle attività finanziarie e da un’altrettanto spropositata espansione del credito. Particolarmente eclatante il caso degli Stati Uniti, in cui nei primi anni Ottanta il settore finanziario vantava il 10% dei profitti totali, proporzione salita al 40% nel 200746. Capire quale sia la dinamica sottesa a questo sviluppo è essenziale anche per comprendere i motivi scatenanti della crisi in corso. 6. Dal boom del credito alla crisi In una ricerca pubblicata dalla società di consulenza McKinsey si legge: «nel 1980, il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale era grosso modo equivalente al Pil mondiale; a fine 2007, il grado di intensità finanziaria a livello mondiale (world financial depth), ossia la proporzione di questi assets rispetto al Pil, era del 356%»47. Se si considerano i soli Stati Uniti, la percentuale del debito totale a fine 2007 è ancora superiore: 373%48. Questi dati, già di per sé, sono sufficienti a dare l’idea delle proporzioni assunte negli ultimi decenni dal credito e dalla finanza. Si tratta di un processo che ha radici lontane, che affondano nella fine degli anni Sessanta, quando cessa il grande periodo di crescita economica postbellica. Già in un testo del 1977 Harry Magdoff e Paul Sweezy scrivevano che con la fine di quel periodo di prosperità «l’economia degli Stati Uniti si è sempre più andata abituando a un uso continuato del debito. I cicli caratteristici del credito continuano ad alternarsi, ma con una differenza significativa: i livelli del ricorso al credito continuano a crescere da una recessione all’altra e da un massimo di ciclo economico all’altro. In 46. Murray E.G. Smith, Causes and consequences of the Global Economic Crisis: A MarxistSocialist Analysis, novembre 2008 (www.countdownnet.info/archivio/analisi/world_economy/579.pdf ). 47. D. Farrell, New Thinking for a New Financial Order, «Harvard Business Review», settembre 2008. 48. J. Bellamy Foster, H. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 7.

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misura sempre maggiore il livello generale di attività economica (…) viene sostenuto da sempre maggiori iniezioni di credito da parte del governo e da parte di enti privati»49. In parallelo al rallentamento della crescita e all’aumento della leva creditizia, cresce l’instabilità finanziaria. Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1968 gli Stati Uniti non avevano conosciuto alcuna crisi finanziaria. Più in generale, nel periodo 19451971 nel mondo non vi erano state crisi bancarie50. Da allora le crisi finanziarie, negli Stati Uniti e nel mondo, si fanno ricorrenti: tra il 1975 e il 1997 il Fondo Monetario ne conterà più di 20051. Ma cosa succede nel 1971 di così importante? Gli Stati Uniti denunciano gli accordi di Bretton Woods, ponendo fine alla convertibilità del dollaro in oro e decretando così la fine del gold-exchange standard. Ma non per andare nella direzione che all’epoca auspicava il presidente francese De Gaulle, quella di un ritorno al gold standard, cioè un sistema monetario internazionale ancorato direttamente all’oro. Per andare nella direzione opposta, quella del dollar standard: facendo cioè del dollaro una moneta assolutamente fiduciaria. Una moneta il cui valore è ormai esplicitamente privato di ogni riferimento alle riserve in oro detenute dalla Federal Reserve, ma che resta, ciò nondimeno, il perno del sistema monetario internazionale. Il mondo comincia a essere inondato di dollari: erano 30 miliardi nel 1958, supereranno gli 11.000 miliardi nel 200452. Il ruolo del dollaro si consolida a seguito della crisi petrolifera del 1973, in quanto il petrolio, il cui prezzo si impenna, è scambiato in dollari. Da questo momento il dollaro diventa «moneta mondiale» – il ruolo che Marx attribuiva all’oro – e quindi assume anche il ruolo di moneta-rifugio in tutte le tempeste finanziarie che periodicamente scuotono altri paesi, e in particolare i paesi del Terzo Mondo. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta si susseguono le crisi del debito in molti di questi paesi. A seguito di ciascuna di esse gli Stati Uniti attraggono nuovi capitali e vedono rafforzato il ruolo di Wall Street come centro finanziario mondiale. Si cominciano a liberalizzare i movimenti internazionali di capitale e, a partire dagli anni Ottanta, negli Stati Uniti si comincia a 49. H. Magdoff e P.M. Sweezy, La fine della prosperità in America [1977], tr. it. Editori Riuniti, Roma 1979, p. 190. 50. H. P. Minsky, Finance and Stability: The Limits of Capitalism, relazione al convegno «The Structure of Capitalism and the Firm in Contemporary Society», Milano 1993, p. 6. Vedi anche F. Allen, Financial Crises, Princeton University 2003 , p. 4 (http://PU-CRISES-SEC1.pdf ). 51. A. Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, cit., p. 150. 52. L. Goldner, «The ‘Dollar’ Crisis, and Us»: http://home.earthlink.net/~lrgoldner .

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smantellare il sistema normativo che era stato costruito dopo la crisi del 1929 e che poneva notevoli vincoli e limitazioni all’attività bancaria (lo stesso avverrà in Europa negli anni Novanta). Ad esempio, viene ampliato il tipo di asset finanziari che possono essere acquisiti dalle casse di risparmio americane (le saving & loans associations): il risultato, alla fine di quello stesso decennio, è il fallimento di 745 casse di risparmio. Soltanto massicci salvataggi pubblici (per una spesa di 125 miliardi di dollari a carico dello Stato) riescono a impedire che la crisi divenga sistemica53. In compenso esplode il debito pubblico. All’inizio degli anni Novanta scoppia la bolla finanziaria del Giappone, che entra in una stagnazione destinata a durare oltre un decennio, e nel 1997 vanno in crisi anche i Paesi del sud-est asiatico; nel 1998 a essere colpita è la Russia. Anche in questi casi, enormi capitali si rifugiano a Wall Street, alimentando la bolla speculativa della new economy (1999-2000). Già in questi anni non mancano analisti finanziari che lanciano segnali d’allarme riguardo ad «un ciclo mondiale del credito le cui origini posso essere rintracciate nei primi anni Ottanta e che è ormai prossimo alla maturità» (ossia all’esplosione); si menzionano esplicitamente la «eccessiva creazione di credito» a cui fanno riscontro «decisioni di investimento sbagliate»; si sostiene, in particolare, che «la spiegazione principale della rapida crescita del Pil e della produttività negli anni recenti, in particolare negli Stati Uniti, consiste nel parossistico ciclo del credito»54. Ma non avviene alcuna inversione di tendenza. Anche l’esplosione della bolla della new economy viene riassorbita in modo relativamente rapido, e la stessa recessione americana iniziata nel marzo del 2001 risulta di breve durata, soprattutto grazie alle enormi iniezioni di liquidità effettuate nel sistema dopo l’11 settembre e al ribasso dei tassi di interesse, portati ai minimi da 40 anni (di fatto negativi, cioè inferiori al tasso d’inflazione). Questa politica è resa possibile da due presupposti: in primo luogo da bassi livelli di inflazione, dovuti sia al contenimento dei prezzi delle merci importate dai Paesi emergenti, sia (soprattutto) alla compressione dei salari; in secondo luogo dallo status di valuta internazionale di riserva del dollaro, dal suo continuare a essere «moneta mondiale» a dispetto di una bilancia commerciale in pas53. H. P. Minsky, Finance and Stability, cit., p. 17. 54. Si veda ad es. P. Warburton, Debt and Delusion: The Threat to Global Financial Stability from the Over-accumulation of Debt, dicembre 2000 (www.countdownnet.info/archivio/analisi/world_economy/debt1.zip ).

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sivo dal 1976. Qualsiasi altro Paese che avesse così a lungo consumato più di quanto produceva (è questo il significato del passivo della bilancia commerciale), avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del debito simile a quelle patite negli anni da molti Paesi emergenti. I bassi tassi di interesse alimentano il credito e più in particolare la bolla del mercato immobiliare: sia i prezzi delle case che l’ammontare dei mutui contratti dalle famiglie americane raddoppiano dal 2000 al 200555. Nel 2006 i prezzi delle case cominciano a scendere. Si manifesta un evidente eccesso di offerta, cioè una crisi da sovrapproduzione, nel settore delle costruzioni. Cominciano le insolvenze di chi aveva contratto mutui. Dalla prima metà del 2007 i titoli legati ai mutui subprime cominciano a essere colpiti dalle vendite. Scoppia la crisi. All’inizio ben pochi economisti e commentatori intendono che la crisi dei subprime è legata a un eccesso di credito molto più generale56. I più assumono dapprima un atteggiamento minimizzante, poi si perdono nella ricerca delle «cause» della crisi, adducendo – come abbiamo visto sopra – le più svariate. Quasi tutti sono colti di sorpresa dall’imponenza della crisi57. 7. Le tre funzioni della finanziarizzazione In base alla ricostruzione che si è proposta, l’ampiezza della crisi attuale non è affatto sorprendente. Essa rappresenta infatti il precipitato di oltre un trentennio di crescita asfittica, di stentata valorizzazione del capitale, a cui si è risposto con la finanziarizzazione su larga scala. La finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla – e che quindi l’ha cronicizzata. Questa esplosione della finanza e del credito ha avuto una triplice funzione: 1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi dei lavoratori; 2) allontanare nel tempo lo scoppio della crisi da sovrapproduzione nell’industria; 3) fornire al capitale in crisi di valorizzazione nel settore industriale alternative d’investimento a elevata redditività. Vediamo più da vicino questi tre aspetti. 1) Credito alle famiglie. «La caratteristica più notevole dell’era 55. A. Kliman, «The Destruction of Capital» and the Current Economic Crisis», cit., p. 6. 56. Tra i pochi a inquadrare direttamente il problema è N. Roubini, Are we at the peak of a Minsky credit cycle?, 30 luglio 2007, in www.rgemonitor.com . 57. Per un’istruttiva e divertente rassegna delle sciocchezze che sono state dette sulla crisi da molti degli economisti più in auge vedi M. Cobianchi, Bluff. Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente, Orme, Milano 2009; il testo contiene anche una buona cronologia degli avvenimenti dal 2007 alla fine del 2008.

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della disuguaglianza e del libero mercato che è iniziata negli anni Ottanta è rappresentata dal fatto che si siano avute così poche reazioni alla stagnazione dei guadagni della gente comune in una così larga parte dell’economia del mondo sviluppato»58. Così il «Financial Times» commentava i dati che abbiamo citato più sopra sul calo dei redditi da lavoro negli ultimi decenni. Ma subito spiegava l’arcano: il motivo dell’assenza di reazioni va ricercato nel fatto che il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato a essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro. La politica monetaria espansiva e di bassi tassi di interesse della Federal Reserve ha alimentato il credito al consumo e la bolla immobiliare, consentendo a famiglie a basso reddito dicontrarre debiti relativamente a buon mercato. La fertile fantasia dei grandi istituti di credito americani, per parte sua, ha escogitato prodotti rivolti anche a chi non aveva né reddito né lavoro né poteva offrire garanzie patrimoniali, come i cosiddetti «mutui Ninja» (no income, no job, no asset). Questi e altri mutui ad alto rischio costituiscono gli ormai famosi mutui subprime. La crescita dei valori immobiliari ha in effetti creato per diversi anni un senso di ricchezza crescente (qualcosa di simile, ma su scala minore, era successo alla fine degli anni Novanta con la bolla borsistica della new economy), e ha reso possibile rinegoziare i mutui e anche accendere ipoteche di secondo grado sulla casa a garanzia di prestiti finalizzati al consumo. È il fenomeno che è stato definito come home equity extraction. Come ha scritto Stiglitz, «la bolla immobiliare ha alimentato i consumi, si tiravano fuori soldi dalla casa come da un bancomat a ritmo frenetico, mentre i tassi di risparmio delle famiglie precipitavano»59. Giulio Sapelli ha parlato di «consumo illimitato basato sull’indebitamento»60. Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario e però consuma come e più di prima. E va detto che a essere soddisfatti erano in molti, a cominciare da Paesi esportatori come la Germania, la Cina, il Giappone, la stessa Italia. Una costruzione perfetta, salvo due piccoli particolari: da un lato, una crescita fortissima dell’indebitamento delle famiglie 58. J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, «Financial Times», 8 aprile 2008. 59. Vedi: J. Sapir, From Financial Crisis to Turning Point. How the US «Subprime Crisis» Turned into a Worldwide One and Will Change the Global Economy, «Internationale Politik und Gesellschaft», 1/2009, pp. 29, 35; J. Stiglitz, La follia dei mercati e il sonno delle autorità, «la Repubblica», 6 maggio 2008. 60. G. Sapelli, La crisi economica mondiale, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 24.

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americane, che nel 2007 ha raggiunto il 100% del Pil (dal 61,4% di appena dieci anni prima)61; dall’altro, il fatto che tutto questo castello di carte poteva stare in piedi soltanto se il valore degli immobili continuava a crescere. Ma la cosa ovviamente non poteva andare avanti all’infinito. E infatti – come sappiamo – il mercato immobiliare statunitense alla fine è crollato. 2) Credito alle imprese. Ma il credito non dava respiro soltanto alle famiglie americane. Lo dava anche, e in misura non minore, alle imprese di tutto il mondo. L’intervento svolto da Sergio Marchionne all’incontro della Fiat con il governo e i sindacati del 18 giugno 2009 è molto utile per intendere questo aspetto: «il primo grande problema» del settore è «quello della sovraccapacità produttiva (…). La capacità produttiva, a livello mondiale, è di oltre 90 milioni di vetture l’anno, almeno 30 milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di assorbire in condizioni normali»62. Ovviamente, questo enorme eccesso di capacità produttiva non si è prodotto tutto insieme dopo qualche mese di crisi. E infatti la sovrapproduzione nel settore è aumentata; ma era ragguardevole già nei primi anni di questo decennio, quando ammontava alla cifra già esorbitante di 20 milioni di automobili all’anno. Come hanno fatto le case automobilistiche a tirare avanti in questi anni in presenza di una sovrapproduzione di questa entità? In tre modi. Innanzitutto spingendo sul credito al consumo per l’acquisto di autovetture (con finanziamenti a tasso zero per l’acquisto di automobili e simili): lo stesso Marchionne ha affermato che «le autovetture finanziate in Europa sono tre su quattro»63. Poi riscadenzando i propri debiti, grazie alla possibilità di usufruire di prestiti a condizioni di tasso eccezionalmente favorevoli, in assenza delle quali non avrebbero potuto sostenere il peso dell’indebitamento. Infine, facendo profitti non più con le attività tradizionali, ma da operazioni finanziarie. È questa la strada maestra per la redditività imboccata negli scorsi anni da moltissime imprese manifatturiere. Con maggiore o minore fortuna. 3) La speculazione come mezzo per la valorizzazione del capitale. All’inizio del 2009 le cronache dei giornali finanziari internazionali ci hanno raccontato la triste vicenda del miliardario tedesco 61. J. Sapir, From Financial Crisis to Turning Point, cit., p. 30. 62. Intervento di S. Marchionne, Incontro con le Istituzioni e le Organizzazioni Sindacali, Roma, 18 giugno 2009, p. 3 (corsivi miei). 63. Non a caso le società di credito al consumo delle principali case automobilistiche mondiali sono state le prime a essere severamente colpite dalla crisi in corso; S. Marchionne, Intervento, cit., p. 2.

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Adolf Merckle (la quinta persona più ricca della Germania, secondo «Forbes»). Questo signore, proprietario della multinazionale farmaceutica Phoenix Pharmahandel e detentore di una forte partecipazione azionaria in Kassböhrer e in Heidelberg Cement (molto svalutata in seguito alla crisi), ha perso un miliardo di euro scommettendo con la finanziaria di famiglia sul ribasso delle azioni Volkswagen nel giorno in cui queste hanno toccato il loro massimo storico. Ha quindi chiesto aiuto a un consorzio di 40 banche e allo Stato per ristrutturare i propri debiti. E alla fine, quando ha inteso che avrebbe dovuto smembrare il suo impero economico e venderlo a pezzi, si è suicidato64. Si tratta del caso estremo di un fenomeno assai più generale: l’effettuazione di attività speculative per ottenere livelli di profitto altrimenti impossibili. Sono iniziative che possono avere successo (e in questo caso in genere non finiscono sui giornali) oppure no (come nella vicenda considerata). In ogni caso, nulla di nuovo sotto il sole: già per Marx «tutte le nazioni a produzione capitalistica vengono colte periodicamente da una vertigine nella quale vogliono far denaro senza la mediazione del processo di produzione». Si tratta di un fenomeno descritto, poco prima della crisi del 1929, anche dal marxista Henryk Grossmann, il quale considerava la speculazione di borsa come una sorta di esportazione di capitali verso l’interno, del tutto parallela all’«esportazione dei capitali all’estero», e con al fondo lo stesso motivo: la crisi di valorizzazione del capitale nei settori originari di attività65. Negli ultimi anni una gran parte delle stesse aziende manifatturiere ha ottenuto profitti tramite operazioni finanziarie. Alcune grandi multinazionali, come la General Electric, hanno messo in piedi un ramo di azienda separato per questo tipo di attività. Negli anni precedenti la crisi, da questo ramo di attività, GE Capital, la General Electric ha tratto più del 50% dei suoi profitti. In effetti, se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che a partire dalla fine degli anni Novanta quelli da attività finanziarie cominciano a crescere vertiginosamente, perdendo ogni rapporto tanto con l’andamento del Pil quanto con i profitti provenienti da altre attività66. 64. D. Schäfer, German billionaire Merckle hit by VW bet e German Tycoon makes plea for state bail-out, «Financial Times» del 17 e 18 novembre 2008; Der Fall Merckle. Das Ende eines Milliardärs, «der Spiegel», 12 gennaio 2009. 65. K. Marx, Il Capitale. Libro II, cap. 1, § IV, MEW 24.62; tr. it. di R. Panzieri, ER 2.58-59. H. Grossmann, Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie), Hirschfeld, Leipzig 1929; ristampa Verlag Neue Kritik, Frankfurt a.M. 1970, p. 546. 66. Vedi Chart 1 in J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 7.

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8. Credito e crisi in Marx – e oggi Se ora ritorniamo alla concezione marxiana del credito, possiamo osservare che in essa è presente una determinazione di grande importanza in relazione a quanto abbiamo visto: per Marx il credito è uno dei principali strumenti attraverso cui il capitale tenta di superare i propri limiti. Infatti, grazie al credito i «limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo» (p. 98). Inoltre il credito «spinge la produzione capitalistica al di là dei suoi limiti» anche nel senso di porre a disposizione della produzione «tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamente investito»: ossia non soltanto il capitale del capitalista, ma anche quello – altrimenti inutilizzato – di terzi67. È precisamente per questi motivi, osserva Marx, che il credito appare come la causa della sovrapproduzione: «se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e dell’iperattività e della sovraspeculazione nel commercio, ciò accade soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui forzato sino al suo estremo limite, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera con preoccupazione i limiti del proprio capitale privato» (p. 97). A questo riguardo è interessante notare come un aspetto contro cui puntano il dito alcuni critici odierni della finanza, ossia il fatto che essa utilizza il denaro di altri, per Marx non sia una patologia ma una caratteristica di fondo del sistema creditizio68. Però, proprio per il fatto di accelerare «lo sviluppo delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale», il sistema creditizio al tempo stesso «accelera le crisi, le violente eruzioni di questa contraddizione e quindi gli elementi della dissoluzione del vecchio modo di produzione» (ibidem). Grazie al credito si può ben spingere la produzione oltre i limiti del consumo (ossia dell’effettiva domanda pagante), ma alla fine il processo si inceppa e la crisi si incarica di dimostrarci che quel limite è invalicabile. Le merci restano invendute, cominciano i ritardi nei pagamenti, la circola67. K. Marx, Il Capitale. Libro terzo, sez. 5, cap. 36, MEW 25. 620-621 = tr. it. di M. L. Boggeri in ER 3.2.705. 68. Vedi ad es. L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009.

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zione si arresta in più punti, e tutto il meccanismo entra in stallo. Ecco come Marx descrive la situazione: «Fino a che il processo di riproduzione fluisce normalmente (…) questo credito si mantiene e si amplia, e questo ampliamento è fondato sull’ampliamento del processo stesso della riproduzione. Non appena subentra un ristagno provocato da ritardo dei rientri, da saturazione dei mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste sempre, ma in una forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a causa del ristagno della riproduzione» (p. 98). A questo punto il credito si contrae: la restrizione del credito e la richiesta di pagamenti in contanti contribuiscono a conferire alla crisi la sua apparenza di crisi creditizia e monetaria. «Il fatto che, laddove l’intero processo poggia sul credito, non appena il credito venga improvvisamente a mancare e ogni pagamento possa essere effettuato solo in contanti debba subentrare una crisi creditizia e la mancanza di mezzi di pagamento – è ovvio, come lo è il fatto che la crisi nel suo complesso debba quindi presentarsi prima facie come crisi creditizia e monetaria». La realtà è un’altra: emergono «transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui»; ed emerge soprattutto il fatto che le merci restano invendute e perdono il loro valore (Marx parla a questo proposito di «capitali merci che si sono svalorizzati»), che i profitti attesi «non possono più essere realizzati» (pp. 75-76). Dietro la crisi «creditizia e monetaria» (oggi si direbbe finanziaria), oltre al fallimento di speculazioni nate nel momento di massima espansione del credito, c’è insomma una crisi di sovrapproduzione e di realizzazione del capitale. Questo è vero in generale, ed è vero anche per quanto riguarda la crisi scoppiata nel 2007. Lo dimostra una ricerca pubblicata dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico nel maggio del 2009, che evidenzia come la produttività del lavoro fosse in rallentamento già molto prima dello scoppio della crisi finanziaria69. Nel settore delle costruzioni Usa il calo inizia tra i due e i quattro anni prima della crisi; sino a quando, nel 2007, la produttività del lavoro in 69. Siccome la produttività è calcolata in termini di quantità di merci prodotte per lavoratore, un suo calo (soprattutto se marcato e improvviso) indica una diminuzione della produzione a seguito di sovrapproduzione, o – come oggi si preferisce dire – di excess supply, eccesso di offerta: in tal caso infatti le merci rimaste invendute inducono a diminuire la produzione e a non utilizzare appieno la capacità produttiva.

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tale settore segna un –12%. Alla base c’è quindi, afferma la stessa ricerca OCSE, «un problema di eccesso di offerta». Per un certo periodo è sembrato che «una forte spinta alla domanda attraverso un’estensione delle facilitazioni creditizie avrebbe potuto compensare i problemi dal lato dell’offerta. Ma alla fine si è dovuto pagare pegno all’economia reale». Anche in Europa e in Giappone tra il 2006 e il 2007 vi è un stato chiaro rallentamento della produttività. La conclusione della ricerca, sia pur espressa in termini diplomatici, è piuttosto chiara: «rispetto all’assunto che il deterioramento dell’economia reale sia stato semplicemente causato dalla crisi finanziaria, i dati danno sostegno a una relazione più complessa»70. Che «la caduta degli investimenti delle imprese sia almeno in larga misura dovuta a un eccesso di capacità produttiva» è oggi sostenuto anche da Paul Krugman71. Insomma: la crisi, una classica crisi da sovrapproduzione, è precedente lo scoppio della bolla creditizia. La bolla creditizia l’ha prima mascherata e poi, esplodendo, ha creato l’illusione di esserne la causa. A questo punto, proprio per il fatto che l’eccesso del credito nel settore immobiliare statunitense era solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più generale, si è prodotta una drammatica accelerazione della crisi, a cui hanno contribuito le massicce svalutazioni di titoli finanziari dovute a vendite a qualsiasi prezzo pur di onorare i propri debiti (infatti molti investimenti in titoli erano stati effettuati per mezzo di debito, che si contava di ripagare – come era avvenuto in precedenza – grazie alla crescita di prezzo di quegli stessi titoli). Si è innescato quel meccanismo di avvitamento – che può condurre a una vera e propria spirale deflattiva – descritto con precisione nel secolo scorso da Hyman Minsky e prima di lui, in relazione alla crisi del 1929, da Irving Fisher72. 70. The real economy and the crisis: revisiting productivity fundamentals, 30 aprile 2009, corsivi miei; la ricerca è scaricabile dal sito internet ufficiale dell’OCSE: www.oecd.org/document/30/0,3343,en_2649_34251_42579358_1_1_1_1,00.html . La ricerca è stata ripubblicata in forma poco diversa dai suoi autori: D. Brackfield, J. Oliveira Martins, Productivity and the crisis: Revisiting the fundamentals, 11 luglio 2009: http://www.voxeu.org/index.php?q=node/3760 . La necessità di «facilitazioni creditizie» per coprire l’offerta di case spiega il ricorso crescente ai mutui subprime, passati dal 10% dei nuovi mutui nel periodo 1998-2003 al 40% nel 2006: i dati sono riportati in L. Spaventa, The crisis: a survey, cit., p. 33. 71. Paul Krugman’s fear for lost decade, cit. 72. Di H. Minsky vedi ad es. Finance and Stability: The Limits of Capitalism, cit., p. 16. Su Minsky e Fisher vedi R. Bellofiore, Introduzione a H. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. xxiv sgg. Di «vendite per pagare» aveva parlato lo stesso Marx (cfr. p. 101).

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Nella crisi, puntualmente, si è interrotto il ciclo di trasformazione della merce in denaro e si è prodotta quella caratteristica «carestia di denaro» che trasforma il denaro stesso, da semplice mezzo di circolazione del capitale, in «merce assoluta», in «forma autonoma del valore» superiore e contrapposta alle singole merci: «in periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore» (p. 103). Anche in questa crisi, in parallelo all’assottigliarsi dei flussi finanziari e al diminuire del processo di conversione delle merci in denaro, è aumentata la richiesta di mezzi di pagamento, quali le banconote, e si sono verificati rilevanti fenomeni di tesaurizzazione73. È il processo definito da Keynes come «trappola della liquidità»: quella situazione in cui, per quanto possano essere abbassati i tassi di interesse, il denaro non viene speso e soprattutto non viene investito a fini produttivi. Un caso da manuale di «trappola della liquidità» si è avuto dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel settembre 2008, allorché la circolazione del capitale è sembrata interrompersi e gli stessi prestiti interbancari si sono per qualche tempo letteralmente paralizzati su scala mondiale. 9. Crisi e distruzione di capitale La crisi iniziata nel 2007 ha assunto col passare dei mesi le caratteristiche di una vera e propria crisi generale. Attraverso di essa si è verificata una enorme distruzione di capitale su scala mondiale. La distruzione di capitale che si verifica nelle crisi non è per Marx un accidente, ma una condizione necessaria al fine di ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito. Questa distruzione è di due tipi. Da una parte abbiamo la distruzione di «capitale reale», che Marx descrive così: «in quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato, non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a produzione perduta. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni che restano inutilizzate (altrettanto quanto 73. Al riguardo è interessante notare che la richiesta di banconote da 100 e 500 euro è risultata particolarmente elevata nell’ultimo trimestre del 2008. In particolare, rispetto all’anno precedente è cresciuta del 17% la quantità di banconote da 500 euro, che – secondo quanto dichiarato da un report della Banca Centrale Europea – «sono adoperate in larga misura a fini di tesaurizzazione»: vedi R. Atkins, Lehman collapse led to euro note ‘hoarding’, «Financial Times», 22 aprile 2009.

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nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale». In tutti questi casi «le condizioni di produzione esistenti… non vengono messe in funzione», e quindi si perde tanto il loro valore d’uso quanto il loro valore di scambio (p. 104). Questo aspetto della crisi «si risolve in una diminuzione reale della produzione, del lavoro vivo – allo scopo di ristabilire la giusta proporzione tra lavoro necessario e pluslavoro, su cui in ultima istanza tutto si fonda»74. Tale proporzione può essere ristabilita in quanto la crisi comporta licenziamenti di massa e la creazione di un esercito industriale di riserva: da questo discende una diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori, e pertanto un aumento della quota del lavoro non pagato e del saggio del plusvalore. Un secondo aspetto della distruzione di capitale è rappresentato dalla «caduta rovinosa dei prezzi delle merci». In questo caso «non viene distrutto nessun valore d’uso. Ciò che perde l’uno, guadagna l’altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta», in quanto non solo non riescono a valorizzare il capitale anticipato per produrre quelle merci, ma le devono vendere al di sotto del loro valore. Allo stesso modo, nelle crisi «una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d’uso, possa favorire molto la nuova riproduzione» (ibidem). Marx insiste in particolare sul fatto che «la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato, azioni ecc.», in se stesso comporta «un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra», ma non una distruzione reale di capitale, a meno che esso non porti «alla bancarotta dello Stato e della società per azioni», rallentando in tal modo la riproduzione (p. 105). Entrambi i tipi di distruzione di capitale considerati da Marx sono oggi ben visibili. Nei soli Stati Uniti il valore dei patrimoni (finanziari e immobiliari) detenuti dalle famiglie è diminuito di 11.300 miliardi di dollari (il 14,7%) tra la fine del 2007 e la fine del 2008. Quanto alla distruzione di capitale reale, essa si sta manifestando in un calo del Pil a livello mondiale del 2,9% (il primo dalla fine della seconda guerra mondiale), in un crollo del commercio internazionale del 10%, in un tasso di utilizzo degli impianti inferiore al 70% in molti paesi, in un’enorme crescita delle bancarotte 74. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 1857-8, MEW 42.360; tr. it. di G. Backhaus in MEOC 29.383.

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(+35% su scala mondiale) e in una crescita della disoccupazione nel mondo di 50 milioni di unità nel 200975. La vera domanda da porsi a questo riguardo è: questa distruzione di capitale sarà sufficiente a ripristinare condizioni più elevate di redditività del capitale investito e quindi a far ripartire l’accumulazione del capitale? Non è facile rispondere. Ma è lecito ritenere che oggi si rischi uno scenario depressivo assai peggiore delle recessioni dei primi anni Settanta, quando la distruzione di capitale necessaria per far ripartire i profitti fu evitata anche in quanto politicamente insostenibile (per la presenza di una concorrenza tra sistemi, che vedeva un blocco socialista ancora agguerrito), con la conseguenza di decenni di crescita stentata. 10. Il decorso della crisi: l’intervento pubblico e i suoi limiti Alla luce di questo, ci sono pochi dubbi sul fatto che l’ironia indirizzata da Marx verso chi asseriva che «il peggio della crisi è passato» (p. 64) sarebbe ben spesa anche in relazione a molte odierne dichiarazioni di politici, economisti e uomini d’affari. Certo è che dichiarazioni del genere si sono sprecate – e si sono manifestamente rivelate false – quasi a ogni passaggio cruciale della crisi in corso: dopo il salvataggio di Northern Rock (ancora nel 2007), dopo il salvataggio di Bear Stearns (marzo 2008), dopo il primo piano Paulson (nell’autunno 2008), in corrispondenza con l’effimera ripresa dei mercati azionari nel marzo 2009, e così via. Non a caso, accanto a queste rassicurazioni (o scongiuri?) che mirano a riportare la «fiducia» sui mercati – come se per far ripartire l’economia bastasse questo – è gradualmente emersa, in modo sempre più concreto e impellente, la necessità di un intervento pubblico per mettere a posto le cose, ripristinare livelli patrimoniali minimi nelle banche, evitare fallimenti troppo clamorosi. Questi interventi di salvataggio delle banche con denaro pubblico sono stati definiti «socialismo per i ricchi»76. Marx non ne aveva parlato in modo molto diverso. Ecco quanto scriveva a proposito della crisi di Amburgo del 1857: «Per tenere su i prezzi… lo Stato dovrebbe pagare i prezzi in vigore prima dello scoppio del panico 75. Vedi Global Development Finance. Charting a Global Recovery, The World Bank, Washington 2009, pp. 12, xi, 1, 9 (table 1.1.), 12. Sulle bancarotte attese cfr. B. Hall, Bankruptcies expected to soar by 35%, «Financial Times», 4 giugno 2009. Sull’aumento della disoccupazione vedi Unemployment, working poor and vulnerable employment to increase dramatically due to global economic crisis, International Labour Organization, press release, 28 gennaio 2009. 76. Così J. Rogers (ex socio di Soros nel Quantum Fund) in un’intervista a CNBC Europe l’8 settembre 2008. Per il video vedi http://www.cnbc.com/id/26603489/ .

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commerciale e scontare delle cambiali che non sono più altro che il controvalore delle bancarotte altrui. In altre parole, il patrimonio dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe ripianare le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere di comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, esercita una certa attrattiva sui capitalisti europei» (p. 72). Che dire? Sono passati oltre 150 anni, ma il fascino che misure di questo genere esercitano sui capitalisti è vivo come allora. E che giudizio dare degli alfieri della deregolamentazione nell’ambito dei diritti sindacali e del lavoro, i quali – «Economist» in testa – ora invocano l’aiuto pubblico alle grandi banche e imprese in crisi per «salvare il sistema»77? Anche qui, niente di particolarmente nuovo, almeno stando a questa lettera scritta da Marx a Engels l’8 dicembre 1857: «È proprio bello che i capitalisti, che gridano tanto contro il “diritto al lavoro”, ora pretendano dappertutto “pubblico appoggio” dai governi, e ad Amburgo, a Berlino, a Stoccolma, e Copenaghen e nella stessa Inghilterra (nella forma di sospensione della legge) facciano insomma valere il “diritto al profitto” a spese della comunità» (p. 76). Insomma: la tendenza a invocare la socializzazione delle perdite e uno statalismo a geometria variabile – rifiutato con sdegno quando pretende di porre vincoli legislativi al mercato del lavoro, ardentemente desiderato quando impegna il denaro pubblico per salvare imprese private – sembra vecchia come il capitalismo e destinata a morire con esso. Ma in Marx si ritrovano osservazioni di singolare attualità anche in relazione all’efficacia dell’intervento pubblico durante una crisi economica. Si tratta di osservazioni connotate da un forte scetticismo nei confronti sia dell’utilità (o quantomeno risolutività) di tale intervento, sia della sua – si direbbe oggi – «sostenibilità». Esse possono stupire soltanto chi interpreti Marx come una sorta di Keynes ante-litteram. In primo luogo, l’idea stessa che un’accorta legislazione bancaria possa risolvere una crisi, o addirittura impedirne l’affacciarsi, è rifiutata con decisione: «Una legislazione bancaria arbitraria (come quella del 1844-1845) – dice Marx – può aggravare questa crisi monetaria. Ma nessuna legislazione può eliminare la crisi» (p. 75). Ma anche interventi diretti nel capitale delle imprese o comunque a loro supporto sono considerati in ultima analisi inutili:

77. Il titolo di copertina dell’«Economist» del 9 ottobre 2008 recitava appunto: Saving the system.

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«l’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di riproduzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che ora una banca (per es. la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le merci al loro vecchio valore nominale» (p. 76). Insomma: il riacquisto titoli effettuato dalle banche centrali degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del Giappone nel corso della presente crisi non avrebbe potuto annoverare Marx tra i suoi fautori più entusiasti. Anche Engels ebbe parole di critica nei confronti di provvedimenti anti-crisi quali la proroga amministrativa delle scadenze dei pagamenti e più in generale nei confronti dell’adozione di una politica monetaria espansiva. «Le proroghe delle cambiali – scrisse in una lettera a Marx del 1858 sulla crisi francese – provocheranno perdite enormi. Un mezzo siffatto per superare una crisi può servire soltanto quando la ripresa degli affari è effettiva anche nell’industria; ma il semplice easy money-market78 non serve a chi non ha credito; e io credo che ora in Francia non si dia più credito se non come proroga di quello precedentemente concesso»79. In generale, sia Marx che Engels ritenevano che la crisi non potesse essere risolta da interventi di politica monetaria né da leggi ad hoc o interventi pubblici a garanzia e copertura del debito privato. Anzi, in una lettera a Engels riferita agli sviluppi della crisi che allora imperversava in Francia, Marx accennò al fatto che questi ultimi interventi, lungi dal risolvere la crisi, potevano portare alla bancarotta anche lo Stato: «quando scoppia la vera e propria crisi francese, il mercato finanziario e la garanzia di questo mercato, cioè lo Stato, se ne vanno al diavolo»80. Si tratta di un accenno evidentemente riferito a una situazione molto lontana dall’attuale e per molti aspetti non confrontabile con quanto accade ai nostri giorni. Ma forse, a ben vedere, non si tratta di un’affermazione priva di interesse in relazione alla situazione odierna. Non è difficile capire perché. Oggi lo Stato viene direttamente in soccorso delle grandi corporations private – in primis finanziarie – con interventi di entità senza precedenti nella storia. Il sostegno delle banche centrali e degli Stati ammontava già nel dicembre 2008, secondo alcune 78. Mercato monetario facile. Lo strumento principale per conseguirlo è un abbassamento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali. 79. F. Engels, lettera a Marx del 17 marzo 1858, MEW 29.304; tr. it. di M. A. Manacorda in MEOC 40.321. 80. K. Marx, lettera a Engels del 25 dicembre 1857, MEW 29.238; tr. it. di M. A. Manacorda in MEOC 40.251 (corsivi miei). Nel testo originale è presente un gioco di parole tra security market (mercato finanziario, mercato dei titoli) e security (garanzia) che non si può rendere in lingua italiana.

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stime, a qualcosa come 10.000 miliardi di dollari81. In realtà bisogna distinguere tra gli impegni di spesa sparati sui titoli dei giornali (per massimizzare l’effetto-annuncio al fine di infondere «fiducia» e ottenere consenso), o comunque gli impegni pluriennali, e quanto è stato effettivamente già speso. Ma anche volendosi limitare a queste ultime cifre stiamo pur sempre parlando in media del 5,8% del Pil delle economie più avanzate, del 7,5% di quello statunitense e del 18,9% di quello della Gran Bretagna. Probabilmente non è che l’inizio, se consideriamo la necessità di sempre maggiori ammortizzatori sociali, anche per ripianare il disastro delle prestazioni sociali privatizzate: basti pensare che i fondi pensione privati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna nel 2008 hanno accusato perdite pari, rispettivamente, al 22 e al 31% del Pil82. Allo stato attuale quell’intervento – a dispetto delle metafore escogitate per convincerci dell’esistenza di «germogli» di ripresa e delle patetiche grida di gioia a ogni accenno di rialzo degli indici borsistici –, se ha probabilmente evitato un meltdown globale e un disastro sistemico, non sembra avere sortito gli effetti sperati. Anzi. Le prospettive appaiono tanto poco rosee da far dire a un notista del «Financial Times»: «le probabilità sono equamente ripartite tra una depressione mondiale e un ritorno a uno stato di semistagnazione»83. Gli stessi confronti con il decorso della crisi del 1929 sono tutt’altro che confortanti: la produzione industriale ricalca quella della Grande Depressione, il volume del commercio mondiale è crollato in misura ancora maggiore per il crollo della domanda di prodotti industriali e le Borse hanno perso molto di più di allora nello stesso intervallo di tempo84. Le previsioni sul calo del prodotto interno lordo mondiale nel 2009 elaborate dalla Banca Mondiale sono poco meno che catastrofiche, con una media di calo dei paesi ad alto reddito del 4,2% (-4,5% la media nell’eurozona, -6,8% il Giappone); ma anche i paesi emergenti, se si eccettuano Cina e India, vedranno il loro Pil calare di un –1,6%. La domanda di beni di investimento nel primo trimestre 2009 è letteral81. D. McNally, «From Financial Crisis to World Slump: Accumulation, Financialization, and the Global Slowdown», 15 dicembre 2008, p. 13 ( http://marxandthefinancialcrisisof2008.blogspot.com/2008/12/david-mcnallyfrom-financial-crisis-to.html ). 82. Fiscal implications of the global economic and financial crisis, IMF Staff Position Note, 9 giugno 2009, pp. 7 (table 2.1.), 9, 10 (table 2.2.), 18. 83. W. Münchau, Optimism is not enough for a global recovery, «Financial Times», 15 giugno 2009. 84. Vedi i grafici riportati in B. Eichengreen, K. O’ Rourke, A Tale of Two Depressions, 4 giugno 2009 (www.voxeu.org/index.php?q=node/3421 ), e il commento di M. Wolf, How today’s global recession tracks the Great Depression, «Financial Times», 17 giugno 2009.

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mente crollata negli Stati Uniti (-37,3%), in Giappone (-27,5%) e in Germania (-28,6%)85. Quanto al settore bancario, le principali 31 banche commerciali europee avevano a fine 2008 una leva finanziaria di 43,3, ossia più di 43 euro di debiti per ogni euro di capitale. La stessa Banca Centrale Europea ha stimato in 283 miliardi di dollari le ulteriori perdite attese da queste banche tra il 2009 e il 201086. Quanto all’attività industriale, basti dire che a maggio 2009 negli Stati Uniti il tasso di utilizzo degli impianti è sceso al 68,3%87. La disoccupazione in Europa e negli Stati Uniti è già salita oltre il 9,5%, e nel mondo gli affamati in più saranno 100 milioni, superando per la prima volta nella storia umana il miliardo di persone; a differenza di quanto accaduto in passato, questo incremento non è dovuto a carestie, ma alla crisi88. Sono ormai divenute un luogo comune, in ambienti liberisti e non solo, le geremiadi sul presunto potere che lo Stato avrebbe acquisito sull’economia grazie ai suoi interventi di salvataggio. In verità, le cose stanno diversamente. La gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico in atto, se non è riuscita né a ridurre l’entità complessiva del debito né a rianimare l’economia, può porre le premesse di un ulteriore crisi del debito: quella, appunto, del debito pubblico, o – come si dice in gergo – sovrano; con uno Stato costretto a impegnare risorse che non ha e oltretutto privato dalla stessa crisi delle entrate fiscali necessarie anche solo a sostenere la normale amministrazione. A questo punto il risultato che si avrebbe – un risultato solo apparentemente paradossale – sarebbe una pesantissima crisi fiscale dello Stato, un’ulteriore drastica riduzione del suo ruolo nell’economia e il campo libero lasciato alle grandi multinazionali private. Non si tratta di fantascienza, se solo pensiamo che il debito pubblico delle economie più avanzate del G20 è destinato a crescere del 20% nel 2009 (e le entrate fiscali a ridursi del 5,5%). E va aggiunto che le proiezioni di questi dati al 2014 parlano di un rapporto tra debito e Pil cresciuto del 36% rispetto

85. Vedi Global Development Finance. Charting a Global Recovery, cit., pp. 9 (table 1.1.), 11 (table 1.2.), 86. M. Mucchetti, Banche, il ritorno della parola «divieto», «Corriere della Sera», 16 giugno 2009; I. Bufacchi, BCE alza il prezzo della crisi, «Il Sole 24 Ore», 16 giugno 2009. 87. Il tasso di utilizzo degli impianti del settore automobilistico statunitense, in compenso, è risultato pari al 59%: vedi i dati del PWC’s Automotive Institute riportati in Car industry capacity, «Financial Times», 10 giugno 2009. 88. Eurozone jobless reach 10-year high, «Financial Times», 3 giugno 2009; M. El-Erian, American jobs data are worse than we think, «Financial Times», 3 luglio 2009; 1.02 billion people hungry, FAO, press release, 19 giugno 2009.

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alla situazione del 2007, con un debito medio al 114% del Pil. Rapporto che potrebbe salire al 150% del Pil nel caso – tutt’altro che da escludere – di un rallentamento economico molto prolungato89. Se così accadesse, del welfare resterebbe ben poco. Resterebbe soltanto lo Stato-gendarme, come nei migliori sogni liberistici, a mantenere con mezzi coercitivi un ordine che non potrebbe più essere mantenuto col consenso, o lo Stato-comunicatore a indirizzare la disperazione delle masse – come già accaduto in Italia e Germania negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – verso l’obiettivo sbagliato: il «nemico interno» (allora il comunista e l’ebreo, oggi l’immigrato, il diverso in genere) o il «nemico esterno» (la Cina? La Russia?). Non sembrino riferimenti fuori luogo. In fondo, non si ricorderà mai abbastanza che dall’ultima crisi di entità paragonabile all’attuale, quella del 1929, si uscì soltanto con una guerra mondiale: furono infatti le immani distruzioni della seconda guerra mondiale e la gigantesca mobilitazione di capitale funzionale al sostegno dello sforzo bellico degli Stati Uniti – e non le opere pubbliche di Roosevelt – a far riprendere l’economia, e con essa il saggio di profitto90. È possibile che l’entità della distruzione di capitale necessaria per far ripartire i profitti sia meno drammatica, e che quindi le misure adottate risultino efficaci per rilanciare l’accumulazione del capitale con una contestuale riduzione del ricorso al debito. Ma comunque in tal modo verrebbe meno il pilastro che ha sostenuto i profitti negli ultimi decenni (o che in ogni caso ha reso socialmente più tollerabile il loro declinare). E quindi in tal caso – come è stato scritto – «la prognosi è di un’economia che, anche dopo lo stabilizzarsi della immediata crisi da svalutazione degli assets, sarà nel migliore dei casi caratterizzata per molto tempo da una crescita minima, nonché da alta disoccupazione, sottoccupazione ed eccesso di capacità produttiva»91. 89. Vedi Fiscal implications of the global economic and financial crisis, cit., pp. 3, 22 (table 5.1.), 25 e 26 (table 5.2.), 29 (figure 5.6.), 39 sgg.. In Germania il tema della possibile bancarotta dello Stato campeggia già sulle copertine dei settimanali: vedi ad es. Der geplünderte Staat. Wie viel Opel darf sich Deutschland noch leisten?, «Der Spiegel», 8 giugno 2009. 90. In argomento vedi A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, DeriveApprodi, Roma 2005, pp. 126-127. A. Kliman, On the Roots of the Current Economic Crisis and Some Proposed Solutions, aprile 2009, pp. 3, 6 (http://marxisthumanistinitiative.org/2009/04/17/on-the-roots-of-the-current-economic-crisisand-some-proposed-solutions/). Sul miracolo economico del dopoguerra spiegato come periodo di ricostruzione postbellica vedi F. Janossy, La fine dei miracoli economici, 1966; tr. it. Editori Riuniti, Roma 1974. 91. J. Bellamy Foster, F. Magdoff, Financial Implosion and Stagnation, cit., p. 15.

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Nessuno dei due scenari ipotizzati è particolarmente confortante. Chi scrive ritiene che non si possa escludere neppure il primo e peggiore tra essi. In ogni caso, una imponente distruzione di capitale (con il carico di sofferenze umane che porta con sé) appare inevitabile e necessaria per far riprendere il business e per far ripartire la macchina dei profitti. Insomma – per dirla con Marx – per far «ricominciare tutto il giro» (p. 161). 11. Conclusione: la proposta di Marx Tutto questo ripropone alcuni interrogativi di fondo circa la razionalità e accettabilità sociale di un sistema che trasforma la crescita della produttività in una maledizione e che ha bisogno di crisi ricorrenti e di distruzione di capitale su larga scala per andare avanti. È questo un ultimo, cruciale tema sollevato da Marx nella sua analisi delle crisi. Per Marx «nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale» (p. 105). Ora, la possibilità del passaggio a un modo superiore e meno primitivo di produzione sociale è proprio ciò che nei nostri anni è stato violentemente rimosso, appiattendo il futuro sulla semplice continuazione del presente. Di questo presente. La possibilità di un «livello superiore di produzione sociale» è stata accantonata come un’utopia totalitaria, facendo dell’attuale il migliore dei mondi possibili – anzi, l’unico. È da anni, ormai, che l’accettazione di questa limitazione del nostro orizzonte storico-sociale è divenuta un fenomeno di massa. Da allora, la nostra vita non sembra affatto migliorata. L’esclusione dall’orizzonte del possibile di un’alternativa di sistema ha funzionato come un «liberi tutti» per gli animal spirits del capitale, mentre ai lavoratori si chiedeva di rinunciare a fette sempre maggiori di salario: in fondo è questo, in tutto l’Occidente capitalistico, il segreto della «Great moderation» che ha tenuto bassa l’inflazione in questi anni. È la storia di questi ultimi decenni: le compatibilità di cui tener conto per non attentare alla crescita si sono via via ristrette e fatte più anguste, come la cella del racconto di Poe. Con risultati che sconfinano nel grottesco: ormai, nel nostro Paese, è un delitto di lesa economia chiedere che i ladri fiscali paghino le tasse, che gli

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omicidi sul lavoro vengano perseguiti, che la fiscalità sia realmente progressiva, che i profitti d’impresa non finiscano nelle tasche della famiglia dell’imprenditore ma vengano almeno in parte reinvestiti. Il risultato facilmente verificabile è una regressione drammatica dei redditi da lavoro e contemporaneamente della competitività di sistema. Sarà compito degli storici del futuro ravvisare in questi dati strutturali la base della regressione culturale e civile a quel tribalismo razzistico che impesta sempre più le nostre città rendendole ostili agli «altri» e tristi per tutti, come pure stabilire istruttivi raffronti tra questa regressione e altre già vissute in un passato neppure troppo lontano. Il nostro compito è diverso. Si tratta di intendere una volta per tutte che la crisi attuale non è un incidente di percorso. Che non è venuta da Marte né da qualche mutuatario insolvente del Wisconsin; che la sua paternità non va attribuita né all’avidità di un pugno di banchieri né all’algoritmo non ben compreso di qualche derivato. Questa crisi fa parte integrante del funzionamento normale del modo di produzione capitalistico. Come ogni crisi, essa non è in sé un problema per il capitalismo, ma il modo attraverso cui, periodicamente, il capitalismo risolve i suoi problemi. Non nasce da imperfezioni del mercato, ma è uno dei più potenti e perfetti prodotti del mercato stesso. Chiunque faccia proprio questo punto di vista, non potrà ritenere risolutivo della crisi il miglioramento dell’efficienza dei mercati e neppure il rilancio della domanda aggregata. E sarà invece portato a ritenere, con Marx, che la sola vera soluzione della crisi può venire dall’intendere che il capitalismo è il problema, e dall’operare di conseguenza: ossia per il superamento di questa «ultima configurazione servile assunta dall’attività umana» (p. 105), con l’obiettivo di far sì che i produttori assoggettino la produzione – che oggi li sovrasta come una «legge cieca» – al «loro controllo comune come intelletto associato» (p. 163). Questo oggi può significare solo una cosa: riprendere e rilanciare i grandi obiettivi dell’autogoverno dei produttori e della pianificazione dell’economia92. Sulla base degli sviluppi del capitalismo contemporaneo e imparando dagli errori che hanno reso fallimentari i tentativi del secolo passato. È facile oggi tacciare una posizione del genere di astratto utopismo, come impone l’ideologia tuttora dominante – anche se ovviamente sarebbe altrettanto facile ribaltare tale accusa contro i culto92. Credo di poter interpretare in questo senso anche quanto argomentato da A. Minucci, La crisi generale tra economia e politica. Una previsione di Marx e la realtà di oggi, Voland, Roma 2008, p. 26.

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ri della religione dei mercati efficienti o contro i (più rari) seguaci dell’utopia redistributiva socialdemocratica. Intendiamoci: è senz’altro possibile che il progetto marxiano di «fare della proprietà privata individuale una verità trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, ora principalmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di un lavoro libero e associato»93 – insomma l’idea di una regolazione dell’economia da parte dei produttori associati – non trovi attuazione. Non è un’eventualità auspicabile. È estremamente probabile, infatti, che in tal caso la «fine della storia» vagheggiata anni fa da alcuni ideologi finirebbe con il realizzarsi per davvero: ma nelle forme della stagnazione economica, della catastrofe ambientale e della guerra. Si darebbe così ragione, ancora una volta, all’amara constatazione di Karl Kraus: «nel mondo è accaduto di tutto perché il mondo aveva una troppo bassa considerazione di se stesso»94. Il mondo dovrebbe migliorare la stima che ha di sé. Anche noi.

93. K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, 1871, in MEW 17.342; tr. it. di V. Morfino in MEOC 22.300 (con questo volume, pubblicato da La Città del Sole, Napoli 2008, è finalmente ripresa la pubblicazione in lingua italiana delle Opere complete di K. Marx e F. Engels). 94. K. Kraus, Dritte Walpurgisnacht, 1933; ed. Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, p. 22.

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NOTA AI TESTI Criteri di citazione Le fonti dei testi tradotti in questo volume sono indicate tra parentesi quadra sotto il titolo dei testi, che è redazionale. Vengono sempre indicati titolo ed edizione originali dell’opera da cui è tratto il testo tradotto, e a seguire titolo ed edizione italiana, nonché il nome del traduttore. Nei casi in cui la traduzione è stata riveduta dal curatore del presente volume la cosa è esplicitamente indicata. Per le edizioni delle opere di Marx ed Engels più frequentemente citate vengono utilizzate le seguenti abbreviazioni: MEW Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin, 19561990. Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero del volume, eventualmente quello del tomo, infine il numero di pagina. MEGA Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe (MEGA), Dietz Verlag, Internationales Institut für Sozialgeschichte, Berlin e Am(poi Akademie Verlag) sterdam, 1975 a oggi. Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero della sezione in numeri romani, e, in numeri arabi, numero del volume, numero del tomo e numero di pagina. MECW Karl Marx, Frederick Engels, Collected Works, Progress Publishers, Lawrence & Wishart, International Publishers, Moscow, London and New York 1975-2005. Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero del volume e il numero di pagina. MEOC Karl Marx, Friedrich Engels, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma 1972-1990 (l’edizione delle opere è stata ripresa nel 2008 dall’editrice La Città del Sole con la pubblicazione del vol. 22). Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero del volume e il numero di pagina. ER Karl Marx, Il capitale, tr. it. di D. Cantimori (libro I), R. Panzieri (libro II), M.L. Boggeri (libro III), Editori Riuniti, Roma 1968 (più volte ristampato). Questa edizione è citata riportando, dopo la sigla, il numero del volume, eventualmente quello del tomo, infine il numero di pagina. Criteri generali I passi tra parentesi quadre nei testi sono integrazioni redazionali. Le note ai testi riportate entro parentesi quadre sono redazionali. Le note fuori parentesi sono di Marx. In corsivo in nota (senza parentesi) sono riportate: parole che nel testo originale erano scritte in lingua diversa (generalmente inglese o francese) da quella in cui è scritto il testo marxiano. In questa edizione, al fine di rendere la lettura più scorrevole, si è scelto di tradurle in italiano nel testo portando il lemma originale in nota; parole di traduzione controversa, o ripetute a breve distanza nel testo con significati differenti. Quando ritenuto necessario, la nota riporta anche, tra parentesi quadra, le motivazioni delle scelte di traduzione operate. 55

Contenuto delle diverse sezioni Cronache della crisi I testi di questa sezione riproducono, con le sole eccezioni di un passo del manoscritto marxiano del III libro del Capitale e di una lettera a Engels, articoli giornalistici scritti da Karl Marx per la «Neue Rheinische Zeitung» e in inglese per il «New-York Daily Tribune». In particolare, 5 degli articoli usciti sul «NewYork Daily Tribune» qui riprodotti (quelli pubblicati il 9 ottobre 1856, 6 dicembre 1856, 21 novembre 1857, 15 dicembre 1857 e 22 dicembre 1857) sono tradotti per la prima volta in lingua italiana. Anche la traduzione della pagina del manoscritto del III libro del Capitale contenuta in questa sezione è originale. Contraddizioni del capitale e forme della crisi In questa sezione sono riprodotti testi teorici di Marx sulla crisi, tratti – con la sola eccezione di una pagina del Manifesto del partito comunista – dai lavori preparatori e dagli scritti per l’opera complessiva sul modo di produzione capitalistico alla quale Marx attese dal 1857 alla fine della sua vita, ma di cui pubblicò soltanto il I libro del Capitale. La parte più rilevante di questa sezione è costituita da pagine tratte dal capitolo 17 delle Teorie sul plusvalore (il IV libro del Capitale nel progetto originario dell’opera). Sono inoltre presenti testi tratti dai Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia, dal I libro del Capitale e dalle edizioni curate da Friederich Engels del II e III libro (ove necessario, queste ultime sono state rivedute sulla base del relativo manoscritto marxiano). In due casi, infine, si è ritenuto opportuno tradurre direttamente dal manoscritto del III libro del Capitale (in questi casi si tratta della prima traduzione in lingua italiana). Sviluppo del capitalismo e caduta del saggio di profitto Questa sezione è rappresentata dalla prima traduzione integrale in lingua italiana del terzo capitolo del manoscritto marxiano del III libro del Capitale. A questo capitolo, al quale attese nel 1864-1865, Marx stesso diede il titolo di Legge della caduta tendenziale del saggio generale di profitto col progredire della produzione capitalistica. La presente traduzione è condotta sull’edizione critica del capitolo, pubblicata nel 1992 nel contesto della nuova edizione storico-critica complessiva degli scritti di Marx ed Engels: Das Kapital (Ökonomisches Manuskript 1863-1865), Drittes Buch, Drittes Kapitel. Gesetz des tendenziellen Falls der allgemeinen Profitrate im Fortschritt der kapitalistischen Produktion, in K. Marx, F. Engels, Gesamtausgabe (MEGA). Zweite Abteilung. «Das Kapital» und Vorarbeiten, Band 4: K. Marx, Ökonomische Manuskripte 1863-1867. Text - Teil 2. Hrsg. von der Internationalen Marx-Engels-Stiftung, Amsterdam. Bearbeitet von M. Müller (Leiter), J. Jungnickel, B. Lietz, Chr. Sander u. A. Schnickmann, Dietz Verlag, Berlin 1992, pp. 285-340 (MEGA II/4.2.285-340) Nell’edizione a stampa del III libro del Capitale, uscita nel 1894 a cura di Friedrich Engels, il terzo capitolo divenne la terza sezione, ulteriormente suddivisa da Engels stesso in capitoli (i capitoli 13-15) e paragrafi (vedi MEW 25.221277 = ER 3.1.259-321). Engels effettuò spostamenti di parti di testo, tagliò e riformulò alcune pagine, e introdusse numerose varianti lessicali. Delle modifiche più significative si dà conto in nota. I titoli dei capitoli e dei paragrafi furono assegnati dallo stesso Engels. Per facilità di lettura e comodità di con-

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fronto con l’edizione engelsiana del III libro del Capitale, tali titoli sono stati mantenuti nella presente edizione ma posti tra parentesi quadre e, ove ritenuto necessario, utilizzando termini diversi da quelli adoperati nell’edizione di Engels e conseguentemente nelle traduzioni italiane condotte su di essa. Segni grafici Rispetto all’edizione tedesca sono stati mantenuti i seguenti segni grafici: [] integrazione redazionale (dei curatori della MEGA o del traduttore) {} parentesi quadre nel testo di Marx ‹› segni di Marx usati per delimitare righe o pagine di testo (in genere inserti) < minore di (segno presente nel manoscritto) > maggiore di (segno presente nel manoscritto) |1| numeri di pagina del manoscritto originale Note sulla traduzione del manoscritto del III libro del Capitale Si segnalano di seguito le più rilevanti scelte di traduzione (si è comunque riportato in nota al testo tradotto il termine tedesco ogni qual volta si è ritenuto opportuno richiamare le scelte adottate): Arbeiter

si è in generale ritenuto preferibile tradurre «lavoratore», anziché «operaio». Quest’ultima traduzione, tra l’altro, in alcuni passi darebbe luogo a incongruenze: ad esempio la traduzione del passo sie aufhören als Eigentum der unmittelbaren Arbeiter zu erscheinen (a p. 242 del manoscritto, MEGA II/4.2.339) non ammette traduzione diversa da «essi cessano di apparire come proprietà dei lavoratori immediati». Si sono però mantenute, per motivi di maggiore consuetudine e familiarità d’uso, le traduzioni di «classe operaia» per Arbeiterklasse e di «popolazione operaia» per Arbeiterbevölkerung. Bestandtheil è stato reso (al pari del relativo plurale), a seconda dei contesti, con «parte costitutiva», «parte che compone», «componente» o anche semplicemente «parte» (soprattutto nel composto Werthbestandtheil, «parte di valore»). Fall si è scelto di non tradurre sempre questo termine con «caduta» ma, a seconda dei contesti, anche in modo differente: «diminuzione» e «calo». Lo stesso si è fatto per il verbo sostantivato corrispondente (das Fallen) e per l’aggettivo fallend (in questo caso si è tradotto «in diminuzione», ma anche «decrescente»). A favore di questa scelta militano diversi ordini di motivi. In primo luogo una diversa traduzione è in qualche caso obbligata (in particolare nel caso dell’aggettivo, che sarebbe impossibile tradurre con «cadente»). In secondo luogo, il termine «caduta» può risultare fuorviante, in quanto sia inteso come un «crollo» brusco e improvviso. E in effetti la teoria marxiana ha dato origine ad alcune interpretazioni crolliste. Queste interpretazioni (oltre a essersi rivelate chiaramente erronee sul piano della diagnosi degli sviluppi del capitalismo), sono sbagliate già in termini di ermeneutica testuale: è infatti lo stesso

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Marx a insistere sul carattere di semplice «tendenza» (Tendenz), per di più non lineare, della legge sulla caduta del saggio di profitto. Infine, il sostantivo Fall (al pari dell’aggettivo corrispondente) in tedesco ha un significato che non è riducibile alla caduta improvvisa, ed infatti nel testo marxiano è spesso usato in modo interscambiabile con il sostantivo Abnahme (diminuzione) e col relativo aggettivo (abnehmend), che indicano un processo graduale. Productionsweise in genere è reso con «modo di produzione». In un caso esso ha però il significato di «metodo di produzione» (poco oltre nel testo di Marx troviamo, con lo stesso significato, il termine Productionsprocedur: cfr. p. 241-2 del manoscritto, MEGA II/4.2.339). Productivkraft è stato tradotto, a seconda dei contesti, con «forza produttiva» o «produttività» (ad esempio nell’espressione Productivkraft der Arbeit); va notato che in quest’ultimo significato Marx adopera anche Productivität. Il plurale Productivkräfte è stato invece invariabilmente tradotto con «forze produttive». Schranke questo termine (e il plurale relativo) è stato reso con «limite», più raramente con «confine» (altrove è reso anche con «ostacolo» e «barriera»). Umfang questo termine, presente anche in composti (ad esempio Werthumfang, Massenumfang, Gesammtumfang), è stato tradotto a seconda dei contesti con «entità» e «volume», più raramente con «estensione». Verhältnis questo termine è stato tradotto, a seconda dei contesti, con «rapporto», «rapporto proporzionale», «proporzione». Nel primo significato Marx usa anche Proportion (ma in qualche caso l’aggettivo corrispondente proportionell deve invece essere tradotto con «relativo»). In un caso si è ritenuto opportuno tradurre il composto Verwerthungsverhältnisse con «condizioni di valorizzazione» (p. 242 del manoscritto, MEGA II/4.2.340). Ringraziamenti Le lontane origini di questo lavoro risalgono ai miei studi universitari di Pisa, e più precisamente ai corsi su Marx tenuti all’università da Nicola Badaloni e da Lorenzo Calabi e a quelli sull’idealismo tedesco tenuti da Claudio Cesa alla Scuola Normale. Le origini più prossime sono costituite da un’idea di Paolo Virno prima raccolta con entusiasmo, e poi seguita con pazienza, da Sergio Bianchi e Ilaria Bussoni. In mezzo ci sono anni di confronti sul pensiero di Marx e sul marxismo, in particolare con Massimo Arciulo, Alberto Burgio, Emanuele Cafagna, Renato Caputo, Guglielmo Carchedi, Carla Filosa, Hermann Kopp, Marco Melotti, Enzo Modugno, Domenico Moro, Gianfranco Pala, Francesco Schettino, Bruno Steri, Luciano Vasapollo. Il mio sentito ringraziamento va a tutte le persone citate, come pure ad Antonella Ghignoli, che ha rivisto il mio saggio introduttivo. Un ringraziamento particolare, infine, ad Alessandro Mazzone, che ha avuto la pazienza di rivedere assieme a me, parola per parola, l’intera traduzione del manoscritto del III libro del Capitale. Senza il suo aiuto affettuoso e attento il valore d’uso di questo lavoro sarebbe molto minore. Ovviamente, di ogni eventuale imperfezione residua l’unico responsabile sono io. Questo libro è dedicato alla memoria di Marco Melotti. 58

Cronache della crisi

1. La speculazione come causa apparente della crisi [1.1.: K. Marx- F. Engels, Revue, in «Neue Rheinische Zeitung. Politisch-Ökonomische Revue», V-VI fascicolo, maggio-ottobre 1850, MEW 7.421; Rassegna, tr. it. di M. Ulivieri, MEOC 10.501; 1.2.: K. Marx, The Economic Crisis in Europe, in «NewYork Daily Tribune», n. 4828 del 9 ottobre 1856, ora in MECW 15.109-110; La crisi economica in Europa, tr. it. di V. Giacché]

[1.1.] Gli anni 1843-1845 furono gli anni della prosperità industriale e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi ininterrotta dell’industria negli anni 1837-42. Come sempre, con la prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione. [1.2.] Il tratto distintivo dell’attuale periodo di speculazione in Europa è la frenesia speculativa generalizzata. Anche in passato si sono avute febbri speculative – su cereali, ferrovie, miniere, banche e cotonifici – insomma manie speculative di ogni genere possibile; però, benché nel corso delle grandi crisi commerciali del 1817, 1825, 1836, 1847/8 fosse stato interessato ogni ramo dell’industria e del commercio, vi era allora una mania dominante, che dava a ogni periodo il suo carattere determinato. Anche se tutti i rami dell’economia erano pervasi dallo spirito della speculazione, tuttavia ogni speculatore si limitava al proprio settore. Al contrario, il principio guida del Crédit Mobilier, il principale esponente della mania speculativa dei nostri giorni, non è la speculazione in un dato ambito, ma la speculazione sulla speculazione, e il fatto di rendere universale l’imbroglio nella stessa misura in cui lo accentra. Inoltre origine e crescita della mania speculativa attuale evidenziano un’ulteriore differenza: essa è nata non in Inghilterra, ma in Francia. Gli speculatori francesi attuali, rispetto agli speculatori inglesi degli anni prima citati, stanno nello stesso rapporto in cui i deisti francesi del XVIII secolo stavano rispetto ai deisti in-

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glesi del XVI secolo. Gli uni fornirono i materiali, gli altri apportarono la forma universale che rese possibile la diffusione del Deismo nell’intero mondo civilizzato del XVIII secolo. Gli Inglesi sono inclini a rallegrarsi del fatto che il centro della speculazione si è spostato dalla loro isola libera e sobria al continente europeo, caotico e dominato da despoti: in questo modo però dimenticano la grande inquietudine con cui seguono il rapporto mensile della Banca di Francia, per le sue ripercussioni sulle riserve d’oro custodite nel Sancta Sanctorum della Banca d’Inghilterra; dimenticano che in massima parte inglese è il capitale che riempie di nettare divino le arterie del Crédit Mobilier a livello europeo; dimenticano che il «sano» parossismo del commercio e la «sana» sovrapproduzione inglesi, che ora lodano a causa di esportazioni che hanno raggiunto la bella cifra di circa 110.000.000 di sterline, sono la diretta conseguenza dell’«insana» speculazione che rimproverano al continente, così come la loro politica liberale dal 1854 al 1856 è la conseguenza del colpo di stato1 di Bonaparte. Non si può negare, tuttavia, che essi non abbiano alcuna colpa nel covare questa bizzarro intruglio di socialismo imperiale, speculazione azionaria saint-simonistica e imbroglio filosofico di cui si compone ciò che va sotto il nome di Crédit Mobilier. La speculazione inglese, in stridente contrasto con questa raffinatezza continentale, è tornata alla sua più grossolana e primitiva forma della truffa, alla truffa nuda e cruda, senza alcun infingimento. La truffa era il segreto di Paul, Strahan & Bates, della Tipperary Bank di sadleiriana memoria, delle grandi operazioni di Cole, Davidson & Gordon nella City; e nella parola «truffa» si compendia la triste, ma semplice storia della Royal British Bank di Londra2. 2. Lo scoppio della crisi e il moralismo degli economisti [2.1.: The European Crisis, in «New-York Daily Tribune», n. 4878 del 6 dicembre 1856, ora in MECW15.136-138; La crisi in Europa, tr. it. di V. Giacché; 2.2.: The Bank Act of 1844 and the Monetary Crisis in England, in «New-York Daily Tribune», n. 5176 del 21 novembre 1857, in MECW 15.383; Il Bank Act del 1844 e la crisi monetaria in Inghilterra, tr. it. di V. Giacché; 2.3.: Pauperism and Free Trade. The Approaching Commercial Crisis, in «New-York Daily Tribune», n. 3601, 1° novembre 1852, in MECW 11.363; Pauperismo e libero scambio. La crisi commerciale incombente, tr it. di E. Fubini, MEOC 11.375]

1. coup d’état 2. [Si tratta di episodi di bancarotta e di truffa avvenuti tra il 1855 e il 1857 in Inghilterra e Irlanda, che ebbero grande risonanza all’epoca. Il fallimento della Tipperary Bank, avvenuto nel febbraio del 1856, fece particolare scalpore per il fatto di coinvolgere uno dei più prominenti politici irlandesi dell’epoca, John Sadleir, che in seguito al crack si suicidò].

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[2.1.] Le notizie che hanno recato con sé i due piroscafi giunti in settimana dall’Europa sembrano chiaramente rinviare il crollo definitivo della speculazione e dei giochi in borsa che gli uomini sui due lati dell’oceano istintivamente prevedono come nell’attesa timorosa di una rovina inevitabile. Nonostante il rinvio, questo crollo è certo; infatti il carattere cronico che ha assunto l’attuale crisi finanziaria non fa che annunciarne un esito ancora più violento e distruttivo. Quanto più a lungo si protrae la crisi, tanto più salato sarà il conto. In questo momento l’Europa si trova nella situazione di un uomo sull’orlo della bancarotta, che è costretto a portare avanti tutte le iniziative che lo hanno rovinato e al tempo stesso ad appigliarsi disperatamente a tutti i mezzi possibili con i quali spera di rinviare ed evitare l’ultimo, terribile fallimento. Si esercitano nuove richieste di pagamento3 di azioni di società che per la maggior parte esistono solo sulla carta. Grandi somme di denaro contante vengono investite in speculazioni dalle quali non potranno mai essere ritirate, mentre l’elevato tasso d’interesse – attualmente quello della Banca d’Inghilterra è al 7% – è in certo qual modo il nunzio severo del giudizio imminente. È impossibile, anche se andassero completamente a buon fine le ingegnerie finanziarie che ora si tenteranno, che le innumerevoli speculazioni di borsa sul continente possano essere portate avanti ancora per molto. Nella sola Prussia renana vi sono settantadue società minerarie con un capitale azionario di 79.797.333 talleri. Proprio ora il Crédit Mobilier austriaco, o per meglio dire il Crédit Mobilier francese in Austria, incontra enormi difficoltà nel tentativo di ottenere il pagamento della seconda rata sulle sue azioni, dal momento che è paralizzato dalle misure del governo austriaco tese a ripristinare il pagamento in contanti. Il denaro da versare al Tesoro imperiale per l’acquisto di ferrovie e miniere deve, per contratto, essere pagato in moneta metallica, la qual cosa ha per conseguenza un deflusso delle risorse finanziarie del Crédit Mobilier di oltre 1.000.000 di dollari al mese sino al febbraio 1858. D’altra parte i problemi di liquidità dei concessionari delle ferrovie in Francia sono così gravi che la ferrovia Grand Central si è vista costretta a licenziare cinquecento impiegati e quindicimila operai sulla tratta di Mulhouse, e la società ferroviaria Lione e Ginevra ha dovuto limitare o addirittura interrompere le sue attività. Il quotidiano «Indépendance belge» è stato sequestrato due volte in Francia, perché aveva spifferato questi fatti. Vista la suscettibilità del governo francese a ogni rivelazione dell’effettiva situazione 3. calls

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del commercio e dell’industria francesi sono degne di nota queste parole, sfuggite di bocca al Sig. Petit, Rappresentante del Procuratore Generale, in occasione della recente apertura della sessione dei Tribunali di Parigi: Controllate le statistiche e apprenderete qualcosa di interessante circa le tendenze attuali del commercio. Il numero delle bancarotte cresce di anno in anno. Nel 1851 sono state 2.305; nel 1852, 2.478; nel 1853, 2.671 e nel 1854 3.691. Questa crescita si manifesta sia tra le bancarotte fraudolente che tra quelle semplici. Le prime sono cresciute del 66% dal 1851, le seconde del 100%. Le frodi in relazione a genere, qualità e quantità delle merci vendute, come pure l’utilizzo di strumenti di misura e pesi truccati, sono cresciuti in proporzioni spaventose. Nel 1851 si sono verificati 1.717 casi del genere; nel 1852, 3.763; nel 1853, 7.074, e nel 1854 7.831.

Certo, la stampa britannica, di fronte a questi avvenimenti sul continente, ci assicura che il peggio della crisi è passato, ma noi cerchiamo invano una prova conclusiva in tal senso. Non la troviamo nell’innalzamento del tasso di sconto al sette per cento da parte della Banca d’Inghilterra; e neppure nell’ultimo report della Banca di Francia, che non soltanto fa intendere chiaramente di essere stato «ritoccato», ma addirittura mostra con sufficiente evidenza che la Banca, nonostante la più rigida limitazione dei prestiti, dei mutui, delle operazioni di sconto e dell’emissione di banconote, non è stata in grado di frenare il deflusso di metalli preziosi né di cavarsela senza far aggio sull’oro. Comunque sia, una cosa è certa: il governo francese è ben lontano dal condividere le opinioni ottimistiche che si sforza di diffondere in patria e all’estero. A Parigi è noto che l’imperatore durante le ultime sei settimane non è indietreggiato neppure di fronte ai più straordinari sacrifici di denaro pur di mantenere il prezzo dei titoli di Stato sopra il 66%, poiché in lui si è radicato non il semplice convincimento, ma la certezza superstiziosa che la caduta al di sotto del 66% farebbe suonare le campane a morto per l’impero. In tutta evidenza l’impero francese si distingue qui dall’impero romano – quest’ultimo temeva la morte dall’avanzata dei barbari, il primo dalla ritirata degli speculatori di borsa. [2.2.] Questa crisi si trova oltre la portata del potere dei governi. Non appena le prime notizie della crisi americana hanno raggiunto le coste dell’Inghilterra, gli economisti inglesi hanno enunciato una teoria che, se non può avanzare alcuna pretesa di genia-

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lità, può almeno ambire all’originalità. Si è detto che il commercio inglese era sano, ma – ahimé! – i suoi clienti, e in particolare gli yankees, erano malati. La sana situazione di un commercio, che è in buona salute da uno solo dei suoi lati – ecco un pensiero degno di un economista inglese4. Si dia uno sguardo all’ultima relazione semestrale pubblicata dal ministero inglese del commercio per il 1857, e si scoprirà che, dell’export totale di prodotti e merci industriali, il 30% è andato negli Stati Uniti, l’11% nelle Indie Orientali e il 10% in Australia. Ora, mentre il mercato americano è chiuso e lo sarà per molto tempo, quello indiano, che negli ultimi due anni è stato saturato, sarà ridotto in misura notevole per i contraccolpi della rivolta5, e il mercato australiano è talmente inondato di prodotti che ora merci inglesi di ogni tipo sono vendute più a buon mercato ad Adelaide, a Sydney e Melbourne che a Londra, Manchester o Glasgow. [2.3.] Il parossismo rappresenta l’acme della prosperità; non produce la crisi ma ne provoca lo scoppio. So molto bene che gli stregoni ufficiali dell’economia inglese considereranno questa opinione come eccessivamente eterodossa. Ma, quando mai, sin dai tempi di «Prosperity Robinson»6, di quel famoso cancelliere dello scacchiere che nel 1825, alla vigilia dell’esplosione della crisi, inaugurò il parlamento profetizzando un’èra di immensa e incrollabile prosperità, quando mai questi ottimisti borghesi hanno previsto o preconizzato una crisi? Non c’è stato periodo di prosperità in cui essi non abbiano approfittato dell’occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale e industriale con banalità moralistiche, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza. 4. [Lo stesso concetto viene espresso da Marx nella lettera a Engels del 20 ottobre 1857: «I pianti dei pennivendoli inglesi sul fatto che il loro commercio sarebbe sano, ma i loro clienti all’estero malsani, sono originali e spassosi»: cfr. MEW 29.198; tr. it. di M. Montinari in MEOC 40.208 (traduzione riveduta)] 5. [All’inizio del 1857 scoppiò in India una sollevazione diretta in particolare contro il potere della Compagnia britannica delle Indie Orientali, la compagnia privata che all’epoca amministrava l’India per conto della Gran Bretagna. La rivolta fu denominata «Rivolta dei Sepoj», dal nome dei militari indiani di cui la Compagnia si serviva per mantenere il proprio potere in India. L’insurrezione, che ebbe termine a metà 1858, è ricordata in India come la Prima Guerra d’Indipendenza.] 6. [Frederick John Robinson, noto anche come Lord Goderich (1782-1859). Fu cancelliere dello scacchiere dal 1823 al 1827 e primo ministro del Regno Unito dal 1827 al 1828.]

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3. Chi ha colpa della crisi? [da: 3.1.: British commerce and finance, in «New-York Daily Tribune» n. 5445, 4 ottobre 1858, ora in MECW 16.33-36; Commercio e finanza in Gran Bretagna, tr. it. di L. Formigari in MEOC 16.34-37; 3.2.: The Trade Crisis in England, in «New-York Daily Tribune», n. 5196 del 15 dicembre 1857, in MECW 15.400-401; La crisi commerciale in Inghilterra, tr. it. di V. Giacché]

[3.1.] Eccoci dunque alla domanda: quali sono state le vere cause della crisi? La commissione7 afferma di aver accertato «con compiacimento che la recente crisi commerciale del paese, come pure quella dell’America e dell’Europa settentrionale, fu dovuta principalmente all’eccesso di speculazioni e all’abuso del credito». Il valore di questa conclusione sicuramente non è per nulla sminuito dal fatto che il mondo non ha aspettato, per arrivarci, la commissione parlamentare, e che tutto il vantaggio che la società può trarre dalla rivelazione dev’essere ormai assolutamente scontato. Accettata per vera l’affermazione (e noi siamo ben lungi dal contestarla), essa risolve forse il problema sociale, o semplicemente cambia i termini della questione? Perché venga fuori un sistema di credito fittizio ci vogliono sempre due parti in causa: chi prende e chi dà in prestito. Che la prima fra le due parti sia sempre desiderosa di lavorare con i capitali altrui, e cerchi di arricchirsi con l’altrui rischio, sembra una tendenza così straordinariamente ovvia che il caso contrario costituirebbe una sfida alla nostra intelligenza. Il problema è piuttosto di capire come mai, presso tutte le moderne nazioni industriali, la gente sia presa, per cosi dire, da smanie periodiche di dar via quel che possiede cedendo ai più trasparenti inganni e a dispetto di solenni ammonimenti ripetuti a intervalli decennali. Quali sono le circostanze sociali che riproducono, quasi regolarmente, queste stagioni di generale illusione, di speculazione selvaggia e credito fittizio? Se si riuscisse a individuarle una volta per tutte, si avrebbe un’alternativa molto semplice: o sono circostanze controllabili dalla società, oppure sono intrinseche all’attuale sistema produttivo. Nel primo caso la società potrebbe scongiurare le crisi; nel secondo, finché permane il sistema, bisogna sopportarle, come, in natura, i cambiamenti di stagione. Ci sembra che il difetto essenziale, non solo del recente rapporto parlamentare, ma anche del «Rapporto sulla crisi commerciale del 1847» e di tutti gli altri simili che li hanno preceduti, sia questo: che trattano ogni nuova crisi come fosse un fenomeno a sé stante, 7. [La commissione incaricata dalla Camera dei Comuni inglese di indagare e redigere un rapporto sulla crisi del 1857-8.]

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che compare per la prima volta sull’orizzonte sociale, e che dev’essere perciò spiegato con avvenimenti, moventi e agenti del tutto particolari, o presunti tali, propri del periodo intercorso fra l’ultimo sconvolgimento e il precedente. Se i filosofi della natura avessero proceduto con lo stesso metodo puerile, il mondo sarebbe colto di sorpresa dal semplice riapparire di una cometa. Nel tentativo di mettere a nudo le leggi che regolano le crisi del mercato mondiale, bisogna spiegare non solo il loro carattere periodico, ma anche le date esatte della loro periodicità. Inoltre, i tratti distintivi propri di ciascuna nuova crisi commerciale non devono mettere in ombra gli aspetti a tutte comuni. Trascenderemmo i limiti e gli scopi del nostro attuale proposito se tracciassimo sia pure le linee sommarie d’una ricerca siffatta. Una cosa è però fuori discussione: che la commissione parlamentare, ben lungi dal risolvere la questione, non l’ha neppure posta nei suoi giusti termini. I fatti su cui la commissione si dilunga, nell’intento d’illustrare il sistema di credito fittizio, mancano, naturalmente, di ogni interesse di novità. Il sistema stesso fu fatto funzionare in Inghilterra con un meccanismo molto semplice. Il credito fittizio veniva creato per mezzo di cambiali di comodo. Queste venivano scontate principalmente da banche ordinarie della provincia, che le scontavano poi a loro volta presso agenti londinesi. Gli agenti londinesi, che badavano alla girata della banca e non ai titoli in se stessi, a loro volta non fidavano sulle proprie riserve ma sulle facilitazioni offerte loro dalla Banca d’Inghilterra. I principi ispiratori degli agenti londinesi si possono desumere dal seguente aneddoto, raccontato alla commissione da Dixon, ex direttore generale della Borough Bank di Liverpool: In una conversazione occasionale sull’intera questione, uno degli agenti osservò che, se non fosse stato per la legge di Robert Peel8, la Borough Bank avrebbe dovuto chiudere. Risposi che, quali che fossero i meriti della legge di Robert Peel, da parte mia non avrei alzato un dito per aiutare la Borough Bank a superare le sue difficoltà, se fare ciò avesse significato permetterle di continuare a fare gli affari inauditi che fin lì aveva fatto; e dissi che se, prima di diventarne il direttore generale, avessi conosciuto, della condotta della Borough Bank, anche solo la metà di quello che lui doveva aver conosciuto, vedendone scontare molte cambiali, non sarebbe mai riuscito a far di me neppure un azionista». La risposta fu: «Né ci sareste mai riuscito voi. Scontare le cambiali mi andava benissimo, ma neanch’io sarei certo voluto diventare azionista.

8. [Il Bank Charter Act del 19 luglio 1844.]

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La Borough Bank di Liverpool, la Western Bank of Scotland di Glasgow, la Northumberland and Durham District Bank, le tre banche sul cui operato la commissione ha intrapreso la più severa indagine, sembrano recare la palma della cattiva amministrazione. La Western Bank di Glasgow, che aveva 101 filiali sparse per la Scozia e rapporti in America che si facevano figurare a solo uso e consumo della commissione, alzò i dividendi, nel 1854, dal 7 all’8 per cento, nel 1856 dall’8 al 9 per cento e dichiarò un dividendo del 9 per cento ancora nel giugno del 1857, quando la maggior parte del suo capitale era bell’e andato. I suoi sconti, che nel 1853 erano di 14.987.000 sterline, erano saliti nel 1857 a 20.691.000. I risconti della banca a Londra, che ammontavano a 407.000 sterline nel 1852, erano saliti a 5.407.000 nel 1856. Poiché l’intero capitale della banca era di 1.500.000 sterline, all’atto del suo fallimento nel novembre 1857, la somma di 1.603.000 risultò dovuta soltanto dai quattro garanti McDonald, Monteith, Wallace e Pattison. Una delle operazioni principali della banca consisteva nel fare prestiti su «interessi»: vale a dire che si fornivano a imprenditori capitali la cui garanzia stava nell’eventuale vendita del prodotto che doveva essere creato per mezzo del prestito anticipato. La leggerezza con cui venivano condotte le operazioni di sconto risulta dal fatto che le cambiali di McDonald furono accettate da centoventisette diverse persone, su trentasette delle quali soltanto s’erano assunte informazioni, e su ventuno di queste le informazioni erano state insoddisfacenti o addirittura decisamente cattive. Pure, il buon nome di McDonald non ne fu scalfito. Fin dal 1848, era stata apportata una modifica sui libri contabili della banca, per cui i debiti erano diventati crediti, e le perdite attivi. Scrive il rapporto: « II modo in cui poté essere operato questa specie di travestimento risulterà forse meglio comprensibile se si spiega come ci si liberò di un debito chiamato debito Scarth, inserendolo sotto una diversa voce nell’attivo. Quel debito ammontava a 120.000 sterline e avrebbe dovuto figurare tra le cambiali protestate. Invece fu diviso fra quattro o cinque conti di credito aperti, intestati a coloro che avevano accettato le cambiali di Scarth. A questi conti fu addebitato un importo pari all’ammontare delle cambiali da ciascuno accettate, e si stipulò un’assicurazione sulla vita dei debitori pari a 75.000 sterline. Su queste assicurazioni, 33.000 sterline sono state pagate come premio dalla banca stessa. Tutto ciò risulta ora all’attivo sui libri contabili». Da ultimo, esaminando la questione, si scopri che 988.000 sterline erano dovute alla banca dai suoi stessi azionisti.

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L’intero capitale della Northumberland and Durham District Bank ammontando a sole 600.000 sterline, circa 1.000.000 fu dato da essa in prestito all’insolvente Derwent Iron Company. Jonathan Richardson, l’animatore della banca, quello che in realtà amministrava tutto, era, se non direttamente socio della Derwent Iron Company, largamente interessato in quella poco promettente impresa, poiché deteneva i diritti sul minerale che essa lavorava. Questo caso presenta dunque la peculiare caratteristica dell’intero capitale d’una banca per azioni divorato con la sola mira di favorire le speculazioni private di uno dei suoi direttori amministrativi. Questi due stralci delle rivelazioni contenute nel rapporto della commissione riflettono una luce alquanto squallida sulla moralità e in generale sulla condotta delle società per azioni. È evidente che queste imprese, la cui influenza rapidamente crescente nell’economia delle nazioni può essere difficilmente sopravvalutata, sono ben lontane dall’avere elaborato un loro proprio statuto. Meccanismi possenti nello sviluppo delle forze produttive della società moderna non hanno ancora creato, come avevano fatto le corporazioni medievali, una coscienza collettiva che sostituisca quella responsabilità individuale che, in forza della stessa loro organizzazione, si sono sforzati di creare. [3.2.] Mentre noi, da questo lato dell’oceano9, ci godevamo il nostro piccolo preludio al frastuono sinfonico della bancarotta che è poi esplosa in tutto il mondo, il nostro eccentrico contemporaneo, il «London Times», suonava trionfali variazioni retoriche sul tema del carattere «sano» del commercio inglese. Ora, però, tocca corde diverse, e più tristi. In uno dei suoi ultimi numeri, quello del 26 novembre, che ieri è stato sbarcato dall’«Europa» su questi lidi felici, il giornale spiega che «il ceto degli affari in Inghilterra è marcio fino al midollo». Poi, caricatosi sino al culmine dell’indignazione morale, esclama: Ciò che provoca i maggiori disastri è il processo corruttivo perseguito per gli otto o dieci anni di prosperità che precedono la resa dei conti. Il veleno viene versato goccia a goccia, allevando bande di speculatori e falsificatori di cambiali privi di scrupoli, ed elevandoli a modelli esemplari di spirito imprenditoriale inglese di successo, cosicché viene scoraggiata la fiducia nel lento arricchimento fondato sull’onesta operosità. (…) Ogni focolaio di corruzione in tal modo forma una cerchia che si allarga sempre più.

9. [Si intende: negli Stati Uniti, dove era pubblicato il «New-York Daily Tribune».]

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Ora non ci chiederemo se i giornalisti inglesi, che per un decennio hanno diffuso la dottrina secondo cui l’epoca delle crisi commerciali si era definitivamente chiusa con l’introduzione del Libero Commercio, abbiano ora il diritto di trasformarsi improvvisamente da servili panegiristi a censori romani dell’arricchimento moderno. La seguente tabella, che è stata di recente presentata ad assemblee di creditori in Scozia, potrà tuttavia servire da commento fattuale circa il carattere «sano» del commercio inglese. John Monteith & Co., passività superiori al patrimonio D. & T. Macdonald Godfrey, Pattison & Co. William Smith & Co. T. Trehes, Robinson & Co. Totale sterline

430.000 sterline 334.000 sterline 240 .000 sterline 104 .000 sterline 75 .000 sterline 1.183.000

«Da questa tabella è evidente», scrive il «North British Mail», che – in base ai dati stessi delle procedure fallimentari – i creditori di cinque imprese hanno perso 1.183.000 sterline. Però proprio il ripetuto insorgere di crisi a intervalli regolari nonostante tutti i moniti del passato smentisce l’idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui. Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo. Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre come la vera causa di tutte le malattie. Sinora l’epicentro della crisi europea è rimasto in Inghilterra, e come si è visto in precedenza10, la crisi ha mutato volto nella stessa Inghilterra. Mentre le prime ripercussioni del collasso avvenuto da noi in America si erano manifestate in Gran Bretagna sotto la forma di panico monetario, accompagnato da una depressione generale del mercato e seguito un po’ più tardi dalla crisi del settore industriale, adesso la crisi industriale è al primo posto e i problemi monetari all’ultimo. Se per un momento l’epicentro dell’esplosione era stata Londra, ora lo è Manchester. 10. [Marx si riferisce qui all’articolo The British revulsion, pubblicato nel novembre 1857: vedi MECW 15.390.]

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4. La crisi si propaga. Interventi pubblici e socializzazione delle perdite [da: 4.1.: The Financial Crisis in Europe, in «New-York Daily Tribune», n. 5202 del 22 dicembre 1857, MECW 15.404-408; La crisi finanziaria in Europa, tr. it. di V. Giacché; 4.2.: Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5, p. 344 = MEGA II/4.2.543; tr. it. di V. Giacché; 4.3.: Lettera a Engels, 8 dicembre 1857, MEW 29.223-224; tr. it. di M.A. Manacorda in MEOC 40.236]

[4.1.] Con la posta che è arrivata ieri mattina con il «Canada» e l’«Adriatic» siamo giunti in possesso della cronaca di una settimana di crisi finanziaria in Europa. È una storia che si può riassumere in poche parole. La crisi ha avuto ancora il suo centro ad Amburgo, si è ripercossa con maggiore o minore violenza sulla Prussia e ha gradualmente riportato il mercato monetario inglese nella situazione di instabilità da cui era sembrato sul punto di riprendersi. Un’ulteriore eco della tempesta è giunta da Spagna e Italia. La paralisi dell’attività industriale e la conseguente miseria della classe operaia stanno rapidamente diffondendosi su tutta l’Europa. D’altra parte, la capacità di resistenza all’infezione sin qui mostrata dalla Francia costituisce per coloro che si occupano di economia politica un enigma più difficile da risolvere della crisi generale stessa. Si era pensato che la crisi di Amburgo avesse superato il suo apice dopo il 21 novembre, con la fondazione del Garantie-Disconto-Verein11, per il quale erano stati sottoscritti complessivamente 12.000.000 di marchi banco12, con l’obiettivo di assicurare la circolazione di cambiali e note di credito, che dovevano recare il timbro del Verein. Tuttavia, qualche giorno dopo, il ripetersi di episodi di bancarotta e avvenimenti quali il suicidio dell’agente di cambio Gowa furono l’annuncio di nuove sventure. Il 26 novembre il panico era nuovamente generale, e, dopo il Disconto-Verein, ora per fermarlo si fece avanti il governo stesso della città. Il 27 il Senato avanzò la proposta, approvata dalla cittadinanza ereditaria della città, di emettere titoli fruttiferi (titoli dell’amministrazione delle finanze) sino a un ammontare di 15.000.000 di marchi banco per concedere anticipi su merci durevoli o su titoli pubblici – anticipi il cui ammontare doveva situarsi tra il 50 e il 66 2/3 % del valore delle merci date in pegno. Questo secondo tentativo di riportare alla normalità il commercio fallì al pari del primo – entrambi assomigliavano alle 11. Unione di disconto e garanzia [Si tratta di un consorzio che controgarantiva cambiali e note di credito emesse da imprese, una sorta di prestatore di ultima istanza dell’epoca] 12. [Il «marco banco» era la moneta di conto tradizionalmente adoperata ad Amburgo e dalla Lega Anseatica e corrispondeva a una determinata quantità di metalli preziosi, in particolare argento.]

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vane invocazioni di aiuto che precedono l’inabissarsi di una nave. La garanzia del Disconto-Verein, come emerse con chiarezza, abbisognava essa stessa di una nuova garanzia, e gli anticipi dello Stato, limitati nel loro importo e anche quanto a generi di merci su cui erano praticati, proprio a seguito delle condizioni a cui erano prestati risultarono tanto più inutili, quanto più i prezzi crollavano. Per tenere su i prezzi, e quindi per allontanare la vera causa del disastro, lo Stato dovrebbe pagare i prezzi in vigore prima dello scoppio del panico commerciale e scontare delle cambiali che non sono più altro che il controvalore delle bancarotte altrui. In altre parole, il patrimonio dell’intera società, che il governo rappresenta, dovrebbe ripianare le perdite subite dai capitalisti privati. Questo genere di comunismo, in cui la reciprocità è assolutamente unilaterale, esercita una certa attrattiva sui capitalisti europei. Il 29 novembre fallirono venti grandi ditte commerciali di Amburgo oltre a numerose imprese di Altona; lo sconto delle cambiali fu soppresso, i prezzi delle merci e dei titoli divennero puramente nominali, e il corso degli affari si bloccò. Dall’elenco delle bancarotte si rileva che cinque di esse avvennero a causa di operazioni bancarie con Svezia e Norvegia, con debiti della ditta Ulberg & Cramer che ammontavano a 12.000.000 di marchi banco; cinque bancarotte si verificarono nella rivendita di generi coloniali, quattro nei traffici sul mar Baltico, due nell’esportazione di beni industriali, due interessarono società assicurative, una la borsa, una le costruzioni navali. La Svezia dipende così completamente da Amburgo come esportatore, agente di cambio e banchiere, che la storia del mercato di Amburgo coincide con quella del mercato di Stoccolma. In conseguenza di ciò, due giorni dopo il crollo un telegramma informò che la bancarotta di Amburgo aveva causato bancarotte a Stoccolma e che anche qui il sostegno da parte del governo si era dimostrato inefficace. Ciò che vale a questo riguardo per la Svezia, vale a maggior ragione per la Danimarca, il cui centro commerciale, Altona, non è che un sobborgo di Amburgo13. Il 1° dicembre molte imprese chiusero i battenti; tra le altre, due ditte molto antiche: la ditta Conrad Warneke, attiva nel commercio coloniale, in particolare di zucchero, che vantava un capitale di 2.000.000 di marchi banco e aveva estese relazioni con Germania, Danimarca e Svezia, e l’impresa Lorent am Ende & Co. che commerciava con Svezia e Norvegia. Un armatore e grossista si suicidò a causa delle proprie difficoltà economiche. 13. [La città di Altona all’epoca faceva ancora parte della Danimarca; fu annessa alla Prussia pochi anni dopo, nel 1866, assieme allo Schleswig-Holstein.]

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Le grandi proporzioni assunte dal commercio di Amburgo possono essere facilmente desunte dal fatto che al momento sono in giacenza nei magazzini e nel porto merci di tutti i tipi del valore di circa 500.000.000 di marchi banco per conto di commercianti di Amburgo. La repubblica di Amburgo ora fa uso dell’unico strumento di cui ancora dispone contro la crisi, esonerando i suoi cittadini dal dovere di pagare i propri debiti. Probabilmente sarà emanata una legge che consentirà la proroga di un mese di tutte le cambiali in scadenza. Per quanto riguarda la Prussia, i giornali non prendono neppure nota della grave situazione dei distretti di fabbrica della Renania e della Westfalia, siccome essa non ha ancora provocato fallimenti su vasta scala; le bancarotte per ora sono rimaste limitate agli esportatori di grano di Stettino e Danzica e a circa quaranta fabbricanti di Berlino. Il governo prussiano è intervenuto consentendo alla Berliner Bank di concedere anticipi su merci stoccate e ha eliminato le leggi anti-usura. La prima di queste due misure si dimostrerà vana a Berlino come lo è stata a Stoccolma e ad Amburgo, la seconda si limita a porre la Prussia sullo stesso piano di altri paesi che esercitano il commercio. Il crac di Amburgo dà una risposta conclusiva a quelle menti fantasiose le quali ritengono che la crisi attuale nasca dal rialzo artificiale dei prezzi dovuto alla carta moneta. Per quanto riguarda la circolazione monetaria, Amburgo in effetti rappresenta il polo opposto rispetto al nostro Paese14. Infatti vi circola soltanto moneta d’argento. Non vi è alcuna circolazione di cartamoneta, e anzi ci si vanta di avere soltanto denaro puramente metallico quale mezzo di circolazione. Nondimeno, il panico attuale vi infuria con grande forza; non solo: fin dal comparire delle crisi commerciali generali, la cui scoperta non è antica quanto quella delle comete, la città di Amburgo è divenuta la loro piazza preferita. Durante l’ultimo terzo del XVIII secolo ha offerto in due casi uno spettacolo come l’attuale, e, se si differenzia da altri grandi centri commerciali del mondo per qualche segno distintivo, è per la frequenza e la violenza delle oscillazioni del tasso d’interesse. Se da Amburgo ci volgiamo all’Inghilterra, troviamo che il clima del mercato monetario di Londra è costantemente migliorato dal 27 novembre al 1° dicembre, quando è di nuovo subentrata una tendenza contraria. Il 28 novembre il prezzo dell’argento in realtà è caduto, ma dopo il 1° dicembre si è risollevato e probabilmente continuerà a crescere, dal momento che ne servono grandi quantità per Amburgo. In altre parole, viene nuovamente ritirato 14. [Si intendono gli Stati Uniti d’America.]

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oro da Londra per comprare argento sul continente, e questo ripetuto deflusso di oro richiederà un nuovo intervento da parte della Banca d’Inghilterra. Oltre alla crescita improvvisa della domanda ad Amburgo incombe, in un futuro non troppo lontano, il prestito indiano, al quale il governo deve necessariamente far ricorso per quanto possa sforzarsi di procrastinare il giorno della resa dei conti. Il fatto che si siano verificati nuovi episodi di bancarotta dal primo giorno di questo mese ha contribuito a spazzare via l’illusione che sul mercato monetario il peggio sia passato. Lord Overstone (il banchiere Loyd)15 ha osservato nella sessione di apertura della Camera Alta: la prossima pressione sulla Banca d’Inghilterra probabilmente si verificherà prima che i corsi dei cambi siano stati regolarizzati, e allora la crisi sarà maggiore di quella che siamo riusciti a evitare oggi. Incombono sul nostro Paese difficoltà serie e molto gravi.

A Londra la catastrofe di Amburgo non viene ancora avvertita. Il miglioramento della situazione del mercato creditizio aveva favorevolmente influenzato il mercato delle merci, ma, a parte l’eventuale nuova riduzione della massa monetaria, è evidente che il crollo dei prezzi delle merci a Stettino, Danzica e Amburgo farà senz’altro scendere le quotazioni di Londra. Il decreto francese che ha eliminato il divieto di esportazione di grano e farina ha costretto immediatamente i proprietari di mulini di Londra a ribassare i propri prezzi di tre scellini ogni 280 libbre per porre un argine all’importazione di farina dalla Francia. Si è avuta notizia di alcune bancarotte nel commercio del grano, tuttavia esse sono rimaste limitate ad alcune imprese di piccole dimensioni e a speculatori sul grano a lungo termine. Dai distretti industriali inglesi non giunge nulla di nuovo, se non il fatto che i tessuti di cotone adatti al fabbisogno indiano, quali shirting marrone, jaconet, madapolam, e del pari il filo adatto al medesimo mercato, hanno ottenuto – per la prima volta dal 1847 – condizioni di prezzo favorevoli in India. Dal 1847 i profitti realizzati dai fabbricanti di Manchester in questo settore non provenivano dal ricavato della vendita delle loro merci nelle Indie Orientali, ma soltanto dalla vendita in Inghilterra delle merci che essi importavano dalle Indie Orientali. La quasi completa chiusura delle esportazioni verso l’India, verificatasi dal giugno 1857 a 15. [Samuel John Loyd (1796-1883), nominato barone Overstone nel 1850, fu tra i maggiori e più influenti banchieri inglesi del suo tempo.]

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causa della rivolta, ha permesso al mercato indiano di smaltire le merci inglesi che si erano ammassate e lo ha reso addirittura in grado di ricevere nuove spedizioni a prezzi superiori. In circostanze normali un avvenimento del genere avrebbe rinvigorito in misura straordinaria l’industria di Manchester. Oggi, a quanto abbiamo appreso da corrispondenza privata16, non ha provocato un rialzo neppure dei prezzi degli articoli più richiesti; al contrario ha condotto a una tale concentrazione della capacità produttiva in cerca di utilizzo nella fabbricazione di tali specifici articoli, che sarebbe sufficiente a sommergere di merci a brevissimo termine non una, ma tre Indie. L’aumento generale della forza produttiva che si è verificato nei distretti industriali inglesi nel corso degli ultimi dieci anni è stato di tale portata che anche lo stesso lavoro, già ridotto a meno di due terzi del suo volume precedente, può essere conservato dai proprietari di fabbrica soltanto in quanto essi ammucchiano nei loro magazzini una grande eccedenza di merci. La ditta Du Fay & Co. scrive nel suo rapporto commerciale mensile da Manchester che «in questo mese si è avuta una interruzione del commercio; sono stati portati a termine pochissimi affari e i prezzi sono stati generalmente bassi. Il numero complessivo di affari conclusi in un mese non è mai stato in precedenza così basso come a novembre». [4.2.]17 Il fatto che in periodo di crisi manchino «mezzi di pagamento», è cosa ovvia18. La convertibilità19 delle cambiali si è sostituita alla metamorfosi delle merci stesse20 e tanto più proprio in questo momento, quanto più una parte [delle imprese] lavora solo a credito. Una legislazione bancaria arbitraria (come quella del 18441845) può aggravare questa crisi monetaria. Ma nessuna legislazione può eliminare la crisi. Il fatto che, laddove l’intero processo poggia sul credito, non appena il credito venga improvvisamente a mancare e ogni pagamento possa essere effettuato solo in contanti debba subentrare una crisi creditizia e la mancanza di mezzi di pagamento – è ovvio21, come lo è il fatto che la crisi nel suo complesso 16. [Marx si riferisce qui alla sua corrispondenza con Friedrich Engels, che era proprietario di un’impresa a Manchester] 17. [Pagina corrispondente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale edita da Engels nel 1894: MEW 25.507 = ER 3.2.576] 18. selfevident 19. Convertibility 20. [Ossia alla compra-vendita e conseguente trasformazione della merce in denaro. Nella crisi le merci restano invendute e quindi non si trasformano in denaro. Vedi più oltre, i testi alle pp. 88-91, 93-97, 101-104]. 21. selfevident

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debba quindi presentarsi prima facie come crisi creditizia e monetaria. Ma in realtà non si tratta unicamente della «convertibilità» delle cambiali in denaro. Un’enorme massa di queste cambiali non rappresenta nulla più che transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui; infine capitali merci che si sono svalorizzati o profitti22 che non possono più essere realizzati. L’intero sistema artificiale di espansione violenta del processo di riproduzione non può ovviamente essere risanato per il fatto che ora una banca (per es. la Banca d’Inghilterra) fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che manca loro e compra tutte le merci al loro vecchio valore nominale. [4.3.] È proprio bello che i capitalisti, che gridano tanto contro il «diritto al lavoro»23, ora pretendano dappertutto «pubblico appoggio» dai governi, e ad Amburgo, a Berlino, a Stoccolma, e Copenaghen e nella stessa Inghilterra (nella forma di sospensione della legge) facciano insomma valere il «diritto al profitto»24 a spese della comunità. Ed è altrettanto bello che i filistei di Amburgo si siano rifiutati di dare ulteriori elemosine per i capitalisti.

22. returns 23. droit au travail

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24. droit au profit

Contraddizioni del capitale e forme della crisi

1. Il capitalismo e le crisi [K. Marx-F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, 1848, MEW 4.467-468; Manifesto del partito comunista, tr. it. di P. Togliatti, MEOC 6.491-492]

Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate. Da qualche decina d’anni la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nella crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembra averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della società borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi. 2. Limiti del capitale [K. Marx, Grundrisse del Kritik der politischen Ökonomie 1857-8, MEW 42.252-

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253, 321-324; Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus in MEOC 29.262, 339-342 (traduzione riveduta)]

Il capitale, in quanto rappresenta la forma universale della ricchezza, – il denaro – è l’impulso illimitato e smisurato a oltrepassare il suo limite1. Ogni limite2 per esso è e deve essere un ostacolo3. Altrimenti esso cesserebbe di essere capitale, ossia denaro che produce se stesso. Non appena non percepisse più come ostacolo un determinato limite, ma al contrario si sentisse a suo agio in questa situazione, esso scadrebbe da valore di scambio a valore d’uso, dalla forma universale della ricchezza a un determinato sussistere sostanziale della stessa. Il capitale in quanto tale crea un plusvalore determinato, perché non può porne all’istante4 uno infinito; ma esso è il moto continuo volto a crearne di più. Il limite5 quantitativo del plusvalore gli appare soltanto come ostacolo naturale6, come necessità che esso cerca continuamente di dominare e di oltrepassare. (…) La creazione di plusvalore assoluto da parte del capitale – di più lavoro oggettivato – ha come condizione che il cerchio della circolazione si allarghi, e più precisamente che s’allarghi di continuo. Il plusvalore creato in un punto richiede la creazione di plusvalore in un altro punto, con il quale possa scambiarsi; anche se in un primo momento si ha soltanto produzione di più oro e argento, di più denaro, sicché, se il plusvalore non può ridiventare immediatamente capitale, esso esiste nella forma di denaro come possibilità di nuovo capitale. Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato, sia che venga allargato direttamente, sia che più punti vengano creati in esso come punti di produzione. Se la circolazione a tutta prima appariva come grandezza data, qui essa appare come grandezza in movimento, che si espande attraverso la produzione stessa. Di conseguenza la circolazione si presenta essa stessa già come un momento della produzione. Se da un lato il capitale ha quindi la tendenza a creare di continuo più pluslavoro, dall’altro ha la tendenza complementare a creare più punti di scambio; ossia qui, dal punto di vista del plusvalore o del pluslavoro assoluto, la tendenza a generare più pluslavoro come integrazione di se stesso; in fondo7 la tendenza a propagare la produzione basata sul capitale o il modo di produzione a esso corrispondente. La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto del capitale stesso. 1. Schranke 2. Grenze 3. Schranke 4. at once

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5. Grenze 6. Naturschranke 7. au fond

Ogni limite si presenta come un ostacolo da superare. [Il capitale tende] anzitutto a subordinare ogni momento della produzione stessa allo scambio, e a sopprimere la produzione di valori d’uso immediati che non entrano nello scambio, ossia appunto a sostituire la produzione fondata sul capitale ai modi di produzione precedenti e, dal suo punto di vista, primitivi. Qui il commercio non si presenta più come funzione che ha luogo tra le produzioni autonome per lo scambio dell’eccedenza, bensì come presupposto sostanzialmente universale e momento della produzione stessa. Ovviamente8 ogni produzione diretta al valore d’uso immediato diminuisce sia il numero dei soggetti di scambio che la somma dei valori di scambio in generale che vengono immessi in circolazione, e soprattutto la produzione di valori eccedenti9. Di qui la tendenza del capitale 1) a estendere continuamente il perimetro della circolazione; 2) a trasformarla in tutti i punti in produzione capitalistica10. D’altro canto la produzione di plusvalore relativo, ossia la produzione di plusvalore fondata sull’aumento e sviluppo delle forze produttive, richiede produzione di nuovo consumo; richiede cioè che il circolo del consumo all’interno della circolazione si allarghi allo stesso modo in cui prima si allargava il circolo della produzione. In primo luogo: espansione quantitativa del consumo esistente; in secondo luogo: creazione di nuovi bisogni mediante la diffusione di quelli esistenti in una cerchia più ampia; in terzo luogo: produzione di nuovi bisogni e scoperta e creazione di nuovi valori d’uso. In altri termini essa esige che il pluslavoro realizzato non rimanga un’eccedenza11 puramente quantitativa, ma che al tempo stesso la cerchia delle differenze qualitative del lavoro (e quindi del pluslavoro) sia costantemente ampliata, resa più varia e differenziata in se stessa. In seguito al raddoppiamento della forza produttiva basta ad esempio impiegare un capitale di 50 solamente dove in precedenza ne occorreva uno di 100, sicché ||19| per il capitale e il lavoro liberati occorre un nuovo ramo di produzione qualitativamente diverso, che soddisfa e produce nuovo bisogno. Il valore della vecchia industria viene conservato [con] la creazione di un fondo di finanziamento12 per una nuova industria dove il rapporto del capitale con il lavoro13 si pone in una forma nuova. Dunque 8. Of course 9. Surpluswerthen 10. Hence the tendency of capital 1) to continually enlarge the periphery of circulation; 2) to transform it at all points into production

carried on by capital. 11. Surplus 12. fund 13. labour

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esplorazione dell’intera natura per scoprire nuove proprietà utili delle cose; scambio universale dei prodotti di tutti i climi e paesi stranieri; rielaborazioni14 (artificiali) degli oggetti naturali mediante le quali si conferiscono loro nuovi valori d’uso. {Il ruolo che il lusso ha presso gli antichi a differenza che presso i moderni, è cosa a cui accennare15 in seguito.} L’esplorazione della terra in tutte le direzioni per scoprire sia nuovi oggetti utili, sia nuove proprietà utili dei vecchi; come pure nuove proprietà che essi hanno come materie prime ecc.; quindi lo sviluppo delle scienze naturali al suo punto più alto; come pure scoperta, la creazione e il soddisfacimento di nuovi bisogni procedenti dalla società stessa; la formazione di tutte le qualità dell’uomo sociale e la produzione di esso come uomo per quanto è possibile ricco di bisogni perché ricco di qualità e di relazioni – la sua produzione come prodotto sociale possibilmente totale e universale (giacché per avere un’ampia gamma di godimenti dev’esserne capace, ossia colto in alto grado) – tutto ciò è altresì condizione della produzione fondata sul capitale. Ciò non è soltanto divisione del lavoro, creazione di nuovi rami di produzione, ossia di tempo eccedente 16 qualitativamente nuovo; è invece la repulsione da se stessa17 della produzione determinata, come lavoro che ha un nuovo valore d’uso; lo sviluppo di un sistema in costante espansione e sempre più globale di tipi di lavoro, di tipi di produzione, ai quali corrisponde un sistema sempre più ampio e ricco di bisogni. Se da un lato la produzione fondata sul capitale crea l’industria universale, – ossia pluslavoro, lavoro che crea un sistema di sfruttamento18 generale delle qualità naturali e umane, un sistema dell’utilità generale il cui portatore appare essere tanto la scienza quanto l’insieme di tutte le qualità fìsiche e spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso appare al di fuori di questo circolo della produzione e dello scambio sociali. Cosi è dunque il capitale soltanto a creare la società borghese e l’appropriazione universale tanto della natura quanto della connessione sociale stessa da parte dei membri della società. Di qui la grande influenza civilizzatrice del capitale19; la sua produzione di un livello sociale rispetto al quale tutti i livelli precedenti appaiono soltanto come sviluppi locali dell’umanità e come idolatria della natura. La natura diviene qui per la prima volta puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità: 14. neue Zubereitungen 15. to allude to 16. Surpluszeit 17. Abstoßen von sich selbst [Marx riprende

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questo concetto dalla logica hegeliana.] 18. exploitation 19. Hence the great civilising influence of capital

cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione. In conformità con questa sua tendenza il capitale tende a trascendere sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, sia il soddisfacimento tradizionale, modestamente chiuso entro limiti determinati, dei bisogni esistenti, e la tradizionale riproduzione di un vecchio modo di vivere. Nei confronti di tutto ciò esso è distruttivo e agisce nel senso di un perenne rivoluzionamento, abbattendo tutte le barriere20 che ostacolano lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni, la molteplicità della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito. Dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi limiti come ostacolo e quindi idealmente lo ha superato, non consegue però in alcun modo che esso lo abbia superato realmente; e poiché ciascuno di questi ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni costantemente superate ma altrettanto costantemente poste. E non è tutto. L’universalità alla quale esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo metteranno in luce che esso stesso è l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono al suo superamento attraverso esso stesso. 3. La contraddizione tra produzione e consumo [Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.519-521; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.567-569 (traduzione riveduta)]

Le frasi apologetiche per negare la crisi, in tanto sono importanti, in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per negare la crisi – affermano unità dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, in tanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che, se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma di fatto la crisi esiste, perché esistono quelle contraddizioni. Ogni motivo che esse adducono contro la crisi, è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Il voler eliminare con la fantasia le contraddizioni è contemporaneamente l’espressione di contraddizioni realmente esistenti che secondo il pio desiderio non devono esistere. 20. Schranken

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Ciò che gli operai di fatto producono è plusvalore. Finché lo producono, lo devono consumare. Non appena questo termina, cessa il loro consumo perché cessa la loro produzione. Ma in nessun modo essi hanno da consumare perché producono un equivalente per il loro consumo. Piuttosto, non appena essi producono semplicemente tale equivalente, cessa il loro consumo, non hanno da consumare alcun equivalente. Il loro lavoro viene arrestato o accorciato o in tutti i casi il loro salario viene abbassato. Nell’ultimo caso – se il grado di produzione resta lo stesso – essi non consumano alcun equivalente per la loro produzione. Ma allora questi mezzo21 mancano loro non perché essi non producono abbastanza, ma perché ricevono in appropriazione troppo poco del loro prodotto. Dunque, quando si riduce il rapporto semplicemente a quello fra consumatori e produttori, si dimentica che l’operaio salariato che produce e il capitalista che produce sono due produttori di genere del tutto diverso, anche a prescindere dai consumatori che non producono affatto. L’antitesi viene nuovamente negata perché si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzione. Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista implica: 1. che la maggior parte dei produttori (gli operai) non sono consumatori (compratori) di una grandissima parte del loro prodotto, cioè dei mezzi di lavoro e del materiale di lavoro; 2. che la maggior parte dei produttori, gli operai, possono consumare un equivalente per il loro prodotto soltanto finché producono più di questo equivalente – il plusvalore22 o il plusprodotto23. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i ||718| limiti del loro bisogno. Per questa classe di produttori, dunque, l’unità fra produzione e consumo risulta già a prima vista24 in ogni caso falsa. Quando Ricardo dice che l’unico limite della domanda25 è la produzione stessa, e questa è limitata dal capitale, ciò di fatto, se i presupposti erronei vengono eliminati, non significa altro se non che la produzione capitalistica trova la sua misura solo nel capitale, dove però contemporaneamente per capitale s’intende insieme la capacità lavorativa26 incorporata al capitale (da esso acquistata) come una delle sue condizioni di produzione. Ci si chiede appun21. means 22. surplus value 23. surplus produce 24. prima facie

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25. demand [in corsivo nel testo] 26. Arbeitsvermögen [la capacità lavorativa del lavoratore, che in seguito Marx designerà come «forza-lavoro» (Arbeitskraft)]

to se il capitale come tale sia anche il limite per il consumo. In ogni caso questo limite è negativo, cioè non può essere consumato più di quanto venga prodotto. Ma la questione [è] se esso [è] positivo, se – in base alla produzione capitalistica – può e deve essere consumato tanto quanto viene prodotto. La tesi di Ricardo analizzata correttamente dice proprio il contrario di ciò che deve dire – cioè che la produzione non avviene tenendo conto dei limiti esistenti del consumo, ma è limitata solo dal capitale stesso. E ciò è caratteristico appunto di questo modo di produzione. 4. La contraddizione tra profitto e bisogni [4.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.528-530; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.576-578 (traduzione riveduta); 4.2.: Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5, III), in MEGA II/4.2.540; tr. it. di V. Giacché; 4.3.: Das Kapital, Band II, MEW 24.409-410; Il capitale, libro secondo, sez. 3, cap. 20, tr. it. di R. Panzieri, ER 2.429-430]

[4.1.] Il termine sovrapproduzione27 induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i suoi bisogni immediati, naturalmente non si può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire al contrario che in questo senso, in base alla produzione capitalistica, si sottoproduce continuamente. Il limite28 della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose del tutto diverse. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal baratto, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma transeunte dello scambio materiale, che quindi il denaro sia semplicemente un mezzo formale di circolazione –, questo si risolve di fatto nel suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che di conseguenza ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi e fra l’altro nella sovrapproduzione – il fenomeno fondamentale delle crisi.

27. overproduction [in corsivo nel testo]

28. Schranke

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|| 722 | Ricardo vide dalle tesi di Smith da lui citate, approvate e perciò ripetute, che i «desideri»29 smisurati di ogni specie di valori d’uso sono sempre soddisfatti in base a una situazione in cui la massa dei produttori resta più o meno limitata a «cibo» e «beni di prima necessità»30, al necessario, che questa grandissima massa di produttori resta dunque più o meno esclusa dal consumo della ricchezza – in quanto esso supera l’ambito dei beni di prima necessità. Ciò avviene certo e in misura ancor maggiore nella produzione antica fondata sulla schiavitù. Ma gli antichi non pensavano neppure a trasformare il plusprodotto31 in capitale. Per lo meno solo in scarsa misura. (L’estesa presenza presso di loro della tesaurizzazione vera e propria mostra quanto plusprodotto restasse del tutto infruttifero.) Essi trasformavano una gran parte del plusprodotto in spese improduttive per opere d’arte, opere religiose, lavori pubblici32. Ancor meno la loro produzione era indirizzata a uno scatenamento e a uno spiegamento delle forze produttive materiali – divisione del lavoro, macchinario, applicazione di forze naturali e scienza alla produzione privata. In complesso essi di fatto non oltrepassarono mai il lavoro artigianale. Perciò la ricchezza che essi creavano per consumo privato era relativamente piccola e appare grande solo perché ammucchiata in poche mani, che del resto non sapevano che farsene. Se perciò non c’era sovrapproduzione, c’era presso gli antichi sovraconsumo dei ricchi, che negli ultimi tempi di Roma e della Grecia eruppe in spreco pazzesco. I pochi popoli mercantili in mezzo a loro vivevano in parte a spese di tutte queste nazioni sostanzialmente33 povere. Sono l’incondizionato sviluppo delle forze produttive e perciò la produzione in massa sulla base della massa di produttori chiusi nella sfera dei beni di prima necessità34 da un lato, il limite costituito dal profitto dei capitalisti dall’altro che [costituiscono] il fondamento della moderna sovrapproduzione. Tutte le difficoltà che Ricardo e altri sollevano contro la sovrapproduzione ecc., poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita – baratto immediato – o come produzione sociale tale che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, cosi che a ogni sfera di produzione tocchi la quota 29.«desires» 30. «food» und «necessaries» 31. surplus produce

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32. travaux publics 33. essentiellement 34. necessaries

parte35 del capitale sociale richiesta al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione scaturisce in generale dall’incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese e quest’ultima a sua volta dall’essere sprofondati nella produzione borghese intesa come la produzione senz’altro36. Così come un tipo che crede a una determinata religione, vede in essa semplicemente37 la religione e fuori di essa solo false religioni. Al contrario sarebbe piuttosto da chiedere: in base alla produzione capitalistica, dove ognuno lavora per sé e il lavoro particolare deve contemporaneamente rappresentarsi come il suo contrario, come lavoro astrattamente generale, e in questa forma deve rappresentarsi come lavoro sociale, la perequazione e l’omogeneità necessarie delle diverse sfere di produzione, la misura e la proporzione fra le medesime, come saranno possibili se non mediante un continuo superamento di una continua disarmonia? Questo è ancora ammesso quando si parla delle perequazioni38 della concorrenza, perché queste perequazioni presuppongono sempre che qualcosa sia da perequare, che quindi l’armonia sia sempre un risultato del movimento del superamento della disarmonia esistente. [4.2.]39 La ricostituzione dei capitali dei capitalisti40 dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi non produttive; mentre la capacità di consumo dei lavoratori è limitata in parte dalle leggi del salario, in parte dal fatto che essi vengono impiegati soltanto fino a quando possono essere impiegati con profitto per la classe dei capitalisti. La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre da un lato la povertà41 delle masse, dall’altro l’impulso del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze produttive come se la capacità di consumo assoluta della società ne rappresentasse il limite42. [4.3.] È pura tautologia dire che le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare. Il sistema capitalistico non conosce altre specie di con35. Quotum [in corsivo nel testo] 36. schlechtin 37. schlechtin 38. Ausgleichungen 39. [Pagina corrispondente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale edita da Engels nel 1894: MEW 25.501 = ER 3.2.569]

40. [Nel manoscritto di Marx si trova ihrer («loro») riferito ai capitalisti. Nel testo a stampa Engels ha esplicitato il significato del testo, correggendo in «impiegati nella produzione»] 41. [Engels ha aggiunto al testo in questo punto «e limitazione di consumo» (und Konsumtionsbeschränkung)] 42. limit

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sumo all’infuori del consumo pagante, eccettuate quella del povero43 o quella del «mariuolo». Il fatto che merci siano invendibili non significa altro se non che non si sono trovati per esse dei compratori in grado di pagare, cioè consumatori (sia che le merci in ultima istanza vengano comprate per consumo produttivo ovvero individuale). Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggior approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia in realtà44 riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinata al consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e «semplice» buon senso – dovrebbe allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica comprenda delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa prosperità della classe operaia, e sempre solo come procellaria di una crisi. 5. La contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio della merce [5.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.500-501; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.547-548 (traduzione riveduta); 5.2.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.508-511; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.556-558 (traduzione riveduta)]

[5.1.] || 709 | Nelle crisi del mercato mondiale le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese vengono a esplosione. Ora, anziché indagare in che cosa consistano gli elementi contraddittori che esplodono nella catastrofe, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe stessa e di insistere, di fronte alla loro periodicità regolare, sul fatto che se la produzione si conformasse ai libri scolastici non si arriverebbe mai alla crisi. L’apologetica consiste allora nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel tener ferma l’unità di fronte all’antitesi. Se, per esempio, compra e vendita – ossia il movimento di metamorfosi della merce – rappresenta l’unità di due processi o meglio il corso di un processo attraverso due fasi contrapposte, quindi è essenzialmente l’unità di ambedue le fasi, essa è altrettanto essenzialmente la separazione di esse e il loro farsi indipendenti l’una di 43. sub forma pauperis

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44. realiter

fronte all’altra. Ora, tuttavia, poiché esse sono congiunte, il farsi indipendenti di momenti congiunti può manifestarsi solo violentemente come processo distruttivo. È appunto la crisi in cui si realizza la loro unità, l’unità dei distinti. L’indipendenza che questi momenti – che appartengono l’uno all’altro e che si completano a vicenda – assumono l’uno rispetto all’altro, viene violentemente distrutta. La crisi, dunque, manifesta l’unità di momenti fattisi indipendenti l’uno di fronte all’altro. Nessuna crisi avrebbe luogo senza questa interna unità dei due momenti apparentemente45 indifferenti l’uno all’altro. Ma no, dice l’economista apologeta. Siccome ha luogo l’unità, non può aver luogo nessuna crisi. Il che a sua volta nient’altro significa se non che l’unità di opposti esclude l’antitesi. Per dimostrare che la produzione capitalistica non può portare a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e le determinazioni di forma, tutti i principi e le caratteristiche distintive46, in breve la stessa produzione capitalistica, e di fatto viene mostrato che se il modo di produzione capitalistico, anziché essere una forma specificamente sviluppata, peculiare della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto al di sotto delle sue più rozze origini, le sue peculiari antitesi e contraddizioni, e perciò anche il loro esplodere nelle crisi, non esisterebbero. [5.2.] Nella metamorfosi della merce la possibilità della crisi si rappresenta così. In primo luogo la merce che esiste realmente come valore d’uso, e idealmente, nel prezzo, come valore di scambio, deve essere trasformata in denaro. M–D. Se questa difficoltà, la vendita, è risolta, allora la compra D–M non ha più alcuna difficoltà, perché il denaro è immediatamente scambiabile contro tutto. Il valore d’uso della merce, l’utilità del lavoro in essa contenuto, deve essere presupposto, altrimenti essa in generale non è merce. È inoltre presupposto che il valore individuale della merce sia uguale al suo valore sociale, cioè che il tempo di lavoro materializzato in essa sia uguale al tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione di questa merce. La possibilità della crisi, in quanto essa si mostra nella forma semplice della metamorfosi, deriva quindi solo dal fatto che le differenze formali – le fasi – che essa attraversa nel suo movimento, sono in primo luogo fasi e forme necessariamente integrantisi, in secondo luogo, nonostante questa interna e necessaria connessione reciproca, [sono] parti indipendenti del processo e forme esistenti indifferentemente l’una di fronte all’altra, separan45. scheinbar

46. differentiae specificae

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tisi nel tempo e nello spazio, separabili e separate l’una dall’altra. La possibilità della crisi è insita quindi solo nella separazione fra vendita e compra. È solo nella forma della merce che la merce ha qui da attraversare la difficoltà. Non appena possiede la forma del denaro, ne è al di là. Ma poi anche il denaro si risolve nella separazione di vendita e compra. Se la merce non potesse ritirarsi dalla circolazione nella forma del denaro o non potesse differire la sua riconversione in merce – come nel baratto immediato –, se compra e vendita coincidessero, svanirebbe la possibilità della crisi nei presupposti fatti. Perché è presupposto che la merce sia valore d’uso per altri possessori di merci. Nella forma del baratto immediato, la merce non [è] scambiabile solo nel caso che essa non sia un valore d’uso oppure anche che non [ci siano], dall’altra parte, altri valori d’uso per scambiar[si] con essa. Quindi solo a tutte e due le condizioni: o quando da una parte fosse prodotto qualcosa senza utilità o dall’altra niente di utile da scambiare come equivalente contro il primo valore d’uso. In ambedue i casi, però, non avrebbe luogo, in generale, nessuno scambio. Ma in quanto uno scambio avesse luogo, i suoi momenti non si separerebbero. Il compratore sarebbe venditore, il venditore compratore. Il momento critico che risulta dalla forma dello scambio – in quanto esso è circolazione –, verrebbe quindi a cadere e se noi diciamo che la forma semplice della metamorfosi include la possibilità della crisi, diciamo solo che in questa forma stessa sta la possibilità della lacerazione e della separazione di momenti che essenzialmente si integrano. Ma ciò concerne anche il contenuto. Nel baratto immediato, il grosso della produzione è indirizzato da parte del produttore al soddisfacimento del suo proprio bisogno o, con uno sviluppo un po’ più ampio della divisione del lavoro, al soddisfacimento di bisogni a lui noti dei suoi coproduttori. Ciò che va scambiato come merce è eccedenza47 e resta secondario che questa eccedenza venga o no scambiata. Nella produzione di merci è condizione necessaria48 la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita. La produzione immediata per il bisogno proprio viene a cessare. Con la non vendita si verifica una crisi. La difficoltà di trasformare la merce – il prodotto particolare di lavoro individuale – in denaro, il suo opposto, [in] lavoro astrattamente generale, sociale, sta nel fatto che il denaro non appare come prodotto particolare di lavoro individuale, nel fatto che colui il quale ha venduto e quindi possiede la merce nella forma del denaro, non è costretto a ricomprare subito, a trasformare di nuovo il denaro in un prodotto particolare di lavoro individua47. Überfluß

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48. conditio sine qua [non]

le. Nel baratto non c’è questa antitesi. Non può esservi nessun venditore che non sia compratore e nessun compratore che non sia venditore. La difficoltà del venditore – presupponendo che la sua merce abbia un valore d’uso – discende semplicemente dalla facilità del compratore di differire la riconversione del denaro in merce. La difficoltà di trasformare la merce in denaro, di vendere, discende semplicemente dal fatto che la merce deve essere trasformata in denaro, ma il denaro non immediatamente in merce, quindi vendita e compra possono separarsi. Abbiamo detto che questa forma include la possibilità della crisi, cioè la possibilità che momenti che appartengono l’uno all’altro, che sono inseparabili, si separino e perciò vengano uniti violentemente, che la loro connessione venga ottenuta attraverso la violenza che viene fatta alla loro reciproca indipendenza || 714 |. E inoltre la crisi non è altro che il violento farsi valere dell’unità di fasi del processo di produzione che si sono fatte indipendenti l’una di fronte all’altra. Possibilità generale, astratta della crisi – nient’altro significa che la forma più astratta della crisi, senza contenuto, senza un movente significativo della medesima. Vendita e compra possono separarsi. Esse sono quindi una crisi in potenza49 e il loro coincidere resta sempre un momento critico per la merce. Ma esse possono trapassare l’una nell’altra fluidamente. Resta dunque che la forma più astratta della crisi (e quindi la possibilità formale della crisi) è la stessa metamorfosi della merce in cui è contenuta, solo come movimento sviluppato, la contraddizione, inclusa nell’unità della merce, fra valore di scambio e valore d’uso, e poi fra denaro e merce. Ma la via attraverso la quale questa possibilità della crisi diventa crisi, non è contenuta in questa forma stessa; vi è contenuto solo che esiste la forma per una crisi. E questo è l’importante nell’esame dell’economia borghese. Le crisi del mercato mondiale devono essere concepite come il compendio reale e la compensazione50 violenta di tutte le contraddizioni dell’economia borghese. Dunque, i singoli momenti che si concentrano in queste crisi devono quindi emergere ed essere sviluppati in ogni sfera dell’economia borghese, e, quanto più ci inoltriamo in essa, da un lato devono essere sviluppate nuove determinazioni di questo contrasto, dall’altro devono essere mostrate le forme più astratte del medesimo come ricorrenti e contenute in quelle più concrete. Si può dunque dire: la crisi nella sua prima forma è la stessa metamorfosi della merce, la separazione di compra e vendita. 49. potentia [in corsivo nel testo]

50. Ausgleichung

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6. La contraddizione insita nel denaro come mezzo di pagamento [Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.511-512; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.558-560 (traduzione riveduta)]

La crisi nella sua seconda forma è la funzione del denaro come mezzo di pagamento, dove il denaro figura in due momenti diversi, separati nel tempo, in due diverse funzioni. Queste due forme sono ancora del tutto astratte, benché la seconda sia più concreta della prima. Anzitutto, quindi, considerando il processo di riproduzione del capitale (che coincide con la sua circolazione) va mostrato che quelle forme suddette si ripetono semplicemente o meglio solo qui prendono un contenuto, un fondamento su cui si possono manifestare. Consideriamo il movimento che attraversa il capitale dal momento in cui esso abbandona come merce il processo di produzione per venir fuori di nuovo da esso come merce. Se facciamo qui astrazione da tutte le ulteriori determinazioni di contenuto, il capitale complessivo in merci e ogni singola merce di cui esso consta hanno da attraversare il processo M–D–M, la metamorfosi della merce. La possibilità generale della crisi che è contenuta in questa forma – la separazione di compra e vendita – è quindi contenuta nel movimento del capitale, in quanto esso è anche merce e nient’altro che merce. Dalla connessione delle metamorfosi delle merci l’una con l’altra risulta poi che l’una merce si trasforma in denaro perché l’altra si riconverte dalla forma di denaro in merce. Dunque, in seguito la separazione di compra e vendita appare qui tale, che alla trasformazione dell’un capitale dalla forma merce nella forma denaro deve corrispondere la riconversione dell’altro capitale dalla forma denaro nella forma merce, la prima metamorfosi dell’un capitale deve corrispondere alla seconda metamorfosi dell’altro, l’abbandono del processo di produzione da parte dell’un capitale deve corrispondere al ritorno nel processo di produzione dell’altro. Questa concrescenza l’uno nell’altro e questo intreccio dei processi di riproduzione o di circolazione di diversi capitali sono da un lato necessari per la divisione del lavoro, dall’altro casuali, e cosi si amplia già la determinazione di contenuto della crisi. In secondo luogo, però, per ciò che concerne la possibilità della crisi scaturiente dalla forma del denaro come mezzo di pagamento, già nel capitale si mostra un fondamento molto più reale per l’attuazione di questa possibilità. Il tessitore, per esempio, ha da pagare l’intero capitale costante51, i cui elementi furono forniti da filatore, 51. capital constant [cioè la parte del capitale investita in mezzi di lavoro]

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coltivatore di lino, fabbricante di macchine, fabbricante di ferro e di legname, produttore di carbone ecc. Questi ultimi, nella misura in cui producono capitale costante che entra solo nella produzione del capitale costante senza entrare nella merce finita, il tessuto, si sostituiscono mediante scambio di capitale le loro condizioni di produzione. Ora, il || 715 | tessitore venda il tessuto al mercante per 1000 £, ma su una cambiale, così che il denaro figura come mezzo di pagamento. Il tessitore52 da parte sua vende la cambiale al banchiere, presso il quale, poniamo, paga con essa un debito o che anche gli sconta la cambiale. Il coltivatore di lino ha venduto al filatore su una cambiale, il filatore al tessitore, del pari il fabbricante di macchine al tessitore, del pari il fabbricante di ferro e di legname al fabbricante di macchine, del pari il produttore di carbone al filatore, al tessitore, al fabbricante di macchine, al produttore di ferro e di legname. Inoltre i produttori di ferro, di carbone, di legname, di lino si sono pagati l’un l’altro con cambiali. Ora, se il commerciante non paga, il tessitore53 non può pagare la sua cambiale al banchiere. Il coltivatore di lino ha spiccato una tratta al filatore, il fabbricante di macchine al tessitore e al filatore. Il filatore non può pagare, perché il tessitore non [può] pagare, ambedue non pagano il fabbricante di macchine, questo non paga il produttore di ferro, di legname, di carbone. E a loro volta tutti questi che non realizzano il valore della loro merce, non possono sostituire la parte che sostituisce il capitale costante54. Così nasce una crisi generale. Questa non è assolutamente nient’altro che la possibilità della crisi sviluppata col denaro come mezzo di pagamento, ma noi vediamo già qui, nella produzione capitalistica, una connessione dei crediti e delle obbligazioni reciproci, delle compre e delle vendite, dove la possibilità può svilupparsi in realtà. 7. La crisi come interruzione violenta del processo di riproduzione del capitale [Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.512-514; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.560-562 (traduzione riveduta)]

In tutti i casi: se compra e vendita non si fissano l’una di fronte all’altra e non devono perciò essere compensate violentemente – d’altro canto, se il denaro come mezzo di pagamento funziona in modo 52. Weber [nel manoscritto marxiano: «commerciante» (Kaufmann)] 53. Zahlt nun der Kaufmann nicht, so kann der Weber [nel manoscritto marxiano:

«Ora, se il tessitore non paga al commerciante, questi» (Zahlt nun der Weber dem Kaufmann nicht, so kann dieser)] 54. capital constant

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tale che i crediti si compensano, quindi non si attua la contraddizione esistente in sé nel denaro come mezzo di pagamento –, [se] dunque queste due forme astratte della crisi non appaiono realmente55 come tali, non esiste alcuna crisi. Non può esistere crisi senza che compra e vendita si separino l’una dall’altra ed entrino in contraddizione o che le contraddizioni contenute nel denaro come mezzo di pagamento si manifestino, senza che quindi la crisi emerga contemporaneamente nella forma semplice – nella contraddizione di compra e vendita, nella contraddizione del denaro come mezzo di pagamento. Queste, però, sono anche semplici forme – possibilità generali delle crisi, quindi anche forme, forme astratte della crisi reale. In esse l’esistenza della crisi appare come nelle sue forme più semplici e nel suo contenuto più semplice, in quanto questa forma stessa è il suo contenuto più semplice. Ma non è ancora un contenuto fondato. La circolazione semplice del denaro e anche la circolazione del denaro come mezzo di pagamento – e ambedue compaiono molto prima della produzione capitalistica, senza che compaiano crisi – sono possibili e reali senza crisi. Perché dunque queste forme mettano in mostra il loro lato critico, perché la contraddizione in esse contenuta in potenza56 si manifesti in atto57 come tale, non si può spiegare con queste forme soltanto. Dunque si vede l’enorme insulsaggine degli economisti i quali, poiché non potevano più negare con i loro ragionamenti il fenomeno della sovrapproduzione e delle crisi, si tranquillizzano col fatto che in quelle forme è data solo la possibilità che sopravvengano crisi, è quindi casuale che esse non sopravvengano e con ciò che il loro sopravvenire stesso appare come un semplice caso. Le contraddizioni sviluppate nella circolazione delle merci, e più ampiamente nella circolazione del denaro – quindi le possibilità della crisi – si riproducono da sé nel capitale, poiché di fatto solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di merci e di denaro. Ora però si tratta di seguire lo sviluppo ulteriore della crisi potentia – la crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento reale della produzione capitalistica, concorrenza e credito – in quanto essa risulta dalle determinazioni formali del capitale che gli sono peculiari come capitale e non sono incluse nella sua semplice esistenza come merce e denaro. || 716 | II semplice processo di produzione (immediato) del capitale non può in sé aggiungere qui niente di nuovo. Affinché esso in 55. realiter 56. potentia

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57. actu

generale esista, le sue condizioni sono supposte. Perciò nella prima sezione, sul capitale – sul processo immediato di produzione – non sopravviene nessun nuovo elemento della crisi. Vi è contenuto in sé, perché il processo di produzione è appropriazione e perciò produzione di plusvalore. Ma nel processo stesso di produzione questo non può manifestarsi, perché in esso non si tratta della realizzazione del valore non soltanto riprodotto, ma di plusvalore. La cosa può farsi manifesta solo nel processo di circolazione, che in sé e per sé [è] contemporaneamente processo di riproduzione. […] II processo complessivo di circolazione o il processo complessivo di riproduzione del capitale è l’unità della sua fase di produzione e della sua fase di circolazione, un processo che si svolge attraverso i due processi in quanto sue fasi. In questo è insita una possibilità ulteriormente sviluppata o forma astratta della crisi. Gli economisti che negano la crisi si attengono quindi solo all’unità di ambedue queste fasi. Se esse fossero solo separate, senza essere una cosa sola, allora non sarebbe possibile appunto nessun ristabilimento violento della loro unità, nessuna crisi. Se esse fossero solo una cosa sola, senza essere separate, allora non sarebbe possibile nessuna separazione violenta, il che è di nuovo la crisi. Essa è il violento ristabilimento dell’unità fra [momenti] fattisi indipendenti e il violento farsi indipendenti di momenti che essenzialmente sono una cosa sola. | 716 || 8. Possibilità e condizioni generali delle crisi [Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.514-516; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.562-563 (traduzione riveduta)]

1. La possibilità generale delle crisi nel processo della metamorfosi del capitale stesso è data, e invero doppiamente, in quanto il denaro funge da mezzo di circolazione – separazione di compra e vendita. In quanto funge da mezzo di pagamento, dove esso opera in due momenti differenti, come misura dei valori e come realizzazione del valore. Ambedue questi momenti si separano. Se il valore è cambiato nell’intervallo, se la merce nel momento della sua vendita non vale quanto essa valeva nel momento in cui il denaro funzionava come misura del valore e quindi delle reciproche obbligazioni, [allora] l’obbligazione non può essere adempiuta col ricavato della merce e quindi non può essere saldata l’intera serie di transazioni che dipendono a loro volta58 da questa ultima. Anche se la 58. rückgängig

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merce non può essere venduta che in un determinato spazio di tempo, anche se il suo valore non cambiasse, il denaro non può funzionare come mezzo di pagamento, perché deve funzionare come tale in un lasso di tempo59 determinato, presupposto. Ma poiché qui la stessa somma di denaro funziona per una serie di transazioni e di obbligazioni reciproche, sopravviene qui un’incapacità di pagamento non solo in uno, ma in molti punti, e quindi la crisi. Queste sono le possibilità formali della crisi. La prima è possibile senza la seconda – cioè crisi senza credito, senza che il denaro funzioni come mezzo di pagamento. La seconda però non è possibile senza la prima, senza, cioè, che compra e vendita si separino. Ma nell’ultimo caso la crisi sopravviene non solo perché una merce è invendibile, ma perché non è vendibile in un determinato spazio di tempo, e la crisi nasce e deriva il suo carattere non solo dall’invendibilità della merce, ma anche [dal]la non realizzazione di un’intera serie di pagamenti che poggiano sulla vendita di questa determinata merce in questo determinato lasso di tempo. Questa [è] la forma vera e propria delle crisi monetarie. Dunque, se sopravviene una crisi perché compra e vendita si separano, essa allora si sviluppa come crisi monetaria, non appena il denaro è sviluppato come mezzo di pagamento, e questa seconda forma delle crisi s’intende da sé non appena sopravviene la prima. Nella ricerca del perché la possibilità generale della crisi diventi realtà, nella ricerca delle condizioni della crisi è dunque assolutamente superfluo curarsi della forma delle crisi che scaturiscono dallo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento. Appunto perciò gli economisti amano addurre a pretesto questa forma ovvia come causa delle crisi. (In quanto lo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento è connesso con lo sviluppo del credito e dell’eccesso di credito60, si devono, certo, spiegare le cause di questo ultimo, il che non è qui ancora opportuno.) 2. In quanto le crisi risultano da variazioni di prezzo e da rivoluzioni di prezzo che non coincidono con le variazioni di valore delle merci, esse non si possono naturalmente spiegare nell’esame del capitale in generale, in cui si presuppongono prezzi identici ai valori delle merci. 3. La possibilità generale delle crisi è la metamorfosi formale del capitale stesso, la separazione temporale e spaziale di compra e vendita. Ma questa non è mai la causa della crisi. Perché non è altro che la forma più generale della crisi, quindi la crisi stessa nella sua espressione più generale. Non si può però dire che la forma astratta 59. Frist

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60. overcredit

della crisi sia la causa della crisi. Se si cerca la sua causa, si vuole appunto sapere perché la sua forma astratta, la forma della sua possibilità, da possibilità diventa realtà. 4. Le condizioni generali delle crisi, in quanto sono indipendenti dalle oscillazioni di prezzo (siano queste connesse o no col credito) – in quanto diverse dalle fluttuazioni di valore – devono essere spiegate dalle condizioni generali della produzione capitalistica. | 770 a || 9. Il credito come tentativo di superare i limiti del capitale [K. Marx, Manoscritto del III libro del Capitale, cap. 5, MEGA II/4.2.505; tr. it. di V. Giacché]61

Se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e dell’iperattività e della sovraspeculazione nel commercio62, ciò accade soltanto perché il processo di riproduzione, che per sua natura è elastico, viene qui forzato63 sino al suo estremo limite64, e vi viene forzato proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegata da coloro che non ne sono proprietari, che quindi rischiano in misura ben diversa dal proprietario il quale, sinché agisce in prima persona, considera con preoccupazione i limiti65 del proprio capitale privato. Da ciò emerge soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata com’è sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo, libero sviluppo delle forze produttive soltanto sino a un certo punto, quindi in realtà costituisce un vincolo immanente, un limite66 allo sviluppo, che continuamente viene spezzato dal sistema creditizio67. Il sistema creditizio accelera pertanto lo sviluppo delle forze produttive e la creazione del mercato mondiale, || 328 | che il modo di produzione capitalistico ha il compito storico di creare, sino a un certo livello, quale base materiale del nuovo modo di produzione. Al tempo stesso, il sistema creditizio accelera le crisi, le violente eruzioni di questa contraddizione e quindi gli elementi della dissoluzione del vecchio modo di produzione. I caratteri immanenti e ambivalenti del sistema del credito, da un lato l’impulso del sistema di produzione capitalistico a svilup61. [Pagina corrispondente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale edita da Engels nel 1894: MEW 25.457 = ER 3.1.523] 62. der Ueberproduction und des overtrade und Ueberspeculation im Handel

63. forcirt 64. Grenze 65. Schranken 66. Schranke 67. Th. Chalmers [On Political Economy, London, 1832. Nota di Marx]

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pare l’arricchimento mediante lo sfruttamento di lavoro altrui, fino al più puro e colossale sistema imbroglio e di gioco d’azzardo, nonché lo sfruttamento della ricchezza sociale da parte di pochi, d’altro lato il suo costituire le forme di transizione a un nuovo modo di produzione, ecco ciò che conferisce ai principali araldi del sistema del credito, da Law a Isaac Péreire68, quella loro [caratteristica] gradevole mistura di ciarlatano e il profeta. 10. Credito e crisi [10.1.: Das Kapital, Band III, MEW 25.499-500; Il capitale, libro III, sez. 5, cap. 30, tr. it. di M.L. Boggeri, ER 3.2.568-9 (traduzione riveduta); 10.2.: Das Kapital, Band I, MEW 23.662; Il capitale, libro I, sez. 7, cap. 23, tr. it. di D. Cantimori, ER 1.693]

[10.1.] L’estensione massima del credito corrisponde in questo caso alla più completa utilizzazione del capitale industriale, ossia alla esplicazione più intensa possibile della sua forza di riproduzione, senza riguardo ai limiti del consumo. Questi limiti del consumo vengono allargati dalla intensificazione del processo di riproduzione stesso, che da un lato accresce il consumo di reddito da parte degli operai e dei capitalisti, d’altro lato si identifica con l’intensificazione del consumo produttivo. Fino a che il processo di riproduzione fluisce normalmente e assicura in tal modo i riflussi69, questo credito si mantiene e si amplia, e questo ampliamento è fondato sull’ampliamento del processo stesso della riproduzione. Non appena subentra un ristagno provocato da ritardo dei rientri70, da saturazione dei mercati, da caduta dei prezzi, la sovrabbondanza di capitale industriale persiste sempre, ma in forma che non gli permette di adempiere alla sua funzione. Massa di capitale-merce, ma invendibile. Massa di capitale fisso, ma in gran parte inattivo a causa del ristagno della ripro68. [John Law (1671-1729), finanziere scozzese trapiantato in Francia, dove tra l’altro fonda Banque Génerale e la Compagnia delle Indie; è nominato controllore generale delle finanze prima di essere travolto dal fallimento delle sue società. Isaac Péreire (1806-1880), banchiere e fondatore del Crédit Mobilier, banca potentissima sotto Napoleone III e posta in liquidazione nel 1871.] 69. [M.L. Boggeri (ER 3.2.568) e B. Maffi (Il capitale, Utet, Torino 1987, rist. 2009, 3.609) nelle loro traduzioni rendono con «riflussi» e «riflusso» il termine Rückfluß presente nell’edizione a stampa del III libro del Capitale curata da Engels. Nel manoscritto di Marx (MEGA II/4.2.539) si trova la parola inglese returns, che ha un significato molto più ampio (incassi, redditi, profitti, rientri). In questo caso essa indica il flusso del denaro ricavato dalla vendita delle merci prodotte.] 70. [Anche in questo caso nel manoscritto marxiano troviano returns, come nel luogo indicato nella nota precedente, ma nel significato di «rientri»]

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duzione. II credito si contrae: 1) perché questo capitale è inattivo, ossia ristagna in una delle fasi della sua riproduzione, perché non può compiere la sua metamorfosi; 2) perché è infranta la fiducia nella fluidità del processo di riproduzione; 3) perché diminuisce la domanda di questo credito commerciale. Il filandiere che restringe la sua produzione e ha in magazzino una grande quantità di filo invenduto, non ha bisogno di acquistare del cotone a credito; il commerciante non ha bisogno di acquistare delle merci a credito, avendone a disposizione più del necessario. Quando subentra quindi una perturbazione in questa espansione o anche soltanto nella normale intensità del processo di riproduzione, si verifica contemporaneamente una mancanza di credito; diventa più difficile acquistare merci a credito. La richiesta di pagamento in contanti e la cautela nella vendita a credito sono tuttavia fenomeni particolarmente caratteristici nella fase del ciclo industriale che segue una crisi. Durante la crisi stessa, quando ognuno ha da vendere ma non può vendere ed è tuttavia costretto a vendere per far fronte ai pagamenti, è la massa non del capitale inattivo in cerca di investimento, ma del capitale ostacolato nel suo processo di riproduzione, che raggiunge il suo massimo proprio quando anche la mancanza di credito raggiunge il suo culmine (e quindi il saggio di sconto per il credito bancario raggiunge il suo massimo). Il capitale già investito si trova infatti inattivo in grandi quantità, perché il processo di riproduzione ristagna. Le fabbriche rimangono ferme, le materie prime si accumulano, i prodotti finiti saturano il mercato di merci. Non vi è quindi nulla di più errato che attribuire tale stato di cose a una mancanza di capitale produttivo. Si ha, al contrario, una sovrabbondanza di capitale produttivo, sia in rapporto alla scala normale, ma momentaneamente contratta della riproduzione, sia in rapporto al consumo paralizzato. [10.2.] La superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi. Proprio allo stesso modo che i corpi celesti, una volta gettati in un certo movimento, lo ripetono costantemente, anche la produzione sociale, una volta gettata in quel movimento di espansione e contrazione alternatisi, lo ripete costantemente. Effetti diventano a loro volta cause, e le alterne vicende di tutto il processo, che riproduce costantemente le proprie condizioni, assumono la forma della periodicità.

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11. Le contraddizioni del capitale esplodono nella crisi [11.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.535; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.583-584 (traduzione riveduta); 11.2.: Das Kapital, Band II, MEW 24.80-81; Il capitale, libro secondo, sez. 1, cap. 2, tr. it. di R. Panzieri, ER 2.77-78]

[11.1.] Tutte le contraddizioni della produzione borghese vengono collettivamente a esplosione nelle crisi mondiali generali, nelle crisi particolari (particolari secondo il contenuto e l’estensione) solo in maniera dispersa, isolata, unilaterale. La sovrapproduzione in particolare ha per condizione la legge generale di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, la più grande massa di lavoro possibile) senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare questo per mezzo di un continuo allargamento della riproduzione e dell’accumulazione, quindi una continua ritrasformazione di reddito in capitale, mentre || 726 | d’altro canto la massa dei produttori resta limitata alla misura media71 di bisogni e a essa secondo l’organizzazione della produzione capitalistica deve restare limitata. [11.2.] Il volume della massa di merce prodotta dalla produzione capitalistica viene determinato dalla scala di questa produzione e dal bisogno di quest’ultima di estendersi costantemente, non da un circolo predestinato di domanda e offerta, di bisogni da soddisfare. La produzione di massa può avere per suo immediato compratore, oltre ad altri capitalisti industriali, solo il grosso commerciante. Entro certi limiti, il processo di riproduzione può procedere allo stesso grado o a un grado allargato, sebbene le merci da esso espulse non siano entrate realmente nel consumo individuale o produttivo. Il consumo delle merci non è incluso nel ciclo del capitale dal quale provengono. Non appena, ad esempio, il filo è venduto, il ciclo del valore-capitale rappresentato nel filo può incominciare di nuovo, qualunque cosa avvenga in un primo tempo del filo venduto. Finché il prodotto viene venduto, dal punto di vista del produttore capitalistico tutto segue il suo corso regolare. Il ciclo del valorecapitale, che egli rappresenta, non viene interrotto. E se questo processo è allargato – ciò che implica allargato consumo produttivo dei mezzi di produzione – questa riproduzione del capitale può essere accompagnata da allargato consumo individuale (dunque doman71. average

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da) dei lavoratori, poiché esso è introdotto e mediato dal consumo produttivo. Così la produzione di plusvalore e con essa anche il consumo individuale del capitalista può crescere, l’intero processo di riproduzione trovarsi nelle condizioni più fiorenti, e tuttavia una gran parte delle merci essere entrata solo in apparenza nel consumo, in realtà invece giacere invenduta nelle mani dei rivenditori, di fatto, dunque, trovarsi ancora sul mercato. Flusso di merci segue ora flusso di merci, e finalmente viene alla luce il fatto che il flusso precedente solo in apparenza è stato inghiottito dal consumo. I capitali-merce si contendono reciprocamente il loro posto sul mercato. Per vendere, gli ultimi arrivati vendono al di sotto del prezzo. I flussi precedenti non sono ancora stati resi liquidi, mentre scadono i termini di pagamento. I loro possessori devono dichiararsi insolventi, ovvero vendere a qualunque prezzo, per pagare. Questa vendita non ha assolutamente nulla a che fare con lo stato reale della domanda. Essa ha a che fare solo con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di trasformare merce in denaro. Allora scoppia la crisi. Essa diventa visibile non nella immediata diminuzione della domanda di consumo, della domanda per il consumo individuale, ma nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale, del processo di riproduzione del capitale. 12. Crisi monetaria e autonomizzarsi del denaro [12.1.: Das Kapital, Band I, MEW 23.151-152; Il capitale, libro I, sez. 1, cap. 3, tr. it. di D. Cantimori, ER 1.170-171; 12.2.: Das Kapital, Band III, MEW 25.531-532; Il capitale, libro III, sez. 5, cap. 32, tr. it. di M.L. Boggeri, ER 3.2.604-605 (traduzione riveduta)]

[12.1.] La funzione del denaro come mezzo di pagamento implica una contraddizione immediata. Finché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, il denaro non si presenta come mezzo di circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo a far da mediatrice e a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta. Questa contraddizione erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria72. Essa avviene soltanto dove sono sviluppati pienamente il processo 72. La crisi monetaria, come è definita nel testo quale fase particolare di ogni crisi generale di produzione e di commercio, deve essere distinta da quel genere speciale di crisi che viene chiamata anch’essa crisi monetaria, che può però presentarsi per conto proprio,

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a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo, quale che sia l’origine di essi, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro-contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il valore d’uso della merce è senza valore e il suo valore scompare dinanzi alla propria forma di valore. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall’ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido : «Solo il denaro è merce!». Come il cervo mugghia in cerca d’acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l’unica ricchezza73. Nella crisi, l’opposizione fra la merce e la sua figura di valore, il denaro, viene fatta salire fino alla contraddizione assoluta. Perciò qui è indifferente anche la forma fenomenica del denaro. La carestia di denaro rimane la stessa, sia che i pagamenti debbano esser fatti in oro o moneta di credito, p. es. banconote. [12.2.] In periodi di depressione la domanda del capitale da prestito è domanda di mezzi di pagamento e niente altro; in nessun caso è domanda di denaro come mezzo di acquisto. Il tasso d’interesse può salire molto in alto, indipendentemente dal fatto che vi sia sovrabbondanza o penuria di capitale reale, – capitale produttivo e capitale-merce. La domanda di mezzi di pagamento è una semplice domanda di convertibilità in denaro, quando i commercianti e i produttori possono offrire delle garanzie sufficienti; è una domanda di capitale monetario quando ciò non si verifica, quando cioè un anticipo di mezzi di pagamento dà loro non solo la forma monetaria, ma l’equivalente che loro manca, sotto una forma o l’altra, per il pagamento. Questo è il punto in cui entrambe le posizioni che la teoria corrente assume nel giudicare le crisi sono giuste ed errate allo stesso tempo. Coloro che dicono che esiin modo da operare solo di rimbalzo sull’industria e sul commercio. Queste sono crisi il cui centro di movimento è il capitale-denaro; quindi la loro sfera immediata è costituita dalla banca, dalla Borsa, dalla finanza (Nota di Marx alla terza edizione). 73. «Questo subitaneo trapasso del sistema creditizio a sistema monetario aggiunge il terrore teorico al panico pratico, e gli agenti della circolazione rabbrividiscono dinanzi al mistero impenetrabile dei loro propri rapporti» (Karl Marx, Per la critica dell’economia politica [1859, MEW 13.123; tr. it di E. Cantimori Mezzomonti, MEOC 30.414]). «I poveri non lavorano perché i ricchi non hanno più denaro per dar loro occupazione, benché questi continuino a possedere gli stessi terreni e gli stessi operai di prima per provvedere vettovaglie e vestiti;... le quali cose fanno la vera ricchezza d’una nazione, e non il denaro» (John Bellers Proposals far raising a Colledge of Industry, Londra, 1696, pp. 3, 4) (Nota di Marx).

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ste semplicemente una carenza di mezzi di pagamento hanno in mente soltanto quelle persone che posseggono obbligazioni garantite da merci74, o sono dei pazzi che credono sia dovere e facoltà di una banca trasformare, con pezzi di carta, tutti gli speculatori falliti in capitalisti solidi e solvibili. Coloro che dicono che esiste una semplice carenza di capitale, fanno puramente un gioco di parole, poiché in tali periodi vi è una massa di capitale inconvertibile in seguito alla sovra-importazione e alla sovrapproduzione, oppure si riferiscono esclusivamente a quegli avventurieri del credito che ora sono di fatto messi in condizioni di non poter più a lungo ottenere capitale altrui con il quale portare avanti i loro affari, e pretendono che la banca non soltanto li aiuti a restituire il capitale perduto, ma li metta per di più in grado di continuare le loro speculazioni fraudolente. È un principio fondamentale della produzione capitalistica che il denaro si contrappone alla merce quale forma autonoma del valore, ossia che il valore di scambio deve assumere nel denaro una forma autonoma, e ciò è possibile unicamente quando una merce determinata diventa la materia al cui valore si devono commisurare tutte le altre merci, cosicché proprio per ciò diventa la merce universale, la merce per eccellenza75 in contrapposizione a tutte le altre merci. Ciò si deve manifestare – soprattutto presso le nazioni capitalistiche sviluppate, che sostituiscono il denaro in grandi quantità – in due modi: da un lato mediante operazioni di credito, dall’altro mediante moneta di credito. In periodi di depressione, quando il credito si restringe oppure cessa del tutto, il denaro improvvisamente si contrappone in assoluto a tutte le merci quale unico mezzo di pagamento e autentica forma di esistenza del valore. Di qui la svalorizzazione generale delle merci, la difficoltà, anzi l’impossibilità di trasformarle in denaro, ossia nella loro forma puramente fantastica. In secondo luogo, la moneta di credito stessa è denaro unicamente nella misura in cui rappresenta, in assoluto, nell’importo del suo valore nominale, il denaro effettivo. Con il deflusso dell’oro la sua convertibilità in denaro, ossia la sua identità con l’oro reale, diventa problematica. Di qui misure coercitive, aumento del saggio dell’interesse ecc. al fine di assicurare le condizioni di questa convertibilità. Ciò può essere più o meno portato a eccessi mediante un’errata legislazione fondata su errate teorie del denaro e imposta alla nazione nell’interesse di trafficanti di denaro, tipo Overstone e compagni. Ma la causa prima si trova nel fondamento stesso del sistema di produzione. 74. bona fide Sicherheiten

75. par excellence

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13. Crisi e distruzione di capitale [13.1.: Theorien über den Mehrwert, MEW 26.2.496-497; Teorie sul plusvalore, II, cap. 17; tr. it. di L. Perini, MEOC 35.542-543 (traduzione riveduta); 13.2.: Grundrisse del Kritik der politischen Ökonomie 1857-8, MEW 42.641-642; Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus in MEOC 30.136-137 (traduzione riveduta)]

[13.1.] Quando si parla di distruzione di capitale attraverso le crisi, bisogna fare una duplice distinzione. In quanto il processo di riproduzione si arresta, il processo lavorativo viene limitato o talvolta interamente arrestato, viene distrutto capitale reale. Il macchinario che non viene usato, non è capitale. Il lavoro che non viene sfruttato equivale a produzione perduta. Materia prima che giace inutilizzata non è capitale. Costruzioni che restano inutilizzate (altrettanto quanto nuovo macchinario costruito) o restano incompiute, merci che marciscono nel magazzino, tutto ciò è distruzione di capitale. Tutto ciò si limita all’arresto del processo di riproduzione e al fatto che le condizioni di produzione esistenti non operano realmente come condizioni di produzione, non vengono messe in funzione. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio vanno con ciò al diavolo. In secondo luogo, però, distruzione del capitale attraverso le crisi significa un deprezzamento di masse di valore che impedisce loro di rinnovare più tardi il loro processo di riproduzione come capitale sulla stessa scala. È la caduta rovinosa dei prezzi delle merci. Con ciò non viene distrutto nessun valore d’uso. Ciò che perde l’uno, guadagna l’altro. Alle masse di valore operanti come capitali viene impedito di rinnovarsi come capitale nella stessa mano. I vecchi capitalisti fanno bancarotta. Se il valore delle loro merci, dalla cui vendita essi riproducono il loro capitale, era uguale a 12.000 £, di cui per esempio 2.000 £ di profitto, ed esse scendono a 6.000 £, allora questo capitalista non può né adempiere alle obbligazioni contratte né, se anche non ne avesse, ricominciare con le 6.000 £ gli affari sulla stessa scala, perché i prezzi delle merci salgono di nuovo ai loro prezzi di costo. Così è distrutto un capitale di 6.000 £, benché il compratore di queste merci, avendole acquistate alla metà del loro prezzo di costo, se gli affari riprendono vigore, possa andare avanti benissimo e possa anche aver guadagnato. Una gran parte del capitale nominale della società, cioè del valore di scambio del capitale esistente, è distrutta una volta per tutte, benché proprio questa distruzione, poiché essa non tocca il valore d’uso, possa favorire molto la nuova riproduzione. È

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questa al tempo stesso un’epoca in cui i capitalisti monetari76 si arricchisce a spese dei capitalisti industriali77. Ora, per ciò che concerne la caduta di capitale semplicemente fittizio, titoli di Stato, azioni ecc. – nella misura in cui essa non porta alla bancarotta dello Stato e della società per azioni e cosi non viene in generale rallentata la riproduzione, in quanto il credito dei capitalisti industriali che detengono tali titoli ne viene scosso – si tratta di un semplice trasferimento della ricchezza da una mano a un’altra e in complesso agirà favorevolmente sulla riproduzione, in quanto i nuovi ricchi, nelle cui mani queste azioni o titoli cadono a buon mercato, per lo più sono più intraprendenti dei vecchi possessori. [13.2.] Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, e dunque il rapporto del capitale diventa un ostacolo per [lo] sviluppo delle forze produttive del lavoro. Giunto a questo punto, il capitale, ovvero il lavoro salariato78, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta un ceppo, viene necessariamente eliminato. L’ultima configurazione servile79 assunta dall’attività umana, quella del lavoro salariato da un lato e del capitale dall’altro, subisce con ciò una muta radicale, e questa muta radicale è essa stessa il risultato del modo di produzione corrispondente al capitale; le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che sono a loro volta già la negazione di precedenti forme di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione del capitale. Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale80.

76. monied interest [letteralmente: «interesse monetario»] 77. industrial interest [letteralmente: «interesse industriale»] 78. [Vale a dire la società capitalistica, fondata sul lavoro salariato] 79. Knechtsgestalt 80. advice to be gone and to give room to a higher state of social production [in lingua italiana non si riesce a rendere perfettamente l’ironia dell’espressione inglese: infatti advice è ciò che si rende noto, ma anche la notifica dell’ufficiale giudiziario]

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Sviluppo del capitalismo e caduta del saggio di profitto

[Das Kapital (Ökonomisches Manuskript 1863-1865), Drittes Buch, Drittes Kapitel. Gesetz des tendenziellen Falls der allgemeinen Profitrate im Fortschritt der kapitalistischen Produktion, in MEGA II/4.2.285-340; Il capitale (Manoscritto economico 1863-1865), libro terzo, terzo capitolo. Trad. it. di V. Giacché]

Legge della caduta tendenziale del saggio generale di profitto col progredire della produzione capitalistica [1. La legge in quanto tale] |203| Un capitale variabile, ad esempio di 100 £, rappresenta un numero determinato di lavoratori messi in opera a un dato salario, è l’indice di un determinato numero di lavoratori. Si supponga ad esempio che 100 £ sia il salario di 100 lavoratori per un determinato tempo. Se questi 100 lavoratori ora compiono altrettanto lavoro necessario quanto pluslavoro, cioè lavorano ad esempio ogni giorno altrettanto a lungo per sé, per la riproduzione del loro salario, quanto per il capitalista, cioè per la produzione del plusvalore, allora il loro prodotto complessivo sarà = 200 £ e il plusvalore da loro sarà pari a 100 creato sarà di 100 £. Il saggio del plusvalore pv 100 = v 100%. Questo saggio del plusvalore e quindi il grado di sfruttamento del lavoro (che tuttavia potrebbe variare al variare della normale giornata lavorativa) si esprimerebbe tuttavia, come si è visto in precedenza1, in saggi di profitto molto diversi, a seconda dell’entità del valore2 del capitale costante (c) – che cresce con il volume3 dei mezzi di lavoro e del capitale costante – e quindi del capitale complessivo C, dato che il saggio di profitto è = pv. C

Se il capitale costante = 50 e il capitale variabile = 100, allora il saggio di profitto p’ = 100 = 662/3% 150 (l’indice dei 100 lavoratori che lo mettono in movimento)

Se capitale costante = 100 = 200 = 300 = 400 = 500 ecc.

1. [Si veda il cap. 9 dell’edizione a stampa del III libro del Capitale curata da Friedrich Engels: MEW 25.164-181 = ER

100 allora p’ = 200 = 50 %. 100 p’ = 300 = 331/3%. 100 p’ = 400 = 25 %. 100 p’ = 500 = 20%. 100 p’ = 600 = 162/3 % ecc.

3.1.195-213]. 2. Werthumfang 3. Umfang

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Lo stesso saggio del plusvalore, restando invariato il grado di sfruttamento del lavoro, si esprimerebbe quindi in un saggio di profitto decrescente, a causa dell’entità del valore del capitale costante, e perciò del capitale complessivo, che cresce assieme al suo volume materiale (benché non nella stessa proporzione, rappresentando una massa di mezzi di lavoro maggiore). |204| Se inoltre si suppone che quel graduale cambiamento nella composizione del capitale non abbia luogo in sfere particolari della produzione, ma che esso indichi piuttosto cambiamenti nella composizione del capitale complessivo che appartiene a una determinata società, cioè cambiamenti nella composizione organica media del capitale della società, ne conseguirebbe di necessità una caduta graduale del saggio di profitto generale a saggio del plusvalore invariato o con un grado costante di sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Si è però mostrato che è una legge del modo di produzione capitalistico, che con il suo sviluppo abbia luogo una diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale costante e quindi in rapporto al capitale complessivo messo in movimento. Questo in altre parole significa soltanto che lo stesso numero di lavoratori (la stessa forza-lavoro), messo in movimento da un capitale della medesima entità di valore, da un capitale variabile di una data grandezza di valore, in conseguenza dei particolari metodi di produzione che si sviluppano nel modo di produzione capitalistico, mette in movimento, o consuma in maniera produttiva, adopera nello stesso periodo di tempo una massa sempre crescente di strumenti di lavoro, materie prime, ausiliarie, macchine e capitale fisso di ogni tipo, e quindi anche un capitale costante di sempre maggiore entità in termini di valore). Questa progressiva diminuzione relativa del capitale variabile in relazione a quello costante e quindi al capitale complessivo, equivale alla progressiva più elevata composizione organica del capitale sociale, alla più elevata composizione organica media del capitale. Essa è a sua volta un’altra espressione dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, che si manifesta proprio in ciò, che in generale, per mezzo del crescente uso di macchinari, capitale fisso, più materie prime e ausiliarie vengono trasformate in prodotti nello stesso tempo, ossia con meno lavoro. A questa crescente entità di valore del capitale costante corrisponde – benché essa rappresenti solo lontanamente la crescita nella massa reale dei valori d’uso in cui consiste materialmente4 il capitale costante – una crescente diminuzione di prezzo5 del prodotto; quest’ultimo, ciascun singolo prodotto per sé considerato, contiene una somma minore di lavoro 4. materialiter

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5. Verwohlfeilerung

oggettivato e vivente (come si è mostrato più sopra) che in stadi meno elevati della produzione, nei quali il capitale investito in lavoro è molto maggiore rispetto a quello investito in mezzi di produzione. Perciò il caso proposto a mo’ di ipotesi all’inizio di questo capitolo rappresenta l’effettiva tendenza della produzione capitalistica. Essa produce, con la progressiva diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante, una composizione organica del capitale complessivo sempre più elevata, che ha per immediata conseguenza che il saggio del plusvalore, ove il grado di sfruttamento del lavoro resti costante o anche aumenti, trova espressione in un saggio generale di profitto in costante diminuzione. (Più avanti si mostrerà perché questa caduta non si presenti in questa forma assoluta, ma piuttosto come una tendenza alla caduta progressiva)6. La tendenza progressiva alla caduta del saggio generale di profitto è soltanto una espressione peculiare al modo di produzione capitalistico dello sviluppo progressivo della forza produttiva sociale del lavoro, in presenza di un grado di sfruttamento del lavoro costante o anche crescente (da un punto di vista intensivo o estensivo). Questo non significa che il saggio di profitto non possa temporaneamente diminuire |205| anche per altri motivi, ma con ciò si deduce dalla natura stessa del modo di produzione capitalistico e come una evidente necessità, quindi si dimostra, il fatto che nel suo sviluppo il saggio generale del plusvalore deve tradursi in un saggio generale di profitto decrescente. Emerge molto semplicemente che, dal momento che la massa del lavoro vivo impiegato diminuisce costantemente rispetto alla massa del lavoro oggettivato da esso messo in movimento, [cioè] rispetto ai mezzi di produzione consumati in maniera produttiva, anche la parte di questo lavoro vivo che non viene pagata e che si esprime nel plusvalore deve costituire una proporzione in costante diminuzione rispetto al volume di valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto del plusvalore rispetto al valore del capitale complessivo impiegato costituisce però il saggio di profitto, che perciò deve costantemente diminuire. Per quanto questa legge appaia semplice dopo le spiegazioni sin qui sviluppate, tuttavia, come si vedrà da uno dei successivi capitoli, l’intera economia politica sino a oggi non è riuscita a scoprirla. Essa ha visto il fenomeno e si è affannata intorno a tentativi contraddittori di spiegarlo. Data però la grande importanza che questa legge riveste per la produzione capitalistica, si può affermare che essa rappresenti il mistero alla cui soluzione si è rivolta l’intera economia politica da A. Smith e che la differenza tra le diverse 6. [Vedi alle p. 127-137 di questo volume]

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scuole da A. Smith in poi consista nei diversi tentativi fatti per giungere a tale soluzione. Se però d’altra parte si considera che sinora l’economia politica è andata cercando a tentoni la differenza tra capitale costante e variabile, ma non le è mai riuscito di formularla con chiarezza7; che essa non ha mai separato il plusvalore dal profitto, né ha mai esposto il profitto in forma pura, distinto dai diversi suoi elementi resisi reciprocamente indipendenti – quali profitto industriale, profitto commerciale, interesse, rendita fondiaria; che non ha mai indagato a fondo le differenze nella composizione organica del capitale, e quindi altrettanto poco la formazione del saggio generale di profitto; se si considera tutto questo, il fatto che non sia riuscita a dare soluzione a questo enigma cessa di essere sorprendente. Esponiamo di proposito questa legge prima di esporre la scomposizione del profitto in diverse categorie reciprocamente indipendenti. L’indipendenza della sua esposizione da questa suddivisione del profitto in parti diverse, che spettano a diverse categorie di persone, dimostra da subito l’indipendenza di questa legge, nella sua universalità, da quella divisione e dai rapporti delle categorie di profitto separate, quali interesse ecc., l’una con l’altra. Il profitto, di cui parliamo in questa sede, non è che un altro nome del plusvalore stesso, solo [che esso è qui] presentato in rapporto al capitale complessivo invece che al capitale variabile dal quale scaturisce. La caduta del saggio di profitto esprime dunque la proporzione decrescente del plusvalore stesso rispetto al capitale complessivo anticipato, ed è quindi indipendente da qualsivoglia ripartizione di questo plusvalore tra diverse categorie. Si è visto che a un livello dello sviluppo capitalistico in cui il capitale variabile è = 100 e il plusvalore è 100, un saggio del plusvalore del 100%, se il capitale costante è = 50, si esprime in un saggio di profitto del 66 2/3%; e che a un livello superiore, in cui il capitale costante = 400, lo stesso saggio del plusvalore si esprimerebbe in un saggio di profitto del 20%. Ciò che vale per i diversi stadi di sviluppo che si susseguono all’interno di un paese, vale per i diversi stadi di sviluppo che sussistono contemporaneamente l’uno accanto all’altro in diversi paesi. Nel paese non sviluppato, dove [si ha] la prima composizione del capitale, il saggio generale di profitto sarebbe = 66 2/3%, mentre sarebbe = 20% nel paese al secondo e molto più avanzato stadio di sviluppo. {La differenza tra i due saggi nazionali di profitto //206/ potrebbe scomparire o capovolgersi nel caso che, ad esempio, nel paese meno sviluppato il lavoro 7. bewußt

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fosse più improduttivo, quindi una maggiore quantità di lavoro si traducesse in una minore quantità di valore d’uso, una maggiore quantità di valore di scambio in una minore quantità di valore d’uso8, e perciò a causa della minore forza produttiva del lavoro il lavoratore dovesse impiegare una parte maggiore del proprio tempo per la riproduzione dei propri mezzi di sussistenza o del loro valore e una parte minore per la produzione del plusvalore, e quindi fornisse meno pluslavoro. Se ad esempio il lavoratore nel paese meno sviluppato lavorasse per il capitalista soltanto per 1/3 della giornata lavorativa, anziché per la metà come nei paesi sviluppati, in base alle ipotesi di cui sopra la stessa forza lavoro sarebbe pagata con 133 1/3 e fornirebbe un’eccedenza9 di appena 66 2/3. A questo capitale variabile di 133 1/3 corrisponderebbe un capitale costante di 50. Il capitale anticipato complessivo ammonterebbe quindi a 183 1/3 e il plusvalore a 66 2/3. Questo darebbe un saggio di profitto di 66 2/3 : 183 1/3, cioè qualcosa più del 36%.}10 Poiché sinora non abbiamo ancora esaminato i diversi elementi in cui si suddivide il profitto, e perciò per noi essi non esistono ancora, è al solo scopo di evitare fraintendimenti che si anticipa quanto segue. Nel confrontare paesi a diversi stadi di sviluppo – ad esempio quelli a produzione capitalistica sviluppata e quelli in cui non vi è ancora sussunzione reale11 del lavoro sotto il capitale, anche se il lavoratore è realmente12 sfruttato dal capitalista – {come ad esempio in India, dove il ryot lavora come contadino indipendente, quindi la sua produzione non è realmente13 sussunta sotto il capitale, anche se l’usuraio può estorcergli sotto forma di interesse non soltanto il suo intero pluslavoro14, ma anche una parte del suo salario (per dirla in modo conforme ai rapporti capitalistici)} – sarebbe sbagliatissimo ad esempio misurare la differenza dei saggi nazionali di profitto in base alla differenza dei tassi nazionali di interesse. Quell’interesse comprende [infatti] il profitto e più del profitto, anziché esprimere una quota parte15 del plusvalore complessivo. D’altra parte qui il tasso d’interesse è determinato prevalentemente da rapporti (anticipi16 ai Grandi, i detentori della rendita fondiaria), che non hanno nulla a che fare col profitto, ma indicano piuttosto in quale misura l’usuraio si appropria della rendita fondiaria. 8. Gebrauchswerth [Sostituito da Engels, nell’edizione a stampa, con Ware (merce)] 9. Surplus 10. [Nel testo edito da Engels vi sono diversi cambiamenti a queste ultime righe. Anche le proporzioni sono cambiate] 11. real [Engels: förmlich (propriamente)]

12. realiter 13. realiter [manca nell’edizione a stampa curata da Engels] 14. surplus labour 15. aliquoten Theil 16. Pumpereien

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In paesi a un diverso stadio di sviluppo della produzione capitalistica e quindi della composizione organica del capitale, il saggio del plusvalore (quindi il fattore17 determinante del saggio di profitto) può essere più elevato nel paese in cui la giornata lavorativa normale è più breve che in quello in cui è più lunga (più grande). In primo luogo: se la giornata lavorativa inglese di 10 ore a causa della sua maggiore intensità è = a una giornata lavorativa austriaca di 14 ore, a pari ripartizione della giornata lavorativa 5 ore di plusvalore18 in Inghilterra possono rappresentare sul mercato mondiale un valore più elevato che 7 ore in Austria. In secondo luogo, nel primo caso può creare valore eccedente19 una parte della giornata lavorativa maggiore che nel secondo caso. La legge del saggio decrescente del profitto, in cui si esprime un saggio del plusvalore pari o anche crescente, significa in altre parole che, data una certa quantità di capitale medio sociale, ad esempio un capitale di 100, una parte sempre maggiore di esso è rappresentata da strumenti di lavoro e una parte sempre minore di esso da lavoro vivo: perciò, poiché il lavoro vivo supplementare complessivo20 diminuisce, anche la parte non pagata e la parte di valore che lo rappresenta diminuisce in rapporto al valore del capitale complessivo investito; ovvero: una parte sempre più piccola del capitale complessivo si converte in lavoro vivo e quindi in rapporto alla sua grandezza assorbe sempre meno pluslavoro21, benché la proporzione della parte non pagata del lavoro impiegato possa al tempo stesso aumentare rispetto alla sua parte pagata. La riduzione del capitale variabile e l’aumento di quello costante, benché entrambe le parti crescano, è soltanto una diversa espressione dell’aumentata produttività del lavoro. Poniamo ad es. che in un capitale di 100 siano anticipati 4/5 in capitale costante, ||207| e 1/5 (=20) in capitale variabile (=20 lavoratori). Il saggio del plusvalore sia = 100%, cioè gli operai lavorano mezza giornata per sé, mezza giornata per il capitalista. [Supponiamo che] nel paese meno sviluppato sia anticipato 1/5 (=20) in capitale costante e sia necessario un numero 4 volte superiore di lavoratori per mettere in movimento questo capitale costante di 4 volte inferiore. Ma questi lavoratori hanno bisogno di 2/3 della giornata lavorativa per sé e lavorano per il capitalista soltanto per 1/3 della giornata lavorativa, anziché per 1/2. Essi producono, come prima, un valore di 120 (ipotizzando la stessa giornata lavorativa) (così come i 20 un valo17. dieser eine Factor 18. Mehrwerth [Appare però corretta la sostituzione operata da Engels: Mehrarbeit (pluslavoro)]

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19. surplus 20. gesammte lebendige Zusatzarbeit 21. Surplusarbeit

re di 40). Ma abbisognano per sé di 2/3 di questo 120 e ne lasciano al capitalista soltanto 1/3. In questo caso le cose stanno così: 20c+80v+40pv. E quindi il saggio di profitto è = 40%. Il saggio di profitto ammonta anche nell’ultimo caso alla stessa cifra assoluta che nel primo caso, benché nel primo caso il saggio del plusvalore sia = 100% e nel secondo soltanto 50%. In compenso un capitale della stessa grandezza si appropria però nel primo caso soltanto del pluslavoro di 20 lavoratori, mentre nel secondo di quello di 80. Tuttavia il grado di sfruttamento del lavoro è molto maggiore nel primo caso che nell’ultimo. In termini esatti, la composizione [organica] sarebbe nel primo caso c80 v20 e nel secondo c15+15/19 v84+4/19. Un plusvalore di 100 [%] dà nel primo caso un profitto del 20%, e un plusvalore del 33 1/3% dà22 Un esempio migliore, in quanto non contiene frazioni, è questo. Supponiamo che23 c80 v20, pv = 20, pv’ = 100%. I 20 siano = 20 lavoratori. Ora poniamo che 60 lavoratori siano necessari per mettere in movimento 20 c. Il loro prodotto complessivo, per lo stesso tempo di lavoro dei 20 [di prima], è = 120. Ma essi lavorano soltanto per 1/3 per il loro padrone24, e per 2/3 per sé. Perciò abbiamo 80v e 40pv. La composizione è c20 v80 e il pv = 40, pv’ = 50%. Nel primo caso il p’ = 20%, nel secondo il p’ = 40%. Il saggio di profitto quindi nel secondo caso è il doppio che nel primo, benché nel primo caso il saggio del plusvalore sia il doppio che nel secondo. Ma la massa del plusvalore è maggiore dove 1/3 della giornata di 60 lavoratori viene accaparrata da un capitale di pari grandezza di quello che nell’altro caso ingoia 1/2 della giornata di 20 lavoratori. Supponiamo una giornata lavorativa = 12 ore. Quindi 1/2 = 6 ore e 1/3 = 4 ore. 20 x 6 =120 ore, però 60 x 4 = 240, esattamente il doppio. Perciò, benché il grado di sfruttamento del lavoro sia molto maggiore nel caso I che nel caso II, tuttavia il saggio di profitto è il doppio nel caso II rispetto al caso I. Il grado di sfruttamento nel caso I è = 100%, nel caso II è = 50%25. La legge della caduta progressiva del saggio di profitto, o [della caduta progressiva] della massa di pluslavoro appropriata rispetto alla massa del lavoro oggettivato messo in movimento da essa, non esclude26 in alcun modo che la massa assoluta del lavoro messa in movimento e sfruttata dal capitale sociale, e quindi anche la massa assoluta del pluslavoro da esso appropriata, cresca; tanto meno 22. [Qui la frase si interrompe] 23. Suppose 24. master 25. [Gran parte di questo capoverso non è stata riportata da Engels nell’edizione a

stampa] 26. progressive falling ratio of the rate of profit, or of the masse of surplus labour appropriated relatively to the mass of materialized labour, put into movement by it, excluds

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esclude che i capitali al comando dei singoli capitalisti comandino una massa crescente di lavoro e quindi di pluslavoro, e questo27 anche se non cresce il numero degli operai da essi comandati. |208| Si prenda una data popolazione operaia, ad es. di 2 milioni; si considerino inoltre dati estensione e intensità della giornata lavorativa media; si considerino infine come dati il salario e con ciò il rapporto tra lavoro necessario e pluslavoro. Tanto il lavoro complessivo di questi 2 milioni, quanto il loro pluslavoro che si traduce nel plusvalore, producono sempre la stessa grandezza di valore. Ma il rapporto proporzionale di questa grandezza di valore con la massa crescente del capitale costante (fisso e circolante) che essa mette in movimento decresce rispetto al valore di questo capitale, valore che cresce con la massa, sebbene non nella stessa proporzione di tale massa. Questa proporzione28, e con essa il saggio di profitto, diminuisce, benché il capitale comandi la stessa massa di lavoro vivo di prima e assorba la stessa massa di pluslavoro. Il rapporto proporzionale tende a ridursi29, non perché diminuisca la massa del lavoro vivo, ma perché cresce la massa del lavoro oggettivato da essa messa in movimento. La diminuzione è relativa, non assoluta, e in realtà non ha nulla a che fare con la grandezza assoluta del lavoro e del pluslavoro messi in movimento. La caduta del saggio di profitto scaturisce da una diminuzione relativa, e non assoluta, della quota variabile del capitale complessivo rispetto alla sua quota costante. Quello che vale per una data massa di lavoro e di pluslavoro, vale anche per un numero crescente di lavoratori e quindi, alle premesse date, per una massa crescente di lavoro comandato in generale e della parte non pagata di esso, il pluslavoro, in particolare. Se la popolazione operaia sale da 2 a 3 milioni, se inoltre il capitale costante che metteva in movimento i 2 milioni era = 4 milioni, mentre il capitale costante che i 3 milioni mettono in movimento è = 15 milioni, allora, alle condizioni date che la giornata lavorativa e la sua ripartizione in lavoro necessario e pluslavoro rimangano costanti, la massa del plusvalore cresce di 1/2, ossia del 50%, in quanto cresce da 2 a 3 [milioni], e cresce nella stessa proporzione la massa del pluslavoro, la massa del plusvalore. Ciò nonostante, malgrado questa crescita del 50% della massa assoluta del pluslavoro e quindi del plusvalore, la proporzione di questa massa cresciuta 1) del capitale variabile in rapporto a quello costante, 2) del plusvalo27. selbst letztres 28. Proportion

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29. Das Verhältnis ist ein abnehmendes [Engels ha modificato in un più neutro ändert sich (cambia)]

re rispetto al capitale complessivo, scenderebbe, il primo da 2:4 ossia 1:2 a 3:15 ossia 1:5, e il secondo, con un pluslavoro = 100%, da 2:6 a 3:18. Malgrado questa proporzione decrescente del capitale variabile rispetto a quello costante, e del plusvalore rispetto al capitale complessivo investito, la massa assoluta del plusvalore assorbito dal capitale sociale complessivo sarebbe cresciuta del 50% con la popolazione operaia. Il profitto (che va distinto dal saggio di profitto), calcolato rispetto al capitale [complessivo] della società, è però soltanto una categoria diversa per il plusvalore e la massa del profitto, la sua grandezza assoluta è quindi, considerata dal punto di vista della società, pari alla grandezza assoluta del plusvalore. La grandezza assoluta del profitto o la massa assoluta del profitto – sarebbe quindi cresciuta del 50%, nonostante un’enorme diminuzione nel rapporto tra questo profitto e il capitale complessivo anticipato o malgrado l’enorme diminuzione del saggio generale di profitto. Il numero dei lavoratori messi in movimento dal capitale, ||209| perciò la massa assoluta del lavoro messo in movimento, perciò la massa assoluta del pluslavoro da esso assorbito e appropriato, perciò la massa del plusvalore da esso prodotto, perciò la grandezza assoluta o la massa del profitto da esso prodotto possono quindi aumentare, crescere e crescere progressivamente malgrado la progressiva caduta del saggio di profitto. Questo non soltanto può avvenire. Questo deve avvenire – eccettuate alcune temporanee oscillazioni – sulla base del modo di produzione capitalistico. Il processo di produzione capitalistico è per essenza, al tempo stesso, processo di accumulazione. Si è dimostrato come, col progredire della produzione capitalistica, il valore, che viene semplicemente riprodotto (conservato), cresce sempre più, anche se la forza lavoro impiegata resta costante. Ma cresce ancor più, con lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, la massa dei valori d’uso prodotti, di cui i mezzi di produzione costituiscono una parte. E il lavoro aggiuntivo, la cui appropriazione consente di riconvertire in capitale questa ricchezza addizionale, non dipende dal valore, ma dalla massa di questi mezzi di produzione (inclusi i mezzi di sussistenza), poiché l’operaio nell’effettivo processo lavorativo non ha a che fare col valore, ma col valore d’uso dei mezzi di produzione. La stessa accumulazione, e la concentrazione del capitale che con essa si realizza, sono però esse stesse un mezzo materiale dell’accrescimento della forza produttiva, del suo potenziamento. Ma questo incremento dei mezzi di produzione presuppone un incremento della popolazione operaia, la creazione di una sovrappopolazione30 30. Surplusbevölkerung

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di lavoratori che corrisponde al capitale supplementare31 e che anzi nel complesso ne travalica il fabbisogno. Una momentanea eccedenza del capitale addizionale32 rispetto alla popolazione addizionale33 da esso comandata avrebbe un duplice effetto: 1) da un lato, attraverso un accrescimento del salario, attenuazione delle circostanze che decimano e annientano la prole degli operai e incentivo ai matrimoni34; 2) attraverso l’applicazione dei metodi che creano il plusvalore relativo, creazione di una artificiale eccedenza di popolazione35, che anch’essa a sua volta – dal momento che la miseria crea popolazione nel contesto della produzione capitalistica36 – è l’humus37 di un effettivo incremento della popolazione. Dalla natura del processo di accumulazione capitalistico – che è un momento del processo di produzione capitalistico – consegue perciò in maniera spontanea che la massa accresciuta di mezzi di produzione destinati a essere trasformati in capitale trova pronta per l’uso38 e sempre a portata di mano per essere sfruttata una popolazione operaia in quantità cresciuta in proporzione, e anzi addirittura in eccesso. Col progredire del processo di produzione e di accumulazione quindi la massa del pluslavoro39 di cui il capitale può impadronirsi ed effettivamente si impadronisce deve crescere, e con essa la massa assoluta del profitto accaparrato dal capitale sociale. Ma queste stesse leggi dell’accumulazione e della produzione aumentano, assieme alla massa, il valore del capitale costante in una progressione sempre più rapida rispetto a quello della parte del capitale variabile o convertita e scambiata con lavoro vivo. Le stesse leggi producono quindi una massa assoluta del profitto crescente per il capitale sociale, e assieme una diminuzione del saggio di profitto. In questa sede si trascura del tutto il fatto che la stessa grandezza di valore, col progredire della produzione capitalistica e dello sviluppo a essa corrispondente della forza produttiva del lavoro sociale e del moltiplicarsi dei rami di produzione e quindi dei prodotti, forse con l’eccezione dei soli mezzi primari di sussistenza, rappresenta una massa progressivamente crescente di valori d’uso e godimenti. |210| Dal momento che lo sviluppo del processo capitalistico di produzione e di accumulazione [presuppone] che il lavoro si svolga su scala progressivamente sempre maggiore e quindi comporta – tra le sue condizioni materiali e tra i risultati da esso stesso prodotti – una crescente concentrazione dei capitali (che al tempo stesso è 31. Surpluscapital 32. Surpluscapital 33. Surplusbevoelkerung 34. stimulus für marriages 35. redundancy of population

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36. as misery creates population within capitalistic production 37. hotbed 38. ready 39. surpluslabour

accompagnata, sia pure in misura minore, dall’incremento dei capitalisti, o dall’incremento di questi luoghi di raccolta) e di pari passo, in azione reciproca con quel processo, procede la progressiva espropriazione dei produttori più o meno immediati, si capisce perciò facilmente, riguardo ai singoli capitalisti, che essi comandino su eserciti sempre crescenti di lavoratori (benché anche per loro la quota del capitale investito in salari, del capitale variabile, diminuisca in rapporto a quello investito in mezzi di lavoro, al capitale costante), e che la massa del plusvalore che si appropriano e quindi la massa dei profitti40 cresca contemporaneamente e nonostante la caduta del saggio di profitto. Sono queste stesse cause e fattori41, che riuniscono (centralizzano) la massa degli eserciti di lavoratori sotto il comando di singoli capitalisti e che fanno ingrossare la massa dei macchinari utilizzati, immobili, capitale fisso in generale, e delle materie prime, ausiliarie ecc. in proporzione relativamente crescente rispetto alla massa del lavoro vivo utilizzato. È qui inoltre appena il caso di osservare che, con una popolazione operaia costante (data), al crescere del saggio di plusvalore, sia attraverso il prolungamento o l’intensificazione della giornata lavorativa, sia attraverso l’abbassamento del salario a seguito dello sviluppo della forza produttiva del lavoro, crescerà la massa assoluta del plusvalore e quindi la massa assoluta dei profitti, quale che sia la diminuzione relativa del capitale variabile scambiato con forza lavoro rispetto al capitale costante esistente nella forma di capitale fisso e circolante, ecc.42 Lo stesso sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, le stesse leggi che si presentano nella diminuzione relativa del capitale variabile rispetto al capitale complessivo e dell’accumulazione in tal modo accelerata, mentre d’altro lato l’accumulazione diviene a sua volta43 il punto di partenza dello sviluppo della produttività del lavoro e di un’ulteriore diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante o rispetto al capitale complessivo, lo stesso sviluppo si esprime, a prescindere da oscillazioni temporanee, nella crescita progressiva della forza lavoro utilizzata, nella crescita progressiva della massa assoluta del plusvalore e quindi della massa assoluta o grandezza del profitto. In quale forma deve ora esprimersi questa legge ancipite, ma che nasce dalle stesse cause, della diminuzione del saggio di profitto 40. Profitmasse 41. agencies 42. whatever be the relative diminution of the variable capital, exchanged against la-

bour, in respect to the constant capital, existing in the form of fixed and circulating capital, etc. 43. rückwirkend

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e della contemporanea crescita della massa assoluta del profitto? Una legge fondata su questo, che alle condizioni date la massa accaparrata del pluslavoro, e quindi del plusvalore, cresce, ma se si considera il capitale complessivo, o il capitale singolo come semplice porzione del capitale complessivo, profitto e plusvalore restano grandezze uguali? Prendiamo la quota parte del capitale su cui calcoliamo il saggio di profitto, ad es. 100 se la calcoliamo in percentuali. Questi 100 rappresentano la composizione complessiva, la sua composizione media, c80 v20 o simili, e nel secondo capitolo44 di questo libro abbiamo effettivamente visto come il saggio medio di profitto nei diversi rami della produzione non sia determinato dalla particolare composizione del capitale in queste sfere, bensì dalla sua composizione sociale media. Con la diminuzione relativa della parte variabile del capitale rispetto alla parte costante e quindi rispetto al capitale complessivo di 100, il saggio di profitto cade, ovvero scende – a grado di sfruttamento del lavoro invariato o anche crescente – la grandezza relativa 45 del plusvalore, cioè la sua proporzione 46 rispetto al valore del capitale complessivo anticipato di 100. Ma questa ||211| grandezza relativa non è l’unica a scendere. La grandezza del plusvalore o del profitto, che il capitale complessivo di 100 produce (si appropria), cala in termini assoluti. Se la composizione era c60 v40, con un saggio del plusvalore del 100% la massa del plusvalore e quindi del profitto era 40. Non appena la composizione è divenuta c70 v30, la massa del plusvalore e del profitto – a saggio di plusvalore o grado di sfruttamento del lavoro invariati – è scesa di 10, cioè 1/4 di 40, cioè del 25%; e quando la composizione è divenuta c80 v20, rispetto al capitale di partenza, a queste stesse condizioni, [la massa del plusvalore o del profitto] è scesa da 40 a 20, cioè di 1/2 o del 50%. Questa diminuzione riguarda le masse del plusvalore e quindi del profitto, ed è la conseguenza del fatto che, siccome il capitale complessivo di 100 mette in movimento in generale meno lavoro vivo a grado di sfruttamento invariato, mette in movimento anche meno pluslavoro e pertanto produce meno plusvalore, che non è altro se non pluslavoro materializzato. Presa come unità di misura (standard) per misurare il plusvalore una qualsiasi quota parte del capitale sociale, ossia del capitale di composizione sociale media – ed è quello che accade in ogni calcolo del profitto, e questo [modo di] calco44. [Corrispondente alla seconda sezione nell’edizione a stampa: vedi MEW 25.151220 = ER 3.1.181-250].

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45. Proportionelle 46. Verhältnis

lare corrisponde alla natura del profitto – quindi preso ad es. un capitale di composizione sociale media come tale unità di misura del calcolo percentuale del profitto – in generale la diminuzione relativa del plusvalore e la sua diminuzione assoluta sono identiche. Il saggio di profitto negli esempi di cui sopra cala dal 40% al 30% al 20%, perché in realtà la massa di plusvalore prodotta dal capitale, e quindi il profitto, scendono in termini assoluti da 40 a 30 a 20. Poiché la grandezza di valore del capitale su cui è calcolato il plusvalore, costante e data, è = 100, una diminuzione della proporzione del plusvalore rispetto a questa grandezza invariata può soltanto risultare identica a, o essere soltanto un’altra espressione per, la diminuzione della grandezza assoluta del plusvalore e del profitto. Questa in realtà è una tautologia. Il fatto però che avvenga tale diminuzione, deriva, come si è dimostrato, dalla natura dello sviluppo del processo di produzione capitalistico. D’altra parte però le stesse cause che producono una diminuzione assoluta del plusvalore e quindi del profitto su un capitale diciamo di cento, e quindi del tasso di profitto calcolato percentualmente, generano [anche] una crescita della massa assoluta del pluslavoro, del plusvalore e quindi del profitto prodotti e appropriati dal capitale sociale (o anche dai singoli capitalisti). Come deve ora esprimersi questo fatto, in quali condizioni può esprimersi o quali condizioni sono implicite in questa apparente contraddizione? Se ogni quota parte pari a 100 del capitale sociale – e quindi ogni 100 di capitale di composizione sociale media – è una grandezza costante e, con il diminuire della parte variabile di questa grandezza costante, diminuiscono in termini assoluti il plusvalore e quindi il profitto – ossia se diminuzione del saggio di profitto e grandezza assoluta del profitto qui coincidono, precisamente perché il capitale su cui sono misurati è una grandezza costante –, al contrario la grandezza complessiva del capitale sociale, come pure il capitale che si trova in possesso dei singoli capitalisti, è una grandezza variabile, che, per corrispondere alle condizioni ipotizzate, deve variare in una data proporzione inversa rispetto alla parte variabile di una porzione di capitale di grandezza data, ad esempio di un capitale di 100. Ad esempio. Quando la composizione di 100 era c60 v40 il plusvalore o profitto su di essa era 40 e quindi il saggio di profitto 40%. Supponiamo che il capitale complessivo a questo livello di composizione sia stato = 1 milione. Il plusvalore complessivo, quindi il profitto complessivo, ammontavano perciò a 400.000. Se adesso la composizione diventa c80 v20, il plusvalore e il profitto

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su ogni 100 sarà = 20, a grado invariato di sfruttamento del lavoro. Poiché però il plusvalore o profitto, come si è dimostrato, quanto a massa assoluta, pur in presenza di questo saggio di profitto in diminuzione o di questa produzione di plusvalore in diminuzione da un capitale di 100, cresce, per es. di 1/10, quindi cresce da 400.000 a 440.000 (la proporzione numerica è qui del tutto indifferente e quindi la supposizione è fatta ad arbitrio), questo è possibile soltanto grazie al fatto che il capitale complessivo, che si è formato contemporaneamente al formarsi di questa nuova composizione, [è cresciuto] sino a 2.200.000. La ||212| massa del capitale complessivo messo in movimento è aumentata sino al 220%, mentre il saggio di profitto è diminuito del 50%. Se il capitale si fosse soltanto raddoppiato, sarebbe risultato impossibile poter produrre una massa del plusvalore e del profitto più grande in termini assoluti. Infatti 2 milioni al [saggio di profitto] del 20% fanno soltanto 400.000, e quindi non più di quanto producesse 1 milione al [saggio del] 40%. Se il capitale fosse cresciuto di meno che del doppio, avrebbe prodotto meno plusvalore e profitto che [un capitale di] 1 milione al 40%. Quest’ultimo, per far crescere il suo plusvalore da 400.000 a 440.000, aveva soltanto bisogno di crescere da 1 milione a 1.100.000. Riappare qui la legge già sviluppata in precedenza, secondo cui con la diminuzione relativa del capitale variabile, quindi con lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, è necessaria una massa sempre crescente di capitale complessivo per mettere in movimento la stessa forza lavoro o per assorbire la stessa massa di pluslavoro, per sfruttare la stessa massa di lavoro. Nella stessa proporzione in cui perciò si sviluppa la produzione capitalistica, si sviluppa la possibilità di una sovrappopolazione relativa di lavoratori, e non perché la forza produttiva del lavoro sociale diminuisca, ma perché essa cresce: perciò non a causa di una sproporzione assoluta tra lavoro e mezzi di sussistenza o strumenti per la produzione di questi mezzi di sussistenza, ma a causa di una sproporzione, data dallo sfruttamento capitalistico del lavoro, tra la crescita del capitale e il suo fabbisogno di popolazione crescente. Se il saggio di profitto cade del 50%, si tratta di una caduta da 1 a 1/2. Quindi affinché la massa del profitto resti invariata un capitale di 100 deve raddoppiarsi, in quanto 100 ! 1 = 200 ! 1/2. Il moltiplicatore che indica la crescita del capitale complessivo deve essere = al divisore che indica la diminuzione del saggio di profitto. Quando un fattore è moltiplicato per lo stesso numero per il quale l’altro è diviso, il prodotto resta invariato. Se il saggio di profitto diminuisce da 40 a 20, al-

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lora il capitale complessivo dovrà crescere in senso inverso da 20 a 40 affinché il prodotto resti invariato. Il numero 40 è diviso per 2 e il capitale è moltiplicato per 2. Se la diminuzione è da 40 a 30, allora il capitale dovrà crescere in proporzione inversa da 30 a 40, cioè di 1/3, di fatto da 1 milione a 1.333.333 1/3. Se la diminuzione fosse da 40 a 8, allora il capitale avrebbe dovuto crescere nella proporzione inversa di 8/40, ossia di 5 volte. Un capitale di 1 milione con un rendimento del 40% produce 400.000, e un capitale di 5 milioni con un rendimento dell’8% produce parimenti 400.000. Questo è necessario affinché il prodotto (il risultato) resti lo stesso. Se invece esso deve crescere, allora il capitale dovrà crescere in proporzione inversa maggiore di quanto diminuisca il saggio di profitto o il plusvalore o profitto prodotto per 100 (a seguito della più elevata composizione del capitale medio o – ciò che è lo stesso – della proporzione calante del capitale variabile calcolato pro rata su 100). In altre parole: affinché la componente variabile del capitale complessivo non soltanto resti la stessa, ma cresca, benché la parte del capitale variabile che entra in una quota parte di 100 del capitale complessivo diminuisca, il capitale complessivo deve non soltanto crescere inversamente nella stessa proporzione in cui il capitale variabile su 100 diminuisce, ma in proporzione maggiore. Deve crescere così tanto da aver bisogno non soltanto del vecchio capitale variabile, ma di una quantità maggiore di esso, in conformità alla proporzione della nuova composizione [organica]. Se la parte variabile diminuisce da 40 a 20, allora il capitale complessivo dovrà crescere non soltanto da 100 a 200, ma a più che 200 per aver bisogno di un capitale variabile > 40. |213| Anche nel caso in cui la massa sfruttata della popolazione operaia rimanesse costante e aumentassero soltanto intensità ed estensione della giornata lavorativa, la massa del capitale impiegato dovrebbe crescere, perché, in presenza di una mutata composizione del capitale, essa deve crescere addirittura per utilizzare la stessa massa con i vecchi rapporti di sfruttamento. Dunque: lo stesso sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro, che col progredire del modo di produzione capitalistico si esprime in una tendenza alla progressiva diminuzione del saggio di profitto, si esprime nella crescita costante della massa assoluta del plusvalore o del profitto di cui [il capitale] si appropria, cosicché nell’insieme alla diminuzione relativa del capitale variabile corrisponde la sua crescita in termini assoluti. Questo duplice47 effetto, come si è mostrato, può presentarsi soltanto in un incremento del 47. doppelseitige

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capitale complessivo con una progressione più rapida e inversa alla diminuzione del saggio di profitto. Per utilizzare un capitale variabile accresciuto in termini assoluti, in presenza di una composizione più elevata, ossia di una diminuzione del capitale variabile raffrontato con quello costante, il capitale complessivo deve crescere [anche] in proporzione alla più elevata composizione. (Di qui discende la facilità con cui di recente48 si produce la sovrappopolazione, siccome, a seguito della crescente forza produttiva del lavoro, è necessario sempre più capitale per impiegare la stessa forza lavoro, e ancora di più per impiegare forza lavoro crescente.) Se il capitale variabile rappresenta soltanto 1/6 del capitale complessivo, mentre prima ne rappresentava 1/2, allora, per impiegare la stessa forza lavoro, ossia per utilizzare un capitale variabile della stessa grandezza di prima, il capitale complessivo ad es. di 200 deve crescere a 600, cioè triplicarsi; e se si deve impiegare il doppio del vecchio capitale variabile, allora il capitale complessivo deve crescere a 1200, mentre prima allo stesso scopo era sufficiente che crescesse a 400. La teoria economica invalsa sino a oggi, che non ha saputo spiegare la legge della diminuzione del saggio di profitto, reca la massa crescente del profitto, la crescita della grandezza assoluta del profitto, sia per il singolo capitalista, sia per il capitale sociale, come una sorta di motivo di conforto, che però riposa a sua volta su semplici tautologie49 e [mere] possibilità. Che la massa del profitto sia determinata da 2 fattori, in primo luogo il saggio di profitto e in secondo luogo la massa del capitale che è impiegata al saggio di profitto dato, è una tautologia. Che perciò esista la possibilità che la massa del profitto cresca benché al tempo stesso il saggio di profitto diminuisca, è solo un’espressione di questa tautologia, e non è affatto una prova a favore della necessità di questa correlazione50; infatti è altrettanto possibile che il capitale cresca senza che cresca la massa del profitto ed è addirittura possibile [che ciò accada anche] quando questa diminuisce. 100 al 25 per cento fa 25; 500 al 5% fa ancora 25, benché il capitale ora sia quintuplicato e 1000 al 2 per cento fa 20, quindi 1/5 di meno dell’originaria massa di profitto, benché il capitale ora sia decuplicaton). Ma 48. die neue Leichtigkeit 49. truisms 50. Zusammenhangs n). Cfr. Ricardo. ‹Dato il saggio di profitto, la massa del profitto complessiva [gross amount of profit] dipende dalla grandezza del capitale anticipato, e lo stesso vale per l’accumulazione, in quanto essa è determinata dal saggio di profitto. Data la somma del capitale, la massa del profitto complessiva dipende dal livello del saggio di profitto. Un piccolo capitale

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con un saggio di profitto elevato può quindi fruttare un profitto complessivo maggiore che un capitale più grande con un saggio di profitto inferiore. Facciamo queste ipotesi: 1) Capitale

Saggio di profitto

Massa del profitto

100

10% 10 = 5% 2 10 = 5% 2

10

! 2)

200

! 3)

300

! 1 1/2)

150

= 5%

10 15 7 1/2

2) Capitale

Saggio di profitto

Massa del profitto

100

10

2 1/2 ! 100 (250)

10 % 10 21/2 = 4% 4%

3 ! 100 (300)

4

12

2 ! 100 (200)

8 10

3) Capitale

Saggio di profitto

Massa del profitto

500

10%

50

10 x 500 = 5000

1

50

3000

1

10 000

30 100

Se il moltiplicatore del capitale e il divisore del saggio di profitto sono pari, se cioè la grandezza del capitale aumenta nella stessa proporzione in cui il saggio di profitto diminuisce, allora la massa complessiva del profitto resta invariata. 100 al 10% = 10 e 200 ai 10/2 o al 5 % = 10. Quindi: se il saggio di profitto diminuisce nella stessa proporzione in cui il capitale si accumula (cresce), allora la massa del profitto resta invariata.› Se il saggio di profitto diminuisce più rapidamente di quanto il capitale cresca, la somma del gross profit diminuisce. 500 al 10% = 50. Ma 6 x 500 = 3.000 a 10/10 o 1% = 30. Infine se il capitale cresce più rapidamente di quanto il saggio di profitto diminuisca, allora la massa del profitto cresce anche se il saggio di profitto diminuisce. 100 al 10% = 10, ma 3 x 100 al 4% = 12. «Sebbene il saggio di profitto del capitale possa diminuire in seguito all’accumulazione di capitale nella terra e all’aumento dei salari, ci attenderemmo un incremento dell’ammontare complessivo dei profitti. Così, supponendo che, per effetto di ripetute accumulazioni di 100.000 sterline, il saggio del profitto debba scendere dal 20% al 19, al 18, al 17, subendo così una diminuzione costante, ci attenderemmo che il profitto complessivamente ottenuto dai successivi possessori di capitale avesse un incremento costante: che per un capitale di 200.000 sterline esso fosse maggiore che per uno di 100.000, quindi maggiore ancora per uno di 300.000, e che seguitasse così ad accrescersi, pur diminuendo il saggio, a ogni aumento del capitale. Questa progressione, però, è vera soltanto per un certo periodo di tempo: difatti, il 19% su 200.000 sterline è più del 20% su 100.000, come il 18% su 300.000 è più del 19 su 200.000. Ma, dopo che il capitale è stato accumulato in considerevole quantità e che i profitti sono diminuiti, l’ulteriore accumulazione diminuisce la somma totale del profitto. Così, se l’accumulazione è di 1.000.000 di sterline e il profitto è del 7%, l’ammontare complessivo del profitto sarà di 70.000 sterline; ora, se a quel milione si aggiungono 100.000 sterline di capitale e il profitto scende al 6%, i possessori del capitale otterranno 66.000 sterline, ossia subiranno una diminuzione di 4000 sterline, benché il capitale, sia complessivamente aumentato da 1.000.000 a 1.100.000 sterline ». (D. RICARDO, Principles of Political Economy, cap. VI, p. 124 sg. [Principi di economia politica, tr. it. di L. Occhionero, Isedi, Milano 1976, p. 84, trad. riveduta]).

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se le stesse cause che provocano la diminuzione del saggio di profitto favoriscono l’accumulazione, cioè la creazione di capitale addizionale, e se ogni capitale addizionale mette in movimento lavoro addizionale con nuovo pluslavoro51 e produce plusvalore addizionale; se d’altra parte il semplice calare del saggio di profitto presuppone che il vecchio capitale sia cresciuto in proporzione dell’incremento del capitale costante, allora tutto questo processo cessa di essere misterioso; e vedremo più avanti a quali intenzionali falsificazioni di calcolo si faccia ricorso per far scomparire la possibilità della diminuzione52 della massa del profitto in parallelo con la diminuzione del saggio di profitto. |214| Abbiamo mostrato come le stesse cause che producono una diminuzione tendenziale del saggio generale di profitto (= diminuzione relativa del capitale variabile in rapporto al capitale complessivo = diminuzione relativa del plusvalore in rapporto al valore del capitale anticipato), determinino un’accelerata accumulazione del capitale e quindi la crescita della grandezza assoluta o della massa complessiva del pluslavoro – plusvalore – profitto di cui esso si appropria. Nella concorrenza e nella coscienza degli agenti della concorrenza ogni cosa si presenta capovolta, e questo vale anche per questa legge, cioè per questo nesso immanente e necessario tra due fenomeni apparentemente contraddittori. È evidente che (tenendo sempre a mente le proporzioni spiegate prima)53 un capitalista che disponga di un grande capitale ottiene un profitto maggiore, cioè più denaro (inteso qui soltanto come espressione autonoma di valore)54 di un piccolo capitalista, che in apparenza ottiene profitti «elevati»b). La più superfiIn realtà qui si suppone che il capitale aumenti da 1.000.000 a 1.100.000, cioè del 10%, mentre il saggio del profitto diminuisce da 7 a 6 ossia di 1/7 oppure del 14 2/7%. Hinc illae lacrimae. [Di qui quelle lacrime (Terenzio)] [Nota di Marx] 51. Surplusarbeit, zusätzliche Arbeit 52. Abnahme [Engels ha sostituito il termine con Zunahme (aumento). Si tratta di una soluzione ragionevole] 53. always not forgetting the proportions before explained 54. independent expression of value b). ‹Dato il saggio di profitto [rate of profit], la massa dei profitti [amount of profits] dipende in generale dalla grandezza dei capitali anticipati. Questa è soltanto un’applicazione del principio secondo cui – presupposto il livellamento dei saggi di profitto su un saggio di profitto generale, – capitali di pari grandezza fruttano profitti di pari grandezza, ossia un capitale più grande frutta un profitto maggiore di un capitale più piccolo. Il fatto però che il saggio di profitto in generale sia alto o basso dipende dalla quantità totale del lavoro impiegato dal capitale complessivo della società, dalla quantità relativa di lavoro non pagato impiegato e, infine, dal rapporto tra il capitale impiegato in lavoro e il capitale semplicemente riprodotto quale condizione della produzione [total quantity of labour employed by the aggregate capital of society, from the proportional quantity of unpaid labour employed, and, lastly, from the proportion between the capital employed in labour, and the capital merely reproduced as a condition of production.]› [Nota di Marx]

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ciale considerazione della concorrenza inoltre mostra che, a determinate condizioni55, quando il capitalista più grande vuole farsi largo sul mercato e soppiantare quelli più piccoli, come in periodi di crisi ecc., questo principio è utilizzato in pratica dal capitale più grande per mettere fuori gioco il più piccolo, attraverso la deliberata riduzione del proprio saggio di profitto. Soprattutto il capitale commerciale, del quale tratteremo in seguito più in dettaglio, presenta dei fenomeni che fanno apparire la diminuzione del profitto come una conseguenza dell’espansione del volume d’affari, e quindi del capitale ecc. (Daremo più avanti l’espressione propriamente scientifica di questa falsa concezione ‹A. Smith con la sua diminuzione del saggio di profitto derivante dalla crescente competizione tra i capitali, che proviene dalla loro accumulazione ecc.56)› Considerazioni superficiali simili emergono dal raffronto tra i saggi di profitto che vengono ottenuti in settori particolari57, a seconda che siano soggetti a un regime di libera concorrenza o di monopolio. [Si veda] la rappresentazione completamente piatta – la stessa che vive nelle teste degli agenti della concorrenza – del prof. Roscher, per cui questa riduzione del saggio di profitto sarebbe «più accorta e più umana»a). La diminuzione del saggio di profitto appare qui come conseguenza dell’aumento del capitale e del calcolo – a esso legato – dei capitalisti secondo cui con un saggio di profitto minore la massa di profitto che intascheranno risulterà maggiore. Il tutto (a parte58 A. Smith, di cui diremo più oltre) è fondato sull’assoluta incomprensione di cosa sia il saggio generale del profitto e sulla soggiacente volgare rappresentazione secondo cui i prezzi sarebbero in realtà determinati dall’aggiunta di una quota arbitraria di profitto al valore reale delle merci. Per quanto siano volgari, queste concezioni sorgono tuttavia necessariamente dal modo capovolto in cui le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico si presentano nell’ambito della concorrenza. [2. Fattori di controtendenza] Se si considera l’enorme sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale anche soltanto degli ultimi 30 anni rispetto a tutti i periodi 55. under certain circumstances 56. lowering of the rate of profit by the growing competition of capitals, springing from their accumulation etc. 57. in peculiar trades a). Vedi il passo di quell’asino di Roscher [Nota di Marx]. [Il riferimento è a: W.G.F. Roscher, Die Grundlagen der Nationalökonomie, 3a ed., Stuttgart-Augsburg, 1858, § 108, p. 192, 235] 58. save

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precedenti, se si considera soprattutto l’enorme massa di capitale fisso che entra nel processo di produzione sociale complessivo in aggiunta al macchinario propriamente detto, al posto della difficoltà in cui si sono sinora dibattuti gli economisti, ossia quale spiegazione dare della caduta del saggio di profitto, subentra quella opposta: come si spiega il fatto che questa caduta non sia più grande o più rapida? Se ad esempio supponiamo una composizione in cui il capitale variabile costituisca 1/8 del capitale complessivo e un saggio del plusvalore del 100%, abbiamo c87 1/2 v12 1/2 e pv = 12 1/259. Il saggio di profitto (inclusi interesse, rendita e tutte le altre forme del plusvalore) = 12 1/2%. Devono entrare in gioco fattori di controtendenza60, che frenano e contrastano l’azione61 della legge generale, dandole il carattere di una semplice tendenza, ragion per cui anche noi abbiamo definito la caduta del saggio generale di profitto come una caduta tendenziale. Le più generali di queste cause sono le seguenti: [2.1. Aumento del grado di sfruttamento del lavoro] |215| 1) Aumento del grado di sfruttamento del lavoro, cioè accrescimento del pluslavoro o del plusvalore, soprattutto attraverso il prolungamento del tempo di lavoro e l’intensificazione del lavoro. Chiunque abbia dimestichezza con la storia dell’industria moderna conosce questo fattore. La legislazione sul tempo di lavoro normale ne offre il commento migliore e più approfondito. Ci sono molti aspetti dell’intensificazione del lavoro, che presuppongono la crescita del capitale costante rispetto a quello variabile, e quindi una caduta del saggio di profitto: come accade ad es. quando un individuo ha il compito di sorvegliare una maggiore massa di macchinari ecc. Qui – come nella maggior parte dei procedimenti che vengono impiegati per la produzione del plusvalore relativo – le stesse cause che producono una crescita del saggio del plusvalore comportano una caduta della massa del plusvalore (se si considerano grandezze date del capitale complessivo impiegato). Ma ci sono altri aspetti dell’intensificazione, ad es. la velocità accelerata, che laddove si lavora materiale grezzo permettono di elaborarne una quantità maggiore nello stesso tempo ecc., ma per quanto riguarda il macchinario lo logorano certo più rapidamente, senza tuttavia incidere sul rapporto del suo valore con il prezzo del lavoro da cui è messo in movimento. È però soprattutto il prolungamento del 59. [Nel testo marxiano si legge c87 v121 , ma si tratta di una svista: si deve intendere c87 v12 ] 1/2

1/2

128

1/2

1/2

60. conteragirende Einflüsse [Engels: gegenwirkende Einflüsse] 61. Wirkung

tempo di lavoro, questa invenzione dell’industria moderna, che aumenta la massa del pluslavoro accaparrato, senza mutare sostanzialmente il rapporto della forza lavoro impiegata con il capitale costante da essa messo in movimento, e che in realtà provoca piuttosto una relativa riduzione di quest’ultimo. – D’altronde si è già dimostrato – e la cosa costituisce l’autentico segreto della caduta tendenziale del saggio di profitto – che i procedimenti per la creazione di plusvalore relativo perlopiù (nell’insieme) tendono da un lato a trasformare quanto più possibile di una data massa di lavoro in pluslavoro, dall’altro a impiegare in generale quanto meno lavoro possibile in rapporto al capitale anticipato: cosicché le stesse cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro impediscono di sfruttare con lo stesso capitale complessivo tanto lavoro quanto prima. Lo stesso numero di lavoratori viene sfruttato di più, ma lo stesso capitale sfrutta un numero minore di lavoratori. Sono queste le tendenze contraddittorie62 che, mentre agiscono nel senso di un aumento del saggio del plusvalore, agiscono anche in direzione di una caduta della massa del plusvalore prodotto da un dato capitale e quindi del saggio del profitto. – Vale la pena di menzionare qui anche il lavoro femminile e minorile in quanto con esso l’intera famiglia è costretta a fornire al capitale una massa di pluslavoro maggiore di prima, anche se aumenta la somma complessiva del salario che le viene corrisposto, cosa ben lontana dall’avvenire sempre. – [Produce lo stesso effetto] tutto ciò che favorisce la produzione del plusvalore relativo attraverso il semplice miglioramento (come nell’agricoltura) dei metodi con cui è impiegato uno stesso capitale. Qui la massa del prodotta cresce in rapporto alla forza lavoro impiegata, non però il capitale costante impiegato in rapporto al capitale variabile, in quanto si consideri quest’ultimo come indice della forza lavoro (del numero di lavoratori). Lo stesso avviene quando la forza produttiva del lavoro {sia che il suo prodotto entri nel salario, sia che entri negli elementi del capitale costante} viene liberata da vincoli, ostacoli alla circolazione63, restrizioni arbitrarie (o divenute di ostacolo col passare del tempo) e così via, senza che sulle prime con ciò sia modificato il rapporto tra il capitale variabile e quello costante. ||216| Ci si potrebbe domandare se gli aumenti del plusvalore al di sopra del livello generale, temporanei ma continui, che emergono ora in questo ora in quel ramo della produzione e così via, di cui si giova il capitalista che utilizza invenzioni ecc. prima che il loro uso sia generalizzato, siano da annoverare tra le cause che rallentano la caduta del saggio di profitto, 62. widerstrebenden Tendenzen

63. Verkehrsfesseln

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anche se in ultima analisi sempre a essa debbono tendere. In effetti, le cose stanno proprio così. La massa del plusvalore, che un capitale di una massa data produce, è determinata da 2 fattori: dal saggio del plusvalore moltiplicato per il numero dei lavoratori, che sono occupati al saggio dato; essa perciò dipende, a un saggio del plusvalore dato, dal numero dei lavoratori e, a un numero di lavoratori dato, dal saggio del plusvalore; ossia dal rapporto composto tra la grandezza assoluta del capitale variabile e il saggio del plusvalore, o dal rapporto tra la parte pagata e quella non pagata del lavoro. Ora si è mostrato che in media le stesse cause che aumentano il saggio del plusvalore relativo riducono la massa della forza lavoro impiegata. È chiaro però che qui interviene un più o un meno, a seconda del rapporto determinato in cui interviene questo movimento contrario, e che la tendenza a una riduzione del saggio di profitto è indebolita soprattutto dall’accrescimento del saggio del plusvalore assoluto, fondato sul prolungamento del tempo di lavoro. Mentre la massa del plusvalore è essa stessa determinata da 2 fattori, grandezza assoluta del capitale variabile (numero dei lavoratori) e saggio del plusvalore (ripartizione della massa del lavoro in pagato e non pagato), il saggio di profitto è determinato dal rapporto della massa del plusvalore con il valore del capitale complessivo anticipato, quindi in sostanza dal rapporto relativo del capitale variabile – a un dato saggio del plusvalore – con quello costante e quindi con il capitale complessivo. A proposito del saggio di profitto si è trovato in generale che al calo del saggio corrisponde l’aumento della sua grandezza assoluta o massa (a motivo della massa crescente del capitale complessivo impiegato). Se si considera il capitale variabile complessivo che la società impiega, il plusvalore da esso prodotto è = al profitto prodotto. Perciò qui si verifica un doppio fenomeno: crescita della massa assoluta e del saggio del plusvalore, in primo luogo poiché il numero assoluto dei lavoratori impiegati dalla società è cresciuto, e in secondo luogo – perché è cresciuto il loro grado di sfruttamento. Ma con riferimento a un capitale di grandezza data, ad es. 100, il saggio del plusvalore cresce, mentre la massa in media diminuisce, poiché il saggio è determinato dalla proporzione in cui la parte variabile del capitale si valorizza, mentre la massa è invece determinata dalla grandezza proporzionale di questa parte variabile rispetto al capitale complessivo. La crescita del saggio del plusvalore – soprattutto perché essa ha luogo anche in presenza di circostanze in cui, come si è visto sopra,

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non ha luogo una crescita del capitale costante, o tale crescita non è proporzionale rispetto a quello variabile – cioè [in presenza di] un crescente grado di sfruttamento del lavoro – è un fattore da cui è determinata la massa del plusvalore e quindi il saggio di profitto. [Tale fattore] non elimina la legge generale. Ma fa sì che essa agisca più come tendenza, cioè come una legge la cui completa realizzazione è paralizzata, frenata, rallentata, indebolita da circostanze che agiscono in senso opposto64. Siccome però ||217| le stesse cause che accrescono il saggio del plusvalore (lo stesso prolungamento del tempo di lavoro è un risultato della grande industria) tendono a ridurre la forza lavoro impiegata da un capitale dato, le stesse cause tendono quindi alla riduzione del saggio di profitto e a rallentare la dinamica di questa diminuzione. Se si costringe una sola persona a compiere il lavoro che razionalmente dovrebbe essere compiuto da non meno di due, e se questo avviene in circostanze per cui quella persona ne sostituisce tre, questa persona fornirà altrettanto pluslavoro di quello che prima era fornito da due persone, e quindi il saggio del plusvalore risulta raddoppiato. Ma non ne fornirà tanto quanto prima ne fornivano tre, e quindi la massa del plusvalore è caduta. La sua caduta è però compensata o limitata dalla crescita del saggio del plusvalore. Se il numero complessivo dei lavoratori è impiegato a un tasso accresciuto del plusvalore, cresce la massa del plusvalore, anche se la popolazione [operaia] resta la stessa; questo vale a maggior ragione se la popolazione cresce e, sebbene questo sia connesso a una diminuzione relativa di questa forza lavoro in proporzione al capitale complessivo impiegato, questa diminuzione sarà ridotta o frenata dall’accresciuto saggio del plusvalore. Prima di lasciare questo § 1), va ancora una volta sottolineato che, con un capitale dato, il saggio del plusvalore può crescere, benché la sua massa diminuisca, e viceversa la sua massa può crescere, benché il suo saggio diminuisca, perché la massa del plusvalore è = saggio ! numero dei lavoratori, ma il saggio non è mai calcolato sul capitale complessivo anticipato, ma soltanto sul capitale variabile anticipato, e in realtà soltanto su una giornata lavorativa alla volta. Per contro, con un capitale dato di valore dato, il saggio di profitto non può mai crescere o diminuire, senza che cresca o diminuisca la massa del plusvalore. [2.2. Compressione del salario al di sotto del suo valore] 2) Compressione del salario al di sotto del suo valore. Questo fattore viene qui citato soltanto a titolo empirico, poiché in realtà, al pari 64. gegenwirkende Umstaende

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di altri che dovrebbero essere menzionati in questa ricerca, non ha nulla a che fare con l’analisi generale del capitale, e sarebbe piuttosto pertinente a una esposizione – che in quest’opera non viene trattata – della concorrenza ecc. Ma proprio questa è una delle cause più importanti che rallentano la tendenza alla caduta del saggio di profitto. [2.3. Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante] 3) Tutto quello che è stato detto nel primo capitolo65 di questo libro sulle cause che aumentano il saggio di profitto a saggio del plusvalore costante o a prescindere da ogni mutamento nel saggio del plusvalore, trova qui applicazione. Quindi, a proposito del capitale complessivo, soprattutto il fatto che il valore del capitale costante non cresce nella stessa proporzione con cui si sviluppa il suo volume66 materiale. Ad es., la massa di cotone lavorata da un filatore europeo in una fabbrica moderna è aumentata in proporzione enorme rispetto a quella che un filatore europeo lavorava in precedenza. Ma il valore del cotone che egli lavora non è cresciuto nella stessa proporzione della sua massa. Lo stesso dicasi delle macchine, di altro capitale fisso, {anche qui sono in opera cause che agiscono in direzione contraria67, quali la crescita dei prezzi di alcune materie vegetali e animali} del carbone, e così via. In breve, lo stesso sviluppo che accresce la massa del capitale costante in rapporto a quello variabile, riduce attraverso l’accresciuta forza produttiva del lavoro il valore degli elementi del capitale costante, e quindi impedisce che il valore del capitale costante – che pure cresce continuamente – cresca nella stessa proporzione in cui cresce il volume68 materiale del capitale costante, cioè l’entità69 materiale dei mezzi di produzione che sono messi in movimento dalla stessa forza lavoro. In ||218| casi singoli la massa del capitale costante può aumentare, senza che in generale sia alterato il suo valore: questo, al contrario, può addirittura diminuire70. La svalorizzazione71 del capitale esistente che si verifica con lo sviluppo dell’industria, e che del resto si collega a quanto detto sopra, è essa pure una delle cause continuamente in azione che frenano la caduta del saggio di profitto, benché esse a certe condizioni possano pregiudicare la massa del profitto, in quanto riducono la massa del capitale che genera il profitto. 65. [Corrispondente alla prima sezione dell’edizione a stampa: cfr. MEW 25.33150 = ER 3.1.53-180] 66. Umfang 67. gegenwirkende Ursachen

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68. Umfang 69. Umfang 70. Er mag sogar in umgekehrter Richtung fallen 71. Depreciation

Si dimostra qui di nuovo come le stesse cause che producono la tendenza alla caduta del saggio di profitto, moderino la realizzazione di questa tendenza. [2.4. La sovrappopolazione relativa] 4) La sovrappopolazione relativa, la cui creazione è inscindibile – e accelerata – dallo sviluppo della forza produttiva del lavoro che si esprime nella diminuzione del saggio di profitto, si manifesta in un paese in modo tanto più evidente quanto più in esso il modo di produzione capitalistico è sviluppato; essa per parte sua da un lato rappresenta il motivo per cui in molti rami della produzione perdura la sussunzione più o meno meramente formale del lavoro sotto il capitale, e perdura più a lungo di quanto il livello generale dello sviluppo a prima vista renderebbe possibile; questa è la conseguenza del prezzo a buon mercato e della [grande] massa dei salariati disponibili, o messi in esubero; a parte questo, [è la conseguenza] del fatto che alcuni rami di produzione per loro stessa natura offrono maggiore resistenza (difficoltà) alla sostituzione di lavoro prevalentemente manuale; d’altro lato, si aprono nuovi rami di produzione, del lusso o altri, che prendendo a base proprio quella popolazione relativa, spesso messa in esubero per il prevalere del capitale costante in altri rami di produzione, si fondano sul prevalere dell’elemento del lavoro vivo e solo poco a poco percorrono la stessa parabola72 degli altri rami di produzione. In entrambi i casi il capitale variabile assume una proporzione rilevante rispetto al capitale complessivo. Ora, poiché il saggio generale di profitto è formato dal livellamento dei saggi di profitto nei particolari rami di produzione, ancora una volta la stessa causa, che produce la tendenza alla caduta del saggio di profitto, crea un contrappeso a questa tendenza, che ne frena o indebolisce l’azione, la paralizza in grado maggiore o minore73. [2.5. Il commercio estero] 5) Il commercio estero, nella misura in cui rende più a buon mercato tanto gli elementi del capitale costante, quanto quelli che formano direttamente il capitale variabile (mezzi di sussistenza necessari), agisce facendo leva su due elementi del saggio di profitto, il saggio del plusvalore e il valore del capitale costante74. Agisce in ge72. Carrière 73. to a greater or lesser degree paralyses 74. [F. Engels semplifica il testo, in primo luogo riducendo i «due elementi del saggio di profitto» al semplice «saggio di profitto», e inoltre suggerendo un’azione diretta del commercio mondiale, che fa sì che da un lato il saggio del plusvalore «aumenti» (hebt), dall’altro il capitale costante «diminuisca» (senkt): cfr. MEW 25.247 = ER 3.1.289. I due

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nerale in questa direzione in quanto consente di allargare la scala della produzione. Ma è proprio agendo in questo senso che esso opera altresì a favore della diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante, e perciò a favore della caduta del saggio di profitto – ma così facendo accelera anche l’accumulazione. Parimenti, l’ampliamento del commercio estero che durante l’infanzia del modo di produzione capitalistico ne costituiva la base, col suo progredire ne rappresenta il prodotto, il prodotto creato da esso per via della necessità di un mercato sempre più esteso che è immanente a questo modo di produzione. Qui, ancora una volta, si mostra la stessa ambivalenza di azione75. (Ricardo ha totalmente trascurato questo aspetto del commercio estero)76. Un’ulteriore questione, che a dire il vero per il suo carattere peculiare esula dai confini della nostra indagine – è la seguente: il saggio generale di profitto viene accresciuto dal più elevato saggio di profitto realizzato dal capitale investito nel commercio estero o nel commercio coloniale?77 |219| I capitali investiti nel commercio estero possono fruttare un saggio di profitto superiore, in generale, perché qui in primo luogo si concorre con merci che sono prodotte da altri paesi con condizioni di produzione meno favorevoli e così il paese più progredito vende le sue merci al di sopra del loro valore, benché più a buon mercato dei paesi concorrenti. Fino a che il lavoro del paese più progredito viene valorizzato come lavoro di più elevato peso specifico – così come accade in patria quando un produttore utilizza un’invenzione il cui utilizzo non è ancora stato generalizzato –, il saggio di profitto aumenta, in quanto il lavoro, che non è stato pagato come lavoro di qualità speciale78, è venduto come tale. Lo stesso rapporto può verificarsi nei confronti del paese da cui si importano e verso cui si esportano merci, cioè che questo dia in cambio79 più lavoro di quanto riceva e tuttavia anche così riceva la merce più a buon mercato di quanto costerebbe se la producesse esso stesso; così come il produttore, che adopera una nuova invenverbi sono assenti dal testo marxiano, e le righe successive del testo non sembrano confortare l’interpretazione di Engels. Si è quindi preferito mantenere l’ambivalenza contenuta nel manoscritto di Marx, traducendo steigernd (letteralmente «potenziando») con «facendo leva su»] 75. Zwieschlächtigkeit der Wirkung 76. Foreign Trade 77. [La questione «esula dai confini della presente indagine» in quanto Marx intendeva trattarla nel libro sul commercio estero, quinto tra i sei del progetto originario del Capitale (in argomento cfr. MEGA II/4.2., Apparat, p. 1251)] 78. spezifische [Engels riformula, correttamente, in: qualitativ höhere] 79. in return [come pagamento]

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zione, vende la sua merce più a buon mercato dei suoi concorrenti e tuttavia al di sopra del suo valore individuale, cioè valorizza la specifica maggiore forza produttiva del lavoro che ha impiegato come pluslavoro80. In tal modo realizza un sovrapprofitto. Per quanto d’altro lato riguarda i capitali investiti in colonie ecc., essi possono fruttare saggi di profitto più elevati, perché in quei paesi il saggio di profitto è in generale più elevato a causa del minore sviluppo e in secondo luogo, grazie all’impiego di schiavi ecc., vi è un maggiore sfruttamento del lavoro. Non si vede proprio perché i più elevati saggi di profitto, che i capitali in tal modo investiti in determinati rami rimpatriano81, non debbano qui – se non si scontrano con l’ostacolo rappresentato da monopoli – rientrare nel livellamento generale del saggio generale di profitto e quindi non debbano elevarlo in proporzione82 (A. Smith qui ha ragione contro Ricardoa)); soprattutto non se ne vede il perché quando quei rami di impiego del capitale sono sottoposti alla legge della libera concorrenza. Ciò che Ricardo invece ha in mente è soprattutto questo: il fatto che le merci – in cui è realizzato un profitto superiore – siano vendute in patria, è un fatto che al massimo può comportare un temporaneo vantaggio per queste sfere della produzione favorite rispetto alle altre. Ma questa parvenza svanisce non appena si prescinde dalla forma monetaria83. Il paese favorito riceve più lavoro in cambio di meno lavoro, anche se questo «più»84, come avviene in generale nello scambio tra lavoro e capitale, è intascato da una determinata classe85. Ma in quanto il saggio di profitto è più elevato, perché in generale è più elevato nel paese coloniale, esso – in presenza di condizioni naturali favorevoli – può accompagnarsi a prezzi delle merci più bassi. Si verifica un livellamento, ma non un livellamento al vecchio livello, come pensa Ricardo. Ma lo stesso commercio estero sviluppa il modo di produzione capitalistico e quindi la diminuzione in patria del capitale variabile rispetto a quello costante e produce d’altro lato sovrapproduzione in rapporto all’estero, perciò alla lunga ha di nuovo l’effetto opposto. E così si è visto, in generale, che le stesse cause che producono la caduta del saggio generale di profitto provocano reazioni, che frenano, rallentano e in parte paralizzano questa caduta. Non eliminano la 80. Mehrarbeit 81. nach home abwerfen 82. pro tanto a). «Essi sostengono che il pareggiamento dei profitti sarà determinato dall’aumento generale dei profitti stessi, mentre io sono dell’opinione che i profitti dell’attività fa-

vorita scenderanno rapidamente al livello generale» (RICARDO, Principles, pp. 132, 133 [tr. it. cit., p. 89]). [Nota di Marx] 83. Geldform 84. mehr 85. is pocketed by a certain class

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legge, ma ne indeboliscono l’azione. Se così non fosse, sarebbe incomprensibile non la caduta del saggio di profitto, ma al contrario la proporzione relativamente modesta di questa caduta. In tal modo la legge opera soltanto come tendenza, la cui azione si manifesta soltanto in determinate circostanze e nel lungo periodo86. |220| Prima di procedere, per evitare malintesi vogliamo fissare più nettamente due principi già ripetutamente sviluppati: Primo: Lo stesso processo che nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico produce la diminuzione del prezzo delle merci, produce un mutamento nella composizione organica del capitale sociale impiegato per la produzione delle merci, cioè la caduta del saggio di profitto. Quindi la diminuzione del costo relativo della singola merce, anche della parte di questo costo che comprende l’usura del macchinario ecc., non deve essere identificata con il valore crescente del capitale costante rispetto a quello variabile, benché viceversa ogni diminuzione nel costo relativo del capitale costante, a volume invariato o crescente degli elementi materiali dei quali è costituito, agisca sull’accrescimento del saggio di profitto, cioè sulla diminuzione pro tanto del valore del capitale costante rispetto al capitale variabile che viene impiegato in proporzioni decrescenti. Secondo: La circostanza che il lavoro vivo addizionale contenuto nelle singole merci, la cui totalità costituisce il prodotto del capitale, sta in proporzione decrescente rispetto al materiale di lavoro in esse contenuto e ai mezzi di lavoro in esse consumati, il fatto che in esse sia materializzata una quantità decrescente di lavoro vivo addizionale, poiché con lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro esse richiedono per la loro produzione meno lavoro, [questa circostanza] non altera il rapporto in cui questo lavoro vivo che in esse è contenuto si ripartisce in lavoro pagato e non pagato. Al contrario. Benché la quantità complessiva del lavoro vivo addizionale in esse contenuto diminuisca, la parte non pagata cresce in proporzione a quella pagata, sia per via della diminuzione assoluta87, sia per via della diminuzione relativa88 della parte pagata, in quanto lo stesso metodo di produzione che riduce la massa complessiva del lavoro vivo addizionale in una merce si accompagna al crescere del plusvalore relativo o assoluto. Il calo tendenziale del saggio di profitto è legato a una crescita tendenziale del saggio del plusvalore, cioè del grado di sfruttamento del lavoro. Nulla di più stupido, quindi, dello spiegare il calo del saggio di profitto per 86. ausgedehnt schlagend hervortritt 87. direktes

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88. proportionelles

mezzo della crescita del saggio del salario, benché un caso del genere possa eccezionalmente presentarsi. La statistica sarà posta in grado di effettuare delle vere analisi del saggio del salario in diverse epoche e in diversi paesi solo attraverso la comprensione dei rapporti che costituiscono il saggio di profitto. Il saggio di profitto cade, anche se il saggio del plusvalore89 resta identico e cresce, perché il capitale variabile decresce con lo sviluppo delle forze produttive del lavoro in rapporto a quello costante e quindi al capitale complessivo. Quindi cade non perché il lavoro diventi più improduttivo, ma perché diventa più produttivo. Non perché il lavoro sia sfruttato di meno, ma perché è sfruttato di più, sia che cresca il tempo eccedente assoluto90, sia che cresca quello relativo. [2.6. Aumento del capitale produttivo d’interesse] Ai 5 punti esposti in precedenza se ne sarebbe potuto aggiungere un sesto, sul quale però sulla base di quanto sviluppato sinora non possiamo addentrarci più a fondo: una parte del capitale, con il progredire del modo di produzione capitalistico, che va di pari passo con l’accelerata massa dell’accumulazione, viene calcolata e impiegata soltanto come capitale produttivo d’interesse. Non nel senso che ogni capitalista che presta il capitale si accontenti degli interessi, mentre il capitalista industriale intasca il guadagno d’imprenditore91. Questo non ha nulla a che fare con il livello del saggio generale di profitto, che è = interesse + profitto di qualsiasi natura + rendita fondiaria, e per il quale la ripartizione in queste categorie particolari è indifferente; ma nel senso che questi capitali, benché investiti in grandi imprese produttive, una volta dedotti tutti i costi fruttano semplicemente interessi grandi o piccoli. Ad es. nelle ferrovie. Essi non entrano nel livellamento del saggio generale di profitto, in quanto fruttano solo una parte del saggio medio di profitto. Qualora vi rientrassero, questo saggio diminuirebbe in misura molto maggiore. Da un punto di vista teorico, si potrebbe includerli nel conto e si otterrebbe un saggio di profitto inferiore a quello che apparentemente92 esiste e che per i capitalisti è veramente decisivo, poiché appunto in quelle imprese la proporzione del capitale costante rispetto a quello variabile è maggiore.

89. rate of surplusvalue 90. absolute surplustime [ossia il tempo in cui è estratto plusvalore assoluto]

91. Unternehmungsgewinn 92. scheinbar

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[3. Sviluppo delle contraddizioni interne della legge] [3.1. Considerazioni generali] |221| Si è visto nel cap. I di questo libro93 che il saggio di profitto esprime sempre un saggio del plusvalore più basso di quanto esso non sia. Ora si è visto che anche un saggio crescente del plusvalore ha la tendenza a tradursi in un saggio di profitto in diminuzione. Il saggio di profitto sarebbe = saggio del plusvalore soltanto se c, il capitale costante, = 0, cioè se tutto il capitale fosse speso in salario. Un saggio di profitto decrescente esprime poi un saggio del plusvalore decrescente soltanto se il valore del capitale costante e la forza lavoro messa in movimento dal capitale variabile restano invariati. (Ricardo, che pretende di considerare il saggio di profitto, considera in realtà soltanto il saggio del plusvalore, e solo presupponendo che la giornata lavorativa sia, intensivamente ed estensivamente, una grandezza costante.) La caduta del saggio di profitto e l’accelerata accumulazione non sono che espressioni diverse dello stesso processo in quanto esprimono entrambe lo sviluppo della forza produttiva. Da parte sua, l’accumulazione accelera la caduta del saggio di profitto, in quanto con essa si produce la concentrazione dei lavori su grande scala e quindi una più alta composizione organica del capitale. D’altro lato la caduta del saggio di profitto per parte sua accelera la concentrazione e l’espropriazione dei piccoli capitalisti, l’espropriazione di quelli che ora in termini relativi possono essere considerati produttori più o meno immediati. Con ciò viene d’altra parte accelerata l’accumulazione – per quanto riguarda la sua massa94 – anche se il saggio di accumulazione cade. D’altra parte, nella misura in cui il saggio di profitto, il saggio di valorizzazione del capitale complessivo è il pungolo95 della produzione capitalistica, così come la valorizzazione del capitale è il suo unico scopo, la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e appare come una minaccia per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico. (Questa stessa caduta favorisce sovrapproduzione, speculazione, crisi, capitale in eccesso96 accanto alla forza-lavoro in eccesso o sovrappopolazione relativa97). Perciò gli economisti che, come Ricardo, considerano come assoluto il modo di produzione capitalistico, sentono qui che questo modo di produzione pone a se stesso un limite98, e quindi cercano di at93. [Corrispondente alla sezione prima nell’edizione a stampa] 94. so far as its mass is concerned 95. stimulus

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96. redundancy of capital 97. redundancy of labour oder relative surpluspopulation 98. eine Schranke

tribuirlo non al modo di produzione, ma alla natura (nella teoria della rendita). L’importante, nel loro horror di fronte alla caduta del saggio di profitto, è però la sensazione che il modo di produzione capitalistico nello sviluppo delle forze produttive incontri dei limiti99, che in sé e per sé non hanno nulla a che vedere con la produzione della ricchezza, e questo limite peculiare testimoni la limitatezza e il carattere soltanto storico di questo modo di produzione, e il fatto che esso non è il modo di produzione assoluto per la produzione della ricchezza, ma anzi giunto a un certo stadio entra in conflitto con il proprio sviluppo ulteriore. (Ricardo ecc. comunque prendono in considerazione soltanto il profitto industriale (in cui è incluso l’interesse). Ma anche il saggio della rendita [ fondiaria] diminuisce del pari, anche se il suo valore assoluto cresce e se il suo valore può crescere in proporzione anche rispetto al profitto industriale. (Vedi Edward West, che si è occupato della legge della rendita fondiaria prima di Ricardo.) pv , C cioè p’, il saggio di profitto, diminuisce benché pv e p crescano, ma tuttavia diminuendo relativamente a C che cresce molto più rapidamente (C qui è considerato come capitale complessivo sociale); non vi è quindi alcuna contraddizione nel fatto che pv = p (p profitp+1+r to industriale) + i (interesse) + r (rendita), quindi pv , che C = C r p i tutti e 3 i rapporti C , C e C diminuiscano, anche se r cresce rispetto a i e p, oppure anche p rispetto a i, ciò che del pari accade. Il rapporto tra le parti del pv può cambiare in termini di grandezza relativa dell’una rispetto alle altre, ma il fatto che cambino le rispettive proporzioni di p, i e r, gli elementi costitutivi di pv, non può mai far sì che con ciò il rapporto pv diminuisca. Se pv cresce, p, i e r possoC no crescere anche se pv diminuisce, a causa della diminuzione reC lativa di pv rispetto a C, e in secondo luogo questa diminuzione relativa di pv rispetto a C può essere accompagnata da un mutamento100 nella grandezza relativa di Cp , Ci e Cr , che alternativamente possono crescere o diminuire l’uno nei confronti dell’altro. Se il tasso di profitto diminuisce dal 50[%] al 25%, se per es. il capitale101 – con un [saggio del] plusvalore del 100% – muta102 da c50 v50 a c75 v25, allora nel primo caso un capitale di 1000 darà 500 e [nel secondo caso] un capitale di 4000 darà 1000. Pv o p è raddoppiato, p’ è diminuito della metà. E se del 50% di prima 20 è profitto, 10 intep i r resse, 20 rendita, allora C = 20%, C = 10%, C = 20%. Se nella tra99. Schranken 100. Change 101. Capital [Qui Marx però intende la composizione organica del capitale: En-

gels interpreta quindi correttamente, sostituendo il termine con Kapitalzusammensetzung] 102. variates

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p

sformazione in 25% le proporzioni restano le stesse, allora C = i r p i 10%, C = 5% e C = 10%. Se adesso p’ (ossia C ) calasse all’8%, i’ C al 4, allora r’ crescerebbe al 13%. La grandezza relativa di r’ sarebbe cresciuta rispetto a p’ e i’, ma tuttavia p’ sarebbe rimasto uguale. In entrambe le ipotesi la somma di p, i e r risulterebbe aumentata, dal momento che è calcolata su un capitale 4 volte maggiore. D’altronde, l’assunto di Ricardo, secondo cui originariamente il profitto industriale (+ l’interesse) assorbirebbe interamente il plusvalore, è un’assurdità103, sia dal punto di vista storico che da quello concettuale. È invece il progresso della produzione capitalistica che 1) dà direttamente ai capitalisti industriali e commerciali l’intero profitto per un’ulteriore ripartizione e 2) riduce la rendita all’eccedenza sul profitto. Su questa base capitalistica torna poi a crescere la rendita che è una parte del profitto (cioè del plusvalore considerato come prodotto del capitale complessivo), ma non la specifica parte del profitto che il capitalista intasca[++]. |222| Dati i mezzi di produzione necessari, cioè [adeguata] accumulazione di capitale, la creazione di plusvalore non trova altro limite che la popolazione operaia, se è dato il saggio del plusvalore (il grado di sfruttamento del lavoro), e non trova altro limite che il grado di sfruttamento del lavoro, se è data la popolazione operaia. E il processo di produzione capitalistico consiste essenzialmente nella produzione di plusvalore, rappresentato nel plusprodotto o nella quota parte delle merci prodotte in cui è materializzato lavoro non pagato. Non bisogna mai dimenticare che la produzione di questo plusvalore – e la riconversione di una parte di esso in capitale, ossia l’accumulazione, costituisce parte integrante della produzione di plusvalore – è lo scopo immediato e il motivo determinante della produzione capitalistica. Perciò questa non va mai rappresentata per quello che non è, ossia come produzione immediatamente orientata – come se questo fosse il suo scopo – al godimento o produzione di mezzi di godimento per il capitalista, che è il produttore, il capo della produzione. In tal modo si astrae 103. nonsense Plusvalore [++]. Saggio di profitto = capitale anticipato . Questo saggio di profitto può diminuire, anche se ad es. il profitto industriale cresce in proporzione all’interesse o viceversa, e anche se la rendita cresce in proporzione al profitto industriale o viceversa. Se profitto = P, profitto industriale P’, interesse = I, rendita = R, allora P = P’ + I + R. Ed è ovvio che, quale che sia la grandezza assoluta di P, P’, I e R possono diminuire o crescere l’uno rispetto all’altro, indipendentemente dalla grandezza di P o dall’aumento o diminuzione di P. Il reciproco spostarsi di P’, I e R è solo una diversa ripartizione di P sotto rubriche diverse. In ogni caso perciò P’ , I , o CR , il saggio del profitto industriale, il saggio d’interesse C C e il saggio della rendita, possono crescere, benché CP , il saggio generale di profitto, diminuisca. [Nota di Marx]

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del tutto dal suo carattere specifico, che è invece palese in tutta la sua struttura interna e fondamentale104. Il conseguimento di questo plusvalore costituisce il processo di produzione immediato, che, come si è detto, non ha altri limiti che quelli sopra menzionati. Non appena la quantità di pluslavoro che è possibile estorcere si sia materializzata in merci, è prodotto il plusvalore, la cui massa assoluta è limitata soltanto dal numero di lavoratori a disposizione del capitale. Ma con questa produzione del plusvalore è finito soltanto il primo atto del processo capitalistico di produzione, il processo di produzione immediato. Il capitale ha succhiato una certa quantità di lavoro non pagato. Con ciò il suo processo con il lavoro vivo – e questo forma il processo di produzione immediato – è terminato. Con lo sviluppo del processo che si esprime nella caduta del saggio di profitto, la massa del plusvalore così prodotto si gonfia a dismisura e a questo punto l’intera massa delle merci, il prodotto totale105, tanto la parte che rimpiazza il capitale costante e il capitale variabile, tanto quella che rappresenta il plusvalore, deve essere venduta. Se questo non avviene, o avviene solo in parte o a prezzi inferiori ai prezzi di produzione, il lavoratore è bensì sfruttato, ma il suo sfruttamento non si realizza come tale per il capitalista, può essere legato a una perdita totale o parziale del suo capitale o a una solo parziale realizzazione del plusvalore estorto. Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non coincidono. Sono separate tra loro non soltanto nel tempo e nello spazio, ma anche dal punto di vista concettuale. Le une sono limitate soltanto dalla forza produttiva della società; le altre dalla proporzionalità dei diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo106 della società. Ma quest’ultima poi non è determinata della forza produttiva assoluta né dalla capacità di consumo107 assoluta; è determinata invece dalla capacità di consumo sulla base di rapporti di distribuzione antagonistici, che costringe la grande base della società a un consumo minimo – entro confini più o meno stretti. È inoltre limitata dalla spinta all’accumulazione, dall’impulso all’aumento del capitale e alla produzione di plusvalore su scala allargata. Questa, per la produzione capitalistica, è una legge data dai continui rivoluzionamenti degli stessi metodi di produzione, dalla connessa continua svalorizzazione108 del capitale esistente, dalla generale lotta di concorrenza, e dalla necessità vitale109 di migliorare la produzione e di ampliarne la scala, anche solo come mezzo di conservazione. Perciò 104. in ihrer ganzen innern Kerngestalt 105. Gesammtproduct 106. Consumtionskraft

107. Consumtivkraft 108. Depreciation 109. sous peine de la mort

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il mercato deve essere ampliato continuamente, cosicché i suoi nessi assumono sempre più la forma di una legge di natura indipendente dai produttori, divengono incontrollabili. L’interno antagonismo110 cerca una compensazione nell’estensione del campo esterno della produzione. Ma quanto più si sviluppa la forza produttiva, tanto più essa entra in contraddizione con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. Su questa base contraddittoria non vi è niente di contraddittorio nel fatto che l’eccesso di capitale111 sia connesso a una crescente sovrappopolazione112 relativa; infatti, benché la combinazione di entrambe farebbe crescere la massa del plusvalore prodotto, con ciò stesso crescerebbe anche la contraddizione tra le condizioni alle quali questo plusvalore viene prodotto e le condizioni alle quali esso viene realizzato. | 223| Dato un determinato saggio di profitto, il gross profit, la massa del profitto dipende sempre dalla grandezza del capitale anticipato. Ma l’accumulazione è allora determinata dalla parte di questa massa che viene riconvertita in capitale. Però questa parte, essendo = profitto lordo meno il reddito113 consumato dal capitalista, non dipenderà soltanto dal valore di questa massa, bensì dal buon prezzo delle merci che il capitalista può acquistare con essa; in parte dal prezzo a buon mercato delle merci che entrano nel suo consumo, nel suo reddito, in parte dal prezzo a buon mercato delle merci, che entrano nel capitale costante. Il salario è qui presupposto come dato, al pari del saggio di profitto. La massa del capitale che il lavoratore mette in movimento, e il cui valore egli con il suo lavoro conserva e riproduce, è assolutamente diversa dal valore che egli aggiunge – il plusvalore114. Se la massa del capitale è = 1000 e il lavoro aggiunto =100, allora il capitale riprodotto è = 1100. Se la massa è = 100 e il lavoro aggiunto = 20, allora il capitale riprodotto è = 120. Il saggio di profitto nel primo caso è = 10%, nel secondo = 20%. Tuttavia a partire da 100 si può accumulare di più che a partire da 20. E così la corrente del capitale (prescindendo dalla sua svalutazione a seguito dell’aumento della forza produttiva), ovvero la sua accumulazione, avanza impetuosa – in proporzione all’impeto che già possiede, e non al livello del saggio di profitto. Un elevato saggio di profitto, in quanto poggi su un elevato saggio del plusvalore, è possibile: quando si lavora molto a lungo, benché il lavoro sia improduttivo. È possibile poiché i bisogni dei lavoratori – e quindi i salari medi115 110. Antagonismus [Engels: Widerspruch] 111. redundancy of capital 112. Surpluspopulation

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113. Revenue 114. Surpluswerth

– sono molto modesti, benché il lavoro sia improduttivo. Alla miseria del minimo [salariale] corrisponderà la mancanza di energia dei lavoratori. In entrambi i casi il capitale [si] accumula lentamente, nonostante l’elevato saggio di profitto. La popolazione è stagnante e il tempo di lavoro che il prodotto costa sarà notevole, anche se il salario che viene pagato al lavoratore è modesto. Il saggio di profitto cade non perché l’operaio sia sfruttato meno, ma perché in generale viene impiegato meno lavoro in proporzione al capitale impiegato. Se un capitale di 1000 = C500 V500, e pv’ = 50%, allora pv = 250 e p’ = 25%. Se un capitale di 1000 = C750 V250, e pv’ = 50%, allora pv = 125 e p’ = 12 1/2%. Ma nel secondo caso il lavoro vivo impiegato, confrontato con il primo [è inferiore]; se supponiamo che il salario per 1 lavoratore = 25 £ per anno – nel primo caso 500 £ = 20 lavoratori; nel secondo caso il salario = 250 £ = 10 lavoratori. Lo stesso capitale impiega 20 lavoratori nel primo caso e soltanto 10 nell’altro. Nel primo caso il rapporto tra la massa del capitale e il numero dei giorni di lavoro è = 1000 : 20, nel secondo è = 1000 : 10. A ciascuno dei 20 lavoratori tocca nel primo caso un capitale impiegato (costante e variabile) di 50 £ (poiché 20 ! 50 = 2 ! 500 = 1000). Nel secondo caso a ciascun lavoratore un capitale impiegato = 100 £ (poiché 100 ! 10 = 1000). Tuttavia in entrambi i casi la quota116 del capitale che si risolve in salari117 per il singolo lavoratore è la stessa. ‹ È la stessa cosa se dico che per 1 lavoratore il capitale impiegato è = 50, in un caso, e 100 C nell’altro, e quindi per 1/2 lavoratore soltanto è 50 di capitale; o se dico che in un caso tocca 50 C a 1 lavoratore e nell’altro 50 x 2 = 100 C a 1 lavoratore › Se, come si è mostrato, un saggio di profitto in diminuzione coincide con una massa del profitto in aumento (perché l’accumulazione del capitale è più veloce della caduta del saggio di profitto)118, allora dal capitalista viene appropriata una parte maggiore del prodotto annuo del lavoro sotto la categoria di capitale, e una parte relativamente più piccola sotto la categoria di profitto. Da qui la fantasticheria del prete Chalmers, per cui la quantità di profitto inghiottita dal capitalista sarebbe tanto maggiore, ||224| quanto minore la massa del prodotto annuo da esso speso come capitale; dopodiché la chiesa di Stato119 li aiuta a provvedere al consumo – anziché alla capitalizzazione – di una grossa parte del plusprodot115. average wages 116. Prorata 117. wages 118. because the accumulation of capital

quicker than the fall in the rate of profit 119. established church [cioè la chiesa anglicana]

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to120. Il prete maledetto confonde causa ed effetto. D’altronde, la massa del profitto cresce, [anche] a saggio più basso, con la grandezza del capitale anticipato. Cresce inoltre la quantità dei valori d’uso che rappresenta questa minore proporzione. Questo tuttavia determina al tempo stesso una centralizzazione del capitale, poiché adesso le condizioni di produzione richiedono l’utilizzo di grandi masse di capitale121. Ciò fa sì che i piccoli capitalisti siano mangiati da quelli più grandi, e determina la «decapitalizzazione» dei primi. Si tratta ancora una volta, ma alla seconda potenza, della separazione delle condizioni di lavoro dai produttori (che presso i capitalisti più piccoli significa ancora lavoro in prima persona122; il lavoro del capitalista in generale sta in una proporzione inversa rispetto alla grandezza del suo capitale, cioè rispetto al grado123 in cui egli è capitalista. Questo processo condurrebbe presto la produzione capitalistica alla sua fine124 se accanto alla forza centripeta tendenze contrastanti125 non agissero sempre di nuovo in senso contrario alla centralizzazione dei capitali126); e tale separazione costituisce il concetto del capitale e dell’accumulazione originaria, che in seguito si manifesta come processo continuo nell’accumulazione del capitale e che qui infine si esprime come centralizzazione in poche mani di capitali già esistenti e decapitalizzazione di molti (in ciò si trasforma ora l’espropriazione). ‹Accumulazione originaria del capitale = Include la centralizzazione delle condizioni di lavoro. È autonomizzazione delle condizioni di lavoro rispetto ai lavoratori e al lavoro stesso. Sua azione127 storica = atto di nascita storico del capitale. Il processo storico di separazione, che trasforma le condizioni di lavoro in capitale e il lavoro in lavoro salariato. Con ciò è data la base della produzione capitalistica. Accumulazione del capitale sulla base del capitale stesso, presuppone quindi i rapporti di capitale e lavoro salariato. Riproduce su scala sempre più ampia la separazione e autonomizzazione della ricchezza oggettuale128 rispetto al lavoro. Concentrazione dei capitali. Accumulazione dei grandi capitali attraverso la distruzione dei capitali più piccoli. Attrazione. Decapitalizzazione = dissoluzione dei nessi intermedi129 tra capitale e lavoro. È soltanto l’ultimo grado e forma del processo, che [prima] trasforma le condizioni di lavoro in capitale, in seguito moltiplica 120. surplusproduce 121. massenhaftem Capital 122. Selbstarbeit 123. Potenz [in senso matematico] 124. zum Klappen bringen

144

125. widerstrebende Tendenzen 126. decentralisirend 127. Akt 128. gegenstaendlichen 129. Mittelverbindungen

e riproduce su scala allargata il capitale, infine separa i capitali costituiti in molti punti della società dai loro proprietari e li centralizza nelle mani dei capitalisti maggiori. Con questa forma estrema di opposizione, la produzione diventa sociale, sia pure in forma estraniata. Lavoro sociale e comunanza degli strumenti di produzione nel processo di produzione reale. I capitalisti, in quanto funzionari del processo che accelera questa produzione sociale e con ciò al tempo stesso lo sviluppo delle forze produttive, diventano superflui nella misura stessa in cui sono usufruttuari per procura della società130 e si danno arie da proprietari di questa ricchezza sociale e comandanti131 del lavoro sociale. Accade a loro come ai signori feudali, le cui prerogative, nella misura in cui col sorgere della società borghese le loro funzioni erano divenute superflue, si trasformarono in meri privilegi anacronistici e inopportuni e ne accelerarono la fine. › |225|132 La legge secondo cui la caduta del saggio di profitto provocata dallo sviluppo della forza produttiva è accompagnata da una crescita nella massa del profitto si esprime nel fatto che la caduta del prezzo delle merci prodotte dal capitale è accompagnata da una crescita delle masse di profitto in esse contenute e realizzate attraverso la loro vendita. Poiché lo sviluppo della forza produttiva e la più elevata composizione del capitale a essa corrispondente mettono in movimento una maggiore quantità di mezzi di produzione attraverso una minore quantità di lavoro, ogni quota parte del prodotto complessivo, ogni singola merce o ogni singola quantità determinata della massa complessiva prodotta assorbono meno lavoro vivo, e allo stesso modo l’usura133 del capitale fisso impiegato contiene meno lavoro oggettivato ‹ del mezzo di lavoro e del lavoro vivo che sostituisce (al cui posto subentra) sommati.› La singola merce contiene perciò una somma minore di lavoro oggettivato e di lavoro vivente aggiunto ex novo134. Pertanto il prezzo della singola merce diminuisce. La massa di profitto che è contenuta nella singola merce può crescere se aumenta il saggio del plusvalore, assoluto o relativo. Essa contiene meno lavoro aggiunto ex novo, ma la parte non pagata di esso cresce rispetto a quella pagata. Tuttavia ciò accade entro certi limiti, e con la diminuzione assoluta della somma del lavoro vivo aggiunto ex novo – diminuzione cresciuta enormemente nel corso dello svi130. procura der Gesellschaft die Nutzniessung ziehn 131. Commandeurs 132. [Di qui sino al passo indicato in nota n. 137 il testo è stato situato da Engels nel

cap. 13: cfr. MEW 25.236-237 = ER 3.1.274276)]. 133. Dechet 134. neu zugesetzter lebendiger Arbeit

136

145

luppo della produzione –, anche la massa assoluta della parte non pagata di questo lavoro, il pluslavoro in esso contenuto, è destinata a diminuire, per quanto abbia potuto crescere in termini relativi, ossia in rapporto alla parte pagata del lavoro. La massa di profitto su ogni singola merce diminuisce molto con lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, e allo stesso modo la caduta del saggio di profitto, nonostante la crescita del saggio del plusvalore, può essere soltanto rallentata dalla diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante e dagli altri motivi addotti nel capitolo I di questo libro135, che aumentano il saggio di profitto in presenza di un saggio del plusvalore dato e anche calante. Il fatto che il prezzo delle singole merci della cui somma è composto il prodotto complessivo del capitale diminuisca, significa soltanto che una determinata quantità di lavoro si realizza in una maggiore massa di merci, e quindi che ogni singola merce ne contiene una quantità inferiore. Così avviene anche se il prezzo di una delle parti del capitale costante, materie prime, ecc., aumenta. A eccezione di singoli casi (ad es. quando la forza produttiva del lavoro rende uniformemente meno costosi tutti gli elementi del capitale costante e di quello variabile), il saggio di profitto calerà, nonostante l’accresciuto saggio del plusvalore, 1) perché anche una maggiore parte non pagata della minore somma complessiva del lavoro aggiunto ex novo è più piccola di quanto non fosse una minore quota di lavoro non pagato della maggiore somma complessiva del lavoro aggiunto ex novo, 2) perché nella singola merce la più elevata composizione del capitale si esprime nella diminuzione della parte di valore in cui in generale si presenta il lavoro aggiunto ex novo rispetto alla parte di valore che si presenta in materie prime, materie ausiliarie e usura del capitale fisso. Questo cambiamento (variazione) nella proporzione dei diversi elementi del prezzo della singola merce, la diminuzione della parte del prezzo in cui si presenta il lavoro vivo aggiunto ex novo e l’aumento delle parti del prezzo in cui si presenta lavoro precedentemente oggettivato – è la forma in cui si esprime nella singola merce la diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante, [diminuzione] che, presa per una data quantità di capitale, supponiamo ad es. 100, è assoluta, ed è assoluta per ogni singola merce – intesa come quota parte in cui si presenta il capitale riprodotto. Tuttavia il saggio di profitto, calcolato in base agli elementi di prezzo e quindi dal punto di vista della singola merce, si presenterebbe più elevato di quanto in realtà non sia136. Infatti nella singola merce ||226| il capitale costan135. [Corrispondente alla prima sezione dell’edizione a stampa]

146

te figura soltanto come usura137: non [ figura cioè] la parte impiegata di esso, ma soltanto quella consumata. E la somma delle merci prodotte contiene soltanto la somma dell’usura del capitale costante in esse contenuta. ‹ Se si definisce tale usura, intesa come la parte per cui il valore del capitale costante si è ridotto (o che è entrato nel prodotto), ∆C, per distinguerla da C, che è pari a ∆C + la parte di C impiegata nel processo di produzione ma non consumata (C – ∆C = C’), l’effettivo saggio di profitto si presenta come pv pv pv ∆C + C’ + V e quindi = ∆C + c’ + v = C (C essendo il capitale complessivo (costante e variabile) anticipato)138, mentre esso, ove si considerassero soltanto la massa delle merci e i loro prezzi, si prepv pv senterebbe come ∆c + v o come C - c’ .› Quindi la parte del prezzo della singola merce (o anche della somma complessiva delle merci durante un determinato periodo della circolazione) che rappresenta il capitale costante non cresce – rispetto alla parte del prezzo che rappresenta il lavoro vivo aggiunto ex novo – nella stessa proporzione in cui, considerando il capitale complessivo, cresce la sua parte costante rispetto alla sua parte variabile. Una parte del capitale costante – quella costituita dal capitale fisso – ha al contrario la tendenza a depositare nella singola merce e nella massa delle merci prodotte durante un singolo periodo della circolazione minore usura139 rispetto a quanto appunto cresca il volume complessivo140 assoluto e il valore complessivo di questa parte del capitale costante141. Si dimostra qui una volta di più quanto sia importante, nella produzione capitalistica, considerare la singola merce (e del pari la massa delle merci prodotte durante un singolo periodo di rotazione) non isolatamente, come singola merce, ma come prodotto del capitale anticipato e in rapporto al capitale complessivo da cui risulta142. Benché ora il saggio di profitto debba essere misurato attraverso un raffronto della massa del plusvalore prodotto non soltanto con la parte del capitale consumato che è riprodotto nella merce, ma piuttosto con questa parte + la parte del capitale non consumato ma impiegato che continua a servire alla produzione, [tuttavia] la 136. [Sin qui le pagine portate da Engels nel cap. 13 del III libro del Capitale (cfr. MEW 25.237 = ER 3.1.276). A esse nell’edizione a stampa segue un inserto originale di Engels, che sostituisce il testo di Marx qui riproposto, sino alla nota 141 (per l’inserto di Engels cfr. MEW 25.237238 = ER 3.1.276-278)] 137. Dechet 138. C being the total capital (constantes and

variables) advanced 139. weniger Dechet 140. Gesammtumfang 141. [Dal periodo successivo sino al punto indicato dalla nota 160 il testo di Marx torna a corrispondere a quello portato da Engels nel cap. 13 dell’edizione a stampa (vedi MEW 25.238-241 = ER 3.1.278-281)] 142. from which it issues

147

159

massa di profitto può soltanto essere pari alla massa di profitto o di plusvalore contenuta nella massa delle merci e da realizzare attraverso la loro vendita. Se la produttività dell’industria aumenta, il prezzo della merce singola cade. In essa è contenuto meno lavoro, meno [lavoro] pagato e non pagato. Lo stesso lavoro produce ad es. un prodotto 3 volte maggiore; perciò a ogni singolo prodotto spettano 2/3 di lavoro in meno. E poiché la massa di profitto può costituire soltanto una parte di questa massa di lavoro contenuta nella singola merce, la massa di profitto per singola merce deve diminuire (anche se il saggio del plusvalore aumenta. E questo in realtà accade, come si è osservato sopra, entro certi limiti143). In ogni caso la massa di profitto sulla somma delle merci singole o sul prodotto complessivo non cadrà al di sotto della massa di profitto originaria, fintantoché il capitale impieghi la stessa massa di lavoratori di prima (lo stesso può accadere anche se vengono impiegati meno lavoratori, ma con giornate lavorative prolungate e con un maggiore pluslavoro.) Infatti, nella stessa proporzione in cui diminuisce la massa di profitto sul singolo prodotto, crescerà il numero dei prodotti. La massa di profitto resta la stessa, fintantoché il saggio di sfruttamento resta lo stesso e viene occupata la stessa massa di lavoratori, per quanto questa massa si ripartisca entro la massa delle merci (somma delle merci); ciò non cambia nulla né per quanto riguarda la massa, né per quanto riguarda la ripartizione di questa massa tra lavoratore e capitalista. La massa di profitto può aumentare soltanto se la stessa massa di lavoro viene impiegata in presenza di un’aumentata grandezza relativa del pluslavoro (cosicché a massa del lavoro invariato la parte non pagata di essa aumenti; la qual cosa può sino a un certo punto144 mantenere costante o addirittura far aumentare la massa del pluslavoro anche con una massa del lavoro complessivo calante in termini assoluti), oppure se – a grado di sfruttamento invariato – aumenta il numero dei lavoratori impiegati. O per il combinarsi di entrambi i fattori145. In tutti questi casi – che però come da premessa ||227| presuppongono il crescere del capitale costante rispetto a quello variabile e una grandezza crescente del capitale complessivo impiegato – la singola merce contiene una massa di profitto minore (e il saggio di profitto cala, anche se calcolato soltanto sulla merce stessa); una data quantità di lavoro vivo addizionale si presenta in una maggiore quantità di merci; il prezzo della singola merce cala, al pari della massa di profitto in essa 143. within certain limits 144. to a certain degree

148

145. Oder diess zusammenwirkt

contenuta. {In astratto, il saggio di profitto può restare lo stesso anche con la diminuzione del prezzo della singola merce, in seguito all’aumentata forza produttiva del lavoro e quindi al contemporaneo aumento del numero di queste merci a minor prezzo146, ad es. qualora l’aumento della produttività del lavoro agisca in modo uniforme e contemporaneamente su tutte le parti costitutive147 delle merci – cosicché il prezzo complessivo della merce diminuisca in modo proporzionale all’aumentare della produttività del lavoro – e d’altra parte il rapporto tra le diverse parti costitutive del prezzo della merce resti lo stesso (costante); [il saggio di profitto può] cadere, come abbiamo visto sinora, [e potrebbe] crescere, nel caso in cui all’aumento del saggio del plusvalore si unisse un significativo deprezzamento dei componenti costanti del capitale148}. (Se si considera soltanto il prezzo delle singole merci per sé prese o ci si limita a misurare il lavoro rispetto alla quantità di merce da esso prodotta149, l’indagine andrà sempre storta. Tutto dipende dalla grandezza della somma complessiva del capitale anticipato. Si analizzi il prezzo di una singola merce, ad es. se il prezzo di un cubito [di tessuto] cade da 3 sc. a 1 2/3; se si sa che 1 sc. = filo ecc., 1/3 sc. = salario, e 1/3 sc. = profitto, con questo non si sa se la massa di profitto complessiva sia rimasta invariata oppure no. Questo dipende dall’incremento della grandezza del capitale anticipato o dal suo rimanere invariato). Il fenomeno, derivante dalla natura del modo di produzione capitalistico, per cui, con l’aumentare della forza produttiva del lavoro, il prezzo della singola merce o di una data quantità di merci cala, il numero delle merci aumenta, la massa di profitto sulla singola merce e il saggio di profitto su di essa in generale cala, ma la massa di profitto sulla somma complessiva delle merci cresce, – questo fenomeno apparentemente significa soltanto: diminuzione della massa di profitto sulla singola merce, diminuzione del suo prezzo, crescita della massa di profitto sull’aumentato numero complessivo delle merci che il capitale sociale150 – o anche il singolo capitalista per sé considerato – producono. Questo viene inteso nel senso che il capitalista, a suo piacimento, gravi la merce singola di un minore profitto, ma sia risarcito attraverso l’accresciuto numero delle merci che produce. Questa concezione151 si fonda sull’idea152 del «profitto da alienazione»153; che è a sua volta ricavata 146. lower priced commodities 147. Bestandtheile 148. constanten Capitaltheile 149. in respect to the quantity of commodity

produced by it 150. Gesellschaftscapital 151. Anschauung

149

per astrazione dal modo di intendere il capitale del commerciante o del capitale commerciale154. Si è visto precedentemente, nel Libro I, cap. VI155, che la massa di merci che cresce assieme alla forza produttiva del lavoro, come pure la diminuzione di prezzo della singola merce, non incidono in quanto tali (fintantoché le merci non entrino in misura determinante nel prezzo della forza lavoro156) sulla proporzione di lavoro non pagato e lavoro pagato all’interno della singola merce, nonostante il calo del prezzo di essa. Poiché nella concorrenza tutto si presenta in modo falso, e cioè capovolto, il singolo capitalista può immaginarsi: 1) di ridurre il proprio profitto sulla singola merce riducendone il prezzo, ma di fare un profitto maggiore a causa della maggiore massa di merci che vende (qui tra l’altro egli equivoca sulla maggiore massa di profitto che proviene dall’aumento del capitale impiegato anche a saggio di profitto inferiore); 2) di fissare il prezzo della merce singola e di ottenere per moltiplicazione il prezzo del prodotto complessivo; mentre il processo originario è quello di una divisione (vedi Libro I, cap. VI), e la moltiplicazione è corretta solo in seconda istanza, ossia sul presupposto di quella divisione. In realtà l’economista volgare non fa altro che tradurre le strane idee157 del capitalista impegnato nella concorrenza in un linguaggio apparentemente più teorico e generalizzante, e si ingegna a dimostrare la correttezza di quelle idee. In realtà la diminuzione dei prezzi delle merci e la crescita della massa di profitto sulla massa accresciuta delle merci divenute meno care è soltanto un’altra espressione della legge [qui] sviluppata della caduta del saggio di profitto, accompagnata da una crescita della massa del profitto. {Perciò questo punto sui prezzi delle merci può essere collocato anche subito dopo lo sviluppo di tale legge, come una mera diversa sua forma di espressione.} Ricercare fino a che punto un saggio di profitto calante possa 152. Vorstellung 153. «Profit upon alienation» 154. Kaufmanns- oder Handelscapitals 155. [Il riferimento è al capitolo VI del I libro del Capitale, non incluso da Marx nell’edizione a stampa del I libro del Capitale e rimasto inedito sino al 1933. Nell’ediz. del III libro curata da Engels il riferimento è sostituito da quelli alla IV e VII sezione del I libro (vedi in particolare MEW 23.337 = ER 1.356). Per il Capitolo VI inedito si veda K. Marx, Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, in

150

Manuskript 1863-1865, MEGA II/4.1.; Risultati del processo di produzione immediato, tr. it. di M. Di Lisa, prefazione di N. Badaloni, Editori Riuniti, Roma 1984] 156. Arbeitsvermögen [letteralmente: «facoltà di lavoro». Nei testi marxiani questo termine sarà progressivamente sostituito da Arbeitskraft, «forza-lavoro». Al riguardo si veda W. Wygodski, Der Platz des Ms. «Lohn, Preis und Profit» im ökonomischen Nachlass von K. Marx, in «Marx-Engels-Jahrbuch», vol. 6 (1983), pp. 211-227] 157. queer notions

coincidere con prezzi in aumento è tanto poco pertinente qui quanto ciò che è stato trattato in precedenza a proposito del plusvalore relativo. Il capitalista, che impiega metodi di produzione perfezionati, vende al di sotto del prezzo di mercato, ma al di sopra del proprio ||228| prezzo individuale di produzione (così per lui il saggio di profitto cresce fino a quando la concorrenza non lo ha riportato su un livello medio158; nel periodo di tempo in cui ha luogo questo livellamento viene a emergere al tempo stesso il secondo requisito, la crescita del capitale anticipato. Se quindi all’inizio il capitale non fosse abbastanza grande per occupare l’intera massa precedente dei lavoratori o una massa superiore alle nuove condizioni, se quindi in altre parole il capitale complessivo non fosse cresciuto a sufficienza per generare questa massa di profitto o una più elevata, questo tuttavia accade per i motivi che abbiamo indicato159. [3.2. Conflitto tra estensione della produzione e valorizzazione] Lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro si manifesta in due modi: [in primo luogo] nella grandezza delle forze produttive già prodotte, nell’entità del valore e nell’entità della massa di condizioni di produzione nelle quali avviene la nuova produzione, cioè nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato. In secondo luogo nella relativa esiguità del capitale anticipato in salari rispetto al capitale complessivo, cioè nella relativa esiguità del lavoro vivo che è richiesto per la riproduzione e lo sfruttamento di un dato capitale, per la produzione di massa. Ciò presuppone al tempo stesso la concentrazione del capitale. Anche per quanto riguarda il lavoro vivo impiegato lo sviluppo della forza produttiva si manifesta in due modi. [In primo luogo] nell’aumento del pluslavoro, cioè nella riduzione del tempo di lavoro necessario che è richiesto per la riproduzione della capacità di lavoro160. In secondo luogo nella diminuzione della forza lavoro (numero dei lavoratori), che è impiegata in generale per mettere in movimento un dato capitale. I due movimenti non solo vanno di pari passo, ma si condizionano reciprocamente, sono fenomeni in cui si esprime la stessa legge. Sul saggio di profitto agiscono però in senso opposto. Il profitto = plu158. ausgeglichen 159. [Qui termina la parte del manoscritto anticipata da Engels alla fine del cap. 13 (cfr. MEW 25.241 = ER 3.1.281). Riprende quindi quella collocata al cap. 15, sotto il titolo redazionale de II. Conflitto tra estensione della produzione e valorizzazione:

vedi MEW 25.257 sgg. = ER 3.1.299 sgg.] 160. Arbeitsvermögens [in questo caso si è preferito tradurre «capacità di lavoro», perché il termine «forza lavoro» (Arbeitskraft) ricorre poco dopo nel testo in una diversa accezione]

151

plusvalore

svalore, il saggio di profitto = capitale complessivo anticipato . Però il plusvalore, come importo complessivo, è determinato in primo luogo dal suo saggio, in secondo luogo dalla massa del lavoro contemporaneamente impiegato a questo saggio, ovvero, il che è la stessa cosa, dalla grandezza del capitale variabile. Per un verso cresce il saggio del plusvalore, per l’altro diminuisce (relativamente o in termini assoluti) il fattore del numero [di lavoratori] per il quale questo saggio è moltiplicato. Lo sviluppo delle forze produttive, nella misura in cui riduce la parte pagata del lavoro impiegato, accresce il plusvalore, poiché [ne aumenta] il saggio; in quanto però riduce la massa complessiva del lavoro impiegato da un dato capitale, riduce il fattore del numero per cui il saggio è moltiplicato, quindi la sua massa. Il plusvalore è determinato tanto dal saggio in cui è espresso il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, quanto dal numero delle giornate lavorative impiegate. Quest’ultimo [ fattore] però con lo sviluppo delle forze produttive diminuisce in termini relativi rispetto al capitale anticipato. Due lavoratori non possono fornire la stessa massa di plusvalore di 24, ognuno dei quali lavori soltanto 2 ore, anche se i primi potessero vivere d’aria e quindi non dovessero affatto lavorare per se stessi. La sostituzione del numero di lavoratori attraverso l’accrescimento del grado di sfruttamento dei lavoratori stessi ha perciò dei limiti161 invalicabili, e quindi può frenare, rallentare la caduta del saggio di profitto, ma non eliminarla. Si è visto che con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico il saggio del profitto cade, per contro la massa di profitto cresce con la massa crescente del capitale in funzione162. Dato il saggio, la grandezza assoluta a cui cresce il capitale, la crescita assoluta del capitale dipende dalla sua grandezza esistente. Ma d’altra parte, data questa grandezza, la proporzione 163 in cui cresce, la sua crescita proporzionale, il saggio della sua crescita dipende dal saggio di profitto. ||229| Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro (che d’altra parte, come si è accennato in precedenza, va sempre di pari passo con la svalorizzazione164 del capitale esistente) può accrescere direttamente la massa di valore del capitale, e quindi contribuire ad accrescere il valore di scambio del capitale esistente, solo in quanto elevando il saggio di profitto accresce la parte del valore165 del prodotto annuo che viene riconvertita in capitale. Tenendo conto della forza produttiva del lavoro, ciò può accadere (poiché questa forza produttiva in quanto tale non ha nulla a che fare col valore del capitale esistente) solo in quanto attra161. Grenzen 162. functionirenden 163. Verhältnis

152

164. Depreciation 165. Werththeil

verso di essa sia elevato il plusvalore relativo o sia diminuito il valore del capitale costante, e quindi le merci che intervengono nella riproduzione della capacità di lavoro o nella composizione del capitale costante divengano meno care. Entrambi i casi implicano però la svalorizzazione del capitale esistente ed entrambi procedono di pari passo con la diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante. Entrambi determinano la caduta del saggio di profitto e la rallentano. Inoltre, in quanto un saggio di profitto [in movimento] accelerato provoca166 un’accresciuta domanda di lavoro, esso dà impulso167 all’aumento della popolazione (o all’assorbimento della sovrappopolazione) e quindi della materia da sfruttare168 – la quantità di lavoro – da cui è costituito il valore del capitale. Ma lo sviluppo della forza produttiva del lavoro agisce indirettamente, in quanto aumenta la massa e la molteplicità dei valori d’uso, nei quali si presenta lo stesso valore di scambio e che formano il sostrato materiale, la materia prima169 del capitale, gli ingredienti materiali di cui sono composte entrambe le parti costitutive del capitale, variabile e costante. Con lo stesso capitale e lo stesso lavoro vengono creati più elementi che possono venire trasformati in capitale, a prescindere dal loro valore di scambio, e che perciò possono servire ad assorbire lavoro aggiuntivo, quindi pluslavoro, e perciò a creare capitale addizionale170. La massa di lavoro che il capitale può comandare non dipende dal suo valore, ma dalla massa delle materie prime, materie ausiliarie, macchinari, capitale fisso in tutte le forme171, mezzi di sussistenza, di cui è composto, quale che sia il loro valore. Mentre in tal modo cresce la massa del lavoro impiegato, [lavoro] necessario e pluslavoro, cresce anche il valore del capitale riprodotto e il suo plusvalore172 (l’incentivo173 precedentemente considerato all[’aumento dell]a popolazione operaia procede di pari passo con ciò). Questi due momenti insiti nel processo di accumulazione non debbono essere considerati soltanto nel loro tranquillo coesistere, come fa Ricardo; essi contengono una contraddizione, che si esprime in tendenze e fenomeni contraddittori. Sono in gioco contemporaneamente fattori174 contraddittori. Contemporaneamente agli impulsi175 a un aumento effettivo della popolazione operaia con l’aumento delle parti della produ166. causes 167. stimulus 168. exploitablen Materials 169. matière brute 170. to absorb additional labour, hence surplus labour, and thus to create additional ca-

pital 171. in all forms 172. Surpluswerth 173. stimulus 174. Agentien 175. stimuli

153

zione annua che agiscono come capitali, agiscono i fattori che generano una sovrappopolazione relativa. Contemporaneamente alla caduta del saggio di profitto cresce la massa dei capitali e ha luogo di pari passo una svalorizzazione176 del capitale esistente, che frena la caduta del saggio di profitto e dà un impulso accelerato all’accumulazione di valore capitale177. |230| Contemporaneamente allo sviluppo della forza produttiva procede la più elevata composizione del capitale, la diminuzione relativa della sua parte variabile rispetto alla sua [parte] costante. Questi diversi fattori178 si fanno valere ora l’uno accanto all’altro nello spazio, ora in una successione temporale, e periodicamente il conflitto tra i fattori in contrasto trova sfogo nelle crisi. Le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato. La contraddizione, esposta in termini del tutto generali, consiste in questo, che il modo di produzione capitalistico porta con sé una tendenza179 allo sviluppo assoluto delle forze produttive, a prescindere dal valore di scambio180 e dal plusvalore (profitto) in esso contenuto, a prescindere dai rapporti sociali entro cui la produzione capitalistica ha luogo, mentre essa d’altra parte tende alla conservazione del valore di scambio attuale del capitale esistente181 e la sua valorizzazione nella massima misura possibile (cioè alla crescita accelerata di questo valore di scambio). Il suo carattere specifico è rivolto al valore di scambio del capitale esistente182 e alla massima crescita possibile di questo valore. I metodi con cui essa consegue questo [obiettivo] comprendono la diminuzione del saggio di profitto, la svalorizzazione183 del capitale esistente e lo sviluppo delle forze produttive del lavoro a scapito delle forze produttive già prodotte. La svalorizzazione periodica del capitale esistente, che è un mezzo immanente al modo di produzione capitalistico per frenare la caduta del saggio di profitto e per accelerare l’accumulazione di valore capitale e la creazione di nuovo capitale, turba i rapporti dati in cui si compie il processo di circolazione e di riproduzione del capitale ed è quindi accompagnata da improvvise interruzioni184 e crisi del processo di produzione. Lo sviluppo delle forze produttive che procede di pari passo con 176. Depreciation 177. Capitalwerth 178. Einflüsse 179. Streben 180. Tauschwerth [Engels: Wert] 181. des vorhandnen Tauschwerts des existirenden Capitals [Engels: des existierenden

154

Kapitalwerts] 182. auf den Tauschwerth des vorhandnen Capitals [Engels: auf den vorhandnen Kapitalwert] 183. Depreciation 184. Stockungen

la diminuzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante, dà impulso185 all’aumento della popolazione operaia, mentre crea di continuo una sovrappopolazione artificiale. L’accumulazione del capitale, dal punto di vista del valore, riceve uno shock (colpisce se stessa186 con la caduta del saggio di profitto) al fine di accelerare l’accumulazione di valore d’uso, mentre questa a sua volta rimette in moto accelerato l’accumulazione del valore. La produzione capitalistica cerca continuamente di superare i suoi limiti immanenti, ma li supera soltanto con mezzi che li riproducono di nuovo e su più vasta scala. Il vero limite187 della produzione capitalistica è il capitale stesso, è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come fine della produzione; è il fatto che la produzione è produzione per il capitale e che i mezzi di produzione non sono invece semplici mezzi per ampliare e formare il processo di vita per la società che i produttori costituiscono. I confini188 entro i quali può muoversi la conservazione e valorizzazione dei valori-capitale189, la cui base è costituita dall’impoverimento e dall’espropriazione della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente in contraddizione con i metodi di produzione che il capitale deve impiegare per i suoi scopi, e che mirano all’incremento illimitato della produzione, alla produzione come fine a se stessa, allo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive del lavoro sociale, entra continuamente in conflitto con il fine limitato della valorizzazione del capitale esistente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale a essa corrispondente, esso è al tempo stesso la continua contraddizione fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono. [3.3. Eccesso di capitale con eccesso di popolazione] |231| Con la caduta del saggio di profitto cresce il livello minimo di capitale190 – il livello richiesto di concentrazione di mezzi di produzione nelle mani del singolo capitalista – che è in generale richiesto per l’impiego produttivo del lavoro, tanto per il suo sfruttamento, quanto affinché il tempo di lavoro necessario per la produzione delle merci non superi la media del tempo di lavoro socialmente necessario. E con185. Stimulus 186. shocks itself 187. Schranke

188. Schranken 189. Capitalwerthe 190. Capital-Minimum

155

temporaneamente cresce la concentrazione poiché, entro certi limiti191, un grande capitale con un piccolo saggio di profitto accumula più rapidamente di uno piccolo con un grande saggio di profitto. Questa crescente concentrazione torna a sua volta a provocare, a un certo livello, una nuova caduta del saggio di profitto. La massa dei piccoli capitali dispersi perciò va all’avventura192, [e abbiamo] speculazione, frodi creditizie, frodi azionarie, crisi. La cosiddetta pletora di capitale si riferisce sempre essenzialmente alla pletora di [quel] capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è controbilanciata dalla sua massa, (ed è sempre questo il caso per i capitali freschi, di nuova formazione193 che si creano) oppure alla pletora che la disponibilità di capitali di per sé incapaci di operare autonomamente pone a disposizione dei dirigenti dei grandi rami di affari (sotto forma di credito). Questa pletora di capitale deriva dalle stesse circostanze che danno impulso a una sovrappopolazione relativa ed è quindi un fenomeno complementare a quest’ultima, benché esse si trovino su poli opposti, da una parte capitale inoperoso194 e dall’altra popolazione operaia disoccupata195. Sovrapproduzione di capitale (= pletora di capitale), e non di singole merci, (anche se la sovrapproduzione di capitale implica sempre sovrapproduzione di merci) tuttavia ancora una volta altro non significa che sovraccumulazione di capitale. Per intendere cosa sia questa sovrapproduzione non si ha che da supporla come assoluta {la sua analisi ulteriore pertiene alla considerazione del moto fenomenico196 del capitale, dove vengono ulteriormente sviluppati il capitale [produttivo] d’interesse ecc., il credito ecc.}. Quando si avrebbe la sovrapproduzione assoluta di capitale? E cioè una sovrapproduzione che non si estendesse a questo, a quello o a un paio di settori importanti della produzione, ma fosse essa stessa assoluta nella sua estensione197, e quindi includesse il complesso dei settori della produzione? Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale non appena il capitale addizionale per lo scopo della produzione capitalistica fosse = 0. Ma lo scopo della produzione capitalistica è la valorizzazione del capitale, cioè produzione di plusvalore, di profitto, appropriazione di pluslavoro. Non appena quindi l’aumentato capitale fosse cresciuto, rispetto alla popolazione operaia, in una propor191. within certain limits 192. daher Abenteuerlustig [Engels: wird dadurch auf die Bahn der Abenteuer gedrängt] 193. frischen Capitalableger

156

194. unbeschäftigtes 195. unbeschäftigte 196. erscheinenden 197. Umfang

zione tale che non si potesse né prolungare il tempo assoluto di lavoro fornito da questa popolazione, né il tempo di pluslavoro relativo198 (cosa, quest’ultima, comunque assolutamente non praticabile ove la domanda di lavoro fosse così grande [da determinare] una tendenza alla crescita dei salari), e quindi l’accresciuto capitale producesse solo altrettanto o addirittura minore plusvalore di quanto ne produceva prima della sua crescita (parliamo qui della massa assoluta, non del saggio di profitto), in tal caso avrebbe luogo una sovrapproduzione assoluta di capitale. Cioè l’originario C + ∆C produrrebbe soltanto P (questo essendo la somma del profitto prodotto da C) o addirittura P – !. In entrambi i casi, avrebbe luogo anche una forte e improvvisa caduta del saggio generale di profitto, questa volta però in conseguenza di un mutamento199 nella composizione organica del capitale non dovuto allo sviluppo della forza produttiva, ma a un aumento del valore monetario del capitale variabile e alla corrispondente diminuzione nel rapporto del pluslavoro al lavoro oggettivato nel capitale variabile. |232| Nella realtà la cosa si presenterebbe in modo che una parte del capitale resterebbe del tutto o parzialmente inutilizzata (perché per potersi in generale valorizzare dovrebbe prima soppiantare200 il capitale già operante201), e l’altra, a causa della concorrenza, esistente anche solo in potenza202 del capitale inutilizzato o utilizzato a metà, si valorizzerebbe a un minore saggio del profitto. Sarebbe qui indifferente che una parte del capitale addizionale subentrasse al vecchio e questo così venisse a costituire una parte di quello addizionale. Avremmo sempre da un lato il vecchio capitale, dall’altro quello addizionale203. Avremmo, sempre secondo l’ipotesi, da una parte C + ∆C, dall’altra invece C ––––– + P. C + ∆C ––––– (+ P + o) oppure C + ∆C ––––– (+ P – ∆ P.) In entrambi i casi, anche nel caso204 1), C + ∆C viene impiegato in perdita, a confronto con l’originario C. Nel caso 2) la cosa è di per sé chiara. Perciò qui va discusso soltanto il caso205 1). Secondo l’ipotesi, C + ∆C ossia C’ non dà più profitto di quanto prima ne desse C = C’- ∆C: è quindi chiaro che C dà meno profitto 198. relative Surpluszeit 199. change 200. verdrängen 201. das früher functionirende Capital 202. δυναµει 203. [Le formule algebriche seguenti

sono state omesse da Engels nell’edizione a stampa, e sostituite da una riformulazione in termini concettuali: cfr. MEW 25.262 = ER 3.1.305] 204. in case 205. case

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di prima. Infatti se C + ∆C rende soltanto P206; allora, per es., se 1.000 rendeva 100, e 1.500 rende del pari soltanto 100, nel secondo caso 1000 rende ancora soltanto 66 2/3. La valorizzazione del vecchio capitale sarebbe perciò diminuita in termini assoluti. Il capitale di 1.000 nelle nuove condizioni non frutterebbe più di quanto prima fruttasse [un capitale di] 666 2/3. È però evidente che questa svalorizzazione di fatto del vecchio capitale non avverrebbe senza lotta207, ma [anche] che il capitale aggiuntivo ∆C non potrebbe funzionare come capitale senza lotta. Il saggio di profitto non cadrebbe208 per via della concorrenza in seguito alla sovrapproduzione di capitale. Al contrario, ora si avrebbe lotta di concorrenza209 perché caduta del saggio di profitto e sovrapproduzione scaturiscono dalle stesse circostanze. La parte di ∆C che dovesse trovarsi nelle mani dei vecchi capitalisti operanti210, essi la lascerebbero più o meno211 inutilizzata, per non svalutare il proprio stesso capitale originario e per non restringerne il ruolo nel campo della produzione, oppure la impiegherebbero per scaricare sui nuovi venuti212, e in generale sui propri concorrenti, anche a costo di una perdita temporanea, l’azzeramento del capitale addizionale. La parte di ∆C che si trovasse in nuove mani cercherebbe di occupare il proprio posto a spese del vecchio capitale, e con maggiore o minore successo ci riuscirebbe, nella misura in cui riducesse = 0 una parte del vecchio capitale o lo costringesse a sgomberare il vecchio posto per prendere quello del capitale addizionale inutilizzato o impiegato solo in parte. Un azzeramento di una parte del vecchio capitale dovrebbe avvenire in ogni caso, un azzeramento nel senso in cui esso funziona da capitale, si valorizza. Quale parte in particolare risulterebbe colpita da questo azzeramento, è cosa che sarebbe decisa dalla lotta di concorrenza tra i capitali. Finché tutto ||233| va bene, la concorrenza, come si è mostrato a proposito del livellamento del saggio generale di profitto, agisce come consorteria213 pratica della classe dei capitalisti, così che essa si ripartisce [i ruoli] di comune accordo nella comune rapina in proporzione all’entità del rischio assunto. Non appena però non si tratti più di dividersi i profitti, bensì le perdite, ciascuno allora cerca di ridurre la propria quota di esse e di accollarla agli altri. La perdita è inevitabile per la classe. Quanto però ciascuno 206. [Qui termina la parte riformulata da Engels] 207. ohne Kampf 208. sinken 209. Konkurrenzkampf

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210. functionirenden 211. plus ou moins 212. Eindringlinge 213. fraternity

debba sopportare di essa, sino a che punto in generale debba prendere parte a essa, diventa allora una questione di forza, di astuzia predatoria214 e la concorrenza si trasforma quindi in una lotta tra fratelli nemici. A questo punto si fa valere l’opposizione tra l’interesse dei singoli capitalisti e quello della classe dei capitalisti, così come prima attraverso la concorrenza si affermava in pratica l’identità dei loro interessi in quanto capitalisti. Come si appianerebbe ora questo conflitto e come si ristabilirebbero di nuovo i rapporti corrispondenti al «sano» movimento della produzione capitalistica? Il modo per appianarlo è già contenuto nella semplice espressione del conflitto da cui sorge questo problema. Esso implica un azzeramento di capitale, nel caso 1) = la parte ∆C del nuovo capitale complessivo C + ∆C, nel caso 2) = una parte > ∆C del nuovo capitale complessivo C + ∆C. Benché, come risulta già dalla presentazione del conflitto, la ripartizione di questa perdita non abbracci affatto in modo uniforme i capitali particolari indipendenti che compongono il capitale complessivo, ma si decida in una lotta di concorrenza, in cui in base alle particolari posizioni di vantaggio con cui lavorano i capitali particolari o alla posizione che essi già avevano conquistato, o ai maggiori o minori vantaggi con cui un nuovo capitale attribuisce a sé i guadagni e a quello vecchio le perdite, la perdita si ripartisce in modo molto disuguale e in forma molto diversa, cosicché un capitale giace inattivo, un altro capitale va avanti, un altro subisce solo una perdita relativa o sperimenta una svalorizzazione soltanto temporanea e così via. In ogni caso però l’equilibrio si ristabilirebbe per mezzo di una più o meno ampia215 distruzione di capitale. Questa distruzione in parte abbraccerebbe anche la sostanza materiale del capitale: cioè una parte dei mezzi di produzione, capitale fisso o circolante, non entrerebbe in funzione e non agirebbe come capitale; una parte delle imprese produttive già entrate in funzione resterebbe ferma. Sotto questo profilo – poiché il tempo danneggia, aggredisce tutti i mezzi di produzione (esclusa la terra) – avrebbe luogo un’effettiva distruzione di mezzi di produzione. Ma la distruzione principale da questo punto di vista consisterebbe nel fatto che questi mezzi di produzione cesserebbero di operare come mezzi di produzione, [si avrebbe] cioè la distruzione per un periodo più o meno lungo della loro funzione di mezzi di produzione. La distruzione principale, e dal carattere più acuto, si verificherebbe con riferimento al capitale, in quanto esso è valore di scam214. der List und der Beute

215. in grösserem oder geringerem Umfang

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bio, con riferimento ai valori capitali. La parte del valore capitale, che consiste soltanto nella forma di buoni216 su quote future di plusvalore, di profitto, in realtà puri titoli di credito sulla produzione in diverse forme, viene subito svalorizzata217 con la caduta dei ricavi su cui è calcolata. Una parte dell’oro e dell’argento in contanti resta inattiva, non funziona come capitale. Una parte delle merci che si trovano sul mercato può completare il proprio processo di circolazione e di riproduzione soltanto attraverso un’immane contrazione dei suoi prezzi, e quindi una svalorizzazione218 del capitale che rappresenta. Allo stesso modo si svalorizza in misura maggiore o minore il valore del capitale fisso. A questo poi va aggiunto ||234| che taluni rapporti di prezzo predeterminati condizionavano il processo di riproduzione, che [quindi] a causa del loro crollo si interrompe e precipita nel caos: questa turbativa e interruzione219, acutizzata dallo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento (sviluppo verificatosi contemporaneamente allo sviluppo del capitale e poggiante su quei dati rapporti di prezzo) e dalla catena di contratti di pagamento a termine, cosa resa ancora più grave dal sistema del credito sviluppatosi contemporaneamente al capitale, porta a crisi violente, a improvvise svalorizzazioni e a un’effettiva interruzione e turbativa del processo di riproduzione e quindi a un’effettiva diminuzione della riproduzione. Nello stesso tempo sarebbero però entrati in gioco altri fattori. Il ristagno220 della produzione avrebbe gettato sul lastrico una parte della classe operaia e quindi avrebbe posto la parte ancora occupata in condizione di dover accettare una riduzione dei salari anche al di sotto della media221, un’operazione che per il capitale ha esattamente lo stesso effetto che avrebbe l’aumento del plusvalore relativo o assoluto. Il periodo di prosperità222 avrebbe dato impulso ai matrimoni dei lavoratori e ridotto la decimazione della loro prole, circostanze che, benché possano implicare un reale aumento della popolazione, non implicano un aumento dell’effettiva popolazione lavoratrice, ma sul rapporto tra lavoratori e capitale hanno lo stesso effetto dell’aumento del numero dei lavoratori effettivamente in attività223. La caduta dei prezzi e la lotta di concorrenza avrebbero d’altra parte spronato il capitale ad accrescere il valore 216. Anweisungen [letteralmente: «ordini di pagamento»] 217. depreciirt 218. Depreciation 219. Störung und Stockung 220. Stockung 221. average

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222. prosperity 223. functionirende [In questo passo Marx allude alla sovrappopolazione «fluttuante»: in argomento vedi Il Capitale, libro I, sez. VII, cap. 23, § 4, in MEW 23.670 sgg. = ER 1.701 sgg.]

individuale del proprio prodotto al di sopra del suo valore generale attraverso l’impiego di nuovi macchinari, di nuovi e perfezionati metodi di lavoro, di nuove combinazioni; cioè ad accrescere la forza produttiva di una data quantità di lavoro e a diminuire la proporzione relativa del capitale variabile rispetto a quello costante e quindi a creare un’eccedenza di popolazione224, una sovrappopolazione artificiale. Inoltre la svalorizzazione225 dei diversi elementi del capitale, per quanto riguarda il capitale costante, sarebbe essa stessa un elemento che implicherebbe l’aumento del saggio di profitto. Sarebbe cresciuta la massa del capitale costante impiegato rispetto a quello variabile, ma non sarebbe cresciuto il valore del primo. L’intervenuto ristagno della produzione avrebbe elevato – entro i limiti capitalistici – l’effettivo fabbisogno di produzione226. E così tutto il giro ricomincerebbe. Una parte del capitale che si era svalorizzato a causa dell’interruzione227 della sua funzione riguadagnerebbe il suo vecchio valore. E inoltre lo stesso circolo vizioso228 sarebbe ripercorso in condizioni di riproduzione allargata, con un mercato più esteso e un’accresciuta forza produttiva. Anche nell’ipotesi estrema proposta, la sovrapproduzione assoluta di capitale non è però sovrapproduzione assoluta, non è sovrapproduzione assoluta di mezzi di produzione. È soltanto una sovrapproduzione di mezzi di produzione che funzionano come capitale, e che quindi in rapporto al valore accresciuto con l’aumento della loro massa devono includere, devono creare una valorizzazione aggiuntiva di questo valore. |235| Sovrapproduzione si avrebbe, perché il capitale sarebbe incapace di sfruttare il lavoro nel grado di sfruttamento determinato dallo sviluppo «sano» [e] «normale» del processo di produzione capitalistico, in un grado che quanto meno accresca la massa del profitto con la massa crescente del capitale impiegato, e quindi escluda che il saggio di profitto diminuisca nella stessa misura in cui aumenta il capitale (C + ∆C – P + 0), o addirittura che il saggio di profitto diminuisca più rapidamente di quanto il capitale cresce (C + ∆C – P – x). Ora, la sovrapproduzione reale di capitale non è mai come quella qui considerata, ma rispetto a essa è sempre soltanto una sovrapproduzione relativa. Sovrapproduzione di capitale non significa mai altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e mezzi di sus224. make population redundant 225. Depreciation 226. Productionsbedarfe

227. Stockung 228. vicieux

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sistenza – che possono funzionare come capitale, cioè possono essere impiegati per sfruttare il lavoro a un certo grado di sfruttamento, in quanto la diminuzione di questo grado di sfruttamento al di sotto di una certa soglia provoca interruzioni e disturbi del processo di produzione, crisi, distruzione di capitale. Non vi è nulla di contraddittorio nel fatto che questa sovrapproduzione di capitale sia accompagnata da una sovrappopolazione relativa più o meno grande. (La diminuzione di questa sovrappopolazione relativa è già essa stessa un momento della crisi, in quanto si avvicina all’assoluta sovrapproduzione di capitale che abbiamo appena visto.) Le stesse circostanze, che hanno elevato la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa dei prodotti (merci), ampliato i mercati, accelerato l’accumulazione del capitale (considerato in base alla sua massa materiale e di valore) e diminuito il saggio di profitto, hanno generato – e generano continuamente – una sovrappopolazione relativa, che non viene impiegata dal capitale sovrabbondante229 a causa del basso grado di sfruttamento del lavoro al quale soltanto essa potrebbe essere impiegata o almeno a causa del basso saggio di profitto che si ricaverebbe se essa fosse impiegata al grado di sfruttamento dato. Quando il capitale viene spedito all’estero, ciò accade non perché esso in assoluto non possa essere impiegato in patria. Accade perché all’estero può essere impiegato a un saggio di profitto più elevato. Questo capitale è però capitale sovrabbondante in assoluto per la popolazione operaia occupata e in generale per quel dato paese. Esiste in quanto tale accanto alla popolazione sovrabbondante230 e questo è soltanto un esempio di come i due aspetti coesistano e si condizionino a vicenda. D’altra parte la caduta del saggio di profitto legata all’accumulazione produce necessariamente una lotta di concorrenza. Una compensazione231 della caduta del saggio di profitto per mezzo della massa del profitto è possibile232 soltanto per il capitale complessivo della società e soltanto per i grandi capitali [già] consolidati. Il capitale addizionale nuovo, che agisce autonomamente, non trova tale compensazione233, deve reagire; in tal modo è la caduta del saggio di profitto che suscita una lotta di concorrenza tra capitali, e non viceversa. Questa lotta di concorrenza [è] comunque accompagnata da una crescita temporanea del salario e da una ulteriore temporanea diminuzione del saggio di profitto dovuta anche a questa circostanza. Lo stesso fenomeno si manifesta nella sovrapproduzione di 229. Surpluscapital 230. Surpluspopulation 231. Ersatz

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232. existirt 233. Compensation

merci, saturazione dei mercati234. Poiché scopo del capitale è la produzione di plusvalore, il profitto, e non il soddisfacimento dei bisogni, e tale scopo è conseguito soltanto attraverso metodi che orientano la massa della produzione in funzione della scala della produzione, e non viceversa, è giocoforza che si crei continuamente un contrasto tra le proporzioni limitate del consumo su base capitalistica e una produzione che tende continuamente a superare questo suo limite immanente. Del resto il capitale è ben costituito da merci e perciò la sovrapproduzione di capitale implica quella di merci. Di qui lo strano fenomeno per cui gli stessi economisti che negano la sovrapproduzione di merci ammettono quella di capitale. ||236| Quando si dice che non c’è sovrapproduzione generale, ma sproporzione tra i diversi rami di produzione, ciò non significa altro che, nell’ambito dei rami di produzione capitalistici, la proporzionalità può presentarsi soltanto come continuo processo di superamento della sproporzione235, poiché qui il nesso della produzione agisce sugli agenti della produzione come una legge cieca, essi non l’hanno assoggettato al loro controllo comune come intelletto associato. Si pretende inoltre con ciò che popoli in cui il modo di produzione capitalistico non è sviluppato debbano consumare e produrre nel grado che conviene ai paesi con un modo di produzione capitalistico. Quando si dice che la sovrapproduzione è soltanto relativa, si dice una cosa del tutto giusta, ma l’intero modo di produzione capitalistico è soltanto un modo di produzione relativo, i cui limiti non sono assoluti, ma sono assoluti per esso, sulla sua base. Come potrebbe altrimenti esserci una carente domanda di quelle stesse merci di cui la massa del popolo è priva, e come sarebbe possibile che si debba cercarla all’estero, in mercati lontani, per poter pagare ai lavoratori la media236 dei mezzi di sussistenza necessari? [Questo accade] perché soltanto nel contesto [della produzione capitalistica] il prodotto eccedente riceve una forma in cui in parte può essere consumato dai suoi possessori, in parte riconvertito in capitale per essi. Quando infine si dice che i capitalisti non hanno che da scambiarsi le loro merci e consumarle, si dimentica l’intero carattere della produzione capitalistica e si dimentica che [qui] si tratta della valorizzazione del capitale. In breve, tutte le obiezioni contro le manifestazioni attuali della sovrapproduzione – manifestazioni che di tali obiezioni poco si curano – si riducono in ultima analisi all’affermazione che i limiti della produzione capitalistica non sono limiti della produzione in generale e quindi non sono neppure limiti di questo modo 234. overstocking of markets 235. Disproportionalität

236. average

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solo

di produzione specifico, il modo di produzione capitalistico. Ma la sua contraddizione consiste nella sua tendenza allo sviluppo assoluto delle forze produttive, che entra continuamente in conflitto con gli specifici rapporti di produzione in cui si muove il capitale. Non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione. Non vengono prodotti troppi mezzi di produzione per occupare la parte della popolazione capace di lavorare. Al contrario. In primo luogo si produce una troppo grande parte della popolazione che non è capace di lavorare, e che per le sue condizioni dipende dallo sfruttamento del lavoro altrui o da lavori che possono essere considerati tali sono nell’ambito di un modo di produzione miserabile. In secondo luogo non vengono prodotti mezzi di produzione sufficienti affinché l’intera popolazione operaia lavori nelle condizioni più produttive, affinché quindi il suo tempo di lavoro assoluto sia abbreviato grazie alla massa e all’efficienza237 del capitale costante impiegato nel corso del tempo di lavoro. Ma periodicamente si producono troppi strumenti di lavoro e troppi mezzi di sussistenza per farli funzionare come mezzi di sfruttamento dei lavoratori a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo peculiari della produzione capitalistica, realizzare238 il valore + plusvalore in esse contenuti e riconvertirli in nuovo capitale, cioè per poter compiere questo processo senza continue esplosioni. Non viene prodotta troppa ricchezza. Ma viene periodicamente prodotta troppa ricchezza nelle sue contraddittorie239 forme capitalistiche. |237| Il limite del modo di produzione capitalistico si rivela, 1) nel fatto che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro genera, con la caduta del saggio di profitto, una legge che a un certo punto si contrappone ostilmente al suo stesso sviluppo, e che perciò deve essere continuamente superata per mezzo di crisi. 2) nel fatto che appare come suo limite l’appropriazione di lavoro non pagato e il rapporto di questo lavoro non pagato con quello oggettivato in generale, anziché il rapporto della produzione con i bisogni sociali, con i bisogni degli uomini socialmente evoluti. Perciò per esso subentrano limiti a un livello della produzione, che 237. Effectivität 238. verwerthen

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239. gegensätzlichen

viceversa sotto quell’altro punto di vista apparirebbe insoddisfacente. Si ferma240 dove non il soddisfacimento dei bisogni, ma la realizzazione e produzione del profitto impongono tale arresto241. Se diminuisce il saggio di profitto, allora [si ha] da un lato lo sforzo del capitale affinché il singolo capitalista elevi il valore individuale delle sue merci al di sopra del loro valore sociale medio; (il prezzo di mercato, che consente un piccolo profitto, deve essere quindi considerato come una grandezza data)242 dall’altro frode e opportunità procurate ai truffatori – dai frenetici tentativi di procacciarsi in questo o quel nuovo settore della produzione, di investimento del capitale, di speculazione un qualche sovrapprofitto, indipendente dal livello generale [del profitto] e molto superiore a esso243. Il saggio di profitto, cioè l’incremento secondo una certa proporzione244, [è] importante per tutti i capitali di nuova formazione245 che si raggruppano autonomamente. E non appena la formazione di capitale246 si concentrasse esclusivamente nelle mani di pochi grandi capitali maturi, per i quali la massa del profitto controbilanciasse il saggio, il fuoco che la anima sarebbe spento. Cesserebbe di risplendere247. Il saggio di profitto è il fattore248 trainante della produzione capitalistica, e si produce soltanto ciò che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui può esserlo. Di qui il panico degli economisti inglesi per la diminuzione del saggio di profitto. Il fatto che la semplice possibilità [di essa] allarmi Ricardo, mostra per l’appunto la sua profonda comprensione delle condizioni dell’economia capitalistica. Ciò che gli si rimprovera, il fatto cioè che egli, noncurante «degli uomini», prendendo in esame la produzione capitalistica abbia occhi solo per lo sviluppo delle forze produttive – con qualunque tributo di uomini e valori capitali lo si ottenga –, è proprio ciò che vi è in lui di importante. Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale è il compito storico e la giustificazione249 del capitale. Appunto così esso crea, senza averne consapevolezza250, le condizioni materiali di un modo di produzione superiore. Ciò che allarma Ricardo [è] che il saggio di profitto – pungolo251 della produzione capitalistica e condizione e motore dell’accumulazione – sia esso stesso minacciato dalla 240. It stops 241. stoppage 242. the marketprice, affording the small profit, being then to be considered as a determinate magnitude 243. facilities afforded to swindlers – by the frantical attempts at securing in this or that new line of production, of outlay of capital, of adventure this or that surplus profit, indepen-

dent of, and towering above, the general level 244. proportional increase 245. neuen… Capitalableger 246. Capitalbildung 247. It would cease shining 248. agency 249. Berechtigung 250. unbewusst 251. stimulus

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legge di sviluppo della produzione. E qui il rapporto quantitativo è tutto. Ma alla base del problema vi è qualcosa di più profondo, che egli presagisce appena. Si rivela qui in modo puramente economico, cioè dal punto di vista borghese, entro i «limiti dell’intelletto capitalistico», dal punto di vista della produzione capitalistica stessa, il suo limite, la sua relatività, il fatto che esso è un modo di produzione non assoluto, ma soltanto storico e corrispondente a una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione. [3.4. Appendice]252 |238| Poiché lo sviluppo della forza produttiva del lavoro è assai disuguale in differenti rami d’industria, e non soltanto disuguale per grado, ma spesso va in direzioni opposte, poiché la forza produttiva del lavoro è del pari legata a condizioni naturali la cui produttività253 può diminuire mentre la produttività sociale del lavoro cresce – {sino a che punto le condizioni naturali esercitino il loro influsso sulla produttività del lavoro indipendentemente dallo sviluppo della produttività sociale del lavoro, e spesso in contrasto con esso, è cosa da studiare interamente nel contesto dell’analisi della rendita fondiaria} –, ne risulta che il profitto medio (= plusvalore) deve stare molto al di sotto del livello che sarebbe lecito presumere sulla base dello sviluppo delle forze produttive nei rami d’industria più avanzati. Il fatto che lo sviluppo della forza produttiva nei diversi rami d’industria avvenga non soltanto in proporzioni molto diverse, ma spesso in direzioni opposte, non deriva soltanto dall’anarchia della concorrenza e dalle peculiarità del modo di produzione borghese. La forza produttiva del lavoro è legata anche a condizioni naturali, che spesso diventano meno favorevoli254 nella stessa proporzione in cui la produttività – in quanto dipendente da condizioni sociali – aumenta. Di qui un movimento opposto in queste diverse sfere, tale per cui la produttività del lavoro cresce da un lato, mentre cala dall’altro. Si consideri ad esempio il semplice influsso delle stagioni, da cui dipende la massima parte dei prodotti grezzi dell’industria, l’esaurirsi delle foreste, dei giacimenti di carbone, delle miniere, ecc. Se la materia prima – questa parte del capitale costante – in quanto a massa cresce sempre in proporzione allo sviluppo della forza produttiva del lavoro, ciò non avviene per quanto riguarda il 252. [L’apparato dell’edizione critica del manoscritto (MEGA II/4.2.1256 sg.) informa che le pagine successive, sino al passo di Babbage contrassegnato dalla nota 301,

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sono riprese con varianti dal Manuskript 1861-1863, MEGA II/3.5.1661 sgg.] 253. Productivität 254. productiv [Engels: ergiebig]

capitale fisso (fabbricati, macchinari ecc. e materie ausiliarie255 per illuminazione, riscaldamento, ecc.). Benché al crescere del suo volume256 il macchinario diventi in assoluto più caro, in termini relativi esso diventa più a buon mercato. Se 5 [lavoratori] producono 10 volte più merci di prima, non per questo il denaro speso in capitale costante sarà il decuplo. Benché il valore di questa parte del capitale costante cresca con lo sviluppo della forza produttiva, esso è però ben lontano dall’aumentare nella stessa proporzione. Si è più volte, in particolare anche in questo capitolo, richiamata l’attenzione sulla differenza tra il rapporto di capitale costante e variabile, quale si esprime nella caduta del saggio di profitto, e il rapporto degli elementi che compongono il capitale257, quale si esprime – con lo sviluppo della produttività del lavoro – in relazione alla singola merce e al suo prezzo. Il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro complessivo, passato e vivo, che entra in essa. Quando viene aggiunto minore lavoro vivo, ad es. per trasformare in prodotto una maggiore quantità di materia prima (o anche un oggetto del lavoro in generale, come ad es. nell’industria mineraria), allora – (lasciando da parte la materia prima; il semplice oggetto di lavoro, che non sia materia prima, è comunque privo di valore) – la differenza tra la parte di valore aggiunta nella singola merce dal nuovo capitale costante (fisso e materiale ausiliario) e la parte di valore aggiunta dal vecchio capitale costante sarà < della differenza tra il nuovo minor lavoro258 e il vecchio maggior lavoro259 da esso sostituito. (Se fossero pari, non si avrebbe alcuna diminuzione del prezzo della merce, benché il lavoro addizionato da ultimo sia divenuto più produttivo. Entro rapporti di produzione razionali, e non regolati dal profitto, anche in questo caso il metodo [di produzione adottato] sarebbe quello migliore e più produttivo.) Non è quindi possibile aggiungere al lavoro passato, in quanto condizione di lavoro, più di quanto si risparmia nel lavoro vivo. Ma a proposito della singola merce o massa di merci, che sono prodotte in un determinato periodo di rotazione [del capitale], va notato che per esse è sufficiente che la parte fissa del capitale costante depositi in esse, usurandosi, una grandezza di valore < al lavoro vivo che sostituisce. Inoltre, benchè il valore assoluto delle materie ausiliarie260 impiegate – questa parte del capitale costante – cresca in misura signifi255. matières instrumentales [Engels: Vorrichtungen (attrezzature)] 256. bulk 257. Capitalbestandtheile

258. Minderarbeit 259. Mehrarbeit 260. matières instrumentales

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cativa relativamente al capitale sborsato per il salario, esso resta ancora relativamente conveniente, con riferimento alla quantità complessiva delle merci prodotte, rispetto a ciò che con una produttività minore del lavoro passa di esso nella merce, a ciò che il singolo lavoratore stesso ha bisogno per sé in relazione alla minore produttività del lavoro dei rapporti di produzione più antiquati. Una parte minore del valore261 di esso entra nella singola merce. La componente di valore262 che ||239| questa parte del capitale costante aggiunge alla singola merce – o alla massa di merci creata in un determinato periodo di rotazione o anche nel tempo di riproduzione totale del capitale263 – diminuisce, è decrescente264 (in misura insignificante), benché questa componente di valore del capitale costante cresca rispetto al valore del capitale variabile. In questo non c’è assolutamente nulla di contraddittorio, poiché la stessa produttività del lavoro accresce la massa delle merci e riduce il lavoro che le produce, quindi riduce il capitale variabile. Perciò non c’è assolutamente nulla di contraddittorio nel fatto che la stessa somma di valore265 (questa parte del capitale costante), ripartita su una massa accresciuta di merci, si riduca per aliquotum, mentre su una somma di valore ridotta (il capitale variabile) o un ridotto lavoro vivo (anche nella merce singola) essa si accresce. Con ciò resta però sempre la stessa condizione, che la parte di valore266 che entra nella singola merce come usura267 del capitale fisso e come equivalente di valore268 per le materie ausiliarie269 in essa consumate, deve essere < alla differenza nella produttività del nuovo lavoro, aggiunto da ultimo, rispetto a quello vecchio. Questo tuttavia non esclude che per la massa complessiva delle merci, ad es. il numero di libbre di tessuto ritorto270 che vengono prodotte in un determinato periodo di tempo, ad es. un giorno, venga consumata – ed entri come componente di valore – una quantità di capitale costante pari o addirittura molto superiore a quella che in precedenza veniva anticipata in forma di salario. Solo, una quantità più piccola in rapporto alla singola merce. Questo però implica che la stessa massa di merci avrebbe consumato nel vecchio processo una somma maggiore di lavoro vivo + componente di valore del capitale costante. Poniamo che n (1) di lavoratori producano esattamente quanto prima produ4 cevano n lavoratori. In tal caso la massa di merci prodotta resta la stessa. Ma vengono risparmiati 3/4 del lavoro vivo. Il capitale co261. ein geringrer Werthbestandtheil 262. Werthbestandtheil 263. Totalreproductionszeit des Capitals 264. decreasing 265. Werthsumme

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266. Werthbestandtheil 267. als wear and tear, als Dechet 268. Werthäquivalent 269. matières instrumentales 270. twist

stante aggiunto cresce, ma (una volta sottratto il vecchio capitale costante) cresce meno di 3/4 e quindi il valore complessivo del capitale costante è cresciuto (può [dirsi] lo stesso a proposito dell’usura), rispetto a quello sborsato per il lavoro, benché in rapporto alle merci esso sia cresciuto in proporzione inferiore a quanto il lavoro vivo è diminuito. Tuttavia il capitale complessivo anticipato è maggiore di prima in assoluto, ma inferiore in rapporto alla massa di merci prodotta. Rispetto al capitale variabile è cresciuto in termini sia assoluti che relativi. Se il materiale grezzo aumenta, questo aumento deve essere controbilanciato da una sostituzione, in parte del restante capitale costante che entra in essa e [in parte] del lavoro vivo aggiunto. In questo caso la merce diventa – come prima – più a buon mercato, ma il saggio di profitto scende, perché il valore del capitale complessivo cresce in proporzione ancora maggiore rispetto al capitale variabile. Quanto più il capitale fisso si accresce con la produttività del lavoro, tanto più grande [diventa] la parte non consumata del capitale o tanto più lungo [diviene] il periodo di rotazione su cui si estende il processo di riproduzione di questa parte del capitale costante. Nella concorrenza il minimo crescente del capitale che con l’aumento della forza produttiva diviene necessario, si manifesta271 in questo modo: Non appena la nuova invenzione sarà stata generalmente introdotta, i capitali minori saranno esclusi dall’industria. Soltanto nella prima fase [dell’introduzione] di invenzioni meccaniche nelle diverse sfere di produzione, esse possono essere gestite da capitali minori. D’altra parte imprese molto grandi, con una proporzione straordinariamente elevata di capitale costante, come le ferrovie, non rendono il saggio di profitto medio, ma solo una sua frazione272, un interesse. Se così non fosse, il saggio generale di profitto scenderebbe ancora più in basso. D’altronde, questo grande capitale (capitale azionario) trova solo qui un campo diretto di utilizzo273. L’incremento del capitale, quindi l’accumulazione del capitale implica una riduzione del saggio di profitto solo nella misura in cui con questa crescita subentrano i mutamenti sopra considerati nel rapporto tra le parti organiche del capitale. Tuttavia, nonostante i continui, quotidiani rivoluzionamenti del modo di produzione, ora l’una, ora l’altra frazione274, maggiore o minore, del capitale complessivo continua per un certo periodo di tempo ad accumulare in base a un determinato ||240| rapporto medio tra quelle componenti, cosicché con il suo incremento interviene non interviene 271. erscheint 272. Theil

273. direct field of employment 274. Theil

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alcun cambiamento organico, quindi non [intervengono] le cause della caduta del [saggio di] profitto275. Il saggio di profitto non diminuisce nella stessa misura in cui cresce il capitale complessivo della società già perché, durante certi periodi, quel continuo accrescimento del capitale ed estensione della produzione in certi rami d’industria procedono senza che a essi si accompagni un mutamento nella proporzione tra le sue componenti organiche – cioè sulla base di metodi di produzione invariati. L’aumento del numero assoluto di lavoratori, nonostante la diminuzione relativa del capitale variabile, o capitale anticipato in salari, non avviene in tutti i rami di produzione, né uniformemente in tutti i rami di produzione. Nell’agricoltura, la diminuzione dell’elemento del lavoro vivo può essere assoluta. Del resto, il bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati, nonostante la relativa diminuzione [del capitale variabile]276, è proprio soltanto del modo di produzione capitalistico. Per esso le forze di lavoro277 divengono superflue sin dal momento in cui non è più necessario occuparle per 12-15 ore al giorno. Uno sviluppo della forza produttiva tale da ridurre il numero assoluto dei lavoratori, cioè tale da permettere di fatto all’intera nazione di compiere la sua produzione complessiva in più breve tempo, provocherebbe una rivoluzione, perché priverebbe di entrate la maggior parte278 della popolazione. Ricompare qui il limite specifico della produzione capitalistica e il fatto che essa non è in alcun modo una forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive (e per la produzione della ricchezza sociale), ma anzi a un certo punto entra in conflitto con esse. Questo conflitto si manifesta279 tra l’altro in crisi periodiche ecc., che derivano dal divenire superfluo ora di questa, ora di quella componente della classe operaia nel suo vecchio modo di impiego. Il suo limite è il tempo eccedente280 dei lavoratori. Il tempo eccedente assoluto che la società guadagna non le interessa. Per essa lo sviluppo della forza produttiva è importante solo in quanto prolunga il tempo di pluslavoro del lavoratore, non in quanto riduce in generale il tempo di lavoro per la produzione materiale. Si muove quindi in una contraddizione281. Si è visto che la crescente accumulazione del capitale implica 275. no organic change, hence nicht die Ursachen des fall of profit eintreten [ Con «cambiamento organico» (organic change) Marx intende qui il cambiamento nella composizione organica del capitale, ossia nel rapporto tra capitale variabile e capitale costante]

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276. wenn sie relativ abnimmt, trotz der relativen Abnahme 277. Arbeitsvermögen 278. Demonetisirung der Mehrzahl 279. erscheint 280. Surpluszeit 281. Gegensatze

una sua crescente concentrazione. Cresce così la potenza del capitale, l’autonomizzazione – impersonata dal capitalista – delle condizioni sociali della produzione rispetto ai reali produttori. Il capitale si manifesta sempre più come potenza sociale (di cui il capitalista è un funzionario e che non ha più alcun possibile rapporto proporzionale con ciò che il lavoro di un singolo individuo può creare), ma come potenza sociale estraniata, autonomizzatasi, che si contrappone alla società in quanto entità materiale 282 – e in quanto potere del capitalista per mezzo di questa entità materiale. La contraddizione tra la generale potenza sociale che il capitale diviene283, e il potere privato del singolo capitalista sulle condizioni sociali di produzione si sviluppa in modo sempre più stridente e implica la dissoluzione di questo rapporto in quanto al tempo stesso implica l’evoluzione284 delle condizioni materiali di produzione in condizioni di produzione universali, comuni, sociali. Questo sviluppo è dato dallo sviluppo delle forze produttive inerente alla produzione capitalistica e dal modo in cui esso si compie. Nessun capitalista adotta volontariamente un nuovo metodo di produzione285, per quanto possa essere molto più produttivo o anche per quanto possa aumentare il saggio del plusvalore, nel caso in cui esso riduca il saggio di profitto. Ma ognuno di questi nuovi metodi di produzione rende ||241| le merci più a buon mercato. Perciò all’inizio egli le vende al di sopra del loro prezzo di produzione, forse al di sopra del loro valore. Intasca la differenza che sussiste tra i loro costi di produzione e il prezzo di mercato delle merci vendute. Può farlo, perché la media del tempo di lavoro socialmente richiesto per la produzione di queste merci è maggiore del tempo di lavoro richiesto dal nuovo metodo di produzione. Il suo metodo di produzione286 sta al di sopra della media di quello sociale. La concorrenza lo generalizza e lo assoggetta alla legge generale. Subentra allora la caduta287 del saggio di profitto (dapprima forse in questa sfera, per poi livellarsi sulle altre), che dunque è del tutto indipendente dalla volontà dei capitalisti. A questo punto va ancora osservato che la stessa legge regna anche nelle sfere di produzione il cui prodotto non entra, né direttamente né indirettamente, nel consumo del lavoratore né nelle condizioni di produzione dei suoi mezzi di sussistenza – quindi anche nelle sfere di produzione nelle quali nessuna diminuzione dei prezzi delle merci può accrescere il plusvalore relativo, rendere 282. Sache 283. zu der sich das Capital gestaltet 284. Herausarbeitung

285. Produktionsweise 286. Productionsprocedur 287. Sinken

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più a buon mercato la forza di lavoro288. (A ogni modo una diminuzione di prezzo del capitale costante può accrescere anche in questi comparti il saggio di profitto, restando invariato lo sfruttamento dell’operaio). Non appena viene effettivamente offerta la prova che queste merci possono essere prodotte più a buon mercato, i capitalisti che lavorano alle vecchie condizioni di produzione devono venderle al di sotto del loro prezzo di produzione, perché il valore delle loro merci è diminuito, il tempo di lavoro richiesto per la loro produzione si trova al disopra di quello sociale. In una parola – questo si manifesta fenomenicamente289 come l’effetto della concorrenza – anch’essi devono introdurre il nuovo metodo di produzione, in cui la proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante è diminuita. Tutte le circostanze che fanno sì che l’impiego del macchinario renda più a buon mercato il prezzo del lavoro, si riducono sempre [in primo luogo] alla riduzione della quantità di lavoro che è assorbita da una singola merce; in secondo luogo, però, alla riduzione dell’usura290 del macchinario il cui valore entra nella singola merce. Quanto meno rapida è l’usura del macchinario, tanto meno lavoro serve per la sua riproduzione. Perciò [vengono] accresciuti la quantità e il valore del capitale che consiste in macchinario (e in generale capitale fisso)291 rispetto a quello presente nel lavoro. Jones su accumulazione e caduta del profitto. «A parità di ogni altra circostanza, il potere di una nazione di risparmiare sui suoi profitti varia con i saggi di profitto; è grande quando essi sono alti, minore quando sono bassi; ma quando il saggio di profitto declina, tutte le altre circostanze non rimangono invariate… Un basso saggio di profitto solitamente è accompagnato da un rapido saggio di accumulazione, relativamente al numero degli abitanti, come in Inghilterra»; e un «alto saggio di profitto da un saggio di accumulazione più lento, relativamente al numero degli abitanti, come in Polonia, Russia, India e così via» (R. Jones, An Introductory Lecture on Political Economy, Londra 1833, pp. 50 sgg.)292 288. Arbeitsvermögen 289. erscheint [Si è tradotto con «si manifesta fenomenicamente» per sottolineare che qui si tratta di un’apparenza fenomenica (Erscheinung) necessaria, e non di una semplice parvenza (Schein)] 290. Dechet 291. capital fixe 292. Jones on Accumulation and fall of profit. «All other things being equal, the power of a nation to save from its profits varies

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with the rate of profits, is great when they are high, less when low; but as the rate of profit declines, all other things do not remain equal… A low rate of profit is ordinarily accompanied by a rapid rate of accumulation, relatively to the number of the people as in England;» e un «high rate of profit by a slower rate of accumulation, relatively to the numbers of the people, come in Polonia, Russia, India, u.s.w. (50 sq. R.Jones An Introductory Lecture on Pol. Ec., etc. Lond. 1833.)»

Gustamente Jones sottolinea come, nonostante la diminuzione del saggio di profitto293, si accrescono «gli incentivi e le opportunità di accumulazione»294. In primo luogo a causa della crescente sovrappopolazione295 relativa. In secondo luogo, perché, al crescere della produttività del lavoro, cresce296 la massa dei valori d’uso rappresentati dallo stesso valore di scambio, dunque del substrato materiale del capitale. In terzo luogo perché i rami di produzione si moltiplicano. Quarto: Sviluppo del sistema del credito, società per azioni ecc. e conseguente maggiore facilità di trasformare denaro in capitale, senza divenire personalmente capitalisti industriali. Quinto: Crescita dei bisogni e smania di arricchimento. Sesto: Investimenti massicci e crescenti di capitale fisso e così via. /242/ Fatti297 principali della produzione capitalistica: Concentrazione dei mezzi di produzione in poche mani, cosicché essi cessano di apparire come proprietà dei lavoratori immediati, e si trasformano invece in potenze sociali della produzione, anche se dapprima come proprietà privata dei capitalisti. Questi sono i suoi amministratori fiduciari298 nella società borghese e di questa amministrazione fiduciaria299 intascano tutti i frutti. Organizzazione del lavoro stesso come lavoro sociale: Mediante cooperazione, divisione del lavoro e combinazione di lavoro e scienza naturale. Per entrambi i versi il modo di produzione capitalistico sopprime proprietà privata e lavoro privato, sia pure in forme contraddittorie300. Creazione del mercato mondiale. Esempio di diversa proporzione di capitale costante e variabile. «Prezzo del cotone nell’isola di Giava. Il cotone, con il seme, è venduto a picul (circa 133 libbre); non più di 1/4 o 1/5 di questo peso … è cotone; e gli indigeni, per mezzo di rulli primitivi, separano in un giorno di lavoro circa 1/4 di libbra di cotone dal seme. A questo punto il suo valore è 4 o 5 volte il suo costo originario; e i prezzi dello stesso materiale, a stadi diversi di produzione, sono per un picul: Cotone nel seme.…. da 2 a 3 dollari; cotone puro ———— da 10 a 11; filo di cotone ———— 24; filo di cotone died blue ... 35; 293. rate of profit 294. «inducements and faculties to accumulate» 295. Surpluspopulation 296. increases

297. Facts 298. trustees 299. trusteeship 300. gegensätzlichen

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Un normale buon vestito di cotone ... 50. In questo modo... il costo della filatura a Giava è il 117% del valore della materia prima… In Inghilterra… il costo della filatura del cotone per farne del filo in Inghilterra è circa il 33%.» (Ch. Babbage: Sull’economia delle macchine e delle manifatture etc. Londra 1832, p. 165, 166.)301 Sulla crescita della forza produttiva in Inghilterra dal 1792 al 1817 Owen. (Vedi quaderno XVIII. p. 1143)302 Se il capitale impiegato è C, il saggio di profitto p, allora l’accumulazione è = Cp. Ed è chiaro che Cp cresce se il fattore C cresce più rapidamente di quanto il fattore p diminuisca. L’enorme forza produttiva che si sviluppa all’interno del modo di produzione capitalistico in rapporto alla popolazione e il crescere molto più rapido dei valori capitali303 (non soltanto del loro sostrato materiale) rispetto alla crescita della popolazione (benché non nella stessa proporzione)304 – contraddicono la base sempre più angusta (in relazione alla ricchezza crescente) che lavora per questa enorme forza produttiva, e le condizioni di valorizzazione 305 di questo capitale che si ingrossa. Di qui le crisi.

301.«Price of cotton cloth in the island of Java. The cotton, in the seed, is sold by the picul (about 133 lbs.); Not above 1/4 or 1/5 of this weight... is cotton; and the natives, by means of rude rollers, separate at the expense of one day’s labour, about 1/4 lbs cotton from the seed. In this stage worth between 4 or 5 times its original cost; and the prices of the same substance, in different stages of manufacture, are for one one picul: Cotton in the seed .…. 2 to 3 dollars; clean cotton ———— 10 to 11; cotton thread ———– 24; Cotton thread died blue ... 35; Good ordinary cotton cloth ... 50. Thus ... the expense of spinning in Java is 117 % on the value of the raw material ... the expense of spinning cotton into a fine thread is, in England, about 33 %.» (Ch. Babbage: On the Economy of Machinery etc. London 1832, p. 165, 166.) 302. [Marx si riferisce qui allo scritto di Henry Grey Macnabs Examen impartial des nouvelles vues de M. Robert Owen, Parigi 1821, pp. 128-130, che aveva citato nel quaderno XVIII del Manuskript 1861-1863: vedi MEGA II/3.5.1866; Manoscritti del 1861-1863, a cura di L. Calabi, tr. it. di L. Comune Compagnoni, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 238] 303. Capitalwerthe 304. [Si intende: non nella stessa proporzione in cui rispetto alla popolazione si sviluppa la forza produttiva] 305. Verwerthungsverhältnisse

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Indice

Karl Marx e le crisi del XXI secolo Introduzione di Vladimiro Giacché Nota ai testi

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Cronache della crisi 1. La speculazione come causa apparente della crisi 2. Lo scoppio della crisi e il moralismo degli economisti 3. Chi ha colpa della crisi? 4. La crisi si propaga. Interventi pubblici e socializzazione delle perdite

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Contraddizioni del capitale e forme della crisi 1. Il capitalismo e le crisi 2. Limiti del capitale 3. La contraddizione tra produzione e consumo 4. La contraddizione tra profitto e bisogni 5. La contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio della merce 6. La contraddizione insita nel denaro come mezzo di pagamento 7. La crisi come interruzione violenta del processo di riproduzione del capitale 8. Possibilità e condizioni generali delle crisi 9. Il credito come tentativo di superare i limiti del capitale 10. Credito e crisi 11. Le contraddizioni del capitale esplodono nelle crisi 12. Crisi monetaria e autonomizzarsi del denaro 13. Crisi e distruzione di capitale

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Sviluppo del capitalismo e caduta del saggio di profitto Legge della caduta tendenziale del saggio generale di profitto col progredire della produzione capitalistica 1. La legge in quanto tale 2. Fattori di controtendenza Aumento del grado di sfruttamento del lavoro Compressione del salario al di sotto del suo valore Ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante La sovrappopolazione relativa Il commercio estero Aumento del capitale produttivo d’interesse 3. Sviluppo delle contraddizioni interne della legge Considerazioni generali Conflitto tra estensione della produzione e valorizzazione Eccesso di capitale con eccesso di popolazione Appendice

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