Il bibliotecario facilitatore. Mappe e metodi per la partecipazione alla conoscenza 8870758621, 9788870758627

Questo volume si propone come manuale divulgativo per gli operatori bibliotecari, i dirigenti e tutte le figure di servi

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Il bibliotecario facilitatore. Mappe e metodi per la partecipazione alla conoscenza
 8870758621, 9788870758627

Table of contents :
INTRODUZIONE
1. Cos’è la Facilitazione
1.1 Una prima definizione
1.2 Il compito e la relazione insieme e da integrare
1.2.1 Facilitare mansioni e persone
1.2.2 Le competenze facilitatrici per la vita e la professione
1.3 C’è bisogno di aiuto: conflitti e malessere sono frequenti e dappertutto
1.4 Le emozioni sono centrali anche per il bibliotecario
1.5 La competenza a fronteggiare con efficacia le tante negatività
1.5.1 Ma perché la negatività è così frequente e diffusa?
1.6 La Facilitazione esperta è un metodo
1.6.1 La facilitazione ha una storia importante
1.6.2 I congegni facilitatori: terzietà, regia interazionale, ponte di azione
1.7 Sintesi di saperi complessi
1.7.1 Sintesi di saperi, dal management
1.7.2 Sintesi di saperi, dalla sociologia
1.7.3 Sintesi di saperi, dalla psicologia
1.7.4 Sintesi di saperi, dalla neurobiologia
1.7.5 Sintesi di saperi, dalla pedagogia
1.8 Un approccio pensato per unire, nonostante le forze che dividono
2. Le quattro “F” del Bibliotecario facilitatore
2.1.1 Dalle conoscenze alle abilità
2.2 F1 - Coordinare, organizzare il contesto (catalizzatore)
2.2.1 Le abilità di coordinamento
2.2.2 La mappa: Binari compito-relazione
2.2.3 Le tecniche per coordinare
2.3 F2 - Coinvolgere, connettere e mediare differenze (mediatore culturale)
2.3.1 Le abilità di coinvolgimento
2.3.2 La mappa: pendolo sé-altro
2.3.3 Le tecniche per coinvolgere
2.4 F3 - Aiutare, trasformare le negatività (agente di aiuto)
2.4.1 Le abilità di aiuto
2.4.2 La mappa: capacità negativa
2.4.3 Le tecniche per aiutare
2.5 F4 - Attivare, apprendere dal/nel lavoro (motivatore)
2.5.1 Le abilità di attivazione
2.5.2 La mappa: attivazione dal basso
2.5.3 Le tecniche per attivare
3. SITUAZIONI COMPLICATE DA GESTIRE: UNA GUIDA
Con l’utente, al pubblico
3.1 Fronteggiare l’utente critico, aggressivo, che infrange le regole
3.1.1 Le frasi critiche dell’utente: la negatività bassa
3.1.2 Altre negatività, episodi di nonsenso, comportamenti surreali e paradossali
3.1.3 L’utente che manipola a suo beneficio: anche questa è negatività bassa
3.1.4 L’utente che si comporta scorrettamente: la negatività media
3.1.5 Racconti dei bibliotecari
3.2 L’utenza problematica: cosa fare nei casi di negatività alta (insulti, inciviltà)
3.2.1 Episodi difficili da gestire in biblioteca: la negatività alta
3.3 La mediazione nel reference: a volte è proprio difficile
3.4 Non basta curarne uno… e quelli che aspettano?
Con i colleghi
3.5 Conflitti per modi diversi di lavorare e differenze di temperamento
3.5.1 I metodi sono importanti: li possiamo imparare
3.5.2 Decisivo un collega “terzo” che può aiutare
3.6 Si trova un accordo e poi ognuno fa come vuole
Nei gruppi di lavoro
3.7 Agiscono forze complesse, incoerenti, difensive
3.8 Le differenze tendono ad amplificarsi anche tra gruppi diversi
4. ALTRI STRUMENTI ESSENZIALI
4.1 La Facilitazione nelle biblioteche: dalla formazione alla partecipazione sociale
4.1.1 Formazione alla facilitazione
4.1.2 Aiuto diretto in biblioteca (service-facilitazione)
4.1.3 Consulenza organizzativa
4.1.4 Circolo facilitatore
4.1.5 Conferenze sulle competenze sociali
4.1.6 Processi partecipati
4.2 Il direttore della biblioteca, un facilitatore
4.2.1 La guida direttiva e partecipativa
4.3 Per un’ecologia dei comportamenti
4.3.1 Connessione di negativo e positivo
4.3.2 Integrazione di tre comportamenti profondi
4.3.3 Un cervello a tre piani
4.4 Vitalità, positività, energia, presenza, senso collettivo: le cinque attivazioni per il bibliotecario
4.4.1 Vitalizzare l’energia (attivazione uno)
4.4.2 Rinnovare l’energia (attivazione due)
4.4.3 Vivere il momento presente (attivazione tre)
4.4.4 Sentire e stare nelle emozioni (attivazione quattro)
4.4.5 Sviluppare abitudini collettive (attivazione cinque)
4.5 Glossario della Facilitazione esperta
4.6 Il cruscotto di allenamento per il Biblio-fac
BIBLIOGRAFIA

Citation preview

ISBN 978-88-7075-862-7

EURO 27,00

9 788870 758627

IL BIBLIOTECARIO FACILITATORE

Pino De Sario, psicologo sociale specialista in facilitazione, insegna all’Università di Pisa “Strumenti di facilitazione nel conflitto”. Esperto di gestione dei gruppi di lavoro e di apprendimento, del metodo antinegatività e della facilitazione esperta, approfondisce modalità e strumenti atti a unire e connettere persone e gruppi, partendo dalle fonti di contrasto, malessere e pregiudizio. Docente AIB per il settore della formazione agli operatori, direttore della Scuola Facilitatori, è autore di numerosi volumi, tra cui Il facilitatore dei gruppi (2006), Far funzionare i gruppi (2010) e Il potere della negatività (2012).

(10) PINO DE SARIO

Questo volume si propone come manuale divulgativo per gli operatori bibliotecari, i dirigenti e tutte le figure di servizio che prevedono il rapporto con il pubblico e il crescente sviluppo di reti territoriali interassociative. Un libro-ponte alla cui base si trova la facilitazione esperta applicata alle biblioteche, un nuovo approccio formativo e alla conoscenza che sta diffondendosi anche in Italia. Il testo si rivolge alla figura del bibliotecario che, oltre alle competenze tecniche primarie legate alla professione, aggiunge le abilità specifiche di “agente di aiuto” e “mediatore culturale”, che lo mettono in grado di curare e promuovere una fitta rete di relazioni, interne ed esterne. Da qui il concetto di bibliotecario facilitatore, sempre più utilizzato in ambito professionale. La facilitazione esperta è un approccio alle risorse umane, completo di mappe concettuali e strumenti applicativi, che mette in moto le persone, accende e attiva, cura le negatività, crea le basi di un’intelligenza collettiva, per unire e connettere azioni e gruppi.

Biblioteconomia e scienza dell’informazione

PINO DE SARIO

IL BIBLIOTECARIO FACILITATORE

BIBLIOTECONOMIA E SCIENZA DELL’INFORMAZIONE 10.

Pino De Sario

Il bibliotecario facilitatore Mappe e metodi per la partecipazione alla conoscenza

EDITRICE BIBLIOGRAFICA

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web: www.clearedi.org.

Copertina: MoskitoDesign - Varese Impaginazione: CreaLibro di Davide Moroni - Legnano (MI) ISBN: 978-88-7075-882-5 Copyright © 2015 Editrice Bibliografica Via F. De Sanctis, 33/35 - 20141 Milano Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy

INDICE

Introduzione

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1. Cos’è la Facilitazione 21 1.1 Una prima definizione 21 1.2 Il compito e la relazione insieme e da integrare 28 1.2.1 Facilitare mansioni e persone 33 1.2.2 Le competenze facilitatrici per la vita e la professione 35 1.3 C’è bisogno di aiuto: conflitti e malessere sono frequenti e dappertutto 37 1.4 Le emozioni sono centrali anche per il bibliotecario 40 1.5 La competenza a fronteggiare con efficacia le tante negatività 43 1.5.1 Ma perché la negatività è così frequente e diffusa? 44 1.6 La Facilitazione esperta è un metodo 60 1.6.1 La facilitazione ha una storia importante 62 1.6.2 I congegni facilitatori: terzietà, regia interazionale, ponte di azione 63 1.7 Sintesi di saperi complessi 67 1.7.1 Sintesi di saperi, dal management 69 1.7.2 Sintesi di saperi, dalla sociologia 70 1.7.3 Sintesi di saperi, dalla psicologia 71 1.7.4 Sintesi di saperi, dalla neurobiologia 72 1.7.5 Sintesi di saperi, dalla pedagogia 74 1.8 Un approccio pensato per unire, nonostante le forze che dividono 76 2. Le quattro “F” del bibliotecario facilitatore 81 2.1.1 Dalle conoscenze alle abilità 83 2.2 F1 - Coordinare, organizzare il contesto (catalizzatore) 95 2.2.1 Le abilità di coordinamento 95 2.2.2 La mappa: Binari compito-relazione 98 2.2.3 Le tecniche per coordinare 101

2.3 F2 - Coinvolgere, connettere e mediare differenze (mediatore culturale) 2.3.1 Le abilità di coinvolgimento 2.3.2 La mappa: pendolo sé-altro 2.3.3 Le tecniche per coinvolgere 2.4 F3 - Aiutare, trasformare le negatività (agente di aiuto) 2.4.1 Le abilità di aiuto 2.4.2 La mappa: capacità negativa 2.4.3 Le tecniche per aiutare 2.5 F4 - Attivare, apprendere dal/nel lavoro (motivatore) 2.5.1 Le abilità di attivazione 2.5.2 La mappa: attivazione dal basso 2.5.3 Le tecniche per attivare

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3. Situazioni complicate da gestire: una guida 155 Con l’utente, al pubblico 157 3.1 Fronteggiare l’utente critico, aggressivo, che infrange le regole 157 3.1.1 Le frasi critiche dell’utente: la negatività bassa 157 3.1.2 Altre negatività, episodi di nonsenso, comportamenti surreali e paradossali 160 3.1.3 L’utente che manipola a suo beneficio: anche questa è negatività bassa 166 3.1.4 L’utente che si comporta scorrettamente: la negatività media 167 3.1.5 Racconti dei bibliotecari 172 3.2 L’utenza problematica: cosa fare nei casi di negatività alta (insulti, inciviltà) 172 3.2.1 Episodi difficili da gestire in biblioteca: la negatività alta 173 3.3 La mediazione nel reference: a volte è proprio difficile 179 3.4 Non basta curarne uno… e quelli che aspettano? 182 Con i colleghi 184 3.5 Conflitti per modi diversi di lavorare e differenze di temperamento 187 3.5.1 I metodi sono importanti: li possiamo imparare 189 3.5.2 Decisivo un collega “terzo” che può aiutare 191 3.6 Si trova un accordo e poi ognuno fa come vuole 194

Nei gruppi di lavoro 198 3.7 Agiscono forze complesse, incoerenti, difensive 200 3.8 Le differenze tendono ad amplificarsi anche tra gruppi diversi 206 4. Altri strumenti essenziali 4.1 La Facilitazione nelle biblioteche: dalla formazione alla partecipazione sociale 4.1.1 Formazione alla facilitazione 4.1.2 Aiuto diretto in biblioteca (service-facilitazione) 4.1.3 Consulenza organizzativa 4.1.4 Circolo facilitatore 4.1.5 Conferenze sulle competenze sociali 4.1.6 Processi partecipati 4.2 Il direttore della biblioteca, un facilitatore 4.2.1 La guida direttiva e partecipativa 4.3 Per un’ecologia dei comportamenti 4.3.1 Connessione di negativo e positivo 4.3.2 Integrazione di tre comportamenti profondi 4.3.3 Un cervello a tre piani 4.4 Vitalità, positività, energia, presenza, senso collettivo: le cinque attivazioni per il bibliotecario 4.4.1 Vitalizzare l’energia (attivazione uno) 4.4.2 Rinnovare l’energia (attivazione due) 4.4.3 Vivere il momento presente (attivazione tre) 4.4.4 Sentire e stare nelle emozioni (attivazione quattro) 4.4.5 Sviluppare abitudini collettive (attivazione cinque) 4.5 Glossario della Facilitazione esperta 4.6 Il cruscotto di allenamento per il Biblio-fac Bibliografia

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Dedico questo lavoro agli ultimi della Terra e poi a tutti gli operatori di cultura perché alimentino un avvenire più nutriente per tutti.

INTRODUZIONE

Insieme resilienza, riflessione e relazioni possono costituire le R dell’educazione, tre importanti elementi da aggiungere all’alfabeto scolastico. Daniel Siegel, 2014

La Facilitazione esperta è un approccio concettuale e un metodo operativo, un’area di competenza del tutto nuova, che si aggiunge al ruolo tecnico di un soggetto operatore e di squadre di colleghi. Studiata appositamente per professioni e organizzazioni, questo volume ne inaugura il connubio per il bibliotecario, che oltre ai saperi biblioteconomici e bibliografici, qui aggiunge per via introduttiva questa “seconda materia” fondamentale, proveniente dalle discipline psicosociali. Chi scrive quindi non è un bibliotecario, bensì un docente e specialista di facilitazione comportamentale e manageriale.

La biblioteca per la società Per scrivere il testo mi sono documentato, già negli ultimi tre anni mi sono comunque aggirato per biblioteche, per via dei corsi per bibliotecari che ho condotto, e ho trovato davvero belle le idee che circolano nel settore, per esempio la biblioteca potenziata dai cittadini, che sperimentano forme di partecipazione e di nuova condivisione per un nuovo attivismo civico (Rasetti, 2014b), oppure la biblioteca attiva nei confronti degli utenti e del servizio, più incisiva come produttrice di contenuti, soprattutto digitali (Solimine, 2015). Per non parlare della concezione umanistica profusa dal “mostro sacro” di tutti i bibliotecari, Ramamrita Ranganathan, che nel 1931 ne enunciò le cinque leggi della nascente biblioteconomia, per una visione ben più profonda di biblioteca universale, che coniughi lo sviluppo tecnologico e sociale dell’Occidente con l’antica saggezza 11

dell’Oriente, in cui le biblioteche fossero porta di accesso alla conoscenza per tutti. Oppure delle tante culture della biblioteca contemporanea: la cultura del servizio, la cultura organizzativa, la cultura del risultato, la cultura della comunicazione, la cultura della cooperazione, la cultura del cambiamento, la cultura della memoria e della conservazione, la cultura della documentazione e la cultura della qualità. Tutte importanti e coesistenti nella biblioteca di oggi (Solimine, 2015). Poi Michael Gorman con le nuove leggi della biblioteconomia protese al servizio dell’umanità e della conoscenza: onorare il passato per creare il futuro, impiegando con intelligenza la tecnologia per migliorare il servizio. O anche Maurice Line, che vede nella biblioteconomia l’organizzazione delle risorse informative per la gente.

Il bibliotecario di comunità Per molti studiosi del settore sembra che il bibliotecario debba essere sempre meno un organizzatore, un gestore delle collezioni, e sempre più un facilitatore, un attivatore di nuove idee! David Lankes lo definisce facilitatore della comunità perché insieme agli utenti, anzi ai membri delle community di riferimento, traccia i percorsi per un miglioramento della società, con un cambio di prospettiva, dallo sviluppo della collezione alla creazione della conoscenza. Lankes descrive la sua visione della biblioteca partecipativa e introduce, se comprendo bene, alla centralità dei processi cognitivi con cui si crea la conoscenza. Ne scaturisce un bibliotecario lavoratore della conoscenza, inteso come modello dinamico proteso alle relazioni sociali che, da intermediario nell’accesso all’informazione passa alla funzione di facilitatore nella creazione di conoscenza. I bibliotecari, dice Lankes (2014), devono cercare di facilitare il più possibile le conversazioni che portano alla conoscenza e avere un impatto positivo su queste. Come poi dice la mia amica Maria Stella Rasetti (per me tutto è incominciato alla Biblioteca San Giorgio di Pistoia), il bibliotecario è un mestiere di cura, una cura rivolta non solo al trattamento dei documenti, ma soprattutto ai destinatari dei servizi forniti. 12

Ecco, in questo enorme giardino di intenti e visioni eccellenti, nel settore delicato della cultura, entro col mio contributo sulla facilitazione in punta di piedi. Consapevole tuttavia dell’innovativo carattere della proposta che nel libro vado a presentare e ad approfondire.

Il bibliotecario come facilitatore Se Lankes propone a ragione gli aspetti cognitivi come cambio di paradigma, posso aggiungere che in questa stessa area di saperi, ci sono a mio avviso componenti che rischiano di scompaginare gli scenari tratteggiati, che qui sintetizzo con due parole chiave: le emozioni e il gruppo. Per quello che ho visto nei team di bibliotecari, ma ancor di più nelle organizzazioni e nella stessa società, su questi due versanti casca l’asino veramente. Non a caso però, proprio perché nelle emozioni e nel gruppo agiscono quelle forze inconsce e prelogiche tipiche di un mondo sotterraneo che riproduce in modo primitivo, primordiale e con grande forza una parte consistente della nostra realtà umana. Mentre a dominare progetti e pianificazioni sono i pensieri, i desideri costruiti e le razionalità. Goleman l’ha chiamata non a caso intelligenza emotiva e Lewin dinamica di gruppo, ponendole già alcuni decenni fa al centro del quadro scientifico inerente ai comportamenti. E se una biblioteca intende innescare nuovi stili virtuosi (partecipati, umanistici, di conoscenza), ecco qua che da questi due “nodi” dobbiamo passare. Il bibliotecario facilitatore che qui vado a comporre coltiva questa intuizione intorno alle due fenomenologie, comprendendo appieno la contraddittorietà delle forze che vi agiscono, che non vengono di solito imbrigliate dai bei termini e dalle belle visioni, anzi! Il punto è provare a integrare le forze tacite di emozioni e gruppo con le forze esplicite dei progetti e delle culture: se ciò non avviene credo che un’organizzazione si consegni alle polarità opposte della rigidità o del caos, ovvero a sviluppi formali di facciata o a faticosi cambiamenti validi solo sulla carta. Ecco quindi che la Facilitazione esperta, metodo che con l’aiuto di colleghi ho codificato dieci anni fa, si accosta alla biblio13

teca e al bibliotecario, proprio con la sua peculiarità principe, la ricerca di integrazione di fattori diversi e di solito dicotomici come quelli gestionali e umani, del singolo e del gruppo, di emozione e ragione, delle negatività e delle positività.

Il libro che hai nelle mani Se altri manuali professano la vita dei gruppi, della comunicazione come una semplice passeggiata lineare e comunque appianata e fluida, in questo libro non è così. Qui ci poniamo invece molto di più dalla parte delle difficoltà e delle complicazioni – nel testo la chiameremo negatività – che tutti sappiamo quanto siano evidenti nella realtà, dentro e fuori dalle nostre biblioteche. Ci mettiamo dalla parte delle difficoltà per aumentare gli antidoti delle nostre risposte e dei buoni strumenti. A volte scherzo quando arrivo in un gruppo: “È arrivato il complicatore”! Complicazione e facilitazione sono le due facce di una stessa medaglia. Quindi, il bibliotecario facilitatore, nella mia accezione è anch’egli a “fari spenti” o in punta di piedi, quando tende a qualificare i progetti, ben sapendo però delle tante insidie e interferenze con cui si misurerà, non solo tecniche, ma mentali e di atteggiamento emotivo che minano le idee, anche le più brillanti. In questo volume tutti gli operatori di biblioteche, ma anche tutti gli animatori culturali e sociali possono trovare gli strumenti “micro” per adottare nelle situazioni “micro” i concetti di base della biblioteconomia partecipativa, quali inclusione, condivisione, collaborazione, per una via induttiva, che una volta tanto parte dal piccolo per risalire al grande, ai disegni più vasti e mirabolanti. Far partecipare gli utenti alla biblioteca non può essere infatti inteso solo come una sequela di buoni momenti e buone performance: in mezzo ci sono tanti episodi disfunzionali, prodotti da loro in connubio con gli operatori. La biblioteca tende poi a essere luogo di ricovero di situazioni tra le più marginali e critiche, anche lì occorre trovare forme coerenti per accogliere gli utenti. Per coltivare e darsi alla partecipazione servono educazione e strumenti, non possono bastare le buone idee. Questi stru14

menti sono di una marca diversa da quella dominante, per esempio in cui la colpa è sempre da attribuire all’altro, con la facilitazione possiamo scorgere in più quante mancanze e limiti produciamo anche noi in prima persona. Accogliere è quindi riconoscere il valore della persona che si ha davanti, prendersi cura delle sue esigenze del momento e trattarle con impegno e devozione (Rasetti, 2014), ma anche essere centrati su di sé e autosservarsi.

Come funziona il testo Le biblioteche, oltre che ricovero di mille pene e marginalità, sono spesso teatro di diaspore tra operatori garantiti del Comune e operatori di società appaltanti i servizi. Le biblioteche poi sono anche luoghi di parcheggio di impiegati pubblici più difficili da gestire, quelli che seminano guasti ovunque vadano. Libri richiesti, ordinati, arrivati, catalogati, prestati e scartati che si affidano a operatori attivi e competenti che si ritrovano spesso impantanati in situazioni di vischiosità organizzativa tali da farli rendere al di sotto delle loro potenzialità. In tal senso nei capitoli che seguono sono indicati gli strumenti per facilitare l’utente, facilitare il collega e facilitare sé. Facilitare è entrare nella complicazione per cercare di uscirne con conoscenze e fatti, il meglio degli auspici che ci possiamo augurare, se dovesse invece andare male, avremo comunque tentato con una modalità più coerente1 ai fini nobili (partecipazione, umanità, conoscenza). Siamo imbevuti di complessità che nemmeno ce ne rendiamo conto, all’esterno non parliamone, il mondo “frulla” che è un piacere, a fronte di ciò la nostra intuizione è che non possiamo adottare soluzioni troppo semplici (quelle di solito in vigore) perché non risolvono i problemi, ma neanche troppo sofisticate perché rallenterebbero i processi lavorativi. Eccolo allora il face-model, il dispositivo pratico codificato nel 2005, ora in uso anche ai bibliotecari.   Un approccio più negoziale, meno aggressivo, per rispettare le diversità e la comune complessità che spesso ci confonde. 1

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Facilitare è unire ben sapendo delle forze che dividono. Facilitare è ammettere la fragilità. Facilitare è connettere e allacciare fattori compresenti duali. Facilitare è fare gruppo più agevolmente. Facilitare aumenta la soddisfazione lavorativa. Facilitare è educare alla pluralità, alla negozialità, alla capacità negativa, all’apprendimento costante. Facilitare la mente e l’azione insieme. Facilitare lavoro e persona.2

Il libro intende essere un manuale pratico per gli operatori bibliotecari, i dirigenti e tutte le figure di servizio che prevedono il rapporto col pubblico e il crescente sviluppo di reti territoriali interassociative. Un libro che diventerà anche libro di testo per i corsi già avviati e che seguiranno con le biblioteche e le associazioni di categoria, AIB in testa.

Vai subito alla parte del libro che ti serve di più! Il primo capitolo riguarda le basi concettuali, l’importanza della doppia cornice di compito e relazione, perché si è così strani e complicati durante il lavoro, le istruzioni per gestire la negatività, nostro grande tabù educativo, la promozione della facilitazione da semplice vocabolo a metodo. Nel secondo capitolo invece sono illustrate le quattro “F”, funzioni facilitatrici, lo spazio alle competenze nuove, oltre a quelle solite reclamizzate di empatia e assertività. Un mondo nuovo che scalza indifferenza, distrazione e superficialità. C’è ben altro. Il Face-model con le quattro aree di competenza, le basi di un nuovo cantiere da aprire. • F1 coordinare, in presenza di confusione, imprevisti, incertezza, saper organizzare il contesto e l’azione tenendo conto del compito e delle persone, dei fattori di sussistenza materiale e di convivenza immateriale. • F2 coinvolgere, la frequenza del malinteso e delle barriere comunicative, non sono cattiveria bensì in gran parte fisiologia, a   Da Il capitale facilitatore: unire fattori e attori, in De Sario Pino, 2012a. 2

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cui è bene introdurre una comunicazione rispettosa e pendolare, che alla prospettiva personale sappia aggiungere la prospettiva dell’altro. • F3 aiutare, una nuova bussola per i mille volti delle negatività e dell’irrazionalità, quando cioè ognuno pensa di essere sempre nel giusto ed è l’altro a sbagliare, saper approfondire contenuti emotivi e operativi per spingerli verso la costruttività (che esiste e in abbondanza, ma a volte non riusciamo ad accedervi). • F4 attivare, quando il lavoro è ripetitivo, ci esaurisce, non si vede il senso, saper motivare fatti e conoscenza tramite strumenti di attivazione e apprendimento, la cura del collettivo e lo sviluppo di nuove vitalità generative.

Il terzo capitolo è interamente dedicato a casi reali critici in biblioteca e alle vie di uscita semplici e collaudate, non occasionali o inventate lì per lì. Una vera e propria guida composta da 12 schede pratiche per facilitare. Quali? 1. Facilitare la negatività bassa al bancone con l’utente. 2. Facilitare la negatività media, quando l’altro ci mette in difficoltà con atti e comportamenti. 3. Facilitarsi nella negatività alta, episodi saltuari, ma pur sempre accaduti, di insulti, urla, molestie varie, minacce, prodotte da un’utenza problematica. 4. Facilitare il reference, seguendo tre passi utili: accogliere, regolare, inviare. 5. Facilitare l’attesa, non fare aspettare troppo… 6. Facilitare la relazione con gli utenti, quale riepilogo sulla funzione topica della professione. 7. Facilitare il conflitto col collega, quando siamo coinvolti in posizione “diretta” implicata. 8. Facilitare il conflitto tra colleghi, quando non siamo coinvolti direttamente e ci possiamo offrire in posizione “terza” non implicata. 9. Facilitare il proprio gruppo, quando dopo un accordo preso ognuno fa come vuole, i passi da compiere per passare dalla disunione a un punto di sintesi negoziale più aderente alla realtà. 10. Facilitare la cultura collettiva di gruppo, nonostante le forze disregolatrici e le correnti sottomarine (vedi concetto di iceberg).

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11. Facilitare il lavoro efficace, fondato su una visione più umana di sé e degli altri. 12. Facilitare la collaborazione tra gruppi differenti, sia interni alla propria biblioteca, ma anche esterni, le associazioni e altri enti sul territorio.

Il quarto capitolo infine presenta gli ultimi strumenti essenziali per il bibliotecario facilitatore. Una finestra importante è dedicata al direttore della biblioteca, che può tendere a diventare anch’egli un facilitatore, assumendo una leadership integrata, che sa graduare la leva direttiva e quella partecipativa. Ultimi spunti sull’ecologia dei comportamenti, i perché spiegati del ventaglio umano e organizzativo, il motivo chiave per cui possiamo crescere verso l’amorevolezza e non verso il dogmatismo egocentrico. E infine le 5 attivazioni per il bibliotecario. Cosa sono? 1. Vitalizzare l’energia, perché l’energia di suo tende ad esaurirsi (attivazione uno). 2. Rinnovare l’energia, lo spunto si basa sui ritmi biologici di tutti i giorni (attivazione due). 3. Vivere il momento presente, col respiro presente e l’esercizio della calma (attivazione tre). 4. Sentire e stare nelle emozioni, non inibirle e non agitarle (attivazione quattro) 5. Sviluppare abitudini collettive, tramite riunioni partecipate, intersoggettività e momenti insieme (attivazione cinque).

Segue quindi il glossario della Facilitazione esperta e il cruscotto di allenamento per applicare gli strumenti. Eh sì, perché se rimanessero solo sui fogli di questo libro, sarebbe proprio e davvero un “peccato”! Il peccato di perseguire la bella idea di una biblioteconomia sociale senza strumenti fondamentali per il tessuto complesso (complicato-facilitato) dei suoi operatori e delle tante biblioteche protese alla costruzione della conoscenza come bene collettivo.

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Ringraziamenti Da quattro anni ho iniziato la divulgazione della Facilitazione esperta nelle biblioteche. Il mio primo interlocutore è stata Maria Stella Rasetti, direttrice della Biblioteca San Giorgio di Pistoia, dove grazie alla sua attenzione e ricettività ho potuto inaugurare il “circolo facilitatore” come momento di educazione sociale aperto agli utenti, ora giunto alla quinta edizione. Nel marzo di quest’anno poi ho condotto il primo corso sul “Bibliotecario facilitatore” presso AIB Toscana: ringrazio la presidente Sandra Di Majo e tutti i bibliotecari che vi hanno partecipato. Come altri operatori li ho conosciuti in altri corsi presso la Cooperativa Eda di Firenze e la Coop Culture di Venezia. Sono anche andato fuori dai confini nazionali, in Slovenia, dove ho lavorato con bibliotecari della Biblioteca centrale Srečko Vilhar di Capodistria. A tutti quei bibliotecari il mio ringraziamento, per la conoscenza di episodi belli e difficili a loro accaduti. Nella stesura degli episodi del terzo capitolo mi sono avvalso degli spunti pratici che mi hanno inviato Cristina Bambini e Martino Baldi, bibliotecari della San Giorgio, Elisabetta Pepi, coordinatrice presso la Biblioteca di ateneo all’Università di Siena: li ringrazio tanto, senza quegli spunti mi sarei sentito un po’ più in aria, come sospeso. Ringrazio anche Anna Maria Tammaro per la disponibilità allo scambio sulle questioni di fondo della biblioteconomia. L’autore riceve volentieri domande sull’argomento, commenti e critiche al presente volume. Potete scrivere all’indirizzo: [email protected]. Ricordo infine gli obiettivi della Scuola Facilitatori, , che ho fondato nel 2007: promuovere la “facilitazione esperta” e la figura del “facilitatore” nei contesti organizzativi e sociali, nelle situazioni difficili e disfunzionali, negli enti di produzione e apprendimento. La Scuola cura una linea di programmi per le organizzazioni (facilitare il lavoro) e una linea per la persona (competenze per vivere). Mission: aiutare individuo e gruppi nel disagio corrente e quotidiano; attivare il sentimento del potere personale, l’automiglioramento, 19

tramite l’apprendimento pratico dal basso di nuove capacità. La Scuola cura corsi e facilitazioni dirette (service), applicando il Face-model “facility action model”. Pino De Sario

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1. COS’È LA FACILITAZIONE

1.1 Una prima definizione Ogni aggregazione sociale e professionale presenta un aggrovigliato sistema di fattori tecnici, normativi e comportamentali che tendono a contagiarsi a vicenda provocando fenomeni diffusi critici, identificabili su un piano organizzativo (problemi ed errori) e su un piano delle relazioni (conflitti e malessere). Studiando negli anni queste quattro dimensioni ci siamo accorti della loro frequenza e che molto spesso queste rilasciavano nelle situazioni code di altrettanta disfunzionalità, date in particolar modo dall’impreparazione evidenziata dagli attori, che fossero operatori o dirigenti. Da qui la necessità di costruire degli strumenti e dei metodi che potessero sostenere ruoli e persone in un cambio di prospettiva più votata al gruppo e alla leadership partecipativa, nuove funzioni che rinnovino le culture del lavoro in direzione del collettivo e del supporto alle persone. Ed ecco quindi la codifica della facilitazione esperta. Ma cosa intendiamo con questo termine? Per facilitazione esperta intendiamo quell’insieme di competenze e abilità operative di cui gli attori lavorativi si possono servire negli scambi interpersonali e operativi, in forma sistematica e con atteggiamento vigile e consapevole, con l’obiettivo di curare le criticità e aumentare le risorse in gioco. Come vedremo più avanti, la facilitazione nasce negli anni Quaranta del Novecento all’interno degli studi di area psicologica e sociale; via via, poi, altre discipline scientifiche ne hanno sviluppato costrutti, in primis l’urbanistica, integrando le pratiche e il suo modello operativo. All’interno di questo libro, col termine facilitazione possiamo intendere quelle misure e metodi che si affiancano alle competenze tecniche proprie del bibliotecario, per una buona aggregazione tra colleghi e nell’organizzazione di appartenenza e nell’espletamento delle capacità tecniche stesse presso gli utenti e i gruppi portatori di interesse che si affacciano all’istituzione delle biblioteche. 21

In seguito all’assidua focalizzazione che da dieci anni sto imprimendo anche alla mia personale azione di approfondimento e applicazione, mi sento di poter dire che la facilitazione rappresenta un portato strategico sia sul versante delle dinamiche tra le persone (versante relazionale della partecipazione), che della messa a frutto delle prestazioni operative e agentive (versante tecnico della produzione). La denominazione da noi individuata di facilitazione esperta (face) è posta proprio a indicare il carattere di strumento specifico per gestire e risolvere problemi, conflitti e malessere, incrementando i fattori di convivenza lavorativa, negoziazione, competenza emotiva, motivazione, partecipazione. Da mettere in campo nelle situazioni dentro il proprio ente (riunioni e colloqui), con gli utenti (nel front-desk e nei servizi bibliotecari), ma anche all’interno di contesti sociali di comunità a cui ogni biblioteca è sempre più chiamata ad assumere un ruolo propulsivo (associazionismo, cooperazione, partecipazione dei cittadini). Facilitazione esperta/1 Per Facilitazione esperta si intende quell’insieme di competenze da mettere in atto in forma intenzionale e proattiva, con atteggiamento vigile, con l’obiettivo di aumentare le risorse in gioco; un insieme di competenze strategiche per le biblioteche, per incrementare i fattori di convivenza lavorativa e civica, favorire la pluralità, le relazioni, il saper unire nelle diversità. Le teorie sottostanti alla Facilitazione esperta vengono inoltre tradotte nel Face-model, lo strumento pratico, studiato appositamente per gruppi di lavoro, ruoli di coordinamento, figure di leadership, operatori e cittadini, per una loro crescita e applicazione. La Facilitazione esperta promuove capacità che sappiano incoraggiare forme di pensiero complesso e sistemico, una nuova frontiera per uscire dalla cultura monolitica, incentrata solo sui singoli interessi individuali e accedere altresì a comportamenti più efficaci, più collettivi, che mettano al centro l’arte dell’interconnessione, dell’intersoggettività, dell’intergruppo all’insegna degli interessi comuni. È nata come ruolo (quello del facilitatore), ma si sta sviluppando come funzione (quale capacità complementare a quelle tecniche).

Credo che non si possa più pensare al lavoro di gruppo come ad un assetto lineare, incentrato solo su aspetti produttivi e formali, a garanzia di comportamenti fondati sulla mera logica 22

quantitativa e razionale. Gli studi in materia evidenziano sempre di più come in un gruppo agiscano livelli più complessi di origine sia innata che appresa e il comportamento organizzativo sia una summa molto variabile di andamenti che riguardano il nostro cervello, la nostra mente e le relazioni tra ruoli e persone. Lo scambio di gruppo non possiamo più intenderlo come un set logico e funzionale, immune a interferenze e ai tanti imprevisti. Nel corso di questi ultimi vent’anni, fattori economici, tecnologici e sociali stanno influendo sui contesti sociali e di lavoro, rendendoli via via sempre più complessi e contrastati. Secondo molte ricerche, i gruppi e ogni tipo di aggregazione umana sono da intendersi come totalità dinamica,1 ovvero sono luoghi dove agiscono forze differenti che si polarizzano (Kaneklin, 2010; Morin, 2000; Kets de Vries, 2001; Kahneman, 2012) e che tra loro formano modi impliciti di equilibrio (Lewin, 1965) attraversando tuttavia dinamiche complicate e caotiche. Quindi, nel gruppo di colleghi o tantomeno con gli utenti al bancone, vanno ricercati nuovi metodi che mettano in conto una certa vulnerabilità del funzionalismo logico e si adoperino a saper gestire la massa giornaliera composta da barriere, interferenze, malintesi, logoramento e stress. Gli studi ci dicono anche che nei gruppi fanno sempre più capolino comportamenti imprevedibili, disturbati, controproduttivi, fino ad arrivare a forme di indifferenza lavorativa e cinismo, che in questi anni coi miei colleghi di ricerca ho denominato con un termine volutamente poco scientifico, che rendesse tuttavia qualcosa del fenomeno reale che vive nelle organizzazioni, ovvero l’inclinazione alla negatività. Da qui la necessità di introdurre nei gruppi di lavoro la logica del supporto, che riconosca nella centralità delle persone il valore potenziale e reale primario, ma anche la piega dove si annidano varie forme di perturbazione, che è assodato i vecchi metodi formali non riescono a intercettare. Di fatto la Facilitazione esperta va propriamente nella direzione del supporto e dell’apprendimento nei confronti di soggetti, gruppi e organizzazioni, secondo un primo panel di principi:   La totalità dinamica è co-prodotta dalle persone che agiscono e reagiscono nel contesto; è sempre un gioco tra persona e contesto, o ancora più precisamente tra individuo, relazione nel gruppo, ambiente circostante. 1

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1) Lavoro e persona quali due assi irrinunciabili da curare: non solo produzione e non solo partecipazione, il cambiamento che dobbiamo apportare è quello di far dialogare queste due parti che solitamente si squalificano reciprocamente, cercando inutili dominanze deleterie; invece possiamo cercare nuove integrazioni tra componente tecnica e umanistica, tra dimensione materiale della sussistenza e dimensione sociale della convivenza, tra la densità del compito lavorativo e la relazione coi suoi derivati intangibili. 2) Conversione dei blocchi disfunzionali in nuove risorse: è importante intervenire sugli aspetti critici che creano interferenze e malintesi all’interno dei gruppi, porre al centro non solo la realtà idealizzata ma anche la realtà reale proprio per trasformare con metodicità le negatività in opportunità e risorse, in una ritrovata motivazione. 3) La teoria nella pratica: è necessario che in generale questi due paradigmi siano più vicini e interconnessi, favorendo quelle culture organizzative che le contemplano entrambe, stimolando il piano delle idee ma anche quello dei metodi da calare nel vivo delle situazioni; le teorie infatti sono chiamate a una più decisa contaminazione con le pratiche e le pratiche a farsi “visionare” dalle teorie. Negli ultimi dieci anni, mentre proseguiva il lavoro metodologico sulla Facilitazione esperta,2 abbiamo spesso riflettuto, con committenti e colleghi, sull’utilità di contenuti e mappe. Analizzando situazioni diverse, nei settori pubblico e privato, da parte dei gruppi abbiamo avvertito la volontà di dotarsi di strumenti pratici per la gestione delle difficoltà tecniche ed emotive, ovvero delle negatività; nondimeno è emersa l’urgenza di risolvere le problematiche legate alla inconcludenza degli incontri e, d’altro canto, la necessità di organizzare riunioni più efficaci, che sappiano darsi tempi certi e raggiungere risultati più concreti.   Il lavoro di codifica metodologica ha avuto diverse sedi di elaborazione, tra cui: la Società Italiana di Biosistemica; la Scuola Facilitatori, che dirigo; l’Università di Pisa, il Corso di laurea in Scienze per la pace dove insegno da più anni. 2

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In questi anni si è giunti all’elaborazione di nuovi metodi formativi, quali il coaching e il counseling; tuttavia, a nostro avviso, manca uno strumento più mirato per il gruppo in azione. Il coaching è individuale e si rivolge ai ruoli di vertice; il counseling, pure rivolto al singolo, è più mirato alle emozioni. Al contrario la Facilitazione esperta nasce con l’obiettivo di curare il gruppo, concepito quale entità ibrida che deve tenere in conto i fattori della produzione e quelli della partecipazione, non solo l’una e non solo l’altra. Facilitazione esperta/2 I modelli classici razionali e formali dell’organizzazione, della comunicazione e del gruppo standardizzano i metodi come se le realtà di lavoro fossero lineari, meccaniche e avessero comportamenti definiti e categorizzabili. Nei gruppi e nei contesti organizzativi di oggi invece, molto più esposti a interferenze e criticità, occorre introdurre la cultura del supporto e dell’apprendimento: un approccio che, mettendo in conto anche gli imprevisti, sappia dare pari importanza a lavoro e persona, possa convertire i blocchi negativi in risorse e riesca a connettere la teoria alla pratica.

Il ricorso alla Facilitazione esperta si rivela pertanto molto efficace quando si tratta di gestire relazioni tra ruoli e tra persone, condurre gruppi e riunioni verso forme inclusive e partecipate, organizzare colloqui e briefing produttivi; quando occorre introdurre nuove capacità nei contesti tramite programmi formativi efficaci; nei casi di prese di posizione antagoniste e contrapposizioni conflittuali, nella ricerca di mediazioni; nel bel mezzo di piani di cambiamento e ristrutturazione di compagini e di loro culture organizzative di riferimento; è utile anche per la conduzione di processi deliberativi e sociali più articolati che prevedano fasi di analisi, decisioni, negoziazione e senso di appartenenza collettivi. In una biblioteca tutti i giorni e in maniera sistematica c’è bisogno, a mio avviso, di Facilitazione esperta, in particolare per gli operatori al reference, per i coordinatori dei gruppi di lavoro; per i dirigenti delle strutture, oppure per gruppi di operatori che si orientano alla facilitazione, quale secondo e fondamentale asse di competenza al lavoro. 25

Alcuni casi specifici: • blocchi e complessità con gli utenti; • riunioni fumose e inconcludenti; • briefing verbosi e monopolizzati sempre dai soliti; • condotte fondate su ipercriticismo; • riorganizzazione di servizi; • cambiamento di cultura e di sistema organizzativo; • inserimento di nuove formule organizzative; • partecipazione e performance interne; • reti tra biblioteca e altre associazioni; • conflitti tra colleghi e tra operatore-direttore; • demotivazione e passività; • eccessi disfunzionali, critici e oppositivi e forme di resistenza; • distanze discriminative su diversità, barriere e pregiudizio; • stress organizzativo e forme di logoramento (burnout). La Facilitazione esperta è uno strumento utile anche in altre situazioni: • organizzazione e cura di convegni in cui si intende coinvolgere il pubblico; • forum multiattore e workshop tematici; • conduzione di gruppi di discussione e focus group; • gruppi di lavoro tra esperti; • gestire le comunicazioni tra associazioni ed enti; • educazione degli adulti. La facilitazione negli Usa e in Europa viene chiamata groupfacilitation ed è già molto diffusa in tutti i tipi di aziende e organizzazioni. Negli Stati Uniti si è inizialmente affermata nella gestione di gruppi speciali (bambini con disagi, minoranze, reduci da conflitti bellici): attraverso la conduzione di animatori appositamente addestrati (i learning facilitator), si è visto che aumentavano i fattori di solidarietà e apprendimento di nuovi saperi e regole. Queste pratiche in seguito si sono quindi estese e sono andate diffondendosi anche agli ambienti organizzativi e al management in genere. In Europa a sviluppare la groupfacilitation sono stati per lo più i paesi del nord, scandinavi; un contributo importante è venuto poi dalla Germania, dove 26

è nato e si è diffuso uno dei metodi più tipici della facilitazione dei gruppi, il Metaplan. La pratica facilitatrice statunitense ed europea prova a far sì che ogni soggetto, indipendentemente da ruolo e posizione, diventi l’artefice del proprio futuro. I verbi inglesi empowering ed enabling, ovvero “rendere qualcuno capace, metterlo in grado”, sono i più appropriati per capire il senso di ciò che i facilitatori svolgono. In Italia la Facilitazione esperta è un approccio che stiamo diffondendo tra i dirigenti delle pubbliche amministrazioni, nelle aziende nei passaggi generazionali e nei programmi di coaching, in ambito sanitario tra i coordinatori infermieristici e la gestione del rischio clinico.3 E nell’anno in corso nel sistema delle biblioteche, nelle reti dell’Associazione Italiana Biblioteche, con interventi formativi presso operatori e coordinatori.

Figura 1 – I diversi piani della Facilitazione esperta

  Stiamo diffondendo la Facilitazione esperta anche tra gli insegnanti nelle scuole, consapevoli del ruolo chiave che essi rivestono e delle mille insidie che si ritrovano a dover gestire nella gestione dei ragazzi e delle classi. 3

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1.2 Il compito e la relazione insieme e da integrare Un gruppo di lavoro è un sistema sociale assai complesso che a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso ha avuto numerose attenzioni e ottenuto avanzamenti concettuali significativi. Tra l’enorme schiera di ricercatori mi sembra importante citare i lavori di Richard Bales, psicologo sociale che ne ha individuato alcuni aspetti che ancora oggi sono di grosso rilievo. Una prima chiave elaborata dalla sua scuola psicosociale è la distinzione tra comportamento diretto al compito o stru­mentale e comportamento socioemozionale o espressivo. In qualsiasi gruppo alle prese con la centralità del compito (l’in­ce­dere operativo e materiale), possono sorgere determinati problemi che ne minacciano la stabilità. I membri possono trovarsi in disaccordo tra di loro sul modo in cui il gruppo dovrebbe affrontare quel dato aspetto e quel confronto di solito porta alla luce sistemi di valori differenti e anche divergenti, che tutti abbiamo provato vivendo in una qualsiasi aggregazione gruppale. Per Bales, questi fattori tendono a generare tensioni che ostacolano il perseguimento degli obiettivi.

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a = problema di comunicazione b = problema di vibrazione c = problema di influenza

d = problema di discussione e = problema di tensione f = problema di integrazione

A = zona socio-emozionale positiva B e C = zona neutra del compito D = zona socio-emozionale negativa

Figura 2 – Categorie di Bales: osservazione delle interazioni in un gruppo Fonte: Bales [1950]

Una seconda chiave dello studio di Bales vede il gruppo con una tendenza naturale verso l’equilibrio, a ogni azione segue una reazione: le domande tendono a provocare risposte, le interazioni orientate al compito (lavoro) si conformano più o meno alle interazioni orientate alla relazione (persone), seguendo una 29

dinamica omeostatica. Sulla base di queste idee Ba­les ha elaborato lo schema4 riportato nella figura 2 per l’osservazione e l’ana­lisi del­l’interazione di gruppo, uno strumento ancora oggi utilizzato, di cui fanno parte dodici categorie raggruppate in tre parti: l’area socioemozionale positiva, l’area del compito neutra, l’area socioemozionale negativa. Tramite la codificazione dei comportamenti interattivi e dei modi di rapportarsi si può risalire alle diverse eventualità di un incontro di gruppo, sia che esso vada verso la concretezza, rimanga sul piano della vaghezza, si blocchi in contrasti fine a se stessi o venga monopolizzato dalle solite fazioni contrapposte. Un altro psicologo dei gruppi, Rupert Brown (1990) riporta alcuni esempi molto specifici che ci possono aiutare: membri che parlano molto più di altri; individui che parlando di più tendono ad aumentare potere e decisione nel gruppo; gruppi di grandi dimensioni che tendono a essere dominati da singoli che ne prendono la testa in modo quasi automatico. Brown ha osservato che il tempo occupato da temi inerenti al compito5 è di due terzi, mentre un quarto di tempo se ne va per contenuti relazionali positivi6 e il restante tempo è occupato da scambi relazionali negativi.7 Nella soluzione di pro­blemi e nel fronteggiamento di criticità, la discussione riduce i tempi del compito e aumenta i tempi della relazione negativa, così come all’indomani di un risultato buono ottenuto, il compito decresce e la relazione positiva si incrementa. Tutta questa trattazione per portare in evidenza un concetto fondamentale: in ogni scambio molti momenti sono spesi non nel merito delle questioni, ma nei modi che ogni soggetto mette in campo senza che neanche se ne accorga, come per esempio difendere le proprie idee, minimizzare le idee altrui, cercare collegamenti con gli altri punti di vista, drammatizzare, agire le dominanze di ruolo e di temperamento, manifestare favori o   Denominato IPA (Interaction Process Analysis).   Le quattro categorie di compito sono: esprimere opinioni; fornire orientamenti; chiedere orientamenti; chiedere opinioni. 6   Le quattro categorie positive sono: dimostrare solidarietà; allentare tensioni; dimostrarsi d’accordo; dare suggerimenti. 7   Le quattro categorie negative sono: chiedere suggerimenti; disapprovare; dimostrare tensione; mostrare antagonismo. 4 5

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disappunti. È come se al filo dritto del contenuto (il compito) i fattori socioemozionali (la relazione) di tanto in tanto taglino la strada, entrino cioè in maniera imprevista e non richiesta a rompere le cosiddette uova nel paniere. Il compito da solo non esiste, ma la relazione è sempre lì pronta a tendere l’imboscata. “Non è la cosa che mi hai detto, ma è il modo che mi ha fatto infuriare”, quante volte ci diciamo questa verità. Preso contatto col concetto che non sono solo le questioni tecniche e materiali a dominare la scena, bensì anche quelle emotive e personali, il punto cruciale diviene poi come curarle entrambe, come disinnescarle.8 E poi inoltre come assemblarle, perché è la loro simultanea considerazione che tende a creare gruppi efficaci e quindi a insediare la facilitazione stessa. Compito

Relazione

Piano tecnico e materiale

Piano socioemozionale

Fatti

Opinioni

Oggettivo

Soggettivo

Sussistenza

Convivenza

Struttura

Processo

Hardware

Software

Fisicità tangibile

Mentalità intangibile

Figura 3 – Le due “famiglie” in-conciliabili

Portiamo il focus sullo scambio tra bibliotecario e utente, per consolidare il concetto che compito e relazione sono entrambi importanti e che entrambi debbano essere curati e agiti.

  Sì, perché sia compito sia relazione tendono spesso a debordare e a occupare in senso univoco il contesto, che diventa centrato solo sul fare e agire oppure sul parlare e girare intorno ai problemi. 8

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Passi

Tipologia

Piano del compito, l’operatore ha per Operatore presta attenzione alla do- sua funzione chiave quella di intercetmanda dell’utente tare le sue necessità, viene detta fase adattiva Operatore fa domande sulla ricerca Compito, attiva le sue mappe tecniche del volume all’utente di reference e di banche dati Piano della relazione, nell’operatoOperatore si accorge che l’utente si re si attivano pensieri e si avvertono contraddice o non è chiaro nella sua sensazioni, è la parte cognitiva tacita, ricerca che non viene cioè esplicitata, è la fase integrativa Compito, la ricerca prende slancio e L’utente ha uno sprazzo di lucidità e assume un indirizzo concreto cerca di agevolare il compito dell’ope- Relazione, operatore ringrazia: “Apratore prezzo che sta focalizzando meglio la sua richiesta” Compito, serve specificare su quali L’utente punta i piedi e mostra una temi si è sforniti. Ma è un fatto o un’otensione: “Sul piano storico siete sfor- pinione? niti, come mai?” Se opinione siamo sul piano di relazione, detta forma espressiva Compito, volumi e catalogo biblioteL’operatore replica: “Abbiamo un cario inserimento recente di cento volumi Relazione, risponde ponendo un altro donati da una Fondazione” punto fattuale, anche questa è forma relazionale espressiva L’operatore non replica e fa una do- Relazione, quando cioè si sospende il manda: “Ma cosa intende sforniti, mi piano oggettivo e si interroga il piano spieghi meglio?” soggettivo L’operatore si accorge che ci sono Ritorno al compito, cioè alle compoaltre quattro persone che aspettano e nenti performative finalizzate allo scocerca di concretizzare po operativo.

Figura 4 – Lo scambio bi-composto

Allegoricamente è come se avessimo bisogno di due bocche, una bocca per parlare di cose pratiche, tecniche e concrete, un’altra bocca per parlare di cose emotive, sensazioni, opinioni, riflessioni. Ma andiamo avanti nella spiegazione di queste due fondamentali componenti della Facilitazione. 32

Due ingredienti compongono il compito: • parte adattiva, in cui il parlare si centra sull’adattamento alla situazione, fondato sugli aspetti tecnici e operativi, come aderenza alla situazione che si ha davanti; • parte strumentale, è invece la finalizzazione al raggiungimento dello scopo. Due ingredienti compongono la relazione: • parte integrativa, quando cioè le menti si accostano per rafforzare o indebolire l’intesa, la sincronizzazione e l’eventuale collaborazione; • parte espressiva, che libera condotte tali per cui si ha una riduzione o un aumento di tensione, tra le quali per citarne alcune, soddisfazione, riso, scontentezza, richiesta di aiuto, collaborazione. Insomma, i due piani vengono esplicitati da una sola bocca. Comprenderne la distinzione non è così banale, per noi qui può bastare capire l’esistenza dei due piani, la loro gestione efficace poi viene un po’ di conseguenza.

1.2.1 Facilitare mansioni e persone La Facilitazione esperta si fonda proprio su questo principio binario, di cura dei fatti concreti e produttivi e cura simultanea delle persone e del loro modo di relazionarsi. Siamo certi che in biblioteca il cuore di ogni servizio è dato dal contenuto operativo e dalle capacità professionali tecniche (piano tecnico-pratico), ma siamo altrettanto certi che solo questo versante non è sufficiente e che occorra un’aggiunta di abilità comunicative e comportamentali (piano socio-relazionale). La facilitazione, quindi, accosta al compito la relazione, cercando possibili contaminazioni e integrazioni reciproche, perché nel compito ci sia più relazione e nella relazione più compito,9 perché nel fare e nell’agire ci sia più comunicazione, emozione e riflessività, mentre gli scambi al bancone o in riunione possano divenire più fattivi, mirati e concludenti. Con questo libro intendiamo rinforzare il ruolo del bibliotecario, tracciando un ventaglio di competenze relazionali, che   Un elemento dentro l’altro.

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servono in quanto tali, ma anche come fermento moltiplicatore delle stesse competenze tecniche. Ma un ulteriore punto di novità è che anche le skill relazionali vanno integrate. Nei gruppi di questa epoca economica e culturale, nelle biblioteche e nei servizi non sono più sufficienti le sole capacità relazionali buone, quali autostima, collaborazione, empatia, proattività, fiducia; servono in aggiunta una serie di capacità di gestione delle criticità, che dappertutto vanno aumentando. L’area che chiamiamo della capacità negativa, come vedremo nella seconda parte, è una mappa specifica del modello codificato per il bibliotecario facilitatore. Questa capacità di mettere in conto che la negatività è frequente ed è di tutti ci può schiudere favorevolmente verso un nuovo repertorio di abilità pratiche, di cui fanno parte anche la critica costruttiva, la gestione della negatività bassa, media e alta, la sosta esplorativa nel negativo, la parola chiave e direzionale, la molla attivante col corpo con una funzione tonificante, la protezione buona come difesa sana in casi di episodi fortemente spiacevoli e distruttivi. Nella mia ricerca la Facilitazione esperta può giocare molteplici ruoli di efficacia e benessere per i gruppi e le persone, un approccio che tende a sviluppare l’attivazione e la produttività nei luoghi di lavoro, proprio perché mirato al consumo ma anche alla manutenzione delle risorse umane in gioco, grazie proprio a questa doppia centratura su compito e relazione. Nella seconda parte, in cui presento il modello per esteso, il lettore potrà vedere in maniera più esaustiva questa doppia centratura evidenziata dai due assi di produzione e partecipazione. Come breve anticipazione, sull’asse della produzione collochiamo i fattori pratici del fare e dell’agire, da cui emergono due funzioni rilevanti, coordinare e attivare; sull’asse della partecipazione, invece, ecco le restanti due funzioni facilitatrici, coinvolgere e aiutare. In questi anni durante i lavori nei gruppi ho potuto constatare come la premura reciproca alla cura dei due assi (anziché uno solo) e delle quattro funzioni, liberi fattori generativi, in cui le criticità si comprendono meglio, subentra come un respiro più ampio di forze e debolezze (inspirazione ed espirazione), con l’organismo gruppo che è come se ripristinasse una fisiologia dimenticata. La prima complicazione nei contesti sociali è infatti fare finta che i problemi non esistono e se esistono attribuirli agli anelli deboli 34

della catena, oppure sono fonte di complicazione tutte quelle culture organizzative fortemente inneggianti ottimismo, resilienza e fare squadra, che a mio modo di vedere tendono a ingessare i gruppi in un’unica fisiologia, inspirazione o espirazione che sia. Nella Facilitazione la fisiologia è doppia, duale, alternata.

1.2.2 Le competenze facilitatrici per la vita e la professione Svolgendo formazione, consulenza e supporti di facilitazione diretta sul campo ho potuto osservare in molti contesti10 quanto le forze di compito e relazione tendano invece a polarizzarsi, divaricandosi e separandosi. Rimanendo centrati sulla produzione, per esempio, ho visto numerosi gruppi alimentare iperattivismo, agende di lavoro incessanti che provocano stress, rigidità, pettegolezzo, esclusione, tensioni, errori. E la cosa più grave è che coordinatori e membri di quei contesti non se ne rendono per nulla conto, sono come sommersi dentro a routine di assolvimento di mansioni (anche lodevoli) ma pur sempre iperattivanti e destabilizzanti. Dall’altra parte, mi sono imbattuto in gruppi più rari, dove l’imperativo è dato dalla partecipazione: in quei contesti tendono a enfatizzarsi le forme di assemblearismo, lassismo, pensiero di gruppo, inerzia, unanimismo, sentimentalismo. Tutte componenti che rifanno sommergere dentro altrettante routine limitate la gamma di comportamenti delle persone e di quei ruoli. Dentro a un qualsiasi fenomeno vivente, se ci approvvigioniamo da un’unica fonte monolitica, per esempio le norme e le procedure, i risultati sono sbilanciati e richiedono continue protesi e riparazioni. Se invece lo sviluppo si basa su diadi e sistemi, in forma integrata e sistemica,11 si accede a qualcosa che risponde meglio alle forme biologiche del vivente, solitamente fondate su coppie di dispositivi differenti, che per alternanza e complementarietà producono effetti benefici per via del loro differenziale di potenza. E tra produzione e partecipazione, compito e relazione, lavoro e persona, il differenziale non manca. Si tratta 10   Aziende, pubblica amministrazione, non profit, scuola, sanità, biblioteche, partecipazione dei cittadini. 11   Uno dei maestri del pensiero complesso sistemico è a mio avviso il sociologo Edgar Morin, secondo il quale l’individuo è sottoposto a forze egocentriche e al tempo stesso a forze altruistiche. Si veda Morin (2000).

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dunque di unire, avvicinare, provare a ricomporre due funzioni umane e antropologiche fondamentali: la materialità della sussistenza fisica con l’immaterialità della convivenza sociale. PRODUZIONE (asse uno) Funzione-1 Coordinare Funzione-4 Attivare

PARTECIPAZIONE (asse due) Funzione-2 Coinvolgere Funzione-3 Aiutare

• Soluzione problemi e decisioni • Pianificazione e programmazione • Ruolo, regolamenti, procedure • Guida e sviluppo • Leadership direttivo/partecipativa • Produzione risultati operativi • Piani di azione • Motivazione • Attivazione e cambiamento • Umanizzazione e benessere org.vo

• Lavoro di gruppo • Comunicazione efficace • Negoziazione e mediazione • Riunioni inclusive e concrete • Empatia • Capacità negativa • Competenza emotiva • Relazione di aiuto • Gestire stress e logoramento • Protezione buona

Figura 5 – Le competenze facilitatrici di compito e di relazione

La Facilitazione esperta è dunque un’area di nuove capacità tecnico-sociali che bene si propongono al completamento del portfolio di competenze del bibliotecario, nelle sue più diverse declinazioni di operatore, coordinatore, dirigente. Ma anche per tutte le professioni inerenti il servizio ai cittadini (operatori di Urp, anagrafe, sportelli unici) e non ultime le professioni del sociale (educatori, animatori, assistenti sociali). Di seguito segnaliamo la scala delle possibili applicazioni nell’ambito della biblioteca: • bibliotecario-facilitatore: l’operatore che alle competenze tecniche aggiunge le competenze di facilitazione, per rendere più efficace il lavoro di gruppo coi colleghi e la relazione con l’utente; • coordinatore-facilitatore: il ruolo direttivo che assume questa competenza per la guida di un servizio o un ufficio, per la gestione efficace di risorse gestionali e risorse umane; • direttore-facilitatore: il capo di una biblioteca che intende agire la leadership in chiave direttiva ma anche partecipativa, rivestendo la leadership di contenuto e all’occasione la leadership di relazione; 36

• specialista facilitatore: è un professionista che con ruolo terzo dall’esterno alla compagine della biblioteca, per brevi tratti di tempo può aiutare gli attori implicati nei casi di complessità progettuale e negatività di clima e relazioni; • biblioteche orientate alla facilitazione: le strutture che scelgono di investire su questa nuova competenza manageriale e sociale.

1.3 C’è bisogno di aiuto: conflitti e malessere sono frequenti e dappertutto Rispetto ad altri approcci e metodi, la Facilitazione esperta si caratterizza per un suo significativo impegno alla gestione nei gruppi e nelle organizzazioni dei fenomeni negativi, codificati in sintesi in problemi, conflitti, malessere ed errori. Qui di seguito ne illustriamo i motivi per cui è lecito dare una nuova attenzione a questa componente del comportamento sociale e organizzativo. 1) A turno tutti siamo negativi perché per natura, oltre che inclini alla positività siamo anche inclini alla negatività. Quindi siamo tutti a proprio modo operatori, dirigenti, utenti, adulti i cui funzionamenti emotivi e operativi inducono divergenze, malessere, criticità. Il comportamento disfunzionale si manifesta frequentemente e a tutti i livelli, ha delle forze automatiche e quindi è conveniente un cambio di mappa culturale, preferendo una lettura dinamica dei fenomeni (sistemica) anziché la solita lettura statica dei buoni e dei cattivi, che si fissa su una parte (atomistica), anche detta del capro espiatorio. 2) Nel concetto di negatività rientrano la frequenza, la diffusione e la quantità di condotte problematiche, critiche, oppositive, disregolate, disfattiste, fuorvianti che ogni giorno si presentano nelle situazioni più diverse. Con questo termine ci riferiamo a una serie stabile e frequente di episodi che si verificano ordinariamente, senza scomodare fenomeni più eclatanti e di picco quali bullismo, mobbing, stress, burnout, devianza. La negatività12 è una   Sette anni fa ho codificato la negatività con una tassonomia che compren-

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manifestazione ricorrente e costante di problemi, conflitti, malessere ed errori. Le relazioni e i contesti sono di base portatori di ansia, un’ansia a mo’ di bordone fisso e fisiologico, sia per le disposizioni soggettive da cui ognuno parte, sia per le possibili dinamiche con gli altri: una base fisiologica va quindi messa in conto. Molti episodi di vita sociale e lavorativa slittano verso una proliferazione ordinaria di criticità e demotivazione, una massa di “banalità del negativo”, ovvero un’inclinazione fin troppo facile per cadere nelle condotte passive, aggressive ed egocentriche; di contro, la “fragilità del positivo”, impegno, disponibilità, partecipazione, rischia spesso di soccombere. I fattori negativi vanno tenuti sempre in considerazione, non solo perché, al pari di quelli positivi, sono costitutivi del reale, ma anche per trovare in loro opportunità e risorse: nel negativo c’è il germe del positivo. Atteggiamenti e comportamenti sempre ottimistici presentano a loro volta una componente negativa, perché superficiali, distratti, fissi, seducentemente spocchiosi e superiori: nel positivo c’è il germe del negativo. La facilitazione tende a considerare la negatività come un fenomeno sistemico non isolabile, che coinvolge tre piani: quello del contesto (ambiente), quello delle interazioni tra i soggetti che si condizionano (interazione), quello dei singoli alle prese con proprie sofferenze e difficoltà (individuo). Tutti siamo, almeno in parte, negativi, ogni persona ha le sue debolezze: i lati positivi e negativi non sono concetti estremizzabili, bensì li possiamo considerare compresenti nello stesso individuo, così come in uno stesso gruppo; da qui la denominazione di negativi similari.13

deva sei fonti (conflitto, barriere comunicative, stress organizzativo, burnout, incompetenza emotiva, devianza lavorativa), raffigurandolo con un grappolo esavalente (De Sario, 2008). Ora di quella mappa mi interessa evidenziare come la negatività abbia connotati del tutto ordinari, frequenti, trasversali a persone e ruoli e che si manifesti nelle forme più elementari e scontate, ancora più dei fenomeni acuti, che tanto ci fanno parlare ogni giorno.

  Tutti abbiamo punti di forza e di debolezza, lati positivi e negativi:

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9) La negatività è fastidiosa, ci irrita e ci turba, al contempo ci stimola, è una botta di tonicità, ci può anche rigenerare. 10) Occorrono più strumenti di aiuto tra le persone in tutti i livelli e in ogni ambiente. È necessario infatti che vengano diffuse più pratiche di facilitazione alla luce del fatto che gli attori implicati da soli non ce la fanno, perché preda di automatismi molto profondi, di routine apprese nel tempo, di reazioni emotive incontrollate e schemi fissi. 11) Come vedremo nella seconda parte, dove illustreremo il modello, le negatività vanno accolte, indagate, contenute e reindirizzate a possibili nuove azioni. Ingenuamente, invece, le negatività si negano, con conseguenze spesso più spiacevoli. Le negatività negate, infatti, tendono a riemergere e a riprodurre altra negatività (sindrome della negatività negata). Trasformare le negatività in positività?! È importante trasformare le negatività e aiutare persone e gruppi a convertire barriere, stress e logoramento in opportunità e risorse, grazie tuttavia all’apprendimento di strumenti e metodi efficaci. Questa trasformazione è possibile solo quando si è in possesso di buoni metodi. Alcuni punti fondamentali: 1. Riconoscimento del fenomeno: è un punto di partenza imprescindibile. Per contrastare la negatività occorre per primo constatare che essa esiste, è di tutti, possiamo metterla nel conto perché già presente nelle corde potenziali di persone e gruppi. Dunque è bene essere attenti e aperti, non demagogici e autoreferenziali. 2. Strategie di gestione costruttiva: con l’aumento dell’ascolto attivo, dell’esercizio della tolleranza verso il diverso e la negatività. 3. Mediazione tra gruppi contrapposti: questi vanno fatti esprimere in maniera protetta, tramite la presenza fondamentale di facilitatori che agiscono in posizione terza e non implicata. 4. Incremento dell’empatia sociale: compassione e solidarietà umana scattano preferenzialmente in una cerchia ristretta, dunque da qui in avanti occorrerà provare ad esportarle anche nelle dinamiche sociali e di comunità allargata. il positivo a volte si intravede soltanto, mentre il negativo è assai denso e prorompente. L’espressione negativi similari è forse un po’ uniformante e omologante, ma rende bene l’idea di come tutti siamo sullo stesso piano: ognuno è portatore a sua maniera di problemi e conflitti, malessere ed errori, sofferenza.

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1.4 Le emozioni sono centrali anche per il bibliotecario 1) Le emozioni primarie, che viviamo fin dalla nostra nascita, quando ancora il linguaggio non era maturato, come rabbia, paura, tristezza, disgusto e gioia, condizionano fortemente pensieri e azioni. Non sono estraibili, ma viaggiano incorporate (incapsulate) ai comportamenti: se è raro infatti che siano isolate, come per lo scoppio di rabbia, sono tuttavia il nostro punto di maggiore vulnerabilità. 2) Le emozioni sono dentro di noi, nel nostro passato biografico, nei vissuti primari dell’infanzia e sono registrate nei nostri circuiti cerebrali, in particolare nel cervello emotivo; esse sono entità tramandate e memorizzate per via genetica, nei sistemi involontari e inconsci, nelle parti nascoste e profonde di ognuno. 3) Sono spesso fuori da ogni controllo o quantomeno agiscono in maniera strana, non si fanno dominare dalla logica razionale: sentire e capire sono infatti due componenti da integrare, ma che spesso si divaricano. 4) Le emozioni di area aggressiva sono come vulcani attivi (rabbia, disgusto e gioia), quelle di area passiva sono come pesci lessi14 (paura e tristezza). 5) Complessivamente le emozioni negative superano quelle positive e hanno un peso maggiore nel lavoro di tutti i giorni. Ognuno di noi ha nel cervello una parte detta sottocorticale, formatasi in una fase evolutiva più antica. Ebbene, questa area neurale, il sistema limbico, funziona secondo leggi di condizionamento automatico e inconscio, non secondo le leggi razionali del pensiero logico.15 6) Le emozioni ci vivono dentro e non riusciamo a controllarle se non sviluppiamo una specifica competenza: l’intelligenza emotiva, una capacità molto complessa, che è possibile apprendere, che non sanerà mai il dilemma funzionale, ma ci potrà aiutare molto. 7) L’emotività ha una cattiva reputazione: è infatti ritenuta un residuo irrazionale del comportamento animale,   I due termini sono di Manfred Kets de Vries, 2001.   Torneremo sull’argomento in maniera più dettagliata.

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quasi non fosse degna dell’intellettuale ed evoluta mente umana. Invece è fondamentale per il funzionamento dello stesso pensiero e per approdare alle capacità di decisione, in cui le emozioni giocano un ruolo decisivo, attribuito erroneamente alle sole parti logiche (Damasio, 1995). 8) Le emozioni funzionano in maniera strana. Rabbia e paura non le fronteggiamo con semplici ingiunzioni e ordini; in tale stato è come se la parte razionale e quella emotiva si scollegassero, col risultato infausto della disattivazione del pensiero razionale e riflessivo. Ciò spiega il fatto che, quando siamo preda di emozioni, i ragionamenti non hanno nessuna presa e vengono bypassati: gli stati emotivi, infatti, sono più forti dei pensieri ragionati, perché più profondi, più antichi, più incarnati nel corpo. 9) Una teoria di recente formazione, la teoria polivagale delle emozioni, conferma che l’automatismo emotivo (le emozioni scattano senza intenzione e controllo) è legato da una parte al passato filogenetico, dall’altra alla fisiologia del corpo, e che è basato su tre livelli. Questi agiscono in parte in connessione con gli eventi reali e in parte secondo inclinazioni già presenti nei nostri geni: il primo livello riguarda le emozioni consolidate su un buon contatto e impegno sociale, in cui rispettiamo gli altri; il secondo livello cataloga le emozioni aggressive di contrasto, rabbia o protesta, denominandole di attaccofuga; il terzo livello infine riguarda le emozioni passive e di declino, che hanno a che fare con l’esperienza di delusione, rassegnazione e ruminazione, detta del calo passivo (Porges, 2014). 10) Perché sono centrali? Perché sono il processo più complesso e globale che ci riguarda, tramite il sistema nervoso le emozioni ci attraversano dalla testa ai piedi, sono contagiose a livello interpersonale, condizionano la mente in maniera decisiva, più dei pensieri (Siegel, 2001). Le emozioni ci attivano e ci accendono (flusso di energia), ci danno chiavi essenziali di conoscenza (informazione), garantiscono le funzioni fondamentali tra cui l’accoppiamento e gli affetti, sono un anello di connessione tra sé (corpo e mente) e gli altri (relazioni, ambiente). 41

11) Quindi sono importanti, come sono importanti i pensieri e la razionalità. Questo vuole dire che la parte cerebrale razionale può integrarsi a quella emotiva, in maniera che le emozioni siano contenibili e i pensieri più temperati e caldi. Occorre saper fermare le reazioni più accese automatiche e saper dosare le tiritere intellettuali fredde e un po’ astratte. 12) Nel negativo le emozioni sono fonte di esagerazioni e smoderatezza, nel positivo, al contrario, sono il motore di tutto: valori, aggregazione, affetti, sessualità, vitalità. 13) Le emozioni, dunque, per la loro natura conoscitiva, comunicativa e adattiva hanno una loro specifica razionalità e possono far parte delle relazioni sociali, anche se sappiamo che adulti e operatori tendono a negarle, sia per l’educazione ricevuta, che per l’esperienza dolorosa che spesso le accompagna. 14) Facilitare vuol dire unire e collegare le emozioni alle azioni e alle relazioni, in un quadro di forti connessioni vitalizzanti, che richiedono tuttavia strumenti di nuova educazione e buoni metodi applicativi. Un programma sulle emozioni Ecco alcuni punti di riferimento per un programma sulle emozioni. I primi due riguardano la gestione di eventi critici, il terzo la necessità di un nuovo stile di relazione facilitata. 1. Saper accogliere e indirizzare le emozioni convogliandole verso possibili passi di soluzione. 2. Saper chiudere e proteggere: in alcuni episodi dai toni alti non è conveniente aprire, bensì è utile chiudere e prendere tempo, e questo si apprende con lo studio degli strumenti. 3. Saper agire con competenza emotiva, un’area di capacità propedeutiche e maturative in grado di creare le condizioni favorevoli per una loro buona gestione.

Solitamente nei corsi di Facilitazione esperta applicata alle biblioteche tendo ad approfondire i casi di emozioni negative nei tre diversi livelli: impegno sociale, l’operatore infastidito che conserva tuttavia un margine di interazione rispettosa sufficiente; attacco-fuga, con l’utente o col collega, quando i toni diventano più accesi e lo scambio è compromesso o fortemente viziato; 42

chiusura passiva, quelle volte in cui i soggetti si chiudono senza più nessuna aspettativa costruttiva, quando si considera la situazione ormai tutta persa.16 Questa è una mappa chiave per il facilitatore, perché dice che aggressività e passività sono anche fenomeni innati e automatici.

1.5 La competenza a fronteggiare con efficacia le tante negatività Ci sono culture organizzative a forte impronta normativa e monodirettiva che affrontano le negatività occultandole in nome di forti valori e principi che vengono trasmessi dal vertice alla base, spesso con figure accentratrici che azzerano ogni tipo di espressione e divergenza, all’insegna della prescrizione e/o della manipolazione. Ci sono altri contesti che considerano le impasse negative un fattore occasionale ed episodico, un incidente circoscritto al quale porre rimedio facendo il pieno di razionalità riparatrice, per passare rapidamente dalla contesa alla negoziazione. In questo libro invece promulghiamo la capacità di stare dentro la negatività, poiché imparando a starci in maniera vigile, tollerante e con nuovi strumenti relazionali, si potrà tentare di trasformarla in via più permanente. Da qui si comprende anche il senso della parola facilitazione, un approccio che parte dall’accettazione del disagio e del problema, che spesso si prende gioco anche delle migliori regole e intenzioni. La negatività è presente sia nelle relazioni che nei gruppi. E la perfezione non esiste La Facilitazione esperta propone il nuovo paradigma dell’importanza dell’esplorazione della negatività, perché dalle ricerche svolte abbiamo constatato la validità fornita da indagine e sosta che possono contribuire prima a contenere e poi a trasformare il comportamento dissonante e oppositivo. È un nuovo senso “dal basso”, che dà priorità a comprendere, immedesimarsi, esplorare prima di dare risposte o soluzioni troppo spesso affrettate e premature.   Questa triplice forma di comportamento la illustriamo più approfonditamente nel quarto capitolo. 16

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Quando ammettiamo che la negatività è ricorrente (e non episodica), che i contrasti esistono e sono un’eventualità assai frequente, che la confusione inconcludente in gruppo è tipologica, che ogni cambiamento porta con sé scompiglio e resistenze, che la motivazione tende a declinare, ecco che a nostro avviso possiamo dotarci di metodi di facilitazione. Intanto in biblioteca possiamo iniziare ad assumere criteri semplici e utilizzare metodi e tecniche introduttive poco difficili da acquisire. Agire con un po’ di metodo e con conoscenze meno improvvisate, abbiamo avuto la prova in questi anni che rende i gruppi più coesi e più fluidi nel loro agire operativo e anche nelle relazioni interne. Abbiamo interrogato spesso i soggetti a cui abbiamo portato questi strumenti e abbiamo compreso che, per esempio, col solo concetto di negatività frequente (di tutti e automatica) è come se subentrasse una forma buona di abbassamento dell’ansia e di riduzione dell’apnea mentale.17 All’esperienza possiamo aggiungere un po’ di metodo Apprendere e applicare concetti e tecniche che facilitano lavoro e relazioni vuol dire dotarsi di buoni appigli, indispensabili nel vivo di criticità, imprevisti, incoerenze. Appigli che provano a disinserire comportamenti automatici, atteggiamenti e routine egocentriche che sanno benissimo come insinuarsi per escludere, peggiorare molte situazioni. La persona nella sua realtà soggettiva e biografica, calata in un ruolo tecnico e in un contesto professionale quasi inevitabilmente produce risultati alterni. In tal senso i metodi non li intendiamo come panacea rispetto a queste eventualità, ma come possibili occasioni buone per rafforzare assetti di competenze. Molto spesso all’inizio possono essere visti come forzature, ma solo con un po’ di tempo e di buon senso si possono integrare e divenire nuova esperienza.

1.5.1 Ma perché la negatività è così frequente e diffusa? A turno tutti siamo negativi: ognuno con propri comportamenti, specifici e diversi, portiamo nel mondo disfunzionalità, dissonanze, criticità. La negatività è infatti da considerare come una manifestazione non occasionale, bensì frequente, non attribuibile   L’apnea mentale è una sindrome di sospensione con cui ci abituiamo a convivere, costellata da giudizi incrociati, indifferenza e valori tanto perfetti e quanto vuoti. 17

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a un soggetto solo, bensì di tutti, non localizzata, bensì diffusa. Da tre anni in seguito allo studio effettuato su questo versante (De Sario, 2012) abbiamo provato a considerare le fonti essenziali, anche allargando lo spettro delle nostre conoscenze originarie di area psicologica, per approdare a una trinità composta da neurobiologia (specie), psicologia (individuo), socioeconomia (società). Così abbiamo individuato per la negatività tre pozzi di alimentazione costanti, che corrispondono ai tre fattori preminenti: • neurobiologico innato, che agisce in tutti i soggetti umani, aspetto “funzionale”, proprio della nostra specie mammifera ultrasociale, homo sapiens; • temperamentale appreso, vere e proprie impronte personali, che ne conformano il tratto detto “disposizionale”, inerente la dimensione dell’individuo; • socioculturale omologante, composto da regole, gerarchie, potere, agiti come forza del contesto detta “situazionale”, della cultura e della società che ci circonda.

Figura 6 – Le provenienze della negatività

1.5.1.1 La negatività funzionale, la lotta tra due cervelli La negatività funzionale è prodotta dai nostri stessi circuiti neurobiologici: questi presentano una sorta di “bachi innati” che innescano inevitabili squilibri funzionali, ovvero blocchi o eccessi nell’esercizio di pensieri e azioni. La nostra struttura 45

anatomica (il cervello) e fisiologica (i sistemi corporei) ha alcune imperfezioni qua e là. Andiamo per gradi: nella lunga storia dell’evoluzione umana, il cervello è progredito nel tempo, grazie al caso e alla fortuna. L’organo che abbiamo sotto l’osso cranico è frutto di una vicenda che dura da circa 150 milioni di anni. In questo lungo periodo, l’uomo ha fronteggiato pericoli immani dati dall’ambiente e preso decisioni in maniera rapida, sacrificando precisione e lucidità. Si sono via via costruite due parti del cervello: una logica, rigorosa, ma lenta, l’altra, intuitiva, piena di fallacie, ma rapida. Un primitivo allarme intrinseco e automatico. Alcune zone del nostro cervello profondo e primitivo si sono specializzate di più nella sopravvivenza che nel piacere, proprio per tenerci in vita, imprimendo automatismi emotivi di difesa. Questi automatismi antichi, trasmessi per via filogenetica (per via genetica tra una generazione e l’altra), si accendono con una velocità doppia rispetto a quelli della ragione e questo perché azionano i circuiti che l’evoluzione ha congegnato per garantirci la fuga da un’insidia, da una fonte minacciosa. Nel corso della nostra lunghissima storia, la dotazione innata e automatizzata per il controllo dei processi vitali è divenuta sofisticatissima (Damasio, 1995). Questi stessi automatismi sono eccessivi, schematici, inadeguati se calati in semplici contrasti con l’utente o coi colleghi: essi sono sproporzionati, contengono alcuni istinti obsoleti, ormai inadatti alla vita moderna (Lehrer, 2009). Inoltre, nel nostro cervello sono ancora attivi dei meccanismi che lo fanno reagire come reagiva moltissimo tempo fa, in contesti diversissimi. È un po’ come se calzassimo scarpe chiodate per andare in spiaggia. In altre parole, abbiamo un allarme interno forgiato su minacce immagazzinate nell’evoluzione, ma questo stesso allarme è eccessivo rispetto alla gran parte delle situazioni presenti. Questo cervello primitivo agisce difatti per associazione, confondendo elementi del presente con allarmi del passato antico, trasmesso per via genetica. Esso ci spinge inevitabilmente a comportamenti impulsivi, accesi da una questione banale (“sì il direttore è così, è scorbutico e glaciale”), ma è come se dentro di noi si muovessero altri impulsi, come se stessimo combattendo con una tigre che ci sta azzannando, o con un serpente, senza più scampo. 46

Questi stessi processi automatici e improvvisi sono i primi del resto che ci garantiscono la sopravvivenza, ci fanno cioè da catapulta in caso di pericolo, aiutandoci a fronteggiare una situazione minacciosa in maniera rapida e intuitiva. Quando però non c’è pericolo di vita o di morte, ma solo contrasto e fatica quotidiani, ci spingono a comportamenti esagerati e fuorvianti. La negatività funzionale, questo allarme sproporzionato interno che scatta in automatico, al cospetto di episodi ordinari di pressione, stanchezza e frustrazione, assume contorni smisurati e incontrollabili, sia nell’aggressività che nella passività. Qui il cervello arcaico scatta automaticamente, generando comportamenti negativi spesso amplificati, fuori proporzione rispetto alla realtà. È come se avessimo un canale preferenziale sempre acceso, un nervo di segno negativo sempre scoperto che ci crea una propensione a pensare e a sentire male. Diversi studi di neuroscienze parlano a questo proposito di inclinazione alla negatività. Una parte di negatività18 sembra dunque annidarsi nelle nostre stesse funzioni cerebrali, così come le ereditiamo dai nostri genitori, divenendo pressoché automatica e inevitabile. Se si entra nello spazio del funzionamento fisiologico del cervello e del sistema nervoso, si vede come la corteccia sia sede del pensiero logico e complesso (ragione e giudizio), il sistema limbico tramite amigdala e ippocampo degli automatismi involontari e irrazionali di tipo emotivo (emozione e inconscio), il tronco encefalico dei nervi che si connettono con gli organi interni (funzioni corporee). Una lotta interna tra due cervelli. Abbiamo già detto dei due cervelli che lottano dentro ognuno di noi: il primo è quello limbico, sottocorticale o “cervello basso e antico” che negli ultimi due milioni di anni non si è praticamente evoluto; è composto da una massa anatomica minore e collocato in basso nel centro della testa, ma possiede una forza straordinaria e controlla tutte le emozioni. Il secondo cervello, molto più giovane, è quello cognitivo, corticale, o “cervello alto e nuovo”: è nato infatti con il linguaggio e in 150.000 anni si è sviluppato in maniera straordinaria, grazie in particolar modo alla cultura; si trova a corona nel  Nel linguaggio scientifico si chiama impasse, stress, passività, rischio psicosociale. 18

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la parte frontale e superiore della testa e sovrintende alle nostre qualità di riflessione, ragionamento, pianificazione e moralità.

Figura 7 – Il cervello doppio, corteccia e limbico

Secondo alcuni studi, nel cervello arcaico le emozioni prevalgono sulla razionalità e, per un consolidato luogo comune, noi tutti crediamo di essere razionali quando invece non lo siamo affatto: siamo circonfusi e crediamo di ragionare solo perché usiamo le parole e la comunicazione multimediale. Tuttavia, il cervello arcaico, maligno, è anche molto astuto e maschera la propria azione con il linguaggio, mimando quella funzione del cervello ragionatore. Altri ricercatori si soffermano, inoltre, sull’importanza della connessione tra arcaico e moderno, prefigurando una loro possibile integrazione, un collegamento e una contaminazione costruttiva (Siegel, 2001; Cozolino, 2008; Damasio, 1995). Cervello razionale (corteccia)

Cervello emotivo (limbico)

Controllato, meditato

Incontrollato

Deduttivo

Spontaneo

Lento e dosato

Impulsivo

Consapevole, pedissequo

Rapido, repentino

Ligio alle regole

Inconsapevole

Morale

Automatico

Figura 8 – Forze-debolezze dei due cervelli

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Nel prendere molte decisioni possiamo avere anche una chiarezza teorica, questa spesso però viene tendenzialmente sovrastata da funzionamenti più profondi e involontari. Per esempio sono tipiche delle nostre giornate, quando cioè ci troviamo a criticare, giudicare senza sapere, distruggere con poco senso provato, funzioni denominate di attacco; oppure quelle riferite alla cosiddetta fuga, quando cioè siamo arciconvinti delle nostre idee, non dialoghiamo, esercitiamo una certa spocchia discriminativa; per ultima la ricorrenza al congelamento, che ci rende freddi, insulsi, indifferenti, impassibili, ruminanti chiusi a riccio e rancorosi nel di dentro. La fatica e lo stress che si accumulano durante le nostre giornate producono funzionamenti poco consapevoli di quanto avviene nel cervello, nell’insieme del corpo e nei nostri meravigliosi e astrusi processi mentali. L’amigdala sintonizzata su stimoli negativi. Come abbiamo già detto, al momento dell’interazione con l’ambiente, in presenza di contrasti, sforzi o limiti, è il sistema limbico a entrare in funzione con la sua carica automatica, involontaria e schematica. La fitta rete di organi del cervello limbico, di cui l’amigdala è una delle più condizionanti, tende a interferire sulla lucidità corticale. Per LeDoux (1998), che ha studiato nello specifico i funzionamenti sottocorticali, ci sono più trasmissioni nervose che vanno dall’amigdala alla corteccia (dalle emozioni alla ragione), di quelli che procedono in direzione opposta. Dunque, la forza dell’irrazionalità (involontaria e automatica) sul pensiero razionale è maggiore. In moltissimi casi le emozioni tendono a dominare i pensieri. Nella lunga scala evolutiva umana, l’amigdala e tutta la parte limbica e sottocorticale si sono infatti specializzate di più nella gestione degli allarmi negativi per la sopravvivenza, delle irruenze repentine per fronteggiare le insidie dell’ambiente. In questa zona minuta, ma determinante, del cervello, la maggior parte delle cellule nervose è sintonizzata su stimoli spiacevoli, piuttosto che su quelli piacevoli (Damasio, 1995). L’amigdala, delle dimensioni di una mandorla, è un organo che impara velocemente e dimentica lentamente, entra in allarme anche senza motivi evidenti, è più veloce, inconscia, schematica, quindi con molti punti in più sul cervello corticale logico e riflessivo, di suo più lento, pigro, sequenziale. Sono queste le caratteristiche che la rendono 49

spesso dominante nei nostri movimenti, sovrastante e per di più predisposta al negativo. È come se la negatività fosse già scritta,19 perché prodotta dalle stesse funzioni cerebrali e genetiche; è come se avesse una preferenziale dedizione alle influenze del cervello basso, dove nella persona agiscono maggiormente confusione, fantasie, irrazionalità. L’amigdala è dunque specializzata nelle emozioni negative e minacciose (paura in particolare): essa si connette con i centri della memoria (ippocampo) intensificando e scolpendo i ricordi negativi e rilasciando chimiche specifiche dello stress (glucocorticoidi e noradrenalina). Questo spiega perché i metodi efficaci per la positività debbano cercare di partire da sotto, ovvero dalla parte latente negativa e irrazionale, per ripristinare via via il cervello alto ragionatore. Quando siamo stanchi, tesi, contrastati, ma anche semplicemente impegnati o calati in uno sforzo produttivo, le parti più profonde del cervello (amigdala20) ci spingono facilmente ad aggredire o deluderci: si tratta della tipica reazione di “attaccofuga”, in cui il pensiero razionale è minacciato, spesso sequestrato e interrotto. Negatività funzionale

Elementi

Un primitivo allarme automatico

Circuiti cerebrali che l’evoluzione ha congegnato per la fuga da un’insidia

Lotta tra due cervelli

Il cervello arcaico, emotivo, si scontra col cervello moderno razionale, la corteccia

Qui si concentra la paura, il funzioAmigdala sintonizzata su stimoli nenamento è automatico, schematico, gativi inconscio

1.5.1.2 La negatività disposizionale, piccinerie e limiti personali Negatività disposizionale, ovvero? La disposizione sta a rappresentare quell’attitudine del soggetto a comportamenti tipici e ricorrenti, con valenza soggettiva. In questo caso è la persona che tende a imprimere propri segni negativi nella situazione. In   Come di certo è anche scritta la positività: la ricerca dell’altro, il bisogno di fare cose buone, realizzare e realizzarsi. 20   Per LeDoux (1998) un vero e proprio computer emotivo. 19

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questa sfera, più specificamente psicologica, possiamo riferire agli aspetti del temperamento, o carattere personale, le caratteristiche soggettive prodotte da fattori genetici e da fattori appresi, a partire dalle prime esperienze coi genitori. Possiamo attribuire al concetto di attaccamento una delle origini delle inclinazioni personali specifiche, come dimostra l’omonima teoria (Bowlby, 1989), che illustra come nel primo rapporto con la propria madre si scolpiscano modi che si tende a riversare in età adulta. In ultimo, concorre al piano psicologico l’esperienza del trauma, che instilla nel soggetto segni forti, prodotti da esperienze critiche, sia remote che recenti, che provocano un tipo di danno a mo’ di ferita. Questa ferita ha come conseguenza sulla persona di ingigantire vissuti e sensazioni, provocando un effetto di ripetizione e trasferibilità improprie. Ogni temperamento ha punti di forza e di debolezza. Il temperamento è il complesso di disposizioni prodotte da fattori biologici, relazionali ed emotivi di una persona. La psicologia, negli anni, ha teso a far confluire il temperamento in concetti simili, quali carattere e personalità; “carattere” ha un’accezione riferita alle strategie difensive della persona, “personalità”, invece, sta a indicare il modo con cui si fronteggiano solitamente i problemi. Il temperamento21 è quindi una configurazione sufficientemente stabile con cui identificare gli aspetti tipici del soggetto; è una forma di abitudine prolungata nel tempo, con cui si interpretano i fatti della vita. I tratti del temperamento sono relativamente rigidi, pur presentando altri punti più mobili e dinamici. Hans Eysenck, psicologo inglese, ne ha elaborato quattro categorie a partire dagli anni Cinquanta: • introversione, tipica di chi se ne sta da solo; • estroversione, caratteristica di chi cerca la socializzazione; • nevroticismo: individui molto ansiosi e impulsivi, predisposti allo stress; • stabilità emotiva: persone poco impulsive, poco ansiose, predisposte all’indifferenza.   Già Ippocrate distingueva quattro temperamenti base: 1) collerico (fuoco, caldo e secco); 2) sanguigno (aria, caldo e umido); 3) flemmatico (acqua, freddo e umido); 4) malinconico (terra, freddo e secco). 21

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Il temperamento è quindi come la temperatura base di una data persona, esposta, qualunque sia il termostato di partenza, a disadattamento, rigidità, stranezza (Dogana, 2002). Ogni soggetto ha in effetti un suo modo di essere abituale, con cui esprime la sua individualità e originalità:22 è l’insieme dei tratti psicologici e morali che risulta dalla storia personale e dalle scelte operate durante l’arco della sua vita. Dunque, direttore o colleghi con cui abbiamo a che fare tutti i giorni sono figure molto complesse e delineate da molti fattori: i tratti trasmessi per via genetica, le disposizioni acquisite sotto la duplice influenza dei geni e dell’ambiente, gli episodi personali, il clima fisico umano e culturale respirato nell’infanzia. Il temperamento personale agisce difatti come un prisma che scompone e ricompone i fasci di colore, con una doppia azione: produce impatti ultrasoggettivi e comportamenti particolaristici. Nella vita e nel lavoro è necessario saper prendere le persone per il loro verso, ma questo non solo nei contenuti oggettivi, quanto perlopiù nelle mille pieghe dei loro caratteri. L’attaccamento, l’impronta che ci s-colpisce. L’autore della teoria dell’attaccamento, fondata sul concetto di base sicura, è lo psicoanalista e antropologo John Bowlby. Secondo le sue ricerche, i piccoli dei primati e degli umani crescono bene soprattutto a contatto con adulti coerenti e premurosi; inoltre, il legame madre-bambino rilascia nell’individuo un’impronta psicologica che dura per l’intero arco della vita. Attaccamento è un termine generale che connota i modi di convivere con gli altri, di aderire e di concedersi, modi che si possono definire sicuri e insicuri.   Alcuni studi vedono in ogni temperamento il dosaggio di tre componenti fondamentali: l’emotività, l’azione e la risonanza. Il peso maggiore o minore dei primi fattori definisce i temperamenti. Appassionato: (emotivo, attivo), persona tesa al compimento di un’opera. Collerico (emotivo, attivo): individuo reattivo, sovente impetuoso. Nervoso (emotivo, non attivo): dall’umore mutevole, incostante, ribelle. Sentimentale (emotivo, non attivo): sognatore, sensibile, scrupoloso. Sanguigno (non emotivo, attivo): freddo, oggettivo, deciso, pratico. Flemmatico (non emotivo, attivo): umore stabile, ponderato, puntuale. Apatico (non emotivo, non attivo): chiuso, inespressivo, abitudinario. Amorfo (non emotivo, non attivo): accogliente, negligente, indifferente. 22

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Attaccamento vuol dire infatti sentirsi sicuri e protetti (Holmes, 1994). Per contrasto, una persona insicura può provare frequentemente emozioni di dipendenza, paura del rifiuto, irritabilità. Gli scambi nei primi anni di vita funzionano come veri e propri modelli operativi (Caprara, Gennaro, 1994) e questi schemi di interazione divengono abituali e automatici, tendono cioè a depositarsi23 nel soggetto e ad agire nel corso della vita, anche quando di fronte si hanno persone dai comportamenti differenti da quelli che avevano i genitori quando si era bambini (Bowlby, 1989). Sono state evidenziate quattro categorie generali di attaccamento: • sicuro, equilibrato, coerente e fluente (madre disponibile emotivamente, sensibile ed efficace); • distanziante, inibito, superficiale, idealista, a volte svalutante (madre distante e respingente); • ambivalente preoccupato, teso, irritabile, arrabbiato (madre con disponibilità incostante); • disorganizzato, disorientato, irrisolto, conflittuale (madre con comportamenti che spaventano). Secondo alcuni studi, anche l’esperienza interiorizzata costruisce il cervello. Per Louis Cozzolino, docente di psicologia a Los Angeles, la regolazione di sistemi complessi e profondi attivati nei primi periodi di vita, organizza funzionamenti durevoli di eccitazione, reattività allo stress e comportamento interpersonale. I quattro tipi di attaccamento mostrano quanta storia abbiano i comportamenti e quanto tasso antico rivelino interazioni quotidiane tra adulti, che tutti giudichiamo ed etichettiamo, alla luce di una seria ignoranza, dedita al giudizio facile. Conoscere il dispositivo dell’attaccamento può risultare utile per leggere la realtà in maniera meno superficiale ed essere più tolleranti nei confronti degli atteggiamenti di utenti e colleghi. Risposte disordinate prodotte da traumi pregressi. Dagli studi sulla polarità fra piacere e dolore, la psicologia approfondisce   Teoria dell’interiorizzazione: l’individuo adotta valori, atteggiamenti e modelli di comportamento in vigore nella sua famiglia di provenienza e nel suo gruppo sociale di appartenenza. 23

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il meccanismo del trauma,24 una componente pressoché intrinseca della vita, vista la miriade di possibili eventi in grado di lacerare il senso di continuità di una storia personale, come in una linea interrotta. Ora, non bisogna per forza riferirsi a un lutto o a un terremoto subiti nell’infanzia: la linea interrotta è un concetto di labile intensità, nel senso che si stampano in noi anche vissuti intermedi e accadimenti relativi all’età adulta, caratterizzati da repentinità, urgenza, forte stress emotivo. Quindi, una esplosione di negatività può essere provocata anche da piccoli e grandi traumi derivanti da esperienze a volte ordinarie, ma che interrompono e recidono qualcosa: ad esempio il crollo degli ideali, la perdita del lavoro, la delusione suscitata da un collega, un abbandono affettivo improvviso e incompreso, il pensionamento di un capo. Finitezza, limiti, precarietà dell’esistenza, insicurezza e senso di spavento immotivato sono possibili vissuti che pongono la persona a contatto col trauma, una ferita nel corso della vita che ci rammenta la condizione umana di vulnerabilità. Con la nozione di trauma, gli studi si riferiscono all’intensità di un evento a cui il soggetto non è stato in grado di rispondere in modo adeguato. Il trauma, per quel vissuto precedente fortemente negativo (e non elaborato), si riattiva improvvisamente a distanza di tempo con la manifestazione di sentimenti a lungo repressi e nascosti. Chi subisce sempre, oppure chi si arrabbia di continuo, lo fa di sicuro come reazione ai fatti della singola giornata, ma non solo: le tracce dei traumi, o dei microtraumi, producono dei segni psichici nel soggetto che inducono comportamenti specifici. Un’esperienza di umiliazione provocata da un genitore, il senso di vergogna provato per il rimprovero di un insegnante davanti alla classe, una punizione eccessiva e ingiusta inflitta da un superiore, le aggressioni violente tra fratelli, un grande dolore emotivo: episodi del genere lasciano un’impronta. Il click attivante può essere dato anche da fattori all’apparenza minimali, per esempio da un tono di voce metallico, da un’espressione severa del viso, da uno sguardo forte, da un gesto con una mano alzata. Oppure, certe forme di linguaggio verbale possono provocare il ricordo di autorità negative: “voi   Trauma è una parola greca che significa ferita, lacerazione.

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dovete…”, “non va bene!”, “devo fare tutto io”. La teoria del trauma spiega perché un adulto, senza preavviso e senza provocazione evidente, può diventare aggressivo o trincerarsi in un grande silenzio apparentemente incomprensibile. Infine, occorre aggiungere che traumi e microtraumi non producono in automatico comportamenti negativi, ne rappresentano tuttavia un’eventualità. Non tutti gli individui rispondono alle esperienze critiche traumatiche allo stesso modo: sulle reazioni influiscono una rosa di fattori, tra cui le predisposizioni genetiche, la personalità e la storia individuale, il contesto di vita e i modi tipici appresi per fronteggiare e controllare problemi ed emergenze. Negatività disposizionale

Elementi

Temperamento: forze e debolezze

Ogni carattere personale presenta aspetti positivi e negativi

Attaccamento, impronta che s-coplisce

Legame madre-bambino rilascia da adulto un’impronta psicologica duratura

Risposte disordinate da traumi pregressi

Una linea interrotta, una ferita, che riaccende repentinità e stress emotivo

1.5.1.3 I contesti che ci peggiorano, la negatività situazionale Abbiamo visto fin qui come gli aspetti funzionali del cervello e quelli disposizionali della persona conformino il comportamento nelle sue valenze critiche. Un terzo e ultimo fattore chiave fonte di disfunzionalità è dato dal contesto, coi suoi sistemi di appartenenza e della situazione. Anche l’ambiente con le sue conformazioni può cambiare in negativo le persone. Gli studi della psicologia sociale, in particolare quelli di Philip Zimbardo (2008), dimostrano che la linea tra bene e male è del tutto permeabile: i fattori ambientali agiscono sul soggetto modificandone la sua prestazione per cui da persona buona e con sentimenti comuni può trasformarsi in cinico e malvagio. Si tratta del cosiddetto effetto Lucifero,25 per cui ognuno da lucifero si può tramutare in Satana compiendo azioni e assumendo com  Lucifero prima di diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l’angelo prediletto da Dio. 25

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portamenti che, fuori dagli influssi del sistema di appartenenza o dell’ambiente in cui opera, sorprenderebbero gli altri e li porterebbero a dire “no, lui non è così”. Marce le mele ma marcio anche il cesto. La negatività non afferisce solo alla persona, ma anche ai contesti. Zimbardo è arrivato a queste conclusioni non solo studiando da vicino i lager nazisti, le deportazioni e i genocidi avvenuti in Bosnia e Darfur, ma anche effettuando esperimenti in università, tra i quali è famoso quello della “prigionia simulata”, in cui coinvolse i suoi studenti nei ruoli di detenuti e carcerieri. Nel 1971 effettuò l’esperimento insieme a un manipolo di studenti a cui assegnò il ruolo di guardie e di detenuti, in una prigione simulata dentro l’edificio universitario. Ebbene, quei ragazzi ordinari e psichicamente stabili, si trasformarono in poche ore in feroci aguzzini non dissimili dai peggiori modelli autoritari. Che il potere delle situazioni sia il deterrente per un mutamento mentale delle persone è confermato inoltre dall’esperimento denominato delle “finestre rotte”. Lo condusse sempre Zimbardo nel 1969, studiando il fenomeno del vandalismo di quartiere. I ricercatori parcheggiarono un’auto nei pressi di New York University, rimuovendone le targhe e lasciando il cofano aperto: era importante osservare la reazione dei passanti. Già dopo dieci minuti, complici moglie e figlio, un uomo rubò indisturbato la batteria e il radiatore. Nelle successive ventiquattro ore, numerose persone prelevarono antenna, tergicristalli e ruote. A quel punto, iniziarono anche a rompere lunotto, fari e parabrezza. Furono registrati ben ventitré episodi di vandalismo in soli tre giorni. In una seconda parte dell’esperimento, la stessa auto, riparata, fu spostata in una cittadina della California: qui dovette passare una settimana prima che qualcuno si avvicinasse. A farlo fu un uomo che, preoccupato per la pioggia, chiuse il cofano così da evitare danni al motore. I ricercatori erano convinti di poter osservare gli stessi atti vandalici anche nella pacifica regione californiana, bisognava però aumentare gli stimoli fisici in grado di innescarli: così, loro stessi il giorno dopo iniziarono a colpire alcune parti dell’auto col martello. Il gesto stimolò un primo passante, che incominciò a battere forte; poco dopo un ragaz56

zo salì sul tetto e altri due sradicarono gli sportelli. Intervistati, tutti dichiararono che era stata un’esperienza assai piacevole. La folla radunata intorno fece il resto per la demolizione dell’auto. Dunque, a New York bastava poco per innescare vandalismi, in una piccola città di provincia occorreva qualche stimolo in più, ma i risultati erano i medesimi. I ricercatori hanno quindi dedotto che la sola presenza in un dato luogo di auto abbandonate, erbacce e vetri rotti, può innescare forme di vandalismo e criminalità. Questo è un esempio di quanto i luoghi fisici (non solo sociali) instillino nelle persone germi di azioni non programmate, solo poco prima inimmaginate dai soggetti stessi. Chiunque può attuare condotte distruttive qualora si verifichino determinate condizioni (Bocchiaro, 2009). La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni e non di altri, ma, compresenti in ognuno, si scatenano indifferentemente in tutti a partire dai sistemi di appartenenza e dalle situazioni in cui ci si viene a trovare. Quindi, certe negatività nelle relazioni e nei gruppi, come i trinceramenti o gli errori, il rancore e il cinismo, sono fenomeni in cui i comportamenti distruttivi individuali vengono scatenati anche dalle forze della situazione in cui quelle persone agiscono. Il contesto dunque ci può rendere soggetti ebeti e malvagi. Questa sospensione di identità, può essere prodotta anche dagli ordini a compiere un’azione in nome della propria appartenenza all’organizzazione. Dietro un ordine, la responsabilità della persona diventa nana, essa viene schiacciata dal piglio di un leader o direttore e causa un’immotivata insensibilità e indifferenza alle ricadute sui soggetti esterni (Milgram, 2003). Le situazioni come forza negativa. Forse pochi casi di negatività vengono freddamente pianificati a tavolino. Solitamente si parla di persone comuni, con un loro temperamento, con qualche tensione e aggressività di base, ma gente comune, buona gente che tuttavia scatena distruttività, opposizione, cinismo, passività. Non sono quindi solo il cervello limbico, l’amigdala o il carattere personale a produrre negatività. La struttura di appartenenza (una fede, un’ideologia, un apparato organizzativo, il potere come dominio) e le situazioni concrete in cui 57

si sta (un ente votato alla competizione, un gruppo di lavoro litigioso) condizionano fortemente qualsiasi soggetto. Il positivo e il negativo non sono prerogative di alcuni o di altri, non sono concetti assoluti, ma agenti attivi in ogni persona e in ogni contesto. Stiamo quindi affermando quanto le forze situazionali influiscano su persone e ruoli: si pensi per esempio quale cappa condizionante sia la famiglia, oppure il lavoro, per un insieme di congegni che provocano veri e propri cambi di personalità e inducono individui buoni a fare male. Dunque, le mele (l’individuo) possono essere marce, ma più spesso di quanto si pensi può essere marcio anche il paniere (la situazione). I meccanismi chiave del contesto quale forza negativa sono: • sistemi di potere, per le loro caratteristiche implicite: gerarchie, dominio, manipolazione; • deindividuazione: si perde il senso della persona per azzerarla nella quantità informe dei numeri, con conseguente crollo della consapevolezza di sé e la riduzione delle attenzioni sociali; • anonimato, eccesso di spirito di gruppo, appiattimento e assembramento; • emblemi e uniformi, divise, forme standardizzate, che producono la perdita di consapevolezza; • deumanizzazione, quando il contesto azzera la persona riducendola a oggetto senza valori. Il punto quindi è saper resistere al sistema di appartenenza di turno (azienda, partito, associazione, stadio, denaro, religione) che ci condiziona con le sue norme, modificandoci, per un gioco che può divenire un pessimo gioco. I non-luoghi e i non-metodi che disumanizzano. È difatti quando una qualsiasi aggregazione si deteriora, senza che gli attori se ne accorgano, che i soggetti coinvolti divengono passivi agenti di mancata comunicazione, tensione fissa, nervosismo, durezza di atteggiamento come unica arma di difesa dagli altri. Ecco fare esordio la disumanizzazione! Anche gli ambienti fisici possono determinare dei mutamenti sulle persone. Ad occuparsene più da vicino è stato l’antropologo francese 58

Marc Augé (2009), che ha studiato gli aspetti tipici degli spazi pubblici moderni (aeroporti e centri commerciali) definendoli non-luoghi, per via del loro carattere anonimo, in contrapposizione ai luoghi storici. Questi sono spazi senza identità, senza storia e senza calore umano, dove milioni di soggetti si incrociano senza entrare in relazione, presi solo dal desiderio di consumare o di accelerare le operazioni di viaggio. I luoghi di lavoro frenetici, in cui più di tutto contano i risultati, e gli ambienti fisici anonimi agiscono su gruppi e persone come un forte congelatore che incrementa il tasso di deumanizzazione: infatti, quando stiamo male in un dato ambiente diventiamo anche stonati e irritabili. La disumanizzazione è anche il risultato di tutti quei metodi non-metodi e di quelle culture lavorative che si basano eccessivamente sulle regole, sul controllo e che incrementano le forme di dominio e di gerarchia, di competizione fino all’estremo; sono contesti che agiscono da paniere negativo, instillando nelle persone germi di agitazione e allarme che di solito influenzano ancora di più i soggetti deboli, bollati come mele marce. Insomma, non è solo la situazione a produrre disfunzionalità: conta, a nostro avviso, anche la responsabilità della persona, già illustrata nella componente disposizionale. Situazione e persona sono tuttavia due fattori che si alimentano a vicenda, secondo funzionamenti complessi che non è dato conoscere nel loro specifico per la varietà dei meccanismi che li causano. Negatività situazionale

Elementi

Marce le mele ma anche il cesto

Le situazioni cambiano in senso peggiorativo il profilo della persona

Situazioni come forza negativa

Meccanismi chiave: gerarchia e potere, deindividuazione e deumanizzazione

Non-luoghi e non-metodi, che disu- Ambienti fisici asettici e ambienti somanizzano ciali competitivi e burocratici

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1.6 La Facilitazione esperta è un metodo Il termine facilitazione può risultare vago, per questo invitiamo il lettore ad abbandonare il mero piano lessicale26 che lo vede come sostantivo o come verbo ordinario ed elementare.27 Qui intendiamo perlopiù la facilitazione come metodo, per via della sua valenza di supporto intenzionale da agire nei gruppi, per impostare il lavoro, coinvolgere i partecipanti, aiutarli nelle manifestazioni negative, per stimolarli alla motivazione e all’intelligenza collettiva. È difatti un nuovo costrutto di tipo organizzativo-manageriale, con forte caratterizzazione sociale ed educativa, al passo col pensiero contemporaneo 2.0 orientato alle reti interconnesse, alla orizzontalità degli scambi, alla dimensione pluricentrica dei saperi e dei poteri. Per instaurare relazioni sia produttive che capaci di senso, collocarle in multiconnessioni. Imprimervi uno stile più orizzontale, ovvero con minori dogmi, gerarchie, monopolizzazioni. Creare maggiori simmetrie, dare spazio alle pluralità e tollerare le diversità. Ecco, siamo abbastanza convinti che alimentare tutto ciò richieda il ricorso ad un po’ di metodo e una rinnovata educazione. Ci vuole infatti metodo ed educazione per provare a gestire lavoro e persone così variamente coinvolti da spinte funzionali costruttive, ma molto spesso anche da accadimenti imprevisti e critici, altalenanti e spesso controproduttivi e distruttivi. Come abbiamo già visto la facilitazione parte dall’assunto che ogni tipo di aggregazione presenta sia necessità produttive, finalistiche, che necessità relazionali. Ora, non sempre le prime sono inesorabilmente le più importanti o quelle che, una volta soddisfatte, fanno andare tutto per il verso giusto. Le dinamiche tipiche della nostra specie, in qualità di mammiferi ultrasociali, ci spingono naturalmente al gioco di attrazione-repulsione, un’annosa e spesso incomprensibile altalena fatta di competi  Sul piano puramente lessicale, si vedano i sinonimi e i contrari: per “facilitazione”, agevolazione, appoggio, vantaggio, concessione; per “complicazione”, impedimento, impaccio, intralcio, ostacolo. 27   Esempi: “Signora, le mando una mail così le facilito la risposta”, “In bacheca trovate i turni così da facilitare le informazioni sull’ingresso giornaliero”, “Quella scheda da compilare è una facilitazione ai compiti che svolgiamo in officina”. 26

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zione e cooperazione, senza apparenti logiche fisse o pronostici garantiti. La facilitazione nasce quindi come metodo proprio perché tiene in considerazione le complessità tipiche di un’epoca contrastata e carica di insidie ma anche di cambiamenti. Essa sviluppa nuovi dispositivi concettuali e pratici che possono attivare il cervello, il corpo e la mente di persone e gruppi. Con uno scopo precipuo, quello di saper unire. Unire ben sapendo tuttavia con quali dinamiche e con quanta frequenza si manifestino in ogni aggregazione le forze che provocano divisione e malessere. Unire è una capacità appunto complessa, che non risponde ad automatismi certi e protocollabili, bensì a una sequenza di modi di fare che nella mia lunga esperienza in questo campo sono riferimenti indispensabili, per poter aprire alle più diverse forme di innovazione organizzativa e comportamentale. Quindi, unire non sta a significare un gioco algebrico (la mera somma delle parti), bensì una nuova abilità dinamica studiata al fine di alimentare le potenzialità dei gruppi, molto spesso sottoutilizzate. Per facilitare occorre quindi congiungere caratteristiche e fattori, funzioni, ruoli, atteggiamenti, mentalità, dotandosi di vari tipi di colle, non dimenticando tuttavia mai che non c’è colla che tiene contro le tante forze contrarie che frequentemente si impossessano dei singoli e delle diverse compagini di lavoro. Per esempio, col metodo della facilitazione, ci prefiggiamo la connessione tra diversità e polarità, dentro un disegno duale, in cui coesistono elementi di solito intesi come inconciliabili: si veda il negativo e il positivo, il sentimento e la ragione, il lavoro e le persone, la produzione e la partecipazione, in una visione non meccanica. Non meccanica sta a significare due cose: la prima è che unire non lo intendiamo in senso dogmatico, in molti casi infatti ci siamo trovati a definire e a distinguere, per esempio quando in un gruppo in presenza di molta rabbia, il facilitatore fa bene se delimita la portata di questa emozione ponendo degli argini, scandendo il terreno critico da quello più sobrio. La seconda cosa è che la visione dell’unire considera persona, gruppo e contesto come campi di forze dove agiscono spinte dinamiche non schematizzabili e contraddittorie che catalizzano influssi non del tutto razionali, o comunque a razionalità limi61

tata.28 Vedremo infatti che, tenendo conto anche degli aspetti irrazionali e inconsci della relazione e dei gruppi, la facilitazione può assurgere a metodo di supporto organizzativo più aderente a situazioni e persone. Per concludere quindi, il termine facilitazione abbandona in via definitiva il piano lessicale e si candida a diventare un approccio metodologico, più confacente alla ricchezza dei principi sottostanti e delle pratiche proposti.

1.6.1 La facilitazione ha una storia importante Le motivazioni che hanno portato alla nascita della facilitazione, come disciplina teorica e pratica, sono state riassunte in primis dagli ideatori: dapprima dalla psicologia umanistica di Carl Rogers, poi, sul piano educativo, dalla pedagogia di Malcom Knowles. Nelle loro ricerche Rogers e Knowles sostengono che l’apprendimento più significativo è quello capace di tradursi in nuovi comportamenti,29 individuando un filo continuo tra teoria e pratica, tra fattori operativi e fattori mentali. Questa connessione tra pensiero e azione si verifica quando le situazioni sono costruite con uno stile facilitante, ovvero quell’approccio che tiene in conto sia il piano tecnico sia quello umano, che giocano in simbiosi e danno forza lievitante per il potenziamento e la crescita. La funzione facilitatrice consiste nel destare l’attenzione e l’interesse, nel sostenere le motivazioni, nel predisporre i contenuti snelliti e messi in risalto che ne favoriscano la ricezione, la sintesi e ogni possibile spinta all’attivazione.   Herbert Simon (1916-2001) economista, psicologo e informatico statunitense, ha studiato a lungo i modi dell’agire decisionale degli individui all’interno delle organizzazioni, osservando che costoro non si attenevano ai criteri imposti dalle teorie normative. In particolare egli ha evidenziato come la scelta effettuata da un individuo non rispetta gli assiomi fondamentali dell’approccio logico; le persone più che fare scelte ottimali, fanno scelte soddisfacenti, vuoi per i vincoli imposti dalle organizzazioni, vuoi per i limiti caratteristici dai propri modi di pensare. 29   “L’apprendimento principale comporta il cambiamento”, in altre parole i due importanti autori sostenevano che quando la persona viene accolta e attivata nelle sue proprie capacità, tende a liberare da sé le condizioni per la sua stessa crescita e realizzazione (Rogers, 1970; Knowles, 1997). 28

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Il concetto di facilitazione è stato poi ripreso da numerosi altri autori ed è stato aperto a diverse altre interpretazioni e discipline, tra cui la pedagogia (Mauro Laeng, Lucia Lumbelli), l’urbanistica (Ray Lorenzo), l’apprendimento aziendale (Alec Lewis), la sociologia (Lauren Abramson). Va tenuto presente che l’espletamento di questa funzione si fonda anche sulla leadership, ovvero tocca da vicino le questioni relative all’esercizio del potere, alle forme dell’autorità e del controllo e ai loro limiti. Per quanto concerne il settore del cambiamento sociale, la facilitazione si è irrobustita con i lavori di Jerome Liss, mentre il mondo delle aziende con la consulenza di processo di Edgar Schein, in cui il consulente agisce presso il cliente come un facilitatore. In particolare, dagli studi di Liss, a cavallo tra psicosociologia e neuroscienze e culminati nella Comunicazione ecologica e nella Biosistemica, la Facilitazione esperta ha tratto spunti concettuali e metodologici fondamentali. Molti principi utili alla facilitazione si trovano inoltre nell’opera immensa di Danilo Dolci, che aveva individuato nella cosiddetta “relazione maieutica” le basi del processo educativo. Il pensiero di Dolci si ispira alla relazione che Socrate intratteneva coi suoi studenti, fondata su una serie di domande fatte con lo scopo di tirare fuori la verità che il giovane possedeva già dentro di sé inconsapevolmente. Nella relazione e nel gruppo, su tante questioni i membri hanno già delle loro idee che con un’azione facilitatrice e maieutica (dal basso in alto) possono trovare voce e venire fuori. Il facilitatore, dunque, include e coinvolge il soggetto, anche quando egli stesso è più apatico e demotivato, su una linea che collega il rispetto da una parte e la sollecitazione-incoraggiamento dall’altra. A guidarci è la convinzione che questa pratica possa connettere i fattori materiali dell’agire (il lavoro, il fare), coi fattori immateriali della relazione (le persone, le emozioni e i pensieri), in vista di un’integrazione vincente.

1.6.2 I congegni facilitatori: terzietà, regia interazionale, ponte di azione Vediamo ora gli elementi principali che danno alla Facilitazione esperta una prima specifica dotazione operativa. 63

1) L’aiuto facilitatore può essere anche volontario e spontaneo, svolto cioè da persone che ne incarnano un talento innato, ma se presenta qualche misura di metodo l’intervento potrà solo trarne vantaggio. 2) Non bisogna meravigliarsi troppo se adulti maturi e navigati si invischiano spesso in dispute e ripicche immotivate e inconcludenti: ognuno è spinto da motivi profondi che agiscono nei tasti dell’automatismo e della più disarmante vulnerabilità. 3) In genere si pensa che il cervello sia di aiuto e sappia dare quei supporti razionali necessari; è proprio il cervello, invece, come ho già illustrato sopra, nella sua parte emotiva e pulsionale, a produrre dissonanze, portando l’individuo a sentirsi ferito, offeso, svalutato, sfruttato. Nella realtà c’è il problema, che tuttavia il cervello emotivo ne amplifica e ne deforma molti suoi aspetti. 4) Implode un cosiddetto “effetto carro armato”, quando cioè i pensieri si amplificano ruotando stretti attorno a un nodo, si intensificano nella loro discriminazione, generano impasse, grovigli contorti e stressanti, indifferenza. 5) È molto frequente che emozioni di vulnerabilità e insidia possano assumere questo effetto carro armato con le sue caratteristiche di pesantezza e distruttività. Sono fenomeni del tutto imprescindibili che prendono la scena nel lavoro, perché immessi dentro a sistemi più ampi e innati che agiscono da propulsione aggressiva o anche passiva di difficile risoluzione. Meccanismi che spesso peggiorano, intossicando climi e contesti. Per questo motivo i soggetti da soli non ce la fanno e risultano quindi strategiche le figure terze di facilitatori e agenti di aiuto. 6) È stato sperimentato che una figura terza, non implicata negli interessi in gioco, in posizione di terzietà (o “presenza neutra”), aiuta le parti a esprimere criticità e idee, rendendo più facile e meno contorto il raggiungimento di un obiettivo comune. 7) Il gruppo con un facilitatore fa più cose in meno tempo e con più chiarezza. Inoltre, tutti sono proprietari delle cose fatte e decise. 64

8) La terzietà è il tratto distintivo di una facilitazione. È più propriamente uno stare in mezzo, tra le parti e le persone. È assumere una equa vicinanza, essere neutrali, imparziali, di supporto. È l’aspetto formativo della facilitazione, perché ne rappresenta il motore di costruzione delle negozialità, pur divincolandosi tra blocchi e contrarietà. La terzietà è un fattore utile ma non obbligatorio, visto che le situazioni da facilitare non sono sempre incentrate su due fazioni contrapposte. 9) Il fattore di terzietà tuttavia ci suggerisce un concetto universale valido per tutte le dispute ed eventualità, che possiamo sintetizzare con la presa di distanza virtuosa dal problema, cioè in cui si prova a esplorarlo e capirlo, ancor prima di definirne delle soluzioni, quello che altri autori chiamano “andare al balcone” (Ury, 2015), per mettersi nella visione complessiva del blocco e comprenderne le spinte e le motivazioni. 10) In questa posizione terza, la facilitazione assume le caratteristiche della regia interazionale, ossia la traduzione di linguaggi diversi, l’incremento della dialettica e della riflessione, l’incoraggiamento dell’espressione e l’inibizione di spinte monopolizzatrici, l’integrazione possibile di punti di vista divaricati. Questa modalità può essere ripresa anche con modalità non formale, ad esempio con un operatore che prova ad aiutare due colleghi che si criticano e che da soli possono solo peggiorare.30 11) La regia interazionale controlla la dinamica intersoggettiva durante lo scambio, ha accesso a diritti specifici rispetto agli altri partecipanti, esercita un potere di controllo su ciò che viene detto e sull’andamento dell’interazione; la regia è finalizzata sia alla regolazione che all’inclusione. 12) La regia interazionale imprime i ritmi, stabilisce i turni di parola secondo il principio della “parola che gira” e sullo stare concentrati sul discorso, qui si considera ogni par30   È molto probabile che un collega alla pari che assume queste funzioni facilitatrici, possa essere apprezzato ma anche contrastato tramite forme di negazione e sedicente inaffidabilità, perché si tratta di una leadership non formale, spesso intesa anche come potere improprio. Ci torniamo comunque nel terzo capitolo.

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tecipante portatore di una sua ragione; essa è al servizio dell’unione, il suo obiettivo è approssimarsi il più possibile all’interezza delle questioni in gioco. È finalizzata all’aiuto e dà importanza all’aspetto trasformativo, proprio perché mette insieme i pareri diametrali cercandone sintesi e accordi. 13) L’ultimo elemento è il ponte di azione, ossia la capacità di sintesi negoziale e concretizzazione focalizzata sugli aspetti pratici e operativi; l’aspetto performativo della facilitazione. 14) Terzietà, regia interazionale e ponte di azione sono dispositivi che non vanno messi in pratica in modo ingessato, freddo e rigido, bensì coinvolgendo anche l’atteggiamento mentale e corporeo in maniera rispettosa e assertiva. 15) I metodi della facilitazione possono sembrare all’inizio un po’ macchinosi e complicati, ma per la mia esperienza progressivamente favoriscono l’abbattimento dei tempi di decisione, la riduzione di impasse organizzative e l’aumento della voglia di fare. E tutto questo non è poco. Introdurre i “congegni facilitatori” nel gruppo di lavoro. Un orientamento di massima 1. Formazione introduttiva: i corsi sulla Facilitazione esperta presentano diversi formati, possono bastare corsi anche brevi; l’aula è attiva e si fonda da subito sui casi concreti e sulla gestione di problemi e opposizioni. I destinatari sono gli operatori bibliotecari, i coordinatori, i dirigenti, ma anche gli addetti al front-office e ai servizi ai cittadini di ogni amministrazione pubblica. 2. Facilitazioni nel lavoro: dopo una prima formazione, è bene che i nuovi facilitatori mettano subito in pratica nei loro contesti i metodi acquisiti, sia per consolidarli che per farne esperienza diretta. 3. Facilitatori esperti: sono psicologi, educatori, animatori, consulenti che seguono una formazione più consistente e articolata. 4. Supervisione, sostegno emotivo e supporto operativo nelle relazioni e nel lavoro di gruppo, tramite follow-up periodici e l’e-facilitating sul web a distanza.

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1.7 Sintesi di saperi complessi La prima sintesi è rappresentata dal concetto di dualità, ovvero unire polarità di solito divaricate e considerate antagoniste, come per esempio lavoro e persona, individuo e gruppo, ragione ed emozione, negativo e positivo. Abbiamo osservato quanto questo profilo sistemico, che ricrea gli insiemi (ecologici, olistici) sia ben recepito dai gruppi, anche se in parte ancorati a ricorrenze dualistiche per cui l’individuo sì il gruppo no, il positivo va bene e il negativo no. Cosa intendiamo per unione nella dualità? Di certo non appiattimento, non cancellazione delle differenze, bensì una complementarietà, un’alternanza, un’integrazione che le possa far dialogare e avvicinare. Ci sono studi di neuropsicologia che sostengono che le polarità diverse una volta messe in connessione tendono a liberare risorse biologiche e mentali impreviste (Hebb, 1982). Il pensiero duale schiude alla capacità di seguire contemporaneamente due schemi di riferimento e di interpretazione della realtà, la cui logica contraddittorietà non ne impedisce l’accettazione. Il pensiero duale accetta e vive le antinomie, senza rifiutarle o reprimerle. La possibile natura duale del comportamento, la possibile contemporanea presenza di criticità e opportunità, la pluralità delle forze e degli interessi, sono tutte situazioni in cui il pensiero duale permette di non tagliar fuori pezzi importanti della realtà, soggettiva e oggettiva che sia. Occorre abbandonare il pensiero lineare e cominciare a pensare in termini di convivenza delle polarità. Niente è mai soltanto bianco o nero e dobbiamo far sì che la parte bianca e la parte nera possano esistere entrambe e convivere. Per questo la tolleranza è una virtù da coltivare, prima di tutto verso noi stessi, perché nessuno di noi è soltanto bianco o soltanto nero, solo positivo o solo negativo. La Facilitazione esperta prende ispirazione dall’idea secondo cui tutti gli opposti sono interdipendenti (luce e buio, vincere e perdere, buono e cattivo) e il loro conflitto non può mai finire con la vittoria totale di uno sull’altro: i poli sono legati da un’interazione dinamica reciproca, in cui l’uno contamina l’altro e viceversa. Stesso valore ha in biologia il concetto di embricazione, ossia la sovrapposizione tra due elementi che si 67

legittimano mutualmente e che, pur essendo contrari, possono essere descritti come l’uno emergente dall’altro, in chiave complementare anziché dualistica. Infatti, secondo il dualismo, le polarità sono entità simmetriche governate dal principio meccanico della negazione sì/no, per cui a turno una di esse deve comunque soccombere. Per il principio di dualità invece, le polarità31 sono entità asimmetriche governate dal principio della convivenza complementare sì/sì (Bateson, 1976; Spaltro, 1969; Melucci, 1994; Capra, 1982; Fruggeri,32 2003; Maturana, Varela, 1987).

Figura 9 – Forme di complementarietà duale

Oltre al principio della dualità, la Facilitazione esperta è un approccio che vede il concorso di diverse discipline, tra cui management umanistico, sociologia, psicologia sociale, neurobiologia interpersonale, pedagogia. Seguono in breve alcuni estratti delle teorie di riferimento, raggruppate per area disciplinare. 31   Parte-tutto, soggetto-contesto, individuo-relazione, cambiamentostabilità, autonomia-dipendenza costituiscono alcuni esempi di coppie di opposti che da un certo punto di vista si escludono e da un altro si completano. 32   In Telfener U., Casadio L. (2003).

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1.7.1 Sintesi di saperi, dal management Management sociale e umanistico: sistemi organizzativi flessibili attenti all’efficacia e limitati nelle dimensioni, per far lavorare insieme le persone, enfatizzandone l’impegno (commitment) verso obiettivi comuni e valori condivisi; è centrato sulla comunicazione e sulla responsabilità individuale; il risultato fondamentale del business è la soddisfazione del cliente. Organizzazioni a razionalità limitata: se il modello razionale è un metodo con sequenze rigide e preordinate, quello in questione concepisce la decisione in maniera flessibile, dando spazio ad una nozione di razionalità più ricca, capace di tenere conto anche del piano mentale ed emotivo dell’agire umano. Questo sistema considera, oltre al contenuto della decisione, il ruolo che ricopre chi ne prende parte, la dinamica di gruppo, le modalità strutturali e funzionali dell’organizzazione, basate su adattamento e apprendimento. Economia della reciprocità: il contenuto della teoria economica classica va ripensato in vista di un’interpretazione che consideri ragionevole la socialità e abbia fiducia in nuove forme di reciprocità, per una “razionalità del noi” che possa completare il senso di interesse individuale, solitamente dominante.33 Diventano ancora più nevralgiche, dunque, le funzioni di coordinamento, mutuo adattamento e interdipendenza, denominate beni relazionali. Sviluppo organizzativo: è quella forma di cambiamento per adattamento proattivo, in cui gruppo e individuo assumono un ruolo propulsivo partendo da sé. Se da un lato lo sviluppo organizzativo34 tende a estendere le capacità di flessibilità e di risoluzione di problemi, dall’altro ha anche degli svantaggi: può creare forme di inerzia al cambiamento e di difese organizzative, 33   Per saperne di più su una interessante corrente economica orientata ai “beni relazionali”, al capitale sociale e a un nuovo paradigma di razionalità, si veda Bartolini S. (2010). 34   Si considerano interne all’OD (Organization Development) le ricerche di Kurt Lewin sulle dinamiche di gruppo, quelle di Rensis Likert e la scala di valutazione delle relazioni tra attori organizzativi collocati su diversi livelli di gerarchia, la ricerca-azione di Lewin, White e Hamilton, la qualità dell’ambiente di lavoro (Tavistock Institute), le connessioni tra apprendimento e azione organizzativa (Argyris e Schön).

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alle quali occorre rispondere con la formazione di virtù sociali quali comprensione, aiuto, rispetto degli altri, forza e integrità.

1.7.2 Sintesi di saperi, dalla sociologia Teoria generale dei sistemi: negli anni Quaranta ha avuto inizio la ricerca sugli organismi viventi nel tentativo di definire una nozione globalista di sistema, come ente formato da parti strutturalmente interdipendenti. La teoria ha messo in luce che la relazione fra gli elementi non è di causa-effetto ma di interazione circolare: uno stesso effetto ha infatti svariate cause dinamiche, dalle quali scaturiscono più conseguenze, dette anche retroazione o risposta. Nell’ottica sistemica i concetti prima intesi come separati, si studiano come interagenti e collegati, costituenti un insieme unito, per una vocazione a ricomporre contesti e criticità. Teoria del campo: introduce nello studio della personalità individuale la nozione di campo, in base alla quale l’individuo è considerato come un sistema di interazioni, rappresentabili con vettori, fra il suo mondo interiore e il mondo esterno. Nello studio dei gruppi occorre quindi considerare la complessa intersezione tra individuale e sociale, tra interno ed esterno. La stessa teoria introduce il concetto di dinamica di gruppo: con questa espressione si intende lo scontro e l’incontro di comportamenti interdipendenti che creano effetti amplificati, una sorta di moltiplicazione di azioni e atteggiamenti. Approccio drammaturgico: metodo incentrato sull’analisi dei rituali tipici delle interazioni interpersonali, con particolare attenzione alle espressioni non verbali e al loro valore di metacomunicazione. L’interesse principale di questo approccio è quello di usare la metafora del teatro per spiegare i comportamenti che le persone hanno quando si incontrano, visto che le situazioni sono riconducibili a quelle che avvengono sul palcoscenico. L’opera di Goffman ha sviluppato concetti chiave universali, tra cui le condizioni necessarie per curare le interazioni con l’altro: posture, gestualità, collocazione nello spazio, livello di coinvolgimento, accessibilità all’altro, rispetto della “civile indifferenza”, modi di relazionarsi che evitino attenzioni eccessive o invadenze fastidiose. 70

Dialogismo (Buber, 1959): qui l’accento è posto sulla relazione diadica, volta al riconoscimento di se stessi nell’altro, per un incontro serio e socializzante. Al centro delle ricerche di Buber si trova la categoria del “tra”: quel transito fra due soggetti, che permette di rendere piena ragione del rapporto io-tu, costruendo cioè con l’altro una sfera comune basata sul principio dialogico, sul riconoscimento dell’altro, sull’apertura, sull’ascolto e sull’espressione. Comunicazione-relazioni-emozione (Cheli, 2004): una sintesi efficace composta dal “modello corem”; le tre dimensioni, compresenti e interdipendenti, agiscono in ogni scambio interpersonale. Questo incrocio integrato, olistico, apre su una quarta dimensione: la consapevolezza che ha origine dallo sviluppo personale, ovvero dalla ricerca costante di connessioni tra piani comunicativo-relazionali finora separati e, contemporaneamente, dalla cura dello scambio con l’altro, alla luce di queste nuove unità di azione e di apprendimento.

1.7.3 Sintesi di saperi, dalla psicologia Modello sistemico-relazionale (Bateson, 1976; Watzlawick, 1971): dalla cibernetica Bateson ha sviluppato la concezione relazionale in psicologia. Dopo esser partito dai gruppi tribali, egli ha via via messo a punto metodi per la terapia della famiglia, di cui un meccanismo chiave è il “doppio legame”: un modo di vincolo paralizzante negli scambi genitore-figlio. L’azione di Bateson ha ispirato la Scuola di Palo Alto, di cui Watzlawick è stato il massimo divulgatore per quanto riguarda gli studi sulla comunicazione umana e la famiglia. Qui nasce l’approccio sistemico-relazionale, che presenta cinque assiomi della comunicazione umana: l’impossibilità di non-comunicare; livelli di contenuto e relazione; la punteggiatura degli eventi; componente numerica e analogica; interazione simmetrica e complementare. Psicologia centrata sulla persona: una via umanistica alla psicologia, che prova a considerare la persona non solo nelle valenze patologiche, bensì anche per quelle positive. L’individuo tende per sua natura alla realizzazione delle proprie potenzialità (tendenza attualizzante), tuttavia va curato e facilitato nella sua esplorazione intrapersonale e interpersonale, tramite considera71

zione positiva, autenticità, integrazione, accettazione incondizionata: sono questi i paradigmi di una psicologia non-direttiva che favorisce la libera espressione dell’esperienza da parte del soggetto, con un approccio tutto teso alla creazione di un clima di riconoscimento totale e autentico. Psicodramma: la cura della persona attraverso una rappresentazione scenica, un po’ teatro e un po’ terapia. Dallo psicodramma scaturiscono i metodi centrati sul “gioco di ruolo”, ovvero la rappresentazione simulata di un dato comportamento su cui occorre portare attenzione. Il ruolo è centrale come unità di esperienza interpersonale, sociale e culturale. Da qui scaturiscono il sociodramma, in cui lo stesso lavoro sull’individuo viene indirizzato al gruppo, e la sociometria, una metodologia di indagine dei processi sociali, che evidenziano i fattori di attrazione e rifiuto tra membri di uno stesso gruppo. Intelligenza emotiva (Goleman, 1996): questa branca della psicologia sociale pone un forte limite al quoziente di intelligenza e crea un nuovo spazio al cosiddetto quoziente emotivo, che comprende la capacità di tenere a freno le emozioni, di leggere i sentimenti dell’altro, di gestire senza scosse le relazioni. Andando più nello specifico, intelligenza emotiva è: autoconsapevolezza, saper riconoscere e denominare le emozioni e saperle rappresentare; cogliere i nessi tra pensieri, sentimenti e reazioni; riconoscere i propri punti di forza e di debolezza e considerarli in una luce positiva; autocontrollo, ovvero capire cosa sta dietro a un sentimento e imparare a trattare l’ansia e la collera; capacità di espressione delle emozioni negative; capacità di affrontare lo stress; empatia, e dunque saper comprendere i sentimenti altrui e assumere il loro punto di vista; imparare ad ascoltare e porre domande; riuscire a incontrare l’altro non solo nelle componenti dichiarate e logiche, ma anche nel non detto e nel vissuto.

1.7.4 Sintesi di saperi, dalla neurobiologia Neurobiologia interpersonale (Siegel, 2001; Cozolino, 2008): negli ultimi vent’anni, la ricerca di laboratorio sul nostro cervello ha rivelato una serie di dinamiche sottocorticali, proprie del cervello più antico, che regolano la nostra vita emotiva; in particolare, è emersa l’importanza che hanno l’amigdala (LeDoux), 72

il lobo orbito-frontale (Schore), i lobi frontali (Damasio), l’ippocampo (Kandel), i gangli della base (Edelman) e i neuroni specchio (Rizzolatti). Di qui si comprendono meglio, quindi, i funzionamenti interni della persona, in particolare nella relazione con l’altro. Questi studi propongono in modo efficace correlazioni fra le dinamiche del cervello e le esperienze di relazione, le emozioni. Tre livelli viscerali (Porges, 2014): secondo la “teoria polivagale”, i nuclei viscerali biochimici presenti nella parte bassa del cervello rappresentano una rete neurale che conforma tre sottosistemi autonomi con forti ricadute sulle emozioni, tanto che ogni livello può essere abbinato al funzionamento sociale delle persone. Il primo livello, “impegno sociale”, riguarda quella soglia minima di rispetto e considerazione dell’altro; il secondo livello, “attacco o fuga”, si riferisce ai comportamenti di rabbia, paura o aggressività che tendono ad azzerare lo scambio con l’altro; il terzo livello, “calo passivo”, è infine quello stato psicofisico che genera paralisi emotiva, crollo e perdita di senso e motivazione. Il secondo e terzo livello, secondo Porges, rappresentano strategie primordiali di difesa, memorizzate negli esseri umani a partire dalla trasmissione genetica tra generazioni (filogenesi). Cervello tripartito (MacLean, 1984): questi studi considerano il nostro cervello come un edificio a tre piani. Il primo piano è costituito dal tronco encefalico, il cosiddetto gambo del cervello (considerato il cervello più antico) che coordina funzioni vitali corporee come la respirazione, la circolazione sanguigna e i comportamenti automatici. Il secondo piano, responsabile delle emozioni, è dato dal sistema limbico, detto anche cervello emotivo: composto da tessuti corticali primitivi e già presente nei mammiferi antichi, rappresenta il tentativo della natura di fornire al cervello rettiliano una “cuffia pensante”, per tenere sotto controllo bisogni e istinti legati all’autoconservazione. Il terzo piano è posto nella corteccia cerebrale e compare nei mammiferi evoluti, in particolare nell’essere umano, a cui sono attribuite le attività cognitive superiori, coscienti, i comportamenti volontari, le funzioni simboliche, il linguaggio, i calcoli matematici e le proiezioni nel futuro. Questo piano controlla e coordina i due cervelli sottostanti. 73

1.7.5 Sintesi di saperi, dalla pedagogia Qualità pedagogica e qualità della formazione: la qualità pedagogica è l’insieme delle condizioni utili a produrre uno sviluppo di apprendimento in un gruppo che pone al centro il soggetto che impara in modo personale, secondo una complessa costruzione della sua conoscenza. In tal senso, si calibrano i diversi livelli di apprendimento e si propongono strumenti e metodi validi per facilitare e valorizzare le potenzialità dei partecipanti. La formazione è percorso educativo, il suo obiettivo è l’apprendimento con attivazione, sostegno, consolidamento di nuovi saperi. Cooperative learning (Comoglio, Cardoso, 1996): nato nel mondo della scuola, questo metodo didattico-educativo comprende un insieme di tecniche di conduzione della classe nelle quali i partecipanti lavorano in piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti. Alcuni concetti fondanti: interdipendenza positiva, obiettivi comuni, divisione dei compiti; insegnamento e uso di competenze sociali nell’agire in piccoli gruppi; valutazione individuale e di gruppo, quale momento di verifica dell’azione individuale, anche in riferimento alla latente deresponsabilizzazione e inerzia sociale che agisce nei gruppi. Epistemologia operativa (Fabbri, Munari, 2005): si propone di indagare i legami tra il pensare e l’agire, analizzando gli elementi ai quali l’individuo fa ricorso per costruire i suoi modi di essere. È una strategia di esplorazione attiva dei processi di costruzione della conoscenza, finalizzata in particolare alla presa di coscienza del soggetto intorno ai propri processi cognitivi: dai cambiamenti di azione ai mutamenti di attitudine, dalle sostituzioni di valori ai gradi riflessivi e di incertezza. Apprendimento organizzativo (Costa, Nacamulli, 1997): i membri di un gruppo diventano attori di apprendimento, quando informazioni ed esperienze individuali si tramutano in saperi collettivi dell’organizzazione, secondo un’azione di memoria e codifica di norme, valori, mappe mentali. L’apprendimento è un processo fondato sul fare che implica l’adattamento e la ristrutturazione di routine, che si sono consolidate in risposta allo svolgersi dei fatti concreti. L’apprendimento organizzativo 74

comporta il riorientamento delle convinzioni e delle azioni tramite incontri formali e informali. Educazione degli adulti, andragogia (Knowles, 1997): nella società della conoscenza l’insieme dei processi organizzati dell’educazione ha lo scopo di integrare la formazione iniziale verso i nuovi saperi. In evidenza si trova il concetto di formazione continua, ovvero lungo tutto l’arco della vita. Andragogia significa “guidare uomini maturi”: questo approccio alla scienza della formazione adulta è caratterizzato soprattutto dalla convinzione che gli adulti abbiano interessi e capacità diversi da quelli dei soggetti in età evolutiva e che il percorso educativo debba svolgersi secondo linee centrate sull’esperienza e con modalità non direttive. Ecologia dell’educazione (Morin, 2000): è un affascinante approccio alla complessità e considera come fattori centrali la contraddizione, la pluralità, la complicazione. L’orientamento sistemico di tipo ecologico rivaluta il ruolo delle relazioni e dei rapporti di interscambio tra soggetto e ambiente. Per Morin occorre ecologizzare le discipline tenendo conto di tutto ciò che vi è di contestuale, comprese le condizioni culturali e sociali (fattore ecodisciplinare); occorre che le discipline siano nello stesso tempo aperte e chiuse, sappiano conservare e superare se stesse (fattore metadisciplinare). Il pensiero complesso presenta sette saperi: sistemico, ologrammatico, dell’anello retroattivo, dell’anello ricorsivo, d’autonomia-dipendenza, dialogico, della reintegrazione del soggetto conoscente in ogni processo di conoscenza. Gerarchia dei bisogni e motivazione (Maslow, 1973): prende le mosse dall’omonima teoria secondo la quale le persone sono motivate da un insieme di bisogni governati dal “principio del dinamismo gerarchico”: il livello più basso determina la motivazione e, non appena è soddisfatto, viene sostituito da un bisogno di ordine superiore; il bisogno soddisfatto non genera più motivazione, ma rimane potenzialmente attivo e può riemergere non appena si allenta la sua soddisfazione; la motivazione di un bisogno soddisfatto non si ripresenta per quello stesso bisogno, ma si sposta ad una necessità di livello superiore, secondo piani di priorità. Emblema della teoria di Maslow35 è la cosiddetta   La motivazione è descritta come un processo soggettivo origina-

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“piramide dei bisogni”, che, vista dal basso verso l’alto, identifica: bisogni fisiologici (cibo e riparo); di sicurezza (protezione, appartenenza); di affetto (amore, riconoscimento); di stima (forza, successo, competenza); di autorealizzazione (accettazione di sé, spontaneità, creatività, profondità).

1.8 Un approccio pensato per unire, nonostante le forze che dividono Il senso e la capacità di unire stanno alla base della Facilitazione esperta. Con un serbatoio di nuove competenze sociali – educazione e metodi – possiamo concorrere in maniera importante alla qualità delle relazioni nel gruppo di lavoro, con gli utenti e con gli altri enti che ruotano intorno alla biblioteca. Con l’esercizio dell’unire si connettono ruoli e persone, dalla connessione aumentano i potenziali – forza, energia, coesione, motivazione – e quindi di riflesso i saperi, come fattori favorevoli e ottimali per la soluzione dei problemi. Facilitare vuol dire provare a mettere insieme, ben sapendo che agiscono in ogni contesto e in ogni gruppo tante forze che dividono, perché avvitate in particolarismi, parcellizzazioni, distinguo, interessi specifici, malintesi inevitabili, che ci fanno perdere di vista lo sguardo complessivo. Unire quindi, ma sapendo delle divisioni è l’avamposto concettuale. La maggior parte delle divisioni sono fisiologiche, ovvero indotte e innate. Ovviamente regnano anche divisioni di provenienza intenzionale e speculare. Ma con la Facilitazione esperta proviamo a coltivare senso di interesse, non solo quello autoreferenziale e individuale, ma anche quello interpersonale e situazionale. Quando insegno o facilito un gruppo, ho sempre presente che l’esercizio dell’unire può attirare forti dinieghi e resistenze, può anche provocare confusione e appiattimento, malinteso e proiezioni scorrette. Ma tollerando il dilemma, di solito mi muovo in maniera dialettica e dialogica, evitando mie to dai bisogni, finalizzato a obiettivi, caratterizzato da direzione, livello, persistenza. La motivazione è quindi l’energia che alimenta la dinamica dei comportamenti e delle azioni individuali, la dirige e la orienta verso il conseguimento di finalità generali o specifiche.

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uscite dogmatiche e assolute, curando con buon interesse ogni parere contrario che se è tale ha ragioni plausibili e motivate. E così facendo avverto un abbassamento delle barriere e i primi ponti intersoggettivi. Il lessico dell’unire ci porta a parole chiave quali coro, sinfonia, squadra. Facilitare è unire, non tanto con appelli teorici, spesso moralisti, bensì col supporto centrale di una nuova educazione e di metodi adeguati (competenze facilitatrici), che nel vivo contatto con le forze dissonanti e divaricatrici mettano in campo abilità di supporto e di trasformazione costruttiva.

Anche se facilitare non è facile, possiamo contribuire al capitale facilitatore36 alimentando le basi operative efficaci (educazione e metodi) da azionare nelle divisioni e nei conflitti, scendendo nel basso delle differenze, vicino agli impulsi impliciti e fuorvianti, per risalire verso culture più comuni e solidali. Importante è tenere bene in conto che relazioni e gruppi non sono entità meccaniche e razionali, ma campi di forze complesse, in cui agiscono motori di irrazionalità. Inoltre, il fare (piano primario) porta con sé una ridda di riflessi e aloni, terreno di pascolo di ansie e difese (piano secondario), per una vera e propria vita parallela inafferrabile (Jaques, 1991). Facilitare è ammettere la fragilità, riconoscere le zone di debolezza e vulnerabilità del singolo e del contesto, per costruire condotte sociali e professionali pertinenti, prodotte da nuovi “approcci morbidi” che prevedano umanizzazione, inclusione, apprendimento, potere diffuso.

La Facilitazione come unione di persone e funzioni (De Sario, 2005) può avvenire se di un contesto non si getta nulla, bensì si costruiscono piani integrati con funzione di contenimento, mediazione, trasformazione di criticità. Per fare ciò essa persegue la “logica del due”, ossia il ripristino di insiemi in cui le polarità sono rese complementari, seguendo caratteristiche di connessione, alternanza e dinamicità. Le situazioni di integrazio  Le citazioni che seguono, alcuni principi fondanti provenienti da ricerche e autori, fanno già ora da crogiolo fervido al “capitale facilitatore”, un’area di concetti e valori volti all’integrazione di lavoro e persona. 36

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ne si pongono a cavallo di più cause e molteplici punti di vista, esse promuovono più i nessi che le disparità, lo “stare tra”, in un’ottica di “e-e” invece che “o-o”. Facilitare è connettere e allacciare le cinture di due fattori compresenti (dualità). Le coppie duali di maggior riferimento sono: persona-contesto; individuo-gruppo; compito-relazione; emozione-ragione; corpomente; negativo-positivo; teoria-pratica; modelli-comportamenti; cambiamento-conservazione; maschile-femminile; produzione-manutenzione; cambiamento-resistenza; direzione aziendale-gruppi operativi.

Unire non sempre può essere considerata un’azione positiva, infatti comporta anche problemi quali l’indistinzione, il generalismo, il contagio. Nonostante ciò, nell’unione si liberano forze e volontà: questo vale per la persona, quando aggrega e sintetizza le proprie spinte conflittuali interne, e per i gruppi, che nel fare squadra possono trovare più senso, aiuto, competenza e produttività. Ma conviene considerare l’esercizio dell’unire un passaggio irto di reazioni, incognite, contraddizioni. Facilitare è fare gruppo più agevolmente, per passare da gruppo qualsiasi a gruppo di lavoro grazie alla messa in circolo delle competenze e delle abilità dei membri che lo compongono. L’integrazione parte dalla capacità di ognuno di relazionarsi con l’altro, pur mantenendo modalità personali anche molto differenti. L’integrazione porta con sé il fattore dell’interdipendenza, vale a dire la consapevolezza di ognuno di dipendere dagli altri per il raggiungimento delle finalità del gruppo. Si tratta di una specie di unione basata sulla differenza, dove resta permanente la doppiezza ambivalente, tra bisogno di affermarsi e timore di essere omologati.

La relazione sé-altro e ogni tipo di scambio sociale e professionale risentono di una molteplicità di piani. Secondo il modello ecologico, i fenomeni vanno visti e organizzati secondo una serie di sistemi concentrici, legati tra loro da relazioni e ordinati gerarchicamente. In ogni nostro momento di fatto si innestano uno dentro l’altro gli aspetti soggettivi (sistema persona), le dinamiche comunicative e relazionali (sistema interpersonale), le logiche amministrative e gestionali (sistema aziendale), le ricorrenze culturali e le norme statali ed europee (sistema sociale). 78

Facilitare aumenta la soddisfazione al lavoro, quale stato emotivo che si accompagna al raggiungimento di obiettivi, all’appagamento di un bisogno, al benessere collettivo per le buone prestazioni professionali. La soddisfazione lavorativa si rileva su alcuni versanti chiave: individuale (capacità, impegno, intelligenza); sociale (colleghi, gruppo, divisione dei compiti); culturale (valori e credenze); organizzativo (struttura, procedure, ruoli, management); ambientale (influenze politiche, economiche e sociali).

Ma saremmo sulla strada sbagliata se pensassimo alle relazioni e ai gruppi come a una sequela di fatti positivi, solo perché immaginati. Un punto chiave è l’attitudine arricchita di metodo ad affrontare conflitto, malessere ed errore. La capacità negativa, una nuovissima competenza che si manifesta quando la persona sa sostare e soffermarsi nel disagio e nell’incertezza, accoglie la complessità complicata; un’abilità di riflessione che ci mette nella situazione in cui le polarità sono compresenti, ovvero il negativo e il positivo, le forze disgregatrici e quelle generative di un gruppo di lavoro, inevitabilmente, ciò che va e ciò che non va (Quaglino, 1996). Si tratta perlopiù di non esagerare con le risposte immediate, con le ricette pronte, bensì di attivare la sosta ed esplorazione, tollerando le fasi di stallo e difficoltà. È necessario, quindi, essere riflessivi e desti, tenendo a bada i killer che covano nell’intolleranza e nei pregiudizi. Facilitare è educare alla pluralità, alla negozialità, alla capacità negativa, all’apprendimento costante. Queste abilità, che oggi sono divenute strategiche, toccano due aspetti: in primo luogo la capacità di ri-educarci quando immancabilmente le azioni virano al negativo e c’è bisogno di nuovi saperi e di nuove pratiche; in secondo luogo, l’acquisizione di conoscenze adeguate tramite corsi mirati, durante i quali le nuove competenze possono avere il tempo di insediarsi ed essere metabolizzate. In ogni caso, la facilitazione implica un’educazione al supporto e al collettivo, nella società di oggi ancora solo accennata.

Un’abissale separazione tra corpo e mente – l’errore di Cartesio – è inculcata in noi, che divarichiamo la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente e infinitamente divisibile, dalla stoffa della mente, non misurabile, priva di di79

mensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile (Damasio, 1995). C’è bisogno ora di orientamenti ecologici, olistici, che curino cioè persone e contesti come insiemi uniti, in cui la-mente-è-nel-corpo. Non si tratta pertanto di un mero accostamento (mente-corpo): l’accento è nella preposizione “nel”, come complemento causativo interno e connessione di fattori compenetranti, che si alimentano a vicenda (co-organizzatori). Il principio secondo cui un’entità agisce e si modifica nel sistema più ampio è altrettanto valido per la teoria-nellapratica e per la relazione-nel-compito, che abbiamo già trattato. Il vantaggio è quello di poter condurre scambi forse più confusi ma fortemente più vitali e coinvolgenti. Facilitare la mente e l’azione: la cura di un gruppo non può essere soltanto su di un piano tecnico, ma deve estendersi alla cura delle persone in particolare sotto il profilo delle condotte mentali ed emotive. La facilitazione, per coinvolgere e aiutare in direzione delle mansioni da svolgere, opera da una parte sui fatti concreti del lavoro, dall’altra sulle percezioni, sui modelli mentali, sulla regolazione delle emozioni, sull’emersione dei sentimenti, sulla memoria. In questo modo attiva risposte comportamentali e professionali integrate e quindi più ancorate e vitali.

Con il secondo capitolo entriamo ora nel vivo del modello dalla Facilitazione esperta, il Face-model, codificato nel 2010.37 Si tratta di un dispositivo di sintesi e di applicazione per agevolare lavoro e relazioni nei contesti organizzativi e sociali, qui in particolar modo nelle biblioteche.

  Pino De Sario, Far funzionare i gruppi, Milano, Franco Angeli, 2010. 37

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2. LE QUATTRO “F” DEL BIBLIOTECARIO FACILITATORE

2.1 Le quattro funzioni facilitatrici: il Face-model Nel 1992 fu l’Isfol a varare un repertorio innovativo che individuava le competenze trasversali quali nuove competenze indispensabili per le professioni e il mercato del lavoro. Prima ancora la psicologia le aveva denominate competenze sociali e l’Unesco life skills, competenze per la vita. Avanzamenti più che meritevoli che scandivano il passaggio da un modello economico pesante e accentratore fondato sull’acciaio a un modello smaterializzato fondato sempre più sulle conoscenze. Di quei repertori tuttavia, a me e ai miei colleghi, non convinceva il continuo ricorso ad abilità ottimali, nel senso di solo positive, interamente votate a fare gruppo, assertività, empatia, specchio di ambienti che dovevano diventare solo rispettosi e collaborativi. Non capivamo se era una delle tante sortite estetiche di un mondo solo fissato sul business, che una volta individuato un punto cruciale effettivo – qui era autonomizzare le persone nel mercato del lavoro sempre più incerto e aumentare le loro capacità di convivenza sociale – tendeva tuttavia a darne risposte solo di facciata. Perché non ci tornava che le abilità alla gestione dei conflitti, alle divergenze, alle ingiustizie sui luoghi di lavoro si potessero fronteggiare solo con assertività ed empatia, come quei protocolli di fatto raccomandavano. È lì, intorno al 1999 che ho istituito un gruppo di lavoro per individuare quali altre competenze potessero servire ai gruppi e alle professioni. Con colleghi di vari contesti, di provenienza accademica e non, giocando sul crinale teoria-pratica (sì ai modelli ma sì anche alle esperienze reali), abbiamo così individuato un’intera area di competenze che a nostro avviso occorreva aggiungere e articolare, che rispondeva all’area della gestione della negatività. Per farla breve, ci sembrava che servissero strumenti più mirati per gli operatori (di ogni livello e funzione) perché potessero facilitare la massa di situazioni critiche, dissonanti, oppositive, che i soli richiami a empatia e assertività non riuscivano di fatto ad assolvere. 81

Contenuti della gestione della negatività Inclinazione alla negatività Gestione del conflitto Gestione efficace dell’errore Tre scale di negatività Furbizia egoistica Malinteso e barriere comunicative Critica costruttiva Scorciatoie mentali Zombite Infantilizzazione Meccanismi di difesa Incompetenza emotiva Inerzia sociale

Figura 10 – Un nuovo cluster di conoscenze [De Sario e colleghi, 1999]

È proprio mettendo mano a questo aspetto che in seguito pensammo all’utilità di un repertorio di competenze a nostro avviso più completo (e da lì a un modello esemplificativo), che ne potesse illustrare gli strumenti efficaci in maniera più rispondente alle realtà reali, in modo più sintetico e più applicativo, in vista di un aiuto da offrire alle organizzazioni e alle professioni. Da lì a qualche anno codificammo il modello della Facilitazione esperta (2005), perfezionato poi nel Face-model (2010). Costruendo il Face-model eravamo concentrati su alcune caratteristiche salienti di base che ci impegnammo a inserire. La prima è quella della sintesi: dato che in giro non vedevamo troppe disponibilità ad apprendere queste competenze, eravamo intenzionati a sintetizzarne i saperi, a non rendere il modello troppo prolisso e astratto. Cercavamo gli strumenti essenziali e prioritari che rispondessero a funzioni chiave e fondative di ogni gruppo di lavoro. Un’altra prerogativa essenziale che individuammo era l’applicabilità, volevamo cioè dare un contributo a che la formazione e i modelli potessero contaminarsi calando di 82

più verso il basso delle realtà e delle incoerenze vive che in esse ogni giorno si manifestavano. Cercavamo fonti e stili per rimarcare qualità come il realismo, la concretezza, l’umiltà, la semplicità. Eravamo consapevoli che semplificando potevamo cadere in possibili facili riduzioni, ma era un rischio che ci sentivamo di correre. Nel 2010 il Face-model esordiva come nuovo strumento metodologico per la formazione e per l’organizzazione. Da qui in avanti analizzeremo il Face-model in particolar modo applicato alla professione del bibliotecario.1 Si tratta di un approccio e di uno strumento di sintesi e di applicazione che traduce in termini pratici e operativi i concetti della Facilitazione esperta: conciliare lavoro e persona, coniugare produzione e partecipazione, unire ben sapendo delle forze che dividono. Il Face-model (De Sario, 2005, 2010) presenta come detto due caratteristiche: • sintesi: le conoscenze sottostanti sono complesse e anche collegate tra loro, si tratta di una sorta di semplificazione, come bussola però di una complessità esplorata, da cui poi rinvengono alcuni tratti metodologici preminenti, che possano dotare gli operatori delle basi di lavoro di gruppo, comunicazione, negoziazione, competenza emotiva, gestione delle negatività, motivazione, attivazione; • applicazione: l’aumento più possibile della traduzione operativa e della ricaduta concreta dei metodi suggeriti, sfrondandoli di elementi secondari per un impulso pragmatico e produttivo; ad ogni concetto infatti proviamo a far seguire uno strumento pratico, per esempio al lavoro di gruppo la doppia cornice, alla comunicazione la richiesta parere e io-assertivo, alla gestione delle negatività la parola chiave e direzionale.

2.1.1 Dalle conoscenze alle abilità Le relazioni organizzative col collega e il direttore, gli scambi con l’utente, le comunicazioni con altri portatori di interesse esterni alla biblioteca sono tra le funzioni forse più complesse   Negli anni passati abbiamo operato applicazioni del Face-model al mondo delle aziende (2010), della sanità (2012), della Polizia Locale (2014) e alle professioni dell’insegnante (2011); i riferimenti si possono trovare completi in bibliografia. 1

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che si porgono davanti a tutti noi. Questa alta complessità ha ragione di esistere per via dell’intricato intreccio dei tre piani di soggetto, interazione, contesto. Questi tre piani attivano forze molto diverse tra loro, tra cui quelle temperamentali, emotive, linguistiche, cognitive, via via fino a quelle normative, dei regolamenti, dei piani procedurali e degli stili organizzativi. Immaginiamole tutte compresse dentro uno stesso contenitore. Negli ultimi anni, nonostante la crisi economica in atto, negli stili organizzativi dei paesi avanzati si sta comunque affermando una matrice psicosociologica, che tende a dare centralità ai fattori mentali ed emotivi dei comportamenti. La smaterializzazione dei processi produttivi rinforza il ricorso ad altrettanta capacità intangibile (D’Egidio, 1999). È importante quindi tenere sempre presente la doppia dimensione, della sussistenza organizzativa e della convivenza relazionale, come due fattori che si completano ma anche si divaricano; i due piani sono comunque interconnessi, i processi psicologico-mentali condizionano e vengono condizionati dalle strutture organizzative tipiche dei tempi, delle tecnologie, delle regole e procedure. Dentro una reciproca influenza. Il sistema concettuale e operativo del Face-model si fonda su questa doppia competenza e capacità, quella di agire e quella di relazionarsi. Le sue caratteristiche fondamentali sono: • codificato per i luoghi di lavoro e per reti sociali, con l’intento di colmare il deficit diffuso di incompetenza nella gestione delle relazioni, dei gruppi, della diversità plurale; • finalizzato all’integrazione dei fattori di produzione (asse primario) e di partecipazione (asse secondario); • di supporto alle risorse umane nelle criticità ordinarie di tutti i giorni (conflitti, malessere, errori), che se non gestite producono solitamente comportamenti disfunzionali e con ampie ricadute anche sul versante del lavoro e della prestazione professionale; • mirato alla cultura di gruppo e intergruppo, il pensiero complesso, l’intelligenza collettiva, il benessere e la convivenza organizzativa; • costruito per sviluppare la cultura orientata al collettivo, alla spinta gentile, all’esperienza ottimale, all’empowerment, all’inclusione partecipativa; 84

• dispositivo metodologico, che eleva la facilitazione da semplice termine lessicale2 rispettivamente a premessa educativa, ad approccio concettuale, a strumento tecnicoapplicativo; • allestito su due assi portanti, da cui emergono quattro funzioni per rispettive quattro mappe concettuali, abbinate a strumenti e tecniche specifici.

2.1.1.1 Struttura della facilitazione Il Face-model è stato impostato a partire dal 2005 e codificato nel 2010. Le sue direttrici, produzione e partecipazione, sono ispirate al concetto socio-tecnico3 per cui lavoro e persona sono in un costante e perenne condizionamento e scambio reciproco. I due assi fondano il modello sulla doppia centralità del piano di contenuto operativo e sul piano relazionale. È utile a mio avviso rappresentare le due dimensioni in maniera inter2   Dallo Zingarelli: Facilitare = rendere più facile o agevole, favorire. Facilitazione = agevolazione. Traduzione inglese: Facilitazione = facility; Facilitazione come strumento = facilitating. Etimo: dal latino facere (fare, che si può fare): “facile” entrò in concorrenza, a partire dal sec. XIV, con “agevole”, usato sin dai secoli precedenti. Ma è interessante notare che la parola “facile” porta con sé due significati: uno relativo a “senza fatica, chiaro, semplice, affabile, trattabile” che ne connota il significato maggiore, un altro di area semantica diversa, inerente a “poco serio”. Il termine “facilitazione” è specifico infine a due discipline quali pedagogia e psicologia. Per la pedagogia, si tratta di facilitazione all’apprendimento “qualsiasi fattore capace di favorire nell’allievo il raggiungimento dell’obiettivo didattico”; o ancora, è facilitazione “ciò che è detto e spiegato in modo comprensibile e piano e avviene quando l’educatore intende agevolare la risposta dell’allievo nei confronti di una richiesta o interrogazione”. Per la psicologia è invece “un fenomeno per cui l’azione di uno stimolo è resa più efficace dalla presenza, anteriore o simultanea, di condizioni chiamate facilitanti”; o anche in psicologia sperimentale, si parla di “facilitazione sociale quando la presenza di una persona esterna ha un effetto motivazionale sul rendimento del soggetto alle prese con prestazioni efficaci”. 3   Nel lavoro variabili tecnologiche e variabili sociologiche convergono nell’impresa da due universi distinti e autonomi; il principale problema che si pone è quello di renderli compatibili senza giungere al sistematico sacrificio o alla subordinazione dell’uno a vantaggio dell’altro (Novaga, 1978).

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connessa, una dentro l’altra, la ragione per cui abbiamo optato per una struttura a “X”, che rende conto di una intersecazione dei due assi, quindi dei due livelli. La produzione interferisce sulla partecipazione e viceversa, la partecipazione si intromette sul piano della produzione. Su questo punto vorremmo essere molto più pacificatori, immaginando i tasti produttivi già di loro concilianti con quelli partecipativi, ma non è così. Quando si persegue un risultato, un obiettivo, un budget assegnato, se non ci vengono in soccorso nuova education e metodi, possiamo essere certi che le comunicazioni e le relazioni tendano a saltare. Produzione e partecipazione di loro sono come marito e moglie, che si attraggono ma anche sappiamo quanto poi si respingano. Il Face-model ha quindi una prima architettura basata su due assi: • produzione (lavoro, compito, struttura, decisioni, motivazione, hard); • partecipazione (persone, relazione, processo, riunioni, appartenenza, clima lavorativo, soft).

Figura 11 – Face-model: la struttura

Il modello è stato concepito in modo da costruire il quadro delle abilità chiave alla facilitazione, quelle distintive e irrinunciabili. I due assi di orientamento sono entrambi importanti e le esperienze ci dicono che gradualmente si possono rendere compatibili reciprocamente, curandoli con sequenze alternanti. 86

2.1.1.2 Funzioni della facilitazione Dagli assi emergono le quattro aree del modello, rispettivamente distribuite in senso incrociato. Per l’asse della produzione nel nostro lavoro di sintesi abbiamo assegnato preminenza all’area dell’organizzazione e dell’apprendimento. Per l’asse della partecipazione, invece, le priorità individuate dal nostro gruppo di ricerca sono la comunicazione e le emozioni: • produzione: organizzazione e apprendimento; • partecipazione: comunicazione ed emozione. Dalle aree rinvengono le funzioni (F) a cui si accompagnano le abilità; • coordinare (F1): organizzare il contesto; catalizzare, strutturare; • coinvolgere (F2): connettere e mediare differenze; comunicare, conciliare, unire; • aiutare (F3): trasformare le negatività; integrare emozione e cognizione; • attivare (F4): motivare fatti e conoscenza; apprendere dal/nel lavoro.

ORGANIZZAZIONE

COMUNICAZIONE

EMOZIONE

APPRENDIMENTO

Figura 12 – Face-model: aree di contenuto

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Vediamo ora tre esempi relativi all’utilizzo del Face-model, applicato rispettivamente al lavoro dell’operatore bibliotecario. In ogni evento è conveniente impostare lo scambio (1-coordinare), quindi far seguire i contenuti tramite interazione (2-coinvolgere); all’interno dello scambio di solito si manifestano criticità di varia natura, tensioni, blocchi o anche chiusure immotivate (3-aiutare); dopodiché è necessario cercare la concretizzazione tramite accordi, decisioni, motivazioni e conclusioni (4-attivare). Vediamo gli esempi in tabella. Contesti e funzioni

Applicazioni del Face-model

Front-desk con l’utente

Alla richiesta dell’utente l’operatore precisa se necessario il perimetro di azione: regole, iscrizione, modalità (F1). Al bancone l’operatore sa che una buona professionalità è fondata sul prendere in carico la richiesta di prestito – compito – e anche su una buona accoglienza – relazione (F1). L’utente si rivolge al servizio sbagliato, la risposta dell’operatore evita le negazioni: “non è qui”, oppure “non è la mia funzione”, bensì è fondata sul sì: “le indico quale postazione è quella giusta”, “qui è il prestito, in fondo al salone trova lo spazio ragazzi”. (F1 e F2) L’utente è arrabbiato, l’operatore risponde evitando facili ricette ma cercando di capire cosa succede e qual è un aspetto per lui critico, per contenerlo e provare a trasformarlo (F3).

Riunione coi colleghi

La riunione si dà un tempo di apertura e di chiusura (F1). Nello scambio è incoraggiata la presa di turno di parola, se possibile in forma concisa e breve (F2). La riunione evita i monologhi, le monopolizzazioni e favorisce i cambi di turno e la parola che gira, perché fattore di inclusione già di suo (F2). Nella riunione si formulano buone domande: “chi ha delle proposte o preferenze?” (F2). Qualche collega è critico “intanto non cambia mai nulla”, si ascoltano i diversi pareri, si evita che le affermazioni negative contagino lo scambio, ma gli si dà un buono spazio di ascolto, se infatti si ascolta e si indaga la negatività, abbiamo qualche certezza in più che si riesca a tramutare in proposte; se invece la respingiamo essa si amplifica (F3). Alla fine dello scambio si rimarcano le cose positive fatte: “Bene, abbiamo fatto proprio un buon piano” (F4). Nel caso di riunione difficile, non conviene concludere con enfasi positive, ma stare vicino ai problemi, rilanciando però verso vie di uscita costruttive e possibili passi in avanti: “Oggi non siamo riusciti a coprire tutte le caselle, il gruppo era stanco, ci dobbiamo aggiornare a giovedì, lì il piano deve essere fatto!” (F4).

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Siamo qui presenti in sette associazioni con esigenze diverse: “Facciamo intanto un primo giro inquadrando le due esigenze primarie di ogni gruppo…” (F1). Fare domande, cercare di mettersi nei panni degli altri, evitando la comunicazione egocentrica, in cui si tende a parlare solo di sé e di noi: “Ma voi questo problema, come lo avete gestito?” (F2). Esprimere in alternanza anche il proprio parere: “Noi lo abbiamo risolto così…” (F2). Affermazioni tipiche di cambiamento e criticità: “La Regione ci Incontro con ha tagliato tutti i fondi, rischiamo di scomparire”, sappiamo che associazioni davanti alle situazioni che cambiano i nostri cervelli tendono a drammatizzare, a esagerare, a trovare mostri ovunque (F3). Negli scambi intergruppo si cerca molto di essere riconosciuti come validi e importanti: “Noi da sei mesi non abbiamo più ingresso di nuovi volontari, facciamo come possiamo”, una buona risposta: “Apprezziamo quindi il vostro sforzo a voler far parte della rete di sostegno alla biblioteca”, l’apprezzamento è F1, perché requisito di impostazione dello scambio, ma l’accoglienza di un disagio è invece F3, come ricerca di supporto.

Abbiamo sperimentato molte volte come nelle relazioni e nei gruppi sia cruciale intervenire efficacemente sugli aspetti disfunzionali e critici, evitando di sciorinare teorie e concettualizzazioni che renderebbero l’evento sospeso e senza controllo (F3). Il fuoco della negatività va spento con un unico estintore, quello composto da accoglienza ed esplorazione. Di solito invece in tutti i luoghi e contesti ho notato che si risponde con ricette e forti idealità, risposte tra le più incompetenti che gli attori possano agire. Ritorno sui passi di negatività, perché a mio avviso sono questi quelli che creano le “ferite organizzative”, il pettegolezzo, il non detto, i distanziamenti, il rancore, che se non elaborato – almeno in minima parte – il terreno lavorativo resta sterile e non gli si può far seguire programmi mirabolanti e innovativi, tutti rivolti al progresso della biblioteca e dei suoi operatori, come per esempio – dai passi di biblioteconomia – la cultura del servizio, la cultura organizzativa, la cultura del risultato, la cultura della comunicazione, la cultura della cooperazione, la cultura del cambiamento, la cultura della memoria e della conservazione, la cultura della documentazione e la cultura della qualità (Solimine, 2004). Quanta disparità intercorre tra ottimi obiettivi e certa mediocrità di situazioni giornaliere e di certo capitale umano in 89

gioco, ovunque presente nelle nostre strutture?… È questo un esempio che rende forse meglio il concetto che nei paragrafi precedenti provavo a spiegare, quando affermavo che con il Facemodel cercavamo un assetto più rispondente che potesse coniugare modelli e realtà, visione culturale immaginata e condizioni reali dei processi di comportamento. In tal merito infatti, noto in tutte le organizzazioni un forte gap, come una scissione, in parte anche fisiologica (“ci è più comodo parlare che agire e far seguir i fatti”), ma in parte anche patologica quando i progetti, le pianificazioni, i cambi di culture organizzative sono incentrati su belle teorie modellizzate, calate dall’alto dalle direzioni, spesso senza consultazione e senza rispondenza con le realtà reali dei servizi. L’F3 è la competenza distintiva della Facilitazione esperta, forse la principale novità metodologica, studiata per un grande bisogno. Il passo che compiamo col Face-model è quindi quello di partire primariamente da ciò che c’è, dalla realtà vissuta (F3-aiutare) a cui poi si va ad aggiungere la realtà attesa e immaginata, quella che vorremmo che diventasse. La costruzione della realtà poi vede ogni livello nel suo perimetro specifico, la direzione e i servizi fare il loro gioco, pur tuttavia nell’interazione composta da emissione e ascolto attenti e pendolari (F2-coinvolgere). Contemporaneamente, che sia riunione, desk o reference, occorre coordinare lo scambio, i tempi, le priorità, le mansioni, in una doppia cornice di contesto e di senso (F1-coordinare). Nel Face-model tutto nasce e si sviluppa per accompagnare ruoli, persone e gruppi a nuove azioni efficaci, nuovi accordi e stili lavorativi ottimali, funzioni di cui si occupa in particolar modo la quarta competenza (F4-attivare). Ma ora vediamo il modello completo.

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Figura 13 – Il Face-model completo [De Sario, 2010]

Procediamo verso le abilità professionali di riferimento. F1-Coordinare • Strutturare contenuti, modi e tempi • Ordinare e dare ritmo al lavoro • Favorire un clima costruttivo • Spingere al lavoro di gruppo • Aderire ai fatti e al contesto • Alternare guida direttiva e partecipativa • Gestire efficacemente il tempo • Definire compiti, decisioni, indirizzi produttivi

F2-Coinvolgere • Stimolare un ambiente relazionale franco • Passare la parola, più cambi di turno • Attivare feedback, pareri, punti di vista diversi • Dare più corpo agli scambi, il corpo esperto • Tradurre e connettere i linguaggi • Gestire i conflitti in maniera costruttiva • Favorire negoziazioni e mediazioni • Sollecitare fatti e concretezza

F3-Aiutare • Mettere in conto le negatività • Riconoscere la centralità delle emozioni • Accogliere e contenere le negatività • Agire la capacità negativa • Nel negativo scorgere risorse e opportunità • Creare le condizioni per l’empatia di gruppo • Proteggersi nei casi di negatività alta • Incoraggiare, rinforzare e supportare

F4-Attivare • Aumentare gli apprendimenti di gruppo • Creare ponti tra saperi teorici e azioni pratiche • Fissare programmi fattibili • Concretizzare i piani di azione • Rafforzare impegno, valori, valutazioni • Facilitare processi collettivi e gruppi di pratiche • Stimolare la creatività • Verificare l’avanzamento dei lavori

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Quando stiamo male andiamo dal medico, è assodato. Ma quando sta male una relazione tra operatori, un gruppo di lavoro, un’organizzazione territoriale, quali sono i correttivi e chi li può erogare? E ancora, chi se ne dovrebbe occupare? Un’istituzione pubblica? Un sottogruppo interno? Non è corretto mettere tutto nel calderone dello stress, del mobbing o del bullismo. Da qui si apre un versante di casi molto vasto, che non può far conto su nessun supporto, in cui gli attori tendono a cavarsela da soli, quasi sempre con un aumento significativo di criticità, con evidenti ricadute sulle prestazioni lavorative e sul benessere di quei luoghi. Questi casi si possono inquadrare come microcriticità, negatività ordinaria, conflittualità diffusa, declino naturale della convivenza e ancora molto altro. La domanda è alta ma non riesce ad emergere, anche perché non è delineata l’offerta. Credo che la Facilitazione esperta e l’applicazione del Facemodel possano andare proprio in questa direzione, non solo con interventi di specialisti dall’esterno, ma ancor di più formando queste competenze all’interno delle compagini delle biblioteche, per un uso diretto e locale autonomo. In vista di una cultura delle relazioni rispettose e del buon lavoro, spesso microbarriere e micronegatività4 si frappongo limitando il campo di sviluppo e rallentando all’inverosimile i processi di crescita e innovazione. Il Face-model nasce per curare la realtà del gruppo e dell’organizzazione, perché queste si possano affrancare e divenire soggetti attivi di innovazione e di propagazione di nuove culture plurali e inclusive. Un facilitatore specialista in qualità di agente di cambiamento, in posizione di esterno e “terzo” può, io credo, accelerare questi processi virtuosi, anche di molti mesi, proprio perché porta da subito delle competenze che invece i membri della biblioteca non hanno. E anche nel caso di competenze possedute da dirigente e operatori è molto diffuso il meccanismo di invischiamento, che vige tra soggetti implicati diretti, che produce squalifiche e pregiudizi incrociati. Dinamiche   Stress, demotivazione, conflitto tendono a insorgere non solo per cause eclatanti ed evidenti, ma anche per il classico effetto goccia-a-goccia, prodotto da piccoli episodi in un arco lungo o medio di tempo. 4

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queste che si fanno evidenti anche con il facilitatore “terzo” esterno, ma che proprio con la sua preparazione e competenza può garantire comunque una buona riuscita. E quindi un avanzamento di cultura e di innovazione, che non può avere pari coi tempi della compagine, inevitabilmente come ho già detto, impaludata nelle opposizioni e nelle contese spesso vacue e dal corto respiro. Questa è una tipica dinamica di gruppo che non considero frutto di cattiverie incrociate, bensì di piani prevalentemente fisiologici e inevitabili, tipici di ogni collettivo, alla stregua di avere i brividi o sudare se la temperatura dell’ambiente si abbassa o si alza rapidamente. Tuttavia, senza facilitatori o facilitazione l’innovazione a mio parere tende a saltare, oppure a rallentare, oppure ancora a partorire topolini, ovvero piccolissimi effetti rispetto alle risorse profuse. La ragione essenziale di questo che emerge dai miei vent’anni di studi è perché il corpo sociale e tecnico degli operatori non riesce a saldarsi e a camminare insieme.5 Quindi, lo specialista esterno ha senso, ma non è corretto e giusto affidarsi solo a interventi sporadici e saltuari, è buono anche mettere in campo modalità e metodi in via più stanziale e continua. Allora il direttore può svolgere la facilitazione, il coordinatore di un servizio può aggiungere tra le sue competenze la facilitazione, ogni bibliotecario può seguire un training di base per facilitare sé, i colleghi e gli utenti. Per supportare le parti in conflitto, mediare tra i soggetti in contesa, contenere e trasformare molti comportamenti negativi, agevolare gli apprendimenti.

  Anche se con velocità diverse tra operatori e operatori e tra gruppo e direzione, è fondamentale evitare spaccature e scissioni interne coltivando altresì livelli buoni di coesione, in cui il gruppo resti tutto attaccato e tutto coinvolto nella progressione dei piani lavorativi. Questa è una prerogativa strategica, quasi irrinunciabile per la crescita e l’innovazione. Sugli episodi di esclusione, ho potuto notare, essi tendono a provocare distanziamenti e sottogruppi, oltre che riserve nei confronti di chi comanda. 5

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Face-model, la carta di identità Approccio: Facilitazione esperta (Face). Nome del modello: Face-model. Anno di nascita: 2005 (ruolo facilitatore); 2010 (funzione facilitazione estesa a tutti). Obiettivo: saper curare sia il piano concreto operativo che il piano relazionale emotivo, in simultanea e con reciproche alternanze, per raggiungere condizioni di efficacia, miglioramento, ottimalità; dotarsi di strumenti collaudati per saper unire le parti, nella sfera intrapersonale, interpersonale e organizzativa. Aree di competenza: organizzazione, comunicazione, emozione, apprendimento. Saperi sottostanti: management, sociologia, psicologia, neuroscienze, pedagogia. Competenze chiave: F1-Coordinare, F2-Coinvolgere, F3-Aiutare, F4Attivare. Mappe prioritarie: Binari compito-relazione; Pendolo sé-altro; Capacità negativa; Attivazione dal basso. Congegni: terzietà, regia interazionale, ponte di azione. Dispositivi: formazione, aiuto diretto, consulenza organizzativa, circolo facilitatore, conferenze, processi partecipati. Caratteristiche: supporto pratico nelle criticità e nelle complessità dei contesti di lavoro; metodo per fare gruppo più facilmente; strumento di gestione costruttiva di conflitti, malessere, errori; nuovo approccio strategico per lo sviluppo del benessere organizzativo; competenza che connette modelli organizzativi (dall’alto) e pratiche di gruppo (dal basso); una cassetta di attrezzi studiata per completare gli asset operativi per ruoli manageriali, tecnici, le professioni. Applicazioni: costruzioni di squadre, cambiamenti, nuove culture lavorative, direttività e partecipatività, lean change e diversity, comunicazione interna, fare gruppo, riunioni efficaci, gestione conflitti, negoziazione e mediazione, gestione delle negatività, cura stress e burnout, competenza emotiva, fronteggiamento negatività alte, critica costruttiva, metodi di attivazione, motivazione, piani di azione, benessere organizzativo, gruppi ottimali, integrazione e mindsight, mindufulness; in contesti di riunioni, colloqui, gruppi di lavoro, tavoli intergruppo, forum, focus group, convention, circoli di studio, comunità di pratiche, progettazioni, progetti integrati europei, progetti partecipati. Destinatari: bibliotecari, direttori, coordinatori, membri di associazioni, funzionari di PA, dirigenti, utenti e gruppi di cittadini, assistenti sociali, educatori, insegnanti, ricercatori, amministratori.

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Ora passiamo a delineare una per una le quattro funzioni facilitatrici “F” del Face-model: per ogni area inseriamo le sue parti concettuali, la mappa di riferimento e le tecniche operative da mettere in campo per il biblio-fac.

2.2 F1 - Coordinare, organizzare il contesto (catalizzatore) Abilità: organizzare il contesto, catalizzare, strutturare. Competenze: relative alla pianificazione, al contesto, alle risorse.

Costruzione di contesto, composta da un duplice orientamento che valorizzi il lavoro (il compito) e la persona (la relazione); impostazione efficace di eventi organizzativi, tra cui reference, help-desk, riunioni, catalogazioni e collezioni, 2.0 multimedialità, promozione della lettura, ecc.

Figura 14 – F1-Coordinare

2.2.1 Le abilità di coordinamento Immaginiamo l’operatore6 in un’interazione di prima accoglienza con l’utente. Nelle prime battute è importante impostare   I casi di questi paragrafi sono inventati, ma sono frutto di presentazioni avvenute nei corsi con bibliotecari. 6

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lo scambio in forma concreta (tempistica, focus sulla domanda dell’utente) e curandone l’accoglienza (sguardo, postura, buone parole, ascolto). Dando cioè attenzione sia all’oggetto dello scambio che alla relazione intersoggettiva. E questa è la prima abilità di coordinamento. Intorno intanto qualche utente è rispettoso delle regole, qualcun altro si muove in maniera un po’ frenetica e disturbante. La coordinatrice del servizio tende ad accentrare su di sé molte mansioni e non dà agli operatori segnali di compartecipazione, è chiusa e nessuno la capisce, non si riesce a comprendere se ci sono problemi o se il lavoro funziona. Poi all’improvviso sempre lei fa una sfuriata, dunque si può prevedere che alcune negatività potranno riemergere e qualche barriera comunicativa si potrà ergere e interferire sullo svolgimento del servizio lungo l’intera giornata. Molte teorie affermano che ansia, opposizione e resistenza rappresentano sistemi di difesa che vivono costantemente nei contesti di lavoro, alle prese come è naturale con un compito e un’azione da svolgere. Il bibliotecario facilitatore7 può provare a scoraggiare il cosiddetto anticompito,8 strutturando sia il frontdesk con l’utente, sia il chiarimento con la coordinatrice in maniera concreta ma anche rispettosa, curando sia le tecnicalità operative in questione ma anche prestando attenzione al modo in cui relazionarsi. Il rispetto può avere come buoni ingredienti l’ascolto, l’attenzione, il mettersi nei panni dell’altro, il ridotto egocentrismo, il ridotto pregiudizio, la ridotta presunzione, il non attaccarsi a particolarismi e piccinerie, cercare un punto di contatto se possibile, altrimenti aggiornare lo scambio e il chiarimento in un altro momento, metodo che chiamiamo del “terzo tempo”. Il biblio-fac in definitiva deve pianificare la funzione del fare, dell’agire, ma senza tralasciare i modi di approcciare e relazionarsi. L’abilità di strutturazione e coordinamento nel suo principio di base è riferita al singolo operatore che è proteso a lavorare efficacemente, impiegando le giuste risorse mentali, relazio  Da ora in poi biblio-fac.   L’anticompito è l’insieme dei freni, delle resistenze e dei lamenti che i soggetti mettono tra sé e l’azione da svolgere. 7 8

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nali e agentive. Per i coordinatori di gruppi e servizi è inoltre un’area di abilità ancora più pregnante e necessaria. La stessa capacità di coordinamento vale quindi per microscambi come quelli qui citati, oltre che per funzioni lavorative più articolate e complesse, come la gestione giornaliera della catalogazione, la cura di un programma di conferenze in biblioteca, oppure nella vita interna del gruppo la stesura del piano ferie. Un piano ferie, per esempio, è bene che tenga conto delle condizioni tecniche (turnare le assegnazioni in base all’anno precedente e in base alla copertura dei servizi) e delle condizioni relazionali (le richieste dei diversi colleghi, le necessità rilevate). Infine, dalle nostre esperienze svolte, la strutturazione-coordinamento è una funzione importante nei casi di cambiamenti organizzativi, in cui si modificano ruoli e mansioni, in cui si effettuano spostamenti di persone, si cambiano macchinari, si aprono spazi logistici, si imprimono indirizzi gestionali per ridurre spese o cambiare servizi. Tornando ai due scambi immaginati, con l’utente e con la coordinatrice, può avvenire che la piega che prendono sia di quelle tipiche di molti momenti in cui si opera anche bene, ma con stanchezza, una dose di nervosismo, qualche pensiero di troppo che ronza nella mente, la voglia che qualcun altro finisca il lavoro che invece tocca solo a noi. Questo è uno stato di agitazione e di latente microstress che fa vedere solo aspetti faticosi, impegnativi, dove si amplificano gli aspetti che mancano e le cose sembra che vadano tutte un po’ male. Il biblio-fac non si scoraggia, sa che la negatività è più forte della costruttività e prova a impostare i piccoli scambi in quel lasso di tempo agendo con la “doppia cornice”, un metodo studiato appositamente, che mette in evidenza sia il compito che la relazione, il cosa e il come. Inoltre sa che in tutti gli eventi ci sono cose che vanno e cose che non vanno, che le forze e le debolezze sono come un canto e una danza permanenti, quindi cerca di rilevare cose positive con l’apprezzamento e cose negative con la critica costruttiva. Ecco, la F1-Coordinare sta proprio nella capacità di impostare e delimitare il campo complesso di ogni singolo evento lavorativo, ovvero nell’abilità di trovarle una misura che sia proporzionata ai compiti e alle persone in gioco, al fare concreto e al dosare le intensità di parole e atteggiamenti. 97

2.2.2 La mappa: Binari compito-relazione Il concetto. Esistono due aspetti che in ogni scambio interpersonale e di gruppo si muovono irrinunciabilmente: il contenuto e la relazione (Watzlawick, 1971), ossia gli aspetti per così dire operativi, le cose da fare, i risultati da perseguire e quelli di disposizione, gli atteggiamenti mentali, i modi di pensare-sentire. Queste due diverse influenze, fare e relazionarsi, non sono alternative bensì complementari, contemporanee e se co-costruite aprono le porte della facilitazione del lavoro. Compito (piano tecnico), cosa • Coordinare lavori e compiti • Pianificare turni e funzioni • Mantenere livelli di impegno • Passare informazioni • Risolvere in maniera costante i problemi • Prendere decisioni • Monitorare il lavoro • Guidare, indirizzare, delegare

Relazione (piano sociale), come • Curare e sostenere le persone • Gestire gli scambi nel gruppo • Approfondire modi personali di intendere • Intercettare le modalità mentali • Interagire valorizzando i reciproci pareri • Supportare le persone nelle difficoltà • Umanizzare il contesto • Apprezzare e valorizzare le persone

La cosa importante da tenere presente è che ogni compito tecnico porta con sé una rosa di pensieri e sentimenti, percezioni e proiezioni sottotraccia, sommersi, per cui relazione è scambiare pareri, è fare gruppo, ma ancor di più vuol dire far emergere e focalizzarsi sul modo personale di intendere. Dunque, la relazione non è solo sviluppo di buoni rapporti collaborativi, ma anche la disponibilità a mettere nel conto che di là c’è una persona, coi suoi intendimenti e inclinazioni, da cui deriva il nuovo concetto di professionalità, che è certamente l’agire tecnico finalizzato al fare, ma anche un’agire sociale centrato su modi e forme del rapportarsi coi diversi attori lavorativi, interni ed esterni alla biblioteca. L’orientamento alla relazione possiamo infine sintetizzarlo coi seguenti punti: • la mente, ovvero l’ampio spettro di modalità e di campi del comportamento proprio e altrui, pensieri, emozioni, atteggiamenti, valori; 98

• il modo di parlarsi, quando cioè in una conversazione si qualificano le tipologie su come parlare, esempio: “voglio essere franco con te”, “ti dico questa cosa perché credo che tu la possa capire appieno”, “dobbiamo concludere, non c’è più spazio”, “ancora qualche aggiunta e poi solo proposte”; queste parole su come intendiamo parlare sono dette anche “metacomunicazione”, parlare sul parlare; • i metodi di riunione, specchio di una cultura organizzativa rivolta alla partecipazione, al coinvolgimento dei collaboratori, al bisogno di scambio interno che abbia funzione di consulto e di supporto.

Il funzionamento. Il binario primario del compito è contrassegnato con un quadrato, il binario secondario di relazione è un cerchio. La mappa concettuale illustra che il binario del compito è quello più frequentato, ma che all’occorrenza è consigliabile operare lo scambio di binario virando su quello secondario della relazione. Esempi: Episodio

Compito

Con l’utente

Cerco sul catalogo questo ti- Intanto provi a pensare se la tolo ricerca la soddisfa

Relazione

Con l’utente

Stiamo seguendo la strada Mi ha chiesto volumi di ricergiusta o ci vogliamo pensare che molto diverse tra loro un attimo, signora?

Col collega

Non ce la faccio più con uten- Cosa intendi? Come ti fanno ti così invadenti e sgarbati sentire, prova a spiegare…

Col collega

Ti vedo molto preciso ultima- È una mia impressione o ti mente corrisponde?

O: Rosanna, puoi spiegarmi D i r e t t o r e - D: Con utenti così dobbiamo cosa intendi per cautelarci e a Operatore cautelarci! quali episodi ti riferisci?

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D: Per ingiustizia cosa intendi? D: Un’ingiustizia recentemente accaduta? [questa è una O: Nei turni che ci assegni è Operatoredomanda sul compito, perché una sequela di ingiustizie conDirettore centrata sul “cosa”, ma postinue! siamo dire che è pur sempre relazionale, dal momento che produce uno scambio di pareri]

Direttore in riunione

O-a: Ma non conviene che ne parliamo alla prossima riunione dandoci più tempo? D: Possiamo progredire verso O-b: Cos’è una biblioteca una biblioteca aperta alla co- della comunità [domanda sul munità, di più! compito e contenuto] O-c: Perché non avverti progresso tra noi operatori negli ultimi anni?

La virata sul secondo binario è certamente uno sforzo e un impegno, ma porta con sé un indubbio valore aggiunto dato dal possibile chiarimento, dalla riflessione, dalla conoscenza che si attiva, sia umana, che professionale. E non sono cose da poco.

Figura 15 – Mappa Binari compito-relazione (F1)

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2.2.3 Le tecniche per coordinare • 1. Apprezzamento • 2. Suggerimento • 3. Critica costruttiva • 4. Doppia cornice • 5. Briefing e debriefing • 6. Scongelamento • 7. Metodi di decisione • 8. Cultura del rispetto • 9. Focus sul contributo. 1. Apprezzamento. È uno strumento che è bene che non manchi mai, sia per riscontrare il lavoro svolto dal collega,9 sia per mettere in circolo nel gruppo enzimi positivi, visto che quelli negativi non mancano mai. È da attivare ovviamente quando le azioni vengono svolte bene, quando nell’azione vengono espletate buone capacità, impegno, attenzione, disponibilità, cooperazione. È una forma mirata di rinforzo che ha l’effetto di consolidare le virtù lavorative. Chi lo riceve ne trae benefici e si sente rassicurato, riconosciuto nella sua posizione. Apprezzamento non è gratificazione o encomio (retoriche ritualistiche e spesso formali e finte), bensì è una forma comunicativa genuina, concreta, non cerimoniosa, frequente. E dato che non è prassi diffusa, l’altro potrebbe anche fraintenderla, è quindi conveniente apprezzare offrendo spunti concreti. L’Apprezzamento può essere svolto sia sul fare (per l’azione svolta e il lavoro prodotto) sia sulla persona (per le qualità messe in campo). Nella metafora dei tre pedali di guida di un’auto rappresenta l’acceleratore. Esempi Lessico utile: Apprezzo; Ho notato con piacere; Ho visto positivamente; Bene quello che hai detto all’utente; Grazie delle tue idee; Apprezzo che lo dici; Buona quella tua proposta. (Direttore): Avete fatto un buon lavoro venerdì sul programma di promozione della lettura, dalla bozza risultano buone idee e ben coordinate. (Collega): Sto apprezzando in questi giorni il tuo impegno a gestire meglio gli utenti difficili, in particolare che non reagisci subito ma sei più riflessivo e posato.   Il riscontro è il tangibile riconoscimento del lavoro profuso, è il segnale che è stato registrato, notato, visto; il riconoscimento va ad alimentare per via diretta la motivazione al lavoro. 9

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(In riunione): Voglio fare un apprezzamento a tutto il nostro gruppo per l’impegno costante di questo ultimo periodo, in particolare per come ci siamo mossi con le scuole nelle settimane appena passate, per l’attenzione e la concretezza messi in campo. 2. Suggerimento. Il Suggerimento è un atto comunicativo che si rende utile quando intendiamo correggere e indirizzare l’altro verso nuovi comportamenti. Può essere anche un invito a fare meglio, a rinforzare attitudini e attenzione, a moderare una determinata inclinazione, aumentarne un’altra. È la ricerca di calibrazione, nel correggere una parte di azione o di relazione. Nei tre pedali di guida è il pedale della frizione. Esempi Lessico utile: Per me dobbiamo cambiare qui…; Propongo di fare più attenzione a…; Ti chiedo di…; Suggerisco per la prossima volta…; Una raccomandazione importante...; C’è da correggere i tempi che impieghiamo a... 3. Critica costruttiva. È lo strumento da attivare nel caso di episodi negativi e critici, di azioni mal condotte, di abitudini sfavorevoli che ricadono sui colleghi e sulla struttura. La Critica costruttiva, criticare senza distruggere, ha tre aspetti salienti che la differenziano dalla critica distruttiva. Critica distruttiva

Critica costruttiva

1. Critica generale e assoluta “Sei sempre in ritardo”

1. Critica mirata “Il tuo ritardo di mezz’ora ieri mattina…”

2. Critica sulla persona “Sei il ritardo assoluto e insulso”

2. Critica sul comportamento “Due tuoi ritardi hanno creato disagi al gruppo”

3. Lasciare uno spiraglio aperto 3. Non lasciare nessuno spiraglio “Dobbiamo fare un nuovo patto per “Basta, con te non cambia mai niente!!” eliminare questi tuoi ritardi”

Occorre ricordare che anche la Critica costruttiva è sempre una critica, ovvero agisce in casi di inefficienza e di mancanza, eventi che di solito scatenano routine distruttive ed emozioni 102

negative che hanno la caratteristica della polarizzazione automatica, ovvero scattano cioè senza che ce ne accorgiamo e in forma accentuata ed estrema.10 Il punto efficace è provare a controllare e contenere il fattore di distruttività assoluta che insorge in chi subisce il comportamento problematico, ma anche spesso in chi lo ha prodotto che agisce in maniera difensiva. Bisogna quindi moderarsi e contenersi nel proprio impeto, proprio affidandosi alle parole concrete, che esprimono dei fatti specifici. Nella metafora della guida qui siamo sul pedale del freno. Tre i passi fondamentali della Critica costruttiva: • chiedere il permesso, premessa di preparazione; • mirare la critica, essere precisi nei fatti negativi e anche brevi e concisi; • fare una proposta assertiva per la prossima volta. Esempi (Colleghi): Posso farti una critica?… (permesso), il tuo ritardo di venti minuti di ieri mattina mi ha dato fastidio… (mirare), la prossima volta ti chiedo di avvisarmi per tempo, va bene!? (proposta). (Dirigente): Devo fare una critica al gruppo… (permesso), non possiamo iniziare le riunioni sempre più tardi, le ultime tre sono incominciate alle dieci (mirare), dalla prossima sarà bene iniziare alle 9.15, dobbiamo poi rispettare questo orario! (proposta).

Figura 16 – I tre pedali di una “guida” efficace 10   Sono tutte caratteristiche tipiche del cervello limbico, il cervello basso emotivo che in molti momenti sovrasta e domina il cervello corticale alto razionale. Questo snodo, il basso domina l’alto, è incapsulato perché conformato in ognuno di noi e “filotrasmesso” dai nostri genitori e antenati, per cui è molto radicato e si avvale di funzionamenti molto consolidati e antichi.

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4. Doppia cornice (tecnica di impostazione). Capacità di strutturare un discorso su due piani contemporanei: il contenuto in questione (compito) e il modo in cui si intende parlare (relazione). La Doppia cornice annuncia quindi all’altro sia i contenuti che la modalità comunicativa. Abbiamo sperimentato quanto sia strategica per esempio all’inizio di una riunione, nel cuore di un’interazione al front-desk, in chiusura quando occorre stringere e concretizzare, per rispettare i tempi, per cercare accordi e sintesi. Esempi (Operatore-utente) Lei mi dica il tipo di ricerca che intende effettuare (compito), poi io le faccio qualche domanda (relazione), prego… (Operatore-utente, bisogna concludere, altri aspettano) Bene, sulla storia della cassa di risparmio non abbiamo ancora centrato il focus (compito), visto che ci sono altri che aspettano, limitiamoci ora ad un ultimo punto e io brevemente le fornisco un’ultima istruzione, va bene?11 (relazione). (Direttore in riunione) Bene, abbiamo ancora dieci minuti su questo punto del rapporto da instaurare con gli “Amici della biblioteca” (compito), ora sono ammessi solo interventi brevissimi (relazione). 5. Briefing e debriefing. È lo strumento per impostare un lavoro (ex-ante) e per raccoglierne effetti e sintesi sui suoi sviluppi (ex-post). I briefing sono riunioni lampo, massimo trenta minuti, di solito è bene farle all’inizio della settimana o di una giornata, hanno la funzione di breve riepilogo e ripasso delle cose già concordate, utili per sistematizzare, fare ordine, fare chiarezza, correggere, rimotivare, mirare bene. Il debriefing invece può avere un tempo anche un po’ più ampio, massimo sessanta minuti. È da convocare dopo lavori speciali, dopo situazioni resesi critiche, alla conclusione di programmi impegnativi, di azioni complesse, per riepilogare le for  Il punto di domanda finale è conveniente formularlo quando davanti abbiamo un utente rispettoso e concreto, altrimenti, nei casi di utenti invadenti, molto confusi e presi solo da sé, è meglio chiudere con “limitiamoci ora ad un ultimo punto e io le fornisco un’ultima istruzione… mi dica!”. 11

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ze e le debolezze emerse e metabolizzarne gli apprendimenti e le conoscenze. I punti possibili da seguire: come abbiamo lavorato; episodi specifici di criticità risolta e non; strascichi eventuali nella gestione delle mansioni; i rapporti nel gruppo; cosa abbiamo imparato. 6. Scongelamento. Se al lavoro arriviamo già un po’ nervosi, tesi, e tensione e ansia ci accompagnano lungo l’arco della giornata, lo Scongelamento sta a rappresentare una serie di piccoli accorgimenti atti ad abbassare le soglie tipiche del nervosismo. È infatti un indicatore di clima di lavoro meno contratto, più genuino, per un approccio agli argomenti non ideologico, non severo, non dogmatico (c’è sempre tempo per farsi severi e sanzionatori). È inoltre un buon prerequisito nelle fasi di apprendimento e di cambiamento, nella rigidità infatti si apprende e si cambia molto meno. È la premessa al clima propositivo e costruttivo, al gruppo che si include e partecipa. Alcuni spunti possono essere: • genuinità, imprimere un passo rispettoso, colloquiale, riducendo formalità e freddezza; • apertura, sia mentale che corporea: mimica facciale distesa, occhi rilassati, gestualità morbida, sorriso, respirazione fluente, parole di interessamento; • essenzialità, stare su alcune cose mirate e nei fatti invece che nelle opinioni, evitare frasi scontate e commenti demagogici e ripetitivi; • leggerezza, cercare modi leggeri, evitare la severità,12 incrementare semplicità, umorismo; • attenzione, l’interazione è pacata, socialmente competente, nella prospettiva dialogica; • ruolo di servizio, l’operatore non dimentica che è lì perché chiamato a dare un servizio a persone e struttura, è lì come soggetto pubblico per svolgere un ruolo utile; • dare del tu? È un fattore che volta per volta è bene valutare: se l’operatore avverte che può andare sul “tu” è bene che lo proponga, in forma di permesso; il “tu” è un evi  Sono dell’avviso che all’occorrenza la severità, come poi progressivamente anche eventuali misure sanzionatorie debbano e possano essere contemplate, il punto è la loro modulazione, la severità come linea fissa produce invece reattività o evitamento. 12

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dente riduttore di distanze (vantaggi), al contempo può ingenerare una confidenza prematura (svantaggi); il “lei” è discrezione e posizionamento professionale (vantaggi), ma può risultare anche asettico e asimmetrico (svantaggi). Ricordiamo tuttavia che la perfezione non esiste, e sarà bene mirare a comunicazioni semplici e significative, senza troppi contorsionismi. Questi buoni ingredienti non vanno provati tutti assieme, si può iniziare da uno o due e vedere l’effetto che fanno; su questa direttrice conviene cercare comunque i propri modi che ci fanno stare più comodi e a nostro agio e che avvertiamo siano utili anche a colleghi e utenti. Oppure condividere nel gruppo una base comune da attuare. 7. Metodi di decisione. Il soggetto decisionale (individuo o gruppo che sia) sviluppa più facilmente le competenze decisionali quando è: a) motivato, cioè se è preparato, informato, libero da angosce; b) ha un compito comprensibile e sa anche cosa ci si aspetta da lui; c) può svolgere un ruolo attivo, cioè di partecipare al processo; d) ha la possibilità di sperimentare e sperimentarsi; e) riceve un parere in merito; f) può sviluppare relazioni di fiducia e di relativa stabilità con i co-decisori per poter aumentare la riflessività; g) può trarre piacere dall’attività decisionale (Gherardi, 1994). Si possono individuare sei modalità di raggiungimento della decisione (Tesio, 2004): • per mancanza di risposta, le idee vengono presentate una dietro l’altra senza alcuna discussione; il gruppo ne sceglie una lasciando automaticamente indietro tutte le altre; • per autorità, il leader del gruppo prende una decisione per tutti; tale risultato può essere in presenza o assenza di discussione e permette di risparmiare molto tempo; • della minoranza, una piccola parte del gruppo è capace di influenzare la discussione, riuscendo così a imporre la propria idea; • a maggioranza, è uno fra i metodi più utilizzati; una votazione permette di verificare chi appoggia la decisione; questa forma può creare tuttavia scissioni in coalizioni di vincitori e vinti; 106

• per consenso, il consenso mira alla totalità del gruppo, quando cioè si raggiunge una decisione preferita dalla maggior parte del gruppo e anche la minoranza viene supportata accogliendone alcuni punti di suo gradimento; • all’unanimità, è la condizione ideale in cui tutti i membri del gruppo sono d’accordo con la decisione; evento assai raro e molto difficile da raggiungere. Esempi L’allenamento migliore è cercare decisioni e accordi più consensuali possibile, ma sappiamo anche che non è giusto fissare questa soglia proprio su tutto. Il punto nuovo è dato dalla creazione di una base sufficientemente buona che connoti l’ambiente lavorativo con la franchezza, il rispetto dei ruoli, un gradiente di partecipatività, caratteristiche queste che sono come ossigeno benefico nell’organismo gruppo, quando vengono a mancare gli accordi e si cade inevitabilmente nel conflitto interno. Ma non sempre è possibile e allora la correttezza è quella di saper stare con quello che c’è, in maniera sobria e non ideologica, vicino a fatti, luoghi e persone.13 8. Cultura del rispetto. L’esperienza di ognuno è invisibile, perché complessa, intrecciata, spesso inspiegabile (Laing, 1968). Questa complessità interna di ognuno di noi si contrappone alla facilità giudicante con cui di solito ci contrapponiamo. Quando giudichiamo interpretiamo l’altro tramite il prisma di nostri criteri, valori, sensi, producendo livelli di assolutezza che ci spingono a dire: “tu sei fatto così… te lo dico io”. La Cultura del rispetto attiva invece una forma mentale per cui ogni analisi è parziale, ogni interpretazione è approssimativa, il soggetto è molto più complesso di ogni nostra singola interpretazione o giudizio. Una cosa è quello che si mostra all’esterno (comportamento) e una cosa è quello che vive dentro (l’esperienza).14   Questo è una competenza che nel 2000 mi ha portato a definire gli assiomi della Comunicazione partecipata: 1) a forte interazione; b) vicina a fatti, luoghi, persone, c) con figure e metodi facilitatori. 14   L’esperienza dell’altro è invisibile è un concetto formulato da Ronald Laing, psichiatra e psicoanalista scozzese (1927-1989). Dai suoi testi: “Io vedo le tue azioni, non la tua esperienza intima… tu vedi le mie ma13

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Esempi Nelle riunioni e nelle interazioni di tutti i giorni la trappola dell’interpretazione giudicante è lì in agguato. Ogni utente o collega, dentro la sua esperienza invisibile, ci può sollecitare attrazione o repulsione, questo sì, ma ognuno di loro ha buoni motivi per dire quello che dice o fare quello che fa. Sia come persona che come facilitatore possiamo evitare giudizi facili (o almeno contenerli), evitare o contenere interpretazioni, pettegolezzi, pareri assoluti sull’altro. Sappiamo che queste sono attività mentali che hanno radici profonde nel cervello limbico, quello più antico e che scattano senza che ce ne accorgiamo. Vanno tollerate sì, ma anche fatte evolvere con una migliore educazione della mente. Educare dunque la propria mente a ridurre giudizi e pettegolezzi (interpretare) e aumentare il rispetto, facendo più leva sugli aspetti concreti (osservare e descrivere). 9. Focus sul contributo. Per l’economista Peter Drucker (2002) il Focus sul contributo sta a quel­l’atteggia­mento che porta l’operatore a domandarsi “in che modo posso influire costruttivamente sulle condizioni del nostro lavoro?”. Si tratta di una domanda nuova nella storia delle organizzazioni, tradizionalmente infatti, in contesti gerarchici e autoritari i dipendenti dovevano solo obbedire ed eseguire. Il biblio-fac può sollecitare nei gruppi alcune qualità: • cosa richiede la situazione nello specifico? • come posso dare un mio contributo utile? • quali risultati posso e possiamo perseguire, frutto di una mia riflessione? Focalizzarsi sul contributo vuol dire anche concentrarsi sui risultati prodotti (non solo sugli sforzi profusi); sull’intraprendenza (non sul lamento); sulla responsabilità (non sulla delega). Esempi Questo strumento imprime come uno scatto evolutivo nel gruppo di lavoro, tende cioè a stimolare il passaggio da una nifestazioni, non la mia esperienza interiore”. Per Laing “le nostre esperienze saranno eternamente invisibili agli altri”.

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mentalità arrendevole e passiva verso un atteggiamento proattivo e intraprendente.

2.3 F2 - Coinvolgere, connettere e mediare differenze (mediatore culturale) Abilità: connettere e mediare differenze, comunicare, conciliare, unire. Competenze: relative ai linguaggi, alle differenze, alla negozialità.

Forte interazione inclusiva, frutto di un efficace pendolarismo comunicativo che, nel processo di scambio interpersonale e intergruppo, alla sola prospettiva personale aggiunge la prospettiva dell’altro, per un sistema circolare fondato sul feedback negoziale.

Figura 17 – F2-Coinvolgere

2.3.1 Le abilità di coinvolgimento Siamo in riunione. Scena uno: scoppia il malinteso tra il gruppo del reference e il gruppo del back-office, i due si rivolgono l’uno all’altro con parole pungenti e allusive: “Siete voi a dettare i tempi, vero?”, “Ma cosa dite non è vero!”. Scena due: un collega ha da ridire sugli utenti, c’è sempre qualcosa che loro fanno e che loro dicono che non gli va bene. Scena tre: 109

nell’ultimo mese in riunione si sono prese decisioni che poi nella pratica in biblioteca non si sono mai realizzate, e nessuno ne parla più, è un mistero… Sono solo alcuni dei casi possibili di cattivo funzionamento del lavoro e delle interazioni tra colleghi e col direttore, ai quali la prima medicina è proprio quella della parola. Cosa intendo dire? Ancora una volta possiamo cercare di considerare come le azioni siano impregnate di parole e come viceversa le parole forgino le azioni, concetto già espresso in F1-Coordinare. In questa seconda area di competenze approfondiamo i modi di parola, per cui ci spostiamo molto sul versante relazionale. Se le parole sono ben condotte solitamente approdiamo a buone negoziazioni. Contrariamente, con i non metodi che spesso mettiamo in campo nel lavoro, non possiamo non accedere ad accordi confusi, approssimativi, limitati. Il punto è che negoziazioni e accordi sono direttamente proporzionali agli impieghi economici di tempo lavorativo, di copertura di servizi, di uso di tecnologie, quindi sono connessi a doppia mandata con i piani dei costi e dei budget. Parlare bene = fa ridurre i costi Come a dire, dalle parole al budget c’è una linea diretta e contigua di strettissima connessione, anche se non tutti se ne rendono conto. Fare accordi efficaci porta infatti ad azioni coordinate, perché a monte ci sono persone che si sono consultate, quindi l’impiego di risorse umane ed economiche sarà oculato, efficace ed efficiente. Fare cattivi accordi viceversa, perché congestionati da interferenze, barriere e malintesi comunicativi, è il viatico per errori, dimenticanze, demotivazioni, quindi maggiori dispersioni e maggiori impieghi, maggiori costi. Dobbiamo anche aggiungere che parlare è anche un costo, un costo mentale e un costo organizzativo. A mio avviso, per i lavori condotti in questi anni, è comunque un costo che produce un segno positivo. In ogni gruppo sono tantissimi i motivi dissonanti per i cattivi accordi: una divagazione, un’introversione, un pregiudizio, una delusione ed ecco che salta la trasmissione comunicativa di suo già labile, quella che io chiamo il “ponte sé-altro”. Questa non dovrebbe essere una materia da studiare: 110

infatti il linguaggio, unitamente alla socializzazione, presenta grandi aree di innatismo in ognuno di noi, per cui queste funzioni ci vengono naturali perché scolpite nel nostro cervello e nei nostri nervi. Tuttavia, altri elementi innati quali paura, difesa, disgusto, tristezza e rabbia si frappongono, deformando parole ed erigendo barriere inaspettate. Il biblio-fac accoglie queste premesse sulla centralità di una buona comunicazione e si orienta alle condizioni efficaci per aumentare le capacità di interazione, dialogo e negoziazione, per avvicinare sé all’altro. È il dialogo, infatti, che ci spinge a entrare in contatto con gli assunti impliciti di ciò che si dice, con i processi di pensiero, di emozione e con le esperienze passate. Lo scambio interpersonale è la strada maestra ai significati condivisi e al pensiero comune; non è solo funzionale a negoziare e agire collettivamente, è anche propedeutico perché ricalca attitudini congenite e naturali, di scambio nelle diversità. Per mettere in campo questa abilità facilitatrice occorrono molte capacità, in parte però già apprese nel gioco sociale degli apprendimenti lungo l’arco della vita, in parte da apprendere con nuovi supporti. La comunicazione, la parola sono i nostri archi buoni per condurre l’interazione con l’utente e il collega, rappresentano per un bibliotecario una competenza che dire centrale è dire poco. Qualche idea come primo tratteggio esemplificativo: Ascolto, emissione, brevità, cambio di turno, ritmo, dare la parola, prendere la parola, alternare i turni di parola in modo più frequente e dinamico, capacità interpersonale e umana, immedesimazione nell’altro, comprensione e decentramento sull’altro, autocentro su di sé, rappresentazione del proprio parere, fare domande, assumere un po’ la prospettiva dell’altro e rientrare nella prospettiva personale, aprendosi – dico aprendosi – ai pareri diversi e ai punti di vista altri, negoziazione, mediazione.

Come sintesi ecco una prima equazione utile.

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Con il dialogo si allentano le difese e le resistenze, già risultato molto significativo, rispetto alla condizione comunicativa ordinaria, intrisa appunto di distinguo, timori, riserve e non detti. Il dialogo ha una sua unità di misura specifica, che come per il peso è il chilogrammo e per la lunghezza è il metro, qui è data dal cambio di turno. Infatti, l’interazione si riduce o spesso anche si azzera in presenza di monologhi, turni verbosi, monopolizzazioni, in cui sono sempre gli stessi, pochi, a parlare. La mia constatazione è che più c’è interazione e più il dialogo prende corpo, di conseguenza proporzionalmente prende corpo la connessione sé-altro, da cui dipendono i fenomeni virtuosi sopra accennati del fare accordi buoni per azioni fattive meno costose. Infatti, se il dialogo viene a mancare – ed è diffusissimo, forse più facile che mantenerlo – ecco aumentare i malintesi, gli errori, gli sprechi e le disfunzionalità, piccole e grandi che siano.

2.3.2 La mappa: pendolo sé-altro Il concetto. Ogni scambio interpersonale è passibile di distorsione e malinteso, perché ad ogni messaggio inviato corrisponde un impatto ricevuto, cioè un significato che non può essere il medesimo di quello inviato. Ciò avviene a causa delle differenze interpersonali in gioco e dei fattori di stress, rumore e fatica ai quali siamo sottoposti. È come se ai parlanti (emittente e ricevente) si parasse di fronte un muro di tipo verticale che ha l’effetto di distanza, divisione, occlusione. Quel muro ha ragione di esistere perché lì si annidano tantissime differenze, tra cui: genetica, di personalità, temperamento, cultura, status, ruolo, genere, anagrafe, anzianità nell’ufficio, tipo di contratto, studi effettuati, valori, credenze.

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Figura 18 – La barriera che distorce Fonte: Liss (2004)

A questa cesura verticale occorre contrapporre un segno orizzontale che possa allacciare emittente e ricevente, altrimenti isolati nel loro singolare punto di vista. Così lo abbiamo definito pendolo sé-altro, un’efficace interazione con un movimento orizzontale, transazionale, composto da molta andata-e-ritorno. Alla sola prospettiva personale aggiungiamo la prospettiva dell’altro, per un effetto circolare che produce un sensibile avvicinamento io-tu, un incremento di inclusione e coinvolgimento, una premessa chiave per la negozialità. Pendolare vuole dire rendere mobili i punti di vista, non restare fermi solo sul proprio, ma spostarsi dal proprio verso quello dell’altro, per poi tornare alle proprie idee e convinzioni. Ecco i due centri del pendolo sé-altro: • fare il proprio ruolo, role making: è la posizione di chi parla dal proprio punto di vista, tenendo presenti le proprie ragioni e prerogative, concentrandosi su di sé; • assumere il ruolo dell’altro, role taking: è la posizione di chi si mette nei panni dell’altro, prestando attenzione e facendo domande, prendendo temporaneamente le ragioni, il ruolo e la prospettiva dell’altro, decentrandosi da sé.

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Figura 19 – Punti di vista e interspazio sé-altro

Funzionamento. Tra sé e l’altro intercorrono solitamente differenze: di linguaggio, temperamento, energia, emotività, pregiudizio, status economico, genere, etnia. Le diversità possono attrarre ma anche allontanare. Solitamente sono molto più frequenti i fenomeni di distanziamento dall’altro, di chiusura. La differenza reca con sé barriere potenziali e fisiologiche, automatiche, ma spesso anche intenzionali, volute. Se le risposte a questi ostacoli vengono date con competenza sociale, è possibile contenere le negatività e favorire scambio e accordi; viceversa, dove persiste la discriminazione le trappole comunicative diventano insormontabili luoghi di distorsione, blocchi in cui non possono che proliferare malinteso e conflitto.

Per gestire con efficacia le barriere (“sembra di parlare col muro”), occorrono dunque capacità orizzontali di ponte. È necessario intensificare l’andata-e-ritorno dei messaggi, il cambio di turno, per controllare e accompagnare passo passo i significati, interessarsi all’altro ed essere brevi nelle esposizioni. La maggiore vicinanza interazionale che ne scaturisce diviene così fondamentale per prevenire le barriere, oltre che per fare accordi. In tal senso è importante evitare il monologo, poiché aumenta la distanza, e preferire assidui cambi di turno, che invece avvicinano le parti. Il monologo è una modalità che esclude, il cambio di turno al contrario include. Il pendolo ha due centri: se diamo più importanza all’altro, questo non significa che vogliamo sottostimare noi stessi, quindi 114

sono importanti sia il suo parere che il nostro. L’assidua interazione sé-altro garantisce una maggiore parità nel metodo, pur mantenendo le giuste disparità di contenuto, di cui ognuno è portatore di propri punti di vista e pareri. Il pendolo sé-altro si costruisce su alcuni criteri base, tra cui: • più andata-e-ritorno sull’asse io-tu; • apertura al punto di vista diverso da sé; • un doppio centro, a quello personale si aggiunge la prospettiva dell’altro; • l’alternanza di prospettive è il nostro obiettivo.

Figura 20 – Mappa Pendolo sé-altro (F2)

La forte interazione, l’alternanza dei punti di vista, la brevità e il ritmo, il parlare-e-ascoltare in maniera più serrata sono i punti chiave del cosiddetto pendolarismo comunicativo. Per il biblio-fac il cambio di turno e le due prospettive attive sono gli strumenti che garantiscono interazione dialogica e riduzione di blocchi e malintesi, che continueranno a persistere, ma in forma minore e più occasionale. Nel pendolo la parola è ritmica e cadenzata, mobile e alternata, quindi il malinteso tra colleghi e con utenti, la monopolizzazione di chi parla sempre, la chiusura di chi non parla mai, i mancati accordi, e ancora, la soggezione (tipica delle persone che non si esprimono) e l’invadenza 115

(caratteristica delle persone che si esprimono troppo) possono trovare un’ottima agevolazione. È importante non solo ascoltare l’altro, ma anche dire la propria, affinché si crei un interspazio nel quale i punti di vista si toccano per convergere, e se talora dovessero restare distanti lo scambio è comunque prezioso perché permette la conoscenza delle motivazioni sottostanti.

2.3.3 Le tecniche per coinvolgere • 10. Ascolto buono • 11. Ascolto attivo • 12. Brevità e ritmo • 13. Cambio di turno • 14. Richiesta parere • 15. Rimando • 16. Io-assertivo • 17. Corpo esperto applicato • 18. Feedback negoziale • 19. Chiusa-parola • 20. Mediazione tra le parti. 10. Ascolto buono. L’Ascolto buono consiste nel porre attenzione e rispetto all’altro, quando è in posizione di emittente, e lo possiamo fissare in cinque qualità utili: • lasciare spazio e tempo all’esposizione dell’altro; • evitare di interrompere; • dimostrare attenzione tramite sguardo e postura; • incoraggiare a che aggiunga e si spieghi meglio; • verificare la propria comprensione. Esempi Lasciare spazio all’esposizione dell’altro vuol dire ricezione del significato altrui facendo silenzio. Evitare di interrompere è invece esercitare una forma base di rispetto. Attenzione tramite sguardo e postura attivando uno sguardo vivo e focalizzato, una postura e orientazione frontale (e non di traverso). Incoraggiare ad aggiungere si può fare con inviti “e poi come è andata a finire?”, “prosegui, ti ascolto”, “c’è altro che vuoi dire?” Infine, per verificare la propria comprensione, si può agire il rimando, illustrato più avanti. 11. Ascolto attivo. Alla base dell’Ascolto buono possiamo aggiungere ancora qualcosa in direzione dell’Ascolto attivo, una forma ancora più completa e profonda, per un ascolto amplificato, che tende a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale. Attivo inoltre, per116

ché agito tramite il corpo e non solo sulla base delle parole. È infatti basato non solo sul sentire con le orecchie, ma anche con una sensibilità più diffusa. Sono quattro le capacità distintive: • prestare attenzione all’altro con un’attenzione fisica e psicologica;15 • usare i marcatori vocali, quale comunicazione paraliguistica (mhm, uh, ah); • aggiungere le frasi-invito o apriporte che incoraggino a parlare (“dimmi cosa succede?”, “ti va di parlarne?”, “parla… ti ascolto”); • rispondere in maniera non-giudicante, immedesimandosi, e accogliere il senso del messaggio dell’altro senza giudizio16 (“mi immagino come puoi stare…”, “ti devi sentire proprio giù, vero?”, “continua… non sono qui a fare da giudice”). Esempi Marco: Sono un tipo ansioso, mi preoccupo in continuazione, non ho mai pace! Riccardo: Ansioso dici, hai notato cosa ti dà più ansia? Marco: Non lo so… Riccardo: Eh sì, è difficile dire da dove arriva, ma dimmi di più… (risposta non-giudicante) Marco: Sai cosa mi disturba, è che oggi si lamentano tutti! Riccardo/1: Mhm, mhm… (marcatori vocali). Riccardo/2: E di cosa si lamentano? (frasi-invito). È utile esercitarsi a usare il corpo nell’ascolto, per esempio con le idee qui riportate: guardare negli occhi, come fonte di conoscenza efficace; sporgersi leggermente in avanti con la postura; dare un rinforzo affermativo con cenni del capo su-giù (asse sagittale); chiarire le cose ponendo domande; impegnarsi a non distrarsi e a capire cosa viene detto, nonostante i tanti rumori. Questi punti fanno del nostro ascolto un Ascolto attivo,   Due definizioni. Attenzione fisica: contatto fisico, postura aperta sul­l’altro, faccia-a-faccia, corpo proteso inclinato in avanti, ridurre la distanza fisica. Attenzione psicologica, uso caldo degli occhi nel contatto oculare, raggiungere l’altro immedesimandosi, mettersi nei panni, controllo di sé (non arrossire, non impallidire). 16   O almeno con una soglia ridotta più possibile. 15

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forse più impegnativo, ma assai più stimolante, più vicino alla connessione sé-altro che abbiamo studiato come molto importante nei paragrafi precedenti. Un’altra utilità può essere data dal provare le risposte non-giudicanti, “mi immagino cosa puoi provare”, preferendola alle solite formule impregnate di consigli, ricette, alleggerimenti e sviamenti vari. 12. Brevità e ritmo. L’interazione tra sé e l’altro è composta da sollecitazioni multiple, di tipo verbali, corporee, razionali, inconsce. In questi anni abbiamo studiato quando la presa del turno in una diade o in un gruppo diviene efficace e siamo arrivati a concepire un’interazione come una sequenza fatta da frequenti cambi di turni di parola. Il core metodologico è infatti dato dal concepire comunicazioni il più possibile alternate, poliloghe,17 per un sistema di flussi interattivi tra più canali. Con queste prerogative, gli attori tendono a coinvolgersi molto di più, rispetto a interazioni bloccate su monologhi e turni lunghi. La tecnica della Brevità e ritmo vuole infatti imprimere allo scambio velocità e dinamismo, tramite l’alternanza della presa della parola. Il ritmo dei turni brevi crea inclusione e tende a ridurre le differenze tra i comunicanti, questa buona disposizione contribuisce a creare una sorta di allineamento cognitivo, in cui non si è magari d’accordo nel merito (il contenuto), ma si è d’accordo nel metodo (la presa dei turni). Esempi Occorre sforzarsi a parlare con turni più brevi, asciutti, concisi, andando subito al punto senza troppe premesse; quando la nostra esposizione è corta, stringata e sintetica diviene meglio ricevibile dall’altro, una custodia di accesso, gatekeeping (Doel e Sawdon, 2001), per una voce in capitolo che garantisce l’inclusione. Questo metodo è centrale perché riesce a dare anche ai membri di livello più basso la possibilità di parola. 17   Il monologo studia l’enunciato del singolo in solitudine pur nell’interazione con altri, il dialogo di una diade dove entrambi gli attori sono attivi, il trilogo quando a comunicare sono tre soggetti, il polilogo infine è riferibile all’eterogeneità di emissione e ascolto da parte di un gruppo, ossia da tre persone in su.

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13. Cambio di turno. La presa del turno (turn-taking) corrisponde nello specifico all’alternanza di parola. Più il turno cambia, più alimentiamo il senso di gruppo, il pensiero plurale, il sentimento dell’inclusione, tutti fattori importantissimi Il Cambio di turno tende inoltre ad alimentare un allineamento positivo, per via dei circuiti interni del sistema nervoso che si accendono e si spengono con un ritmo simile e cadenzato. Esempi Da applicare al front-desk con l’utente, nella ricerca a volte tortuosa nel reference, oltre che nei briefing e nelle riunioni di gruppo. 14. Richiesta parere. Per attivare forme dialogiche e pendolari, occorre incrementare le capacità di riscontro, risposta, ritorno, verifica, solitamente identificate con un termine inglese, il feedback. Per feedback infatti si intende quella comunicazione di ritorno che informa il soggetto degli effetti prodotti dal suo comportamento. Esiste un tipo di feedback verbale e uno di tipo non verbale, corporeo, il primo è intenzionale, il secondo automatico e involontario perché attivato senza consapevolezza. L’altra persona rappresenta la fonte primaria che vede, sente, percepisce cose del contesto e di noi, che noi stessi non possiamo registrare. Per questo è strategico raccogliere pareri (punti di vista sulle azioni in corso, la situazione), per il semplice fatto che si allarga l’area di visione e conoscenza. Le forme di feedback sono da considerarsi strategiche, ovvero determinanti per una condotta facilitatrice efficace. Il primo tipo per importanza e quantità è quello di Richiesta parere, l’invito all’altro perché esprima una sua idea e opinione, per una curiosità conoscitiva che produca interesse e attenzione. Esempi Lessico utile: E tu cosa ne pensi in merito?; Hai proposte?; Come è andata l’altro giorno?; Come ti vanno le cose?; Hai suggerimenti in merito?.

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Figura 21 – Centralità di richiesta parere (feedback), fare domande

15. Rimando. Dopo Richiesta parere inseriamo un’altra forma di feedback utile per il biblio-fac. Il Rimando è preziosissimo perché ci mette in grado di verificare se abbiamo compreso il messaggio dell’utente. In genere, spesso ci innervosiamo senza aver colto bene quello che l’altro sta affermando, per cui è cosa buona prima accertarsi e verificare. Col Rimando possiamo accertare il significato di altri punti di vista, dopodiché possiamo far seguire il nostro parere. Si effettua tramite parafrasi e riepilogo sintetico, con proprie parole senza aggiungere niente di diverso del contenuto dell’altro (detto anche rispecchiamento o riformulazione). È da applicare in caso di messaggi complessi e intricati, quando giocano novità, incertezze, ambiguità, confusione, diversità. Da evitare in presenza di messaggi semplici e scontati. Esempi Lessico utile: Comprendo bene che… è così?; Provo a dirti se ho capito… è così?; Tu vuoi dirmi che… giusto?; In altre parole…?; Tu vuoi dire che… giusto?. L’importante è chiudere sempre con un punto di domanda. 16. Io-assertivo. Col Pendolo sé-altro affermiamo la necessità di intensificare l’interazione, preferendo il cambio di turno al monologo, per effettuare con più celerità il passaggio da pro120

spettiva personale a prospettiva dell’altro e viceversa. Abbiamo visto sopra come la richiesta di parere e fare domande sviluppino una buona attenzione all’altro, qui tuttavia come completamento del processo di interazione pendolare è bene affermare quanto sia altrettanto importante l’espressione del punto di vista personale. Lo abbiamo chiamato Io-assertivo, quando cioè esprimiamo le nostre ragioni, nel rispetto del parere dell’altro, in alternanza col suo punto di vista. L’Io-assertivo18 – io penso, io sento, io dico, io posso fare – è frutto di contatto col sé personale, con le proprie ragioni e necessità. Tante volte ci si può quindi trovare nella situazione di comprendere a pieno le ragioni del collega, al pari delle proprie, “hai ragione tu ma mi sento di poter dire che ho ragione anch’io”. Da qui, con buoni turni di parola brevi e concreti, quasi sempre se ne esce con un accordo, altrimenti è bene prendere tempo. L’Io-assertivo non va confuso con positività comunque e a ogni costo, è buona pratica assertiva infatti anche dire no e dire non posso farcela. È tutta una questione di atteggiamento mentale e di modalità comunicativo-relazionale, esempio: • Non posso farcela!!! (viso aggrottato e tono di voce alto), messaggio aggressivo; • Non posso farcela?... (sguardo un po’ incerto, voce bassa), messaggio passivo; • Non posso farcela! (sguardo aperto, voce squillante adeguata al destinatario), messaggio assertivo. Esempi Lessico utile: Io penso che stiamo perdendo troppo tempo; Io sento che la biblioteca su questo sta crescendo; Io propongo; Su questo non sono d’accordo; Personalmente sento che mi serve...; Io ho questa idea e mi interessa il vostro parere in merito. (Io-assertivo di negazione) Colleghi, A: Potresti darmi uno dei tuoi sabati, ho problemi a casa? 18   Ricordiamo che per assertività si intende “rispetto di sé e rispetto dell’altro”, secondo una fisionomia di scambio in cui entrambi i soggetti sono importanti e degni di rispetto. Assertività quindi: io ho ragione e tu hai ragione. Spesso gli scambi slittano su: Aggressività, io ho ragione, tu hai torto; Passività, io ho torto, tu hai ragione.

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B: Mhm, comprendo. Ma ti devo dire che non mi è possibile, ho situazioni critiche a casa che non me lo permettono. (Io-assertivo con l’utente) U: Cercavo “L’amore al tempo del colera” di Garcia Marquez. Il libro non è in biblioteca O/1: Purtroppo il libro è fuori signora (voce tremolante, sguardo basso). O/2: Ah bene, signora il libro al momento è fuori! (sguardo aperto rivolto all’utente). La seconda risposta è di tipo assertiva, mentre la prima è più incerta e quindi parzialmente passiva. 17. Corpo esperto applicato. Un tono di voce affermativo, un contatto di occhi, postura e gestualità, l’uso dello spazio tra parlanti, possono comunicare molto di più di tante parole. In questi anni con i colleghi abbiamo messo a punto19 un sistema di linguaggio esperto a mediazione corporea. Il soggetto, o il facilitatore, può ricorrere intenzionalmente a segni corporei, per dare più carica e più materialità al proprio atto comunicativo. Il Corpo esperto applicato (Cea) sta quindi a rimarcare la valenza di segno fisico, tangibile, materiale con cui si intende facilitare l’interazione, spesso eccessivamente sospesa, immateriale, carica di barriere e criticità. Più vicino al corpo delle parole, perché le parole abbiano di loro, più corpo (De Sario, 2014b). Nella sua parte base il Cea comprende: faccia viva, mimica aperta; marcatori vocali di ascolto; gestualità intenzionale; postura energetica; prossemica dinamica. Interazioni, front-desk, spazio ragazzi, reference, stare molte ore al contatto col pubblico è attività molto impegnativa, che richiede alcuni strumenti di supporto, tra cui il registro Cea, che ci permette di esprimerci, segnalare a distanza, comprendere, proteggerci. Del registro segnaliamo: • faccia viva, mimica aperta, prende spunto dal “sorriso sentito” di Ekman (1989), massimo studioso delle emozioni   In sede di ricerca nel gruppo apposito della Società Italiana di Biosistemica, diretta da Jerome Liss (in anni tra il 1993 e il 2005). Con la Sib nel 1995 facemmo partire il primo corso di formazione per facilitatori, un corso che durava due anni, con le mappe di riferimento, molto lavoro diretto sulle persone e le loro competenze emotivo-relazionali, le esercitazioni pratiche delle tecniche. 19

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raffigurate nei volti umani. Caratteristiche della “faccia viva”: occhi caldi, sopracciglia abbassate (vivo interesse), bocca morbida, gli angoli della bocca sono leggermente in su (pensieri e sentimenti positivi), guance rilasciate, contatto visivo nel gruppo (essere a proprio agio), collo rilassato, piano sagittale leggermente proteso in avanti, accenni col capo (annuire, confermare); marcatori vocali di ascolto, uso efficace di vocalizzazioni, o segregati vocali, che fanno da specchio di ascolto con la frase dell’altro. Esempi: comprensione, ah; incertezza, mah; ascolto attento, mhm; dispiacere, ohh; gestualità intenzionale, uso di gesti regolatori dello scambio di cui il primo è il “vassoio”, che connota apertura all’altro; qui di seguito evidenziamo quattro gestualità utili per le attività in biblioteca;20 postura energetica, le caratteristiche sono: postura aperta all’altezza del torace, ben orientata all’interazione, eretta nel suo asse verticale (della colonna), il tronco è morbido; nella postura seduta, è bene sempre mantenere una forma eretta e non rigida; prossemica dinamica, la prossemica studia l’uso dello spazio e della vicinanza-distanza interpersonale; il facilitatore evita di stare posizionato fisso in un punto, bensì di tanto in tanto cambia posizione spaziale per cambiare punto di vista sul lavoro. Alcuni posizionamenti salienti: frontale, confronto-scontro; affiancato, sostegno; in-mezzo, mediazione tra due parti; in-giro, investigazione.

  Il repertorio GIT (gestualità intenzionale al tavolo) è composto complessivamente da dieci gesti (De Sario, 2014b). 20

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Gesto

Funzione

F o r m u l a z i o n e Componenti non verbale manuali

Dare la parola

Puoi dire Ti ascolto

Vassoio-uno

Ascolto Accoglienza Apertura Disponibilità vs. l’altro

Spada-uno Contenimento Contenere Non ci allarghia- Concretezza Chiudere mo troppo Delimitazione Spingere all’azioNon divaghiamo Tentativo di anne dare all’azione Pinza media Invitare alla conclusione

Stop

C’è poco tempo Puoi concludere

Invito a concludere Invito a dare spazio ad altri

Fermati! Togliere la parola Basta! Espressione imDistanziarsi Stop ad altre pa- perativa Tenere a distanza role! Protezione di sé fisicamente Non ti muovere!

Figura 22 – Repertorio Gestualità intenzionale applicato al bibliotecario Fonte: Società Italiana di Biosistemica [2003] - De Sario [2006].

Figura 23 – Esempio del gesto “vassoio a due mani” Fonte: Bonaiuto, et al. [2003]

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18. Feedback negoziale. Fare accordi efficaci abbiamo già visto quanto sia il requisito che porta ad azioni più efficaci e produttive, perché a monte le persone si sono parlate, si sono consultate. I cattivi accordi sono perlopiù il frutto di incapacità comunicative, bloccate dentro interferenze, barriere e malintesi. Quindi, saper fare buoni accordi è un punto strategico anche per il biblio-fac. Il Feedback negoziale è una tecnica semplice, essenziale, che ha l’obiettivo di diffondere la capacità negoziale a più persone e a più livelli. È il feedback più difficile, perché portato direttamente col soggetto concorrente o litigante. I passi fondamentali sono: • idea grezza di accordo, per tratteggiare i contenuti senza doverli dettagliare; • parere dell’altro, aprire ad altra valutazione e a possibili aggiunte; • definizione, confezionare e definire l’accordo. Si parte dichiarando al­l’altro i punti concreti di un primo abbozzo, che serve da avvio di consultazione, si aggiungono elementi per un orientamento di base, sul quale sarà poi più agibile aggiungere i particolari. È importante immaginare un gioco senza perdenti, ovvero che non lasci sul campo grosse disparità tra le parti. Esempi Il punto interessante del Feedback negoziale è andare al confronto con l’altro, avendo un’idea di indirizzo e non una soluzione chiusa e confezionata, che potrà solo aumentare gli attaccamenti nel proponente e resistenze nel ricevente. L’idea grezza è il punto saliente del metodo, a cui aggiungere la capacità pendolare io-tu. Se i punti di negoziazione non dovessero concretizzarsi si tratta di prendere tempo e aggiornarsi, tenendo in conto gli spunti concreti emersi. 19. Chiusa-parola. Per il biblio-fac si pone il problema non solo di dare la parola (ascoltare, decentrarsi sull’altro), ma anche di togliere la parola, in tutti quei casi che le condizioni operative lo richiedono. Esempio, al front-desk con un utente verboso, esigente e confusionario, oppure sempre con l’utente, quando 125

la ricerca per una persona produce tempi dilatati e gli altri sono lì ad aspettare, o anche in gruppo coi colleghi quando a parlare sono sempre i soliti. A soffrire di “monologhite”si è in tanti, a turno un po’ tutti, anche se poi solo alcuni sono colpiti di più da questa sindrome. È importante quindi provare a contenere questi casi, evitando però di adottare metodi bruschi, che possano urtare il soggetto e spingerlo in una posizione critica o passiva. I punti per togliere la parola efficacemente sono: • invitare a concludere, “fammi dire a me ora”, “ho bisogno di dire la mia!”, “se mi dici tante cose non ti seguo, devo aggiungere io!”, “sentiamo anche il parere degli altri”; • attivarsi, elettrizzarsi, manifestare col corpo un plateale senso di agitazione, perché possa interferire intenzionalmente nella logorrea del parlante; • spingere il soggetto monopolizzatore in modo pressante e affermativo, con un incalzo imperativo, utilizzando sia la gestualità intenzionale,21 sia la parola esortativa “bene!!” (oppure “deve concludere”); qui il tono è squillante, se è il caso occorre anche ripeterlo, “bene!… bene!!”. Esempi (Lessico utile) Bene!!; Andiamo avanti; Ho compreso!; Ora mi faccia dire a me… 20. Mediazione tra le parti. Vediamo ora il biblio-fac in posizione di mediatore, terzo rispetto ai soggetti in diverbio. Può accadere tra due colleghi che entrano in collisione, o anche tra due utenti che si inalberano per un disservizio o per un comportamento negligente prodotto in biblioteca. I passi essenziali del facilitatore sono: • inserirsi tra le parti, attivando una referenza “scusate, posso capire cosa succede?”; • rimarcare i motivi del dissidio, bisogni, interessi, sgarbi,22 evitare invece di fare la morale o cercare di portare le par21   Gestualità intenzionale, vedi la gestualità a “stop”, togliere la parola. Far segno di fermarsi, mano aperta al­l’altezza del busto (non ad altezza viso), il palmo è morbido incurvato, non rigido a paletta. 22   Se vogliamo unire dobbiamo prima dividere, nel senso di evidenziare i problemi visti rispettivamente dalle parti in conflitto.

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ti ad accordo semplicistico, mossa che loro sentiranno come forzosa e finta; qui occorre altresì ascoltare i rispettivi torti ricevuti; far esprimere i vissuti; raccogliere le loro richieste e attese;23 • scorgere i punti di contatto, valutare le opzioni, mettere precedenze, procedere con cautela; • costruire l’accordo, precisando i punti concreti, con il consenso delle parti. Il punto cruciale è aiutare i soggetti ad esprimere, tenendo aperto lo scambio, evitando che la ricerca di accordo diventi un assillo eccessivo. Lo sappiamo, può creare smarrimento tenere aperto e non ancorarsi all’accordo, ma le parti implicitamente chiedono anche di scaricare la loro tensione, non solo di negoziare. Dopo un congruo tempo di indagine aperta si cerca di convogliare la mediazione verso passi concreti e possibili. Punto cruciale per il mediatore lo ripeto è provare a stare nella divisione, non surrogandola con idee teoriche premature.

2.4 F3 - Aiutare, trasformare le negatività (agente di aiuto) Abilità: trasformare le negatività, integrare emozione e cognizione. Competenze: relative alle emozioni, alla relazione, alla “capacità negativa”.

Negatività come risorsa, qualità distintiva dell’accettare momenti di indeterminatezza e di disagio e coglierne le potenzialità di comprensione e di azione, sviluppando abilità di esplorazione vigile, capace di indagare e trasformare contenuti emotivi e operativi.

  Qui occorre prestare attenzione ad ogni falsa percezione che i soggetti proiettano sull’altro; quando si identifica una possibile falsa percezione, chiedere “come ti arriva quello che lui sta dicendo?”, “ti trova d’accordo?” e controllare la centralità nei fatti. 23

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Figura 24 – F3-Aiutare

2.4.1 Le abilità di aiuto Per assistere a episodi di irritazione e malessere non occorre partecipare per forza a una riunione, un po’ in tutti i momenti lavorativi si possono registrare momenti di fastidio, passività, opposizione, chiusura, disfattismo. Immaginiamo che il bibliofac sia il direttore della biblioteca che fa un colloquio con Sandra, un’operatrice del prestito che in quel periodo ha difficoltà a rispondere al telefono, perché fa fatica a fronteggiare la tensione di molti utenti che manifestano critiche e lamenti, in quanto contrari alla chiusura parziale della struttura per manutenzione e lavori di ristrutturazione. O. “Troppe critiche in questo periodo, al telefono è diventata una battaglia… quelle tensioni me le porto anche a casa. Non intendo stare più al centralino, basta!”. La bibliotecaria mostra passività e distacco e chiede di dare il testimone ad altri. Il dirigente evita le due strade scontate: quella del “non ti preoccupare, sono loro nel torto!” e quella del “vuoi cambiare mansione, vero?... vediamo cosa possiamo fare”. Il problema è spesso visto in termini schematici: o tutto o niente, continuare o cambiare. Questo si rivela un errore, perché non si ha ancora un’idea della difficoltà e quindi di conseguenza non si ha nemmeno un barlume utile per apportarvi una soluzione adeguata. 128

La proposta che invece scaturisce dalle nostre ricerche è di indagare il problema e solo poi andare a soluzione. In questo caso converrebbe per esempio sapere qualcosa sui lamenti degli utenti, se ricorre una critica in particolare, quale la frequenza di queste telefonate scomode, il vissuto dell’operatrice, cosa diceva per difendere la biblioteca. Serve insomma sapere qualcosa di più. La F3-Aiutare va in questa direzione: suggerisce di esplorare e indagare il problema e il disagio prima di dare una soluzione. Inoltre, l’operatrice ha accumulato tensione24 e non le bastano quattro frasi qualsiasi per rimettersi in funzione. L’assioma chiave di questa funzione afferma che la negatività è diffusa, è di tutti e molte volte supera di gran lunga la positività, come è già stato illustrato ampiamente nel primo capitolo. Questo è un terreno di sensibile differenza con altri modelli comportamentali, più orientati a ricette e ingiunzioni positive. La Facilitazione esperta dà grande rilievo alle eccellenze da perseguire, ma non tralascia le mediocrità e le miserie che tutti i giorni abbiamo davanti.25 La negatività è quindi un fenomeno complesso, diffuso, che coinvolge il presente e il passato, si accende per vie intenzionali (“non mi va bene il tuo ritardo”) e automatiche (“non me la sento, non so perché…”); come abbiamo già visto, coinvolge tutti (dai dirigenti ai coordinatori agli operatori agli utenti) ed è più che frequente, come nella realtà già tutti sappiamo. E Sandra al centralino? La facilitazione suggerisce che con pochi turni di esplorazione possiamo comprendere il problema e il vissuto per averne un’idea più precisa, per trovare passi di soluzione adeguati: “ho compreso, alla terza telefonata negativa ti autorizzo a passarla alla collega del tuo turno”, oppure “fino a sei,   Le tensioni sul lavoro hanno quasi sempre un concorso multicausale con fattori esterni ambientali che giocano con altri invece personali tipici del periodo che sta attraversando il singolo operatore. Un collega o un dirigente non devono essere di certo medico o psicoterapeuta, ma nemmeno un soggetto solo proteso a trovare soluzioni immediate senza capire prima i problemi sul tappeto. 25   Ci è stato di aiuto, anni fa, tra le tante cose, leggere un passo di Edgar Morin: “Il mondo è un insieme di cose orride e cose meravigliose”. Orrido e meraviglioso sono due parole che, a distanza di anni, sentiamo molto calzanti ai contesti di lavoro e di vita. 24

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sette telefonate in una settimana puoi gestirle, magari cerca di estrarre più che puoi i fatti e prova a smorzare il lamento fine a se stesso”.

2.4.2 La mappa: capacità negativa Il concetto. La negatività è un fenomeno complesso, un cocktail che intreccia indivisibilmente il problema pratico e il disagio emotivo, la situazione e l’emozione, il contesto e la persona. Per negatività intendiamo un insieme diffuso e costante di micro e macro episodi riguardanti rispettivamente problemi, conflitti, malessere ed errori. Il comportamento negativo è frutto di pulsioni naturali profonde, è un vulcano attivo dato da tipologie temperamentali, sono situazioni e contesti difficili e conflittuali.26 Il punto è mettere in conto che l’insieme di episodi critici esiste e quindi adoperarsi in maniera competente per farvi fronte al meglio. Le negatività sono provocate da fattori fisiologici, tipici di persone e gruppi, nel senso che sono eventi naturali del nostro paesaggio umano per una loro origine innata, come del resto ci sono negatività in quantità anche apprese, come ho illustrato nel primo capitolo del volume. Queste stesse negatività sono tuttavia da intendersi anche come risorse potenziali, materie seconde che è possibile rimettere in circolo, sbloccare. È vero anche che la negatività è scomoda e si veste spesso con tratti eccessivi e dolorosi. La negatività è una manifestazione… Non occasionale

Bensì frequente

Non localizzabile

Bensì diffusa a tutti i livelli

Non di un soggetto solo

Bensì ognuno porta la sua specifica

La negatività può essere gestita grazie alla cosiddetta capacità negativa, la qualità che permette di accettare momenti di indeterminatezza, disagio, criticità e di coglierne le potenzialità di apprendimento e azione, sviluppando abilità di esplorazione   I contesti sono già di per sé conflittuali: per divergenza, concorrenza, ostacolamento, aggressione. 26

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vigile, adatta a elaborare contenuti emotivi e operativi. La trasformazione può quindi avvenire se la negatività viene accolta, esplorata, indagata, se ci si sofferma su di essa per delimitarne e contenerne il flusso e passare alle proposte e ai passi costruttivi concreti.

Funzionamento. Al manifestarsi di un problema, anziché cercare ricette affrettate, è consigliabile imboccare la discesa nell’esplorazione, dopodiché far seguire una breve sosta di riflessione, alla quale poi dedicarsi alla risalita verso l’azione. Vediamo più da vicino questi tre passi: • esplorazione (discesa): non perdere le opportunità che offre la negatività, evitare le soluzioni premature; permettere l’espressione negativa (accoglienza) in forma da canalizzare (contenimento); avviare un’indagine pratica degli elementi concreti e sentiti; • sosta (pausa): evitare giudizi affrettati rispettando contenuti e modi della persona; far crescere la propria soglia di comprensione; dedicarsi alla sintesi del problema analizzando i suoi aspetti di contesto (situazione) e di vissuto emotivo (persona); • azione (risalita): orientarsi a soluzioni graduali, progressive passo dopo passo, evitando quelle astratte e perfette; ristrutturare in maniera sostenibile azioni, accordi, nuove abitudini.27 Il rigore del metodo della capacità negativa sta nel fatto che alla discesa segua la risalita. Ho potuto riscontrare a volte che alcuni soggetti sono come attratti a impaludarsi nella negatività o a volerne tornare anche a risalita avviata, io dico invece che come si scende a indagare, così si risale ad agire. È l’insieme dei due movimenti che crea l’efficacia trasformativa, quindi, prima si indaga la negatività e poi si cercano le soluzioni.   Qui è utile che le soluzioni e le strategie da seguire vengano proposte preferibilmente dalle persone in gioco. 27

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Svariati studi ci dicono che quando indaghiamo la negatività e le sue molte implicazioni inconsce e irrazionali (Cozolino, 2008; Siegel, 2001), interveniamo a livello neuronale sulla separazione e isolamento del cervello corticale (ragione) da quello limbico (emotivo), apportando elementi di integrazione riqualificante. Queste possibili integrazioni attivano nei circuiti neuronali della persona l’azione dei neuromodulatori, per un buon contatto relazionale (serotonina), accoglienza e riconoscimento (dopamina), voglia di risolvere (acetilcolina). Questo metodo l’ho applicato in centinaia di episodi reali e ogni volta all’accenno di accoglienza e discesa esplorativa le persone col disagio è come se si quietassero, o meglio trovassero uno spiraglio, come una spalla su cui appoggiare, che poi spesso si traduce in riassettare il comportamento, che permane critico, ma si sfronda dai molti accenti fuorvianti. La cultura diffusa e certe idee di fatua ottimalità a tutti i costi invece ci spingono a inneggiare a continue soluzioni-ricetta, che producono la ribellione del nostro cervello.28 La ricetta viaggia infatti sulla via alta del cervello (corteccia) perché è un’astrazione teorica tipica di quella parte, efficace per pianificare e progettare, meno invece per trasformare le emozioni. Le ricerche ci dicono a chiare lettere che il cervello alto della ragione non ha nessuna possibilità di ristrutturare emozioni e problemi, che hanno la loro sede privilegiata nel cervello basso, dei circuiti sottocorticali e delle loro ramificazioni nel corpo.

Figura 25 – Mappa Capacità negativa (F3)

  Se c’è la ricetta non c’è nessun riconoscimento e ascolto. Il cervello si ribella e libera cortisolo, la chimica dello stress. Il risultato è che la negatività si rinforza: dunque altra opposizione, altra chiusura. Così, sul piano del compito, le persone mostrano discontinuità e incostanza nei risultati; sul piano della relazione, si evidenziano comportamenti spropositati, con sbotti di irritazione, delusione immotivata, piccinerie, cambio di umore frequente. 28

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2.4.3 Le tecniche per aiutare • 21. Parola chiave • 22. Parola direzionale • 23. Passi concreti • 24. Gestione conflitto • 25. Competenza emotiva • 26. Autocritica • 27. Terzo tempo. 21. Parola chiave. Si intende quella parola carica di significato che connota un discorso e rappresenta non solo contenuti verbali ma porzioni più ampie di emozione, significato, impulso. Restituendola al protagonista dentro una frase di accoglienza, si aggancia il vissuto di disagio per esplorarlo e contenerlo in un’indagine pratica. È forse lo strumento più importante per la gestione della negatività, lo strumento adatto per entrare nel problema, prima di occuparsi della soluzione. Qui è la scuola Biosistemica, con le ricerche di Jerome Liss ad avere costruito questo strumento che ogni volta che lo applico mi viene la conferma che è uno strumento efficacissimo e anche molto adattabile alle diverse situazioni di lavoro. Nel ruolo di ascoltatore, quando riprendiamo le parole chiave,29 accendiamo un’efficacia multipla: siamo in ascolto attivo, ci disponiamo nella prospettiva dell’altro, ci immedesimiamo, ancoriamo il nostro ascolto alle parti concrete. Come va utilizzata? Va selezionata e restituita al mittente all’interno di una frase di accogliente ricerca di indagine e comprensione. Per il protagonista la Parola chiave è una parola densa che connota un vissuto complesso, per l’ascoltatore invece è una porta di accesso a un tema sconosciuto. Quando ripetiamo la Parola chiave scatta nel protagonista una connessione di parti interne in cui si collegano le emozioni col linguaggio.30 È molto   In una frase possiamo distinguere due grandi gruppi di parole, le parole semantiche (significanti) e quelle sintattiche (strutturanti). In ogni frase sono una o due le parole che connotano il significato complessivo del discorso, quindi le parole chiave. 30   Questo metodo è tra quelli che integrano i circuiti neurali e le loro manifestazioni, la corteccia cosciente, i centri emozionali del sistema limbico e i più bassi centri vitali (vedi cervello tripartito di MacLean). La ripetizione della Parola chiave risveglia l’area delle associazioni corticali, in tal modo, il sistema limbico emozionale riceve impulsi linguistici razionali, con l’amigdala che viene controllata e contenuta e la corteccia che diviene meno rigida. Risultato: le emozioni vengono accerchiate e contenute e i pensieri si mescolano, risultando meno astratti e freddi. 29

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utile usare la Parola chiave nelle interazioni con colleghi e utenti anche per fare emergere discorsi sommersi, confrontare pareri opposti, passare dal contrasto alla negoziazione. Esempi Oggi non mi sento bene, per la verità mi sento uno straccio! (parola chiave: uno straccio!). Da stamane ho un pensiero ripetitivo “sei un disastro! la tua vita è a pezzi!” (disastro; vita a pezzi). Il nostro servizio fa cose eccelse e cose miserrime (cose eccelse, cose miserrime). Il mio coordinatore non passa giorno che deve andare pesante con tutti (pesante con tutti). Anni fa in una lezione all’università alcuni studenti mi hanno detto “ma prof questo metodo è fare il pappagallo!”, ricordo che c’ero rimasto male; nei giorni seguenti riflettendo mi sono detto “hanno ragione, è vero, è fare il pappagallo, perché no!?” Nella mia riflessione notavo tuttavia che l’effetto-pappagallo scatta di più con una vocalità asettica, quando cioè si intercetta la parola giusta ma non si riproduce col tono della voce una qualche forma di immedesimazione emotiva. 22. Parola direzionale. La Parola direzionale è una frase composta dalla Parola chiave con una delle cinque direzioni di indagine: cosa, come, chi, quando, dove.31 È uno strumento facilitatore perché prova ad agevolare l’altro (supporto) e prova anche a conoscere parti di realtà (apprendimento). In questi ultimi anni vado notando che la direzione più semplice un po’ per tutti è il “cosa”. Infatti il “cosa” è sinonimo di fatti, il “come” di modalità e emozioni, il “chi” di identità, il “quando” è l’unità di tempo, il “dove” l’unità di spazio. La Parola direzionale è efficacissima perché imprime una direzione, un canale di regimazio  Il “perché” è meglio lasciarlo come ultima possibilità, visto che è una domanda motivazionale, che mira ai motivi di quel dato accadimento, quindi di non sempre facile risposta per il protagonista. Il “perché” è poi a mio avviso la somma delle cinque direzioni. Il punto infatti non è sapere tutto subito, ma cercare uno spiraglio presso l’altro, per poter aprire una direzione di indagine; le direzioni richiamano a concretezza e contenimento. 31

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ne alla ricerca dello spiraglio di conoscenza e di contenimento della negatività. Esempi Rosaria: Sono giù…. Marco: Giù… (parola chiave) in quale momento oggi (parola direzionale), ti va di dire? Oppure, Giù, per cosa in questi giorni, casa, lavoro (parola direzionale), ti va di parlarne? Collega-A: Queste riunioni non servono a nulla! Collega-B: A nulla dici… di quella di oggi per esempio? A: Mah… quando abbiamo visto le slide della biblioteca di Roma, ho pensato che sono storie che conosciamo già e non ci servono a nulla. B: Che conosciamo già, per te quali nello specifico? Qui il problema sembra un po’ più delineato, non sono le riunioni in toto che vanno male, ma le slide specifiche, l’ascoltatore può considerare conclusa l’indagine pratica e portarsi sulla risposta “sono d’accordo con te”, oppure “non sono per niente d’accordo con te”. Non è il caso di abbattersi se questo strumento in particolare non viene subito bene, l’apprendimento di capacità e attitudini si misura in archi di tempo larghi, come per un contadino che ha appena messo giù i semi di cavolo, giudicare se la stagione è buona o cattiva è azzardato. Egli dovrà aspettare che la stagione si sviluppi e vada a conclusione, allora gli sarà utile formularne un bilancio. Così per noi e i nostri metodi di facilitazione, proviamo e proviamo senza abbatterci subito. 23. Passi concreti. Dopo l’esplorazione con Parola chiave e Parola direzionale come ho già scritto occorre ritornare sul piano della soluzione, attivando i Passi concreti. Cosa sono? Uscendo dall’esplorazione, come primo orientamento occorre identificare i Passi concreti, quali i fatti possibili, le misure operative da apportare, le azioni da effettuare. Le soluzioni vanno istruite in senso graduale (passo dopo passo) e con la massima specificità e concretezza. Sono da evitare infatti quei salti eccessivi che, dalla problematicità tendono a saltare verso soluzioni perfette, tutte positive, che rischiano fortemente di restare solo sulla carta. Nella risalita il biblio-fac ha tre funzioni da svolgere: 135

concretizzare, negoziare, decidere. A volte può essere necessario anche una quarta, prendere tempo e aggiornare l’interazione e anche i passi di soluzione. I Passi concreti sono parole mirate, calate nel contesto, che seguono questi punti: sono connessi al problema indagato, cercano di mettere insieme i pareri diversi, mettono delle priorità, sono centrati sui fatti, solo fatti. 24. Gestione conflitto. Il conflitto è una risorsa, ma ci fa sempre male, ci scuote, ci provoca scosse e fremiti mentali e fisici, che deformano la realtà, la ingigantiscono. Il conflitto con l’altro è un tremore, una fissità, una nebbia su tutto il resto, un sentimento di rivalsa orgogliosa, tanto altro ancora. Nel conflitto di solito si nega tutto di sé e si cerca di colpire l’altro aumentandone le attribuzioni, secondo uno schema polarizzato di ragione-torto, chiamato anche “attacco-fuga”. Il pensiero cosciente e ragionevole prodotto dal cervello alto corticale è sequestrato dagli impulsi automatici limbici, per cui il pensiero riflessivo è del tutto disattivato. Siamo come sotto il livello del mare. La scommessa è, come salvare il pensiero, come farlo riemergere dalle acque? La ricerca di un’uscita costruttiva dal conflitto è contrastata dalle forze potenti della negatività, una lotta impari in cui la costruttività è debole e di solito senza nessuna presa. Prima di indicare alcune buone misure per provare a cavarsela, possiamo affermare che in caso di conflitto non è facile per nessuno venirne a capo, occorre poi licenziare le idee di perfezione che non reggono alla durezza della realtà. Mettiamo nel conto una soglia accettabile di disagio, un piano tollerabile di cattiveria, un livello plausibile di eccesso distruttivo, ne usciremo umanizzati, più risoluti e resilienti. Alcune idee per aumentare le competenze al conflitto, evento naturale come bere e mangiare, che non potremo mai eliminare: • non soffocare il conflitto ritenendolo inutile negatività, proviamo a starci un po’; • rintracciare il più possibile i fatti, preferendoli alle opinioni; • provare a prendere tempo; • a scontro avvenuto ricordarsi che è possibile riparare (vedi “terzo tempo”). 136

Ricordo che concorrono a ingrossare conflitto e negatività tre componenti interconnesse: a) i fattori neurobiologici innati, detti “funzionali”, che agiscono in tutti noi individui umani; b) i fattori del temperamento, detti “disposizionali”, che agiscono come impronte psicologiche personali; c) i fattori sociali e ambientali, che condensano le forze delle situazioni, dei piccoli tornado di gerarchia, cultura, omologazione. I passi fondamentali da apprendere: • astenersi dalle soluzioni, non dare ricette, permettere invece l’espressione negativa; • esplorare e contenere, arginare (impiego di strumenti adeguati); • sosta nel conflitto e nel disagio; • avanzare verso la ricerca attiva di soluzioni graduali. La cosa più importante è provare a ridurre le risposte automatiche che ci portano solitamente al peggioramento del conflitto: primo, evitando di rispondere in modo simmetrico,32 (l’altro è distruttivo e anch’io divento distruttivo) e secondo, rinunciando a dare ricette facili e soluzioni immediate, sostituendole se possibile con domande e impegno a capire. 25. Competenza emotiva. In questi anni ci siamo accorti che l’intelligenza emotiva, oltre a rappresentare un ottimo obiettivo, rappresenta una soglia alta e impegnativa, quasi specialistica, in cui le persone sono chiamate a troppe capacità tutte insieme: autoconsapevolezza, osservazione di sé, riconoscimento e controllo dei propri sentimenti, contenimento dello stress, empatia, apertura, crescita personale. La direzione, pur essendo stata mirabilmente tracciata da Daniel Goleman (1996), ci suggerisce di effettuare un passo alla volta. Possiamo allora compiere passi che schiudano a capacità più ampie e accontentarci di soglie più piccole ma possibili. Ecco qui alcune idee che vanno in tal senso:   Simmetria vuole dire uguaglianza, che in questo caso è da vedersi come inopportuna, infatti tendiamo a copiare l’altro: se uno mi dice “non sai lavorare” la mia risposta rischia di essere “ma anche tu non sai lavorare”, anzi il ricevente è come risucchiato in un appesantimento, detto escalation, in cui rincara la dose, tipo “ma anche tu non sai lavorare, che vuoi da me, guardati te!”. 32

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• riconoscere i propri sentimenti, quelli buoni e quelli che ci danno fastidio, è un po’ come abbracciarli, non è così automatico, ma almeno l’idea ci può ispirare; • ascoltarsi, creare incontri con amici o conoscenti che stimolino il racconto senza giudizio; • controllare le soglie di stress e di agitazione, che come l’ansia e il disgusto abbiamo sotto la pelle a livello quasi permanente; • calmarsi, prendendo piccole pause nella giornata e brevi momenti di stacco rigenerante; • essere empatici, comprendere le preoccupazioni degli altri e assumere il loro punto di vista; • essere aperti, incoraggiare aperture, cercare di costruire fiducia nei rapporti; • automigliorarsi, partendo con impegno dagli aspetti più difficili e complicati di sé. Il problema della scissione tra ragione ed emotività è universale, ma è innegabile che nella cultura occidentale si sia prodotta una ipertrofia del razionale, ancora più drammatica per noi perché proprio in Europa è stata creata l’ideologia della razionalità, del processo cumulativo, della certezza assoluta, che oggi è entrata in crisi. Possiamo cercare nuove forme di incontro tra razionale ed emotivo, su di un piano sia personale che interpersonale. 26. Autocritica. Sviluppando il pendolo sé-altro, con un ricorrente ricorso alla prospettiva dell’altro, ci può venire più facile pensarci e vederci un po’ come ci vede l’altro: un panorama fortemente diverso rispetto a quello ammirato dal nostro specifico punto di vista. Da qui possono nascere osservazioni in cui magari ci accorgiamo di aver sbagliato, o che l’altro non ha poi così torto. Ecco allora che l’Autocritica è il passo comunicativo successivo, portare cioè alla persona interessata il punto elaborato sulle proprie criticità provocate. Se l’altro, per suoi motivi, volesse esagerare infierendo, sta a noi confermare solo l’oggetto dell’autocritica e lasciar cadere le altre reazioni provocative. L’Autocritica non è una tecnica, o meglio è un po’ tecnica ma è anche scelta personale. Per cui ognuno la agisca quando e se se la sente. Nel frattempo tuttavia, il punto saliente che 138

mi sento di evidenziare è quello davvero di cercare scambi di tipo pendolare, che ci stimolano al “cambio di prospettiva”, non solo quella dell’altro, ma in senso dinamica con la propria secondo la sinfonia “io-tu-io-tu”. È infatti molto sano anche insistere sulla propria idea e non svenderla sull’altare dell’altro, il punto resta quello dell’assertività, ovvero del considerare l’altro importante e degno di ogni rispetto. Ecco, penso che l’Autocritica dentro questo stile relazionale, può scaturire con maggiore fluidità, senza troppi obblighi e forzature. Esempi (Colleghi): Ieri sera ho riflettuto sulla furia provocata nel pomeriggio in saletta e mi sono reso conto di aver esagerato col nervosismo in particolare con te, scusami. (Riunione): Ho riflettuto sulle mie frequenti critiche al gruppo, sono un po’ troppo agitata in questo periodo, a volte è più forte di me. 27. Terzo tempo (strumento di riparazione post-conflitto). È un concetto che riprendiamo dal rugby, dove è tradizione che i giocatori delle due squadre si incontrino nel dopo-gara per socializzare, dopo la durezza del campo ecco seguire un momento di incontro e risocializzazione. Così anche per il conflitto, il Terzo tempo sta a rappresentare il ritorno alla relazione, la ripresa dello scambio interpersonale dopo il blocco che ha chiuso le comunicazioni. Istruzioni per l’uso: • prendere tempo, in un contrasto minore per tornare allo scambio servono magari tre ore, mentre per uno sgarbo più accidioso e distruttivo servono una o due giornate, da valutare volta per volta, il punto è non far passare troppo tempo, perché il tempo può far lenire, ma può anche amplificare le ferite; • ritorno alla comunicazione, più possibile in modo riflessivo, in cui cerchiamo di prenderci le nostre colpe e non insistere troppo su quelle dell’altro;33   A volte con il soggetto che agisce la ricerca di un nuovo ponte comunicativo, si può imbattere nell’altro ancora fermo nella sua ferita e preso solo a distruggere, ecco in questi casi è bene a mio avviso dire cosa abbiamo messo di negativo, ma davanti alle provocazioni dell’altro occor33

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• riparazione, che mira a riformulare un nuovo accordo e una nuova soluzione per i giorni a seguire. Se il conflitto si infiamma è meglio non insistere nel peggiorare, occorre invece operare una netta virata, come col volante quando si scansa all’improvviso un ciclista sul ciglio della strada. In quei momenti la cultura e la presenza cosciente sono le nostre alleate, che se la vedono invece con la natura e le parti automatiche inconsce che ci vivono dentro. Spesso queste seconde prendono il sopravvento. E si diventa cinici, offensivi, pronti solo a distruggere tutto e tutti, ci attacchiamo all’altro, come una nuova preda trovata.34 Occorre quindi far passare l’acqua sotto i ponti, metafora del far rifluire la corrente quotidiana e scegliere più possibile la stoffa della riparazione, a mio avviso tra le migliori esistenti sul mercato.

2.5 F4 - Attivare, apprendere dal/nel lavoro (motivatore) Abilità: apprendere dal/nel lavoro, attivare la crescita, favorire il raggiungimento di risultati. Competenze: relative ai saperi, alla progettazione, all’apprendimento in azione.

Attivazione dal basso di conoscenza e apprendimenti in forma progressiva e costante, centrati sull’esperienza e sui fatti, sul coinvolgimento compartecipe, sulla concretezza; accendere il senso di una azione rinnovata, dal basso, che moltiplichi nuove capacità e nuovi saperi.

re senz’altro chiudere lì lo scambio. “Ti volevo dire solo quello in cui io ieri ho esagerato, ma non sono qui adesso a mettermi a tappetino e subire tutte le tue critiche ancora, ci vediamo!”. 34   Il riferimento è alla nostra storia antica che i nostri antenati ci hanno trasmesso tramite i geni: qui le parole attacco e preda sono davvero annidate dentro di noi e hanno un vissuto molto profondo, alcuni autori dicono che sono nella nostra “cantina” al buio, un po’ dimenticate, ma che sono comunque lì.

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Figura 26 – F4-Attivare

2.5.1 Le abilità di attivazione Il biblio-fac ha l’impegno precipuo di portarsi efficacemente sui piani dell’azione e della motivazione. Una mattina ha una riunione con tre colleghi per un coordinamento di competenze. Dei tre, uno è disfattista (di solito non partecipa alle riunioni, “non servono a nulla”), un’altra è attiva e coinvolta, un terzo è molto competente, rassicurante, ma fa poco squadra, pensa di sapere tutto lui. Nella F4-Attivare poniamo al centro l’operatività, anche facendo leva sulle funzioni precedenti,35 che se applicate creano un terreno favorevole. La quarta funzione è concretizzare, concludere, convergere, pianificare l’azione.

Il punto chiave di attivazione consiste nel diventare operativo in forma più possibile partecipata, seguendo uno stile inclusivo e fondato sulla compagine collettiva. L’attivazione infatti   Le ricordiamo: F1-Coordinare (impostare il lavoro sia sul piano del compito che delle persone); F2-Coinvolgere (dialettica e dialogo tra punti di vista differenti e negozialità); F3-Aiutare (approfondimento esplorativo delle negatività e trasformazione). 35

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non può essere considerata un mero esercizio meccanico (“divido i compiti tra noi quattro operatori”), così a scatola chiusa, un po’ come tagliare una torta a un compleanno. È un processo più complesso, che include il ruolo sì, ma anche il piano comportamentale delle persone (parole, premesse, difficoltà, competizioni). In questa quarta funzione, le emozioni non sono più da esplorare, bensì da spingere verso l’azione, come suggello costruttivo al nuovo compito e alla nuova negoziazione. L’attivazione è una funzione sia materiale-pratica che collettiva-sociale.

Le ricerche del neuroscienziato Gerald Edelman (2007) sul sistema motorio mettono in chiaro che abbiamo bisogno di un modo per agire che solleciti con costanza l’attenzione mentale, per cui l’azione pratica del sistema motorio deve essere collegata direttamente ai sistemi dell’attenzione. Cosa produce attenzione? Alcune funzioni le sono direttamente collegate, dalle metodologie applicate in svariatissimi ambienti, ho potuto verificare che alzano l’attenzione le seguenti forme: • forte interazione, non parlano sempre i soliti, la parola gira e questo crea più elettricità buona; • pareri diversi, con la loro carica divergente sono forti catalizzatori di attenzione; • clima scongelato, non troppo formale tende a vitalizzare e ad andare alla sostanza delle questioni; • uso minimale del corpo, con piccole misure di stretching eventuali;36 • la stessa concretezza dei compiti è un attivatore di attenzione.   L’uso del corpo è un fondamentale integratore della parola, di fatto però riunioni e lavori di gruppo sono solo fondati sulla parola e per di più sul monologo che spegne ogni attenzione e vitalità; l’impiego di piccoli esercizi di defaticamento è necessario ma anche viene vissuto dagli adulti come un tabù. Occorre, quindi, farsi venire idee minimali, piccole, ma che mantengano vivo il concetto parola-corpo: la mente è connessa al corpo, per cui se il corpo è statico lo è anche la mente, se il corpo è attivo si attiva anche la mente. 36

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I quattro colleghi bibliotecari, con alcune semplici misure, possono stare nel lavoro in maniera più presente e motivata (io di solito osservo per esempio le facce e le posture, come si dispongono i corpi sulle sedie e intorno al tavolo, sono già specchio di più o meno motivazione). In quel gruppo si è creato un campo di forze attrattive dove i cervelli tendono ad essere sollecitati intenzionalmente, non solo dal lavoro ma anche dai metodi di lavoro. Se adottiamo alcuni modi di lavorare, le basi neurali e biologiche che ci vivono dentro si mettono in moto in maniera virtuosa; il cervello, la mente e il corpo dei quattro operatori in riunione vengono spinti da processi interni elettrici e chimici, che funzionano in forma di irrigazione a goccia, rilasciando per esempio la dopamina che facilita la conoscenza, la serotonina quando nello scambio c’è un buon clima di rispetto, l’acetilcolina quando in gruppo ci si divide i compiti in maniera negoziale e costruttiva (Edelman, 2007).

2.5.2 La mappa: attivazione dal basso Il concetto. L’attivazione dal basso è un approccio multifattoriale, che nel solco dell’empowerment intende facilitare l’accensione dei potenziali dei membri nel gruppo, non secondo uno stimolo dall’alto dogmatico ma con strumenti motivazionali vicini al contesto e alla persona. Secondo i nostri esperimenti l’attivazione e la motivazione sono costruite su tre piedi: • scambio interpersonale (relazione); • percezione e vissuti della persona (emozione); • pratica operativa (azione). Avvicinare queste tre funzioni può essere un po’ più complesso rispetto al metodo classico del comando-controllo molto più sbrigativo, ma ha il vantaggio di coinvolgere più parti37 delle persone e del gruppo per sostanziare meglio gli accordi e le loro conseguenti divisioni di compiti. Infatti, l’accostamento di fattori diversi (relazione, emozione, azione) tende a provocare la crescita dei livelli di vitalità e di significato perché approfonditi   Per esempio a livello di componenti del cervello, sembra che questo nostro metodo attivi il limbico (emozione), la corteccia cingolata (relazione) e la corteccia frontale (azione). 37

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e perché estesi in senso interpersonale. Più profondità e più legame intersoggettivo rappresentano i punti eccellenti con cui si intende costruire la nuova azione.38 Funzionamento. L’attivazione è un potere agentivo finalizzato all’intraprendenza, all’engagement e alla motivazione, il frutto dei cosiddetti tre motori di relazione, emozione e azione. Vediamo qui di seguito le loro tre caratteristiche: • motore di relazione, riguarda la qualità dell’interazione sé-altro e l’ambiente dinamico nel gruppo, tra cui la coesione, passare da divergenza a convergenza e l’invenzione collettiva, condividere le conoscenze, preferire i punti di contatto e lasciar cadere le differenze; • motore di emozione, vuole dire cura del sentimento di appartenenza (commitment) e di convinzione, tramite l’autoefficacia che fa leva sulle capacità già presenti e il controllo interno, per essere vigili, pronti nel captare, riformulare cose e fatti; • motore di azione, la stretta operatività da pianificare e definire, con l’elaborazione operativa e organizzativa, saper collegare la nuova pianificazione con le conoscenze pregresse, gestire autonomamente la mansione, lavorare con accuratezza e concentrazione.

  Sono diverse le scuole che sviluppano un tale fondamento, ossia, di dare vita a relazioni attente, avvicinarsi con cautela ai vissuti, favorire azioni cariche di senso (Weick, 1997). Uno spunto importante proviene tuttavia dagli studi di David Kolb (1984) che di ogni conoscenza ha posto al centro l’esperienza (azione), a cui, secondo la cosiddetta “ruota dell’apprendimento” da lui creata, è bene che segua la riflessione (pensare e parlarsi nel gruppo), per strutturare una teoria che prepara i soggetti all’azione rinnovata. I metodi invece convenzionali partono dalla teoria (l’azione calata dall’alto) e spingono solo all’azione, senza nessuna mediazione e integrazione. 38

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Figura 27 – Mappa Attivazione dal basso (F4)

2.5.3 Le tecniche per attivare • 28. Griglia di azione • 29. Griglie di avanzamento • 30. Interrogarsi • 31. Riunioni efficaci, concrete e partecipate • 32. Riunione di rimotivazione • 33. Vitalità e bioenergia • 34. Resilienza • 35. Fari spenti • 36. Conduzione generativa. 28. Griglia di azione. Ogni buon processo lavorativo va concluso con un piano di azione. Possiamo fissare i quattro punti da concretizzare: cosa facciamo; come lo facciamo; chi è l’esecutore; in quali tempi. Una griglia semplice, che può essere tacita, oppure messa sul computer o sulla lavagna a fogli. Cosa Contenuti Mansioni Obiettivi

Come Mezzi pratici Metodi e stili di lavoro Atteggiamenti

Chi Referenti Ruoli Squadre

Quando Tempi Fasi e step Scadenze

Figura 28 – Griglia di azione

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29. Griglie di avanzamento. Per monitorare l’avanzamento del lavoro ci possono essere utili le Griglie di avanzamento, due in particolare: • griglia di monitoraggio, quattro finestre che interrogano il gruppo sullo stato dell’arte: si fa già bene, da cominciare, si fa e si può migliorare, da non far più; • griglia swot, acronimo di quattro termini inglesi: punti di forza, punti di debolezza, opportunità, rischi. Specialmente la Griglia di monitoraggio si presta per verifiche periodiche. Si può utilizzare come modello mentale, o anche ponendola visualmente su un cartellone o su un pc e richiedere ai colleghi di aggiungere dati e osservazioni. Monitoraggio Si fa già bene

Da cominciare

Si fa e si può migliorare

Da non fare più

Swot Punti di forza

Punti di debolezza

Opportunità

Rischi

Figura 29 – Griglie di avanzamento

30. Interrogarsi. Abbiamo visto quanto sia importante formulare domande all’altro, per sviluppare attenzione e conoscenza, questa pratica è altrettanto utile anche rispetto a sé e al gruppo. Nel vivo del lavoro, o a volte è meglio a lavoro svolto, è efficace farsi domande, aumentando la capacità riflessiva, perché zona più fertile per poter apportare correzioni e cambiamenti. Di solito frequentiamo i registri dell’indicativo (“è così”) e dell’imperativo (“si deve!”, “muoviti!”) e rimaniamo indietro con quello dell’interrogativo, dell’incertezza e del dubbio. Quindi, farsi domande riflessive è un modo utile per coltivare sé e contenere le trappole della presunzione. Qui l’impegno è a non avere sempre la risposta pronta, a non voler avere sempre ragione, a non attribuire sempre gli errori solo agli altri. 146

31. Riunioni efficaci, concrete e partecipate. Passare da riunioni dispersive e inconcludenti a riunioni più concrete e inclusive non è facile. Nel 2008 ho effettuato una ricerca sulle riunioni che mi ha portato a elaborare un modello per le riunioni concrete partecipate (De Sario, 2008). Già nelle esperienze svolte sul campo notavo che le riunioni inconcludenti avevano alcune ricorrenze: • turni di parola disorganizzati: accavallati, lunghi, astratti e sospesi; • ragionamenti fumosi e dalla scarsa ricaduta pratica; • nessun riguardo di metodo alla fase finale della riunione, che di solito è campo aperto a troppe disquisizioni, dispersioni e distinguo. Anche l’altra caratteristica distintiva negativa, la poca partecipazione dei presenti, nelle mie osservazioni ho potuto notare alcune ricorrenze classiche, tra cui: • monologhi e monopolizzazioni; • incoraggiamento assente a chi è introverso, inibito a parlare in pubblico, non incline a parlare; • scambio incagliato su aspetti non centrali e spesso secondari, che coinvolgono solo una parte del gruppo. Il metodo che coi colleghi ho messo a punto ha una novità principale, ossia l’individuazione di tre fasi sequenziali, ognuna in linea con avvio, sviluppo e conclusione, dove già i manuali ponevano l’attenzione. Ma la diversità studiata è che in ogni fase, per garantire l’articolazione dei contenuti ma anche una loro degna sintesi e concretizzazione, servono modalità e ritmi diversi da fase a fase: • fase espressiva, avvio, accendere lo scambio, includere; • fase regolativa, sviluppo, canalizzare le dispute e le differenze, facilitare; • fase performativa, conclusione, agire verso le azioni, concretizzare, concludere. La fase espressiva (circa 15 minuti): avviare l’interazione creando partecipazione; fase di scongelamento, accoglienza delle differenze, contenimento di atteggiamenti giudicanti; centratu147

ra sulle persone; l’obiettivo è il coinvolgimento inclusivo. Ritmo lento, turni di parola brevi, sono ammesse eventuali divagazioni. La fase regolativa (circa 60 minuti): ordinare e contenere i flussi del­l’interazione; cre­are precedenze tematiche e confini fermi alla discussione; fase della regolazione di turni e contenuti; centratura sul compito; fase di sviluppo dei contenuti rispetto all’obiettivo generale. Ritmo accelerato, turni di parola medi e argomentati, ancorati sui contenuti sul tavolo. La fase performativa (circa 15 minuti finali): curare i punti conclusivi in maniera pratica e ope­rativa; fase delle proposte, delle possibili decisioni e soluzioni, della distribuzione dei compiti; centratura sul risultato; l’obiettivo è l’approdo a conclusioni concrete e operative. Fase di conclusione e di aggiornamento del piano di lavoro. Ritmo veloce, turni telegrafici e lapidari. Per facilitare la riunione il punto cruciale è dato dal variare il ritmo dello scambio (lento, accelerato, veloce) e le modalità specifiche dei turni di parola (brevi, argomentati-ancorati, telegrafici). Questi due punti compongono il dispositivo che permette alla riunione di serrare i ranghi, filtrando la massa delle diversità e passando da una disposizione aperta consultiva ad una chiusa: vedi modello dell’imbuto (figura 30). Nell’alternanza delle tre fasi si susseguono tre dimensioni e tre modalità di conduzione differenti ma conseguenziali.

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Figura 30 – La Riunione a sequenza Fonte: De Sario [2008]

Fase

Focus

Funzione

Algoritmo

Dinamica

Sequenza

Persona

Accendere/ includere

Sommare + + sì

Ritmo lento Turni brevi

Apertura

Regolativa

Compito

Canalizzare/ facilitare

Sommare e sottrarre +/- sì/no

Ritmo accelerato Turni argomentati

Apertura/ chiusura

Performativa

Risultato

Agire/ concretizzare

Moltiplicare x per

Ritmo veloce Turni telegrafici

Chiusura

Espressiva

Figura 31 – Indicatori dinamico-sequenziali

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32. Riunione di rimotivazione. Questa è un tipo di riunione diversa da quella operativa appena descritta, che va effettuata in particolare quando il gruppo è stressato, oppure quando manifesta evidenti segnali di esaurimento lavorativo (burnout). I membri si riuniscono per raccontarsi come stanno e come procede il lavoro, quali sono i problemi maggiori, cosa ognuno comprende dell’attività in corso. È un metodo detto a bassa gerarchia, c’è un facilitatore che agisce come riferimento nondirettivo, la funzione primaria è quella di esprimere e ascoltare. Questa forma di incontro è detta anche riunione nel cerchio,39 sia per la disposizione eventuale delle sedie, ma anche per la caratteristica centrale del giro di parola, in cui tutti i partecipanti si inseriscono. Ottimo metodo di rimotivazione, funziona egregiamente per ridare al gruppo una facoltà di ascolto e di senso, fattori rilevanti perché la febbre passi: malessere, demotivazione, stress, svilimento, apatia. Le regole chiave: • interventi brevi; • ognuno racconta di sé nella parità di turni; • chi ha il turno non viene interrotto; • il senso è circolare, ovvero, sono esclusi i dibattiti a due o tre; • non c’è contradditorio, ognuno ha facoltà di esprimere il suo parere liberamente; • il facilitatore garantisce che la parola giri e non vengano emessi giudizi. Per condurre una Riunione nel cerchio non occorre essere superfacilitatori, bastano due punti chiari: il primo, introdurre con un contratto chiaro “in questa ora parliamo di come stiamo nel lavoro, ognuno può dire senza che altri dicano giusto e sbagliato”; il secondo, scambio fondato sulla circolarità di parola, da evitare il dibattito, da incoraggiare rispetto e ascolto. 33. Vitalità e bioenergia. La vitalità si esprime con un comportamento energico, attivo, rapido, aperto, coraggioso. Essa si   Da circle-time (tempo nel cerchio), metodologia proveniente dalla scuola e dall’educazione socio-affettiva (Francescato, 1986). 39

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manifesta con stile assertivo, rispettoso, propositivo, generoso (Varvelli, Varvelli, 1995), è il frutto di un’esperienza psicofisica che vive nella persona,40 in cui l’energia si genera, si consuma, si gestisce. Il livello di “carica” di una persona dipende dall’efficiente mobilitazione di energia, e questo sistema è influenzato enormemente dall’emozione.41 Tutto ci fa intendere che cervello, corpo, mente, relazioni rispondano a quel ritmo di espansione e contrazione che è uno dei ritmi fondamentali della vita. L’individuo è un sistema ritmico che si muove in modo costante reagendo agli impulsi di espansione e contrazione. Questa vita che si muove è anche denominata bioenergia,42 un fenomeno che ha una molteplicità di manifestazioni, le cui proprietà principali e la cui sorgente sono tuttavia intangibili (Boadella, Liss, 1986). Il metabolismo energetico di un organismo sano è mantenuto da tre condizioni: deve poter assorbire l’energia di cui ha bisogno; l’energia deve poter circolare liberamente nel corpo in modo da essere sempre presente dove è richiesta; l’organismo deve trovare sbocchi per l’energia assorbita. Ecco cosa può fare la persona e il biblio-fac durante il lavoro, per curare la sua vitalità: 40   Si possono individuare quattro tipi di energia: a. energia di movimento (energia cinetica): garantisce attività e lavorio; b. energia di accumulazione (energia potenziale): acquisizione di dati, notizie e soluzioni; c. energia di trasmissione (energia termica): vitalità interna da trasmettere nelle proprie azioni e agli altri; d. energia di reazione (energia chimica): azioni che vanno contro gli schemi preconcetti e produzione di nuove idee (Varvelli, 1995). 41   L’equilibrio emotivo della persona è mediato dalle due grandi diramazioni del sistema nervoso autonomo: il simpatico e il parasimpatico. Il sistema simpatico ci prepara all’azione in caso di emergenza, all’attacco o alla fuga, ed è associato con le emozioni di rabbia e paura. Il sistema parasimpatico ci prepara ad abbandonare la lotta o a scappar via: è connesso con un’altra opposta coppia di emozioni, il piacevole rilassamento e l’abbandonarsi alla tristezza e al dolore. 42   Bioenergia, energia vitale a base biologica […] le sue proprietà includono la capacità di fluire attraverso i tessuti, talvolta con regolarità e talvolta con movimenti ritmici, la tendenza ad accumularsi e quindi a scaricarsi, e la propensione a creare sofferenze e malattie quando il flusso e la scarica sono completamente bloccati. “Noi lavoriamo sulla base dell’ipotesi che esista nel corpo umano un’energia fondamentale, comunque essa si manifesti, e cioè in fenomeni psichici o in movimenti somatici. Definiamo questa energia semplicemente bioenergia” (Lowen, 1979).

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• respiro, attivare una respirazione più consapevole e completa sia nei momenti di difficoltà, sia nei momenti di soddisfazione; portare attenzione al “respiro presente”, l’alternanza di inspirazione ed espirazione; • biocentro attivo, è lo stretto effetto di una consapevolezza posturale, il corpo si dispone in modo tonico, orientato all’altro e con un baricentro su di sé; • frasi positive, ingiunzioni costruttive in chiave di autoincoraggiamento tra sé e sé (posso fare bene; ho le qualità per essere utile; posso imparare dalle difficoltà). La cura della propria vitalità è un fattore strategico per potersi orientare alle situazioni e farci fronte, è importante in questa direzione sia il pensiero che il corpo. Il corpo è la sede del cervello, da cui rinviene l’attività della mente, in stretta interazione con il contesto circostante, relazioni e ambiente fisico. 34. Resilienza (resistenza costruttiva). La resilienza è la capacità di resistere allo stress, di superare in modo flessibile condizioni avverse, di adattarsi a contesti negativi. È una competenza fondamentale, che cura l’integrità della persona e i fattori protettivi in grado di contrastare eventi negativi (Anolli, 2005). È l’arte di risalire sulla barca rovesciata (Trabucchi, 2007). Le ricerche per ora effettuate sui survivors resilienti confermano che nella resistenza costruttiva, giocano un ruolo chiave l’incontro con una persona significativa e l’appartenenza a un contesto che sappia accogliere (Sapio, 2004). Negli eventi negativi, come abbiamo visto, si può sviluppare la capacità negativa, per provare a trasformare il negativo in positivo, inoltre si può cercare di orientarsi alla cura di sé: automiglioramento, autoefficacia, aumento di autostima e ottimismo. Possiamo intanto iniziare a mettere meno lamento, meno superficialità nelle situazioni e aggiungere più sguardo di insieme collettivo e più capacità di stare nelle difficoltà così come si presentano. 35. Fari spenti. Il miglior modo di concludere questa ampia carrellata di strumenti operativi del biblio-fac è dare spazio al concetto dei Fari spenti, che possiamo delineare quale atteggiamento utile per innescare comportamenti concreti, agendo 152

senza clamore, evitando le dichiarazioni e i tanti discorsi, preferendo la sostanza dei fatti. I Fari spenti è utile quando si introduce un cambiamento e si vuole evitare inutili enfatizzazioni, visto che poi queste stesse tendono a richiamare un insieme di resistenze e difese (De Sario, 2012a). Sono dell’avviso che se proviamo gioia è bene che la manifestiamo, così come per paura e rabbia. Dall’altra, se intendiamo inserire un cambiamento è preferibile introdurlo nei suoi passi sostanziali. In molti casi ho sperimentato che avere un profilo basso, sostanziale nei contenuti, senza troppa enfasi, sia il modo più efficace per diventare produttivi e gestire le inevitabili resistenze. La Facilitazione esperta nasce e si sviluppa con questo intento rivolto alla diffusione e al cambiamento e per cambiare occorre trovare il verso giusto, proprio come quando ci pettiniamo, sono anche i capelli che ci dettano il modo con cui preferiscono essere pettinati. 36. Conduzione generativa è quando un gruppo di lavoro cura la costruzione di elementi nuovi, la creazione di significati e motivazioni sperimentali (Bruscaglioni, Gheno, 2000). Non si tratta tanto di un nuovo approccio, bensì di una capacità a rendere dinamico e attrattivo il processo di lavoro, rinforzando in particolare la valorizzazione delle diversità, la cura del risultato ma anche del rapporto tra i partecipanti, lo sviluppo di nuove possibilità condivisibili, la crescita della speranza rispetto a timore e paura. Il facilitatore può essere accostato a un lievito con la precipua funzione di coinvolgere, aiutare e attivare: • clima e spazio vitali, un buon mix tra formale e informale, tra riflessività e schiettezza; • dalla confusione all’intuizione, è rispettata la confusione, l’incertezza è intesa come fattore di elaborazione e di tensione creativa promettente; • tentare vie nuove, non aver paura di avanzare ipotesi altre, restituire al gruppo chiavi di osservazione aperte, ovvero, non definite e non confezionate in tutti i dettagli; • cogliere e valorizzare elementi contrastanti, quelli che possono destabilizzare ma anche generare nuove idee, sviluppare nuove intuizioni, eccezioni, stranezze; 153

• essere determinati e sostenenti, portare avanti con energia e assertività le istanze individuali e di gruppo, nel processo di avanzamento generativo. In definitiva la capacità generativa è data dal saper mettere insieme fattori anche contrastanti ma che possono interagire e dialogare tra loro, solo con qualche accortezza, tra cui non inibire, non giudicare, non soffocare; il gioco generativo è contiguo al gioco creativo. La carrellata di mappe e strumenti si chiude qui.

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3. SITUAZIONI COMPLICATE DA GESTIRE: UNA GUIDA

Per introdurre la facilitazione in biblioteca è conveniente seguire due raccomandazioni in particolare: la prima riguarda la progressiva crescita di una cultura organizzativa integrata, che non curi solo gli aspetti di compito ma che si occupi anche degli aspetti di relazione, centrandosi non solo sulle performance tecniche ma anche sulle dinamiche delle e tra le persone; la seconda invece è inerente i coordinatori referenti, perché sappiano progressivamente facilitare i loro gruppi di lavoro, sia sui temi tecnici ma soprattutto su quelli emotivi e relazionali. La mia impressione è che nelle organizzazioni in genere si vadano a cercare sempre i tecnicismi e i marchingegni più particolari e più sofisticati di area gestionale, tecnica, performativa per poi dimenticarsi di effettuare riunioni periodiche semplici, di ascolto del personale e dei collaboratori, che sappiano sgomberare le inevitabili “scorie” che il lavoro lascia impresse su persone e luoghi, competenze che sappiano riconoscere le forze e le debolezze delle compagini e delle singolarità, in poche parole sappiano centrarsi sul fattore umano, la vera forza motrice di ogni sviluppo plausibile. Orientarsi a una cultura organizzativa che contempli la relazione, non è infatti buonismo, tantomeno permissivismo, o giustificazionismo, bensì trattasi di una cultura avveduta e competente. Una cultura che davvero intende creare le condizioni per l’eccellenza, la competenza, il benessere. In questo capitolo del volume andiamo ad occuparci delle difficoltà del bibliotecario, alle prese con l’utente, i colleghi, il gruppo di lavoro. Molto spesso il direttore è negativo visto dall’operatore. La negatività è invece dell’operatore se a guardare è il dirigente. Per negatività, come ho già avuto modo di enunciare nelle prime parti del volume, intendiamo la massa di problemi spesso accompagnati da ansia e stress, gli episodi frequenti di divergenze e conflitti, quella patina di malessere tipico di ogni gruppo o contesto, infine gli errori di esecuzione operativa delle mansioni tecniche. Le negatività difatti, quelle provenienti dagli utenti e quelle proprie di ogni gruppo, sono un vero 155

e proprio tabù. Tanto sono diffusi gli episodi critici e negativi in biblioteca e quanto il loro fronteggiamento è di solito lasciato al caso, mancando i due requisiti fondamentali: • dotare gli operatori di strumenti base essenziali, secondo contenuti nuovi di formazione; • inserire periodicamente riunioni di ascolto ed elaborazione di gruppo,1 fondate appunto sul racconto di sé e delle situazioni incontrate. Queste poche mosse indispensabili rispondono a quello che ho chiamato “metodo antinegatività” (De Sario, 2012b). Con l’utente, al pubblico. La relazione con gli utenti: cosa dice l’AIB Obiettivo: il bibliotecario tratta l’utente come collaboratore e partner nel processo di ricerca dell’informazione. Strategie 1. Utilizza le “Linee guida delle performance di comportamento per i professionisti dei servizi informativi e di reference”1 su ascolto/ indagine, ricerca e verifica. 2. Richiede l’opinione e il consiglio dell’utente nel corso della transazione informativa. 3. Coinvolge l’utente nel processo e nelle decisioni da prendere. 4. Individua le conoscenze apportate nell’interazione dall’utente. 5. Riconosce i limiti delle risorse locali e rimanda a risorse appropriate. 1

  Vedi: .

L’Associazione Italiana Biblioteche ci aiuta a tener presente la base professionale del bibliotecario, nella funzione con l’utente. Da qui in avanti invece il focus lo poniamo sugli episodi critici, che a detta di diversi operatori sono molto frequenti e sono agiti da tipologie di pubblico tra le più varie (la persona semplice, il neofita, il professionista, lo studente) e tra le più imprevedibili.

  Nel secondo capitolo le abbiamo chiamate riunioni di rimotivazione.

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Con l’utente, al pubblico 3.1 Fronteggiare l’utente critico, aggressivo, che infrange le regole Dai lavori di questi ultimi tre anni svolti nella formazione con bibliotecari, raccolgo una serie di casi concreti, che qui prendiamo a prestito per l’esplicitazione di raccomandazioni e strumenti di lavoro efficaci. Nei corsi che ho condotto ho potuto assistere a casi di affollamento dei banchi del prestito con la tendenza degli utenti a non mettersi in fila; a persone spesso contrariate se gli si chiede di rispettare le distanze per la privacy (c’è pure la striscia a terra); alla tendenza a saltare la fila pensando di avere ragioni d’urgenza maggiore degli altri. E tanto altro ancora, che qui cerchiamo di sviluppare insieme.

3.1.1 Le frasi critiche dell’utente: la negatività bassa L’utente che non ha pazienza nell’attesa del suo turno, l’utente che davanti al banco del prestito si mostra indisponente e si lamenta dei servizi insufficienti. “Non avete mai i libri che cerco”. “Questa scheda non funziona”. “I libri che cerco sono sempre fuori posto”. “I computer non funzionano mai”. “Troppo chiasso nelle sale”. “Non sapete gestire, c’è troppo chiasso qui”. “Troppi fogli da compilare”. “La biblioteca chiude troppo presto”. “Non ci sono spazi per studiare insieme”. “Il servizio funziona male”. Una sfilza di lamenti e polemiche che sono tipiche di una forma molto diffusa di nervosismo latente, di stress accumulato in forma ordinaria, che per le sue caratteristiche neurobiologiche tende a dare all’utente un senso di irritazione, di scontento generale, di non essere mai a posto. Questa è la componente funzionale, ovvero biologica, tipica dei circuiti nervosi di tutti noi. Si aggiunge poi la componente disposizionale, quella di 157

ogni singola persona coi suoi tratti personologici, in cui c’è chi si controlla bene e chi no, chi è di suo aggressivo, chi è passivo, chi ringrazia e chi no. Infine la parte situazionale, culturale, che ci vede per esempio nel nostro paese piuttosto irrispettosi degli spazi pubblici e dei beni sociali a cui di solito accediamo; ma qui si rintraccia anche certa irrequietezza data da una fila di utenti troppo lunga, da segnaletiche inefficaci, da forme comunque legate all’ambiente e alle regole della biblioteca. Come abbiamo già visto nel secondo capitolo, in questi casi di “negatività bassa” è utile fare domande anziché avventurarsi nelle risposte. Il biblio-fac sa che i comportamenti negativi sono frequenti e non sono frutto di cattiveria, ma solo di funzionamenti profondi e automatici e si pone in maniera competente ed efficace. Negatività bassa, il dispositivo concettuale Da evitare Rispondere subito alla negatività

Alimenta la negatività

Da fare Indagare la negatività

Smorza e contiene

Qualche esempio pratico. U. Non avete mai i libri che cerco. B. Sì i libri che cerca, per esempio quale non riusciamo a trovarle in particolare? U. Questa scheda non funziona. B. Non funziona in cosa nello specifico, mi dica? U. I computer non vanno mai. B. Non vanno… oggi cosa non riesce a fare… U. Troppo chiasso nelle sale. B. Chiasso nelle sale, in quale sala per esempio signora? U. Il servizio funziona male. B. Male… quale aspetto secondo lei non funziona? Abbiamo visto nel secondo capitolo che possiamo rispondere alla frase negativa facendo una domanda, che aggancia il senso netto dell’utente, quello che abbiamo chiamato parola chiave a cui aggiungiamo una direzione, la parola direzionale, una for158

ma nuova di ascolto attivo che accoglie ma anche canalizza lo scambio, dandogli una direzione di indagine. Se ce la facciamo e intendiamo ancora di più migliorare, è utile aggiungere all’indagine che accoglie altri due piccoli spunti pratici. Negatività bassa, accogliere la difficoltà: “Troppo chiasso nelle sale” “Sì, troppo chiasso…”

Linguaggio del corpo, la testa annuisce in forma sagittale, ovvero su e giù

“Sì…”

Il “sì” è una forma di riconoscimento implicito che facciamo, uno dei motivi per cui l’utente si calma, o se non si calma, tende a non aumentare l’irritazione e il nervoso

Questi due metodi, la testa sagittale e il riconoscimento implicito sono da anteporre all’indagine della negatività, che opereremo con parola chiave e direzionale. A mio avviso, l’accoglienza della difficoltà possiamo effettuarla anche quando è palesemente inventata, esagerata, quando ai nostri occhi di operatori ci balza nella sua forma enfatica. La nostra funzione come bibliotecari è di fare accoglienza e curare l’utente, per quanto possiamo… con le risorse buone in quantità o in scarsità dentro ogni singola giornata. Nel caso le avessimo esaurite, eventualità molto frequente, occorre chiedere un piccolo cambio al collega e farsi un giro. In quel giro tuttavia, l’impegno è di calmarsi, respirare con attenzione, rientrare in una presenza minima di vitalità e umore sostenibile. Ma su questo aspetto nel quarto capitolo sarò più preciso. Per l’operatore che avesse esaurito le risorse buone e non può chiedere il cambio al collega, suggerisco di ridurre l’accoglienza della negatività e di focalizzarsi sul compito tecnico in maniera però garbata, aspetto che ultimamente definisco di garbo professionale.2

  Sul garbo professionale ritorno più avanti, nel capitolo della negatività alta. 2

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Negatività bassa, non accogliere ma concretizzare: “Troppo chiasso nelle sale” “Sì, comprendo… ma vediamo signore come la posso aiutare?”

Non indaghiamo, ma cerchiamo di supportare l’utente nella sua richiesta operativa. E su questo versante cerchiamo di operare con efficacia, metodo detto anche di compito, che lascia un po’ indietro la relazione.

3.1.2 Altre negatività, episodi di nonsenso, comportamenti surreali e paradossali Vediamo ora una serie di episodi di ordinaria vita lavorativa in Biblioteca.3 Episodio 1 U. Allora prendo due libri, quanto tempo posso tenerli in prestito? B. Trenta giorni. U. Trenta giorni ciascuno, quindi... 60 giorni? Episodio 2 U. Buongiorno, è la prima volta che vengo qui, dovrei cercare dei libri per la tesi. Mi sa dire come posso fare? B. Certo, guardi, quei due computer sono riservati per la ricerca sull’Opac. U. Scusi, ma che vuol dire? B. Opac è un acronimo che sta per catalogo online ad accesso pubblico, in inglese. Vuol dire che lei inserisce i titoli o gli autori o i soggetti che vuole cercare e il computer le dice quali sono i libri in nostro possesso che soddisfano la sua ricerca. U. E se uno non sa cosa vuole cercare? Episodio 3 U. Buongiorno, ho visto sul catalogo che non avete nemmeno un libro di Tullia Musatti. È veramente scandaloso! Per una città come la nostra poi che fa tanta attenzione a valori come l’educazione, l’integrazione... Un modello per le scuole materne...   Gli episodi di questo paragrafo sono tratti dalla pagina Facebook di Martino Baldi, “Cose da bibliotecari reload”. 3

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B. Mi scusi, mentre mi parlava stavo cercando sul catalogo e vedo che ci sono alcune cose... U. Ah sì? B. Sì... sfortunatamente per lei la maggior parte sono in prestito da altri utenti, però almeno uno dei libri è disponibile... eccolo qua Nello stesso nido, edizioni Angeli. Ce ne sono due copie disponibili subito. U. Ah! E... quante pagine sono? B. Vediamo.... [controlla sul terminale] 318 pagine. U. Ah, ok. Allora ci penso. [E se ne va] Episodio 4 [Squilla il telefono]. B. Buongiorno, biblioteca. In cosa posso esserle utile? U. Avrei bisogno di un’informazione. B. Mi dica. U. Mi sono iscritta al corso di computer che è in programma oggi all’ora di pranzo. Quello in cui offrite il panino gratis ai partecipanti. B. Sì, ho capito, mi dica: di cosa ha bisogno? U. Il fatto è che oggi a pranzo viene a trovarmi mio figlio da fuori città e non ci vediamo quasi mai, quindi ho delle difficoltà a partecipare. Capisce, vero, che per me è una priorità? B. Certo... ci mancherebbe! Non ci sono problemi, signora. Abbiamo una lunga lista di attesa e cediamo il posto a qualcun’altro. Tanto il corso verrà sicuramente replicato e potrà partecipare un’altra volta. U. Ma quello che volevo chiederle è... Visto che ne ho diritto... posso passare più tardi o domani a ritirare il panino? [Pausa di sconcerto del bibliotecario] B. Signora, guardi, che il panino è per i partecipanti al corso, visto che si svolge all’ora di pranzo. Non è che lei ne ha diritto per essersi iscritta prima degli altri. U. Quindi non posso ritirarlo in un altro momento? B. Certo che no. Lo riceverà insieme agli altri se partecipa al corso. U. Ah, ok, va bene. Allora cerco di fare il possibile per partecipare. 161

Episodio 5 U. Mi scusi, cercavo L’amore ai tempi del colera di Garcia Marquez ma in scaffale non c’è. B. Strano, in effetti. Ha guardato bene? Sono sicuro di averlo rimesso a posto proprio poco fa. [Piuttosto innervosita] U. Certo che ho guardato bene. Se le dico che non c’è non c’è! Non c’è nemmeno un libro di Garcia Marquez in scaffale! B. Questo, mi permetta, mi sembra molto improbabile. Forse ha cercato in uno scaffale sbagliato... [Decisamente alterata] U. Se le dico che non ce n’è uno, significa che non ce n’è uno! Non si trova mai un libro in questa biblioteca! B. Permette che dia un’occhiata io? Magari sono un po’ più allenato a trovare i libri nei nostri scaffali...  U. Faccia pure ma tanto è tempo perso. Non c’è, non c’è. [L’operatore si avvia verso lo scaffale, seguito dall’utente, e alla lettera G, da una decina di libri di Garcia Marquez, estrae L’amore ai tempi del colera e lo porge all’utente]. B. Ecco a lei. [Con aria sprezzante] U. E cosa ci fanno i libri di Marquez alla lettera G? Li mettete qui apposta così li trovate solo voi?!? B. Signora, sono alla lettera G perché il cognome è Garcia Marquez. Il nome è Gabriel. U. Ah! Poteva dirmelo subito invece di farmi perdere tutto questo tempo! Episodio 6 U. Complimenti, questa biblioteca è davvero bellissima. B. Grazie. U. Lo sa cosa ci manca? B. Cosa? U. Un bar. B. Guardi che il bar c’è. Al piano terra, davanti al banco centrale. [Con aria sorpresa] U. Ah... [Cambiando espressione, con l’aria severa di chi vuole comunque aver ragione]… però in una biblioteca così grande ce ne dovrebbero essere almeno due. 162

Episodio 7 [Utente chiama al telefono per un volume non restituito] U. Buongiorno. B. Buongiorno. U. Devo restituire questo libro. È un po’ in ritardo ma avevamo chiamato per sapere se potevamo tenerlo un po’ di più. B. Vediamo subito... [il bibliotecario effettua l’operazione di restituzione] ma.... questo libro è scaduto da sei mesi!!! U. Sì ma come le ho detto avevamo chiamato per sapere se potevamo tenerlo un po’ di più. B. Non per contraddirla ma veramente io qui sul database vedo numerose email e chiamate di sollecito per la restituzione a partire da cinque mesi fa fino alla scorsa settimana. E poi.... vedo che ha un altro libro a casa, anche quello scaduto da più di sei mesi! U. Ma ci avevano detto che potevamo tenerlo un po’ di più... B. Guardi, anche se così fosse, dubito che le abbiano detto che poteva tenere un libro scaduto a casa per sei mesi. Per giunta dopo altri tre mesi che lo aveva normalmente in prestito. U. Il fatto è che il libro lo ha preso mio figlio per un esame che poi gli hanno spostato. B. Certo, i motivi possono essere molti, ma capisce che non può tenere a casa un libro scaduto per un anno ignorando i nostri solleciti alla restituzione. Tra l’altro entrambi i libri sono prenotati da altri studenti che ne hanno bisogno. U. Sono prestiti di mio figlio, io sono il padre.... mi scusi, lei è padre? Ha figli? B. Io? No, io non ho figli. U. Quando ne avrà, capirà cosa vuol dire. B. Sicuramente, però, mi permetta: tutti gli utenti di tutte le biblioteche di tutto il mondo sono anche figli, ma non per questo tengono i libri a casa per un anno. U. Ma ogni figlio è una cosa a sé. B. Va bene... la ringrazio per volerci riportare il libro. A questo punto potrebbe gentilmente provare a convincere suo figlio a riportarlo in biblioteca? U. Se mi scrive il titolo su un biglietto vedrò cosa posso fare.

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Episodio 8 B. Mi scusi, ma cosa fa??? Sta portando via una borsata di giornali della biblioteca?!?  U. No no! Questi sono miei!  B. Le dispiace farmeli vedere? Se sono suoi le chiediamo scusa, ma se sono nostri deve lasciarceli.  U. No, non le faccio vedere proprio niente.  B. Perché non vuole mostrarmeli?  U. Perché se sono della biblioteca poi non me li fate portare via.  B. Certo che no! U. Però sono miei. Episodio 9 B. Ma che fa? Sottolinea i libri della biblioteca? U. Sì, perché? Non si può? Sottolineo solo le parti che mi interessano! Su alcuni di questi casi riportati non si sa se piangere o ridere. Sono tutti episodi in cui mi limito a rilevare i tratti di voracità, egocentrismo utilitaristico, spaesamento, presunzione. Mediocrità che a mio avviso corrono trasversali tra noi tutti in tutti gli ambienti. Non sono d’accordo nella divisione delle persone in buoni da una parte e cattivi dall’altra. La mediocrità e la voracità, l’egocentrismo e la spocchia a turno ci assalgono e neanche ce ne rendiamo conto. Non siamo individui a razionalità illimitata, che sempre controlliamo i nostri movimenti inconsulti. Dalle mie ricerche sul potere della negatività (2012) qui segnalo alcuni aspetti che ben si coniugano con gli episodi esposti. Per prima l’inclinazione alla negatività, per cui sono più potenti e attrattivi i fattori negativi rispetto a quelli positivi e un po’ tutti a turno subiamo questa subdola influenza. Il motivo a mio parere più sconosciuto che dobbiamo imparare a considerare è quello proveniente dalla neurobiologia, per come funzionalmente la parte del nostro cervello emotivo tende a sormontare quello logico e razionale. Abbiamo già visto come nei nostri circuiti emotivi naturali abbiamo allerta e agitazione di base, essendo “filotrasmessi” dai nostri antenati, vissuti che ci dominano perché profondi e più antichi. Ecco perché quando ci sono tre cose 164

che funzionano e una sola che ha problemi, tendiamo tutti a soffermarci su quest’ultima: questa è l’inclinazione alla negatività, che in coda al prestito o in mediateca tende a serpeggiare come in un qualsiasi altro luogo sociale. Un altro aspetto che scorgo negli episodi qui riportati è la zombite, il pilota automatico che assale chiunque preso dal vortice di tante cose da fare e da pensare. La zombite momentanea è una sindrome per cui ci si scopre come comandati da una macchina interna nascosta e prevalentemente irrazionale, che ci guida in uno stato di ridotta coscienza, in cui non ci accorgiamo di cose e persone, abbiamo come una nebbia che ottunde nozioni e informazioni. Un terzo aspetto molto frequente nei quadretti utente-bibliotecario è il cosiddetto autocompiacimento (self-serving), per cui ognuno è impegnato a salvaguardare la propria immagine ed esigenza a discapito di quella dell’altro. È la ricerca di vincere sull’altro, mostrandosi quali soggetti competenti e di successo. Un quarto aspetto che è interno agli episodi è certamente la frustrazione, che sopraggiunge quando un intoppo ostacola il soddisfacimento di un bisogno. Per arrivare alla fantomatica infantilizzazione, che ogni operatore poco o tanto ha potuto osservare negli utenti della propria biblioteca. Quando vengono a cadere sicurezze o quando le situazioni si fanno stressanti, scatta una tipica forma di disorientamento e disorganizzazione, che provoca molto spesso la ricomparsa di un vero e proprio “stato infantile”, connotabile da insicurezza, aggressività, esagerazione, ripicche e piccinerie. Questo breve commento non intende giustificare tali inclinazioni. Ma solo incoraggiare in tutti noi una riduzione di giudizio e un’estensione della conoscenza e della tolleranza. Per l’appunto quello che Daniel Siegel (2001) definisce finestra di tolleranza: “Ognuno di noi ha una finestra di tolleranza, margini entro i quali stati emozionali di diversa intensità possono essere processati senza che ciò comprometta il funzionamento nel suo complesso. Per alcune persone, elevati livelli di intensità emotiva sono gestibili senza alcuna difficoltà, e non impediscono di pensare, sentire e agire in maniera equilibrata ed efficace, mentre in altre persone determinate emozioni, o in generale tutte le emozioni, anche se di intensità moderata, possono interferire 165

con le attività della mente”. Ecco, questi episodi, possono invogliarci a rendere più flessibile e mobile la nostra “finestra”, anziché irrigidirla e ingessarla.

3.1.3 L’utente che manipola a suo beneficio: anche questa è negatività bassa Assai raramente le relazioni umane sono paritetiche, simmetriche, rispettose dell’attenzione e volontà reciproche. Più spesso un membro dell’interazione o di un gruppo cerca di assumere un ruolo prevalente, una leadership che gli assicuri un predominio, una possibilità di influenzare l’altro. Come in questo caso in cui l’utente, pur di ottenere un suo tornaconto, mette in campo una presunta comparazione con un collega non presente. Questa è una mossa che negli operatori più giovani può provocare disagio e destabilizzazione, ma non solo a loro. U. Ma il suo collega me lo fa fare. Il manipolatore, come in questo caso, ha una concezione strumentale del bibliotecario, che va condizionato per raggiungere i propri scopi a suo esclusivo vantaggio. La manipolazione fa ricorso a una gamma molto estesa di tattiche e di strategie psicologiche, che conducono essenzialmente all’imbroglio, all’istigazione e all’intrigo (Anolli, 2009). Negatività bassa, la manipolazione triangolata: “Il collega me lo fa fare” Da evitare “Il collega non può averglielo detto” oppure “Ma la regola è questa, il collega ha sbagliato”

Alimenta il parere disfunzionale dell’utente Apre possibili crepe nel team degli operatori, in cui l’utente-manipolatore di solito si insinua per raggiungere il suo scopo

Da fare “Signore, vediamo ora praticamente cosa possiamo fare. La regola è…” Astenersi dal commentare l’episodio del collega e concentrarsi “con garbo” e assertività* sulla funzione che si sta gestendo

Porta l’attenzione nel presente, smorza la tensione almeno un po’, sgombera il campo da illazioni e differenze, si centra sul da farsi qui e ora

*

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Assertività = autorevolezza. Da non confondere con autoritarismo.

Anche in questo caso occorre agire con garbo professionale, controllandosi, mantenendo una buona fluenza, affermando e ascoltando. Progressivamente tuttavia, lo scambio va portato sul piano tecnico, delle cose da fare, delle regole da seguire, della procedura da attivare. Questa componente ripropone l’operatore sul piano del compito, fa ridurre gli aspetti di relazione, che vengono tenuti in vita solo col “garbo professionale”, un mix di capacità linguistica e capacità cinesica, di uso della faccia, dei gesti, della prossemica. GUIDA 1 - Facilitare la negatività bassa, i passi Esplorare (discesa nella negatività) 1.

Non bloccare, non negare, non dare soluzioni, permettere l’espressione 2. Indagine pratica degli elementi concreti e sentiti, capacità di destrutturare 3. Canalizzare e contenere nei fatti, far defluire e raffreddare la negatività 4. Parola chiave e Parola direzionale Sostare (pausa e riepilogo) 5. Riepilogo del problema 6. Attenzione sia a persona (vissuto) che compito (aspetto tecnico) Agire (risalita alla positività) 7. 8. 9.

Ricerca attiva di soluzioni graduali, passo dopo passo Individuare e determinare azioni concrete possibili, capacità di ristrutturare Passi concreti, Decisione, Feedback negoziale

3.1.4 L’utente che si comporta scorrettamente: la negatività media Sono molto frequenti, e in crescita, episodi in biblioteca di mancato rispetto delle regole e anche di comportamenti irriguardosi rispetto alla struttura, agli spazi e agli oggetti. A volte sono utenti irrispettosi, disabituati a frequentare luoghi pubblici, a cui manca in maniera evidente il rispetto. Altre volte sono utenti che contrastano le regole indicate. Oppure, anche alti fre167

quentatori della biblioteca, che per un malaugurato incrocio di circostanze, si comportano scorrettamente. Episodio 1 “La studiosa locale che, forte del suo nome, si incaponisce nel non voler pagare una tariffa di riammissione e chiede il nome dell’operatore per riferire l’episodio all’assessore”. Episodio 2 “Un ragazzo mi segnala che nella zona destinata al lavoro di gruppo degli studenti un signore pretende il silenzio imprecando e battendo i pugni sul tavolo. Il ragazzo un po’ intimorito mi chiede suggerimenti, io provo a tranquillizzarlo e ad accordarmi sul fatto che se fosse riaccaduto, poteva rivolgersi a me”. Episodio 3 “Utente mette piedi sul divano”. Episodio 4 “Utente che non vuole pagare l’interesse di mora: Non è mia la colpa, la colpa è vostra!”. Concettualmente la negatività media si distingue da quella bassa per quei comportamenti in cui fa esordio l’uso del corpo e l’uso di oggetti, oltre alla funzione base della parola. Finché la negatività è infatti centrata sulla parola, può essere anche insinuante e critica, ma il suo antidoto più congeniale è la parola stessa: abbiamo visto la parola chiave e direzionale. Ma i piedi sul divano, per esempio non è un messaggio verbale, bensì un atto, un comportamento fisico che impiega una massa corporea e oggetti dell’ambiente. Quel ragazzo potrebbe anche non aggiungere nessuna parola, restando lì, senza aggiungere altro. Oppure, altre volte, i piedi sul divano si accompagnano con critiche, voce alta, farneticazioni anche verbali. La negatività media è definibile come una manifestazione di parole e corpo in forma disfunzionale, dissonante e negativa. Qui le risposte del biblio-fac è bene che siano linguistiche ma anche corporee: faccia, gestualità, postura, prossemica, tono della voce, quello che abbiamo chiamato Corpo esperto applicato. 168

Negatività media: i piedi sul divano Da evitare “Attenzione ai piedi sul divano, vede, il nostro regolamento lo vieta! È la base di convivenza nella nostra biblioteca!”

Messaggio verbale lungo, enfatico e carico di credenze astratte, valide, ma che non è il momento più adatto di esporre. Messaggio corporeo, l’operatore si muove con piccoli scatti (occhi, faccia, gesti) che mostrano imbarazzo e contrarietà.

Messaggio verbale più contenuto, sobrio e asciutto. Prescrittivo, l’operatore indica qual è Da fare il comportamento atteso corretto. “Attenzione ai piedi sul diva- Messaggio corporeo, l’operatore indica con no, può metterli a terra?!” il braccio e la gestualità il piede sul divano e segnala dove i piedi devono invece andare, la faccia è aperta, non aggrottata, il tono di voce buono, ma non eccessivo nel volume.

Vediamo anche un altro esempio dei vari segnalati. Negatività media: la studiosa che si incaponisce Da evitare “Dottoressa lei farebbe bene a pagare la riammissione. Sa… è un regolamento vigente da sette anni a cui tutti si adeguano e quindi anche lei è pregata di farlo!”

Messaggio verbale anche qui nella ricerca di persuasione, che è troppo lungo. A volte pensiamo che se il messaggio è lungo e più risulta convincente, ma non è così. Messaggio corporeo rigido, faccia sbiancata, occhi sgranati, palpitazioni: tutti emblemi fisiologici del conflitto.

Da fare “Dottoressa lei è chiamata a pagare la riammissione. È una regola semplice valida per tutti!”.

Messaggio verbale più contenuto, mirato agli aspetti essenziali. L’essenzialità è fondamentale! Messaggio corporeo, l’operatore si dispone verso uno sguardo di connessione con l’utente, contatto oculare, se lei avesse un impeto in avanti, l’operatore risponderebbe con la “gestualità a stop”.

La gestualità a stop è bene usarla in tanti casi, per esempio quando l’utente è verboso, monopolizzatore dello scambio. Oppure quando fa degli accenni di invadenza al banco del prestito, sporgendosi troppo. Oppure quando usa un volume di voce troppo alto che disturba gli altri. È un buon metodo per distanziarsi, fermare l’invadenza, fare buona protezione di sé. Da modulare in base all’episodio, se l’utente è molto sgarbato e aggressivo, gestualità a stop imperativa e tonica; se invece è critico e borbottante, la gestualità a stop può mantenersi più morbida. 169

La mano a “stop”

Figura 32 – Estratto da Gestualità intenzionale (Git)

Anche nel caso della studiosa che si incaponisce, questa gestualità è utile per contenere sia la componente verbale (l’utente tende a interrompere, è verbosa) che quella non verbale (alza il volume di voce, assume una mimica facciale contratta). Sono dell’idea che chi lavora al pubblico debba agire una componente corporea più attiva e consapevole, che in molti momenti può risultare davvero facilitante e a volte contribuire a risolvere situazioni anche molto complicate. Provo ora a completare gli spunti metodologici che possono venire in soccorso al bibliotecario nei casi di negatività media qui accennati. Il metodo a sveglia, che coi colleghi ho elaborato già da una decina di anni, individua il fattore saliente nell’attivare una sana tensione frontale del corpo (detta sats),4 l’impulso fisico e mentale che può renderci pronti, rapidi, repentini. Ecco allora qualche istruzione ulteriore per l’operatore che in sala gestisce il problema dei piedi sul divano, o al front-desk deve far rispettare le regole alla studiosa che si incaponisce, o ancora la gestione del signore che per avere quiete si mette a urlare e battere i pugni sul tavolo. 4   Il sats è la molla presente nella postura di base con le ginocchia appena appena piegate, mirata all’alterazione dell’equilibrio, tecnica usata nel teatro d’avanguardia; oppure è la postura di base che si ritrova nello sport: tennis, pugilato, scherma, quando si deve essere pronti a reagire (Barba, 1993).

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GUIDA 2 - Facilitare la negatività media, i passi Respiro consapevole; radicamento della postura e Attivare la molla, il delle gambe; mettere autorevolezza nel tono cor“sats”: mobilizzare poreo, stare in allerta, vigilare, usare cautela; qui è il corpo, stare in alfondamentale non rispondere di getto e soprattutto lerta. dare tono attivante, darsi una sveglia nel corpo e nei pensieri. Ricerca rapida di comprensione, cosa sta succedenGiocare il problema: do; astensione da reazioni; evitare di definire, no giuessere riflessivi, farsi dizi e opinioni; qui è importante ascoltare, cercare di e fare domande. cogliere le reali questioni in gioco; evitare e contenere pensieri ossessivi, aggressività. Agire con autorevolezza: rispondere, precisare, ribadire le regole, accordarsi, manifestare differenze e priorità.

L’operatore esprime la propria posizione con buona energia e con quattro accortezze: 1) prova a condividere il più possibile; 2) lascia aperto uno spiraglio di accordo; 3) se necessario, agisce la leadership in senso direttivo, criticando, smentendo, contrastando; 4) impiega frasi brevi, concise.

La negatività può certamente muovere vissuti sgradevoli, essendo già preinstallata dentro di noi e quindi ritrovando forme di “amplificazione”, in più crea insoddisfazione per il non aver avuto le risposte, le parole o non essersi fermati prima. La negatività è la deriva del pensiero complesso, che è il solo modo per creare rispetto e connessioni tra persone e ruoli. Ecco alcuni racconti che ho potuto raccogliere dalla viva testimonianza di bibliotecari.

Figura 33 – Esempio di “molla” corporea e di “gestualità a stop”

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3.1.5 Racconti dei bibliotecari “Ascolto l’utente ma lo subisco, non riesco a gestirlo”. “Utente che usa il cellulare in forma di disturbo agli altri presenti, provo a dirlo ma non ottengo risultati e un po’ mi deprimo”. “Con l’utente irrispettoso ho difficoltà a far rispettare le regole, davvero mi mancano gli strumenti”. “L’utente invadente che fa richieste di ricerca oltre il catalogo, mi suscita irritazione e fastidio, mi domando: dove e quando lo posso fermare?”. “Il conflitto con gli utenti, quando mi è capitato, è come una ferita che mi porto a casa”. “Gli insulti, quei pochi ricevuti, mi hanno fatto davvero male!”. In sintesi del capitolo, quando la negatività è bassa, come operatori abbiamo la possibilità di accogliere e indagare, evitando di dare ricette e soluzioni troppo rapide. Quando la negatività è media, composta da parole ma ancor di più da comportamenti e azioni fisiche, la risposta è bene che sia più attiva, la parola deve essere accompagnata dal corpo a mo’ di molla, ovvero corpo e pensieri rapidi pronti a fronteggiare.

3.2 L’utenza problematica: cosa fare nei casi di negatività alta (insulti, inciviltà) Con la crisi economica che stiamo attraversando, coi casi aumentati di precarietà lavorativa e povertà crescente, molto spesso in biblioteca entrano persone che tutto cercano tranne che un libro. Sono ampi strati di popolazione che invece cercano riparo, un po’ di comfort, qualche opportunità di contatto. Ecco allora che si sono fatte più frequenti le situazioni di disagio e contrasto che i bibliotecari si trovano a dover gestire, aumentando in loro la sindrome del “bibliotecario sopraffatto”, che sviluppa una latente percezione di insicurezza. Soprattutto negli ultimi anni le biblioteche, con l’acutizzarsi della crisi, sono diventate un rifugio sociale, passando da luoghi del fare a “luoghi dello stare”, che obbligano strutture e operatori ad una maggiore competenza relazionale (Bergamaschi, 2015); alla naturale funzione di istituzione culturale se ne sta af172

fiancando un’altra di risposta a bisogni sociali legati a fenomeni di marginalità o di disagio sociale più o meno gravi. Da qui i nuovi indirizzi impongono alle direzioni di lavorare nell’ambito di una cultura dell’accoglienza e della partecipazione, di contribuire a rispondere a nuovi bisogni e nuove povertà, per ricercare risposte che coniughino accoglienza e sicurezza, che non trovano risposta in altri contesti. Gli operatori si trovano quindi a fare i conti con l’emergere di situazioni inedite e talvolta conflittuali, non avendo tuttavia competenze specifiche in tal senso: il bibliotecario non è né uno psicologo né un educatore. Egli non ha la formazione e gli strumenti per la gestione delle interazioni con i clienti difficili anche se si tratta di eventi di breve durata e occasionali, per esempio quali: • presenza e stazionamento di soggetti senza fissa dimora nella zona dell’emeroteca; • stranieri e adulti in condizioni di disagio e/o marginalità sociale, che utilizzano i servizi igienici e i diversi distributori automatici; • fenomeni di competizione e ressa per l’utilizzo delle postazioni internet; • episodi di furti, casi di risse, il fermo di cittadini stranieri; • danneggiamento oggetti; • spaccio di sostanze stupefacenti. Ora qui vediamo quali elementi essenziali di competenza socio-relazionale può mettere in campo il biblio-fac. Diamo per acquisito che il ricorso al regolamento rappresenta la base da cui partire per dirimere controversie e situazioni difficili. Ma il solo regolamento non basta, esso copre, come abbiamo visto, gli aspetti tecnici di “compito”. Per agire dentro una negatività occorre altresì aggiungere gli aspetti sociali di “relazione”, ovvero i modi in cui si interviene. Con quali modalità l’operatore fa rispettare il regolamento? Usa una voce squillante? Si interpone con autorevolezza? Urla? Usa una voce flebile? Fa tanti discorsi fumosi?

3.2.1 Episodi difficili da gestire in biblioteca: la negatività alta Lo studio che ho portato avanti in questi anni sui fenomeni critici e disfunzionali nei contesti, con le influenze che attingono 173

a neuroscienze, psicologia e management, mi ha portato a stilare la scala di negatività. Ovvero, a identificare tre forme di negatività, di cui due le abbiamo già viste, la prima è la “negatività bassa” la più frequente e prodotta un po’ da tutti, quasi sempre presente; la seconda è la “negatività media”, intermittente nella sua frequenza; la terza è la “negatività alta”, occasionale e saltuaria, ma molto complessa da gestire. Ecco le voci che col mio gruppo di lavoro abbiamo aggregato per una possibile loro classificazione: • negatività bassa, in caso di: problemi, conflitto, malessere, errori, incertezza, critica, passività, negazione, lamento, malinteso, vergogna, diffidenza, barriera, cinismo, confusione, pettegolezzo, dogmatismo, moralismo, opposizione, chiusura, inibizione, apatia, divagazione, ira, offesa, stress; • negatività media, in caso di: disturbo costante, trinceramento oppositivo, insulto occasionale, insinuazione subdola, critica squalificante, essere sempre contro, squalifica sistematica, esaurimento emotivo; • negatività alta, in caso di: critica umiliante, illazione aggressiva, sgarbo, furore, odio minaccioso, usurpazione, aggressione fisica, devianza, violenza fisica, distruzione oggetti e cose, danneggiamento beni, boicottaggio aggressivo, condotte antisociali, mobbing, furto, inciviltà. Categoria

Caratteristiche

Risposte e competenze

Negatività bassa

Comportamenti oppositivi, distruttivi e antagonisti che fanno largo uso della parola, il corpo è a rimorchio ma di sfondo. Il cervello razionale è attivo.

Capacità negativa Accoglienza, ascolto, contenimento, trasformazione in passi concreti possibili. Metodo centrato sulla parola Parola chiave e direzionale

Comportamenti distruttivi che impiegano ancora la parola, ma a cui si aggiunNegatività media gono enfasi e movimenti del corpo più plateali e azioni. Il cervello razionale è semiattivo

Metodo a sveglia Attivazione, comprensione, risposta, tentativo di accordo Metodo integrato parola e corpo Molla corporea, giocare il problema, agire con autorevolezza

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Negatività alta

Comportamenti distruttivi e devianti incentrati su corporeità (urla, minacce fisiche) e azioni; la parola è presente ma tende solo ad essere imbrigliata dentro a routine verbali insultanti e volgari. Il cervello razionale è disattivato.

Protezione buona Proteggersi, centrarsi su un punto tecnico di “compito” se è ancora possibile, chiudere l’interazione, congedarsi. Metodo più corporeo che verbale Puntellamento, contenuto solenne e garbo professionale

Figura 34 – La scala di negatività

Nella negatività “bassa” ci sono spazi seppur contrastati per l’interazione, in quella “media” gli spazi si congestionano di più ma è ancora possibile trovare uno spiraglio, nella negatività “alta” l’interazione si pregiudica, lo spazio di ragionamento si azzera, per cui come operatori è strategico trovare metodi adeguati ad ogni specifica forma negativa. Episodio 1 Utente che offende rispondendo in maniera insultante e volgare all’invito dell’operatore a seguire le regole del prestito. B. Signore mi spiace ma senza tessera non le posso dare il libro. U. Ecco la solita faccia di cazzo! [impiego di voce alta e mani che sbattono sul desk] La risposta qui è apertamente disfunzionale. Ci sono tre forme di risposte dell’utente in negatività alta e le comprendiamo in base al bersaglio di indirizzo, qui le pongo dalla meno forte alla più forte: • alla struttura (qui non funziona nulla, ha capito!); • al ruolo (lei non sa lavorare… se lo metta bene in testa!); • alla persona (lei fa schifo, schifo!), che si accompagna spesso con riferimenti sessuali, alle conformazioni fisiche dell’operatore (faccia, capelli) e con imprecazioni alle figure affettive (madre, figli); questo è l’attacco più difficile in assoluto, perché tocca molti livelli di credenza, identità, dignità.

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In tutti e tre i gradienti l’operatore per facilitarsi è bene che tenga in conto alcune priorità importanti: la prima è proteggersi, chiudersi, visto che ogni forma di apertura sarebbe davvero incongrua e lesiva; la seconda è tentare di risolvere il problema tecnico; la terza è quella di non peggiorare la situazione che è già negativa. Riformulando l’episodio vediamo insieme i possibili passi di facilitazione. B. Signore mi spiace ma senza tessera non le posso dare il libro. U. Ecco la solita faccia di cazzo! [impiego di voce alta e mani che sbattono sul desk]. B. Signore manca la tessera, la prego! [centratura sul compito tecnico, far scivolare gli epiteti, allertarsi, tono verbale e corporeo autorevole, muoversi con cautela]. U. Ah mi prega anche, ma lei ce l’ha proprio con me, cosa le ho fatto!! [in questi casi le persone in questo stato tendono a servirsi di ogni cosa detta pur di insultare e distruggere]. B. Signore, la tessera! [qui l’operatore introduce il metodo del contenuto solenne, stare cioè solo su un piccolo passo concreto tecnico e sempre quello, non si muove da lì]. U. Lei è proprio un pazzo a spese della società, voglio il mio libro! [ritorno alla carica in maniera veemente]. B. Signore, per l’ultima volta, la tessera! [ancora contenuto solenne e annuncio del congedo, per cui l’operatore intende chiudere l’interazione da lì a poco]. Da qui in poi l’operatore, centrato su un solo contenuto tecnico, la tessera, annuncia il congedo, perché prima chiude e meglio è per sé, per l’utente e per l’ambiente circostante, che nel frattempo è scosso. Nella gestione della negatività alta abbiamo due necessità: la prima, riguarda la verifica se nello scambio c’è un piccolo punto concreto che si può definire; la seconda, è la chiusura rapida dell’interazione, il congedo rispettoso e l’attenzione alla protezione di sé, sia fisica che psichica. Nelle negatività, in tutte e tre, ricordiamoci che la perfezione di comportamento non esiste, non esiste un “bibliotecario perfetto” e non ne usciamo da queste interazioni con l’ottimalità così tanto reclamizzata in certi corsi e manuali. La capacità 176

invece più alta è cercare di cavarsela, aggiungendo alla propria esperienza fatta sul campo, queste nuove misure applicative, a mio avviso indispensabili. Indispensabili! Qui di seguito provo a riepilogare i passi utili. GUIDA 3 - Facilitarsi nella negatività alta, i passi

Contenuto solenne

Puntellamento

Garbo professionale

Lo scambio è impossibile, i canali del ragionamento sono sospesi, in atto ci sono processi chimici ed elettrici molto potenti. Ripetere e ripetere una sola cosa, stare su un solo contenuto e su questo va chiuso lo scambio (non c’è spazio per la relazione); turni asciutti, poche parole (le parole sono germi infetti); non tendere all’eleganza, alla coerenza, ma solo all’efficacia. Postura corporea radicata, vitale, che fronteggia, stare in allerta, usare cautela; mobilizzare tono e corpo; attivare una molla corporea con una piccola spinta in avanti; attivare il respiro; sgranare gli occhi; mettere autorevolezza richiamando una sana tensione muscolare. Attitudine a risolvere senza fare troppi drammi, attenuare, moderare, attingere a buoni pensieri (non infierire, non peggiorare) evitare la simmetria (lui è disgustato e anch’io sono disgustato), frenarsi, limitare la risposta automatica di altrettanta distruttività, evitare la dispersione delle energie, autocongedarsi nella ritirata*. Il “garbo” è un portamento integrato che richiama un rispetto minimo benevolo, che non permette tuttavia altra provocazione.

* La ritirata viene solitamente vista come debolezza, invece qui la consideriamo come un’alta funzione di maturità e anche di moralità, per via di non sprecare risorse, non peggiorare ciò che è già negativo, non cadere a nostra volta nel comportamento selvatico e fuorviante. In questa lettura la ritirata è quindi una forma di alto profilo consapevole e competente.

Episodio 2 Emeroteca, un utente urla perché vuole leggere il quotidiano. Interviene il bibliotecario con fermezza ma la persona si altera e urla ancora di più. Questo è uno dei tanti casi di utenza problematica di origine temperamentale, di persone cioè volubili, bizzarre. Anche qui l’operatore può provare a innescare i 177

tre passi della protezione buona: contenuto solenne, puntellamento, garbo professionale. Episodio 3 Utente che urla alle telecamere. Episodio 4 Utente che cerca di aggredire la ex fidanzata mentre consultava dei volumi nello spazio ragazzi. Episodio 5 Utente anziano che ammicca all’operatrice: “Ti leccherei tutta…” [accompagna le parole con faccia e occhi suadenti]. Nella realtà la collega ha risposto così: “Rossi, non ci siamo capiti ora lei la pianta!” [prescrizione sulla persona] Il signore anziano davanti a questa giusta perentorietà si mette in buon ordine e forse qui il caso è risolto, almeno nella sfera professionale, visto che qualche strascico lo potrà invece lasciare nel vissuto profondo dell’operatrice, offesa e turbata su aspetti tanto riservati quanto intimi. Si tratta infatti di un’offesa non brutale, come possono essercene tante altre, ma molto insinuante e pervasiva, che può produrre sensazioni sgradevoli anche nel tempo. Studiamo ora un’altra possibile risposta che poteva dare l’operatrice: “Rossi, così lei mi offende! Se ha una richiesta di libro la veda con la collega!” [chiusura e protezione di sé]. Considerate le tante variabili in gioco in questo episodio, la chiusura e il congedo mi sembrano due punti proponibili per una sostenibilità professionale e personale dell’operatrice. Mentre scrivo mi rendo conto che tutte queste riflessioni nei momenti chiave in cui accadono i casi critici non sono così facili da ricordare. Ma sia in questo caso dell’anziano, ma anche del signore che urla in emeroteca, o l’utente volgare per la tessera, possiamo fermare un principio chiave, ossia quello che le parole non sono le nostre prime alleate, perché fragili, deboli, rispetto alla pesantezza del comportamento. Nuove risorse perlopiù le possiamo e dobbiamo cercare per prime nel buon uso del linguaggio del corpo, e poi anche nelle parole, che sono da dosa178

re col bilancino.5 Un altro alleato è rimarcare l’oggetto tecnico dell’interazione (es. la tessera) e ripeterlo con garbo. Un ultimo, la necessità di congedarsi e congedare quanto prima l’utente, qui ha senso anche la staffetta con un collega che subentra, con qualità emotive e mentali sicuramente più lucide e sobrie dell’operatore in questione.

3.3 La mediazione nel reference: a volte è proprio difficile Se la biblioteca è un’istituzione sociale, il servizio di reference è prima di tutto un’esperienza umana di incontro. Secondo Ranganathan,6 ispiratore del pensiero biblioteconomico, la persona che lavora in biblioteca può realizzare appieno la propria umanità se riesce a trasformare la propria professione in servizio autentico e disinteressato all’altro, svolgendolo con dignità profonda e con sincero distacco, senza sperare in riconoscimenti particolari. Il servizio di reference è la ragione primaria e il culmine di tutte le pratiche della biblioteca. Le sue varietà, la sua preparazione, la sua delicatezza e la sua centralità sono alla base fondante della biblioteconomia: i libri sono fatti per essere usati; ad ogni lettore il suo libro; ad ogni libro il suo lettore; non far perdere tempo al lettore; la biblioteca è un organismo che cresce. Servizio autentico e disinteressato sono le virtù del bibliotecario! Questo non toglie che nella funzione di reference, la mediazione tra richiesta dell’utente e risposta dell’operatore possa essere sempre fluida e soddisfacente, anzi a volte è proprio difficile. Non perché insorgano necessariamente negatività, come le abbiamo intese fin qui, bensì per i suoi caratteri di complessità, riferimento, relazione, consultazione che questa comporta. La funzione dei bibliotecari di reference, dunque, è quella di fare   A livello neurobiologico i circuiti della parola, che si trovano nel cervello alto, sono come inondati da attivazioni e reattività del cervello basso, quello emotivo e automatico, inconscio. Inondati vuole dire inagibili. Per questa ragione quando siamo dentro a stati emotivi forti, belli o brutti, le parole fanno fatica ad uscire e la nostra competenza linguistica narrativa si inaridisce fino a interrompersi. 6   Shiyali (India) 1892-1972. 5

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da punto di riferimento per gli utenti, di rivestire a mio avviso due grosse aree di competenza: • la prima è una competenza tecnica (biblioteconomica) in cui guidare e assistere la ricerca di studio o lettura, facendo da tramite fra la mole delle informazioni racchiuse nei cataloghi cartacei e digitali (mediatore culturale); • la seconda è una competenza sociale (relazionale) in cui accogliere, connettersi con l’altro, sviluppare intuizioni e fiuto, quali capacità prettamente umane, utili a intercettare le domande esplicite e implicite dell’utente che si ha di fronte, indovinare e intuire le sue necessità, e cercare in un breve lasso di tempo le risposte più adatte (agente di aiuto). Episodio 1 “La difficoltà maggiore: soddisfare utenti che non hanno veramente idea di quello che stanno cercando e si aspettano dal bibliotecario che faccia il lavoro al loro posto”. Episodio 2 “Un’insegnante che deve organizzare una passeggiata letteraria su Victor Hugo e non sa da dove iniziare, né ha tantomeno letto niente dell’autore”. Episodio 3 “Studente che deve scrivere la tesi di laurea e si presenta al bancone con un vago senso di delega, come se si aspetti che sia io a mettermi lì a progettargliela. Il ragazzo ha come argomento la storia della Cassa di Risparmio locale, gli trovo duemila documenti che lo lasciano un po’ dubbioso, perché lui forse si aspettava che magicamente sbucasse un unico volume, per una tesi già praticamente fatta da altri”. Tenendo in conto che nell’utente corrono i caratteri di incertezza, di desiderio implicito di supporto volontaristico, di voglia di non fare troppa fatica, aggiunti a spaesamento e confusione e tanto altro ancora, fa parte del lavoro del biblio-fac potergli agevolare la ricerca, senza tuttavia sostituirsi. Non è infatti una “presa in carico” come nel caso di assistenti sociali, alle prese con ben altri casi umani, ma di consulenza e facilitazione. Per 180

essere più semplice e chiaro provo a strutturare le buone pratiche di reference in tre fasi, che riprendono il metodo sequenziale delle riunioni che ho già illustrato nel secondo capitolo. GUIDA 4 - Facilitare il reference: i passi Fasi

Competenze facilitatrici

Saper ascoltare: è una capacità così elementare e anche così difficile da garantire. Ricordo che l’ascolto buono ha cinque qualità: Accogliere - lasciare spazio e tempo all’esposizione dell’altro; (centratura - evitare di interrompere; sull’utente) - dimostrare attenzione tramite sguardo e postura; - incoraggiare l’altro ad aggiungere e spiegarsi meglio; - verificare la propria comprensione (tecnica del rimando). Saper comunicare: attivare una capacità di ascolto ed emissione che possa intensificare i cambi di turno e i cambi di punti di vista, secondo una buona capacità di pendolo sé-altro: - punto di vista dell’utente (role-taking), assumere la prospettiva dell’altro; - punto di vista dell’operatore (role-making), autocentro, dire la propria. Esplorare la domanda: l’importanza è nel cercare di cogliere elementi specifici alla situazione e alla persona, seguendo alRegolare cune direzioni possibili: (centratura - fattori di contesto (tempi, necessità, orientamento); sull’intera- fattori umani (sensazioni, intuizioni, timori, desideri); zione) - fattori tecnici (materiali, risorse, strumentazioni). Dare una direzione all’indagine: - stare sui fatti; - sciogliere un problema alla volta. Calibrare la ricerca: la calibrazione sta a quella capacità di sintesi e rimodulazione costante, di risintonizzazione tra aspetti pratici, aspetti umani e tecnici. La calibrazione offre una qualità innovativa che è data da una maggiore flessibilità, mobilità, cambio di stato e dalla focalizzazione su di un bersaglio mobile.

Inviare (centratura sul risultato)

Saper chiudere, ovvero la necessità di portare a conclusione la ricerca. Si possono seguire questi tre punti: - bisogno di ordine e struttura; - decisionalità, arrivare a conclusione; - chiusura mentale, evitare in senso positivo che i punti ottenuti vengano messi in discussione. Saper negoziare: raggiungere un accordo tramite scambi di punti vista basandosi sui fatti. Saper concretizzare: definire il risultato finale.

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3.4 Non basta curarne uno… e quelli che aspettano? Mi capita spesso, come cittadino, di andare negli uffici pubblici, in banca, alle poste, in biblioteca. Ogni volta mi sorprende quanto sia imprevedibile la cura di noi clienti, che tendiamo a chiedere sempre cose nuove o a porre problemi non sempre congrui. Noto anche da parte degli operatori un sufficiente livello di cura, livello che crolla quando però nell’ufficio ci sono molti clienti che aspettano. La domanda che sorge è: come si può curare il singolo allo sportello e gli altri che aspettano in coda? A me sembra importante infatti curare l’utente che si ha davanti, senza tuttavia dimenticare quelli che aspettano in fila. Con due semplici accortezze: la prima dando brevi cenni di aggiornamento comunicativo a chi aspetta, che valuterebbe molto bene questa forma di attenzione; la seconda accentuando un po’ il ritmo delle pratiche, perché chi aspetta possa passare prima. L’operatore ignora la fila perché si concentra sul singolo che ha davanti: ciò è giusto e corretto, ma fino a un certo punto. La qualità di servizio non si può limitare al singolo, ma deve inglobare anche la situazione più allargata in sala e gli altri utenti che aspettano. La gestione dei tempi, delle code e delle attese fanno parte infatti della dimensione dell’accesso e del contatto con l’utente. È molto importante la rapidità del servizio, cioè il tempo necessario alla realizzazione di una prestazione. Già dal 2000, con la legge sulla Comunicazione pubblica, si preconizzava che le amministrazioni potessero facilitare il rapporto coi cittadini sui versanti della chiarezza del linguaggio, dell’informazione adeguata, la velocità e l’efficacia delle prestazioni, la trasparenza dei procedimenti e degli atti. Non basta quindi curare con qualità l’utente, bisogna anche curarlo con sollecitudine e rapidità. Il servizio bibliotecario deve essere erogato in modo da garantire l’efficienza e l’efficacia. Una biblioteca efficiente ed efficace realizza gli obiettivi che ha fissato avvalendosi dei mezzi che ha a disposizione e rispettando le aspettative degli utenti. Quando si parla di efficienza di un servizio ci riferiamo alla misurazione quantitativa del rapporto tra risultati ottenuti e mezzi impiegati. Col termine efficacia, invece, si indica la valutazione qualitativa del risultato e la sua rispondenza alla domanda sociale che lo ha richiesto. 182

Propongo per il biblio-fac quindi di attivare una competenza a zoom, che sappia focalizzarsi sul singolo utente, ma anche sul contesto più allargato aprendo il campo di visione sulle situazioni che si muovono attorno. GUIDA 5 - Facilitare l’attesa, non fare aspettare troppo Riepilogando, alcuni spunti semplici della “competenza a zoom”. • Cura dell’utente singolo al desk, portare attenzione e ascolto buono. • Apertura del campo di visione sul contesto, la sala, l’eventuale coda di utenti che aspettano. • In caso di coda velocizzare le manovre per evadere prima il singolo utente. • La velocizzazione non intacca il senso di cura, è bensì solo un incremento di ritmo di svolgimento delle manovre, che tendono a trasmettere altrettanto tono anche all’utente.

La qualità di servizio infatti può assumere un portato più dinamico (molti già lo fanno), per far fronte in forma competente sia alla qualità che alla quantità dei contatti col pubblico. Per la competenza a zoom possiamo avvalerci di strumenti tra quelli che abbiamo già visto nel secondo capitolo: • ascolto buono, sempre fattore centrale e presente; • doppia cornice, tecnica di impostazione, che cura il contenuto e la relazione; • brevità e ritmo, turni di parola concisi, ritmo verbale e ritmo operativo; • io-assertivo, espressione del proprio parere nel rispetto del parere dell’altro; • corpo esperto applicato, impiego di gestualità intenzionale e postura energetica; • chiusa parola, modalità efficace per incoraggiare una verbalità concisa e mirata; • feedback negoziale, fare accordi passo dopo passo. Avevamo aperto il capitolo con le raccomandazioni dell’AIB, ora concludiamo ponendo in evidenza gli strumenti efficaci della relazione con l’utente visti dalla Facilitazione esperta.

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GUIDA 6 - Facilitare la relazione con gli utenti (cosa suggerisce la Facilitazione) Obiettivo: il bibliotecario cura l’utente come soggetto da facilitare, sia sul piano tecnico che relazionale, per un accrescimento delle sue conoscenze individuali in vista di un incremento di apprendimenti e intelligenze da mettere in circolo e socializzare. Strategie 1. Utilizza gli strumenti della Facilitazione esperta, per unire gli sforzi di operatori e utenti. 2. Coordina l’interazione con l’utente nel corso della transazione informativa (catalizzatore). 3. Coinvolge l’utente nel processo comunicativo dialogico (mediatore culturale). 4. Aiuta il soggetto nelle mille forme di criticità, incertezza, spaesamento (agente di aiuto). 5. Applica una protezione buona di sé nei casi di aggressività verbali e fisiche (negatività alta). 6. Attiva l’utente fornendogli indirizzi bibliografici mirati e di orientamento alle culture (motivatore).

Con i colleghi I colleghi di lavoro rappresentano quantità e qualità di rapporti, potremmo dire in forma industriale. Rapporti che si rinsaldano giorno dopo gior­no, fino a superare spesso intensità e confidenza rispetto a quelli intimi e familiari. Rapporti invece che creano sgarbi e scissioni interne ed esterne. Lavorare con colleghi in piccoli gruppi è una necessità ineludibile, in cui l’affiatamento assume un’importanza chiave. Michael Argyle (1996), esperto inglese delle competenze sociali, ha studiato quanto una squadra di muratori affiatata, in undici mesi, abbia raggiunto livelli di produttività superiore del 12 per cento, rispetto a un’altra analoga ma non affiatata, oltretutto consentendo un risparmio pari al 16,5 per cento in spese materiali. Le relazioni tra colleghi sono relazioni tra persone con cui si divide una grande fetta di vita, a volte per un numero notevole di anni, senza che ci sia stata la possibilità di scegliersi: i colleghi ce li troviamo. Così, con i loro lati buoni e i lori lati cattivi. 184

Le caratteristiche di interazione tra colleghi sono complesse, dai rapporti profondi e di attrazione a quelli amicali e di mutualità, dai rapporti superficiali ed evitanti a scambi privi di qualsiasi importanza e significatività, in tal senso Argyle ha individuato quattro tipologie di relazione: • amico personale, rapporti di amicizia fuori dal lavoro, i colleghi diventano amici nel senso comune del termine, la rete si estende alle reciproche famiglie; • amico di lavoro, rapporti di amicizia sul lavoro, colleghi che si incontrano regolarmente nelle pause per il pranzo ma che non si frequentano fuori dal luogo di lavoro; • collega di lavoro, rapporti di lavoro amichevole, colleghi che si incontrano abbastanza spesso sul lavoro, il contatto è gradevole ma non regolare; • collega antipatico, rapporti esclusivamente di lavoro, l’incontro è solo tecnico, visto che la compagnia non è gradita. Spesso tra colleghi nascono conflitti e attriti, le cui cause possono consistere in rivalità personali, per ottenere promozioni e prestigio, lavori meglio retribuiti o meno faticosi, oppure anche dissonanze provocate da tratti di temperamento divaricati e opposti. Dal­l’altra, anche i rapporti solidali tra colleghi sono molto frequenti e possono a volte durare anche molti anni, e in molti casi contribuire in modo decisivo al raggiungimento di obiettivi professionali e di carriera. La ricerca di Argyle ha rintracciato quali sono le regole ritenute costruttive tra colleghi di lavoro.

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Figura 35 – Regole tra colleghi di lavoro Fonte: Argyle [1996]

Vari studi fissano le condizioni distruttive comuni tra colleghi di lavoro. Qui anziché compilare quadretti precostituiti o dare etichette ai diversi prototipi disfunzionali,7 ci interessa di più segnalare alcune difficoltà ricorrenti, nelle quali a turno si entra un po’ tutti. Può esistere anche un collega “stronzo”, ma certamente per contraltare non esiste il collega perfetto, crediamo davvero che tutti mettano forze e debolezze nel computo complessivo di un luogo di lavoro. Qui di seguito alcuni punti difficili tra colleghi:8 • differenze di personalità, ci sono gli estroversi e ci sono gli introversi, ci sono i nevrotici ansiosi e quelli depressi e anche quelli aggressivi, ci sono quelli che tendono a posizioni dominanti pur essendo alla pari;   Esiste un’ampia letteratura sulle tipologie umane e anche in particolare sulle tipologie di colleghi, tra cui per esempio il dinosauro, il trasformista, il manipolatore, lo scansafatiche, tutti format a nostro avviso improvvisati e limitati, per via che tendono a fossilizzare la personalità dell’altro in un’unica formazione tutta negativa. 8   Nostra sintesi prendendo spunto da Argyle M. (1996). 7

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• incapacità a parlare in gruppo, chi parla troppo e chi non parla affatto, il non rispetto dei pareri altrui, la difficoltà reale di sintetizzare pareri diversi, tutte problematicità ereditate da famiglia e scuola; • egocentrismo, non tenere conto del parere dell’altro, atteggiamento che tende a procurare blocchi e barriere comunicative frequenti; • difficoltà di aprirsi agli altri, restare nel proprio recinto, avere difficoltà di semplice interesse per l’altro, oltre che non riuscire ad aprirsi in forma profonda e sentita; • incapacità di collaborare, preferendo modalità solitarie fondate sull’individualismo; • lamenti e lagnanze, non adattamento alle situazioni, il termometro dell’umore è spesso bloccato sulle cose che mancano anziché su quelle che ci sono, sulle cose come erano prima invece che sul cambiamento, che non è sempre peggiorativo delle condizioni personali e collettive.

3.5 Conflitti per modi diversi di lavorare e differenze di temperamento La comunicazione tra colleghi non è mai abbastanza; ecco alcuni episodi raccolti di recente tra operatori. Episodio 1 “Eh sì i libri non si mettono a posto da soli, i computer non si spengono da soli, sono le sette, tu devi andare via ma ci potevi pensare anche tu, tu basta che all’orario te ne vai e poi chi si è visto si è visto!”. Episodio 2 “Nella stesura del programma di eventi in biblioteca potevi preparare la tua parte, la scadenza era oggi, ce lo siamo detti più di trenta giorni fa!”. Episodio 3 “Da noi c’è un collega aggressivo che urla e spesso mi insulta, tutto per un suo disagio che sta vivendo in questo periodo”. 187

Episodio 4 “Ci sono colleghi che impiegano un tono di voce alto, che per me urlano, e non si accorgono di quando io per esempio sono al telefono e sto seguendo un utente. Mi mettono in agitazione e la cosa mi innervosisce parecchio”. Episodio 5 (Ancora più grave) Da noi c’è un collega che critica gli altri colleghi davanti agli utenti e urla frasi brutte del tipo: “Sei un incapace, non sai fare niente!”. Poi ci sono altri che entrano in una fase di malessere e si defilano sempre di più. Carichi di lavoro non equi, sbilanciati e assenza di fiducia. Colleghi che accampano scuse su mansioni enormi da svolgere per non adempiere quanto assegnato dal turno lavorativo. “La collega mi mette in imbarazzo di fronte agli utenti, perché prende in giro ad alta voce i bambini che leggono molto, costringendomi ad esprimere opinioni personali”. E forse non è il caso di ripeterlo che “siamo tutti nella stessa barca”? Le forme dissonanti e disfunzionali sono così polverizzate nelle giornate, ossia frequenti e di varia intensità, che stare lì a fare classifiche o liste del collega cattivo o del collega perfetto, credo sia uno sport abbastanza inutile. Altre difficoltà di ordinaria vita in biblioteca. “Non ho voglia di farlo, fallo tu!”. “Sei tu che decidi”. “Non voglio fare i turni”. “Non segui le procedure”. “Sei sempre distratta”. “Non leggi mai le mail che ti mando”. “Non è mia competenza!”. “Disattendi i compiti ricevuti”. “Lasci sempre la scrivania in disordine”. “Non vengo pagato per questo”. “Devi delegare di più”. “Sei troppo passivo con gli utenti”.

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Il rapporto tra colleghi è l’esito di un processo di scoperta e valutazione reciproca, in base al quale si stabiliscono alleanze o distanze, si formano coalizioni, si manifestano interessi comuni o contrapposti, simpatie o antipatie, amori e intolleranze. Il concetto di colleganza, dunque, travalica il gruppo di appartenenza organizzativa, e comprende i gruppi interfunzionali e, soprattutto, quelli informali. In definitiva, i rapporti con i colleghi da un lato sono dettati dalle esigenze di lavoro, dal­l’altro sono il risultato di scelte individuali che danno vita a una serie di coppie, tra loro spesso combinate e sovrapposte. Questo consente di esprimere, in un rapporto di scambio anche intenso, sentimenti e affetti che incidono fortemente sul benessere degli individui. I risultati sono colleghi che vivono idilli veri e propri e colleghi che vorrebbero nascondersi e sparire, comunque con un tasso di sofferenza molto elevato. E non è tutto o solo conflitto, ma anche scontro, guerra, lotta, battaglia, urto, contrasti di posizione, collisione, dissenso, discordia, litigio, diversità, contrapposizione. E non basta, ci sono anche disturbi, inquietudine, turbamento, disagio, fastidio, nervosismo, irritazione.

3.5.1 I metodi sono importanti: li possiamo imparare Come rimediare a queste buche in cui si cade frequentemente? E tutti a turno cadiamo, proprio perché siamo il frutto tutti insieme di funzionamenti innati e naturali (ricordatevi l’amigdala e la lotta tra cervello alto e basso), perché poi ognuno come persona può avvalersi dei suoi lati forti e lati deboli e tutti li abbiamo, infine perché le situazioni ci condizionano e ci entrano dentro cambiandoci in bene e in male. Questi sono i motivi per cui non credo al collega solo stronzo e al collega solo perfetto. Gli strumenti sono indispensabili a un adulto o al bibliotecario, come un martello è indispensabile al muratore o la pala per il forno per chi fa le pizze. Muratore e pizzaiolo dovrebbero agire a mani nude con il rischio di sbagliare e di farsi anche male. Così la critica costruttiva o il feedback negoziale ci danno la possibilità di non andare a “mani nude” nelle difficoltà con l’altro, che, ormai è chiaro, esistono e fanno soffrire ognuno di noi, dal primo all’ultimo. Sono anche dell’avviso che gli strumenti non siano risolutori in toto, che all’irruenza di molti momen189

ti non ci siano tecniche, libri, corsi che tengano. È anche vero tuttavia che, nell’irruenza, se siamo senza “educazione” possiamo andare ancora di più allo sbando; è vero inoltre che, senza educazione, non sapremo come ovviare a quell’irruenza, quali passi compiere per ricucire la relazione col collega. Tra quelli già illustrati, ecco qualche rinforzo di strumenti per stare meglio nei conflitti e nel malessere tra colleghi. La critica costruttiva può incanalare i disappunti nervosi e i contrasti, che di loro non danno nessuna informazione e inducono solamente all’esagerazione. La critica costruttiva comincia quando chi riceve il rimprovero fa una domanda precisa all’altro: “Mi fai un esempio della mia scarsa attenzione al prestito?”. La domanda mira alla concretezza dei fatti e non alle opinioni. Chi invece fa la critica cerca di evitare di lamentarsi e si concentra su una frase mirata all’errore che il collega ha prodotto, non apre una voragine e indica una proposta per la prossima volta. Esempi: “Già da quattro, cinque sere non spegni i computer e non metti a posto i libri, la cosa mi crea disagio, ti chiedo di provvedere anche tu a fare queste cose prima della chiusura, è possibile?!”. “Per il depliant delle conferenze manca solo la tua parte, la cosa ci rallenta tutti e dà fastidio, per domani puoi provvedere in prima mattinata?!”. “Giovanni, le tue urla di oggi e quelle di lunedì scorso mi mettono davvero in difficoltà, mi buttano a terra, credo che tu possa smettere con questi comportamenti!”. Il punto di una critica costruttiva è portare fatti concreti e controllarsi nell’impeto distruttivo, di suo enfatico ed esagerato. Un altro strumento pratico per facilitarsi è il feedback negoziale, il metodo per fare accordi più agevolmente, in cui si prova ad avanzare una prima idea grezza, si chiede il parere dell’altro e si definisce la soluzione pratica insieme. L’idea grezza formula un’idea concreta ma in forma interlocutoria, per evitare, qualora l’idea fosse già tutta dettagliata, che venga respinta solo perché è chiusa e strutturata. Un ultimo strumento è la vitalità e bioenergia, che ci ricorda infine che nei diverbi è molto importante respirare, attivare un respiro più consapevole e centrarsi sulla postura, tonificando il corpo come prima buona regola di fronteggiamento. Ma a volte le 190

emozioni date dalla rabbia e dalle “ferite” sono troppo forti ed esigono sollievo con urgenza. In questo caso la domanda è: “Come posso scaricare le tensioni senza fare male?”. In tal senso sarebbe buono frequentare un gruppo o un corso di formazione periodico in cui condividere con altri la gestione delle emozioni e della negatività, corsi in cui utilizzare la voce, il corpo, i movimenti. GUIDA 7 - Facilitare il conflitto col collega, in posizione “diretta” implicata Sintetizziamo i punti utili per cercare di non peggiorare le situazioni quando siamo già nella negatività e addirittura cambiare verso e procedere verso piccole soluzioni possibili. • Critica costruttiva, prova a fare una critica seguendo i punti di metodo illustrati, perché possa essere meno distruttiva, pur mantenendo i caratteri della critica e del disappunto. • Feedback negoziale, prenditi l’impegno di cercare un accordo, basta anche un orientamento di massima, per dettagliarlo infatti non è il momento più adatto, ma per mettere le basi elementari e grezze quello sì. • Vitalità e bioenergia, non ti buttare giù, evita di afflosciarti, dall’altra controlla l’impeto aggressivo che è naturale che ti salga (arousal), mantieni un’energia vitale e vispa.

3.5.2 Decisivo un collega “terzo” che può aiutare Per provare a ridurre i battibecchi, le fisiologiche incomprensioni, le piccole e grandi differenze di temperamento e di storie personali, oltre alla nuova educazione-facilitazione coi suoi strumenti, che di fatto non sempre si riesce ad agire, penso che un modo valido possa essere portato dal collega che in posizione “terza” aiuta gli altri due a parlarsi e chiarirsi. L’obiettivo è soccorrere i due colleghi che sono caduti nella buca della negatività, che se fosse per loro, otto casi su dieci, non può che peggiorare. Il collega si può quindi offrire come “terzo” tra le parti, in posizione di facilitatore occasionale, che si espone a una piccola fatica, sapendo però che la tensione tra i due è contagiosa e che il lavoro con quel clima è più pesante anche per lui. Per fare il soccorritore che facilita (“F”) non dobbiamo caricarci sulle spalle le angosce dei due, né tantomeno lambiccarci il cervello per trovare soluzioni eccezionali… ma? 191

Martina: “Luigi, da un po’ di tempo sei distratto, incurante di quello che ti diciamo come colleghi, come preso da altro, spesso dobbiamo fare anche per te e questo è scocciante”. F: “Sì, distratto…”. Luigi: “E io ti sento col fiato sul collo, perfettina, con questo eccesso di controllo che tutto sia in ordine, ma è una tua fissa, io non voglio esserne contagiato, lasciami stare…”. F: “Sì, perfettina e contagiato”. F: “Martina, che sensazione ti viene ora che ne parliamo”. Martina si esprime brevemente… F: “Tu Luigi, ti va di dire qualcosa di più su come stai in questo periodo?”. Luigi non è detto che racconti, perché dalla facilitazione ha una vaga sensazione di minaccia, ormai si è abituato a stare in quelle emozioni e in quei comportamenti (si chiama senso adattivo). Tuttavia, questa alternanza di turni (invece della sovrapposizione) e questa attenzione a esplorare il problema (invece del battibecco fine a se stesso) sono già due “farine” prelibate che il collega-facilitatore porta al mulino della coppia lavorativa, senza che lui sia un esperto, semplicemente. Basta solo qualche buon criterio di metodo, che chiamo rudimento, un rudimento di educazione alla facilitazione. Studiando un po’, per esempio questo libro, interessandosi alle conoscenza sulle dinamiche interpersonali, facendo un corso sulla facilitazione, il collegafacilitatore potrà compiere altri passi importanti per il suo apprendimento, la sua salute e il suo benessere e di chi gli ruota attorno. Risultato, si fa star meglio due colleghi in angoscia e un po’ intrappolati, con risorse proprie fatte in biblioteca.

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GUIDA 8 - Facilitare il conflitto tra colleghi, in posizione “terza” non implicata Qualche spunto per il facilitatore occasionale che con la sua azione interessata e competente può davvero fare molto di più rispetto a tante chiacchiere e tante teorie sul benessere organizzativo che girano in questi anni. Egli è l’artefice principale a cui intendo rivolgere tutto il mio sostegno e incoraggiamento: per aiutare due colleghi non c’è bisogno di permessi della direzione, ma solo convogliare lo scambio in una pausa di lavoro. Solo se il tentativo dovesse assumere un carattere più sistematico, allora il coordinamento col direttore va effettuato. Ecco i primi passi. • Verifica che le parti siano d’accordo con la tua facilitazione.1 • Il tuo intervento è breve, il tempo lo stabilisci all’inizio, puoi proporti per altre due o tre volte. • Invita le parti a esprimersi, nell’alternanza dei turni di parola, mantieni i turni brevi, i monologhi ingrossano le convinzioni individuali, il cambio invece le miscela. • Non devi appesantirti con l’assillo di trovare soluzioni, puoi solo aiutare in modo che loro possano parlarsi, funzione che da soli non sono più in grado di fare. • Non parteggiare per nessuno dei due, mantieniti terzo ed equanime più possibile, se riconosci la ragione di lei cerca di scovarne una anche di lui. • Prova con loro a individuare una soluzione, senza tuttavia forzare: se non ci dovesse essere conviene che ne prendi atto senza insistere, il tuo contributo buono l’hai già prodotto, non puoi che darti una pacca sulle spalle. 1   Cosa importante, se la coppia mostra problemi e bisogni complessi la strada da percorrere è invece di tipo organizzativo oppure anche che ognuno ricerchi i suoi sostegni nella propria vita privata.

Il collega-facilitatore è una funzione improvvisata perché legata a un episodio specifico ed è su autonomina, quindi è bene che risponda a caratteri di occasionalità e di tempo definito. I facilitatori con questa modalità possono agire soltanto per pochi minuti, per poche ore o per qualche volta. Questo tentativo a tempo, tuttavia, può scattare solo se a monte i due colleghi in conflitto adottano il principio dell’aiuto, concordando sull’importanza di una presenza terza.

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3.6 Si trova un accordo e poi ognuno fa come vuole Negli ultimi anni anche le biblioteche hanno subito restrizioni di risorse e di personale, che a cascata provocano stress organizzativi di vari tipi. A maggior ragione questi metodi della facilitazione, con la cura simultanea di compito e persone, possono essere molto adeguati e utili. Vado dicendo infatti da un po’ di anni che, quando i “rubinetti materiali” si chiudono (vedi budget, personale, computer, ecc.), un buon gruppo di lavoro è bene che provi ad aprire maggiormente i “rubinetti immateriali”, dati da comunicazione, coesione, cooperazione, creatività, abilità mentali, coinvolgimento degli utenti, ecc. Per esempio, come qui stiamo trattando, sappiamo che la vita tra colleghi non è facile, è un tasto complesso, perché agiscono le tre solite componenti intrecciate (sé, interazione, ambiente), che spesso fanno massa critica e ingarbugliata. Oltre ai conflitti tra colleghi che abbiamo appena visto, dalle nostre indagini nel settore sembra che tra gli operatori siano molto comuni gli episodi in cui si trovano accordi su procedure che poi non reggono all’impatto dei fatti. In concreto nelle biblioteche, e non solo qui, si tende a lavorare sempre sulle emergenze in un clima che genera nervosismo, sono poi continue le richieste extra delle direzioni rispetto alle mansioni concordate. In altri casi si registrano forme che denotano mancanza di coordinamento, non si fanno mai riunioni, gli scambi sono fondati su mail interne. Risultato: saltano comunicazioni essenziali tra settori e tra colleghi, in particolare sulla gestione del front-office. Episodio 1 “Nella nostra biblioteca ci abbiamo messo due mesi per riorganizzare il sistema delle donazioni,9 abbiamo fatto svariati incontri in cui tutti ci siamo coinvolti, quegli incontri hanno partorito un modulo da far compilare e firmare per evitare reclami… dopo tre giorni invece le donazioni si facevano con moduli incompleti dei dati dei donatori o addirittura in bianco!”.   Altro tasto delicatissimo dei rapporti con gli utenti che credono sempre di donarti la copia originale della Divina Commedia e ti perseguitano per sapere che fine ha fatto il loro dono. 9

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Episodio 2 “Da noi abbiamo stipulato una norma per cui si chiede la tessera a tutti gli utenti e non si consegnano libri in prestito ai parenti dei titolari ma solo ai titolari in persona, soprattutto da quando abbiamo inserito le tariffe di riammissione. Riunioni su riunioni ma alla fine ogni banco della biblioteca ha adottato tacitamente le sue usanze, che variano poi anche da operatore a operatore. Per esempio in mediateca, dove sono compatti, gli utenti si presentano tutti già con la tessera in mano, al banco della galleria centrale invece la maggior parte delle persone viene senza tessera e qualcuno, se gliela chiedi, si mostra meravigliato dicendo che non gliela chiedono mai. Il risultato è che chi segue la regola, concordata poi tra tutti con squilli di tromba, al cospetto degli utenti può passare anche per il formale e burocratico di turno”. Qualche riflessione riguardo la disunione tra colleghi sulle procedure: • le soluzioni prese in riunione hanno forse qualche difetto di fabbrica, sono state calate dall’alto? Sono frutto di una lobby interna? Sono troppo cariche di tecnicismi che non reggono l’urto coi fatti? • le lobby: di solito ci sono quelle dei motivati e certosini, sempre pronti a rinnovare e a fare bene, e quelle dei colleghi un po’ passivi, spenti, che fanno fatica a seguirle, per problemi effettivi o per cattiva volontà… Le decisioni spesso vengono prese dalle prime senza troppo coinvolgimento delle seconde, anzi con fenomeni incrociati di possibili squalifiche o pregiudizi che poi nell’atto pratico pesano tantissimo; • le riunioni che hanno prodotto le nuove regole forse non sono riuscite a far emergere resistenze nascoste e più sommerse? A mio avviso sono in gioco due versanti molto delicati, che occorre rendere più semplici, ovvero più efficaci e produttivi, grazie alla facilitazione. Anche muniti dei migliori metodi poi magari non riusciremo a trovare la formula perfetta, ma almeno accedere ad azioni più coordinate e inclusive quello sì. I due versanti critici sono: 195

• la dinamica del consenso e della dialettica interna tra operatori, nel nostro modello F2-Coinvolgere, col suo portato di malintesi e distorsioni e la ricerca di approdo alla negozialità e anche F3-Aiutare, con la sua scabrosa gestione e trasformazione delle inevitabili negatività, presenti in ogni angolo di lavoro collettivo; • il ponte tra teoria e pratica, tra decisioni e fatti, un continuum che non va dato affatto per scontato, riguarda F4Attivare, la competenza a motivazione, capacità di senso, autoefficacia; qui il punto è convogliare il consenso negoziale e la gestione delle negatività verso azioni corali più “compatte”. Inoltre, una decisione presa va accompagnata con periodiche verifiche e progressivi aggiustamenti (vedi debriefing). Quando un gruppo si spinge in avanti verso una nuova procedura deve incominciare a mettere in conto che agiscono dei quid, gli stessi che di solito ci fanno ammattire: “ma come, eravamo tutti d’accordo”; oppure “ma come, lo avevano chiesto proprio loro e poi sono loro i primi a non farlo”. Questi quid sono enigmi organizzativi, incoerenze palesi o rompicapo di cui temo non avremo mai risposte adeguate e plausibili. Sono quid di non facile risposta. Ma la prima risposta per quello che ne capisco è metterli in conto, ci sono, sono frequenti e partono da un po’ tutti, imprevedibilmente e senza pronostici certi. E spesso partono anche da capi e dirigenti, che erano stati loro a sollecitare il processo della nuova procedura. Sono quid che possiamo connotare come code sistemiche, sono cioè come dei grumi che aggregano più fattori e più coincidenze, intrecci di co-causalità, in cui si cerca poi sempre la divaricazione espiatoria (“è lui”, oppure “sono loro dell’emeroteca”). Perché espiatoria? Perché la nostra mente si deve sempre attaccare a un motivo plausibile, uno solo, altrimenti va in default. Del resto questo modo così frequente, ma anche così insano, ci fa regredire e aumenta il caos e la disunione. Di certo, possiamo dirlo, quelle decisioni sulle tessere o sui moduli per le donazioni, hanno avuto qualche difetto. Primo, a

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un’azione corrisponde una contro-azione,10 non sempre voluta, premeditata (a volte anche), ma spesso involontaria, quindi, alla regola che si assume corrisponde forse una negoziazione non chiara e farraginosa. Secondo, nei gruppi giocano quei campi di forze che illustriamo più avanti, che non stanno al “mondo fisico” della decisione, tutto razionale, dove già un po’ tutti vi aderiscono, bensì è confacente allo strato prelogico, inconscio, tipico di ogni dinamica di gruppo, di ogni decisione pratica e di cambiamento. Terzo, ogni cambiamento snida proporzionali resistenze e conservatorismi. Quarto, quel quid11 è una coda mentale prodotta da più fattori, che segue inevitabilmente all’azione e alle decisioni: il pensiero nasce prima delle azioni sì, ma continua e imperversa anche dopo. Il biblio-fac dunque, per ogni cambiamento e innovazione, metterà in conto l’insorgere di freni corrispettivi. Potrà notare come ai due passi avanti seguirà il solito e indesiderato passo indietro. Cioè a una spinta innovativa (detta in gergo anche feedforward) corrisponderà quasi sempre una controspinta conservativa, il rinculo del cannone (detto feedback),12 un feedback negativo e controproduttivo.

  Per un gioco di parole, anche contrazione.   È una cortina di polveri mentali, pensieri e sensazioni, automatismi, routine. 12   Da non confondere col feedback comunicativo, qui il feedback sta invece per resistenza, freno, dispersione dall’azione, regressione, tornare indietro. 10 11

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GUIDA 9 - Facilitare il proprio gruppo, dalla disunione all’accordo Possiamo disporci coi seguenti punti: • Più si parla di un dato aspetto e più la partecipazione al lavoro diviene intensa e compatta, ovviamente ai tempi di parola occorre dare una misura. • Con la parola si guadagna in comprensione e sociabilità mentale, ovvero, nelle nostre menti girano di più i pareri diversi e si rintracciano più facilmente le vie anche per uscirne insieme. • Aumenta il più possibile i fattori di inclusione, ascolto, dialettica e dialogica. • Al centro metti i fattori critici e dissonanti quale palestra di diversità e di umanità varia. • Cerca soluzioni e procedure più concordate possibile. • Ogni nuova procedura, mettilo in conto, dovrà essere aggiustata e ricalibrata. • La ricalibrazione è connettere le forze dell’innovazione con i rigurgiti delle resistenze. • Per decidere, mantenere la decisione, farla diventare stile di lavoro comune.

Questi sono i gruppi di lavoro. Dei laboratori a cielo aperto dove rendere più flessibili e più ecologiche le nostre finestre sul lavoro e sulle persone, le finestre sono i nostri punti di vista, che non sono portatori di verità assolute, bensì relative e spesso fuorvianti, abbacinate da riflessi diversi. Cerchiamo di estendere e rendere più belle queste finestre, che proviamo13 poi anche ad ampliare un po’. Un esercizio onorevole e meritevole.

Nei gruppi di lavoro Se mettiamo tre amici a un tavolino del bar a parlare del più e del meno, già scatta tra loro quella che la psicologia ha chiamato dinamica di gruppo. Avremo chi parla di più, chi tende a ritirarsi, chi invece a dominare, chi guarda da un’altra parte pensando che fuori è senz’altro meglio, chi è invidioso per la faccia o la giacca dell’altro, chi è neutro e non sente nulla. I tre non sono malati, stanno benissimo: sono solo in preda a forze   Concetto già illustrato di “finestra di tolleranza”.

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tipiche del gruppo o dell’aggregazione, che si attivano appunto in automatico a cavallo tra persona e contesto. Essi sono in dinamica, ovvero assumono comportamenti che in solitudine non avrebbero, mostrano lati che solo quell’occasione ha il potere di far emergere. Da qui i concetti di totalità dinamica e di interdipendenza, quali fenomeni sistemici che avvolgono le individualità e un po’ le trasformano. Il centro della ricerca sulla dinamica di gruppo risale agli anni Quaranta dello scorso secolo e porta il nome di Kurt Lewin, uno scienziato-attivista, professore di psicologia della Gestalt e in seguito di psicologia sociale. Egli ha approfondito i temi della partecipazione e della democrazia nei gruppi, delle decisioni e delle forme di leadership democratica. La sua visione di soggetto è dinamica perché tesa a intercettare la relazione, che va a comporre ciò che era diviso: il soggetto e il contesto, la dimensione oggettiva e quella soggettiva, la teoria e la pratica.14 Egli fonda una disciplina nuova, chiamandola appunto dinamica di gruppo,15 lo studio delle leggi dinamiche secondo le quali gli individui si comportano come si comportano. Il gruppo è definito infatti un “campo di forze”, in cui i comportamenti organizzativi sono la risultante della tensione tra campi di forza delle persone singole e campi di forza del gruppo al quale si appartiene. Un’ottica questa che abbandona definitivamente il pensiero meccanico e dicotomico per aprirsi alla complessità nel­l’ambito di un percorso circolare in cui il prima e il dopo, l’esterno e l’interno alla situazione, sono considerati come unità che conservano le parti diverse, ma che intrinsecamente le intrecciano in senso totale e interdipendente.16   Occorre teorizzare mentre si pratica e mentre si teorizza si può pensare alle ricadute pratiche: Lewin coniò questo metodo chiamandolo della ricerca-azione. 15   Lewin utilizza per la prima volta questo termine in un suo articolo del 1939 nel quale scrive che lo scopo del suo esperimento è “quello di penetrare la fondamentale dinamica di gruppo”. 16   Il concetto di persona che Lewin utilizza non è generico, la persona qui è definita come un soggetto che sta dentro un ambiente fisico e sociale; che è in continua relazione con questo ambiente non solo tramite i suoi processi percettivi ma anche con le sue azioni e motivazioni; sempre il singolo mantiene poi una sua completa vita soggettiva fatta di valutazioni, giudizi, progetti, ansie, scopi, valori. 14

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Lewin è forse il primo che comprende che i cambiamenti attivano forze contrarie di opposizione; in un suo passaggio concettuale afferma che “si può cambiare sia aggiungendo forze nella direzione desiderata, sia diminuendo le forze di opposizione”. In ogni cambiamento ci vede tre stadi: un primo di scongelamento in cui riflettere e scambiarsi pareri, un secondo composto dalla decisione e dall’azione, un terzo di congelamento, ossia, la sua concretizzazione vera e propria. Ecco alcuni punti chiave delle sue ricerche sulla vita del gruppo: • in dinamica in ogni gruppo ci sono forze positive e negative; • ciascun mem­bro riconosce gli altri membri come persone dalle quali dipende in misura definita; • il gruppo è un “tutto” psicologicamente connotato con proprietà definite sue proprie, in cui l’in­tero è diverso dalla somma delle sue parti; • non è la somiglianza tra i membri a costituire un gruppo, ma la dinamica interdipendente tra loro; • la coesione di gruppo è l’insieme di forze positive di reciproca attrazione e forze negative di reciproca repulsione; • cosa rende coesivo un gruppo se non la possibilità del singolo di raggiungere i propri fini (Marrow, 1977). Alla luce di questi nuovi principi forse possiamo capire perché è così complesso stare in un gruppo, lavorare con colleghi e con loro arrivare a decisioni e poi ad azioni coordinate nel tempo, nonostante che ognuno pensi di avere ragione, dentro un ring di ragioni personali, in cui c’è “chi la vuole cotta e chi la vuole cruda”.

3.7 Agiscono forze complesse, incoerenti, difensive Forse la prima forza che si agita nel gruppo risponde proprio alla nostra recondita natura umana, così complessa, così plurale tanto che ci spinge con intermittenze a poli opposti, tra l’adesione discriminante ai propri bisogni individuali e l’uniformarsi a quelli sociali. Siamo infatti tutti parte della specie umana detta ultrasociale, ma pur sempre siamo poi individui singoli e soli. 200

Il conflitto che ci corre dentro ha queste voci: mi mescolo nel gruppo o mantengo una mia dignitosa individualità? Questo dilemma può mettere in gioco due aspetti: • differenziazione, l’individuo si ritaglia una sua zona d’autonomia; • collegamento, il gruppo plasma l’individuo che ne diventa a sua volta una componente organica. Il problema, in altre parole, è quello dello spazio personale di ogni singolo operatore, con le sue parti di attività, competenze e comportamenti, e dall’altra il senso di dipendenza dal gruppo, che sovente sembra condizionare e influenzare in modo totalizzante il singolo. È davvero un dilemma che alcuni studi hanno cercato di integrare affermando che il nostro senso di identità è collegato alle nostre appartenenze, confermando così l’inscindibilità tra operatore e gruppo di lavoro. Siamo nello stesso tempo uguali agli altri colleghi attraverso l’identificazione in un gruppo e però anche differenti dagli altri colleghi, perché persone specifiche e uniche. Episodio 1 “Intanto Marco è sempre preciso nell’orario di apertura, posso arrivare in ritardo anche senza avvertire”. Episodio 2 “In seguito alla politica di Ateneo della dismissione di affitti abbiamo dovuto traslocare in altre sedi ... questo fatto di lasciare la sede storica è stato vissuto da molti come uno sradicamento ingiusto con conseguenti piccoli e grandi ‘guasti’ nella collaborazione operativa di tutti i giorni”. Episodio 3 “Fare sempre le stesse cose mi demotiva, mi sento con le ali della mia propositività come se fossero tarpate”. La vita di gruppo, come stiamo vedendo, è l’insieme di forze che facilmente vanno in dissonanza e in opposizione, in base al famoso quid di complessità nei confronti del quale non è certo facile trovare validi antidoti. Eh sì perché, se ci facciamo caso, 201

diventare sistemici non è per niente semplice, quando stiamo male o ci succede un contrattempo, la nostra mente va subito a cercare la causa, una e una sola. E invece le forze sono le più diverse e sono contrapposte e mutevolmente dinamiche, non del tutto strutturabili e destrutturanti, non sempre volte al negativo, perché (spesso lo avremo provato) avvengono anche imprevisti e cambi di rotta repentini anche in versione molto positiva. Tuttavia, come biblio-fac il nostro allenamento primario può essere sull’incertezza, come nuova condizione di ricerca di stabilità in movimento, come stare sopra una zattera con correnti marine permanenti di media intensità. Nei gruppi di lavoro in biblioteca, ai tre episodi sopra enunciati, come possiamo fare fronte? GUIDA 10 - Facilitare la cultura collettiva di gruppo Ecco qualche spunto anche qui. • Nei gruppi ci sono forze centripete coesive e forze centrifughe dispersive. • La dinamica è tra forze positive di attrazione e forze negative di repulsione. • Il gruppo tende a condizionare inevitabilmente il comportamento del singolo operatore. • Il gruppo diviene un’entità propria con un suo alone di difficile decifrazione, che condiziona. • Nell’insieme agisce un fascio di forze molto più grande delle forze singolari. • Riuniti produciamo un campo turbolento, tensivo, instabile, in latente frizione costante. • Il leader è l’entità forte dominante che tende a tirare a sé soggetti deboli (capro espiatorio). • Leader e capro espiatorio sono due ruoli prodotti dal sistema di forze e non solo da norme. • Nel gruppo agiscono implicitamente forze trainanti e forze frenanti.

Le negatività e le dispersioni sono spesso dunque apparentemente incoerenti, sono eventi pressoché inevitabili, in quanto provocati da meccanismi complessi e differenti non localizzabili, ma da mettere in conto. È impossibile che una compagine sia solo e sempre fluida, pacifica, consensuale: si tratta solo di una fantasia idealizzata o anche di una persistente ignoranza circa l’esistenza delle forze dis-regolatrici. Il gruppo è fantasia 202

di fusione e combattimento (Bion, 1971);17 in questi anni ho notato con evidenze che riesce ad essere accogliente ma al tempo stesso anche feroce. Mantenere la solita e colpevole ignoranza alla cultura di gruppo, condanna molte aggregazioni a forme statiche di gestione, improntate a razionalità rigide, a superficialità dogmatiche e a pressioni tensive, in nome di un sedicente spirito di gruppo collaborativo spesso esistente solo sulla carta. Quelle culture organizzative tendono a considerare il gruppo di lavoro una cassetta di mansioni meccaniche a compartimenti stagni, mentre secondo questa nostra prospettiva l’icona forse più significativa resta quella dell’iceberg (vedi figura 36). Il gruppo conserva infatti sue parti emerse, ben strutturate, date dai compiti, al pari però di una sua parte immersa, quel mondo di forze che stiamo studiando. Il gruppo di colleghi ha quindi un portato “dinamico” sul quale possiamo imparare di più l’arte della sua facilitazione, una bella avventura che varrebbe la pena di vivere. Vediamo più da vicino i fenomeni di gruppo che un bibliofac è bene tenga presente. Le qualità buone attese le conosciamo bene e sono già fin troppo reclamizzate (collaborazione, impegno, appartenenza, ecc.). Sono invece quelle disfunzionali che come facilitatori dobbiamo fotografare con attenzione,   Dalle sue ricerche sul campo intorno ai reduci di guerra, Bion, psicoanalista inglese, ha codificato le fantasie implicite dei gruppi denominandole assunti di base e distinguendole in tre tipi. La dipendenza è relativa al desiderio del gruppo di essere protetto da una persona, per un sentimento di accudimento, protezione, rassicurazione; il capo e i suoi voleri vengono spesso idealizzati, mentre gli affetti prevalenti sono depressione, invidia e reverenza. Il secondo tipo è detto attacco-fuga, quando il gruppo inventa miti eccessivi di lotta contro un pericolo di solito esterno, un nemico da cui occorre difendersi o fuggire; qui si tende a caricare l’operato con toni drammatici, come se dovesse combattere, aggredendo o fuggendo, alimentando ira, odio e sentimenti ostili verso gli altri; il mondo viene suddiviso in buoni e cattivi, mentre gli affetti prevalenti sono ira, odio, timore e sospetto. Il terzo assunto di base è l’accoppiamento, per cui il gruppo vive nella speranza di un evento o dell’azione di qualcuno che garantisca la salvezza e la soluzione di tutti i problemi; i sentimenti che attraversano inconsciamente il gruppo sono amore e speranza; non mancano nemmeno l’attesa e le fantasie relative a ideali utopici, mentre gli affetti prevalenti sono fiducia, entusiasmo, disperazione e delusione. 17

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perché non ci trovino impreparati. Ecco le dinamiche forse più frequenti che nelle nostre biblioteche si mettono in scena ogni giorno: • pensiero di gruppo (groupthink): un modo di essere così tanto d’accordo che quel tanto produce decisioni affrettate e spesso errate; • scorciatoie mentali: la ricerca di minor fatica alimenta pensieri più corti e manichei, tra cui stereotipi, pregiudizi e schemi fissi; • polarizzazione: tendenza nel gruppo a manifestare posizioni più estreme ed eccessive rispetto a quelle che gli stessi singoli esprimerebbero fuori dalla dinamica interpersonale; • errore di attribuzione: un sistema di credenze che produce due pesi e due misure, per sé l’indulgenza delle responsabilità oggettive, per gli altri lo stigma duro del giudizio tutto soggettivo; • autocompiacimento (self-serving): tendenza di ognuno a salvaguardare la propria immagine e presentarsi come soggetto competente e di successo; • inerzia sociale (social loafing): i membri si impegnano di meno a confronto con l’impegno che metterebbero in analogo compito svolto individualmente; • furbizia egoistica (free-rider): beneficiare di un bene collettivo senza sopportare oneri e costi; • frustrazione: ogni interferenza ostacolante tende a produrre attivazioni mentali e corporee (arousal) e una tipica istigazione ad aggredire; • infantilizzazione: quando cadono sicurezze e ci sono pressioni ecco fare esordio giochi discriminativi di basso livello con ripicche e piccinerie; • vulnerabilità: ogni soggetto ha le sue zone limitate, deboli e fragili; • capro espiatorio: il meccanismo che attribuisce colpe e negatività ai soggetti più deboli; • deindividuazione: sempre frutto di forte omologazione che produce una perdita di rispetto verso il singolo, accompagnata dalla comparsa di impulsi primitivi e antisociali. 204

Figura 36 – Il gruppo come iceberg

Nel volgere di tanta complessità e incertezza, che ci può anche far demoralizzare, possiamo tuttavia scorgere anche sprazzi di grande sollievo, che ci incoraggino a perseguire questa strada, perché porta di accesso a una cultura del lavoro più umanizzata, meno robottizzata e algebrica. Come abbiamo visto la letteratura scientifica, già dagli anni Quaranta, ha attribuito una nuova centralità al “gruppo informale”, costituito da persone legate da rapporti di amicizia, simpatia, con un proprio leader, una sua struttura interna, standard di comportamento propri che spesso sono opposti a quelli dell’organizzazione formale che lo contiene. Un noto ricercatore dell’epoca, George Homans,18 distingue, ad esempio, il “sistema interno” e il “sistema esterno” (la parte immersa e la parte emersa). Secondo questi studi il   George Homans (Boston 1910-1989) è stato un economista statunitense noto anche per la teoria dello scambio, il cui caposaldo sta nel fatto che i soggetti interagiscono tra di loro dopo aver considerato i costi e i benefici. Ne ha fornito alcuni principi: quanto più spesso un comportamento è ricompensato, tanto più è probabile che venga ripetuto; se nel passato alcuni aspetti dell’ambiente sono stati collegati a un comportamento ricompensato, è probabile che venga ricercato quell’ambiente particolare analogo; quanto più è preziosa la ricompensa per un dato comportamento, tanto più è probabile che venga ripetuto; quanto più spesso le esigenze o i desideri vengono soddisfatti, tanto meno si dà valore a ogni ulteriore ricompensa. 18

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gruppo sopravvive all’urto del tempo in quanto i suoi membri danno vita a un “sistema interno” attraverso l’elaborazione di sentimenti, modi di comportarsi, segni, valori, norme, modi caratteristici di quel gruppo. Nello stesso tempo, i componenti del gruppo danno vita anche a un “sistema esterno”, cioè agiscono nei confronti di stimoli e compiti assegnati. E anche qui, come si notava sopra, l’impasto e l’intreccio di elementi del sistema interno con elementi del sistema esterno vanno a comporre il gruppo di lavoro nel suo insieme. GUIDA 11 - Facilitare il lavoro efficace • La razionalità è parziale e l’irrazionale è più frequente di quanto pensiamo. • Dietro a ogni evento lavorativo c’è una lente distorsiva personale e forze come influenza, proiezione e resistenza fanno vedere ogni episodio con lenti opache e strabiche. • Per lavorare in gruppo niente è più importante del nostro modo di esprimere e regolare le emozioni. • Tutti abbiamo zone cieche, tutti abbiamo il nostro lato oscuro, vulnerabile, incompetente e spesso usiamo processi difensivi per evitare i nostri aspetti problematici. • I gruppi hanno una vita nascosta, il cosiddetto piano secondario, in qualche modo indipendente dalle volontà e dalle dichiarazioni dei loro membri. • I sistemi di motivazione possono cercare di convogliare forze naturali (innate) e forze culturali (apprese) connettendo le relazioni, all’emozione e all’azione. • L’azione modera l’emozione e l’emozione dona smalto all’azione, la sussistenza materiale è importante al pari della convivenza sociale, quali due fonti tanto importanti e quanto indivisibili.

3.8 Le differenze tendono ad amplificarsi anche tra gruppi diversi Se la vita nel singolo gruppo di lavoro è complessa e carica di insidie, anche la collaborazione tra gruppi è difficile, che siano interni a un unico ente oppure anche di enti diversi. Intanto programmi e politiche europee spingono sempre più a partecipazione, lavoro di rete, coinvolgimento di utenti e cittadini, 206

spesso però sono prediche nel deserto, visto che mancano del tutto gli strumenti e i metodi come prova coerente di nuove politiche e indirizzi. Episodio 1 “Tre anni fa ho avuto un’esperienza di gestione condivisa del sistema bibliotecario che vedeva il concorso di Comune, Provincia e Ufficio Orientamento dell’Università che coordino. La finalità era quella di favorire l’informazione ai giovani sulle opportunità formative e di lavoro. Non era però stata definita chiaramente la figura del capofila e quindi chi dovesse coordinare quella nuova rete di gruppi e questo ha contribuito al fallimento del progetto stesso”. Episodio 2 “Nel nostro caso l’intergruppo tra enti oltre al problema di chi comanda ci ha fatto perdere di vista l’obiettivo comune, per il timore di essere confusi con gli altri o prevaricati nelle funzioni di lavoro”. Episodio 3 “Poco lavoro di squadra e poco interscambio anche tra amministrazioni”. I gruppi, oltre alla tipica dinamica interna su cui ci siamo soffermati a lungo, soffrono ovviamente anche delle sindromi di tipo amministrativo, in cui i mandati e i ruoli non sono chiari, oppure le risorse messe in campo si dimostrano ampiamente insufficienti a quelle necessarie. Questi ultimi tre episodi lo confermano. Il punto tuttavia rimane, se anche i mandati dovessero ristagnare, le attitudini di persone e gruppi hanno qualche valore, oppure non contano nulla? Ovvero, di fronte alla scarsità di risorse tecniche e materiali, i gruppi e le loro mentalità possono fare qualcosa? Io credo proprio di sì. Mesi fa per esempio mi trovavo presso il gruppo dirigente di una Provincia che, come sappiamo, dalla nuova legge è un ente dato in chiusura. Ebbene, in quelle giornate formative è balzato chiaro a me, ma anche ai discenti, quanto in quella condizione precaria i soggetti dovessero lavorare in maniera efficace, con pensieri produttivi, 207

con gradi di coinvolgimento tra uffici e con enti esterni, con un atteggiamento che evitasse il lamento e il piagnisteo fine e a se stesso. Tutti obiettivi della Facilitazione esperta. Per gestire l’incertezza del divenire, le tensioni che ne scaturiscono, le demotivazioni galoppanti, e tutto quanto il resto che non sto qui a ripetere, possiamo avvalerci di nuovi attrezzi, evitando di riprodurre inutilmente i soliti moniti benevoli. Un po’ come quella storiella dei boscaioli così presi a tagliare un albero con una sega sdentata, che al passante che li interpella avvisandoli dello sgangherato strumento, gli rispondono che non vogliono distrarsi e devono continuare a tagliare. La dotazione relazionale, mentale, di gestione delle negatività è a mio avviso così indispensabile che in ogni piega di progettazione può davvero farci risparmiare tempo e denari. Ma tornando alla vita tra gruppi, la psicologia sociale ha studiato questo aspetto, rintracciando una sindrome doppia che scatta quasi senza che ce ne accorgiamo: il favoritismo nei confronti del proprio gruppo e la discriminazione nei confronti dei membri degli altri gruppi. La tensione o certa farraginosità che assale i bibliotecari quando sono al tavolo con altri soggetti associativi è causata proprio da questa doppia molla “favoritismodiscriminazione”, un agglomerato di pensieri e sentimenti non del tutto consapevoli che alimentano forme di tiepida o marcata rivalità. Infatti alcune ricerche individuano che la rivalità fra gruppi può essere osservata anche quando non esiste né un immediato conflitto oggettivo di interessi, né una storia precedente di competizione fra loro (Brown, 1990). Ricordo che questi funzionamenti scattano non solo tra enti diversi, per esempio la biblioteca e un’associazione sul territorio, ma anche tra gruppi di una stessa organizzazione che hanno collocazioni, funzioni e location diverse. È famoso per esempio il conflitto favore-discrimine tra il settore commerciale e la produzione dentro ogni azienda, piccola o grande che sia, e ancora i gruppi all’interno di una stessa situazione lavorativa, i medici e gli infermieri, gli insegnanti di matematica e quelli di lettere e così via. Il conflitto non deriva solo dalla competizione per risorse materiali insufficienti, ma dal bisogno di sentirsi superiori in quanto membri di un “noi” (ingroup) rispetto a un “loro” (outgroup), cioè una sorta di competizione per il prestigio. Nelle 208

tante facilitazioni operate negli anni ho potuto però osservare che questa tenaglia dissonante si attenua se si introducono tra i gruppi fasi di scongelamento, di conoscenza, di reciproca accoglienza. Così il favoritismo si abbassa e si può anche ridurre sensibilmente. GUIDA 12 - Facilitare la collaborazione tra gruppi differenti E qui arriviamo a una griglia di possibilità costruttive per curare la discriminazione e il conflitto latente fra gruppi. L’idea ruota ancora una volta intorno al fatto che la tensione fra gruppi diversi può essere ridotta favorendo forme di scambio comunicativo. • Dalla direzione può partire la preferenza per programmi intergruppo, che vedano il concorso di più entità e soggetti diversi. • Scambi comunicativi attenti, rispettosi ma anche diretti e genuini, meno formali, più aperti, che promuovano le affinità tra gruppi. • È centrale individuare ponti concettuali e i cosiddetti “scopi sovraordinati”, la convergenza su alcuni punti salienti comuni, per un guadagno reciproco. • Se lo scopo sovraordinato non viene raggiunto, c’è il pericolo che il fallimento possa essere addossato all’altro gruppo, con effetti negativi sul ponte interassociativo. • È opportuno che i differenti gruppi forniscano contributi distinti all’azione in modo tale che le loro identità non siano minacciate dalla fusione tra gruppi.

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4. ALTRI STRUMENTI ESSENZIALI

Questo quarto capitolo lo dedichiamo ad altri strumenti essenziali del biblio-fac, che vanno a completare i tanti già illustrati in precedenza.

4.1 La Facilitazione nelle biblioteche: dalla formazione alla partecipazione sociale Abbiamo già detto che la Facilitazione esperta è un approccio alle Risorse umane di nuova generazione (2005), i cui principi sono stati tradotti nel Face-model, lo strumento pratico codificato appositamente per offrire agli operatori e alle organizzazioni una sintesi di saperi e applicazioni da calare nel vivo dei contesti per l’ottimizzazione delle risorse in campo.1 Perché ruoli, persone, categorie e gruppi agiscano in senso collettivo, partecipativo, negoziale. Una nuova capacità di unire ben sapendo delle tante forze che dividono.

Figura 37 – Le applicazioni della Face

  Risorse umane, risorse tecnologiche, risorse economiche.

1

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Una biblioteca può adottare il Face-model accedendo alla serie di misure integrate o anche con un singolo strumento mirato. Programmi già avviati con l’AIB Toscana, con la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, con la cooperativa Eda di Firenze, col Settore Biblioteche del Comune di Firenze, con Coop Culture di Venezia, ci hanno dato l’opportunità di saggiare questi nostri metodi in relazione al settore di attività, e i risultati che ne sono scaturiti hanno prodotto esiti più che favorevoli. In quegli interventi, a cui ne seguiranno altri nei mesi a venire, il nostro focus concettuale è stato quello di “imparare la convivenza per agire una nuova cultura”. Ma perché la Facilitazione nelle biblioteche può essere strategica? A mio avviso per quattro motivi: • imparare gli strumenti pratici della convivenza lavorativa e sociale; • promuovere le competenze sociali, quali aree di saperi indispensabili per utenti e cittadini; • gestire efficacemente conflitti e malessere; • connettere le competenze sociali coi temi della cultura. Il face-model è indirizzato a un ventaglio di scopi: formazione degli operatori bibliotecari; gestione e certificazione dei protocolli di qualità e sicurezza; promozione di processi decisionali partecipativi sul territorio; educazione alla cooperazione; promuovere reti interassociative; convivenza multiculturale; politiche di lean management; cambiamento di culture lavorative; benessere organizzativo. Con la Facilitazione si punta sull’innovatività delle basi scientifiche, il taglio molto pratico, la brevità dei percorsi, l’approccio attivo, per raggiungere risultati significativi. Le applicazioni principali sono: • formazione alla Facilitazione, corsi per gli operatori, corsi per gruppi; • aiuto diretto in biblioteca (service-facilitazione); • consulenza organizzativa; • circolo facilitatore: un laboratorio esperienziale rivolto a utenti e cittadini; • conferenze sulle competenze sociali; • processi partecipati, conduzione inclusiva di forum e seminari tematici. 211

4.1.1 Formazione alla facilitazione La Facilitazione esperta si può apprendere? E come può essere allestito un corso snello e funzionale per gli operatori bibliotecari? La facilitazione si può certamente apprendere! Sono più di venti anni che vado divulgandone i metodi e gli strumenti presso categorie e gruppi anche molto diversi tra loro, ma alle prese comunemente coi soliti dilemmi e criticità. In un corso tipo gli obiettivi sono: • condurre il ruolo in maniera efficace, in relazione a colleghi e utenti (area-organizzazione, saper coordinare); • curare le relazioni esterne e interne in maniera dialettica e dialogica (area-comunicazione, saper coinvolgere); • gestire problemi, conflitti, malessere ed errori nell’espletamento dei servizi, nei contatti con la direzione, con gli utenti (area-emozione, saper aiutare); • promuovere la cultura dell’apprendimento e del cambiamento, per un agire produttivo e sociale ottimale (areaapprendimento, saper attivare). Perché il corso risulti aderente ai partecipanti si sono effettuate alcune scelte di indirizzo importanti, tra cui la metodologia d’aula attiva; la vicinanza costante con le situazioni reali; una didattica rivolta anche alla persona per innescare nuove sensibilità sociali. Oltre al corso base su Bibliotecario facilitatore, la formazione può avere altri titoli principali: • comunicazione interpersonale; • lavorare in gruppo; • intelligenza emotiva; • metodo antinegatività (Man).

4.1.2 Aiuto diretto in biblioteca (service-facilitazione) Il Service-facilitazione è un intervento di supporto condotto direttamente nei gruppi in biblioteca, nei casi disfunzionali di conflitti, malessere, demotivazione. È una consulenza di poche ore o di poche giornate, si svolge intorno al tavolo. Nel vivo del problema si interviene con “ruolo terzo” sbloccando le routine, generando nuovi accordi e nuova energia. 212

Il Service è uno strumento agile, studiato appositamente per intervenire presso le criticità, col ruolo e la funzione di aiuto. Una risposta rapida e mirata, una sorta di “pronto soccorso”, là dove gli attori implicati non riescono ad arrivare. I vantaggi del Service? Ricevere un aiuto rapido e mirato, da soli gli operatori non ce la fanno, per via di reazioni automatiche e schemi fissi accumulati.

4.1.3 Consulenza organizzativa Il cambiamento e la crescita organizzativa passano inevitabilmente dalla gestione competente delle persone, che solitamente si bloccano dentro resistenze e criticità, fattori da disinnescare per giungere a risultati soddisfacenti. Crediamo che gruppi, organizzazioni, comunità, abbiano una naturale inclinazione alla negatività, che tende ad aumentare i blocchi, l’impasse, le perdite di senso. Facilitazione e Capacità negativa sono gli strumenti principi per disinnescare routine che indeboliscono i gruppi alle prese con incertezze e complessità. La Consulenza organizzativa è un intervento multipiano, composto da formazione, facilitazione, progettazione.

4.1.4 Circolo facilitatore È un incontro di gruppo rivolto a utenti e cittadini in biblioteca, in cui convergono simultaneamente: • i caratteri formativi dell’apprendimento; • le forme di ascolto emotivo attento e inclusivo; • la costruzione di nuove competenze. Le competenze del XXI secolo sono finalizzate alla convivenza sociale. La convivenza nella sua nuova dimensione moderna passa inevitabilmente attraverso la capacità di ascolto e di aiuto reciproci, i membri del gruppo si riconoscono quali attori alla pari di un destino comune. Il Circolo facilitatore è uno spazio dedicato a tutte le persone che intendono crescere e che si rendono disponibili a interrompere la cultura del “criticismo permanente”, per cui a sbagliare sono sempre gli altri. Uno spazio rivolto a utenti, cittadini, genitori, insegnanti, giovani. 213

4.1.5 Conferenze sulle competenze sociali In biblioteca periodicamente si possono tenere conferenze incentrate sulle competenze sociali, area di saperi da cui si innesta la Facilitazione esperta. Divulgando questi temi, utenti e gruppi possono fare propri i metodi della partecipazione, che è l’elemento mancante sia nella sfera privata sia in quella pubblica.2 I temi sono vari, tra cui: gestire la negatività, comunicazione efficace, linguaggio del corpo, ascolto attivo e resilienza, far funzionare i gruppi, relazione di aiuto, saper negoziare, metodi attivi al lavoro e a scuola, saper ridere, saper motivare, competenza emotiva, assertività, leadership direttivo/partecipativa, insegnante facilitatore.

4.1.6 Processi partecipati La partecipazione è un sistema di azioni che vanno pensate (progettazione) e in contemporanea vanno anche sentite (esperienza); un ruolo più che nevralgico lo riveste la comunicazione. La comunicazione partecipata intende intensificare le valenze già sociali proprie della comunicazione, nella sua derivazione bidirezionale. I processi partecipati in biblioteca possono avere differenti obiettivi e differenti formati e tempistiche, ma tutti è bene che si orientino su tre punti essenziali: • la forte interazione tra gli attori; • la vicinanza a fatti, luoghi e persone, sui temi del localismo e della visione globale; • l’impiego di facilitatori, sia metodi che figure di supporto.

2   Con la Scuola Facilitatori, che dal 2007 dirigo, nata appositamente per la divulgazione delle competenze sociali a tutti i livelli e in tutti i contesti, intendiamo portare nelle biblioteche comunali proprio questa parte della cultura e dell’educazione; possiamo anche chiamarla cultura della convivenza, educazione alla partecipazione, capacità democratiche essenziali. La Scuola dal 2013 conduce un programma, presso la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, denominato “Alfabeto delle relazioni”, che comprende conferenze e gruppi di ascolto tra cittadini, .

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4.2 Il direttore della biblioteca, un facilitatore Nella gestione efficace della biblioteca il direttore ha ovviamente un ruolo di preminenza. Ci sembra importante che siano i capi, i dirigenti, i coordinatori di gruppo a dovere fare il primo passo, sulla strada di una cultura collettiva e di un’educa­zione alla gestione delle negatività, tema saliente che se ben affrontato libera risorse umane e materiali inimmaginabili. I capi devono iniziare, acquisendo educazione e metodi, sia perché sono essi stessi fonti di insorgenza di negatività, sia perché i collaboratori li aspettano al varco della coerenza tra dire e fare. Negli ultimi anni si è diffuso il concetto di “leader tossico”. La psicologia ha messo in evidenza la tossicità del comando sottolineandone i comportamenti negativi preminenti: chiusura delle relazioni, formalismo comunicativo, ambiguità degli obiettivi importanti da raggiungere, incertezze delle strategie, intolleranza per le diversità delle persone, insensibilità per le emozioni lavorative, clima di pessimismo, prevalenza del controllo autoritario (Sarchielli, 2003). È molto frequente che il capo sia egli stesso fonte di negatività, spesso per le funzioni che ricopre, di comando, controllo, direzione e non di rado per i modi in cui le svolge. È fondamentale quindi che il direttore della biblioteca possa assumere uno “stile costruttivo” nelle dimensioni delle relazioni e della collaborazione di gruppo. Il direttore-facilitatore è da una parte un leader di contenuto che deve presidiare i compiti e i servizi, dall’altra è bene che sia un leader di relazione, per curare clima e persone nella direzione dei risultati attesi. Un capo può essere un “facilitatore” quando sa alternare la propria leadership in senso direttivo-e-partecipativo, e inoltre quando sa trasformare le spinte negative in costruttività e nuovo impegno. Ecco qualche buona sollecitazione: • gestore del potere, che passa dal comando (potere su) alla guida (potere con, potere per, potere tra), da una concezione di chi deve tirare il gruppo a un’altra in cui fa crescere e cresce con il gruppo (Quaglino, 1999); • direttore collaborativo, quando sviluppa nei colleghi la cooperazione, l’interdipendenza, l’autonomia di azione, la responsabilità e lo spirito d’iniziativa per il raggiungimento di obiettivi; 215

• direttore maturativo, in cui si apre al gruppo e conferisce dignità a ogni collaboratore; è maturativa la capacità di contenere e rendere reale le spinte che avvengono nei gruppi, per porsi al riparo da involuzioni regressive, difensive e narcisistiche (Quaglino, 1996); • direttore allenatore, che sostiene il morale del gruppo, impedendo un’esposizione sociale di singoli operatori a forme di esclusione e vessazione, gestisce le negatività e da queste trova le migliori risorse e opportunità per i piani di azione e l’apprendimento costante, un capo preferibilmente orientato alla leadership informale, da alternare a quella più convenzionalmente formale3 (Trentini, 2006). Ma non stiamo immaginando un direttore-santo – tranquillizziamo i direttori che ci leggono – bensì un direttore più consapevole del suo ruolo anche emotivo e relazionale, che quindi si dota di strumenti e capacità, solitamente molto rare e mancanti. Il direttore-facilitatore ha capacità in via di miglioramento, ma anche prestazioni relazionali imperfette, tuttavia protese al proprio sviluppo, un “auto-sviluppo” mirato a costruire una base di nutrimento costante per sé, i collaboratori, l’organizzazione. Egli ha compreso la centralità che riveste la negatività nei gruppi anche perché ha seguito un corso sul Man,4 per la gestione e trasformazione efficace delle negatività. Insomma, spero che si sia capito: il direttore è il primo a dover fare il passo verso la Facilitazione. Egli resta col suo core professionale, ma aggiunge queste nuove competenze al suo bagaglio.5 3   Per Trentini l’informale tende ad assumere un connotato di tipo fraterno (di primus inter pares) che non significa paritario, ma di guida come primogenito; la leadership formale è collegata invece a connotati di tipo paterno. 4   Corsi di diversi formati, introduttivi, base e avanzati sul Metodo Antinegatività, con l’incontro di tre piani: didattica, aiuto/supporto e allenamento, . 5   Pino De Sario, Far funzionare i gruppi, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 119-121.

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4.2.1 La guida direttiva e partecipativa Per il direttore-facilitatore proponiamo una forma di leadership detta “ibrida”. Cos’è? Una guida che sia al tempo stesso direttiva e partecipativa. La prima è una forma di comando classico, dove il leader decide con modalità verticale. La seconda è invece un modo consultivo di arrivare alla decisione, in maniera compartecipe e più orizzontale. I due modi sono necessari entrambi perché entrambi presentano forze e debolezze: per questo occorre agirli tutti e due. Quindi un direttore o un coordinatore può fluttuare in un doppio movimento, essere direttivo su un fatto (guidare) e partecipativo su un altro (farsi guidare), alternando per esempio “ho deciso!” con “cosa proponi?”.

Figura 38 – La leadership ibrida, direttivo/partecipativo

Abbiamo già detto che entrambi gli stili presentano forze e debolezze. Occorre quindi muoversi sul continuum, alternando ora il direttivo e ora il partecipativo, in base alle condizioni proprie personali, al tipo di operatore che si ha davanti, infine al contesto con le sue pressioni e urgenze. • La leadership direttiva ha il vantaggio di essere più veloce e più produttiva, però dall’altra esclude, esaurisce le risorse e tende a produrre aggressività. In senso comunicativo servono turni brevi e concreti dentro una “rete a stella”, il capo si interpone ai singoli colleghi, precisando e disponendo, efficace nelle fasi di alta prestazione produttiva, garantisce comando e controllo. 217

• La leadership partecipativa ha il vantaggio di essere inclusiva, nel tempo tende ad aumentare le capacità del gruppo, ma dall’altra è lenta, più impegnativa e può anche essere fraintesa dai soliti mediocri che la sviliscono con “non sa comandare”, “non sa come si lavora”. Nella comunicazione ogni membro può rivolgersi agli altri, qui la circolarità di parola porta a sviluppare inclusione, partecipazione, apprendimento di gruppo, adatta per i problemi complessi.

4.3 Per un’ecologia dei comportamenti Per ecologia intendiamo la complementarietà di stati e funzioni che concorrono alla condizione di un singolo o di un gruppo. È per esempio ecologico in biblioteca l’insieme di fenomeni positivi e negativi, ovvero tenere in conto entrambi, perché entrambi esistono e presentano forze e risorse. Per le correnti di studio scientifiche, ecologico vuole dire anche il concorso simultaneo di fattori del singolo, del gruppo, del contesto più grande (micro, meso e macro). L’ecologia quindi dei comportamenti che possiamo alimentare in biblioteca e per cui il biblio-fac può essere un gentile attivatore, si fonda su due aspetti salienti: • la connessione di negativo e positivo e la ricerca della trasformazione virtuosa dei comportamenti critici in costruttivi e il controllo efficace dei comportamenti positivi, che di loro possono declinare sui territori di presunzione e individualismo; • l’integrazione di tre comportamenti profondi (impegno sociale, attacco-fuga, calo passivo), perché ancor prima di essere appresi, sono incapsulati nella nostra natura filogenetica; per questo li dobbiamo conoscere per metterli meglio in conto e saperli così gestire più agevolmente.

4.3.1 Connessione di negativo e positivo Lo abbiamo già illustrato: qui il punto nuovo è che nel fenomeno negativo, oltre a dolore e irritazione, c’è anche risorsa, energia e opportunità. Da qui deriva la frase del mio mentore, 218

Jerome Liss,6 che spingeva noi allievi a comprendere che “nel negativo c’è il germe del positivo”, come viceversa “nel positivo c’è il germe del negativo”. La negatività ha effetti di risorsa, energia e opportunità, quando: • aumenta il contatto coi propri bisogni e necessità; • tonifica l’identità personale; • stimola il confronto e anche lo scontro; • carica l’ambiente e lo scuote, lo rende elettrico; • accende la forza di pensieri ed emozioni; • fa crescere la vitalità e la voglia di sbloccarsi; • provoca un’attenzione più acuta; • aumenta la motivazione, la voglia di reagire; • agisce da test di competenza per i ruoli direttivi. La positività (altruismo, gioia, affetto, solidarietà) resta la risorsa prima, mentre alla negatività assegniamo il valore di “risorsa seconda”, in cui, un po’ come si fa per i rifiuti solidi urbani, possiamo raccoglierla con più attenzione per trasformarla in nuova sostanza. Così la rabbia può diventare una nuova spinta a creare, la tristezza tramutarsi in capacità di analisi, il disgusto trasformarsi in scelte più attente, la paura diventare pertinenza e attenzione. Nella mia formazione come psicologo dei gruppi, sempre Jerome ci aiutava con un’immagine particolarmente completa e sapiente, che suona così: “La negatività scava la buca, la positività pianta l’albero”.

  Jerome Liss (1938-2012), psichiatra e psicoterapeuta, negli anni Ottanta fonda la Biosistemica, approccio interno alla psicologia sistemica, da cui prende le mosse la Facilitazione esperta. La Biosistemica, già di suo frutto di una interconnessione di paradigmi, ha nel suo senso più profondo il collegamento, l’unità e l’integrazione. Nel più pieno rigore tuttavia di tre elementi chiave: un piano scientifico incardinato in senso olistico e sistemico; una assidua ricerca di strumenti facilitanti per i professionisti e il cambiamento sociale; la finalizzazione della vitalità, come ricerca di una presenza attiva, frutto di una liberata espressione costruttiva, che va sollecitata con gentilezza. 6

219

Figura 39 – La buca e l’albero! Fonte: Liss [1992]

4.3.2 Integrazione di tre comportamenti profondi Nelle aule della formazione organizzativa si è sempre condiviso che nei gruppi si aggirano tre comportamenti base: assertivo, aggressivo e passivo. Le fonti qui sono quelle dell’apprendimento e dell’intenzionalità, cioè le persone o i capi decidono quale atteggiamento attivare. Con le ricerche ultime, in particolare mi riferisco a quelle di Steven Porges (2014), si recupera sostanzialmente sempre lo stesso triplice ventaglio comportamentale, ma qui la novità è che le tre leve ci vivono dentro per via innata, dato che siamo stati tutti condizionati in passato dai meccanismi automatici dell’evoluzione, siamo anche predisposti a una ripetizione di queste infelici reazioni. Risultato, siamo tutti sulla stessa barca, la barca della specie. I tre comportamenti ci attraversano, ancora prima quindi che le nostre personalità li apprendano, ecco perché sono comportamenti profondi, perché automatici, viscerali, in più difensivi. Perciò una parte della nostra crescita personale e professionale consiste nel comprendere i nostri “punti caldi” specifici, le nostre difese innate, evitando situazioni di provocazione e attenuando la nostra reazione quando viene attivato il riflesso condizionato di difesa primitiva. Sui tre comportamenti, in ultima analisi, possiamo dire che hanno una forte valenza naturale e irrazionale,7 oltre che divenire facce di comportamenti anche   Poiché l’amigdala e altri circuiti del nostro cervello funzionano secondo leggi di condizionamento, piuttosto che seguire le leggi razionali dell’esperienza conscia. 7

220

appresi. L’ecologia qui è mettere in conto la varietà di comportamento e, inoltre, la ricerca di una sapiente integrazione tra livelli. Per esempio, il collega che riconosce di essere iper-reattivo poiché ricorre a strategie di difesa e reazione con alto impiego di vitalità caotica, può comprendere che in quei molti momenti non è malato, bensì soltanto utilizza in modo eccessivo manovre difensive potenti.8 Così anche il collega spesso uggioso e timoroso, colpito da ansia frequente, preoccupazione o paura può tranquillizzarsi sulla positività delle sue intenzioni consce, egli può infatti prendere le distanze dal proprio comportamento irrazionale. I tre comportamenti profondi, detti anche viscerali, che intendiamo integrare sono: • impegno sociale (mammifero): incontro, assertività, è il livello sociale connotato da equilibrio emotivo e sensazione di scambio positivo con l’altro; questo succede quando la relazione è vissuta come sostegno e fiducia; • attacco-fuga (rettiliano): scontro, aggressività, questo secondo livello regola la dinamica attivante tipica dell’esperienza di quando si ha davanti un nemico o una minaccia; sviluppato durante l’evoluzione dei rettili, secondo Porges (2014) questo livello prepara gli organi viscerali in caso di attacco del nemico o di fuga repentina; • calo passivo (anfibio): ritiro, passività, il terzo livello riguarda l’esperienza di perdita profonda. L’origine di questa reazione ha avuto inizio quando pesci e anfibi sono stati attaccati da un nemico minaccioso e hanno sviluppato la strategia di “fingere di essere morto”. Per gli umani, un avvenimento negativo può coincidere con un vissuto profondo di “calo dentro”, “tutto è perduto”, un dolore continuo, un senso di frammentazione e di impotenza; è di fatto il livello primordiale di difesa, cadere dentro come se si fosse morti. L’integrazione dei tre livelli passa essenzialmente dal tollerare per sé e per gli altri le emozioni più improvvisate e impro  “Mi sento come un carro armato in giardino”, frase detta da un partecipante ad un gruppo formativo, riportata da Jerome Liss in L’ascolto profondo, Molfetta, La Meridiana, 2004. 8

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babili, il non cercare sempre l’assillo raziocinante, permettersi di essere lucidi, ma anche opachi. Mettere in conto queste tre condizioni è la prima forma di integrazione possibile, non facile, ma possibile. Da questo punto di vista, la forte emozione non rappresenta una patologia o una malattia ma, invece, una disregolazione con un’attivazione eccessiva di una difesa primordiale (Liss, 2004).

4.3.3 Un cervello a tre piani Quasi per analogia con i tre comportamenti viscerali, il bibliofac è bene che abbia una seppur assai rudimentale conoscenza delle tre funzioni chiave del nostro cervello, perché da qui nascono gran parte dei modi di fare di colleghi e utenti. Prendiamo brevemente in considerazione la struttura del cervello sia perché da ciò possiamo capire molto di tutti noi, sia perché essa è una configurazione favorevole per sintetizzare alcune funzioni centrali del vivere quotidiano in biblioteca. La base è una mappa neurofisiologica di grande importanza, chiamata del “cervello tripartito”, elaborata da Paul McLean (1984), che propone la comprensione della complessità e delle contraddizioni del comportamento umano rifacendosi agli stadi evolutivi del cervello. Li abbiamo già visti, ma merita qui di riepilogarli. Il primo piano del cervello è costituito dal tronco encefalico, il cosiddetto gambo, che coordina le funzioni vitali corporee come respirazione, circolazione sanguigna, metabolismo e sopravvivenza fisica. Il secondo piano è dato dal sistema limbico (detto “cervello emotivo”), che determina le nostre emozioni di rabbia, paura, eccitazione; contiene sia circuiti innati sia circuiti modificabili dall’esperienza, ne fa parte l’amigdala e l’ippocampo. Il terzo piano è dato dalla corteccia, a cui sono attribuite le attività cognitive superiori, coscienti e i comportamenti volontari, le funzioni simboliche, il linguaggio, i calcoli matematici, le proiezioni nel futuro. Questo piano controlla e coordina i due piani sottostanti. Non è vero quindi che siamo solo soggetti razionali, come spesso crediamo, possiamo dire che lo siamo in parte, considerandoci tutti individui a “razionalità limitata”. Da questa mappa neurale possiamo ricavare schematicamente l’esistenza di tre centri propulsori: 222

• il tronco governa il corpo, • il limbico governa le emozioni, • la corteccia governa la ragione. Anche in biblioteca quindi, possiamo aprire la nostra “finestra di tolleranza”, comprendendo meglio l’insorgenza strana e incoerente di tanti comportamenti. Possiamo inoltre pensare in una giornata a momenti di lavoro alternati e non fissati solo su uno dei tre piani, per alimentare una sana integrazione: • tronco, corpo, attività pratiche e motorie; • limbico, emozioni, spazio a intuizioni, sensazioni, pensieri non troppo bloccati dalla logica; • corteccia, ragione, qui siamo di solito tutti molto forti, sviluppo di piani di azione, pianificazioni, progetti, calcoli, controlli di costi e benefici.

Figura 40 – Il cervello tripartito

4.4 Vitalità, positività, energia, presenza, senso collettivo: le cinque attivazioni per il bibliotecario Le attività tecniche e quelle relazionali del biblio-fac hanno l’intento di unire, provando il più possibile a trasformare gli aspetti difficili, egocentrici, in condizioni più fluide, soddisfacenti, di utilità comune e allargata. Quindi dopo tanto spazio alle negatività, qui possiamo ora dedicarci alle emozioni posi223

tive: significato, presenza, soddisfazione, gentilezza.9 Qui mi limito a segnalare alcuni concetti a cui corrispondono buone pratiche quotidiane da attivare in biblioteca.

4.4.1 Vitalizzare l’energia (attivazione uno) Metodo

Vitalizzare l’energia

Finalità

Per sé: cura della propria energia vitale Con gli altri: per la costruzione di buone relazioni

Descrizione

Slancio vitale con metodo ed esercizio, per costruire da sé il proprio training quotidiano per il benessere

Applicazioni

Sé: vitalizzare l’intero arco di una giornata Lavoro: vitalità come buona base permanente e in particolare nei momenti di insuccesso e impasse

Pensiero e corpo sono la stessa sostanza (Damasio, 2003), quindi possiamo muovere il corpo in maniera positiva, nei gesti per caricare energia, la nostra ricchezza primaria, perlopiù gratuita; con questa energia tonica possono seguire anche i nostri pensieri di volontà e impegno. Nella vitalità è centrale il movimento e la forza, la collocazione nello spazio e la sua intenzionalità. Qualche istruzione: • respiro, attivare una respirazione attenta e consapevole; • biocentro attivo, la sensibilità posturale, il corpo si dispone tonico e morbido al tempo stesso; • esercizi di vitalità, in piedi, seduti, alla scrivania, da soli, in coppia, in gruppo, in palestra dentro una cornice organizzata e con un istruttore, informalmente tra amici, all’aria aperta; • frasi di ingiunzione positiva, nel proprio dialogo interno, es. la mia energia buona; posso stare bene; posso fare un buon lavoro; oppure anche una parola sola: bene, energia, vitalità.   Gli spunti sono di un grande autore, Martin Seligman, ideatore negli ultimi anni del movimento della psicologia positiva: è possibile insegnare (già a scuola) che cos’è il benessere e capire scientificamente che cosa rende felici le persone. 9

224

Ipotesi per una cronometria della vitalità: nella vitalità naturale, quella che ci dona la giornata, possiamo concentrare gli impegni e le mansioni più importanti e impegnative; nella vitalità costruita, quella che ricerchiamo con volontà ed esercizio, possiamo collocare il restante; nella vitalità infine residuale, quella che mostra qualche deterioramento, possiamo inserire mansioni secondarie e routinarie.

4.4.2 Rinnovare l’energia (attivazione due) Metodo

Rinnovare l’energia

Finalità

Per sé: gestione delle proprie risorse e potenzialità Con gli altri: mantenere buone soglie di energia

Descrizione

Alternanza di azione con riposo, l’energia si rinnova riposandoci spesso e bene

Applicazioni

Sé: nell’andamento dell’intera giornata Lavoro: rigenerare le forze individuali e di gruppo

Siamo fatti di ritmi biologici interni ed esterni e il corpo umano è un orologio10 governato da cicli esterni infradiani11 (mensili e stagionali), circadiani (un giorno) e interni, detti ultradiani,12 ritmi più brevi e ripetuti di 120 minuti a cui dovrebbero seguire 20 minuti di recupero, per circa dodici cicli al giorno. Siamo stati progettati per alternare all’intensa attività momenti di ricarica. La manutenzione e il rinnovamento sono essenziali per conservare un livello di produzione alto, e se aumentano gli impegni è ancora più necessario trovare tempi e modi per ricaricarsi. Una diramazione fondamentale del cervello nel corpo è data dal sistema nervoso autonomo che controlla le funzioni automatiche dei nostri organi interni, tra cui battito del cuore, respi  L’orologio che batte il ritmo è nell’ipotalamo all’interno del cervello, che trasmette gli ordini alle cellule sparse nei tessuti del nostro corpo. C’è un ritmo circadiano (circa dies vuol dire “all’incirca un giorno”), che è scandito dal funzionamento della retina che percepisce la presenza o l’assenza della luce, passa dal cervello per finire a tutto l’organismo; uno dei centri fulcro è un gene che si chiama non a caso clock. 11   Ritmo infradiano (infra dies vuol dire “più lungo di un giorno”). 12   Ritmo ultradiano (ultra dies vuol dire “più volte in un giorno”). 10

225

razione, processi digestivi. Questo sistema è composto da due componenti, una “attivatrice” detto sistema nervoso simpatico (che ci agita) e un’altra “rilassatrice” del sistema nervoso parasimpatico (che ci calma). La prima è dedita all’azione e a consumare energia, la seconda al riposo e a rinnovare l’energia del corpo. Il punto chiave è che l’energia giornaliera tende a consumarsi, serve quindi un metodo che la recuperi, il dispositivo chiave in proposta per rinnovare l’energia è alternare azione e riposo, velocità e lentezza. Qualche istruzione: • dare nuovo valore metodologico a un gruppo di attività quali: pausa, riflessione, prendere tempo, alternanza di azioni forti con azioni più lente, microrilassamento, silenzio, stacco, intervallo; • attitudine mentale diversa nelle pause: occorre evitare di struggersi e continuare a parlare, serve invece rallentare, calmarsi, portare attenzione al respiro; questo è lo stacco, non tanto il caffè, il cellulare o altre distrazioni; • la pausa così condotta rigenera circuiti, organi e tessuti, risorse vitali, rinnovandoli. La pausa centrale a metà giornata è importante, come le micropause secondo il ritmo ultradiano, per cui dagli studi emerge che il nostro corpo richiede pause ogni 90 minuti circa; • esaltare la nostra produttività rompendo con i vecchi modelli stakanovisti che ci “spremono” fino a esaurirci. Se siamo un direttore possiamo essere di esempio nell’attuare politiche e servizi che incoraggino i dipendenti a mangiare meglio, muoversi, condividere, fare pause rigeneranti di più (Schwartz, 2011).

4.4.3 Vivere il momento presente (attivazione tre) Metodo

Vivere il momento presente

Finalità

Per sé: aumento di attenzione e consapevolezza Con gli altri: relazioni più sentite e autentiche

Descrizione

Prestare attenzione momento per momento alla nostra esperienza, intenzionalmente, in modo non giudicante

Applicazioni

Sé: una pratica quotidiana anche breve ma costante Lavoro: modo di rilassarsi e antidoto allo stress

226

È la pratica dell’attenzione, detta mindfulness (Kabat-Zinn, 2005), che chiamo “respiro presente”, un piccolo metodo di concentrazione. Sono ormai moltissime le ricerche scientifiche che confermano gli sviluppi positivi cerebrali e dei comportamenti nei soggetti che si fermano per calmarsi e meditare. Solo qualche esempio: miglioramento di vitalità, stima di sé, competenza, soddisfazione della vita, ottimismo, capacità di autonomia, oggettività positiva, empatia, buona disposizione d’animo, coscienziosità, flessibilità mentale, duttilità dell’attenzione, riduzione del senso di isolamento, riduzione di sintomi fisici (mal di testa, problemi digestivi, senso di stanchezza), aumento delle emozioni positive (Amadei, 2013). Qualche istruzione: • fermarsi per ascoltarsi, pratica di silenzio e di respiro presente, la concentrazione è sul respiro, so che sto inspirando e so che sto espirando; • assumere una posizione corporea comoda e seduta senza far niente, chiudere gli occhi, far fluire i propri pensieri, respirare, ritagliarsi luogo e tempo adeguati; • respiro presente può essere fatto anche tra un utente e l’altro, bastano tre respiri consapevoli; • non ce ne rendiamo conto ma siamo ansiosi e agitati, occorre calmarsi (esercizio della calma); • unire l’attenzione per la mansione lavorativa in corso, insieme all’attenzione all’altro e al contesto, insieme all’attenzione a come ci si sente nel corpo e nella mente: questa è una breve descrizione della presenza nel momento. Nello stress produttivo invece tendiamo a vagare da una distrazione all’altra, essere assenti a noi stessi, al nostro corpo, alle nostre emozioni; oltre che spesso assenti al contesto e agli altri colleghi.

4.4.4 Sentire e stare nelle emozioni (attivazione quattro) Metodo

Sentire e stare nelle emozioni

Finalità

Per sé: aumentare l’ascolto di sé, la vicinanza ai propri vissuti emotivi Con gli altri: attenzione ai temi altrui, genuinità e rispetto reciproci

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Descrizione

Capacità di regolazione delle emozioni, contatto ed espressione, nei momenti positivi e negativi

Applicazioni

Sé: nella vita familiare e sociale Lavoro: nel gruppo di lavoro sviluppo della cosiddetta intelligenza emotiva

Lo abbiamo visto già in altra parte del volume, ma non è mai abbastanza prestare attenzione alla gestione delle emozioni, punto davvero saliente nella professione e quindi anche in biblioteca. Il processo del sentire è tutt’altro che semplice, esso coinvolge diversi piani di sé e della situazione in corso, per esempio gli stati corporei fisiologici, le percezioni, le emozioni, i pensieri, che possiamo immaginare tutti interconnessi e in reciproca interazione tra loro. È questa la ragione per cui è molto complicato capirsi e capire. Qualche istruzione: • non reattività o inibizione all’esperienza interna, va messa in conto; • osservazione e ascolto di sensazioni, emozioni, sentimenti; • condividere con una persona attenta o anche scrivere sul proprio diario; • descrizione dei vissuti, mettere parole a ciò che sentiamo, evitare facili etichette e giudizi; • atteggiamento non giudicante nei confronti dell’ascolto dell’altro e di contatto con sé.

4.4.5 Sviluppare abitudini collettive (attivazione cinque) Metodo

Sviluppare abitudini collettive

Finalità

Per sé: sentirsi parte del gruppo Con gli altri: offrire accoglienza, ascolto, apertura

Descrizione

Parola attenta e rispettosa, accoglienza e ascolto attivo, coordinazione di corpo e parola

Applicazioni

Sé: al lavoro e nel tempo privato a casa Lavoro: nel gruppo dei colleghi in biblioteca

Come abbiamo già visto il gruppo può essere inteso come nutrimento tossico o anche salutare. Le abitudini collettive di pensiero, relazioni e azioni che vanno a comporre la vita di 228

gruppo possono essere quindi negative o anche positive. Se nel gruppo di colleghi ci si impegna tutti insieme nella facilitazione delle situazioni con gli utenti e nella cura di sé e degli altri, queste diventano abitudini collettive benefiche, che possono essere molto potenti. Possiamo sostenerci a vicenda per smettere di seguire vecchie abitudini non salutari e indirizzarci verso uno stile migliore. Insieme si può offrire ascolto attento ed empatia in riunione e così creare ponti di pensiero e azione costruttiva. Non si agisce più come individui separati, ma in quanto gruppo e comunità, un organismo che libera forze molto più ampie di quelle dei singoli presi uno per uno. Anche quando ci assale l’inevitabile negatività possiamo avvalerci di questa condizione collettiva per provare a risanarci. Qualche istruzione: • parole, in una modalità dialettica che evita il monologo (stare sull’isola da soli): la dialettica è interdipendenza e vuol dire stare sull’isola almeno in due; • nelle riunioni far girare la parola, perché così facendo si crea un clima conversazionale circolare, più adatto al collettivo; • intersoggettività, la mente umana ha una capacità innata ad aprirsi alla mente degli altri; fin da neonati imitiamo i gesti della mamma per una sincronia interattiva; possiamo abbandonare la visione cartesiana del primato dell’io e adottare di più una prospettiva che enfatizza il ponte séaltro, come due dimensioni intrecciate e complementari (Ammaniti, Gallese, 2014); • momenti collettivi nelle pause, nelle riunioni, nelle situazioni extra lavoro, le idee qui possono essere tante, ad ogni gruppo le sue (cene, escursioni, giochi, ecc.).

4.5 Glossario della Facilitazione esperta Arousal Eccitazione, risveglio, condizione temporanea del sistema nervoso, in risposta a uno stimolo significativo e di intensità variabile. Apprendimento attivo Modalità di conoscere in forma partecipe e concreta, passando dalla dinamica interpersonale e da fattori esperienziali pratici calati nelle situazioni. 229

Atteggiamento Tendenza personale durevole di natura conscia e inconscia, il filtro alle esperienze. Attivazione Capacità di mettersi in moto operativamente e accedere a fattori di senso e motivazione. Azione Comportamento intenzionale e razionale finalizzato al fare. Blocco Effetto psicofisico di contrazione muscolare ed emotiva cronica, inibizione. Cambiamento Processo di rottura di un equilibrio, discontinuità, investimento psichico e materiale. Capacità Possibilità presente e attuale di condurre un comportamento efficace ed efficiente. Clima facilitante Qualità che un contesto ha perché avvenga la crescita psicologica. Compito Unità di lavoro o di sforzo umano esercitata per uno scopo specifico. Complessità Proprietà intrinseca della struttura dei sistemi fisici e inoltre dimensione mentale che intercetta le relazioni di interdipendenza tra fattori e soggetti. Conflitto Incapacità di vivere una contraddizione, accumulo di ansietà che porta alla collisione di fattori intrapersonali e/o interpersonali. Congruenza Quando gestualità e corpo corrispondono alle parole. Creatività Capacità di trovare nuove soluzioni a un problema. Cultura Sistema del vivere quotidiano che è tenuto insieme da un ordine di significati e da rappresentazioni significanti (regole, norme, valori). Dialogico Nello scambio interpersonale i soggetti che si ascoltano e si esprimono con reciprocità. Dinamica di gruppo Campo di forze attrattive e repulsive nel gruppo primario (famiglia) o secondario (colleghi) che si manifesta con pensieri lucidi e azioni intenzionali, ma anche con sensazioni e comportamenti irrazionali e automatici. Dualismo Posizione filosofica associata a Cartesio secondo cui gli umani sono dotati di una mente e un corpo (cervello) distinti. Dualità Capacità di leggere, sentire e analizzare fenomeni tenendo presenti due fattori simultanei. 230

Ecologico Comprendere una complessità composta da singolo, relazioni e ambiente. Energia Capacità di attivarsi e compiere azioni, fare cose; possiamo individuare un’energia cinetica (camminare, muoversi) e un’energia nervosa (pensare, parlare, ascoltare). Espressione Manifestazione esterna del comportamento, delle costruzioni mentali e delle rappresentazioni corporee del soggetto. Facilitatore Nell’approccio umanistico di Rogers è quella persona che accompagna un’altra, agevolandola nel suo processo di crescita psicologica e sociale. Facilitazione Competenza e capacità di abbassare le barriere comunicative, di mettersi nei panni dell’altro e tendere a risultati più concertati in nome di interessi più ampi e complessivi. Filogenetico La storia dello sviluppo evolutivo degli organismi viventi, dall’epoca della loro comparsa sulla Terra a oggi. Finestra di tolleranza Il modo di stare a proprio agio: entro la nostra finestra di tolleranza siamo ricettivi, al di fuori di essa diveniamo reattivi. Fissità Blocco mentale e somatico che tende a ripetere sempre le stesse cose e gli stessi pensieri, impedendo di procedere o retrocedere, due movimenti naturali della vita. Fronteggiamento Atteggiamento mentale e corporeo atto ad affrontare e combattere. Garbo professionale Modalità integrata benevola di corpo e parola nel tollerare e gestire momenti di provocazione evitando di peggiorare e di scivolare in un’escalation negativa. Gesto Uso delle mani, delle braccia e in misura minore della testa che ha speciali qualità di comunicazione e di comprensione. Gruppo Un numero di persone da tre in su che trascorrono tempo insieme, hanno obiettivi da raggiungere e vivono il sentimento dell’appartenenza. Inconscio Fenomeno mentale inconsapevole, vissuto che passa nella persona senza che lo possa afferrare e portarlo alla coscienza. Intelligenza emotiva Capacità di controllo ed espressione delle proprie emozioni, di comprensione dell’altro, di ascolto di sé. 231

Intenzionalità Proprietà della mente per cui può prendere l’iniziativa in rapporto a situazioni e persone per ciò che crede, pensa, intende. Interattivo Comprende quegli atti con i quali nell’interazione una persona modifica o influenza chiaramente il comportamento dell’altro. Istinto Impulso innato. Lateralizzazione Organizzazione di alcune funzioni in uno dei due emisferi. Mappa Rappresentazione visiva e sintetica di un concetto complesso. Marcatori somatici Collegano le emozioni alle sensazioni del corpo. Menzogna Omissione o mascheramento volontario di una parte o di tutta la verità. Metacomunicazione Parola o anche gesto che sul messaggio di contenuto aggiunge elementi congruenti o incongruenti per qualificarne il tipo di relazione. Monadico Spazio individuale della persona con caratteristiche di assenza di relazioni. Narrazione Testo orale o scritto, come un resoconto, una storia, un racconto. Negatività Comportamento difficile e critico non riducibile al solo conflitto, che comprende altresì problemi, malessere ed errori; le fonti di negatività nelle condotte umane sono di tipo biologico, psicologico e sociale. Negoziazione Processo dinamico interpersonale attraverso il quale due parti contrapposte arrivano a una soluzione condivisa del problema. Neurale Relativo alla vita del cervello e del sistema nervoso. Neuronale Relativo alla dinamica tra neuroni. Olismo Il tutto esercita legami e relazioni sulle singole parti, la somma delle parti non è quindi necessariamente assimilabile al tutto. Omeostasi Mantenimento di uno stato dinamico stabile attraverso processi di regolazione interna che ostacolano le perturbazioni provenienti dall’esterno. Percezione Informazioni sensoriali (visive, acustiche, ecc.) che vengono organizzate sulla base di caratteristiche e strategie del cervello e della mente. 232

Plasticità Capacità dei neuroni, dei circuiti nervosi e del sistema nervoso di reagire a stimoli esterni o interni attraverso modifiche della propria funzione o struttura. Proattivo Capacità autonoma del soggetto che si attiva secondo sue leggi proprie, indipendentemente dal contesto e dalla cultura. Psicobiologia Disciplina che cerca di descrivere e interpretare il comportamento in termini biologici, analizzando l’azione di specifici geni su specifici comportamenti. Pulsione Stato di brevissima durata che può trasformarsi in emozione che provoca micromovimenti. Rappresentazione Capacità di rappresentazione di un pensiero, una reazione emotiva e di dargli un nome e un significato; è un’abilità che ci serve per prendere le distanze da un funzionamento impulsivo, riflettere e rispondere in maniera efficace. Resilienza Flessibilità ed elasticità, andare incontro alle sfide piuttosto che fuggire da esse. Resistenza Atteggiamento passivo e negativo, sfiduciato e non collaborativo. Riconoscimento implicito In presenza di una criticità o negatività, in posizione di riceventi, risposta con attenzione e accoglienza, anche se non d’accordo con l’emittente. Ritmo circadiano Ritmo biologico che persiste con un periodo di circa un giorno. Ritmo infradiano Ritmo biologico con un periodo molto più lungo di una sola giornata, ad esempio il ciclo mestruale. Ritmo ultradiano Ritmo biologico con un periodo molto più breve e una frequenza molto più alta rispetto al circadiano, ad esempio il battito cardiaco. Sagittale Dall’avanti all’indietro, descrizione di alcuni movimenti del collo. Sentimento Stato d’essere e stabilizzazione emotiva in un tempo medio-lungo. Sinapsi Spazio tra la parte finale di un neurone e un dentrite; attraverso questo spazio comunicano i neuroni, trasmettendo sostanze neurochimiche. Sincronizzazione Atteggiamento corporeo tendente a mimare e imitare parzialmente l’atteggiamento corporeo dell’altro al fine di far scattare i meccanismi della relazione e dell’empatia. 233

Sistemico Proveniente dalla teoria dei sistemi, è un’area di studi interdisciplinari ma anche una modalità di approccio ai problemi, che tende a considerare le relazioni tra le parti come interdipendenti e che si alimentano a vicenda. Temperamento La nostra personalità emerge da una struttura innata e geneticamente determinata a cui si aggiungono le impronte dei genitori e gli apprendimenti che seguono nelle esperienze biografiche.

4.6 Il cruscotto di allenamento per il Biblio-fac I vari metodi esposti hanno poco senso se non vengono praticati. Questa scheda è un incoraggiamento a provare e riprovare il Face-model negli episodi pratici di tutti i giorni in biblioteca. Proponiamo di utilizzare questa Scheda di Allenamento, sia come lista di controllo (fanne copia e mettila in vista) e sia come pratica autoformativa (dopo una prestazione puoi valutarti e così riflettere sulle capacità messe in campo), così puoi monitorare l’efficacia della tua azione facilitatrice.

Istruzioni per compilare la griglia della pagina a fianco Da compilare in maniera semplice e fluida dopo front-desk, riunioni, briefing, pianificazioni di azioni, o anche al termine di una settimana di lavoro. La valutazione da 1 (poco bene) a 5 (molto bene) è riferita alle abilità codificate del bibliotecario-facilitatore. Buon lavoro!

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F1-COORDINARE: organizzare lavoro, persone, gestione del ruolo 1. Integrazione di compito e persona

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2. Doppia cornice (produzione e partecipazione, cosa e come)

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3. Conduzione facilitatrice (guidare/direttivo, farsi guidare/partecipativo)

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4. Tre pedali (apprezzamento, suggerimento e critica costruttiva)

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F2-COINVOLGERE: connettere e mediare differenze 5. Sintonizzazione sé-altro

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6. Brevità e ritmo (cambio turno, evitare il monologo)

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7. Ascolto attivo, Richiesta parere, Io-assertivo

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8. Feedback negoziale (idea grezza, parere dell’altro, definizione)

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9. Negatività come risorsa da rigenerare

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10. Negatività bassa: esplorazione, sosta, passi concreti

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11. Parola chiave e Parola direzionale

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12. Negatività alta: protezione, contenuto solenne, congedo

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4

5

13. Tre cervelli, tre comportamenti (impegno, attacco-fuga, calo passivo)

1

2

3

4

5

14. Bibliotecario facilita il reference (accogliere, regolare, inviare)

1

2

3

4

5

15. Facilitare il conflitto col collega (posizione diretta implicata)

1

2

3

4

5

16. Facilitare il conflitto tra due colleghi (posizione terza non implicata)

1

2

3

4

5

17. Facilitare il proprio gruppo di lavoro

1

2

3

4

5

18. Vitalità, positività, energia, presenza, senso collettivo (5 attivazioni)

1

2

3

4

5

F3-AIUTARE: trasformare le negatività

F4-ATTIVARE: apprendere dal/nel lavoro

235

BIBLIOGRAFIA

Gran parte della bibliografia che segue è da considerarsi come il compendio base di volumi su cui abbiamo costruito la Facilitazione esperta, ma ancor di più ne definiscono l’area scientifica di riferimento delle competenze sociali e manageriali, nelle sue discipline di provenienza: management, sociologia, psicologia, neuroscienze, pedagogia. Alberici Aureliana, Imparare sempre nella società conoscitiva, Milano, Paravia, 1999. Amadei Gherardo, Mindfulness, Bologna, Il Mulino, 2013. Ammaniti Massimo, Gallese Vittorio, La nascita della intersoggettività, Milano, Raffaello Cortina, 2014. Anolli Luigi, La seduzione, Bologna, Il Mulino, 2009. Anolli Luigi, L’ottimismo, Bologna, Il Mulino, 2005. Anolli Luigi, Psicologia della comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2002. Argyle Michael, Il comportamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1974. Argyle Michael, Psicologia sociale della vita quotidiana, Bologna, Zanichelli, 1996. Argyris Chris, Schön Donald, Apprendimento organizzativo, Milano, Guerini, 1998. Arielli Emanuele, Scotto Giovanni, I conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 1998. Augé Marc, Nonluoghi, Milano, Elèuthera, 2009. Avallone Francesco, Paplomatas Alessia, Salute organizzativa, Milano, Raffaello Cortina, 2005. Barba Eugenio, La canoa di carta, Bologna, Il Mulino, 1993. Baron-Cohen Simon, La scienza del male, Milano, Raffaello Cortina, 2012. 237

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