Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico
 9788833920368

Table of contents :
Indice......Page 354
Senza titolo......Page 8
Frontespizio......Page 5
Il Libro......Page 2
Prefazione......Page 11
Introduzione......Page 15
PARTE PRIMA La psicoanalisi tra dogma ed esperienza......Page 23
1. Due atteggiamenti in psicoanalisi......Page 25
2. Analizzandi che descrivono la propria analisi......Page 31
3. Pedagogia inconscia in psicoterapia......Page 39
4. Perché così radicale?......Page 51
PARTE SECONDA La realtà della prima infanzia nella pratica
psicoanalitica......Page 59
Come s'impara a stare zitti......Page 61
Introduzione......Page 65
5. Psicoanalisi senza pedagogia......Page 68
6. Perché il paziente ha bisogno di trovare un avvocato difensore nell'analista?......Page 72
7. Donna castratrice o bambina umiliata?......Page 79
8. Gisela e Anita......Page 87
9. Dolore per la separazione e autonomia: nuove versioni della dipendenza del bambino......Page 94
La tentazione......Page 117
PARTE TERZA Perché la verità è scandalosa?......Page 121
Eppur si muove!......Page 123
10. La solitudine dello scopritore......Page 125
11. Esiste davvero una « sessualità infantile»?......Page 137
Il mito di Edipo......Page 153
12. Edipo, il bambino colpevole......Page 161
13. L'abuso sessuale compiuto sul bambino: la storia dell'Uomo dei lupi......Page 176
14. I tabù non sessuali......Page 191
15. Il padre della psicoanalisi......Page 202
16. Sfaccettature del falso Sé......Page 208
17. Quasi un secolo di teoria delle pulsioni......Page 212
La pazienza di Giobbe......Page 239
PARTE QUARTA Ma la verità si svela ugualmente .. .......Page 247
Introduzione......Page 249
18. Le fiabe......Page 251
19. I sogni......Page 256
Il ponte......Page 259
20. La letteratura: le sofferenze di Franz Kafka......Page 261
Postilla......Page 323
Le figlie banno infranto il silenzio......Page 325
Postilla (1983)......Page 332
Bibliografia......Page 343
Indice dei nomi (aggiungere 10 nella versione digitale)......Page 347

Citation preview

Saggi Psicologia

Alice Miller

Il bambino inascoltato Realtà infantile e dogma psicoanalitico Nuova edizione

Traduzione di Maria Anna Massimello

Bollati Boringhieri

Prima edizione nella collana «Saggi» r989 Seconda edizione r990 Nuova edizione gennaio 2oro Ristampa settembre 2or4

© 1981 Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main Tutti i diritti riservati T itolo originale

Du sollst nicht merken. Vtiriationen uber das Paradies-Thema

© 1989, 1990 e 2010 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol ISBN

978-88-339-2036-8

www.bollatiboringhieri.it

Stampato in Italia dalla MicrografS.r.I. di Mappano di Caselle (To)

INDICE

Prefazione

1

Il bambino inascoltato

5

Introduzione PARTE PRIMA

La psicoanalisi tra dogma ed esperienza

Due atteggiamenti in psicoanalisi

15

2

Analizzandi che descrivono la propria analisi

21

3

Pedagogia inconscia in psicoterapia

29

4

Perché così radicale?

41

PARTE SECONDA

La realtà della prima infanzia nella pratica psicoanalitica

Come s'impara a star zitti

51

Introduzione

55

5

Psicoanalisi senza pedagogia

58

6

Perché il paziente ha bisogno di trovare un avvocato difensore nell'analista?

62

7

Donna castratrice o bambina umiliata?

69

8

Gisela e Anita

77

9

Dolore per la separazione e autonomia: nuove versioni della dipendenza del bambino LA

tentazione

PARTE TERZA

84 107

Perché la verità è scandalosa?

Eppur si muove!

113

10

La solitudine dello scopritore

115

11

Esiste davvero una « sessualità infantile»?

127

Il mit.o di Edipo

143

12

Edipo, il bambino colpevole

151

13

L' abuso sessuale compiuto sul bambino: la storia dell'Uomo dei lupi

166

14

I tabù non sessuali

181

15

Il padre della psicoanalisi

192

16

Sfaccettature del falso Sé

198

17

Quasi un secolo di teoria delle pulsioni

202

LA

pazienza di Giobbe

PARTE QUARTA

229

Ma la verità si svela ugualmente . . .

Introduzione

239

18

Le fiabe

241

19

I sogni

246

Il ponte

249

La letteratura: le sofferenze di Franz Kafka

251

Postilla

313

20

Le figlie banno infranto il silenzio

315

Postilla (J 983)

322

Bibliografia

JJ3

Indice dei nomi

JJ7

AVVERTENZA BIBLIOGRAFlCA

I

nomi d'autore seguiti da data, citati nel testo o in nota, rimandano alla Biblio­ grafia alla fine del volume. Nd caso di opere di cui esiste la traduzione italiana, la data indica l'edizione originale, mentre i numeri di pagina rimandano alla traduzione.

PREFAZIONE

Nel titolo di questo volume 1 è formulato un comando che non si trova mai espresso in forma esplicita e la cui stretta osservanza è garantita dalfatto che esso è stato interiorizzato assai presto nella nostra storia sia individuale che collettiva. Orcherò in queste pagine di descrivere /'efficacia che questo comando continua ad avere per il singolo individuo e per la società, valendomi, come nei miei libri precedenti (Il dramma del bambino dotato e La persecu­ zione del bambino) dell'ausilio di storie a tutti comprensibili. Gli esempi riportati in quei due volumi offrono un assai ricco e sfaccettato materiale aggiun­ tivo di osservazione e di partenza per le conclusioni teoriche che vengono tratte in questa sede. Vorrei esprimere un vivo ringraziamento a quei colleghi che banno preso parte in modo critico all'evolversi del mio pensiero, e che, mettendo alla prova le mie ipotesi nel «quotidiano» della terapia (che ora non pratico più), mi banno aiutato a prendere sul serio le mie scoperte e ad arrischiarmi a compiere ulte­ riori passi avanti. Grande fa infatti la tentazione di rinunciare alla via che avevo imboccato, in considerazione delle conclusioni che dovetti trarre e che scatenarono anche in me forti resistenze. Vanno ringraziati, però, anche gli altri colleghi, quelli che accolsero le mie idee con indignazione, stupore, aperta ripulsa o timore. Senza le loro reazioni, infatti, non avrei notato con altrettanta chiarezza che mi stavo movendo in ambiti sog,getti a tabù e non sarei giunta ad analizzare i retroterra di questi ultimi. È proprio alle reazioni negative, dunque, che sono debitrice di aver compreso lo sfondo sociale della teoria freudiana delle pulsioni, da cui prendo le distanze in questo libro. A.M.

' [Il cirolo dell'edizione originale Du so/lst nicbt mnken significa: •Non devi accorgerci».]

IL BAMBINO INASCOLTA TO

INTRODUZIONE

••

A me stessa posso fare del male quanto è necessario, ma devo rispar­

miare le altre persone.» Questa frase, di una sua paziente, viene citata da Freud nella lettera a Wilhelm Fliess del

28

aprile

1897.

La prendo

come punto di panenza per esporre il mio pensiero, perché mi pare esprimere una verità che vale per moltissime - o perlomeno per molte - persone che ho conosciuto. Nei miei primi lavori ho cercato di mostrare come il rispetto verso i genitori e l'idealizzazione che se ne ha nei primi anni di vita si spieghi, da un lato, con la completa dipen­ denza del bambino e dall'altro con il bisogno dei genitori stessi di rigua­ dagnare attenzione, riconoscimento e disponibilità nei loro confronti (Miller, 1 979). Sulla base di varie storie di vita vissuta mi sono anche occupata del problema di come, in casi estremi, venisse impiegato l'odio reattivo accumulato nell'infanzia affinché i genitori potessero venirne risparmiati (vedi Miller,

1 980). La persecuzione del bambino

Mentre nel mio volume

mi sono occu­

pata in panicolare della genesi della distruttività e dell'autodistruttività umane, pervenendo a dati che si situano in pieno contrasto con l'ipo­ tesi di una pulsione di mane intesa in senso freudiano, in questo libro vorrei, tra laltro, descrivere le vie attraverso cui le idee sulla « sessualità infantile» prevalenti in psicoanalisi mi parvero sempre più discutibili finché non mi azzardai a panare alle loro ultime conseguenze le esperienze da me compiute.1

' Il lettore cercherà forse invano una definizione del concetto di • teoria delle pul­ sioni-. di cui faccio grande uso in questo volume. Dal momento che Sigrnund Freud introdusse, non senza motivo, parecchie modificazioni alla sua teoria delle pulsioni, una simile definizione dovrebbe quindi anche tener presente la storia dell'evoluzione

6

INTRODUZIONE

Non v'è dubbio che l'esperienza personale della psicoanalisi, a par­ tire dal proprio inconscio, e la possibilità che si offre sul piano profes­ sionale di entrare in contatto anche con l'inconscio di altri componino a tutta prima una grossa liberazione per l'analista principiante. La sem­ plice esperienza fondamentale, spesso sconvolgente, dei propri mecca­ nismi di difesa (rinnegamento, rimozione, proiezione e così via) basta già a modificare assai profondamente il nostro precedente modo di vedere e di pensare. Si acquista una più chiara coscienza delle rappresentazioni e delle idee limitanti della nostra infanzia e, al loro confronto, la psi­ coanalisi stessa rappresenta già un fatto rivoluzionario, dal momento

che essa fu a lungo combattuta, derisa o pressoché ignorata da ampi

strati della società borghese. Una persona che, cresciuta in una sper­ duta e incassata valle montana, giunga d'un tratto a un'ampia distesa pianeggiante, sentirà a tutta prima un profondo senso di liberazione, non diversamente da un bambino che, educato in base a rigidi princìpi religiosi, scopra da adulto il sistema teorico della psicoanalisi. Sulle prime gli parrà di poter imboccare ogni direzione possibile, gli sembrerà cioè che il mondo intero si apra dinanzi a lui perché le sue vie non sono sbarrate da alte montagne. Ma che cosa proverà costui quando si accorga che questa meravigliosa pianura che conduce nel mondo è costellata di segnali di divieto, e che l'ampia valle non segna affatto l'inizio della

di tale concetto, che qui non è possibile esporre. Cercherò invece di rendere compren­ sibile dal contesto a quale aspetto della teoria delle pulsioni io mi riferisca di volta in volta. In linea del tutto generale, posso dire di intendere con tale espressione la convin­ zione, sostenuta da Freud a partire dal 1 89 7 (e assunta anche in seguito dai suoi disce­ poli), dell'esistenza di una sessualità infantile - fase orale, anale e fallica - che all'età di quattro anni culmina nel desiderio di possedere il genitore dell'altro sesso (complesso edipico); ciò conduce necessariamente a dei conflitti, dato che il bambino ama entrambi i genitori e di entrambi ha bisogno. Dal modo di risolvere questo conflitto, che si svolge tra l'Es e l'Io oppure tra l'Io e il Super-io, si decide se l'individuo soffrirà o meno di nevrosi. Secondo questa teoria, nessuno degli eventi del mondo esterno che riguardano il bambino è •patogeno, anche se determinante per la formazione dell'Io e del carat­ tere • (Anna Freud, 1 9 36). Anna Freud non vede alcuna contraddizione in questo fatto perché ella ritiene che l'influsso dell'ambiente, nocivo per il carattere, costituisca l'og­ getto della psicologia e non della psicoanalisi. Questa concezione presenta conseguenze rilevanti per la pratica analitica, che deve considerare tutto ciò che il paziente racconta sulla sua infanzia come fantasie di quest'ultimo e come suoi desideri proiettati verso l'esterno. Secondo la teoria delle pulsioni, il bambino non subisce in realtà degli abusi per soddisfare i bisogni dei genitori, ma produce fantasie su quest'abuso, rimovendo i propri desideri (pulsionali) aggressivi e sessuali, e riuscendo così a viverli - mediante il meccanismo della proiezione - come rivolti dall'esterno su di lui. Fu proprio tale aspetto della teoria psicoanalitica a indurmi a scrivere questo libro.

INTRODUZIONE

sua nuova via, bensì deve costituire un termine definitivo? L'esperienza della pianura ha ridestato in lui la voglia di spaziare, e per contrasto

l'ha reso cosciente di quanto angusta era stata la sua infanzia. Se è lieto

di essersi lasciato alle spalle quelle strettoie, non si accontenterà a lungo

della pianura recintata. Il suo bisogno di libertà si è ormai ridestato,

e con esso si è risvegliato anche il bisogno di riscoprire il mondo al

di là dei segnali di divieto . Egli sa infatti per esperienza che il mondo

non finisce dietro quei segnali, così come non terminava dietro le alte montagne.

Le recinzioni e i divieti si possono paragonare ai diversi dogmi della

teoria psicoanalitica, mentre la grande pianura equivale in primo luogo

alle prime esperienze dell'inconscio. Essa tuttavia non può essere limi­

tata da segnali di divieto se la strada che apre a nuove conoscenze deve

rimanere aperta in tutte le direzioni; infatti, anche se quella pianura rende possibili tante passeggiate, essa è simile a un carcere finché sia vietato

evadere da quell'area. Lo stesso vale per la teoria psicoanalitica la quale,

con la sua impostazione dogmatica, corre il rischio di rinunciare pro­

prio a ciò che in lei v'è di più prezioso, ossia agli elementi creativi, rivo­ luzionari nd senso migliore del termine e capaci di ampliare le coscienze,

per far posto invece a principi ormai codificati, a ciò che garantisce la

sicurezza dell'appartenenza al gruppo.

Dobbiamo a Freud una scoperta fondamentale: l'aver riconosciuto

l' importanza della prima infanzia per tutta la vita successiva; una sco­ perta che probabilmente vale per ogni società e per ogni periodo sto­

rico. Affermare che l'infanzia lascia la sua impronta sulla futura esistenza

dell'individuo significa sicuramente compiere un'asserzione formale, che

solo in quanto tale può pretendere di assurgere a validità universale.

Come poi tale marchio si imprima è legato alle singole culture ed è sog­

getto alle trasformazioni della società; tale modalità dev'essere esplo­

rata da capo in ogni generazione e compresa all'interno del particolare

contesto di ogni singola vita. Ogni tentativo di voler definire una volta per sempre questo « come », per esempio con l'ausilio del complesso edi­

pico e della teoria delle pulsioni, espone la psicoanalisi al pericolo del-

1' automutilazione. Come si potranno infatti applicare i suoi strumenti in senso creativo, se all'interrogativo dell'impronta lasciata dall'infan­ zia in una data generazione si risponde una volta per tutte indicando

il complesso edipico? Invece di comprendere il nuovo materiale nella sua unicità, l'aspirante analista si deve esercitare, durante la sua forma-

8

INTRODUZIONE

zione, a considerarlo non già qualcosa di nuovo, bensì una semplice

conferma di teorie considerate valide una volta per tutte. Egli impara

così a rinunciare ali' enorme potere dirompente e di smascheramento degli strumenti a sua disposizione, prima ancora di poterlo scoprire per­ sonalmente.

Ho presentato l'immagine della pianura recintata al fine di spiegare

in modo più chiaro la mia impostazione. Sebbene anch'io sia personal­

mente debitrice alla psicoanalisi della mia prima liberazione, tuttavia

scorgo nel suo vocabolario alienato e nei suoi dogmi fattori che le impedi­ scono di evolversi sia sul piano teorico, sia nella pratica. Se nelle pagine se­

guenti cercherò di dare fondamento teorico a questa tesi, appoggian­ domi ad esempi concreti, vorrei qui già semplicemente accennare a qua­

li conclusioni sono pervenuta, dopo che fui pronta a disattendere i segnali di divieto e a percorrere tutte le strade che mi erano accessibili. Il mio punto di panenza fu la convinzione dell'imponanza della prima

infanzia per il futuro della vita di ogni individuo. La mia sensibilizza­

zione alla sofferenza dei bambini mi ha consentito di calarmi a livello

emotivo nella situazione del bambino dipendente, il quale, in mancanza

di una persona che lo accompagni e gli stia accanto, si trova nell' impos­

sibilità di esprimere i traumi subiti e deve perciò rimuoverli. D'altra parte riuscii a scorgere con sempre maggiore chiarezza la natura del potere

che l'adulto esercita sul bambino , potere che nella maggior pane delle società viene sottoposto a sanzione o mascherato , ma che negli ultimi

decenni s'è fatto sempre più evidente, grazie agli studi di cc storia della

psiche11 , alle terapie delle psicosi, infantili e familiari, e grazie soprat­

tutto al trattamento psicoanalitico dei genitori. Dopo lunghe esitazioni,

che dipendono probabilmente dal mio senso di lealtà, di gratitudine e dalla cc buona educazione11 ricevuta, sono giunta alla conclusione che non solo la distruttività (ossia lo sviluppo deviato della sana aggressività),

bensì anche i disturbi sessuali e di altro tipo, soprattutto di natura nar­

cisistica, si possono comprendere meglio se si tiene maggiormente conto

del carattere reattivo della loro comparsa. Nella sua inermità, il bam­

bino solletica il sentimento di potere di adulti insicuri e oltre a ciò, in

ceni casi, ne diviene l'oggetto sessuale prediletto. Se riflettiamo sul fatto

che ogni analista potrebbe scrivere interi volumi al proposito, a tutta

prima parrebbe strano che questa conoscenza sia rimasta celata tanto

a lungo. Tra i numerosi motivi di questo fatto, mi limiterò qui a men­

zionarne solo alcuni.

INTRODUVONE

9

Il bambino oggetto di investimento narcisistico viene vissuto dal-

1' adulto come parte del proprio Sé. Questi non riesce perciò a figurarsi

che ciò che gli procura piacere potrebbe avere invece un altro effetto

sul bambino. Ma non appena ne avrà sentore, nasconderà il suo com­ portamento di fronte agli altri. (Recentemente i pedofili hanno rivendi­ cato il loro diritto (!) a poter offrire apertamente ai bambini « amore»

sessuale. Essi non hanno il minimo dubbio che i bambini non abbiano

esattamente bisogno di quello che gli adulti vogliono loro « offrire ».) Anche i pazienti hanno interesse a tener segreto e occultare - o

a incolparne sé stessi - ciò che era loro accaduto, ossia l'abuso narci­

sistico e sessuale perpetrato sulla loro persona (quando si sia realmente

verificato) . Questo è un fatto che viene facilmente trascurato, ma che

è facile da verificare. Se, per esempio, si interpretano come espressione di aggressività rimossa le ossessioni di cui soffre un paziente, senza però occuparsi di scoprire i traumi che lo hanno indotto ad essere aggres­

sivo, l'unico risultato sarà quello di portare il paziente stesso a sentirsi ancora più in colpa per la sua aggressività; oppure ancora, se si inter­

preta la diffidenza che una donna nutre nei confronti degli uomini, come

espressione dei suoi « desideri e fantasie libidici » repressi, sarà forse pos­ sibile, in certi casi, arrivare a una buona collaborazione con la paziente

e perfino al miglioramento dei sintomi, grazie all' amore transferale. In

entrambi i casi però si ripeterà il trauma originario del non-essere-capiti e dell'essere vittima di un abuso, fatto che potrà condurre all'insorgere di nuovi sintomi, perché anche l'ultimo trauma (il trattamento anali­

tico) va reputato non come tale, bensì come un aiuto, un beneficio,

un atto terapeutico, e così viene considerato perlopiù dal paziente stesso.

Poiché la teoria psicoanalitica delle pulsioni rafforza la tendenza del

paziente a negare il suo trauma e a incolparne sé stesso, essa è più adatta a tenere occultato - piuttosto che a rivelarlo - l' abuso sessuale e nar­ cisistico subìto dal paziente da bambino.

Per quale motivo, nella maggior parte dei casi, l' analista non affronta

i traumi reali vissuti nell'infanzia? I motivi possono essere di vario tipo:

a) l' idealizzazione irrisolta dei suoi stessi genitori; b) le limitazioni impo­

stegli dalle stesse teorie che egli ha appreso e soprattutto, credo, e) la

paura di confrontarsi con il proprio trauma. Per alcuni analisti si aggiunga poi d) il fatto che sinora non si sono ancora accorti dei segnali di divieto

e non hanno mai dubitato della veracità dei dogmi.

In un libro è possibile trattare soltanto l' ultimo di questi quattro

IO

INTRODU7.JONE

motivi, dato che il rinnegamento del trauma vissuto nella propria infanzia non si può risolvere senza un'autocoscienza che vada a scavare in pro­ fondità. Per ciò che concerne l'influsso delle teorie che si sono apprese, nei molti anni del mio lavoro di supervisione, ho sempre dovuto costa­ tare quanto esse possano ostacolare l'analista nell' apprendere dalle sue esperienze e anche nel compiere esperienze proficue. D'altra pane ho potuto altresì costatare che c'erano dei candidati, dotati di maggiore apenura emotiva, i quali non si sentivano vincolati da obblighi di lealtà nei confronti della teoria delle pulsioni, ossia che non consideravano il materiale ponato dal paziente come una semplice fantasia di quest'ul­ timo e come espressione dei suoi desideri pulsionali, bensì lavoravano direttamente sull'ipotesi dei traumi precoci. Rendevano in tal modo pos­ sibile al paziente esprimere i traumi della sua infanzia, fatto che poteva aiutare quest'ultimo a compiere un cambiamento « strutturale» in tempi assai più ridotti di quanto non fosse possibile in precedenza. Questi col­ leghi osarono compiere nuove esperienze, renderle proficue e, nel comu­ nicarmele, mi consentirono di apprendere a mia volta qualcosa di nuovo. Sono quindi a loro debitrice, non solo della validazione empirica della mia teoria, ma anche della cenezza che i dati del mio lavoro sono rile­ vanti per i singoli casi e si possono applicare in modo creativo sul piano individuale.

Negli analisti il cui atteggiamento è caratterizzato dall'identificazione

con il bambino in quanto vittima (e non con l'educatore), il punto focale della formazione analitica è invece spostato dallo studio intellettuale della letteratura specialistica alle esperienze emotive della propria analisi, in cui dovettero essere rivissute le angosce di separazione della prima infanzia (vedi oltre, pp.

84 sg.).

La scopena della propria soggettività consente

all'analista di accedere a quella dd suo paziente, dal qua)e e insieme col quale egli apprende la realtà della vita di quest'ultimo. E solo l'espe­ rienza Oimitata) del mio inconscio e la conoscenza della coazione a ripetere che mi permettono di comprendere la soggettività di un'altra persona. Essa mi si mostrerà allora in tutto ciò che essa dice, fa, scrive, sogna o da cui sfugge. La capacità dell'analista di avvenire la propria perso­ nale soggettività è la premessa per ogni comprensione, ma le conoscenze così acquisite sulla vita dd paziente sono tutt'altro che idee soggettive. Sono tentativi di comprendere il senso e

la sofferenza nascosta di una vita unica e irripetibile, collocati sullo sfondo di un 'infanzia specifica, grazie alle messe in scena risultanti dalla coazione a ripetere nell'ambito del transfert e del controtransfert.

INTRODUZIONE

Il

Dallo studio da me compiuto su varie storie di vita vissuta risulca

evidente che cali conoscenze possono essere verificabili . Non necessa­ riamente la capacità di provare sentimenti deve escludere lesattezza scien­

tifica; ritengo invece che esistano degli ambiti (come per esempio quello

della psicoanalisi), la cui scientificità avrebbe moltissimo da guadagnare

dalle conoscenze che derivano da cale capacità, anche solcanco per sco­

prire l'arsenale di false affermazioni che possono perdurare a lungo, grazie

alla copertura di concetti incomprensibili. Solo chi è capace di provare sentimenti è in grado di smascherare la funzione di potere di un' impal­ catura concettuale ormai svuotata, perché non si lascia intimidire dalla vesce di incomprensibilità assunta da quesc'ulcima.

PARTE PRIMA La.

psicoanalisi tra dogma ed esperienza Chi mai racconcerà a Françoise che essa è stata sul punto di morire? Può darsi che venga a sapere di essere stata salvata dal suo ammirevole papà (. . .) Non le si racconcerà certo che egli voleva uccidere questa creatura di cui non era il padre (...) Può anche darsi che Françoise ripeterà che le è successa qualche cosa quando era piccolina, che però non sa bene che cosa e che da allora deve recarsi all'ospedale per via della sua anca, della gamba o del piede, per poter camminare, un giorno, come gli altri ( . . .) Del resto ha fatto dei progressi e le si è detto che potrebbe già portare delle nuove scarpe orto­ pediche Leila Sebbar, 1 9 78

CAPITOLO 1 Due atteggiamenti in psicoanalisi

La volontà di non interrogarsi sulla maniera in cui i genitori trat­ tano, consciamente o perlopiù senza rendersene conto, i loro figli durante i primi anni di vita, non si trova soltanto all'interno della psicoanalisi classica, ma caratterizza tutte le scienze umane a me note, anche quelle che hanno quotidianamente libero accesso ai fatti in questione, ossia la psichiatria, la psicologia e vari orientamenti di psicoterapia. Se io tengo in modo panicolare a mettere in risalto questo fenomeno anche all'in­ terno della psicoanalisi, ciò può dipendere anzitutto proprio dal fatto che, a mio parere, la psicoanalisi potrebbe avere la più profonda e pura conoscenza di questo accadimento, se non si facesse schermo delle pro­ prie teorie contro di esso, fatto che avviene in maniera del tutto auto­ matica e inconscia. Devo quindi prender le mosse da più lontano, per descrivere tali meccanismi. Se, per esempio, di fronte a una persona che entra per la prima volta nel mio studio, rivolgo tutto il mio interesse e la mia attenzione a sco­ prire quali desideri pulsionali essa reprima al momento, e se credo che il mio compito consista nel chiarirglieli nel corso del processo analitico, starò sicuramente ad ascoltare con una cena gent.ilezza quello che essa mi racconterà sui suoi genitori e sulla sua infanzia, ma sarò in grado di recepire, rispetto a quegli eventi, soltanto gli elementi che possono spiegare i desideri pulsionali del paziente. Neppure a me sarà accessibile la realtà del bambino di un tempo, cui il paziente non riesce più ad accostarsi sul piano emotivo. Essa rimane una semplice componente del « mondo fantastico» del paziente, al quale sono in grado di panecipare con le mie teorie e costruzioni, senza però essere in grado di scoprire i traumi realmente accaduti.

16

TRA DOGMA ED ESPERIENl.A

Se invece, rispetto alla stessa persona che entra nel mio studio, mi

confronto sin dall'inizio con gli interrogativi che concernono gli epi­

sodi occorsigli nell'infanzia, e se io mi identifico coscientemente con il bam­ bino che è presente nel paziente, allora sin dalla prima ora analitica si dispie­ gherà dinanzi a noi un awenimento della prima infanzia, che non avrebbe affatto potuto emergere se il mio atteggiamento fosse stato determinato non tanto dal mio identificarmi coscientemente con il bambino che il

paziente era stato un tempo, quanto piuttosto dall'identificazione incon­ scia con i genitori che educano dissimulando la verità. Per consentire a tali contenuti di emergere non è sufficiente porre domande sul passato ,

e inoltre certe domande paiono essere fatte apposta per coprire od

occultare, piuttosto che svelare alcunché. Se invece l'interesse dell'ana­ lista è rivolto ai traumi della prima infanzia, ed egli non si trova più

soggetto alla coazione interiore a dover risparmiare i genitori (i suoi

e quelli del paziente), egli sarà allora in grado senza difficoltà di sco­ prire nelle lamentele attuali del suo paziente la ripetizione di una situa­

zione precedente. Se per esempio si trova ad ascoltare come il paziente,

con espressione impassibile, gli racconti del suo attuale rapporto di coppia,

che a lui, cioè all'analista, appare estremamente penosa, egli doman­

derà allora a sé stesso e al paziente quali tormenti quest' ultimo abbia già dovuto sopportare durante la sua infanzia, senza che gli fosse con­

sentito di riconoscerli come tali, per poter ora parlare senza la minima

emozione del suo sentirsi impotente, disperato, solo e soggetto a conti­ nue umiliazioni nel suo attuale rapporto di coppia. Può anche darsi che

il paziente arrivi animato da forti affetti, spostati su altre persone neu­

trali e parli invece dei suoi genitori in modo del tutto privo di affetti o idealizzante. Se l'analista si interessa al trauma originario, non gli ci vorrà molto a capire, osservando come il paziente fa del male a sé stesso, come i genitori di quest'ultimo l'abbiano trattato da bambino. Anche

la maniera in cui il paziente tratta l' analista rivela molte cose sul modo

in cui l'hanno trattato i genitori: con disprezzo, derisione, manifestando delusione nei suoi confronti, oppure in modo da creargli sensi di colpa, da svergognarlo, fargli nascere angoscia o sedurlo. Tutti i coni che sono risuonati nella stanza dei bambini si possono mostrare già nel primo

colloquio, se soltanto ci è consentito di dar loro ascolto. Se invece l'ana­ lista è ancora prigioniero delle proprie coazioni educative, racconterà

allora al supervisore o ai colleghi che il suo paziente si comporta « in

un modo impossibile», che è pieno di aggressività repressa, ribollente

DUE A 7TEGGIAMENTI

17

di desideri pulsionali, e chiederà consiglio ai colleghi più esperti sul modo di interpretare o di « tirar fuori� quell'aggressività. Se invece fosse in grado di rendersi conto della sofferenza del paziente, che quest'ultimo non può ancora avvenire, allora si limiterebbe ad attenersi al seguente presupposto: gli atteggiamenti dimostrativi del paziente costituiscono una forma di comunicazione e di linguaggio, che parlano di eventi, sui quali questi per il momento non può e non deve riferire in altro modo. Egli saprà anche che tutte le forme di aggressività, represse o manifeste, costituiscono risposte e reazioni a quei traumi, che per il momento riman­ gono nell'ombra, ma che l'analisi dovrebbe proporsi come meta di far rivivere emotivamente, sul piano cosciente. Ho qui descritto due atteggiamenti diversi, anzi decisamente con­ trapposti, dell'analista. Supponiamo che un paziente o un aspirante ana­ lista, in cerca di qualcuno che lo prenda in analisi, parli con un qualsiasi analista facente parte di uno di questi due orientamenti; supponiamo poi che di questo primo colloquio occorra fare un resoconto a scopi clinici o da sottoporre alla commissione di supervisione.

È facile imma­

ginarsi che le due relazioni non solo si discosteranno l' una dall'altra, ma parleranno come di due persone diverse. La cosa non è di per sé rilevante perché tali relazioni rimangono perlopiù nel cassetto; impor­ tante è invece il fatto che chi si è sottoposto al colloquio possa viversi in tale circostanza o come soggetto o come oggetto. Nel primo caso egli scorge, talvolta proprio per la prima volta nella sua vita, I' opportu­ nità di incontrarsi con sé stesso e con la propria esistenza e di accostarsi quindi a suoi traumi inconsci, esperienza che può riempirlo tanto di angoscia, quanto di speranza. Nel secondo caso egli è pronto, nell'alie­ nazione intellettuale da sé stesso, che ben conosce, a considerarsi oggetto di un'ulteriore opera educativa, nel corso della quale egli, per esprimerci con le parole della paziente di Freud, può fare del male a sé stesso, tanto quanto gli è necessario. Queste differenze nell'atteggiamento che il paziente ha verso sé stesso mi paiono essere di estrema rilevanza non solo per il singolo individuo, bensì per l'intera società. La maniera in cui un individuo si rapporta a sé stesso si ripercuote anche sul suo ambiente, in particolare su coloro che sono dipendenti da lui, figli e pazienti. Chi oggettivizzi totalmente la propria vita interiore, renderà anche gli altri degli oggetti.

È

stata

soprattutto quest' ultima conseguenza a indurmi a descrivere con chia­ rezza tale differenza di atteggiamento, benché io sappia bene come le

TRA DOGMA ED ESPERJENZA

18

motivazioni che stanno alla base dell' atteggiamento di •copertura» (il

risparmiare i genitori, il rinnegamento del trauma) siano profondamente radicate nell'inconscio, e difficilmente si possano cambiare con i libri

o con argomentazioni teoriche.

Oltre a questo, anche altri motivi mi hanno indotta a riflettere sulle

differenze nell' atteggiamento dell'analista. Spesso m'imbatto nell'opi­

nione che il lavoro analitico sul Sé, come io lo intendo, possa venire

effettuato solo nell'ambito di un' analisi classica di lunga durata e che tale meta non sarebbe raggiungibile nell'ambito di una psicoterapia più breve. Anch'io un tempo ne ero convinta, ma ora non lo sono più,

perché ho costatato quanto tempo il paziente perda quando si debba

difendere contro le teorie del suo analista, per poter infine cedere e lasciarsi

cc

socializzare » o « educare ». Lo stesso si dica per i gruppi. Ai

componenti di un gruppo viene concesso, a parole, il diritto di espri­ mere i propri �entimenti; il terapeuta che però abbia paura delle loro

possibili "esplosioni emotive» contro i genitori, non potrà comprendere

i partecipanti al gruppo e ne accrescerà, tra I' al ero, la confusione e I' ag­

gressività. Egli può quindi o lasciare che questi sentimenti rimangano in uno stato caotico, oppure prendere misure educative, più o meno

velate, appellandosi alla ragione, alla morale, alla volontà di riconcilia­ zione e così via. Spesso gli sforzi del terapeuta sono diretti alla riconci­

liazione del paziente con i suoi genitori, poiché egli è coscientemente

convinto - e così ha appreso - che la pace interiore si possa raggiun­ gere solo attraverso il perdono e la comprensione (cosa che nel mondo

del bambino è anche effettivamente vera!) Inconsciamente però è possi­ bile che, nel condurre il paziente alla riconciliazione, il terapeuta tema

la sua stessa ira repressa contro i propri genitori. Nel lavoro terapeutico

egli cerca in fondo di salvare i propri genitori dalla sua collera, che egli

considera - nella fantasia - mortale, perché non ha mai potuto speri­ mentare che i sentimenti non uccidono. Qualora invece il terapeuta riesca

ad abbandonare totalmente la sua identificazione inconscia con i geni­

tori che educano, e a identificarsi - in veste di suo difensore - con il

bambino sofferente, in breve tempo la sua comprensione libera da ango­

scia metterà in moca processi che un tempo venivano consideraci mira­

colosi, dato che sul piano concettuale non se ne riusciva ancora a cogliere

la dinamica.

La differenza tra i due atteggiamenti può anche essere illustrata con

un esempio assai banale della cosiddetta « messa in atto••, che ogni ana-

DUE A ITEGGIAMENTI

19

lista conosce bene dalla sua pratica. Supponiamo che, in una cena fase

dell' analisi, un paziente telefoni a casa dell'analista a tutte le ore del

giorno e della notte. Un analista che si ponga inconsciamente come edu­ catore, vedrà in questo componamento un'« insufficiente tolleranza delle

frustrazioni » (poiché il paziente non riesce ad aspettare sino alla pros­ sima ora d'analisi), un rappono disturbato con la realtà (il paziente non

capisce che lanalista, oltre alle ore che passa con lui, ha una sua vita privata) e altri « difetti » narcisistici. Dal momento che l'analista stesso

ha ricevuto la sua « buona educazione» da bambino, troverà difficoltà a porre dei limiti al paziente semplicemente a panire dalla propria libenà.

Cercherà invece delle norme che gli consentano di eliminare il disturbo

causatogli dalle frequenti telefonate del paziente, ossia, in altre parole, di « educarlo » .

S e però lanalista è i n grado d i scorgere nel componamento del

paziente lattiva messa in scena di un destino subìto passivamente, egli

si chiederà come i genitori si siano condotti nei confronti di questo bam­

bino e se il componamento del paziente non possa piuttosto raccon­

tare la storia della sua totale disponibilità da bambino, storia talmente

antica che il paziente non riesce più a narrarla con le parole, ma solo

con il suo componamento inconscio. Questo interesse mostrato dall' a­

nalista per la realtà dei primi anni di vita non mancherà di produrre

conseguenze pratiche: egli non cercherà di « prendere i giusti provvedi­ menti » , ma non correrà neppure il rischio di dare al paziente l'illusione

di essere completamente disponibile, disponibilità che quest'ultimo non

aveva mai conosciuto da pane dei suoi genitori e che aveva invece cer­

cato di offrire loro, in modo illusorio . Non appena l'analista riesce a mettere a fuoco, insieme al paziente, la situazione originaria, non ha

più bisogno di misure educative, e nonostante ciò - o meglio proprio

per tale motivo - può prendere sul serio e proteggere la propria sfera privata e il proprio tempo libero.

L'atteggiamento educativo si riflette nel concetto della > . La

sua smisurata rabbia iniziale nei confronti del primo terapeuta, da cui

ella si era sentita così profondamente fraintesa, si trasformò gradata­

mente in rincrescimento e lutto per l' incapacità di quest'ultimo di com­

prenderla, limite che col tempo ella scoprì - e accettò - anche nel suo

nuovo terapeuta. Nello stesso tempo a questa donna, in fondo capace

dì immedesimazione e ricca di sensibilità, fu possibile accettare la storia

passata di suo padre. Essa comprese, questa volta a livello emotivo e

72

REALTÀ INFANTILE E PSICOANAUSI

senza provare disprezzo, che suo padre già da bambino era stato un gio­

cattolo nelle mani dei suoi genitori separati (che se lo palleggiavano a

vicenda), diventando poi più tardi, durante il Terzo Reich, un trastullo nelle mani dello Stato e del Panito . Ma una vera comprensione e un

autentico perdono da adulto questa donna poté darli soltanto dopo che

la rabbia e le fantasie di vendetta della bambina umiliata erano state prese sul serio dall'analista e non più interpretate come espressione della

sua « invidia del pene » .

Non comprendere un a paziente non è una cattiveria, m a piuttosto

uno sfonunato destino, intimamente legato al tipo di analisi didattica

compiuta; sia per l'analista che per il paziente può essere perciò un' e­

sperienza liberante il fatto che il primo possa ammettere i propri limiti.

Il secondo invece viene messo in difficoltà quando sente dire dall' anali­

sta che egli lo capisce benissimo, ma che è proprio lui, il paziente, a « rifiutarsi ,, di accettare le interpretazioni dell'analista, perché vorrebbe

essere il più furbo, il più grande e il più potente e rendere tutti gli altri

piccoli e stupidi. Tali interpretazioni ponano a transfen sadomasochi­

stici o ne sono già espressione; esse vengono ripagate con sempre mag­

giore aggressività, che si può esprimere anche in silenzi della durata di

ore intere e che fanno del tutto « perdere la pazienza» ali' analista, il che

non giova ceno ad accrescerne l'empatia.

Che cosa si verifica in questo caso? Un bambino piccolo che viene

maltrattato non ha il diritto di accorgersene e non può parlarne, e a togliergli sicurezza è proprio questo divieto di vivere coscientemente quell' esperienz.a e di esprimerla. Quando più tardi l'adulto andrà in analisi

e si sentirà dire che egli « ritiene soltanto » di non essere capito, ma che

in realtà lo è, che cosa succederà in lui? Se non si è sformato una base per i propri sentimenti, l'unica possibilità rimane quella di un adatta­

mento perfetto , e il paziente accetterà che l'analista etichetti il suo com­

ponamento, come a suo tempo avevano già fatto i suoi genitori. Ma

se esiste già un terreno su cui costruire, se cioè il paziente dispone di

un vitale, vero Sé, una simile assicurazione da pane dell'analista, che

sta in piena contraddizione con il proprio sentimento di non-essere-stato­ compreso, lo metterà in seria difficoltà, lo renderà insicuro, lo farà arrab­

biare e forse - nei casi migliori! - lo riempirà d'indignazione. Nel sett­ ing protetto dell'analisi, però , troverà per la prima volta il coraggio di

ribellarsi contro il fatto che i suoi genitori, che egli vede incarnati nel-

1' analista, volevano sempre saperne di più e aver ogni volta ragione e

DONNA CAS1RA TRICE!

73

oserà difendere la propria autonomia. Il futuro di questo paziente dipen­ derà soltanto dal fatto che l'analista sia pronto o meno a sbarazzarsi

della sua merce, - fino a quel momento ben vendibile - consideran­ dola superata e inservibile, e disposto a lasciarsi guidare dai sentimenti

del paziente, o dal fatto che egli, invece, continui a insistere nel propi­

nargli la sua « merce » . Che a questo proposito si ingaggi una lotta di

potere era i due non è poi un'esperienza del cucco negativa; è pur sem­

pre un segno che il paziente è vitale ed è alla ricerca della sua autonomia.

I metodi dei terapeuti (delle scuole più diverse) possono essere altret­

tanto raffinaci di quelli dei genitori. Alcuni non si accontentano di dis­

suadere il paziente dall'idea di non essere stato capito e di dimostrargli

per mezzo di interpretazioni che si tratta solo di un'espressione della

sua « caparbietà » , « Ostinazione » ecc. Esiste anche un altro metodo, per­

fettamente « legale n ed efficace, per renderlo insicuro e arrendevole: esso

si basa sulla teoria che, per esempio, le cosiddette angosce paranoidi,

vale a dire la sfiducia che il paziente nutre nei confronti del suo pros­ simo, siano soltanto un meccanismo di difesa, la proiezione dei suoi

desideri di abusare dell'altro, di ingannarlo, di sedurlo o di assassinarlo. Tali interpretazioni possono contenere qualche elemento di verità, poi­

ché il meccanismo della proiezione si presenta effettivamente abbastanza spesso . Se per esempio riceviamo una delusione da una persona e non

ci è consentito di esprimere la nostra rabbia, non viviamo noi stessi come in preda all'ira, bensì sentiamo che quella persona è cattiva. Ma cali

interpretazioni sono perlopiù inefficaci e offensive perché colgono sol­ tanto l'elemento finale di una lunga sturia, perché in fondo lasciano intatto il nucleo della tragedia. È già abbastanza tragico di per sé, che gli inizi

di ogni vita umana, nella misura in cui sono stati influenzati dalle gene­

razioni precedenti, debbano rimanere inaccessibili . Ma se la realtà della prima infanzia del paziente, che si può appurare dalla coazione a ripe­ tere e dal gioco di transfert e controtransferc, viene interpretata come

proiezione delle sue fantasie, allora si mettono le premesse per una nuova

tragedia.

Ciò che si è detto a proposito della a donna castratricen e della sua " invidia del pene » si può illustrare in innumerevoli storie di vita, spesso veramente crudeli. Si può ben capire come le donne che siano state

sottoposte a precoci umiliazioni dal loro padre e che siano state trattate come giocattoli, da adulte saranno inclini a far sentire agli uomini

74

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

per quanto è possibile la loro superiorità e al tempo stesso a rendersi

irrimediabilmente dipendenti da questi ultimi . Gli uomini, da parte loro,

si vendicheranno sulle donne (e sulle bambine) del fatto di non essere stati rispettati dalla loro madre. Ma sono soltanto le origini biografiche

e individuali di questo comportamento a rendercelo comprensibile, ed

è proprio a queste origini che - perlomeno si vorrebbe pensare - la psi­ coanalisi si sforza di arrivare. Ogni moralismo educativo le dovrebbe

quindi rimanere estraneo.

Ali' età di cinquant'anni Henry Miller sedeva al capezzale della madre

morente e desiderava con tutto il suo essere che essa, prima di morire,

gli dicesse di aver letto qualcuno dei suoi scritti. Ma la madre morì senza potergli dire niente di simile, perché evidentemente non aveva mai letto

niente di lui. Ci si deve allora meravigliare che - come scrive Anals Nin - egli presentasse le donne che amava come • puttane», per poterle poi accusare?

Una costellazione analoga si può ritrovare in Baudelaire per il quale

l'amore-odio per la madre era forse più prossimo alla soglia della

coscienza. Da bambino egli avvertì il secondo matrimonio di lei come un' infedeltà al suo defunto padre e a lui stesso, e perciò la visse come

" puttana», ma allo stesso tempo seducente e desiderabile. Nella lirica Il Lete si esprime la profondità della sua ambivalenza, in cui molti si potranno identificare:

Il Lete

Vieni sul mio cuore, anima crudele e sorda, tigre adorata, mostro indifferente; voglio immerger le mie dita tremanti nello spessor della tua greve chioma, e nella gonna piena di profumo seppellire la testa dolorante, e come un fiore secco respirare il dolce tanfo dell'amor defunto. Voglio dormire! dormire, non vivere! In un sonno dolcissimo di mone, baci profonderò senza rimorsi sul tuo bel corpo come rame lucido. Per inghiottire i singhiozzi placati nulla vale l'abisso del tuo letto; spira sulla tua bocca oblio possente, e il Lete fluisce nei tuoi baci.

DONNA CASTRA TRJCE?

75

Al mio destino ch'è la mia delizia, obbedirò come un predestinato; martire arreso, innocente dannato, che il suo supplizio con fervore attizza, per poter soffocare il mio rancore ammaliato io succhierò il nepente e la cicuta dalle aguzze punte del tuo petto, che mai racchiuse un cuore. Due lettere inviate da Baudelaire alla madre mostrano tutta la tragi­ cità del suo rapporto con lei e l autenticità del sentimento da cui sono scaturiti

I fiori del mak.

·

Chi sa se potrò ancora una volta aprirti tutta la mia anima, che tu non hai mai apprezzato né conosciuto! Te lo scrivo senza esitazione, tanto so che è vero. Ci fu, nella mia infanzia, un'epoca d'amore appassionato per te; ascolta e leggi senza paura. Non te ne feci mai parola. Mi ricordo di una passeggiata infiacre; uscivi da una casa di cura dove eri stata relegata, e mi mostrasti, per provarmi che avevi pensato a tuo figlio, dei disegni a penna che avevi fatto per me. Non credi che ho una memoria terribile? In seguito, la piazza Saint André des Arcs e Neuilly. Lun�e passeggiate e perenni tenerezze. Mi ricordo dei quais, che erano così tristt la sera. Ah! questo fu per me il bd tempo delle tenerezze materne. Ti chiedo scusa se chiamo bel tempo quello che certamente fu brutto per te. Ma io ero sempre vivente in te; tu appartenevi soltanto a me. Idolo e compagno insieme eri per me. Forse ti stupirai che io possa parlare con pas­ sione di un tempo tanto remoto. lo stesso ne sono stupito. Forse perché ancora una volta ho concepito il desiderio della morte, i fatti antichi mi si dipingono così vivi nel mio animo (6 maggio 1 86 1 , P.P· 8 5 sg.). E diciassette anni prima, quando sua madre voleva dargli un tutore

(come in seguito fece poi realmente), Baudelaire scriveva:

Ti p rego di leggere con molta attenzione quanto ti scrivo, perché è cosa molto sena, essendo un appello supremo al tuo buon senso e alla tenerezza così viva che dici di provare per me. Innanzi tutto, ti mando questa lettera sotto il vin­ colo del segreto e ti prego di non mostrarla a nessuno. Inoltre ti prego viva­ mente di non vedervi alcuna intenzione di mirare al patetico né di commuo­ verti se non con qualche ragionamento. La bizzarra abitudine che hanno preso le nostre discussioni di mutarsi in asprezze, di cui spesso non v'è nulla di vero in me, lo stato di agitazione in cui sono, la decisione presa da parte tua di non ascoltarmi più, mi hanno costretto ad assumere la forma di una lettera in cui voglio persuaderti come tu possa avere torto, malgrado tutta questa tenerezza. Scrivo tutto questo con mente calma, e quando penso allo stato di malattia in cui mi trovo da diversi giorni, causato dalla collera e dallo stupore, mi chiedo

76

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

come, con quale mezzo potrò sopponare il fatto compiuto! Per farmi ingoiare la pillola, non cessate di ripetermi che in questo non c'è nulla di strano e che la cosa non è affatto disonorante. Può darsi, e io lo credo; ma, in verità, che imponanza ha ciò che è realmente per la maggior pane della gente, se per me è tutt'altra cosa. Mi hai detto che consideri la mia collera e la mia ama­ rezza come del tutto passeggere; presumi di farmi soltanto una bua infantile per il mio bene. Allora, convinciti bene di una cosa che mostri sempre di igno­ rare: la verità è che, per mia sventura, io non sono fatto come gli altri uomini. Ciò che tu consideri come una necessità e un dolore di circostanza, io non posso, non posso tollerarlo. E questo si spiega molto bene. Quando siamo soli, tu puoi trattarmi come ti pare. . . ma con furore respingo tutto ciò che attenta alla mia libertà. Non v'è forse un'incredibile crudeltà nel sottomettermi all'ar­ bitrato di alcuni uomini che ne provano fastidio e che non mi conoscono? Detto tra noi, chi può vantarsi di conoscermi, e di sapere dove voglio andare, cosa voglio fare, e di quale dose di pazienza sono capace? Credo sinceramente che cadi in un grave errore. Te lo dico con freddezza, dal momento che mi consi­ dero come condannato da te, e sono sicuro che non mi ascolterai: ma bada bene a questo, innanzitutto, e cioè che scientemente e volontariamente tu mi stai procurando una sofferenza infinita di cui ignori tutto lo strazio (lettera non datata, 1 844, pp. 30 sg.). Queste implorazioni rimasero senza esito, ma la lettera ci consente di avere un'idea della realtà che sta dietro i fiori del male. La conoscenza dei precedenti facilita spesso la comprensione degli eventi che seguiranno,

anche se a prima vista essi ci appaiono ancora confusi. La teoria pulsio­ nale non prende affatto in considerazione questo aspetto.

Un esempio assai evidente in tal senso è la famosa descrizione freu­ diana del « caso Schreber». Freud interpreta le idee deliranti e le ango­

sce di persecuzione del paziente come espressione del suo amore omosessuale, da lui stesso respinto, per il padre, senza preoccuparsi mini­

mamente di indagare quali violenze il padre potesse aver fatto subire in precedenza a suo figlio. Dopo che Morton Schatzman (197 3) ha stu­

diato a fondo questa storia e la personalità del padre di Schreber, è pos­ sibile intendere il delirio di persecuzione del figlio come un modo per

raccontare, in maniera solo lievemente cifrata, la tragedia vissuta nel-

1' infanzia. Nel « caso Schreber », anche Freud si è dunque limitato a descri­ vere l' ultimo atto di un dramma a lui rimasto completamente celato .

CAPITOLO 8 Gisela e Anita

Da quella che definisco la funzione di avvocato difensore dell' anali­ sta deriva tutta una serie di conseguenze, a meno che non si voglia inten­ derla in modo puramente superficiale. Anche in campo legale ci atten­ diamo che un avvocato non si limiti a tradurre nel linguaggio forense

e a inoltrare ciò che gli riferisce il suo cliente. Ci aspettiamo invece assai

di più da lui, e cioè che consideri i fatti che gli vengono presentati come

inseriti in un contesto, di cui il suo paziente è ancora all'oscuro, e che

perciò scopra fatti nuovi, fino ad allora rimasti nell'ombra e divenga

in grado di tutelare gli interessi del cliente meglio di quanto non potrebbe

fare quest'ultimo. Lo stesso si può dire della funzione di avvocato difen­

sore dell'analista, con la fondamentale differenza, però, che il suo sapere

necessita di una base emotiva, che gli viene trasmessa dall' esperienza

della sua analisi didattica. Munito di tale sensorio, l'analista non avrà soltanto una conoscenza teorica del fatto che l'infanzia rivesta un ruolo decisivo nella vita del suo paziente, ma sarà anche in grado di avvertire nel proprio animo che cosa significhi per un bambino piccolo essere in completa balia dei bisogni e delle pretese dell'adulto . Poiché ormai

i sentimenti di inermità e impotenza non gli sono più sconosciuti, la

sua attività fantastica non troverà più impedimenti di sorta; egli riuscirà quindi a cogliere la situazione della prima infanzia, vissuta dal paziente,

mentre questi è ancora costretto a respingerla con l'aiuto di fantasie

di onnipotenza o con un comportamento grandioso, che può essere asso­ ciato all' autodisprezzo.

La fantasia dell'analista può conoscere in anticipo episodi di cui il

paziente è ancora ignaro, senza che sussista il pericolo di operare su di lui una suggestione, come succede nel caso invece che si trasmettano

78

REALTÀ INFANTII.E E PSICOANALJSI

conoscenze intellettuali. Le congetture dell'analista sono, infatti, piena­

mente verificabili finché si riferiscano a qualche elemento concreto. La

loro validità potrà essere confermata o contraddetta dai cambiamenti che si verificano in modo spontaneo nel componamento del paziente.

Questo principio può essere illustrato da una storia di cui sono venuta

a conoscenza grazie a una collega di nome Gisela, impegnata nel movi­ mento delle donne. Gisela ebbe a suo tempo contatti assai stretti con

gruppi dell'antipsichiatria, soprattutto italiani, che le consentirono di raggiungere anzitutto una grossa libenà personale. Si sentiva più fone,

più consapevole, meno manipolabile e possiamo anche capire che pro­

vasse il desiderio di trasmettere ad altri questa sua esperienza. Lavorava

con gruppi di prostitute e di carcerate e aveva antenne particolari per scorgere dappenutto le ingiustizie che le donne devono subire nella società

maschilista. Combatteva contro le umiliazioni, gli abusi, lo sfruttamento

a cui sono sottoposte le donne, cercava di attirare altre donne dalla sua

pane, in nome di una lotta che - questa era la sua speranza - potesse

dare loro la coscienza della propria forza e dignità. Grazie al lavoro del collettivo, tale meta poté anche venir raggiunta in una cena misura,

ma Gisela, così perspicace e profondamente onesta, si vedeva continua­

mente messa a confronto con fenomeni, che la ponarono sull'orlo della disperazione. Per anni interi s'impegnò e lavorò affinché le prostitute

si dessero un'organizzazione, perché non fossero più esposte alle discri­ minazioni della società e alle minacce dei loro sfruttatori. Se in prece­

denza una prostituta doveva fare i conti con la vendetta di una mafia

di sfruttatori, non appena cercasse di liberarsi di una relazione per lei

penosa e gravida di rischi, ora invece, grazie al lavoro di gruppo del

collettivo ddle donne, poteva disporre più o meno liberamente di que­

sta possibilità. Succedeva tuttavia assai di rado che le donne, che nelle sedute di gruppo esprimevano senza veli il loro odio irrefrenabile con­

tro i maschi oppressori, fossero poi in grado di valersi della possibilità che ora veniva loro offena. Tutte le volte che la cosa diventava seria,

che l'atto di abbandonare l'uomo brutale non componava più alcun

pericolo, nelle donne si facevano strada sentimenti e componamenti, che non erano più spiegabili in base a una normale logica, a un sano

buon senso e neppure mediante i princìpi della psicologia sociale. Bastava infatti che l'odiato protettore, di cui ci si era augurata così ardentemente

la mone, che si era persino più volte cercato di uccidere, per poter final­ mente respirare un poco, bastava dunque che quest'uomo avesse biso-

GISELA E ANITA

79

gno d'aiuto, che per esempio piangesse o fosse incarcerato, perché la sua vittima facesse ogni possibile sforzo per venire in soccorso del suo

persecutore, per visitarlo in carcere e cose del genere. Gisda era dispe­ rata. Ella pensava che la natura di schiava, propria della donna, fosse

il risultato di millenni di oppressione e che forse non avrebbe mai potuto

essere mutata.

Ma poi accadde che, nell'ambito della sua formazione analitica, nel­

l'analisi didattica, Gisela si trovasse a incontrare la propria infanzia. Con

quanta maggior precisione poté scoprire l'origine infantile del suo rap­ porto ambivalente col padre, tanto più le divenne chiara la coazione

a ripetere delle donne con le quali aveva lavorato nei gruppi. Prese in

trattamento una di queste donne (la chiameremo Anita), che era stata

ricoverata in ospedale in seguito a un tentativo di suicidio .

Anita esercitava la prostituzione ormai da quindici anni, senza mani­

festare alcun sintomo psichico ; teneva sotto controllo i suoi sentimenti,

dietro la maschera del!' adattamento ali' ambiente; era capace di un buon funzionamento psichico e offriva buone prestazioni alla sua clientela,

senza mostrare segni di difficoltà personale. Soltanto dopo aver potuto

esprimere nel gruppo i suoi sentimenti d'odio, l'edificio incominciò a vacillare e il suo risveglio fu segnato da due tentativi di suicidio. E que­

sto Gisela non riuscì dapprima a comprenderlo. Perché proprio

adesso?

Adesso che Anita riusciva fmalmente a percepire che veniva stimata anche

come prostituta, perlomeno nel suo gruppo. Adesso che poteva lottare per i suoi diritti e ammettere il suo odio, proprio a questo punto inco­ minciò, come si dice in gergo tecnico , a essere « scompensata » : per due

volte venne trovata, a breve distanza di tempo, in stato d'incoscienza nella sua camera, in seguito ali' assunzione di una dose eccessiva di son­

niferi. Questo comportamento non era contemplato da nessuna teoria e Gisela non cessava di interrogarsi con inquietudine sul perché fosse

successo proprio ora. Impiegò molte delle sue ore analitiche per parlare

di Anita, fatto che a tutta prima comunicò al suo analista l'impressione

che lei stesse sfuggendo di fronte a sé stessa, che cercasse dei pretesti e manifestasse una forma di resistenza. Ma gradualmente anch'egli riu­

scì a capire che Gisela era sul punto di scoprire qualcosa d' importante sul destino della donna, qualcosa che le era divenuto chiaro in modo

particolare nella situazione estrema di Anita, ma che allo stesso tempo

valeva anche per lei stessa. La scoperta iniziò con l'offerta, da parte di Gisela, di prendere Anita in trattamento analitico, trattamento in cui

BO

REALTÀ INFANTILE E PSICOANAIJSI

Anita per la prima volta si accostò alle sofferenze patite nella sua infan­

zia, che essa era riuscita per tutta la vita a tenere a distanza. Fu proprio

la parziale liberazione dei suoi sentimenti adulti di giustificabile ira e

indignazione a scioglierla dal suo irrigidimento e a scalzarne le difese

contro i sentimenti infantili di rabbia, che si erano accumulati senza aver mai potuto essere vissuti, e nei quali restavano imprigionati altri sentimenti, che rappresentavano la vera Anita. Ecco la storia che venne alla luce. Alla nascita di Anita, nel

1 944,

suo padre venne dato per mono,

notizia che in seguito si rivelò infondata. A qud tempo la madre viveva

insieme a un amico che aveva due figli suoi e che era alternativamente

tenero e brutale con lei. All'inizio del trattamento ella raccontò quanto

avesse sofferto sotto il suo patrigno; sua madre, che a quel tempo doveva

lavorare duramente per poter sopravvivere, non l'aveva mai difesa di fronte a lui; da ragazzina era spesso scappata di casa per cercare un nuovo

focolare domestico presso gente estranea e in una di tali occasioni, a

quattordici anni, aveva subìto la violenza e le brutalità di un uomo.

Il racconto della sua vita come prostituta sembrava chiaro, e tuttavia tutto ciò che lei diceva era già accessibile alla sua coscienza, ma sol­

tanto nella forma di informazioni impersonali, del tipo di quelle che

si possono leggere sui giornali. Anita raccontava della sua infanzia senza un briciolo di turbamento, a volte persino ridendo . . . proprio lei che,

nel gruppo, poteva cadere in preda a un accesso di rabbia incontrolla­ bile, quando parlava dei suoi desideri di mone nei confronti dei protet­

tori. Tuttavia quei sentimenti che in tal modo venivano liberati, rima­

nevano ancor sempre separati dalle esperienze della sua infanzia. A tal

punto ella aveva interiorizzato la credenza dei suoi genitori che al bam­ bino si potesse infliggere impunemente qualsiasi sofferenza, che a tutta prima non trovava senso alcuno nel fatto che le fosse consentito di vivere

i sentimenti dell'infanzia. Dopo che però, nell'analisi, poté passare molte

ore, distesa sul divano, a piangere sulla sua infanzia, le si affacciò alla memoria un nuovo ricordo : quello del suo vero padre.

Alla sua analista aveva già raccontato in precedenza che, quando lei

aveva cinque anni, il padre, creduto mono per tutto quel periodo, era

tornato inaspettatamente dalla prigionia; era debole e malaticcio, ma

con la figlia si era dimostrato assai affettuoso, cantandole delle belle can­ zoni e suonando per lei la fisarmonica. Quel tempo felice era durato

solo due anni, perché il padre era poi mono di cancro. Questa versione

GISELA E ANITA

81

idealizzata del padre carnale per molto tempo non era stata intaccata

nell'analisi. Anche questi ricordi vennero comunicati con il tono di un'in­

formazione impersonale, che ammetteva soltanto il sentimento di una vaga infatuazione. Ma col tempo anche questa costruzione ideale venne

scalzata dai sentimenti più autentici. Anita incominciò ad avvertire come

in tutti quegli anni avesse atteso il padre, sperato di essere salvata da

lui e nutrito questa fantasia: u Quando arriverà mio padre, metterà a

posto mia madre e il mio patrigno, difenderà i miei diritti, mi proteg­ gerà, non permetterà più che mi facciano del male! » Ed ora Anita provò,

nell' analisi, il dolore cocente della sua delusione: il padre non l'aveva affatto presa sotto la sua protezione, era stata soltanto una bella favola.

Il padre, che la madre disprezzava, si era messo d' accordo con il patri­

gno, l'implacabile nemico di Anita, e si metteva pure a picchiare la bam­

bina, quando questa non faceva la brava, non funzionava a dovere come

una docile bambolina. Questi ricordi le tornarono in mente con molta

difficoltà, perché Anita dovette lottare contro resistenze fortissime e dap­

prima fu come se, insieme a questa illusione, se ne fosse andato anche

il suo tesoro più prezioso . Non credeva di essere in grado di sopportare una cosa del genere. Ma fu proprio la demolizione delle illusioni a rido­ narle tutta la sua energia e a consentirle, infine, di ammettere la verità

rimossa profondamente: che cioè anche il padre non era soltanto inte­

ressato a darle tenerezza, ma che di tanto in tanto si masturbava men­

tre la teneva in braccio e si serviva del suo piccolo corpo per soddisfare i suoi bisogni sessuali. Anita aveva tenuto quest'ultimo segreto protetto dalla sua coscienza, per non perdere il padre idealizzato, ma quando

ormai i suoi sogni le comunicarono in modo lampante che lei era a conoscenza di quelle vicende e le trasmisero sentimenti d' indignazione,

lutto e angoscia, essa sperimentò una vera e propria liberazione dalla

sua coazione a ripetere e riuscì a capire come tutta la sua vita ne fosse

stata dominata.

La scelta dell'attività di prostituta si rivelò ora, in questa donna, come

una messa in scena ripetuta e coatta del suo precoce trauma infantile,

del quale, a posteriori, si potevano individuare tutti gli elementi incon­ sci: c'era anzitutto la speranza nel rovesciamento dei ruoli, nella ven­ detta da prendersi sull'« uomo lascivo ». Anita si offriva - è vero - come

era successo quando era bambina, come oggetto ludico nelle mani del maschio, ma adesso era lei a tenere in pugno la situazione, ad avere il

controllo su ciò che accadeva, a deludere o a soddisfare l'uomo, a man-

82

REllL TÀ INFANTILE E PSICOANAUSI

darlo via o a mostrargli il suo favore, a umiliarlo oppure, di tanto in

tanto, a trattarlo come un essere umano . Tra i suoi clienti essa disprez­ zava i « masochisti » , e tuttavia - o forse proprio per quello - non le costava alcuna fatica a.s.5umere la contropane sadica nei giochi di per­ versione e qui far valere il suo potere. A livello cosciente essa pensava:

" Ora è tutto diverso, ora potete pure prendere il vostro piacere da me,

ma per questo mi dovete pagare, non potrete avermi senza darmene un compenso. » Ma a livello inconscio la tragedia dei primi anni conti­

nuava a ripetersi, sia pure in forma mutata, perché Anita non era ancora riuscita a rinunciare alla speranza nel padre protettivo dei suoi primi

anni. Con quanta maggior crudeltà s'inaspriva il presente, quanto più

perfidamente veniva ingannata dai suoi magnaccia, quanto più brutal­ mente veniva percossa, tanto meno poteva rinunciare alla speranza che

il suo amore sarebbe riuscito a cambiare quest'uomo oppure che il pros­ simo sarebbe stato l atteso salvatore.

Possiamo rinunciare soltanto alle attese consce, ma gli atteggiamenti

che sono radicati tanto profondamente in sentimenti della prima infan­ zia li possiamo abbandonare solo a patto che vengano vissuti a livello conscio e non solo nel momento presente, bensì anche in relazione col passato . Nell'analisi di Anita questo è riuscito nella misura in cui le fu possibile, con l'aiuto del transfen, vivere collegandoli al suo vero padre,

gli intensi sentimenti di rabbia impotente e del sentirsi totalmente e senza speranza in balia dell'odiato e al tempo stesso amato protettore. A ciò si aggiunse il lutto per l'impossibilità di dar soddisfazione agli antichi desideri di vendetta che, nonostante i suoi quindici anni di trionfi avuti sugli uomini, non poterono mai essere appagati perché la ragazzina di

allora non esisteva più e la situazione era mutata.

Fu solo questo lavoro del lutto a consentire ad Anita di rinunciare

alla speranza che aveva coltivato per tutta la sua vita, la speranza di

trovare un uomo che la proteggesse. E solo tale rinuncia la ponò poi a sciogliere, senza angoscia e in maniera non distruttiva, il legame sado­

masochistico che la univa all'ultimo dei suoi protettori. In questo sta­

dio dell'analisi Anita acquistò consapevolezza di ciò di cui nei suoi tenta­ tivi di suicidio aveva avuto solo un vago presentimento: che la liberazione dei suoi sentimenti autentici non le avrebbe più consentito di prose­ guire nella sua professione. Il motivo cosciente del tentativo di suicidio

era stato il seguente: « lo non riesco più a lavorare, dunque sono inca­

pace di vivere. » Inconsciamente però essa presagiva che dopo aver risco-

GISELA E ANITA

BJ

perto il suo vero Sé non avrebbe più potuto evitare di sentirsi umiliata,

sensazione inevitabile quando ci si viva come oggetto dei giochi sessuali dell' altro oppure come manipolatori del suo stato di bisogno, anziché

invece come partner, su un piano paritario. Non v'è da stupirsi che Anita alla fine di questa sua evoluzione personale non si trovasse poi affatto

senza lavoro, ma facesse addirittura fatica a scegliere tra diverse possibi­

lità professionali. Dopo essersi trastullata per qualche tempo con l'idea di dedicarsi a una prof�ione sociale, alla fine si decise per lattività « egoi­

stican di decoratrice, nella quale avrebbe avuto maggiori opportunità di mettere a frutto le sue capacità creative. Già da bambina voleva sem­ pre avere una bella casa, avevà sempre avuto molto gusto per larreda­ mento ed ora poteva trasformare il suo hobby in attività professionale.

Alla conclusione dell' analisi di Anita, Gisela, la sua analista, si pose

una serie di interrogativi: che cosa succede quando ci componiamo come se la prostituzione fose una professione uguale a tante altre? Non ci ado­

periamo forse in buona fede per mantenere viva tutta una serie di rin­

negamenti da parte della società? Che genere di professione è mai que­

sta?

È mai

possibile che una donna la eserciti, senza restarne degradata?

E la lotta, sia pure condotta con le migliori intenzioni del mondo, volta a ottenere il riconoscimento sociale di questa professione non si basa forse sul rinnegamento dei naturali sentimenti e bisogni umani di dignità,

di parità tra i sessi e di partecipazione? Ideali quali lequiparazione tra

i sessi e la libertà sessuale sono forse compatibili con la prostituzione?

E lottare per lo status sociale di una prostituta non significa forse cer­ care di occultare la vera e propria ingiustizia sociale? Che cosa si nasconde

dietro l'esistenza di un protettore? Che cosa può indurre un uomo a rendere succube la sua compagna, ad approfittare dei suoi rapporti ses­

suali con altri uomini, a degradarla, ingannarla, minacciarla? Quale ven­ detta sulla propria madre egli si sente costretto a compiere, servendosi della sua vittima di sesso femminile? Un uomo che da bambino sia stato sfruttato da sua madre potrà trovare svariati modi per mettere nuova­

mente in scena, a livello inconscio, quello sfruttamento, rovesciando

però i ruoli. Dipenderà soltanto dalla sua personalità e dal suo grado

di istruzione se diventerà un affascinante seduttore oppure un brutale sfruttatore, restando però, in entrambi i casi, uno sbandato . Non può

impostare alcun rapporto di reciprocità, perché non sa che cosa sia la

fiducia nell'altro . Continua a manipolare gli altri, perché l' unica alter­ nativa che conosce è quella di venire lui stesso manipolato . Per sfuggire a quest'orrore, deve essere e rimanere lui stesso il padrone.

CAPITOLO 9 Dolore per la separazione e autonomia: nuove versioni della dipendenza del bambino

Che cosa accade quando un individuo non ha avuto la fortuna di

rivivere la sua dipendenza assai precoce dai genitori e le relative ango­

sce di separazione, al fine di potersi liberare dalle richieste dei genitori introiettati? I motivi possono essere molti: perché non ha fatto un'ana­

lisi, o perché neppure il suo analista ha avuto questa fortuna e perciò

non è riuscito a trasmettere tale esperienza ai suoi analizzandi. Queste persone rimangono perlopiù destinate a inscenare più e più volte gli

antichi rapporti, assumendo ora il ruolo attivo, ora quello passivo.

È

una situazione tragica per la quale noi siamo sin troppo pronti a tran­

ciare giudizi morali e ad accusare con leggerezza questi individui di man­ canza di coraggio civile o persino di vigliaccheria. Tali giudizi non ten­

gono conto del fatto che le cause di quella vigliaccheria talvolta sono

radicate nelle prime settimane o nei primi giorni di vita. Ciò può essere illustrato dalla problematica del seduttore.

Il personaggio di Don Giovanni esercita un potente fascino su poeti,

musicisti e pittori, il che può dipendere dal fatto che essi vi vedono incar­ nati aspetti della loro stessa vita. Si tratta della storia e delle motiva­

zioni del seduttore, il quale ha continuamente bisogno di una nuova donna per suscitare in lei speranze che dovrà poi necessariamente delu­ dere. Quest' uomo può essere vissuto e descritto dall'esterno, per così dire dalla prospettiva della vittima, ossia della donna delusa, oppure dal­ !' interno, nel caso in cui l'artista abbia superato la riluttanza a identifi­

carsi con questa figura. Il pio per il primo

Casanova di Fellini potrebbe valere come esem­ punto di vista e lA. città delle donne per il secondo. Per

dimostrare la capacità di identificarsi apertamente con la figura di Don Giovanni, l'autore non deve necessariamente scrivere in prima persona;

SEPARAZIONE E A UTONOMIA

il

Diario di un seduttore

85

di Soren Kierkegaard è ovviamente sericeo in

questa forma, ma il protagonista è visto da una distanza moralizzatrice.

D'altro lato il Frédéric Moreau dell'Educazione sentimentale di Flauben

è un personaggio inventato e si riesce a capire che l'autore descriva qui in una cena misura - come succede anche in menti del proprio animo.

Madame Bovary -

i tor­

Il seduccore viene amato, ammirato e ricercato da molte donne, per­

ché con il suo atceggiamento ridesta in loro speranze e accese. Si tracca

della speranza, immagazzinata sin dalla prima infanzia, che il loro biso­

gno inappagato di rispecchiamento, eco, atcenzione, rispetto e il loro

desiderio di essere oggetto di dedizione, comprensione e scambio affet­

tivo potranno finalmente essere soddisfacci da quell'uomo. Ma il sedut­

tore non viene soltanto amato, bensì anche odiato dalle donne, perché

egli non è in grado di soddisfarne i bisogni e finisce sempre con l'abban­

donare la donna in questione. Nella delusione riponata, ella si sente ingannata e svalutata come persona, perché è tutt'al più in grado di avere un vago sentore delle motivazioni del sedutcore, ma non di capirle, dal

momento che lui stesso non si capisce. Altrimenti non sarebbe costretco

a ripetere in continuazione la medesima messa in scena.

Sulla scona del romanzo di Flauben posso cercare qui soltanto di

accennare a ciò che ho imparato dai miei pazienti, metcendomi dal loro

punto di vista, sul destino del seduccore. In cucci questi casi la spada di Damocle che gravava sulla prima infanzia era la fragilità della madre, vale a dire la cenezza che ogni ribellione del bambino avrebbe avuto

come conseguenza un ripudio totale da pane della madre, ossia la sua

perdita.

È

proprio questa prima dipendenza che il seduccore cerca di

annullare da adulto con ognuna delle sue panner: nell'abbandonare ogni

volta la donna vuole rendere non accaduta la possibilità di essere, da

bambino , abbandonato dalla madre non appena le dica di no . Lui grati­

fica la sua donna dell'ammirazione e della dedizione affettiva, che anch'e­ gli un tempo ricevetce, e poi gliele sotcrae improvvisamente.

Ma questo rovesciamento in un componamento attivo delle soffe­

renze subite un tempo passivamente non esaurisce la problematica. L' ele­

mento panicolare che finora ho potuto trovare solo in Flauben, sta nel-

1' idea inconscia di questo scrittore che, dietro a ciò che si potrebbe rivelare

come una libenà, si nasconde invece una profonda dipendenza, nata

assai precocemente.

È la dipendenza di un individuo che non ha il diritto

di dire di no, perché sua madre non l' avrebbe sopponato e che al tempo

86

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

stesso per tutta la vita rifiuta di concedersi alle sue compagne, nella spe­ ranza di poter ricuperare un compartamento che non poté mai avere

nei riguardi di sua madre, di pater dire cioè: « lo sono tuo figlio, ma

tu non hai alcun diritto né sulla mia persona, né sulla mia vita. • Poiché il seduttore può assumere questo atteggiamento solo da uomo ormai

adulto, nei confronti delle donne, e non invece nella prima relazione

con la madre, queste vittorie non hanno il patere di rendere non avve­

nuta la prima sconfitta; e poiché esse stanno a mascherare il dolore della prima infanzia, le vecchie ferite non possono sanarsi in alcun modo .

E si perpetua la coazione a ripetere.

In Frédéric Moreau Flaubert ha delineato un personaggio che sarebbe

facile definire un vigliacco, un uomo che non riesce a sottrarsi ai desi­

deri delle donne e che perciò si salva nella bugia. La madre di Frédéric

interviene solo in modo marginale nella vicenda, ma le sue caratteristi­

che sono sufficienti a far notare come le diverse donne del romanzo

stiano a incarnare diversi lati della madre del protagonista. Madame

Amoux è la madre idealizzata, ma inaccessibile, Rosanette la madre inge­ nua, primitiva ed esigente, e Madame Dambreuse, infine, la madre cru­

dele, che si diverte a umiliare, ma al tempo stesso seducente e innamo­

rata·. La vigliaccheria di Frédéric Moreau è invece la tragicità di un

bambino sottoposto ad abusi narcisistici, che non è in grado di difen­

dersi se non quando venga trattato con aperto sadismo . In ogni altra

situazione, e in particolare quando la donna sia debole e dipendente, egli ne resta alla completa mercé. Non può sfuggirle, le porta il denaro di cui ella ha bisogno, le fa tutte le promesse che ella si attende da lui,

anche se non le esaudirà mai. Antepane sempre gli interessi della donna ai suoi propri bisogni e questo atteggiamento conduce necessariamente

a mentire per tutta la vita, perché se non si è capaci di dire di no nei

momenti cruciali della vita, è inevitabile che si perda la propria autenticità.

Nel personaggio di Frédéric Moreau si rispecchia probabilmente la

situazione di molti uomini che vengono qualificati come seduttori. Lo

struggente desiderio di amore e di comprensione, la voglia di capire l'altra

e di esserne capiti conducono il seduttore, il classico dongiovanni, tra le braccia di tante donne, con le quali, però, non può manifestare il

suo restar deluso, poiché egli aveva una madre che non sopportava che

le si dicesse apertamente la verità, e dunque non aveva mai potuto fare quell'esperienza. Così si sente costretto a risparmiare le donne, come un tempa aveva fatto con sua madre, con l'aiuto della menzogna, e fugge

SEPARAZIONE E A UTONOMIA

87

dall'una all'altra. Poiché non riesce a mantenere le distanze finché la donna sia bisognosa d'aiuto, per poter recuperare un poco di libertà,

egli deve provocarla a diventare crudele con lui. Ma anche questa pro­ vocazione non può essere aperta, essa awiene contro la sua volontà,

ed è penosa a lui stesso; nasce nel momento in cui la donna smaschera

la sua ipocrisia. Se la donna si mostra amorevole, lui si sente contrito e trabocca di sensi di colpa, ma alla prossima occasione sarà di nuovo

costretto a inagannarla, per crearsi una certa illusione di libertà, vale

a dire di distanza dalla propria madre. Migliore opportunità gli è data

invece se la donna reagisce al suo tradimento in modo vendicativo e

crudele. Allora egli può abbandonarla, a volte per sempre, e volgersi

verso un'altra donna, che sulle prime si comporterà come tutte quelle che l'hanno preceduta: sarà talmente estasiata dalla sensibilità di lui, dalla sua capacità di comprenderla e di adattarsi alle sue esigenze, che all'ini­

zio è disposta a perdonargli a qualsiasi prezzo le sue piccole bugie. Ma il prezzo da pagare diviene sempre più alto, in quanto l'amata rappre­

senta, nell'inconscio del seduttore, un sostituto della madre di un tempo,

la quale chiedeva al bambino un adattamento incondizionato alle pro­ prie esigenze. Neppure la più squisita capacità di comprensione della partner potrà però essere in grado di rendere il passato non accaduto

e la nuova amante verrà costretta con tutti i possibili mezzi inconsci a

perdere ogni comprensione e a diventare crudele, perché non potrà effet­

tivamente capire che cosa stia accadendo e perché mai debba essere con­ tinuamente tradita.

La vigliaccheria di Frédéric Moreau nasconde in sé una tragedia, come

è probabile che succeda per ogni vigliaccheria. Il fatto che una persona sia potuta crescere sincera e franca, dipende presumibilmente dal grado

di tolleranza della verità mostrato dai suoi genitori e dalle sanzioni al riguardo che essi hanno imposto al loro figlio.

È

stata proprio la storia

di Frédéric Moreau ad aiutarmi a capire quanto inutili siano le catego­ rie morali di vigliaccheria e ardimento e quanto profondamente il coraggio

sia invece legato al destino infantile vissuto da ognuno di noi.

Quando si trattò di esprimere le sue perplessità in campo politico, anche se queste si trovavano nel più radicale contrasto con le opinioni

allora dominanti, Gustave Flaubert poté mostrare grande coraggio . L'acu­

tezza delle sue osservazioni è pressoché insuperabile e la sua analisi del conformismo in campo politico, culturale e sociale riflette il disprezzo

per ogni forma di menzogna. Dietro tale disprezzo, tuttavia, è possibile

88

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

che si celi il dolore inconscio del bambino, che un tempo dovette rin­ negare le sue acute osservazioni, in vista del necessario adattamento e per il quale perciò l'estrema sincerità, ossia l'essere aperto e schietto

con il prossimo, è rimasto in fondo l'ideale supremo benché irraggiun­ gibile. Al fine di realizzare questo ideale sarebbe stato infatti necessario aver potuto, a suo tempo , essere sincero di fronte alla propria madre e lasciarla quando fosse giunto il momento. Sarebbe stato anche neces­ sario non doverle nascondere il vero motivo delle proprie lacrime (vedi

L'educazione sentimentale,

p.

3 9 3),

non aver sempre da badare anzitutto

ai suoi bisogni e alle sue depressioni e non dover scontare con la malat­ tia la libertà di scrivere. Per capire perché tutto questo rimase precluso a Flaubert basterebbe leggere la descrizione che Jean-Paul Sartre ci rende della madre di Flaubert nel suo saggio

L 'idiota dellafamiglia (19 7 1 -7 2),

oppure pensare alla madre d i Frédéric Moreau, così ambiziosa, mate­ rialista e bigotta. Il lettore del romanzo non si meraviglierà poi molto che il figlio si guardi bene dal mostrarle i propri sentimenti e che non possa né amarla, né odiarla. I sentimenti così intensi della sua prima infanzia gli sono accessibili solo se trasposti sulle donne che in seguito saranno da lui amate e allo stesso tempo odiate. La triste sorte toccata a Frédéric Moreau è condivisa non solo da Gustave Flaubert, ma anche da un gran numero di altri uomini. Al termine del romanzo, il protagonista racconta che una volta, da adolescente, aveva colto un grosso mazzo di fiori nel giardino della madre, per donarlo ad « altre donne», alle donne che • vendono amore per denaro », ma che all'ultimo momento era fuggito dinanzi a loro per paura, « credendo che si burlassero di lui » (p.

590). Questo ricordo di gioventù ,

con tutto il suo contenuto simbolico ci fornisce una chiave che non soltanto ci consente di dare un'interpretazione psicologica dell ' Educa zione sentimentale, bensì anche di comprendere la vita di Gustave; i fiori

­

del giardino materno rappresentano tutto l'insieme dei sentimenti che univano Flaubert alla madre: l'amore e l'odio, lo struggente desiderio di tenerezza e la ribellione, l'intensità del suo mondo interiore e la rab­ bia provata nel subire abusi, l'attaccamento alla madre e il bisogno di libertà, tutti sentimenti che dovettero essere repressi, poterono essere rivissuti solo nei suoi personaggi e lo condussero a una grande diffidenza nei confronti delle donne in genere, a tormentosi sintomi fisici e con la madre a un legame arido, che tuttavia restò saldo per tutta la vita.

SEPARAZIONE E A UTONOMIA

89

La via che conduce dall'idealizzazione infantile dei genitori all' auto­ nomia della maturità è assai lunga e passa generalmente attraverso pro­ fondi conflitti con i genitori dei nostri primi anni di vita. Taie confronto conflittuale può essere vissuto per la prima volta con una coloritura affet­ tiva quando l'individuo entri in contatto con gruppi, scuole di pensiero, ideologie, con un partner, con i propri figli e infine, se succede, anche con la persona dell'analista; quei sentimenti riaffiorano allora in tutta l'impetuosità dell'infanzia, che tuttavia non poté mai essere vissuta in quel periodo (vedi Miller,

1 979).

Volgiamoci ora a esaminare con maggior precisione le messe in scena del primo stadio di dipendenza. Quando nella pubertà o nell' adolescenza abbandoniamo il mondo ideale dei nostri genitori, non compiamo certo questo passo per ritro­ varci soli. Ci aggreghiamo a gruppi, troviamo altre idee, nuovi modelli, le cui idee ci appaiono più convincenti di quelle dei nostri genitori. Tali modelli possono essere costituiti da persone che conosciamo e delle quali siamo convinti che siano più aperte e intelligenti di noi. Oppure può trattarsi di personaggi contemporanei, che non conosciamo, ma che ammiriamo da lontano, o ancora infine di gente famosa, di fondatori di movimenti politici, di ideatori di grandi teorie o qualcosa di simile. Spesso è solo questo distacco dal mondo spirituale dei nostri genitori a darci la possibilità di approfittare di questo nuovo arricchimento, ossia a procurarci un ampliamento del nostro orizzonte, senza peraltro dover rinunciare alla sicurezza che danno le teorie già collaudate. Una simile rinuncia è infatti impossibile per un adolescente. Sarà tuttavia proprio il tipo di relazione genitori-bambino che si instaura nella primissima infanzia a determinare quali forme verrà ad assumere in seguito, nella vita, la liberazione avviatasi nel periodo ado­

lescenziale e se la nuova sicurezza che si è ricercata non condurrà a una seconda prigione, questa volta definitiva. Poiché alla maggior parte degli esseri umani non è dato, come accadde a Goethe, di (( vivere parecchie pubertà • , nella post-adolescenza si attribuisce più valore alla sicurezza che alla libertà. Dipenderà soprattutto dalle primissime esperienze com­ piute nella vita, se un individuo potrà trattare in modo creativo le nuove teorie, per trovare infine il suo punto di vista personale, o se dovrà invece abbarbicarsi ansiosamente ali' ortodossia di una data scuola. Se la per­ sona in questione venne educata sin da bambina a un'obbedienza incon-

90

REALTÀ TNFANTILE E PSICOANALISI

dizionata, senza poter sfuggire all'occhio dell'educatore, da adulto rischierà di assolutizzare le teorie, di restarne succube, anche se i loro contenuti traboccano di belle parole come libertà, autonomia, progresso. Qual­ siasi teoria consente facilmente di assumere un comportamento succube nei suoi confronti, perché la sfera emotiva dell'uomo può anche non venire neppure scalfita dalle idee più illuminate. Propugnare un pen­ siero -�ario con mezzi autoritari e ortodossi, indurre sottomissione e conformismo in nome del progresso spirituale, sono atteggiamenti così

radicati nella vita di tutti i giorni che non notiamo nemmeno la con­ traddizione che vi è insita.

Come è possibile, tuttavia, che lo stesso individuo, il quale dimostri

grande acume e capacità critica di fronte ai nemici immaginari e reali, allo stesso tempo abbia conservato una commovente lealtà e sotto­

missione infantili, quando si tratti dei diktat del suo gruppo? Chiunque

abbia fatto esperienza di un gruppo sa bene quanto a volte possa appa­ rire di importanza vitale questo tipo d'appartenenza. Basta già una bre­ vissima permanenza in un gruppo per dare all'individuo la sensazione

di aver ritrovato il focolare materno, l impressione di una simbiosi mera­

vigliosa, che in realtà egli non ha mai provato con la madre. Dal momento però che il gruppo è un sostituto, esso non può esaurire la ricerca di

ciò che si è perduto, perché a tale scopo sarebbe necessario compiere il lavoro del lutto. Nessuna forma di dipendenza, sia essa dall'alcool

o dalla nicotina, è in grado di far tacere la primitiva nostalgia, ma tutte

si limitano a perpetuare, nel ripeterla, la tragedia antica. La bottiglia di liquore o la sigaretta che si possono tenere in mano e riporre quando non se ne abbia bisogno, per riprenderle non appena ne ritorni il desi­

derio, creano quel senso di benessere che solo una madre disponibile

potrebbe dare. Ma poiché la madre reale non si era rivelata disponibile (altrimenti suo figlio non sarebbe diventato dipendente da qualche droga),

il bambino non poté sperimentare né una buona simbiosi, né una sepa­ razione liberatoria e rimarrà per tutta la vita dipendente dall'immagine

della madre ideale che egli desiderava, ma che non ha mai avuto. La

sostanza a cui egli è ora assuefatto gii procura perciò non solo un senso di benessere, ma anche tutti i tormenti della dipendenza. Il gruppo che abbia assunto questa funzione sostitutiva, crea, è vero,

l'illusione di una madre migliore, ma richiede anche una spietata sotto­ missione alle sue norme, come un tempo già faceva la madre reale. Poi­

ché tale situazione ha origine nei primi momenti di vita, è assai difficile

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

91

che chi l'ha vissuta possa ancora notarla. Non si accorge del suo con­ formismo perché egli nun ha perso

del tutto la capacità critica;

può eser­

citarla liberamente al di fuori del gruppo, anche nei confronti dei suoi genitori attuali. Solo il suo gruppo, da lui liberamente scelto nell' adole­ scenza e che gli pareva così promettente, esercita frattanto il medesimo terrore �non verbalizzato, delle attese materne nel primo anno di vita. La sola i'ciea di avere opinioni totalmente divergenti da quelle che pre­ valgono nel gruppo, può produrre un' angoscia così intensa che tali opi­ nioni non si formeranno neppure. Queste angosce non hanno perlopiù alcun fondamento reale, ma provengono da un periodo in cui il lat­ tante sarebbe stato realmente in pericolo di vita, se avesse rischiato, con un componamento inadeguato, la perdita dell'amore, ossia della madre. Sono proprio queste angosce che possono impedire a un individuo, sia pur dotato di eccellenti doti intellettuali, ma con alle spalle una storia

simile, di liberarsi della dittatura del gruppo . Non è necessario che que­

st'ultimo sia spazialmente ben definito, può anche trattarsi di un'ideo­ logia, di un panito o di una scuola che professino una determinata teoria.

Sovente mi è capitato di costatare che gli analizzandi provano una

terribile angoscia di abbandono o addirittura di mone, qualora, all'in­ terno del gruppo a cui si sentono di appanenere, debbano sostenere opinioni divergenti da quelle ivi prevalenti. Il bisogno di esprimersi in modo autentico nel proprio gruppo, e dunque anche di potere essere critici, può tuttavia farsi più prepotente delle paure al riguardo e affiora regolarmente quando nell'analisi ci si sia resi pienamente conto di quanto grande fu ladattamento richiestoci nella prima infanzia. Di frequente, ma non sempre, il gruppo reagisce allo stesso modo dei nostri genitori quando eravamo bambini, con rifiuto e ostilità, perché gli altri membri del gruppo si sentono minacciati nei loro meccanismi di difesa, qualora uno di loro si allontani dalla conformità richiesta. Anche in simili casi, però, può succedere che I' analizzando arrivi tutto felice alla seduta e racconti: « Ora capisco la mia paura: non era vigliaccheria, la paura era fondata. Mi hanno squadrato con sguardi carichi d'odio e si sono burlati di me, solo perché ho detto quello che provavo e pensavo realmente e che anche alcuni di loro provano - ne sono convinto - senza però riuscire a for­ mularlo , o senza avere il permesso di farlo. Anche se ho soffeno molto nell'accorgermi che di colpo mi ero alienato la simpatia di tutti, avevo tuttavia un vago presentimento di non essere io il perdente. 11

Gli autentici benefici si presenteranno però soltanto più tardi. In un

91

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

primo tempo il paziente soffre terribilmente, quando scopre di aver pagato con un conformismo durato tutta la vita qudla che egli considerava un' affettuosa dedizione nei suoi confronti. Si rende conto della misura della sua solitudine soltanto quando gli divenga chiaro che egli fino a quel momento si è aggrappato al sorriso di una maschera. Ora che le maschere sono cadute da entrambe le pani, non ha più bisogno di sfor­ zarsi e acquista sempre maggiore libenà. Rischiare la perdita dell' ap­ provazione del gruppo può mobilitare angosce d'abbandono assai anti­ che, che spesso vengono vissute nel setting protettivo dell'analisi. Anche nella messa in scena con la persona dell'analista, il paziente può vivere il trauma dell'essere rifiutato come punizione per la fedeltà a sé stesso, una cosa che da bambino ha imparato a evitare accuratamente. Questa esperienza gli dà infine la forza di sostenere e superare la sua estrema solitudine e di ribellarsi all' analista, accompagnato ormai dall'oggetto interiore empatico, che nel frattempo è divenuto sufficientemente saldo da accompagnare e proteggere il bambino che è nel paziente. Assai spesso capita però che tale processo evolutivo rimanga incom­ piuto , e cioè quando I' analizzando riesce a prendere le distanze dai vari sistemi, scuole, paniti e ideologie da lui idealizzati in gioventù, ma con­ tinua pur sempre a combattere in loro i propri genitori che l'hanno deluso. Finché tale delusione e la sensazione di essere stato maltrattato, sfrut­ tato e fuorviato non è stata vissuta in relazione alla propria prima infanzia, l analisi non sarà conclusa e permarrà la disponibilità a farsi manipolare dalle ideologie. Vorrei illustrare questo punto valendomi di una cita­ zione tratta da uno scritto di Cari Gustav Jung ( 1 9 34, pp. 2 3 6 sg.):

L'inconscio ariano (. .. ) contiene tensioni e germi creativi di un futuro ancora da compiere (. . .) Gli ancor giovani popoli germanici sono pienamente in grado di creare nuove forme culturali e questo futuro si trova ancora sepolto nelle oscurità dell'inconscio di ogni individuo come nucleo carico d'energia, capace di dar vita a una fiamma possente. L'ebreo, che è una specie di nomade, non ha mai creato una forma propria di civiltà, e probabilmente non lo farà mai, poiché tutti i suoi istinti e i suoi talenti presuppongono, per potersi sviluppare, un popolo che li ospiti, dotato di un grado più o meno elevato di civiltà (. . .) L'inconscio ariano dispone di un potenziale più elevato di quello ebraico (. . .) A mio avviso la psicologia medica ha compiuto finora il grave errore di appli­ care, in modo indiscriminato, agli individui di razza germanica o agli slavi di matrice cristiana categorie ebraiche che del resto non sono neppure vincolanti per tutti gli ebrei. In tal modo essa ha infatti spiegato il mistero più prezioso dell'uomo germanico, le profondità così creative e ricche di presagi della sua

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

9J

psiche, nei termini di un pantano di banalità infantili, mentre la mia voce che si levava a mettere in guardia contro questo atteggiamento fu per decenni sospet­ tata di antisemitismo, sospetto che venne avanzato anzitutto dallo stesso Freud. Egli non riuscì a comprendere l'anima germanica, non più dei suoi discepoli germanici che ne ripetevano pappagallescamente le teorie. Forse che l'impo­ nente fenomeno del nazionalsocialismo, cui il mondo intero guarda con occhi attoniti, è bastato a farli ricredere? Dove stavano nascoste quella tensione e quell'impeto di inaudita potenza, quando non esisteva ancora il nazionalsocia­ lismo? Stavano celati in quell' ima profondità, la quale è tutt'altro che l'im­ mondo ricettacolo di desideri infantili irrealizzabili e di risentimenti irrisolti verso la famiglia. Un movimento che coinvolga un popolo intero è maturato al tempo stesso anche in ogni singolo individuo. In questo caso non si può parlare di necessità di adeguarsi al regime nazista: Jung era svizzero e scrisse quelle frasi per intima convinzione. E non si può fare a meno di notare

il

suo coinvolgimento personale,

affettivo, che conferisce il suo autentico significato a quella che si potrebbe

considerare un'assurdità ideologica. E autentico lo è senza dubbio, per­

ché deriva dall'infanzia e lo scrivente stesso ne è ignaro. Non intendo

alludere al risentimento di Jung nei confronti dell'ebreo Freud, che secondo lui non aveva capito

il

suo potenziale creativo e in cui soffrì

di non aver trovato il sostituto paterno che avrebbe desiderato. Non

posso credere che Jung non avesse avuto qualche sospetto che questo passo confuso potesse essere in relazione con la sua ambivalenza nei confronti di Freud, di cui egli era ben consapevole. Ma non ebbe il minimo sospetto, invece, che qui affiorassero in maniera massiccia i sen­ timenti che aveva provato nella prima infanzia verso suo padre, altri­ menti non avrebbe di certo formulato in questo modo

il suo pensiero.

Freud fu la figura patema dell'adolescenza, la cui teoria delle pulsioni fece forse a Jung lo stesso effetto delle restrizioni che gli erano state imposte dall'educazione religiosa del padre. Nel passo che ho citato posso

leggere il lamento di un bambino che esclama: « Tu non hai mai capito

la mia anima, né confidato nelle mie forze, mi hai voluto rinchiudere nella prigione dei tuoi precetti e della tua immagine del mondo . Ho sempre avuto questa vaga sensazione, senza poterla mai esprimere con

le parole; ora finalmente lo dicono anche gli altri, adesso è una libe­ razione. » Se Jung avesse potuto vivere e accettare questi sentimenti in un'ana­ lisi personale, essi non sarebbero stati espressi in quella forma incon­

trollata, così penosa per il lettore odierno . Anche in questo caso però

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALJSI

94

giova a poco tranciare giudizi moralistici. Mi pare invece assai più frut­ tuoso, nell'analisi di quel testo, procedere oltre alla delusione che il gio­ vane Jung patì nei confronti del suo ammirato maestro, per giungere

alla disperazione che il bambino vivace e assai dotato provò di fronte

a suo padre. Il passo precedente si potrà rileggere allora in questi ter­

mini: • A mio avviso l'educazione religiosa ( = la psicologia medica) ha compiuto il grave errore di applicare, in modo indiscriminato, al bam­ bino ( = agli individui di razza germanica e agli slavi di matrice cristiana) categorie protestanti ( = ebraiche), che del resto non sono neppure vin­ colanti per tutti i pastori. In tal modo infatti essa ha spiegato il mistero

più prezioso dell'uomo (= dell'uomo germanico), le profondità così crea­

tive e ricche di presagi della sua psiche nei termini di un pantano di

banalità infantili, mentre la mia voce, che si levava a mettere in guar­ dia contro questo atteggiamento fu per decenni sospettata di pec­

cato ( = antisemitismo), sospetto che venne avanzato anzitutto dal padre

( = Freud) stesso. »

Se consideriamo che le idee di Jung, formatesi grazie alla sua amici­

zia con Freud e al suo contatto con l' inconscio, vennero vissute come

estremamente strane e pericolose nell'ambiente intorno a lui, possiamo

farci un'idea più precisa della sua coazione a ripetere. Al suo entusia­ smo per il nazionalsocialismo, è probabile che molte persone che lui

stimava abbiano reagito con la medesima indignazione, perlomeno inte­ riore, che in precedenza il suo ambiente aveva dimostrato per le idee della sua gioventù. Ma ora egli non doveva più temere di essere rifiu­

tato , dal momento che aderiva a idee che stavano proprio allora diven­ tando dominanti.

La dolorosa dipendenza della prima infanzia, che non è mai stata

vissuta emotivamente ed è quindi rimasta irrisolta, non deve necessa­ riamente venir perpetuata nella succube aderenza a gruppi e ideologie,

che consentano di scaricare su nemici esterni la rabbia rimossa precoce­ mente. Il compromesso tra la necessità di risparmiare i genitori e il bisogno

di esprimere i propri veri sentimenti si può servire di diversi meccani­

smi di difesa. Una paziente educata in modo rigidamente bigotto, per

esempio, riuscì a risparmiare i suoi genitori, rivolgendo in un primo

tempo tutta la sua rabbia contro Dio. Nel Dio in cui credevano i suoi

genitori, Inge aveva dapprima sperato di poter trovare il padre fone,

capace di tollerare che lei esprimesse i suoi veri sentimenti, che non

fosse insicuro, permaloso e malaticcio come il suo, un padre, insomma,

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

9$

a cui poter manifestare delusione, disperazione e cui Poter muovere dei rimproveri, senza dover temere che ne sarebbe mono. Lesse Nietzsche,

ne assaporò la formula: « Dio è mono • e una volta improvvisamente

gridò dal divano: « Questa storia di Eva in Paradiso è scandalosa! Per­ ché mai Dio le mise davanti al naso l'albero della conoscenza, per poi proibirle di mangiarne?» Un'altra volta mi ponò in analisi la fiaba della Figlia della Madonna dei Grimm, che sua madre le raccontava spesso quand'era bambina e che allora le piaceva moltissimo. Ecco il testo della

fiaba:

Davanti a un gran bosco viveva un taglialegna con la moglie; essi avevano una figlia sola, una bimba di tre anni. Ma eran così poveri che non tutti i giorni avevano il pane e non sapevano che cosa darle da mangiare. Una mattina, il boscaiolo andò al suo lavoro nella foresta, tutto preoccupato; e mentre spac­ cava la legna, gli apparve all'improvviso una bella signora d'alta statura, che aveva una corona di stelle lucenti sul capo; e gli disse: • Sono la Vergine Maria, la madre del Bambino Gesù; tu sei in miseria, portami la tua bimba; io la pren­ derò con me, sarò la sua mamma e provvederò a lei. • Il boscaiolo obbedì, andò a prendere la bambina e la consegnò alla Vergine Maria, che la portò in Cielo. Là stava bene: mangiava marzapane e beveva latte dolce, e i suoi vestiti erano d'oro, e gli angioletti giocavano con lei. Quando ebbe quattordici anni, la Vergine Maria la chiamò a sé e le disse: • Cara bambina, io devo fare un lungo viaggio; prendi in consegna le chiavi delle tredici porte del regno dei cieli: dodici puoi aprirle e contemplare le meraviglie che custodiscono, ma la tredicesima, per cui serve questa piccola chiave, ti è vietata; guardati dall'a­ prirla, o sarà la tua disgrazia• . La fanciulla promise di obbedire e, quando la Vergine Maria fu partita, cominciò a visitare le stanze del regno dei cieli: ogni giorno ne apriva una, finché n'ebbe viste dodici. In ogni stanza c'era un apo­ stolo, circondato di grande splendore, e la fanciulla gioiva di quel fasto e di quella magnificenza, e gli angioletti che l'accompagnavano sempre gioivano con lei. Ormai rimaneva soltanto la porta proibita; allora le venne una gran voglia di sapere che cosa fosse nascosto là dietro e disse agli angioletti: • Non voglio aprirla del tutto e nemmeno entrare, ma voglio socchiuderla, perché possiamo sbirciar dalla fessura. . •Ah, no, - dissero gli angioletti - sarebbe pec­ cato: la Vergine Maria l'ha proibito, e potrebbe essere la tua disgrazia. • Allora la fanciulla tacque, ma non tacque la brama nel suo cuore; continuò a roderla e a tormentarla, e non le dava requie. E in un momento che gli angioletti erano tutti fuori, ella pensò: • Adesso sono sola e potrei dare una sbirciatina, tanto non lo saprà nessuno. • Scelse la chiave e quando l'ebbe in mano l'infùò nella serratura, e quando l'ebbe infilata la girò. Allora la porta si spalancò ed ella vide la Trinità circonfusa di fuoco e di luce sfolgorante. Restò un attimo immo­ bile a contemplare, piena di meraviglia; poi sfiorò col dito quel fulgore e il dito si coprì d'oro. Fu subito presa da una gran paura, chiuse violentemente la porta e volle correr via. Per quanto facesse, la paura non cedeva e il cuore

96

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

continuava a batter fone e non si voleva chetare; e l'oro rimase sul dito e non andò via, per quanto lavasse e strofinasse. Poco dopo la Vergine Maria tornò dal suo viaggio. Chiamò la fanciulla e le richiese le chiavi del Cido. Quando la fanciulla le porse il mazw, la Vergine la guardò negli occhi e disse: • Non hai apeno la tredicesima pona? » • No » , rispose. Allora l e mise l a mano sul cuore, sentì come batteva. E batteva. E si accorse che la fanciulla aveva trasgredito il suo ordine e apeno la pona. Domandò ancora una volta: • Davvero non l'hai fatto? • • No •, disse la fan­ ciulla per la seconda volta. Allora la Vergine scorse il dito che si era copeno d'oro toccando il fuoco celeste, vide che la fanciulla aveva peccato e per la terza volta domandò: • Non l'hai fatto? • • No • , disse la fanciulla per la terza volta. Allora disse la Vergine Maria: • Tu non mi hai ascoltato e per di più hai mentito: non sei più degna di stare in cielo. • E la fanciulla cadde in un sonno profondo e quando si svegliò giaceva sulla terra, in un luogo selvaggio. Volle chiamare, ma non poté emettere suono. Saltò in piedi e volle correr via, ma, dovunque si volgesse, era sempre trattenuta da fitti roveti, che non poteva attraversare. Nel deseno dov'era prigioniera c'era un vecchio albero cavo: doveva essere la sua dimora. Quando veniva la notte, ella si rannicchiava là dentro per dormire, e vi si riparava quando pioveva e faceva tempesta; ma era una vita ben misera e, quando ella pensava com'era bello vivere in Cielo dove gli angdi avevan giocato con lei, allora piangeva amaramente. Radici e bacche eran tutto il suo nutrimento, le cercava fin dove poteva arrivare. D'au­ tunno raccoglieva le noci e le foglie cadute e le ponava nel suo buco; d'in­ verno le noci erano il suo cibo e quando veniva la neve e il ghiaccio ella si rannicchiava come un povero animaletto nelle foglie, per non gdare. Ben pre­ sto i suoi vestiti si lacerarono e le caddero di dosso a brandelli. Appena il sole splendeva caldo, ella usciva e sedeva davanti all'albero, e i suoi lunghi capelli la coprivano da ogni pane come un mantello. Così ella passava un anno dopo l'altro e sentiva il dolore e la miseria del mondo. Una volta, quando di nuovo gli alberi si erano vestiti di fresco verde, il re del paese cacciava nella foresta e inseguiva un capriolo e, perché esso era fuggito tra i cespugli che cingevano la foresta, smontò da cavallo, spezzò i pruni e si aprì il varco con la spada. Penetrò nel folto e vide seduta sotto lalbero una fanciulla meravigliosa, copena fino alla punta dei piedi dalla sua chioma d'oro. Egli si fermò e fa contemplò pieno di stupore; poi le rivolse la parola e disse: • Chi sei? perché sei qui in questo deseno? • Ma essa non rispose, perché non poteva schiudere le labbra. Il re proseguì: • Vuoi venire con me al mio castello?• La fanciulla chinò lievemente il capo. Il re la sollevò tra le braccia, la ponò sul suo cavallo e andò a casa con lei; e quando arrivò alla reggia le fece indos­ sare belle vesti e non le lasciò mancar nulla. Benché non potesse parlare, essa era così bella e graziosa, che il re se ne innamorò e poco dopo la sposò. Era passato circa un anno e la regina diede alla luce un figlio. La notte, mentre giaceva sola nel suo letto, le apparve la Vergine Maria e disse: • Se vuoi dir la verità e confessare che hai apeno la pona proibita, ti dissuggellerò le labbra e ti renderò la parola; ma se persisti nella colpa e continui a negare, ponerò con me il tuo piccino . • Alla regina fu concesso di rispondere, ma ancora osti-

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

97

nata, ella disse: • No, non ho aperto la porta proibita. • E la Vergine Maria le tolse dalle braccia il neonato e scomparve con lui. La mattina dopo, quando non si trovò il bambino, si mormorò tra la gente che la regina era un'orchessa e aveva ucciso suo figlio. Ella udiva rutto e non poteva contraddire; ma il re non volle crederlo, tanto l'amava. Dopo un anno, la regina partorì un altro figlio. Nella notte tornò la Vergine Maria e disse: • Se vuoi confessare di aver aperto la porta proibita, ti restituirò il tuo bambino e ti scioglierò la lingua; ma se persisti nella colpa e neghi, porto anche questo con me. • E la regina tornò a dire: • No, non ho aperto la porta proibita. • La Vergine le tolse dalle braccia il bambino e lo portò in Cielo. La mattina, scomparso di nuovo il piccino, la gente disse ad alta voce che la regina l'aveva divorato; e i consiglieri del re chiesero che ella fosse giudicata. Ma il re l'amava tanto che non volle crederlo e ordinò ai consiglieri di non parlarne più, pena la vita. L'anno dopo la regina partorì una bella figlioletta; per la terza volta le apparve di notte la Vergine Maria e disse: • Seguimi. • La prese per mano e la condusse in Cielo e le mostrò i due figli maggiori, che le sorridevano e giocavano con la palla del mondo. La regina se ne rallegrò; allora disse la Vergine Maria: • Non si è ancora intenerito il tuo cuore? Se confessi di avere aperto la porta proibita, ti restituirò i tuoi due figlioletti. • Ma la regina rispose per la terza volta: • Non ho aperto la porta proibita. • Allora la Vergine Maria la lasciò ricadere sulla terra e le prese anche la bambina. La mattina dopo, quando la cosa trapelò, tutti gridarono a gran voce: • La regina è un'orchessa, dev'essere condannata! • E il re non poté più respingere i suoi consiglieri. La regina fu giudicata e, perché non poteva rispondere e difendersi, fu condannata a morire sul rogo. Ammucchiarono la legna, e quando ella fu legata al palo e il fuoco cominciò ad avvampare intorno a lei, si sciolse il duro ghiaccio della superbia, il suo cuore fu preso dal pentimento ed ella pensò: • Potessi, prima di morire, confessare di aver aperto la porta! • Allora le tornò la voce ed ella gridò : • Sì, l'ho fatto, Maria! • Subito dal Cielo cadde la pioggia e spense le fiamme; una luce irruppe sopra di lei e la Vergine Maria, fra i due bambini, scese con la neonata in braccio. Le disse con dolcezza: • Chi si pente della sua colpa e con­ fessa, è perdonato. • E le porse i tre bimbi, le sciolse la lingua e la rese felice per tutta la vita (Grimm, 1 858, pp. 1 0- 1 3). Dopo aver letto questa fiaba, distesa sul divano, lnge fu colta da un impeto d' ira e gridò : « Sono stati proprio loro a indurre continuamente in tentazione il bambino, per degradarlo e punirlo . Proprio come la Vergine Maria! Che gioco crudele conduce con la sua figlia adottiva! » Emerse poi che quello era stato uno dei metodi favoriti dei suoi geni­ tori, essendo raccomandato da uno dei pedagoghi che ho citato nel mio volume precedente (Miller, 1 9 80, p.

3 4).

I suoi zelanti educatori ave­

vano sistematicamente e in modo intenzionale messo la figlia in situa­ zioni in cui venisse tentata di disobbedire, per dimostrarle le sue debo-

'JB

REALTÀ TNFANTILE E PSICOANAUSI

lezze. Dopo che avemmo progressivamente scoperto tutta la gamma dei princìpi educativi dei suoi genitori, s'attenuò la sua forte animosità contro Dio e ritornarono a vivere invece i suoi genitori interiori, che fino ad allora essa aveva congelato nel suo concetto di Dio. La sua prima rea­ zione nei loro confronti fu dapprima di collera e poi di profondo lutto.

Ma lo spirito critico della paziente restò intatto, anche in campo teologico. Essa riuscì poi, tuttavia con assai maggiore calma interiore, a porsi interrogativi del seguente tenore: " Nella Bibbia si dice che non dovremmo farci alcuna immagine di Dio. Perché no? Perché Dio ha il diritto di scorgere tutte le nostre debolezze, di leggere nei nostri più reconditi pensieri, e per questo punirci e perseguitarci, mentre sol­

tanto le sue debolezze devono restare invisibili? Se Dio è amore, come

mi hanno insegnato, non dovrebbe temere di mostrarsi, cosicché potremmo imparare dal suo amore.

È proprio Lui a volersi nascondere

all'uomo, o non sono invece coloro che si sono fatti un' immagine di lui a somiglianza del loro padre e che ce l'hanno tramandata? Se sol­ tanto si ha il coraggio di guardare più in profondità, la Bibbia infatti ci dà un'immagine assai ben definita di Dio. Essa si può arguire dal suo

agire ed è l'immagine di un padre permaloso, ipersensibile, didascalico e autoritario. La Bibbia parla dell'onnipotenza di Dio, ma le imprese divine che essa descrive contraddicono quest'attributo . Chi infatti fosse dotato di onnipotenza non dipenderebbe dal!' obbedienza dei propri figli, non diverrebbe insicuro se essi adorano degli idoli e non dovrebbe per questo motivo perseguitare il suo popolo. Forse però i teologi non sono in grado di farsi un'immagine ideale della vera bontà e dell'autentica onnipotenza, che contraddica la realtà dei loro padri, sino a che non divengano coscienti di cale realtà. In tal modo si creano un'immagine di Dio a somiglianza del modello a loro noto. Il loro Dio è come i loro padri: insicuro, autoritario, avido di potere, vendicativo ed egocentrico . Chi abbia avuto un'infanzia diversa si potrebbe però figurare altre imma­ gini di Dio, anche queste antropomorfe . » Questa paziente, che s'interessava d i etnologia, s'immaginò un Dio, il quale un tempo aveva forse avuto il potere di creare il mondo, ma che ora si trova impotente e addolorato di fronte alla sofferenza del­ l'uomo, senza dover per questo nascondere cale impotenza dietro san­

zioni autoritarie. Se Dio è davvero amore - diceva lnge - dovrebbe

essere in grado di donare amore senza richiedere nulla in cambio, senza commettere violenze in nome di questo amore e senza richiedere l'im-

99

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

possibile dai suoi figli. Ci saranno forse altri popoli che hanno una simile immagine di Dio.

È

improbabile che popoli pacifici preghino un dio

dotato degli stessi attributi del Dio veterotestamentario .

Già prima di incominciare lanalisi Inge aveva letto molti libri di etno­

logia, ma questi interrogativi non erano mai emersi in lei in precedenza, nel periodo del suo odio per la figura di Dio. Fu soltanto dopo aver ritrovato la realtà dei genitori della sua prima infanzia che ella riuscì a unire le sue conoscenze teoriche ai sentimenti ed esprimere interroga­ tivi che prima le avrebbero scatenato angosce di mone. Chi sia cresciuto

in una famiglia di gente devota, in cui non si possono far domande, sulle prime crederà che le sue idee eretiche potrebbero distruggere il mondo, se solo le esprimesse. Per molto tempo egli continuerà ad avere sempre questa impressione, finché alla frne riuscirà a rendersi pienamente conto che i suoi pensieri non hanno ucciso né i suoi genitori, né tanto meno Dio stesso. L'evoluzione interiore di Inge ha scatenato anche in me un processo

analogo . Ho dovuto domandarmi infatti se le sanzioni della « pedago­ gia nera» non avrebbero avuto un potere più ridotto su di noi, se non

fossero state radicate nella nostra cultura con l'aiuto della religione ebraico-cristiana. È sempre il sacrificio di Isacco che Dio chiede ad Abramo, e non viceversa.

È sempre la figlia Eva a venir

punita per non

aver resistito alla tentazione e non aver sottomesso la sua curiosità ali' ob­ bedienza. È sempre il pio e fedele figlio Giobbe ad essere oggetto della sfiducia di Dio , finché esso non gli ha dimostrato tra i più terribili tor­ menti la sua lealtà e la sua sottomissione. È Gesù a morire in croce per adempiere alla Parola del Padre. Anche i salmisti non si stancano

di esaltare l'imponanza dell'obbedienza come la condizione prima di ogni esistenza. Siamo cresciuti con questo retaggio culturale, il quale tuttavia non si sarebbe potuto conservare a lungo se non avessimo appreso

attraverso l'educazione a non meravigliarci del fatto che un padre amo­ revole senta la necessità di tormentare il proprio figlio, che non ne avvena

l'amore e - come succede nel caso di Giobbe - ne richieda delle prove. Che specie di Paradiso è mai quello in cui - dietro minaccia della perdita dell'amore, dell'essere abbandonati, del sentirsi colpevoli, pieni

di vergogna - è proibito cibarsi dell'albero della conoscenza, vale a dire

essere curiosi? Chi mai era quel contraddittorio Dio-Padre cui fu neces­ sario creare un'Eva ricca di curiosità, per proibirle nello stesso tempo di vivere in sintonia con la sua vera natura?

/00

REALTÀ INFANTIU: E PS/COANAUSI

Si potrebbe pensare che il lato alienato, perverso e distruttivo del nostro odierno apparato scientifico sia ancora una conseguenza di quella proibizione. Se ad Adamo non è consentito di vedere ciò che quotidia­ namente gli sta davanti agli occhi, la sua curiosità si rivolgerà a mete poste il più lontano possibile da lui stesso. Condurrà esperimenti nello spazio, si trastullerà con macchine, computer, cervelli di scimmia o con vice umane, per placare in tal modo la sua curiosità, ma starà sempre ansiosamente attento a non alzare gli occhi all'albero della conoscenza, piantato proprio dinanzi ai suoi occhi. Il precetto pedagogico secondo cui il bambino non deve accorgersi di ciò che gli viene fatto è di gran lunga anteriore ai dieci comanda­ menti. Nella nostra cultura esso interviene sin dalla creazione del mondo. C'è forse da meravigliarsi che preferiamo assumerci l'inferno della cecità, dell'alienazione, dell'essere maltrattati e ingannaci, della sottomissione . e della perdita del Sé, pur di non perdere quel luogo chiamato Para­ diso, per la cui sicurezza dobbiamo pagare un prezzo così alto? La storia delle sofferenze dell'umanità pare sia incominciata con la cacciata dal Paradiso. Ma non potremmo spostare ancora più indietro questo inizio immaginario? Come possiamo oggi avere ancora nostalgia di un Paradiso, in cui all'uomo fu imposto di tollerare acriticamente e docilmente le contraddizioni, ossia di fatto di restare sempre allo sta­ dio del lattante? Poiché ciascuno di noi ha appreso nella sua infanzia a ignorare le contraddizioni dei suoi genitori, in seguito non si accor­ gerà più per nulla di altre contraddizioni o, qualora le noti, cercherà di integrarle in sistemi filosofici o teologici. La storia del Paradiso per­ duto simboleggia lo struggente desiderio dell'uomo che vorrebbe ritro­ varsi alle origini della sua esistenza in uno stato privo di sofferenza; cale nostalgia si unisce però ali' esperienza rimasta inconscia, e pur tuttavia registrata dentro di noi, che quello stato non poteva però essere del cucco perfetto, se il prezzo da pagare era la perdita del Sé. Per quanto concerne poi i nostri padri in carne ed ossa, quanto più essi si mostrano imponenti e autoritari, tanto più sono dei bambini insi­ curi. Adorare per paura un simile Dio equivale a sottomettersi agli effetti della « pedagogia nera». Un dio che fosse davvero amorevole, non ci sottoporrebbe a sanzioni. Ci amerebbe così come siamo, senza esigere la nostra obbedienza, non si lascerebbe rendere insicuro dalle critiche, non ci minaccerebbe l'inferno, non ci farebbe paura, non metterebbe alla prova la nostra fedeltà, non avrebbe sfiducia in noi, ci consenti-

SEPARAZIONE E A UTONOMIA

IO/

rebbe di vivere i nostri sentimenti e le nostre pulsioni, fidando nel fatto che noi diverremmo capaci, proprio a partire da questa base, di impa­ rare che cosa sia l'amore intenso e autentico, un amore che è l'esatto contrario dell'adempimento di un dovere e dell'obbedienza, e che sca­ turisce soltanto dall'esperienza dell'essere amato. Non si può educare un bambino all'amore né con le percosse, né tanto meno con le buone parole; non v'è ammonizione, predica, spiegazione, modello, minaccia o sanzione che possa rendere un bambino capace d'amare. Il bambino che si senta fare delle prediche imparerà soltanto a farne lui pure, e il bambino che riceva percosse, imparerà a picchiare. L'educazione può fare di un individuo un bravo cittadino, un soldato valoroso, un ebreo, un cattolico, un protestante o un ateo, anzi persino uno psicoanalista, perfettamente ortodosso, ma in nessun caso lo farà diventare un essere umano libero e vitale. E saranno proprio soltanto questi due ultimi attri­ buti - e non invece le costrizioni educative - ad aprire la via alla vera capacità d'amare. Molto di ciò che Gesù ha detto nella sua vita e soprattutto molti dei suoi atti mostrano che egli non aveva un solo padre (Dio), il padre esigente, che impone le sue leggi, richiede vittime, lontano, invisibile irraggiungibile, di cui occorre che « sia fatta la volontà». Le sue prime esperienze Gesù le fece con un altro padre, Giuseppe, il quale non si metteva mai in mostra, proteggeva e amava Maria e il bambino, lo inco­ raggiava, lo metteva al centro della sua esistenza, lo serviva. Deve pro­ prio essere stato questo Giuseppe, dotato di vera modestia, a offrire al bambino un criterio di misura per la verità e a trasmettergli l'esperienza dell'amore. Perciò Gesù fu in grado di smascherare l'ipocrisia dei suoi contemporanei. Un bambino educato secondo i princìpi tradizionali, che dalla sua nascita non conosca null'altro, non può smascherare l'ipo­ crisia, perché gli manca un metro di paragone. Chi conosca sin da bam­ bino soltanto questa atmosfera, la troverà ovunque normale e forse ne soffrirà, ma non sarà in grado di riconoscerla per quella che è. Nel caso in cui da bambino egli non abbia sperimentato amore, ne avrà strug­ gente desiderio, senza saper bene però di che cosa si possa trattare. Ma Gesù lo sapeva. Si accrescerebbe senza dubbio il numero di persone capaci di amare, se la Chiesa, invece di appellarsi all'obbedienza verso l'autorità e a par­ tire da questa attendersi devozione a Cristo, comprendesse l'estrema importanza che riveste l'atteggiamento di Giuseppe. Serviva suo figlio

102

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

perché lo considerava Figlio di Dio. Che cosa succederebbe se conside­ rassimo anche noi i nostri bambini come figli di Dio, cosa che sarebbe altrettanto possibile? Nel suo messaggio natalizio del 1 9 7 9, riferendosi all'« Anno del bambino », il papa Giovanni Paolo II disse che bisogna trasmettere degli ideali ai bambini. Queste parole, provenienti da un uomo capace di amare, sono cenamente animate dalle migliori inten­ zioni. Ma quando pedagoghi sia del clero, sia secolari si accingono a trasmettere al bambino ideali predeterminati si valgono invariabilmente dei metodi della « pedagogia nera» e, nel caso migliore, addestrano il bambino a diventare un adulto capace a sua volta di educare, ma non di amare. I bambini che vengono rispettati imparano a loro volta il rispetto. I bambini che vengono serviti, imparano a servire, a servire i più deboli. I bambini che vengono amati per quello che sono, imparano anche loro ad essere tolleranti. Soltanto su questa base possono nascere i loro ideali personali, che non potranno non essere umanitari, perché scaturiscono dall'esperienza d'amore. Spesso sono stata ponata a pensare che una persona a cui fosse stato concesso di sviluppare il suo vero Sé nell'infanzia, nella nostra società avrebbe dovuto diventare un manire, perché non avrebbe potuto adat­ tarsi a tutte le sue norme. Parecchi argomenti parlano a favore di que­ st' idea, che viene anzi addotta per indicare la necessità dell'educa­ zione. I genitori vorrebbero rendere il loro figlio - stando a quel che dicono - capace di adattarsi il più presto possibile, affinché non debba poi soffrire troppo nella scuola e nella vita professionale. Poiché le sof­ ferenze che si provano nell'infanzia e le loro future ripercussioni sulla formazione del carattere fino a questo momento sono ancora poco cono­ sciute, quest'argomentazione sembra avere un ceno peso. E gli esempi che ci offre la storia sembrano persino convalidarla, poiché dovettero morire martiri molti individui che si ribellarono alle norme dominanti nella loro società, per rimanere fedeli alla verità, vale a dire a sé stessi. Ma chi sono mai, in realtà, coloro che si danno da fare affinché le norme della società siano rispettate, che perseguitano quelli che la pen­ sano diversamente e li mettono in croce, se non proprio gli individui che hanno ricevuto una « buona• educazione? Sono proprio coloro che hanno imparato ad accettare già nell'infanzia la loro mone psichica e se ne rendono conto solo quando incontrino bambini o adolescenti che sono invece pieni di vitalità. Si sentiranno allora costretti a spegnere

SEPARAZIONE E AUTONOMIA

lOJ

nell'altro quell'elemento vitale, affinché esso non faccia loro ricordare quello che hanno perso. Nelle opere d'arte di ogni tempo sono sempre stati raffigurati mas­ sacri di innocenti. Prendiamo ad esempio l'ordine impartito da Erode, secondo cui si dovevano uccidere tutti i bambini piccoli viventi nel suo paese. Egli se ne sentiva minacciato perché tra di loro avrebbe potuto trovarsi il nuovo re che in futuro gli avrebbe conteso il trono e provocò un bagno di sangue, facendo uccidere cc tutti i bambini al di sotto dei due anni ». La morte dei bambini era a quel tempo una cosa talmente normale, che la tradizione non ricorda, oltre a Maria e Giuseppe, alcu­ n'altra coppia che abbandonasse la patria per salvare i propri figli. L'amore dei genitori non soltanto salva materialmente la vita a Gesù, ma gli con­ sente anche di dispiegare la ricchezza della sua anima, fatto che lo con­ durrà poi a una morte precoce. Si potrebbe dunque a ragione affermare che Gesù dovette proprio alla sua autenticità la sua morte precoce, da cui l'avrebbe salvato un falso Sé, ben adattato. È possibile però misu­ rare con un metro quantitativo una vita così ricca di senso? Forse che Gesù sarebbe stato più felice, se i suoi genitori, invece di offrirgli rispetto e amore, l'avessero educato assai presto a diventare un fedele suddito di Erode o a condurre una lunga vita da scriba? Il fatto che Gesù sia cresciuto con genitori che nei suoi confronti non si proposero altro che di dimostrargli amore e attenzione non potrà essere contestato neppure dai credenti che, in accordo alla Tradizione, vedono in Gesù il Figlio di Dio. Ogni anno in tutto il mondo cristiano il bambino viene onorato nella celebrazione del Natale, ma la pedago­ gia di impronta cristiana non è mai stata guidata da questo atteggia­ mento. Anche supponendo che Gesù non derivasse la capacità d'amore, la sua autenticità e bontà dal!' atteggiamento straordinariamente amo­ revole di Maria e Giuseppe, ma dalla Grazia del suo padre divino, ci si potrebbe domandare perché Dio affidasse proprio a quei genitori ter­ reni il compito di prendersi cura del proprio Figlio. È a dir poco stupe­ facente che nessuno dei seguaci di Cristo si sia mai posto questo inter­ rogativo, che avrebbe potuto imprimere nuovi orientamenti alla pedagogia. I servizievoli genitori di Gesù bambino non sono mai stati posti come modello, mentre nei libri religiosi si raccomanda, invece, di intervenire con rigide misure educative già col lattante. Non appena però non sia più un mistero il fatto che dietro a questo modello si celino precise leggi psicologiche, non appena un certo numero di genitori note-

104

REALTÀ INFANTILE E PSICOANALISI

ranno che le prediche non servono a generare amore, ma che per ren­ dere il bambino capace d'amare sono necessari attenzione e voglia di comprendere, gli individui che potranno crescere in questo modo non costituiranno più un'eccezione, non dovranno più, quindi, essere dei martiri. Se consideriamo Erode come un simbolo e lo trasponiamo nella società attuale, troveremo nella storia di Gesù elementi che possono essere usati (a seconda dell'esperienza di ciascuno) come argomenti sia favorevoli sia contrari ali' educazione: da un lato la strage degli innocenti e le norme della società e dall'altro genitori straordinari, che si fanno servitori del proprio figlio e che, stando alle teorie pedagogiche, avrebbero dovuto allevarsi in seno un tiranno. La società, personificata in Erode, teme la vita1ità e la spontaneità dei bambini e tenta di annientarle, ma la verità vissuta non si può distruggere, nemmeno se i funzionari statali e reli­ giosi della società si assumono il compito di autore ottocentesco di manuali sull'educazione, sul cui figlio Freud scrisse un saggio nel 1 9 1 O) non era affatto evidente agli occhi della sua genera­ zione (e neppure a quelli di Freud). Lo stesso può capitare ai giorni nostri con i consigli pedagogici derivati dalla teoria delle pulsioni, che ci pos­ sono apparire estremamente adeguati e calzanti perché non ci rendiamo ancora conto delle tracce di « pedagogia nera » presenti nel nostro atteg­ giamento e nel nostro linguaggio. Succede perciò che non solo i geni­ tori impegnati, ma anche gli psicoterapeuti infantili si lascino fuorviare dalla teoria del complesso edipico che interferisce con la loro capacità empatica. Un'analista infantile mi richiese una volta un'ora singola di supervi­ sione, nella quale mi raccontò quanto segue: aveva in trattamento un bambino di quattro anni che d'improvviso aveva incominciato a mani-

EDIPO

159

festare sintomi fobici e che reagiva con un particolare stato di panico tutte le volte che si trovava in presenza di uomini con un certo taglio di capelli. Ciò che le procurava maggiori difficoltà nel trattamento era il modo con cui il bambino incominciava a molestarla sessualmente, a toccarla grossolanamente sotto le gonne, a premere il suo corpo con­ tro il suo e a far nascere in lei la sensazione di subire le violenze di un uomo avido di sesso. La terapeuta mi raccontò che essa aveva pre­ sentato questo caso a un seminario, dove aveva ricevuto i pareri più disparati. Nel comportamento del piccolo alcuni colleghi scorgevano tratti edipici che si accordavano con il suo rifiuto di determinati uomini. Altri, al contrario, ritenevano che il bambino « non avesse ancora rag­ giunto la fase edipica » . Queste interpretazioni non aiutarono affatto la collega, la quale si rimproverava di non riuscire a mantenere il distacco analitico, ma di sentirsi ogni volta offesa e in qualche modo minacciata dalle aggressioni del bambino . Considerai invece assai importante questo sentimento e mi doman­ dai anzitutto quale fosse il trauma che il bambino esprimeva in quel modo. La collega ritornò a casa con questo interrogativo quale ipotesi di lavoro e alcuni giorni dopo mi telefonò per riferirmi che da un collo­ quio con i genitori del piccolo erano emersi i seguenti fatti. Quando la madre dovette rimanere per due settimane in ospedale a causa di un'o­ perazione, il padre si assunse la cura del bambino che egli amava molto e con il quale giocava volentieri. Non volle lasciarlo in custodia, nep­ pure temporaneamente, ad altre persone e perciò portava il bambino con sé anche quando si trovava con gli amici in qualche locale. Quando si recavano a trovarlo a casa, gli amici del padre facevano di tanto in tanto dei giochi sessuali con il piccolo, gli infilavano un dito nell' ano o si eccitavano con il suo pene. Il padre sembrava sinceramente con­ vinto che tali giochi facessero parte di un'educazione progressista, ma durante il colloquio con l'analista emerse che egli stesso aveva subìto vari traumi di natura sessuale. Una volta liberatasi dai ceppi della sua formazione teorica, all' anali­ sta fu subito evidente, senza bisogno di un'ora supplementare di super­ visione, come questo bambino già da tempo avesse cercato, nella tera­ pia ludica, di raccontarle con l'aiuto di una messa in scena quello che gli era successo sera dopo sera. Non appena essa fu disposta ad ascol­ tarlo, il bambino le raccontò anche verbalmente, tra l'altro, che « gli uomini toccavano le donne sotto le sottane » e che queste « li sgrida-

160

LA VERITÀ E SCANDALOSA

vano » . A panire da qud momento egli non ebbe più bisogno di ricor­ rere alla messa in scena che la terapeuta aveva trovato così minacciosa e che avrebbe dovuto provocare le sue « sgridate » . Tutti gli elementi d i questa storia riproducono fatti reali. Nel suo insieme però essa assomma particolari che mi sono noti anche da altri casi, tramite i quali ho potuto accedere a un'ampia gamma di abusi ses­ suali operati sui bambini; ciò fu possibile però dopo che fui disposta a non respingere più quelle informazioni. Ho udito, per esempio, che certi genitori oppressi dai debiti « affittano » i loro figli per giochi ses­ suali, nella convinzione che questo non possa recar danno al bambino, finché è ancora piccolo. Come ho appreso dal responsabile del servizio di aiuto telefonico 1, le coppie giovani si servono talvolta della minac­ cia di sottoporre il figlio a tali giochi come di una forma di disciplina in caso di disobbedienza del piccolo. Nella documentazione degli abusi psicologici puhblicata dal suddetto servizio di aiuto telefonico, l'abuso sessuale ha un ruolo assai rilevante. C'è per esempio in certe famiglie la consuetudine di far assistere il bambino a svariati giochi sessuali, se questo serve ad accrescere il piacere dei genitori. È possibile che in que­ sto modo i genitori si vendichino degli eventi traumatici vissuti nella loro stessa infanzia. Se si sente parlare di questi fatti essendo ancora appesantiti dal far­ dello della teoria delle pulsioni, non si può far altro che minimizzare la portata ddla sofferenza causata al piccolo . Ci si potrà convincere che in tali maltrattamenti il bambino ha avuto anche il suo piacere e rite­ nere che il problema stia soltanto nel modo in cui verrà risolto il con­ flitto tra l'Es e il Super-io . Se invece decidiamo di sbarazzarci di tale fardello, perché non possiamo più a lungo ignorare com'esso serva a mascherare l' uso della violenza, allora il nostro interesse si sposterà dalla cosiddetta « sessualità infantile» alla sessualità vista come una delle pos­ sibili forme di esercizio di potere del dominatore sulla sua vittima. Questo fenomeno non è limitato solamente alle relazioni tra genitori e figli, ma si può osservare comunemente tra fratelli. Il piccolo paziente della mia collega si assunse subito, nella terapia, il ruolo attivo dell' aggres­ sore per descriverle le situazioni di cui si trovava invece ad essere vit­ tima (e testimone). In maniera analoga i fratelli maggiori che maltrat­ tano quelli minori e ne abusano, non fanno che raccontare in forma ' [Un servizio equivalente, in questo caso, al Telefono Azzurro italiano.]

EDIPO

161

attiva ciò che è loro capitato in precedenza. Le cose non potranno andare altrimenti finché il bambino o l'adulto si troveranno soli di fronte al cono che è loro stato infeno. Per potersi vivere come vittime, occorre la presenza di una persona che offra loro sostegno. Se questa viene a mancare, il cono continuerà a riprodursi e rimarranno solo sensi di colpa che ancora una volta costituiranno un ostacolo alla scopena della verità. Le persone rimangono attaccate ai sensi di colpa, perché in tal modo rimane loro un'illusione di potere (« ho commesso un errore, ma avrei potuto fare diversamente »). Infatti, prendere coscienza consapevolmente della propria condizione di vittime significa anche avvenire la sconfi­ nata impotenza in cui si trova il bambino che sia stato direttamente esposto agli scoppi di collera o alle manipolazioni sessuali di un indivi­ duo amato che gli diventa d'improvviso estraneo. I nostri pazienti hanno perciò bisogno di trovare nei loro terapeuti e analisti persone che li assi­ stano e li sostengano nel vivere il dolore di quell'impotenza, e non invece di funzionari i quali, ponendosi al servizio delle norme sociali preva­ lenti, cerchino di dissuaderli dalla vaga consapevolezza che nasce dalle loro primissime esperienze. Se i terapeuti, invece di funzionari della società, si porranno come avvocati difensori del paziente, non avranno più bisogno di occultare il fatto che la sessualità può essere impiegata per esercitare violenza su chi è più debole. A conferma della teoria freudiana, i giovani raccontano spesso che i loro figli sono molto interessati alla differenza sessuale. Ma come sarebbe possibile che un bambino di normale vivacità nnn manifestasse interesse per un fatto così evidente? Dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato dell' albero della conoscenza, ebbero per la prima volta coscienza della loro sessualità e se ne dovettero vergognare. Anche la teoria psicoanali­ tica non si è ancora liberata da questo modello in cui si intrecciano cono­ scenza, sessualità e vergogna. Infatti, perché mai un bambino non dovrebbe interessarsi al fatto che esistano due sessi diversi, a come sono fatti la madre, il padre e i fratelli, al modo in cui vengono al mondo i bambini, a come il bambino entri nella pancia della mamma, a come padre e madre siano unici anche fisicamente ecc.? Se per gli adulti cucce queste domande sono ormai già collegate a esperienze sessuali, per il bambino invece non lo sono affatto. Esso pone i suoi quesiti senza pro­ vare alcun imbarazzo e leggerà soltanto questo sentimento negli occhi dell'adulto, educato secondo i princìpi della ft pedagogia nera». Il colle­ gamento, che ne deriva, tra conoscenza, colpa e vergogna rende diffi-

162

LA VERITÀ È SCANDALOSA

cile ai genitori prendere le domande del bambino per quello che sono, ossia come espressione di sana curiosità. Il bambino che abbia subìto un abuso sessuale, invece, non avrà più questa libertà di porre domande spontaneamente. È naturale che in nostro figlio ritroviamo tutto ciò che vi abbiamo immesso. Se però diveniamo consapevoli di ciò che abbiamo fatto, avremo l'opportunità di liberarci, grazie ai nostri figli, dalle coazioni che ci derivano dal nostro passato. Il bambino piccolo è dapprima un muto recettore delle nostre proie­ zioni. Non può difendersene, né restituircele, e neppure interpretarcele; può soltanto farsene carico, offrendoci in tal modo la prova che il mondo, l'umanità e la società debbano rimanere tali e quali come noi le abbiamo vissute nel nostro passato. Le cose però non devono necessariamente andare in questo modo. Se i giovani riusciranno un giorno a liberare veramente la loro sessualità dalla lotta narcisistica per il potere e dalla « pedagogia nera •, per poterla gustare in quanto tale, non avranno più bisogno di proiettare i loro conflitti sessuali sul bambino. Non appena il bambino potrà essere qualcosa di più che un semplice veicolo delle proiezioni parentali, potrà diventare per i suoi genitori un' inesauribile fonte di conoscenza non deformata della natura umana. È proprio di tale natura voler manifestare, sin dalla più tenera età, sensualità, piacere per il proprio corpo, piacere per le affettuosità dell'altro; è sua caratteri­ stica il bisogno di esprimersi, di essere ascoltati, osservati, compresi e rispettati, la necessità di non dover reprimere l' ira e la rabbia, e di poter esprimere anche altri sentimenti, come il lutto, l'angoscia, l'invidia e la gelosia. Nella nostra formazione analitica impariamo a considerare come una grande rivoluzione la teoria freudiana delle pulsioni. Ci viene detto che Freud avrebbe offeso l' umanità sottraendole l'« illusione ,, dell'innocenza del bambino, ma quest'ultima assenione si basa su due false .premesse. Anzitutto l'innocenza del bambino non è un'illusione, bensì una realtà, e in secondo luogo questa realtà non è stata finora accettata pienamente dall'umanità (sotto l'influsso della religione e della pedagogia). Fino a poco tempo fa era difficile trovare un pedagogo che non fosse convinto che il suo compito consistesse nell'insegnare la morale ai bambini. Tra le rare eccezioni in questo campo, tra le figure solitarie della pedagogia troviamo però Janusz Korczak, che nel 1 92 8 scriveva queste frasi, per noi ancora inconsuete:

EDIPO

161

Ai bambini è proibito criticare, non possono notare i nostri errori, passioni e lati ridicoli. Noi ci presentiamo ai loro occhi ammantati di perfezione. Die­ tro la minaccia di tremende sfuriate difendiamo i segreti del clan dominante, la casta degli iniziati, che sono chiamati ai compiti più alti. Solo un bambino si può esporre senza ripari alla berlina, senza pensarci due volte. Con i bambini giochiamo a carte false; colpiamo le debolezze dell'infanzia impu­ gnando gli assi degli adulti. Da bari provetti, quali noi siamo, imbrogliamo le cane in modo tale che da una parte stiano tutti i lati buoni e preziosi, e dal!' altra i punti deboli. Dove si nascondono i nostri sfaccendati e gli sventati, i gaudenti crapuloni, i senzacervello, i poltroni, i farabutti, gli avventurieri, i manigoldi senza scrupoli, i truffatori, gli ubriaconi e i ladri, dove sono finite le nostre violenze, i nostri delitti, quelli noti a tutti e quelli che non si scopri­ ranno mai; di quante liti, insidie e scene di gelosia siamo responsabili; di quante maldicenze e ricatti, parole che feriscono, azioni disonoranti; quante tragedie familiari di cui sono vittime i bambini si svolgono nell'ombra? E abbiamo ancora l'ardire di accusare e incolpare?! Siamo accecati da tali e tanti pregiudizi da scambiare per vero amore verso il bambino delle affettuosità che egli soppona con fastidio. Non riusciamo a capire che siamo noi, in realtà, a chiedere affetto al bambino quando lo strin­ giamo a noi, noi che, in preda allo sgomento, cerchiamo rifugio tra le sue braccia, che nelle ore di pena impotente e di sconfinata solitudine cerchiamo da lui protezione e riparo, addossandogli il fardello della sofferenza e del tormento che ci travagliano (Korczak, 1 98 1 , pp. 2 1 -2 3).

C'è da sperare che la • pedagogia nera», la nostra suprema istanza interiore, non impieghi trecento anni a lasciar via libera a questa cono­ scenza empirica (assolutamente non u illusoria») dell' innocenza del bam­ bino. Tanto tempo occorse infatti alla Chiesa per accettare la dimostra­ zione matematica del sistema copernicano, ma ora i tempi sono cambiati. Ai pazienti che soffrono di depressione gioverebbe comunque che il loro terapeuta riuscisse a sbarazzarsi dell'idea che colpevole sia sempre il bambino. Il medico Janus Korczak era un acuto osservatore e per trent'anni visse, senza trincerarsi dietro a teorie, insieme a bambini provenienti dai più umili ceti sociali, che arrivavano da lui in pietoso stato di abban­ dono e spesso con i segni di gravi maltrattamenti. Nella sua infanzia deve aver ricevuto molto bene, poiché non ebbe bisogno di respingere levidenza dei fatti, vale a dire di interpretare la miseria dei bambini come una loro colpa e occultare la tragica verità con l'aiuto della « peda­ gogia nera». Tanto bene infatti abbiamo interiorizzato le valutazioni della « pedagogia nera », che ancora oggi si viene tacciati di « ingenuità >i, di « sentimentalismo » o di cc romanticismo », se si persiste nel sostenere l' innocenza del bambino.

LA VERITA È SCANDALOSA

164

L'immagine del bambino innocente, che - si suppone - Freud fu il primo a mettere in discussione, è sempre stata (anche in Rousseau) un mero costrutto teorico che nessuno prendeva sul serio. Nella pratica, infatti, si partiva dal principio che bisognava scacciare il male dal bam­ bino, per « educarlo » al bene. Come prova della cattiveria dei piccoli si adduceva sempre il fatto che ai bambini piace tormentare gli animali, dimenticando di domandarsi dove essi avessero appreso quelle torture e che cosa li inducesse a compierle. Lo stesso si verifica con la sessualità. Dal momento che i bambini si sono da sempre prestati a portare su di sé i lati scissi, indesiderati del1' adulto, perché non addossargli anche i desideri sessuali, in particolar modo nel periodo puritano della fine secolo, in cui la sessualità era tabù? Ascrivere ai bambini gli aspetti di cui ci si vergogna e di cui ci si vor­ rebbe liberare, non è cosa affatto nuova e corrisponde alle strutture di potere tradizionali. Anche se i bambini possono realmente (anzi devono!) avere fantasie e desideri sessuali quali surrogati per il loro bisogno spesso insaziabile di vicinanza, affetto e tenerezza, perché mai essi dovrebbero essere inconciliabili con l innocenza del bambino? Ciò che nella società viene veramente messo sotto tabù è il diritto dell'adulto a servirsi a suo piacimento del bambino per soddisfare i propri bisogni, a impiegarlo come una valvola di sfogo per abreagire le umiliazioni da lui sofferte un tempo. Finché l'adulto non conoscerà il suo passato sarà destinato a comportarsi così e ne sarà perfino giustificato, finché il bambino sarà considerato quel!' essere crudele (Melanie Klein) e animato da desideri sessuali (Sigmund Freud) che necessita della disciplina e del controllo degli adulti. Il preteso tabù del bambino innocente risale tutt'al più, nella storia, alle visioni idilliache di Rousseau; ali' epoca del puritanesimo esso serve a mascherare la funzione di capro espiatorio del bambino. Ma l' idea dei genitori senza macchia, che dovettero, con l'educazione, « inclinare al bene» il bambino inesperto e particolarmente esposto alle tentazioni del demonio ( della vivacità e vitalità), ci riconduce a una storia vec­ chia di millenni. Con le sue prime scoperte Freud era destinato a infran­ gere questo tabù e a rimanere completamente isolato. Solo formulando la teoria delle pulsioni incominciò ad avere seguaci che ancor oggi vedono in quel secondo passo di Freud la sua conquista più alta e coraggiosa. Tuttavia la dottrina freudiana sulla sessualità infantile non ha introdotto alcun mutamento sostanziale nell'atteggiamento tradizionale nei con=

EDIPO

165

fronti del bambino; solo l'ha arricchito di un residuo dei tempi puritani. Se Freud avesse continuato a credere ai suoi pazienti, avrebbe incri­ nato, respinto e mutato quell'atteggiamento. La teoria delle pulsioni, che egli sostituì a quella della seduzione infantile, poteva soltanto pro­ lungare il sonno della società, già durato migliaia di anni, e impedire alle persone di acquisire una nuova consapevolezza.

CAPITOLO 1 3 L 'abuso sessuale compiuto sul bambino: la storia dell'Uomo dei lupi

L'opinione pubblica tende generalmente a mettere in dubbio la fre­ quenza e le conseguenze dell'abuso sessuale perpretato sul bambino da fratelli o sorelle maggiori e da persone adulte, perché la rimozione delle esperienze della prima infanzia, che un tempo fu necessaria, non con­ sente di accogliere le informazioni che a questo proposito ci perverranno in seguito, nella nostra vita. L'adulto, inoltre, che può assumersi sem­ pre il ruolo attivo, non è interessato a scoprire le radici del suo agire. Ma sono soprattutto i precetti della « pedagogia nera» che impediscono di considerare le attività dei genitori verso i loro figli altrimenti che come atti d'amore e benefici, e di accordare al bambino il diritto di ribellarsi. La descrizione del caso clinico dell'Uomo dei lupi, da Freud pubbli­ cata con il titolo Dalla storia di una nevrosi infantile ( 1 9 1 4) può dimo­ strare, a un lettore sensibilizzato al linguaggio della • pedagogia nera •, come un geniale scopritore, sotto il peso dei princìpi educativi da lui interiorizzaci, cerchi di combattere con mezzi intellettuali contro ciò che egli sce�o aveva scoperto. Anche se le implicazioni di tale scoperta erano state sepolte, non si erano tuttavia sottratte completamente allo sguardo ; dal momento che sulle pietre tombali restano scritti i nomi dei defunti, le generazioni future non potranno ignorare tutto. Infatti Freud non contesta che non sia realmente avvenuta una seduzione del­ l'Uomo dei lupi da parte della sorella, solo ne relativizza l'importanza. In questo capitolo cercherò di mostrare, valendomi dell'esempio della storia dell'Uomo dei lupi, che è possibile verificare, sulla base dei dati biografici successivi, l'importanza vitale del trauma rimosso molto pre­ cocemente, che qui - come nella maggior parte dei casi - rimane celato sotto un ricordo di copertura. Il tipo delle messe in scena dovute

L'UOMO DEI LUPI

167

alla coazione a ripetere dell'Uomo dei lupi ci dice che non furono tanto l'osservazione della scena primaria e i suoi conflitti pulsionali a farlo ammalare, quanto piuttosto un abuso molto precoce compiuto sulla sua persona, che egli non ebbe modo di esprimere per tutta la sua vita, per­ ché gli mancò il sostegno necessario. Per spiegarmi meglio consentitemi anzitutto una digressione. Ecco come Freud descrive le difficoltà che l'Uomo dei lupi aveva con il denaro : Avendo ereditato dal padre e dallo zio, era divenuto molto ricco, ci teneva palesemente a essere considerato tale e si affliggeva assai se veniva sottovalu­ tato da questo punto di vista. Tuttavia non sapeva mai quanto possedesse, quanto avesse speso e quanto gli rimanesse. Era difficile dire se fosse un avaro o un prodigo: si comportava ora in un modo ora nell'altro, e comunque mai secondo un criterio che potesse far pensare a un proposito coerente. Certi suoi tratti appariscenti di cui parlerò piu avanti lo facevano sembrare un briccone borioso e indurito che considerava la ricchezza il suo privilegio più grande e non lasciava che neppure per un istante le faccende sentimentali interferissero con questioni di interesse. Ma d'altra parte non valutava gli altri secondo il loro patrimonio e, in molte occasioni, si mostrava invece modesto, soccorre­ vole e pietoso. In effetti l'elemento denaro si sottraeva al suo controllo cosciente e significava per lui qualcosa di dive�o (. . .) Il contegno tenuto in un'altra circostanza appariva enigmatico ai suoi stessi occhi. Dopo la morte del padre, il patrimonio che costui aveva lasciato fu diviso tra il paziente e sua madre. La madre amministrava l'intero patrimonio e prov­ vedeva alle necessità finanziarie del figlio, come egli stesso riconosceva, in modo irreprensibile e con liberalità. Tuttavia, ogni colloquio tra i due in materia di denaro si concludeva regolarmente con violentissimi rimproveri da parte sua: che la madre non gli voleva bene, che cercava di economizzare a sue spese, che probabilmente avrebbe preferito vederlo morto per disporre da sola di tutta la sostanza. La madre piangendo protestava il proprio disinteresse, egli pro­ vava vergogna di come s'era comportato, e assicurava, a ragione, che non pen­ sava a nulla di quello che aveva detto; sapeva però benissimo che avrebbe ripe­ tuto la stessa scena alla successiva occasione (p. 547).

È assai evidente che un bambino soggetto molto presto ad abusi per soddisfare i bisogni dell'adulto o dei fratelli maggiori continuerà per tutta la sua vita a mantenere la sensazione di fondo di aver dovuto spendere troppo di sé stesso . Owiamente questo sentimento si esprime anche nel rapporto di questa persona con il denaro e con il suo contenuto intestinale. Sebbene questo sentimento gli comunichi un evento reale, egli non può vedervelo collegato sino a che qualcuno non l abbia aiu­ tato a vivere il contenuto emotivo di cale evento e ciò che esso ha signi-

168

LA VERITÀ È SCANDALOSA

ficato per lui. Poiché invece, al contrario, egli continua a sentirsi dire che corrisponde troppo poco alle pretese dell'educatore, che non riem­ pie il vasino al momento desiderato e nelle quantità prescritte, il senso di essere sottoposto a pretese eccessive si collegherà con i rimorsi di coscienza e sfocerà alla fine nell' intollerabile convinzione di essere « cat­ tivo », dal momento che si sente continuamente sfruttato « Senza motivo » e non dona volentieri tutto ciò che ha ed è. Un profano ddla psicoana­ lisi non durerà fatica a capire come l'abuso sessuale del bambino debba condurre a disturbi nella sua futura vita sessuale. Non così ovvio risulta invece questo nesso a un analista onodosso che per decenni si è eserci­ tato a ricondurre ogni difficoltà dei suoi pazienti ai desideri sessuali infan­ tili di questi ultimi. Le conseguenze di un abuso sessuale non si limitano tuttavia sol­ tanto alle difficoltà nella vita sessuale: ostacolano lo sviluppo del Sé e intral­ ciano la formazione di un carattere autonomo. Ciò si verifica per i motivi seguenti: l) La situazione dell'essere impotente, in balia della persona amata, sia essa la madre o il padre, produce un'assai precoce associazione tra

amore e odio.

2) Poiché, a causa della minaccia di perdita d'amore, non si può espri­ mere, e dunque neppure vivere, l'ira contro la persona amata, l'ambi­ valenza, ossia l'associazione di amore e odio rimane un'imponante carat­ teristica delle successive relazioni oggettuali. Molti di questi individui non riescono assolutamente a figurarsi di poter vivere l'amore senza tormenti e sacrifici, senza angosce, senza che si abusi di loro, senza subire umilia­ zioni e offese. 3) Poiché il fatto dell'abuso dev'essere rimosso per motivi di soprav­ vivenza, devono anche essere respinte con ogni mezzo tutte le informa­ zioni che potrebbero allentare la censura di tale rimozione, cosa che conduce infine a un impoverimento della personalità e alla perdita delle radici vitali, come avviene per esempio nella depressione. 4) La rimozione tuttavia non cancella le conseguenze del trauma, ma le rafforza addirittura. L'impossibilità di ricordare il trauma, di espri­ merlo (vale a dire di poter comunicare i sentimenti provati in quel momento a una persona che ci offra sostegno, che creda a ciò che le si racconta) pona alla necessità di esprimerlo nella coazione a ripetere. 5) La situazione esperita un tempo, ma di cui ormai si è perso il ri­ cordo, di essere in balia dell'oggetto amato e di subirne gli abusi viene per­ petuata nel ruolo passivo o in quello attivo o vicendevolmente in entrambi.

L'UOMO DEI LUPI

169

6) Tra le forme più semplici e che passano completamente inosser­ vate di perpetuazione del ruolo attivo rientra anche l'abuso perpetrato sui figli in nome dei propri bisogni che sono tanto più urgenti e incon­ trollati quanto più profondamente è stato rimosso il trauma d'un tempo. Posso ben capire che l' ultimo punto getti nell' insicurezza molti let­ tori che si domanderanno irritati: È sbagliato essere teneri e affettuosi con i propri figli? Dovrà essere proibito anche amare i nostri figli? No, non è questo il punto. In ogni amore ci sono affettuosità e tenerezze fisiche e questo non ha niente a che fare con l abuso di cui sto par­ lando. Ma i genitori che dovettero rimuovere il fatto di essere stati loro stessi oggetto di abusi e che non l'hanno mai vissuto a livello emotivo, potranno essere assai insicuri a questo riguardo, anche nei confronti dei loro figli. O reprimeranno gli spontanei moti di tenerezza, nel timore di poter sedurre in tal modo il bambino, oppure infliggeranno al bam­ bino ciò che è stato inflitto a loro, senza riuscire a rendersi conto di che cosa stiano facendo, poiché essi stessi hanno sempre dovuto tener lontani da sé quei sentimenti. Come aiutare questi genitori? Non è pro­ babilmente possibile curare lamnesia senza una terapia analitica che vada in profondità. È anche difficile che un adulto il quale da bambino era considerato come un oggetto di proprietà dei suoi genitori, riesca a capire quando abusa del suo bambino, considerandolo a sua volta di sua pro­ prietà. E tuttavia mi pare che si apra qualche speranza se il pubblico si sensibilizza su questo problema, se diviene cosciente di questi pro­ cessi . Ciò presuppone che perlomeno si possa ammettere che i genitori non erano né dèi, né angeli, ma spesso creature bisognose di aiuto ed emotivamente assai isolate, per i quali i figli erano gli unici oggetti con­ sentiti per la scarica dei loro affetti e che si sentivano inoltre legittimati nel loro agire da ideologie di vario tipo come quelle offerte loro dalla pedagogia e non da ultimo anche dalla psicoanalisi (con la sua teoria sulla sessualità infantile). Ma ritorniamo ora al nostro esempio, all'Uomo dei lupi. Il famoso paziente di Freud, dopo essere stato nel 1 9 20 dimesso ancora una volta da quest'ultimo, che lo considerava guarito, nel 1 926 sviluppò sintomi di paranoia. Si recò dunque da Freud, il quale allora non poteva più prenderlo in cura, ma che lo rinviò a una sua discepola, Ruth Mack Brunswick, la quale gli fu di notevole giovamento. Muriel Gardiner, un'altra analizzanda di Ruth Mack Brunswick, e dunque una • sorella d'analisi » dell'Uomo dei lupi, pubblicò nel 1 9 7 1 un libro, nel quale

1 70

LA VERITÀ È SCANDALOSA

accanto alle storie cliniche di Freud e della Mack Brunswick è conte­ nuta anche un'autobiografia di pugno dell'Uomo dei lupi. La Mack Brunswick riferisce ampiamente sulle difficoltà che l'Uomo dei lupi aveva col denaro e sulla sua sfiducia nei confronti di medici, dentisti e sani, che sfociò in un'idea ddirante, paranoide sulla mutilazione del suo naso operata da un dermatologo, il professor X. Ella suppone giustamente che dietro queste idee di persecuzione si celasse l'aggressività del paziente contro Freud. Poiché intende quest'ultima come espressione dei « desi­ deri di omossesualità passiva• del paziente, che sarebbero stati delusi da Freud, la terapeuta non deve assumersi il compito di proteggere il suo maestro dai rimproveri del paziente e gli può permettere di espri­ mere la sua rabbia, fatto che determina un miglioramento dello stato del paziente. Ella stessa si meraviglia di tale guarigione, perché ai suoi occhi nel paziente mancava una premessa necessaria a tale processo, e cioè la piena accettazione del suo « desiderio di castrazione» e del « desi­ derio omosessuale di subire l'amplesso del padre » . La Mack Brunswick (in Gardiner, 1 9 7 1 , p. 2 56) sostiene: « Se il paziente fosse stato capace di assumere il ruolo femminile riconoscendo in pieno la propria passi­ vità, si sarebbe risparmiato una malattia, malattia basata sui meccani­ smi di difesa che agivano contro tale ruolo. » E in un altro passo (loc. cit.) si legge: Ma l'unica via è quella di accettare la propria castrazione. Altrimenti egli dovrebbe ritornare indietro sino alla prima infanzia, fino alla scena d'amore da cui era derivato il suo morboso atteggiamento passivo nei confronti del padre. Ora capiva che tutte le sue idee di grandezza, la paura del padre, e soprattutto il senso di un danno irreparabile soffeno per colpa del padre, erano soltanto mascheramenti della propria passività. Una volta scopeni questi travestimenti, la passività inaccettabile, che aveva dovuto mascherare, divenne insoppona­ bile. Quella che sembrava una scelta tra l'accettazione o il rifiuto del ruolo femminile, in realtà una scelta non era.

Il trauma del suo maltrattamento viene indicato come resto in maniera più sensibile di un altro. Di sicuro ci saranno dei motivi, che però finora non ho esplorato a sufficienza e la cui conoscenza potrebbe essere forse facilitata dallo studio della fase prenatale. Mi pare per esempio assai probabile che le reazioni d'angoscia della madre possano accrescere lo stato di vigilanza (la sensibilità) del feto.

154

LA VERITÀ SI SVELA

zioni visibili, perlomeno solo momentaneamente. La frase citata prima si può dunque rovesciare: si potrebbe sostenere che nell'infanzia di ogni grande scrittore e poeta ci fu molta sofferenza, perché egli visse con molta maggiore intensità le offese, le umiliazioni, le angosce e i sentimenti di abbandono che sono propri di ogni infanzia. La possibilità di imma­ gazzinare le sofferenze patite, di renderle pane integrante della vita inte­ riore e delle successive fantasie, per esprimerle poi in forma trasformata, garantisce la sopravvivenza di tali sentimenti. Ma l'averli separati dalle prime persone di riferimento verso cui erano diretti, per collegarli con nuove e irreali figure della fantasia, garantisce il " sopravvivere • della nevrosi. Mi spiegherò meglio con il seguente esempio. All'età di quindici anni Guscave Flauben scrisse un racconto che inti­ tolò Qµidquid volueris. L'eroe della vicenda è il sedicenne Djalioh, nato dall'accoppiamento tra un orangotango e una schiava, progettato e rea­ lizzato a suo tempo in Brasile da un giovane scienziato freddo e ambi­ zioso, Monsieur Paul. Quest'ultimo aveva fatto crescere la creatura presso di sé, anche se non aveva potuto insegnargli il linguaggio umano, por­ tandosela dietro anche in Francia quando - dopo quindici anni - aveva fatto ritorno nella sua patria per sposare Adèle. Djalioh ama Adèle, men­ tre lei lo considera soltanto una povera e debole creatura o una scim­ mia bonacciona. Ecco l'ultima scena del racconto, com'è descritta dallo stesso Flauben quindicenne:

Proprio in uno di questi palazzi abitava Djalioh, insieme a Monsieur Paul e sua moglie e, dopo due ann i , molte cose erano passate nella sua anima e le lacrime tranenute vi avevano scavato una fossa profonda. Una mattina - era quella del giorno di cui vi parlo - egli si levò e uscì nel giardino dove un bambino di circa un anno, avviluppato in mussola, garza, ricami e nastri colorati, dormiva in una culla di legno, il cui arco era indorato dai raggi dd sole. La sua bonne non era presente; egli si guardò incorno, si fece vicino, vicinis­ simo alla culla, sollevò rapidamente la copena, poi restò per qualche tempo a contemplare quella povera creatura assopita, con le sue manine grassottelle, le forme rotondette, il collo candido, le unghiette rosee; infine la prese con entrambe le mani, la fece ruotare nell'aria sopra la sua testa e la gettò con tutte le sue forze sul prato, che rimbombò per il colpo. Il bambino lanciò un grido, e il suo cervdlo schizzò via, andando a finire, dieci passi più in là, presso una violacciocca. Djalioh dischiuse le sue livide labbra e scoppiò in una risata contratta, fredda e terribile come quella dei moni. Subito si diresse verso la casa, salì la scali­ nata, aprì la pona della sala da pranzo, la chiuse poi a chiave, prese la chiave,

FRANZ KAFKA

ZH

insieme a quella del corridoio, e giunto nel vestibolo del salone, le gettò dalla ;.n.estra, giù in strada. Infine entrò nd salone, senza far rumore, in punta di piedi, e non appena fu entrato, diede due giri di chiave alla serratura. La penom­ bra lo illuminava appena, tanto poca era la luce che le persiane, accuratamente accostate, lasciavano filtrare. Djalioh si fermò, e non sentì altro che il rumore dei fogli girati dalla mano bianca di Adèle ( . . .) Infine si avvicinò alla giovane donna e si sedette accanto a lei. Ella trasalì subito e diresse verso di lui gli occhi celesti con un certo turbamento; la sua veste da camera di mussola bianca era aperta sul davanti e le gambe, che teneva accaval­ late, disegnavano attraverso la stoffa la forma delle cosce. Intorno a lei aleggiava un profumo inebriante; i suoi guanti bianchi, gettati sul divano, insieme alla cintura, al fazzoletto e alla sciarpa, emanavano un odore così ddicato e pani­ colare che le grosse narici di Djalioh si dilatarono per aspirarne la fragranza ( . . .) u Che volete da me?•, diss'ella con spavento, non appena l'ebbe riconosciuto. Seguì un lungo silenzio; egli non rispose, fissandola con uno sguardo divo­ rante; poi, accostandosi sempre di più a lei, l'afferrò alla vita e imprimette sul suo collo un bacio bruciante, che parve pizzicare Adèle come il morso di un serpente; egli vide la sua carne arrossarsi e palpitare. • Oh! Chiamerò aiuto! - gridò con terrore - Aiuto! aiuto! Oh! Il mostro! ., aggiunse guardandolo. Djalioh non rispose; solo balbettava e si percuoteva il capo in preda al furore. Come! Non poterle dire neanche una parola! Non poter enumerare i suoi tor­ menti e i suoi dolori, e non avere da offrirle che le lacrime di un animale e i sospiri di un mostro! E poi essere respinto come un rettile! Essere odiato da colei che si ama e sentire davanti a sé l'impossibilità di dire qualcosa! Essere dannato e non poter bestemmiare. • Lasciatemi, di �azia!, Lasciatemi! Non vedete, che mi riempite di orrore e di disgusto? Chiamerò Paul e lui vi ucciderà. • Djalioh le mostrò la chiave che teneva in mano e si arrestò. La pendola batté otto colpi, e gli uccelli cinguettavano nella voliera; si udì il rumore di un carro che passava e poi si allontanava. « Dunque, uscite? Lasciatemi, in nome dd cielo! • E fece per alzarsi, ma Djalioh la trattenne per un lembo della veste, che si lacerò sotto le sue unghie. • Voglio uscire di qui, devo uscire . . . Devo vedere il mio bambino, mi farete andare a vedere il mio bambino?! • Un pensiero atroce la fece fremere in tutte le membra, ella impallidì e soggiunse: « Sì, il mio bambino! Devo vederlo . . . e subito, all'istante! • Si voltò verso di lui e si vide dinanzi un volto demoniaco che sogghignava; egli si mise a ridere così forte e così a lungo, e tutto d'un tratto, che Adèle, impietrita dall'orrore, gli cadde ai piedi, in ginocchio. Anche Djalioh s'inginocchiò, poi la prese, la fece sedere sulle sue ginocchia e con entrambe le mani le strappo le vesti, lacerò i veli che la coprivano; e quando la vide, tremante come una foglia, rimasta in camicia e con le braccia incro­ ciate sul seno nudo, piangere con le guance rosse e le labbra bluastre, si sentì sono il peso di una strana oppressione; poi prese dei fiori, li sparpag!iò sul pavimento, chiuse le tende di seta rossa e si tolse a sua volta 1 vesmi.

256

LA VERITÀ SI SVELA

Vedendolo nudo, Adèle tremò dall'orrore e volse il capo; Djalioh le si accostò e si tenne a lungo stretto contro il suo seno; ella avvertì allora sulla sua pelle, calda e serica, il contano con la fredda e villosa del mostro; egli saltò sul canapè, ne gettò a terra i cuscini e si dondolò per lunghi istanti in equilibrio sullo schie­ nale, con un movimento meccanico e regolare delle sue vertebre flessibili; lan­ ciava di tanto in tanto un grido gutturale e sorrideva tra i denti. Che poteva desiderare di più? Una donna dinanzi a sé, fiori ai suoi piedi, una luce rosata che la illuminava, il rumore di una voliera per musica e qualche tenero raggio di sole che la rischiarava! Presto interruppe il suo esercizio, si precipitò su Adèle, le affondò le grinfie nella carne e lattirò a sé; le tolse anche la camicia. Quand'essa si vide riflessa nello specchio, tutta nuda tra le braccia di Djalioh, proruppe in un grido di orrore e si mise a pregare Dio; voleva chiamare aiuto, ma non riusà a emettere alcun suono. Vedendola così, nuda e con i capelli sparsi sulle spalle, Djalioh si arrestò, immo­ bile dallo stupore, come se fosse il primo uomo a vedere una donna; per molto tempo non la toccò, le strappò i suoi biondi capelli, li mise in bocca, li morse, li baciò; poi si rotolò per terra sui fiori, tra i cuscini, sulle vesti di Adèle, con­ tento, folle, ebbro d'amore. Adèle piangeva; un rivolo di sangue colava sul suo seno d'alabastro. Infine la sua feroce brutalità non conobbe più alcun limite; saltò su di lei di colpo, le allontanò le mani, la stese per terra e ve la fece rotolare come fuori di sé. Spesso lanciava urla selvagge e allargava le braccia, ottuso e immobile, poi rantolò di voluttà, come un uomo che. . . D'un tratto avvertì le convulsioni d i Adèle sotto di lui, i suoi muscoli farsi rigidi come l'acciaio, ella esalò un grido e un sospiro lamentosi, che furono soffocati dai baci. Poi senò che era diventata fredda, i suoi occhi si chiusero, ella ruotò su sé stessa e la sua bocca si dischiuse. Dopo che l'ebbe sentita per molto tempo immobile e gelida, egli si alzò, la girò da tutti i lati, le baciò i piedi, le mani, la bocca e corse a balzi contro la parete. Più volte ripeté la sua corsa; una volta però si slanciò sbattendo la testa contro il camino di marmo, e cadde, immobile e insanguinato sul corpo di Adèle. Quando fu ritrovata, Adèle recava sul corpo tracce di unghiate ampie e pro­ fonde; Djalioh, invece, aveva il cranio orribilmente fracassato. Si credette che la giovane donna, per difendere il suo onore, l'avesse ucciso con un coltello. La notizia comparve sui giornali, e potete ben figurarvi come desse occasione di fare • Oh!• e • Ah! • per un'intera settimana. Il giorno seguente si seppellirono i morti. Il convoglio era superbo; due bare, quelle della madre e del bambino, e il tutto contornato da neri pennacchi, ceri, sacerdoti salmodianti, dalla folla che si accalcava e da uomim neri in guanti bianchi (Flaubert, 1 8 3 6 , pp. 1 1 1 - 1 3). I cultori dello stile flaubeniano, della sua stringatezza e grandezza letteraria defmiranno forse melodrammatico e adolescenziale questo passo

FRANZ KAFKA

257

di Qµidquid volueris. Il racconto è in effetti stato scritto nella pubertà, periodo in cui torna a rivivere l'infanzia. Nella pagina hanno perciò fatto irruzione, in modo ancora incontrollato e con tutta la loro intensità, sentimenti d'amore, d'odio , di dolore, di solitudine, di umiliazione e d'impotenza. Ma già in quest'opera ci sono dei passi in cui si delinea in una valida forma poetica la tragica solitudine di quel bambino sensi­ bile che ogni poeta un tempo è stato. Eccone un esempio:

Si domandava perché mai non fosse un cigno e non avesse la bellezza di que­ sto animale; quando si avvicinava a qualcuno, questi lo sfuggiva, era disprez­ zato tra gli esseri umani; perché non era bello come loro? Perché il cielo non l'aveva fatto cigno o uccello , qualcosa di lieve insomma, che canta e che si ama? O piuttosto perché non era il nulla? • Perché - disse, dando un calcio a un ciottolo con la punta del piede - erché non sono così? Gli do una pedata, lui rotola via e non soffre! » (ibiJ. , p. 1 1 0)

È possibile che Flaubert fosse consapevole del fatto che, nella scena con Adèle, stava raccontando molti elementi della sua storia personale? A uno sguardo esterno sembrerebbe proprio che egli ne fosse consape­ vole. Il padre di Gustave era un medico stimato e rispettato, mentre lui stesso nella sua infanzia passava per l' « idiota della famiglia• ed ebbe difficoltà ad apprendere a parlare, a leggere e a scrivere (vedi Sartre, 1 9 7 1 -7 2). Secondo Sartre, la distanza tra Gustave e sua madre era simile a quella esistente tra Djalioh e Adèle, suo padre era un ambizioso scien­ ziato come Monsieur Paul e, rispetto alla sorellina minore che portava lo stesso nome della madre, il piccolo Gustave non poteva manifestare apertamente la sua gelosia . . . E si potrebbero ancora aggiungere tante altre analogie con Djalioh. Ciò nonostante, o appunto per questo, io darei però una risposta negativa all'interrogativo se Flaubert fosse con­ sapevole di star descrivendo le esperienze della propria vita. Djalioh non avrebbe strappato il bambino dalla culla per gettarlo sul prato, se Flau­ bert fosse stato consapevole di non provare per sua sorella soltanto del1' amore fraterno . Anche a proposito dell'aggressione ad Adèle, il quin­ dicenne Gustave poté lasciare libero corso alle sue fantasie adolescenziali, perché egli 1lbTl sapeva di stare cercando presso Adèle l'affetto e la tene­ rezza che non aveva mai conosciuto da parte di sua madre. Sono proprio la scissione e il distacco dei sentimenti dalle persone che li hanno causati e la custodia del loro contenuto nel mondo della fantasia a rendere possibile l'opera d' arte senza che lespressione arti­ stica della sofferenza possa eliminare la nevrosi. La sofferenza però può

158

LA VERITÀ SI SVELA

venire continuamente mitigata nel processo dello scrivere, dato che l'ar­ tista, nello scrivere, dispone di un oggetto che presenta qualità immagi­ narie: è disponibile, è sempre in grado di capire l'autore, di prenderlo sul serio e di fornirgli un sostegno emotivo . A quest'oggetto immagina­ rio egli può confidare il suo dolore, ma sempre a patto che i suoi geni­ tori ne restino risparmiati, vale a dire a patto che nessuno (neppure lui stesso) possa venire a sapere a chi veramente si rivolgevano quei senti­ menti. Un esempio analogo si può trovare in Samuel Beckett. Beckett infatti sostiene, com'è noto, di aver avuto un'infanzia pro­ tetta e felice, perché i suoi genitori erano benestanti. Ma l'isolamento di un ragazzo protestante che viva nella cattolica Irlanda, in una casa di campagna appanata, con un giardino simile a un parco e non lon­ tano dal mare, l'oppressione e la minaccia degli esami di coscienza quo­ tidiani imposti dalla madre, che sperava così di risvegliare in lui una vocazione religiosa, sembra che tutto ciò non sia stato da lui associato emozionalmente alla sua infanzia. Egli può rivivere questi sentimenti nelle sue opere, senza però associarli al suo passato. Al contrario, con individui che sono costretti a ripudiare completamente i loro sentimenti per mezzo dell' intelletto, i poeti possono sperimentare ed esprimere intensi sentimenti, assai differenziati, sino a che rimanga inconscio il rappono di questi ultimi con la tragedia della loro infanzia. Molto prima di scrivere Aspettando Godot, quando aveva ventitré anni, scrisse un racconto dal titolo: Assumption ( 1 9 1 9). Il protagonista senza nome di questo racconto ha sviluppato la capacità di - letteral­ mente - « abbassare a un sussurro » le rumorose assemblee, cui egli non può sempre sottrarsi. Il vero tema dello scritto è tuttavia un altro, ossia la paura che prova l'eroe senza nome di poter un giorno, nonostante tutte le misure precauzionali, esplodere in un urlo elementare, sopran­ naturale, inumano. Questo infatti significherebbe per lui la fine; e una donna che lo perseguita inesorabilmente e che lo ama ogni notte, strappa infine da lui questo grido . Il grido si propaga con la • sua lunga e trion­ fante violenza », scuote tutta la casa e si fonde « Con il mugghiare delle onde ». « E si trovò la donna che accarezzava la sua chioma inene e scom­ posta» (cit. in Birkenhauer, 1 9 7 1 , pp. 3 0 sg.). Mi pare impensabile che una persona, la quale nella sua infanzia avesse avuto l'opponunità di esprimere in modo relativamente libero i suoi pensieri e sentimenti, possa aver scritto con una simile intensità questa storia inquietante. Ma si può anche ben capire che in casi particolar-

FRANZ KAFKA

259

mente gravi l'adulto non serbi alcun ricordo della sua infanzia, o ne abbia solo dei ricordi idealizzati, perché il bambino di allora non poteva, da solo, sopportare quella verità. Il contenuto di questa storia rispec­ chia con molta precisione il modo in cui lo stesso Beckett aveva negato (a abbassare a un sussurro•) la sofferenza dell'infanzia ed era convinto di essere il portavoce soltanto del disagio e dell'assurdo della cosiddetta « società•, che in quanto adulto era in grado di percepire. È proprio anche della tragicità di questo atteggiamento il fatto che i suoi scritti, nei quali si avverte tutto l'inferno della sua infanzia, non gliene svelino alcun ele­ mento, che egli cioè non riesca a scorgerne le radici, dato che esse sono parte di lui e poiché egli ha cercato, per tutta la vita, di mantenere un viso impassibile nei confronti della sua infanzia. Questa necessità di man­ tenere una scissione in campo emotivo dimostra con particolare chia­ rezza proprio in una persona assai sensibile e di grande talento quali pesanti sanzioni fossero state minacciate al bambino per impedirgli di « accorgersi » di qualche cosa. Poiché furono interiorizzate assai presto, esse poterono mantenere inalterata la loro efficacia per tutta la vita. Da quanto si è detto, si potrebbe dedurre che Flaubert e Beckett non avrebbero serino i racconti citati, se fossero stati pienamente coscienti di aver descritto i loro problemi personali. Taie conclusione indurrà allora qualcuno a sostenere con cinismo: « Per fortuna i grandi poeti e scrit­ tori hanno avuto tutti un'infanzia difficile, altrimenti oggi non potremmo disporre delle loro opere eccellenti! » lo penso invece che questi scrit­ tori avrebbero scritto soltanto qualcosa di diverso, che avrebbe potuto essere ugualmente incisivo, in quanto scaturito anch'esso dall'inconscio. L'inconscio è inesauribile, proprio come un mare, al quale durante lanalisi possiamo attingere forse un bicchiere della sua acqua, la parte cioè che rendeva malato !'analizzando. Un grande artista potrà attingere tanto più liberamente da questo mare, quanto meno si dovrà difendere dal veleno che si sospetta sia contenuto in quel bicchiere. Sarà libero di sperimentare vie sempre nuove, di riscoprire continuamente sé stesso, come per esempio si può osservare dalla vita e dall'opera di Pablo Picasso . In contrasto con Picasso si potrebbe forse menzionare la figura di Sal­ vador Dali, il quale è senza dubbio un grande pittore, ma, allo stesso modo di Beckett, ha avuto il suo bel daffare per tutta la vita con il veleno che minaciava di traboccare dal bicchiere. Con le mie osservazioni non intendo affatto dare un giudizio di valore, bensì esclusivamente mostrare la tragedia personale ddl'artista. Piccolo è il bicchiere in confronto al

260

LA VERITÀ SI SVELA

mare, se però immaginiamo che l' individuo abbia le dimensioni di una formica, questo bicchiere può sembrare grande come un oceano . L'opinione corrente secondo cui la nevrosi è utile all'arte può forse essere radicata in un atteggiamento di sfruttamento, che in qualche misura si può anche capire. Potremmo infatti ragionare nel modo seguente: come sarebbero le opere di Kafka, Proust e Joyce senza le loro nevrosi? Questi artisti non hanno forse descritto ciò che ci minaccia internamente, le nostre prigioni interiori, le nostre ossessioni e assurdità? Non vor­ remmo dunque che essi fossero stati sani, che avessero scritto forse come Goethe, perché altrimenti saremmo stati privati di un'esperienza signi­ ficativa e di rispecchiamenti inconsci. Nel Processo di Kafka, per esem­ pio, riviviamo i nostri incomprensibili sensi di colpa, nel Castello la nostra impotenza, nella Metamorfosi la solitudine e l'isolamento, senza che questi stati d'animo ci portino alla disperazione, perché appartengono soltanto ai personaggi creati da Kafka. Tali poeti assolvono per noi all'importante funzione di fornirci un rispecchiamento non impegnativo, cui non vor­ remmo rinunciare. Si può dire dunque che noi - in quanto posteri raccogliamo l'eredità dei genitori di quegli scrittori, approfittando, come facciamo, delle loro doti artistiche. Mi venne quest'idea per la prima volta, quando mi capitò di leggere nell'affascinante saggio di Florian Langegger ( 1 9 78) le lettere che il padre di Mozart scriveva a suo figlio. Ecco qualche « perla 11 :

Devi soprattutto pensare, con tutto il tuo animo, al bene dei tuoi genitori, altrimenti la tua anima finirà preda del diavolo ( . . .) Da te posso aspettarmi ogni cosa a partire dal tuo senso di obbligazione filiale ( . . .) intendo, purché Dio lo voglia, vivere ancora qualche anno, pagare i miei debiti . . . e poi potrai, se ne hai voglia, sbattere la testa contro i muri (pp. 86 e 92). Queste frasi e altre del genere mal si adattàflO a rientrare nel quadro del padre amorevole, che la storia ci ha tramandato . Ma esse mostrano assai chiaramente l'abuso narcisistico compiuto ai danni del bambino, che nella maggio r parte dei casi non esclude un'intensa dedizione affet­ tiva e forti incoraggiamenti (vedi Miller, 1 9 8 1 ) . Se leggiamo le « amore­ voli 11 lettere di Leopold Mozart, scelte da Langegger, non ci possiamo più stupire che il figlio sopravvivesse solo poco tempo al padre, che morisse a trentasette anni e soffrisse, prima di morire, di angosce d'av­ velenamento. E tuttavia la tragicità di questo singolo destino appare del tutto irrilevante ai posteri, se messo a confronto con l'eccezionalità delle prestazioni di Mozart .

FRANZ KAFKA

261

Sebbene il lato soggettivo del destino di un anista non abbia di solito alcuna importanza per i posteri, vorrei tuttavia, nel presente capitolo, occuparmi proprio della tragicità del tutto privata della vita dello scrit­ tore Franz Kaflca. Lo faccio perché suppongo che esistano numerosi pazienti con un destino analogo; sebbene essi abbiano potuto rivolgersi alla psicoanalisi, non riuscirono a trovarvi alcun aiuto, perché anche all' interno di tale disciplina, sulle orme di Freud, è diffusa l'opinione che l'opera d'arte sia cc un sostituto di sani soddisfacimenti pulsionali », dunque un segno di nevrosi, oppure, in un altro contesto, che esso in quanto cc prodotto della civiltà» sia il ccrisultato della sublimazione pul­ sionale». Nel caso esistesse oggi uno come Kaflca (e io non dubito che pos­ siamo trovare moltissimi individui dalla struttura analoga, dotati di un analogo destino infantile), che cosa accadrebbe se lo si sottoponesse a un'analisi condotta in base ai princìpi della teoria delle pulsioni? Possiamo trovare una possibile risposta a tale interrogativo nell' ab­ bondante letteratura incentrata sui desideri pulsionali edipici, preedi­ pici e - recentemente - anche omossessuali di Katlca. Scrive per esem­ pio Gunter Mecke ( 1 9 8 1 , p. 2 1 4): cc Il tema centrale del Processo è una messa alla prova della sessualità di Josef K . , prova che egli non supera né sul piano eterosessuale (con la signorina Biirstner), né su quello omo­ sessuale (col "pittore" Titorelli). Per punizione K. subisce alla fine le violenze anali dei due sbirri. » Spigolando qua e là in questo anicolo possiamo apprendere nei det­ tagli che cosa sarebbe accaduto al paziente Kafka, se Gunter Mecke ne avesse intrapreso l' analisi. Egli confessa infatti (p. 2 1 5):

Gli scritti di Kafka sono sempre stati per me ben più un oggetto di repulsione che non di riflessione ( . . . ) Dio solo sa perché mai (a partire dal 1 970) toccò proprio a me il compito di condurre successivamente parecchi seminari su Kafka. lo li • condussi• come un orbo tra i ciechi, con crescente disagio, alla fine con vergogna. Non mi sentivo assolutamente all'altezza del mio oggetto, ricono­ scevo che esso mi spingeva a fantasticare, per lasciarmi poi a cuocere nel mio brodo e dovetti dirmi - e lasciarmi anche dire dai miei studenti, assai schietti nelle loro opinioni - che anch'io con le mie •interpretazioni» su Kafka mi ero lasciato indurre a essere un falsario dello spirito. Inizialmente la psicoanalisi, in quanto metodo, mi aveva aiutato ben poco, anzi talvolta mi era persino stata d'ostacolo; mi aveva per esempio indotto falsa­ mente a • tuffarmi• nell'interpretazione di singoli enunciati di Kafka. Non se

LA VERITÀ SI SVELA

262

ne .cava niente. Bisogna invece perdersi a lungo nei meandri del sistema labi­ rintico di Kafka, prima di poter anche soltanto localizzare alcune vie senza uscita. A quel punto, di ceno, si può trovare per induzione la chiave che apre tutte le pone dell'opera . Mi presi a cuore il consiglio di Gardena (m/ Uistello), che odia l'agrimensore K. Lo si dovrebbe - ella dice - solo stare a sentire vera­ mente, per scoprire subito le sue gherminelle ( . . .) questo divenne il cuore del mio metodo. Non di rado il suo battito scatenava in me una specie di furia. . .

Questa furia può sopravvenire quando una persona tenta di com­ prendere qualcosa o qualcuno, che sfugge a tutti gli strumenti di com­ prensione di cui può disporre. Questa era anche la situazione di Kafka da piccolo, e se Kafka si fosse sottoposto a un'analisi avrebbe potuto senza dubbio trasmettere al suo analista questo stesso sentimento, come fanno in ceni momenti anche le sue opere, quando presentano al let­ tore una situazione assurda, dopo che quest'ultimo ritiene di aver già capito qualche cosa. Non ci si deve dunque meravigliare della furia di cui parla Mecke; potrebbero esservi riflessi, nella forma del controtrans­ fen, i sentimenti del piccolo Franz. Ma - e qui sta la grossa differenza - l'analista non è costretto a subire il suo disperato senso d'impotenza, come può capitare a un bambino o a un paziente, perché può liberarsi di quel sentimento per lui insopportabile, presentando al paziente inter­ pretazioni che non toccano la sua vera realtà. In tal modo l'analista si vendica della sua incapacità di capire, dei sentimenti di rabbia impo­ tente che ne risultano ed è quindi contento e soddisfatto di arrivare infme a tenere in pugno il paziente. Anche Mecke è trionfante di essere riu­ scito a « scoprire le gherminelle» di quel furbacchione di Franz Kafka, e lo descrive come un u avvelenatore», che cela la sua • omosessualità » con « schizofrenica scaltrezza • in un linguaggio • analogo al gergo usato dai delinquenti » . Nel suo ampio saggio Mecke ci mostra con gran pre­ cisione in quali passi del racconto egli ritenga di aver cc pescato » quel cc cacciatore di fanciulli » che era Kafka (p. 2 2 7) nel pieno delle sue fan­ tasie e attività omosessuali, e non manca di sviscerare a fondo la que­ stione. Solo l'informazione concernente l'abuso omosessuale, di cui pare sia stato vittima lo stesso Kafka, è relegata, senza documentazione, in una nota a piè di pagina, dove si dice semplicemente: cc Numerosi indizi, su cui qui dobbiamo sorvolare, alludono al fatto che Kafka, all'età di quindici anni, fu oggetto di seduzione omosessuale, o - com'è più pro­ babile - dovette subire una vera e propria violenza. • Non c'è bisogno di commenti! Nella mia attività di supervisione e nell' ascoltare le pre-

FRANZ KAFKA

263

sentazioni dei casi nei circoli analitici, ho notato innumerevoli volte che non si dava alcuna importanza a simili informazioni, perché si era total­ mente impegnati a descrivere i « desideri pulsionali» del paziente (la colpa del bambino). Ognuno ha il diritto di vedere in un'opera poetica esattamente quello che « deve» vedervi, perché anche un atteggiamento di estremo disprezzo da parte del lettore non può più nuocere all'opera in sé, che è ormai compiuta. Ma il paziente che si trovi nella stanza dell'analista può facil­ mente cadere vittima di un atteggiamento di questo tipo. Allo stesso modo in cui il professor Mecke non scelse liberamente di leggere Kafka, ma fu costretto a tenere i cc seminari su Kafka» - come scrive - è pos­ sibile, per esempio, che un analista prenda in trattamento un paziente con cui non sente di avere affinità, forse semplicemente perché, pro­ prio in quel momento, gli capita di aver bisogno di un paziente per ragioni economiche. Se capita poi che il suddetto paziente lo metta a confronto, inconsciamente, con gli aspetti assurdi della sua infanzia, il terapeuta potrà allora facilmente assumere un attege giam nto non dissimile da quello di Mecke verso Kafka e dovrà dunque ricorrere all'aiuto di complicate teorie. Se il paziente dovesse notare il senso d'impotenza provato dal terapeuta o dolersi del fatto di non essere capito, diverrebbe aggressivo perché l'analista non corrisponde ai suoi tentativi di corteggiamento omo­ sessuale. Nella mia formazione analitica mi sono spesso sentita racco­ mandare interpretazioni di questo g-enere, e mi ci è voluto molto tempo per smascherarne il carattere di meccanismo di difesa. Un candidato beneducato non potrà non domandarsi se per caso non ci possa essere qualcosa di vero . E il paziente, che nel suo analista scorge gli attributi divini propri delle sue prime persone di riferimento, non si può sot­ trarre al potere suggestivo di una simile interpretazione, specie se gli viene presentata con un tono di voce sicuro che non ammette repliche. Se l'analista fosse invece in grado di ammettere la sua occasionale dispe­ razione per l' incapacità di capire il paziente e di viverla dentro di sé, questo sentimento gli consentirebbe invece di trovare una via per acco­ starsi all'infanzia del paziente stesso . Questa è perlomeno la mia perso­ nale esperienza. L'articolo di Gunter Mecke si presta anche a meglio connotare l' at­ teggiamento psicoanalitico orientato sulla teoria delle pulsioni, che ho cercato di descrivere sopra (pp. 1 5 sgg.). Si potrebbe pensare che un simile atteggiamento appartenga definitivamente al passato e che sia piuttosto

264

LA VERITÀ SI SVELA

raro da incontrare al giorno d'oggi. Allo stesso modo vorremmo cre­ dere che la « pedagogia nera» non abbia più nulla da cercare oggigiorno; è invece vero l'opposto, e purtroppo ci si imbatte assai di frequente nel tentativo di trattare il paziente (in questo caso Franz Kafka) da scaltro impostore, alle cui manovre ci si riesce fortunatamente a sottrarre, avendo scoperto la chiave giusta. Si tratta delle logiche conseguenze della for­ mazione analitica che dà il massimo rilievo alla teoria ddle pulsioni. Non tutti gli analisti, naturalmente, lavorano in questo modo e Donald W. Winnicott, Marion Milner, Heinz Kohut, Masud Khan, William G. Niederland, Christd Schottler e molti altri hanno potuto dare un aiuto decisivo a delle persone creative, perché non si sentivano costretti a ricondurre la creatività dei loro pazienti ai conflitti pulsionali e a met­ terne sistematicamente in evidenza le • sudice fantasie» (vedi Miller, 1 9 80, pp. 28 sgg.). Ma l'atteggiamento di Mecke, un atteggiamento di disprezzo, di smascheramento e persino persecutorio, che ricorda quello della peda­ gogia nera, non costituisce affatto un'eccezione; è rappresentativo invece di una tendenza (inconscia e non intenzionale) prevalente nella psico­ analisi odierna. Il commento editoriale, che fa da cappello all'articolo di Mecke, rivela poi come i sostenitori ufficiali di questo atteggiamento lo considerino estremamente normale e persino nuovo:

Basandosi sugli epistolari di Kafka, Mecke ne legge i racconti e i romanzi come criptogrammi, come un messaggio anistico cifrato, relativo alle esperienze di chi si trova al confine tra omosessualità ed eterosessualità. Questo nuovo modo di leggere Kafka è presentato qui sull'esempio del racconto Il cacciatore Gracco. Questo « nuovo modo » di trattare Kafka non è affatto nuovo, in quanto Franz Kafka era già stato trattato così da qualcun altro. Come dimostra la Lettera al padre, il padre stesso aveva già disprezzato, deriso e a volte odiato in suo figlio ciò che egli non riusciva a capire di lui (e che era in ogni caso l'essenziale). È un destino, questo, che subisce la maggior parte dei bambini i cui genitori si sentono resi insicuri dalla vera natura dei loro figli. Se però tale trauma si ripete proprio agli inizi dell'analisi, prima cioè che si sia costituito un oggetto interno empa­ tico, esso può condurre allo scoppio di una psicosi. Allora si dice che il paziente si è imbattuto nel suo « nucleo psicotico •, e non si prende quasi mai in considerazione il fatto che nella sua analisi, vale a dire nel momento attuale, il paziente si sia trovato ancura una volta esposto al trauma reale subìto nella sua infanzia e che egli non abbia potuto reg-

FRANZ KAFKA

165

gerlo - privo com'era del sostegno del suo analista -, cadendo perciò in uno stato di confusione psicotica. Nelle pagine che seguiranno non intendo applicare a Kafka alcuna teoria bell'e pronta, ma cercare di esprimere ciò che ho appreso sulla sua infanzia, leggendo le sue opere e soprattutto le Lettere . C:Osì facendo, descrivo anche indirettamente il mio atteggiamento analitico nei con­ fronti del paziente, che è volto a scandagliare la realtà della sua prima infanzia, senza però voler risparmiare ad ogni costo i suoi genitori. La differenza tra una simile analisi dell'opera letteraria e la situazione ana­ litica sta nel fatto che in quest'ultima la sofferenza non si esprime nel­ l'opera letteraria, ma nelle associazioni libere e nella messa in scena all'in­ terno del transfert e del controtransfert. In entrambi i casi è identico, comunque, il mio atteggiamento nei confronti del bambino presente nell' adulto . Il ventinovenne Franz Kafka nota nei Diari che nella lettura pub­ blica che fece del suo racconto I.A condanna, alla fine stava per mettersi a piangere. Nella notte seguente a quell'awenimento (dal 4 al 5 dicem­ bre), scrisse a Felice Bauer:

Vedi, cara, leggo in pubblico con una gioia infernale, fa tanto bene al povero cuore urlare nelle orecchie attente e preparate degli ascoltatori ( ...) da ragazzo - qualche anno fa lo ero ancora mi piaceva sognare di trovarmi in una grande sala piena di gente (dotato però di cuore, voce e spirito un po' più potenti di quelli che ho oggi) e di leggere lintera Educatiun sentimentale senza interru­ zione per tanti giorni e notti che risultassero necessari (. . .) da farne riecheg­ giare le pareti. Ogniqualvolta ho parlato, parlare è ancora meglio che leggere in pubblico (l'ho fatto ben di rado), ho sentito questa elevazione e nemmeno oggi mi sono pentito (Kafka, 1 9 1 2- 1 7, p. 1 26). -

Sono frasi che mal si adattano all'immagine esteriore del Kafka mod� sto e schivo. Ma come possono essere comprensibili se uscite dalla penna di un uomo che in tutta la sua infanzia non ebbe nessuno cui confidare le sue pene reali e profonde. Nella sua biografia di Kafka, Max Brod scrive che la madre di Franz era una donna « tranquilla, buona, straordinariamente intelligente, anzi piena di saggezza• ( 1 9 54, p. 4). (Il cliché della • buona madre • sembra essere ancor sempre prediletto dai biografi.) Se leggiamo questo giudi­ zio e sappiamo al tempo stesso che nessun altro amico fu tanto vicino a Kafka come Max Brod, possiamo capire con ancora maggiore chia-

266

LA VERITÀ SI SVELA

rezza in quale tremenda solitudine psichica dovesse vivere Kafka. La madre di Kafka, Julie, che aveva perduto essa stessa la propria madre all'età di tre anni e Poi anche la nonna, rimase per tutta la vita la brava bambina, sottomessa nei confronti del padre e del marito . Era costante­ mente a disposizione di quest'ultimo: di giorno lo aiutava in negozio e la sera giocava a carte con lui (•da trent'anni, ossia da tutta la mia vita •, scriverà suo figlio a Felice). Franz era il primogenito, ma dopo Poco temPo essa mise al mondo altri due figli, uno dei quali sopravvisse due anni e l'altro solo sei mesi. Poi vennero ancora tre figlie, nate quando Franz aveva tra i sei e i nove anni. Tutta l'opera di Kafka, incluse le sue lettere, ci dà un'idea soltanto approssimativa del modo in cui un bambino, che viva la vita con la sua intensità e profondità, sia esposto alle esperienze della nascita e della morte, come pure ai sentimenti di abbandono, invidia, gelosia, quando non abbia nessuno che lo assista in questa esperienza. (Qualcosa di simile si verificò dd resto nell'infanzia di Holderlin, Novalis, Munch e di altri artisti.) Quel bambino, così sveglio, interessato, sensibile, ma assoluta­ mente non malato, fu lasciato disperatamente solo ad affrontare tutti quegli eventi, gli interrogativi che ne derivavano e in balia del perso­ nale domestico, avido di potere. Noi spesso diciamo, con un'alzata di spalle, che a quel tempo era del tutto normale, tra la gente ricca, affi­ dare i bambini alle governanti (come se ciò che è « normale » dovesse per forza essere un bene). In molti casi si verificò certamente che una balia o una bambinaia salvassero il bambino dalla freddezza e dalla man­ canza d'amore dei suoi genitori, ma possiamo anche immaginarci con quale sollievo le persone di servizio, oppresse esse stesse dalla situazione, ritrasmettessero ai piccoli loro affidati le umiliazioni che dovevano subire •• d;tll'alto » . Poiché è assai difficile che un bambino riesca a raccontarne qualcosa, ogni forma di crudeltà psichica cui è stato sottoPosto rimarrà un segreto custodito nel migliore dei modi. Quanto dev'essere stata grande, nell'infanzia di Kafka, la sua fame di qualcuno che lo stesse ad ascoltare, di una persona sincera, che, senza far uso di minacce e senza mostrarsi angosciata, ne ascoltasse le domande, recepisse le paure e i dubbi, partecipasse ai suoi interessi, condividesse i suoi sentimenti, il tutto senza deriderlo. Quanto struggente dev'essere stato il suo desiderio di una madre che mostrasse partecipazione e rispetto verso il suo mondo interiore. Questo rispetto, però, si può dare a un bambino soltanto se abbiamo imparato a prendere sul serio anche noi

FRANZ KAFKA

167

stessi come persone. Come avrebbe potuto la madre di Kafka appren­ dere tutto ciò? Aveva perso la madre in un'età in cui un bambino non è ancora in grado né di comprendere tale perdita, né di elaborarne il lutto. A tali condizioni, non disponendo di una figura empatica sostitu­ tiva, non le fu possibile sviluppare la sua personalità più vera, vale a dire la sua autentica capacità di amare. Essere incapaci di amare è una grande tragedia, ma non una colpa. Nella nostra società incomincia solo ora lentamente a farsi strada l' idea che l'atteggiamento materno di affettuosa dedizione e di rispetto verso il bambino non nasca da un depressivo adempimento del proprio dovere, ma dal grado di sviluppo personale e di vitalità della madre stessa. Gli uomini i quali ritengono che quest'idea sia una trovata del movi­ mento femminista, non avrebbero che da guardarsi un poco indietro, nel passato. La madre di Goethe, per esempio, scriveva al proprio figlio lettere che rivelano assai chiaramente come l'amore e l'attenzione verso il bambino nascano naturalmente da una spontaneità non repressa. In quelle lettere non c'è neppure una parola che non sia autentica, non si parla mai né di sacrifici, né di doveri. Julie Kafka invece scrive (a Brod) di essere pronta a sacrificare ogni goccia del suo sangue per la felicità di ognuno dei propri figli. E uno stile analogo si ritrova anche nella madre di Holderlin . Ma quanto sangue può avere a disposizione una madre? E a che cosa potrà servire poi al bambino quel sangue, se egli invece ha soltanto bisogno di orecchie che lo sappiano ascoltare. La disperata - e inappagata - fame di autenticità e di comprensione provata dal figlio, che del resto percorre come un filo rosso le sette­ cento pagine delle Lettere a Felice, si esprime nel sogno citato sopra: al posto della madre con «Orecchie attente e preparate » ci sono molte per­ sone venute apposta per starlo ad ascoltare, ed egli può leggere così a lungo, anche tutta la notte, sino a che essi non l abbiano capito. Ma poiché i dubbi e il potere tormentante delle prime esperienze sono altret­ tanto forti della speranza, Kafka vorrebbe leggere Flaubert. Nel caso infatti i suoi uditori, nonostante tutti i suoi sforzi, non dovessero capire ciò che egli cerca di comunicare loro, è Flaubert allora che essi non hanno capito, Flaubert che egli sentiva assai affine a sé, ma che non era tuttavia lui stesso . Esporsi in prima persona al rischio di incontrare indifferenza e incomprensione sarebbe stato ancor più doloroso e avrebbe dovuto lasciargli un penoso sentimento di nudità e vergogna. Un bam­ bino si vergogna infatti di aver cercato invano comprensione. Si sente

268

LA VERITÀ SI SVELA

come un mendicante che, dopo lunga esitazione e lotta interiore, abbia steso la mano per non venire poi neppure notato dalla gente che gli passa davanti. Anche questo fa pane della condizione umana, il fatto che cioè il bambino si vergogni dei suoi bisogni, mentre ladulto non è affatto cosciente dd proprio essere sordo e spesso non ha il minimo sospetto del dramma che si svolge vicinissimo a lui, nel!' animo del bambino, per­ lomeno sino a che la sua infanzia personale non gli resti inaccessibile sul piano emotivo. Da bambino Franz Kafka era " bravo, obbediente e di carattere tran­ quillo », secondo le parole della sua governante: Il fanciullo crebbe sotto la vigilanza della cuoca e di Marie Wemer, una gover­ nante ceca che visse per decenni nella famiglia Kafka e generalmente era detta la • signorina• (sktna): l'una severa, laltra gentile, ma timorosa di fronte al padre, al quale, quando si veniva a una spiegazione, soleva rispondere: o Ma io non dico niente, io penso soltanto. • A queste due u persone di riguardo • si aggiunse nei primi anni una bambinaia e in seguito la governante francese (com'era d'ob­ bligo nelle • migliori• famiglie di Praga). Kafka poteva vedere solo di rado i genitori. Nel negozio, in continua espansione, il padre rimaneva in permanenza facendo un gran fracasso, mentre la madre era costretta a stargli sempre vicino sia per aiutare, sia per calmare le acque di fronte ai dipendenti che il padre conside­ rava • bestie, cani e nemici pagati • . L'educazione si limitava a istruzioni date a tavola e a ordini, poiché anche la sera la madre doveva far compagnia al padre per 1 la solita panica a cane interrotta da esclamazioni, risate e alterchi. Senza dimenòcare i fischi. • Il fanciullo crebbe in quel!'• atmosfera opaca, vele­ nosa, corrosiva per i bimbi, della ben arredata camera familiare o; i secchi ordini del babbo gli riuscivano incomprensibili ed enigmatici e, infine, egli diventò • così incerto in ogni cosa, che - diceva - possedevo veramente soltanto quel che tenevo già fra le mani o in bocca, o ciò che ero almeno in procinto di raggiungere .. A quell'incertezza contribuì panicolarmente l'indirizzo dell'edu­ caz10ne paterna che Kafka descrive nella Lettera al padre: • Tu un bambino lo sai trattare solo secondo il tuo carattere, con forza, rumore e scoppi d'ira, e nel mio caso il sistema ti pareva tanto più opportuno in quanto tu volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso • (Wagenbach, 1 976, pp. 22 sg.). A un'occhiata superficiale sembrerebbe la descrizione di un ambiente « protetto •, di un' infanzia non peggiore di tante altre, dalle quali sono poi emerse personalità più o meno riuscite. Ma l'opera di Kafka rac­ conta come un bambino sensibile possa vivere situazioni che noi conti­ nuiamo ancora a descrivere come del tutto normali e che passano inos­ servate, nelle quali però i nostri figli devono vivere senza riuscire mai

FRANZ KAFKA

169

ad articolarle con le parole, come successe al piccolo Kafka. Se impa­ riamo ad avere una comprensione empatica di ciò che egli narrava, inten­ dendolo non tanto come espressione della sua • nevrastenia », dei mal di capo, della sua « costituzione» e della sua follia, bensì come descri­ zione delle condizioni della sua prima infanzia e delle reazioni relative, allora potremo divenire più sensibili rispetto a ciò che pretendiamo dai nostri figli cc qui e ora», spesso solo perché non sappiamo con quanta intensità un bambino viva le sue impressioni e che cosa accadrà di esse in seguito dentro di lui. Può trattarsi per esempio di un gioco innocuo a spese del bambino, di uno scherzo che ci si consente nei suoi con­ fronti o di una minaccia che non si era mai pensato realmente di man­ dare ad effetto, ma che si era pronunciata soltanto per ottenere un com­ portamento migliore. Il bambino, comunque, questo non può saperlo e ogni giorno forse si aspetta la punizione minacciata, la quale invece non arriva, ma continua a pendere sulla sua testa come una spada di Damocle. Sulla via che lo conduceva a scuola, Kafka era spesso testi­ mone di simili « innocue» scenette. In una lettera a Milena racconta: La nostra cuoca, una donnetta asciutta, magra, col naso a punta, le guance cave, giallognola ma solida, energica e imperiosa, mi accompagnava a scuola ogni mattina (. . .) si attraversava dunque il Ring, poi si prendeva la Teingasse, poi, sotto una specie di arco, la Fleischmarktgasse fin giù al Fleischmarkt. E ogni mattina avveniva la stessa cosa per un anno intero. Nell'uscire da casa la cuoca diceva che avrebbe riferito al maestro quanto ero stato maleducato in casa. Ora, probabilmente non ero molto maleducato, bensì ostinato, disu­ tile, malinconico, musone, e ceno se ne sarebbe potuto ricavare qualcosa di carino per il maestro. lo lo sapevo e perciò non prendevo alla leggera le minacce della cuoca. Sulle prime però pensavo che la strada per arrivare a scuola era infinitamente lunga, che molte cose vi potevano succedere (da questa appa­ rente leggerezza dei bambini si sviluppa a poco a poco, dato che le strade non sono infinitamente lunghe, quella timidezza angosciosa, quella serietà da occhi morti) e del resto, almeno finché passavamo per l'Altstadter Ring, ero molto in dubbio che la cuoca, pur essendo persona di rispetto, ma sempre persona di casa, potesse aver il coraggio di parlare col maestro, persona rispettata dal mondo. Può anche darsi che dicessi qualcosa in questo senso, ma la cuoca con quelle sue labbra sottili e spietate rispondeva brevemente che non dovevo pen­ sare così e che lei lo avrebbe detto. Nel momento d'imboccare la Fleischmarkt­ gasse - quel punto ha per me ancora una piccola importanza storica - la paura della minaccia prendeva il sopravvento. La scuola era per sé stessa uno spavento e la cuoca me lo voleva ancora aggravare. Incominciavo a pregare, ella scoteva la testa, quanto più pregavo, tanto più preziosa mi sembrava la cosa che chiedevo, tanto maggiore il pericolo, mi fermavo e imploravo per-

:no

LA VERITÀ SI SVELA

dono, ella mi trascinava avanti, io minacciavo di fargliela pagare dai miei geni­ tori, ella rideva, qui era onnipotente, io mi aggrappavo alle pone dei negozi, agli stipiti, non volevo proseguire prima che mi avesse perdonato, la tratte­ nevo per la gonna (non era facile neanche per lei), ma lei mi trascinava avanti affermando che avrebbe detto anche questo al maestro, si faceva tardi, sana­ vano le otto alla chiesa di San Giacomo, si udiva il campanello della scuola, altri ragazzi si mettevano a correre, di arrivar tardi avevo sempre la più gran paura, ora dovevamo correre anche noi e continuamente riflettevo: • Lo dirà, non lo dirà• - ebbene, non lo diceva, non lo disse mai, ma ne aveva sempre la possibilità, persino una possibilità che andava apparentemente aumentando (ieri non l'ho detto, ma oggi lo dirò certamente) e questa non la mollava mai (Kafka, 1 92�2 3 , pp. 69 3 sg.). Esistono innumerevoli interpretazioni del Processo di Kafka, perché quest'opera riflette molteplici situazioni umane. Ma la profonda cono­ scenza di queste situazioni, che rese Kafka in grado di descriverle in quel modo, si radica probabilmente nelle prime esperienze del bambino, simili a quelle delle scene descritte sopra, che avvenivano sulla via verso la scuola. Joseph K. si trova ancora a letto, la mattina, quando gli viene annunciato un processo intentato contro di lui, la cui motivazione è per lui altrettanto impenetrabile e contraddittoria dell'atteggiamento dei suoi genitori ed educatori. Quest'ultimo tuttavia non è mai del tutto ingiustificato, perché c'è sempre qualcosa che un bambino deve nascon­ dere, per cui sentirsi colpevole e di fronte a cui viene lasciato solo. Allo stesso modo in cui Josef K. cerca invano di scoprire, nel Prativa e cercava di spiegargli che la sua malinconia era probabilmente frutto cella farne, poteva anclle succedere, specialmente quando lo stato di digiuno era molto avanzato, che il digiunatore rispondesse con un impeto d'ira e, nello spavento generale, cominciasse a scuotere la grata della sua gabbia, come un animale. Ma in questi momenti l'impresario amava ricorrere a una particolare punizione. Scusava il digiunatore di fronte al pubblico radunato intorno, con­ fessava che il suo gesto poteva esser perdonato soltanto per via dell'irascibilità prodotta dalla farne e inconcepibile per gente ben pasciuta ( . . .) Questo modo di distorcere la verità, già ben noto al digiunatore, ma capace ogni volta di snervarlo di nuovo, era veramente troppo per lui. Ciò che era conseguenza della prematura cessazione del digiuno, ne veniva qui presentata come la causa! Combattere contro quell'insipienza e contro quel mondo di stolti era impossi­ bile ( . .) Quando i testimoni di simili scene provavano a ripensarci qualche anno più tardi, molte volte non riuscivano più a capacitarsi neppure loro. Infatti, nel frattempo si era verificato quel mutamento di cui si è detto; esso era avvenuto quasi di colpo; avrà pur avuto magari delle ragioni profonde; ma a chi interes­ sava ricercarle? Fatto sta che un bel giorno il digiunatore, ch'era stato tanto viziato dal pubblico, si vide messo da un canto dalla folla smaniosa di diver­ tirsi, la qu:ile ormai preferiva volgersi ad altro genere di spettacoli (. . .) A volte il digiunatore si diceva, allora, che forse tutto avrebbe potuto miglio­ rare un pochino se la sua sistemazione non fosse stata proprio così vicina alle scuderie. In quel modo la gente aveva la scelta troppo facile, senza poi parlare del fatto che le esalazioni delle stalle, l'irrequietezza degli animali durante la notte, il trasporto dei pezzi di carne cruda destinata alle belve proprio accanto a lui, e i ruggiti durante i pasti lo offendevano e deprimevano di continuo. Ma un reclamo alla direzione non osava inoltrarlo; in fin dei conti doveva pro­ prio agli animali tutta qudla gran folla di visitatori, fra i quali poteva esserci di tanto in tanto anche qualcuno destinato a lui, e chi poteva prevedere dove mai l'avrebbero cacciato se lui avesse cercato di richiamare l'attenzione sulla sua esistenza e quindi anche sul fatto che, ad essere precisi, lui rappresentava un inciampo nel percorso che conduceva alle stalle. Un inciampo assai lieve, d'altronde; un inciampo che diventava sempre più lieve. Si finì con l'abituarsi alla stranezza di voler convogliare l'artenzione del pubblico - in tempi come i nostri - su un digiunatore, e quest'abitudine segnò la sua condanna. Lui poteva anche digiunare nella maniera più perfetta, ma nulla poteva più salvarlo, la gente gli sfilava dinanzi senza accennare neanche .

186

U VERITA SI SVEU

a una sosta. Tentate pure di spiegare a qualcuno l'arte del digiuno! È perfetta­ mente inutile cercare di farla capire a chi non vi è sensibile. Le belle scritte sui cartelloni divennero sudice e illeggibili; vennero strappate via, e a nessuno venne in mente di sostituirle; la tabella con il numero dei giorni di digiuno effettuati, la quale nei primi tempi veniva rinnovata accuratamente ogni giorno, rimaneva invariata già da parecchio tempo, perché dopo le prime settimane il personale si era seccato anche di quella piccola incombenza; per cui il digiu­ natore protraeva i suoi digiuni come aveva sognato un tempo, e la cosa gli riusciva senza fatica, come aveva predetto , soltanto che nessuno contava i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore sapeva più valutare la sua fatica, e il suo cuore si rattristò. E quando per caso qualche sfaccendato si fermava lì e rideva di quella cifra non aggiornata dicendo che era un imbroglio, di fatto ciò costi­ tuiva la più insulsa menzogna che potesse essere inventata dall'indifferenza e dalla malifl ità innata, poiché non era il digiunatore a barare - lui lavorava con onesta - ma era invece il mondo a defraudarlo di quello che gli era dovuto. Comunque, passarono ancora molti giorni, e anche questo finì. Un giorno la gabbia diede nell'occhio a un sorvegliante, il quale volle sapere dagli inservienti come mai si lasciasse lì inutilizzata quella gabbia ancora in ottimo stato, con dentro quella paglia mezza fradicia; nessuno seppe spiegarglielo, finché uno, notando la tabella con la cifra, si ricordò del digiunatore. Allora si prese a fru­ gare nella paglia con delle pertiche e vi si trovò il digiunatore. • Ma continui ancora i tuoi digiuni? - domandò il sorvegliante - quando la smetterai?• • Per­ donatemi tutti! •, bisbigliò il digiunatore. Ma solo il sorvegliante che teneva l'orecchio lì, accanto alle sbarre, riuscì a udirlo. • Ma certo! - disse il sorve­ gliante portandosi un dito alla fronte per indicare al personale lo stato in cui versava il r.overino - Ti perdoniamo senz'altro! • • Ho sempre voluto che ammiraste il nùo di�uno•, disse il digiunatore. • E noi infatti lo ammiriamo•, replicò gentilmente il sorvegliante. • E invece non dovete ammirarlo •, affermò il digiunatore. • E allora non lo amnùriamo - disse il sorvegliante - ma per­ ché non dobbiamo amnùrarlo?• • Perché io sono costretto a digiunare, non posso farne a meno •, rispose il digiunatore. • Ma senti, senti! - disse il sor­ vegliante - e perché non puoi farne a meno?• • Perché - replicò il digiuna­ tore, sollevando un pochino la sua testolina e parlando con le labbra appun­ tate come per schioccare un bacio proprio :ili' orecchio del sorvegliante perché non sono riuscito a trovare un cibo che mi soddisfacesse. Se lavessi trovato, credimi!, non avrei fatto tante storie, e mi sarei rimpinzato come te e come tutti. • Furono le sue ultime parole; ma nei suoi occhi spenti brillava ancora la ferma, anche se non più fiera convinzione di protrarre il digiuno (Kafka, 1 922a, pp. 265 sg., 269 sg., 2 7 3 sg.).

Al mite e pacifico digiunatore di rado capitava di reagire con uno scoppio d'ira; ciò capitava quando gli si voleva spiegare che •la sua malin­ conia probabilmente era frutto della fame•, se si scambiava la causa con l'effetto. Ma combattere contro • questo modo di distorcere la verità • e u contro questo mondo di stolti era impossibile • .

FRANZ KAFKA

187

Possiamo farci un'idea delle concrete esperienze formative che in Kafka stavano alla base di quella disperazione derivante dal non essere stato capito, se leggiamo la lettera che sua madre scrisse a Felice Bauer il 1 6 novembre 1 9 1 2 (Kafka ha ventinove anni) . Praga, 1 6.Xl. 1 9 1 2

Stimatissima signorina, per caso ho veduto una lettera del 1 2 novembre indirizzata a mio figlio, con la sua riverita firma. Il Suo modo di scrivere mi è piaciuto tanto che ho letto fino in fondo, senza riflettere che non ne ero autorizzata. Sono sicura però che Lei mi perdona e Le garantisco che mi ci spinse soltanto il bene di mio figlio. È vero che non ho il piacere di conoscere Lei di persona, ma in Lei ho tanta fiducia, cara signorina, da confidarle le apprensioni di una madre. Molto vi contribuisce ciò che Lei scrive, quando lo prega di parlare con sua madre che certo gli vuol bene. Lei, cara signorina, ha la giusta opi­ nione di me, cosa che naturalmente è ovvia, poiché di solito ogni madre vuol bene alle sue creature, ma non saprei dirle quanto voglio bene a mio figlio, volentieri darei alcuni anni della mia vita se così potessi ottenere la sua felicità. Un altro uomo al suo posto sarebbe il più felice dei mortali, perché i suoi geni­ tori non gli hanno mai negato un desiderio. Ha studiato ciò che gli piaceva, e siccome non voleva fare l'avvocato, si è scelto la carriera dell'impiegato, dove pare si trovi benissimo perché ha l'orario ridotto e può sfruttare il pomeriggio per sé. So già da molti anni che nel suo tempo libero si dedica allo scrivere. Ma io lo credetti soltanto un passatempo. Ciò non comprometterebbe la sua salute se dormisse e mangiasse come altri giovani della sua età. Dorme e mangia invece così poco da minare la sua salute e io temo che metterà giudizio solo quando, Dio non voglia, sarà troppo tardi. Perciò La prego vivamente di farglielo notare in qualche modo e di domandargli come vive, che cosa mangia, quanti pasti fa, in genere come suddivide la giornata. Ma non deve accorgersi che io Le ho scritto, in genere non deve sapere che sono informata del suo carteggio con Lei. Se Lei potesse modificare il suo tenore di vita gliene sarei molto grata e Lei mi renderebbe molto felice. Con stima, Sua Julie Kafka (Kafka, 1 9 1 2- 1 7, pp. 6 3 sg.) Sarebbe forse stato assai più semplice per Kafka difendersi da quelle premure, se esse non fossero state così sincere e benintenzionate, com' e­ rano senza dubbio, perlomeno a livello cosciente. Ma quale bambino non vorrebbe credere alle proteste d'amore dei suoi genitori e alla loro disponibilità a sacrificarsi? Per un figlio è molto più facile opporsi alle pretese di un padre sbraitante e prenderne le distanze interiormente. Ma quando questa amorevole madre assicura che egli dovrebbe essere

288

LA VERITÀ SI SVELA

(( il più felice dei mortali, perché i suoi genitori non gli hanno mai negato un desiderio », come si può aver cuore di dirle che essa invece non si accorge evidentemente dei bisogni più essenziali del suo amato figlio? Se essa imputa la di lui infelicità alla mancanza di sonno e di cibo, come spiegarle che essa scambia le cause con gli effetti? Ancora una volta lei non capirebbe e dovrebbe distorcere ogni cosa, in modo tale che si adatti alla sua immagine del mondo . « Tentate pure di spiegare a qualcuno larte del digiuno! È perfettamente inutile cercare di farla capire a chi non vi è sensibile. » Kafka non poteva raccontare come erano andate le cose nella sua infanzia, nel rapporto con sua madre, ma poteva rap­ presentare situazioni nelle quali dava espressione alla disperazione, al senso d'impotenza e alla silenziosa lotta passiva che caratterizzarono la sua prima infanzia, in maniera tale che molti lettori vi avrebbero visto rispecchiate le proprie esperienze, forse senza esserne pienamente con­ sapevoli neppure loro . Il racconto forse più noto di Kafka è La metamorfosi. Anche se vi viene descritta una situazione del tutto impossibile e inaudita, perché un essere umano non può essere realmente trasformato in un coleot­ tero nel giro di una notte, anche il lettore più indifferente e dotato di freddezza emotiva si sente toccato e commosso nel profondo . Perché succede questo? Gregor Samsa, il protagonista del racconto, un coscien­ zioso impiegato che con il suo lavoro mantiene amorevolmente i geni­ tori e le sordle, si sveglia una mattina trasformato in un ripugnante coleot­ tero e sperimenta nei giorni successivi tutta la gamma del ribrezzo, del terrore, dell'angoscia, ddl'orrore e dd sentirsi totalmente inerme. Avverte i commoventi tentativi della madre e della sorella di superare le bar­ riere del disgusto, sente il crudele distacco dal resto del mondo, il diso­ nore che porta ai suoi parenti e a cui essi non sanno contrapporre altro che angoscia, orrore, sensi di colpa, desideri omicidi, vergogna di fronte agli altri e ipocrisia per necessità. Lui stesso si vive poi come un lattante che avverta di essere inconsciamente rifiutato: privo dell'uso della parola, minuscolo in confronto alle dimensioni della mobilia, debole, senza alcuna possibilità di esprimersi e di essere capito e preso sul serio dagli altri, completamente abbandonato a sé stesso e condannato a morte sicura a meno che non ci sia una persona che se ne prenda cura e sia capace di entrare in comunicazione con lui, cosa non facile (vedi sopra, pp. 5 1 sg.). Da lattante, probabilmente Franz Kafka si dovette sentire spesso in

FRANZ KAFKA

289

questo modo, e anche più tardi, quando era in grado di parlare e di camminare, dovette celare assai in profondità il suo vero Sé, per non correre il rischio di trovare nel suo ambiente reazioni analoghe a quelle incontrate da Gregor Samsa dopo la sua metamorfosi. Per fortuna a Kafka fu comunque possibile, perlomeno nella pubertà, trovare un pro­ fondo rapporto d'intesa con la sorella, più giovane di lui di nove anni; egli poté affidarsi alla di lei sensibilità e capacità di rispecchiamento che lo aiutarono, nel periodo così importante dell'adolescenza, a salvare le sue ricchezze spirituali nonostante il lungo periodo di privazioni. La nevrosi non poté essere evitata, ma la sua capacità di espressione arti­ stica fu salva. Se Kafka non avesse sperimentato assai presto e con grande intensità la situazione di Gregor Samsa non avrebbe potuto scrivere in maniera tale da rendere possibile a tantissimi suoi lettori di riconoscervi inconsciamente e direttamente un aspetto di fondo della condizione umana. Essi la riconoscono nella sofferenza che provano nel leggere, perché sono costretti a identificarsi con Gregor Samsa e perché avver­ tono vagamente che in questa identificazione riemerge una pane del loro passato. Con ciò non voglio affatto sostenere che ogni essere umano sia stato esposto come Kafka a un'estrema frustrazione narcisistica, per­ ché i bisogni di rispecchiamento, di affetto e comprensione sono tragi­ camente anche più intensi e violenti là dove viene recepito con la mas­ sima sofferenza anche il loro mancato soddisfacimento . Ciò spiega perché i grandi artisti devono quasi necessariamente diven­ tar nevrotici, laddove la nevrosi è un fenomeno che accompagna la loro situazione, un fenomeno collaterale della loro sensibilità e del loro destino, ma mai la causa delle loro doti creative, le quali si sono mantenute nono­ stante la nevrosi, hanno salvato loro la vita, senza però aver mai la forza di eliminare la nevrosi. lA metamorfosi descrive il sentimento esisten­ ziale di un individuo - se vogliamo - nevrotico, che si sente isolato dagli altri, non ha più un linguaggio che lo accomuni a loro, è affidato alla loro comprensione, che però non riesce mai a ottenere; è un uomo che non può mai formulare a parole la sua tragedia e deve rimanere muto, che si sente odiato e disprezzato dagli altri, non appena essi ne scorgono il vero Sé, sebbene quelle stesse persone, ancor poco tempo prima, quando egli viveva nel falso Sé, ben adattato, del figliolo bravo ed obbediente, l'avessero trattato da loro pari, senza mai domandargli chi mai egli fosse veramente. Ciò nonostante non ci si meraviglierà che ognuno preferisca piuttosto rimanere il bravo ragazzo Gregor Samsa

290

LA VERITÀ SI SVELA

e che nella paura dell'isolamento, da Kafka qui ben descritta, non oltre­ passi mai i limiti che gli sono imposti. Poiché a Kafka divenne possibile oltrepassare tali limiti nella fantasia e discendere nelle profondità del suo proprio passato, comune altresì a tutti gli esseri umani, poiché gli riuscì di identificarsi non tanto con il persecutore quanto con la vittima in quanto soggetto della sofferenza, nella sua estrema impotenza, ne poté nascere un'opera di validità universale. In essa l'inermità, l'impo­ tenza, l'impossibilità di parlare e l'isolamento di quel bambino piccolo che ognuno di noi è stato un tempo, è rappresentata in modo cale che il lettore può accettare tali sentimenti, ma deve definire la situazione come assurda e impossibile. Malgrado cale assurdità, tuttavia, è assai difficile mettere in dubbio l'autenticità di questo racconto. Quale motivo potrebbe aver ispirato la fantasia del poeta, suggeren­ dogli scene come le seguenti?

Quindi Gregor, per il momento, rimase per terra, temendo soprattutto che il padre giudicasse che una fuga su per i muri o sul soffitto costituisse una par­ ticolare perfidia. Comunque Gregor dovette confessare a sé stesso che non avrebbe potuto sopponare a lungo neppure quella corsa; infatti, mentre il padre faceva un passo, egli doveva fare un'infinità di movimenti. Già cominciava a farsi sentire la mancanza di fiato, poiché anche in passato non aveva mai avuto polmoni di cui ci si potesse fidare. Mentre annaspava così per cercare di radu­ nare tutte le proprie forze per la corsa, stentava a tenere gli occhi apeni; nel suo intontimmto non sapeva immaginare altra salvezza che il correre; e aveva già quasi dimmticato che poteva disporre anche delle pareti; anche se qui erano sbarrate da mobili accuratamente intagliati, pieni di punte e spigoli; in �uell'i­ stante qualcosa lo rasentò a volo, gettato senza violenza, cadde e rotolo. Era una mela; immediatamente seguita da una seconda; Gregor si fermò atterrito; era inutile proseguire la corsa, poiché il padre aveva deciso di bombardarlo. Si era riempito le tasche alla fruttiera sopra la credenza e adesso, senza mirare con precisione, gettava una mela dopo 1 altra. Quelle piccole mde rosse roto­ lavano come elettrizzate sul pavimento unandosi tra loro. Una di esse, lan­ ciata con F,'a energia, sfiorò la schiena di Gregor, ma scivolò via senza fargli male. Un altra, gettata subito dopo, gli penetrò letteralmente nella schiena; Gregor tentò di trascinam ancora un po', come se l'improvviso e incredibile dolore potesse svanire mutando luogo; si sentiva però come inchiodato al suolo e, nel totale sconvolgimento dei suoi sensi, si tese inarcandosi. Solo con l'ul­ timo sguardo vide ancora la po1ta della sua stanza spalancarsi e precipitarsi fuori la madre tutta discinta seguita dalla sorella urlante, poiché quest'ultima l'aveva spogliata durante lo svenimento affinché potesse respirare più agevol­ mente. Poi la madre si precipitò dal padre; nell'attraversare la stanza le gonne slacciate scivolarono a terra, una dopo l'altra; e incespicando nelle vesti ella si precipitò sul padre e lo abbracciò, si strinse a lui (mentre la vista di Gregor si offuscava) e con le mani intorno alla sua nuca lo implorò di risparmiare la vita di Gregor.

FRANZ KAFKA

291

La grave ferita che tormentò Gregor per più di un mese (la mela gli rimase conficcata ndle carni come ricordo visibile, dato che nessuno osò togliergliela via) parve aver rammentato anche al padre che Gregor, malgrado il suo attuale aspetto triste e ripugnante, era un componente della famiglia che egli non doveva trattare ostilmente, ma di fronte al quale l'unico dovere dei familiari era di reprimere il disprezzo e di pazientare, null'altro che pazientare. E sebbene Gregor avesse perduto forse per sempre la sua agilità a causa della ferita e gli ci volessero (come a un vecchio invalido) lunghi, lunghissimi minuti per attraversare la sua stanza (ad arrampicarsi in alto non c'era neanche più da pensare), gli pareva di essere completamente ricompensato da quel peggio­ ramento del suo stato perché ora veniva aperta, sempre verso sera, la porta della camera da pranzo che egli cominciava a tener d'occhio già da una fino a due ore prima, in modo che Gregor, immerso nell'oscurità della sua camera e invisibile dalla stanza da pranzo, potesse vedere tutta la famiglia riunita intorno alla tavola illuminata e ascoltarne la conversazione, in certo qual modo col consenso generale, e dunque ben diversamente da quanto capitava in passato (Kafka, 1 9 1 5, pp. 1 60 sg.).

Nella

Lettera al padre Kafka scrive:

Allora, sì, che avrei avuto bisogno in ogni circostanza d'incoraggiamento. Bastava la tua corposità a opprimermi. Ricordo, ad esempio, che spesso ci spogliavamo nella stessa cabina. lo magro, sottile, esile, tu vigoroso, grande, grosso. Già in cabina facevo compassione a me stesso, e non soltanto di fronte a te, ma di fronte a tutti perché tu eri per me la misura di tutte le cose. Quando poi si usciva fuori, in mezzo alla gente, io condotto per mano, uno scheletrino incespicante a piedi nudi sul tavolato, pauroso dell'acqua, incapace d'imitare i movimenti di nuoto che tu, con buone intenzioni, ma con una profonda ver­ gogna, non ti stancavi di mostrarmi, allora ero proprio disperato e tutte le mie peggiori esperienze in ogni campo in quel momento concordavano spavento­ samente. Era meglio quando, a volte, ti spogliavi per primo e io potevo indu­ giare nella cabina e rinviare la vergogna della mia comparsa in pubblico, finché tu non venivi a vedere e a tirarmi fuori. Ti ero grato perché non mostravi di accorgerti della mia angoscia, ed ero orgoglioso del corpo di mio padre. Del resto questa diversità sussiste fra noi ancora oggi (Kafka, l 9 l 9a, pp. 59 3 sg.). Kafka si vive qui come uno « scheletrino incespicante a piedi nudi sul tavolato, pauroso dell'acqua», parla di « profonda vergogna», di dispe­ razione e dd disonore della « comparsa in pubblico •. Ogni bambino è di corporatura assai più piccola del padre, ma è indispensabile che ognuno viva questa differenza come un'umiliazione? Per esperienza sap­ piamo che le cose non devono andare obbligatoriamente in questo modo, che la differenza di statura non necessariamente produce sentimenti di monificazione. Sappiamo che con i loro padri i bambini imparano spesso

291

LA VERITÀ SI SVELA

con molto piacere a nuotare e a scoprire la gioia del proprio corpo. Fattori determinanti per sviluppare un ceno sentimento del corpo nel bambino saranno però latteggiamento che il padre manifesterà nei con­ fronti del piccolo che gli sta accanto, il suo sguardo interiore, sia esso visibile o invisibile. Il padre di Kafka era figlio di un macellaio assai robusto - un' im­ magine, questa, che ritorna nel Digiunatore e già all'età di undici anni doveva alla mattina presto, anche d'inverno e spesso a piedi nudi, andare a portare la carne su un carrettino, nei paesi limitrofi. Bisogna supporre che Hermann Kafka, nonostante la sua grande forza fisica, non poté mai avere da bambino la sensazione di essere forte quanto bastava, per­ ché gli si assegnavano compiti troppo gravosi, per cui continuava a cozzare contro i limiti della propria forza. Suo padre, che era strari­ pante di energie, faceva avvenire penosamente la debolezza fisica ai figli che lavoravano per lui. Ma quel padre andava trattato, com'è ovvio , con rispetto e obbedienza. Che cosa capitò di quel sentirsi oggetto di disprezzo che il padre di Franz Kafka dovette allora, quand'era bam­ bino , reprimere? Esso sopravvisse in lui per trent'anni e trovò sfogo quando Hermann Kafka ebbe a sua volta un figlio. Se un tempo era stata la forza fisica ad aiutarlo a sopravvivere, egli avvertì poi ogni forma di debolezza come una minaccia, inservibile alla vita. È pur vero che per aiutare il bambino a diventare più forte basterebbe rispettarlo in quanto creatura più debole. Ma un padre, che è stato disprezzato lui stesso in quanto debole bambino, può soltanto accettare la componente di forza che ritrova in sé stesso e rifiutare in suo figlio, sin dal principio, la pane debole che lui disprezza. E ad un bambino del genere di Franz Kafka questo atteggiamento non poteva di sicuro passare inosservato. Non si può contestare il potere visionario del racconto Nella colonia penale, scritto più di vent' anni prima dell' avvento dei campi di concen­ tramento . Le situazioni che vi vengono descritte si possono anche, senza troppa difficoltà, riferire a fenomeni del nostro tempo, per esempio al nostro essere schiavi della tecnologia e alle assurdità cui esso conduce. Ma le cose che scrive Kafka si possono riferire a così tante realtà perché sono profondamente vere, e sono vere perché descrivono un'esperienza vissuta. Nel racconto in questione un viaggiatore visita una colonia penale ed è invitato ad assistere a un'esecuzione. Kafka la descrive con tanta vivezza che, se ci immaginiamo il bambino al posto del condannato, non possono non venirci in mente i metodi educativi e il trattamento -

FRANZ KAFKA

191

cui i bam bini piccoli erano sottoposti_sìno a poco tempo fa. Citerò un passo piuttosto lungo da questo racconto:

Tanto più ammirevole gli appariva perciò l'ufficiale che, costretto nella sua uniforme da parata carica di spalline e adorna di cordoni, esponeva con tanto zelo le sue argomentazioni e che oltretutto, parlando, non mancava di indu­ striarsi or qui or là, con un cacciavite, a stringer viti. In uno stato d'animo simile a quello del viaggiatore pareva trovarsi il soldato. S'era awolto attorno ai polsi la catena del condannato, con una mano si appoggiava al fucile, teneva la testa arrovesciata all'indietro e non si curava di nulla. Il viaggiatore non se ne meravigliava, poiché l'ufficiale parlava in francese, e sicuramente né il sol­ dato, né il condannato capivano il francese. D'altra parte ciò faceva apparire ancora più strano il fatto che il condannato si sforzasse ugualmente di star die­ tro alle spiegazioni dell'ufficiale. Con una sorta di assonnata cocciutaggine con­ tinuava a volgere gli sguardi nella direzione che l'ufficiale stava indicando in quel momento; e quando ciuest'ultimo venne interrotto da una domanda del viaggiatore, come l'ufficiale, guardò anche lui il viaggiatore. • Sì, l'erpice - disse l'ufficiale -, il nome gli si confa. Gli aculei sono sistemati proprio come un erpice, e tutto l'insieme si muove come un erpice, anche se si fissa unicamente su un punto e in un modo molto più appropriato. Del resto, lo vedrà immediatamente. Qui sul letto si fa distendere il condannato ... Come Lei noterà, per prima cosa voglio descrivere lapparecchio e poi lo farò entrare io stesso in azione, di modo che Lei potrà seguirlo meglio. Per di più, una ruota dentata nell'incisore è stata affilata eccessivamente; per cui stride assai quando è in moto e quasi non si riesce a intendersi; purtroppo qui è molto difficile l?rocurarsi i mezzi di ricambio . . . Dunque, come Le dicevo, questo è il letto. E interamente rivestito di uno strato di ovatta; ne saprà più tardi la ragione. Su quest'ovatta il condannato viene disteso bocconi e naturalmente nudo; ecco qui vari tipi di cinghie per fissargli le mani, i piedi oppure il collo. Qui alla testata del letto, dove come Le dicevo l'uomo vien fatto distendere con la faccia in giù, si trova questo piccolo tampone di feltro, facilmente rego­ labile, in modo da penetrare esattamente nella bocca dell'uomo. Ha lo scopo di impedire che egli urli o si morda la lingua. Naturalmente l'uomo è costretto a lasciar entrare il feltro, altrimenti la cinghia gli spezza il collo. • • Questa è l'ovatta?», domandò il viaggiatore piegandosi in avanti. • Sì, certamente, disse l'ufficiale sorridendo - la palpi pure. • E prese la mano del viaggiatore facendola scorrere sul letto. • È un' ovatta ottenuta con una preparazione spe­ ciale, per questo è così difficile riconoscerla a prima vista; ma dovrò ancora parlare dello scopo a cui serve. • Il viaggiatore era già un po' awinto dal!' appa­ recchio; con la mano sugli occhi per ripararsi dal sole guardava la macchina dall'alto in basso. Era un congegno imponente. Il letto e l'incisore erano della medesima dimensione e assomigliavano a cassoni nerastri. L'incisore era fis­ sato a circa due metri di altezza dal letto; entrambi erano fermati agli angoli da quattro sbarre di ottone che, sotto la luce del sole, sembravano mandare dei bagliori. In mezzo ai cassoni, appeso a un nastro d'acciaio, era sospeso l'erpice.

294

LA VERITÀ SI S VELA

L'ufficiale non aveva quasi badato alla precedente indifferenza del viaggiatore, ma era sensibile ali' attuale accendersi dd suo interesse; per questo frapponeva delle pause tra una spiegazione e laltra, in modo da lasciare al viaggiatore il tempo di osservare indisturbato. Il condannato imitava il viaggiatore; non potendo ponare la mano agli occhi, ammiccava verso l'alto con gli occhi scopeni. • Allora l'uomo sta disteso qui•, disse il viaggiatore, che si adagiò nella seggiola incrociando le gambe. • Sì, - replicò l'ufficiale, calandosi il berretto un po' più indietro e passandosi la mano sulla faccia accaldata, - e adesso stia a senùre! Sia il letto che l'inci­ sore hanno una batteria dettrica autonoma; il letto ne abbisogna per il proprio funzionamento, l'incisore per quello dell'erpice. Appena l'uomo vi viene fis­ sato con le cinghie, il letto entra in movimento. Tremola compiendo piccoli e velocissimi spostamenti sia in senso ondulatorio che sussultorio. Lei avrà visto apparecchi dd genere nelle case di cura; solo che tutti i movimenti di questo nostro letto sono stati calcolati minuziosamente; essi infatti devono essere in perfetta sincronia con i movimenti dell'erpice. L'esecuzione effettiva della sen­ tenza resta però affidata ali' erpice stesso. • u E in che consiSte la sentenza? •, domandò il viaggiatore. • Lo ignora anche Lei?•, domandò l'ufficiale sorpreso, mordendosi le labbra. • Voglio scusarmi per le mie spiegazioni forse un po' disordinate: Le faccio infinite scuse. Prima le spiegazioni di solito venivano date dal comandante; quello nuovo però si è sottratto a questo compito onorifico; e il fatto che non abbia neppure espo­ sto a un ospite tanto esimio. . . • Il visitatore fece con ambo le mani il cenno di voler come respingere l'omaggio, ma l'ufficiale ripeté la formulazione, • . . . a un ospite tanto esimio la forma in cui si esegue la sentenza è anch'essa un'in­ novazione che. . . •, e aveva già pronta sulle labbra un'imprecazione, ma riuscì a dominarsi, e si limitò a dire: • Non ne sono stato avvenito, non ne ho colpa. D'altro canto, sono proprio io la persona più qualificata ad esporre la varietà delle nostre sentenze, poiché ho qui - e s1 batté sul taschino ddl'uniforme i relativi disegni autografi del nostro precedente comandante. • • I disegni autografi dd comandante stesso? •, domandò il viaggiatore. • Ma allora egli assommava nella sua persona tutte le attività? Era soldato, giudice, costrut­ tore, chimico, disegnatore? • • Sissignore! •, disse l'ufficiale annuendo con il capo, con lo sguardo fisso e preoc­ cupato. Poi scrutò le proprie mani; non gli parvero sufficientemente pulite per toccare i disegni; perciò tornò al secchio e se le rilavò. Poi estrasse dalla tasca una piccola borsa di cuoio affermando: • La nostra sentenza non è severa. Al condannato viene inciso sul corpo con l'erpice il precetto da lui violato. A questo qui per esempio - e l'ufficiale indicò l'uomo - verrà inciso sul corpo: Onora il tuo superiore! • Il viaggiatore gettò all'uomo un'occhiata fugace; quando l'ufficiale aveva accen­ nato a lui egli teneva la testa china e sembrava tendere tutte le forze del suo udito come a voler afferrare qualcosa. Ma i movimenti delle sue labbra tumide e contratte rivelavano chiaramente che non riusciva a intendere nulla. Il viag­ giatore avrebbe voluto domandare chissà quante cose, ma in presenza dell'uomo si limitò a porre la domanda: • E lui conosce la sentenza che lo riguarda? • • No •,

FRANZ KAFKA

29$

rispose l'ufficiale cercando subito di proseguire nelle sue spiegazioni; ma il viag­ giatore l'interruppe: • Lui non conosce la sentenz.a che lo riguarda?• • No•, ripeté l'ufficiale, tacendo poi per un istante, come se si attendesse dal viaggiatore una più precisa giustificazione di quella domanda; quindi continuò: • Sarebbe inu­ tile fargliela conoscere, visto che dovrà farne conoscenza sulla propria carne. • Il viaggiatore era quasi rassegnato a tacere, allorché si accorse che il condan­ nato volgeva lo sguardo verso di lui; sembrava domandargli se se la sentiva di approvare la procedura or ora illustratagli. Per questo il viaggiatore, che si era appoggiato allo schienale, si chinò nuovamente in avanti e domandò ancora: 1 Ma almeno saprà di essere stato condannato, no?• • No, neppure que­ sto •, disse l'ufficiale sorridendo al viaggiatore, come se a questo punto si atten­ desse da lui qualche rivelazione fuori del comune. • No, - disse il viaggiatore passandosi la mano sulla fronte - e dunque quest'uomo ignora ancora adesso come sia stata valutata la sua difesa?• • Non gli è stata lasciata alcuna possibilità di difendersi•, ribatté l'ufficiale guardando altrove, come parlando fra sé e sé, e come se non intendesse confondere il viaggiatore raccontandogli quelle cose per lui tanto ovvie (Kafka, 1 9 1 9b, pp. 1 8 1-8 5).

È difficile trovare una rappresentazione più vivida della credulità, dell' ingenuità e della fiducia di un bambino, che si trovi in balia di un insano sistema educativo. Il viaggiatore è forse il testimone che il bam­ bino sognava di poter avere rispetto alle ingiustizie che doveva subire. Ma è caratteristico del destino di Kafka che questa persona non sia di aiuto alcuno e che, invece di intervenire, abbandoni l'altro al suo destino. Poiché non era un ossessivo, è probabile che Hermann Kafka non somministrasse regolari punizioni corporali ai suoi figli, ma ciò non signi­ fica che Kafka non abbia subìto maltrattamenti. Egli racconta che una notte suo padre, poiché lui aveva chiesto dell'acqua, lo tolse dal letto (dormiva nella stessa camera dei suoi genitori), lo portò sul ballatoio e quivi lo fece rimanere davanti alla porta chiusa (vedi la Latera al padre, p. 592). Sulla base delle opere di Kafka possiamo dunque immaginarci con una certa precisione altre scene analoghe, sempre che non ci sen­ tiamo costretti a proteggere il padre dai nostri stessi rimproveri. Allo stesso modo del condannato nella C,o/onia penale, quando veniva punito o battuto, Kafka non sapeva di certo in che cosa consistesse la sua colpa. Il padre Hermann era un uomo impulsivo, spesso sovraffaticato, impa­ ziente e segnato da un'infanzia difficile; perché non avrebbe potuto pro­ curarsi un qualche sollievo grazie al figlio, dal momento che ne aveva il diritto? Anche la nostra legislazione odierna non riconosce al bam­ bino alcun diritto alla legittima difesa, ma all'adulto il diritto invece di esercitare castighi corporali. Se capitasse che per strada un tizio, in

196

LA VERITÀ SI SVELA

preda a un improvviso attacco di rabbia - forse dovuto al fatto che si ricorda di aver dimenticato qualcosa d'importante, o alle panicolari anghe­ rie subite dal suo capufficio quel giorno - aggredisse un'altra persona e si mettesse a picchiarla, arriverebbe subito la polizia per arrestarlo, anche se l'aggredito avesse avuto la forza di difendersi. Se egli invece fa la stessa cosa con il suo bambino, che nel suo amore e nella sua iner­ mità è totalmente indifeso, questo comportamento viene subito quali­ ficato come « educativo » ed espressamente tollerato o incentivato dalle autorità. Perché mai ai tempi in cui Kafka era bambino le cose sareb­ bero dovute andare diversamente? Qualunque sia la tortura descritta nella Colonia penale, possiamo credere che l'autore vi rappresenti, anche senza esserne consapevole, la situazione di venir picchiati dalle persone amate per trasgressioni che non si sono commesse o per motivi che non s1 nescono a capire. Il racconto breve LA condanna si riferisce a un periodo successivo della vita di Kafka. Il suo protagonista Georg vuole comunicare per lettera a un amico il proprio fidanzamento. Nasce un contrasto tra lui e il padre malato, in seguito al quale il figlio si suicida gettandosi giù da un ponte. Così facendo esegue da solo la condanna pronunciata dal padre. Nel padre della Condanna non scorgo solamente l'introietto, ma che il padre reale che Franz Kafka si trovò ad avere nella primissima infan­ zia, il quale, come molti altri padri con alle spalle una storia simile, ha bisogno del sacrificio di suo figlio. Così Georg, invece di fidanzarsi, andò incontro alla morte, allo stesso modo in cui Kafka imboccò la strada dell'affezione polmonare, che - come egli scrisse più volte - « lo salvò dal fidanzamento » . I l ruolo che l a madre dovette avere in quella tragedia è svelato dalla sua reazione alla Lettera al padre. Il figlio le inviò quello scritto con la preghiera di inoltrarlo al padre, poiché egli non osava, evidentemente, farlo di persona. La madre si rifiutò invece di fare da mediatrice e rimandò la lettera al figlio con la preghiera, a sua volta, di risparmiare il padre e di non mandargliela. Così il robusto e non troppo sensibile Hermann Kafka fu risparmiato, mentre suo figlio si ammalò di tubercolosi. Ma già il semplice fatto di scrivere, di articolare i suoi rimproveri, consentì a Franz di compiere un passo assai importante nella sua vita: rinunciò alla tormentosa ricerca, in Felice, di una madre oblativa e poté perciò aprirsi a una nuova e più matura relazione con Milena, in cui egli al contrario che con Felice - riuscì a vivere l'esperienza di un vero dia-

FRANZ KAFKA

197

logo. Il racconto lA cOTldanna venne quindi scritto ancora agli inizi della sua relazione con Felice, e forse il suicidio di Georg esprime già il pre­ sagio inconscio che quella relazione non avrebbe avuto futuro. lA con­ danna dimostra anche che Kafka aveva intuito la funzione dei figli come vittime dei loro padri, come si può osservare da molti episodi della sto­ ria umana. Nella Condanna il padre di Georg esclama:

• Mettiti pure a braccetto della tua fidanzata e vienimi incontro a quel modo! Te la spazzerò via io dal fianco, vedrai in che modo! (. . .) • Adesso sai che cosa esiste al mondo fuori di te, prima conoscevi soltanto te! Eri certamente un ragazzo innocente, ma più certamente ancora eri un essere diabolico! . . . E per questo sappi che io ora ti condanno a morire annegato! • Georg si sentì come cacciato dalla stanza, e gli rimase nel!'orecchio il gran botto che il padre subito dopo aveva dato cadendo sul letto. Per le scale, i cui gradini percorse come scivolando di corsa lungo un piano inclinato, urtò contro la sua donna di servizio che stava salendo per le pulizie mattutine dell'apparta­ mento. • Oh Gesù •, gridò costei coprendosi la faccia con il grembiule, ma lui era già distante. Balzò fuori del portone, si sentì spinto verso lacqua, oltre i binari. E già si aggrappava al parapetto, come un affamato al cibo. Lo sca­ valcò senza fatica, da quell'ottimo ginnasta che, vanto dei genitori, e�li era stato in gioventù. Si tenne ancora sospeso un po' , con le mani che gli s1 inde­ bolivano sempre più, distinse tra le sbarre del parapetto un omnibus che avrebbe facilmente coperto il rumore del suo tonfo, gridò a mezza voce: • Cari geni­ tori, eppure vi ho sempre amati •, e si lasciò cader giù. Il traffico sul ponte, in quel momento, scorreva proprio senza sosta (Kafka, I 9 1 3b, pp. 90-92). Nel fragore della strada (nella rumorosa casa dei genitori di Kafka) nessuno si accorge del sacrificio dd figlio. Se si può dire che i racconti di Kafka si possono leggere come se fossero dei sogni, ciò vale in panicolare per Ilfochista (divenuto poi il primo capitolo del romanw America), nel quale si esprime in varie imma­ gini e sfaccettature la forma di impotenza che caratterizzò l'infanzia di Kafka. Dev'essere stata l'esperienza fondamentale della sua esistenza il fatto che ciò che egli esprimeva non trovasse mai comprensione, eco e risposta. Le risposte che egli riceveva non avevano riferimento alcuno con le sue richieste. Erano per lui estranee e assurde. Ilfochista incomincia con l'arrivo in America del sedicenne Karl Ross­ mann. Appena sceso dalla nave, Karl si accorge di aver dimenticato a bordo l'ombrello. Chiede allora a un casuale compagno di viaggio di aspettare per un momento accanto alla sua valigia (la medesima valigia che, durante le due settimane di viaggio, egli aveva custodito come la pupilla dei suoi occhi, sempre con il sospetto che qualcuno gliela potesse

298

LA VERITÀ SI SVELA

rubare) e ritorna sulla nave per cercare l'ombrello. Chi non ha mai sognato una situazione del genere? Talora ci accade, mentre ancora stiamo sognando, di meravigliarci di aver lasciato sbadatamente in giro la cosa più imponante che po�edevamo e che la nostra vigilanza, anzi addirit­ tura la sfiducia nel pro�imo, si sia trasformata ad un tratto in un'inge­ nua noncuranza e condiscendenza. Tale fenomeno si può spiegare con il fatto che i sogni esprimono aspetti della personalità risalenti a periodi diversi dallà nostra vita e che anche il nostro componamento nel sogno può essere alternativamente infantile, adulto o addirittura tutte e due le cose. Tale interpretazione è senza dubbio corretta, ma vi si potrebbe anche aggiungere il fatto che nel nostro componamento onirico si riflette un aspetto indicativo della nostra situazione di un tempo, ossia che la cura e l' interesse per il bambino che eravamo un tempo non fosse con­ tinuativa e affidabile, ma oscillasse tra gli estremi di un controllo oppres­ sivo e di una totale indifferenza. Karl Ro�mann ritorna dunque sulla nave per cercare il suo ombrello e pensa come un bambino piccolo: « Adesso dovrebbe essere facilissimo trovarlo, adesso che la nave è vuota. » Ma a questo punto incomincia la confusione tipica dei sogni, perché anche una nave vuota è impratica­ bile per uno che non la conosca a fondo, e alla fine Karl è lieto di aver trovato nel fochista una persona con cui potersi confidare. Ben presto però si rivela vero il contrario: egli non vi troverà alcun aiuto, ma dovrà invece cercare - proprio lui - di consolare e di aiutare il fochista. Que­ st' ultimo si lamenta per le ingiustizie che deve subire sulla nave, per come viene angariato dal suo superiore Schubal; dice di essere in pro­ cinto di fare le valigie perché vuole lasciare la nave. Valigia e ombrello sono ormai dimenticati, e Karl Rossmann impegna tutto sé stesso, la sua intelligenza, i suoi sentimenti, il suo futuro, anzi quasi la sua vita stessa, per rendere comprensibile e dimostrare al capitano e agli uomini più imponanti dell'equipaggio quanto il fochista deve soffrire sotto Schubal. Al contrario del viaggiatore della Colonia penale, che era solo spettatore, Karl assume la funzione di avvocato difensore. Con altrettanto fervore anche il piccolo Franz avrebbe voluto esporre davanti a un tribunale le sofferenze che la madre subiva sotto la tirannia del padre (Schubal). Il fochista, tuttavia, rappresenta soprattutto alcuni aspetti del suo Sé. A questo punto si verifica una situazione �ai frequente in Kafka: Karl parla con chiarezza, trova argomenti logici, è gentile e cerca di andare incontro agli altri, ma i suoi sforzi non hanno alcun esito. Non

FRANZ KAFKA

299

riesce a farsi capire, e per colmo di sventura il fochista, che rappresenta il lato infantile, non ancora scaltrito e intelligente di Kafka, si compona in maniera inopponuna danneggiandosi con le sue stesse mani, e se la prende con tutti, ivi compreso Karl Rossmann , che invece lo vuole aiu­ tare. Quest'ultimo tenta di ricondurre alla ragione e di riponare alla calma il povero fochista; un' impresa assai improba . . . sino a che l'episo­ dio giunge a una conclusione inattesa. Vien fuori che in quella compa­ gnia si trova uno zio di Karl, senatore e uomo assai stimato, il quale d'un tratto abbraccia suo nipote e lo vuole ponare a casa con sé. Così andava a finire senza dubbio ogni tentativo compiuto da Kafka per esprimersi nella sua famiglia: qualunque cosa il bambino cercasse di dire non veniva presa sul serio, ma naufragava nella benevola indiffe­ renza familiare e nei buoni consigli, come quelli di cui sono piene le lettere della madre. Karl cerca di fungere da mediatore tra l'inetto e infantile fochista da un lato, e il mondo degli adulti dall'altro, identifi­ candosi però con entrambi. Vuole intercedere per le richieste del fochi­ sta, ma avvene anche lui quanto la goffaggine di quest'ultimo dia ai nervi agli altri:

Tutto ciò, però, esonava alla fretta, alla chiarezza, alla descrizione estrema­ mente precisa; e invece, che faceva il fochista? Lui parlava, parlava, grondando sudore; già da un pezzo, con le mani che gli tremavano, lui non era ormai più capace di tenere le cane che aveva posato sul davanzale; spuntando da ogni dove gli si affollavano alla mente le lamentele a proposito di Schubal, ognuna delle quali a suo avviso sarebbe stata sufficiente da sola ad annientare comple­ tamente quello Schubal, e tuttavia quello che lui riusciva a esporre al capitano non era altro che un pietoso guazzabuglio di tutte quante le lamentele messe insieme ( . . .) Karl disse perciò al fochista: • Lei deve parlare in modo più semplice e più chiaro; il signor capitano non potrà farsi un giudizio sui fatti esposti se Lei li presenta in questo modo. Non vuole mica che lui conosca il cognome o addirittura il nome di battesimo di tutti i macchinisti e gli inservienti, per cui appena Lei ne cita uno dovrebbe individuarlo ali'istante? Esponga con ordine i Suoi reclami, dica prima quello principale e poi via via gli altri, così forse non sarà neppure più necessario anche solo menzionarne la maggior pane. A me Lei ha sempre raccontato tutto con tanta chiarezza! • (Kafka, l 9 l 3a, pp. 1 06 sg.) Ed ora Kafka passa dalla prospettiva del benevolo mediatore alla situa­ zione disperata del bambino piccolo:

È vero che il fochista s'interruppe immediatamente appena udì la voce a lui già nota, ma non riusciva quasi più a riconoscere Karl, perché aveva la vista

JOO

LA VERITÀ SI SVELA

offuscata dalle lacrime versate per lonore virile ferito, per le tremende rievo­ cazioni e per l'estremo pericolo che si profilava. D'altro canto come avrebbe potuto a quel punto (Karl se ne rese conto in silenzio dinanzi ali' uomo che adesso taceva) come avrebbe potuto, a quel punto, egli mutare improvvisa­ mente il proprio modo di esporre, dato che gti pareva, per un verso, di aver già detto quanto c'era da dire senza aver ottenuto il minimo riconoscimento, e per l'altro gli sembrava di non aver detto ancora nulla e di non poter preten­ dere che i signori riascoltassero tutto da capo? E proprio in un momento come quello ecco farsi avanti Karl, il suo unico sostenitore, per dargli dei buoni con­ sigli, ma invece gli prova che tutto, tutto, è perduto (pp. 107 sg.). Ora Karl cerca, come un fratello maggiore o una benevola sorella maggiore, di aiutare il bambino piccolo:

Per paura che ci scappasse qualche sberla, avrebbe voluto tenergli ferme le mani, che si agitavano nell'aria, o meglio ancora avrebbe voluto spingerlo in un ango­ lino per mormorargli qualche parola sommessa e tranquillizzante che nessun altro avrebbe dovuto udire. Ma il fochista aveva perso completamente le staffe. Adesso Karl cominciò già persino a trovare una sorta di consolazione al pen­ siero che il fochista, con la forza della disperazione, potesse dominare tutti e sette gli uomini lì presenti (pp. 108 sg.). Si verifica invece il contrario, ed ora le singole parti della personalità giungono a unificarsi in una scena in cui si rivela la prospettiva biogra­ fica del sognatore:

Karl, dal canto suo, si sentiva invece così lucido e così forte come forse non era mai stato a casa sua. Se i suoi genitori avessero potuto vederlo mentre difen­ deva una causa giusta in un paese straniero e di fronte a persone importanti! E anche se non aveva ancora fatto trionfare quella causa, si stava però prepa­ rando anima e corpo per l'ultimo assalto. Si sarebbero ricreduti su di lui? L'avreb­ bero fatto sedere in mezzo a loro ed elogiato? L'avrebbero guardato una volta, anche solo una volta, in quei suoi occhi che erano loro così devoti? Erano inter­ rogativi incerti, e il momento scelto per formularli era quanto mai inoppor­ tuno (pp. 1 10 sg.). La scena di commiato dal fochista, la tenerezza e il pianto dirotto mostrano che Karl lascia in questo personaggio il suo vero Sé e vive il lutto di questo fatto perché lo zio prenderà con sé solo il Karl capace, ben adattato e scaltrito. Separandosi dal fochista egli soggiunge:

" Devi saperti difendere, invece; dire sì e no, altrimenti la gente non si farà mai un'idea della verità. Devi promettermi che mi darai retta, perché io stessso - e lo temo con molto fondamento - non potrò più esserti di aiuto. • E adesso Karl piangeva mentre baciava la mano del fochista, poi prese quella mano

FRANZ KAFKA

JOI

screpolata e quasi inene e se la premette contro la guancia, come un tesoro al quale si debba rinunciare . . . A questo punto però suo zio, il senatore, era già al suo fianco e lo trascinava via, sia pure con una leggera costrizione (p. 1 2 1). La disperazione per non potersi esprimere nella sua famiglia pervade tutto ciò che Kafka ha scritto . Numerose chiavi di lettura delle opere si trovano nelle lettere, per esempio nella seguente indirizzata a Max Brod ( 1 5- 1 7 dicembre 1 9 1 0):

Quando a sinistra cessano i rumori della prima colazione, cominciano a destra quelli del mezzogiorno, pone si aprono dappenutto come se si sfondassero le pareti. Rimane r.erò soprattutto il centro di tutti i malanni. Non riesco a scrivere ( . . .) Tutto il mio corpo mi mette in guardia da ogni parola, ogni parola prima di lasciarsi scrivere da me si guarda in giro da tutte le pani; i periodi mi si spezzano, per così dire, ne vedo l'interno, e allora devo smettere subito (Kafka, 1 902-24, p. 98). E in un'altra lettera ( 1 9 luglio 1 909) dice: « Sento quella pressione nello stomaco, come se lo stomaco fosse un uomo e stes.se per pian­ gere » (ibid. , p. 8 1 ). A vent'anni, il 9 novembre 1 90 3 , Franz Kafka scrive a Oskar Pollak:

. . . Abbandonati siamo come bambini smarriti nel bosco. Quando mi stai davanti e mi guardi, che ne sai tu dei dolori che sono dentro di me, e che ne so io dei tuoi? E se mi gettassi a terra davanti a te e pianges.si e parlassi, che ne sapre­ sti di me più che dell'inferno quando qualcuno ti viene a dire che tutto è fuoco e spaventevole? Soltanto i;ier questo noi uomini dovremmo stare l'uno davanti all'altro, rispettosi, pensosi, pieni d'amore come davanti all'ingresso dell'inferno (p. 1 8). Nella stessa lettera leggiamo poi: « Dio non vuole che io scriva, io invece, io devo ( . . .) Tante sono dentro di me le energie legate a un piolo ( . . . ) Ma con lamenti non si scrollano macine appese al collo, specie quando ci sono care » (pp. 1 9 sg.). Kafka cercava di vivere con le macine appese al collo, che lui aveva care. Ogni bambino ama i suoi genitori, quali che siano i sentimenti che in seguito si sono sovrapposti a questo attaccamento . Ma quest'amore non deve necessariamente essere così pesante da sopportare, perlomeno se i genitori sono in grado di tolle­ rare anche altri sentimenti accanto ad esso. In tal caso non rimarreb­ bero di certo tante cc energie legate a un piolo » . Perché ho dedicato tanta attenzione a Kafka e perché cito tanti passi dalle sue opere e dalle lettere in un libro in cui egli compare soltanto

JO:l

LA VERITÀ SI SVELA

come esempio di un possibile paziente? Invece di Kafka, avrei potuto parlare di Heinrich von Kleist, Friedrich Holderlin, James Joyce, Mar­ cel Proust, Roben Walser e di altri ancora. È stato forse soltanto un caso che mi sia immersa proprio nell'opera di Kafka e abbia dovuto combattere contro la tentazione di scrivere un libro intero su di lui. Lo stesso succede anche con i pazienti: all'inizio è un fatto casuale che venga questo o quel paziente proprio da noi, e che noi lo prendiamo in analisi, ma in seguito egli viene ad acquistare per noi un'imponanza unica e il rappono cessa di essere casuale. Perché dunque non un libro su Kafka, ma semplicemente un capitolo in questo libro? Vediamone alcuni motivi. 1 ) Le discussioni sul narcisismo e sul carattere narcisistico paiono da qualche tempo essere al centro dell'interesse sia degli analisti, sia anche dei sociologi, anzi perfino dei teologi. Come ho già scritto nel Dramma del bambino dotato, con il termine « narcisismo » si possono intendere molte cose, ma in ogni significato è presente una svalutazione del cosiddetto « carattere narcisistico ». In questo atteggiamento più o meno morali­ stico scorgo l' identificazione inconscia con l'educatore, che combatte nel bambino ciò che pone problemi a lui stesso. Spesso infatti i critici del « carattere narcisistico » sono individui che soffrono di disturbi psi­ chici, proteggono sé stessi con il componamento grandioso e l'educa­ zione che impaniscono agli altri. Ho lasciato dunque parlare Kafka dalle sue lettere e opere, per consentire al lettore di identificarsi con il bam­ bino presente nel poeta e ali' analista principiante di identificarsi con il bambino che esiste nel paziente Kafka. È senza dubbio possibile defi­ nire « narcisistica » la relazione di Kafka con Felice, ma si riuscirà a capire pienamente il testo delle sue lettere alla fidanzata solo se, durante la lettura, si presterà orecchio anche alla voce del bambino abbandonato dalla madre; col che diverrà palese anche l'inadeguatezza di concetti pura­ mente descrittivi o addirittura valutativi (come quello, per esempio , di « narcisismo patologico »). 2) Allo stesso modo in cui in precedenza (Miller, 1 9 80) mi sono immersa nello studio della vita di Adolf Hitler, per comprendere - a panire dalla sua infanzia - la distruttività della sua esistenza, ho cer­ cato le radici biografiche di un disturoo narcisistico della personalità nella vita di Franz Kafka, un personaggio che è già noto - o tramite le sue opere potrebbe diventarlo ai molti che hanno problemi simili a lui. In entrambi i casi mi sono interessata sia al panicolare che al problema -

FRANZ KAFKA

JOJ

in generale, com'è proprio del mio metodo che pone in primo piano la soggettività. Non considero quindi il singolo individuo come un sem­ plice caso clinico per illustrare una teoria (come quella dd complesso edipico, dell'angoscia di castrazione, del narcisismo ecc.), bensì la fonte di conoscenza, la via di accesso alla comprensione, grazie alla quale si possono capire anche altri uomini. Come fa il pittore inglese contem­ poraneo Francis Bacon con certi suoi ritratti, ho cercato di abbozzare un quadro in cui lo spettatore si può vedere rispecchiato, ma non è costretto a farlo, se non vuole. 3) Ci sono molti individui che per tutta la vita saranno sempre sul punto di morir di fame, nonostante le loro madri si fossero, a suo tempo, preoccupate coscienziosamente del loro nutrimento, del loro sonno e della loro buona salute. Pare che neppure gli specialisti si siano ancora resi conto che, malgrado ciò, a quei bambini è mancato, in molti casi, qualcosa di essenziale. Nella nostra società non è ancora diventato di pubblico dominio il fatto che il bambino tragga il suo nutrimento spiri­ tuale dalla comprensione e dal rispetto delle sue prime persone di riferi­ mento e che esso non possa venir sostituito dall'educazione e dalla mani­ polazione. Al contrario, nei più recenti sviluppi della psicologia, della psicoterapia e psichiatria, si evidenzia la tendenza a privilegiare le • tec­ niche strategiche• e a un disconoscimento collettivo dell'importanza dei traumi infantili; alla verga punitiva di un tempo si sostituiscono così gli psicofarmaci attuali. Quando un paziente cerca di parlare, in clinica, del suo passato, riceve in cambio delle pastiglie, affinché non « si agiti troppo » . In apparenza vien fatto tutto il possibile per risparmiare il paziente ma, in fondo, a essere risparmiati a spese della verità sono i temuti genitori intemalizzati dei terapeuti. 4) Le Lettere a Felice delineano l'evoluzione di una relazione che può senza dubbio venir definita « narcisistica» . In una relazione di questo genere l'altro non è visto come centro della sua attività, ma in funzione dei nostri propri bisogni (vedi Miller, 1 9 7 9). È questo un atteggiamento che si può osservare ovunque e che spesso rimane immutato per tutta la vita. Nelle Lettere a Felice mi colpì in particolar modo la capacità del­ l'autore di evolversi e cambiare passando dall'angoscioso attaccamento infantile al doloroso distacco e al lavoro del lutto . Queste lettere evi­ denziano, a mio giudizio, una lunga lotta interiore tra la paura di per­ dere la persona più amata, rimanendo però fedeli a sé stessi, e l' ango­ scia panica di perdere il proprio Sé, rinnegando sé stessi. Il bambino

104

LA VERITÀ SI SVELA

non è in grado di venire a capo di un simile conflitto e deve necessaria­ mente adattarsi, perché da solo non potrebbe sopravvivere. All'inizio della sua corrispondenz.a con Felice parrebbe che il destino infantile di Kafka si dovesse ripetere. Ma il seguito della corrispondenz.a mostra come in questo rappono, diversamente da quanto era avvenuto un tempo con la madre, egli riesca gradualmente a percepire e a esprimere sempre più chiaramente i propri bisogni; sebbene corra continuamente il rischio di subordinare agli ideali borghesi di felicità familiare la necessità di scri­ vere e di vivere in solitudine, egli però non soccombe mai a tale rischio. Alla fine è consapevole di non poter rinunciare alla scrittura seni.a rinun­ ciare anche a sé stesso, e se ne assume tutte le conseguenze. Ma poiché nel mondo da cui egli proviene non è possibile prendere una simile riso­ luzione senza sensi di colpa, egli la sconterà poi con la malattia. 5) La comprensione che Kafka ebbe dei motivi della sua tuberco­ losi può anche rivelarsi di aiuto nel nostro ·sforzo di capire le malattie psicosomatiche e il loro sfondo sociale. Non è forse vero che, in quanto terapeuti, rendiamo difficile ai pazienti vivere la loro propria vita, se abbiamo delle idee preconcette riguardo alla natura della felicità, della salute psichica, dell' impegno sociale, dell' altruismo, della bontà di una persona? In base a questi metri convenzionali ancora molto in voga, Kafka era un nevrotico o un eccentrico che, in una psicoterapia, si sarebbe cercato di " socializzare » al fine di rendergli possibile il matrimonio con Felice. Con il mio capitolo su Kafka ho voluto, tra l'altro, rendere palese l'assurdità di un simile tentativo. Fu proprio l'impossibilità da pane di Kafka di aderire alle norme dell'esistenza borghese (non in tutti i casi però), a salvare le sue doti visionarie di rara coerenz.a e profondità. Anche se in futuro nessuno dovesse più prestarvi attenzione, la forza profetica della Colonia pena.le rimarrà sempre inalterata. E questo non perché qual­ che divinità gliel'avesse suggerita (Kafka era religioso solo nella fantasia di Max Brod), ma perché Kafka aveva preso sul serio le proprie espe­ rienze traendone le estreme conseguenze. I sostenitori delle strategie manipolatorie nella psicoterapia potranno obiettare a questo punto che non tutti hanno il talento di un Kafka e che le persone ricercano aiuto, per la maggior pane, perché deside­ rano avere migliori rapponi con il prossimo, presentano dei sintomi, vorrebbero migliorare le loro relazioni oggettuali, non riescono a spo­ sarsi e così via. A ciò replicherei col dire che questo era proprio ciò di cui Kafka si lamentava. Sarebbe comunque disastroso non percepire

FRANZ KAFKA

105

lo struggente desiderio del vero Sé che è presente in queste lamentele (vedi Miller, 1 9 7 9). Come possiamo scoprire le doti creative di una per­ sona, se con le nostre misure strategiche portiamo a compimento nella psicoterapia l'assassinio già avviato dall'educazione? Chi potrà mai appu­ rare in seguito quanti talenti siano stati soffocati sul nascere in questa maniera? Non a tutti è stato dato, nella pubertà, il dono di una sorella come Ottla. Ed esistono innumerevoli persone che in tutta la loro vita non hanno mai incontrato nessuno che fosse in grado di entrare vera­ mente in relazione con loro senza volerle educare, ovverossia cambiare. E come potrebbero queste persone scoprire i loro talenti? Per ritornare a Franz Kafka, anche senza analisi egli riuscì, negli ultimi anni della sua vita, a convivere con una donna che non corrispondeva più al moddlo della madre e con la quale egli poté condividere pensieri e sentimenti, come aveva fatto con la sorella Ottla. Questa possibilità gli sarebbe rimasta preclusa se egli si fosse sottoposto a una terapia che lo avesse reso in grado di sposare Felice. È certo possibile che chi è avvezzo a interpretare ogni cosa sul piano della coscienza accoglierà con disapprovazione le mie considerazioni su Kafka; esse però non mirano a convincere dell'esistenza dell' inconscio . Potrei immaginare, comunque, che anche tra gli analisti ci sia chi vuole contrapporre alla mia descrizione delle sofferenze kafkiane, tipiche di un certo gruppo di individui, i soliti argomenti, ossia che " non esiste una madre perfetta, capace di capire sempre il bambino •, che inoltre le madri sono sottoposte a troppe sollecitazioni, che io minimizzo il disagio della donna e, scrivendo così tanto sulla sofferenza dei bambini, le addosso sensi di colpa ancora maggiori. Dato che nei circoli analitici mi è capitato più volte di imbattermi in tali argomentazioni, ritengo perciò che valga la pena esaminarle in maniera più approfondita. Che significato può avere esercitare una critica alla • società-, se noi, in quanto analisti, non comunichiamo agli altri le nostre conoscenze sulle modalità con cui la crudeltà si sviluppa e si trasmette nella società o se rifiutiamo tout cuurt di ammetterle per non creare sensi di colpa a nessuno? Nella mia attività analitica ho spesso notato che i sensi di colpa para­ dossali, instillaci assai presto in noi, ci rendono incapaci di soorgere nessi d'importanza vitale e sbarrano la via d'accesso ai sentimenti, e dunque anche a quello del lutto. Lea Fleischmann ( 1 9 80) ha espresso con parti­ colare chiarezza ciò che intendo dire:

106

LA VERITÀ SI SVELA

Denunciare gli ebrei era un dovere - nessun rimorso -, trasportarli via ammassati sui treni era previsto - nessun rimorso -, l'eccidio in massa dei bambini era legale - nessun rimorso. Arrivare invece in ritardo di cinque minuti al lavoro era un'infrazione delle norme - si provava rimorso -, non assicurare un servizio efficiente alla rampa andava contro il senso del dovere - si provava rimorso -, immettere il gas nelle camere era un ordine - nessun rimorso .-. prolung�e la pausa per il pranzo non era consentito - dunque di nuovo s1 provava nmorso. Senza aver conoscenze di psicologia del profondo, ma solo in base ali'esperienz.a quotidiana della sua attività di maestra, l'autrice di que­ ste frasi pare aver scoperto in modo puramente intuitivo lo stretto nesso esistente tra l'estrema indifferenza alle sofferenze umane e lobbedienza alle norme, instillata in assai tenera età. La mia esperienza dell' incon­ scio può confermare pienamente questa scoperta. Da quando ho capito in che modo si siano formati individui della struttura di un Adolf Eich­ mann (vedi Milier, 1 980), quali tormenti avrebbero dovuto patire a disob­ bedire anche a un solo ordine, mi astengo dal giudicare. D' altr