I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari 8810221176, 9788810221174

San Girolamo sosteneva che cercare di spiegare Giobbe è come tentare di tenere in mano un'anguilla: più ci si affan

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I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari
 8810221176, 9788810221174

Table of contents :
Abbreviazioni
Introduzione
1. Giobbe, piccola murena o cattedrale? (Donatella Scaiola)
2. Il filo della contesa giuridica nel libro di Giobbe (Cristina Termini)
3. Creazione e antropologia (Donatella Scaiola)
4. Jhwh risponde dalla tempesta (Gb 38-41) (Cristina Termini)
5. La nascita della pazienza di Giobbe I (Gilberto Marconi)
6. La nascita della pazienza di Giobbe II (Anna Maria Scarpa)
7. Interpretazioni di Giobbe nella patristica delle origini (Maria Grazia Bianco)
8. Gregorio Magno davanti a Giobbe. Fondamenti di un'antropologia medioevale (Alessandra Bartolomei Romagnoli)
9. L'expositio super Iob ad litteram di Tommaso d'Aquino (Marco Bartoli)
10. Giobbe e Lutero e il problema del male radicale (Gabriella Cotta)
11. Ma Giobbe era solo paziente? L'iconografia paleocristiana di Giobbe (Angela Gallottini)
12. Giobbe «Rursus resurrecturus cum quibus Dominus Resurgit». Note sull'iconografia della Discesa agli inferi e sulla figura di Giobbe in area veneta tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo (Marco Gallo)
13. Samuel Beckett. Giobbe alle soglie della postmodernità (Claudio Siniscalchi)
14. La figura di Giobbe in alcune pagine di letteratura moderna (Lia Fava Guzzetta)
15. Il Giobbe di Riccardo Bacchelli (Rossana Maria Caira)
16. Joseph Roth: Il Giobbe di Zuchnow (Virginia Verrienti)
17. La psicologia economica dello Universal Bogey (Gian Cesare Romagnoli)
18. Giobbe nella teologia contemporanea (Francesco Gaiffi)
19. Giobbe e il parlare di Dio (Giuseppe Marco Salvati)
Indice

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¥p v)». Al posto del suffisso di terza persona singolare, si presuppone un suffisso di terza plurale che mo­ difica notevolmente il senso della frase. A questo si aggiunge la con­ fusione testuale inerente al v. 3 con il tiqqun sopherim (la correzione degli scribi indica che non si deve leggere «avevano dichiarato colpe­ vole Giobbe», ma «avevano dichiarato colpevole Dio») che si riflette nell’alternanza tra àoE(3ri-e{)ae[3fi46 in diversi manoscritti greci («avevano stabilito che egli era empio/pio»).

44 Cf. Gb 22,5-9: il peso di questa accusa diretta, portata da Elifaz contro Giobbe, è ben evidenziato da H offman (Blemished Perfection, 153-155). 45 Quest’ultima lezione è attestata da A*, V e Sc: cf. l’apparato critico della LXX di Gòttingen, ad locum.

Il filo della contesa giuridica nel libro di Giobbe

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Se la LXX conserva il testo migliore al v. I47 e nel v. 3 si accetta la correzione degli scribi,48 si ottiene un senso accettabile: gli amici sono stati ridotti al silenzio da Giobbe e hanno dovuto riconoscere la legittimità della sua posizione. In caso contrario, la rinuncia degli amici, accompagnata dalla convinzione della colpevolezza di Giobbe, sarebbe strana: nella strategia del rib, infatti, chi tace si di­ chiara perdente ed è costretto a convalidare la posizione della parte avversa. 49 III. LA RISPOSTA DI DIO Messi fuori gioco gli amici, Dio stesso interviene nel rib per re­ plicare a Giobbe. In un certo senso è la domanda ostinata di Giobbe a provocare la teofania; a questo punto, un silenzio da parte di Dio confermerebbe le tesi del protagonista: il mondo è in preda al caos, i malvagi prosperano e Dio mostra un’onnipotenza arrogante. Se que­ sta è la posta in gioco, Dio non può tacere, ma la sua risposta è sor­ prendente e inattesa. Dio pronuncia due lunghi discorsi (Gb 38,140,2; 40,6^11,26) in cui elenca una serie di fenomeni cosmici e me­ teorologici, menziona animali selvatici e mostri come Behemot e Leviatan. Il Signore non accusa Giobbe, ma elude il problema della sof­ ferenza del giusto, aggirando le domande poste dal protagonista. Un unico riferimento al principio di retribuzione in chiave antifrastica è presente in 40,7-14.50 Con ironia sferzante, Dio squalifica l’imposta­

47 Così, ad esempio, D horme , Job, 430; J. V ella , La giustizia forense di Dio, Paideia, Brescia 1964, 92 nota 73; la forma attuale del testo ebraico è difesa, invece, da G ordis , Book ofjob, 366; M.H. P o pe , Job. Introduction, Translation, and Notes, New York, 1974, 240-241 e L. A lonso S chòkel - J.L. S icre , Giobbe. Commento teologico e letterario, Boria, Roma 1985, 517. 48 Per una presentazione delle diverse proposte di traduzione avanzate a pro­ posito del v. 3 rimando ad A lonso S chòkel - SlCRE, Giobbe, 517. L’alternanza pre­ sente nel testo greco, invece, viene spiegata da D horme (Job, 431) interpretando eùoe(3fj come correzione di àoepf| finalizzata a eliminare il contrasto con il v. 1; po­ trebbe, però, essere intesa anche come un rovesciamento teso ad evitare l’espres­ sione blasfema («avevano stabilito che egli era pio» al posto di «avevano dichiarato colpevole Dio»). 49 B ovati, Ristabilire, 315-316. 50 Una penetrante analisi dell’ironia cui è sottoposta la struttura diairetica del rib è offerta da B orgonovo , La notte, 319-325.

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Capitolo 2

zione del rib e, distorcendo il tema innico, invita Giobbe ad assidersi sul trono divino e a schiacciare senza pietà i malvagi; così poi sarà il Signore a lodare Giobbe. 7Cingiti i fianchi come un prode: 10 ti interrogherò e tu mi istruirai. 8Oseresti proprio infrangere il mio diritto e darmi torto per avere ragione? 9Se (we ,im) davvero hai un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua, 10ornati pure di magnificenza e di sublimità (gà ,ón wàgobah) e di splendore e onore (ufhòd webadar) rivestiti; 11diffondi i furori della tua collera, e mira ogni superbo e abbassalo, umira ogni superbo e umilialo, e schiaccia (h‫״‬ddk) i malvagi ove si trovano; 13nascondili nella polvere tutti insieme, rinchiudi le loro facce nella tomba; 14così (w'gam) anch’io ti loderò, perché la tua destra ti ha dato successo. Il v. 7 riprende G b 38,3 in modo da collegare i due discorsi di­ vini: l’immagine del guerriero che si prepara alla lotta si sovrappone a quella giudiziaria dell’ordalia documentata in un testo di Nuzi.51 I due registri sono intercambiabili52 perché dominati dalla stessa lo­ gica antitetica: in campo bellico e forense la vittoria dell’uno implica la sconfitta dell’altro. La tensione continua nel rapporto tra s l (inter­ rogare: v. 7b) e l’hifil di y d ^ (istruire: v. 7b) e assume un tono sarca­ stico nel v. 8, l’unica domanda retorica che appare nel testo. Il verbo prr «infrangere», «violare»54 ha come oggetto mispàti, il cui signifi­

51 La tavoletta è presentata da C.H. G ordon , «Belt-Wrestling in thè Bible World», in HUCA 23.1(1950-1951), 131-136 e sostenuta da N.H. T ur-S in a i, The Book ofjob. A New Commentary, Jerusalem 1967,442-443.521; contro tale lettura si è pronunciato H.L. G insberg , «Interpreting Ugaritic Texts», in JAOS 70(1950), 156-160; P erdue (Wisdom in Revolt, 204) pensa all’analogia con un combattimento contro le forze caotiche. 52 Anche nel nostro linguaggio il dibattimento forense è un agone. 53 Questa coppia di verbi richiama la dinamica dialogica del rib. 54 Spesso questo verbo è accompagnato da b'rit come oggetto: Gen 17,14; Lv

II filo della contesa giuridica nel libro di Giobbe

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cato oscilla fra «diritto» e «ordinamento», «governo».55 Propendo per il primo senso, senza escludere il secondo,56 in modo da cogliere la correlazione tra 27,2 e 40,8:5' Dio qui ribalta su Giobbe l’accusa di pervertire il diritto, ma alla formula di giuramento affermativa di 27,2 sostituisce la forma interrogativa. Anche l’incrocio tra rs (hifil = dichiarare colpevole: v. 8b)58 e sdq (qal = essere giusto: v. 8b)59 riassume in maniera limpida l’impostazione della controversia se­ guita da Giobbe, coprendola di caustica ironia. Se Giobbe considera Dio come un antagonista violento, Dio tratta Giobbe da rivale in modo caricaturale per svuotare il rìb e orientare l’interlocutore verso un’altra tipologia di rapporto tra Dio e uomo. La protasi introdotta da u fim in 40,9a è seguita da un’apodosi costituita da una serie di otto imperativi (w. 10-13) che si conclu­ dono con un ufgam di sfumatura consecutiva (v. 14a). Tra il v. 9 e il v. 14 si nota un’inclusione chiastica: il «braccio» e la « voce» ritor­ nano nella «lode» e nella «destra», il «come Dio» e «come lui» (v. 9) richiamano il pronome ,“n i (io: v. 14a). La sequenza rapida e incal­ zante degli imperativi descrive una traiettoria discendente. I quattro sostantivi «magnificenza», «sublimità», «splendore», «onore»60 (v. 26,15.44; Dt 31,16.20; Gdc 2,1; IRe 15,19; Is 24,5; 33,8; Ger 11,10; 14,21; 31,32; 33,20; Ez 16,59; 17,15.16.18; 44,7; Zc 11,10.14; 2Cr 16,3. 55 II primo significato è sostenuto con forza da H uberman S cholnik , «The Meaning», 521-529; sulla stessa linea si colloca Perdue che traduce «justice» (Wisdom in Revolt,219) perché nel contesto immediatamente successivo si parla dell’a­ zione di punizione rivolta contro i malvagi. 56 Come afferma giustamente J. Lévèque, Dio rivendica il suo diritto di agire nella storia («L’argument de la création dans le livre de Job», in La création dans l’orient ancien, par L. D erousseaux, Paris 1987, 293-294); di legittimità del modo di operare di JHW H parla V. K ubina, Die Gottesreden im Buche Hiob, Freiburg 1979, 81; anche Alonso Schòkel e Sicre traducono mispàt con «diritto» (Giobbe, 644). 57 Cf. 34,5-6, dove la battuta di Giobbe di 27,2 è ripresa all’interno del di­ scorso di Eliu: sono gli unici quattro casi in cui il sostantivo appare con il suffisso di prima persona singolare nel libro di Giobbe. Gb 9,20; 10,2; 15,6; 32,3; 34,17.29. 59 14 ricorrenze al qal nel libro di Giobbe, la più alta concentrazione nella Bibbia ebraica. Cf. il commento al passo di A lonso Schòkel - S icre , Giobbe, 647649. 60 Ga’ón significa «maestà», «altezza», «magnificenza»; in Es 15,7 e Is 2,10.19 questo termine è applicato a Dio che abbatte i nemici di Israele o si leva per scuo­ tere la terra. In Gb 37,4 il termine è in bocca a Eliu che descrive la potenza della voce di Dio; in 38,11 è detto del mare. Anche gdbah vuol dire «sublimità», «al­

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Capitolo 2

10) sono tipica prerogativa dell’eccelsa potenza teofanica di Dio: di essi Giobbe deve rivestirsi per iniziare la sua opera di eliminazione dei malvagi. L’incursione è disegnata dai verbi: il riversarsi dell’ira,61 lo sguardo fulminante, l’abbattimento, lo sprofondamento nella pol­ vere.62 L’anadiplosi enfatica tra l l b e 12a con la rima finale segna il centro; il verbo pws (diffondere) di I la sta l’inizio del movimento di discesa, mentre con l’imperativo di hdkM in 13b si esprime l’azione di annientamento; in 13 ab la «polvere» e la «tomba» indicano il punto più basso del percorso.64 L ’intervento eroico di Giobbe è si­ glato dalla dossologia distorta:65 sarà Dio stesso a cantare le lodi di Giobbe. Così, con la forza antifrastica dell’ironia, si delegittima la ri­ gida logica retributiva invocata da Giobbe perché non corrisponde

tezza», «maestà»: in Gb 11,8 Zofar usa questo sostantivo per indicare la perfezione di Dio più alta dei cieli (simile è il caso di Gb 22,12). Tra gà’òn e gòbah si nota asso­ nanza, consonanza ed endiadi. Hód («maestà», «dignità», «splendore») ricorre in Gb 37,22 all’interno del discorso di Eliu per indicare la tremenda maestà di Dio; in 39,20 si riferisce al nitrito del cavallo. Hadàr indica l’«onore»: insieme a hód com­ pare in Sai 104,1 con lo stesso verbo di Gb 40,10 applicato a Dio; in Sai 111,3 è le­ gato alle opere del Signore (cf. anche Sai 145,5). Gb 40,10 è l’unica ricorrenza di ba­ dar in Giobbe, ma il termine è tipico dei salmi di lode (Sai 29,4; 111,3; 145,5 ecc.). Hód e badar sono legati da un rapporto di consonanza ed endiadi. La costruzione complessiva di 40,10 è articolata in modo chiastico con i quattro sostantivi al centro e i verbi agli estremi. L’accumulo dei quattro sostantivi corrisponde a una certa im­ magine di Dio riflessa nei discorsi degli amici e qui viene applicato a Giobbe che è chiamato a svolgere in modo deformato 0 ruolo di Dio. Si tratta di una conferma della fondamentale coincidenza che intercorre tra Giobbe e gli amici in merito a una teologia retribuzionistica basata sull’onnipotenza di Dio. 61 II sostantivo 'ebrót, che ho reso con «furori», evoca l’immagine dell’inonda­ zione che si riversa e accentua quindi la potenza della traiettoria discendente: si veda B o rgonovo , La notte, 321 nota 308. 'ebràh è termine tecnico nell’AT per indicare l’ira punitiva di Dio: cf. K ubina, Cottesreden, 84. 62 Nel v. 13 segnalo la paronomasia che sussiste tra la prima e l’ultima parola: tomnèm e battàmùn. 65 La forma Hdok in 40,12b è un hapax: per una discussione delle varie propo­ ste interpretative rimando a B orgonovo , La notte, 321-322 nota 310, ma mi disco­ sto dalla soluzione da lui proposta e leggo b“dòk come imperativo da hdk nel senso di «demolire», «prostrare» (cf. G ordis , Book of Job, 474). 64 G. F uchs (Mythos und Hiobdichtung. Aufnabme und Undeutung altorientalischer Vorstellungen, Stuttgart 1993, 222) intravede nel v. 13 un’eco del mito dell’incatenamento dei malvagi (o delle forze caotiche) nel mondo sotterraneo. 65 II tema è sviluppato da D. Scaiola nel contributo intitolato «Creazione e antropologia», alle pp. 46-50 del presente volume.

Il filo della contesa giuridica nel libro di Giobbe

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ai criteri in base a cui Dio tesse e mantiene con libertà e fantasia l’or­ dine cosmico.66 IV. L ’EPILO G O Un libro come quello di Giobbe non può che concludersi in forma paradossale. I discorsi di Dio, che sembrano a prima vista im­ pertinenti, convincono Giobbe che resta in silenzio (Gb 40,4) e mo­ stra un chiaro indizio di cambiamento: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato»67 (Gb 42,5-6). Il Signore da parte sua scagiona pienamente Giobbe e dichiara colpevoli gli amici in quanto non hanno detto «cose rette come il mio servo Giobbe» (42,7); inoltre, restituisce a Giobbe i possedi­ menti perduti e anzi li raddoppia. V.

CONCLUSIONI APERTE

AI termine di questo percorso, si può valutare la funzione della trama giuridica di cui è intessuto il libro di Giobbe a livello di lin­ guaggio e di categorie procedurali.

66 P e r S.E. B alentine («“W h a t A re H u m a n Beings, T h a t Y ou M ake So M uch o f T h e m ? ”. D ivine D isclosure from th è W hirlw ind: “L o o k at B eh em o t”», in God in thè Fray. FS W. Brueggemann, by T. L inafelt - T .K . B eal , M inneapolis 1998, 268) G b 40,7-14 sa re b b e un richiam o alla responsabilità regale ch e h a l’uom o d i fro n te al cosm o p e r essere veram ente a im m agine di D io. P referisco leggere il testo seg u en d o l’in tu izio ne di B o r g o n o v o (La notte, 319-325) p erc h é B alentine n o n coglie a suffi­ cienza il to n o ironico del b rano: la nuova im m agine di D io e, sp ecularm ente, d el­ l ’u o m o consiste p ro p rio nella negazione di un p o te re regale verticale e assoluto che elim ina il m ale. C om e v edrem o m eglio nel prossim o c o n trib u to , D io n o n d o m in a così la com pagine cosm ica, né l’uom o è chiam ato a esercitare un a tale regalità.

67 Seguo nella traduzione di questo versetto la proposta ben argomentata dal punto di vista filologico di B orgonovo , La notte, 83-84 nota 157. Per una rassegna delle possibili soluzioni interpretative, accompagnate da un’analisi della struttura, della sintassi e della semantica di Gb 42,1-6, segnalo il contributo di E.J. V an

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Capitolo 2 - Innanzitutto, il principio di retribuzione è invalidato come spiegazione univoca della sofferenza: esiste una sofferenza che non è legata causalmente alla punizione divina, anzi ogni interpretazione eticizzante del dolore deve essere guardata con sospetto. - Viene smentita anche la logica esclusiva che è tipica del rib, ovvero il principio di squalifica incrociata per cui la giustizia dell’uno implica la colpevolezza dell’altro: Giobbe e Dio escono entrambi vincitori. Il superamento dello schema giuri­ dico in questo senso apre alla possibile sinergia: non serve «gulliverizzare» l’uomo per affermare Dio, né eliminare Dio per esaltare l’uomo.68 - Nel rapporto tra Dio e uomo emerge il valore della gratuità: questo è il significato teologico dell ,impasse della metafora le­ gale fondata sul quid prò quo della retribuzione. La scom­ messa di Dio è per la gratuità della fede di Giobbe e Giobbe viene alla fine assolto non per il contenuto dei ragionamenti (Giobbe condivide gli stessi principi degli amici), ma per l’o­ nestà intellettuale, per essere rimasto lì a interrogare Dio. An­ che se il suo mondo è crollato a pezzi, anche se il dolore gli la­ cera la carne e l’anima, Giobbe non cede, non si lascia de­ fraudare della dignità per riottenere il benessere, resta in piedi davanti a Dio, fidando solo nella propria giustizia. E così dimostra che satana ha torto. La gratuità della fede di Giobbe forza Dio a rispondere e la teofania, in quanto rivela­ zione, segue la dinamica del dono, come il risarcimento finale che sancisce la fine del rib, ma nello stesso tempo lo supera. La ricompensa non è eliminata, ma viene riequilibrata in base alla gratuità; in termini di riflessione biblica questo significa che ogni teologia contrattuale (come quella deuteronomistica dell’alleanza) deve essere bilanciata da una teologia della creazione.69

W olde , «Job 42,1-6: The Reversai of Job», in TheBook ofjob, ed. W.A.M. Beuken,

Leuven 1994, 223-250. 68 Si vedano a questo proposito le conclusioni cui perviene B orgon ovo , La notte, 327-331. 69 Cf. ancora B orgonovo , La notte, 336-339.

Il filo della contesa giuridica nel libro di Giobbe

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- Del rib, invece, resta positivamente in evidenza la logica dia­ logica che lascia spazio alla verità di cui ognuno è portatore. Occorre opporsi al male, bisogna appellarsi a Dio perché si manifesti la sua giustizia. La relazione tra Dio e uomo non ha carattere rigido e dogmatico, è personale, esistenziale, interat­ tiva70 e le categorie giuridiche si mostrano idonee ad espri­ mere tale qualità.

70 Di una sorta di «rib-mentality» parla G emser, «The Rib», 136-137.

CREAZIONE E ANTROPOLOGIA D onatella S caiola

INTRODUZIONE La domanda sull’uomo attraversa tutto il libro di Giobbe e si in­ treccia inestricabilmente con le questioni che riguardano il mistero di Dio. Il libro si radica profondamente nella tradizione sapienziale (come si è già visto) e tuttavia in molti punti contesta le attitudini «canonizzate» dai saggi. Già la forma del dialogo riflette bene il pro­ posito del suo autore: confrontare le certezze della sapienza tradizio­ nale con i dati dell’esperienza, prendere sul serio la rivolta del cre­ dente davanti a un certo modo di interpretare la figura di Dio, a par­ tire dal caso emblematico, limite, rappresentato dalla sofferenze «ec­ cessiva» che tocca Giobbe, «uomo integro e alieno dal male».

I.

L ’EREDITÀ SAPIENZIALE

Giobbe e i suoi amici fanno più volte appello alla tradizione dei saggi, all’esperienza degli anziani e dei padri: «Chiedilo alle generazioni passate, poni mente all’esperienza dei loro padri, perché noi siamo di ieri e nulla sappiamo, come un’ombra sono i no­ stri giorni sulla terra. Essi forse non ti istruiranno e non ti parleranno traendo le parole dal cuore?» (Gb 8,8-10); «Nei canuti sta la saggezza e nella vita lunga la prudenza» (12,12).

Capitolo 3

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I temi tradizionali della sapienza sono ampiamente sviluppati:1 Dio garantisce, su questa terra, la retribuzione del giusto. L ’uomo, «nato da donna», è marcato da una finitezza irrimediabile. Egli non può essere puro davanti a Dio, né accedere ai «segreti della sa­ pienza». Pur essendo solidamente attaccato alla tradizione dei saggi, l’autore la cita spesso in modo distorto, come si vede, tra l’altro, dal­ l’uso che fa delle dossologie. Le dossologie abbondano nel libro di Giobbe e sottolineano le meraviglie operate da Dio e la sua signoria cosmica. Tuttavia queste dossologie, così francamente inniche nella loro forma letteraria, diventano, in bocca agli amici, delle armi utiliz­ zate contro Giobbe. Le dossologie, che normalmente non hanno un tono polemico, rinforzano la controversia con Giobbe. 1. G

l i a m ic i

Elifaz, in G b 5,9 comincia il suo discorso con un grido di ammi­ razione davanti all’opera di Dio («Dio che fa cose grandi e incom­ prensibili, meraviglie senza numero»), ma le conclusioni che egli ne deduce condannano Giobbe («Felice l’uomo che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente», 5,17). Ana­ logo procedimento si nota in 11,7-8: «Credi tu di scrutare l’intimo di Dio o di penetrare la perfezione dell’Onnipotente? È più alta del cielo, che cosa puoi fare? È più profonda degli inferi: che ne sai?» II discorso di Elifaz, innico nella forma, non lo è veramente nello scopo, dal momento che è più preoccupato di convincere Giobbe che di cantare la potenza di Dio.

1 J. L évéque , « T rad itio n et trah iso n d ans les disco u rs des am is», Concilium 189(1983), 67-74; I d ., « L ’arg u m e n t d e la création dans le livre d e J o b » , in: L. D e rousseaux (ed.), La création dans l'Orient ancien, L eD iv 127, P aris 1987, 261-299; I d ., «Sagesse et p ara d o x e d ans le livre d e Jo b » , in: J. T rublet (ed.), La sagesse biblique. De 1’Ancien au Nouveau Testament, L eD iv 160, P aris 1995, 99-122.

Creazione e antropologia

47

In 22,12-14, Elifaz apparentemente invita Giobbe a esaltare Dio, l’inaccessibile: «Ma Dio non è nell’alto dei cieli? Guarda il vertice delle stelle: quanto sono alte! E tu dici: che cosa sa Dio? Può giudicare attraverso la caligine? Le nubi gli fanno velo e non vede e sulla volta dei cieli passeggia». Dalla sua dimora Dio vede tutti gli abitanti della terra (Sai 33,13-14) anche se gli si nascondono (Ger 23,23-24). Egli vede, dun­ que, conosce e giudica: questa è la convinzione di ogni credente in Israele. Ma bruscamente, Elifaz usa questa convinzione come un’arma contro Giobbe (22,13-14). Elifaz attribuisce qui a Giobbe il ragionamento che i profeti e i salmisti rimproverano all’empio, il quale, in effetti, interpreta la trascendenza di Dio come assenza e im­ potenza (Is 29,15; Ez 8,12; Sai 73,11; 94,7). Anche il tema antropologico viene presentato in modo originale rispetto alla tradizione precedente. In 4,17-19, Elifaz allude alla creazione dell’uomo: «Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo creatore? Ecco, dei suoi servi egli non si fida e ai suoi angeli imputa difetti; quanto più chi abita case di fango, che nella polvere hanno il loro fondamento!». Questa allusione ai limiti dell’uomo lo conduce ad un ragiona­ mento a fortiori che fa emergere la doppia subordinazione del­ l’uomo: egli è sottomesso a Dio, perché è sua opera, e, nella gerar­ chia degli esseri, egli è inferiore agli angeli, servi di Dio. Doppia fra­ gilità: fisica, dal momento che abita una «casa d ’argilla», cioè il suo corpo effimero e mortale, e questa caducità risale alla creazione (cf. G b 33,6; Is 64,7; Sap 9,15); inoltre, fragilità morale, perché, ancora più degli angeli, l’uomo è soggetto allo smarrimento e comunque, davanti al suo Creatore, non può far valere la purezza della sua con­ dotta (Gb 17,9).

48

Capitolo 3

Anche Zofar allude brevemente al tema della creazione del­ l’uomo (20,4-5), ma, nel suo primo discorso, le dimensioni impres­ sionanti del cosmo lo ispirano ad esaltare Dio schiacciando Giobbe: «Credi tu di scrutare l’intimo di Dio o di penetrare la perfezione dell’Onnipotente? È più alta del cielo: che cosa puoi fare? È più profonda degli inferi: che ne sai?» (11,7-8). Dopo aver completato il discorso sulla maestà di Dio, Zofar af­ fronta il tema complementare del dominio di Dio sul destino degli uomini: ·niente gli sfugge del male che si compie: «Egli conosce gli uomini fallaci, vede l’iniquità e la osserva» (11,11). Da qui ricava un’esortazione per Giobbe (11,13-19). Anche Zofar, a suo modo, snatura il tema della signoria cosmica del Creatore, mettendola a ser­ vizio della sua disputa con Giobbe. La forma innica diviene irricono­ scibile nella sua nuova funzione polemica: la lode si trasforma in controversia; il riferimento a Dio diventa un’arma. 2. G iobbe

Anche in bocca a Giobbe, le dossologie vengono stornate dalla loro funzione abituale.2 In 9,5-10 Giobbe enumera con compiaci­ mento i lavori della forza di El, che comanda al sole di non sorgere e mette le stelle sotto sigillo («Comanda al sole ed esso non sorge e alle stelle pone il suo sigillo»). Ma Giobbe deduce da queste afferma­ zioni un argomento per sostenere la sua tesi dell’impotenza del­ l’uomo, che è incapace di giustificarsi davanti a Dio, di rispondere alle sue domande, e quindi, nemmeno di tenergli testa: «Come può un uomo avere ragione davanti a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille. Saggio di mente, potente per la forza, chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?» (9,2-4)..

2 C.

W

esterm a nn,

«Le doublé visage de Job», Concilium 189(1983), 29-41.

Creazione e antropologia

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In 12,7-10 è il mondo animale che diviene il testimone privile­ giato dell’opera del Creatore: «Ma interroga pure le bestie, perché ti ammaestrino, gli uccelli del cielo, perché ti informino, o i rettili della terra, perché ti istruiscano, 0 i pesci del mare perché te lo facciano sapere. Chi non sa, fra tutti questi esseri,

che la mano del Signore ha fatto questo?». Basta interrogare gli uccelli del cielo, i rettili della terra e i pesci del mare (cf. Gen 1,26), per sapere che non solo Dio li ha fatti, ma anche che ogni vivente dipende ancora da Dio per la sua stessa esi­ stenza. A livello della creazione e della vita animale, il potere di Eloah è dunque evidente. Giobbe lo ammette senza problema, ma, per converso, egli contesta lungamente (12,13-25) il modo in cui Dio conduce il destino dell’uomo. 1 testi si personalizzano ancora di più quando Giobbe affronta la creazione dell’uomo e la condizione dell’uomo nel creato. Innanzi­ tutto egli rimprovera a Dio di avere ingannato l’uomo accordandogli l’esistenza: «Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l’ama­ rezza nel cuore?» (3,20), poi perde coraggio scoprendo fino a che punto il destino dell’uomo è determinato: «Se i suoi giorni sono contati, se il numero dei suoi mesi dipende da te, se hai fissato un termine che non può oltrepassare, distogli lo sguardo da lui e lascialo stare, finché abbia compiuto, come un salariato, la sua giornata!» (14,5-6). Nel c. 10 Giobbe ricorda a Dio i suoi doveri di Creatore: «È forse bene per te opprimermi disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?» (v. 3); «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi?» (v. 8) In 10,9 Giobbe si riferisce alla creazione di Adamo («Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi farai tornare»). Il

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tema del ritorno in polvere allude a Gen 3,19 (cf. Gen 2,7; Sai 90,3; 103,14). La creazione diviene l’inizio di una storia individuale, ma è Dio che versa, che coagula, che riveste e tesse. Come nel Sai 139,13-16, la fecondazione e la gestazione del bambino sono de­ scritte come un prodigio del Creatore e come il segno di una prov­ videnza amante che accompagna l’essere umano lungo la sua esi­ stenza. Ma il riferimento alla misericordia di Dio (Gb 10,12) rende ancora più straziante il rimprovero che Giobbe gli rivolge (10,8) di voler distruggere la sua opera. Infatti distruggere Giobbe, rovinarlo, inghiottirlo, non era quello che satana si proponeva di fare in 2,3? Dopo 10,8-12, il testo dossologico, il lamento di Giobbe riparte: l’ostilità ingiustificata di Dio (10,17) smentisce la sua sollecitudine come Creatore e condanna al non senso l’esistenza che egli ha offerto all’uomo (10,18-19). Nel c. 7 il tema della caducità dell’uomo viene applicato al la­ mento: «Ricordati che un soffio è la mia vita: il mio occhio non rivedrà più 0 bene» (7). «Lasciami, perché un soffio sono i miei giorni. Che è quest’uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la saliva?» (16-19). Citando un salmo di lode (8,2; cf. 144,3) che, partendo dalla contemplazione del creato, arriva allo stupore davanti al mistero del­ l’uomo che è nel mondo l’unico interlocutore di Dio, Giobbe ne stravolge il senso: l’uomo è poca cosa perché Dio si accanisca contro di lui, e dunque, lo lasci respirare! 3. O sservazioni

conclusive

Si potrebbe continuare questo elenco di citazioni, ma riteniamo più utile raccogliere in sintesi alcuni elementi conclusivi:

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1. I dialoghi del libro di Giobbe associano liberamente l’idea della signoria cosmica di Dio e i richiami alla creazione primordiale. 2. Le dossologie degli amici sono orientate alla parenesi. Sono inniche per la forma, ma non lo sono più veramente quanto alla fun­ zione. Questa preoccupazione moralizzante o polemica si nota rara­ mente negli inni del Salterio. Le dossologie di Giobbe mantengono quasi unicamente i temi che esaltano la potenza di Dio, che serve però come base per il lamento. 3. Argomento contro Giobbe in bocca agli amici: per Elifaz, la potenza creatrice di Dio fa risaltare soprattutto la caducità e l’inde­ gnità dell’uomo; per Bildad, l’autorità di Dio invita l’uomo alla mo­ destia; per Zofar, le dimensioni del mondo attestano con forza l’ubi­ quità dell’Assente (su questo punto G b 28 rincara la dose); la crea­ zione diviene un’arma contro Dio in bocca a Giobbe: l’immenso sa­ pere di Dio lo rende ancora più inescusabile, la sua potenza diventa derisoria quando si accanisce su un filo di paglia, e la sua sapienza è colta in fallo quando disprezza l’opera delle sue mani. II.

RILETTURA E STRAVOLGIMENTO DEL TEMA DELLA CREAZIONE: Gb 3

Approfondiamo il discorso precedentemente fatto in modo più generale, accostando un testo emblematico, programmatico, G b 3, nel quale il tema della creazione viene riletto e stravolto. La scelta di questo capitolo è strategica, dal momento che esso verrà ripreso da Dio nel momento in cui risponde a Giobbe.3 1. L a p rim a s t r o f a : 3 - 1 0

Quando nell’AT si parla della creazione, uno dei temi domi­ nanti è il potere della parola di Dio (Gen l,l-2 ,4 a; Sai 33). Nel rac­

3 L.G. P erdue , «Metaphorical Theology in thè Book of Job. Theological Anthropology in thè First Cycle of Job’s Speeches (Job 3; 6-7; 9-10)», in: W.A.M. B eu ken (ed.), The Book of]ob, BEThL 114, Leuven 1994, 129-156; G. B orgon ovo , La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica, AnBib 135, Roma 1995, 103-125.

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conto della creazione dell’uomo il tema della parola di Dio si articola con quello della benedizione (Gen 1,26-28). In contrasto con questa tradizione, nel capitolo introduttivo alla parte in poesia, Giobbe ini­ zia il discorso maledicendo il giorno della sua nascita e la notte in cui è stato concepito un uomo. La maledizione di Giobbe (sono, in realtà, sette maledizioni) mira a sconvolgere l’ordine temporale del­ l’intero cosmo. In questa prima parte del capitolo ritornano i termini fondamentali del linguaggio della creazione: luce-tenebre; vita­ morte; conoscenza-mistero, ma sono usati non per sostenere la vita, bensì per portarla al collasso. Il tema della notte e del giorno è molto importante in tutta la letteratura sacra. Nella Bibbia si parla frequen­ temente di luce e di tenebre, di vita e di morte, della preghiera della notte in attesa del giorno. In tutte le religioni, uno dei momenti fon­ damentali dell’esperienza spirituale è l’alba, il momento della nascita del sole. Ogni alba, ogni aurora, è simbolo della creazione. La luce ricrea tutte le cose che, prima invisibili, lentamente riprendono corpo, colore, presenza. La luce del giorno è una creazione continua, e indica la volontà di salvezza che il Creatore espresse, all’inizio, se­ parandola dalla tenebra. Giobbe invece riprende il linguaggio di Gen 1,3 («Sia la luce»), per rovesciarlo: «Quel giorno sia tenebra» (3,4). Per Giobbe, la luce dell’aurora è il luogo più terribile della sua esperienza. La notte evoca poi anche il momento del concepimento, il momento di gioia dei suoi genitori. Giobbe invoca invece che quella notte sia posse­ duta dal Leviatan, che è il simbolo del nulla, del caos, della sterilità. Chiama alla riscossa coloro che «risvegliano Leviatan», il mostro del caos primitivo (Sai 74,14; 104,26; Is 27,1), rigettato negli abissi delle acque che simboleggiano le forze del male. Questo linguaggio è quello dell’autodistruzione, che manifesta la disperazione e la de­ pressione in cui si trova Giobbe, il quale, esprimendo il desiderio di rovesciare l’ordine delle cose create da Dio, richiama il testo di Ger 20,14-18: «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto. Maledetto l’uomo che portò la notizia

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a mio padre dicendo: “Ti è nato un figlio maschio”...». Giobbe aspira ad un ritorno al caos precedente la creazione perché dei sentimenti caotici attraversano la sua anima. Giobbe si augura un ritorno al caos primitivo perché l’esperienza che fa è quella del disordine. Sempre nella stessa linea, l’annuncio della nascita di un bam­ bino, specialmente di un maschio, è un tempo di celebrazione in Israele (lSam 1-2; Ger 20,15; Le 1,46-55), ma nel linguaggio di Giobbe la sua propria nascita è un giorno di maledizione. In conclusione, Giobbe detesta il giorno e la notte della sua na­ scita e preferirebbe non essere mai nato. Il contrasto con il testo di creazione di Gen 1 è stridente. Giobbe sta, di fatto, rigettando la creazione. Preferendo l’oscurità alla luce, Giobbe desidera un ri­ torno al caos primordiale (Gen 1,2) perché la vita è divenuta per lui caos. La maledizione si conclude con la motivazione (10). Q uest’ul­ timo versetto anticipa i due sviluppi successivi: il desiderio di non es­ sere mai nati e una vita già corrosa dalla morte, perché in essa è en­ trata la disgrazia. 2. La

sec o n d a str o fa :

11-19

Dopo la maledizione, Giobbe passa alla lamentazione, caratte­ rizzata, come sempre nella Bibbia, dalla domanda «perché?» (Sai 22,2; 43,2). La persona che soffre si domanda: perché a me? Giobbe è qui figura del credente che si pone delle domande, che cerca di comprendere. Le immagini dell’oscurità, associate alla morte nel grembo oscuro, dominano questa seconda scena. Morire nel grembo, o du­ rante il parto, avrebbe permesso a Giobbe di entrare nel riposo della morte (3,13) senza vedere la luce (16). Dopo che Dio ha fatto sorgere l’ordine dal caos, e «vide che tutto era buono», egli benedisse il set­ timo giorno e si riposò (Gen 2,1-3). Giobbe adesso maledice il suo giorno e ripete che la morte, e non la vita, gli darà riposo. Giobbe preferisce l’oscurità del grembo e la tomba alla luce di un’esistenza segnata dal mistero circa il problema del dolore. Se Dio è vita, la sof­

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ferenza appare come la sua negazione, la sua contestazione più radi­ cale. Egli desidera non essere mai nato, segno che non trova più i suoi punti di riferimento perché ha smarrito la sua identità. Nascita e morte si toccano come i due poli estremi di un tragitto che si vor­ rebbe vedere annullato, come i confini della vita assurda che Giobbe vorrebbe cancellare. Il tema della nascita è associato inoltre, nell’Antico Testamento, all’idea di Dio padre o madre, del Signore che forma e nutre il feto (Ger 1,3-10; Sai 21,10-11; 138,13-18). Invece qui Giobbe collega questi temi alla morte, cioè ne stravolge il senso. U n’altra ripresa «stravolta» è legata al tema del «riposo» (3,13.17-18). La funzione di queste immagini è ironica perché il «riposo» è in contrasto con le tradizioni della creazione e dell’abitazione di Israele nella terra pro­ messa. Il riposo di Giobbe (17), al quale egli anela, è la fine della sua esistenza, non il sabato di Dio (Gen 2,1-3). Il riposo di Giobbe con­ trasta anche ironicamente con il riposo di Israele nella terra pro­ messa (Dt 5,12-15), un riposo sabbatico che abilita la comunità a ri­ cordare e a riattualizzare il potere di dare la vita, che è tipico della tradizione dell’abitare la terra. Il linguaggio di Giobbe nega en­ trambe le tradizioni di fede: la creazione e il dono della terra. 3. La

terza str o fa :

20-26

Se la seconda strofa esprimeva il desiderio della morte, la terza esprime piuttosto la condizione di non-senso di colui che è schiac­ ciato dalla disgrazia ed è costretto a vivere una non-vita. In questi versetti la situazione di Giobbe viene universalizzata. Ogni uomo è posto di fronte a una esistenza amara, che egli non ha desiderato. L’assurdità della vita appare in questo desiderio insensato di felicità, che tuttavia è innato nell’uomo. Il lamento si innalza a partire dalla coscienza acuta dell’ingiustizia del male che colpisce il mortale. Ri­ volto a Dio, è contestazione della sua opera di creazione, è negazione della sua bontà, che proprio la benedizione affermava. Il capitolo è costruito secondo una logica coerente: la maledi­ zione del giorno della nascita genera il desiderio di non essere mai venuto alla luce, che, a sua volta, genera l’accusa rivolta a Dio, per ora solo indirettamente: una tale vita è senza senso. Ciò che permette

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di negare la bontà creatrice è l’esperienza, di Giobbe e generica­ mente umana, che nega il primo articolo di fede: la mia sofferenza at­ tuale contesta il «dogma» della bontà infinita di Dio. Al v. 23 viene nominato Dio, chiamato però Eloah, che non è il nome· specifico del Dio d ’Israele, che corrisponde al tetragramma, impronunciabile, JH W H , rivelato a Mosè sul Sinai. La scelta di Eloah è strategica, per­ ché i problemi in cui Dio e l’uomo sono coinvolti superano larga­ mente la forma israelitica della fede e sono universali. 4. C o nclusione

Giobbe maledice il giorno della sua nascita per negare il tema della benedizione divina che promuove la vita. Giobbe trova nella morte il «riposo» che cerca, cioè la fine della sofferenza. La rifles­ sione procede nei cc. 6-7, che non possiamo qui considerare, nei quali però gli umani non sono presentati come creature esaltate, che Dio ha preposto al dominio del creato, ma piuttosto come schiavi, la­ voratori affaticati che portano avanti un’esistenza degradata. La vita è un soffio che passa rapidamente, finendo nella fossa da cui non c’è ritorno. In 7,20 ricorre poi l’espressione «custode dell’uomo», che è ti­ pica dei salmi di fiducia (31,24; 32,7; 64,3). Ma, per il salmista, l’es­ sere custoditi da Dio è un motivo di confidenza e di gioia. Nella bocca di Giobbe connota invece la sfiducia. Giobbe inverte temi della tradizione. Così, il motivo della fragilità umana non è più un in­ vito alla fiducia, ma espressione di rivolta; la sofferenza non si apre più all’attesa di Dio, ma ai rimproveri e ai desideri di morte. Questo ripudio della tradizionale antropologia teologica costi­ tuisce la base della lite che Giobbe intenta a Dio, destinata non solo a stabilire la sua propria innocenza, ma anche a provare che Dio è colpevole di malgoverno sia nei confronti del cosmo che dell’uma­ nità. Il primo discorso di Dio risponderà a questa contestazione ra­ dicale.

4

JHWH RISPONDE DALLA TEMPESTA (GB 38-41) C r is t in a T e r m in i

INTRODUZIONE La dialettica tesa che domina il dialogo tra Giobbe e gli amici è rotta dall’intervento di Dio. L ’unicità del parlante è ben evidenziata dalla presenza del tetragramma in 38,1 che risponde alla strategia di affidare la dischiusura della vera immagine di Dio a Dio stesso e non agli altri attori in scena che hanno parlato di saddaj o di ,èl, **lóah, **lòhim} Il discorso di Dio unisce un contenuto difficile a una forma letteraria estremamente sofisticata: è come se l’autore, conscio dello smisurato sforzo di far parlare Dio, avesse usato ogni espediente per non risultare banale. La polivalenza semantica delle parole divine, che si riflette nella sconcertante varietà delle interpretazioni propo­ ste dai critici, molto più che essere un problema da risolvere, è un in­ vito al lettore a fare uno sforzo per decodificare il linguaggio divino, per pensare. Questa lotta per un significato possibile è richiesta par­ ticolarmente al lettore moderno che trova criptico il simbolismo co­ smico e teriomorfico che domina nei capitoli 38-41 del libro di Giobbe.2 Non va dimenticato, inoltre, che si tratta di una rivelazione

1 Cf. G. B orgonovo , La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica, Ed. P IB , Roma 1995, 285. 2 Un contributo eccellente teso a illuminare lo sfondo culturale e religioso di Gb 38-41 è offerto da O. K eel , Dieu répond à Job. Une interprétation de Job 38-41 à la lumière de l’iconographie du Proche-Orient ancien, Paris 1993 (in particolare per la problematica generale si possono vedere le pp. 11-20).

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che avviene «dalla tempesta», simbolo teofanico5 che mescola tene­ bra e bagliori luminosi, oscurità che lascia intravedere una traccia, ma richiede ermeneutica. Se in 9,17 Giobbe si lamenta di essere schiacciato da Dio «con una tempesta», ora «dalla tempesta» egli conquista una nuova immagine di Dio e di sé. I.

LA VESTE LETTERARIA DEI DISCORSI DI DIO

Per decifrare il senso dei due interventi divini (Gb 38,1^40,2; 40,6-41,26), occorre innanzitutto prestare attenzione ad alcune tec­ niche retoriche poste in atto. Il primo elemento che colpisce è l’alta frequenza delle domande retoriche che costellano i capitoli 38^41: si tratta di una modalità comunicativa che appare spesso in contesto di controversia, come dimostrano alcuni brani del Deuteroisaia4 e gli stessi dialoghi tra Giobbe e gli amici. Le petizioni iniziano con i pro­ nomi interrogativi eh? o dove,6 uniti a verbi in terza persona, o sono avviate dalla semplice particella interrogativa ha (forse?)7 seguita quasi sempre8 da un verbo in seconda persona singolare,9 oppure si 3 Alla ripresa del tema teofanico della tempesta in Gb 38,1 si può annettere un significato di giudizio in linea con lo schema del rìb, ma non un risvolto punitivo (quest’ultimo è presente, ad esempio, in Is 40,24; 41,16; Ger 23,19; 25,32; Ez 13,11.13; Am 1,14). Cf. B orgon ovo , La notte, 285-286 nota 142. Diversa è l’opi­ nione di L.G. P erdue (Wisdom in Revolt. Metaphorical Theology in thè Book o/Joh, Sheffield 1991, 203) che pensa alla teofania che accompagna la battaglia contro le forze caotiche. ■' Il rapporto tra lo stile interrogativo di Gb 38-41 e alcuni oracoli deuteroisaiani è stato studiato da V. K ubina , Die Gottesreden im Buche Hiob, Freiburg 1979, 131-143 e H. R ow old , «Yahweh’s Challenge to Rivai: The Form and Function of thè Yahweh-Speech in Job 38-39», in CBQ 47(1985), 199-211. 5 Cf. Gb 38,5ab.6b.25a.28b.29ab.36ab.37ab//41a; 39,5ab//41,2b.3a.5ab.6a (il segno II serve a distinguere i tre cataloghi contenuti nei due discorsi divini). 6 Gb 38,4a.6a.l9ab.24a. 7 Gb 38,12a.l6a.l7a.22a.28a.31a.32a.33a.34a.35a//39a; 39,la.9a.l0a.lla.l2a. 19ab.20a.26a//40,26a.27a.28a.29a.31a. 8 Gb 38,28, ad esempio, è in forma impersonale. 9 M i (=chi?) prevale insieme ad h“ nel primo catalogo (llx+lO x); dove ha 5 ricorrenze tutte concentrate in Gb 38,4-38: complessivamente in questo primo brano ci sono 26 interrogative su 35 w . Nel secondo catalogo (Gb 38,39-39,30) chi è usato 3 volte e h" 9 (12 interrogative + 2 su 33 w. concentrate in alcuni punti stra­ tegici: Gb 38,39.41; 39,1-2; 39,9-12.19-20.26 ovvero all’inizio e nelle due pericopi che riguardano lo struzzo e 0 cavallo); nel terzo catalogo (Gb 40,15-41,26) chi com­

JHWH risponde dalla tempesta (Gb 38-41)

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presentano prive di formula introduttiva.10 Lo scopo della domanda retorica non è di tipo informativo: non si vuole porre in risalto l’i­ gnoranza di Giobbe, né testare la sua cultura. Chi pone le questioni, pretende di richiamare una conoscenza che è condivisa,11 sa che l’a­ scoltatore conosce la risposta; se manca questa connivenza, avviene un cortocircuito nella comunicazione. La cascata di domande retori­ che, con cui Dio interpella Giobbe, mira, dunque, a suscitare una consapevolezza rimossa; Giobbe è abilitato a dilatare il proprio oriz­ zonte, a superare un’erronea concezione di Dio e del mondo che ha come punto prospettico la sua personale tragedia, a ritrovare una giu­ sta relazione con il Signore, rinunciando a porsi come rivale.12 Se il di­ scorso divino fosse stato formulato in modo affermativo, ne sarebbe derivata un’esaltazione dell’onnipotenza divina a scapito dell’uomo; con la domanda retorica, invece, si crea un dinamismo di sinergia co­ noscitiva che porta Giobbe ad acquisire sapienza, a vedere con occhi nuovi la realtà che lo circonda.13 A questo concorre anche la carica patetica insita nella domanda retorica che «sferza l’emozione con l’e­ videnza della non necessità della formulazione interrogativa»,1■4 pro­ pare 3 volte, mentre h“5: in tutto ci sono 8 interrogative + 3 su 44 w. Anche in que­ sto caso l’accumulazione è accuratamente studiata: le domande si trovano alla fine della descrizione di Behemot e all’inizio di quella di Leviatan. 10 Gb 39,2.13 e 40,24-25.30 costituiscono dei possibili esempi. 11 Le domande introdotte da chi rimandano sempre a Dio come autore della creazione; quelle che iniziano con la particella interrogativa h" implicano una rispo­ sta negativa: «non io, ma tu hai fatto, sei andato...»; le domande introdotte da dove possono avere risposta varia: «non lo so, ma tu lo sai», oppure «da nessuna parte». Cf. R o w o ld , «Yahweh’s Challenge», 201-202; M.V. Fox, «Job 38 and God’s Rhetoric», in Semeia 19(1981), 53-61: per l’autore le domande di Gb 38,19.24 non sono retoriche; sulla funzione delle interrogative retoriche in Giobbe si veda anche L.J. D e R e g t , «Implications of Rhetorical Questions in Strophes in Job 11 and 15», in The Book o f Job, ed. W.A.M. Beuken, Leuven 1994, 321-328. 12 Quest’ultima suggestione è sottolineata giustamente da R ow o ld , «Yah­ weh’s Challenge», 207-211: attraverso il confronto con testi di challenge-question quali Is 41,21-29, l’autore evidenzia che Dio interpella Giobbe come un rivale. Il problema intorno a cui verte il discorso divino è, dunque, la giusta relazione tra uomo e Dio: le questioni convergono nel sottolineare la maestà di Dio, ma anche la lode gioiosa delle creature, ed è in questo ambito che anche l’uomo deve inserirsi. 13 L’importanza di yd (conoscere) in 38,1-^12,6 è riconosciuta da tutti i com­ mentatori. 14 H. L ausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, 246; questo elemento è svalutato da Keel senza ragione (Dieu, 25 nota 83).

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voca straniamento15 in quanto inattesa e imprevista. L’aumento del sapere va di pari passo con la partecipazione emotiva e se la ripeti­ zione delle domande retoriche può alla fine generare monotonia, è la materia strana e meravigliosa a rinnovare il senso estetico di stupore. Una funzione analoga alle domande è svolta dagli imperativi ironici con cui Dio stuzzica la saccenteria di Giobbe e lo induce ad una conversione nell’atteggiamento (Gb 38,4b.l8b; 40,32).16 La pioggia di interrogative retoriche si interseca con il cata­ logo.17 Si tratta di una forma letteraria molto antica che appartiene a pieno titolo alla letteratura sapienziale. Infatti, enumerare è il modo più semplice di scoprire e porre un ordine nella realtà. Il catalogo, attraverso l’accumulazione anche disordinata, ha un valore virtual­ mente totalizzante e per questo possiede potere e fascino quasi ma­ gici. Nel libro di Giobbe la forma catalogica compare in bocca a Giobbe e a Eliu,18 ma i cataloghi più ampi sono quelli contenuti nei discorsi divini e questo certamente sta a significare la superiorità della conoscenza divina: Dio ha una visione più comprensiva della realtà. La conferma viene dal contenuto dei tre cataloghi divini: il primo (38,4-38) riguarda il cosmo e i fenomeni meteorologici; il se­ condo (38,39-39,30) raggruppa cinque coppie di animali selvatici che vivono ai margini delYhabitat umano; il terzo (40,15-41,26) comprende due animali, Behemot e Leviatan, che sono da identifi­ care probabilmente con l’ippopotamo e il coccodrillo. Nei tre catalo­ ghi, il numero degli elementi è decrescente poiché il primo catalogo include in 35 versetti più di 30 elementi, il secondo dedica 33 versetti

15 L ausberg, Elementi di retorica, 60-62. 16 Cf. K eel , Dieu, 25.

17 Lo studio fondamentale sulla forma catalogica di G b 38 risale a G . VON R ad, «Hiob XXXVIII und die altàgyptische Weisheit», in VT.S3(1955), 293-301; la tesi di von Rad è stata contestata da M.V. Fox, «Egyptian Onomastica and Biblica! Wisdom», in V T 36(1986), 302-310, ma i suoi argomenti mi sembrano deboli e poco convincenti. Cf. anche J. G ra y , «The Book of Job in thè Context of Near Eastern Literature», in ZA W 82(1970), 251-252 e Y. H o f f m a n , A Blemisbed Perfection. The Book of Job im Context, Sheffield 1996, 84-114. 18 Cf. Gb 9,5-11 introdotto e concluso da una domanda retorica (9,4.12) che sortisce l’effetto di affermare lo strapotere di Dio e «gulliverizzare» l’uomo; in Gb 10,3-12 prevalgono, invece, le domande retoriche e il tono di controversia. In bocca ad Eliu è il catalogo posto alla fine del capitolo 37.

JHWH risponde dalla tempesta (Gb 38-41)

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a 10 elementi e il terzo tratta 2 elementi in 43 versetti.19 Mentre scema la dimensione catalogica, diminuiscono anche le domande re­ toriche; dal punto di vista contenutistico, i cataloghi iniziano con gli spazi e tempi del momento fondativo indisponibile all’uomo, poi enumerano fenomeni visibili come la neve, la pioggia, la grandine, per arrivare, infine, al mondo animale più vicino all’uomo. Si tratta di una nuova visione globale della creazione che gode dell’autorevo­ lezza della rivelazione divina: l’allusione intertestuale al primo capi­ tolo della Genesi è palese, ma il confronto è stridente. Se in Gen 1 l’antropogonia sta al culmine dei sei giorni della creazione, qui il ca­ talogo divino in forma interrogativa è rivolto ad un uomo, ma omette l’uomo.20 Si frantuma una visione cosmologica di tipo antro­ pocentrico. Le questioni retoriche e le enumerazioni catalogiche sono inter­ vallate da pause descrittive21 che, determinando in modo particola­ reggiato la situazione, amplificano il tono persuasivo del discorso di­ vino; in alcuni passi trovano espressione la gioia e il benessere delle creature (38,7);22 talora si inseriscono brevi affermazioni in prima persona in cui Dio celebra la sua azione poiché l’autoglorificazione è parte integrante del dialogo polemico; altre volte compare la particella hen/hinneh (40,15.16.23) che con il suo valore deittico eviden­ zia la dimensione simbolico/referenziale delle parole divine. Tutto ciò serve a creare una variatio atta rompere la monotonia. L’effetto di prolungamento è ottenuto anche tramite gli espedienti tipici della poesia ebraica: oltre al parallelismo sinonimico, sono figure di ripeti­

19 H offman (Blemished Perfection, 103) co n ta 43 elem enti nel p rim o catalogo, 15 nel seco n d o e 8 nel terzo. 20 Si veda S.E. B alentine , «“What Are Human Beings, That You Make So Much of Them?”. Divine Disclosure from thè Whirlwind: “Look at Behemot”», in God in thè Fray. FS W. Brueggemann, by T. L inafelt - T.K. B eajl, Minneapolis 1998, 265; J. L évéque , «L’argument de la création dans le livre de Job», in La création dans l’orient ancien, par L. D erousseaux, Paris 1987, 292. 21 Gb 38,9-11.14s.23; 39,3s.7s.l3-18.20b.21-25.29s; 40,15-23; 41,1.2a.3b. 4.6b-26. 22 Questo elemento manca nei testi di contesa del Deuteroisaia ed è impor­ tante perché indica la risposta positiva degli elementi creati all’azione di Dio (cf. RoWOLD, «Yahweh’s Challenge», 210).

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zione l’anafora e le diverse forme di iterazione, quali allitterazioni, consonanze, paronomasie.23 A rendere difficile e unico il discorso divino contribuiscono an­ che le risorse di tipo lessicale: mi riferisco all’uso di hapax legomena assoluti o relativi,24 accompagnati da omonimi dal significato non convenzionale e da parole allogene.25 Il pathos retorico, la materia strana e affascinante raccolta in li­ sta, il lessico ricercato convergono a conferire un colore sublime26 al discorso divino: ma al di là della retorica, si tratta di sublime imperti­ nenza rispetto alle domande teologiche ed esistenziali poste da Giobbe? II.

IL CONTENUTO COSM OLOGICO E ZO O LO G ICO DEI DISCORSI DIVINI

Di fronte a molti autori che ritengono che il dramma di Giobbe sia risolto dall’evento dell’incontro con Dio e non dal contenuto dei discorsi divini che resterebbe estraneo al problema di Giobbe,27 per­

23 Anche il discorso di Dio è duplice e così pure la replica di Giobbe: cf. K eel , Dieu, 27; per un’analisi dettagliata delle figure retoriche presenti in Gb 40-41 ri­ mando a K ubina, Gottesreden, 38-39. 24 Nella lista dei libri che costituiscono l’AT ebraico solo il Cantico dei Can­ tici possiede una concentrazione di bapax legomena più alta del libro di Giobbe: questa caratteristica linguistica è studiata da H offman , Blemished Perfection, 176221; cf. anche P. D horme , Le Livre de Job, Paris 1926, CXL-CXLIII; M .H . P o pe , Job. Introduction, Translation, and Notes, New York, 1974, XLIII; N.H. T ur-S inai, The Book of Job. A New Commentary, Jerusalem 1967, VIII-XXX. 25 Le parole straniere in Giobbe sono una cinquantina, il più alto numero in tutta la Bibbia ebraica. 26 L ausberg, Elementi di retorica, 52-53.262. Nel celebre trattatello intitolato Περί ύψους■ si offrono 5 fonti da cui può scaturire il sublime (VIII,1): i pensieri ele­ vati, il πάθος vigoroso, le figure di pensiero e parola, una φράσις nobile e una σύνθεσις accurata. Tra le figure si citano le interrogative retoriche (XVIII,1-2), le anafore (XX,1-3), l’accumulazione, la sinonimia, la variazione, la gradazione (XXIII, 1-4); l’espressione nobile è intessuta di traslati e neologismi (VIII,1; XXXII, 1-8). I discorsi divini contenuti nel libro di Giobbe corrispondono a questo gusto estetico. 27 Per le differenti opinioni espresse dai critici rimando a L. A lonso Schokel - J.L. SlCRE, Giobbe. Commento teologico e letterario, Boria, Roma 1985, 598-600; K eel , Dieu, 35-40.

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sonalmente sono incline a pensare che quanto il Signore dice dalla tempesta concorra a persuadere Giobbe. Non mi sembra neppure appropriata l’incongruità, sottolineata ad esempio da Crenshaw,28 tra il medium del messaggio divino (teofania) e il messaggio stesso, nel senso che la rivelazione ha lo scopo di avvicinare Dio all’uomo creando un’intimità di rapporto, mentre il contenuto del discorso di­ vino accresce la distanza in quanto condanna Giobbe al silenzio.29 Di fatto, ogni dinamica di rivelazione non annulla l’alterità, ma la mani­ festa, così come il discorso divino realizza una comunicazione aprendo uno spazio che oltrepassa l’uomo. Il medium e il messaggio sono, dunque, in sintonia. All’interno di G b 38-41 vorrei trattare solo qualche elemento contenutistico, in modo da illuminare la particolare impostazione del discorso divino: - In G b 38,8-11 viene preso in considerazione il mare, simbolo delle forze caotiche e abissali che contrastano l’ordine. M en­ tre le cosmogonie del Vicino Oriente antico celebrano la lotta di M arduk contro Tiamat o di Baal contro Yam, in Giobbe la teomachia viene eufemizzata non senza ironia:30 Dio si prende cura del mare dal momento in cui erompe dal grembo della terra, lo fascia come un bambino31 e attraverso la parola gli impone un confine che non può essere superato. Il cosmo si presenta come un sistema dinamico in cui le potenze nega­ tive non sono eliminate, ma controllate e limitate dal Signore che con cura materna e fantasia inventiva contiene gli eccessi. - Un altro punto significativo è offerto dal catalogo zoologico di G b 38,39-39,30, in cui sono raggruppati a coppie 10 ani­

28 J.L. C renshaw , «When Form and Content Clash: The Theology of Job 38:1-40:5», in Creation in thè Biblical Traditions, by R.J. C lifford - J.J. C ollins , Washington 1992, 84. 29 Come ribadisce Balentine («What Are», 266), il discorso divino è teso a sfidare Giobbe per generare una nuova intelligenza della realtà. 30 Di ironia della lotta caotica parla G. F uchs , Mythos und Hiobdichtung. Aufnahme und Umdeutung altorientalischer Vorstellungen, Stuttgart 1993, 195-201; si veda anche B orgon ovo , La notte, 302-304. 31 II rito della fasciatura implica il riconoscimento della paternità: cf. B o rgo NOVO, La notte, 302 nota 222.

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Capitolo 4 mali (leonessa e corvo, camozze e cerve, asino selvatico e bu­ falo, struzzo e cavallo, sparviero e aquila). A parte il cavallo, si tratta di bestie selvatiche, non addomesticate, di cui si met­ tono in luce la voracità, il vigore riproduttivo, la libertà, il co­ raggio, la sapienza; due volte in 39,16.22 si dice che non hanno paura, capovolgendo la visione tradizionale del rap­ porto uomo-animale fondata sul dominio o sul timore (Gen 1,26; 9,2).32 Questi animali abitano steppe semidesertiche, macchie impenetrabili, rocce scoscese, insomma spazi im­ pervi che stanno ai margini della terra fertile occupata dall’uomo. Come ha mostrato in modo convincente O. Keel, nell’iconografia mesopotamica ed egiziana tali fiere sono og­ getto preferenziale della caccia regale, perché è compito del sovrano difendere gli insediamenti umani dalle forze selvagge e ostili, così da far arretrare il caos.33 Dio, invece, nutre, pro­ tegge e sostiene con benevolenza anche gli animali vitali e sel­ vaggi che minacciano la vita dell’uomo. «Esiste - come af­ ferma Vignolo - una dimensione dell’universo assolutamente irriducibile, non integrabile al potere dell’uomo, che ribalta una prospettiva univocamente antropocentrica, apprezzabile invece secondo un punto di vista teocentrico (questo effetti­ vamente accessibile aU’uomo)».34 - Infine, meritano un accenno le figure di Behemot35 e Leviatan36 che campeggiano nell’ultimo discorso divino (40,1541,26). O. Keel ha ripreso l’identificazione con l’ippopotamo e il coccodrillo, dimostrando in base all’iconografia egiziana

32 Cf. P erdue , Wisdom in Revolt, 214-216. 33 K eel , Dieu, 48-69 e per la figura del «Signore degli animali» in particolare le pp. 69-103. 34 R. Vignolo, «Giobbe: il male alla luce della rivelazione», in Giobbe: il pro­ blema del male nel pensiero contemporaneo, a cura di A. P ieretti, Cittadella Ed., As­ sisi 1996, 58. 35 II nome corrisponde probabilmente al plurale intensivo di b'hémàh «be­ stiame»: «la grande bestia» viene resa nella LXX con ί)ερία. Cf. G.J. B otterweck , «b'hemà, b'hèmòt», in GLAT I, 1080-1082. 36 II termine Leviatan deriva dalla radice Iwh I «torcere», «girare»; a questo mostro del caos alludono altri passi veterotestamentari (Is 27,1; Sai 74,14; 104,26); la LXX traduce con δράκοντα. Cf. E. L ipinski, «liwjàtàn», in ThWATTV, 521-521.

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che le due fiere, trasfigurate miticamente, rappresentano i simboli archetipici delle forze notturne caotiche combattute da Horus, divinità del cielo, della luce e della regalità.37 Nel libro di Giobbe, la descrizione dei due mostri segue e pro­ lunga l’invito sarcastico che Dio rivolge a Giobbe di assidersi sul trono divino e annientare i malvagi con il suo braccio.38 Behemot e Leviatan, dunque, sono additati come i nemici emblematici che Giobbe dovrebbe affrontare, ma in linea con l’antifrasi dell’eroico, è importante notare che il destino delle due bestie resta oscuro: non solo è impossibile per Giobbe annientarle, ma neppure JH W H sembra prendere il posto che Horus svolge nella mitologia egizia.39 Le potenze del male che attraversano la realtà cosmica e storica sono con­ trollate da Dio senza lotta.40

” K eel , Dieu, 105-129. 38 B orgonovo (La notte, 317) rileva che uno degli appellativi di Horus è

«quello dal braccio forte», titolo che richiama Gb 40,9.14 in cui si menzionano iro­ nicamente il «braccio di Dio» e la «destra» di Giobbe. Cf. anche K eel , Dieu, 105. 39 Accolgo in questo caso la posizione di F uchs (Mythos, 263-264) e B o rg o ­ novo (La notte, 317-319) che modificano parzialmente l’interpretazione di Keel: di­ versamente da Horus, Dio rinuncia ad annientare costantemente il male e, anzi, si occupa anche dei mostri più ostili. Il male resta parte dell’imperscrutabile progetto di Dio a cui l’uomo deve affidarsi con umiltà. 40 Secondo B a le n tin e («W hat Are», 269-270), Behemot e Leviatan sono un modello per G iobbe non tanto per im parare che non si può sfidare Dio e soprav­ vivere, quanto p er esercitare la forza, la regalità e il potere che sono dispiegati dalle due fiere. Diversa l’interpretazione di J.G . G am m ie che vede in Behemot e Leviatan una caricatura di G iobbe finalizzata a rim proverarlo, istruirlo e consolarlo («Behem oth and Leviathan: O n thè Didactic and Theological Significance of Jo b 40:1541:26», in Israelite Wisdom. FS S. Terrien, by J.G . Gammie - W .A. B rueggem ann W.L. H u m p h rey s-J.M . W ard , Missoula, M ontana 1978,217-231). P erP erd u e, Be­ hem ot e Leviatan sono i nemici esaltati prim a della battaglia, presentati a G iobbe perché si misuri con essi, qualora voglia detronizzare Dio (Wisdom in Revolt, 225226). In tutte queste proposte interpretative si coglie il carattere speculare di Behe­ m ot e Leviatan: le due fiere riflettono una certa immagine dell’uomo e quindi di Dio, ma gli accenti sono diversi. A mio avviso, occorre cogliere la valenza ironica di G b 40,7-14 che è collegato tram ite la ripresa di gàbdah e kol (G b 41,26) alla descri­ zione di Behemot e Leviatan: con le due fiere si capovolge l’immagine che G iobbe ha di un D io giustiziere e nello stesso tem po si prospetta un diverso profilo del­ l’uomo, non giustiziato da Dio o suo rivale, ma destinatario della cura paziente che Dio riserva ad ogni creatura.

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Capitolo 4

III. IL SIGNIFICATO DEL VIAGGIO IMMAGINARIO PRO ­ POSTO DA D IO A GIOBBE Rispondendo dalla tempesta, Dio affronta due questioni solle­ vate da Giobbe: esiste un ordine nel cosmo o tutto è in preda al caos? Dio si profila come un nemico che perseguita l’uomo e sadica­ mente rivolge il suo potere arbitrario contro le creature? La replica divina non è diretta: il Signore invita Giobbe a un viaggio immagina­ rio, percorre spazi inaccessibili, rievoca tempi che sono sottratti al controllo umano, mostra un mondo che brulica di forze vitali, sel­ vagge ed estranee all’uomo, se non minacciose. Giobbe è indotto a guardare qualcosa che è altro da sé: in uno spazio archetipico e uto­ pico, egli deve trovare un’altra immagine di sé e, contemporanea­ mente, attraverso il simbolismo cosmologico e teriomorfico, incontra l’alterità di Dio. I capitoli 38-41 sono l’esatto capovolgimento della traiettoria di Gb 3: se Giobbe proietta su un piano cosmico la perce­ zione di disarmonia che si origina nella personale esperienza di soffe­ renza, Dio propone a Giobbe di ripensare se stesso a partire da un cosmo che non è centrato sull’uomo. L ’assenza della coordinata an­ tropologica in G b 38^41 è necessaria e funzionale al recupero di un’identità che sia a «immagine di Dio» e non tragica copia di se stessi. Infatti, attraverso i simboli desunti dal cosmo e dalla zoologia, trapela un’eccedenza di novità che ha spessore teologico: Dio non annienta il male una volta per sempre, con un gesto onnipotente che risponde al nostro desiderio di giustizia sommaria;41 piuttosto, con cura controlla, integra, eufemizza le forze negative e provvede amo­ revolmente anche a ciò che sta al di fuori dell’ambito umano; è un creatore che ama ogni essere in cui c’è vita (Sap 11,26). Il limite, la fragilità, la sofferenza e anche il male sono un elemento intrinseco, irriducibile che appartiene alla creaturalità. L’armonia che regna nel

41 Giobbe pensa che il malvagio debba solo essere punito, che tra buoni e malvagi ci sia distinzione chiara; crede che la responsabilità di eliminare il male ri­ cada esclusivamente su Dio. Nell’ottica di Dio, invece, la creazione ha come princi­ pio ordinatore non la retribuzione e l’eliminazione del male, ma la varietà, l’integra­ zione, il sostentamento della vita. Alla logica dell’antitesi si sostituisce la trasforma­ zione, il divenire. Correttamente Borgonovo collega questa impostazione al regime simbolico notturno, tipico della sapienza (La notte, 328-336).

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cosmo non risponde a categorie analitiche/razionali o a parametri etici: è piuttosto un ordine globale (la forma del catalogo) che si per­ cepisce in chiave estetica (la partecipazione emozionale e lo stupore che nascono dalle interrogative retoriche e dalle descrizioni). Specu­ lare è l’immagine dell’uomo: per una corretta cibernetica esistenziale occorre trasformare e disorientare la negatività, tutelare ciò che è al­ tro, avere senso dell’infinito (X'òlàm di Qo 3,11) e gusto del bello. La conversione di Giobbe, così, si percepisce in tutta la sua profondità: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5).

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LA NASCITA DELLA PAZIENZA DI GIOBBE I G ilberto M arconi

INTRODUZIONE L ’articolo presente e quello successivo indagano sull’origine della figura di Giobbe così come viene presentata in Gc 5,11, unico passo del NT ove ricorre e in cui viene offerta, in vista della parusia, come modello di pazienza, in controtendenza rispetto a quanto sot­ tolineato dal libro omonimo dell’AT.1 Tuttavia prima di produrre una risposta alla domanda circa la provenienza di tanto attributo, diviso peraltro in maniera del tutto originale con i profeti, riteniamo doveroso affrontare l’analisi sincro-

1 La distinzione tra il racconto popolare e i dialoghi, com unem ente ammessa dalla critica, ha favorito l’attribuzione della pazienza alla figura di G iobbe presente nella parte più antica del libro omonimo, per cui G c ne avrebbe fatto una lettura diacronica. Cf. H . Fine, «The Tradition of a Patient Job», in JBL 74(1955), 28-32; H.L. G insberg, «Job thè Patient and Job thè Im patient», in V T 17(1960), 88; M. Pope, Job, G arden City (NY) 1973, 15; invece C.R. Seitz, «The Patience of Jo b in thè Episde of Jam es», in Konsequente Traditionsgeschicbte. Festschrift fùr Klaus Baltzer zum 65. Geburtstag, hrsg. R. B artelm us - T. K ru g e r - H . U tzschneider, Freiburg-G òttingen 1993, 373-382 ipotizza, p er mezzo di un alambicco semantico, un G iobbe quale portato dell’intera storia salvifica espressa dall’AT, com preso il li­ bro di G iobbe letto nella sua unitarietà.

Capitolo J>

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nica della pericope al fine di evidenziare le relazioni cui il personag­ gio in questione è stato sottoposto.2 I.

IL TESTO DI GC 5,7-12 Siate dunque pazienti, FRATELLI, fino alla parusia del Signore.

Ecco il contadino aspetta il prezioso frutto della terra, pazientando per esso, fino a ché riceva le piogge prime e ultime. 8Siate pazienti anche voi, tenete saldi i vostri cuori, perché la parusia del Signore è vicina. 9Non lamentatevi, f r a t e l l i , l’uno dell’altro, per non essere giu­ dicati; ecco, il giudice è alle porte. 10Prendete, f r a t e l l i, a modello di sopportazione e di pazienza i pro­ feti, che parlarono nel nome del Signore. 11Ecco proclamiamo beati quelli che hanno avuto pazienza: della pa­ zienza di Giobbe avete ascoltato, e la fine riservatagli dal Signore avete visto, perché ricco di compassione è il Signore e misericordioso. 12Perciò anzitutto, f r a t e l l i miei, non giurate, né per il cielo né per la terra né con qualsiasi altro giuramento; sia invece il vo­ stro sì sì e il no no, perché non cadiate sotto il giudizio.3 Il brano è collocato in un contesto escatologico4 mentre la forma ne costituisce la conseguenza parenetica’ scandita dalla qua­ druplice ripetizione dell’appellativo àòeMjxu (w. 7.9.10.12)6 cui è ri­ volta una serie di comandi7 forniti di adeguati esempi8 e conclusi dalla comune motivazione escatologica9 espressa da un abbondante 2 Cf. G. M arconi, «La debolezza in forma di attesa. Appunti per un’esegesi di Gc 5,7-12», in RivBib 37(1989), 173-183, riedito in La lettera di Giacomo. Tradu­ zione e commento, Roma 1990, 211-224. 5 7Μακροωψμήσατε ο ΐν , άδελφοί, εως της παρουσίας τοΰ κυρίου. Ιδ ο ύ ό γεωργός έκδέχεται τον τίμιον καρπόν τής γης μακροθυμών έπ’αύτψ εως λάβη πρόϊμον κα'ι δψιμον. 8Μακροωψμήσατε καί ύμείς, στηρίξατε τάς καρδίας ύμών, δτι ή παρου­

σία τού κυρίου ήγγικεν. 1'Μή στενάζετε, άδελφοί, κατ’ άλλήλων ϊνα μη κριθήτε■ ιδού ό κριτής πρδ τών θυρών εστηκεν. 10'Υπόδειγμα λάβετε, άδελφοί, τής κακοπαθείας καί τής μακροθυμίας τούς προφήτας οϊ έλάλησαν έν τψ όνόματι κυρίου. 11’Ιδού μακαρίζομεν τούς ύπομείναντας· τήν υπομονήν Ίώ β ήκούσατε καί τό τέλος κυρίου εϊδετε, δτι πολύσπλαγγνός έστιν 6 κύριος καί οίκτίρμων. 12Πρό πάντων δέ, άδελφοί μου, μή όμνύετε μήτε τόν ούρανδν μήτε

La nascita della pazienza di Giobbe I

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vocabolario specifico.10 Il tutto è unito da un variegato lessico della pazienza11 e dal κύριος presente nelle sezioni positive (w. 7.8.10.11.11) che si richiamano attraverso la ripetizione μακροθυμέω - μακρσθυμία e la medesima costruzione delle finali (v. 8: δτι ή παρουσία τοϋ κυρίου ήγγικεν; ν. 11: δτι πολύσπλαγχνός έστιν ό κύ ρ ιος..... ); allo stesso modo si corrispondono i due versetti negativi (v. 9: ϊν α μή κριθητε; ν. 12: iva μή υπ ό κρίσιν πέσητε). Il confronto di questi due atteggiamenti, quello del paziente (w. 7s.l0s.), che rappresenta la parte principale e l’ideale dell’autore, e quello di chi si lamenta e giura (w. 9.12), si conclude nelle conse­ guenze finali, rispettivamente la venuta del Signore e quella del giu­ dice, la misericordia e il giudizio. Infatti dall’esempio del v. 7b sem­ bra che la παρουσία τοϋ θεού sia il frutto della pazienza, come con­ ferma il caso di Giobbe (v. 11: «della pazienza di Giobbe avete ascol­ tato, e la fine riservatagli dal Signore avete visto»). Allo stesso modo κριτής e κρίσις sono le conseguenze di στενάζω e δμνυμι. Poiché questi due verbi corrispondono oppositivamente all’invito alla pa­ zienza, necessariamente il κύριος deve ritrovare il corrispondente negativo nel κριτής. Non a caso ή παρουσία τοϋ κυρίου ήγγικεν (ν. 8b) e ό κριτής προ των θυρώ ν εστηκεν (ν. 9b) sono due frasi

τήν γην μήτε άλλον τινά δρκον· ήτω δέ ύμών τό Ναι ναι καί το Οΰ οϋ, ϊνα μή ύπό κρίσιν πέσητε. 4 ν. 1: έπΐ ταΐς ταλαιπωρίαις; ν. 3: έθησαυρίσατε έν έσχάταις ήμέραις; ν. 5: έν ήμέρς* σφαγής; ν. 7: εως τής παρουσίας τού κυρίου; ν. 8: ή παρουσία τοΰ κυρίου ήγγικεν. 5 Cf. οΰν del ν. 7, l’ampliamento dei destinatari rispetto alla pericope prece­ dente e l’uso ripetuto dell’imperativo in posizione enfatica. 6 Per la controversa posizione del v. 12 cf. G. M arconi, «La debolezza», 174s. 7 Dei sette imperativi quattro sono aoristi (μακροθυμήσατε al v. 7, μακρο­ θυμήσατε e στηρίξατε al v. 8 e λάβετε al v. 10 mentre tre sono presenti (μή στενά­ ζετε al v. 9, μή όμνύετε e ήτω al ν. 12). L’ultimo, tra i presenti l’unico positivo, ri­ sponde al precedente ordine negativo conferendo ulteriore valore alle sezioni posi­ tive cui è rivolta la simpatia dell’autore. 8 L’agricoltore (v. 7), i profeti (v. 10) e Giobbe (v. 11). 9 v. 7: εως τής παρουσίας τοϋ κυρίου; ν. 7: εως λάβη πρόϊμον καί όψιμον; ν. 8: ότι ή παρουσία τοΰ κυρίου ήγγικεν; ν. 9: ινα μή κριθητε- ιδού δ κριτής πρδ τών θυρών εστηκεν; ν. 12: ϊνα μή υπό κρίσιν πέσητε. 10 Παρουσία (νν. 7.8), κρίνομαι, κριτής (ν. 9), τέλος (ν. 11), κρίσις (ν. 12). 11 Μακροθυμέω (νν. 7.7.8), κακοπάθεια (ν. 10), μακροθυμία (ν. 10), ύπομένω (ν. 11), ύπομονή (ν. 11).

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parallele anche nei contenuti: si oppongono solo i soggetti, le due facce della stessa realtà determinata daU’atteggiamento umano. A noi in questa sede interessano solo le sezioni positive - in cui è presente l’invito alla pazienza - nella seconda delle quali compare la figura di Giobbe. Un’inclusione contiene il primo comando fornito di motiva­ zione, esempio e applicazione ai destinatari: Μ ακρουψμήσατε οΰν, άδελφοί,

έως τής παρουσίας τον κυρίου. ’Ιδού ό γεωργός έκδέχεται τον τίμιον καρπόν τής γης μακρο■θυμών έπ‫ ־‬αύτψ έως λάβη, πρόϊμον καί οχιμον. Μακρουψμήσατε καί ύμείς, στηρίξατε τάς καρδίας ύμών, οτι ή παρουσία τοϋ κυρίου ήγγικεν. Il parallelo, costituito dall’invito alla pazienza in relazione alla parusia, evidenzia che la fine, proposta nei primi due membri, nel co­ mando e nell’esempio attraverso εως («fino a»), non abbia solo valore temporale, ma equivalga al fine come propone 1’δτΐ del terzo membro (v. 8); nonostante l’esempio del contadino indichi nell’arrivo delle piogge il limite temporale della pazienza. Infatti il paragone, benché indirizzato alla pazienza, spinge il confronto sullo scopo ultimo: come il fine della pazienza del contadino si realizza nell’ottenimento del raccolto, allo stesso modo lo scopo della pazienza del destinatario giacobeo è indirizzato alla parusia del Signore. Dopo il comando negativo, il cui inserimento contestuale al v. 9 appare a dir poco difficoltoso,12 l’ulteriore imperativo positivo (w. lOs.) è indirizzato a prendere in considerazione altri modelli di pa­ zienza. In quanto tali questi 2 w ., che potrebbero aver avuto origine in un contesto diverso,13 sono organizzati in forma subordinata al primo comando (w. 7s.): ne riprendono il vocabolario della pazienza

12 M. D ibeuus - H. G reeven , James. A Commentary on thè Epistle of James, P h ilad elp h ia 1976, 241; J.H. R opes , A Criticai and Exegetical Commentary on thè Epistle of St. James, E d in b u rg 1916,297; F. M ussner, La lettera di Giacomo, Brescia 1970, 293; J. A damson , The Epistle o f James, G ra n d R apids 1976, 191s.; ecc. 13 Cf. D ibelius - G reeven , James, 242; M ussner, La lettera, 294.

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e ne offrono i modelli di comportamento secondo uno schema etico conosciuto nel giudaismo. 'Υπόδειγμα λάβετε, άδελφοί, τής κακοπαθείας και τής μακροθυμίας τους προφήτας οϊ έλάλησαν έν τφ όνόματι κυρίου. 5Ιδού μακαρίζομεν τούς ύπομείναντας· την υπομονήν Ίώβ ήκούσατε καί το τέλος κυρίου εϊδετε, ότι πολύσπλαγχνός εστιν ο κύριος καί οϊκ τίρμων. I profeti e Giobbe sono da affiancare al contadino, modello etico piuttosto che esemplificazione esplicativa di un concetto previo alla stregua di altre metafore presenti nella prima lettera cattolica. Infatti benché introdotto da ιδού, già usato al c. 3 per le immagini della nave (v. 4) e del fuoco (v. 5),‫ ״‬la stessa formula nel c.5, ove ricorrono i 2/3 dell’uso giacobeo (4 su 6), presenta il salario (v. 4), il giudice (v. 9) e indirettamente Giobbe (v. 11). Perciò, piuttosto che una funzione specifica, a ιδού,15 è preferibile attribuirne una più gènerica di presentazione, nel caso specifico di un modello etico che l’imperativo aoristo seguito dal pronome provvede ad offrire ai destinatari: «Siate pazienti anche voi» (μακροθυμήσατε και υμείς). Abbiamo perciò tre modelli che vengono offerti ai destinatari, il primo dei quali è immediatamente collegato alla motivazione principale mentre l’ultimo, Giobbe, ne illustra il collegamento diretto attraverso il richiamo alla conoscenza dei destinatari che hanno sentito parlare della sua pazienza e sanno la fine che il Signore gli ha riservato: il fine e la fine coincidono. Se dunque i w . 7-8 e 10-11 vanno tenuti insieme perché gli esempi dei profeti e di Giobbe costituiscono ulteriori modelli, paraileli a quello del contadino, per il comune invito alla pazienza finalizzata alla parusia del Signore (v. 8), anche il vocabolario della pazienza forse andrebbe omogeneizzato più di quanto dicano i rispettivi etimi, per cui siamo propensi a ipotizzare una forma di sinonimia

14 Fa problema εί δέ che introduce l’immagine del cavallo (3,3) riportato da A B K3 mentre tentativi di armonizzazione con i successivi ίδού (w. 4.5) sembrano είδε γάρ (N*), Ιδέ γάρ (C) e ίδε. 15 Per J. C haine , L ’épitre de Saint Jacques, Paris 1927, 121, ιδού introduce un paragone, ma ciò è smentito da 1,11.23.

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tra la υπομονή di Giobbe e la μακροθυμία del contadino e dei pro­ feti per i quali si aggiunge κακοπσ θεία. L’ipotesi sembra confer­ mata dal verbo υπομένω usato per tutti i pazienti - di cui Giobbe è solo uno degli esempi - che proclama beata l’intera comunità, autore e destinatari, ai quali invece Gc si rivolge con μακροθυμέω. Donde provenga siffatto imbarbarimento lessicale e la pazienza di Giobbe è quanto chiediamo al percorso genetico non prima di aver ricordato il contesto precedente che la consecutiva iniziale (v. 7 ) pone in stretta relazione al nostro brano. Gc 4,13-5,6 rimprovera ai ricchi l’ostentata sicurezza progettuale sul tempo e la cecità cui in­ vece sono stati condotti dalla propria ricchezza.16 Il comune sfondo escatologico fa sì che la nostra consecutiva assuma dunque una va­ lenza oppositiva rispetto alle parole precedenti, per cui anche i mo­ delli ora offerti si pongono in alternativa rispetto ai ricchi. Π.

GIOBBE NEL TESTAMENTO OM ONIM O

Molto discussa la derivazione anticotestamentaria del modello del Giobbe paziente, lasciamo all’articolo successivo indagare !’offerta del TM e della LXX; quanto a noi preferiamo seguire la strada oggi comunemente accettata dei percorsi laterali alla tradizione biblica.17 Come per la figura del contadino assunta probabilmente dalla letteratura del tem po,18 anche i profeti e il Giobbe dei w . 10s., che

16 M arconi, La lettera, 197-208. 17 Ipotizzano un collegamento con il Testamentum ]obi L.T. Jo h n so n , The Letter of James. A New Translation with Introduction and Commentary, New YorkLondon-Toronto-Sydney-Auckland, 1995, 3 19s.; P. Davids, The Epistle o f James. A Commentary on thè Greek Text, E xeter 1982, 187. N on parlano esplicitamente di connessioni C. H aas, «Job’s Perseverance in thè Testam ent of Job», in Studies on thè Testament ofjob , by M.A. K nibb - P.W . Van D e r H o rs t, Cam bridge 1989, 117154; P. C ap elli, «Testam ento di G iobbe», in Apocrifi dell'Antico Testamento, 5 voli., a cura di P. Sacchi, Brescia 2000, IV, 107s. Strade m eno convincenti non m an­ cano: cf. S.R. G a r r e t t , «The Patience of Jo b and thè Patience of Jesus», in Ini 53(1999), 254-264. P er la distinzione tra il G iobbe del Testamentum e quello cano­ nico cf. C.T. Begg, «Com paring Characters: thè Book o f jo b and thè Testam ent of Job», in The Book o f Job, by W.A.M. Beuken, Leuven 1994, 435-445.

18'L’immagine del contadino sembra per nulla legata alla pazienza, né si dice mai esplicitamente che attenda alcunché, né nella LXX (Gen 9,20; 49,15; 2Cr 26,10; Sap 17,17; Am 5,16; Gl 1,11; Ger 14,4; 28 [51], 23; 38 [31], 24; 52,16), né in Filone

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pure appartengono alla tradizione biblica, devono essere transitati attraverso la letteratura religiosa e la mentalità corrente. Infatti, sebbene il vocabolario adoperato non sia costante, la pa­ zienza è una virtù molto celebrata nel pensiero ellenistico,19 stoico,20

per il quale invece è un personaggio attivo (Legum allegoriarum, 2,47.80; De migratione Abrahami 221) che coltiva la terra come l’anima (De agricultura 1.2.4.5.20.22.26.27.67.124.125.158.181; De plantatione 1.1.140; De sobrietate 35.36.36; cf. I. C hristiansen, Die Technik der Allegorischen Auslegungwissenschaft beiPhilon von Alexandrien, Tubingen 1969, 104ss), né negli pseudoepigrafici greci dell’AT, né in G iuseppe Flavio, né nel N T, né nella letteratura greca precedente e contem poranea al nostro, in cui però viene proposto come modello (P lu ta rc h u s, De liberis educandis, 2 B. Cf. V. d ’A g o stin o , «I tre elementi del processo educa­ tivo», in RSC 6[1958], 190-197) e come un saggio che sa di dover attendere non poco tem po per la m aturazione del raccolto ( P la to , Phoedrus, 276b2); sapienza ap­ presa non dalla frequentazione di sapienti ma p er l’esercizio del proprio lavoro (P la to , Theages 125c3). P er Plutarco è fondam entalm ente povero (πενήτω ν γεω ργώ ν) (P lu ta rc h u s, De Pythiae oraculis 405 C), prega prima del lavoro (P lu ­ ta rc h u s, De superstitione 169 B), non di m eno sa quali siano le piogge fertili, seb­ bene diverse da quelle invocate dal contadino giacobeo che trae la propria espres­ sione («gpiogge prim e e ultime») dal contesto biblico (Dt 11,14; Os 6,3; G er 5,24; Gl 2,23; Zac 10,1; P r 16,16) e palestinese (H.L. S tra c k - P. B illerbeck, Commentar zum Neuen Testament aus Talmud undMidrash, 6 voli., M iinchen 1954, IV, 827s.).

19 Plutarco usa frequentemente il verbo ύπομένω (ben oltre lOOx) e poco il sostantivo corrispondente (6x) mentre Filone alle 100 presenze del verbo affianca le 19 del sostantivo. Diverso il comportamento con la radice καρτερ- di cui Filone usa praticamente solo il sostantivo astratto (30x καρτερία) mentre più omogeneo ri­ sulta il comportamento di Plutarco (καρτερία 17x; καρτερός 17x) e Giuseppe Fla­ vio (καρτερία 12x; καρτερός 14x). Oltre 30 presenze conta anche ύποφέρω in Plutarco, semisconosciuto invece in Filone e Giuseppe Flavio, come μακροθυμnella letteratura profana precedente e contemporanea al nostro (3x in Plutarco, 2x in Esopo; lx in Strabone). Cf. A.J. F estigière , «'Υπομονή dans la tradition grecque», in RSR 21(1931), 477-486. 20 Cf. M. P ohlenz , La stoa. Storia di un movimento spirituale, 2 voli., F irenze 1967; M. S panneut , «Le Stoìcism e d ans l’histo ire d e la p atien ce ch rétien n e» , in

MSR 39(1982), 101-130; H aas, « Jo b ’s P erseverance», 126.

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intertestamentario21 e neotestamentario.22 Nella letteratura intertestamentaria questa virtù oltre ad essere riconosciuta attributo divino (μακρόθυμος),23 appartiene al baga-

21 Ampio il vocabolario adoperato. La radice καρτερ- legata allo scontro, sportivo o militare, caratterizzato dalla forza che esprime, conta 4 presenze di cui la metà concentrate nel Testamento di Giobbe (καρτεράς: Testamentum Judae 6,3; Oracula Sibyllina 3,194; καρτερία: Testamentum ]obi 27,4; καρτερέω: Testamen­ tum ]obi 4,10). Le ricorrenze della famiglia ύπομονή - υπομένω sono 19 delle quali 4 sono presenti rispettivamente nei Testamentum ]obi, Testamentum ]osephi e Psalmi Salomonis (ύπομένω: Testamentum Dan 5,13; Testamentum Nephtali 7,1; Testamentum ]osephi17,1 .‫ ;׳‬Psalmi Salomonis 10,2; 14,1; 16,15; Vitae Prophetarum 9,2; 25,1; Testamentum ]obi 4,6; 5,1; 26,4; Epistola Aristaeae 175,7; Oracula Sibyllina 5,269; Historicus Hecataeus 1,22,192; ύπομομή: Testamentum ]osephi 2,7; 10,1; 10,2; Psalmi Salomonis 2,36; Testamentum Jobi 1,5). La radice μακροθυμ- compare 22 volte di cui 7 nel Testamentum ]ohi e 4 nel Testamentum ]osephi (μακροθυμία: Testamentum Dan 2,1; 6,8; Testamentum Gad 4,7; Testamentum ]osephi 2,7; 17,2; 18,3; Apocalypsis Esdraegraeca 2,8; Testamentum]obill,7; Epistola Aristaeae 188,3; Apocalypsis Baruchi syriaca 12,4; μακρόθυμος: Testamentum Dan 6,9; Liber]osephi et Asenethae 11,10; 12,15; Testamentum ]obi 21,4; Oratio Manassis 2,22,12; μακροθυμέω: Testamentum ]osephi 2,7; Apocalypsis Esdrae graeca 3,6; Testamentum Jobi 11,10; 26,5; 27,7; 28,5; 35,4); infine 8 volte compare ύποφέρω (Testamentum ]obi 26,3.3; Vita Adae. et Evae 8,2; 9,2; 11,2; Testamentum Abrahae [ree. Longior] 20,5; Apocalypsis Esdrae graeca 1,17; Apocalypsis Baruchi syriaca 14,1). Cf. anche 2 Liber Henochi 9,1; 51,3; 66,6. 22 H N T conta una presenza di καρτερέω, 3 di υποφέρω, 25 della radice μα­ κροθυμ- e 49 della famiglia ύπομονή-ύπομένω. Cf. U. F alkenroth , «Pazienza / μακροθυμία. Pazienza / ύπομονή», in Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Te­ stamento, a cura di L. C oenen - E. B eyreuther - H . B ietenhard , Brescia 1976, 1228-1235; F. H auck, «ύπομένω, ύπομονή», in Grande Lessico del Nuovo Testa­ mento, 16 voli., a cura di G. K ittel - G. F riedrich , Brescia, VII, 1971, 44-66; J. H orst , «μακροθυμία», in Grande Lessico, VI, 1970,1011-1046; S. T arocchi, Il Dio longanime. La longanimità nell’epistolario paolino, Bologna 1993. 23 Testamentum Dan 6,9: «Affinché vi raccolga il salvatore delle genti: è infatti veritiero e longanime (μακρόθυμος), mite e umile»; Liber ]osephi et Asenethae 11,10: «Ma ho udito che il dio degli ebrei è un dio vero e un dio vivente e un dio mi­ sericordioso e compassionevole e paziente (μακρόθυμος) e pietoso e mite e che non tiene conto del peccato di un uomo umile»; ìbid. 12,15: «Quale padre è dolce come te Signore e chi è pronto come te Signore nella misericordia e chi paziente (μακρόθυμος) verso i nostri peccati come te Signore?»; Oratio Manassis 2,22,12: «Perché tu sei il Signore altissimo, misericordioso, longanime (μακρόθυμος) e pieno di compassione». Cf. Pirqè Abòt 5,2s.: «Dieci generazioni ci sono da Adamo a Noè, per mostrare quanta longanimità usi Iddio; perché tutte le generazioni anda­ vano sempre più provocando la sua ira, finché mandò su di loro l’acqua del diluvio. Dieci generazioni ci sono da Noè fino ad Abramo, per mostrare quanto grande sia la longanimità di Dio, perché tutte le generazioni andarono sempre più provocando la

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glio religioso dei padri del popolo (naxQO‫׳‬9‫״‬unia),24 come lo è di

sua ira, finché venne Abraham, nostro patriarca e ricevette egli la ricompensa di tutte». 24 Nel Testamentum Iosephi è strettamente legata alla prova, inviata da Dio, a differenza della lettera di Giacomo in cui Dio non mette alla prova, né a essa è cor­ relata la pazienza ma direttamente all’attesa e dunque alla fiducia; sebbene il motivo della prova sia presente in Gc 1,2-4.12; 5,10s. Dieci sono le prove per Giuseppe, come per Abramo (Liber Jubilaeorum 19,8) e la durata è di sette anni: «È presente in tutte le sventure, consola in maniere diverse. Per breve tempo si allontana (cf. Sap 3,5: όλίγα παιδευθέντες; Sir 2,1-5), per mettere alla prova la volontà dell’anima. Mi provò con dieci prove e in tutte io fui paziente, perché la pazienza è una grande medicina e la costanza dà molti benefici» (T.Ios 2,6s.). Proprio perché unita alle prove la pazienza è altrettanto strettamente collegata alla preghiera attraverso la quale viene chiesto a Dio la salvezza (T.Ios 3,4; 4,3.8; 6,7; 8,1.5; 9,4): «Vedete dun­ que figlioli miei che efficacia ha la sopportazione e la preghiera accompagnata dal digiuno. Così anche voi se la castità e la purezza perseguirete con sopportazione e umiltà di cuore il Signore abiterà in voi perché ama la castità» (T.Ios 10,ls.). Questi 2 w . si collocano alla fine del primo grande racconto incentrato sulla castità, nel tratto parenetico, allorché l’autobiografia si esplicita come modello di comporta­ mento per i figli, destinatari dello scritto. In quanto applicazione parenetica viene proposto il riassunto delle virtù e l’evidenziazione della loro efficacia. La lettera di Giacomo, che non contempla il valore del digiuno, non collega la preghiera direttamente alla pazienza a sua volta dipendente dalla prova, ma indirettamente attra­ verso la fiducia in Dio manifestata esternamente dalla preghiera. Dunque l’unione si mantiene, sebbene assuma caratteri diversi, tant’è che la prima lettera cattolica col­ loca la preghiera non lontana dalla trattazione del tema della pazienza: le considera entrambe atteggiamenti della debolezza dell’uomo che si affida a Dio e della pre­ ghiera mantiene l’efficacia sebbene attraverso l’offerta di un altro modello, Elia. Nel c. 17 con altri 2 w . collocati nella parenesi conclusiva Giuseppe si rivolge ancora ai figli per offrirsi come modello di pazienza: in questo caso non più legata alla prova circa la castità ma alla difesa dell’onore dei propri fratelli: «Vedete, dunque, figlioli miei, quanto ho dovuto pazientare (ύπέμεινα), per non infamare i miei fratelli. An­ che voi dunque amatevi reciprocamente e con longanimità (έν μακροθυμί,ςι), na­ scondete le vostre mancanze reciproche» (T.Ios 17,ls.). Infine, sempre rivolto ai fi­ gli, il patriarca mostra come la pazienza si sia dimostrata un’arma vincente anche nelle vicende storiche: in amore, nella vita economica e nel potere: «Ecco infatti ve­ dete come attraverso la pazienza (διά την μακροθυμίαν) e l’umiltà mia abbia avuto in moglie la figlia del sacerdote di Eliopoli e assieme a lei mi furono dati cento ta­ lenti d’oro. Inoltre il Signore fece sì che (la gente di Eliopoli) mi fosse sottoposta» (T.Ios 18,3). Nel Testamentum Dan la longanimità è unita alla verità e opposta al­ l’ira: «E ora figlioli miei ecco io sto morendo e in verità vi dico che se non vi guarde­ rete dallo spirito della menzogna e dall’ira e non amerete la verità e la longanimità (μακροΟυμιαν), perirete» (T.Dan 2,1); «rigettate da voi l’ira e ogni menzogna e amate la verità e la longanimità (μακρο'&υμί.αν)» (T.Dan 6,8). Nel Testamentum Gad la longanimità è il modo di agire dello spirito dell’amore e, attraverso un per-

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Abramo nella morale dei maestri ebraici25 e nell’ideologia essenica26 e di Giobbe nel Testamento omonimo ove ha una posizione partico­ lare.27 Il nome di Giobbe negli pseudoepigrafi greci dell’AT è presente 30x di cui 28 nel Testamentum ]obi e 2x nell’unico frammento dello scrittore ebreo Aristea28 nel quale non gli viene attribuita la pa­ zienza.29 Nel Testamento di Giobbe invece la virtù del testatore viene evidenziata dalla collocazione strategica del vocabolario nella struttura del testo: all’inizio allorché il patriarca si presenta (T.Job 1,5), nell’intermezzo parenetico in cui il protagonista si rivolge ai fi­ gli (27,7) e nella conclusione attraverso un’altra sezione parenetica (T.Job 45).30 fetto parallelismo antitetico, si oppone alla piccolezza d’animo che è il modo di agire dello spirito dell’odio; naturalmente anche le finalità sono opposte: a. Infatti lo spi­ rito dell’odio / b. attraverso la piccolezza di spirito, / c. agisce insieme con satana, / d. in tutte le occasioni / e. per le morti degli uomini; / / a. invece lo spirito dell’amore / b. con longanimità / c. agisce insieme con la legge di Dio / d . ................../ e. per la salvezza (T.Gad 4,7). 25 Nella morale dei maestri ebraici codificata da R. Jehudàh (II sec. d.C.) di Abramo si dice: «Dieci prove ebbe a subire Abraham nostro patriarca e resistette a tutte. Ciò vale a mostrarci quanto fosse l’amore di Abraham nostro patriarca (per Dio)» (P.Abót 5,4). Di chi si occupa della Torah viene detto che nonostante gli ven­ gano concessi poteri e capacità, «si mantiene modesto e paziente, pronto a perdo­ nare le ingiurie (P.Abót 6,1). Infatti uno dei quarantotto requisiti per acquisire la Torah è la longanimità, un altro è la rassegnazione nelle punizioni (P.Abót 6,5). 26 Anche nel Libro dei giubilei come nel Testamentum losephi la pazienza è conseguenza di una prova, la decima: «E questa (la morte di Sara) è la decima di­ sgrazia con la quale fu provato Abramo ed egli fu trovato fedele e paziente di spi­ rito. Ed egli poiché fu trovato fedele, paziente, ed era scritto nelle tavole del cielo come amico del Signore, quando pregò, colà, di seppellire 0 suo morto, non disse parola a proposito del discorso...» (Liber jubilaeorum 19,8s.: cf. 17,7). 27 Per il rapporto fra le figure di Giobbe e di Abramo cf. I. J acobs, «Literary Motifs in thè Testament of Job», in JJS 21(1970), 1-10. 28 Riportato da E usebius, Praeparatio Evangelica, 9,25,1.2. 29 C. K raus R eg g ia n i , «La figura di Giobbe in tre documenti del giudaismo ellenistico», in VetCbr 36(1999), 165-192, tra i documenti giudeo ellenisti che con­ tengono il nome di Giobbe riporta anche la seconda aggiunta al libro omonimo nella versione dei LXX ove pure manca qualsiasi riferimento alla pazienza del prota­ gonista. 30 C apelli, «Testamento di Giobbe», 105s.; cf. B. Schaller , «Zur Komposition und Konzeption des Testament Hiobs», in Studies, 46-92; riedito in Fundamenta Judaica. Studien zum antiken Judentum und zum Neuen Testament, hrsg. M.A. K nibb - P.W. V an D er H orst, Gòttingen 2001, 28-66.

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Nella presentazione abbiamo il termine υπομονή - «Io infatti sono vostro padre Giobbe colui che sopporta con ogni pazienza (υπομονή)» - 31 lo stesso che la pericope giacobea usa per Giobbe (Gc 5,10). Al centro del libro, allorché il patriarca si propone come modello ai figli, si ha il verbo μακροθυμέω - presente in maniera consistente nel Testamentum Jobi rispetto al corpus degli pseudoepi­ grafici dell’AT (5x su un totale di 7) - in un caso simile a quello del contadino giacobeo.52 In questo passo centrale la virtù del padre si offre modello al comportamento dei figli attraverso un imperativo: «Ora dunque figli miei abbiate pazienza anche voi in tutto ciò che vi accada poiché mi­ gliore di tutto è la pazienza» (T.Job 27,7).33 Diversi elementi in que­ sto versetto parenetico concordano con l’introduzione della peri­ cope giacobea cui siamo interessati (Gc 5,7-8) per non ipotizzare una dipendenza: il valore consecutivo della frase (otiv) rivolta ai destina­ tari (τέκνα μου / αδελφοί), l’imperativo aoristo seguito dall’applica­ zione ai destinatari (μακροθυμήσατε καί υμείς), la ripresa del voca­ bolario, con il sostantivo enfaticamente posposto nella motivazione

31 T.Job 1,5: έγώ γά ρ είμι ό π α τή ρ ΐιμώ ν ,Ιώ β έν π ά σ η υπ ο μ ο νή γενόμενος. C apelli, «Testamento», 142 liberamente traduce: «Io infatti sono vostro padre

Giobbe, colui che si è trovato a dover sostenere ogni sofferenza». 32 Nessun apocrifo come il Testamentum Jobi usa tanta abbondanza lessicale intorno al tema della pazienza senza specificità semantiche. A Sitidos che, stanca delle umiliazioni, lo invita a ribellarsi a Dio (cc. 24-25), Giobbe risponde (c. 26) con una varietà di verbi: al v. 3 per parlare della sopportazione sua e della moglie usa due volte il verbo υ π ο φ έρ ω , le uniche del libro: «Io sopporto tutto questo e tu sop­ porti perfino la perdita dei nostri figli e del nostro patrimonio...». Invece nei w. 24s. lo stesso concetto viene espresso con ύ π ο μ ένω e μ α κ ροθ υμ έω : «Perché non ri­ cordi quei grandi beni che abbiamo avuto? Se dunque il bene abbiamo accettato dalla mano del Signore, il male ora non sopportiamo (ύπομένομεν)? Pazienteremo (μ α κροθυμήσ ω μεν) invece fino a che il Signore, mosso a pietà di noi...» (T.Job 26,3ss.). Di Giobbe anche la riflessione si fa paziente nonostante l’umiliazione della moglie ridotta a serva per portare un tozzo di pane al marito: «e dopo ciò ripren­ devo la paziente riflessione (λογισμόν μ α κ ρό θ υμ ο ν)» (T.Job 21,4). Ancor prima delle disgrazie la pazienza gli era riconosciuta da coloro ai quali volentieri prestava denaro: «Altre volte venivano derubati e tornavano dicendomi ti preghiamo abbi pazienza con noi (μ α κρ ο θ ύ μ η σ ο ν έφ ’ήμάς), vedremo come poterti risarcire» (T.Job 11,10). 33 Ν ΰν ο ΰν τέκ ν α μου μ α κ ρ ο θ υ μ ή σ α τε κ α ί ύμ εΐς έν π α ν τί σ υ μ β α ΐνο ν τι ύμ ιν δ τι κ ρ είττώ ν έστιν π α ν τ ό ς ή μ α κ ρ ο θ υ μ ία .

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dopo il superlativo nel caso del Testamentum ]obi, con la triplice ri­ petizione del verbo in Gc. Con la conclusione applicativa termina la prima parte del libro e con essa si esaurisce il riferimento alla pazienza di Giobbe: le poche ricorrenze del vocabolario presenti nella seconda hanno per soggetti personaggi diversi.34 A questa relazione si aggiunga lo stretto legame testuale tra la pazienza dell’agrimensore e quella dei successivi modelli menzionati dalla prima lettera cattolica, e risulta evidente il debito di pazienza che il Giobbe giacobeo contrae con l’omonimo del Testamento e, con tanta virtù, l’originalità rispetto all’immagine che la LXX e il TM danno del personaggio.35

CONCLUSIONE A conclusione di questo percorso analitico forse non disturba rammentare le linee costitutive dell’immagine del Giobbe di G ia­ como: anzitutto è unito al contadino e ai profeti nel proporsi come modello di pazienza, il cui vocabolario è variegato ma intercambia­ bile. La pazienza di questi personaggi risulta finalizzata alla parusia e si pone in alternativa alla volontà previsionale dei ricchi che mirano alla capitalizzazione del tempo. Infine la pazienza, attributo molto co­ mune nell’etica popolare del tempo e riconosciuto ai patriarchi so­ prattutto dalla letteratura intertestamentaria, sembra derivare a Giobbe dal Testamento omonimo, di cui condivide l’ambiente di ori­ gine ma non il giudizio negativo nei confronti dei ricchi, né il legame del protagonista con i profeti né il suo rapporto con l’escatologia.

34 «E nessuno di loro (i re confinanti) mi parlava e non per pazienza (oùx'i |J.aXQo{h)[J,oiL)VT£5) nei miei confronti non parlavano» (T.Job 28,5); più avanti gli stessi re dicono: «Ora dunque dobbiamo aver pazienza (vùv o iv ^iaxQofru|xr|aoi>[XEv) per capire in che condizioni è» (T.Job 35,4). 35 Cf. P.W. V an D er H orst , Essays on thè Jewish World ofEarly Christianity, Freiburg-Gòttingen 1990, 94-110 ove riporta il precedente articolo «Image of Women in thè Testament of Job», in NThT 40(1986), 273-289.

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LA NASCITA DELLA PAZIENZA DI GIOBBE II A nna M aria S carpa

INTRODUZIONE In continuità col precedente articolo, il nostro contributo mo­ strerà l’apporto lessicale offerto alla pericope giacobea dall’AT. È nostro intendimento dunque muovere dalla versione dei LXX per proseguire il percorso nella letteratura apocrifa e rabbinica. I.

IL VOCABOLARIO DELLA PAZIENZA NELL’AT

1. La

r a d ic e

υπομένω

Il vocabolo maggiormente rappresentativo della pazienza nella LXX è υπομένω,1 attestato per lo più nella letteratura sapienziale,2 cui seguono i libri storici3 e quelli profetici.4 Dal significato general­

1 Con 115 ricorrenze di cui 82x il verbo imo^évco, 33x il sostantivo imofxovf). 2 Sono 56 le ricorrenze di cui 24 concentrate nei salmi, 15 nel libro di Giobbe esprimenti quasi tutte il senso negativo dell’attesa di qualcosa, 17 nei rimanenti libri. 3 26 delle 36 occorrenze sono concentrate in 4 Maccabei: Es 12,39; Nm 22,19; Gs 19,48; Gdc 3,25; 2Re 6,33; lCr 29,15; lEsd 2,15; 2Esd 10,2; Tb 5,7; 2Mac 6,20; 4Mac 1,11.11; 5,23; 6,9; 7,9.22; 9,6.8.22.30; 13,12; 15,30.31.32; 16,1.8.17.19.21; 17,4.7.10.12.17.23.23. 4 II termine è attestato 23 volte: Is 25,9; 40,31; 49,23; 51,5; 59,9; 60,9; 64,3; Ger 14,8.19.22; 17,13; Lam 3,21.24.25.26; Mi 7,7; Na 1,7; Ab 2,3; Sof 3,8; Zac 6,14; Mal 3,2; Dan 12,12; 13,57.

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mente profano presente nei testi storici il verbo ha sempre un sog­ getto umano: l’Amorreo (Gs 19,48), i servi del re di Moab (Gdc 3,25), il re di Israele in attesa della liberazione dal Signore (2Re 6,33), il popolo gravato dal tributo ormai insostenibile da versare al re invasore (lE sd 2,15) ecc. Nella maggioranza dei casi il verbo greco traduce l’ebraico qàwàh,5 «sperare», con implicito il desiderio di raggiungere ciò per cui si sospira.6 È seguito dai sinonimi yàhal1 e hàkàh* prossimi a quelli della fiducia (bàtàh) che alimenta la perse­ veranza.9 La radice è presente in maniera estesa nei salmi e nei profeti dove oggetto dell’attesa pregna di speranza è il Signore. Sono il po­ polo di Israele in esilio (Is 25,9; 40,31; 49,23; 59,9), i fedeli in JH W H (Is 64,3), i profeti (Ger 14,8.19.22; 17,13; Lam 3,21.25.26; Mi 7,7; Na 1,7; Ab 2,3), la città di Gerusalemme (Sof 3,8) ad attendere con fiducia il Signore, e perfino le isole in parallelo con le genti la cui speranza incornicia l’attesa a m o’ di garanzia: «presto la mia giustizia sarà vicina, si manifesterà come luce la mia salvezza e nel mio braccio

5 qawah è tradotto da ύπομένω 25x: Is 25,9; 40,31; 49,23; 51,5; 59,9; 60,9; Ger 14,19.22; Lam 3,25; Sai 24,3.5.21; 27,14; 37,9.34; 39,2; 51,11; 55,7; 68,7.21; 118.95; 129,5; Pr 20,9; Gb 3,9; 17,3. 6 Cf. W . M eikle , «T h e vocabulary o f p atience in th è O .T .» , in ExpS V ili 19(1920), 219-225; C. Spic q , «ύπομένω, patientia», in RSPhTh 19(1930), 95-106; P .A .H . D e B oer , « É tu d e su r le sens d e la racine Q W H » , in OTS 10(1954), 225-246; J. V an D er P lo eg , « L ’espérance dans l’A T », in RivBib 61(1954), 481-507; F. H auck , «ύπομένω, ύπομονή», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, 16 voli., a cu ra di G . K ittel - G . F riedrich , Brescia 1965-1992, V II, 44-66; C. W estermann , « n i p qwb pi. “s p e ra re ”», in Dizionario Teologico dell’Antico Testamento, 2 voli., a cura di E. J enni - C. W estermann , T o rin o 1978, II, 558-567; M. S panneut , «M agnanim ité», in Dictionnaire de Spiritualité, ascétique et mystique, 17 voli., a cu ra di M. V iller - F. C avallera - J. G uibert - A. D ernille , P aris 1980, X , 91-97; I d ., «P atience», in DS, P aris 1984, X II, 438-476; F.S. S pencer , «B eyond T re n c h ’s Study o f Synonym s», in ET 99(1987), 140-144; C. Spic q , Note di lessicografia neotestamen­ taria (Suppl. G L N T4), Brescia 1988,1, 600-605; W . R adl , «ύπομένω hypomeno ri­ m anere, assum ersi; resistere, so p p o rtare » , in Dizionario Esegetico del Nuovo Testa­ mento, 2 voli., a cura di H . B alz - G . S chneider , Brescia 1998, II, 1744-1746. 7 Con 7 occorrenze: 2Re 6,33; Lam 3,21.24; Mi 7,7; Gb 6,11; 14,14; 32,16. 8 Ricorre 7 volte: Is 64,3; Ab 2,3; Sof 3,8; Dan 12,12; Sai 32,20; 105,13; Gb 32,4. 9 Gli altri termini ebraici tradotti da ύπομένω sono: salam (Gb 9,4; 22,21; 41,3), bùi (Gdc 3,25; Lam 3,26), bàsah (Na 1,7; Sir 51,8), yasab (Nm 22,19; Gb 33,5), kùl (Mal 3,2), tàman (Gb 20,26), qùm (Gb 8,15), màhah (Es 12,39).

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le genti spereranno (έλπιοϋσιν), mi attenderanno (ύπομενοϋσιν) le isole e nel mio braccio spereranno (έλπιούσιν)» (Is 51,5; cf. Is 60,9). In Geremia Dio stesso è esplicitamente identificato nella «speranza di Israele» (Ger 14,8; 17,13). Ma la υπομονή non si limita al mo­ mento storico. In contesto escatologico si attende Dio nel giorno del giudizio, come recita Sof 3,8: «Perciò aspettami (ύπόμεινόν με), oracolo del Signore, nel giorno in cui mi leverò accusatore, poiché il mio giudizio (κρίμα μου) è per adunare genti, raccogliere regni, per riversare su di loro tutto il furore della mia ira (πάσαν όργήν θυμού μου), poiché nel divampare della mia gelosia sarà consumata tutta la terra». O si invita a sopportare il giorno della venuta del Signore, come in Mal 3,2: «Chi sosterrà il giorno della sua venuta (τίς ύπομενεϊ ήμέραν εισόδου αύτοϋ) ο chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la soda dei lavandai». Passi, que­ sti ultimi, dove l’attesa è collegata all’ira del Signore, manifestazione della sua giustizia. Nelle professioni individuali di fiducia all’interno del Salterio, sono i poveri (Sai 9,19), i credenti in JH W H (Sai 24,3; 68,7), tra cui l’orante stesso (Sai 24,5.21; 32,20; 38,8; 39,2; 51,11; 61,6; 68,21; 70,5; 129,5; 141,8) e i giusti (Sai 36,9) ad attendere la salvezza, certi che Dio doni la capacità di resistere di fronte agli empi e a ogni ge­ nere di avversità. Al contrario dei malvagi che non ripongono la loro fiducia nel Signore (Sai 105,13), anzi vengono sorpresi mentre mi­ rano al giusto come fosse un bersaglio per annientarlo, un’attesa ca­ rica di desiderio di distruzione (Sai 55,7; 118,95). Al di fuori del Salterio il termine è invocato soprattutto dal Sira­ cide,10 dove il maestro invita i discepoli a perseverare (Sir 2,14), ad attendere le opere di giustizia del Signore, a sperare (Sir 16,22). Il libro di Giobbe attesta un uso prevalentemente negativo del vocabolo greco che ricorre 15 volte,11 traducendone otto ebraici (hakàh, qawàh, tàman, yahal, qùm, sàlam, yasab, tiqwah) i quali raffor­ zano il concetto della sopportazione con quello della fermezza, a

10 Sir 2,14; 16,13.22; 17,24; 22,18.18; 36,15; 38,27; 41,2. 11 14x compare nella forma verbale: Gb 3,9; 6,11; 7,3; 8,15; 9,4; 14,14; 15,31; 17,13; 20,26; 22,21; 32,4.16; 33,5; 41,3; una come sostantivo: Gb 14,19.

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volte amplificandolo. Quasi mai il termine è riferito al protagonista, o, nel caso in cui lo sia, acquista un significato esclusivamente nega­ tivo (6,11; 7,3; 17,13). I soggetti dell’attesa sono vari: quando Giobbe maledice la propria esistenza la luce è invitata ad attendere per annullare l’alternanza giorno-notte, garanzia della vita che conti­ nua (3,9); Giobbe reclama giustizia e chiama Dio in giudizio per pro­ vare la sua innocenza dichiarando di non poter resistere a tanto do­ lore e implorandolo di concedergli la morte (6,11; 9,4); a uno a uno, i tre interlocutori del protagonista, nel ribadire la teoria religiosa tra­ dizionale, dichiarano illusoria la speranza di chi si appoggia all’em­ pio (8,13). Alla fine del libro (41,3) il riconoscimento della picco­ lezza umana è il primo passo per porsi correttamente di fronte al mi­ stero, accettando l’impossibilità di ogni discorso su Dio e rinun­ ciando alla tracotante pretesa di dominarlo. 2. L a

radice

n a x Q o fru jiia

Il lessema ^axQO’i hjfua, e i termini da esso derivati, nella LXX ricorrono 32 volte,12 nelle quali il «cuore grande»13 sembra essere una caratteristica prevalente dell’atteggiamento divino nei riguardi dell’uomo.14 Nella maggioranza dei casi il greco traduce l’ebraico 5erek 5appaim, da *erek («allungare») e il duale ’appaim («narici»),15

12 II verbo μακροθυμέω 8x: Gb 7,16; Pr 19,11; Sir 2,4; 18,10; 29,8; 32(35),19; Bar 4,25; 2 Mac 6,14. Il sostantivo μακροθυμία 5x: Pr 25,15; Sir 5,11; Is 57,15; Ger 15,15; IMac 8,4. L’aggettivo μακρόθυμος 19x: Es 34,6; Nm 14,18; Ne 9,17; Sai 7,12; 86,15; 103,8; 145,8; Pr 14,29; 15,18.18; 16,32; 17,27; Qo 7,9; Sap 15,1; Sir 1,20; 5,4; Gl 2,13; Gn 4,2; Na 1,3. 13 Cf. P. C hantraine , Dictionnaire etymologique de la langue grecque, 2 voli., Paris 1968, II, 446. 14 In riferimento a Dio la radice è distribuita in tutto l’AT: Es 34,6; Nm 14,18; Ne 9,17; 2Mac 6,14; Sai 7,12; 85,15; 102,8; 144,8; Sap 15,1; Sir 5,4; 18,10; 29,8; 35,19; Is 57,15; Ger 15,15; Gl 2,13; Gn 4,2; Na 1,3. 15 II duale ’appaim, indicante le due alette oppure le due narici del naso da cui esce o entra il soffio vitale, deriva dal termine ,ap che ha il doppio senso di «ira» e «naso» umano da cui esce il soffio che la manifesta; la forma duale è usata come pars prò loto per indicare tutto il volto: cf. F. BOchsel , «θυμός», in GLNT, IV, 589; J. H orst , «μακροθυμία», in GLNT, VI, 1011-1046; H . K leinknecht et al., «όργή», in GLNT, VIII, 1073-1254; G . S auer, «*]Ni ’af-ua», in DTAT, 1 ,193-196; J. B ergman - E. J o h n so n , «anaf-af», in Grande Lessico dell’Antico Testamento, 2 voli., a cura di G .J. B otterweck - H . R in ggren , Brescia 1988,1, 753-780; H .W . H ollander , «μα-

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espressione che in senso traslato viene a designare il soggetto «longa­ nime» perché «lento all’ira». Dio è il soggetto in Es 34,6, passo che i testi successivi sem­ brano tenere presente.16 Recita il testo: «E passò il Signore davanti al suo volto e chiamò: “Signore, Iddio misericordioso e pietoso, longa­ nime e ricco di grazia e veritiero” (κύριος ό ,θ εός οίκτίρμων καί έλεήμων μακρόθυμος [,erek 5appaim] κ αί πολυέλεος και άληθινός)». Il contesto è l’alleanza sinaitica rinnovata dove Dio si rivela un giudice la cui misura sembra misericordia smisurata. Il termine μακρόθυμος è infatti posto tra gli attributi divini positivi οίκτίρμων καί έλεήμων e πολυέλεος καί άληθινός, tra i quali il doppio riferi­ mento 3ΐΓελεος rende bene la sovrabbondanza della misericordia di­ vina presente in tutto l’AT. La medesima formulazione è riscontra­ bile più o meno esplicitamente in altri passi dove emerge la ribel­ lione e l’infedeltà di Israele in contrasto al ritratto del κύριος carat­ terizzato da longanimità, ricchezza di grazia e verità (Nm 14,18; Ne 9,17 ecc.).17 In 2Mac 6,14 la μακροθυμία divina rivolta provvisoriamente alle nazioni assume una finalità negativa: il giudizio punitivo a causa dei loro peccati; l’assenza della longanimità invece è ciò che salva il popolo di JH W H dal peccato e dal giudizio definitivo.18 Nella letteratura sapienziale la μακροθυμία di Dio è un ritor­ nello. La giustizia divina non è sminuita quando viene posta in paral­

κροθυμία makrothymia pazienza, longanimità», in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, II, 261-264. 16 Cf. S. T arocchi, Il Dio longanime. La longanimità nell’epistolario paolino, Bologna 1993, 31-52. 17 Anche se con alcune variazioni nella formula, Nm 14,18 richiama Es 34,6: «il Signore longanime e ricco di grazia e veritiero (κύριος μακρόθυμος καί πολυέ­ λεος καί άληθινός), che cancella la colpa, l’ingiustizia e il peccato, e veramente non purificherà il colpevole, gettando i peccati dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta (generazione)». Similmente Ne 9,17 presenta il ritratto di Dio caratterizzato da misericordia e longanimità nel contesto di una liturgia penitenziale dove il po­ polo riconosce la sua infedeltà: «E tu sei un Dio pietoso e misericordioso, longanime e ricco di grazia e veritiero (καί σύ θεός έλεήμων καί οίκτίρμων μακρόθυμος καί πολυέλεος) e non li hai abbandonati». 18 II testo recita: «Non infatti così come con gli altri popoli attende pazien­ tando (άναμένει μακροθυμών) il Signore il tempo di punirli, quando siano giunti al colmo dei loro peccati».

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lelo alla sua forza e pazienza, ovvero sospensione dell’ira: «Dio è un giudice giusto, forte e paziente e non va in collera (μακρόθυμος μή οργήν έπάγων) ogni giorno» (Sai 7,12).19 II testo masoretico, al con­ trario di quello greco, omette l’attributo della pazienza e della forza per enfatizzare la collera come manifestazione di giustizia: «Dio è un giudice giusto, è un Dio che si adira ogni giorno ^ ’Idhìm sópèt saddiq u f è l zó'em bekol-yòm)». Anche nell’insegnamento del Siracide la pazienza del Signore non può giustificare la persistenza dell’uomo nel peccato al quale, anzi, viene subito rammentata la coesistenza della misericordia e ira divine.20 Nell’ambito della riflessione sulla vacuità dell’esistenza, fra­ gilità e debolezza umane diventano motivi per accedere alla pietà di Dio paziente e misericordioso (Sir 18,11),21 che ascolta le suppliche della vedova e dell’orfano, impietoso verso gli ingiusti ai quali nega la sua longanimità (Sir 35,19).22

19 In sintonia col testo greco, anche in altri salmi echeggia la formula di Es 34,6. Nel Sai 86,15 sofferenza e tribolazione costituiscono il campo di prova della fede dell’orante che aspetta da Dio solo la liberazione da tutu i mali: «Ma tu sei o Si­ gnore un Dio pietoso e misericordioso, longanime e ricco di grazia e veritiero (κύριε ó θεός οίκτίρμων και έλεήμων μακρόθυμος καί πολυέλεος καί άληθινός)». La stessa terminologia echeggia nel Sai 103,8 che, richiamando esplicitamente l’esodo, inneggia all’abbondanza della grazia e misericordia elargite dal Signore alla creatura plasmata dalla polvere. Cf. Sai 145,8. 20 In Sir 5,4.6 leggiamo: «Non dire: “Ho peccato” e “che cosa mi è suc­ cesso?”. Perché il Signore è paziente (κύριός έστιν μακρόθυμος) [...] capace di mi­ sericordia e di ira (£λεος e θυμός)». Cf. Sir 18,10; 29,8; 35,19. 21 Recita il testo: «Per questo il Signore è paziente con gli uomini (έμακροθύμησεν κύριος), e riversa su di essi la sua misericordia (ελεος)». La grande misericordia è un motivo frequente accanto a quello della longanimità. In Sir 29,8 la pazienza è addirittura la modalità con cui l’uomo può imitare Dio avendo cura del misero: «Tuttavia sii longanime (έπίταπεινώ μακροθύμησον) con il misero, e non fargli attender troppo l’elemosina (έπ’έλεημοσύνη μή παρέλκυσης αύτόν)». An­ che qui longanimità e έλεημοσύνη vanno di pari passo. Cf. Sap 15,1 che, in pole­ mica contro gli idoli, canta la fede di Israele salvato da Dio: «Ma tu nostro Dio sei buono e veritiero longanime (χρηστός καί άληθής μακρόθυμος) e governi tutto con misericordia (καί έλέει)». 22 Nel contesto giudiziale del brano il verbo μακροθυμέω compare al nega­ tivo: «il Signore non tarda e non sarà longanime (μή μακροθυμήση) verso di loro». Anche in Sir 35,11-24 Γελεος di Dio, riversato sul suo popolo, è presente accanto alla giustizia.

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Nella letteratura profetica23 il passo di Is 57,15, all’interno di un oracolo di salvezza (Is 57,14-19), pone in parallelo pazienza e vita, entrambi doni per i pusillanimi e gli afflitti: «Questo dice il Signore l’Altissimo che siede in alto sull’eterno, santo fra i santi è il suo nome, Signore Altissimo che riposa fra i santi e dona ai pusillanimi la longanimità (όλιγοψΰχοις διδούς μακροθυμίαν) e dona vita agli oppressi di cuore (και διδους ζω ήν τοϊς συντετριμμένοις τήν καρδίαν)».24 II ν. 16 specifica la scelta di Dio che non cede all’ira davanti al peccato dell’uomo, lasciando spazio alla μακροθυμία che garanti­ sce continuità di vita, fedeltà alla creazione originaria. Nel caso di Ger 15,15, la vita del profeta è messa in pericolo dalla μακροθυμία divina rivolta ai nemici che rischia di produrre ef­ fetti disastrosi sull’innocente: «Tu sai o Dio, ricordati di me e visi­ tami e vendicami dei miei persecutori; nella lentezza della tua ira (εις μακρσθυμίαν) non lasciarmi perire; sappi che per amor tuo ho por­ tato l’obbrobrio».25 Dio è «compassionevole e clemente, longanime e ricco di grazia (έλεήμων καί οίκτίρμων μακρόθυμος καί πολυέ­ λεος)» anche nei testi di Gl 2,13 e Gn 4,2, seppure inseriti in conte­ sti diversi.26 In Na 1,3 l’attributo di longanime accanto all’afferma­ zione della forza sembra mitigare il ritratto austero di Dio, senza escludere l’aspetto della sua onnipotenza, come i versi successivi la­ sciano intendere.27 25 Dio è soggetto della pazienza in Is 57,15; Ger 15,15; Gl 2,13; Gn 4,2; Na 1,3. 24 La lettura operata dal canone alessandrino è diversa da quella dell’ebraico. Infatti l’espressione όλιγοψύχοις διδούς μακροθυμίαν και διδούς ζωήν τοις συντετριμμένοις τήν καρδίαν (riportata in terza persona) traduce l’ebraico l'hah“yót rùah ?pàlim ùlhah°yót lab nidkka ini nel quale Dio stesso dichiara in prima persona la sua trascendenza e regalità che non cancella la sua attenzione verso l’u­ mile e l’afflitto e per questo può «ravvivare lo spirito degli umili e ravvivare i cuori contriti». 25 II passo si situa in una delle confessioni di Geremia (15,10-21) nel quale il profeta perseguitato grida a Dio per averlo inviato a proclamare oracoli di minaccia. La risposta divina reitera le richieste al momento della vocazione del profeta, ag­ giungendo la promessa di salvezza e liberazione. 26 In Gioele il profeta richiama alla conversione e al pentimento nell’attesa del giorno del Signore; in Giona la certezza della longanimità di Dio è motivo di fuga dalla propria missione. «Il Signore è longanime (μακρόθυμος) e grande la sua forza»: l’espressione è inserita in un inno - un acrostico parzialmente alfabetico (w. 2-8) - a Dio geloso e

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Ben distribuita la longanimità di Dio nell’AT, quella dell’uomo invece è attestata quasi esclusivamente nella letteratura sapienziale riferendola al sapiente che la associa alla misericordia.28 Il libro dei Proverbi concentra le citazioni della |iaxQO§u|ila nella seconda e terza raccolta, costituita da brevi sentenze nelle quali viene delineato il ritratto dell’uomo saggio distinto dal pusillanime per la sua pazienza,29 qualità richiesta all’uomo intelligente che non ama le guerre ma preferisce la mitezza,30 il dominio della collera su­ periore a qualsiasi dimostrazione di forza,31 e associa la (!axQO‫׳‬£h)|aia alla misericordia.32 L’uomo che possiede longanimità apre le porte di tutti, anche dei potenti.33 Le qualità proprie di Dio sono comunica­

vendicatore, pieno di ira (θύμος), che si lascia conoscere nella storia come colui che distrugge e salva. 28 In Bar 4,25 e IMac 8,4 assume un significato profano. In un oracolo di sal­ vezza e consolazione (Bar 4,5-5,9) che si apre all’insegna dell’ira di Dio riversata sul popolo di Israele a causa dell’allontanamento dalla legge, Baruc invita a sopportare la collera di Dio con pazienza, nella speranza certa di una gioia che sarà visibile e senza fine nel ritorno dall’esilio: «chi vi mandò le disgrazie, vi manderà la gioia eterna della vostra salvezza» (4,29). La longanimità di Israele è così supportata dalla certezza che Dio libera il popolo: «Figli, sopportate con pazienza (μακροθυμή­ σατε) la collera (όργήν) che da Dio è venuta su di voi. Il nemico ti ha perseguitato, ma vedrai ben presto la sua rovina e camminerai sul suo collo» (Bar 4,25). L’ira di Dio che ha determinato il dominio babilonese ne provocherà anche la distruzione, restituendo la libertà al popolo che dovrà esercitare pazienza per accedere alla sal­ vezza divina. In IMac 8,4 la μακροθυμία è una virtù caratteristica dei romani nelle loro conquiste. 29 Pr 14,29: «L’uomo longanime (μακρόθυμος) ha molta intelligenza, il pusil­ lanime invece mostra stoltezza». 30 Pr 15,18: «L’uomo animoso (θυμώδης) prepara battaglie, il longanime (μακρόθυμος) invece placa anche quella che sta per venire». La seconda parte del verso è un’aggiunta del testo greco, diverso da quello ebraico: «L’uomo longanime spegnerà le contese, invece l’empio piuttosto le risveglia (μακρόθυμος άνήρ κατασβέσει κρίσεις ό δέ άσεβής έγείρει μάλλον)». 31 Pr 16,32: «L’uomo longanime (μακρόθυμος) è migliore del forte, chi do­ mina l’ira (κρατών όργής) è migliore di un conquistatore di città». Cf. Pr 17,27: «Chi risparmia ad avanzare una parola dura è intelligente, è longanime l’uomo as­ sennato (μακρόθυμος δέ άνήρ φρόνιμος)» dove μακρόθυμος non traduce l’e­ braico ,erek ’appaim ma fqar-ruah ovvero lo «spirito calmo». 32 Pr 19,11: «L’uomo misericordioso è longanime (έλεήμων άνήρ μακροθυ­ μεί), la sua gloria supera le offese». Prerogativa di Dio nei salmi, la longanimità in Proverbi viene attribuita all’uomo. 33 Pr 25,15: «Nella longanimità (έν μακροθυμίςι) è aperto un facile accesso ai potenti, la lingua debole rompe le ossa».

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bili all’uomo: alla sapienza, ricerca umana ma innanzitutto dono di­ vino, l’uomo può accedere anche attraverso la longanimità. Al con­ trario l’ira, con una connotazione positiva nelle sue conseguenze di salvezza quando riferita a Dio, è da aborrire da parte dell’uomo che voglia vivere senza conflitti. Simile nella forma arricchita da brevi sentenze e massime è Qo 7,8, dove la μακροθυμία, opposta alla pre­ cipitazione, si rivela necessaria per raggiungere il risultato di un pro­ getto di cui bisogna saper attendere la fine.34 Nel c. 2 di Ben Sira la varietà dei sinonimi testimonia una con­ centrazione significativa del tema: «Fatti coraggio (καρτέρησον) [...], sii paziente (μακροθύμησον) [...], abbi fiducia e spera in lui (π'ιστευσον αύτψ και ελπισον έπ’αύτόν) [...], rimanete nella sua misericordia (άναμείνατε xò ελεος αύτοΰ), sperate nei suoi beni (έλπίσατε εις άγαθά) [...], chi ha confidato nel Signore [...]? (τΙς ένεπίστευσεν κυρίψ) [...], o chi ha perseverato nel temerlo? (ή ένέμεινεν τφ φόβψ αύτοΰ) [...], guai a voi che avete perduto la pazienza (τήν υπομονήν)» (Sir 2,2-14). È chiara l’eco dell’istruzione sapienziale nel testo giacobeo, dove compare anche quella sul buon uso della parola: «Sii pronto nell’ascoltare, nella longanimità (μακροθυμία) dà una risposta» (Sir 5,11).35 Mitezza del linguaggio e preferenza per il silenzio qualificano la comunicazione del sapiente che sa controllare il potere della lin­ gua, assieme a discrezione, misura e fermezza contrarie all’arroganza tipica della parola e all’immediatezza incontrollabile.36 In Giobbe il vocabolo, che ricorre una sola volta, si inquadra nella considerazione generale del protagonista sulla vita umana, la­ mento di un uomo che sperimenta l’angoscia e l’inquietudine di ogni giorno, segnato dalla limitatezza temporale. Perciò nella risposta ad

34 Recita il testo: «Il termine di una cosa è migliore del suo inizio, chi è longa­ nime (μακρόθυμος) è meglio di chi ha lo spirito superbo (υψηλόν πνεύματι)». Gc 1,19 opera una variazione rispetto al testo sapienziale creando un bel parallelismo tra l’essere pronto all’ascolto (ταχύς εις τό άκοϋσαι), lento a parlare (βραδύς εις τό λαλήσαι) e lento all’ira (βραδύς είς όργήν), come a dire che la pa­ rola rischia di diventare voce della violenza quando si tratta di parlare di Dio: cf. G. M arconi, La lettera di Giacomo. Traduzione e commento, Roma 1990, 88. 36 Cf. Pr 11,12; 13,3; 15,23.28; 17,27; 18,20-21; Qo 3,7.

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Elifaz, il protagonista sofferente grida a Dio, unico a disporne, la speranza di poter accedere alla μακροθυμία che l’uomo non pos­ siede (Gb 7,15-16).37 3. A ltri

sinonim i

A queste due famiglie lessicali ne vanno aggiunte altre tre meno presenti, accomunate dal soggetto umano:38 καρτερέω, υποφ έρω e κακοπαθέω . Del primo vocabolo, che coglie la sfumatura della fer­ mezza e della perseveranza (Gb 2,9; Sir 2,2; 12,15; 2Mac 7,17),39 le maggiori ricorrenze s’incontrano nei libri dei Maccabei, ove rispec­ chia l’etica greca e assume il significato univoco di «soffrire».40 Il se­ condo, presente 21 volte,41 è ben rappresentato nel libro di Giobbe42 in cui evidenzia l’impossibilità del protagonista di sopportare la po­ tenza divina (Gb 31,23).43 La sopportazione diventa invece possibile per il salmista (Sai 68,8) e si trasforma nei libri dei Maccabei nella re­

37 Nel testo giobbico si legge: «Tu allontanerai dal mio spirito la mia vita, dalla morte le mie ossa. Infatti non vivrò in eterno, così da essere longanime ('iva μακροθυμήσω); va’ via da me, vuota è infatti la mia vita». Rispetto al TM, quello greco aggiunge il verbo μακροθυμήσω operando una rilettura del primo che recita semplicemente: «Preferirei essere soffocato, la morte piuttosto che questi miei do­ lori. Io mi disfaccio, non vivrò per sempre; va’ via da me, perché la mia vita è vuota». 38 Cf. W. G rundmann , «καρτερέω, προσκαρτερέω, προσκαρτέρησις», in GLNT, III, 221-224; W. M ichaelis , «κακοπαθέω συγκακοπαθέω κακοπάθεια», in GLNT, IX, 1081-1086. 39 Traduce l’ebraico hàzaq che all’hifil significa «tener fermo, perseverare, tol­ lerare» (Gb 2,9) tp a à h il cui senso è «gemere, gridare», attestato in un testo isaiano dove il gemito di una partoriente si tramuta in tenace perseveranza (Is 42,14). ‫׳‬,G Su 24 ricorrenze i libri dei Maccabei attestano la radice καρτερ- 20x. Il verbo καρτερέω compare llx in Gb 2,9; Sir 2,2; 12,15; Is 42,14; 2Mac 7,17; 4Mac 9,9.28; 10,1.11; 13,11; 14,9; 6x il sostantivo καρτερία: 4Mac 6,13; 8,26; 11,12; 15,28.30; 16,14; altrettante l’aggettivo καρτεράς: 2Mac 10,29; 12,11.35; 3Mac 1,4; 4Mac 3,12; 15,32; lx l’avverbio καρτερώς: 4Mac 15,31. 41 3Re 8,64; Gb 2,10; 4,2; 15,35; 31,23; Sai 54,13; 68,8; Pr 6,33; 14,17; 18,14; Sir 22,15; Am 7,10; Mi 7,9; Dan 1,57; 2Mac 2,27; 6,30; 7,36; 3Mac 5,33; 4Mac 14,12; 15,31; 17,3. 1,2 4x in Gb, 3x in Pr, in 2Mac, e in 4Mac, 2 volte in Sai, per il resto lx. 43 Recita il testo: «Poiché la disgrazia che viene da Dio mi atterrisce, non reg­ gerei (ύποί,σω) davanti alla sua maestà».

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sistenza dei martiri in nome della pietà religiosa. L ’ultimo, x ax o jiadéa), ricorre cinque volte4-4 e sottolinea la fatica di chi sopporta. 4. L a p a z i e n z a d e i m a r t i r i

Il collegamento tra la virtù della pazienza e la profezia passa, indirettamente, attraverso il martirio nel quarto libro dei Maccabei45 e direttamente nella letteratura rabbinica che relaziona Giobbe ai profeti. Le 44 presenze relative al campo semantico della pazienza46 sono inserite nel contesto della repressione di Antioco IV Epifane verso gli ebrei (3,19-18,24), i cui modelli di eroica sopportazione Eleazaro (5,21-7,23), i sette fratelli (8,1-14,10) e la madre (14,1117,6) - affrontano il martirio pur di rispettare la Legge. T utt’altro che passiva, la sopportazione delle torture e la pazienza dei protago­ nisti, nutrita dal coraggio e dalla forza, diviene il motivo conduttore del libro, il veicolo della ragione «sovrana assoluta delle passioni» (1,1.7; 2,30; cf. 1,5.9 ecc.), ispirata però a una pietà religiosa (eùoé|3eia)47 derivante dal rispetto della Legge e dall’obbedienza a Dio. Tale virtù, ammirata dagli stessi persecutori (17,23), mostra un fine che si pone al di là della storia, l’incorruttibilità (à4>0aQaia) dei martiri (9,8.22; 17,12) ai quali è riservato un posto accanto a Dio. Durante la persecuzione religiosa la pazienza rappresenta la possibi­ lità umana di rispondere alla tirannia che pretende !’asservimento to­

44 II verbo compare in Gn 4,10; il sostantivo in Mal 1,13; 2Mac 2,26.27; 4Mac 9,8. 45 Escluso da tutti i canoni tranne quello della LXX, è stato definito «l’unica orazione esistente del giudaismo ellenistico» composta tra la prima metà del I sec. d.C. e l’inizio del secolo successivo: C. K raus R eggiani, 4 Maccabei, Torino 1992, 44; cf. Apocrifi dell’Antico Testamento, 5 voli., a cura di P. S acchi, Brescia 1997, 219-220. 46 II verbo υπομένω ricorre 15x: 5,23; 6,9; 7,11; 9,6.22; 13,12; 15,31.32; 16,1.8.17.19.21; 17,7.10; il sostantivo ύπομονή llx: 1,11.11; 7,9.22; 9,8.30; 15,30; 17,4.12.17.23.23. La radice καρτερ- compare 15x di cui il verbo 6x: 9,9.28; 10,1.11; 13,11; 4,9; 6x il sostantivo: 6,13; 8,26; 11,12; 15,28.30; 16,14;2x l’aggettivo: 3,12 (as­ sociato ai soldati); 15,32; lx l’avverbio: 15,31. Il verbo υποφέρω è presente 2x: 14,12; 17,3. Il verbo κακοπαθέω lx: 9,8. 47 4Mac 9,6.30; 13,12; 15,32; 16,17; 17,7. Associata anche alla pietà (θεοσέ­ βεια) e alla virtù (άρετή) in 7,22; a Dio (θεός) in 16,19.21.

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tale alla legge umana e allo stesso tempo rivela il valore salvifico per chi la vive. Contemporaneo al testo giacobeo, dunque, quello apocrifo pro­ babilmente offre il modello della pazienza associato a coloro che nel nome di una causa religiosa affrontano ogni prova, noncuranti del martirio. Una qualche analogia con il personaggio del Giobbe anti­ cotestamentario non è da escludersi, mentre è difficile poter ipotiz­ zare un collegamento con il patriarca così come presentato da G ia­ como. II.

GIOBBE E I PROFETI

Nella letteratura rabbinica il personaggio Giobbe ha suscitato le più svariate e contraddittorie interpretazioni48 senza però mai venire rappresentato tramite la caratteristica della pazienza. I targumìm in­ fatti non aggiungono molto a ciò che conosciamo dal testo biblico sul carattere tu tt’altro che paziente del protagonista. Delle due para­ frasi di Giobbe in aramaico, quella qumranica49 più antica50

48 Cf. M. S eligsohn , «JOB (‫») א י ו ב‬, in The Jewish Encyclopedia, a cura di I. S inger , 12 voli., New York 1901-1907, VII, 193-195; A. C o h e n , Le Talmud, Paris 1933, 44.172.193.196.282; L. G inzberg , The Legends of thè Jews, 7 voli., Philadelphia 1938, II: 223-242, V: 381-390; The Dimensioni ofjob, by N.N. G latzer, New York 1969, 16-18; Encyclopedia Judaica, 18 voli., by C. R o t h , Jerusalem 1982, X, 111-125; The hook ofjob, by W.A.M. B euken , Leuven 1994; C. K raus R eg g ia n i , «La figura di Giobbe in tre documenti del giudaismo ellenistico», in VetChrist 36(1999), 165-192. 49 Ai manoscritti di Qumran risalgono in realtà due targumìm di Giobbe: un piccolo frammento in due colonne corrispondente ai cc. 3-5 del libro di Giobbe trovato nella quarta grotta, della metà del I sec. d.C., denominato 4Ql57tgjob, che tralascio a causa della eccessiva lacunosità. Cf. Tefillin, Mezuzot et Targums (4Q128-4Q157), by R. D e V aux - J.T. Milik, II, Oxford 1977, 90; Testi di Qumran, a cura di C. M artone , Brescia 1996, 259-260. L’altro, denominato llQtgjob, scoperto nel 1956 nella undicesima grotta, pubblicato da J.P . V an D er P loeg e A.S. V an D er W oude , Le targum de Job de la grotte XI de Qumran, Leiden 1971. 50 Secondo lo studio paleografico il manoscritto risalirebbe alla metà del I sec. d.C., sebbene opinioni autorevoli lo retrocedano al II sec. a.C. collocandolo tra il libro di Daniele e l’Apocrifo della Genesi, il più antico documento dell’aramaico palestinese: cf. T. M uraoka, «The Aramaic of thè Old Tg ofjob from Qumran Cave XI», in JJS 25(1974), 425-443; M . So koloff , The Targum to Job from Qumran Cave XI, Ramat-Gan 1974, 25.

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(llQ TgJob) - riportata in un manoscritto molto danneggiato com­ prendente i cc. 17-42 del libro canonico, di cui resta un solo nucleo più o meno integro - sembra attestata dal Talmud babilonese e quello palestinese.51 Il targùm qumranico risulta sorprendentemente letterale, molto semplice, con pochi e brevi ampliamenti, tanto da far presupporre un testo ebraico non dissimile da quello masoretico. Ad es. nella Col. IV,3-9 (= G b 21,2-10) si legge: «e poi, ecco che non si spazientisce [il mio spirito...], mettete le vostre mani sul[la vostra bocca!...!, lo stupore si impossessa di me. Come mai [i malvagi...] aumentano le loro ricchezze? [La loro] prole davanti ai loro occhi. Le loro case [...] e Dio su di loro [...] la loro (vacca) incinta figlia [e non abortisce]»; e la Col. XVIII,5-9 (= G b 31,8-16) recita: «[...] Se mi sono spazientito nel giudizio del mio servo [o della mia serva nella loro lite con me], cosa farò quando si al[zerà Dio?...] Infatti egli che mi fece [nel seno materno, non ha fatto neanche lui. Non ci ha fatti nel seno] uno stesso? Se (mai) negai [i bisogni dell’umile o gli occhi di una vedova] feci finire».52 L’altra, una composizione posteriore53 del giudaismo rabbinico, che ha trasmesso targùmim di tutto il canone ebraico a eccezione dei libri di Daniele ed Esdra-Neemia, rielabora maggiormente il testo

51 Zunz fu il primo a sostenere che un targùm di Giobbe fosse segnalato dalle fonti talmudiche: cf. L. Z unz , Die gottesdienstlichen Vortràge der Juden, Frankfurt 1832, 65. Nell’ambito di una discussione sulla liceità in giorno di sabato di salvare dal fuoco libri sacri, Rabbi José di Sefforis (II sec. d.C.) ricordava che suo padre Halafta andò a visitare Rabbi Gamaliele II a Tiberiade, il quale trovatolo con un targùm di Giobbe in mano, gli raccontò che il nonno Gamaliele I (25-50 d.C.) aveva fatto murare in una parete del Tempio, durante la sua costruzione, un targùm di Giobbe consegnatogli sul posto. Un libro sacro non può essere eliminato direttamente ma deve essere distrutto da solo. Cf. TB Shabbat 115a; TPShabbat 16,1; Tosefta Sbabbat 13,2; Yadayim 4,5. È discusso se l’appendice alla fine della LXX (Gb 42,17b) testi­ moni l’esistenza dello stesso targùm quando afferma: «questo è tradotto dal siriaco», vale a dire aramaico; o al contrario indichi una elaborazione haggadica con elabora­ zioni midrashiche distinte dal targùm qumranico: cf. P. K a hle , The Cairo Geniza, London 1947, 124; C. M angan , The Aramaic Targum o f Job, Tel-Aviv 1979, 5. 52 La traduzione italiana è tratta da Testi di Qumran, a cura di M artone , 261.264. 53 Gli studiosi hanno proposto un ampio margine di datazione: da Gamaliele fino al IX sec., ovvero l’epoca di Saadia Gaon (882-942) come terminus ante quem mentre il terminus a quo è più difficile da stabilire: cf. M angan , The Aramaic Tar­ gum o f Job, 6.

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canonico divergendo notevolmente da quello qumranico e presenta somiglianze con il midrash haggadico del Talmud babilonese.54 Mentre molti elementi sembrerebbero avvicinarlo ai tempi del NT,55 il targùm di Giobbe è considerato da alcuni studiosi una colle­ zione di targùmim di diversi periodi messi insieme da un editore o un copista,56 o un puro esercizio accademico per completare la serie dei targùmim?1 Rispetto alla versione masoretica molte sono le diffe­ renze, trattandosi di una parafrasi che tende a semplificare le diffi­ coltà testuali dell’ebraico annullando così la forza incisiva dell’origi­ nale poetico. Il targùm opera delle interpolazioni tipiche del midrash e della haggadah,58 soprattutto amplificando la concezione escatolo­ gica59 già presente nel testo ebraico attraverso l’idea di Dio giudice, citando frequentemente il termine Gehenna60 e presentando l’idea della «vita futura» (15,21), della risurrezione (11,17) o «regno di Dio» (36,7), concetti peraltro comuni agli pseudoepigrafici e al NT.

54 Le somiglianze non chiariscono l’eventuale dipendenza di uno dei due dall’altro o di entrambi da una fonte comune: cf. M angan , The Aramaic Targum of Job, 6. 55 Gli studiosi distinguono un nucleo molto antico per la presenza di concetti comuni al NT e agli pseudoepigrafici (es. l’uso dell’espressione «Padre che è nei cieli» riferita a Dio, «carne e sangue» all’uomo, l’uso pronominale di Memra per in­ dicare la persona umana e Dio, probabilmente in sostituzione di termini che sareb­ bero risultati antropomorfici - quali «respiro», «spirito», «bocca») per i legami con altre versioni (Vulgata, LXX, Simmaco, Teodozione) e con materiale tannaitico (la più antica haggada collocava Giobbe al tempo dei patriarchi, mentre per la più tar­ diva era un ebreo): cf. M angan , The Aramaic Targum of Job, 6-7. 56 Cf. R. W eiss, The Aramaic Targum o f Job, Tel-Aviv, 1979, 70-74. 57 Cf. E .L . E pstein , A Criticai Analysis of Chapters One to Twenty-six o f thè Targum to thè Book of Job, 1941, 111. 58 Cita spesso la necessità dello studio della Legge (3,17; 5,7; 11,8; 22,22) e traccia un panorama della storia di Israele in maniera non sistematica (3,5.19; 4,8.18; 5,12; 28,6).

59 Ad es. il «giorno del grande giudizio» (cf. 1,6; 2,1), la menzione di un «an­ gelo della morte» (18,13), la specificazione del «luogo di sepoltura» come «luogo di morte» (1,21) che traduce il vocabolo sheol pure conservato nel testo (11,8; 21,13; 24,19) ecc. L’aspetto escatologico viene enfatizzato parafrasando il semplice «un giorno» in «giorno del giudizio all’inizio dell’anno», nel quale bene e male venivano portati davanti a Dio per essere giudicati: cf. lEnoc 91,15; TP Rosh ha-Shana 1,13. 60 II vocabolo implica nel targùm il concetto di punizione (3,17; 5,4; 15,21), più specifico rispetto a quello generico di sheol.

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Nel targùm risuonano i sospetti dei rabbini sulla religiosità di Giobbe presentata nel prologo dell’omonimo biblico: come sia pos­ sibile che un gentile, estraneo all’alleanza con Dio, implicitamente idolatra e peccatore, potesse essere modello di uomo «giusto e senza colpa» (Gb 1,1).61 Leggiamo infatti in 1,22: «in tutto ciò Giobbe non peccò né pronunciò parole di ribellione contro il Signore»; ma poco più avanti il testo recita: «[...] in tutto ciò Giobbe non peccò con le labbra ma nella sua mente egli pensò con quelle parole» (2,IO).62 La sofferenza di Giobbe viene interpretata come espiazione del peccato di aver dubitato della giustizia divina - opinione comune al mondo rabbinico - di cui il personaggio ribelle, ritenendosi non ascoltato da Dio, sperimenta l’oppressione (cf. 9,17; 19,6-7). Rimane tuttavia il ritratto biblico del pagano Giobbe irreprensibile e giusto. Perciò la Mishna e il Talmud babilonese identificano in alcuni gentili dei santi, a partire dall’alleanza tra Dio e l’umanità attraverso Noè.63 Similmente, nel prologo del targùm, parlando a satana Dio dice: «Hai considerato il mio servo Giobbe che non ha eguali in tutta la terra dei gentili?» (1,8). In rari passi dello stesso targùm e nel Talmud babilonese il pro­ tagonista è invece un israelita, associato ai patriarchi e sposato alla fi­ glia di Giacobbe, Dina (2,9; cf. 30,19), o contemporaneo di Abramo secondo Bar Kappara, o di Mosè (ritenuto l’autore del libro di Giobbe), o reduce dall’esilio babilonese e fondatore di una scuola a Tiberiade.64 Nel targùm le sue personali disgrazie sono anzi strettamente le­ gate ai profeti di Israele che maledicono il giorno della propria na­ scita, proprio come Giobbe: «maledetto il giorno in cui sono nato e - l’angelo che ha registrato il concepimento - la notte che disse: “un uomo è stato creato”. Possa quel giorno essere oscurità, possa Dio dall’alto non cercarlo, e la luce mattutina non risplendere su di esso.

61 Cf. C. M angan , «The Interpretation of Job in thè Targums», in The hook of Job, a cura di B euken , 271-272. 62 Cf. le parole di Raba in TB Baba Bathra 16a: «con le labbra egli non peccò ma peccò con il suo cuore». 65 Cf. TB Sanhedrin 56a. 54 Cf. TB Baba Batra 15a-b; TP Sola 5,8.

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Possa l’oscurità e l’ombra della morte macchiarlo e la nuvola ripo­ sare su di esso; possano essi terrorizzarlo come le cose più amare del giorno, il dolore che tormentò Geremia alla distruzione del santuario e Giona quando fu gettato nel mare di Tarshish» (3,3-5; cf. 27,11). Il Talmud babilonese lo definisce addirittura «uno dei sette profeti (che) hanno profetizzato ai pagani: Balaam e suo padre, Giobbe e i suoi quattro amici».65 Di Giobbe le leggende haggadiche mettono in luce prevalente­ mente la prosperità ma anche il carattere di uomo generoso e la pietà, simile ad Abramo. Come il primo patriarca, egli riconobbe Dio per intuizione66 e la sua preghiera era pura perché niente aveva acquistato con rapacità.67 Il timore che Giobbe potesse degradare Abramo portò i rabbini a sostenere che la sua pietà fosse il risultato non dell’amore ma della paura di una punizione divina.68 Un passo del Talmud palestinese descrive sette tipi di farisei: i primi cinque sono caricature, gli ultimi due, paragonati a Giobbe e Abramo, in forma nient’affatto spregiativa: «un fariseo che teme, come Giobbe; e un fariseo che ama Dio come Abramo. Il più amato di tutti è il fa­ riseo dell’amore, come Abramo».69 La letteratura rabbinica pro­ pone spesso le figure di Giobbe e Abramo come stereotipi di due atteggiamenti: amore e timore, facce della stessa medaglia per di­ stinguere chi realmente adora Dio.70 Perciò le lodi nei confronti di Giobbe si alternano a quelle indirizzate ad Abramo: entrambi sono accomunati dalla sofferenza, prova per i giusti, non punizione. Una considerazione non uniforme del personaggio Giobbe, come risulta da un passo midrashico nel quale Abramo contratta con Dio sul de­ stino di Sodoma confidando nella giustizia divina, mentre Giobbe ne attesta la volontà distruttiva che non distingue il giusto dal mal­ vagio (secondo G b 9,22).71 Su questa linea la Pesikta Rabbati af­

65 Cf. TB Baba Batra 15b. 66 Ex R 14,7. 67 Lv R 12,4. 68 Cf. TB Sotah 5,27a. 69 Cf. TP Berakhot 8,14b; diversamente TB Sota 22b. 70 Cf. J. W einberg , «Job versus Abraham. The Quest for thè perfect Godfearer in Rabbinic Tradition», in The hook of Job, a cura di B euken , 281-296. 71 Gen R 49,9.

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ferma che se Giobbe non si fosse lamentato il popolo avrebbe pre­ gato «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe e Dio di Giobbe» (Pes R 47). Occorre per ultimo citare due testi significativi in merito al per­ sonaggio. Il primo tratto dal Midrash Tehillim che, commentando il salmo 37, accomuna Giobbe, Melchisedech e Enoch ad Abramo per la loro purezza.72 Il misterioso re e sacerdote di Salem, Melchise­ dech, compare brevemente in Gen 14,18-20 quando offre ad Abramo pane e vino e lo benedice/31 rabbini, tra le tante interpreta­ zioni legate alla regalità e al sacerdozio, lo presentano come profeta che avrebbe ammonito le nazioni per ben quattro secoli.74 E nel M i­ drash Rabba al Cantico dei Cantici egli viene esplicitamente presen­ tato come una delle quattro figure escatologiche attese per la fine dei tempi insieme ad Elia: «[...] Sta scritto: “e il Signore mi mostrò quat­ tro fabbri” [Zac 2,3]; essi sono: Elia, il Re messia, Melchisedek e l’Unto della guerra» (Cant R II, 13,4).75 Enoch è invece il più note­ vole della lista dei patriarchi antidiluviani (Gen 5,1-32) perché la sua vita, pur essendo più corta di quella degli altri - 365 anni, il numero di giorni dell’anno solare -, raggiunge una cifra perfetta. Ma soprat­ tutto, dell’insolita espressione del v. 24 (che spezza lo schema genea­ logico), il primo stico - «camminò con Dio» - appare solo per i pa­ triarchi antidiluviani, ultimo dei quali Noè (Gen 6,9); il secondo - «e non fu più perché Dio l’aveva preso» - sottolinea il carattere miste­ rioso del personaggio citando il rapimento in cielo a opera di Dio, 72 Cf. M. S eligsohn , «JOB (‫») א י ו ב‬, in The Jewish Encyclopedia, VII, 1994. 73 II personaggio comparirà ancora in Sai 110,4 come figura del messia Davide, per le sue prerogative di re e sacerdote; più tardi la Lettera agli Ebrei applicherà il sacerdozio del «re di giustizia» a quello di Cristo (Eb 7,lss.), per il suo carattere di eternità. Melchisedek è chiamato «giusto» anche in Gen R 43,6; 56,10. Cf. C. G ia notto , Melchisedek e la sua tipologia. Tradizioni giudaiche, cristiane e gnostiche (sec. II a.C. - sec. Ili d.C.), Brescia 1984; F. M anzi , Melchisedek e l’angelologia nell’Epistola agli Ebrei e a Qumran, Roma 1997; M. M c N amara, «Melchizedek: Gen 14,17-20 in thè Targums, in Rabbinic and Early Christian Literature», in Bib 81(2000), 1-31; J.A . F itzmyer , «Melchizedek in thè MT, LXX, and thè N T » , in Bib 81(2000), 63-69; D.W. R ook e , «Jesus as Royal Priest: Reflections on thè Interpretation of thè Melchizedek Tradition in Heb 7», in Bib 81(2000), 81-94. 74 Cf. G inzberg , The Legends of thè Jews, V, 192 , 63. 75 Cf. TB Sukka 52b dove Melchisedek fu identificato con il sacerdote atteso dei tempi messianici riacquistando la dimensione di figura escatologica.

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come avviene per il profeta Elia (2Re 2,11). La funzione profetica di Enoch76 è supportata dalla tradizione giudaica successiva, a partire dalla letteratura apocalittica7' che avrebbe influenzato il libro del Si­ racide nel quale si legge: «Enoch piacque al Signore e fu portato in cielo, vero esempio di conversione per le generazioni seguenti. [...] Nessuno fu creato sulla terra uguale a Enoch, perciò fu fatto ascen­ dere dalla terra» (Sir 44,16; 49,14). Il patriarca, citato come esempio di conversione, potrebbe aver avuto un’attività simile a quella dei profeti che denunciavano le colpe del popolo ed esortavano al penti­ mento, per allontanare il diluvio. La tradizione enochiana apocalit­ tica probabilmente è stata mutuata, successivamente al Siracide, dal­ l’autore della Lettera di Giuda (databile alla fine del I sec. d.C.), che cita lEnoc 1,9 come «profezia» di Enoch (Gd 14-15).781 due perso­ naggi, figure senza tempo, vengono accomunati a Giobbe per la loro purezza simile a quella di Abramo. Il secondo testo, del VI sec. a.C., più antico della letteratura rabbinica finora presentata, cita un’altra triade accomunata dalla giustizia: «se nel paese ci fossero questi tre uomini, Noè, Daniele e Giobbe, essi per la loro giustizia (fdaqàh), riuscirebbero a salvare

76 Cf. F. L uciani, «La funzione profetica di Enoch (Sir. 44,16b secondo la ver­ sione greca)», in RivBib 30(1982), 215-224; L. R osso -U bigli, «La fortuna di Enoch nel giudaismo antico: valenze e problemi», in Annali di storia dell’esegesi 1(1984), 153-165. 77 Come dimostra Grelot citando alcuni apocrifi, quali il libro di Enoc e il li­ bro dei Giubilei nei quali il patriarca assume le caratteristiche di un profeta. Nel co­ siddetto «Libro dei vigilanti», lEnoc 1-36, la prima delle 5 parti del libro di Enoc (dell’inizio del sec. IV a.C.), il protagonista, chiamato «scriba di giustizia» (12,4), di­ viene messaggero di Dio, annuncia giudizi ma accetta di intercedere a favore dei peccatori presso Dio, come Abramo (cf. Gen 18,16-33) Mosè (cf. Es 20,18-21) e i profeti (cf. Am 7,2-6; Ger 7,16; Ez 22,30 ecc.). Cf. P. G relot , «La légende d’Hénoch dans les apocryphes et dans la Bible: origine et signification», in RSR 46(1958), 208. 78 II testo neotestamentario recita: «Profetò (προεφήτευσεν) anche per loro Enoch, settimo dopo Adamo, dicendo (λέγων): “Ecco il Signore è venuto (1Ιδού ήλθεν κύριος) con le sue sante miriadi per fare il giudizio (ποιήσαι κρίσιν) contro tutti e per convincere tutti di tutte le opere di empietà che hanno commesso e di tutti gli insulti che peccatori empi hanno pronunziato contro di lui”». Profezia, giu­ dizio, venuta del Signore: sono richiami lessicali alla pericope di Gc 5,7-12 non cer­ tamente casuali, così come l’accostamento di Enoch a Giobbe da parte della tradi­ zione rabbinica successiva e, di entrambi, ai profeti.

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(solo) la propria vita, dice il Signore» (Ez 14,14.16.20). I personaggi menzionati, come i precedenti, non appartengono al popolo di Israele: Noè, perché preisraelita, primo a essere chiamato «giusto» da Dio (Gen 7,1), salverà la famiglia dal diluvio garantendo la pro­ messa divina di benedizione sulla creazione. Daniele, perché il re ugaritico di Aqhat,79 descritto idealmente come il governatore giusto «che giudica la causa della vedova e dell’orfano»,80 coinvolto in una catastrofe, come Noè, fino alla definitiva liberazione. Poco attendi­ bile sembra l’ipotesi che i tre personaggi siano accomunati dal fatto di aver salvato i loro figli dalla distruzione,81 mentre il carattere della loro giustizia appare predominante.

CONCLUSIONE Dall’analisi del vocabolario anticotestamentario, a differenza di quanto appare nel testo giacobeo, emerge una maggiore specializza­ zione dei termini. Invece offre al nostro autore la base semantica della υπομονή, la sopportazione dell’uomo fiducioso nel Dio che ri­ sponde alla propria speranza, la contestualizzazione escatologica prodotta da alcuni testi profetici (Sof 3,8; Mal 3,2) e la coscienza della povertà (Sai 9,19) - gli esempi di Gc 5,7-12 si collocano in al­ ternativa ai ricchi della pericope precedente - di chi sa di dover at­ tendere la salvezza da Dio. Da parte sua la letteratura rabbinica pro­ pone il collegamento tra Giobbe e i profeti.

79 Cf. J. D ay, «The Daniel of Ugarit and thè Hero of thè Book of Daniel», in VT 30(1980), 174-184. L’identificazione di Daniele con il protagonista del canonico Dan 1-6 proposta da Wahl e Dressler presuppone l’ipotesi artificiosa della composi­ zione postesilica del passo di Ez 14,12-20: cf. H.M. W ahl , «Noah, Daniel und Hiob in Ezechiel XIV 12-20 (21-3): Anmerkungen zum Traditionsgeschichtlichen Hintergrund», in VT 42(1992), 551-552; H.P. D ressler, «The Identification of thè Ugaritic Dnil with thè Daniel of Ezekiel», in VT 29(1979), 152-161. 80 Ancient Near Eastern Texts Relating to thè Old Testamenti by J.B. P ritc h a r d , Princeton 21955, 151a, 153a. 81 Cf. M. G reenberg, Ezekiel 1-20, New York 1983, 256-259; L.C. A llen , Ezekiel 1-19, Dallas (Texas) 1994, 218-219.

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INTERPRETAZIONI DI GIOBBE NELLA PATRISTICA DELLE ORIGINI M aria G razia B ianco

INTRODUZIONE Il libro di Giobbe, pur presente nel Nuovo Testamento attra­ verso allusioni e citazioni,1 riscuote poco interesse presso gli autori cristiani dei primi secoli ed è da essi poco citato. La lettura cristiana del libro di Giobbe in epoca patristica ri­ chiede di fatto a tu tt’oggi uno studio approfondito2 in quanto, se si è forse abbastanza studiato il Giobbe di Gregorio Magno, o il Giobbe di Giovanni Crisostomo,3 non si è ancora preso in considerazione in misura e forma soddisfacente il Giobbe di autori precedenti. Ciò di­ penderà sicuramente anche dal fatto che nella produzione di Grego­ rio Magno il libro di Giobbe ha una particolare visibilità come non ha in altri autori; certamente, però, lo studio della presenza di

1 Vd. supra gli interventi dei biblisti sull’argomento. 2 Lo notavano, nel 1974 C. K annengiesser (DSp 8, Paris 1974, 1218-1225), nel 1975 M.-L. G uillaumin , «Recherches sur l’exégèse patristique de Job», in Studia Patristica 12/1 (TU 115), Berlin 1975,304-308. La situazione non è di molto mutata, nonostante la presenza di studi più recenti, vd. Cahiers de Biblia Patristica, 5: Le livre de Job chez les Pères, Strasbourg 1996 che raccoglie una serie di studi non esau­ stivi, ma rappresentativi della ricchezza e della diversità dell’interpretazione patri­ stica del libro di Giobbe (Ilario di Poitiers, Zenone di Verona, Agostino, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro, la Catena armena, il commento dell’ariano Giu­ liano, i Simboli della fede degli anni 359-360, il bestiario di Giobbe). 3 Cf. ad esempio lo studio recente e documentato di L. B rottier , «L’actualisation de la figure de Job chez Jean Chrysostome», in Le livre de Job chez les Pè­ res, 63-110.

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Giobbe negli altri autori offre possibilità di interessanti approfondi­ menti. Un discorso a sé andrebbe dedicato alle Catene esegetiche sul li­ bro di Giobbe, ma sarà per altri momenti. In esse, uno dei passi su cui si raccoglie la maggior parte dei testi è Gb 1,6 («[...] ecco che vennero gli angeli di Dio [...]»).4 II problema che sembra polarizzare l’attenzione nelle Catene è quello del rapporto tra male e bene, tra angeli buoni e angeli cattivi, con una domanda di fondo: chi è questo Dio che lascia intervenire satana su Giobbe? e ancora, come mai Dio lascia libertà di azione a satana nei confronti del suo servo Giobbe? Anche Giustino5 sofferma l’attenzione sull’evento narrato in Giobbe circa gli angeli - tra i quali c’è anche satana - che vanno da­ vanti a Dio, soffermandosi anche sul nome di satana e sulla sinoni­ mia tra diavolo, serpente, satana. Dall’accostare i rimandi patristici al libro di Giobbe mi sono in­ nanzitutto arrivate molte domande: Giobbe, un personaggio «tran­ quillo», sottomesso, quasi «freddo», un essere umano per il quale vi­ vere è accogliere disgrazie e soffrire,6 o un personaggio per il quale vivere è porre domande, interrogare e interrogarsi dinanzi a ciò che, pure, deve essere accolto e, di fatto, sarà accolto? Giobbe tipo del Cristo sofferente, o del giusto sottoposto a tentazione, o dell’uomo che affronta la vita come militia? o queste modalità tipologiche si manifestano coesistenti, sinergiche e sincroniche? L’interpretazione morale si pone tra lettera e allegoria: in quale collocazione? Giobbe l’asceta? o l’atleta? o il forte? l’uomo del «tutto scontato», del tutto «già noto, già risolto», l’uomo cioè legato alle «sane» e «note» tradi­ zioni del passato o piuttosto l’uomo che fa della domanda aperta e

4 Cf. R. D evreesse, «Chaines exégétiques grecques», in Dictionnaire de la Bible, Supplément I, Paris 1928, 1145. 5 Cf. Dial. 79.103,5. 6 II Testamento di Giobbe apocrifo presenta come sintesi della vita di Giobbe le seguenti parole da lui rivolte ai suoi figli: «Qualunque cosa vi accada, abbiate sop­ portazione perché la sopportazione è più forte di tutto (νυν οΰν τέκνα μου μακρο­ θυμήσατε καί υμείς έν παντί συμβαίνοντι ύμΐν δτι κρείττων έστιν πάντος ή μακροθυμί,α» (cf. Testamento di Giobbe, 27,7): Giobbe modello di pazienza. Cito il Testamento di Giobbe dalla traduzione di P. C apelli, in Apocrifi dell’Antico Testa­ mento, a cura di P. Sacchi, 5 voli., Brescia 2000, IV, 103-180.

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sincera il luogo e il modo privilegiato dell’incontro con Dio? E l’in­ contro con Dio come e dove posto? come e dove incarnato nel vi­ vere? Giobbe un libro usato dai padri per sapere come vivere? per ve­ dere e sapere come essere sconfitti? come vivere la gioia? come aspettare la ricompensa se si sa perdere? Dopo le non numerose allusioni e/o citazioni di Giobbe pre­ senti nei sinottici7 e negli altri testi neotestamentari,8 nel I e II secolo si riscontra un grande silenzio di disattenzione o di non attenzione rispetto a Giobbe. Lo evoca/nomina Clemente di Roma,9 e Giustino fa ricorso alla persona e alla vita di Giobbe nel contesto del dialogo con l’ebreo Trifone,10 in ambito cioè di approfondimento circa la na­ tura della salvezza, e in tono anche polemico. Per Giustino, in un contesto di chiarificazione circa la natura e il contenuto della fede cristiana nei confronti della fede giudaica, Giobbe è colui che è reso giusto non dalla osservanza della legge mosaica, ma da Gesù Salvatore, il Cristo di Dio. Alla domanda di Trifone11 circa la possibilità di far coesistere in una stessa persona l’osservanza della legge come operatrice di sal­ vezza e la fede in Gesù crocifisso come Unto di Dio, Giustino ri­ sponde con l’interrogativo: quali osservanze mosaiche è possibile os­ servare ora, nel momento storico in cui viviamo, che è un tempo di­ verso da quello in cui Mosè è vissuto? E prosegue: Abramo, Isacco, Giacobbe, Noè, Giobbe e tutti gli altri prima e dopo di loro, «giusti» alla pari di loro, come anche le loro mogli Sara, Rebecca, Rachele, Lea e tutte le altre che non hanno adempiuto ad alcuna delle osser­ vanze mosaiche, si sono salvati? Come tutti costoro, anche Giobbe è

‫ ׳‬Si tratta di: Mt 19,26; Me 10,27; Le 1,52. 8 ICor 3,19; Fil 1,19; lTs 5,22; 2Ts 2,8; Gc 5,11; Ap 9,6. 9 Cf. C lemente R om ano , Cor 17,3-4 («di Giobbe è scritto cosi: “Giobbe era giusto, irreprensibile, veritiero, pio, alieno da ogni male, Iob 1,1”, ma egli si accusa dicendo: “nessuno è mondo da macchia neppure se la sua vita è di un giorno, Iob 14,4-5”»). E in 26,3, illustrando la divina promessa della risurrezione, Clemente Ro­ mano così si esprime: «dice Giobbe: “risusciterai questa mia carne che ha soppor­ tato queste cose, Iob 19,26”». Cf. G iustino , Dial. 46,3. 79,4. 103,5. 11 Cf. G iust ., Dial. 46.

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stato giustificato da Gesù Salvatore, il Cristo di Dio, ancora prima della sua nascita nella storia. Nei primi due secoli, evidentemente, le problematiche e il cam­ mino che la Chiesa sta vivendo sia al suo interno e nella sua spinta e crescita nella interiorità, sia anche nella sua missione evangelizzatrice e missionaria hanno altri testi scritturistici di rimando, ma non il li­ bro e la figura di Giobbe: alla metà del II secolo non si sente il biso­ gno di ricorrere a Giobbe per definire o celebrare l’identità spiri­ tuale morale del cristiano credente.12 Ci saranno successivamente linee interpretative variegate che porteranno a posizioni diversificate emergenti da una esegesi lette­ rale moralizzante (Giobbe il paziente), o attenta e aperta a sviluppi teologici, come da una esegesi globale del libro, o da una esegesi ti­ pologica o invece legata all’utilizzo e all’interpretazione di solo qual­ che versetto del libro stesso di Giobbe. Con Clemente Alessandrino, che è il primo a riprendere l’uti­ lizzo del libro di Giobbe, dopo il silenzio del II secolo, compare una novità riguardo al modo di accostare il libro e la persona di Giobbe. Giobbe è immagine dello gnostico, l’uomo che pone e si pone do­ mande nel suo stile di ricercare e di incontrare Dio: è pura la reli­ gione di Giobbe? G iobbe/lo gnostico ama Dio per se stesso o per i beni e i vantaggi che ne riceve? Ricava forse qualche compiacenza dalla sua stessa giustizia e dal privilegio che gliene deriva?13 Per Cle­ mente, Giobbe sembra essere lo gnostico ante litteram, comunque lo gnostico pre-cristiano. Richiede attenzione e studio il precisare la funzione delle citazioni del libro di Giobbe e della figura di Giobbe negli scritti dell’Alessandrino, cosa che non è stata ancora compiuta e rivela invece elementi degni di interesse e connotati di novità e di originalità. Origene fa di Giobbe il prototipo dei martiri cristiani, anche se non lo presenta come simbolo/tipo del Cristo sofferente. Insiste sulla libertà di Giobbe e spiega il mistero del male ricorrendo al mito della preesistenza delle anime e della loro caduta iniziale.

12 Cf. K annengiesser , in DSp 8, 1219. 13 Cf. J. D aniélou , I santi pagani dell’Antico Testamento, Brescia 21988, 94.

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Ambrogio vede in Giobbe Yathleta Christi,14 o Yathleta fo rtis ^ che mostra la sua fortezza d ’animo nel superare la perdita dei figli, la perdita della sua sanità fisica, la tentazione che viene dalle parole. Il punto focale è posto sull’esito felice delle vicende di Giobbe e a par­ tire da esso viene letta l’intera vicenda di Giobbe. Con Agostino la lettura di Giobbe viene inserita nell’ambito della questione pelagiana cui peraltro offriva possibili evidenti argo­ mentazioni: Giobbe è il giusto che manifesta la capacità e la possibi­ lità per l’uomo di salvarsi con le proprie forze umane? è messo ingiu­ stamente alla prova? soffre perché peccatore? come e perché rimane «semplice»? per le sue forze e capacità? Agostino precisa che Giobbe è l’uomo giusto, ma concepito e nato nel peccato; è peccatore dinanzi a Dio e sa di non meritare nes­ suna ricompensa per la sua vita buona.16 Giuliano d ’Eclano replica all’esegesi agostiniana e presenta un’esegesi letterale e storica riser­ vando un’interpretazione di stampo pelagiano alla figura di G iobbe.17 Con l’opera di Gregorio Magno Giobbe è «tipo» del Cristo sof­ ferente (la stessa tipologia è presente anche nel commento dell’Anonimo ariano in Iob, PG 17, 371ss) e «tipo» della Chiesa. H o scelto di limitare lo studio privilegiando alcune chiavi di let­ tura a mio avviso stimolanti, alcuni autori (anzi solo alcuni testi pre­ senti nei loro scritti); in particolare mi soffermerò su Clemente Ales­ sandrino e Basilio di Cesarea, ossia su Giobbe letto e ascoltato come

14 Cf. ad es. A mbrogio , De interpell. Iob et David 2,1,2 (a cura di C. S chenkl , CSEL 32,2,1897, p. 233, 237). 15 Cf. A mbrogio , 2,3 (234,16). Gloriosissimus Dei athleta lo definisce C esario di A rles , S. 131, 1 (a cura di G. M orin , CC De interpell. 103, 1953, p. 539). La con­ notazione di atleta per Giobbe è presente già nell’apocrifo Testamento di Giobbe (di provenienza egiziana, ma scritto in greco tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C.), 4,10 e 27,3 (in questo passo satana dice a Giobbe: «sei diventato un adeta op­ posto a un altro adeta»). 16 Cf. A g ostin o , Adnotationes in Iob, CSEL 28,2, 509-628. 17 Mi riferisco al testo del codice di Cassino che è stato studiato dal Vaccari e da lui attribuito a Giuliano d’Eclano, attribuzione accettata da molti studiosi (cf. B. C apelle , BALCL 1(1921-23)26, nonostante la contrapposizione di J. Stiglmayr , già espressa in ZKTb 1919,269-288, dallo stesso ribadita in ZKTh 1921,495-496). Il te­ sto è pubblicato in PLS 1, 1573-1679.

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modello/immagine viva che attrae e contagia se la si guarda (è il Giobbe di Basilio) e Giobbe nel suo essere la persona la quale al di sopra di tutto ciò che vive pone l’incontro con Dio e la compren­ sione della vita, Giobbe lo «gnostico» già cristiano prima di Cristo, lo gnostico cristiano dell’Antico Testamento (Clemente Alessan­ drino). I.

GIOBBE M ODELLO/IM M AGINE VIVA CH E ATTRAE E CONTAGIA SE LA SI GUARDA (IL GIOBBE DI BASILIO)

Tra gli scritti di Basilio di Cesarea (330-379), ho dato la prefe­ renza ad alcune lettere in cui compaiono riferimenti a Giobbe in un contesto di stretto collegamento dinamico con la vita e con gli eventi anche teologici che caratterizzano la vita del Cappadoce e gli anni in­ torno alla metà del IV secolo. La mia scelta è stata guidata dall’in­ tento di cercare di capire e vedere cosa c’è al di là del già-detto su Giobbe, cioè al di là del vedere Giobbe come l’eroe (lo «stoico» cri­ stiano prima di Cristo) che con «cuore adamantino» e «viscere di pietra» reagisce dinanzi alle disgrazie abbattutesi su di lui.18 In una lettera all’amico Gregorio (il Nazianzeno),19 Basilio ma­ nifesta il desiderio profondo del suo animo di vivere l’ideale mona­ stico della ησυχία, che egli sta cercando nel ritiro di Annisi (vicino a Neocesarea) ma che sembra continuamente sfuggirgli per una sorta di malessere interiore che non lo abbandona. Basilio riconosce e di­ chiara che la causa del disagio, del malessere, è dentro di lui e lo ac­ compagna dovunque egli vada.20 Come chi soffre di mal di mare non

18 Interessante e utile bibliografia nello studio di M. G irardi, «Paolinismo e stoicismo in Basilio di Cesarea», in Kairos. Studi di letteratura cristiana antica per l’anno 2000 («Rudiae». Ricerche sul mondo classico, 12(2000), 177-202, in partico­ lare p. 185. 19 Si tratta dell’Epistola (Ep.) 2 di B asilio. 20 Un rimando a Giobbe come maestro di fedeltà e di perseveranza nel cre­ dere in Dio dinanzi alla tentazione della «mobilità» che può abbattersi sul monaco è presente negli insegnamenti dell’abbà Ciriaco e si legge in Cirillo di Scitopoli: «Adamo, benché in paradiso, trasgredì il comando di Dio; Giobbe, benché seduto sul suo letamaio, vi fu fedele [...]. Non dobbiamo accogliere i pensieri cattivi che in­ troducono in noi, a nostra insaputa, un sentimento di tristezza o di odio riguardo al

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riesce a mettere a tacere la nausea e il malessere anche se cambia tipo di nave, così Basilio pur essendosi ritirato nella vita monastica non ha ancora cambiato il rapporto interiore con se stesso. Una via però egli la individua per sé e la espone a Gregorio: la meditazione delle Sacre Scritture e, in particolare, le vite degli uomini beati che, in esse descritte, sono come immagini animate del modo di vivere secondo Dio, immagini che, poste innanzi agli uomini, stimolano alla imita­ zione delle opere buone.21 Queste «immagini animate» (εΙκόνες τινές έμψυχοι), che si distendono dinanzi all’occhio dell’anima, di­ vengono per ognuno, se si intrattiene con esse e si sofferma nel guar­ dare a esse, come un luogo di cura, un ospedale pubblico che offre un farmaco/rimedio per tutti. In ogni caso chi guarda a queste eikones deve comportarsi come fanno i pittori che, nel dipingere un’im­ magine, volgono spesso gli occhi al modello: bisogna volgere gli oc­ chi alla vita dei santi come se fossero immagini, rappresentazioni, icone che si muovono e agiscono, e attraverso l’imitazione bisogna rendere proprio, appropriarsi, del bene che è loro. Basilio presenta poche «immagini», scegliendole tra quelle pre­ senti negli «elenchi» ricorrenti:22 Giuseppe εικών di castità, Giobbe είκών di coraggio, Mosè εικών di dolcezza e forza, Davide corag­ gioso e forte nella guerra, dolce e mite nel tratto. Giobbe è presen­ tato come colui che educa al coraggio (andreia), alla forza del vivere a fronte di avvenimenti spiacevoli. Tale educazione si compie guar­ dando a come Giobbe ha vissuto. Egli, nel rivolgimento della sua vita, divenuto - in un solo giro di fortuna - povero da ricco che era e privo di figli dall’avere una bella prole, rimase se stesso sia salvaguar­ dando la sua anima dal cedere alla depressione, sia prendendo le di­ stanze dagli amici che venuti per consolarlo piombarono su di lui per aumentare il suo dolore. Le immagini animate, viventi, trasmettono

luogo ove siamo e verso i nostri compagni di vita, o che seminano segretamente in noi accidia o che ci suggeriscono di passare in altri luoghi» ( Vita diEutimio, 19. Cito da R. B aldelli - L. M ortari, Cirillo di Scitopoli. Storie monastiche del deserto di Ge­ rusalemme, Scritti monastici 15, Abbazia di Praglia 1990, 130). 21 B asilio , Ep. 2,3: εικόνες τινές έμψυχοι τής κατά θεόν πολιτείας τψ μιμήματι τών άγαθών έργων πρόκεινται. 22 Cf. ad es. anche C irillo di S citopoli, Vita di Ciriaco, 2 (cito da B aldelli M ortari, Cirillo di Scitopoli. Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, 360).

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un insegnamento pratico: a questo Basilio è sensibile e questo, più che un insegnamento teorico, rivolge a Gregorio. A questo momento iniziale della lettura e dello sguardo volto alle eikones animate succede la preghiera23 che rende l’anima più giovane e nel colmo delle forze, mossa come è dal desiderio di Dio, e Dio si stabilisce in lei διά τής μνήμης. Colui che ama Dio allonta­ nandosi dalle cose si ritira in Dio, allontana i desideri che lo distol­ gono da Dio e si attacca alle pratiche che conducono alla virtù. Da Annisi Basilio scrive una lettera di consolazione all’amico Nettario, un ricco notabile della Cilicia su cui si era abbattuta la di­ sgrazia dolorosa e improvvisa della morte di un figlio. Gli argomenti consolatori sono quelli comunemente in uso in questo genere lettera­ rio di cui il cristianesimo si appropria inserendovi riflessioni e argo­ mentazioni confacentisi al messaggio evangelico. La vicinanza tra gli eventi della vita di Nettario e alcuni di quelli descritti nel libro di Giobbe viene evidenziata con grande naturalezza: nella presenta­ zione dell’evento luttuoso Basilio sottolinea l’invidia del diavolo24 che causa il lutto (anche Giobbe sperimenta l’invidia del satana che si abbatte su di lui). Basilio vuole evocare dinanzi all’interiorità di Nettario la figura di un «grande atleta», Giobbe, che perde dieci figli in un rapido giro della fortuna e si esprime dicendo: «il Signore ha dato, il Signore ha tolto; come al Signore è piaciuto, così è avvenuto» (Gb 1,21). L’invito che da ciò deriva per Nettario e Basilio insieme è quello di fare proprie le parole di Giobbe partendo dalla verità pro­ fonda che Dio solo sa come ripartisce agli uomini gli eventi per il loro bene, anche se gli uomini non lo capiscono e non ne sono con­ vinti: l’amore di Dio per gli uomini è da adorare con l’aiuto delle pa­ role di Giobbe. A Nettario Basilio ricorda anche che il figlio morto è arrivato prima di noi al termine del cammino e lo ritroveremo presso Colui che lo aveva dato in prestito al padre.25

23 Cf. Bas., Ep. 2,4. 24 Cf. Bas., Ep. 5,1. 25 Bas., Ep. 5^2.

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Motivo di un’altra lettera consolatoria di Basilio26 è la morte prematura di un giovane, studente, ricco di doti, rimpianto dai geni­ tori (il padre del ragazzo è il destinatario della lettera), dai maestri, dal vescovo stesso. L ’argomentazione di Basilio è quella tipica delle consolationes, ma al termine dell’epistola si fa evidente la presenza del libro di Giobbe di cui viene citato il versetto 1,21 (ó κύριος εδωκεν, ό κύριος άφείλετο, ώς τψ κυρίψ εδοξεν ούτω καί έγένετο. Ειη το όνομα κυρίου εύλογημένον) con una conclusione eulogica assente nel libro di Giobbe (είς τούς αιώνος): si è dinanzi semplicemente a un’amplificazione di Basilio o a un’espressione che potrebbe essere indice di un utilizzo liturgico del versetto di Giobbe? un’inda­ gine da fare? In una situazione di dolorosa fatica a causa del comportamento insincero - e dannoso per le Chiese - di alcuni amici che Basilio aveva ritenuto degni di fiducia e che invece avevano divulgato come basiliane idee anomee, Basilio apre il suo animo ad Ilario, amico della verità e capace di giudicare senza lasciarsi influenzare da idee di parte. A lui esprime la sofferenza causatagli dalla situazione incre­ sciosa e diffamante, ancor più dolorosa perché procurata ingiusta­ mente e da falsi amici. L’unica cosa che mi consola - dice Basilio - è la mia cattiva salute per cui sono convinto che non avrò ancora lungo tempo di vita, comunque dinanzi alle sofferenze fisiche (che Ilario deve affrontare) Basilio lo esorta a comportarsi coraggiosamente e in maniera degna di Dio che li ha chiamati. «Se Egli vede che riceviamo i mali presenti con riconoscenza, o toglierà le sofferenze, come ha fatto con Giobbe, o ci ricompenserà con le grandi corone della pa­ zienza, nella vita che seguirà quella presente».27 Giobbe, maestro di lungo silenzio nel quale manifesta la propria virilità, il proprio coraggio, con il sopportare con fermezza le sue do­ lorose disgrazie, dopo avere a lungo perseverato nel nascondere la sua pena in fondo al cuore apre la bocca e manifesta con le parole il suo patire. Questo diventa un esempio da seguire per Basilio ed egli lo comunica a Eustazio di Sebaste che, una volta maestro e amico del

26 B as., Ep. 300. 27 B as., Ep. 212,2.

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grande Cappadoce, gli procura in seguito danni e guai con il passare a sostenere idee ereticali.28 Un utilizzo diverso del libro di Giobbe e un insegnamento di­ verso rispetto a quelli più usualmente tratti dal comportamento e dalla figura di Giobbe sono presenti nell’omelia XX che ha per tema l’umiltà.29 In essa, uno dei consigli di Basilio per giungere alla «salu­ tare umiltà» è indirizzato a un atteggiamento di fondo e a un com­ portamento di base che poggia sull’impegno e l’attenzione a non «amplificare» se stessi, le proprie doti, le proprie azioni. In ordine a questo, Basilio offre un consiglio operativo semplice ed efficace, tratto dal libro dei Proverbi:30 come il giusto, «incolpa te stesso dei tuoi peccati» e non aspettare che siano gli altri a incolparti, così da diventare tu il giusto che all’inizio del suo discorso accusa se stesso, per essere simile a Giobbe che non si vergognò dell’affollamento della città, divulgò dinanzi a tutti il proprio errore.31 Nella Ep. 38, che Basilio scrive al fratello Gregorio di Nissa af­ frontando una tematica strettamente teologica, la distinzione tra sostanza/ousia e ipostasi, la questione più importante difficile e deli­ cata della riflessione trinitaria nel secolo IV, Giobbe viene chiamato in causa per constatare come la Scrittura espliciti l’appartenenza di Giobbe alla razza umana indicando ciò che lo accomuna a tutti gli esseri umani con il vocabolo anthropos, aggiungendo subito tis per esprimere ciò che è particolare di questo uomo e lo caratterizza, il suo luogo di origine, i tratti del suo carattere che fanno di lui quel­ l’essere umano particolare e inconfondibile. Non la descrizione della sua sostanza caratterizza Giobbe, ma la descrizione del suo essere in­ teriore distingue Giobbe. Con il rimandare a questo libro Basilio ri­ tiene che si possa comprendere senza equivoci la distinzione tra ou­ sia e upostasis. Dunque, un rimando «tecnico», si potrebbe dire filo­ logico a Giobbe, e certamente questo lascia comprendere quanto il libro sapienziale fosse presente nell’ambiente dei Cappadoci.

28 Bas., Ep. 223,1. 29 Bas., Homelia (Hom.) 20, PG 31, 525-540. 30 Pr 18,17 Vulgata: Iustus prior est accusator sui. 51 Bas., Hom. 20,7 (PG 31, 537 B-D).

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Ili

In conclusione Basilio lascia emergere un uso quasi strumentale del libro di Giobbe e una lettura che è comunque espressione di un’esemplarità dinamica del «personaggio» Giobbe. II.

GIOBBE LO «GNOSTICO» CRISTIANO DELL’ANTICO TESTAMENTO (CLEMENTE ALESSANDRINO)

Clemente (150-215 ca.) rimanda al libro di Giobbe in modo au­ tonomo e nuovo rispetto alle precedenti utilizzazioni dello scritto, con la caratteristica precisa di non servirsi in forma ripetitiva di al­ cuni passi solamente, utilizzando invece numerosi passi da lui inseriti nei suoi scritti in maniera sempre nuova e adattata al contesto. L’uti­ lizzo del libro di Giobbe è particolarmente presente negli Stromati. Sono 20 all’incirca i diversi passi tratti dal libro di Giobbe cui l’Ales­ sandrino rimanda: questa è la prima evidente innovazione e dimo­ stra, anch’essa, l’autonomia di Clemente. Di Giobbe, Clemente sintetizza la vita e illustra alcune espres­ sioni cogliendone il contenuto allegorico. Sembra nel complesso che la figura e il libro di Giobbe siano come l’intelaiatura della rifles­ sione di Clemente circa lo «gnostico». Giobbe risulta essere quasi una prefigurazione dello gnostico con la sua volontaria rinuncia, mossa e sostenuta da amore contemplativo ed elogiativo per Dio; egli è non solo atto alla gnosi, ma l’ha conseguita; nobile d ’animo loda Dio nella prova. È forse opportuno, prima di addentrarsi nell’esame dei rimandi clementini alla persona e al libro di Giobbe, un riferimento sia pur rapido a Clemente e alla sua opera. Clemente Alessandrino, probabilmente a partire dalla propria diretta esperienza, si muove in un orizzonte di ampio respiro, che si esprime attraverso alcune idee fondamentali, da lui presentate in ma­ niera molto variegata e varia e non in forma sistematica. Sono idee che compaiono e ricompaiono in veste diversa e in contesti diffe­ renti, in base a ciò che Clemente vuol dire, alle esigenze e all’utilità dei destinatari dell’opera che sta scrivendo, alle motivazioni delle opere stesse.32 A queste idee e ai testi nei quali esse sono espresse 52 Per le opere di Clemente Alessandrino rimando all’edizione fondamentale

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farò diretto riferimento nel desiderio di far emergere il contenuto del pensiero dementino piuttosto che le interpretazioni dei critici. L ’opera di Clemente si presenta come una trilogia, quindi come una costruzione ben compaginata e strutturata.33 Ciononostante ben si può riferire all’insieme degli scritti - e non solo agli Stromati in cui essa compare - la seguente riflessione che mi sembra utile richiamare per esteso: «Gli Stromati somigliano, in certo qual modo, non a quei giardini ben coltivati, dove le piante sono a intervalli regolari per dilettare l’occhio, ma piuttosto a un monte boscoso e folto d’ombre, dove sono piantati cipressi e platani, alloro ed edera, ma anche ulivi e siepi e fichi: a bella posta sono frammischiati nella piantagione alberi da frutto e alberi improduttivi, a causa degli audaci che azzardano rubare i frutti maturi [...]. Sarà poi il giar­ diniere che da tutte queste piante toglierà polloni e li trapianterà, e ne creerà un bel giardino e un parco ameno. Gli Stromati non mirano pertanto all’ordine né all’eleganza, giacché di proposito non vogliono essere “greci” nella forma espressiva: hanno disseminato le idee in modo da non farlo ve­ dere e non secondo la loro più chiara evidenza, per rendere i lettori, se ce ne saranno, solerti e capaci di scoprirla da soli. Poiché molte sono le esche e svariate, secondo la varietà dei pesci».34 Il messaggio fondamentale di Clemente può esprimersi nella considerazione che il cristianesimo è incontro con il Logos di Dio, il Verbo, e che tale incontro manifesta il divino volere di elevare l’uomo a sé: per l’uomo rifiutare l’incontro è rimanere chiuso nel ri­ stretto orizzonte del «soltanto umano», è rimanere nella tristezza dei

dello Staehlin, e p recisam ente p e r Protrettico ai Greci (Protr.) e Pedagogo (Ped.), cf. O. Staehlin - U. T reu , GCS 12, 31972 (p er la trad u zio n e italiana M.G. B ianco , U T E T , T o rin o 1971); p e r Stromati (Str.) I-VI, cf. O. Staehlin - L. F ruechtel , GCS 52/15, , I960 (per la trad u z io n e italiana G. P in i , E dizioni P ao lin e 1985, 57-776); p e r Stromati VII-Vili, Quis dives salvetur, Fragmenta, cf. O. Staehlin - L. F ruechtel U. T reu , GCS 17/2,21970 (p er la trad u z io n e italiana di Stromati VII-VIII, G. P in i , 779-876; p e r Quis dives salvetur, trad u z io n e italiana M.G. B ianco , C ittà N uova 1999). 33 Cf. Ped. I, c. 1. 34 Cf. Str. VII, 111,1-3 (P in i , 875-876).

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beni e delle gioie effimere che non appagano in profondità e pie­ nezza. Accettare l’incontro è intendere e vivere la vita come un cam­ minare verso Dio mettendo i propri passi nelle orme del Cristo. Questa potrebbe essere stata l’esperienza più forte della vita di Cle­ mente, quella del suo approdare al cristianesimo, esperienza che non viene descritta nelle opere, ma che pure traluce da esse. Gli scritti clementini si muovono in questa prospettiva dell’incontro con Dio e ne illuminano ora questo ora quell’elemento. L ’incontro - come an­ che l’itinerario dell’incontro stesso - è profondamente radicato nella considerazione che l’uomo assomiglia al centauro della mitologia tessalica, composto com’è di anima e di corpo: ma il corpo opera nella terra e si affanna per la terra, l’anima è protesa verso Dio e aspira a Dio.35 La pedagogia del Cristo, questo itinerario che Clemente pro­ pone a tutti e conosce la lotta per la rinuncia al piacere che genera lontananza da Dio, mira a far avere «una giusta misura», a far na­ scere «una libera disposizione dell’anima accordata a una libera vo­ lontà amante del bene», ed è un invito pieno di speranza: «lavora senza perderti di coraggio. Sarai quale non speri né potresti immagi­ nare».36 «Seguire realmente il Salvatore» per ogni discepolo è, se­ condo Clemente, «imitare la sua libertà dal peccato e la sua perfe­ zione e abbellire su di lui come su di uno specchio l’anima, armoniz­ zandola e disponendo similmente tutto in tutto».3' In conclusione, il pensiero di Clemente soprattutto si fonda ed è portatore di una visione universale/generale e globale della vita, della storia, dell’essere umano, visione insieme profondamente teo­ logica e strettamente radicata nell’umano. Dal momento che la feli­ cità autentica dell’uomo è nella salvezza che Dio gli offre, compito dell’uomo è ubbidire a Dio, vivere da amico di Dio, compiere ciò che è gradito a Dio.38 Da una parte vi è Dio, il suo piano di salvezza, di redenzione, la sua offerta di eternità, il suo volere l’essere umano «simile a lui», dal­ l’altra l’essere umano nel suo itinerario di dissomiglianza da Dio: a

35 Cf. Str. IV, 9,4-5. 36 Ped. I, 99,2 (B ianco , 276). 37 Quis dives salvetur 21,7 (B ianco , 46). 38 Cf. Str. VII, 21,1-3.

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questo essere Clemente propone nel Vrotrettico una scelta fondamentale da compiere, la scelta per Dio.39 L ’uomo è al centro del pensiero di Dio - come è al centro della creazione40 - e Dio è philanthropos. La philanthropia di Dio - il suo essere amore per l’uomo e verso l’uomo - è un invito a rispondere con lo stesso linguaggio: rispondere all’amore con l’amore. Antagapàn = ri-amare,41 dice Clemente, come Agostino dirà redamare. A Dio che ama, l’uomo è invitato a rispondere con l’amore, attraverso una risposta in cui l’amore riceve contenuto, verità, durata, intensità, estensione, dalla vita stessa. Nel concepire la vita come risposta all’a­ more si incontrano gioia, dolore, sofferenza, realtà tutte che sono per ognuno storicamente connotate e diversificate. È naturale che in pre­ senza di una sofferenza l’anima ne rifugga e ritenga preziosa la libe­ razione dalla molestia presente.42 In realtà tutti gli eventi in cui l’es­ sere umano si imbatte, e che egli vive con gioia, dolore, difficoltà, sofferenza, devono potersi ricondurre, all’interno della persona, al­ l’amore, come fonte, consistenza, significato di ciascuna azione. Dal battesimo nasce per ogni credente la possibilità di andare verso Dio, possibilità che è aperta a tutti, anche se ognuno ha il suo cammino e la sua strada. Il Verbo svolge ruoli differenti accanto a ognuno a seconda del momento che la persona sta vivendo. Così il Logos è protrettico, pedagogo, maestro, a seconda se deve esortare, invitare al cristianesimo, insegnare le norme fondamentali, guidare alla perfetta conoscenza della verità.43 Ognuno ha nella storia un po­ sto assegnatogli dal Logos che gli si fa guida della gnosi e della vita, posto che non si deve abbandonare, come il soldato non abbandona il posto a lui assegnato dal comandante.44 C’è per ognuno la neces­ sità di avere una guida consona a sé, perché «la verità è austera e grave» e dinanzi a essa l’anima può trovarsi in stati diversi: igno­

39 Cf. Protr. 99,4. 4° Cf. Ped. I, 6,5-6. 41 Cf. Ped. 1,9,1; il verbo è usato anche in altri scritti e da altri autori, cf. ad es. F ilo n e, De Abr. 50; e inoltre Ad Diogn. 10,3-7. 42 Cf. Str. IV, 20,1. 43 Cf. Ped. I, 1,1-3,3. 44 Cf. Str. VII, 100,1.

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ranza, credenza, scienza.45 La guida/Logos sarà aiuto e sprone a pas­ sare dall’ignoranza alla fede alla comprensione intima della verità, alla «vera conoscenza», la gnosi appunto, che richiede un cammino e un addestramento a portata di tutti, ma anche tutto speciale. La novità di vita che è il cristianesimo, mentre vede un’ugua­ glianza di fondo di tutti i credenti rispetto alla fede stessa e alla divi­ nità, fa conoscere anche cammini diversificati, quindi categorie diversificate di credenti. Clemente si rivolge a tutti, alla moltitudine dei credenti senza particolari specificazioni come a coloro che perse­ guono una vita cristiana continuamente tesa alla perfezione della fede, per crescere «fino alla misura che conviene alla piena maturità di Cristo»,46 per giungere a «cercare Dio solo e respirare Dio e essere concittadino di Dio».47 Non si tratta di due categorie di persone che vivono la fede, una di indotti e quindi limitati anche nella fede, l’altra di perfetti, isolati dal comune livello di vita, quasi si possa parlare di una fede semplice e di una fede superiore. Parlando di gnosi, Cle­ mente prende le distanze dalla gnosi eretica, diffusa in Alessandria al suo tempo, e contro di essa polemizza. Per Clemente la gnosi consi­ ste nello svelarsi del Logos, è la perfezione dell’insegnamento, ma già la fede semplice è perfetta e compiuta in sé,48 e il maestro di Alessan­ dria approfondisce l’idea del perfezionamento del cristiano, del suo continuo tendere verso la misura piena del Cristo, verso il compren­ dere i tesori nascosti del suo insegnamento, quelli che lui stesso, nella veste di maestro, rivela ai discepoli desiderosi di apprenderli e di farli propri. In questo cammino il credente si imbatte necessariamente nella persecuzione: Clemente distingue la persecuzione che viene dall’e­ sterno, «dagli uomini che per inimicizia o per invidia o per brama di guadagno o a causa di una energia diabolica fanno opposizione ai credenti»;49 dall’altra, la più difficile persecuzione, viene dal di den­ 45 Str. VII, 100,6-7. 46 Ef 4,13. 47 Quis dives salvetur 26,6 (B ianco , 51). 48 Cf. Ped. I, 3,2; 29,1-2. 49 Clemente, che nella sua vita conosce momenti e situazioni difficili, potrebbe fare forse riferimento anche alle sue esperienze, forse alla persecuzione negli anni di Settimio Severo (non di Alessandro, secondo l’errore di stampa sfug­

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tro, mandata a ciascuno dall’anima stessa dilaniata da desideri senza Dio e da piaceri variegati e da sogni destinati a perire, quando essa, sconquassata dalla brama del sempre più e provocata e infiammata da amori selvaggi,50 come da pungoli o tafani che le stanno attaccati, si insanguina di passioni per muoversi verso attrattive spudorate e disperazione di vita e disprezzo di Dio. Questa è la persecuzione più pesante e più difficile che, nascendo dal di dentro, è sempre pre­ sente, non può essere elusa da chi ne è inseguito, giacché egli porta il nemico in se stesso, dovunque.51 Un incendio52 che si abbatte dal di fuori produce una cernita, quello che nasce dal di dentro opera la morte. Anche la guerra, se è esterna, finisce facilmente; se è nell’a­ nima si prolunga fino alla morte. «Le cose che si vedono sono di breve durata, quelle che non si vedono sono eterne», e nel tempo presente sono passeggere e senza sicurezza, «nel tempo a venire è la vita eterna».53 Lo gnostico, ossia il credente, il discepolo per eccellenza, è colui che è accompagnato dall’amore di Dio e dall’amore verso Dio, l’es­ sere unicamente degno di amore che ama tutti e tutti vuole salvi. A questo Dio lo gnostico rende culto attraverso la continua cura dell’a­ nima, la continua occupazione intorno a ciò che è divino in lui se­ condo l’amore che non viene mai meno:54 lo gnostico ha scoperto ciò che è essenziale nella vita e vi si è dedicato. La sua attività si rac­ chiude tutta nell’essere vicino a Dio attraverso il Cristo, il grande pontefice, assimilandosi a lui quanto può.55 È una religione pura, la sua, ed egli cerca Dio.

gito nella «Introduzione» al Quis dives salvetur, 5), quando egli è costretto a la­ sciare Alessandria e a rifugiarsi, pare, in Cappadocia, presso Alessandro vescovo di Cesarea. 50 Allusioni platoniche, cf. ad es. P lat. Phaed. 81 A; Rep. I 329 C, ma anche Apoi. 30 E. 51 Altro concetto platonico (cf. P lat . Soph. 252 C) e nello stesso tempo bi­ blico (cf. ad es. Gb 14,4; Rm 7,15-23). 52 Cf. ICor 3,13; Rm 5,4; lPt 4,12. 53 2Cor 4,18 e Me 10,30 sono uniti da Clemente in queste espressioni. Il lungo passo citato per esteso è tratto da Quis dives salvetur 25,4-8 (B ianco , 49-50). 54 Cf. Str. VII, 2,1-3,6; 6,5-6. 55 Cf. Str. VII, 13,1-3.

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Di questo gnostico Clemente tratteggia un dato profondamente moderno; egli «vive più strettamente congiunto a Dio, mostrandosi in ogni caso serio e lieto insieme: serio perché è rivolto con il pen­ siero al divino, lieto perché porta la sua riflessione sui beni umani, che Dio ci ha dato».56 Certo, Clemente conosce con chiarezza, e con altrettanta chiarezza distingue nelle sue opere, i beni sensibili e ter­ reni, i piaceri della vita effimeri e i godimenti dello spirito, invitando il credente a discernere e a scegliere sia i beni sia lo stile del suo com­ portamento nei confronti dei beni. Abbandonarsi all’intemperanza dei piaceri è manifestazione del non credere in Dio.57 Non aderire al­ l’inclinazione alle passioni carnali, insita in ciascuno, comporta ac­ cettare uno stile di vivere in cui «portare la croce significa portarsi at­ torno la morte mentre ancora si vive, rinunciando a ogni cosa».58 Lo gnostico - ma lo stesso compito è raccomandato al semplice credente - 59 apprende il discernimento nel suo muoversi tra i beni facili da ottenere e da cogliersi, ossia i beni del mondo che manten­ gono attaccati alla terra. A questi egli antepone i beni che si sperano, già conosciuti, ma che si spera di possedere in maniera durevole. Alle sofferenze egli reagisce non alla maniera insegnata dai filosofi «con la speranza cioè che il dolore presente venga a cessare per poter poi di nuovo godere dei piaceri», ma «con la persuasione fermissima del recupero dei beni futuri».60 Vivere in questa terra da «pellegrino e ospite»61 mette in condi­ zione di vivere con una presenza attenta e responsabile, ma insieme con lo sguardo rivolto verso l’eredità che si attende al di là di questa vita: le cose di quaggiù, pur care e desiderate, sono come estranee, nella loro incapacità a reggere il confronto con i beni duraturi e splendidi di lassù.62 Soggiace a tutto questo un suggerimento molto caro a Clemente e molto utile per chi vuole vivere nel per-sempre: in­

56 Str. 57 Cf. 58 Str. 59 Cf. 60 Str. 61 lPt 62 Cf.

VII, 35,7 (P in i , 808). Str. VII, 15,2. VII, 79,7 (P in i , 847). Quis dives salvetur 32,1-6. VII, 63,1-2 (P in i , 832). 2,11. Str. VII, 78,1-7.

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dividuando i beni veri e validi, spogliare l’anima non semplicemente dalle cose, ma dalle passioni. È opportuno rimandare al passo dell’a­ pocrifo Testamento di Giobbe che presenta la risposta di Giobbe alla domanda se il suo intelletto è ancora «sano»: «Non è attaccato alle cose terrene, dal momento che la terra e quelli che vi abitano sono instabili; il mio intelletto è attaccato alle cose celesti, poiché nel cielo non vi è turbamento» (Testamento di Giobbe 36,2-3). In questo vol­ gersi alle cose celesti perciò stabili, il cristianesimo, pur in sintonia con elementi presenti in varie credenze religiose e in correnti filosofiche,63 è fortemente innovatore,64 grazie anche al modo, allo stile, alle finalità del perseguirlo. Il Protrettico dem entino si apre con il porre dinanzi agli occhi dei lettori la potenza del canto e di alcuni cantori che i miti dell’an­ tica Grecia celebrano per le opere prodigiose compiute dal loro canto (Anfione di Tebe, Arione di Metimna, Orfeo di Tracia, Eunomo di Locri). Questa premessa serve a Clemente per introdurre il nuovo cantore, la parola celeste, il Logos. Egli non canta la melodia greca, ma il «canto perenne della nuova melodia, il canto di Dio, il canto nuovo». Questo canto ha disposto armoniosamente il tutto e ha armonizzato l’universo con la sua melodia: «Lasciò andare libero il mare, ma gli impedì di invadere la terra, rese solida la terra che prima si muoveva e la fissò come argine al mare».65 Questa descri­ zione dell’opera del Logos nella creazione, che rimanda nel suo con­ tenuto ai primi versetti del libro della Genesi e che è vicina anche alle descrizioni armoniose del creato di matrice stoica, presenta però di fatto una allusione a G b 38,8-11. Il libro non è citato, né vengono usati vocaboli presenti in quei versetti; viene però presentato il gesto potente e armonioso del Creatore che, nel ridurre in ordine di conso­ nanza la dissonanza degli elementi, lascia andare libero il mare ma gli impedisce di invadere la terra, e della terra fa un argine per il mare:66 è il gesto stesso che il Creatore pone dinanzi agli occhi di Giobbe, 63 Si tratta di un elemento anche platonico, cf. ad es. il mito di Er, Rep. X 614-621. 64 Cf. Quis dives salvetur 12,1-4. 65 Protr. 5,1. 66 Un analogo rimando a Gb 38,11 è presente in C irillo di Scitopoli, Vita di Teognio (cf. Cirillo di Scitopoli. Storie monastiche del deserto di Gerusalemme,

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quel suo chiudere il mare tra due porte, porgli un chiavistello e dar­ gli un limite invalicabile in cui vada a infrangersi l’orgoglio delle sue onde. È inoltre presente nel passo dell’Alessandrino lo sguardo di at­ tenzione contemplativa sul creato, che diventa per Giobbe un ele­ mento della sua lode a Dio. Altra allusione a un diverso passo di Giobbe (Gb 10,11) com­ pare nel cuore dell’invito di Clemente a mettere da parte la tradi­ zione pagana per seguire la via della sincera ricerca della verità e non sottostare alle mistificazioni dei pagani che forgiano le divinità con le loro mani. Clemente chiama in causa Fidia, Policleto, Prassitele, Apelle e tutti gli altri grandi del mondo antico (Clemente con tratto ironico li definisce μικροτέχναι e pone il loro operare dinanzi a quello deU’àQiOTOTéxvog πατήρ):67 chi di loro - a differenza del Creatore - ha mai plasmato un’immagine che respira, ha ricavato dalla terra una carne molle, ha liquefatto il midollo, ha disteso i nervi, ha gonfiato le vene, ha versato in esse il sangue, disteso la pelle intorno a esse?68 Un rimando allusivo al libro di Giobbe (Gb 39,9) è forse da co­ gliere anche in Paed. I, 17,1 dove la fanciullezza evangelica ha come sinonimi l’essere semplici e sinceri e, per dirlo con un’espressione bi­ blica, l’essere amatori di corni unicorni, i liocorni nominati appunto in G b 39,9.69 Scorrendo le pagine degli Stromati, ci si imbatte qua e là nella presenza del libro di Giobbe. La ricerca della verità, il cammino della gnosi, costa una grande fatica: può capirla chi è appassionato della caccia e sa che si cattura la preda solo dopo avere cercato, inve­ stigato, seguito piste, braccato con i cani; «anche la verità si rivela nella sua piena dolcezza soltanto se cercata e faticosamente conqui­ stata».70 Requisito fondamentale di tale cammino - annota Clemente

392s.). In questo passo l’argine per il mare posto dal monaco, che cita il passo di Giobbe, è la croce di Cristo. 67 L’espressione è di Pindaro fr. 57 Schroeder. 68 Cf. Protr. 98, 1-2. 69 Agostino invece intende diversamente: |iovóx6Q(i)5 enim unicornis est, quod superbiam significat (A gostino , Adnot. in Iob 39, a cura di I. Z icha , CSEL 28,2, 1895, 618,4). 70 Cf. Str. I, 21,1.

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è la familiarità con la vera sapienza, il non seguire parole e raggiri di sapienti che tali non sono, cioè per dirla con Solone, si tratta di non «camminare su orme di volpe»,71 cosa che vuota la mente, e offrire invece riposo al Logos buono e mansueto «che abbranca i sapienti nella loro astuzia: il Signore solo infatti conosce i pensieri dei sa­ pienti, sa che sono vuoti» (cf. G b 5,12-13 con il rimando a Sai 94,11 e lC or 3,19-20); evidentemente - prosegue l’Alessandrino - la Scrit­ tura chiama sapienti i sofisti insigni nel saper parlare e nelle arti su­ perflue. La citazione del libro di Giobbe si presenta in questo passo72 come strumento per riconoscere la differenza tra i sofisti che si riten­ gono sapienti e sapienti non sono, e coloro che sono in cammino per ricercare la vera sapienza, gli gnostici. Nell’impegno di vivere secondo il Logos è basilare il discerni­ mento delle realtà e la loro gradazione: «il bene sommo è la salvezza propria, e aiutare quelli che bramano la salvezza, e non invece met­ tere in fila le frasette come si fa con i ninnoli».73 Citazioni di Platone {Poi. 261e; Theaet. 184bc) confermano la riflessione clementina circa la cura equilibrata nel linguaggio e nell’uso delle parole, un linguag­ gio alieno da ricercatezze superflue, ma il culmine è anche in questo caso la Scrittura che si esprime nella forma più concisa possibile: «non abbondare in parole» (Gb 11,3). Il parlare infatti è come un ve­ stito sul corpo, le azioni invece sono come carne e nervi. Lo gnostico deve essere preparato adeguatamente, capace di ascoltare e di confu­ tare, capace di parlare bene usando le parole giuste.74 Il versetto forse più famoso del libro di Giobbe (1,21: αυτός γυμνός έξήλθον έκ κοιλίας μητρός μου, γυμνός καί άπελεύσομαι έκεί· ό κύριος εδωκεν, ό κύριος άφείλετο- ώς τφ κυρίψ εδοξεν, ούτω ς καί έγένετο· είη τό δνομα κυρίου εύλογημένον) ricorre almeno tre volte negli Stromati (II 103,4; IV 160,1; VII 80,5) e in ognuna di esse è utilizzato in maniera differente. Nel cammino dell’assimilazione a Dio la fortezza-pazienza è virtù importante per­ ché dà un efficace impulso all’assimilazione. Attraverso la pazienza 71 Clemente cita Solone, fr. 8 D. 72 Str. I, 23,1-3. 73 Cf. Str. I, 48, 1-4. 74 Cf. Str. VI, 65, 1-2; il passo del libro di Giobbe è 11, 2 con un rimando a Omero, II. 20, 250.

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infatti la fortezza produce/ottiene l’assenza delle passioni (απά ­ θεια), come è testimoniato da figure dell’Antico Testamento, quali Daniele ripieno di divina fede, Giobbe che, messo alla prova, bene­ dice il Signore: la pazienza che acquisterà lo «gnostico» in quanto «gnostico» lo metterà in condizione di benedire Dio, se sarà nella prova.'5 Le parole di Giobbe: «nudo uscii dal grembo di mia madre e nudo vi farò ritorno» vanno interpretate - secondo Clemente - in un senso diverso dall’interpretazione modesta e ordinaria, cioè «nudo di possessi»; esse vanno intese nel senso che Giobbe se ne va come un giusto «nudo» di malvagità e di peccato e di quegli incorporei fantasmi che seguono chi è vissuto ingiustamente. Le parole di Giobbe vengono così ad avere lo stesso significato dell’invito di Mt 18,3 a diventare come bambini puri nella carne e santi nell’anima, in quanto si astengono dalla opere cattive: il Signore ci vuole quali ci ha generati dalla matrice che è l’acqua del battesimo.76 E Clemente la­ scia vedere con chiarezza che per il credente il cammino della sem­ plicità avanza e progredisce nel volgere degli anni con la guida del Salvatore. Egli «nel susseguirsi di generazione a generazione vuole portarci all’immortalità per progressivo avanzamento, “mentre la lu­ cerna degli empi si spegnerà”»: Clemente utilizza q u i/' dandogli la sua chiave di lettura positiva, un versetto tratto dal discorso di la­ gnanze che Giobbe rivolge a Dio circa l’ingiusta serenità di vita di cui godono gli empi (Gb 21,17). La perseveranza di Giobbe che nelle prove dice: «il Signore ha dato, il Signore ha tolto» fa capire uno degli atteggiamenti dello gno­ stico, il suo mettere al primo posto l’amore per il Signore e per esso rinunciare ai beni esteriori, anche alla salute del corpo. L ’atteggia­ mento di «giustizia» verso Dio in tutta la sua condotta rende Giobbe «giusto, santo», che «rifugge da ogni malvagità» (cf. Gb 1,1.2,3). Proprio perché sapeva questo, Giobbe era «gnostico».78 La pro­ sperità - prosegue Clemente - non deve far attaccare a essa né i mali

75 Cf. 76 Cf. 77 Cf. 78 Cf.

Str. Str. Str. Str.

II, 103,4. IV, 160,1-2. IV, 160,3. Vili, 80, 5-8.

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devono farci rammaricare: bisogna calpestare questi e distribuire quella ai bisognosi. La constatazione di Giobbe che nessuno è senza peccato nep­ pure se ha un solo giorno di vita (Gb 14,4-5)/9 è richiamata in passi diversi degli Stromati (III 100,4; IV 83,1.106,3) a ribadire che nes­ suno è giusto dinanzi a Dio; solo Dio è giusto, «nessuno è mondo da sozzura»; da questa consapevolezza deriva a Giobbe il suo dare testi­ monianza a Dio e ricevere da Dio testimonianza, come anche il porsi dinanzi alla sua piccolezza e accogliere la sua umiltà. Nel presentare Giobbe come colui che conseguì la gnosi, Cle­ mente riporta la preghiera finale del libro di Giobbe: «Ora riconosco che tu puoi tutto, e nulla è a te impossibile. Chi mi annuncia infatti cose che io non conoscevo, grandi e meravigliose cose che io non sa­ pevo? Io dovevo disprezzare me stesso, considerandomi terra e pol­ vere».80 Terra e polvere, precisa Clemente, significa chi è nell’igno­ ranza ed è soggetto al peccato, ma chi si pone nella gnosi, assimilan­ dosi a Dio per quanto può, è già spirituale perciò eletto.81 Gnosi dunque è ciò che è avvenuto nel cammino terreno di Giobbe, quell’aprire gli occhi sui beni che valgono, quel suo non farsi separare da Dio per opera di alcuna realtà, quel suo rimanere semplice e in ado­ razione di Dio, perché Dio opera cose che Giobbe non compren­ deva e che finalmente a un certo momento comprende, per cui si chiude la bocca dinanzi a Dio e passa dal conoscerlo per sentito dire al conoscerlo perché lo «vede».82 La giustizia di Dio e il suo non compiere cose ingiuste e assurde vengono convalidati da Clemente83 con un rimando a Giobbe:84

/9 Una accurata e completa rassegna di luoghi patristici relativi al passo del li­ bro di Giobbe in questione è presente in J. Z iegler , Iob 14,4-5a ah wichtigster Schriftbeweis fur die These «Neminem sine sorde et sine peccato esse» (Cyprian, test 3,54) bei den lateinischen christlichen Schriftstellern, Bayerische Akademie der Wissenschaften Philosophisch-Historische Klasse (3.Mai 1985), Miinchen 1985, 1-43. 80 Cf. Gb 42,2-3.6. 81 Cf. Str. IV, 168,1-2. 82 Cf. Gb 42,2-6. 83 Cf. Str. IV, 170,1-2. 84 Gb 36,10.12; 34,12; 35,13.

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«Dio esaudisce i giusti e non salva gli empi, perché non vogliono co­ noscere Dio: l’Onnipotente non compirà mai cose assurde», anche se Clemente introducendo questa citazione la attribuisce al libro dei Re e non a quello di Giobbe. Lo gnostico prega che anche i suoi nemici si pentano avendo nell’orecchio la voce che dice: «Colui che io percuoterò tu compas­ sionalo».85 La vita di Giobbe diventa nel suo insieme modello di comporta­ mento e consente di comprendere la differenza che c’è tra lo gno­ stico cristiano e lo stoico: come Giobbe, lo gnostico può adattarsi bene a tutte le circostanze (che non sono indifferenti).86 Una citazione breve, ma puntuale ed esatta,8' rimanda al libro di Giobbe per descrivere il contenuto degli Stromati‫׳‬. essi contengono molto seme in poco spazio, fecondo delle dottrine contenute nell’o ­ pera, «come il campo che è ricco di ogni erba» (Gb 5,25) e produce fichi, olio, frutta secca, miele (è una citazione dal comico Timocle fr. 36 K.). Nel servirsi del libro di Giobbe, Clemente non si limita a ciò che altri autori avevano detto e usato: egli legge, pensa, trova il suo posto per la figura di Giobbe. Sembra che per il libro di Giobbe Clemente abbia un comportamento analogo a quello che ha, ad esempio, per Omero: non è debitore ad altri di citazioni e considerazioni, neppure risale ad antologie tematiche, la sua conoscenza e la sua riflessione sull’autore e sul testo lo portano a inserirli in maniera originale e sti­ molante nella sua impostazione di vita e di pensiero. L’interpreta­ zione clementina di Giobbe nasce dalla conoscenza diretta che egli ha del testo, come anche dalla sua personale riflessione circa la pre­ senza sinergica di Dio e dell’uomo, circa il modo di porsi dell’uomo dinanzi alla vita e alle sue problematiche, dinanzi a Dio e agli altri es­ seri. Giobbe entra così nel mondo e nel testo di Clemente come parte di esso, come modello di vita, come immagine e prefigurazione dello gnostico, quasi egli stesso gnostico precristiano.

85 Cf. Str. VII, 74,5. 86 Cf. Str. IV, 19,2. 87 Cf. Str. IV, 6,2.

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CONCLUSIONE Di Giobbe nella Sacra Scrittura si riconosce la δικαιοσύνη (Ez 14,14.20), la patientia (Tb 2,12 Vulgata: [...] hanc autem temptationem ideo permisit Oominus evenire illi ut posteris daretur exemplum patientiae eius sicut et sancii lob [...]; 2,15s. Vulgata: nam sicut beato lob insultabant reges ita isti parentes et cognati eius et inridebant vitam eius dicentes: ubi est spes tua prò qua elemosynas et sepulturas faciebas [...]), la υπομονή (Gc 5,11: il greco ύπομείνωύπομονή viene reso nella Vulgata con sustinere e sufferentia) come realtà da lodare.88 L’apocrifo Testamento di Giobbe (tra fine I sec. a.C. e inizio I sec. d.C.) evidenzia la sopportazione/pazienza e la μακροϋυμία. Il vocabolario dei padri riguardo a Giobbe si esprime con ter­ mini vari: άνδρεία και υπομονή (cf. Orig. catenis PG 12 1033A), ma anche «immagine animata» (εΙκόνες εμξυχοι). Le tracce del libro di Giobbe nei padri della Chiesa si snodano alcune in forma ripetitiva, secondo un cliché di passi citati e di inter­ pretazioni degli stessi passi, in altri casi invece in forma originale e innovativa rispetto alla tradizione, a denotare una lettura viva di Giobbe. Emerge un’interpretazione del libro di Giobbe in cui allegoria e lettera si intrecciano. Parimenti emergono almeno due linee inter­ pretative: il Giobbe «paziente» e il Giobbe credente in Dio, perciò «libero» dalle cose effimere. Il Giobbe punito - e ingiustamente pu­ nito - con il soffrire, è espressione ed emblema dell’umano soffrire su cui l’antichità da secoli si interrogava. Giobbe è però anche l’uomo che passa dal conoscere Dio per sentito dire al vederlo con i suoi occhi. Nel caso di Clemente bisogna notare come l’Alessandrino non ripete ciò che altri autori avevano detto a proposito di Giobbe. Cle­ mente si serve di Giobbe nella sua qualità di libro sapienzale, pre­ stando particolare attenzione e rispetto alla Parola: egli legge, pensa,

88 Gc 5,11 nel testo greco recita: μακαρίξομεν τούς ύπομείναντας, την υπομονήν Ίώ β ηχούσατε, e nella Vulgata: ecce beatificamus eos qui sustinuerunt; sufferentiam lob audistis...

Interpretazioni di Giobbe nella patristica delle origini

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trova il «suo» posto per la figura di Giobbe nel suo pensiero e nei suoi scritti. Clemente vede in Giobbe un fedele cristiano con le ca­ ratteristiche della fede presente in Alessandria (ragione, fede, mi­ stica), un pagano - un patriarca idumeo, «il più grande fra tutti i figli d ’oriente (Gb 1,3)» - che è «gnostico cristiano», un gentilis fidelis (permettetemi repressione ossimorica), un gentilis gnosticus dell’An­ tico Testamento, per raccogliere la suggestiva provocazione del Daniélou circa i «santi pagani» dell’Antico Testamento.89 Il fedele che è Clemente, il fedele che è il «suo» gnostico, è un essere umano che si pone dinanzi a Dio in una ricerca di lui tenace­ mente pura e senza sosta, una ricerca di Dio che lo rende «libero» di­ nanzi ai beni terreni ed effimeri. Il credente si muove, lungo i sentieri già percorsi da Giobbe, nell’itinerario della sinergia verso l’incontro con Dio che ama e salva l’essere umano. «Egli testimonia realmente: quanto a sé, che è sinceramente fedele a Dio; quanto al tentatore, che invano ha esercitato la sua invidia verso chi è fedele con amore; quanto al Signore infine, che egli ha, ispirata da Dio, la persuasione circa la sua dottrina. Da questa egli non si separerà mai per paura della morte; anzi confermerà con i fatti la verità della predicazione, dimostrando che è potente il Dio cui egli aspira. Tu ammirerai il suo amore: egli lo insegna chiaramente, facendosi uno per gratitudine con l’Essere che gli è affine».90

89 Cf. J. D aniélOU, I santi pagani dell'Antico Testamento, Brescia 21988. Per Giobbe si vedano le pp. 91-105. 90 Cf. Str. IV, 13,2-3 (P in i , 440).

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GREGORIO MAGNO DAVANTI A GIOBBE. FONDAMENTI DI UN’ANTROPOLOGIA MEDIOEVALE A le ssa n d r a B a r t o l o m e i R o m a g n o l i

«In ogni cosa spiacevole è di grande consolazione sapere che nulla ci accade se non per ordine di colui a cui non piace se non ciò che è giusto. Se dunque sappiamo che al Signore piace ciò che è giusto e che nulla possiamo soffrire senza il suo beneplacito, tutto ciò che soffriamo è giusto, ed è molto ingiusto mormorare per ciò che giustamente soffriamo». (Moralia in lob, 2,18,31)

I. Esiste un modello umano dell’antropologia cristiana medie­ vale? Una «figura» che, proprio nell’antica accezione dell’allegoria facti, possa definire l’essenza stessa dell’uomo, la sua sostanza uni­ versale ed eterna, indipendentemente dai diversi tipi in cui questa si manifesta nella eterogeneità del corpo sociale? Alcuni anni fa, nella prefazione a una collezione di saggi sull’uomo medioevale, Jacques Le Goff scriveva che questo modello antropologico poteva identifi­ carsi nel volto di Giobbe quale fu raffigurato da Gregorio Magno, segno ed emblema dello sforzo di autocomprensione culturale di una intera epoca.1 E infatti, il monumentale commento al testo biblico -

1 L ’uomo medievale, a cura di J. Le partic. 5-6.

G

o ff,

Laterza, Roma-Bari 1998, 1-38, in

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968 pagine di solo testo della più recente edizione a stampa di 2062 pagine, per tre tomi, - 2 che il diacono Gregorio, apocrisario del papa,5 scrisse negli anni della legazione a Costantinopoli, fra il 579 e il 586-587, fu - anche per il tramite delle epitomi e delle compila­ zioni - 4 uno dei testi più letti, commentati e utilizzati del medioevo. Con un’immagine datata, ma didatticamente efficace, si po­ trebbe allora, parafrasando Garin, parlare dei Moralia in Iob, nel loro intransigente teocentrismo, come di un «manifesto del me­ dioevo», così come il De dignitate del Pico sarebbe stato a sua volta il

2 Cf. G regorio M agno , Commento morale a Giobbe, a cura di P. Siniscalco , introduzione di Cl. D agens , traduzione di E. G andolfo (= Moralia), 3 voli., Città Nuova Editrice, Roma 1992 (Opere di Gregorio Magno I, 1-3). Per il testo latino quest’opera utilizza l’edizione dei Moralia in Iob, a cura di M . A driaen , Turnholti 1979-1985 (Corpus Christianorum, Series latina, 143, 143 A, 143 B). 3 Per un accurato profilo del pontefice, con una messa a punto critica, cf. S. B oesch G ajano , «Gregorio I, santo», in Enciclopedia dei papi, 3 voli., Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 2000,1, 546-574. In questo studio faremo riferimento ad alcune citazioni bibliografiche essenziali. Pertanto, per un’ulteriore informazione bibliografica, si rinvia a R. G o d d in g , Bibliografia di Gregorio Magno (1890/1989), Città Nuova Editrice, Roma 1990 (Opere di Gregorio Magno, Complementi! 1). 4 L’opera fu effettivamente portata a termine soltanto intorno al 600. Essa era infatti il risultato di un complesso lavoro redazionale. F u suggerita a Gregorio dai monaci che vivevano con lui a Costantinopoli, i quali lo spinsero con molta insi­ stenza a commentare il libro di Giobbe, per svelare loro «mysteria tantae profonditatis» (Moralia, Ep. 1). Utilizzava come testo base la Vulgata, ma gli erano note sia la Vetus che la traduzione greca dei Settanta (J. G ribomont , «Le texte biblique de Grégoire», in Grégoire le Grand. Chantilly, Centre Culturel Les Fontaines 15-19 set­ tembre 1982, par J. F ontaine - R. G illet - S. P ellistrandi (= Colloque de Chan­ tilly 1982), Éditions du CNRS, Paris 1986,467-475). Dalla originaria fase orale di letture, conferenze monastiche, trascritte da qualche monaco uditore, Gregorio passò alla redazione scritta, che lo tenne occupato a lungo anche dopo il suo rientro a Roma. Cercò di rispettare comunque lo stile originario del commento e di salva­ guardarne l’omogeneità, aggiungendo piuttosto che eliminare (Moralia, Ep. 2). Al termine del suo lavoro, l’opera constava di trentacinque libri per sei volumi. Nono­ stante la sua ampiezza, i Moralia conobbero una immediata ed eccezionale diffu­ sione. Cf. R. W asselynck, «Les compilations des Moralia in Job du VIP au XIF siècle», in Revue de théologie ancienne et médiévale 29(1962), 5-32; «Les “Moralia in Job” dans les ouvrages de morale du Haut Moyen Àge», Revue de théologie an­ cienne et médiévale, 31(1964), 5-31; «L’influence de l’éxègese de saint Grégoire le Grand sur les Commentaires bibliques médiévaux», Revue de théologie ancienne et médiévale, 32(1965), 157-205; G . B raga, Moralia in Iob: epitomi dei secoli VII-X e loro evoluzione, in Colloque de Chantilly 1982, 561-568.

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«manifesto del rinascimento»,5 in quanto fiera rivendicazione da parte dell’uomo del proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta, questo è ovvio, di un’astrazione, che risponde al gusto idealistico della classificazione e relativa rappresentazione dei grandi cicli sto­ rici, e che attribuisce peraltro a certe opere, quasi segnali indicatori di nuove albe,6 delle intenzionalità programmatiche a esse sostanzial­ mente estranee. Il nodo storiografico è evidentemente altrove. Si tratta infatti di cercare di capire come il tour de force esegetico compiuto da Grego­ rio sul libro di Giobbe sia potuto diventare principio formativo della coscienza degli uomini del medioevo. E di tentare di spiegare un pa­ radosso: come cioè un testo concepito come un manuale di edifica­ zione per i monaci - cui era effettivamente destinato - ,7 una Bibbia monastica che predica il rifiuto del mondo e la secessione dalla sto­ ria, sia pure ripensato anche alla luce di differenti realtà politico­ sociali, possa essere stato il punto di riferimento obbligato per tanta parte dell’iniziativa della Chiesa latina medioevale. Non è possibile dare, nello spazio concesso, una risposta esauriente a queste do­ mande, ma soltanto porre alcuni problemi e suggerire alcune chiavi di lettura. II. La testimonianza di Gregorio si svolge - e questo è ben noto - entro condizioni storiche molto dure. La prima età longobarda se­

5 Pico della M irandola , Opere, a cura di E. G arin , I, Firenze 1942, 23. 6 H. De L ubac, L ’alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 1977. 7 Gregorio era perfettamente consapevole del valore della sua opera, che era destinata a una cerchia ristretta di persone. Per questo si oppose fermamente alla circolazione di copie non autorizzate e che non corrispondevano al testo definitivo da lui predisposto: «Oltre a rivendicare la patente di autenticità solo ed esclusiva­ mente per la “sua” edizione dell’opera, quella conservata “in scrinio nostro”, lo “scrinium” lateranense, contro il codice posseduto dal vescovo Mariniano di Ra­ venna, che avrebbe potuto generare confusione nei lettori (Registrum epistolarum XII, n. 6), il pontefice voleva evidentemente controllare il corretto uso della sua opera, di cui non approvava la lettura pubblica, poiché non si trattava di un "opus populare” e poteva così causare più danno che giovamento “rudibus auditoribus”, al contrario dei salmi, più idonei a invitare gli animi dei laici alle virtù. Il pontefice si mostra così custode geloso dell’integrità testuale della propria opera, consapevole della sua originalità linguistica e stilistica» (B oesch G ajano , Gregorio I, 549).

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gnò, come ha scritto Giovanni Tabacco, una «rottura» sconvolgente nella storia d ’Italia.81 caratteri distruttivi dell'invasione accelerarono la transizione verso nuovi assetti politici e sociali, rendendo contem­ poraneamente molto problematica la possibilità di realizzare in tempi medi nuove forme di convivenza civile: crollo demografico, declino dei centri urbani e ruralizzazione del territorio, disgrega­ zione dell’organizzazione economico-produttiva della società tardoantica. I massacri dei potentes Romanorum causarono il tramonto di quella aristocrazia senatoria, da cui Gregorio stesso proveniva, le cui ingenti ricchezze e la cui raffinata cultura avevano garantito il per­ manere delle strutture istituzionali dello Stato, oltre a fornire i qua­ dri dirigenti delle gerarchie ecclesiastiche. Le condizioni della vita religiosa, così come le ha efficacemente rappresentate anche Giorgio Cracco, non erano meno difficili.9 L’arianesimo ufficiale dei capi longobardi copriva appena la sensibilità e cultualità ancora intima­ mente pagane del «popolo in armi», che nel 577 arrivò a distruggere Montecassino.10 Ma quello di Montecassino è solo un episodio, an­ che se fortemente emblematico, di una lunga catena di violenze e di stragi, in cui doveva canalizzarsi l’intolleranza antiromana e anticat­ tolica degli invasori. In questo contesto mancavano ormai le condizioni operative e sociali di quello che solo pochi anni prima era stato il progetto di Cassiodoro, di fare di Vivarium un laboratorio di conservazione della cultura antica, sia pure in funzione di un suo recupero e inte­ grazione nella tradizione cristiana, di far convivere le dìvinae litterae con le saeculares.u In un mondo in cui stavano crollando tutti gli

8 G . T abacco , La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni di Stati regionali, in Storia d’Italia, 6 voli., Einaudi, Torino 1974, II/l, 3427, in pardc. 39. 9 G . C racco , Dai longobardi ai carolingi: i percorsi di una religione condizio­ nata, in Storia dell’Italia religiosa, 1: L ’antichità e il medioevo, a cu ra d i G . D e R osa T. G regory - A. V auchez, L aterza, Rom a-B ari 1993, 111-154. 10 R. M anselli, « G reg o rio M agno e d u e riti pagani dei L o n g o b ard i» , in

Studi storici in onore di O. Bertolini, P acini, Pisa 1972,1, 435-440; S. G asparri, La cultura tradizionale dei Longobardi. Struttura tribale e resistenze pagane, Spoleto 1983, 45-52. 11 C assiodoro , Institutiones litterarum divinarum et saecularium, ed. a cura di R. M ynors, Oxford 1961. Quest’opera, redatta a Vivarium nel 551 e nel 562, fu la

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equilibri faticosamente raggiunti, il cambiamento era ormai irreversi­ bile. Gregorio lo capì, in anticipo anche rispetto al suo amico Isidoro di Siviglia, prodigioso collezionista di antichi saperi,12 e fu il grande testimone, la voce di questo passaggio. Così, egli respingeva l'ars loquendi classica e non rifuggiva «l’urto del metacismo», «la confusio del barbarismo» (Ep. 5),13 affermando in questo modo la superiorità del locutore sull’ordine stesso della lingua, ché «la parola di verità non segue le vuote favole di Esiodo, di Arato, e di Callimaco» (9,11,12). Non era in questione solo la grammatica, era una scelta di campo, dichiarazione di autonomia anche dalla propria memoria. Gli umanisti avrebbero fatto carico proprio a Gregorio di essere stato l’iniziatore della sciagurata catena degli spolia medievali,14 pro­ fanazione di quei monumenti della classicità che Cassiodoro aveva sognato di riportare all’antico splendore.15 Ma la presa di distanze prima ratio studiorum scritta per i monaci con l’intento di conciliare le conoscenze sacre e profane nel servizio di Dio. 12 J. F ontaine , Isidore de Séville et la culture classique dans l’Espagne visigothique, 2 voli., Paris 1959; I d ., «Augustin, Grégoire et Isidore: esquisse d’une recherche sur le style des “Moralia in Iob”», in Colloque de Chantilly 1982, 499-509. 13 «Nam sicut huius quoque epistolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem fugio, non barbarismi collisionem deuito, situs modosque edam et praepositionum casus seruare contemno, quia indignum uehementer existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati» (Moralia, ep. 5). 14 T. B uddensieg , «Gregory thè Great, thè Destroyer of Pagan Idols. The Ristory of a Medieval Legend Concerning thè Decline of Ancient Art and Literature», in Journal of thè Warburg and Courtauld Institutes 28(1965), 44-65. Il primo autore che associò la persona del pontefice allo smantellamento del patrimonio artistico dell’antica Roma fu Giovanni di Salisbury nel Policraticus, anche se tale constata­ zione non si accompagna ad alcuna notazione polemica, presente invece nella cro­ naca di maestro Gregorio, che disapprova l’operato di Gregorio Magno. Cf. C. N ardella , Il fascino di Roma nel medioevo. Le «Meraviglie di Roma» di maestro Grego­ rio, Viella, Roma 1998, 36. 15 Cf. R. K rautheimer, Roma. Profilo di una città. 312-1308, Edizioni dell’Ele­ fante, Roma 1981, 77-114, in partic. 86 e 98, per il vano tentativo compiuto da Cas­ siodoro, in qualità di cancelliere di Teodorico, di salvare i monumenti di Roma an­ tica. Nonostante il sostanziale disinteresse di Gregorio per le testimonianze della classicità, la sua attività edilizia fu particolarmente intensa nella fondazione di nuovi monasteri e «xenodochia» e nella dotazione delle basiliche, tanto che secondo Char­ les Pietri il pontefice fu il fondatore della «Roma cristiana» (C. P ietri, La Rome de Grégoire, in Gregorio Magno e il suo tempo: 1. Studi storici-, 2. Questioni letterarie e dottrinali, Institutum patristicum Augustinianum, Roma 1991, 9-32).

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era una operazione necessaria a ridefinire gli spazi di un nuovo lin­ guaggio, per poter ricostruire, dal disordine, un nuovo inizio. La difficoltà, oltre che culturale, era infatti politica. Il fallimento della missione a Costantinopoli, finalizzata a ottenere il sostegno bi­ zantino contro i Longobardi,16 doveva dilatarsi in Gregorio nella percezione dell’impossibilità di ristabilire un assetto unitario del Me­ diterraneo ispirato alla superiore ratio giuridica dell’antico fonda­ mento romano. Alla fine del VI secolo l’instabilità politica e il dete­ riorarsi dei quadri di riferimento tradizionali disegnano l’orizzonte su cui si staglia la crescente differenziazione fra Oriente e Occidente. Da un lato la violenza e la barbarie germanica, dall’altro la progres­ siva tecnicizzazione burocratica dello stato bizantino, che serra le fila e si militarizza, estremo tentativo di risposta a una grave crisi con­ giunturale. Non era in gioco solo il destino della penisola, lasciata pratica­ mente a se stessa, veniva messa in discussione la possibilità mede­ sima di attuazione dello stato cristiano, di cui l’impero orientale si considerava unico legittimo e verace testimone. Dinanzi a quello che dovette apparirgli come un tradimento dei fratelli di fede,17 il com­ mento a Giobbe è anche una grande riflessione sul potere, che G re­ gorio maturò negli anni di permanenza a Costantinopoli.18 Così nei Moralia egli leggeva la diaspora ereticale, cristallizzazione dottrinale di aspri conflitti sociali,19 come l’esito naturale di una teologia dive­ nuta ormai disciplina dell’esteriorità, finalizzata al conseguimento

16 O. B ertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941. 17 «Cum ergo uerbosi amici sunt, id est curri et ipsi derogant qui /** in fide sociantur, ad Deum necesse est ut oculus stillet, quatenus nostra intendo tota in amo· ris intimi compunctione defluat et tanto subtilius se ad interiora erigat» (Moralia 13, 25, 29). 18 L’atteggiamento di Gregorio verso il mondo bizantino fu estremamente complesso. Aperto alla spiritualità orientale, fu invece decisamente ostile nei con­ fronti del clima politico e religioso della capitale, in cui egli vedeva un emblema della potenza del «secolo»: «Il y eut donc une seule route du monde byzantin que Grégoire, semble-t-il, refusa toujours de parcourir, méme metaphoriquement: celle qui menait à Costantinople» (L. C racco R u g g in i, «Grégoire le Grand et le monde byzantin», in Colloque de Chantilly 1982, 83-94, in partic. 88). 19 C. M oreschini, «Gregorio Magno e le eresie», in Colloque de Chantilly 1982, 337-346.

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della «temporalis glorie», piuttosto che alla conversione, e dunque generatrice del conflitto delle interpretazioni. Lucida requisitoria contro i rischi dell’ideologia, i bellissimi dialoghi degli amici di Giobbe, figura degli eretici, mettono in scena il vizio intellettuali­ stico di quei graeculi che difendono Dio, ma in realtà giocano con le parole e il linguaggio in cerca «di significati più sottili» (23,3,10), aspirando ad apparire dotti piuttosto che alla vera sapienza.20 Ma d ’altro canto, quasi rovescio di una stessa medaglia, la custodia ge­ losa di una «rigorosa ortodossia» (23,3,10), come pretesa di totalità unificante, doveva apparire all’apocrisario ormai solo come uno strumento di autopreservazione del potere, piuttosto che difesa della verità. III. Gregorio avvertiva queste fratture come costitutive della sua stessa esperienza spirituale. Vraefectus Urbis, aveva lasciato, gra­ tta conversionis, la vita politica per farsi monaco. Ma papa Pelagio21 lo aveva ordinato diacono e rispedito nel mondo. Tornato final­ mente a Roma, al suo monastero, dopo gli anni della missione diplo­ matica in Oriente, il clero e il popolo della città lo avevano eletto papa, per acclamazione, e inutilmente si era opposto alla nomina. Espulso ancora dal suo ritiro, come Abramo, per un ordine che ve­ niva da Dio. Quasi tracciato autobiografico, l’epistola dedicatoria a Leandro di Siviglia,22 nei Moralia, disegna l’universo di Gregorio, il fuggiasco, diviso fra il celeste desiderium e la mundi curam, fra la quies monasterii e il pondus curae pastoralis (Ep. 1). Per tutta la vita «aveva cercato un certo magnifico luogo appartato [...] in cui contemplare Dio in modo tanto più puro in quanto poteva trovarlo solo con sé solo», ma

20 «Quia enim docti non esse, sed uideri appetunt, ex eruditionis uerbis speciem bene uiuentium sumunt; et per calorem loquacitads in se imaginem ostendunt decoris» (Moralia 3, 22,45). 21 Sul travagliato pontificato del predecessore di Gregorio (579-590), che cadde vittima di una epidemia di peste bubbonica e fu sepolto a S. Pietro in Vati­ cano, cf. C. So tinel , «Pelagio II», in Enciclopedia dei papi, I, 541-546. 22 Leandro, vescovo di Siviglia e fratello di Isidoro, si trovava a Costantinopoli per risolvere alcune questioni relative al regno visigoto.

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sempre inutilmente «era fuggito dal frastuono dei desideri terreni alla grande solitudine, cioè in se stesso» (4,30,58). L’immagine che egli dà di sé, nella lettera-prefazione, è quella di un uomo malato nel corpo e nello spirito,23 debole per non aver saputo difendere con ri­ gore una scelta che esilia. Non è, questa, una professio humilitatis se­ condo le convenzioni del genere epistolare, ma una dolente assun­ zione di consapevolezza, che attraversa tutta la vita e la scrittura di Gregorio. Infatti «il termine “uom o” evoca un essere terrestre e debole: l’uomo infatti è stato tratto dalYhumus» (12,32,7). Per questo la no­ stra natura non è altro che «carne assunta dal fango» (272). L ’uomo è «una foglia caduta», «paglia» (11,44,60), «cenere» (11,10,16) e «polvere» (6,15,19). Dal momento che «tutta la creazione è stata sot­ tomessa alla caducità» (4,34,68), l’essere umano, legato «all’ombra della carne» (4,3,8), è prigioniero (11,9,12) del carcere della sua co­ scienza, «naufrago» (Ep. 1) ed «esule» (515), «nudo» e «pellegrino» (3,23,46). «Circondato di tenebre perché oppresso dall’oscurità della sua ignoranza» (5,7,12), è dunque anche «cieco» (5,7,13). Il suo abito di carne viene corroso da un tarlo inestinguibile.24 Ogni sforzo terreno è inutile, e in un certo senso anche illusorio. Gli uo­ mini si sforzano in tutto ciò che fanno di lasciare al mondo un ri­ cordo di sé: «Chi si dedica a imprese belliche, chi a grandiosi edifici, chi a dotti libri di scienze secolari, ciascuno si costruisce un nome che ne assicuri la memoria» (11,30,42), ma «il giusto sente il tedio della vita, perché anche nell’azione non cessa di cercare il significato della propria esistenza, ma non riesce a trovarlo» (9,25,39). «Se in­ fatti consideriamo attentamente tutto ciò che qui accade, tutto è pena e miseria» (11,49,66), ma per fortuna «tutto ciò che passa è breve, anche se sembra che tardi a finire. E siamo incamminati su un sentiero di morte, senza ritorno» (13,27,31). Non sono immagini nuove: hanno radici profonde in quel sa­ pere antico da lui stesso ripudiato, ne conservano persino la musica. Non sarebbe difficile rintracciare i parallelismi testuali, le matrici

23 Moralia, ep. 5. 24 Moralia 11,48.64.

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stoiche e neoplatoniche del linguaggio gregoriano quando deve dare voce a una coscienza di exilium, insita nella condizione stessa delTexistere, come luogo dell’apparenza e dell’irrealtà. Ma Gregorio non è Marco Aurelio. Non ha dinanzi a sé il Dio di Marco, absolutus, chiuso e sigillato in una imperscrutabile afasia, e come indifferente all’umano tormento. Il Dio di Gregorio è un Deus praedicatus, vestito e rivelato della sua parola, perché è lo Spirito che per totam nobis sacram scripturam loquitur. È lui l’unico e solo autore del libro: «ha dettato ciò che bisognava scrivere» (Pref. 1,2). Dinanzi all’opacizzarsi delle dottrine e delle istituzioni del senso, al deterio­ rarsi dei quadri di riferimento tradizionali, è alla Bibbia allora che bi­ sogna tornare, parola rivelatrice e maestra.25 Nella già citata lettera a Leandro, Gregorio chiarisce i propri criteri ermeneutici, dichia­ rando la sua filiazione dai padri, da quella esegesi allegorico-spirituale (l’unica e sola vera esegesi, secondo De Lubac),26 che permette di conciliare le sentenze apparentemente contraddittorie sul piano della ragione - che sa regolare solo le differenze - , e di attingere l’or­ dine nascosto e segreto che sfugge alla vista e all’intelletto, ma è ac­ cessibile alla spiritualis intelligentia.2' È questa la sapienza che at­ tinge alla radice stessa del linguaggio, e tocca la Parola,28 inesauribile rispetto agli ideali esplicativi della ragione su cui la teologia degli orientali si è ormai atrofizzata. Una esegesi, quella gregoriana, che è dunque un esodo dalle parole vuote, retoriche, perdute, nell’ansia della verifica, alla ricchezza del divino. Ma, all’interno del metodo, Gregorio porta anche un’inedita co­ scienza di actualisatio. Se la Scrittura infatti è quasi quoddam specu-

25 R. M a n s e lli, «Gregorio Magno e la Bibbia», in La Bibbia nell’alto me­ dioevo, Spoleto 1963 (Atti delle Settimane di studio del Centro italiano di studi sul­ l’alto medioevo), 67-101. 26 H. D e Lubac, Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Ecriture, 4 voli. Aubier, Paris 1959-1961, I: 187-198; II: 537-548, 586-599; III: 53-77, 77-98. 27 «Sed nimirum uerba litterae, dum collata sibi conuenire nequeunt, aliud in se aliquid quod quaeratur ostendunt, ac si quibusdam uocibus dicant: dum nostra nos conspicitis superficie destrui, hoc in nobis quaerite, quod ordinatum sibique congruens apud nos ualeat intus inueniri» (Moralia, ep. 3). 28 «Sed vir sanctus, mysticis sensibus plenus, ad alia nos intellegenda transmittit, ut non creatam sed creantem sapientia requiramus» (Moralia 18,40,61).

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lum, come «uno specchio in cui possiamo contemplare il nostro volto interiore» (2,1,1), essa diviene anche il filtro attraverso cui si può tentare di ricostruire un discorso di senso al di là dell’angoscia, del disordine, della precarietà della storia. Il «segno» della esegesi gregoriana è forse proprio in questo carattere pratico, sperimentale, oggi diremmo esistenziale. Il commento a Giobbe diventa allora per Gregorio una lotta corpo a corpo con il proprio dolore. Confessa in­ fatti al suo interlocutore: «È forse un disegno della divina Prov­ videnza che io colpito dal male commenti la storia di Giobbe colpito dal male» (Ep. 5). Urge infatti una domanda: perché proprio a lui, proprio a Giobbe, che era semplice e retto ed esente dal male? Per­ ché Dio ha voluto così duramente provarlo? Per spiegare, bisogna tornare agli inizi, condizione perché vi sia un nuovo cominciamento. Il nucleo dell’antropologia gregoriana - e forse, meglio, dell’antropologia cristiana di ogni tempo - è nel dramma originario della Genesi.29 Fu al momento della disobbe­ dienza che l’uomo, espulso dall’intimità della contemplazione di Dio, fu cacciato dalla «suprema abitazione del paradiso» che era «il ventre materno di Dio» (4,12,22) - un simbolo femminile in un libro tutto al maschile! - e, alienato dal suo cuore, fu sospinto nelle tene­ brose profondità della materia, disseminando la sua originaria es­ senza interiore nella dispersione anomica delle cose esteriori e car­ nali. La trasgressione della volontà di Dio si tradusse in una perdita incalcolabile, perché nel momento in cui il cuore dell’uomo si di­ stolse da lui, Dio gli impose un’altra natura: «L’anima umana, espulsa dalle gioie del paradiso per colpa dei primi uomini, perdette la luce delle cose invisibili e si riversò tutta nell’amore di quelle visibili, e così rimase tanto cieca per contemplare le cose interiori quanto malamente dispersa fuori [...]. L’uomo che, se avesse osservato il precetto divino sarebbe diventato spirituale, peccando diventò carnale an­ che nell’anima, tanto da pensare solo quello che fa entrare nell’animo attra­ verso le immagini corporee. Sono infatti corporei il cielo, la terra, le acque,

29 R. B élanger , «Anthropologie et parole de Dieu dans le commentaire de Grégoire le Grand sur le Cantique des Cantiques», in Colloque de Chantilly 1982, 245-254.

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gli animali e tutte le cose visibili che abbiamo sempre davanti agli occhi. Quando la mente si proietta tutta in queste cose deliziandosene, perde la fi­ nezza dell’intelligenza interiore e, non essendo più capace di elevarsi alle realtà superne, si accontenta delle cose di quaggiù» (5,34,61). I termini con cui Gregorio lavora sono due: interiorità/esteriorità, emergenti dal peccato originale quale instaurazione di un’oppo­ sizione radicale fra l’uomo e Dio. A questa coppia, in cui Dagens ha visto il principio unificatore della teologia gregoriana,30 è riconduci­ bile tutta la serie delle antinomie che caratterizzano il linguaggio dei Moralia: l’opposizione visibile/invisibile, corruttibile/incorruttibile, carnale/spirituale, temporale/eterno, morte/vita. Suggerito dal ser­ pente, il peccato fu un atto di libera elezione, e quindi assolutamente colpevole, ché, agostinianamente, il male risiede nell’uomo e in lui soltanto (7,2,2). Ma la natura umana rimase così radicalmente tra­ viata e alterata da perdere anche la coscienza di sé, e da immergersi nella più ottusa ignoranza della propria condizione: «l’anima del peccatore diventa tanto più tenebrosa quanto meno si rende conto del danno della sua cecità» (6,23,40). G ode della sua falsa salute, si­ cura, non vede e neppure cerca.31 Che cos’è la morte se non «l’oblio dell’anima?» (4,16,30). Distanziamento dell’uomo da Dio, l’infra­ zione ha generato il dolore e la morte. Malattia dell’essere separato: è Giobbe sul letamaio che si toglie con il coccio la rogna,32 grande ada­ gio della pittura medioevale. Ed è a questo punto che interviene l’azione di Dio, che tocca l’uomo e lo richiama a sé attraverso il dolore. Non giudizio di con­ danna, ma strumento di bene, perché «Dio uccide per far vivere, percuote per guarire» (6,25,42), riscuote l’animo intorpidito, sveglia dal sonno l’uomo addormentato, e gli svela la condizione in cui si è ridotto per la sua colpa. Nell’antropologia cristiana, il dolore, la morte non sono situati, come per lo gnosticismo, ancora troppo radi­ cato nella tradizione antica, nell’ordine ontologico, ma in quello 30 C. D agens , Saint Grégoire le Grand. Culture et experience chrétienne, Études augustiniennes, Paris 1977. 31 «Male enim sana anima, atque in huius exsilii caeca securitate prostrata, nec uidebat Dominum, nec uidere requirebat» (Moralia 6,25,42). 32 Moralia 3,30,58.

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etico. All’origine c’è un’infrazione, ma proprio per questo, attraverso il dolore compensativo dell’espiazione, la possibilità della reden­ zione. Beatus homo qui corripitur a Domino, e così viene ricondotto dalla morte alla vita. È questa l’esegesi gregoriana della risurrezione: «Lazzaro, vieni fuori!», cioè esci da te stesso, e vivi. È questo il grande tema del libro di Giobbe: la sofferenza purificatrice ed espiatrice della terrificante frattura che il peccato ha introdotto fra l’or­ dine della realtà e quello del valore, la cura di Dio medico e rigenera­ tore. Bisogna temere la prosperità e ricordare che la Chiesa progre­ disce grazie alle avversità. È già un insegnamento evangelico, ma nella patristica antica Gregorio ne è stato forse l’esegeta più attento e compiuto. Per questo i Moralia saranno alla base di tutta la prope­ deutica medievale dell’assimilazione alla verità attraverso il dolore, principio informativo della spiritualità, e organizzativo delle pratiche religiose. Di qui si svilupperà la «rivoluzione penitenziale» intro­ dotta dai monaci allevati alla scuola di Gregorio, che codificheranno le cure dei peccati, malattie dell’anima, tramite castighi proporzio­ nati alla loro gravità, ma ad essi contrari, secondo le indicazioni tera­ peutiche della medicina antica.33 IV. Ma Gregorio spiega anche ai suoi monaci, allenati a una dura palestra di vita cristiana, che la redenzione è interamente opera divina, e che nessuna dottrina morale, nessun comportamento vir­ tuoso, nessuno sforzo ascetico è sufficiente a poter costruire le con­ dizioni della propria salvezza. È il rischio del pelagianesimo, cioè dell’autosufficienza, forse la tentazione più grave per chi cerca la perfezione - e il pelagianesimo era un’infezione latente del monache­ Simo occidentale - ,34 ma «la grazia divina non è venuta per aver tro­

33 Cf. C. V o g e l, Le pèlerinage pénitentiel, in Pellegrinaggio e culto dei santi in Europa fino alla prima crociata, Deputazione subalpina di Storia patria, Torino, 1963, 38-94; ma anche I d ., Les Libri poenitentiales, Turnhout 1978 (Typologie des sources du Moyen Àge Occidental, 27). 34 «Sed sunt nonnulli qui sanos se suis uiribus exsultant suisque/* praecedendbus meritis redemptos se esse gloriantur. Quorum profecto assertio inuenitur sibimetipsis contraria, quia dum et innocentes se asserunt, et redemptos, hoc ipsum in se redemptionis nomen euacuant» (Moralia 18,40,63).

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vato nell’uomo il merito, ma lo produce dopo che è venuta» (18,40,63). E Gregorio avverte che l’esperienza cristiana non è una tecnica, né un esercizio, perché «a nulla vale la castità della carne se non è accompagnata dalla dolcezza dell’anima» (6,34,53), a nulla l’e­ lemosina «se ciò che si dona non viene dato con animo puro» (22,14,28), a nulla il perdono, se non ci liberiamo «del dolore pro­ vato dentro di noi per un torto ricevuto» (22,14,27). È il primato dello spirito sulla morale, del rapporto con Dio sulla Legge. Nemmeno l’obbedienza ai comandamenti, una vita se­ condo ragione, chiusa nel recinto delle morali e delle norme codifi­ cate, garantisce un posto tranquillo. Dinanzi alla incommensurabi­ lità, indecifrabilità del giudizio divino, allora, anche l’interrogativo iniziale: perché a Giobbe?, è un’empietà. Solo il timor Dei è la condi­ zione che può aprire una possibilità di riscatto della condizione umana. All’uomo non resta che sottomettersi, riconoscere «il pro­ prio niente» (Pref. 2,4) e fare come Giobbe che, colpito dal dolore, invece di disperarsi, prostrandosi, adorò. Ed è per questo che il monacheSimo è una chiave di lettura fon­ damentale della spiritualità dei Moralia. Perdersi alle creature, ma anche a se stessi, seppellirsi nel sepolcro della contemplazione, «luogo del grande silenzio», dove soffia furtivamente la Parola se­ greta, come «soffio del celeste sussurro» (5,29,51). Lì il santo si na­ sconde per ascoltare e ascolta per nascondersi «il misterioso linguag­ gio interiore» (5,29,51).35 Ma, come ogni vero mistico, Gregorio difende l’inaccessibilità con cui si confronta e, con Dionigi, sa che «l’ala della contempla­ zione» arresta comunque l’anima sulla soglia, nel territorio della dis­ somiglianza: «È perfetto riposo perché si vede Dio, e tuttavia non è paragonabile al suo riposo, perché egli non ha bisogno, per riposare, di passare da sé in un altro. Perciò è un riposo, per così dire, simile e d i s s im ile , perché il nostro riposo è un’imitazione del suo» (18,54,93). Sono solo lampi, squarci intermittenti di una luce che abbaglia, come fu per il Profeta, che «si coprì il volto col mantello» (5,36,66). Dio è

35 G.A. Z in n , «Sound, silence and word in thè spirituality of Gregory thè Great», in Colloque de Chantilly 1982, 367-375.

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«l’ineffabile» (27,40,67) e il linguaggio dell’anima orante solo desi­ derio. Rimane comunque una distanza, che genera una tensione. Per questo motivo, come anni fa sottolineava Manselli, l’escatologia è un momento indispensabile per capire i Moralia o, come ha scritto Leonardi, Gregorio «ha bisogno dei Novissimi per sopportare la sto­ ria».37 Comunque esiliato dal suo presente, Gregorio è tutto proteso verso il compimento. È una proiezione ad infinitum, situata al di là dello spazio e del tempo, che, come già per Agostino, attiene rigoro­ samente alla trascendenza. L ’escatologismo, che connota la rifles­ sione gregoriana con un’urgenza forse ancora più forte che nel ve­ scovo di Ippona, è epurato da qualsiasi componente millenaristica e completamente sottratto, diversamente da quanto sarà per Gioac­ chino da Fiore, dal piano terreno, come palingenesi finale nel regno dello Spirito.38 Ecco dunque che la condizione umana è trovarsi per via, senza possibilità che un risultato su questa terra possa darsi come meta raggiunta. E la metafora più propria dell’esistenza è ap­ punto il pellegrinaggio. In questo senso Gregorio è pessimista, perché il suo escatologismo lo porta ad escludere una effettiva pienezza di vita cristiana nel concreto accadimento storico. Lo scarto tra la giustizia divina e quella umana si situa al livello di un’insolubile alterità. Di qui anche la relativizzazione e desacralizzazione di qualunque potere, sia anche quello dell’imperatore cristiano, comunque legato a una dimensione

36 R. M a n s e lli, «L’escatologismo di Gregorio Magno», in A tti del I Congresso di studi Longobardi, Spoleto 1952, 383-387; e I d ., «L’escatologia di Gregorio Ma­ gno», in Ricerche di storia religiosa 1(1954), 72-83. 37 C. L e o n a rd i, «Il venerabile Beda e la cultura del secolo Vili», in I problemi dell’Occidente nel secolo Vili, Spoleto 1973 (Atti dei Convegni del Centro italiano di studi per l’alto medioevo, 20), 603-653, in part. 624. 8 R. M a n s e lli, La «Lectura super Apocalipsim» di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull'escatologismo medioevale, Roma 1955 (Studi storici, 19-21). Ma si veda anche il classico studio di M. Reeves, The influence o f Prophecy in thè Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Clarendon Press, Oxford 1969. Sul dibattito storiogra­ fico innescato da queste opere, cf. M .C. D e M a tte is , «La storiografia italiana sul problema dell’attesa della fine dei tempi», in L'attesa della fine dei tempi nel me­ dioevo, a cura di O. C a p ita n i - J. M ie th k e , Bologna 1990 (Annali dell’Istituto sto­ rico italo-germanico, 28), 17-36.

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terrena. Ma di qui anche l’inutilità di opporsi all’autorità costituita: non si deve mormorare contro il principe.35 Pessimista, ma non tra­ gico, perché il dolore ha un senso e l’escatologia rinvia a una solu­ zione, come speranza di un adempimento che è stato annunciato. V. «La vita perfetta è un’imitazione della morte» (13,29,33). È un ritorno alla Sigé, al grande silenzio antico, dove il monaco spro­ fonda per ritrovare, nella quiete, le radici dell’essere? Fin qui era ar­ rivato anche Cassiano, che aveva reciso ogni rapporto col mondo, realtà terrestre e carnale, stigmatizzando come illusione diabolica rischio di contaminazione - anche la sollecitudine a convertire gli al­ tri. L ’approdo di Gregorio, pur così compenetrato della tradizione cassianea e orientale, è diverso, perché egli ha un problema: come ri­ vestire lo spirito di un corpo d ’amore. La cristologia è un momento capitale della riflessione dei Moralia, non tanto sul piano dottrinale - in quanto pienamente risolto nel Simbolo di Calcedonia - quanto piuttosto sotto il profilo delle impli­ cazioni ecclesiologiche, antropologiche ed etiche derivanti dalla fede nella reale divinità e vera umanità del Cristo. «Il nostro Redentore non si è fatto angelo, ma uomo» (4,7,12), e «sedere a terra insieme con il beato Giobbe significa credere vera la carne del Redentore» (3,26,51). Questa certezza attraversa i Moralia, e misura il distacco intellettuale e morale da un universo orientale travagliato dalle sue eredità gnostiche e neoplatoniche: esemplari le pagine dedicate alla controversia con il patriarca Eutichio che nega consistenza reale al 40 corpo risuscitato. 39 Gregorio invita i capi all’esercizio di un potere ministeriale, di servizio. Ma a loro volta, quelli che sono soggetti al governo di un altro sono invitati al rispetto gerarchico. Essi non devono giudicare con facilità l’operato dei governanti perché, ribellandosi a coloro cui sono affidati, non si oppongono all’ordinamento umano, bensì a quello divino, che ha disposto l’autorità costituita (Moralia 22,24,56; 25,16,36). 40 Contro Eutichio, che sosteneva la tesi che il corpo risuscitato è impalpabile e sottile, Gregorio, appoggiandosi all’autorità di Girolamo e in polemica con Origene, ribadiva la realtà della risurrezione e la sostanza materiale del corpo dopo la risurrezione finale (Moralia 14,56-59.72-79). La disputa si concluse con la condanna da parte dell’imperatore dell’opera di Eutichio. Cf. Y.M. D uval, «La discussion entre l’apocrisiaire Grégoire et le patriarche Eutychios au sujet de la résurrection de la

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Ma importanti e decisivi sono i nessi concreti, gli orientamenti ecclesiologici che Gregorio trae dalla complessità del mistero cristico. L’ambivalenza insita nel principio dell’incarnazione doveva spingerlo a riconsiderare i rapporti tra la dimensione privata, perso­ nale e interiore, e la dimensione pubblica, quale testimonianza ope­ rante della fede cristiana. Dio ha mandato il suo Figlio per richia­ mare a sé l’uomo: «Egli aiutò l’uomo facendosi uomo. Il puro uomo non avrebbe più trovato la via per tornare a Dio, se l’Uomo-Dio non gliene avesse aperta un’altra» (22,17,42). Una situazione che per­ mette allora di comprendere le dichiarazioni apparentemente con­ trastanti del discorso gregoriano, in realtà contraddizioni creatrici. Nei Moralia egli scrive che la santità vera non consiste nel compiere i miracoli, ma nella purezza del cuore,41 un’affermazione che non gli impedirà di diventare il fondatore dell’agiografia latina medievale, in quanto i miracoli, prove materiali dell’esistenza di Dio, rafforzano la fede della comunità.42 Esalta il monacheSimo, come rifiuto del mondo, e intanto avverte che compito della Chiesa, corpo del Cristo, è la conversione, la missione. E quindi la scelta monastica per Grego­ rio è la condizione preliminare e necessaria dalla quale comincia il compito di dare un corpo alla Parola, di incarnare la verità.43 Il mo­ nacheSimo è dunque una condizione dell’anima, prima che uno stato di vita, una formazione giuridica,44 e il santo, a imitazione del Cristo, chair. L ’arrière-plan d o ctrin al orientai et O ccidental», in Colloque de Chantilly 1982,

347-366. 41 Moralia 20,7,17. 42 Dialogues, a cura di A. D e V o g u é , 3 voli., Paris 1978-80. Un libro del Clark, che ha messo in discussione la paternità gregoriana dei Dialogi (F. C lark, The Pseudo-Gregorian Dialogues, 2 voli., Leiden 1987), ha aperto un serrato dibattito storiografico, per cui si rinvia a G. C racco, «Francis Clark e la storiografia sui “Dia­ loghi” di Gregorio Magno», in Rivista di storia e letteratura religiosa 27(1991), 115124. Le tesi del Clark sono state confutate da De Vogué, tanto che attualmente la li­ nea prevalente è quella di un pieno inserimento dei Dialogi nella produzione grego­ riana (A. D e V og u é , «Les Dialogues, oeuvre authentique et publiée par Grégoire lui-mème», in Gregorio Magno e il suo tempo, 27-40). 45 Su questi problemi, si veda C. LEONARDI, «La spiritualità monastica dal IV al XIII secolo», in Dall’eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dalle origini al­ l'età di Dante, Libri Scheiwiller, Milano 1987, 181-214, in partic. 192-203. 44 Dopo gli studi di Kassius Hallinger si è praticamente chiusa la controversa questione se Gregorio fu il diffusore della regola benedettina a Roma e in Italia. In­ fatti, un’organizzazione benedettina strutturata comparve in Italia solo nell’VIII se­

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deve lasciare il suo luogo perfetto, umiliarsi, accettare «la tortura» di occuparsi delle cose materiali e ricondurre gli uomini a Dio. È un pa­ radosso, ma anche una condizione necessitante, che proprio l’uomo «votato al silenzio» (23,1,8) debba parlare e predicare. È la legge del pendolo: allontanarsi dal mondo e dalle creature, perdersi nella solitudine, per poi ritornare alle creature. Gregorio reincorpora la profezia nella tradizione cristiana, come guida cari­ smatica del popolo da parte di chi, in contatto privilegiato con Dio, può svelarne il piano nascosto. La profezia è tale non quia praedicit ventura, sed quia prodit occultai II profeta è colui che sa ritornare alla Parola prima di tutte le parole. E questo dono implica la mis­ sione dell’annuncio. Chi ha il dono, ha il dovere di parlare. Si istitui­ sce allora una nuova gerarchia, omologa alla celeste gerarchia ange­ lica, quella dei «predicatori santi», re e principi perché sanno gover­ nare se stessi,46 governanti perché conducono le menti terrestri alle realtà celesti.4' All’inefficienza di sovrani incapaci o alla malvagità di re violenti, si contrappone biblicamente la forza dei profeti fedeli a Dio, che non abbandona il suo popolo. C ’è un intero mondo, al di fuori, ma ormai anche dentro i tradizionali confini dell'orbis christianus, da riportare alla vita divina e all’interiorità. Esiste una speranza anche per i germani, se Giobbe, profeta pagano, annunziò il Reden­ tore al pari dei profeti ebrei,48 mentre i bizantini sembrano aver fatto

colo, sotto forma di importazione franco-carolingia. Cf. K. H allinger , Papst Gregor der Grofie und der hi. Benedikt, Roma 1950-1951 (Studia Anselmiana, 22-23). 45 G regorius M agnus , Hotniliae in Hiezechihelem prophetam, I, CC Series lat. 142, 5. 46 «Bene autem hi qui sibi solitudinem construunt, etiam consules uocantur quia sic in se solitudinem mentis aedificat, ut tamen in quo praeualent, aliis per caritatem consulere minime desistant» (Moralia 4,30,59). 47 «Reges enim sunt quia sibimetipsis praesident; terrae autem consules quia exstinctis peccatoribus uitae consultum praebent. Reges sunt quia semetipsos regere sciunt; terrae sunt consules quia terrenas mentes per exhortationis suae consilium ad caelestia pertrahunt» (Moralia 4,29,56). 48 «Homo gentilis, homo sine lege, ad medium adducitur, ut eorum qui sub lege sunt prauitas confundatur [...]. Nec immerito inter Hebraeorum uitas, in auctoritatis reuerentia uita iusti gentilis adducitur, quia Redemptor noster, sicut ad redemptionem Iudaeorum et gentilium uenit, ita se Iudaeorum et gentilium prophetari uocibus uolit, ut per utrumque populum diceretur, qui prò utroque populo quandoque pateretur» (Moralia pref. 2,5).

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proprio il mos iudaicus.49 Allora, forse proprio nell’Occidente senza più ordine, né sicurezza, si può dischiudere la via di un nuovo esodo. Al limitare del medioevo, sullo sfondo di una koiné mediterra­ nea ormai al tramonto, Gregorio, tornato da Costantinopoli, sarebbe diventato la guida del nuovo Israele cristiano povero e selvaggio. Avrebbe imparato le lingue dei barbari, dei pagani, per spiegare loro che ciò che conta non è il sacrificio del sangue, il segno rituale, ma lo spirito e l’intenzione con cui viene compiuta l’offerta. Si sarebbe fatto solidale con le parole dei poveri, dei piccoli, degli ignoranti,50 portando loro la testimonianza di nuovi santi, pastori e contadini, uomini di Dio, come Giobbe attraversati dalla potenza dello Spirito, che con i loro miracoli umiliavano le competenze dei teologi. E i Moralia avrebbero offerto indicazioni a chi cercava sentieri per perdersi o ricominciare, come i monaci itineranti irlandesi e inglesi, viatores su strade di un Occidente ancora tutto da costruire.

VI. Vorrei concludere con una riflessione extratestuale, ma che forse mi è consentita proprio dal carattere interdisciplinare che Gil­ berto Marconi ha voluto attribuire a questo seminario. Alcuni mesi fa, quando i teologi della LUMSA hanno scelto Giobbe come tema di questo incontro, sono stati anche un po’ profeti. Straordinaria è infatti l’attualità di questo commento gregoriano al libro di Giobbe. Quello che sta accadendo in queste ultime settimane ci rappresenta storicamente, ancora una volta, una terrificante spaccatura fra un Occidente razionale e civilizzato e un altro mondo, per noi incom­ prensibile perché sfugge all’ordine e alla logica che ci siamo costruiti. Tuttavia dobbiamo avere anche il coraggio e l’umiltà di riconoscere

49 «Illa corda gentilium repleta sunt caritate Dei quae pressa prius fuerant tor­ pore diaboli. Potest uero et per hoc uacuum Iudaeae infidelitas et per terram sicut diximus, sanctae Ecclesiae fructificatio designari. Vir ergo sanctum casum Iudaeae pereuntis aspiciat et gentilitatis merita ad ueniam redeuntis cemat» (Moralia 17‫׳‬25