I Veneti. Società e cultura di un popolo dell'Italia preromana [2 ed.] 8830411329, 9788830411326

Questo volume intende fare il punto delle conoscenze su quello che i Romani definirono il Venetorum angulus, ma che in r

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Italian Pages 344 [341] Year 1993

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I Veneti. Società e cultura di un popolo dell'Italia preromana [2 ed.]
 8830411329, 9788830411326

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LOREDANA CAPUIS

I VENETI SOCIETA' E CULTURA DI UN POPOLO DELL'ITALIA PREROMANA

Longanesi & C.

La collana è diretta da Mario Torelli

I VENETI SOCIETÀ

E

CULTURA

DELL'ITALIA

DI

UN

POPOLO

PREROMANA

di LOREDANA

CAPUIS

OTTANTASETTE FUORI

ILLUSTRAZIONI TESTO

LO N GANE S I MILANO

&

C.

PROPRIETÀ

LETTERARIA RISERVATA Longonesi & C., © 1993 - 20122 Milano, corso Italia, /3

ISBN 88-304-1132-9

I Veneti

Alla dolce memoria di Roberto e Bianca

Introduzione L'insieme di nozioni e di problemi che costituisce il tormentato paesaggio della storia delle società e delle civiltà dell'Italia preromana[ ... ] non si riassume con immediata evidenza in una immagine dai contorni ben definiti, quale è quella che ci si offre per la Grecia e per la civiltà greca, cioè per una realtà storica espressa da una sola stirpe[ ... ] L'Italia preromana è un coacervo di esperienze etnico-linguistiche, sociopolitiche, culturali diversissime, e ai più diversi livelli di avanzamento [... ] Ciò spiega perché ne sia così difficile la comprensione, e per così dire sfuggente il significato; e perché lo studio dei suoi fenomeni si sia disperso per mille rivoli epistemologici e metodologici, identificandosi volta a volta con le ricerche di preistoria, di linguistica, di storia delle religioni, di storia dell'arte classica, di storia greca, di storia romana.

Così, nel 1978, scriveva M. Pallottino in una proposta di sintesi storica a conclusione della serie di volumi Popoli e civiltà dell'Italia antica dedicati all'illustrazione dei vari aspetti etnicoculturali che, a partire dal X-Ix secolo a.C., vengono a prefigurare le partizioni regionali dell'Italia storica. Lo stesso concetto è ribadito nel 1984 nella Storia della prima Italia, « vero e proprio libro di storia », primo moderno tentativo di recuperare un quadro unitario dalla disomogenea documentazione offerta dal1'Italia preromana. È infatti solo nel I secolo a.e. che il volto frammentario e multiforme della penisola raggiunge, ad opera di Roma, unità linguistica, culturale, politica, venendo a coincidere con quell 'Italfa unificata dallo Ionio alle Alpi, concetto per noi familiare e scontato, ma ben più travagliato se ne ripercorriamo la storia: storia trasparente nella suddivisione in undici regiones operata da Augusto. Come è ben noto, l'ordinamento augusteo, oltre che da uno scopo amministrativo-territoriale, fu motivato da un ben preciso assunto ideologico-propagandistico, volto a rivalutare l'individualità etnica delle originarie popolazioni italiche, la cui « memoria storica » veniva mantenuta appunto nei nomi attribuiti alle singole regiones. X regio divenne l'ampio territorio dell'Italia nordorientale e, con nome più completo codificato a partire dall'età di Diocleziano, X regio Venetia et Histria. Seppur comprendente anche minoranze etniche etrusche, retiche, carniche, istriane, è certo che il nucleo preponderante era costituito da quei Veneti che, già al volgere del n millennio a.C. e per tutto il I, qui svilupparono la loro civiltà cui corrispose tra l'altro, a partire dal VI secolo a.e., una specifica tradizione scrittoria, eco di una precisa unità linguistica.

8 « Paleoveneta » è stata convenzionalmente definita questa civiltà, e « Paleoveneti » gli artefici, per non creare equivoci con i Veneti attuali, ma sembra più giusto recuperare la storicità del nome. Le fonti classiche offrono infatti indicazioni precise e compatte per Veneti: un veneto tra l'altro, Tito Livio nativo di Padova, narrando le vicende di Antenore, dei Troiani e degli Eneti che con lui giungono nelle terre adriatiche - in intimum maris Hadriatici sinum - dice espressamente che qui il nuovo popolo ricevette il nome di Veneti - gens universa Veneti appellati - . Restituiamo dunque al « popolo » ed alle sue manifestazioni culturali la denominazione storica. Anche se, al pari di altre popolazioni preromane, manca una produzione letteraria originale sufficiente a definirli « cultura storica», è indubbio, come annotato sempre da M. Pallottino, acuto ed insuperato interprete della protostoria italica, che i Veneti costituiscono una delle compagini etnico-culturali meglio definite dell'Italia preromana proprio per la possibilità di stabilire, fin dalle origini, una precisa identità tra ethnos e cultura, a differenza di quanto si verifica in altri ambienti e fatto unico per l'Italia settentrionale. E non crediamo di cadere in un vuoto campanilismo nel dire che, nel coacervo di popoli che caratterizzano l'Italia del I millennio a.e., i Veneti appaiono secondi solo agli Etruschi, per l'espansione territoriale ben delineata nei suoi ampi confini già a partire dall'vm secolo, per la specifica autonomia ed individualità culturale, per la vastità delle relazioni intessute con le popolazioni limitrofe, dal Tirreno ali' Adriatico ai territori transalpini. In ciò furono certo favoriti da un paesaggio naturale particolarmente felice, ricco di fiumi e quindi di vie naturali di comunicazione, cerniera insostituibile tra penisola ed Europa centrale, da un ampio fronte marittimo in una delle poche zone dell'Adriatico occidentale che potevano offrire approdi facili e sicuri, da una terra fertile con vaste distese pianeggianti e boschive, ma certo anche dall'essere stati in grado di attuare, in tempi relativamente brevi, una valida organizzazione politicoeconomica. Naturalmente protetti dai loro grandi fiumi, ma sicuramente anche grazie ad una solida struttura territoriale, i Veneti furono tra l'altro risparmiati da traumatiche penetrazioni di Etruschi, Greci, Galli, fino a quando, tra il III e il n secolo a.e., entrarono pacificamente nell'orbita di Roma. L'importanza strategica ed economica del Venetorum angulus non sfuggì certo ai Romani che, non a caso, dei Veneti amarono presentarsi come amici

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piuttosto che come nemici, ad essi accomunati da nobili e remote origini troiane: Antenore, come Enea, esce infatti incolume dalla notte fatale di Troia; ai due eroi, legati da un fato comune, è concesso, dopo lunghe e perigliose peregrinazioni, di dare origine a nuovi popoli e a nuove città, Veneti e Romani, Padova e Roma. Dei Veneti e del Veneto vogliamo delineare in queste pagine il quadro storico e culturale tra il 1x secolo a.C. e la romanizzazione, cercando di coglierne l'unità e la disomogeneità da un punto all'altro del vasto territorio, i caratteri comuni e i tratti distintivi, questi ultimi conseguenti appunto ad un assetto territoriale assai vario ed articolato che favorì aperture differenziate verso le popolazioni limitrofe e quindi, per certi aspetti, diverse forme di acculturazione. Data l'assenza di una diretta tradizione storica scritta (i documenti, seppur numerosi, sono infatti per lo più limitati a brevi iscrizioni funerarie o votive con formule stereotipe di dedica) e tenuto conto che le fonti indirette sono scarse, frammentarie e talvolta contraddittorie, è evidente che nel ricostruire questo palinsesto nei suoi molteplici aspetti - culturali, sociali, economici, politici, rituali - il nostro discorso dovrà essenzialmente basarsi sull'analisi dei dati archeologici, leggendo quanto possono svelare, ma non dimenticando anche quanto possono celare. Se infatti teniamo presente che non tutte le vicende umane lasciano sul terreno tangibili tracce, che molte tracce vengono distrutte nel corso del tempo da agenti naturali e dalla successiva vita dell'uomo, che non tutte le tracce sono venute alla luce mentre molte di esse (leggi manufatti) giacciono ancora nei musei e nei magazzini in attesa di essere pubblicate e studiate, se ne deduce facilmente quali siano i limiti nella ricostruzione di una società antica. È quindi sostanzialmente un quadro di massima quello che possiamo ricostruire, soggetto a mutare se non forse nelle linee fondamentali certo nei particolari: di ciò siamo consci e lo abbiamo constatato in questi ultimi anni in cui nuove scoperte e nuovi studi di molto hanno arricchito, e talvolta trasformato, le nostre conoscenze. Mentre si rimanda il lettore più specializzato alla ricca produzione bibliografica scientifica uscita negli ultimi anni, cercheremo qui di usare un linguaggio ed un'esposizione accessibili anche ai« non addetti ai lavori », nell'intento primario di suscitare interesse e curiosità per un mondo forse troppo spesso, ed a torto, considerato provinciale e periferico.

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Scrivere questo libro non è stato facile, non tanto per l'argomento già da molti anni specifico dei miei studi, quanto perché i mesi della sua gestazione hanno coinciso con un periodo assai difficile della mia vita, colpita negli affetti e in altro. Anche per questo desidero ringraziare tutti gli amici e i colleghi che mi hanno incoraggiata e sostenuta nei numerosi momenti in cui avrei voluto « gettare la spugna ». Tra i molti, un particolare ringraziamento a Francesca Ghedini, Stefania Pesavento Mattioli, Angela Ruta Serafini, per la rilettura del testo e i preziosi consigli; con Anna Maria Chieco Bianchi e Giovanni Leonardi costante è stata la discussione secondo una consuetudine ormai instaurata da lunga data, e molto devo alla loro critica revisione e specifica competenza; un pensiero assolutamente particolare a Giulia Fogolari, maestra indiscussa di scienza veneta. A tutti un affettuoso grazie.

I. Il paese e il popolo 1. Territorio, natura, paesaggio: gli aspetti di ieri e di oggi Sequitur decima regio ltaliae, Hadriatico mari adposita ... Segue la decima regione d'Italia, affacciata sul mare Adriatico, dove sono la Venetia, il fiume Sile che ha origine dai monti trevigiani, il centro di Altino, il fiume Livenza che scende dai monti opitergini e il porto dallo stesso nome, la colonia di Concordia, i fiumi e i porti Reatino, Tagliamento Maggiore e Minore, Anasso, nel quale confluisce il Varamo, Aussa, Natisone con il Torre, che toccano la colonia di Aquileia posta a 15 miglia dal mare. Questa è la regione dei Carni e vicini sono la regione degli !apodi, il fiume Timavo, il castello Pucino rinomato per il vino, il golfo triestino e la colonia di Trieste distante 33 miglia da Aquileia. Sei miglia oltre Trieste si trova il fiume Formione, a 189 miglia da Ravenna, antico confine dell'Italia prima del suo ampliamento, ora confine dell'Istria [ ... ] L'Istria si protende come una penisola [... ] In Istria i centri di diritto romano sono Agida, Parenzo: colonia è Pola[ ... ] Poi seguono la città di Nesazio e il fiume Arsia, ora confine dell'Italia[ ... ] All'interno della decima regione vi sono le colonie di Cremona e di Brescia nel territorio dei Cenomani, Este e i centri di Asolo, Padova, Oderzo, Belluno, Vicenza in quello dei Veneti. Mantova è la sola città degli Etruschi superstite al di là del corso del Po. I Veneti sono di stirpe troiana, afferma Catone, mentre i Cenomani abitavano un tempo presso Marsiglia nel territorio dei Volei. Centri retici sono Feltre, Trento e Berua: dei Reti e degli Euganei è Verona, dei Carni è Zuglio. Poi ci sono altre popolazioni sulle quali non è il caso di dilungarsi. .. (Plin. , N. H. 111, 126-131; trad. G. Rosada).

Così Plinio, nel I secolo d. C., dettagliatamente descrive il territorio veneto, X regio dell'ordinamento augusteo, provincia Venetia et Histria dopo la riforma di Diocleziano. Di questa regione ben precisi risultano in tutta la tradizione antica i confini meridiona1e e settentriona1e in quanto definiti da macroscopiche e quasi parallele linee di demarcazione fisica, il Po ed il crinale alpino; più sfumati, più incerti e fluttuanti, sono invece i confini occidenta1e ed orientale, non caratterizzati da vere e proprie barriere naturali, ma piuttosto soggetti ad oscillazioni di tipo storico-politico: dall'Oglio a]l' Arsa secondo Plinio (cioè da] confine occidenta1e con l'Xl regio Transpadana al confine orientale dell 'Ita1ia augustea), da1l 'Adda alla Pannonia, quindi praticamente a1 Danubio, secondo lo storico longobardo Paolo Diacono. Una regione molto estesa (ancor più dell'attuale Triveneto) caratterizzata, allora come oggi, da un paesaggio assai vario: dall'ampio arco di costa alla vasta pianura solcata da numerosi fiu-

12 mi, dalla pianura alla collina, dalla collina alle catene alpine. Ed è proprio questo succedersi ed armonico integrarsi di mare, lagune, fiumi, laghi, pianura, colli, montagne, il tema ricorrente in tutti gli scrittori antichi, come risulta con particolare evidenza dal passo di Plinio che costituisce una delle più complete e complesse descrizioni della regione tramandateci dall'antichità, tanto più interessante in quanto la visuale « marittima » da cui muove lo scrittore, certo suggerita dal suo essere un ammiraglio della flotta romana, ben si adatta a quella connotazione adriatica che, come vedremo, distingue i nostri Veneti da altri omonimi. La descrizione inizia con un toponimo - Venetia - nel quale è stato giustamente proposto di vedere un riferimento alla fascia lagunare compresa tra il delta del Po ed Altino; segue l'enumerazione dei centri, dei porti, dei fiumi che si aprono nell'ampio golfo adriatico: è questa per Plinio la Venetia maritima, estesa dalle bocche del Po a Nesazio, in cui si susseguono il vero e proprio paese del Veneti, dal Po al Livenza, la regione dei Carni, dal Livenza al Timavo, le terre degli lstri più oltre, secondo una successione etnica che torna anche in altri autori, seppure con qualche variante sulle linee naturali di demarcazione. Dalla costa Plinio passa quindi ad enumerare i centri situati all'interno, in mediterraneo, anche qui con occhio attento alle diverse etnie: Este, Asolo, Padova, Oderzo, Belluno, Vicenza sono assegnate ai Veneti; Cremona e Brescia ai Cenomani; Mantova è la sola città etrusca rimasta a nord del Po; Feltre, Trento, Berua (tuttora non identificata) sono retiche; dei Reti e degli Euganei è Verona. Sono comunque l'aspetto marittimo e paramarittimo, le lagune, le isole, il ricorrente fenomeno delle maree a tornare con particolare insistenza nelle antiche descrizioni della regione. Specchi d'acqua alimentati dalle maree, al di là dei quali si aprono fertili campi e, sullo sfondo, i colli, è il paesaggio che affascina i soldati di Cleonimo mandati in avanscoperta, come leggiamo in Livio (Liv. x, 5). L'alterna vicenda delle maree è sottolineata da Vitruvio come causa dell'incredibilis salubritas delle paludi, dove l'acqua non era mai stagnante perché continuamente rinnovata dall'apporto del mare (Vitr. I, 4, 11). I« flussi eriflussi di marea in conseguenza dei quali la maggior parte della pianura è cosparsa di lagune » permettono a Strabone un paragone tra questa parte dell'Adriatico, l'Oceano e l'Egitto (Strabo v, 1, 5 = Voltan 973). E a paesi lontani, alle isole Cicladi, si richiamerà ben più tardi anche Cassiodoro, sottolineando i numerosi vantaggi di questo paesaggio lagunare, le maree che inonda-

13 no i campi e poi si ritirano, il susseguirsi di baie dove il mare diventa calma laguna. Ancor oggi lungo il litorale veneto-friulano, e poi giù fino a Comacchio, nel gran delta padano le acque del mare e quelle dolci dei fiumi si confondono e si mescolano isolando un'area anfibia caratterizzata da un'inestricabile rete di specchi d'acqua, di canali naturali, di paludi, di laghi salmastri intercalati a lembi di terra ora melmosi, ora coperti da vegetazione palustre (le barene), ora emergenti in dossi lineari sabbiosi che richiamano le antiche linee di costa. La laguna offre un paesaggio cangiante nel tempo, non solo a lungo termine, ma nell'arco stesso della giornata: la laguna morta, dislocata nella parte più prossima alla terraferma, dove il flusso e riflusso della marea è meno sensibile; la laguna viva, a diretto contatto con il mare per mezzo di larghe bocche di porto a partire dalle quali, come radici di un albero, si diffonde una rete di canali naturali. Caratteristica saliente del paesaggio lagunare sono certo le numerose isole e isolette che ne emergono, specialmente nella parte centrale e settentrionale, creando un ambiente favorevole e protetto che non può non richiamare le scelte che furono alla base del sorgere di Venezia. Ben si comprende inoltre perché in questa zona, che per molti aspetti doveva anche essere impraticabile e malsana, seppur di fondamentale interesse economico-commerciale, già gli Etruschi avessero iniziato un'opera di bonifica per mezzo di canali artificiali, opera regolarmente portata avanti dai Romani, da Augusto a Claudio ai Flavi, con l'apertura di quelle fossae per transversum di cui parla Plinio (III, 16, 119-121): canali che permettevano una sicura e protetta navigazione endolagunare da Ravenna ad Altino, collegando i vari rami del Po agli altri fiumi che qui sfociavano. Proprio i numerosi fiumi, che lungo l'arco dell'alto Adriatico aprono a raggiera le loro foci estendendosi all'interno con un'ampia rete a ventaglio, costituiscono il secondo elemento tipico della regione, dilatandone la connotazione « acquatica », la valenza strategica marittimo-fluviale. Si rilegga ancora una volta Plinio per rendersi conto della stretta connessione instaurata tra fiumi e centri urbani ad essi collegati. Ma già Strabone, con l'occhio attento del geografo, aveva annotato che alcune città sono delle vere e proprie isole, altre sono solo in parte circondate dalle acque; le città esistenti all'interno, al di là delle paludi, hanno delle meravigliose vie di navigazione fluviale e tra queste soprattutto il Po (Strabo v, I, 5 = Voltan 973).

14 Grande fiume che segnava il confine per chiunque giungesse nel paese dei Veneti provenendo da sud, il Padus, e soprattutto il suo delta ricco di approdi e di sbocchi strategici, è associato dagli antichi a varie leggende, in una mitistoria dalla quale ben traspare la sua fondamentale importanza nella rete dei traffici tra il mare, la pianura, i monti, tra oriente mediterraneo ed Europa centrale. Fiume navigabile per quasi duemila stadi risalendo dal mare, scrive Polibio, annotando che esso ha una portata d'acqua non inferiore a quella di nessun fiume d'Italia, perché i corsi d'acqua che scendono al piano dalle Alpi e dai monti Appennini confluiscono in esso, tutti e da ogni parte (Polyb. n, 16, 8 = Voltan 169).

Se l'aspetto attuale del delta, cuspide protesa verso il mare, è un paesaggio di formazione recente, frutto del taglio del Po di Viro praticato dai Veneziani nel 1600 per ovviare all'interramento della laguna, l'ambiente antico è sufficientemente ricostruibile non solo con l'ausilio della paleomorfologia (le dune marine, i paleoalvei), ma anche osservando l'allineamento e la distribuzione dei siti preromani e romani. I cordoni dunari, nel loro andamento parallelo, sono la testimonianza del progressivo avanzamento della linea di costa: il più antico finora individuato si snoda da Cavanella d'Adige ad Ariano e suggerisce la spiaggia che doveva essere attiva alla fine del n millennio a.e., anche se non è da escludere l'esistenza di una linea ancora più arretrata, tra Cavarzere ed Adria, come sembrano indicare le foto aeree e le indagini sedimentologiche. E se oggi il ramo più meridionale del Po, il Po di Goro, segna il confine tra le province di Rovigo e Ferrara, nell'antichità esso doveva invece giungere a nord di Ravenna, così come più esteso era anche il fronte settentrionale che si confondeva con le acque dell'Adige e del Brenta/Bacchiglione. Proprio su uno di questi rami settentrionali, già ricordato da Plinio e che recenti studi hanno confermato attivo fin dal II millennio a.e., tra divagazioni dell'Adige e del Tartaro, sorsero alcuni tra i più importanti insediamenti protovillanoviani, quali Frattesina e Villamarzana, mentre più tardi vi nacque lo scalo di Adria, la città che diede il nome al mare Adriatico. Non altrettanto dettagliate e diffuse sono le notizie sugli altri fiumi, il che è stato giustamente attribuito al fatto che le caratteristiche fisiche del paesaggio venivano sottolineate dagli antichi solo se in esse si ravvisava qualcosa di fantastico, di soprannaturale, se potevano essere collegate a miti, leggende, eventi straordinari, imprese belliche, eroi o uomini famosi. Così troviamo ad

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esempio che maggior risalto è dato al Tartarus, al Meduacus, al Silis, al Timavus, rispetto ali' Adige ed al Piave, che sono invece i più importanti fiumi del Veneto, assi primari di penetrazione e di comunicazione dalla costa e dalla pianura verso i territori alpini e transalpini. L'Adige, di cui gli antichi ricordano per lo più solo il nome, Atesis, il corso impetuoso e rumoroso, la sorgente nelle Alpi tridentine, la foce nell'Adriatico, l'essere il fiume di Verona, è in realtà, con i suoi oltre 400 km di lunghezza, il secondo fiume d'Italia dopo il Po. E la sua valle, sulla quale convergono numerose valli laterali, ha sempre costituito un corridoio naturale attraverso il quale l'uomo poteva penetrare nel cuore del sistema montuoso fino ai valichi che danno accesso agli opposti versanti alpini. Nella parte più alta la val Venosta porta al passo di Resia, mentre all'altezza di Bolzano si innesta la valle dell'Isarco che permette di raggiungere il passo del Brennero, certo uno dei più importanti valichi oggi come nel più lontano passato. Connessa alla valle dell'Adige è anche la Pusteria, percorsa dalla Rienza, attraverso la quale si giunge alla sella di Dobbiaco; dalla Pusteria, attraverso la val Boite e la val Comelico, ci si può raccordare con la valle del Piave, e quindi con il passo di Monte Croce Comelico, mentre, proseguendo verso oriente, si raggiungono la valle del Tagliamento ed il passo di Monte Croce Carnico. Da Bolzano l'Adige scende a Trento e di qui, lungo la val Lagarina, si porta verso la pianura, entrando nell'attuale regione Veneto dalla chiusa di Rivoli dove si aprono l'anfiteatro morenico del Garda, lingua terminale dell'antico ghiacciaio atesino, e la piana fluvio-glaciale di Caprino Veronese, zone tutte interessate da una frequentazione preromana. Trovandosi la strada sbarrata dalle morene che contornano il bacino glaciale del Garda, al momento di entrare in pianura il fiume muta direzione, passando da un percorso nord-sud ad uno nord-ovest sud-est, effettuando un'ampia curva (all'interno della quale sorse in epoca romana la città di Verona) e snodandosi quindi nella pianura con grandi meandri. Proprio in questo tratto pianeggiante, poco a sud di Verona il fiume anticamente si divideva in due rami: quello meridionale passava per Legnago e si portava al mare nei pressi di Cavanella d'Adige (la mansio Fossis della Tabula Peutingeriana); quello settentrionale si dirigeva invece verso Montagnana, attraversava la città di Este (il cui nome romano, Ateste, deriva proprio dalla presenza del fiume) e sfociava infine nell 'Adriatico, a Brundulum. Era certo questo nell'antichità il ramo più im-

16 portante, disattivatosi in seguito alle grandi alluvioni che alla fine del VI secolo d.C., in un periodo di deterioramento climatico ricordato in termini apocalittici da Paolo Diacono, portarono non solo l'Adige ma anche il Brenta a mutare percorso: generalmente ricordato è l'anno 589 d.C., corrispondente alla rovinosa« rotta della Cucca ». Paralleli ali' Adige si snodano in pianura il Tione e il Tartaro, fiumi di risorgiva che oggi, in parte uniti, percorrono la zona delle Valli Grandi Veronesi, territorio estremamente critico nel quadro del popolamento del Veneto: intensamente abitato nell'età del bronzo, impaludato ed abbandonato nell'età del ferro, drenato e in parte recuperato in epoca romana, nuovamente abbandonato ed impaludato in epoca medievale, ripreso e bonificato ad opera della Serenissima. Il Tartaro è un piccolo fiume, ma di estrema importanza nell'antichità in quanto costituiva il naturale collegamento tra Mincio, Adige, Po: lungo il suo corso, e particolarmente lungo la sinistra idrografica, sorsero alcuni tra i più notevoli insediamenti della tarda età del bronzo (Castello del Tartaro, Fabbrica dei Soci, Fondo Paviani); ad occidente, alla confluenza con il Tione, si individua un'area (attorno a Gazzo Veronese) che ha sempre svolto un importante ruolo di collegamento tra il Veneto e i territori limitrofi, lombardi e basso-padani; ad est ancor oggi, correndo nell'attuale Canal Bianco, giunge ad Adria. Tutto ciò ben giustifica il fatto che il Tartarus, più dell'Adige, venga ricordato da Plinio che lo abbina alla fossa Philistina, il canale tracciato da Filisto, geniale ingegnere navale di Dionigi il Vecchio durante l'effimero impero siracusano su Adria, per collegare la città alla laguna più settentrionale. Ed anche Tacito ricorda il Tartaro, per aver offerto a Cecina un'efficace postazione difensiva durante la lotta tra Vitelliani e Flaviani nel 69 d.C., al riparo delle paludi che si estendevano tra il suo corso e il Po. Come l'Adige e il suo sistema idrografico furono determinanti per il sorgere e lo svilupparsi di Este, così il Brenta, il Meduacus degli antichi, lo fu per Padova, attraversandola e mettendola in comunicazione con il mare. La si raggiunge dal mare rimontando per 250 stadi, a partire da un grande porto, un fiume che attraversa le paludi, questo porto si chiama Medoaco, come il fiume stesso

così scrive Strabone (Strabo v, 1, 7 = Voltan 973); e sempre il Meduacus viene ricordato quale teatro della gloriosa impresa che

17 vide i Patavini vittoriosi contro le navi e i soldati dello spartano Cleonimo, come leggiamo in Livio (Liv. x, 2, 4-15). Oggi solo il tratto più alto del Brenta, dalle sorgenti trentine di Levico e Caldonazzo fino a Bassano, coincide con il percorso più antico che, correndo profondamente incassato nella Valsugana, separava l'altopiano di Asiago ad ovest dal massiccio del Grappa ad est. Dall'uscita in pianura, nei pressi di Bassano, fino al mare, il corso attuale è invece notevolmente mutato in seguito a quei dissesti climatici ed alluvionali altomedievali di cui si è detto a proposito dell'Adige. Anche se non è ancora del tutto chiara la ricostruzione dei vari paleoalvei, sembra certo che il fiume raggiungesse il mare in due rami, i Meduaci duo di Plinio: il settentrionale, che correva lungo l'odierna riviera del Brenta, viene comunemente identificato come maior in quanto collegato alla mansio Maio Meduaco della Tabula Peutingeriana, denominazione certo da rapportare all'importanza assunta in epoca costantiniana e tetrarchica dalla via che metteva in diretta comunicazione Ravenna con Aquileia, documentata da vari miliari. Senza dubbio più importante in epoca preromana, e fino al II secolo d.C., doveva invece essere il ramo meridionale, il cosiddetto minor (dalla mansio Mino Meduaco), stando ai numerosi ritrovamenti attestati lungo il suo percorso, nel territorio a sud di Padova. Divagazioni meridionali del Brenta andavano inoltre ad incontrare il Retenus/Bacchiglione e i rami settentrionali dell'Adige e del Po: si veniva con ciò a formare una sorta di ampio delta che consentiva una diffusa rete di traffici tra laguna e terraferma. Stupisce il silenzio delle fonti per quanto riguarda il Piave, I'unico grande fiume che scorre interamente in territorio veneto: la sola menzione del Plavis si trova nel tardo v secolo d.C. in Venanzio Fortunato, senz'altro dovuta al fatto che lo scrittore era nativo di Duplabilis, l'odierna Valdobbiadene. Ma sulle cause dei « silenzi » degli antichi abbiamo già detto. Ben diversa è la situazione storica ed insediativa che, proprio lungo la valle del Piave, ha lasciato una documentazione di primaria importanza, preromana e romana, come avremo modo di constatare. Dalle sue sorgenti si raggiungono agevolmente i passi di Monte Croce Comelico e di Monte Croce Carnico, quest'ultimo certo utilizzato anche in epoca preromana come attestano i graffiti sulle rocce di Wiirrnlach e la stipe di Gurina. Dal Cadore il fiume scende verso l'ampia vallata di Belluno e Feltre, e di qui prosegue verso la pianura con una larga curva in corrisp~ndenza della barriera rappresentata dalla dorsale del Montello. E questo il tratto in cui

18 convergono, e convergevano, i percorsi pedemontani orizzontali dell'ampia zona dal Brenta al Livenza, facendo del Piave la cerniera e l'asse di penetrazione tra pianura e montagna. Sulla sua sinistra si aprono il versante meridionale delle Prealpi Bellunesi, i dossi di Conegliano, la conca pianeggiante di Vittorio Veneto e del Cenedese; al di là si trova Oderzo, il cui nome, nella radice terglmercato, rimanda ad una esplicita funzione di area nodale di traffici. Sulla destra del Piave digradano invece dolcemente le propaggini dell'acrocoro del Grappa da cui si raggiunge la Valsugana percorsa dal Brenta: non a caso proprio attorno a Montebelluna sembrano aver fatto capo le realtà insediative dislocate lungo la pedemontana, in una fascia zonale che offriva tra l'altro ricchi pascoli per quell'allevamento di ovini da cui traevano fama e guadagno le manifatture laniere di Padova e di Altino. A quest'ultimo centro, sempre grazie al Piave, giungeva tra l'altro il legname fluitato dal Cadore, come attesta un'iscrizione romana di Feltre che ricorda una corporazione altinate di lavoratori del legno. Ad Altino, provenendo da Treviso, giungeva anticamente il Sile, ed è certo il suo rapporto con l'importante centro lagunare a giustificarne la menzione da parte di Plinio, così come il fatto che lo scrittore dica che il Silis « nasce dai monti », mentre si tratta di un fiume di pianura, di risorgiva, è sicuramente imputabile ad una confusione con il vicino Piave. Antico limite tra il territorio dei Veneti e quello dei Carni era il Liquentia/Livenza, fiume di risorgiva che nasce ai piedi delle montagne del Cansiglio e che ancor oggi assieme al Tagliamento segna il confine tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Il Tiliaventum, fiume essenzialmente friulano, solo nella bassa pianura è ricco di acque e navigabile sino alla foce che si apre tra le lagune di Caorle e di Marano; nella parte alta, montuosa, presenta un grandioso ventaglio di affluenti che conducono ai valichi alpini: ad occidente, attraverso il passo della Mauria, alla valle del Piave e quindi al valico di Monte Croce Comelico; al centro da Tolmezzo a Monte Croce Carnico; ad oriente, attraverso la valle del Fella, al valico di Tarvisio. In epoca antica il suo corso doveva presentare qualche differenza rispetto all'attuale, tanto è vero che Plinio parla di due rami, Tiliaventum maius minusque. Probabilmente uno di questi rami va identificato con l'attuale Lemene, il fiume su cui sorse la città di Concordia, centro che, grazie ai ritrovamenti di questi ultimi anni, sta rivelando un'origine preromana molto antica, tra la fine dell'età del bronzo

19 e l'inizio dell'età del ferro, contemporanea quindi ai maggiori centri veneti. Tra Livenza, Tagliamento ed Isonzo si apriva un'area ambigua di popolamento tra Veneti e Carni: qui, sulle sponde del Natisone, nel 181 a.e. i Romani fondarono la colonia di Aquileia proprio per fronteggiare quei Galli transalpini transgressi in Venetiam, ultimo atto di una progressiva occupazione iniziata già nel 1v secolo a.e., se non anche prima. Ma se già per il toponimo di Aquileia è stata supposta un'origine venetica, una frequentazione veneta della zona è oggi sicuramente confermata dai ritrovamenti archeologici. Ai Veneti è associato dalle fonti un altro fiume orientale, il Timavus, e non solo perché segnava il confine tra le loro terre e quelle degli lstri, ma perché teatro di miti e leggende. Secondo Virgilio esso fu varcato da Antenore prima di giungere a Padova (Aen. I, 244); secondo Strabone presso le sue foci« vi è pure un tempio di Diomede, il Timavo, degno di essere ricordato », quel Diomede a cui i Veneti usavano sacrificare un cavallo bianco (Strabo v, 1, 8 = Voltan 973). Che dagli antichi il fiume sia stato divinizzato e fatto oggetto di culto è senza dubbio da connettere alle sue caratteristiche idrogeologiche che molto dovevano colpire la fantasia: le sue acque infatti, poco dopo la sorgente, vengono inghiottite dalle montagne, correndo sotterranee per più di 40 km, per tornare alla luce tra Monfalcone e Miramare. Per la loro ampiezza e navigabilità quasi tutti i fiumi del Veneto offrivano sicure vie di percorribilità, tanto è vero che i maggiori insediamenti dalla preistoria alla romanità si attestano proprio sui loro corsi, comode vie naturali per trasportare i prodotti del mare e della pianura, oltre che per ricevere quelli alpini e transalpini: legname, minerali, sale, fino alla preziosa ambra baltica. E tutti si aprono a ventaglio nel golfo di Venezia, quell 'intimus maris Hadriatici sinus dove stabilirono la loro sede gli antichi Veneti. Agli stessi fiumi è legata anche l'origine della pianura padana, quella pianura che Polibio considerava la maggiore d'Europa per estensione e fertilità, tanto da riuscirgli quasi difficile parlarne: vi crescevano in abbondanza frumento, orzo, vino, panico, miglio, nonché i querceti le cui ghiande rendevano possibile un redditizio allevamento di maiali (Polyb. n, 14-15). Al suo posto, oltre un milione di anni fa, si apriva un'enorme conca colmata dalle acque del mare che vi penetrava con un grande

20 golfo fino alla base delle Alpi e degli Appennini, un golfo che sembra evocato anche nella descrizione di Strabone: la base delle Alpi è una linea curva, simile a quella di un golfo[ ... ] le estremità si svolgono l'una fino all'Ocra e al golfo terminale dell'Adriatico, l'altra verso la costa ligure fino a Genova [... ] subito sotto si estende, per 2100 stadi, una grande pianura [ ... ] il lato sud è delimitato dal litorale dei Veneti (Strabo v, 1, 3 = Voltan 973).

Per il lento e progressivo sollevarsi della terra, per l'alternarsi delle glaciazioni ed interglaciazioni, per l'azione erosiva dei fiumi, per i materiali strappati ai rilievi circostanti, gradualmente questa conca si colmò: alle acque tiepide e tranquille si sostituì la pianura nel corso di una lunga vicenda che può considerarsi conclusa solo attorno a settemila anni fa, facendone teatro di un remoto e diffuso popolamento. Testimoni di queste lontanissime vicende glaciali sono le colline disposte ad anfiteatro allo sbocco delle maggiori vallate alpine, resti smembrati di antichi conoidi che verso monte, a ridosso del margine pedemontano e morenico, si elevano sulla campagna a guisa di altipiani di modesta ondulazione, mentre verso valle aprono i loro margini frontali in scarpate digitiformi. Netta è la distinzione tra alta e bassa pianura: la prima è arida, fatta di terreni ciottolosi permeabili, corrispondenti alla zona di sedimentazione dei detriti alluvionali più grossolani deposti dal turbolento irrompere delle antiche fiumane provenienti dalle vallate e dalle fronti glaciali; la seconda è invece irrigua, fatta di sabbie, limi, argille deposti dal placato fluire delle acque, che qui scorrono in un alternato dividersi e congiungersi. Anche i fiumi assumono aspetti diversi nelle due zone: sostanzialmente stabili nei percorsi settentrionali, con alvei incassati nei sedimenti già deposti; prevalentemente instabili nei tratti meridionali dove, per il prevalere dei processi di deposito dovuti alla scarsa pendenza del terreno, diventano pensili, caratterizzando il paesaggio con i loro poderosi argini che si elevano al di sopra del livello di campagna. Limite tra i due ambienti è la zona delle risorgive, caratterizzata dal pullulare di una miriade di sorgenti spontanee disposte a fascia quasi continua, dovute all'impermeabilità del suolo che favorisce l'affioramento delle falde freatiche. Elemento inconfondibile della pianura veneta è l'emergere isolato, quasi al centro di essa, di due gruppi collinari, i Berici presso Vicenza, gli Euganei presso Padova. Naturale prosecuzione delle Prealpi, i Berici formano un sistema compatto lungo circa 13 km, di modesta altitudine (raramente superano i 400 m), con

21 pendii dolci: vi predomina la componente calcarea (ben nota ai Romani e ancor oggi cavata è la pietra tenera di Costozza) che porta ad un diffuso carsismo cui si deve la notevole scarsità di acque superficiali ma anche la frequenza delle grotte naturali tanto sfruttate durante la preistoria. Gli Euganei invece, in un'area di appena 22.000 ettari, offrono uno degli aspetti più curiosi e diversificati del territorio veneto: arcipelago emergente dalle alluvioni padane, frutto di un vulcanismo sottomarino che ebbe origine circa 34 milioni di anni fa, il complesso consta di un centinaio di elevazioni, dalle forme ed altezze assai mutevoli, che sorgono improvvise e solitarie nel mezzo della pianura culminando nei 600 metri del Monte Venda giusto al centro del sistema. Aspetto peculiare è la presenza di acque termominerali cui è legata la fama, oggi come nel più lontano passato, del comprensorio termale di Abano: si tratta di acque e nevi provenienti dalle Piccole Dolomiti, che, per un complesso circuito geotermale sotterraneo, acquistano progressivamente calore, arricchendosi anche di sali e di proprietà chimico-fisiche, per risalire rapidamente mantenendo calore e caratteristiche terapeutiche. Cerniera tra pianura e montagna è la fascia pedemontana che si snoda sui conoidi fluviali, sulle alture moreniche, in un lungo ed articolato sistema di colline, altipiani, massicci calcarei, che gradualmente trapassano nelle Prealpi Venete e Carniche: dall'anfiteatro morenico del Garda alla Valpolicella, dall'altopiano dei Lessini a quello di Asiago, dalle colline di Asolo all'acrocoro del Grappa, dal Montello al Cansiglio. Al di là delle colline e degli altipiani, al di sopra dei 900 metri, l'orizzonte si amplia raccordandosi con le dorsali sommitali delle Prealpi, aprendosi quindi verso il grandioso paesaggio alpino dominato dalle Dolomiti, dalle Alpi Carniche e Giulie. Pareti vertiginose, selve di guglie, creste affilate, ghiacciai, terrazzi, sbarramenti morenici testimoniano il travaglio ciclopico della crosta terrestre ed il lavorio demolitore degli agenti esterni. Sulle masse rocciose si è da tempi remotissimi esercitata l'erosione delle acque superficiali, fiumi, torrenti, ruscelli, che hanno scavato lunghe e profonde vallate intercalate da solchi vallivi minori: sono appunto le valli che permettono di penetrare all'interno del sistema montuoso fino ai numerosi valichi che portano ai versanti opposti. Proprio per questo le Alpi, sentite senza dubbio come confine naturale e sbarramento protettivo, più che un ostacolo hanno in realtà generalmente costituito una naturale cerniera tra mondo mediterraneo ed Europa centrale: e giustamente già Polibio tacciava di falsità

22 quanti prima di lui avevano parlato dell'impraticabilità della regione alpina, impraticabilità per altro ribadita da Livio tanto da fargli considerare una favola il mito di Ercole. Valico di comunicazione e di approvvigionamento furono certo le Alpi, ma anche porta d'ingresso alle invasioni, faccia e controfaccia della stessa medaglia: di qui penetrarono i Celti, di qui scese Annibale, di qui calarono i Germani e via via gli altri « Barbari » che segnarono con le loro alterne vicende tanta parte della nostra storia. Ben noti fin dalla più remota antichità dovevano essere alcuni valichi di facile percorribilità come quello di Resia (1507 m) e del Brennero (1375 m), naturalmente inseriti nelle direttrici delle vallate dell'Adige, dell 'Isarco e della Rienza, così come i passi di Monte Croce Comelico (1636 m) lungo la linea del Piave, di Monte Croce Carnico (1362 m), di Camporosso (816 m), del Predii (1156 m), di Tarvisio (732 m) più ad oriente. Se già nel Neolitico dovettero esistere contatti tra le zone a nord e a sud delle Alpi, è soltanto nell'età del bronzo che ebbe inizio un vivace traffico attraverso il territorio alpino, finalizzato alla ricerca del rame, i cui giacimenti più importanti si trovavano nella zona di Salisburgo. Ma anche quando questi giacimenti persero di importanza, soppiantati all'inizio dell'età del ferro dalle miniere tirreniche, la zona non ne soffrì, data la presenza di un'altra risorsa indispensabile agli uomini, il sale, al cui sfruttamento è legata la fioritura dei centri di Hallstatt e di Hallein. Lungo la valle dell'Adige, e quindi il passo del Brennero, si incanalarono i commerci tra le città-stato greche ed etrusche della Padania e le potenti famiglie celtiche del nord, coinvolgendo in questa corrente di traffico particolarmente i centri del Veneto occidentale, da Este al Veronese. Sulla valle del Piave gravitava invece prevalentemente il Veneto orientale, da Padova ad Altino: all'area hallstattiana si giungeva attraverso la sella di Monte Croce Comelico, mentre un altro più agevole percorso si collegava alla valle del Tagliamento e al passo di Monte Croce Carnico, certo preferibile per la sua più modesta altezza. Mare e lagune, distese pianeggianti, colli, massicci montuosi e valichi sono dunque gli aspetti costitutivi del paesaggio veneto, e tutti trovano un fattore unificante nell'elemento acqua, dal mare Adriatico al lago di Garda ai fiumi: proprio su questi assi acquatici si articolò il popolamento degli antichi Veneti in una sintesi che ad una fondamentale omogeneità affianca aspetti e

23 caratteri diversi che si spiegano e si comprendono proprio alla luce dell'articolarsi dei diversi paesaggi naturali.

2. Quali Veneti? I miti, le tradizioni storiche ed il problema delle origini Venetos troiana stirpe ortos auctor est Cato: così scrive Plinio (N.H. 111, 130) per caratterizzare gli abitanti della X regio, allineandosi alla più comune tradizione di una loro provenienza dal1'0riente. Ma questi non sono gli unici Veneti noti agli antichi. Il nome 'EvEwi, Oùtvuot, Veneti - ricorre infatti per indicare popolazioni diverse localizzabili in varie zone, dall'Asia Minore alla penisola balcanica, dall'Europa settentrionale e centrale al Lazio. Accanto alle più numerose fonti che accennano ai Veneti « troiani » d'Asia Minore, all'area balcanica rimanda la notizia di « Eneti illirici » riportata da Erodoto, notizia che è stata, tra l'altro, alla base di quell'equazione Veneti=Illirici a lungo sostenuta dagli studiosi ed ora decisamente superata su base linguistica; nell'Europa centrale sono da localizzare i Veneti, Venedi, Venedae, cui si riferisce Tacito distinguendoli dai Sarmati; analogo riferimento torna in Tolomeo che ricorda un 0ùEvE6tKòç K6À.1toç e una OùEvE61Kà ÒPTI rispettivamente identificabili, con buona probabilità, nell'attuale golfo di Danzica e nelle alture della Prussia orientale; a Veneti in Bretagna, confusi tra i Celti, si riferisce in primo luogo Cesare, ma ne fanno menzione anche Plinio, Strabone, Tolomeo, Dione Cassio; Venetus lacus è definito da Pomponio Mela il lago di Costanza, anche se sussiste il dubbio che non si tratti del riferimento ad un etnico quanto piuttosto all'aggettivo latino significante azzurro (di non poco peso è comunque la scelta di un aggettivo che indica precisamente il colore usato dai Veneti nelle gare equestri); Venetulani sono infine annoverati da Plinio tra gli antichi popoli laziali scomparsi. Non è questa la sede per addentrarci nel problema dell'ampia diffusione del termine Veneti, tanto più che si tratta di un problema al quale manca qualsiasi supporto di tipo storico-archeologico e che è stato affrontato su base essenzialmente linguistica. Sintetizzando ricordiamo solo che G. Devoto osservava che l'etnico *wenet- « non può identificarsi che con la base dei conquistatori, organizzatori, realizzatori » e che« dovunque si trova attestata la parola Veneti, ivi si sono affermati rappresentanti di

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una organizzazione di tradizione linguistica indeuropea, meritevole di essere definita e riconosciuta in confronto delle altre come quella sostanzialmente di vittoriosi ». Riprendendo ed approfondendo l'argomento A.L. Prosdocimi è giunto alla conclusione che « resta da definire cosa rappresenta l'etichetta Veneti: ovviamente non i Veneti del Veneto, per cui non c'è prova di irradiazione da che sono qui pervenuti; in epoca precedente Veneti (di cui un ramo è giunto nel Veneto) è sinonimo di Indeuropei [... ] i Veneti del Veneto rappresentano un filone di Indeuropei il cui etnico era appunto Veneti o era avviato a divenirlo ». Certo è il fatto che mentre gli altri Veneti ricordati dalle fonti non possono essere ancorati ad alcuna realtà storico-culturale, solo attorno ai Veneti dell'Adriatico si è creata una mitistoria cui corrisponde una precisa documentazione archeologica, anzi una delle più ricche e meglio definite dell'Italia preromana. E con ciò torniamo alla sintetica definizione di Plinio, Venetos troiana stirpe ortos auctor est Cato. Significativo è il fatto che Plinio si richiami a Catone piuttosto che alla più recente epopea di epoca augustea, sicuramente a lui ben nota: in ciò si potrebbe vedere una precisa volontà di dare maggiore sostanza « storica » al suo dire, non sull'onda della propaganda corrente, che viene appunto sottaciuta, ma ricorrendo ad una fonte più antica, Catone; e certo all'epoca di Catone, tra III e II secolo a.e., si deve far risalire l'acquisizione, da parte dei Romani, della leggenda di una discendenza troiana dei Veneti. È comunque solo in epoca augustea, con Virgilio e Livio, che il tema generico dell'origine troiana dei Veneti si salda indissolubilmente con la saga di Antenore, in un clima di chiara propaganda politica in cui le parallele vicende di Antenore e di Enea vengono a configurarsi come il terreno più favorevole per legare strettamente Veneti e Romani nelle loro più lontane origini e legittimare quindi, su base mitistorica, quell'alleanza, quell'amicitia che ben serviva a giustificare il sempre più imperioso affacciarsi di Roma ai territori dell'Italia nordorientale. Tralasciando per il momento le più complesse implicazioni della tematica antenorea, è indubbio che origine troiana dei Veneti e loro discendenza da Antenore costituiscono i temi più sfruttati dalle fonti, variamente motivati e decodificabili se ben letti calandoli nei loro diversi tempi di formazione: ciò perché miti e leggende non nascono dal nulla, ma sono per gli antichi il più elementare ed immediato modo di fare storia.

25 L'origine troiana, o più genericamente« orientale», dei Veneti trova il suo punto di partenza in Omero, laddove il poeta ricorda, tra gli alleati dei Troiani, un gruppo di Paflagoni: « Pilemene dal forte cuore guida i Paflagoni che vengono dagli Eneti, il paese delle mule selvagge» (Il. II, 851-852). Quale che sia la corretta interpretazione del termine omerico tç 'Evi::-r&v, se cioè ascrivibile ad un etnico o piuttosto ad un toponimo (una città corrispondente ad Amiso?), è certo che da qui prende le mosse tutta la tradizione classica, greca e latina, che attesta una provenienza dei Veneti dall'Asia Minore e precisamente dalla Paflagonia, regione che si estende lungo le sponde meridionali del Mar Nero. In tal senso si snodano nel tempo le notizie, da Euripide a Teopompo, da Meandrio di Mileto a Polemone di Ilio, da Catone a Cornelio Nepote, per codificarsi appunto in età augustea in Livio e Virgilio: fonti palesemente discordanti sono, in momenti diversi, Erodoto (v secolo a.C.), Polibio (II secolo a.C.) e Strabone (1 secolo a.e. - 1 d.C.). Erodoto non sembra voler entrare nei più precisi termini della questione, limitandosi a parlare di« Eneti illirici » (1, 196, 1), ma la sua testimonianza non può non sottendere una più o meno esplicita confutazione di quanto pressoché contemporaneamente sosteneva Sofocle in una tragedia che cantava la discendenza degli Eneti da Antenore troiano: la tragedia, gli Antenoridi, non ci è pervenuta, ma di essa restano espliciti riferimenti in Strabone: So(ocle nel dramma sulla presa di Ilio afferma che, davanti alla porta di Antenore, fu stesa una pelle di leopardo a segnalare che la casa non doveva essere saccheggiata: costui poi, assieme ai figli e con gli Eneti superstiti, si salvò in Tracia e di lì riparò nella Enetica dell'Adriatico (Strabo xm, 1, 3 = Voltan 26).

Stupisce che sia proprio Strabone, cui si deve l'esplicito riferimento a Sofocle e quindi all'antichità della tradizione, a porre dei dubbi, dubbi che sono stati interpretati come un tentativo di impostare il problema in termini « scientifici ». Riallacciandosi ad Omero Strabone si chiede di quali Eneti parli il poeta ed osserva che « in nessuna parte della Paflagonia infatti, a quanto si dice, si vedono Eneti »; ricorda poi che « altri credono che si tratti di una tribù confinante con i Cappadoci, che emigrò insieme con i Cimmeri e si trasferì lungo l'Adriatico », e riconosce che l'opinione più diffusa però è che gli Eneti fossero quella importante tribù della Paflagonia dalla quale nacque anche Pilemene; in gran numero essi lo accom-

26 pagnarono nella spedizione di Troia; avendo qui perduto il loro condottiero, dopo la distruzione della città, si trasferirono in Tracia e, dopo aver errato a lungo, giunsero in quel paese che si chiama Enetico [ ... ] è naturale quindi che nella Paflagonia non restino e non si vedano più degli Eneti (Strabo xn, 3, 8 = Voltan 997).

Ma, dopo aver correttamente riportato la tradizione, da altri passi si evince che Strabone propende piuttosto per un'origine dei Veneti dal nord, dalla Gallia transalpina e dagli omonimi Celti abitanti lungo l'Oceano: credo che questi Veneti [della Gallia nordoccidentale] siano i fondatori degli insediamenti veneti dell'Adriatico [ ... ] ma lo dico senza insistere, per questi argomenti bisogna accontentarsi della verisimiglianza (Strabo 1v, 4, 1 = Voltan 965).

In ciò Strabone sembra concordare con Polibio che, esprimendo tutto il suo scetticismo sulle notizie dei tragediografi, nell'excursus sulla Gallia Cisalpina accomuna Veneti e Celti: un altro popolo, già da tempo, si era insediato lungo il litorale adriatico; sono chiamati Veneti e, per costumi e abbigliamento, sono poco diversi dai Celti, ma usano un'altra lingua; su di loro i tragediografi hanno detto molto e intessuto varie favole (Polyb. 11, 17, 5-6 = Voltan 169).

Certo è che in ambiente romano Erodoto, Polibio e, sotto questo aspetto, Strabone restano voci senza seguito in quanto contrastano con le voci della propaganda politica che, come scritto da L. Braccesi, si serve del mito in quanto « il suo messaggio [... ] recepito a livello quasi inconscio, e sollecitato poi a livello cosciente da non disinteressate correnti di opinione, offre ali 'uomo della strada [ ... ] incentivi psicologici ben precisi, e tanto più convincenti in quanto apparentemente dettati dalla propria esperienza culturale ». Come nel v secolo a.e. l'etichetta troiana applicata da Sofocle ai Veneti dà sostanza ali' espansionismo commerciale di Atene nell'alto Adriatico sulla base di una« sorta di ancestrale identità culturale », analogamente il recupero di questa tradizione nel mondo romano serve a legittimare gli interventi di Roma nell'Italia nordorientale. Da Catone ad Accio (i cui Antenoridi certo si ispirano a Sofocle) fino a giungere all'epopea di Virgilio e di Livio, è infatti negli scrittori latini che si afferma l'indissolubile nesso dei Veneti con Antenore, permettendo ad Augusto, in quanto discendente di Enea, di presentarsi come fratello dei Veneti discendenti di Antenore. E veniamo a questa notissima tradizione.

27 Tito Livio, veneto e patavino, apre la sua storia di Roma nel nome dei Veneti: dopo varie peripezie, Antenore, con un gran numero di Eneti che, scacciati per una ribellione dalla Paflagonia e perso il loro re Pilemene presso Troia, cercavano una sede ed un capo, arrivò nella parte più interna del mare Adriatico. Dopo aver cacciato gli Euganei, che abitavano tra il mare e le Alpi, Eneti e Troiani occuparono quel territorio. Il luogo dove avvenne in origine lo sbarco si chiama Troia e da lì prende il nome il pagus troiano. L'insieme del popolo ricevette il nome di Veneti (Liv. 1, 1, 1-3 = Voltan 733).

Più tormentato è il ritorno di Enea chiamato ad un'impresa ben maggiore, la fondazione della Troia laziale dalla quale discenderanno Roma e quel popolo romano destinato ad essere princeps terrarum (Liv. 1, 1, 4-5). Proprio della più avversa sorte riservata ad Enea rispetto ad Antenore si lamenta Venere con il padre Giove, nei versi di Virgilio: eppure Antenore è potuto, sfuggendo dal mezzo delle schiere achee, entrare sicuro nelle insenature illiriche e fin nel cuore del regno dei Liburni, ha potuto varcare la sorgente del Timavo [... ] qui egli ha edificato pure la città di Padova, come dimora per i Teucri, ha dato un nome alla sua gente e appeso infine le armi troiane e qui ora riposa, composto in placida quiete. Noi invece [... ] siamo abbandonati a noi stessi e rigettati lontano dalle rive d'Italia (Virg., Aen. ,, 242-252 = Voltan 512).

Livio e Virgilio, voci ufficiali del regime augusteo, ci presentano dunque due aspetti diversi dello stesso tema, quasi faccia e controfaccia: Livio infatti parla di Veneti, ma non accenna alla fondazione di Padova, pur essendo patavino; Virgilio parla della fondazione di Padova, ma si dimentica dei Veneti. Sull'argomento, sui problemi delle testimonianze e dei silenzi, non è qui il caso di dilungarci nel dettaglio: basti solo dire, in sintesi, che Livio, patavino ma scrittore ufficiale dell'Urbe, non poteva certo anteporre la fondazione di Padova a quella di Roma, e quindi evita di nominarla, soffermandosi piuttosto sull'intero popolo dei Veneti e sul loro territorio; Virgilio invece, mantovano e perciò più legato ad un concetto di etruscità italica che tra l'altro solo marginalmente coinvolge l'Italia nordorientale, lascia nell'ombra la regione intera dei Veneti e il loro stesso nome, soffermandosi unicamente su Padova, la città veneta più famosa in epoca augustea, quella città che, secondo Strabone, era l'unica assieme a Gades/Cadice a veder iscritti nei censimenti ben cinquecento cavalieri (Strabo 111, 5, 3; v, 1, 7). Ma il nesso con il più grande tema antenoreo sussiste comunque, dal momento che

28 proprio in Virgilio appare adombrata l'idea che a Padova ci sia la tomba di Antenore (« qui ora riposa, composto in placida quiete»), argomento che troverà piena esaltazione in periodo umanistico con l' inventio della tomba da parte di Lovato Lovati. Ignoto ad Omero nel suo esito veneto, nato, dimenticato, rinato in momenti e situazioni diverse, da Sofocle a Virgilio a Livio, il mito di Antenore può e deve essere letto come « memoria storica», come messaggio sintomatico e trasparente, secondo un paradigma applicabile per altro a varie compagini italiche, dal1'Etruria al Lazio, dalla Sicilia alla Puglia, in quell'ottica di rivalutazione dei nostoi, i viaggi di ritorno degli eroi omerici dopo la caduta di Troia, che ha avuto in questi ultimi anni un notevole supporto da parte della documentazione archeologica: basti pensare alle recenti riletture dei materiali di Lavinio, Ardea, Albalonga, Roma, con le conseguenti rivalutazioni di Enea, Evandro, Latino, Romolo ecc. Se la critica positivistica ha a suo tempo cancellato con un sommario colpo di spugna pagine e secoli di tradizioni relative all'origine dei popoli italici, giudicandole favolose invenzioni legate allo schema mitopoietico di un prodigioso e puntuale arrivo esterno (un eroe peregrino proveniente per lo più d'oltremare, che sposava la figlia del capo indigeno dando con ciò origine ad un nuovo popolo) e se la stessa critica ha finito con il sostituire miti a miti (fantasmatici ed onnivalenti « contenitori » come gli Indoeuropei, gli Incineratori, gli Illirici o altro), assistiamo oggi ad un notevole recupero delle antiche tradizioni e della mitologia. Sempre più riconosciamo e constatiamo infatti che esse vanno lette ed interpretate come un primo modo di fare storia, come un primo modo di narrare la genesi delle più antiche popolazioni, i loro rapporti, le reciproche interferenze. E proprio dal confronto tra archeologia e mitologia si va sempre più dipanando e definendo il quadro dell'etnografia dell'Italia antica, le cuifacies regionali si svilupparono da quell'unità culturale protovillanoviana sostanziata per molti aspetti da una comune matrice egea, da una rete di contatti e scambi che si traduce in una circolazione di uomini e di materiali, di ideologie e di tecnologie. Anche il mito di Antenore, recentemente rivalutato nelle sue varie componenti, nel suo farsi e rifarsi, nelle voci e nei silenzi, acquista un pregnante valore di verisimiglianza/verità se riletto alla luce della documentazione archeologica, sottolineandone le tappe: le voci di vm e VII secolo (da Omero ad Alcmane), il successivo silenzio fino al v secolo quando riemerge con Sofocle,

29 l'ulteriore silenzio, il recupero tra III e II secolo a.e. (Catone ed Accio), il nuovo silenzio fino all'epopea augustea. Ma vediamo come interpretare queste tappe. Nella notte dell'incendio di Troia, sulla porta della casa di Antenore è appesa una pelle di leopardo, segno che l'eroe avrà salva la vita e, come Enea, partirà esule alla ricerca di una nuova patria. Che nel suo e in altri nostoi sia genericamente adombrata una circolazione di genti egee nel Mediterraneo occidentale è ben comprovato anche per la zona alto-adriatica dove, tra i vari modi con cui si può prospettare che un nucleo di verità sia celato nella leggenda, ci soccorrono le fonti archeologiche allo scorcio del II millennio a.e., a ridosso cioè della data convenzionale della caduta di Troia. Emblematico è il caso di Frattesina di Fratta Polesine dove, come vedremo, è stato messo in luce uno dei più importanti insediamenti dell'età del bronzo finale in Italia, attivo dall'x1 secolo a.e. Che qui approdassero anche mercanti egei per approvvigionarsi di metalli, tirrenici od europei, nonché della preziosa e ricercata ambra baltica, è attestato da vari manufatti collegabili all'ambiente culturale tardo-miceneo: perle d'ambra di un tipo ben noto a Tirinto, frammenti di ceramica micenea, fibule di fogge diffuse in Grecia e nell'Egeo. Materiali analoghi a Frattesina rinvenuti a Montagnana, a Fondo Paviani, a Fabbrica dei Soci, sempre più stanno confermando ed arricchendo il quadro in questi ultimi anni: sono certo esili tracce, specie se confrontate con le ben più cospicue testimonianze micenee dell'Italia peninsulare ed insulare, ma sono spie più che sufficienti per configurare il Veneto padano come area periferica, e non certo emarginata, rispetto al sistema commerciale attivato dai Micenei. Nella stessa ottica va d'altra parte letto tutto quel repertorio di leggende che proprio nel delta del Po vede il teatro di racconti legati all'ambra: il Po identificato con il mitico Eridano; Fetonte che qui tragicamente conclude il suo volo; le sue sorelle - le Eliadi - tramutate in pioppi, le loro lagrime trasformate in ambra che il fiume raccoglie e trasporta; le fantastiche Elettridi, isole che hanno il nome stesso dell'ambra. Adombrati nel mito sono sicuramente i traffici dal Baltico all'Adriatico legati alla preziosa e ricercata resina fossile, miti confortati dalla microstoria dei ritrovamenti archeologici. Rapportato a questo aspetto tardo-miceneo che vede coinvolto, seppur marginalmente, anche il Veneto, acquista dunque significanza la prima « voce » relativa ad una veneticità troiana: Ome-

30 ro. Se poi teniamo presente il fatto che i poemi omerici non solo ritraggono il mondo miceneo ma, per il loro carattere di composizioni oralmente tramandate, consistono in una somma di elementi ascrivibili ad un più ampio periodo e riflettono molto delle strutture sociali aristocratiche di vm-v11 secolo, epoca della loro codificazione scritta, questa prima « voce » acquista ulteriore pregnanza. Ben documentati sono infatti anche nel Veneto, proprio tra VIII e v11 secolo, alcuni aspetti di ideologia e ritualità funeraria di tipo « eroico-omerico » diffusi in ambito egeo-mediterraneo-tirrenico. Ulteriore motivo di riflessione ed approfondimento offre una testimonianza più o meno contemporanea ad Omero, o chi per esso: ad Alcmane, quindi alla metà del vn secolo, risale infatti la menzione di « un cavallo vigoroso [ ... ] corsiero enetico » e di « puledri enetidi [ ... ] dalla Enetide, regione dell'Adriatico » (Alcman. frg. 1, 46-51; 172 = Voltan 4-5), prima« voce» di quel topos relativo ai cavalli veneti che avrà ampio seguito negli scrittori greci e latini e che, ancora una volta, si ricollega alla tradizione omerica dato che proprio Omero definiva la terra di origine degli Eneti il paese delle mule selvagge. Il frequente ricorrere di questo tema è certo il riflesso di una specifica prerogativa dei Veneti ben apprezzata dai loro contemporanei, l'allevamento dei cavalli, che da semplice attività economica primaria diventa fonte competitiva di ricchezza nel quadro degli scambi, contribuendo ad inserire il Veneto nella complessa rete di traffici e di approvvigionamenti tra Europa ed Italia, che insisteva sulle vie dei metalli, dell'ambra, dei cavalli, del sale, del vino, del corallo. Alla tradizione di VIII secolo, la prima nella quale emerge il «personaggio-Antenore» seppur non ancora noto nel suo approdo veneto, fa seguito un lungo periodo di silenzio, silenzio nei confronti del mondo egeo puntualmente riscontrabile anche in altri ambienti e coincidente con le fasi di maturazione delle varie facies culturali dell'Italia preromana. Solo nel v secolo a.e., con Sofocle, sembra nascere il tema dell'arrivo di Antenore nell'alto Adriatico. Anche se la critica non concorda sulla matrice sofoclea, è certo che la leggenda trova solide radici nell'Atene del v secolo conferendo sostanza e legittimità agli interessi commerciali che proprio in questo periodo portano gli Ateniesi a frequentare l'Adriatico settentrionale: Adria e Spina sono i luoghi comuni di riferimento. I traffici ateniesi sono principalmente rivolti a ricomporre il dialogo con gli

31 Etruschi che in Padania, da Felsina al Mantovano ali' Adriatico, vanno riproducendo il vacillante impero tirrenico; in questo dialogo i Veneti sono il naturale e condizionante elemento di interrelazione poiché sotto il loro controllo sono gli assi fluviali e terrestri di traffico, dal mare all'Adige attraverso il comprensorio polesano. Fondamentale era dunque per gli Ateniesi, come per gli Etruschi, assicurarsi un pacifico transito nei territori controllati dai Veneti; indispensabile quindi per i Greci creare e propagandare messaggi di fraternità, e quanto più nobili ed antiche origini si potevano trovare tanto più saldo ne sarebbe risultato il legame. Ancora una volta l'archeologia fornisce testimonianze concrete della nuova temperie, dei nuovi equilibri politico-commerciali: ceramica attica, più abbondante di quanto non si pensasse fino ad alcuni anni fa, sta sempre più copiosamente venendo alla luce in un ambito territoriale che per molti aspetti può essere considerato la riproduzione del quadro insediativo dell'età del bronzo finale. Le testimonianze estremamente più sporadiche ed esigue nel Veneto orientale, da Padova ad Altino, sono una controprova del fatto che non si tratta di un fenomeno generalizzato, ma di una circolazione mirata su precise rotte mercantili di penetrazione. Analoghe trame mitologiche Atene contemporaneamente intesse con altre popolazioni anelleniche d'Italia, gli Elimi della Sicilia, i Choni della Sibaritide, tutti etichettati con la stessa matrice troiana: costruzione e divulgazione di miti in chiara funzione di un espansionismo economico contrabbandato con lontane ascendenze eroiche. E per il Veneto quale figura poteva essere più significativa del vecchio Antenore, troiano e mediatore di pace con i Greci? Ulteriore sintomo dei nuovi rapporti tra Veneti e Greci può essere visto nel fatto che, in questo stesso periodo, rifiorisce anche il topos dei cavalli, ora cantati da Pindaro e da Euripide: a quest'ultimo si deve anzi la puntuale notizia che « Leonte di Sparta fu il primo ad ottenere una vittoria su cavalli eneti nella 85 8 Olimpiade» (Eur., Hipp. 231 = Voltan 32), cioè attorno al 440 a.e.; e ancora nel 1v secolo a.e. Dionigi il Vecchio tiranno di Siracusa, a detta di Strabone, aveva fatto venire di qui il suo allevamento di cavalli da corsa, tanto che i Greci conobbero la fama degli allevatori veneti e questa razza divenne per lungo tempo celebre presso di loro (Strabo v, I, 4 = Voltan 973).

32 È questa una conferma del fatto che nel v e 1v secolo i cavalli veneti, per la loro indiscussa fama, dovevano essere esportati come razza da campioni, e quindi merce pregiata, costituendo una valida contropartita nella « bilancia dei pagamenti » e nella complessa rete di scambi. Segue una nuova fase di silenzio delle fonti, interrotta solo da sporadiche e ripetitive attestazioni di non particolare peso: è d'altra parte questo un periodo di generale recessione, caratterizzato da profonde trasformazioni, da nuove conflittualità, da una notevole instabilità politica in tutta la penisola. La penetrazione organizzata degli italici-orientali, le invasioni galliche, la graduale crescita politico-militare di Roma, il fiorire del mercenariato, la rottura dei precedenti equilibri sono eventi che non possono restare senza ripercussioni anche nel Venetorum angulus, seppur non direttamente coinvolto, tanto è vero che proprio in questo periodo si delinea la politica filoromana dei Veneti. Nel quadro della nuova dialettica, che si attua con chiarezza nel II secolo a.C. ma che ha certo origini più remote, puntualmente rinasce la saga antenorea, arricchendosi di nuovi elementi. Non è facile decifrare i tempi e i modi della venetizzazione e della romanizzazione della leggenda, stabilire cioè se siano prima i Veneti a sfruttare Antenore come motivo di coesione con i Romani o viceversa, o se piuttosto non si debba pensare a più complessi e reciproci fenomeni di interferenza; certo è che ancora una volta il fantasma-Antenore ed il Veneto fungono da cassa di risonanza di un ben più ampio quadro politico in cui giocano nuove componenti quali i Galli e i Romani. Sicure testimonianze sul fronte romano sono Catone, con il cui riferimento abbiamo aperto il discorso, e soprattutto Accio la cui tragedia, gli Antenoridi, è stata più volte associata alla guerra istrica del 129 a.C. ed alle imprese di Gaio Sempronio Tuditano, il console vincitore degli lstri che, in una epigrafe aquileiese forse da lui stesso dettata, si presenta come trionfatore dei Libumi e devoto a Timavo, cioè con le stesse connotazioni che saranno recuperate da Virgilio per Antenore, cantato mentre entra sicuro nel regno dei Libumi e varca le sorgenti del Timavo. Ma se la guerra istrica sembra costituire l'occasione storica della prima romanizzazione della leggenda antenorea, altre fonti fanno intravedere una sua precedente venetizzazione. In tal senso, come eco di cantari locali, sarebbe da leggere la notizia riportata da Polibio di un aiuto fornito dai Veneti ai Romani nel drammatico evento dell'invasione di Brenno:

33 [i Celti. .. ] presero la stessa Roma, tranne il Campidoglio. Avvenuta però una diversione ed avendo i Veneti invaso il loro territorio, conclusero un trattato con i Romani, restituirono loro la città e ritornarono in patria (Polyb. u, 18, 23 = Voltan 169).

La notizia è stata interpretata come una nobilitante proiezione nel passato dell'intesa veneto-romana del 225 a.e., intesa riportata dallo stesso Polibio laddove annota che Veneti e Cenomani, cui i Romani avevano inviato un'ambasceria, preferirono allearsi con questi ultimi; perciò i re dei Celti furono costretti a lasciare una parte delle loro forze a difendere il paese dalla minaccia costituita da costoro (Polyb. 11, 23, 2-3 = Voltan 170).

A questi primi rapporti tra Veneti e Romani, idealizzati forse dai Veneti prima ancora che dai Romani, sarebbero da ricondurre un'altra vicenda ed un altro personaggio, quel giovane valoroso Pediano che durante la seconda guerra punica si distingue nella battaglia di Nola riscattando la morte del console Lucio Emilio Paolo caduto a Canne, e che per questo viene salutato da Marcello come novello Antenore: il giovane Pediano, nelle armi di Polidamante, fiero combatteva, e l'origine troiana e la discendenza sua dalla stirpe di Antenore vantava [ ... ] Marcello fra il travolgente tumulto gli venne incontro ed esclamò, riconoscendo il trofeo: o erede del valore degli avi, o discendente di Antenore[ ... ]

La storia è riportata da Silio Italico (Sii. It. 12, 212-260), patavino e discendente dei Pediani, il che porta certo ad interpretarla come eco di una tradizione di origine veneta. Tra II secolo a.e. e I d.C. si registra un nuovo significativo vuoto di notizie, coincidente con la progressiva pacifica romanizzazione del Veneto, fino a quando Virgilio e Livio codificano nell'epopea il tema dell'arrivo di Antenore in quella che ormai, di fatto, è la Venetia, in una tota Italia quasi unificata nei simboli dei due eroi troiani Antenore ed Enea. In quest'ultima fase di rielaborazione e manipolazione mitistorica della leggenda, si aggiunge un elemento nuovo che ancora una volta permette di decodificare la trama, ribadendo il ruolo mediatore via via assunto, nel suo trasformarsi, dal personaggioAntenore. Da quello che finora era stato il rimando ad un generico Veneto troiano emerge infatti ora Padova, adombrata nella Troia di Livio, conclamata in Virgilio, una Padova cui si addicono, tra l'altro, tutte quelle connotazioni tipiche dei paesaggi troiani ben evidenziate da D. Musti: la collocazione mesopotamica, lo stretto rapporto della città con il mare, la vicinanza di

34 alture collinari e paludi, la« presenza di barbari, in un ambiente almeno vicino a quello frequentato dai Greci: barbari sentiti come abbastanza vicini ai Greci, per essere considerati discendenti dei loro nobili rivali nell'epos, ma abbastanza diversi per essere considerati appunto Troiani ». In chiave antipatavina, e con complesse implicazioni politicopropagandistiche, va letta quella voce isolata che nella prima metà del m secolo a.e. applica ad Antenore un'etichetta infamante, facendone un simbolo di tradimento, connotazione poco attestata nell'antichità e che avrà invece una certa fortuna in epoca medievale. La fonte risale a Licofrone (Alex. 340-343) secondo il quale Antenore, « irsuto serpente », nella notte fatale di Troia avrebbe segnalato agli Achei nascosti nel ventre del cavallo che era giunta l'ora dell'incendio, contrabbandando con ciò la sua salvezza. Tale aspetto negativo e proditorio di Antenore è stato messo in rapporto con la vicenda di Cleonimo, vedendovi un preciso intento di gettare discredito sul capostipite di quei Veneti responsabili della sconfitta della flotta spartana nel 302 a. C., ma giustamente ne è stata anche sottolineata la più ampia valenza in un quadro di romanità/antiromanità, ripercorrendo le tappe di una tradizione, documentata seppur raramente tra epoca ellenistica ed età augustea, che variamente accomuna o dissocia Antenore ed Enea nella responsabilità del tradimento, della proditio Troiae. Stornare da Enea l'onta del tradimento, denigrare Antenore come unico responsabile della presa di Troia, sarebbe sintomo dell'atteggiamento filoromano di Licofrone che non a caso, anticipando Virgilio, definisce Enea « piissimo »; sentimenti antiromani rivelerebbero invece quelle fonti che legano strettamente le responsabilità dei due eroi, entrambi macchiatisi di tradimento. Un esplicito atteggiamento filoromano è unanimemente riconosciuto alla base dell'opera di Dionigi di Alicarnasso che non solo si oppone alla notizia del tradimento di Enea, registrando invece quello di Antenore, ma che addirittura non collega Antenore ai Veneti, unica fonte in tal senso e quindi sospetta. In una recente rivisitazione del problema è stato dimostrato come il silenzio di Dionigi non sia certo imputabile ad ignoranza, ma vada piuttosto interpretato nel senso generale della sua opera tesa a dimostrare che Roma è la sola ed unica città greca in Italia; e se i Veneti non compaiono nel suo elenco dei popoli dell'Italia è proprio perché essi, in quanto Troiani, sarebbero paragonabili ai Romani. Non solo, ma al silenzio sui Veneti Dionigi aggiunge

35 l'infamante accusa di tradimento applicata ad Antenore, e respinta invece per Enea, in modo ~le da gettare i~d_iretta~ente di~ scredito sulla vulgata, certo a lm nota, dell'ongme troiana dei Veneti, comunque indegni di rivendicare tale origine in quanto discendenti da un traditore. Al binomio Padova/Roma all'ombra di Antenore riporta un'altra vicenda, seppur notevolmente più tarda: la morte di Publio Trasea Peto, patavino, senatore di Roma, una delle più illustri vittime della repressione neroniana, colpevole di aver disertato i ludi iuvenalia istituiti da Nerone per partecipare ai ludi cetasti organizzati dai Patavini in onore del loro mitico antenato-fondatore; antagonismo non più etnico o politico, ma attrito tra centro e periferia, tra tirannide e libertà, secondo l'interpretazione di L. Braccesi. Mito, archeologia, commerci, relazioni« internazionali », storia si illuminano dunque di reciproca luce nel nome di Antenore; non solo, ma nel farsi, disfarsi, rifarsi, trasformarsi della leggenda è sempre trasparente il ruolo di regione-cerniera giocato dal Veneto, cassa di risonanza di ben più vasti rapporti: tra Mediterraneo egeo e centro Europa, tra Ateniesi ed Etruschi, tra Romani e Cisalpini, tra Roma e Padova.

3. Dall'intuizione alla conoscenza: la storia delle scope ne e degli studi Si sono scoperte, sto per dire in ogni punto del suburbio di Este, tombe preromane di periodi diversi dell'età del ferro che sono un vero tesoro per l'archeologia. Credo di non esagerare se affermo che per le cose qui trovate anni sono, e per quelle tratte ora alla luce, in breve le necropoli di Este avranno importanza pari a quelle del sepolcreto di Golasecca e di vari cimiteri preromani del Bolognese. E Padova potrà essere orgogliosa di avere in uno dei centri principali della provincia un museo da fare ad essa onore, perché unicamente composto con reliquie scavate nel luogo, classificate col maggior rigore della scienza e che costituiranno, a parer mio, l'anello di congiunzione fra le celebri necropoli italiane del tipo di Villanova e quelle estere e non meno famose di Hallstatt e Maria Rast nell'Austria.

Così, con acuta e lungimirante previsione, in una lettera indirizzata il 29 luglio 1877 al Giornale di Padova, scriveva Luigi Pigorini. Era passato poco più di un anno da quando, nel maggio del 1876, ad Este, durante lavori agricoli in un fondo di proprietà Boldù Dolfin, erano venute alla luce alcune tombe, due delle quali contenenti ricchissimi materiali tra cui due splendidi vasi di

36 bronzo decorati con animali fantastici. Alessandro Prosdocimi, da pochi mesi conservatore del locale Museo Civico, ne aveva dato pronta comunicazione nelle Notizie degli Scavi di Antichità, il prestigioso periodico appena avviato dalla Regia Accademia dei Lincei, suscitando l'immediato interesse di studiosi quali Giovanni Gozzadini, Antonio Zannoni, Gaetano Chierici e appunto Luigi Pigorini, che proprio in quegli anni stavano mettendo a fuoco la problematica delle culture preromane dell'Italia settentrionale. Ma la data di nascita della protostoria veneta in termini scientifici è senza dubbio da considerarsi il 1882, anno in cui lo stesso Prosdocimi, sempre nelle Notizie degli Scavi, pubblicava un ampio articolo nel quale, con acutissimo intuito e rara capacità di sintesi, tracciava il quadro della nuova civiltà dopo soli sei anni di scavi febbrili e di clamorose scoperte. È a partire da questo lavoro, ancora di fondamentale validità nelle sue linee generali, che la realtà veneta preromana esce dal mondo dell'intuizione, dell'erudizione leggendaria, per affermarsi a pieno diritto nella più vasta problematica dell'età del ferro italiana ed europea che negli stessi anni viveva la sua più splendida stagione di conoscenza. Fino a quel momento non era certo mancata la nozione di un Veneto preromano, con le sue genti, le sue città, la sua storia. Già dal primo Umanesimo infatti è agevole cogliere nelle notizie degli storici e degli eruditi locali una piena familiarità con i concetti di Euganei e di Veneti, sentiti quale realtà preromana della regione, e ciò in base a quanto dedotto e deducibile da una attenta lettura e da una approfondita familiarità con le fonti letterarie. Ben nota era ad esempio la tradizione sull'origine dei Veneti legata alla saga di Antenore, tanto è vero che proprio nel dotto ambiente padovano, fortemente permeato di classicità anche sulla scorta della mai morta tradizione liviana e virgiliana, alla fine del Duecento si era potuta affermare la « favola » dell 'inventio del corpo di Antenore, in seguito alla scoperta, nel 1274, di una tomba contenente i resti imbalsamati di un uomo dalla corporatura imponente, nel quale Lovato Lovati aveva « riconosciuto » il fondatore di Padova. Ben noto era anche il fatto che i Veneti giunti con Antenore avevano trovato nella regione una popolazione preesistente, gli Euganei, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi ed era collegata ai compagni di Ercole. Ma tutto questo non andava, e non poteva andare, al di là della mera erudizione, così come era nella logica dei tempi che tali no-

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zioni si confondessero in un generico concetto di « grecità », dal momento che solo nella mitologia greca, se non nella tradizione biblica, poteva trovare un concreto punto di riferimento l'idea di una remota antichità. Greci erano quindi considerati gli Euganei, primi abitatori del Veneto, greca l'etimologia proposta per il loro nome, « di nobile stirpe, ricchi di ogni bene », etimologia forse anche influenzata dalla conoscenza del passo di Strabone che definiva la pianura padana eudaimon ped(on, felice, fertile. Altrettanto significativo è il fatto che, tra Quattrocento e Seicento, ogni nozione di « antichità », ogni intento celebrativo di un glorioso passato fossero incentrati su Padova: è certo infatti che il mito antenoreo, felicemente rinverdito da Lovato Lovati, veniva a rappresentare un'arma ideologica di primaria importanza nella schermaglia culturale in atto tra Padova e Venezia, schermaglia nella quale Padova poteva a buon diritto presentarsi come più nobile della Serenissima grazie alla sua più antica origine troiana che la poneva alla pari con Roma. Non manca qualche voce critica, da Sperone Speroni che per primo dubita del1'autenticità delle « ossa» di Antenore, a Lorenzo Pignoria che argutamente osserva di non sapere « che segno avessero per essere considerate tali », ma ogni dubbio si limita a questo. Ed è altrettanto evidente che anche laddove veniva posto coscientemente il problema di cosa restasse visibile di questo più remoto passato, ovvia e quasi scontata era la risposta: nulla, poiché nulla era rimasto in piedi dopo le devastazioni dei Barbari, di Attila, e da ultimo del tiranno Ezzelino, tema ricorrente negli scrittori di storia locale. Se qualche monumento ancora conservava la sua potenza evocatrice, solo e sempre si trattava delle vestigia del Veneto romano, ponti, archi, porte, arene, ancora visibili a Padova come a Verona. Le più antiche testimonianze non potevano certo essere riconosciute, non solo perché più difficilmente tangibili, ma soprattutto perché solo quanto rapportabile alla Grecia e a Roma costituiva un concreto modello di riferimento culturale, come attestano le numerose e preziose collezioni venete dal Cinquecento al Settecento. In alcune di queste collezioni, tra le più consuete antichità greche e romane erano presenti anche oggetti « antichissimi » di provenienza locale: alcuni vasi in quella del padovano Marco Mantova Benavides; vasi, fibule, bronzetti, nelle prestigiose raccolte veneziane Nani e Cor~er; così come materiali veneti preromani sono disegnati in vari inventari veneziani del Settecento e iscrizioni venete compaiono nel repertorio del Lanzi e nel Museum Veronense di Scipione

38 Maffei. Ma si tratta ovviamente di materiali non ancora riconosciuti nel loro intrinseco significato, seppur gelosamente conservati come« memoria storica» di una realtà locale. Un certo interesse suscitavano solo le iscrizioni, in quanto ritenute etrusche. Non bisogna infatti dimenticare che dagli inizi del Settecento al fascino suscitato dalle antichità greche e romane si era aggiunto come fatto nuovo, non solo nell'astratto mondo della cultura ma anche nel concreto ambito del collezionismo, l'interesse per un'altra realtà che si andava allora riscoprendo, il mondo degli Etruschi. E proprio un veneto, il veronese Scipione Maffei, era diventato uno degli esponenti di maggiore spicco nel quadro dell '« etruscheria », direttamente coinvolto nel problema dato che mai si era sopita la nozione di un'origine etrusca di Verona da quando gli Umanisti locali avevano rispolverato il nesso tra la notizia riportata da Plinio - Raetorum et Euganeorum Verona e quei Reti che dallo stesso Plinio venivano identificati con gli Etruschi. Ben si comprende in tale clima il gran daffare che Scipione Maffei si era dato per avere nel suo Museo un « sasso » e una « lapide » rinvenuti a Padova, le cui scritte « in caratteri informi » erano ritenute etrusche. E ben si comprende anche la segnalazione di Luigi Lanzi a proposito degli scavi che Tommaso Obizzi andava svolgendo nelle campagne attorno ad Este, scavi ricordati solo perché avevano fruttato numerose iscrizioni. Curiosa anche questa figura del marchese Obizzi che conduce scavi « regolari », con tanto di permesso da parte delle autorità, e per di più a sue spese, e spese ingenti come si legge nelle cronache dell'epoca, ma che non si pone minimamente il problema di cosa significassero i materiali che con tanta cura teneva esposti in un'apposita sezione della sua villa-museo, il Cataio (poi passati a Vienna per una serie di traversie ereditarie). Ma i tempi non erano maturi e non lo saranno ancora per circa un secolo. E torniamo con ciò al 1876. Dopo i ritrovamenti casuali nel fondo Boldù Dolfin, Alessandro Prosdocimi, incoraggiato ed anche scientificamente sostenuto dai maggiori archeologi dell 'epoca, intraprende una serie di scavi sistematici tutto attorno ad Este, portando alla luce centinaia di tombe: sono anni di febbrili ricerche e di scoperte entusiasmanti, tra cui ad esempio nel 1880 il ritrovamento della tomba contenente la famosissima situla Benvenuti, o l'individuazione tra il 1880 e il 1890 di un grande deposito di materiali votivi, sicura attestazione dell'esistenza di un luogo di culto. L'interesse suscitato dalle scoperte fu enorme

39 in Italia e ali' estero, tanto più se teniamo presente che negli stessi anni, per l'intensificarsi delle ricerche archeologiche sistematiche e controllate, si andavano notevolmente arricchendo e consolidando le conoscenze dell'intera Italia preromana. Ed è certo grazie anche ad un proficuo scambio di idee e di informazioni con i maggiori studiosi italiani e stranieri che già nel 1882, come dicevamo, A. Prosdocimi, con l'acume tipico degli studiosi dell'epoca, è in grado di tracciare una lucida sintesi della nuova civiltà: la definisce « atestina », dall'antico nome di Este, Ateste, e la attribuisce agli Euganei sulla scia della precedente tradizione erudita. Ma nello stesso 1882 W. Helbig esprime il parere che le iscrizioni rinvenute non siano da riferire agli Euganei bensì ai Veneti, popolo meglio attestato dalle fonti letterarie, parere confermato nel 1885 da C. Pauli che nel suo scientifico ordinamento di tutti i testi epigrafici dell'Italia settentrionale, e nello studio delle rispettive lingue, dimostra l'inconsistenza della nozione di Euganei negli scrittori classici. Ben presto ad Alessandro Prosdocimi si affianca negli studi Gherardo Ghirardini, soprintendente alle Antichità del Veneto, docente di Archeologia a Pisa, Bologna, Padova: proprio la sua prolusione per l'inaugurazione dell'anno accademico 1900-1901 all'Università di Padova sancisce la definitiva sostituzione dei Veneti agli Euganei quali artefici di questo aspetto culturale che, con chiarezza e lungimiranza, viene inserito nella più vasta problematica del mondo italico. Fondamentale e ben nota è la sua illuminante sintesi su quella che già si andava delineando come la più vistosa manifestazione artistica dei Veneti, l'arte delle situle, ampiamente analizzata in tre articoli pubblicati nei Monumenti Antichi dei Lincei nel 1893, 1897, 1900. E già a partire dai primi anni del Novecento, grazie a nuove scoperte, la civiltà « atestina ,. non appare più limitata ad Este, ma diffusa in un territorio sorprendentemente vasto, esteso ad ovest fino al Garda e al Mincio, a sud fino al Po, a nord fino alle Alpi, ad est fino al Livenza ed al Tagliamento, ed anche oltre fino a Santa Lucia di Tolmino, con aspetti del tutto particolari tanto da giustificare l'adozione di un nuovo termine: civiltà« paleoveneta ►►, meno restrittivo di « atestina », seppure l'atestino rimaneva uno degli aspetti meglio indagati e documentati. Ancor oggi « Paleoveneti » e « paleoveneta ,. sono i termini generalmente in uso per indicare il popolo e la cultura preromana del Veneto, anche se ormai - come già detto nell'introduzione sembra più corretto abbandonarli: se è vero infatti che il termine

40 «veneto», tout court, può creare un certo imbarazzo e dare adito ad equivoci tra Veneti preromani, romani, attuali, è altrettanto vero che in situazioni analoghe non esistono etichette analoghe, tipo « Paleoumbri, Paleoliguri, Paleosardi » ecc., ma sempre e solo si usa il nome del popolo laddove esso risulti attestato con sicurezza dalle fonti. Quanto alle numerose scoperte che hanno permesso di delineare la complessa fisionomia del Veneto preromano, ricorderemo qui ovviamente solo le principali. Fin dai primi anni del Novecento ritrovamenti casuali e scavi sistematici facevano conoscere la realtà preromana di Padova, ma solo in questi ultimi decenni se ne è compresa la contemporaneità rispetto alle più antiche manifestazioni di Este, seppur con notevoli caratteri di autonomia. La scoperta delle necropoli di Montebelluna (1959-1969), tra Brenta e Piave, ha permesso di individuare in questo centro il terzo polo geografico dei Veneti. Contemporaneamente si scavavano le tombe di Mel (1958-1964), che attestano un cuneo di penetrazione veneta lungo la valle del Piave già a partire dall'vm secolo a.e., fornendo l'aggancio topografico e cronologico tra Montebelluna e l'area cadorina dove già alla fine del secolo scorso G. Ghirardini e G. Pellegrini avevano segnalato la presenza di materiali documentanti una profonda penetrazione veneta nell'alto Piave durante la seconda età del ferro e dove, tra il 1951 e il 1954, era avvenuta la scoperta del centro di culto di Lagole di Calalzo. La zona veniva tra l'altro a configurarsi come area di documentazione linguistica quasi equivalente al Veneto euganeo, con estensione anche al di là delle Alpi, da Wiirmlach sotto il passo di Monte Croce Carnico a Gurina nella valle del Gail, dove analoghe iscrizioni erano già state segnalate alla fine del secolo scorso. Negli ultimi decenni infine si è andato notevolmente dilatando anche l'orizzonte orientale, da Altino, la cui origine preromana è chiaramente emersa dal 1967, a Oderzo e Concordia che, grazie soprattutto a recenti scavi, stanno evidenziando macroscopiche realtà insediative cronologicamente coeve al sorgere dei maggiori centri di pianura, per non parlare dei sempre più evidenti influssi veneti in tutto il Friuli-Venezia Giulia, dal Tagliamento all'Isonzo. E continue scoperte in tutto il territorio, da sud a nord, da ovest ad est, vanno sempre più infittendo la trama del popolamento. Gli ultimi trent'anni hanno segnato una vera e propria« fase di rilancio » non solo sul piano delle scoperte, e quindi della definizione territoriale, ma anche nell'incremento degli studi, con un

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notevole ampliarsi delle prospettive, dalle manifestazioni artistiche alla lingua, alla cronologia, agli aspetti socio-economici, culturali, funerari, religiosi. Nel 1961 la Mostra dell'arte delle situle, tenutasi a Padova e poi a Vienna e a Lubiana, rilancia la problematica del linguaggio figurativo dei Veneti, venendo ad approfondire quanto già intuito da G. Ghirardini circa l'inserimento della realtà culturale del Veneto preromano nel più ampio quadro della protostoria italica ed europea. Negli stessi anni diventano decisamente « veneti » anche gli studi linguistici (fino ad allora prevalente appannaggio degli studiosi tedeschi) con i due volumi del 1967, La lingua venetica, ad opera di G.B. Pellegrini e A.L. Prosdocimi: se già tra 1920 e 1950 si era andato progressivamente chiarendo il concetto che la lingua non apparteneva al gruppo illirico (come suggerito nel 1882 da W. Helbig), viene ora con più chiarezza stabilito che si tratta di una parlata autonoma di tipo indoeuropeo, con forti somiglianze con il latino. Nel 1975 esce, nella collana« Popoli e civiltà dell'Italia antica », la prima moderna sintesi sulla protostoria delle Venezie, ad opera di G. Fogolari, che stimola un altro importante evento, l 'x1 Convegno di Studi etruschi e italici tenutosi ad Este e a Padova nel 1976 in occasione del centenario delle prime scoperte. Grazie al contributo dei maggiori studiosi italiani e stranieri vengono in quest'occasione riprese ed aggiornate tutte le problematiche fondamentali: dalle origini della civiltà veneta alla pluralità delle facies locali (con la nuova evidenza assunta da Padova grazie alla mostra « Padova Preromana » abbinata al Convegno); alla produzione figurata di cui si mettono in luce gli stretti rapporti con il mondo etrusco (filone che ha trovato sempre più pregnanti conferme in questi ultimi anni come ha dimostrato la mostra « Gli Etruschi a nord del Po » tenutasi a Mantova nel 1986); ai problemi epigrafico-linguistici notevolmente arricchiti dall'apporto di nuovi testi; alle definizioni cronologiche. Uno dei temi più dibattuti nell'ambito degli studi sulle problematiche generali è certo quello riguardante la cronologia: il travagliato iter della ricerca e della definizione cronologica relativa e assoluta è dettagliatamente esposto da R. Peroni nella fondamentale sintesi Studi sulla cronologia delle civiltà di Este e Golasecca uscita nel 1975, e ci limitiamo qui a ripercorrerne le tappe fondamentali. Ad A. Prosdocimi, nel 1882, risale la prima suddivisione in quattro periodi scanditi di due secoli in due secoli dal x al 11

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a. C., con una successione basata sulla stratigrafia e sulla tipologia delle strutture tombali e dei materiali. Sia la periodizzazione che la cronologia di Prosdocimi vengono sostanzialmente mantenute negli studi successivi, con lievi modifiche apportate da G. Ghirardini e da O. Montelius: a quest'ultimo, nel 1895, va il merito di aver sincronizzato la sequenza atestina e quella felsinea. Dopo un lungo proç:esso involutivo (segnato dai nomi di D. Randall Maclver, N. Aberg, F. Messerschmidt, G. von Kaschnitz Weinberg), l'argomento è ripreso oltre sessant'anni più tardi nella globale sintesi cronologica sull'Italia antica proposta nel 1959 da H. Miiller Karpe: in questo lavoro viene definitivamente fissato l'inizio dell'età del ferro italiana attorno al 900 a.C., abbassando quindi di un secolo anche tutta la cronologia atestina, e vengono ridefinite le fasi più antiche di Este ponendole in stretto collegamento, non solo cronologico ma anche terminologico, con quelle di Bologna. A G. Fogolari ed O.H. Frey, nel 1965, si deve invece lo studio delle fasi centrali della protostoria veneta, per le quali si cercano di individuare nuovi capisaldi cronologici sulla base dei materiali di importazione sicuramente databili, studio ulteriormente approfondito e precisato da O.H. Frey nel 1969, con attenzione particolarmente rivolta allo svolgimento dell'arte delle situle. I lavori di Fogolari-Frey segnano tra l'altro il ritorno alla terminologia di periodizzazione interna (cioè alla denominazione dei periodi, non certo alla cronologia assoluta) usata da A. Prosdocimi, non coincidente con quella instaurata da H. Miiller Karpe. Quest'ultima viene invece ripresa nel 1975 nel già citato lavoro sulla cronologia delle civiltà di Este e Golasecca, coordinato da R. Peroni: non si tratta certo di un puro e semplice gioco di parole, ma di due impostazioni metodologiche nettamente diverse. Come ben sintetizzato da O.H. Frey, « il sistema di Peroni, che segue il Miiller Karpe, è stato concepito in considerazione dello svolgimento culturale dell'Italia centrale e mette particolarmente in rilievo il cambiamento che si nota tra la prima età del ferro dell'ottavo secolo e la fase orientalizzante del secolo successivo. Il sistema del Prosdocimi al contrario, accolto dalla Fogolari e da me [Frey], mette più l'accento sullo svolgimento culturale di Este stessa, si adatta bene perciò ad un confronto con lo sviluppo culturale nell'area alpina, nell'ambito della cultura hallstattiana, e mette in evidenza il cambiamento che si ha tra il periodo di Hallstatt più antico e quello più recente ». Sostanzialmente coincidente è invece la cronologia assoluta: e

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Tabella di concordanza delle cronologie di Este, Bologna, Hallstatt (da Este I, p. 453)

44 siamo ormai giunti ad un punto tale di conoscenza che è possibile - ed anzi auspicabile - parlare pressoché esclusivamente in termini di cronologia assoluta, evitando tra l'altro gli equivoci insiti nell'uso di terminologie diverse di periodizzazione relativa (per cui ad esempio il II periodo di Fogolari-Frey corrisponde in parte al II e in parte al III di Peroni e coli., con la necessità di un continuo controllo del sistema di riferimento). Superata, anche se non certo conclusa, la fase di ordinamento tipologico e cronologico dei materiali, a partire dagli anni '70 gli studi di protostoria in Italia si sono incentrati su ricerche di altro genere, con indagini prevalentemente orientate verso la lettura e l'interpretazione dei dati ai fini di una ricostruzione storica, socio-economica, etno-antropologico-culturale, delle varie facies, anche per l'impulso della scuola americana foriera di nuove metodologie. Non è certo questa la sede per addentrarci in una valutazione critica della « nuova archeologia », ma va certo riconosciuto che essa ha avuto il merito di imporsi come momento di rottura nei riguardi di un processo di studio che rischiava di fossilizzarsi su problematiche tipo-cronologiche, senz'altro indispensabili ma che stavano diventando sterili. Tra i nuovi indirizzi di ricerca, un ruolo di primo piano ha subito assunto la cosiddetta « archeologia della morte », non solo perché le tombe rappresentano una delle più ricche fonti archeologiche, ma soprattutto sulla scia di alcuni fondamentali e stimolanti studi di L.R. Binford che hanno richiamato l'attenzione sullo stretto rapporto esistente tra articolazione del sistema funerario e complessità dell'organizzazione sociale. Per quanto riguarda il Veneto tali tematiche hanno trovato una prima organica formulazione nel 1981 nel volume Necropoli e usi funerari nel/'età del ferro, curato da R. Peroni, nel quale ampio spazio è riservato alle necropoli di Este, con una serie di problematiche sostanzialmente coincidenti con quanto contemporaneamente, e in parte con metodologie diverse, andavano focalizzando gli studiosi veneti. Ma questo tipo di indagini ha subito evidenziato un po' dovunque una fondamentale lacuna: la mancanza di edizioni integrali e sistematiche non solo dei materiali, ma anche di tutti i dati raccolti dagli studiosi e dai primi scavatori e conservati negli archivi. Particolarmente difficile si presentava infatti la rilettura delle numerose necropoli venute quasi contemporaneamente alla luce tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro: i primi rapporti di scavo e le prime sintesi, seppur acutissime nel delineare un

45 quadro tuttora valido delle genti e delle culture dell'Italia preromana, sono infatti carenti soprattutto sul piano della documentazione grafica, oltre che ovviamente sommarie nei particolari. Insufficienti risultavano anche le più moderne ed accurate edizioni di singoli corredi tombali, trattandosi per lo più di tombe particolarmente ricche ed emergenti, e quindi con un limitato - se non anche fuorviante - valore di campione. Di qui la necessità di programmare una serie di studi sistematici zona per zona, secondo metodologie il più possibile omogenee, rivolte non solo alla presentazione e sistemazione crono-tipologica dei materiali, ma particolarmente accurate nella registrazione di tutti i dati relativi alla composizione del corredo, alle modalità di deposizione dei singoli oggetti, alla distinzione tra corredi femminili e maschili, alle costanti e, ancor più, alle eccezioni. Questo capillare lavoro di revisione ha portato nel 1985 ad un primo volume relativo ad un settore delle necropoli di Este (Este 1), mentre un secondo è in avanzato stato di elaborazione. Con analoghi criteri di completezza si sono programmate le edizioni di altre necropoli del Veneto. Contemporaneamente venivano avviati il riordino e l'edizione sistematica dei materiali provenienti dai luoghi di culto, per affrontare anche in ambito veneto le nuove tematiche di « archeologia del culto » inaugurate da C. Renfrew. È già uscito il volume su San Pietro Montagnon, si stanno completando quelli su Este/Baratella, Lagole, Villa di Villa: con ciò si potrà avere il quadro dei maggiori santuari, tra l'altro afferenti a comprensori territoriali-culturali diversi e quindi campione estremamente valido per una corretta valutazione del fenomeno religioso/cultuale che, assieme al costume funerario, costituisce la fonte più significativa per la ricostruzione delle facies culturali protostoriche. Altri settori di ricerca che in questi ultimi anni hanno visto impegnati gli studiosi veneti sono l' « archeologia spaziale » ( analisi delle dinamiche territoriali, delle aree di sfruttamento, rapporto tra siti centrali e marginali, « paesaggi di potere » ecc.), l' « archeologia di superficie », i processi« post-deposizionali », tematiche che, seppur spesso criticate per l'uso di un linguaggio talvolta criptico e di eccessiva matrice anglosassone, nella sostanza rappresentano un rinnovamento ed un arricchimento della problematica proprio per l'apporto di nuove metodologie. Tra i problemi che necessitano ancora di approfondimento, oltre che di ampie e programmate ricerche di scavo e revisione dei materiali già acquisiti, sono senza dubbio le fasi iniziali e finali,

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tematiche ampiamente « sofferte » non solo nel Veneto ma anche negli altri ambienti culturali italiani: ad una oggettiva carenza di documentazione e di elaborazione metodologica, si aggiunge il fatto che queste fasi risultano un po' « terra di nessuno », palleggiate tra specialisti di discipline diverse, preistorici/protostorici, protostorici/romanisti, ancora troppo poco abituati al confronto ed al lavoro di équipe. Nello specifico i problemi riguardano la fase di formazione della civiltà veneta, cioè il periodo tra la fine dell'età del bronzo e l'inizio dell'età del ferro (x1-1x secolo a.C.), la determinazione se si tratti di frattura o di continuità con gli aspetti precedenti (come sempre più sembra emergere), nonché la fase di romanizzazione (11-1 secolo a.C.), cioè i modi e i tempi in cui il Veneto venne gradualmente ad inserirsi nella civiltà romana, i reciproci rapporti di integrazione, trasformazione, acculturazione. Analoghe problematiche di « inizio-fine » investono, con sintomatico parallelismo, anche gli studi linguistici nei quali particolare interesse rivestono due filoni di ricerca, uno rivolto ai tempi e ai modi di adozione/insegnamento della scrittura da parte dei Veneti, l'altro incentrato sul passaggio dall'uso del venetico a quello del latino: tematiche che dallo specifico campo linguistico trapassano nel più ampio settore di indagine delle strutture sociali e dei rapporti storico-culturali.

Il. I processi di formazione 1. Gli antefatti UN chiaro processo di formazione del gruppo etnico-culturale che identifichiamo con i Veneti preromani è apprezzabile solo tra la fine dell'età del bronzo e l'inizio dell'età del ferro, ma è certo nel quadro delle profonde trasformazioni territoriali e culturali avvenute nel corso del II millennio a.e. che l'Italia nordorientale va progressivamente configurandosi nei suoi aspetti caratteristici: è infatti attorno al 1600 a.e. che il tratto di pianura tra Adda e Oglio diventa un preciso confine culturale destinato a rimanere praticamente immutato fino ai giorni nostri. Nell'antica età del bronzo (tra la fine del III millennio e il xvu secolo a.e.) tutta l'Italia settentrionale appare invece uniformemente interessata dalla cultura di Polada, che ha la sua massima attestazione negli abitati palafitticoli benacensi (tra cui la stazione eponima) ma che risulta estesa, con notevole unità di caratteri, dalla Lombardia all'Emilia Romagna, dal Trentino al Veneto. Significative testimonianze per quanto riguarda il Veneto provengono dalla valle dell'Adige e dalle Giudicarie (dove Ledro costituisce in assoluto una delle più splendide stazioni), dalla zona berica (Fimon), da quella euganea (Arquà). È stato più volte sottolineato non solo che tale facies è indizio di una nuova stabilizzazione delle forme di insediamento, ma che gli abitati palafitticoli, per la complessità dei problemi tecnici legati alla loro realizzazione (centinaia e centinaia di pali da mettere in opera superando non pochi problemi di statica verticale ed orizzontale), sono indubbio riflesso di comunità che, oltre ad aver acquisito un notevole bagaglio di conoscenze tecnologiche, erano anche arrivate a darsi un'organizzazione interna in gruppi specializzati tra loro coordinati nell'ambito di una struttura gerarchica ben precisa. Alla stabilizzazione degli insediamenti si accompagna un notevole livello raggiunto dall'agricoltura, grazie alla diffusione dell'aratro, e dall'allevamento, con la comparsa del cavallo come animale domestico da traino. Di notevole peso è anche il fatto che proprio nell'antica età del bronzo sono documentate le prime forme di accumulazione di ricchezza sotto specie di metallo, evidenti nei numerosi ripostigli che attestano tra l'altro il sorgere di sempre più organizzati sistemi di scambio non solo a livello di approvvigionamento di materia prima, ma

48 anche a livello di circolazione di tecnologie e di tipi specializzati, certo ad opera di maestranze altamente qualificate. Ed è appunto il ruolo attivo assunto dalla metallurgia che alla fine dell'antica età del bronzo, contemporaneamente al disgregarsi dell'unità culturale di Polada, porta alla creazione di aspetti a carattere locale, tra i quali il fenomeno più vistoso è dato dalla crescente integrazione tra area padana ed ambiente centro-europeo. Con la media età del bronzo (xv1-x1v secolo a.C.) numerosi insediamenti palafitticoli (tra cui quelli della regione berico-euganea) cessano di esistere, mentre ne sorgono parecchi di nuovi: aspetto innovativo è il fatto che il territorio benacense, ed in particolare la parte meridionale del lago di Garda, viene a configurarsi come una delle più importanti aree metallurgiche italiane ed europee. Qui nasce il centro di Peschiera, uno dei siti più ricchi d'Europa, dove è riconoscibile pressoché tutta la tipologia metallica a noi nota, con tipi caratteristici che hanno portato alla definizione di un« orizzonte Peschiera » (dalle fibule ad arco di violino tra le più antiche, ai pugnali a lama allungata con lingua di presa a margini rialzati, agli spilloni, agli oggetti ornamentali): è questo il momento in cui tutti gli « strumenti » sono fatti in metallo, segnando il decadere della produzione litica. Peschiera raggiunge il suo apogeo nel xm secolo a.e., cioè nel Bronzo recente, diventando un centro di produzione metallurgica e di smistamento tra i più importanti dell'epoca, fulcro di una vasta rete di scambi tra Europa centrale ed Egeo. Le presenze micenee, che nel corso del xiv secolo si infittiscono notevolmente risalendo dall'Italia meridionale alla centrale, documentano che proprio durante il periodo di Peschiera doveva esistere uno stretto collegamento tra mondo miceneo ed Italia continentale, certo stimolato da precise necessità economiche quali l'approvvigionamento di metallo ed ambra, che veniva a coinvolgere gran parte della pianura padana gravitante sui bacini fluviali adriatici. Inizia appunto nel Bronzo medio, per consolidarsi successivamente, tutta una serie di abitati nel Basso Veronese, identificati lungo i paleoalvei del sistema Adige-Mincio-Tartaro, caratterizzati da strutture ad aggere e fossato perimetrali: tra questi Castello del Tartaro presso Cerea, Fondo Paviani presso Torretta di Legnago, Fabbrica dei Soci presso Villabartolomea, sui quali avremo modo di tornare. Alla fine del Bronzo medio, e soprattutto nel Bronzo recente (xm-prima metà del x11 secolo a.C.), vie di transito commerciale vengono a coinvolgere anche il Veneto centrorientale, come ri-

49 suita da numerosi oggetti di bronzo (soprattutto spade, ma anche pugnali, punte di lancia, falcetti, fibule, spilloni) rinvenuti negli alvei dei grandi fiumi, dal Bacchiglione al Sile, al Livenza, allo Stella. Più che di veri e propri centri di scambio, data l'assenza di significativi insediamenti, doveva trattarsi di una zona di passaggio, senza escludere la possibilità di aree polarizzanti di culti volti a propiziarsi l'acqua intesa come vitale arteria di traffico. Uno degli aspetti più rilevanti del Bronzo recente è il formarsi di una vasta koinè metallurgica caratterizzata dalla presenza di tipi simili « dalle coste siriane al Mare del Nord, dalla Sicilia alla Scandinavia, dalle regioni centrali della Francia alla Transilvania», come scritto da R. Peroni. È questo il periodo che vede anche il costituirsi di un 'unità culturale estesa dall'Italia centromeridionale all'area transpadana orientale: nella bassa Lombardia orientale e nel Veneto si afferma unafacies di tipo subappenninico affine a quella romagnola, tanto da non escludere la possibilità di concreti apporti etnici, mentre il processo sembra lasciar fuori la Lombardia occidentale, il Piemonte e la Liguria, un'area cioè che già nel Bronzo medio appare chiaramente differenziata dal resto dell'Italia settentrionale. Alla base di tale bipolarità sarebbe il rapporto con il mondo miceneo che nell'Italia peninsulare e nella penisola balcanica trova i tramiti principali, così come ad un progressivo rapporto di osmosi culturale tra nord e centrosud è stata imputata la precoce comparsa della pratica funeraria crematoria, che in vari siti del Veronese (da Povegliano a Bovolone a Franzine Nuove di Villabartolomea) tra la fase tarda del Bronzo medio e il Bronzo recente si affianca a quella inumatoria e gradualmente la soppianta. Per quanto riguarda il popolamento, il xm secolo segna il momento di massima occupazione territoriale del Veneto, con una graduale espansione verso le colline: analogamente al resto della pianura padana e ali' area medio-adriatica, i numerosi insediamenti sono caratterizzati da un'organizzazione di tipo tribale, con economia basata su allevamento del bestiame, pastorizia, agricoltura. Fenomeno vistoso sono invece il fiorire di villaggi arginati ed il formarsi di un vero e proprio « paesaggio di potere » nel Basso Veronese e nella zona delle attuali Valli Grandi Veronesi, da Fondo Paviani a Castello del Tartaro a Fabbrica dei Soci, siti già nati nel Bronzo medio e che ora vengono dotati di poderose strutture perimetrali: si tratta di insediamenti di notevole estensione, sorti sui dossi sabbiosi del sistema fluviale del Tartaro,

50 che dovevano esercitare un notevole ruolo di controllo sul territorio circostante e sulle vie di transito, come risulta da tutto un sistema di infrastrutture, ad esempio la creazione di aree esterne funzionali agli insediamenti primari, ben evidenziate da recenti campagne di ricognizione di superficie. Tra i materiali, accanto al più consueto repertorio di vasellame domestico con evidenti influssi subappenninici, oggetti da filatura/tessitura, utensili e manufatti in osso e corno, di particolare rilevanza è la documentazione di attività metallurgica, attestata dalla presenza di frammenti di pani di bronzo, scorie di fusione, matrici, oggetti semilavorati e finiti: i tipi rimandano alla produzione caratteristica del polo gardesano e di Peschiera. Una precisa progettualità sembra stare alla base della scelta delle aree da destinare a necropoli, quasi tutte collocate a nordovest dei rispettivi abitati e a questi collegate da un corso d'acqua: all'insediamento di Fabbrica dei Soci va probabilmente riferita la necropoli di Franzine caratterizzata dal biritualismo, così come tombe ad inumazione e ad incinerazione sono state recentemente rinvenute nei pressi di Castello del Tartaro e tombe, per ora solo ad incinerazione, nei pressi di Fondo Paviani. Il maggior numero di dati, rituali e tipologici, proviene dalla necropoli di Franzine, certo una delle più importanti dell'età del bronzo italiana, che ha restituito circa seicento sepolture rinvenute in due strati sovrapposti. Nello strato inferiore, assegnabile ad un momento iniziale del Bronzo recente, prevalgono le inumazioni, mentre nello strato superiore, databile ad un momento finale del Bronzo recente, i due riti risultano quasi bilanciati, seppure con una leggera prevalenza dell'inumazione. Caratteristica saliente è il fatto che solo le inumazioni più antiche presentano qualche oggetto di ornamento/abbigliamento (spilloni, orecchini, perle), il che ha fatto supporre che esista una correlazione tra il graduale generalizzarsi del rito incineratorio e l'abbandono dell'uso di deporre, anche nelle tombe ad inumazione, qualche oggetto di corredo. Sembra inoltre che sia possibile cogliere l'esistenza di gruppi di tombe contraddistinti da un diverso orientamento o dalla diversa età dei defunti, anche se solo l'analisi completa potrà permettere di collegare tali differenze ad una precisa struttura sociale. Molto simile a Franzine, per ritualità e tipologia, è la necropoli di La Vallona, nei pressi di Ostiglia, che, assieme ad altre documentazioni di abitato sia di Bronzo medio che di Bronzo recente attorno a Gazzo Veronese, sottolinea l'importanza di que-

51 sto territorio più occidentale in posizione nevralgica tra il Veronese ed il coevo sistema insediativo polarizzato sul Mincio. Significativa al proposito è anche la documentazione dei livelli più antichi di Mariconda di Melara, sul ramo più settentrionale del Po, in diretto rapporto con il Veronese. Relativamente occupata è pure l'area euganea (da Marendole a Lozzo Atestino a Montagnana), mentre scarse sono per ora le attestazioni nell'area orientale costiera, ma non è da escludere che ciò sia imputabile ad un vuoto documentario più che reale, vista l'importanza che tale zona assumerà nella fase seguente. E quanto numerosi siano i limiti delle nostre conoscenze risulta ad esempio dagli scavi in corso a Concordia che stanno rivelando testimonianze del tutto insospettate tra Bronzo medio-recente ed età del ferro. Ad una fase di massima occupazione segue, nel corso del XII secolo, un periodo di brusca contrazione territoriale, e probabilmente demografica, che segna in primo luogo la scomparsa di quasi tutti gli insediamenti collinari e di molti tra quelli di pianura: estremamente significativo ai fini di una valutazione globale del fenomeno, in gran parte ancora da approfondire, è che si tratta comunque di una dissoluzione selettiva e differenziata, con relativa « tenuta ,. di alcuni comprensori più dinamici in senso territoriale. Nel territorio benacense cessano di esistere quasi tutti gli insediamenti palafitticoli, mentre continua a vivere il centro di Peschiera, anche se non più a livello di area dinamica di produzione e controllo dei traffici. Nella fascia collinare, dai Lessini ai Berici agli Euganei, sopravvivono alcuni centri, soprattutto nel Vicentino, posti in punti chiave di controllo. Ancora parzialmente attivo per tutto il xn secolo risulta il polo occidentale alla confluenza Tione/Tartaro, a preludio di un nuovo ruolo primario di controllo che si attiverà nel Bronzo finale e che, con alterne vicende, continuerà per tutta l'età del ferro, individuando una zona critica tra Tartaro e Mincio intermediaria tra Veneto e Lombardia. Nella zona delle Valli Grandi Veronesi, mentre alla fine del xn secolo concludono la loro storia gli abitati di Castello del Tartaro e di Fabbrica dei Soci, mantiene una certa vitalità Fondo Paviani. Continua, ed anzi si potenzia, il polo deltizio-polesano dove si assiste al sorgere di nuovi centri (tra cui Frattesina) che sembrano ereditare il ruolo di Peschiera nella funzione di fulcro dei rapporti tra Europa continentale e mondo mediterraneo, con un sintomatico spostamento verso le aree costiere adriatiche. A giustificazione di questa crisi e di questa nuova dinamica

52 territoriale sono state addotte varie cause, in primo luogo il deterioramento climatico che, tra la fine del sub-boreale e l'inizio del sub-atlantico, avrebbe determinato l'innalzamento del livello dei laghi e lo sconvolgimento del sistema idrografico locale. Ma la crisi climatica non pare sufficiente a spiegare lo spopolamento di alcune zone della pianura e soprattutto l'abbandono dei centri pedemontani e collinari; una concausa deve essere senza dubbio vista, ed è stata giustamente vista, negli sconvolgimenti etnico-politico-economici che interessarono l'intero bacino del Mediterraneo allo scorcio del II millennio, ed anzitutto nel crollo dei potentati micenei e del sistema economico da essi attivato: la stessa decadenza e fine di Peschiera non può d'altra parte trovare giustificazione se non nel quadro di uno specifico mutamento degli equilibri nel gioco degli scambi tra Mediterraneo ed Europa continentale. Che i rapporti tra Egeo ed Italia non siano comunque venuti del tutto a cessare, ma si siano piuttosto trasformati in rotte e modalità diverse, è stato ben sottolineato in numerosi studi recenti. Nei nuovi circuiti ancora una volta si inserisce l'area padana, con un sintomatico spostamento dei centri di riferimento: non più Peschiera e la direttrice atesina quanto piuttosto la bassa pianura ed il comprensorio polesano, il che giustifica la relativa « tenuta » di Fondo Paviani ed il sorgere di nuovi insediamenti a controllo dell'asse padano: Mariconda, Montagnana, Frattesina, Villamarzana. La presenza di frammenti micenei a Fondo Paviani e a Fabbrica dei Soci (databili alla fine del XII secolo e tra i più antichi finora rinvenuti in area veneta) conferma il graduale spostamento orientale del sistema di controllo territoriale: il fatto che per il frammento di Fondo Paviani sia stata supposta una fabbrica micenea provinciale dell'Italia meridionale, forse apula, evidenzia il ruolo di cerniera assunto in questa dinamica dalla Puglia adriatica.

2. Il Bronzo finale Nell'ampio arco di tempo compreso tra la fine del XII e gli inizi del IX secolo a.C. si afferma nella penisola italiana e nelle isole unafacies culturale relativamente omogenea, convenzionalmente definita « protovillanoviano ». Al di là delle discussioni e delle disomogenee interpretazioni sul preciso valore da attribuire a tale termine (variamente visto,

53 nell'ambito di una ricca letteratura specialistica, in accezione cronologica, tipologica, culturale, etnica, ideologica, funeraria), è certo che si tratta di una koinè, di un « linguaggio » comune, che investe sia il rito funebre, con la pratica pressoché esclusiva dell'incinerazione, sia le forme ed il repertorio decorativo ceramico, la circolazione di tecnologie e tipologie metalliche, la trasformazione nei modelli di insediamento, produzione, scambio, consumo, economia, in sintesi tutto uno « stile di vita ». La convinzione che si tratti per altro di una omogeneità più apparente che reale si è andata consolidando in questi ultimi anni, nei quali l'intensificarsi delle ricerche e degli studi ha permesso di evidenziare con sempre maggior sicurezza che proprio in tale periodo andarono maturando quelle diversità regionali che, già emergenti nel IX secolo, saranno un fatto compiuto nell'vm. È in questo momento infatti che si stabilizza quel composito quadro etnicoculturale che definiamo protostoria italica, la cui multiforme realtà resta trasparente nei nomi « etnici » attribuiti alle regiones dell'ordinamento augusteo. Proprio nel Bronzo finale, dopo il lungo e complesso periodo di gestazione che abbiamo appena delineato, giunge a maturazione anche il quadro etnico-culturale del Veneto, coincidendo sintomaticamente con le fonti che appunto in quest'epoca fanno approdare nell'alto Adriatico gli Enet6i-Veneti a seguito di quei traumatici eventi che alla fine del II millennio a.C. coinvolgono tutto il bacino del Mediterraneo, eventi poeticamente riassumibili nella caduta di Troia e nei n6stoi, i viaggi di ritorno - o senza ritorno - degli eroi omerici. Si definiscono ora con chiarezza due aree culturali molto diverse: da un lato l'Italia meridionale e centrale-tirrenica, caratterizzate da un'economia e da un assetto sociale di tipo « principesco » di palese influenza egea-mediterranea-micenea, dall'altro l'Italia medio-adriatica e padano-settentrionale più affini al modello « tribale » delle contermini aree dell'Europa centrale. In questo secondo settore un ruolo di primo piano fu certo giocato dal Veneto, in particolare dalla zona del delta padano che svolge un ruolo di cerniera tra i due sistemi grazie alla sua critica e favorevole fisionomia geografica. Nella diffusa crisi demografico-territoriale che contraddistingue il XII secolo, si sono già evidenziate le zone di « tenuta », tutte in aree critiche di controllo del territorio e della viabilità: sintomatico è il fatto che alla caduta del polo gardesano e della stessa Peschiera si contrapponga il sorgere di nuovi insediamenti non più direzionati sull'Adige quanto piuttosto sui rami setten-

r ·

Ptincipa • insediamenti d età del bronzo ( I ella tarda nello) e aborata da G. Pe-

56 trionali del Po, ed in particolare sul cosiddetto Po di Adria dove un aspetto del tutto nuovo rispetto alla fase precedente mostra l'abitato di Mariconda e dove, più ad oriente, nasce Frattesina di Fratta Polesine. Da segnalare, in questo asse ovestest, è anche l'abitato di Casalmoro che sembra costituire attualmente l'avamposto più occidentale dell'area veneta, verso l'Oglio. Mentre in vari siti, dal Veronese al Vicentino al Trevigiano, è stato possibile evidenziare una fase discriminante tra Bronzo recente e Bronzo finale (intendendo quest'ultimo nei suoi tipici caratteri protovillanoviani), contraddistinta da forme ceramiche caratterizzate dall'orlo a tesa, il primo complesso omogeneo di Bronzo finale, con materiali che denotano un aspetto protovillanoviano pienamente formato, viene riconosciuto in Mariconda-strato superiore: tra i tipi bronzei, caratteristici sono la fibula ad arco di violino e staffa rialzata, la fibula ad arco semplice a filo sottile ritorto a trattini incisi a pseudotortiglione, lo spillone a capocchia biconica e ago ingrossato inizialmente a sezione quadrata, lo spillone a capocchia biconica schiacciata e ago inizialmente ritorto. Tra i fittili compare per la prima volta il gusto tettonico e decorativo tipico del protovillanoviano: forme e decorazioni caratteristiche sono le scodelle troncoconiche ad orlo rientrante decorato da solcatura, i vasi biconici decorati da solcature e cuppelle, la decorazione a costolature oblique sulle carene e sui punti di massima espansione, la decorazione a pettine e, in seguito, a pseudocordicella. Compatta identità di tipi rispetto al sito caratterizzante di Mariconda si riscontra in una vasta area che sembra aprirsi a ventaglio lungo le principali direttrici fluviali e terrestri: da Garda all'imbocco della valle dell'Adige, a Montebello e Santorso a controllo delle valli interne verso l'alto Vicentino, ad Angarano all'imbocco della valle del Brenta, a Treviso sul Sile; da Fimon-Capitello nei Berici, a Montagnana ed Este-Canevedo negli Euganei, fino a Frattesina nel territorio polesano. Quanto all '« etichetta » da apporre a tale facies, se è ben vero che nel Bronzo finale sembra prendere forma quel processo di « regionalizzazione » che prefigura le facies locali della prima età del ferro, al termine « protoveneto » (proposto da alcuni studiosi e da altri ritenuto troppo riduttivo) sembra preferibile quello di « protovillanoviano padano » che inserisce il Veneto in un più vasto orizzonte. Si tratta comunque sempre di etichette di comodo, spesso equivoche, mentre ciò che va sottoli-

57 neato è un'omogeneità di base di tutta l'area veneta e una salda identità culturale tra l'xI e il IX secolo compreso. Il fenomeno più vistoso, non solo sul piano territoriale ma soprattutto in un'ottica socio-economico-produttiva, è certo rappresentato da Frattesina di Fratta Polesine che costituisce a tutt'oggi un unicum nell'ambito della più antica protostoria italiana, connotandosi come un vero e proprio centro egemone, chiaramente erede dei precedenti, da Peschiera alla rete dei siti arginati delle Valli Grandi Veronesi, dai quali mutua il ruolo di controllo nello scambio di materie prime, nonché nel gioco della domanda e dell'offerta. Ma mentre la precedente realtà veronese era legata ad una dinamica prettamente transalpina-peninsulare, Frattesina si inserisce in un nuovo discorso di specifica apertura adriatica, e in senso lato mediterranea, anticipando quello che ben più tardi sarà, nella stessa zona, il ruolo di Adria. L'abitato di Frattesina, del quale è già stata individuata un'estensione di circa m 800/900 x 200, sorgeva non molto lontano dall'antica linea di costa, sulla riva destra di un ramo settentrionale del Po (oggi scomparso ma ricostruito per lunghi tratti in base a rilevamenti aerofotogrammetrici e ad indagini geomorfologiche) che dovrebbe corrispondere alla Philistina della tradizione letteraria: in posizione quindi favorevolissima, tra entroterra fluviale e sbocchi marittimi. Grazie a recenti indagini sono state riconosciute almeno quattro fasi, da un momento di transizione tra Bronzo recente e Bronzo finale fino all'vm secolo a.e. La fase meglio documentata è la seconda, databile alla piena età del bronzo finale (XI-X secolo a.C.), caratterizzata da un'occupazione estensiva con strutture abitative realizzate con intelaiature portanti di pali e graticci di rami ricoperti d'argilla. Il dato più vistoso, che differenzia nettamente Frattesina rispetto agli altri abitati protovillanoviani, non solo del Veneto ma dell'intero territorio italiano, è che mentre tutte le altre comunità mostrano un'economia ed una produzione limitate al solo consumo interno, Frattesina rivela invece un livello qualitativo e quantitativo di produzione artigianale specializzata tale da far supporre che in gran parte essa fosse destinata all'esportazione, anche su vasto raggio. Accanto alla più consueta economia basata su agricoltura, allevamento (buoi, capre, pecore, maiali, cani, cavalli), caccia (cervi, caprioli, cinghiali, orsi, volpi), pesca, raccolta (frutti selvatici, molluschi di mare e d'acqua dolce), e sulle normali attività di filatura/tessitura, produzione ceramica, risulta praticata su vasta

58 scala la lavorazione della pasta vitrea, del corno e dell'osso (materie prime reperibili in loco), dell'avorio (proveniente dalle coste africane), dell'ambra baltica (che qui giungeva attraverso le vie fluviali del centro Europa e attraverso la valle dell'Adige). Dalla distribuzione dei manufatti, finiti o in fase di lavorazione, è possibile dedurre che le officine artigianali si trovavano all'interno del vasto abitato e che ad alcune (come quelle del vetro, del corno, dell'osso) erano riservate aree distinte, probabilmente per artigiani specializzati impiegati a tempo pieno. Già dopo le prime campagne sistematiche di scavo, avviate nel 1974, è stata avanzata l'ipotesi che tale forma economica più che ad uno sviluppo culturale locale dovesse essere attribuita ad uno stimolo esterno, a contatti diretti e non occasionali con un ambiente culturale diverso, caratterizzato da una struttura sociale ed economica più articolata di quella generalmente ipotizzabile per i complessi italiani della tarda età del bronzo. Alla luce delle recenti indagini l'ipotesi è andata sempre più prendendo corpo, evidenziando il ruolo di primo piano svolto da Frattesina nel quadro dei nuovi rapporti tra Egeo tardo-miceneo ed Italia. Particolare peso riveste la lavorazione su ampia scala di ambra baltica, materia molto ricercata dai mercanti egei: significativa è la presenza di vaghi tipo Tirinto per i quali resta ancora aperto il problema se si tratti di una lavorazione in loco o piuttosto di un prodotto finito di ritorno. Collegamenti marittimi diretti con i centri tardo-micenei dell'area egea sono confermati anche dal ritrovamento di due frammenti di ceramica micenea (attribuiti al Miceneo III e), di qualità nettamente superiore rispetto a quelli di Fondo Paviani e Fabbrica dei Soci e di sicura produzione egea; uno tra l'altro proviene da una raccolta di superficie, il che fa ragionevolmente pensare che la documentazione sia destinata ad infittirsi. La presenza di un uovo di struzzo, di numerosi manufatti e di segmenti semilavorati in avorio di elefante, materie prime che riportano ali' Africa settentrionale, ben contribuisce ad inserire il nostro sito in un ampio circuito mediterraneo, in una trama di collegamenti non occasionali quanto piuttosto di scambi organizzati a lunga distanza, con importazione e trasformazione di materia prima. Ulteriori preziosi indizi sul ruolo di Frattesina provengono dai materiali bronzei: se da un lato è sicura un'attività metallurgica in loco, per il rinvenimento di scorie e matrici di fusione nonché metallo grezzo, d'altro lato la grande quantità di oggetti finiti, a copertura di un'amplissima tipologia sia di strumenti che di or-

59 namenti, pennette di inserire il sito nella nuova via del metallo che in questo periodo, dai centri minerari dell'Etruria, raggiungeva la pianura padana centrorientale attraverso le direttrici fluviali e terrestri dell'Emilia centroccidentale. Di estrema importanza a tale proposito è la documentazione offerta da due ripostigli da fonderia, databili tra la fine dell 'x1 e l'inizio del x secolo, che comprendono principalmente palette con innesto a cannone e pani a piccone, tipologie relativamente poco diffuse: il loro ricorrere, in associazione, nel Veneto (non solo a Frattesina, ma anche a Montagnana) e nel ripostiglio di Manciano Samprugnano (Grosseto) costituisce una inconfutabile prova del rapporto tra le due aree. Giustamente è stato osservato che il primo impulso ad un collegamento di tal genere dovette partire dal Veneto in direzione dell'Etruria mineraria proprio per le particolari caratteristiche della struttura economica di Frattesina, adatta a sostenere una forma di scambio organizzato e sistematico. Contribuiscono ad ampliare il quadro, già di per sé molto ricco e significativo, dell'insediamento le coeve necropoli: una già da tempo individuata immediatamente ad oriente dell'abitato, l'altra di recente scoperta in località Narde. La prima ha finora restituito più di 150 sepolture, tutte caratterizzate dal rito incineratorio, salvo alcune inumazioni. Le tombe più antiche (xi-inizio x secolo), per altro poco numerose, risultano deposte in fossa singola, le più recenti (dal x agli inizi del 1x secolo) sono invece raggruppate in tre nuclei maggiori (grandi tumuli?) all'interno dei quali è possibile distinguere nuclei minori probabilmente corrispondenti a più ristretti gruppi familiari, il che suggerisce un'articolazione interna della comunità a livello tribale-parentale. Dai corredi non sembrano emergere vistose differenziazioni « di ricchezza», mentre l'unica distinzione riguarda il sesso del defunto, con presenza di oggetti specifici (fuso e fusaiola per la donna, rasoio per l'uomo, tipi differenziati di fibule), o anche con diversa dislocazione delle deposizioni maschili e femminili all'interno dei singoli raggruppamenti. Tra i materiali finora editi, accanto a tipi ceramici e bronzei ampiamente coerenti con l'orizzonte protovillanoviano veneto, rivestono particolare importanza le fibule ad arco di violino a gomito rialzato e cappi ad otto, diffuse in Grecia e nell'Egeo nonché lungo l'Adriatico, dalla Puglia alla costa dalmata, e in area tirrenica; le fibule con staffa a disco-spirale, collegabili al gruppo Terni-Allumiere; le fibule a due pezzi con staf-

60 fa a disco, presenti nel ripostiglio di Piediluco Contigliano e nel gruppo Temi, materiali che vengono a confermare un ampio raggio di scambi. Importanti dati stanno emergendo da una nuova necropoli, in corso di scavo e di studio, individuata in località Narde e precisamente sulla sponda settentrionale del paleoalveo sulla cui sponda meridionale sorgeva l'abitato. In un tumulo artificiale, alto poco più di un metro sull'originario piano di campagna ed esteso per circa trenta metri, sono stati identificati tre distinti gruppi di sepolture, ancora una volta probabilmente corrispondenti a diversi gruppi parentali: le tombe, che sembrano coprire un arco cronologico tra l'x1 e il x secolo a.e. con sporadiche presenze di IX secolo, sono tutte ad incinerazione salvo una ad inumazione, fittamente addossate le une alle altre e spesso sovrapposte. I corredi, quando presenti, comprendono per lo più oggetti d'ornamento/abbigliamento con netta distinzione tra deposizioni maschili e femminili; in alcune fosse sono state trovate numerose perle di pasta vitrea che fanno pensare ad ornamenti avvolti all'esterno dell'ossuario. Eccezionali sono due tombe, una delle quali presentava una spada intenzionalmente spezzata e deposta all'esterno del cinerario, mentre nell'altra i frammenti di una spada con ribattini d'oro e un anello pure d'oro si trovavano frammisti alle ossa. Indagini in corso sembrano non escludere l'esistenza di altri tumuli vicini, lasciando ancora aperto il problema di una valutazione organica e globale dell'insediamento di Frattesina che sempre più si va confermando come un sito nel quale doveva concentrarsi gran parte della dinamica culturale non solo dell'Italia nordorientale ma dell'intera penisola, dalle coste tirreniche a quelle adriatiche, con una forte componente mediterranea orientale. Situazione in parte simile, per economia, tipologia e modalità di associazione dei materiali, rivela l'insediamento di Borgo San Zeno presso Montagnana, sorto probabilmente alla fine dell 'x1 secolo a.C. in un territorio già precedentemente interessato da un diffuso popolamento. Tra Bronzo medio e recente infatti estesi abitati di tipo terramaricolo, forse arginati, dovevano qui configurare un paesaggio analogo a quello contemporaneamente attuatosi nelle Valli Grandi Veronesi, anche se per alcuni aspetti, tra cui il rito esclusivamente incineratorio attestato ad esempio nella necropoli del Cognaro, quest'area si diversificava dal finitimo territorio veronese caratterizzato dal biritualismo, rivelan-

61 do piuttosto stretti legami con i coevi siti del Mantovano (da Monte Lonato a Pietole Virgilio). Pur partecipe del generalizzato rarefarsi degli insediamenti tra Bronzo recente e finale, già all'inizio del x secolo a.C. la zona registra una notevole ripresa, con il sorgere di nuovi ed estesi abitati sui dossi sabbiosi di un paleo-Adige, documentando una tenuta, ed anzi un incremento, di questo polo atesino anche al di là del crollo del sistema basso-veronese. Il dato può essere giustificato dal fatto che tale territorio, grazie a favorevoli condizioni ambientali, viene ad inserirsi agevolmente nella nuova dinamica polesana attivata da Frattesina, configurandosi anzi come « paesaggio di potere » tipicamente euganeo, quasi cerniera, topografica e cronologica, tra il « vecchio » sistema basso-veronese ed il « nuovo » sistema polesano. Sintomatico al proposito è appunto l'insediamento di Borgo San Zeno, sorto sulla sponda settentrionale di un antico corso dell'Adige, su una serie continua di dossi sabbiosi originati dagli episodi alluvionali del fiume. Per la fase più antica, di pieno x secolo e ancora scarsamente documentata, di notevole interesse è il ritrovamento di un frammento miceneo (datato al Miceneo III e finale ed attribuito ad una produzione egea come quelli di Frattesina) e di un ripostiglio nel quale compaiono, come a Frattesina, palette a cannone e pani a piccone tipo MancianoSamprugnano. Da segnalare è anche un martello ad occhio, strumento presumibilmente connesso con la laminatura del metallo, di un tipo che, al di fuori del Veneto, ricorre solo nei ripostigli apuli del Surbo e di Mottola, ambedue caratterizzati dalla presenza di materiali metallici egei di importazione o di imitazione. Meglio attestata è la seconda fase, tra il x e l'inizio dell'vm secolo (contemporanea dunque alle due ultime fasi di Frattesina), in cui l'abitato risulta esteso per oltre due chilometri, densamente popolato e dotato di una struttura socio-economica avanzata. Delle abitazioni non è possibile ricostruire la pianta e la struttura restando solo alcuni avanzi di pavimentazione in argilla indurita dal fuoco e frammenti di intonaco in argilla cotta, con impressioni di legni e graticci di canne; ben documentate sono invece le produzioni artigianali (soprattutto ceramica, corno ed osso, e, seppur in misura minore, bronzo e pasta vitrea) che dovevano essere praticate su vasta scala tanto da far supporre un'eccedenza destinata all'esportazione. Anche qui sono state individuate aree specializzate di artigianato all'interno dell' inse-

62 diarnento, tra cui una adibita alla lavorazione della ceramica, con piani di lavoro e di cottura, e fosse di scarico per i « malcotti ». A questa fase dell'abitato corrisponde una vasta necropoli individuata sull'opposta sponda meridionale del fiume, con un rapporto tra abitato e necropoli separati dal fiume che non solo richiama quello di Frattesina/Narde, ma che si riproporrà anche in alcuni centri dell'età del ferro tanto da far pensare ad una precisa « progettazione » per cui la città dei vivi era separata da quella dei morti da un corso d'acqua che andava ritualmente attraversato nell'ultimo viaggio. Le tombe finora recuperate sono tutte ad incinerazione (mentre le poche riferibili alla fase più antica sono ad inumazione) e risultano distribuite in nuclei relativamente omogenei e regolarmente intervallati: all'interno di ciascun nucleo si individuano raggruppamenti minori, con la stessa struttura dunque di Frattesina. I corredi, per lo più modesti e senza sostanziali diversità di « ricchezza », sono nettamente differenziati da oggetti maschili o femminili: i materiali sono essenzialmente analoghi ai complessi coevi, dal Veronese all'area berico-euganea a Frattesina, ma denotano anche rapporti con il Mantovano (Fontanella, Casalmoro) e con il Bolognese, rapporti certo facilitati dal sistema fluviale Adige-Mincio-Po. Significativo al proposito è il fatto che una paletta tipo Manciano-Samprugnano (tra l'altro l'unica rinvenuta in contesto funerario e non in abitato o ripostiglio) sia attestata a Turbine di Gazzo Veronese, sul sistema Adige-Tartaro che ancora una volta si identifica come estremo polo occidentale della dinamica veneta di pianura. Molto probabilmente connessi al sistema economico-territoriale incentrato su Montagnana (se non addirittura da esso dipendenti) sono anche i primi nuclei abitati di Este. Di particolare evidenza risulta l'esteso insediamento di Canevedo, sorto sui dossi sabbiosi a sud dell'antico corso dell'Adige e attivo dal x a tutto il 1x secolo a. C.: seppur non ai livelli di Borgo San Zeno, anche qui sono documentate attività artigianali specializzate, quali la lavorazione dei metalli, dell'osso e del corno, oltre alle più elementari attività « domestiche » di filatura, tessitura, produzione ceramica. Sulla base della ricca ed importante documentazione è stato supposto che Frattesina e Montagnana rappresentino un primo tentativo di pre-urbanizzazione, volto a concentrare in due aree ben precise le energie di buona parte del territorio, seppure con modelli diversi e con una certa sfasatura cronologica. Frattesina

63 nasce infatti alla fine del xn secolo in un ambito territoriale precedentemente disabitato, presentandosi come espansione verso il mare del « paesaggio di potere » basso-veronese; probabilmente consta di vari nuclei, come fa pensare la pluralità delle necropoli; attorno ad essa nascono centri minori (ad esempio Villamarzana) che ne dilatano il territorio ma che subiranno la stessa fine, lasciando nuovamente disabitata la zona di cui cessa per molti secoli la funzione politico-economica, fino al sorgere di Adria. Montagnana-Borgo San Zeno nasce circa un secolo dopo e, pur trattandosi di un sito nuovo, si trova al centro di un'area già prima densamente popolata, facendo quindi pensare ad un processo di sinecismo; si tratta di un unico abitato esteso per molti ettari e con un'unica vasta necropoli; nel suo territorio di controllo rientra senza dubbio il primo nucleo di Este (Canevedo), ma Este ben presto la soppianterà e le si sostituirà totalmente. Tanto Frattesina che Montagnana rivelano una salda organizzazione sociale per lo meno sul piano della distribuzione del lavoro, con aree specializzate all'interno dell'abitato per attività artigianali praticate a tempo pieno e volte ad una produzione in eccedenza destinata all'esportazione; ambedue risultano al centro di una vasta rete « commerciale » che non solo coinvolge il mondo italico, ed in particolare i nuovi centri metallurgici dell'Etruria mineraria, ma che si allarga all'Egeo ed al Mediterraneo orientale nel quadro della nuova dinamica tardo- e post-micenea. Una diversa situazione appare nei siti più settentrionali, da Garda nell'Alto Veronese a San Giorgio di Angarano nell'Alto Vicentino: la tipologia dei materiali, soprattutto bronzei, più che con l'ambiente protovillanoviano peninsulare indizia infatti rapporti preferenziali con il Trentino dove ancora fiorente risulta la produzione metallurgica, forse anche per una rinnovata attività estrattiva da parte di gruppi afferenti alla cultura di Luco. In ambito lessineo un buon campione è rappresentato dalle necropoli di Garda (x-vrn secolo) e di Desmontà di Veronella (x11x secolo), ambedue caratterizzate dall'incinerazione, con un elevato numero di tombe distribuite in gruppi più o meno numerosi, spesso anche notevolmente distanziati tra loro, chiaro specchio di un'organizzazione per gruppi tribali-parentelari. Gli ossuari, biconici e situliformi con ciotola di copertura, presentano decorazioni costituite da motivi di solcature e cuppelle, o a falsa cordicella, e rientrano nel più diffuso repertorio protovillanoviano: i frequenti casi di deposizioni apparentemente senza ossuario vanno probabilmente imputati all'uso di contenitori in materiale

64 deperibile. I corredi sono molto semplici e minimali: le tombe maschili sono caratterizzate da spilloni, quelle femminili da fibule, con tipi che hanno permesso di individuare una facies transpadana centrale con prevalenti rapporti con l'area trentina ed alto-vicentina. Ad un ambito culturale settentrionale vicino all'ideologia dei Campi d'urne rimanda il ritrovamento, a Desmontà, di due schinieri in sottile lamina di bronzo decorata da borchie e punti a sbalzo, forse indizio di una stele antropomorfa di legno o di un deposito votivo: databili al x secolo, sono confrontabili con gli schinieri di Pergine e della Malpensa. Di particolare interesse, sul piano rituale e tipologico, risulta la necropoli di San Giorgio di Angarano, sulla sinistra del Brenta ali' ingresso della Valsugana, in posizione di raccordo di agevoli percorsi naturali tra l'alta pianura vicentina e il Trentino. Sono state individuate quattro ampie concentrazioni di sepolture che dovevano essere delimitate da recinti in legno o pietre: tale distribuzione e il fatto che solo un limitato numero di tombe presenti oggetti di corredo e, tra queste, alcune si distinguano per qualità e quantità di materiali sembrano rispecchiare un' organizzazione a carattere tribale, con preminenza di pochi individui sia maschili che femminili. Le tombe coprono un arco cronologico tra la fine dell 'x1 e buona parte dell 'vm secolo e sono tutte a cremazione: questa doveva avvenire in un'apposita area-ustrino individuata in un settore privo di sepolture. Come in altre coeve necropoli non mancano deposizioni apparentemente prive di ossuario, probabilmente in origine costituito da un contenitore in materiale deperibile. I corredi maschili sono caratterizzati da spilloni, in coppia o in un solo esemplare talvolta associato a fibula serpeggiante, e in alcuni casi dal rasoio; quelle femminili, mediamente più complesse, da fibule ad arco semplice, armille, anelli, torques, elementi di collana, fusaiole: gli oggetti sono tutti deformati dal fuoco o comunque defunzionalizzati prima della deposizione nell'ossuario. La tipologia dei materiali denota che il sito rivestiva un ruolo di primo piano nella circolazione del metallo tra area veneta e trentina, mentre solo in un momento avanzato, tra x e IX secolo, si nota una prevalenza di forme metalliche di diffusione centromeridionale, certo riflesso di quella nuova via del metallo che vede la Toscana sostituirsi al polo trentino-gardesano. Se il periodo di massimo sviluppo del sito è da porre nella seconda metà del x secolo, il fatto che la necropoli sia rimasta in uso per buona parte dell'vm, analogamente a quanto avviene a

65 Montagnana, a Garda, a Frattesina, e a differenza di quanto si registra invece nella maggior parte del territorio veneto, conferma la tenuta dei centri direzionali anche nel momento di dissoluzione dell'unità protovillanoviana, momento che vede la caduta di quasi tutti gli insediamenti nel corso del IX secolo e il sorgere di nuovi centri emergenti all'inizio dell'età del ferro. Tracciare una sintesi di questo complesso periodo è certo molto difficile e ciò per una serie di ragioni ben evidenziate da tutti gli studiosi che si sono specificamente occupati del problema del Bronzo finale nel Veneto. Se nel corso degli ultimi vent'anni il quadro si è meglio definito grazie alla scoperta di eccezionali complessi quali Frattesina, Montagnana, Garda, il Vicentino ecc., per molti scavi mancano a tutt'oggi edizioni sistematiche e studi approfonditi; esistono inoltre numerosi « vuoti » per i quali resta da verificare se si tratti di vuoti effettivi, quindi con un preciso peso storico, o solo di vuoti di documentazione. Da approfondire sono inoltre due momenti cruciali che, come del resto avviene nell'ambito di ogni complesso periodo culturale, coincidono con l'inizio e la fine delle fasi discriminanti: nello specifico il passaggio tra Bronzo recente e finale (l'arco cioè del XII secolo) e quello tra Bronzo finale e primissima età del ferro (tra x e 1x secolo). Proprio per la carenza dei dati risulta ad esempio ancora poco chiara la distinzione tra i materiali di x e quelli di IX secolo, anche se prevale una generica impressione che nella maggior parte dei siti di lunga durata il IX secolo più che come inizio dell'età del ferro debba essere considerato come la conclusione dell'età del bronzo. Emerge comunque con chiarezza il fatto che è proprio il Bronzo finale, considerato nel suo insieme, a contenere tutti i germi che saranno sviluppati nella fase iniziale della successiva età del ferro e che è proprio questo il momento di formazione della civiltà e dell 'ethnos veneto. Evidente è anche il fatto che nella generalizzata contrazione degli insediamenti che caratterizza l'età del bronzo finale si delineano precise direttrici e punti nodali, sostanzialmente coerenti sul piano culturale ma con macroscopiche differenze che riflettono diversi assetti economici. Particolarmente significativo è lo spostamento, nel corso del XII secolo, dall'asse veronese-gardesano a quello costituito dal bacino fluviale Adige-Po-Tartaro, spostamento da vedere come conseguenza di precisi mutamenti nel quadro politico-economico« internazionale ». Ad una relativa tenuta di Fondo Paviani, quasi a cerniera tra il vecchio e il

66 nuovo sistema, fa riscontro il nascere di Mariconda ad ovest e di Frattesina ad est, quest'ultima a vocazione prettamente produttiva-commerciale. Contemporaneamente nel settore collinare lessineo, berico ed euganeo - perdurano solo alcuni siti dislocati in punti chiave di controllo territoriale, a prevalente sfruttamento economico di tipo agricolo-pastorale. Nel corso dell 'x1-x secolo i più vistosi mutamenti avvengono in pianura, dove si consolida il centro di Frattesina cui poco dopo si affianca Montagnana: questi siti, pienamente inseriti ed anzi in parte protagonisti di una nuova dinamica « commerciale » in quanto partecipi della nuova via del bronzo che dai centri metallurgici della Toscana viene a coinvolgere tutta l'Italia peninsulare ed il bacino del Mediterraneo, sembrano addirittura attuare un tentativo di pre-urbanizzazione che non giungerà a maturazione probabilmente per molteplici cause, non ultimi i dissesti naturali. Un aspetto in parte diverso denuncia in questo periodo l'area collinare dove si assiste alla massima fioritura di Angarano e ad una ripresa del territorio veronese-gardesano (Desmontà di Veronella, Garda), fenomeno da mettere probabilmente in rapporto con una relativa riattivazione dell'area mineraria trentina. Treviso, per quel poco che si può finora intravedere, costituisce la cerniera con il settore orientale, dove dati recenti sembrano confermare una omogeneità di base di tutta l'area veneta. Gradualmente nel corso del x, e massicciamente all'inizio del 1x secolo, si assiste al ripopolamento di tutto il territorio veneto, in forma chiaramente selettiva. Diffusi e sparsi sono gli insediamenti tra pianura e collina, sulle pendici collinari, sulla sommità delle colline prospicienti la pianura; la pianura al contrario appare meno densamente popolata e caratterizzata piuttosto da pochi insediamenti molto estesi, quali ad esempio Montagnana. Dopo il generalizzato spopolamento di 1x secolo, il successivo sorgere di nuovi siti prelude ad un diverso quadro di organizzazione socio-economico-territoriale: nell'vm secolo Este, Padova, Montebelluna, Mel, Treviso, Oderzo, per citare solo i casi più noti, verranno infatti a configurare i poli di una nuova strategia del popolamento. Sembra dunque che alla fine dell'età del bronzo la zona collinare funzioni come tardiva cassa di risonanza del fenomeno protovillanoviano di pianura, mentre questa risulta già proiettata in una nuova fase. Ed in effetti mentre nel corso del IX secolo si verifica nell'area veneta l'abbandono di quasi tutti i siti di Bronzo finale, tanto da autorizzare l'ipotesi di una notevole crisi demografica e di un parziale spopolamento, una nuova organizzazione

67 territoriale si registra solo in quelli che saranno i centri portanti futuri, in primo luogo Este e Padova che rivelano comunque dinamiche diverse. Mentre infatti per Este si può agevolmente pensare ad un processo sinecistico di abitati già precedentemente attivati, fino ad ereditare il ruolo stesso di Montagnana, secondo una dinamica di disgregazione/aggregazione che trova un preciso modello di riferimento in Etruria, per Padova bisogna invece pensare ad un processo formativo diverso dal momento che il territorio non ha finora restituito evidenze di popolamento tali da supportare una situazione precedente: ma su questo problema torneremo più avanti. La causa di questa nuova crisi, che coinvolge anzitutto i due nuclei portanti di Frattesina e di Montagnana ed in seguito tutto il settore collinare, ed anche quello orientale fino a Treviso, è solo in parte imputabile a fattori ambientali, cioè al deterioramento climatico che, seppur sicuramente attestato in questo periodo, non fu certo tale da giustificare, da solo, un così sensibile mutamento della dinamica territoriale. Determinanti, come del resto già visto per la crisi tra Bronzo recente e finale, dovettero essere le trasformazioni politico-economiche ed il sorgere di una diversa organizzazione sociale, trasformazioni che coincidono con il manifestarsi della civiltà villanoviana e con il progressivo superamento della struttura patriarcale dell'età del bronzo. Tali fenomeni, precocemente avvertibili in Etruria e nel Lazio con il repentino sorgere di un'aristocrazia gentilizia, sembrano in parte proponibili, seppur con un certo ritardo, anche per il Veneto e soprattutto per il Veneto di pianura, naturalmente più aperto ericettivo.

III. Le fonti di conoscenza È BEN noto, ed è stato sottolineato sia in contributi squisitamente metodologici sia in lavori di ampio e concreto approccio operativo (da ultimo i volumi della CanaArcheologica del Veneto), che la distribuzione spaziale dei dati in nostro possesso, la loro concentrazione o rarefazione nel territorio sono per lo più derivanti da casualità. Un primo limite è rappresentato dalle caratteristiche degli ambiti geomorfologici: è infatti ovvio che i contesti archeologici sono più accessibili laddove si è sviluppato un contenuto aumento di copertura sedimentaria, meno accessibili quando spessi depositi alluvionali hanno determinato l'obliterazione, o ampie erosioni la distruzione/dispersione, dei materiali. A ciò si aggiungono fattori antropico-storici (urbanizzazione, industrializzazione, agricoltura) con un livello che può andare dal massimo della negatività (distruzione totale del deposito) al massimo della positività (avvio di ricerche sistematiche). A livello analogico, i dati acquisiti attraverso un qualsiasi tipo di interesse archeologico sono per qualità determinati dalle diverse situazioni che motivano le ricerche. È naturalmente di incidenza positiva la presenza in un'area di centri di tutela, conservazione e ricerca (soprintendenze, musei, università); incide poi se questi centri sono attivi, e attivi in quali settori, se sono cioè dediti alla ricerca sul campo, se sono interessati ad una fase cronologica più che ad un'altra e così via. Possono invece essere di incidenza sia positiva che negativa gli interessi di un singolo studioso che, spesso per motivazioni non necessariamente programmatiche, svolge un reperimento dati secondo itinerari logici episodici, oppure la presenza in certe aree di appassionati locali (che funzionano da collettori di informazioni) o le attività delle associazioni archeologiche spontanee, che operano per lo più in territorialità definite. Difficilmente positiva potrà invece essere l'incidenza di uno scavatore abusivo, se non per stimolare una successiva ricerca, o semplicemente portare alla luce i resti di una situazione che egli stesso ha sconvolto. Tra i problemi relativi alla qualità dell'informazione va pure sottolineato che molti dati non possono essere presi in considerazione perché non localizzabili: esiste infatti una realtà nascosta costituita da casse di materiali, spesso anche particolarmente significativi, di cui non si può tener conto in una ricerca territoriale, in quanto mancano da sempre, o sono andate perse col tempo, le notizie sul sito di provenienza.

69 Da tutto ciò deriva che molto varia e assolutamente disomogenea è la qualità delle informazioni, con una serie di incidenze positive/negative che vanno attentamente valutate al momento del1'assunzione dei dati: il quadro informativo può infatti variare da un livello ottimale, laddove ai dati locazionali si aggiunge la presenza/studio dei materiali, ad un livello medio laddove, seppur in assenza dei materiali, esiste un'adeguata documentazione locazionale, ad un Hvello del tutto inutilizzabile laddove, pur esistendo i materiali, mancano i dati locazionali. Casi-limite per quanto riguarda il Veneto preromano sono ad esempio alcune zone del Veronese, del Vicentino, della Bassa padana, che risultano a copertura quasi totale con scavi programmati, indagini di superficie, attività spontanee locali altamente affidabili e responsabili, rispetto al territorio lagunare o alpino dove ancor troppo numerosi sono i vuoti di ricerca. Si può ben comprendere dunque che la sicurezza di una copertura totale del territorio, nel senso di presenza/assenza di testimonianze archeologiche, può derivare solo da una ricerca programmata, mediante ricognizioni totali, random sampling con campionatura a maglia predisposta, remote sensing (dalla foto aerea a quella da satellite, alle varie tecniche di prospezione di tipo geofisico), carotaggi, ricognizioni di superficie, oltre che, ovviamente, scavi estensivi. Certamente da promuovere e potenziare è l'archeologia di superficie che, talvolta acriticamente rifiutata, sta invece dimostrando la sua validità se condotta con rigore scientifico e secondo precisi obiettivi di indagine. È ad esempio grazie al potenziarsi, qualitativo e quantitativo, delle tecniche di survey che in questi ultimi anni si sono avuti buoni risultati nell'ambito dell '« archeologia di abitato », uno dei campi a cui oggi viene attribuito un ruolo di primo piano nella comprensione dei modi di vita delle comunità protostoriche, nonché dei fenomeni economici e sociali.

I . Gli abitati Solo in anni recenti, grazie all'affinamento degli studi e dei metodi di indagine, l'archeologia di abitato ha assunto un po' dovunque un ruolo di primo piano affiancandosi ai ben più privilegiati scavi di necropoli. Il minor interesse rivestito da questo tipo di ricerche deriva anzitutto dal fatto che assai poco è in genere quanto resta leggibile di un abitato protostorico data l'assenza di

70 strutture architettoniche stabili e durature, in materiale non deperibile, e data la povertà e la frammentarietà dei manufatti recuperabili, non certo paragonabili alla ricchezza - o comunque all'evidenza - dei corredi tombali. A ciò si aggiunge un'obiettiva difficoltà di indagine dal momento che quasi sempre i centri storici presentano una ininterrotta continuità di vita dall'antichità ai giorni nostri, il che non solo ha comportato l'obliterazione delle fasi più antiche, ma costituisce un concreto limite a ricerche di tipo estensivo. Anche al di fuori dei centri storici, l'espandersi spesso selvaggio dell'urbanizzazione nonché l'incremento delle tecniche e delle attività agricole hanno frequentemente portato a distruzioni incontrollate delle testimonianze apparentemente più povere e poco vistose. Da tutto ciò consegue che, seppur notevolmente elevato è il numero degli abitati preromani del Veneto di cui siamo a conoscenza, ancora assai limitato è il nostro patrimonio di informazioni: ben pochi insediamenti sono stati scavati e nessuno su vasta scala; modesto e generico risulta quindi il panorama che si può delineare, vistose sono le lacune e numerose le domande senza risposta. Per buona parte del I millennio a.e. nel Veneto, e soprattutto in pianura, le abitazioni continuarono ad essere realizzate in materiale deperibile (legno, frasche, paglia, argilla) per cui quanto si può oggi riconoscere si riduce alle tracce dei piani di calpestio, alle canalette perimetrali, alle buche dei pali che sostenevano l'alzato, ai resti degli intonaci che proteggevano le pareti. Le case-capanne, delle quali solo raramente si è potuta ricavare una pianta completa, dovevano essere per lo più di tipo quadrangolare e con un unico locale; il pavimento, in genere il resto più evidente, era costituito da un battuto d'argilla, o, laddove era facilmente reperibile la materia prima, come ad Este, da scaglia e marna; talvolta individuabili sono un'area-focolare ed altri piani di lavoro, realizzati in argilla. Unici elementi dell'arredo funzionale sono gli alari, per lo più di terracotta, rinvenuti in numero cospicuo e di varia tipologia: dai più antichi « a mattonella », a quelli « a panca », a quelli a terminazione zoomorfa, a testa di ariete o di cavallo, tipici della seconda età del ferro. Nessun dato certo abbiamo per il sistema costruttivo dell'alzato, del quale restano al massimo frammenti di intonaco in argilla con tracce di graticci di canne e rami; il tetto doveva essere in paglia e frasche. Si tratta di un elementare modello edilizio che sembra in parte ripetersi nei « casoni »

71 che fino a non molti anni fa si potevano vedere nella bassa pianura veneta. Evidenti sono periodici episodi di distruzione - per incendio e specie in pianura per alluvioni - dopo i quali le capanne venivano riedificate sopra le precedenti, con tenace continuità di vita; ma assai difficile, dato il tipo di strutture, risulta l'individuazione delle varie fasi. Un interessante « spaccato » di un impianto abitativo risalente all'vm secolo a.e. è stato messo in luce in un saggio di scavo condotto nel cuore di Padova (nella cosiddetta area ex Storione). Varie capanne rettangolari affiancate (delle quali erano ancora identificabili parti delle strutture di legno), focolari interni ed esterni, una grande cisterna comune per l'acqua (costruita con assi di legno connesse ad incastro e perfettamente conservata), ampi spazi vuoti intervallati alle abitazioni (che secondo modelli supposti per altre zone dell'Italia potevano essere di utilizzo comune per orti e aree destinate all'allevamento domestico) indiziano, fin da questa prima fase, l'esistenza di un preciso progetto costruttivo per nuclei familiari ristretti ed economicamente autosufficienti. Per le epoche più recenti dati di notevole importanza sono stati acquisiti in questi ultimi anni in seguito a scavi, purtroppo sempre di obbligata e limitata estensione, condotti nel cuore di Padova. In via Dietro Duomo, nel settore occidentale dell'antico abitato, è stato messo in luce un insieme di strutture diversificate ma funzionalmente assimilabili - con una sequenza ininterrotta dall'inizio del VI alla metà del v secolo. Evidenti sono in tale arco di tempo almeno cinque fasi di utilizzo, con cospicui interventi strutturali e infrastrutturali, e momenti di ripristino-risistemazione volti a riportare ad una quota omogenea le superfici d'uso mediante l'asporto degli eventuali depositi alluvionali e il riporto di sabbie facilmente recuperabili dal vicino fiume. Tra le strutture meglio conservate una si configura a destinazione abitativa (estesa per almeno m 7 x 3,5), con pavimentazione in argilla e, su un lato, tracce di una struttura lignea piantata nel pavimento e forse riferibile ad un telaio verticale. Altri ambienti di dimensioni minori dovevano essere adibiti a magazzini o silos, così come sono evidenti alcune infrastrutture esterne, palizzate o tettoie, e fosse di scarico. Di notevole interesse risulta non solo la regolarità di impianto delle diverse unità, tutte disposte con un lato parallelo o perpendicolare ai lati delle altre, ma anche la tendenza a mantenere nelle varie fasi il medesimo ingombro e lo stesso

72 orientamento, il che fornisce l'impressione di una regolare sistemazione « urbana ». Nell'area ex Pilsen, nel settore settentrionale dell'abitato, è invece stata ricostruita quasi completamente la planimetria di un'abitazione in uso dal v-1v secolo alle soglie della romanizzazione. La casa, scavata per un'estensione di circa 60 metri quadrati, presenta piani pavimentali formati da strati sovrapposti di argilla cotta in situ, con evidenti impronte delle dita di chi l'ha plasmata; in un livello restavano anche le impronte dei piedi nudi di un bambino che aveva evidentemente camminato sul pavimento prima della sua essiccazione. Ai vari strati corrispondono cambiamenti di planimetria: notevole ad esempio la trasformazione tra la prima fase, in cui l'abitazione era divisa in due stanze mediante un tramezzo ligneo, e la fase più tarda in cui viene abolita la divisione e viene costruito un grande focolare. Come in via Dietro Duomo non restano tracce dell'elevato, ma i fori dei pali congiunti da un largo scasso fanno pensare a muri lignei in assi o travi. Chiara è dunque l'impressione, anche da questi pochi lacerti, dell'esistenza di case vere e proprie con stanze ed ambienti differenziati e strutture piuttosto evolute. Anche ad Este, a partire dal v secolo, sono documentate alcune case, probabilmente riservate ai ceti dominanti, realizzate con strutture più stabili, con impianto dell'elevato in muratura a secco sulla quale si impostano le pareti ancora di tipo deperibile; l'assenza di resti di tegole e coppi fa pensare che il tetto continuasse ad essere di labile struttura, in canne, graticci, legno, argilla. Un quadro del tutto particolare presentano gli abitati di area collinare dove nella seconda età del ferro, cioè dal v secolo a.e., è attestato un tipo di abitazione seminterrata ben noto in tutto l'ambito alpino e prealpino centrorientale: impropria è ormai ritenuta la definizione di « casa retica » dal momento che più che da una esplicita entità etnico-culturale la scelta del tipo sembra dettata dall'opportunità di adattarsi a particolari condizioni ecoclimatiche collinari e montane che comportarono modalità costruttive diverse da quelle adottate in pianura. Si tratta di abitazioni a pianta rettangolare, costruite scavando il terreno in pendio ed innalzando ai lati dei muretti in pietra, spesso legati da terriccio limoso; le restanti parti dell'elevato ed il tetto sono realizzati in legno rivestito da intonaco in impasto. I pavimenti sono di vario tipo anche all'interno di uno stesso villaggio, in terrariportata e battuta, in tufelli accuratamente pressati e livellati, in

73 assiti di legno. Ben individuabili sono piani di cottura o aree di lavoro, preparati con limo spesso impastato con pietrisco, nummoliti, cocci. All'interno delle case, per lo più di tipo mononucleare come sembrano indicare le limitate dimensioni (in media m 5 x 6), talvolta sono state individuate tracce di tramezzi lignei a suddividere spazi funzionali. Non mancano modelli più complessi. A Montebello ad esempio, in una casa di dimensioni insolitamente ampie, è stato riconosciuto un settore destinato alla lavorazione del bronzo (con ritagli di lamina e goccioline di fusione); in un'altra un vano per la modellatura della ceramica (con vasi ancora crudi e un recipiente con degrassante), annesso impianto idraulico costituito da una canaletta posta sotto al pavimento e comunicante con una vasca esterna e con una cisterna scavata nella roccia. A Santorso è stato messo in luce un complesso impianto edilizio articolato in più ambienti, in uno dei quali erano evidenti i resti di un grande telaio verticale di legno, distrutto dal fuoco, così da far pensare ad una sorta di quartiere artigianale per filatura/tessitura. Le case presentano in genere un ingresso rivolto a valle; selciati ed altri apprestamenti esterni denotano una certa « pianificazione urbanistica ». Scarsi e di modesta qualità sono in genere i materiali che si possono recuperare in un abitato protostorico: vasellame di uso quotidiano, da fuoco, da cucina, da mensa, contenitori da derrate; ben pochi gli oggetti bronzei, dal momento che dovevano essere a lungo riutilizzati e rifusi. Una notevole documentazione viene dalle fosse di scarico annesse alle abitazioni, veri e propri immondezzai, dove i resti di stoviglie offrono un'efficace campionatura tipo-cronologica che, integrata con i più ricchi dati offerti dalle necropoli, risulta oltremodo utile per l'inquadramento dell'arco di vita di un sito; gli utensili, purtroppo sempre molto scarsi, i resti di pasto, ossa animali e semi vegetali possono inoltre permettere di ricostruire l'economia di sussistenza, le attività domestiche primarie, il regime alimentare. Su quest'ultimo argomento molta è ancora la strada da percorrere dato che solo negli ultimi anni si è posta particolare attenzione allo studio ed alla classificazione dei resti ossei, alla raccolta di campioni per esami paleobotanici, palinologici, paleozoologici. Uno dei settori più carenti nell'archeologia di abitato è quello relativo ali' individuazione delle infrastrutture e delle aree produttive, soprattutto quelle altamente specializzate che dovevano essere esercitate al di fuori dello stretto ambito domestico. La lacuna relativa all'età del ferro è tanto più vistosa se comparata al-

74 la potenzialità di informazioni offerte dagli abitati di Bronzo finale (basti solo ricordare le macroscopiche evidenze fomite da Frattesina e Montagnana). All'obiettiva difficoltà nell'individuazione delle « officine » per la scarsa riconoscibilità degli indicatori specifici, per la relativa inconsistenza delle infrastrutture, per l'elevato grado di rielaborazione/trasformazione che i depositi possono aver subito in un abitato di plurisecolare durata, si aggiunge certo, per quanto riguarda i centri primari dell'età del ferro, la mancanza di scavi estensivi nonché la probabile dislocazione periferica degli impianti produttivi, che ne può rendere ulteriormente difficile l'identificazione. È comunque importante rilevare che la messa a punto di indagini « mirate » ha portato negli ultimi anni anche su questo fronte ad un notevole salto qualitativo, come risulta da alcune ricerche-campione condotte nel Vicentino, dalle quali, proprio grazie al raffinarsi delle metodologie di indagine/raccolta, sono emersi indicatori estremamente utili. A Santorso ad esempio sono state individuate aree connesse ad attività legate alla trasformazione dei metalli, alla lavorazione del ferro e del rame-bronzo; altre simili sembrano riconoscibili a Montebello, a Rotzo, ad Oderzo, facendo intravedere la possibilità di elaborare modelli pratico-teorici da applicare su più ampia scala non solo a livello di scavi sistematici ma anche a livello di rilettura dei vecchi ritrovamenti. Pur nella carenza dei dati e nei limiti derivanti dall'assenza di scavi in estensione, non mancano indizi di una progettualità insediativa, per lo meno per quanto riguarda i centri primari. Prima constatazione, seppur banale per la sua generalizzata, ovvia e spontanea applicazione, è che tutti gli abitati risultano ubicati in posizioni strategiche di controllo degli assi di comunicazione, terrestri e soprattutto fluviali. Alcuni sembrano inoltre confermare quella caratteristica che già aveva colpito Strabone laddove sottolineava la presenza, nel Veneto, di città che« sono delle vere e proprie isole, altre sono solo in parte circondate dalle acque» (Strabo, v, 1, 5 = Voltan 973). Este e Padova costituiscono al proposito i campioni più attendibili. Ambedue non solo sorsero lungo importanti arterie fluviali, rispettivamente l'Adige e il Brenta, ma, come più avanti vedremo nel dettaglio, sembrano racchiuse dalle anse, controanse, rami secondari dei fiumi stessi, assumendo appunto l'aspetto di « vere e proprie isole». Anche a Vicenza, per quanto ancora poco estese siano le indagini, l'abitato sembra delimitato a sud dal Retrone e a nord-est dall'Astico, racchiuso dunque entro uno

75 spazio fluviale; a Concordia scavi recenti hanno individuato l'abitato preromano impostato su un dosso compreso tra due rami fluviali; analogamente Treviso sorse sul Sile, Oderzo sul Livenza, Altino in un vasto spazio idrografico-lagunare tra il Sile/Piave ed il mare. E quasi in una sintomatica continuità di modelli, la Verona romana, nel suo regolare impianto a scacchiera di epoca tardorepubblicana, nacque all'interno di una grande ansa dell' Adige con un disegno che ricorda molto Padova. Città d'acqua e dall'acqua collegate al territorio, secondo un modello che continuerà e sarà esaltato da Venezia: se questa sembra la situazione tipica di pianura, certo sarà possibile con il prosieguo delle ricerche individuare altri modelli di impianto in zone diverse, come già si intravede per il comparto collinare. Difficile è ricostruire lo sviluppo interno, diacronico, delle « città », data l'impossibilità di effettuare mappature complete, areali e stratigrafiche, al di sotto degli attuali centri storici. Ciò nonostante, sempre basandoci su quanto deducibile dai due maggiori centri di pianura, Este e Padova, sembra che da un'originaria distribuzione per gruppi sparsi quasi « a macchie di leopardo », certo corrispondenti ad aggregazioni di tipo tribale-parentelare, si passi, per un ampliamento a « macchia d'olio» degli stessi, ad insediamenti di notevole continuità e consistenza. Interventi « urbanistici » indicativi di una progettualità organica già a partire dal primo impianto dell'abitato all'inizio dell'età del ferro sono stati recentemente riconosciuti ad Oderzo. Particolare interesse rivestono la generalizzata sistemazione dell'area abitativa, con processi di innalzamento artificiale delle quote d'uso che si ripropongono diacronicamente secondo una modellistica ricorrente nelle stratificazioni urbane, la dislocazione degli scarichi con contenuti differenziati, nonché l'esistenza di un imponente tracciato stradale solidale all'impianto dell'abitato. È questa la prima evidenza, e non solo per il Veneto ma anche a livello extraregionale, di una strada protostorica« costruita », con evidenti e ripetuti episodi di manutenzione e ripristino della pavimentazione e con conseguente cambiamento nelle tecniche e nei materiali usati nelle diverse fasi, ma anche con la presenza di infrastrutture funzionali alla strada stessa, quali le canalette di scolo per il deflusso delle acque. Sempre nell'ambito di un'ampia progettualità rientra l'ubicazione prospiciente la strada di impianti produttivo-artigianali, in particolare connessi con la lavorazione del ferro. Altra tematica da approfondire è il rapporto tra città dei vivi e

76 città dei morti. Se come di norma in tutto il mondo antico le tombe si trovano all'esterno dell'abitato, nella scelta delle aree da dedicare ai defunti emergono, come vedremo, alcune costanti che andrebbero sottoposte a verifica: non privo di significato appare ad esempio il fatto che tanto ad Este quanto a Padova le necropoli si trovino distribuite lungo i corsi d'acqua in uscita dalla città, mentre priva di testimonianze risulta l'area occidentale. Sembrerebbe quasi emergere un preciso disegno secondo il quale i defunti nel loro ultimo viaggio venivano accompagnati fuori della città, lungo il fiume portante, seguendolo o attraversandolo. Grazie all'applicazione delle più innovative metodologie di indagine mutuate dalla geografia economica (teoria del luogo centrale, regola del rango di estensione, analisi delle aree di sfruttamento, modelli di gravità ecc.) si vanno infine cogliendo le relazioni tra centri primari e centri secondari, nonché il rapporto tra abitato e territorio. La potenzialità dei dati emersi in questi ultimi anni, la quantità e la portata dei quesiti ancora aperti fanno ben percepire come una delle scelte di politica scientifica da potenziare sia proprio quella dell'archeologia di abitato, analogamente a quanto si sta verificando, seppur ancora lentamente ed episodicamente ma con risultati di grande successo, in vari ambienti dell'Italia protostorica.

2. Le necropoli Se negli « anni ruggenti » di scoperta delle civiltà preromane del1'Italia, tra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, le ricerche furono concentrate sullo scavo delle necropoli, ciò non va imputato solo alla più ricca e consistente documentazione materiale offerta dalle tombe rispetto agli abitati, come già detto, ma anche al fatto che l'ubicazione esterna e periferica delle aree cimiteriali ne ha permesso una maggiore conservazione, per lo meno fino all'esasperato ampliarsi dei moderni centri urbani, favorendo quindi la possibilità di indagini estensive. Le tombe inoltre, per la loro caratteristica di complessi chiusi ad alta concentrazione e campionatura di materiali, offrivano il terreno più adatto per svolgere quelle indagini di carattere tipo-cronologico indispensabili per giungere ad un inquadramento delle nuove facies culturali che andavano via via emergendo. Ed anche quando, in anni più recenti, cominciò a manifestarsi una reazione agli

77 studi strettamente tipo-cronologici, furono sempre le tombe a costituire il campo più fervido per le nuove indagini socio-economico-antropologico-comportamentali maturate a partire dagli anni '70 sulla scia delle tematiche introdotte da L.R. Binford, che evidenziando l'esistenza di una stretta correlazione tra il sistema funerario e la complessità dell'organizzazione sociale hanno dato inizio ad una specifica branca di ricerca, l '« archeologia della morte». Se molta è la strada compiuta in questo settore negli ultimi anni, molto ancora ci sfugge delle pratiche funerarie e dei loro riflessi « di vita» nell'ambito della società veneta preromana. Ci mancano anzitutto le narrazioni scritte, nonché quelle figurate su vasi o pitture tombali - che concorrono a fornire una più precisa conoscenza dei rituali in altre società, ad esempio la greca o l'etrusca. Nulla per esempio resta documentato di quanto accadeva prima e al di fuori della vera e propria sepoltura: dalla composizione della salma alle pratiche di esposizione/lamentazione funebre, al banchetto, al rogo finale, agli invitati alla cerimonia. Tutte le nostre ipotesi si basano esclusivamente sui dati archeologici per i quali all'intrinseco limite costituito da quanto possono svelare o velare si aggiunge un ulteriore limite derivante in primo luogo dalla carenza di documentazione sistematica non solo dei materiali, ma anche di quel patrimonio di informazioni racchiuso negli archivi (giornali di scavo, planimetrie, disegni, rilievi), carenza alla quale solo in questi ultimi anni si è cominciato ad ovviare con una serie di lavori di ampia sintesi e, soprattutto, con l'avvio di edizioni integrali e sistematiche dei complessi di scavo. Per il momento abbiamo acquisito solo alcune macroscopiche evidenze, ma la quantità dei quesiti aperti risulta direttamente proporzionale alla dinamica innovativa della ricerca, cosl come è giusto riconoscere che molte domande saranno inevitabilmente destinate a rimanere senza risposta perché è illogico costruire risposte laddove manchi un'esauriente documentazione. Rito comunemente praticato dai Veneti fu la cremazione, ma ci sfugge dove e come il corpo veniva bruciato: poche sono infatti le aree-ustrino identificate, ragion per cui non sempre è possibile stabilire se esistessero ambienti specializzati all'interno delle necropoli o se piuttosto non si trattasse di roghi elevati nei pressi stessi della tomba, destinati a scomparire nell'arco di un breve tempo o comunque a lasciare tracce difficilmente leggibili. Uguai mente nulla sappiamo di come il morto venisse deposto sul rogo, anche se è ipotizzabile la presenza di un« letto » di legno,

78 vimini, stoffa, di cui ovviamente non resta traccia. Solo di recente è stato avviato un sistematico studio antropologico-medico sui resti dei cremati che, oltre a suggerire l'identificazione del sesso, della classe di età, delle caratteristiche antropologiche e paleopatologiche dell'individuo in vita, prospetta un più vasto potenziale informativo: dal trattamento dopo la cremazione (ossilegio, lavaggio, frantumazione dei resti) alla posizione del corpo sulla pira, alla temperatura di combustione, al calcolo della quantità di legname impiegato, fino all'ipotesi suggestiva di un rapporto tra il grado di cremazione raggiunto e lo status dell'individuo, con la possibilità di istituire dei parametri tra rango/ ruolo e spesa energetica della comunità in occasione dei funerali. I defunti dovevano essere deposti sulla pira vestiti ed adornati più o meno riccamente a seconda del loro stato sociale, ma anche in questo settore mancano indagini sistematiche per valutare quali e quanti dei materiali di ornamento/abbigliamento siano stati effettivamente esposti al fuoco assieme al cadavere, e quindi effettivamente indossati dal morto, rispetto ad altri che potevano essere offerti secondariamente nel processo, certo lungo e complesso, della cremazione e delle cerimonie collaterali. Le ossa combuste, gli oggetti bruciati assieme al corpo o dedicati nel corso della cerimonia venivano accuratamente deposti all'interno di un vaso-ossuario, o all'esterno dello stesso, secondo modalità e procedure che non sempre è facile decodificare: prevalentemente all'interno degli ossuari sembrano trovare posto gli oggetti di ornamento/abbigliamento, mentre all'esterno dovevano essere principalmente deposti alcuni macroscopici indicatori di sesso nonché materiali alludenti all'attività svolta dall'individuo o al suo rango/ruolo nell'ambito della comunità. Tracce di tessuto rilevate talvolta all'interno degli ossuari fanno pensare che le ossa fossero avvolte in un panno, secondo un cerimoniale ben documentato in vari ambienti culturali, dalla Grecia alla Campania, al Lazio, all'Etruria, ed attestato dalle fonti a cominciare dai complessi funerali eroici descritti da Omero. Resti di tessuti rinvenuti all'esterno degli ossuari portano invece a pensare che, per lo meno in alcuni casi, e probabilmente nel caso di defunti emergenti, l'ossuario fosse rivestito da un telo, o forse anche da uno degli abiti del defunto, sul quale potevano essere appuntati oggetti di ornamento per una voluta ed estrema antropomorfizzazione dell'ossuario che veniva così a riproporre simbolicamente l'integrità stessa del defunto distrutta dalla cremazione. Indagini di tipo stratigrafico-postdeposizionale avviate in

79 questi ultimi anni potranno inoltre fornire dati sull'organizzazione dello spazio interno della tomba, sulla possibile, e probabile, presenza di oggetti in materiale deperibile, stoffe, vesti, cesti, « arredi » atti a riprodurre la casa: per questo basti pensare non solo ai clamorosi dati offerti dalle tombe di Verucchio, ma anche alle restrizioni suntuarie imposte dalle XII Tavole, una delle quali riguardava appunto il numero delle vesti che potevano accompagnare il defunto. Agli oggetti personali, agli indicatori di sesso/attività/rango/ ruolo si aggiungevano, in numero ed associazioni assai vari come vedremo, vasi da mensa spesso organizzati in veri e propri « servizi ». Certamente a cerimonie di banchetto/libagione compiute dai vivi in concomitanza con la chiusura della tomba alludono i vasi intenzionalmente rotti che talvolta, e per lo più nel caso di defunti emergenti, si trovano deposti all'esterno della tomba stessa. Più difficile è invece distinguere se i servizi, o i resti di cibo, rinvenuti all'interno delle tombe alludano al banchetto che realmente doveva essere tenuto dai vivi in occasione del funerale, o piuttosto al viatico per il defunto: da approfondire è tra l'altro la differenza rituale sottesa all'offerta di porzioni di cibo cotte piuttosto che crude, così come da valutare è l'eventuale presenza di liquidi. È questo uno dei tanti aspetti che ancora in parte ci sfugge, al di là di alcune macroscopiche evidenze, non solo per la scarsa attenzione spesso attribuita a questi indicatori nel corso dei vecchi scavi, ma anche per l'obiettiva difficoltà di riconoscerli: è chiaro ad esempio che solo moderne analisi condotte sulle argille o sulle terre di riempimento potranno forse evidenziare eventuali contenuti scomparsi nel corso del tempo. La tipologia tombale varia non solo secondo l'epoca ma anche da centro a centro, come vedremo nello specifico, variabilità certo legata al più o meno facile reperimento di materia prima, ma da collegare anche a diverse scelte ideologiche. Sono documentate tombe a pozzetto, cioè in semplici fosse scavate nel terreno, talvolta con lastra di copertura o anche lastra di base; tombe a cassetta in genere di forma quadrangolare, di sfaldature calcaree più o meno regolari e più o meno accuratamente connesse; tombe a cassetta lignea; tombe a dolio, cioè racchiuse in un grande contenitore fittile del tipo per derrate. Quasi sempre presente, sopra o attorno alla tomba, di qualsiasi tipo essa sia, è uno strato più o meno abbondante di terra e carboni derivanti dal rogo, mentre questo non si riscontra mai

80 all'interno degli ossuari confermando una accurata e voluta selezione delle ossa. Raffinate indagini compiute in occasione di scavi recenti vanno sempre più evidenziando la pratica diffusa di riapertura delle cassette finalizzata all'introduzione di nuove deposizioni, fatto spesso comprovato da sottilissimi depositi di decantazione idrica che segnalano pause cronologiche tra la deposizione dei vari ossuari. Tale pratica risulta ovviamente più frequente nel caso di tombe ad elevato grado di complessità, e di cassette di grandi dimensioni, progettate cioè fin dall'origine con una notevole capacità volumetrica, probabilmente per accogliere nuclei familiari emergenti. Altre volte si è invece notato un ampliamento della primitiva cassetta, o la giustapposizione di una seconda, sempre con l'intento di creare delle vere e proprie tombe di famiglia. Sulla base dei materiali presenti in una sepoltura, la loro ricorrente associazione, le costanti ed ancor più le diversità, è possibile acquisire alcune evidenze minimali, in primo luogo per quanto riguarda le stratificazioni verticali (rango, ruolo, status) ed orizzontali (sesso e classi di età). La presenza di corredi« ricchi » e di corredi « poveri » già a partire dalla metà dell'vm secolo a. C. in quasi tutte le necropoli del Veneto permette ad esempio di prospettare una società già da quest'epoca organizzata per classi, secondo strutture di tipo pre-protourbano: ma perché questi dati acquistino significanza precisa bisogna addentrarsi nel campo ben più ambiguo dell'ideologia e della ritualità, capire - o cercare di intuire - cosa fa scegliere taluni indicatori di rango/ruolo piuttosto che altri, quali valenze diverse essi possono assumere nel diverso disporsi all'interno del singolo spazio funerario, analizzare come si organizza l'intero spazio necropolare, quali sono i legami parentelari e/o sociali che vengono evidenziati. Ugualmente, se ben definiti sono alcuni parametri fondamentali per distinguere le sepolture maschili dalle femminili, e ciò in base alle parures personali rispetto alle quali il mondo veneto mostra di allinearsi in larga misura alle mode diffuse in altri ambienti protostorici italiani, non mancano tuttavia le novità e le differenze. Allargando le nostre basi di indagine, con la revisione completa dei corredi di vecchio scavo e con i dati degli scavi recenti, si potranno cogliere quelle sfumature che consentiranno di passare da modelli generali ad una più puntuale definizione; così come necessita di essere ancora approfondito il problema se alcune differenze siano da imputare a mode locali oppure a di-

81 verse trasposizioni simboliche, a livello ideologico-funerario, di alcune classi di oggetti. Tra i problemi indubbiamente da affinare è ad esempio la presenza di« oggetti di sesso diverso», o l'uso di particolari materiali-indicatori di età o di stato (la donna sposata rispetto alla fanciulla, i ruoli « di funzione » anche all'interno di uno stesso nucleo ecc.). Ancora molto fluido nell'ambito delle stratificazioni orizzontali è anche il tema delle sepolture di bambini. Un punto di partenza è dato da quelle tombe per le quali i vecchi rapporti di scavo parlano di « poche ed esili ossa»; qualcosa sembra di poter intuire per certe tombe in cui viene impiegato come ossuario un vaso di foggia particolare, l'olla più o meno piccola, o nelle quali si trovano oggetti di ornamento/abbigliamento di dimensioni ridotte, oppure vasi d'accompagno di tipo miniaturistico. Ma per andare più oltre in una definizione di classi d'età, alle quali rapportare specifici indicatori ideologici, bisogna certo che, ad una rielaborazione totale e sistematica dei dati, si aggiunga l'apporto di analisi di altro tipo, prima fra tutte quella osteologica: ricerche in tal senso sono state da poco avviate, ma poiché esse hanno validità solo se condotte su campionature controllate, e quindi per lo più relative a scavi recenti, ci vorrà ancora del tempo per disporre di quelle griglie informative nelle quali inserire i dati deducibili dai meno sicuri corredi di vecchia acquisizione. Dalle stesse indagini osteologiche, oltre che da sempre più perfezionate ricerche di tipo microstratigrafico-postdeposizionale, potranno venire ulteriori suggerimenti per quanto riguarda altri problemi di ritualità funeraria. Che cosa significa ad esempio la raccolta dei resti di più defunti in uno stesso ossuario, usanza che sempre più si sta rivelando diffusa nelle tombe venete? Non credo al sacrificio umano, e soprattutto non credo ad un suo uso generalizzato non solo nel rapporto di coppia ma anche in altri rapporti di consanguineità (madre e figli, fratelli ecc.): penso piuttosto - anche se può sembrare una soluzione semplicistica che non doveva essere infrequente l'evento di morti quasi simultanee, per epidemie o anche semplici malattie contagiose, all'interno di un singolo nucleo familiare. Ma ancora più spesso credo che si tratti di fatti rituali, di una aggiunta posteriore delle ossa di un secondo individuo a quelle di un defunto precedente legato da particolari vincoli di parentela, in una sorta di riunificazione post mortem: largamente diffusa risulta d'altra parte la pratica di riapertura delle cassette, come già detto. In quest'ottica potrebbero

82 prendere giustificazione alcuni casi altrimenti inspiegabili, ad esempio il trovare un ossuario con due coperchi, o un vaso vuoto di ossa e volutamente deposto rovesciato accanto ali' ossuario che contiene magari proprio due individui, o la presenza in uno stesso ossuario di materiali cronologicamente incoerenti. Un altro campo di indagine che si sta prospettando foriero di grandi novità riguarda l'organizzazione spaziale interna delle necropoli e la presenza di infrastrutture, il che può essere estremamente utile anche per integrare i dati molto più scarsi relativi agli abitati, dal momento che la città dei morti doveva essere una più o meno fedele riproduzione della città dei vivi. Già A. Prosdocimi nel corso dei suoi estensivi scavi delle necropoli di Este aveva notato la presenza di « recinti » ottenuti con sfaldature calcaree infisse verticalmente nel terreno ed aveva supposto che « servissero a dividere nelle necropoli le caste e le famiglie ,. . Oltre a questi « recinti interni » aveva inoltre rilevato in quasi tutte le aree resti di mura spesse fino a 60 cm, costruite con detriti calcarei sovrapposti « senza legatura di cemento, ma così ben aggiustate tra loro, che solo si poterono demolire a colpi di piccone », interpretandole come limiti perimetrali della necropoli stessa « poiché praticati saggi fuori di questi, non rinvenni traccia alcuna di tombe ,. . In uno di questi recinti esterni era ancora identificabile una porta di ingresso « formata di due rozze colonne di macigno ,. , così come evidente risultava l'esistenza di stradine in battuto o in scaglia, a collegare i vari settori della necropoli. Queste evidenze sono confermate dagli scavi attualmente in corso proprio ad Este, mentre numerosi nuovi dati vengono ancor più a sottolineare l'esistenza di una vera e propria progettualità « urbanistica » della città dei morti. Per quanto riguarda i circoli interni, ad esempio, è stato riscontrato che mentre quelli più antichi hanno dimensioni limitate e sembrano riferibili a gruppi familiari ristretti, per lo meno a partire dal v1 secolo a.e. le dimensioni diventano sempre più ampie, con un maggior numero di tombe distribuite in maniera quasi gerarchica, denotando il progressivo ampliarsi e trasformarsi del gruppo sociale. Dal v secolo il sistema dei grandi circoli cede il posto a nuovi modelli di assetto, con aggregazioni sempre più fitte di tombe, con cassette di grandi dimensioni contenenti un notevole numero di ossuari: il cambiamento non può essere giustificato solo pensando ad una progressiva mancanza di spazi liberi da adibire a necropoli, ma riflette certo anche una diversa organizzazione so-

83 ciale di tipo gentilizio più allargato. Solo lo scavo completo delle tombe e l'analisi dei materiali consentiranno di individuare le modalità ideologiche sottese alle diverse gerarchie, se per rango/ ruolo, per classi di età, per rapporti parentelari e/o clientelari, o altro, aiutandoci a comprendere meglio anche la società dei vivi. Altra novità di rilievo è l'aver individuato una ricorrente sequenza interna nelle fasi di accrescimento della necropoli, da un riporto intenzionale di deposito sedimentario in corrispondenza di un'area predeterminata, alt' infissione in questo deposito di elementi strutturali a delimitare l'area, alla formazione di piani di calpestio sui quali venivano praticate le incisioni delle fosse che dovevano contenere le tombe, alla positura di cumuli di terra di rogo e di coperture sedimentarie (piccoli tumuli) che dovevano non solo ricoprire ma anche segnalare le sepolture. Una sicura progettualità nell'organizzazione degli spazi cimiteriali rivelano scavi recenti anche al di fuori di Este, ad esempio a Padova, con analogie e differenze ancora in gran parte da valutare. Per l'ampiezza delle aree sistematicamente indagate, per l'elevato numero delle tombe raccolte, per l'excursus cronologico che praticamente copre l'intero arco della civiltà veneta, saranno proprio gli scavi in corso ad Este e a Padova a fornire la risposta ai molti quesiti ancora aperti, alle problematiche spesso solo intraviste, consentendo di approfondire le modalità rituali, sincroniche e diacroniche, all'interno di una stessa necropoli nonché le differenze tra i due centri che, in quanto siti egemoni, possono funzionare da cartina di tornasole per un più ampio areale. Problema ancora aperto è la presenza, in numerose necropoli venete, di un certo numero di inumati, in una proporzione che sembra incrementarsi nella seconda età del ferro, cioè dal v1-v secolo, pur rimanendo sempre primario il rito dell'incinerazione. Ormai superata la primitiva ipotesi che gli inumati fossero schiavi sacrificati sulla tomba del padrone, resta il fatto che si tratta di sepolture in genere prive di corredo o con corredo molto povero, per cui sarà da verificare con più ampie campionature se si tratti di ranghi servili o di modesti gruppi alloctoni provenienti da aree culturali dove si praticava l'inumazione (quali ad esempio i limitrofi territori etrusco-padano e celtico), o di ambedue i casi. Ancora difficile è infine dare esauriente risposta, per il momento, alla presenza di sepolture di cavalli nelle necropoli umane, presenza sempre più evidente, e quindi sempre più pregnan-

84 te, da Este a Padova, ad Altino, ad Oderzo. Se quasi banale è il richiamo alla fama dei Veneti allevatori di razze pregiate di cavalli, più volte ricorrente nelle fonti, andranno meglio indagati sia il dato cronologico sia quello cultuale-rituale. L'usanza sembra particolarmente diffusa nella seconda età del ferro e mostra un notevole campo di variabilità: da semplici ed isolate sepolture di cavalli senza una precisa connessione con gli uomini, all'intera necropoli di cavalli recentemente rinvenuta ad Este, alle sepolture solidali di uomo e cavallo. Di quest'ultimo aspetto rituale abbiamo due esempi recenti a Padova, ancora in fase di studio, dove tra l'altro colpisce l'assoluta diversità: nella necropoli del Piovego un cavallo con evidenti tracce di morte cruenta appare quasi brutalmente gettato nella fossa mentre sulla sua schiena era stato accuratamente deposto il corpo di un giovane ventenne; nella necropoli di via San Massimo il cavallo è invece volutamente composto su un fianco con le zampe ben tese, mentre l'uomo dà l'impressione di essere stato sistemato in posizione subalterna, tutto contorto tra le zampe dell'animale. La varietà e la complessità dei problemi ancora aperti ben evidenziano che anche nel campo dell'archeologia della morte, certo uno dei settori di ricerca più avanzati, è necessario continuare ad affinare nuove metodologie di ricerca, tecniche, teoriche, pratiche, come si sta facendo in questi ultimi anni: è certo infatti che la vita dei Veneti è in gran parte ricostruibile solo attraverso la loro morte, secondo un paradigma applicabile per altro a tutte le società protostoriche per le quali mancano le « voci » e i documenti scritti.

3. / luoghi di culto Lo studio dei complessi pre-protostorici riferibili alla sfera del culto costituisce un campo di ricerca che ha visto un notevole rinnovamento in questi ultimi anni, trovando fecondi impulsi nell'ambito della cultura anglosassone: si devono infatti a C. Renfrew alcune tra le più stimolanti teorie sui ceremonial centres e sull'« archeologia del culto». Notevoli sono comunque ancora i limiti della ricerca e numerosi i problemi aperti derivanti anzitutto da un'intrinseca difficoltà interpretativa; basti pensare al fatto che praticamente nulla conosciamo delle divinità, delle modalità del culto, dell'organizzazione della classe sacerdotale, di tutte le attività che si dovevano svolgere nei luoghi sacri. Ne de-

85 rivano sostanzialmente, come sottolineato da Renfrew, due opposte tendenze di studio: da un lato un drastico scetticismo con un aprioristico rifiuto di ogni sforzo interpretativo, dall'altro un'eccessiva esaltazione che sfocia in ricostruzioni estremamente accattivanti ma spesso non rispondenti all'effettivo stato della documentazione. A ciò bisogna aggiungere che solo recentemente sono state avviate in Italia imprese di edizione sistematica dei materiali, finora per lo più inediti o pubblicati in maniera incompleta e selettiva. E solo quando si potrà disporre della totalità dei dati, dai più nobili ai più modesti, dai manufatti ai resti delle offerte in natura, con la possibilità di allargare la ricerca ad indagini trasversali, dai santuari alle necropoli agli abitati, da uno stesso sito a più siti anche culturalmente diversi, solo allora si potrà sperare di poter dare una più adeguata risposta ad un tema così sfuggente come è senza dubbio quello del rapporto tra uomo e divinità, tra immanente e trascendente. Risale al 1880 la scoperta del primo centro di culto veneto preromano, individuato ad Este: da allora ad oggi numerosi ritrovamenti hanno notevolmente ampliato il quadro delle nostre conoscenze, come vedremo nel capitolo specifico, fornendo una documentazione di un livello quantitativo e qualitativo sicuramente unico in tutta l'Italia settentrionale. Non può non colpire al proposito l'evidente sproporzione tra l' Etruria padana, per la quale anche recentemente è stata sottolineata la situazione documentaria estremamente povera e carente, limitata a circa trecento bronzetti rinvenuti in oltre cinquanta località, e le migliaia di materiali votivi restituiti da meno della metà di siti veneti (ventitré risultano in un recente computo, ma assai inferiore è il numero di quelli che possono essere considerati veri e propri « luoghi di culto » e non semplici attestazioni di sporadici « atti di culto »). Ad una documentazione materiale decisamente ricca e varia si contrappone un livello informativo assolutamente modesto: praticamente nulla ci ha lasciato in proposito la tradizione storiografica ed ogni nostra possibilità di ricostruzione si deve basare solo sui dati archeologici. E se sempre difficile è il passaggio dal manufatto all'historia, ancor più difficile è un approccio di tipo esclusivamente archeologico e materiale alla sfera ideologicospeculativa del sacro. Un primo problema riguarda ad esempio la terminologia, e ciò non solo nel Veneto ma un po' dovunque, mancando ancora una approfondita discussione sul contenuto preciso da attribuire ai

86 termini« santuario », « luogo di culto », « stipe », « deposito votivo». Per }'Etruria propria, ad esempio, G. Colonna definisce « santuario » « prima di tutto un lotto di terreno, che la comunità assegna al dio perché vi abiti. In quanto tale, esso è delimitato da confini (tular) ben visibili, di norma segnalati da un muro [ ... ] o soltanto da cippi», mentre per }'Etruria settentrionale ed appenninica osserva che « a segnalare l'esistenza di santuari stanno quasi sempre i soli depositi votivi, che possiamo senz'altro chiamare stipi, in quanto composti prevalentemente da oggetti bronzei o comunque metallici, conservanti un reale valore premonetale ». In un recente lavoro di sintesi sistematica sul Veneto, non proponibile viene giudicato il termine « santuario », data l'assenza di strutture monumentali; per i complessi di ampia evidenza quantitativa, con continuità di frequentazione, è adottato il termine « luogo di culto »; con « stipe votiva, complesso votivo, deposito votivo », si indicano insiemi di oggetti la cui deposizione può essere o no unitaria (Pascucci). Seppur l'argomento necessiti di un più ampio dibattito, ritengo che in molti casi sia estensibile anche al Veneto la definizione di « santuario » in quanto spazio in qualche modo definito, segnato, strutturato, nel senso cioè suggerito da Colonna. Ad Este come a Vicenza la presenza di strutture di contenimento fa supporre che lo spazio sacro fosse fin dal primo impianto delimitato da mura (come del resto le necropoli); a Magrè, a Trissino, a Villa di Villa, aree artificialmente ricavate sui pendii collinari richiamano analoghi impianti costruttivi adottati per le abitazioni d'altura; a San Pietro Montagnon è ipotizzabile con sufficiente sicurezza una struttura posta al centro del laghetto termale; a Padova come a Vicenza, e forse ad Oderzo, non manca l'attestazione, anche linguistica, di cippi terminali posti a delimitare aree sacre. Ma su questo e su altri caratteri intrinseci che consentano di parlare di veri e propri santuari torneremo nel capitolo specifico. Quanto al termine « stipe », esso risulta di accezione ancora più ambigua, applicato ad insiemi, e a situazioni cultuali, diversi sia per composizione che per modalità di deposizione: da quelli che sono semplicemente la testimonianza archeologica di una lunga frequentazione e il risultato di reiterate offerte dei devoti (e quindi forse meglio definibili come « depositi » - in senso strettamente archeologico - di materiali votivi riferibili a « luoghi di culto » o « santuari »); a quelli per i quali si può pensare ad un effettivo accumulo intenzionale di oggetti votivi per ragioni di spazio, sul

87 tipo quindi delle favisse; a quelli che risultano legati ad un unico, occasionale, atto di offerta. Meglio sarebbe forse limitare il termine « stipe » ai depositi intenzionali relativamente unitari sul piano dei contenuti (anche se non esclusivamente nell'accezione premonetale suggerita da Colonna e dalla più stretta etimologia del termine) o riflettenti un episodio unitario di offerta (caso tipico le stipi domestiche di Padova), adottando la più generica definizione di « complesso o deposito votivo » laddove non esistano i termini per una puntuale interpretazione. Al di là della terminologia, uno dei maggiori condizionamenti allo studio ed alla valutazione di quanto attiene alla sfera del culto è rappresentato nel Veneto dal fatto che nella quasi totalità dei casi la documentazione risulta incompleta e disomogenea: nessun complesso è stato indagato stratigraficamente e i materiali provengono per lo più da raccolte indiscriminate, e certo anche selettive, effettuate tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro da parte dei proprietari dei terreni (tali ad esempio i casi di Este-Baratella, San Pietro Montagnon), o in situazioni di recupero occasionale (Vicenza); altre volte, seppur in presenza di scavi controllati, i materiali non sono stati rinvenuti in giacitura primaria ma accumulati per dilavamento o sconvolgimenti di altro genere (Este-Caldevigo, Villa di Villa, Lagole). Assai difficile risulta di conseguenza un preciso inquadramento cronologico, soprattutto per quegli oggetti - e sono i più - che non trovano riscontro nelle tombe o negli abitati, ad esempio bronzetti e lamine figurate sinora valutati solo su base stilistica. Il discorso ovviamente si complica in presenza di tipi schematici o ripetitivi, per la difficoltà di stabilire se materiali apparentemente simili siano anche contemporanei, o quanto invece non possa entrare in gioco quel conservatorismo iconografico-tipologico insito nella pratica religiosa: ne deriva nella maggior parte dei casi un inquadramento assolutamente generico che abbraccia un ampio arco di tempo (spesso tra il ve il m secolo a.C.). •Ma che cosa ci resta concretamente dei luoghi di culto e delle manifestazioni religiose dei Veneti? Non certo vere e proprie strutture templari, e ciò in ovvio rapporto con l'assenza di forme architettoniche stabili, in materiali non deperibili, anche nell'edilizia domestica: esistono comunque molteplici indizi per pensare, come già accennato, a spazi in qualche modo delimitati/segnati, che si trattasse sia di separare l'area cultuale dall'abitato sia di delimitarla rispetto all'ambiente naturale circostante. Quanto alla pratica ed alla liturgia, quasi tutto ci sfugge ed il

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nostro patrimonio di informazioni si riduce ai soli esiti finali, agli anathémata, gli oggetti votati o sacrificati, con un ulteriore limite rappresentato dal fatto che è praticamente impossibile entrare nella loro microstoria, distinguere cioè tra gli ex voto legati ad una richiesta di aiuto, un'euchè, un do ut des, oppure ad un ringraziamento, un charistérion, un do quia dedisti, se non anche ad altre e più sfuggenti motivazioni. Si tratta di materiali di tipologia estremamente variabile, dagli oggetti di uso comune a quelli - in genere la maggioranza - creati ad esclusiva destinazione votiva: dall'umile strumento dell'atto di devozione (ad esempio il vasellame miniaturistico da libagione) ai più « costosi » bronzetti, ideale autorappresentazione dei devoti; dalle probabili immagini di atti cerimoniali collettivi (le lamine figurate) all'offerta, reale o simbolica, degli « strumenti del mestiere ». Tra questi ultimi di eccezionale interesse risulta ad Este l'offerta simbolica del « modello » dei prontuari alfabetici, che forniscono, caso unico nell'Italia antica, una precisa testimonianza dei metodi di insegnamento della scrittura, pratica dovunque connessa ai centri di culto data la sua pregnante valenza magica. Ai manufatti si accompagnavano offerte in natura, ma purtroppo è questo un campo al quale fino a poco tempo fa non veniva riservata alcuna attenzione nell'indagine archeologica, per cui molto lacunoso, se non addirittura assente, risulta il campione disponibile. Quale sia invece la potenzialità informativa insita in questo tipo di resti risulta evidente dai più recenti studi: a San Pietro Montagnon ad esempio è documentata una selezionata scelta non solo degli animali da sacrificare (giovani maiali e pecore), ma anche delle porzioni da offrire (per lo più mandibole inferiori); analisi in corso ad Este sono volte a stabilire non solo quali tipi di animali fossero sacrificati, ma quali tipi di cereali, quali legni fossero usati per i sacrifici, se vi fosse una ritualità costante o variabile, con il che si potrebbe anche arrivare a riconoscere atti cerimoniali connessi a precisi momenti stagionali, prospettando tutto un nuovo campo di ricerche sul piano cultuale-rituale. Pur in possesso di una ricchissima documentazione è comunque ancora assai difficile dare una precisa risposta ai più pressanti interrogativi posti dalla moderna « archeologia del culto », in primo luogo quale fosse il ruolo, e il peso, dell'attività religiosa all'interno della struttura sociale. Schematizzando alcune linee di ricerca, in ordine sparso e assolutamente non gerarchico, gli obiettivi dovrebbero essere ri-

89 volti a cercare di capire quali erano i caratteri della/e divinità venerata/e; in quale modo e attraverso quali « segni » si differenziavano le varie categorie/classi sociali di devoti; quali erano, e quanto variamente coinvolgenti sul piano del rango/ruolo, i diversi momenti della pratica liturgica, distinguendo tra riti collettivi ed atti singoli di devozione; quale era il rapporto logisticoistituzionale tra i centri di culto e gli abitati. Per quanto concerne il primo obiettivo, la linguistica rappresenta senza dubbio il livello interpretativo più avanzato, tenuto conto del fatto che proprio dai santuari proviene il più elevato numero di iscrizioni, conservanti tra l'altro nomi ed epiteti della divinità. Quanto ai « segni » tangibili della devozione, dal momento che risulta sicuramente attestata una produzione specialistica che si affianca, quand'anche non soppianta, quella a destinazione funeraria, l'affinamento delle letture interpretative, delle definizioni tipo-cronologiche, l'individuazione dei caratteri costanti e delle differenze, il riconoscimento di officine specifiche contribuiranno certo ad affinare il quadro del composito mondo veneto, in una sorta di analisi delle aree di competenza. Quanto infine al rapporto tra città e luoghi di culto, al di là dei dati topografici che già permettono di individuare aree di culto urbane, suburbane, extraurbane, territoriali, è da valutare quale funzione politico-istituzionale rivestivano i diversi centri di culto, se ristretti ad un piccolo nucleo sociale oppure di tipo comunitario-cittadino o addirittura luogo di confluenza politico-commerciale-militare per genti di un più ampio territorio. Su alcuni aspetti, nei limiti del possibile, cercheremo di soffermarci nel capitolo specifico.

4. La dinamica del popolamento Si è già osservato come, dopo il generalizzato spopolamento che aveva caratterizzato l'inizio del Bronzo finale con l'eccezione di pochi siti di particolare rilievo, tra il x e il 1x secolo a.e. si sia verificata in tutto il territorio veneto una sensibile ripresa del popolamento in forma chiaramente selettiva: insediamenti sparsi e diffusi tra pianura e collina, sulle pendici collinari, sulla sommità delle colline prospicienti la pianura; pochi insediamenti invece, ma in genere molto estesi, in pianura. Più che come un'entità culturale a sé stante, tale fase, coincidente con il cosiddetto I periodo atestino, è ormai quasi unanimemente riconosciuta dagli

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studiosi come ultimo momento dell'aspetto culturale protovillanoviano nella sua caratterizzazione veneta. Seppur con alcune linee interpretative diverse, la « continuità insediativa senza cesure tra età del bronzo e prima età del ferro » è stata recentemente sottolineata da R. Peroni quale elemento differenziante l'Italia settentrionale (e appunto il Veneto), il versante adriatico dell'Italia centrale, il versante tirrenico a sud del Tevere, parte dell'Italia meridionale, rispetto all'area« villanoviana » (il Lazio a nord del Tevere, la Toscana, la Campania, il Bolognese, parte dell'Umbria e dell'Emilia Romagna) caratterizzata invece da una brusca frattura nella continuità di insediamento e dal sorgere improvviso di veri e propri centri protourbani. Il sistema attivato nel Veneto nel x e nel IX secolo registra in effetti un vistoso mutamento solo all'inizio dell'vm, con una dinamica che corrisponde, con un secolo di ritardo, a quella verificatasi in ambito villanoviano: nessuno degli abitati persistenti o attivati nella fase precedente ha infatti significativo esito in VIII secolo, così come nessuno dei nuovi insediamenti denota radici continuative in epoca precedente, mostrando piuttosto un significativo spostamento territoriale. Confermano la regola alcune apparenti eccezioni, ad esempio Angarano, Garda, Frattesina: ad una relativa persistenza di tali siti corrisponde infatti una tipologia materiale esclusivamente rapportabile ad un contesto precedente, tanto da far pensare ad un semplice attardamento. Ancor più significativo appare il caso di Este: i nuclei abitati, anche di notevole estensione, attivi nel x e nel IX secolo lungo la sponda meridionale dell'antico corso dell'Adige (Canevedo, Morlungo), oppure dislocati sulle prime propaggini dei colli (Lozzo), rivelano una sostanziale affinità con i coevi complessi protovillanoviani, e nessuno mostra esito in VIII secolo quando invece si verifica il sorgere del vero e proprio abitato protostorico di Este, che avrà vita ininterrotta e continuità topografica fino ali' epoca romana. Vistoso è lo spostamento centripeto all'interno del corso dell'Adige, lungo la sponda settentrionale, con totale abbandono delle precedenti aree insediative e loro successivo riutilizzo esclusivamente come necropoli esterne all'abitato. L'vm secolo mostra dunque in tutto il Veneto una situazione di notevole cambiamento, caratterizzata dall'interruzione, traumatica o per esaurimento, di tutti gli insediamenti precedenti, da un generale spopolamento sia in pianura che in collina, dal concomitante sorgere di pochi e selezionati centri dove ad una prima fase« implosiva », tesa ad organizzare e strutturare gli abitati di

91 nuovo impianto, segue una fase « esplosiva », con chiara definizione e gestione del territorio di competenza, sia nel senso di campagna organizzata integrativa di un'economia primaria, sia nel senso di un controllo politico-economico a più vasto raggio. Il nuovo assetto territoriale, più che a trasformazioni ambientali ed eco-climatiche (che pure poterono costituire una concausa), è certo da imputare ad una serie di favorevoli condizioni socioeconomiche: l'istituirsi di un diverso rapporto tra abitato e territorio legato a nuove modalità di sfruttamento economico, il potenziamento dell'agricoltura, il progresso tecnologico in campo metallurgico, che portarono al superamento delle precedenti strutture patriarcali e al sorgere di una diversa organizzazione sociale, con chiara differenziazione dei ranghi/ruoli all'interno dei singoli abitati. Anche se mancano ancora nel Veneto estese analisi territoriali paragonabili a quelle condotte ad esempio da F. di Gennaro per l 'Etruria meridionale, non possono comunque sfuggire alcune affinità di « modelli », recepiti, come già detto, con un secolo di ritardo. Nell'Etruria meridionale all'inizio dell'età del ferro (cioè all'aprirsi del IX secolo) si registra una netta riduzione del numero degli insediamenti, che vengono praticamente a coincidere con le future città storiche, con repentino accrescimento delle loro dimensioni in nuclei distinti« a macchie di leopardo ». Nel territorio di controllo di questi grandi centri/comprensori compaiono pochissimi villaggi, posti per lo più ai margini del territorio stesso e su direttrici fluviali-marittime, mentre solo in un secondo momento si assiste ad una progressiva« colonizzazione» dell'agro, con la fondazione di centri minori in chiaro rapporto gerarchico; nessun punto del territorio di competenza dista più di 40 km dal rispettivo centro primario di riferimento, in modo tale che qualsiasi zona era raggiungibile al massimo in una giornata di cammino, anche se « nella maggior parte dei casi si rendeva indispensabile il pernottamento, e dunque una permanenza più o meno prolungata sul luogo di lavoro » (Peroni), nell'ottica di un territorio che serviva come bacino di integrazione economica, agricola, produttiva, artigianale. Simili modelli di occupazione/sfruttamento territoriale mi sembrano proponibili anche per il Veneto. Come primo dato di confronto sottolineerei il fatto che la brusca contrazione insediativa che caratterizza l'inizio dell'vm secolo si definisce chiaramente come una contrazione areale e di assetto territoriale piut-

d I opolamento: Dinamica e Pa.e.,. 8 = vm-vn seco lo a · C. = secolo A

,x

C = vi-metà v secolo a.C.; D = metà v-1 secolo a.C. (da Calzavara-De GuioLeonardi, Il popolamento in epoca protostorica, figg. 17-20)

94 tosto che sostanziale/demografica: al rarefarsi del popolamento fa infatti riscontro il nascere non solo di Este e Padova, future « città » preromane in grado di orientare i rispettivi territori e i diversi interessi economici, ma anche di altri centri comprimari. Intuibile è inoltre un rapporto gerarchico tra i vari insediamenti: maggiori, minori, intermedi, di cerniera ecc. Este nasce sullo stesso paleoalveo atesino sul quale, una quindicina di chilometri ad ovest, era fiorito nel Bronzo finale il grande abitato di Montagnana-Borgo San Zeno, che si esaurisce appunto all'inizio dell'vm secolo e di cui Este sembra una riproposizione. Lo spostamento fu probabilmente dettato da motivazioni di carattere ambientale, quali l'attivarsi, all'inizio dell'età del ferro e proprio nei pressi di Este, di un nuovo ramo dell 'Adige rivolto a sud, che offriva quindi una nuova e diversa potenzialità di controllo verso l'area deltizio-polesana ed il mare. Ulteriore elemento favorevole al sorgere del nuovo insediamento va visto nella presenza dei colli che lo chiudevano alle spalle e che costituivano una naturale protezione e rifugio in caso di calamità (naturali e/o umane), oltre che un'immediata fonte di approvvigionamento di materiale litico e boschivo. Pur con le dovute cautele si potrebbe dunque prospettare per Este un modello analogo a quello collaudato, con l'anticipo di circa un secolo, in ambito villanoviano: aggregazione sinecistica in una zona naturalmente protetta e difesa, in prossimità di risorse primarie, con ampia possibilità di comunicazione fluviale esterna. Ulteriore elemento di confronto è il fatto che il nuovo abitato risulta privo di continuità topografica rispetto ai precedenti nuclei insediativi: abbandonata risulta infatti, come già detto, tutta la zona lungo la sponda meridionale dell'Adige, che viene utilizzata esclusivamente per necropoli esterne al nuovo abitato e da questo separate dal fiume stesso. Motivazioni di ordine prettamente idrografico e di controllo territoriale stanno alla base del concomitante sorgere di Padova, all'interno di un meandro formato dal Meduacus!Brenta, nel punto in cui il fiume si avvicinava al Retrone/Bacchiglione, in posizione quindi estremamente favorevole per controllare un nodo fluviale, aperta ad est verso la laguna e il mare, a nord verso il territorio collinare a vocazione pastorale-boschiva e quindi indispensabile polmone integrativo dell'economia primaria, nonché sulle direttrici di approvvigionamento metallurgico rappresentate dai distretti minerari alto-vicentino, trentino e transalpino. A differenza di Este per la quale si può prospettare un processo forma-

95 tivo di tipo sinecistico, Padova sembra sorgere in una zona praticamente disabitata, venendo ad attivare un nuovo areale. Sintomatica eco del formarsi di queste nuove linee di forza, aperte da un lato verso le emergenze culturali villanoviane, dal1'altro verso le potenzialità rappresentate dai mercati hallstattiani, è il conseguente assetto del territorio che sembra riprodurre i modelli proposti per l 'Etruria meridionale. I centri comprimari (o sub-primari) rispetto ad Este e Padova risultano infatti significativamente distribuiti lungo i principali assi fluviali e tutti collocati in punti nodali: si tratta di un numero relativamente limitato di grandi insediamenti (distanti tra loro dai trenta ai cinquanta chilometri) che tra VIII e vn secolo assumono un ruolo di siti centrali; tra essi si distribuiscono pochi centri minori di raccordo, a distanza più ravvicinata. Mentre totalmente abbandonata risulta la zona delle Valli Grandi Veronesi, che aveva avuto un ruolo primario nel Bronzo finale e fino all'inizio dell'età del ferro, il limite« storico» meridionale del territorio veneto sembra ora stabilizzarsi lungo la linea Este-Gazzo Veronese: una pista terrestre già attiva in quest'epoca lungo l'attuale strada statale Padana Inferiore sembra indiziata dall'allineamento di piccoli insediamenti (da Legnago a San Vito di Cerea) oltre che dalla successiva ripresa del popolamento attorno a Montagnana. Ruolo fondamentale di controllo del settore sudoccidentale assume il sistema fluviale Tione-Tartaro-Mincio dove, ai vertici di un ideale triangolo di circa quindici chilometri di lato, fioriscono nel corso dell'vm secolo i centri di Gazzo-Coazze, Castellazzo della Garolda, Erbè. Area nevralgica, in stretta connessione e interazione con il sistema insediativo polarizzato sul Mincio, è quella attorno a Gazzo Veronese che non a caso denota una concentrazione pressoché continua di presenze antropiche dal Neolitico all'epoca romana, seppur con sintomatici episodi di nascita/caduta/spostamento degli abitati. Nella prima età del ferro l'insediamento individuato a Coazze si connota come un centrai piace, pendant occidentale di Este con funzione primaria di controllo del nodo Tartaro/Mincio. Anche se non indagato sistematicamente, esso risulta esteso varie centinaia di metri quadrati su due dossi contigui alla confluenza tra Tione e Tartaro, mentre la presenza di più necropoli tutto attorno ripropone il modello, sicuramente attestato per Este e Padova, di un centro costituito da nuclei diversi distribuiti « a macchie di leopardo ». Fascia critica è quella a cavallo del Mincio, che gravita alter-

96 nativamente nella sfera di controllo veneta ed etrusca: emblematico è il caso di Castellazzo della Garolda, quindici chilometri ad ovest di Gazzo sulla sinistra del Mincio, dove scavi recenti hanno messo in luce una cospicua fase di occupazione veneta, dalla metà dell'vm agli inizi del v secolo, cui segue una fase etrusca tra il 1v e il III secolo. Risalendo il corso del Tartaro, Erbè rappresenta il terzo polo del comprensorio territoriale sudoccidentale: l'abitato, attivo dall'vm a tutto il VII secolo, ripropone un modello già noto di insediamento arginato, di forma sub-rettangolare, delimitato su tre lati da un ampio terrapieno affiancato da un profondo fossato, mentre il quarto lato era naturalmente difeso dal fiume. Il confine occidentale del territorio veneto, che nella fase precedente si presentava fluido ed incerto, viene ora a stabilizzarsi tra il sistema idrografico Mincio-Tartaro-Tione e l'imbocco della valle dell'Adige, dove Rivoli Veronese sembra quasi prospettarsi come erede dell'ormai esaurito centro di Garda. Di estremo interesse, pur in assenza di scavi sistematici, sono alcune tombe databili tra la fine dell'vm e il VII secolo in quanto contenenti materiali di chiara tipologia centro-europea che sottolineano il ruolo di Rivoli come avamposto di una delle vie naturali attraverso cui si svolgevano gli scambi commerciali tra pianura padana ed Europa centrale. Pressoché abbandonata a partire dall 'vm secolo, analogamente al Basso Veronese, appare la zona collinare, sia settentrionale (lessineo-altovicentina) che interna (berico-euganea): sporadiche presenze tra i Lessini, l'altopiano di Asiago, i Berici, sembrano solo suggerire una rarefatta frequentazione volta ad uno sfruttamento pascolativo/boschivo strettamente funzionale ai centri di pianura. Il limite nordoccidentale del sistema planiziario può essere identificato in Oppeano, sulla media valle dell'Adige, che ripropone il modello di un abitato fatto di nuclei distinti cui corrispondono diverse necropoli sistemate all'intorno: Bovolone e Baldaria ne potrebbero costituire il limite territoriale di collegamento rispettivamente con il polo sudoccidentale e con l'area atestina. Estremamente compatto sembra dunque il settore planiziario compreso tra Tione-Tartaro-Mincio/Erbè-Castellazzo della Garolda-Gazzo, Adige/Oppeano, Adige/Este, Brenta/Padova, caratterizzato da centri direzionali di cospicua entità e da pochi insediamenti minori di raccordo: si tratta di un assetto territoriale che, pur con vistosi spostamenti, ripropone in parte un orienta-

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mento già delineatosi nelle ultime fasi dell'età del bronzo. Del tutto nuova risulta invece la situazione territoriale nordorientale, conseguente alla nuova polarità demografico-economica attivata da Padova e nettamente distinta da quella atesino/atestina. All'esplosione di Padova sembra infatti fare riscontro la nascita di Montebelluna sull'asse pedemontano tra Brenta e Piave, di Mel nella media valle del Piave, di Oderzo tra Piave e Livenza, di Concordia sul sistema Livenza-Tagliamento. Si tratta di insediamenti caratterizzati tutti da connotazioni simili a quelle dei centri egemoni di pianura: lo attestano per Montebelluna e Mel le ricche necropoli con tombe che denotano chiare differenziazioni di rango/ruolo; per Oderzo, tra l'altro, la precoce strutturazione di una strada che viene a connotare il sito come nodo direzionale di traffico (trasparente nel nome stesso terg-, mercato), mentre indizi di grande rilievo stanno emergendo dagli scavi in corso a Concordia. È questo un territorio assai meno indagato rispetto a quello occidentale-veronese e non è quindi da escludere che la trama sia destinata ad infittirsi con la scoperta di nuclei minori connettivi, ma è comunque di significativo interesse la distribuzione topografica, con grandi insediamenti tutti situati lungo gli assi fluviali e caratterizzati da quello che sembra un tipico modello veneto, cioè abitati nati su dossi alluvionali e attraversati da uno o più rami fluviali. La situazione fin qui delineata, caratterizzata dal concentrarsi della dinamica insediativa nei due grandi centri di Este e Padova e dal più o meno concomitante sorgere di insediamenti comprimari lungo i principali assi idrografici che fanno capo a queste polarità di pianura (rispettivamente il sistema dell'Adige e del Piave), ha una significativa evoluzione nel corso del vn e del VI secolo, quando si verifica un proliferare di abitati nei singoli territori di competenza, in un processo di selezione e di concentrazione del popolamento che ancora una volta, seppur con modalità diverse, ripropone alcuni modelli individuati nell'Italia centromeridionale. Risulta infatti evidente il progressivo crearsi di un sistema economico integrato, nel quale alle « città » fa riscontro un «agro», con un numero sempre maggiore di centri-satellite dediti ad attività integrative dell'economia primaria, agricoltura ed allevamento. Nell'immediato territorio di Este si registra un significativo ripopolamento dell'area di Montagnana, lungo il paleoalveo del1' Adige, così come attorno a Padova si infittiscono le presenze lungo i paleoalvei del Brenta e del Bacchiglione. Per quanto ri-

città

I settore di osmosi settore propulsivo residenziale produttivo

I

I

campagna strutturata

territorio controllato e centri subalterni

I .

centri di cerniera

• +o+:·:

-

• •

• •

••



O· • • •

centro urbano con il suo territorio

Schema modellistico del rapporto città-campagna-territorio controllato (da Leonardi, Padova nord-ovest, fig. 33)

99 guarda il polo occidentale aumentano le attestazioni attorno a Gazzo e ad Oppeano. Ugualmente si dilatano sia il territorio di Montebelluna sia il polo orientale Site/Piave dove al crescere di Oderzo fa riscontro una netta ripresa di Treviso, nonché il primo attivarsi di Altino, in prospezione lagunare. È questo l'inizio di un fenomeno di rioccupazione diffusa che può ben essere messo in parallelo con quanto si verifica, seppur sempre con un secolo di anticipo, nella fase urbana dell'Etruria. Alla fine del VI, e soprattutto nel corso del v secolo, la situazione si evolve ulteriormente, evidenziando una capillare ripresa insediativa caratterizzata da un'estesa rete di villaggi stabili oltre che dal determinarsi di nuove linee di espansione/penetrazione economico-politico-commerciali. Prima macroscopica evidenza è la rioccupazione del territorio collinare, con insediamenti dapprima selettivamente dislocati sulle estremità delle principali dorsali prospicienti la pianura e via via disposti in una trama sempre più fitta che viene ad interessare anche le dorsali interne. Mentre sembra in questa fase decadere il polo di controllo allo sbocco della valle dell'Adige, il nuovo confine settentrionale di raccordo tra pianura ed area trentina si configura lungo il margine collinare, da Castelrotto a Colognola ai Colli, Montebello, Montecchio, Santorso, Trissino: il fenomeno va sicuramente messo in rapporto con l'emergere di Vicenza, nata tra il vn e il VI secolo su un dosso fluviale alla confluenza tra Astico e Retrone, secondo il tipico modello veneto di pianura, e che ben presto si attesta come centro in grado di controllare un ampio territorio. I villaggi collinari, tra i quali sembrano crearsi precisi rapporti di gerarchia, sorgono in zone di controllo verso la pianura e verso le valli interne di transito, sulle pendici delle alture, su gradoni naturali, su accoglienti ripiani sommitali, tutti ben esposti al sole: favorite risultano le colture agricole (con la comparsa tra l'altro della vite) e soprattutto l'allevamento, sia stanziale che transumante. In tutti questi siti la circolazione di materiali di pregio, dalla ceramica attica alla vernice nera etrusco-campana, dalla figulina alla grigia, dagli oggetti metallici ai manufatti (macine e macinelli) in trachite degli Euganei, denota un quadro di vivaci traffici in senso ascensionale, con chiaro inserimento delle comunità collinari in un più ampio sistema di mercato certo favorito dal naturale ruolo di cerniera tra i poli urbani di pianura e le aree alpine e transalpine, ma anche dall'emergere di due eccedenze produttive: allevamento ed estrazione mineraria. L'allevamento, a base prevalentemente ovina e quindi con conseguente

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eccedenza di lana, si giovava di un ambiente particolarmente favorevole agli spostamenti stagionali ed agli alpeggi estivi; la prospezione mineraria era legata alle risorse del bacino di Schio-Recoaro oltre che alla facile raggiungibilità dei distretti trentini, tra cui soprattutto il fiorente centro siderurgico di Sanzeno. Il quadro insediativo collinare va ulteriormente ampliandosi nel corso del IV e del III secolo, con sintomatiche aggregazioni in corrispondenza degli sbocchi delle valli dell'Adige (Sant' Anna d'Alfaedo, Rivoli, Monte Loffa) e dell'Astico-Brenta (Piovene Rocchette, Caltrano); Rotzo segna il limite più settentrionale di espansione e costituisce la prima attestazione di un insediamento montano stabile e non stagionale. Oltre al fatto che in questo periodo si registra la massima densità insediativa, con abitati anche di notevole ampiezza e potenzialità economica (Monte Loffa, Castelrotto, Montebello, Montecchio, Santorso, Trissino, Rotzo), sicuro indice dell'importanza assunta dalla zona collinare è il sorgere di luoghi di culto « cantonali » (San Briccio di Lavagno, Magrè, Trissino). E proprio in questi, più ancora che negli abitati, si evidenzia un altro vistoso fenomeno e cioè il graduale processo di dissoluzione dell'identità etnico-culturale, con profonda osmosi tra Veneti e Reti, come risulta dalla presenza di ex voto ricavati da corna di cervo e da ossa di animali, spesso con iscrizioni in alfabeto retico. Piuttosto differenziata appare la dialettica tra collina e pianura: mentre il Veronese continua a gravitare verso Este per il tramite della valle dell'Adige, il settore alto-vicentino rivela invece un rapporto privilegiato - oltre che ovviamente con Vicenza - con Padova, secondo una propensione che si manterrà anche in epoca romana e praticamente fino ai giorni nostri. Altra vistosa emergenza territoriale dalla fine del VI secolo in avanti è l'attivarsi del distretto deltizio-polesano: al primo formarsi dei centri di Adria e San Basilio fa seguito un notevole ampliamento del territorio sia verso l'interno (Gavello, Borsea, più recenti scoperte nei dintorni di Rovigo) sia verso la frangia litoranea (Ariano Polesine, Taglio di Po, Contarina), secondo un allineamento che sembra corrispondere ad un paleoalveo del Tartaro-Canalbianco che proprio alla fine del VI secolo diventa l'asse principale sostituendosi al Po di Adria (sul quale era sorta Frattesina) in progressivo esaurimento. Si tratta di una zona a spiccata funzione commerciale che viene a riproporre la situazione dell'età del bronzo finale, e la cui ripresa è certo da imputare ad una nuova dialettica economica tra Greci ed Etruschi: pendant

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dell'area polesana è d'altra parte il fiorire dell'enclave etruscomantovana lungo il Mincio. Tenendo presente la situazione idrografica, ed in particolare l'asse Tartaro-Adige, ben si comprende come su questa rete basso-padana vengano a gravitare anche Este e il suo territorio (con Gazzo ancora una volta in funzione di cerniera) tanto da far talvolta parlare di Adria come sbocco a mare di Este. Anche Padova mostra in questa fase un notevole ampliamento, e quasi una saturazione, del suo agro: poco indagata è ancora l'immediata zona collinare, dove comunque emerge il centro cultuale di Montegrotto di sicura pertinenza patavina, mentre nuova appare la prospezione lagunare con sensibile incremento di un ampio territorio verso sud, lungo le divagazioni del Brenta e del Bacchiglione. Di particolare importanza risultano recenti ritrovamenti nell'area perilagunare di Lova, allo sbocco di un ramo meridionale del Brenta (dove è da situare la mansio Mino Meduaco della Tabula Peutingeriana), che viene a configurarsi come avamposto meridionale-marittimo di Padova raggiungendo l'apice tra la fine del IV e il II secolo, cioè nel periodo in cui entra in crisi il sistema adriese-polesano. Numerosi bronzetti di tipologia patavina sono sicuro indizio dell'esistenza di un centro di culto preromano cui dovette seguire, alle soglie della romanizzazione, l'impianto di un vasto complesso monumentale attualmente in corso di scavo. Molto sensibili, a partire dal v secolo, sono anche le trasformazioni nel territorio orientale e settentrionale: infittite appaiono le presenze tra Treviso, Oderzo, Altino, ma il dato di maggiore rilievo è rappresentato da una profonda penetrazione lungo la valle del Piave, con il formarsi di un cospicuo nucleo cadorino che trova un sicuro punto di aggregazione territoriale nel centro di culto di Lagole di Calalzo. L'ampliarsi ed il consolidarsi di questi due poli, uno a prospezione marittima facente capo ad Altino, l'altro orientato verso i mercati centroeuropei lungo l'asse plavense, attestano ulteriormente la potenzialità propulsiva dell'area primaria di pianura, e nello specifico di Padova cui rimandano i materiali, le peculiarità linguistiche, alcuni aspetti specifici di religiosità. Altrettanto evidente, come già rilevato per l'area lessineo-altovicentina, è il graduale processo di dissoluzione dell'identità etnico-culturale, qui caratterizzato da una forte componente celtica: è questo un dato riscontrabile in primo luogo nella cultura materiale, ma senza dubbio trasparente di un più complesso processo di interazione/integrazione etnica da giusti-

102 ficarsi su prevalente base matrimoniale mista, come ben confermano i dati linguistico/onomastici. Di origine celtica è d'altra parte considerato il nome stesso del Cadore, da Catubrig-. Sempre ai Celti si deve il crollo del sistema economico etrusco-padano, con immediati riflessi nell'area polesana, così come cunei di penetrazione celtica sono ben attestati anche nel territorio di Montagnana e nel comparto collinare euganeo (Arquà) secondo una dinamica di insediamenti katà komas finalizzati allo sfruttamento agricolo della terra con modalità non traumatiche, ma di graduale assorbimento/integrazione delle popolazioni. L'unica area che sembra meno risentire della generalizzata crisi è quella patavina, e non a caso proprio con Padova entrarono prioritariamente in rapporto i Romani già dalla fine del m secolo a. C.: Padova diventerà la grande città, capace di far registrare ben cinquecento cittadini di ordine equestre, secondo quanto attesta Strabone, mentre Este verrà sempre più ad assumere un ruolo residenziale. Seppur con un costante e sintomatico sfasamento cronologico, il Veneto non sembra in definitiva dissociarsi dai più noti processi insediativi dell'Italia preromana ed in particolare dell'Etruria: cifre significative sono il totale abbandono, all'inizio dell'età del ferro, dei precedenti siti e il costituirsi di quelli che diventeranno i centri storici; la selettiva rioccupazione territoriale tipica della fase protourbana; la successiva occupazione diffusa che connota la fase urbana, caratterizzata anche dall'emergenza di centri santuariali; la capillare espansione insediativa con progressiva dissoluzione/integrazione etnico-culturale.

5. Risorse, economia, anigianato L'assetto agrario, le risorse, le attività economiche del Veneto sono stati ampiamente indagati e sufficientemente ricostruiti per quanto riguarda l'epoca romana, soprattutto sulla scorta delle numerose fonti letterarie nelle quali ricorrente è il tema della fertilità e della sovrapproduzione agricola della Padania. Assai vaghe, meno numerose e per lo più tarde sono invece le notizie tramandateci dagli scrittori antichi per l'epoca precedente. Tra le più diffuse, ed anche più antiche, è certo quella relativa alla rinomanza dei cavalli veneti (cantati, come già ricordato, da Omero, Alcmane, Euripide), il cui allevamento doveva essere oltremodo importante per l'economia della regione, costituendo

103 anche merce pregiata di scambio: basti pensare che ancora nel IV secolo a.e. proprio dal Veneto Dionisio il Vecchio di Siracusa aveva fatto venire razze pregiate di cavalli da corsa per le sue scuderie, come attesta Strabone contrapponendo questa notizia al fatto che ai suoi tempi tale allevamento risultava invece completamente decaduto. Giustamente è stato osservato che la crisi di una così rinomata e redditizia pratica è certo da collegare ad una minore disponibilità di ampi pascoli, sempre più sacrificati alle colture, oltre che al declino dell'aristocrazia veneta, senza dubbio la maggior fruitrice del cavallo come animale da guerra e, soprattutto, come segno di distinzione sociale. Interessante per la sua antichità, fine VI-inizio v secolo a.e., è anche la notizia riportata da Ecateo di Mileto il quale, parlando di Adria, sottolinea che la regione è particolarmente adatta all'allevamento, tanto che il bestiame partorisce due volte l'anno e con parti gemellari; spesso anzi vengono alla luce tre o quattro piccoli, talvolta cinque e più. Le galline domestiche poi fanno l'uovo due volte al giorno, eppure, tra tutti gli uccelli, sono di proporzioni alquanto modeste (Hecat., F.Gr.Hist. 1, frg. 90 = Voltan 8).

L'argomento viene ripreso ancora nel IV secolo a.e. da Aristotele e Teopompo, i quali tra l'altro ricordano un particolare « rito agrario ,. in uso presso i Veneti: al tempo della semina offrono alle cornacchie doni consistenti in focacce e pani d'orzo [... ] l'offerta di questi doni vuole allettare e stabilire una tregua con le cornacchie, in modo che esse non scavino e non raccolgano il frutto di Demetra affidato alla terra (Theop., F.Gr.Hist. 115, frg. 274 = Voltan 58).

Più tarda, attorno alla metà del II secolo a.e., ma ancora specchio di una situazione agraria e produttiva preromana, è la dettagliata descrizione fatta da Polibio della pianura padana, considerata superiore per fertilità a tutte quelle da lui conosciute in Europa: vi è una tale abbondanza, secondo i luoghi, di grano che spesso, ai nostri tempi, un medimno siciliano di grano vi vale quattro oboli, quello di orzo due e un metrete di vino quanto un medimno di orzo. Qui la ricchezza di miglio e panico è veramente straordinaria; la quantità di ghiande prodotta, a intervalli nelle pianure, dalle estese foreste di querce può essere testimoniata soprattutto da questo fatto: delle numerose vittime suine uccise in Italia per il consumo personale e la fornitura agli eserciti, l'apporto più consistente proviene da queste pianure. Della bontà del mercato e della profusione di alimenti al dettaglio ci si può fare un'idea più esatta da ciò. Coloro che viaggiano per il paese, quando si fermano nelle locande, non si accordano sul prezzo di ogni servizio, ma chiedono quanto costa l'ospitalità a persona; gli osti in genere accolgono i clienti e forniscono

104 loro tutto il necessario al prezzo di mezzo asse, che è un quarto di obolo, e raramente superano questa cifra (Polyb. 11, 15, l-6 = Voltan l 68).

Sui frutti copiosi della terra coltivata, sulla quantità del vino provata dalle botti [ ... ] più grandi di case », sulle pregiate lane prodotte dalle zone attorno a Padova, si sofferma anche Strabone (Strabo v, 1, 12), già però ritraendo una situazione ed una realtà economica di piena epoca romana: lo stesso dicasi per Virgilio, Plinio il Vecchio, Tacito, Plinio il Giovane e le altre fonti agronomiche romane particolarmente fiorenti tra il I secolo a.e. e il 1 d.C., anche se il quadro che ne emerge non doveva essere molto dissimile da quello che doveva caratterizzare l'epoca più antica. Certo suggerita dal paesaggio agrario del suo tempo è ad esempio la descrizione di Livio nel passo relativo a Cleonimo (Liv. x, 2, 5-8), ma non molto diversa da quanto dovette effettivamente presentarsi agli occhi dei soldati sbarcati sui lidi veneti alla fine del 1v secolo a. C.: campagne coltivate subito al di là delle paludi litoranee (cosa per altro ancor oggi tangibile) ed abbondanza di armenti, tali da spingere gli esploratori ad allontanarsi troppo dalle navi, attratti dalla dulcedo praedandi. Piuttosto scarsi sono i dati offerti dall'archeologia, anche se alcune preziose informazioni sono state acquisite nel corso degli ultimi anni grazie alla maggiore attenzione riservata, negli scavi recenti, alla raccolta di resti paleobotanici e paleofaunistici. Sequenze polliniche confermano ad esempio che anche il Veneto fu coinvolto nel cambiamento climatico che si verificò in tutta l 'Europa mediterranea all'inizio del I millennio a.e., in coincidenza con il passaggio dal Sub-boreale al Sub-atlantico, con leggero abbassamento della temperatura media e aumento della piovosità. Tale clima, oltre che frequenti esondazioni fluviali ben attestate dagli ampi depositi alluvionali che si riscontrano dovunque negli insediamenti di pianura, comportò una discesa altimetrica della fascia boschiva, una riduzione della macchia, uno sviluppo della vegetazione erbosa igrofila: in pianura si afferma il querceto-carpineto, mentre sui colli l'abete e il faggio subiscono una graduale regressione lasciando il posto al querceto misto e al castagno. Assai limitati sono per il momento i dati paleobotanici relativi alla pianura, che doveva comunque essere adatta a colture cerealicole estensive, in particolare grano (documentato ad esempio in grandi vasi da derrate rinvenuti a Montagnana accanto alle abitazioni), anche se ampie aree dovevano certo essere riservate all'allevamento e quindi al coltivo di cereali da foraggio con relati«

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va fienagione. Dati più numerosi, purtroppo relativi solo alla seconda età del ferro, provengono dagli abitati collinari e montani (ad esempio Castelrotto, Montebello, Trissino, Monte Loffa, Rotzo): tra le colture cerealicole prevalenti risultano l'orzo (Hordeum vulgare), il miglio (Panicum miliaceum), l'avena (Avena), il frumento (Triticum diococcum); tra le leguminose le fave (Vicia faba) e le lenticchie (Lens culinaris, Vicia ervilia), con il che si raggiungeva già una dieta sufficientemente equilibrata di carboidrati (cereali) e di proteine vegetali (legumi). Attestata è la vite selvatica (Vitis vinifera silvestris), adoperata anche per la vinificazione, e non mancano indizi della specie coltivata (Vitis vinifera sativa) ben più impiegata in epoca romana per la produzione del famoso vino retico. Sintomo di un' economia complessa ed articolata, con una ormai raggiunta indipendenza alimentare, è il fatto che dalle recenti indagini condotte a Castelrotto risulta una totale assenza di prodotti provenienti da raccolte di frutti spontanei di bosco (nocciole, more, corniole ecc.). Tecniche agrarie praticate dovevano essere il maggese, cioè il sistema dei due campi caratterizzato da un ciclo annuale di semina alternato a uno di riposo in cui il campo viene solo concimato mentre si lavora quello attiguo; la rotazione delle colture cereali-leguminose allo scopo di rigenerare il suolo; il debbio, cioè la bruciatura delle stoppie, delle cotiche erbose, dello sterco, con conseguente spargimento delle ceneri come concime; occasionale doveva invece essere l'ignicoltura, la pratica di bruciare il bosco per acquisire nuovi campi. Rari sono gli strumenti agricoli rinvenuti negli abitati, forse perché realizzati per lo più in legno: un aratro ancora con vomere di legno sembra ad esempio quello raffigurato in una lamina bronzea da Treviso, mentre gli unici vomeri di ferro provengono per il momento solo dall'abitato del Monte Loffa. Diffusi in tutti gli insediamenti fino al vn secolo a.e. sono soltanto zappette e picconcini di corno di cervo, probabilmente connessi alla cura domestica dell'orto, mentre gli utensili metallici, certo soggetti ad un lungo uso, a rifusione/riciclaggio dato l'alto costo della materia prima, risultano di più raro rinvenimento. Diffusi sono macine e macinelli di pietra, indispensabili per trasformare le granaglie e i legumi in farina: il fatto che nella maggior parte dei casi, non solo nel Veneto ma anche nel Trentino e nel Mantovano, siano realizzati in trachite, materiale che proviene esclusivamente dai colli Euganei, documenta l'esistenza

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di un fiorente mercato interno gestito dai centri di pianura di Este e, forse, Padova. Accanto all'agricoltura, fonte primaria di sussistenza era l'allevamento: anche in questo settore la campionatura è molto limitata, ma sono comunque ben attestati bovini, ovini, caprini, suini, gallinacei e cani, mentre un ruolo del tutto particolare, come già detto, era assunto dall'allevamento dei cavalli. I bovini erano prevalentemente sfruttati come forza-lavoro e per i prodotti secondari, così come gli ovicaprini (latte, formaggi, cuoio, pelli, lana, osso), mentre i suini rappresentavano certo la principale base dell'alimentazione carnea, oltre che un'ottima fonte per la produzione di carni da salare e da esportare: interessante al proposito la documentazione fornita dall'abitato mantovano del Forcello dove ad una costante presenza di arti anteriori di maiali fa riscontro un indice di frequenza notevolmente inferiore di arti posteriori, probabilmente destinati all'esportazione sotto forma di « prosciutti ». Pur in assenza di testimonianze così significative, una probabile eccedenza di carne è facilmente postulabile anche per il Veneto dove l'allevamento dei suini era certo favorito, oltre che dal naturale veloce ritmo di riproduzione della specie, da un habitat pressoché ideale data la presenza di fitte selve di quercia, con conseguente sovrabbondanza di ghiande (come già sottolineato da Polibio), e di diffusi acquitrini dove i maiali, amanti dell'acqua e dei luoghi ombrosi e freschi, trovavano ampie possibilità di vita anche allo stato brado. Padova tra l'altro ben controllava la disponibilità di sale, prezioso non solo per l'allevamento ma anche per la conservazione e lo smercio delle carni, dato che parte della laguna veneta era compresa nel suo territorio e dato che qui doveva trovarsi uno dei terminali della via del sale proveniente dalle miniere del Salisburghese lungo la valle del Piave. Ugualmente favorito dall'ambiente naturale, dalla sua varietà e dall'agevole possibilità di passaggio da un habitat eco-climatico all'altro, dalla pianura alla collina alla montagna, era l'allevamento transumante sia per le mandrie di bovini sia, soprattutto, per le greggi di ovini e caprini, secondo dinamiche e percorsi stagionali rimasti pressoché immutati dall'antichità fin quasi ai giorni nostri. Proprio da un intenso e selezionato allevamento ovicaprino derivava, oltre che una solida fonte alimentare, quel1'eccedenza di produzione laniera che sta alla base della fama dell'artigianato tessile patavino, le cui lane erano considerate di una qualità media tra le più pregiate e morbide del Modenese e le

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più ruvide del territorio ligure. Tale fama è particolarmente documentata per l'epoca romana: di gausapoi, tappeti e tessuti lussuosi, lanosi da ambedue i lati o da uno solo, riferisce Strabone; e Marziale riprenderà il termine citando il gausapum o gausape quadratum come uno dei tessuti più tipici del territorio patavino, assieme ai trilices, tessuti a tre fili così spessi che si potevano tagliare con la sega. Un collegio di centonarii, oltre che a Padova, sembra attestato da un'iscrizione rinvenuta a Chiuppano, allo sbocco della valle dell 'Astico, indiziando i rapporti preferenziali tra Padova e l'altopiano di Asiago. Per la seconda età del ferro sicuri indizi di una produzione laniera non strettamente di tipo domestico, ma ad esplicito carattere di sovrapproduzione artigianale, provengono appunto dalla zona alto-vicentina: grandi ambienti con telai verticali sono stati messi in luce a Santorso e a Colognola ai Colli; numerose sono le cesoie, le fusaiole, i pesi da telaio, gli aghi d'osso, spesso con sigle alfabetiformi per segnarne la proprietà, rinvenuti un po' dovunque negli abitati d'altura, da Santorso a Colognola, Montebello, Trissino, fino a Rotzo e al Monte Loffa. All'agricoltura ed all'allevamento si affiancava, ad integrazione della dieta quotidiana, la pesca, favorita dalla presenza dei fiumi, degli specchi d'acqua e dal facile accesso al mare: numerosi gli ami e le conchiglie ritrovati sia negli abitati che nelle tombe, così come in queste ultime compaiono talvolta lische di pesce tra i resti di razioni alimentari offerte ai defunti. Ampiamente attestato il luccio, mentre tra le conchiglie sono documentate specie sia fluviali che marine, queste ultime caratteristiche della zona lagunare adriatica: predomina il Glycymeris, mollusco che sopravvive a lungo fuori del suo ambiente naturale e che poteva quindi essere trasportato anche sulle lunghe distanze con poca acqua salata. Frequente è il riutilizzo delle valve di conchiglie a scopo ornamentale, se non forse anche premonetale: a questo certo rimandano i rari esemplari di Cypraea, specie pregiata in tutta l'antichità, proveniente dalle coste dell'Arabia e del Corno d'Africa ed attestante quindi mercati a più ampio raggio. Integrava infine l'alimentazione, anche se in maniera assolutamente modesta rispetto alle epoche precedenti, la raccolta di erbe, di verdure selvatiche, di frutti spontanei quali le nocciole i cui gusci spesso si ritrovano tra i cibi offerti ai defunti. Incidenza alimentare del tutto marginale doveva invece avere la caccia, ormai relegata al ruolo di esercizio aristocratico: non mancano comunque resti di cervi, caprioli, cinghiali, orsi, volpi, lupi, istri-

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ci, la cui vita era secondata da un ambiente naturale ricco di boschi, e dai quali si potevano trarre pelli, grasso, osso, corno. Il bosco, per lo più a querceto misto ma ricco anche di faggi, frassini, olmi, abeti, larici, ontani e di tutte le più varie specie mediterranee, durante tutto il I millennio a.C. si estendeva fino alla bassa pianura e solo a cominciare dalla piena età romana cominciò ad essere gradualmente sacrificato, sotto la spinta della crescente urbanizzazione che sempre più richiedeva nuovi spazi abitativi e nuove aree da adibire alle coltivazioni e ai pascoli. In epoca preromana esso rappresentava invece un'inesauribile fonte di approvvigionamento di materia prima indispensabile in molteplici campi: nell'edilizia (per le abitazioni, i recinti, le palizzate, i cassoni per l'acqua, le bonifiche, gli argini ecc.); nell'artigianato domestico (per piatti, ciotole, contenitori, mestoli, cucchiai ecc.); nella« cantieristica navale » (per le agili imbarcazioni a fondo piatto adatte alla navigazione fluviale e lagunare); come combustibile sia quotidiano (riscaldamento, cucina, artigianato ceramico, metallurgico ed altro) che funerario (si pensi solo alla quantità di legname necessaria per ogni rogo). Di questo intenso sfruttamento del bosco restano pochissime tracce dirette, data l'alta deperibilità del legno, e quindi dei suoi prodotti, e le condizioni ambientali che non ne hanno favorito la conservazione altro che in pochissimi casi. Più ricche sono le testimonianze indirette, in primo luogo le numerose asce da disboscamento, di bronzo e di ferro, che si rinvengono soprattutto nelle tombe dal momento che quelle d'uso dovevano essere a lungo riutilizzate e rifuse. Non va anche sottovalutato, come indicatore indiretto, il ruolo elitario che nell'ideologia funeraria aristocratica assume la figura del falegname-carpentiere (per altro già ben sottolineata nel mondo omerico): nelle tombe maschili emergenti oltre alle asce compaiono infatti, soprattutto tra vm e vn secolo a.e., utensili specifici quali seghe, raspe, lime, chiaramente connessi ad attività artigianali che dovevano rivestire un peso rilevante nell'economia della comunità. Ulteriori dati provengono da recenti scavi e ricerche, additando nuovi orizzonti di indagine. A Castelrotto, ad esempio, è stato possibile stabilire che le strutture lignee delle abitazioni appartengono tutte alla stessa specie di rovere (Quercus pedunculata) e provengono tutte da alberi adulti, mentre nei residui dei focolari si sono rinvenuti legni minori e di diversa natura, abete bianco, olmo, pruno, quercia. Ugualmente indagini in corso sui resti dei roghi sacrificali nel santuario di San Pietro Montagnon/Monte-

109 grotto sembrano indiziare una scelta selettiva dei legni da utilizzare. Delle attività artigianali dei Veneti ci resta per lo più solo la documentazione dei prodotti finiti non deperibili (di pietra, corno-osso, ceramica, metallo) o degli strumenti da lavoro come nel caso dell'artigianato tessile o su legno. Ben poco sappiamo invece delle « officine » non solo perché, come più volte sottolineato, queste lasciano tracce difficilmente individuabili, ma anche perché i loro « indicatori » troppo spesso sono stati trascurati negli scavi, volti alla raccolta di ben più consistenti testimonianze; solo nelle più raffinate indagini degli ultimi anni queste testimonianze apparentemente povere stanno assurgendo ad un ruolo di primo piano. Abbiamo già accennato alle macine e macinelli in trachite euganea, la cui distribuzione permette tra l'altro di prospettare un fiorente mercato interno di materia prima estraibile solo dai colli Euganei; pure in trachite, o in pietra tenera proveniente dai colli Berici, venivano realizzati i cippi funerari di Este e le stele figurate di Padova, produzione che richiedeva anzitutto un'esperta manualità di cava e successivamente l'intervento di scribi ed artigiani specializzati nel settore artistico-figurativo. Rocce di vario tipo erano impiegate per realizzare oggetti diversi, matrici da fusione, coti per affilare gli utensili da taglio; quarziti e altri minerali erano usati come degrassanti nella fabbricazione della ceramica o per ottenere sostanze coloranti; lastre calcaree e marna risultano di uso comune ad Este per le cassette tombali e le infrastrutture edilizie. Molto diffuso risulta l'artigianato del corno di cervo il cui approvvigionamento era favorito, oltre che dalla caccia, dalla periodica spontanea caduta dei palchi. Le corna venivano segate e divise in parti dalle quali, data la facilità di lavorazione quando il corno era fresco, nonché l'elasticità e la resistenza a lavorazione finita, si ricavavano picconcini, zappette, punteruoli, pettini per cardare la lana, manici per coltelli e utensili vari, strumenti per modellare e decorare la ceramica, morsi e montanti di cavallo, spilloni ed oggetti di ornamento: la presenza di abbondanti scarti di lavorazione in tutti gli abitati indica che questo tipo di artigianato era ovunque praticato a livello locale. Sicuramente prodotta in loco, come in tutti gli ambienti culturali del mondo antico, era pure la ceramica, ma ancora assai poco conosciamo circa la precisa tecnologia, dalle argille alle vernici, ai torni, ai forni. In termini generici possiamo dire che ad

110 una prima fase in cui i vasi erano modellati a mano seguì, tra vm e vn secolo, l'introduzione del tornio soprattutto per la più raffinata e specialistica produzione funeraria. Quanto ai sistemi di cottura probabilmente in un primo tempo la ceramica, una volta essiccata, veniva semplicemente coperta di legnarne creando una carnera di combustione« a cielo aperto »; successivamente si dovettero creare dei forni scavati in una fossa nel terreno, con copertura di sassi; solo più tardi, forse dal v secolo, si giunse a costruire strutture più complesse che portarono ad innovazioni tecnologiche, quali ad esempio la ceramica grigia. Di difficile controllo risultano le notizie del ritrovamento di un « deposito di rifiuti di fabbrica » e di una « fabbrica di ceramica » nel corso dei vecchi scavi di Este, mentre dati maggiori dovrebbe fornire lo studio di un'area artigianale recentemente individuata ai margini della strada di Oderzo. Ben documentata è la produzione della pasta vitrea: già si sono ricordate le aree specifiche di lavorazione individuate negli abitati dell'età del bronzo finale; per l'età del ferro dati sicuri provengono ad esempio da Erbè, da Santorso, da Altino, ma certo anche in altri centri dovette fiorire un artigianato autonomo per lo meno a livello di elementari oggetti di ornamento. Più complesso è il discorso relativo alla lavorazione dei metalli, che richiedeva l'impiego di artigiani altamente qualificati e di attrezzature specializzate. Una produzione in loco anche su vasta scala è sicura, dagli oggetti d'uso a quelli di ornamento/abbigliamento, fino a queW.artigianato artistico che va sotto il nome di arte delle situle. Dall'esame degli oggetti finiti è possibile ricostruire le varie tecniche: fusione piena con matrici per manufatti di piccole dimensioni; fusione« a cera persa piena » per bronzetti; fusione con « anima >> in materiale refrattario se il manufatto presentava parti cave o se si voleva risparmiare metallo; laminatura a martello per vasi, ganci di cintura, cinturoni, pendagli ecc. Assai poco resta comunque dei complessi processi di lavorazione salvo la presenza di qualche matrice. Solo in questi ultimi anni ha preso l'avvio un nuovo settore di ricerca tecnologicoartigianale che ha già dato ottimi risultati preliminari in un campione di studio condotto nell'Alto Vicentino, campo ottimale di ricerca data l'intrinseca possibilità di prospezione metallurgica della zona, connessa al bacino di Schio-Recoaro oltre che in immediato rapporto con le limitrofe aree trentine. A Colognola ai Colli numerose scorie di rame ed un lingotto di rame puro del peso di 380 grammi documentano indirettamente la presenza di

111 impianti fusori, così come le scorie di fusione e i lingotti rinvenuti a Santorso; goccioline di fusione e residui di laminati bronzei riconosciuti a Montebello costituiscono sicuri indizi di un artigianato metallurgico minuto; attività di trasformazione del ferro ed in particolare focolari per la forgiatura sono stati individuati a Santorso, a San Giorgio di Valpolicella, a Oderzo, aprendo nuove prospettive di studio in tale settore. Quanto alle fonti di approvvigionamento di materia prima, se è indubbio il ruolo esercitato dalle miniere tirreniche, soprattutto per la prima età del ferro, con conseguente potenziamento delle rotte fluviali e terrestri interne, dal Tirreno a Bologna ad Este, un secondo asse, attivo soprattutto nella seconda età del ferro, è rappresentato dalle rotte europee facenti capo alle zone minerarie del Norico e del centro Europa. Molte forme di artigianato erano connesse essenzialmente alla vita e alla domanda interna dei singoli siti, e quindi per lo più svolte in ambito domestico; altre dovevano invece essere praticate a livelli di tipo « industriale », anzitutto per la produzione funeraria e votiva, con classi altamente specialistiche, ma anche nell'ottica di un mercato/scambio ad ampio raggio, come documenta la circolazione di manufatti e modelli, nonché la diffusione dei prodotti dell'arte delle situle. Se la distribuzione dei materiali consente di delineare alcune « rotte » di scambio e centri specifici di produzione, poco o nulla possiamo dire circa l'organizzazione del lavoro o l'esistenza di« maestri » che si spostavano da un centro all'altro. Torniamo con ciò a quanto detto in apertura di capitolo circa la lacunosità delle nostre fonti di conoscenza: tale situazione, che non è ovviamente limitata al Veneto, deve anzitutto suggerire un'estrema cautela nelle valutazioni, onde non creare clamorosi falsi storici sulla semplice base di « vuoti » di informazione oppure di « pieni » non controllabili.

Adige

Montebelluna



TRE

_____/

VENEZ

l

Principali insediamenti dell'età del ferro (elaborata da G. Penello)

IV. La prima età del ferro 1. La nascita dei centri di potere ed il delinearsi delle élites (vm secolo a. C.) l. l. I centri egemoni di pianura: Este e Padova

ABBIAMO già parlato della nuova organizzazione territoriale che si delinea nel Veneto a partire dall'vm secolo a.C. e delle dinamiche che portarono al sorgere di Este e Padova, future città storiche, nonché al loro rapido progressivo controllo di due diversi territori. Ci soffermeremo qui invece sul loro assetto interno dal momento che, pur in assenza di scavi in estensione (impossibili in città che hanno continuato a crescere su se stesse dall'antichità ai giorni nostri), sono questi gli unici centri che permettono alcu- · ne considerazioni di ordine topografico. Fin dagli inizi dell'vm secolo la nascita di Este (di cui non conosciamo il nome preromano, come per nessun'altra città, ma solo quello romano, Ateste, connesso all'Atesis/Adige) pare ubbidire ad un preciso progetto insediativo, con concentrazione centripeta all'interno, cioè a nord, dell'antico ramo dell'Adige. Per quanto ancora insufficienti risultino le indagini paleofluviali microterritoriali (completamente mutata è l'attuale situazione delle acque interne alla città), sembra proponibile con una certa sicurezza che tale ramo corresse da ovest ad est lungo la direttrice dell'attuale Strada Statale IO-Padana Inferiore: lo documentano ampi tratti di arginature, in parte risalenti ad epoca preromana, che delimitano nettamente l'area abitativa a nord, sulla sponda sinistra, rispetto a quella funeraria a sud, sulla sponda destra. All'interno di questo corso, e con andamento ad esso parallelo, si allineano i più antichi e consistenti nuclei abitati (tra l'attuale via Restara e l'Ospedale Civile), con limitata estensione verso ovest e progressivo allargamento in direzione nord e nord-est, fino al margine dei colli. Una recente rilettura dei dati topografici e fisiografici ha portato a postulare l'esistenza di un secondo ramo fluviale, forse originato dallo stesso Adige, che doveva attraversare l'abitato da nord-ovest a sud-est, andando probabilmente a congiungersi con il corso meridionale in uscita dalla città. Che tale ramo fosse attivo in epoca romana è assicurato da un'imponente struttura idraulica che doveva servire a regolare il deflusso delle acque prove-

Pianta di Este: I Fondo Rebato, 2 Fondo Candeo, 3 Brolo Muletti Prosdocimi, 4 Casa Alfonsi, 5 Casa di Ricovero, 6 Villa Benvenuti, 7 Castello, 8 Caldevigo-Colle del Principe, 9 via Dietro il Duomo, 10 Piazza Trento e Trieste, 11 Serraglio Albrizzi, 12 Casale-Fondo Cortelazzo, 13 Cimitero, 14 Fondo Cortelazzo, 15 Brolo Romaro alla Salute, 16 Ospedale, 17 via Restara, 18 Fondo Costa Martini, 19 Palazzina Capodaglio, 20 via Scarabello (ex Fondo Randi, ex Fondo Franchini), 21 Le Boldue, 22 Fondo Capodaglio (ex campagna Nazari), 23 Aia Capodaglio (ex campagna Nazari), 24 Morlungo, 25 Fondo Campazzo Pelà, 26 Fondo Pelà (ex Lachini), 27 Canevedo-Fondo de Antoni, 28 Fondo Morini, 29 Canevedo-Capitello della Lovara, 30 Fondo Boldù Dolfin, 31 Fondo Baratella (da Veneti antichi, p. 30)

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nienti dai colli, nonché da una diga e da un ponte, manufatti tutti che presentano un allineamento nord-ovest sud-est assolutamente inconciliabile con l'andamento del ramo meridionale. Per l'epoca preromana, in assenza di dati più precisi, si può solo sottolineare il significativo allineamento nord-ovest sud-est delle testimonianze abitative; ulteriori indizi, relativi alla seconda età del ferro, vengono dall'ubicazione di due santuari sicuramente connessi al fiume: uno (Baratella-Reitia) a sud-est, all'uscita del ramo meridionale, l'altro (Casale-Dioscuri) a nord-ovest, appunto all'ingresso in città del secondo ramo. Analoga significativa dislocazione presentano due impianti connessi alla lavorazione della ceramica, quindi necessariamente prossimali all'acqua, attivi dal VI al n secolo. Anche se tale rilettura dell'assetto idrografico dovrà essere perfezionata mediante indagini specifiche, sembra dunque di poter con buona probabilità proporre l'immagine di un abitato delimitato a sud dal corso principale dell'Adige, a nord e ad est dal margine dei colli, attraversato obliquamente da un secondo ramo fluviale, e forse da altri corsi minori. Quanto allo sviluppo interno, pur nei limiti dei dati in nostro possesso, risulta evidente come da una primitiva distribuzione« a macchie di leopardo » di nuclei insediativi inizialmente indipendenti ed autosufficienti si sia gradualmente arrivati, per un progressivo allargamento« a macchia d'olio» degli stessi, ad un abitato che già nel VI secolo a.e. doveva occupare in maniera intensiva uno spazio pressoché triangolare di circa cento ettari, sostanzialmente coincidente con la pianta della città romana, della città medievale, dell'attuale centro storico. Ulteriori indizi utili a delineare, seppur in negativo, l'area di abitato vengono dalla distribuzione delle tombe, tutte esterne alla città dei vivi, come di norma. Evidenti risultano due fasce di necropoli, la cui crescita deriva chiaramente dal progressivo ampliarsi ed unificarsi di primitivi gruppi isolati di tombe, corrispondenti a primitivi gruppi isolati di capanne: sintomaticamente una fascia corre da ovest ad est, tutta situata a sud del ramo meridionale del fiume e parallela agli insediamenti che si snodavano lungo la sponda settentrionale, mentre l'altra presenta un andamento nordovest sud-est, lungo la linea orografica del margine collinare. La scarsità di tombe e di concentrazioni abitative ad ovest, lungo il terzo lato dell'ideale triangolo, potrebbe confermare l'ipotesi che proprio in questa zona il fiume si aprisse in divagazioni secondarie, venendo a definire un'area idrograficamente instabile. Anche a Padova la nascita e lo sviluppo dell'insediamento mo-

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strano di ubbidire ad un progetto ben preciso, condizionato, o forse meglio dettato, dalla presenza di un fiume, il Meduacusl Brenta. Il suo percorso nel tratto in più stretto rapporto con l'abitato è stato ricostruito soprattutto sulla base dei vari ponti di epoca romana, e corrisponde in parte al sistema d'acque cittadino ancor oggi rilevabile nonostante i vari, e spesso dissennati, interramenti: entrando da ovest (ali' altezza dell'attuale Osservatorio Astronomico) il fiume disegnava una grande ansa volta a nord, delimitando un ampio spazio interno protetto su tre lati dall'acqua, per svolgersi quindi verso oriente in una successiva controansa. Studi paleoidrografici condotti in questi ultimi anni anche a seguito di recenti ritrovamenti archeologici, pur non modificando sostanzialmente tale ricostruzione, sembrano segnalare la presenza di un altro ramo del Brenta più a nord, in quello che doveva essere l'agro settentrionale patavino, venendo a suggerire l'ipotesi che due rami del fiume, i Meduaci duo di Plinio, si originassero a monte di Padova piuttosto che a valle, come finora supposto. Ancora più interessante è il fatto che dalle stesse indagini risulta molto probabile che fin dall'epoca protostorica fosse attivo anche un ramo del Bacchiglione che, con andamento nordovest sud-est, lambiva il margine meridionale della città. Si verrebbe con ciò a delineare una vera e propria « isola » racchiusa tra vari corsi d'acqua, che, secondo un modello analogo a quello ipotizzabile per Este, viene individuata come habitat ottimale al sorgere di un insediamento secondo precisi canoni: luogo naturalmente protetto, in prossimità di rilevanti risorse primarie, con acque interne ed ampie possibilità di comunicazione fluviale con il territorio circostante. Pur nella frammentarietà dei dati in nostro possesso, risulta sufficientemente documentata fin dall' VIII secolo a. C. un'ampia occupazione sparsa (valutabile attorno agli ottanta ettari) all'interno della grande ansa del Brenta, con vari nuclei forse inizialmente indipendenti, e più limitate presenze all'esterno dell'ansa stessa, queste ultime situate solo ad oriente (da via Gaspara Stampa a via Santa Sofia). Abbiamo già ricordato che un'immagine concreta di come dovevano essere strutturati gli agglomerati di VIII secolo viene dall'abitato messo in luce nella cosiddetta area ex Storione, tra il Palazzo dell'Università e il Municipio, in una zona che significativamente verrà a costituire il cuore non solo di Padova romana, con il grande porto fluviale, ma anche di Padova medievale e

ABITATI

~ NECROPOLI

O STIPI

Pianta di Padova: I Porta San Giovanni, 2 Riv. Tiso da Camposampiero, 3 via Dietro Duomo, 4 via Patriarcato, 5 via C. Leoni, 6 via B. Cristofori, 7 via San Pietro-San Polo, 8 Reggia Carrarese, 9 piazza Castello, IO via Seminario, Il via Manin-via Cavalletto, 12 Chiesa di San Daniele, 13 via Rialto, 14 Chiesa dei Servi, 15 Palazzo delle Debite, 16 via E. Filiberto, 17 ex fabbrica Pilsen, 18 viale Codalunga, 19 Camera di Commercio, 20 via Santa Lucia, 21 via E. Filiberto-via Risorgimento, 22 piazza Garibaldi, 23 piazza Cavour, 24 ex albergo Storione, 25 via delle Piazze, 26 via G. Stampa, 27 via Santa Chiara, 28 piazza del Santo, 29 Odeo Cornaro, 30 via San Francesco, 31 via San Biagio, 32 piazza Eremitani, 33-34 Arena, 35-36 via Loredan, 37 via C. Battisti-« Pozzo Dipinto ", 38 via C. Battisti-via Santa Sofia, 39 via della Pieve, 40 via A. Gabelli, 41 Ca' Lando, 42 via San Massimo, 43 Campo Sportivo Petron, 44-46 via Tiepolo, 47 via J. Corrado-CUS Piovego (da Ruta, Necropoli di via Tiepolo, p. 14, rielaborata da G. Penello)

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moderna. Grazie alla presenza di varie strutture lignee, eccezionalmente conservatesi perché rimaste sommerse sotto il livello di falda, è stato possibile ipotizzare un abitato sorto su bonifica di pali, con capanne rettangolari affiancate, focolari interni ed esterni, riserve idriche comuni, recinti e spazi liberi forse adibiti ad orti e/o allevamenti domestici comuni, per un gruppo a probabile base familiare allargata e praticamente autosufficiente dal punto di vista dell'economia primaria: accanto ad agricoltura, allevamento, caccia, pesca, ben documentate sono infatti le attività artigianali di filatura, produzione ceramica, lavorazione del bronzo, del corno, dell'osso. Con l'andare del tempo si allarga a macchia d'olio la trama insediativa all'interno dell' « isola » cosl come si ampliano i nuclei orientali esterni, in modo tale da formare praticamente un continuum con quelli interni; l'abitato si estende, sia pur limitatamente, anche verso nord, oltre il colmo dell'ansa, e verso sud venendo a delineare, già tra vr e v secolo a.e., una« città» di proporzioni molto simili a quelle della Patavium romana. Le necropoli risultano tutte disposte ad oriente dell'abitato, lungo gli assi fluviali in uscita, con attestazioni abbastanza esigue nel settore nordorientale e con una consistente fascia pressoché continua a nord della controansa del Brenta. Come ad Este, inutilizzata resta la zona occidentale. Di notevole interesse è in ambedue i centri la scelta di aree funerarie « in uscita» dall'abitato, e forse anche con uno stretto rapporto di « viabilità » acquatica tra la città dei vivi e la città dei morti: ad Este si doveva attraversare il fiume per andare alla necropoli meridionale e, per la maggior parte degli abitanti, anche per andare a quella settentrionale; a Padova il percorso tra abitato e necropoli era probabilmente compiuto via acqua. E questo un modello già evidenziato in alcuni tra i maggiori centri dell'età del bronzo: basti ricordare il rapporto abitato/corso d'acqua/necropoli, costantemente rilevato negli insediamenti arginati delle Valli Grandi Veronesi, nonché la situazione abitato/necropoli sulle opposte sponde di un fiume tanto a Montagnana-Borgo San Zeno quanto a Frattesina-Narde. Anche se non siamo ancora in grado di formulare precisi modelli, dal momento che non sempre è chiara, o sufficientemente indagata, la situazione paleoidrografica, e dato che per molti centri conosciamo le necropoli e non l'abitato, o viceversa, mi sembra comunque che questo sia un indizio da non sottovalutare ed anzi da sottoporre, quando possibile, a verifica.

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Oltre a presentare una chiara progettualità ed un'estensione che fin dall'inizio risulta valutabile nell'ordine di varie decine di ettari, Este e Padova mostrano di assumere fin dal loro sorgere (ed anzi si può pensare che sorgano proprio per assumere) un ruolo di centri egemoni di pianura con specifico controllo del territorio: distano tra loro una trentina di chilometri, si trovano su due sistemi idrografici nettamente diversi, risultano al centro di un'area praticamente disabitata per un raggio di alcune decine di chilometri, ad esse si raccordano significativi comprensoricerniera. Riassumendo per somnù capi quanto già detto, Este diventa il centro portante della bassa pianura in direzione del Veronese: a rari e piccoli nuclei di raccordo allineati lungo il margine settentrionale delle Valli Grandi Veronesi fa riscontro il sorgere di un comprensorio occidentale facente capo ad alcuni grandi centri, quali Gazzo Veronese e Oppeano (rispettivamente a controllo del nodo fluviale Tartaro-Mincio e della media valle dell'Adige), distanti da Este dai quaranta ai cinquanta chilometri, e tra loro collegati da un « ventaglio ,. di centri-satellite minori praticamente racchiusi nel raggio di una quindicina di chilometri. A tale comprensorio Este era agevolmente collegata dall'Adige e dal Tartaro, oltre che, molto probabilmente, da piste terrestri. Se un'antica pista che collegava Padova ad Este, e di qui, per Montagnana, scendeva verso Modena e Bologna, è sicuramente ravvisabile nel percorso della via tracciata da Lepido nel 175 a. C. , è altrettanto presumibile che ali' altezza di Este e Montagnana si distaccasse un altro percorso che, per Legnago e il margine settentrionale delle Valli Grandi Veronesi, si portava verso il territorio mantovano: e non dimentichiamo che proprio nel Mantovano è stato recentemente individuato il sito di Castellazzo della Garolda, confacies veneta dall'vm al v secolo a.e. Rari e piccoli risultano pure i nuclei abitati nel territorio di Padova, prevalentemente lungo quello che viene ora proposto come un paleo-Brenta settentrionale, mentre solo ad una distanza di circa cinquanta chilometri sorge il centro di Montebelluna, collegato a Padova dalla valle del Brenta e a sua volta a controllo della valle del Piave dove contemporaneamente, ad una trentina di chilometri da Montebelluna, sorge Mel: si viene con ciò a definire anche per Padova un comprensorio-avamposto verso l'area alpina, con funzione speculare a quella svolta dal comprensorio veronese nei riguardi di Este. Mancano ancora esaustive indagini sul territorio che consenta-

121 no di andare al di là di queste semplici constatazioni, ma è comunque interessante sottolineare, come già detto nel precedente capitolo, alcune somiglianze con i modelli che regolano il sorgere dei grandi insediamenti villanoviani dell 'Etruria, in un preciso rapporto gerarchico tra siti maggiori, intermedi, minori. Se piuttosto modesto risulta per gli abitati il livello informativo, qualitativo e quantitativo, non solo sul piano della cultura materiale, ma soprattutto su quello dell'organizzazione sociale, ben più numerosi sono invece i dati che fin dall'inizio possiamo desumere dall'analisi delle necropoli, seppur sempre con occhio vigile a quanto l'ideologia funeraria può svelare ma anche velare o travisare: non bisogna infatti dimenticare che, come ben scritto da B. d'Agostino, « il momento della morte, il rituale funerario nel suo complesso, sono una formidabile occasione di comunicazione sociale, anche se - come in tutte le forme di comunicazione - è complesso il rapporto tra significante e significato ». Sulle problematiche generali ci siamo già soffermati, ma va comunque ribadito che per questo tipo di analisi possiamo per ora sostanzialmente basarci su un unico campione sufficientemente ampio ed omogeneo, rappresentato dalle necropoli di Este: seppur solo in minima parte edite secondo moderni criteri scientifici, per esse disponiamo infatti di una serie di vecchie edizioni di scavo e di sintesi recenti che offrono una base informativa più che sufficiente. Ancora limitato è invece il campione relativo ad altre necropoli del Veneto: per Padova, ad esempio, se molto è già emerso dalla revisione dei vecchi ritrovamenti in occasione della mostra del 1976, è certo che un quadro organico ed articolato potrà derivare solo dall'edizione sistematica degli scavi recenti, assai estesi e condotti con estremo rigore scientifico. Solo macroscopici elementi di confronto possono per ora fornire complessi quali Montebelluna e Mel, praticamente inediti e per i quali non è tra l'altro da sottovalutare il pericolo che la scelta qualitativa dell'edito ne falsi in parte la fisionomia generale mettendo in evidenza solo le« punte dell'iceberg ». Estremamente casuale e frammentaria è ancora l'informazione relativa all'area orientale, che sempre più va emergendo ed articolandosi in questi ultimi anni. Per l'area occidentale-veronese infine ad un'encomiabile documentazione dei ritrovamenti, sia vecchi che recenti, manca purtroppo il supporto di ampi e sistematici scavi. E il discorso ovviamente non vale solo per l'vm secolo, ma dovrà essere tenuto presente in tutta la nostra trattazione.

122 1.2. Le tombe più antiche Analogamente a quanto si riscontra in altri ambienti culturali dell'Italia agli inizi dell'età del ferro, anche nel Veneto le tombe più antiche (tra la fine del IX e gli inizi dell'vm secolo a.C.) sono caratterizzate da corredi molto scarni ed omogenei sul piano sia qualitativo che quantitativo, senza evidenti segni di distinzione economico-sociale: unica netta differenziazione è quella tra deposizioni maschili e femminili, resa trasparente da tipici oggetti di abbigliamento/ornamento, oltre che da elementari indicatori di attività. Una fibula (in genere del tipo ad arco più o meno ingrossato e ribassato e staffa corta), un'armilla in filo, qualche elemento di collana, una fusaiola alludente alla filatura sono per lo più quanto basta a caratterizzare una deposizione femminile. Uno spillone con funzione di ferma-abito corrispondente alla fibula femminile (non sono infatti attestati in questo periodo tipi locali di fibule maschili), qualche raro rasoio, ossa animali alludenti all'allevamento/pastorizia (se non anche a porzioni di pasto funebre, comunque connesse con quella che doveva essere la principale attività dell'uomo, fornire il sostentamento primario) sono sufficienti ad indicare una deposizione maschile. Senza sostanziale differenza per i due sessi è anche il tipo di vaso usato come ossuario, salvo talvolta le dimensioni maggiori degli esemplari maschili; analogo anche il tipo di coperchio, sempre rappresentato da una ciotola. Gli ossuari sono generalmente vasi ascrivibili ad una produzione domestica: olle a corpo globulare talvolta decorate da motivi angolari a pettine; grandi biconici inornati o con decorazione a pettine; piccoli biconici con anse verticali a cornetti, o con anse orizzontali, con decorazione a cordicella organizzata in motivi a denti di lupo, a fasci contrapposti di linee oblique, a riquadri metopali; vasi situliformi che saranno il « simbolo » della « veneticità » soprattutto atestina. Assente o ridotto al minimo è nelle tombe più antiche il servizio di accompagno: una tazzina, o un orciolo, una ciotola, una coppa. Anche se non è certo da sottovalutare l'eventualità di una incidenza ideologica per noi impercepibile, cioè un'esplicita volontà di rendere uguali, nella morte, i vari membri della comunità, sembra ragionevole rapportare queste evidenze ad una reale situazione « egualitaria », ad una reale assenza di forti squilibri economici nella società dei vivi. Il fatto stesso che i vasi, sia quelli adoperati come ossuario sia i pochi accessori, rientrino in

123 una tipica produzione « domestica » analoga a quella che si riscontra negli abitati verrebbe a confermare il quadro di comunità che si autorappresentano ancora a livello di piccoli e ristretti gruppi familiari autosufficienti. Significativo è comunque il fatto che le offerte di cibo, per lo più porzioni di carni crude riferibili ad una dotazione per il viaggio del morto, quando presenti si trovino solo in tombe maschili denotando una certa accentuazione riservata, per lo meno a livello rituale, alla figura del paterfamilias. Dall'analisi dei materiali risulta fin dall'inizio una sensibile adesione di Este a mode diffuse in vari ambienti villanoviani e soprattutto a Bologna. Lo attestano in modo particolare i vari tipi di fibule, ad arco ribassato semplice o ritorto, ad arco rivestito di perline di pasta vitrea, gli spilloni con capocchia ad ombrellino, i più antichi rasoi, tutti tipi presenti nelle necropoli bolognesi e spesso ricorrenti ad Este con analoghe associazioni. Di tradizione villanoviana, ed ampiamente diffusa a Bologna, è anche la sintassi decorativa metopale. La presenza tra l'altro ad Este, nella tomba Scarabello 14, di un ossuario (cioè di un indicatore « forte » al pari dei bronzi) del tipo biconico con unica ansa a tortiglione, molto simile agli esemplari della necropoli bolognese di San Vitale, potrebbe non escludere anche concreti contatti « etnici » attraverso una delle più semplici forme di integrazione, il rapporto matrimoniale, secondo un modello ben evidenziato in vari ambienti culturali e che sicuramente cela relazioni di natura squisitamente « economica ». Meno eloquente è il quadro offerto da Padova, dove rarissimi sono i bronzi mentre, tra i fittili, è frequente un tipo di orciolo biconico non documentato ad Este. Tra i pochi materiali bronzei spicca un torques in verga a tortiglione, oggetto diffuso nei Campi d'urne centro-europei: altri rari esemplari sono attestati nell'area settentrionale (ad Angarano e nel Bellunese) ed occidentale (a Oppeano e a Baldaria). Anche se non è da sottovalutare l'incidenza negativa rappresentata da un diverso livello di documentazione (rarissime sono infatti per il momento a Padova le tombe attribuibili alla fine del ix-inizi dell'vm secolo a.C.), sembra comunque possibile cogliere fin d'ora un certo grado di differenziazione tra i due centri, il che risulterà confermato dal quadro di pieno vm secolo.

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1.3. Produzione ceramica specialiu,ata e primi indizi di trasformazione Già nel corso della prima metà dell 'vm secolo è possibile rilevare, anche se ancora una volta con una documentazione organica limitata ad Este, i primi sintomi di trasformazione del tessuto sociale, le prime articolazioni in classi caratterizzate da una divisione specializzata del lavoro, della produzione, dei « servizi », dei ruoli, che uscendo dal_ ristretto gruppo familiare si allargano all'intero corpo sociale. E questo un processo che si manifesta nel Veneto con un certo ritardo rispetto all'ambito villanoviano, dove già agli inizi dell'vm secolo risulta codificata e matura una complessa situazione di classi. Prima evidenza è il nascere di una produzione ceramica specializzata ad uso funerario che presuppone il nascere di una categoria di artigiani a tempo pieno. Tra i complessi più significativi è la tomba Ricovero 131, databile ali' inizio del secondo quarto dell 'vm secolo, nella quale, accanto ad ossuari ancora di produzione « familiare », sono presenti vasi estremamente raffinati, in argilla ben depurata e perfettamente cotta, accuratamente lucidati e decorati con motivi a cordicella riempiti di pasta bianca: eccezionale e ben noto è un askòs a bovide, di un tipo che trova confronto in ambiente sia villanoviano che hallstattiano. Nell'ambito di questa produzione più raffinata, attorno alla metà dell'vm secolo diviene frequente la decorazione a borchiette bronzee (con motivi lineari molto semplici ad Este e già più complessi a Padova) e a lamelle metalliche. Quest'ultima, stando alle evidenze degli scavi recenti, doveva essere usata più di quanto non possa apparire a causa della sua difficile conservazione, in genere consistente nelle sole tracce di ossido e del collante che serviva a fissare le esili striscioline di stagno, tracce che soprattutto nei vasi di più antico ritrovamento possono essere state cancellate da lavaggi e restauri. Tale tecnica decorativa era già nota nella tarda età del bronzo in area transalpina e lombarda, ma è probabile che la sua comparsa nel Veneto sia piuttosto da collegare al riflusso di una moda ampiamente documentata tra la fine del 1x e gli inizi dell'vm secolo in ambiente villanoviano (Veio, Tarquinia, Cerveteri, Vulci, Vetulonia, Populonia): presumibile il tramite di Bologna dove si afferma nello stesso periodo. Trasparente nell'adozione delle tecniche decorative a borchiette bronzee e a lamelle metalliche è l'intendimento di surrogare con una raffinata produzione fittile il più costoso vasellame

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metallico che, in ambienti culturalmente ed economicamente più avanzati, serviva a connotare le tombe di personaggi emergenti. Ad una produzione altamente selezionata, della quale peraltro ci sfuggono i moventi, gli stimoli, le implicazioni culturali ed ideologiche, vanno senza dubbio rapportati i vasi a stivale: presenti ad Este in una quindicina di esemplari dalla metà dell'vm alla metà del VII secolo a. C., sono stati tutti rinvenuti in tombe femminili, o bisome con presenze femminili e infantili. Al di fuori di Este ne sono finora noti nel Veneto solo due altri esemplari, ambedue nel territorio veronese: uno, tra l'altro molto particolare ed unico nel suo genere, da una tomba di Oppeano assegnata al IX secolo, l'altro, più simile ai tipi di Este, da una tomba di Sorgà di pieno vn secolo. Assai rari sono i vasi di questo tipo in Italia (uno da Veio, due da Vetulonia, due da Bologna, due da Novilara), tutti piuttosto diversi tra loro e soprattutto dal gruppo atestino che viene decisamente a costituire un insieme estremamente omogeneo e di assoluta rilevanza numerica. Alcune affinità, quali il gambale cilindrico e slanciato, il piede snello e ben sagomato, sembrano accomunare gli esemplari« villanoviani » di Veio, Vetulonia, Bologna, databili tra la fine del IX e la seconda metà dell 'vm secolo; isolati, ed anche più tardi (VII-VI secolo), sono quelli di Novilara; a sé stante, come già detto, il gruppo di Este caratterizzato da un gambale molto alto, più o meno rigonfio e con larga imboccatura, dal piede piuttosto appiattito con punta allungata talora rivolta verso l'alto. Pur nella loro indipendenza, per i vasi di Bologna e di Este è stata supposta una rielaborazione locale di tipi diffusi nella zona danubiano-balcanica, mentre quelli di Veio e Vetulonia sono stati da ultimo messi in rapporto con la produzione bolognese, sottolineando una complessa trama di rapporti tra i vari centri del)'Italia peninsulare e le aree transalpine. Significativi in questo circuito sono il coinvolgimento primario di Este, con marginali sfrangiature nel Veronese, e la sintomatica esclusione di Padova. 1.4. Trasformazioni nel rituale .funerario

Contemporaneamente ali' affermarsi di una produzione ceramica specializzata, sicuro indizio di una prima forma di organizzazione artigianale, ben più evidenti sintomi di trasformazione si possono cogliere in un progressivo e vario articolarsi dei corredi funebri. Se è indubbio che per delineare un quadro più preciso

126 avremmo bisogno di conoscere maggiori dati sugli abitati, di mettere cioè a confronto il mondo dei vivi e quello dei morti, è comunque certo, anche sulla base di quanto si riscontra in altri ambienti culturali, che a sensibili mutamenti dell'ideologia funeraria corrispondono in genere processi di trasformazione sociale in atto. Già durante la prima metà dell'vm secolo, con rapida e sensibile progressione nel corso della seconda metà, l'aspetto egualitario che caratterizzava le tombe più antiche lascia il posto ad un notevole campo di variabilità, segno evidente di una società che va rapidamente maturando una certa differenziazione e stratificazione socio-economica. Tale processo è ben apprezzabile nel progressivo arricchimento della qualità e della quantità dei materiali di corredo, ma soprattutto nell'emergere di singole tombe maschili, di singole tombe femminili nonché delle prime significative tombe di coppia. Cause determinanti di trasformazione furono certo un notevole aumento demografico (che comportò un'organizzazione più articolata ali' interno della comunità con la creazione di attività specializzate e di ruoli diversi), un migliore sfruttamento delle risorse e degli scambi, una precisa presa di coscienza delle varie potenzialità offerte dal territorio, in un complesso intreccio di cause ed effetti che non sempre è facile decodificare. Anche se la nostra analisi si basa prevalentemente sull'evidenza offerta dalle tombe di Este, le uniche che consentano di tracciare un quadro sufficientemente organico, la documentazione relativa ad altri centri permette comunque, pur nella sua frammentarietà, non solo di confermare l'impressione di profondi e generalizzati mutamenti nel corso dell 'vm secolo, ma anche di evidenziare significative connotazioni « locali » soprattutto a livello di diverse aperture territoriali e culturali. A partire dalla metà dell 'vm secolo è chiara la volontà di esibire lo status del defunto attraverso il variare del grado di complessità dei corredi. Se sul piano qualitativo aumenta il numero delle combinazioni (che comportano oggetti vari di ornamento, di abbigliamento, utensili, materiali status symbol ecc.), sul piano quantitativo diventa sempre più frequente l'iterazione degli oggetti di una stessa categoria (fibule, spilloni, vasellame) chiaramente con significato simbolico di prestigio. Ulteriori « messaggi » di differenziazione sono affidati al pregio intrinseco degli elementi di corredo: ornamenti di ferro e talvolta d'oro anziché di bronzo; vasellame di bronzo anziché di ceramica; presenza di

127 armi o di altri indicatori di status, di rara diffusione e quindi di pregnante valore. Si accentua la differenza tra tombe maschili e tombe femminili e per tutto l'vm secolo è senza dubbio la figura maschile ad emergere con una notevole varietà di connotazioni: guerriero, cacciatore, allevatore, artigiano e, seppur molto raramente, cavaliere. Meno vari e complessi risultano i corredi femminili, anche se è evidente un graduale processo di integrazione della donna attraverso il rapporto di coppia. A quest'ultimo proposito è significativo il progressivo aumento, nel corso della seconda metà dell 'vm secolo, delle tombe bisome, seppur non sempre ne è del tutto chiaro il significato. Particolarmente diffuso ad Este è il caso di tombe contenenti due ossuari i cui corredi, ben distinti, permettono agevolmente di riconoscere una deposizione maschile ed una femminile: in simili situazioni è facile pensare a due individui, probabilmente marito e moglie, la cui morte può essere avvenuta in tempi diversi, seppur molto vicini. Tra l'altro - come già detto - la struttura stessa delle tombe, a cassetta, ne consentiva facilmente la riapertura secondo una pratica che diventerà sempre più frequente nei secoli successivi fino ad evidenziare vere e proprie tombe di famiglia utilizzate per più generazioni. Tra le più antiche tombe di coppia con ossuari distinti si può portare l'esempio della Ricovero 154, assegnabile ancora alla prima metà dell 'vm secolo: due ossuari, chiaramente differenziati per forma (un'olla e un situliforme), contenevano minimali oggetti di abbigliamento (rispettivamente due spilloni per l'uomo e una fibula per la donna) con l'aggiunta, nell'ossuario maschile, di un punteruolo di bronzo e di un coltello di ferro; all'esterno degli ossuari erano stati deposti semplici indicatori di attività (astragali per l'uomo, fusaiole per la donna), più un minimale servizio per due (due vasi per contenere, differenziati per forma, e una tazzina attingitoio spaiata, e forse comune ai due defunti, come di frequente). Ci troviamo quindi di fronte a due corredi relativamente semplici, simili ai contemporanei singoli, dove un certo risalto è dato solo alla figura maschile. Ben diverso è l'esempio offerto nella seconda metà del secolo dalla tomba Ricovero 236, che riveste un notevole interesse per numerosi e complessi aspetti del rituale. All'uomo era riservato un ossuario di bronzo al cui interno si trovavano vari oggetti ritualmente distribuiti in maniera selezionata: sul fondo della situla-ossuario, deposti prima dell'introduzione delle ossa, stavano

128 una spada ed un'ascia intenzionalmente spezzate e non esposte al fuoco, oltre a vasellame bronzeo da libagione non solo spezzato ma anche combusto, quindi derivante dal rogo e intenzionalmente separato dalle ossa dopo la cremazione; frammisti alle ossa erano invece quattro spilloni (uno dei quali eccezionalmente con fusto di ferro) e alcuni oggetti d'ornamento femminili, tutti incombusti e quindi offerti dopo il rogo. Alla donna era riservato il più normale ossuario fittile, ma la ricchezza del corredo era palesata dall'iterazione del numero delle fibule e da una serie di cilindri di bronzo rivestiti di foglia d'oro. Sul fondo della cassetta era stato collocato un grande servizio costituito da coppie di vasi complementari quanto a funzione ma nettamente differenziati per forma (due orcioli) o per materiale (un incensiere di bronzo e uno fittile), quasi a riflettere la coppia dei defunti, e da una numerosa serie di tazzine per le quali è impossibile stabilire se si tratti di una doppia specifica dotazione o solo di un'iterazione simbolica di prestigio. Oltre al servizio, vari materiali deposti ali' esterno degli ossuari contribuivano ad evidenziare la presenza della coppia: rasoio, ascia, grandi coltelli, utensili per la lavorazione del legno caratterizzavano l'uomo; fusaiole, coltellino forse da tessitura, piccoli ornamenti, la donna. Estremamente difficile, se non impossibile, è stabilire se si tratti di morti simultanee, e in tal caso se di un unico rogo o di due roghi diversi, oppure di morti successive, anche se quest'ultima sembra l'ipotesi più probabile data la scarsa commistione di materiali dei due defunti negli ossuari: unica eccezione sono gli oggetti femminili presenti nell'ossuario maschile, ma il fatto che siano incombusti porta ad interpretarli come un'offerta della donna all'uomo, secondo un rituale ampiamente attestato ad Este anche in forma reciproca. Ben più interessante è il fatto che nei pochi decenni che intercorrono tra questa e la tomba precedentemente esaminata il semplice concetto di coppia risulta arricchito di numerose e pregnanti valenze di prestigio, di rango/ruolo: se un'accentuazione tutta particolare è sempre riservata all'uomo, notevole risalto assume anche la figura femminile, chiaro sintomo di un'integrazione della donna a livello di rango, se non ancora di ruolo, attraverso il rapporto di coppia. Un esempio molto diverso, indicativo della variabilità e complessità dei rituali soprattutto nel caso di tombe emergenti, è offerto dalla Ricovero 143 con unico grande ossuario contenente due ricche combinazioni complete, maschile e femminile. Per deposizioni di questo tipo è stata avanzata l'ipotesi del sa-

O:

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