I segreti delle madri 8858127544, 9788858127544

Le persone mentono con grande disinvoltura e spesso in maniera molto convincente. Lo fanno perché ritengono che coprire

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I segreti delle madri
 8858127544, 9788858127544

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i Robinson / Letture

Di Melita Cavallo nelle nostre edizioni:

Si fa presto a dire famiglia

Melita Cavallo

I segreti delle madri

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione giugno 2017

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Edizione 5 6

Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2754-4

Indice

Introduzione  Il valore della verità

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Parte prima

Segreti in famiglia 1. La madre bambina

5

Napoli, fine anni Settanta, p. 5 - Napoli, quindici anni dopo, p. 15 - Roma, aprile 2005, p. 23

2. La dimensione dell’attesa

25

Napoli, primi anni Ottanta, p. 25 - Roma, primi anni Duemila, p. 53

3. Scavalcare il destino

56

Antefatto, p. 56 - Napoli, fine anni Settanta, p. 59 - Napoli, sedici anni dopo, p. 64

4. Il colore della verità

83

5. Oscurantismo materno

108

6. Storie incrociate

128

Parte seconda

Il segreto sulle origini 7. Ritrovarsi per caso

149

8. Il filo mai spezzato

164

9. Ti ringrazio di avermi detto sì

175

10. Il silenzio nell’incontro

186

­­­­­V

11. Così vicine così lontane

198

12. Rintraccio “fai da te”

208

Appendice 1. Il diritto alla conoscenza delle origini

223

2. Il rintraccio della madre biologica

230

A mio figlio Francesco, che sa dare senso alla vita con la ricchezza del cuore

Introduzione

Il valore della verità

Le persone mentono con grande disinvoltura e spesso in maniera molto convincente, perché la menzogna produce sicuramente un vantaggio, o evita uno svantaggio, almeno nel breve periodo. Persino il bambino impara molto presto a mentire, per difendersi, ad esempio, dall’accusa di aver preso i cioccolatini messi da parte per gli ospiti; e il ragazzo che ha rubato dal portafoglio del padre una banconota da 50 euro per portare la ragazza in pizzeria lascerà che il padre sospetti della domestica. Per i bambini e i ragazzi infrangere la regola e mentire è fenomeno diffuso, perché l’immaturità non consente di resistere al vantaggio immediato. E allora si può ben comprendere e non colpevolizzarli oltre misura: in questi casi va perciò inflitta una punizione minima, ma che riaffermi con forza la regola di lealtà e trasparenza nei rapporti intrafamiliari, valori indispensabili per tenere unita la famiglia nel tempo. Mi sembra di poter dire che questa tendenza – direi quasi connaturata alla natura umana – a procurarsi vantaggi con la menzogna viene oggi non solo tollerata ma anzi esaltata dalla dilagante cultura dell’apparire, e questo provoca progressivamente nelle persone danni a volte irreversibili. Se infatti la spontaneità diventa difficile, per il timore di non piacere; se i sentimenti devono essere continuamente repressi, per il timore che possano infastidire; se il bisogno di essere se stessi deve essere perennemente controllato, per il timore di possibili svantaggi nel breve periodo; se insomma tutta la vita diventa una recita, allora tutte queste finzioni ­­­­­IX

erodono progressivamente l’autostima e causano quel malessere che oggi vediamo in aumento persino nei bambini: depressione, ansia, panico. Ma coprire un comportamento insincero ha dei costi non solo in termini umani, correlati alle energie psichiche per sostenerlo, ma anche materiali e finanziari, variabili da caso a caso. Pensiamo, ad esempio, a tutte le problematiche che quotidianamente si trascina dietro il castello di bugie teso a nascondere una relazione extraconiugale; o alla fatica fisica e psicologica, e ai costi finanziari connessi con quella grande menzogna che è l’alienazione parentale, in cui uno dei genitori agisce nei confronti dell’altro cercando di farlo apparire come violento, persecutorio, e nei casi più gravi persino abusante nei confronti del figlio, per giustificare la richiesta di interruzione di rapporti con lui, in quanto persona indegna di esercitare il suo ruolo, e sentirsi così libero di iniziare un percorso con un nuovo partner senza perdere il bambino, inteso come possesso e come vittoria verso l’altro genitore. Ma allora, dire la verità in famiglia conviene? Alla luce della mia lunga esperienza nell’ambito della giustizia minorile, e quindi da un osservatorio particolare e privilegiato per l’analisi dei comportamenti dei membri delle famiglie in situazioni di conflitto, la risposta è sì. Certo, è una risposta che guarda al lungo termine, e che richiede spesso la disponibilità a sacrificare qualcosa nell’immediato. Ricordo, a questo proposito, un caso di cui mi sono occupata: una convivenza che durava da molti anni e appariva stabile perché fondata su reciproci rapporti di stima, fiducia e affetto franò rovinosamente perché l’uomo apprese da vecchi conoscenti che la donna, madre dei suoi tre figli, prima di iniziare la convivenza con lui aveva avuto una relazione significativa con un altro uomo, da molti anni trasferitosi in Brasile. Lei non aveva ritenuto di doverglielo dire perché si trattava del suo passato: ciò che importava era l’essergli stata fedele nel corso della convivenza con lui e l’essere sempre stata madre impareggiabile per i suoi tre figli. Ma il compagno ­­­­­X

era convinto che un rapporto fondato su una menzogna – perché tale riteneva essere una verità sottaciuta – non poteva proseguire; e perciò iniziò un procedimento per chiedere la decadenza della compagna dalla responsabilità genitoriale e l’affidamento dei figli, motivando questa decisione con il superiore interesse dei figli stessi perché prima o poi la madre avrebbe ingannato anche loro. Il Tribunale affidò i figli al padre, in quanto la madre era nel frattempo caduta in forte depressione, stabilendo tuttavia rapporti stabili e continui madre-figli. Con tutta probabilità, se la donna avesse rivelato al compagno, nel corso della iniziale frequentazione, la pregressa convivenza, il fatto sarebbe stato elaborato serenamente. Ma per rinunciare ai vantaggi a breve termine assicurati dal sottacere la verità, o coprirla con una menzogna, sono necessarie intelligenza e lungimiranza, una profonda autostima, la capacità di liberarsi dai pregiudizi e dalla paura del giudizio altrui, che è uno dei motivi, forse quello più importante, che causa la menzogna. In tal modo sarà possibile l’accettazione di fatti accaduti o l’affermazione nella pratica di idee e principi ai quali si è in astratto culturalmente aderito, rifiutando compromessi di comodo più o meno meschini, a volte moralmente riprovevoli, comunque poco o nulla dignitosi. Ne discende che, se la famiglia deve essere un’istituzione da salvaguardare nel lungo termine, i rapporti interpersonali al suo interno non possono che essere improntati alla massima sincerità a tutti i livelli. In altri termini, il rispetto e la ricerca della verità si concretizzano, nell’ambito dei rapporti intrafamiliari, in una cultura di lealtà e fiducia reciproche, veri valori fondanti del nucleo nel lungo periodo. Diventa così naturale condividere su valori comuni la responsabilità educativa dei figli, impostare la vita del nucleo su una progettualità a lungo termine, concordata e coerentemente perseguita, coinvolgere i figli in qualsiasi decisione che impatta sulla gestione familiare, compatibilmente con la loro età e il loro grado di maturità intellettiva e psicologica. ­­­­­XI

In particolare, la lealtà dei genitori nei confronti dei figli è il fondamento dell’educazione responsabile, perché esprime in modo chiaro la loro autorevolezza e la loro fiducia verso tutti i componenti della famiglia che, sentendosi rassicurati, rafforzano la propria autostima. In tal modo le relazioni diventano sempre più fluide, nell’ambito di un dialogo continuo e di senso che struttura e consolida l’assetto del nucleo. In conclusione, c’è un rapporto tra la verità e la felicità? Forse possiamo dire che la verità non assicura la felicità, ma che senza di essa l’uomo è sicuramente infelice. *** Il libro ripercorre dodici storie che hanno al cuore una verità non detta. Si tratta di storie ispirate a casi giudiziari da me trattati; luoghi, nomi e cognomi dei personaggi sono di fantasia, ed anche le circostanze hanno subìto modifiche quando necessario per salvaguardare la privacy delle persone. Spesso in famiglia il conflitto esplode e si palesa quando, per i motivi più disparati, il velo di menzogne si squarcia. Custode della verità è spesso la madre. A volte per paura, a volte per debolezza, spesso con le migliori intenzioni, è la donna che più di frequente si illude di poter salvaguardare l’integrità della propria famiglia continuando a mantenere un segreto. Ma quasi sempre si rivela un errore. Di questo trattano le storie raccolte nella prima parte del libro. La seconda parte racconta storie legate a un particolare segreto, quello sulle origini delle persone adottate non riconosciute alla nascita. Nell’ultimo anno della mia attività ho raccolto le domande di molti figli adottivi alla ricerca di notizie sulla loro nascita, per conoscere il nome della madre biologica e poterla incontrare. Sono storie con una forte carica emotiva, in gran parte a lieto fine. È interessante notare che le protagoniste di queste ultime sei storie sono tutte donne, di diversa età, la qual cosa dipende sicuramente dal fatto che, nel periodo considerato, le do­­­­­XII

mande presentate da donne sono state molto più numerose di quelle presentate da uomini. Una possibile interpretazione è che le donne, molto più che gli uomini, sono ancestralmente legate alle radici esistenziali, come custodi antiche dei valori tradizionali e familiari; e nel Ventunesimo secolo questo legame determina nei moderni angeli del focolare l’incomprimibile bisogno di conoscere le negate origini biologiche.

Ringraziamenti Il mio sentito grazie alla dottoressa Vanessa Carocci, giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma, per la collaborazione fattiva e intelligente nell’ascolto delle persone richiedenti informazioni sulle proprie origini. Ringrazio anche l’assistente capo di Polizia Vincenzo Casolaro per le operazioni di rintraccio delle madri biologiche, condotte con impegno e professionalità.

I segreti delle madri

Parte prima

Segreti in famiglia

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La madre bambina

Napoli, fine anni Settanta L’usciere bussò alla porta, come al solito rumorosamente, facendo sobbalzare la piccola che stavo ascoltando. Entrò senza attendere il mio “avanti” e si precipitò a dire, perché io non potessi bloccarlo facendogli cenno di richiudere la porta, che fuori c’era un uomo che chiedeva urgentemente di me per una “cosa molto grave”. Gli risposi di controllare che fosse residente nella mia zona di competenza, e di dirgli che doveva, comunque, attendere la fine dell’udienza che stavo trattando. L’uomo, o meglio l’ometto, entrò con il basco in mano, rigirandoselo nervosamente tra le dita. Mi guardò dritto negli occhi e mi disse: «Non vi ricordate di me?»; io non risposi, fissandolo per cercare di ricordare...; e lui aggiunse: «Venni con mia moglie per chiedervi aiuto per un nipote disabile, Ulisse, e voi vi sorprendeste del nome, e poi gli regalaste un aeroplanino giocattolo, e gli diceste che, guardandolo attentamente, poteva immaginare di volare...; vi ricordate? Si tratta del figlio di una cugina di mia moglie che morì di parto, e perciò mia moglie volle prendere il bambino appena nato con noi, che eravamo da poco sposati. Ulisse non ha padre se non sulla carta: prima ancora che nascesse, se ne era andato in America e non è più tornato, forse perché aveva saputo delle condizioni di salute del figlio, colpito da un problema neurologico alla nascita. Quando io e mia moglie venimmo da voi, un paio di anni fa, voi metteste a posto le carte e lo affidaste a noi, “togliendo il padre di mezzo”». Ricordai che avevo 5­­­­

dichiarato la decadenza del padre che mai si era interessato al bambino, disponendo l’affidamento agli zii, nominati poi tutrice e protutore dal giudice tutelare. «Oggi Ulisse ha quattordici anni», riprese l’uomo. «Di anni ne sono passati da quando Ulisse entrò a far parte della nostra famiglia. Ma ciò che è successo ora, il motivo per cui sono qui, mi ha fatto invecchiare di colpo; vedete, ho fatto i capelli bianchi in una notte». «Ditemi cosa è successo, tutto per ordine. Mi pare di ricordare che voi avevate una piccola falegnameria e molti figli, e speravate di avere in vostro nipote un aiuto; invece avete poi dovuto constatare che Ulisse non sarebbe mai stato in grado di darvelo, mentre i vostri figli maschi erano ancora alle scuole elementari...». «Vi ricordate tutto, signor giudice. Ma adesso è successo che Adelina, la nostra bambina che ha solo dodici anni, è incinta; io l’ho portata all’ospedale per farla abortire, ma lì mi hanno detto che solo se c’è il vostro ordine lo possono fare perché è all’incirca al quarto mese, secondo il medico che l’ha visitata. Eppure finora nessuno si era accorto che la bambina era in questo stato, né mia moglie, né io, né lei stessa, e siccome le sue regole le sono venute verso la fine dello scorso anno abbiamo pensato che il ritardo era normale, che si dovevano stabilizzare..., e solo qualche giorno fa si è cominciato a vedere qualcosa...». Ricordavo che quel padre si era definito “un uomo di Dio” quando aveva dichiarato la piena accettazione nella propria famiglia del nipote disabile ed il rifiuto al suo allontanamento. Gli avevo infatti proposto il collocamento del bambino in una struttura con rientro in famiglia il fine settimana per consentirgli di apprendere e assimilare comportamenti ai quali gli zii non riuscivano ad educarlo. Rimasi perciò sorpresa nel sentire che quello stesso padre chiedeva ora l’aborto per sua figlia. Gli domandai come era avvenuta questa gravidanza, chi mai aveva abusato della bambina, se avesse già fatto la denunzia quando la figlia glielo aveva rivelato; e poi, perché l’aborto? Come padre di quattro figli, non poteva aprire le 6­­­­

braccia anche al quinto bambino, come fosse figlio suo? Lui mi disse: «Mettetemi in fila le domande, e vi rispondo piano piano perché sono distrutto». L’uomo girava intorno al discorso dicendo che il suo appartamento era piccolo per i suoi cinque figli (considerava figlio anche il nipote), che soltanto Ulisse, il più grande, aveva un letto tutto per sé, mentre gli altri quattro, Adelina, Salvatore, Carmine e Filomena, dormivano insieme in un letto matrimoniale nella stessa stanza di Ulisse. Non vi era altra soluzione perché l’appartamento aveva solo due grandi stanze e un’ampia cucina con un grande tavolo per il pranzo, dove quando non c’erano i piatti c’erano i quaderni e i libri dei figli che andavano a scuola. Purtroppo un letto nella cucina non ci poteva proprio stare, altrimenti alcune cose brutte forse non sarebbero mai accadute... Lasciando quella frase incompiuta posò per un attimo la fronte sulla mia scrivania, come a voler lasciare riposare il cervello in ebollizione per il troppo pensare. Poi riprese con voce accorata: «Io il bambino me lo sarei pure tenuto, perché un’altra bocca da sfamare non mi fa paura, con il mio lavoro me lo posso permettere, ma ora, così come stanno le cose, non posso proprio... Anzi mi sono deciso pure a mettere Ulisse in un istituto, prendendolo, come avevate detto voi, per il fine settimana». Seguì una lunga pausa che io non interruppi, pensando che volesse aggiungere qualcosa, a mo’ di chiarimento; infatti dopo qualche minuto esclamò, finalmente con voce decisa: «Insomma, avete capito che è stato Ulisse, il quale manco lui ha capito niente. Mia figlia si ricorda solo che a gennaio, la notte precedente la festa della Befana, poiché faceva molto freddo e le battevano i denti, se n’è andata a dormire vicino al cugino che aveva una coperta in più, anche perché temeva che la Befana non l’avrebbe vista se restava con gli altri tre fratelli. Così, per non farle sentire tanto freddo, lui l’aveva riscaldata, e lei pensa che è successo mentre la riscaldava, perché era quella l’unica cosa strana che le era accaduta, così come aveva già riferito in ospedale. La dottoressa le aveva 7­­­­

appunto chiesto se alcuni mesi prima, verso l’inizio dell’anno, mentre era vicina, vicina a qualcuno, aveva sentito giù verso la pancia qualcosa di strano, che non aveva mai sentito prima. La creatura è sempre stata sincera e per lei la verità è questa. Non sapevamo né cosa dire né cosa fare, perciò l’abbiamo portata subito, il giorno dopo, cioè ieri, in ospedale, ma ci hanno rimandato qua, e io e mia moglie siamo stati contenti perché già vi conosciamo. Questi i fatti, signor giudice, e adesso stiamo nelle vostre mani, e ci dovete aiutare, soprattutto dovete aiutare Adelina». Cercai di spiegare che la competenza ad autorizzare l’aborto era del giudice tutelare e che, comunque, per una gravidanza così avanzata sarebbe stato necessario provare una situazione di rischio per la ragazzina, che solo un medico avrebbe potuto accertare. Aggiunsi che forse la dottoressa che aveva visitato Adelina in ospedale aveva consigliato di venire da me in Tribunale perché spiegassi loro che si poteva far nascere il bambino: «Poi Adelina può dichiarare al medico dell’ospedale che non lo può tenere per la sua giovanissima età e le tante responsabilità che conseguono alla crescita di un bambino, e se voi direte che non ve la sentite di crescere questo neonato perché avete già quattro figli e un nipote in affidamento, il bambino può essere dichiarato adottabile. Voi che avete fatto quattro figli sapete bene che un feto verso i cinque mesi è già formato, vuole quindi nascere, e Adelina può dargli la vita, e poi chiedere al Tribunale che per lui si provveda ad individuare la migliore famiglia possibile. Ciò significa che Adelina renderà felice una coppia che da anni aspetta un bambino e che non riesce ad averlo naturalmente. È opportuno, dunque, che io parli con vostra figlia: domani mattina alle 8,30 non c’è ancora folla nei corridoi e la situazione è tranquilla, conducetela da me con assoluta serenità, ditele che avrà anche lei un bellissimo regalo. Se la bambina non si rende bene conto che c’è un’alternativa all’aborto sarà necessaria la nomina di un curatore, ma può darsi che ne potremo fare a meno». L’uomo mi chiese se doveva condurre anche Ulisse; gli dissi di no, 8­­­­

scuotendo la testa in modo deciso; ed egli si spaventò: «Ma perché, può succedergli qualcosa di brutto?». «Adesso no, state tranquillo», fu la mia risposta evasiva. Passai ad ascoltare le persone convocate per l’udienza successiva; si trattava di un ragazzo fuggito da una comunità, ma avevo sempre nella mente la situazione di quella bambina. Avevo avuto, naturalmente, altri casi di minorenni giovanissime rese gravide da adulti sconosciuti, o all’opposto da persone molto vicine alla famiglia, e anche da parenti molto stretti, ma mai così giovani di età: una bambina di prima media appena dodicenne..., davvero impensabile... E anche le modalità, assolutamente inimmaginabili... Sapevo che, scrivendo quanto dichiaratomi dal padre della minore, si sarebbe instaurato un procedimento penale a carico del nipote. Pur non avendo ancora raggiunto il quattordicesimo anno di età all’epoca dei fatti ed essendo, quindi, non imputabile, Ulisse avrebbe comunque subìto l’attività investigativa del pubblico ministero, anche se il procedimento si sarebbe inevitabilmente concluso con una sentenza di incapacità per minore età. La famiglia ne sarebbe comunque uscita distrutta. La decisione di collocare Ulisse in una struttura mi sembrò una misura adeguata anche per tutelare l’altra bambina, la piccola Mena. Ricordavo molto bene il ragazzo; aveva fin dalla nascita accusato un notevole ritardo cognitivo perché al momento del parto era stato preso con il forcipe: colpevole forse il medico che non aveva saputo utilizzare uno strumento produttivo di possibile rischio sanitario ove non manovrato alla perfezione. Tornata a casa, continuavo a pensare a una soluzione per non far trovare Ulisse nel bel mezzo di una esplosione mediatica insieme a sua sorella, e spezzare così il cuore di quei poveri genitori che si facevano in quattro per provvedere al meglio ai loro figli. Decisi che l’indomani, dopo aver ascoltato la ragazza, mi sarei recata dal Procuratore capo per rappresentargli la questione che di lì a poco sarebbe arrivata sul suo tavolo. 9­­­­

*** Il giorno dopo, alle 8,30 in punto, i genitori e Adelina erano nella sala di attesa. Dissi loro di entrare di là a qualche minuto. Entrò prima la madre, per dirmi che Adelina non aveva chiuso occhio per tutta la notte anche se l’avevano tenuta nel loro letto, come avveniva da quando avevano saputo; non erano bastate due tazze di camomilla, e neppure tutte le rassicurazioni sulla mia bontà e comprensione. Le dissi di non preoccuparsi e di far entrare la bambina. Adelina appariva una bambina tra i dieci e gli undici anni, diafana, magrolina, con lunghi capelli biondi e lisci, e occhi scuri da agnellino condotto al macello. Somigliava alla madre, sembrava molto timida e remissiva; ma pensai che era probabilmente l’occasione a farla sentire e apparire tale. Si intravvedeva appena la rotondità del pancino, che però poteva essere anche del tutto connaturale alla sua figurina. Restava lì, vicino alla porta che aveva solo socchiuso, quasi pronta ad un immediato commiato. Era sicuramente in difficoltà e non accennava a sedersi nonostante il mio cenno. Allora le dissi: «Siediti pure, Adelina, se resti vicino alla porta non possiamo parlare, anzi chiudila bene. Se vuoi che entri la mamma o il papà possiamo farli entrare, però io vorrei prima parlare un po’ con te. C’è qualcosa che mi vuoi chiedere? I tuoi genitori ti hanno spiegato cosa è questo luogo e perché ti hanno condotto da me?». La bambina rispose: «È stata la dottoressa dell’ospedale a dire a mamma che dovevo venire da voi, in Tribunale, perché per me ci vuole un’autorizzazione per...». «Per cosa?». «Per togliermi questa cosa che mi cresce nella pancia». «Ma tu, Adelina, tu lo sai cosa è quella cosa che ti cresce nella pancia?». «Sì, è una cosa che se continua a crescere può diventare un bambino, ma io non so chi me l’ha messa dentro...», e scoppiò a piangere, singhiozzando. Mi alzai e le andai vicino dicendole: «Ma questo adesso a me non importa, infatti hai visto che non te l’ho chiesto; però ti voglio spiegare che quella cosa che hai dentro il tuo 10­­­­

pancino è già un bambino, che ha gli occhietti, il nasino e la boccuccia, già c’è e ti chiede di farlo vivere, di farlo nascere e poi di lasciarlo andare dove questo Tribunale stabilirà, e cioè da un papà e una mamma che aspettano un bambino da molti anni; ma quel bambino non è mai andato da loro, nella pancia di quella donna, e perciò lo chiedono a noi perché qui vengono le ragazze che devono dare alla luce un bambino ma non possono tenerlo con loro. Quindi io ti ho chiamato per farti capire bene che potresti fare felice una coppia in attesa accudendo nel tuo pancino questo piccolino per ancora quattro mesi. Pensa, ora siamo a fine maggio e la scuola è finita, ad ottobre potrai riprendere la scuola perché il pancino non ci sarà più; quando il pancino diventerà evidente andrai in una grande casa, anzi una bella villa, dove troverai altre ragazze che hanno il pancino, o il pancione se sono grassottelle, e, come molte di loro, lascerai il tuo bambino e tornerai a casa dai tuoi genitori, e dimenticherai ciò che ti è accaduto quando sarai tra le tue compagne di banco e le tue insegnanti, che ti vogliono bene, e avrai le altre mille faccende da fare in casa per aiutare la mamma. Pensa per un solo momento a quanta felicità puoi dare a questo bambino lasciandolo ad una famiglia che lo desidera; non farlo nascere significa non volergli bene, togliergli la possibilità di vedere gli alberi, i fiori, le stelle e tante altre cose che tu oggi ami e potrebbe anche lui amare vivendo». La bambina continuava in un pianto silenzioso, intervallandolo con respiri profondi e guardandomi di tanto in tanto di sottecchi. Dopo un lungo silenzio, Adelina disse: «Io adesso mi sento tanto infelice, ma voglio che qualcuno sia felice per la mia infelicità, e se mi dite come fare, lo farò, sempre che i miei genitori sono d’accordo». E io di rimando: «Allora di’ a mamma e papà di entrare, e domanderemo loro se sono d’accordo». I genitori entrarono molto tesi in volto e mostrarono subito la confusione dei loro pensieri. «La potrei mandare da una mia sorella che sta a Milano», diceva la mamma; ma il padre esclamava: «Ma allora se deve andar via da Napoli 11­­­­

perché nessuno deve sapere, starebbe meglio da mia cognata a Udine, da poco vedova, che le vuole bene come a una figlia». Varie altre proposte affioravano, e io a stento riuscii ad inserirmi per prospettare la possibilità di accoglienza in una comunità specializzata per donne in gravidanza, dove sarebbe stata psicologicamente sostenuta oltre che seguita sotto il profilo sanitario. Quando ebbero terminato di scambiarsi le varie reciproche proposte finalizzate a collocare la bambina presso parenti, si guardarono negli occhi e dissero quasi all’unisono: «Ma forse è meglio che nessuno sappia i fatti nostri e che Adelina vada in questa “Casa Fiorita” di cui parla la giudice». Fu così che potei cominciare a verbalizzare la volontà dei genitori di far accogliere la figlia in una struttura idonea ad accompagnarla fino al momento del parto. Intanto era sopraggiunta la psicologa delegata a preparare la piccola futura mamma a quella esperienza del tutto nuova nel modo più leggero possibile. Adelina pareva aver compreso che quella era la scelta fatta per lei dai genitori e l’accoglieva come quella giusta perché era una bambina obbediente e buona, timida e riservata; tra l’altro, dava l’impressione di non essersi effettivamente resa conto dell’accaduto che l’avrebbe resa madre. Prima di andare via mi guardò a lungo e mi chiese se avessi qualcosa per lei; io le avevo portato una bella collana di pietre di vario colore ma, proiettata come ero alla decisione sul caso, stavo per dimenticare di dargliela. Aprì il pacchetto, la prese e con grazia se la poggiò sul seno appena accennato, e mi chiese: «Me la allacci?»; sembrò così aver dimenticato tutto ciò che fino a quel momento si era detto, le sue lacrime e i suoi sospiri. Era, dunque, davvero una bambina che non si era resa conto di cosa le era successo e della avventura umana che avrebbe dovuto vivere. Chiamai al telefono la dottoressa che me l’aveva mandata dall’ospedale e le dissi come si era conclusa la vicenda; anche lei ne fu soddisfatta, perché mi confessò che le piangeva il cuore a immaginarla sotto i ferri di un chirurgo, così piccola e indifesa, mentre il parto sarebbe stato un evento naturale. 12­­­­

Andai poi dal Procuratore capo e gli spiegai che avevo raccolto le dichiarazioni dei genitori di una bambina di dodici anni, presumibilmente rimasta incinta da un rapporto occasionale con il cugino in secondo grado ipodotato, senza neanche rendersene perfettamente conto. Il Procuratore appariva serio e pensieroso mentre ascoltava la strana vicenda. Mi domandò se pensavo che fosse possibile che la bambina davvero non si fosse accorta di quanto le era accaduto quella notte. Io gli risposi che mi era apparsa proprio una bambina, ingenua e inconsapevole, e che il cugino era un ragazzo con ritardo cognitivo che, a mio parere, aveva sentito un impulso e lo aveva soddisfatto inconsapevolmente, nel modo più naturale possibile, senza rendersene conto. Gli dissi che mi ero informata su eventuali rischi sanitari del nascituro a motivo della parentela e che il medico aveva escluso ogni rischio, non trattandosi di parentela stretta. Conclusi dicendogli che avrei mandato personalmente a lui il verbale dal quale emergeva la condotta penalmente rilevante del cugino. Mi assicurò che avrebbe seguito personalmente il caso onde evitare eventuali fughe di notizie; comunque, essendo Ulisse minore di quattordici anni, giocava a suo favore la presunzione di non imputabilità, e non c’erano sicuramente i presupposti per una misura di sicurezza, quindi tutto si sarebbe svolto celermente e il ragazzo non ne sarebbe stato danneggiato. La comunità avrebbe lavorato bene, come aveva fatto con Michele, un ragazzo molto difficile, utilizzato dal padre nello spaccio di stupefacenti, e come aveva fatto con Salvatore, costretto dalla madre ad assistere ai suoi incontri sessuali solo perché poi il cliente sicuramente, come era di abitudine, gli avrebbe dato una mancia, e così sarebbe entrato in cassa ancora qualcosa. *** Fu così che Adelina trascorse poco meno di quattro mesi a “Casa Fiorita”, una struttura lontana da Napoli. Fu sostenuta 13­­­­

da un’ottima psicologa e visitata ogni domenica dai genitori, che avevano deciso di non condurla mai a casa affinché la gravidanza, ormai visibile, non scatenasse la curiosità dei vicini. La versione ufficiale era che la bambina era andata per tutte le vacanze a Udine ad aiutare la zia Titina, rimasta vedova e senza figli. Fu l’operatrice della comunità ad accompagnare Adelina in ospedale e a restarle vicina durante il parto. La madre della bambina confessò di non potercela fare e di voler dimenticare l’accaduto, cosa che non sarebbe stata possibile se fosse rimasta presente al parto e avesse visto il bambino. Questa decisione mi sorprese e mi dispiacque; quando lo seppi convocai la madre per convincerla a restare vicina alla figlia, ma le sue parole furono lapidarie: «Signor giudice, non dimenticherei mai più la scena del parto e di quel letto di ospedale. Il suo travaglio sarebbe sempre davanti ai miei occhi ogniqualvolta incontrassi mia figlia Adelina. E soprattutto mi prenderei il bambino». Il neonato nacque sottopeso, anche perché prematuro, ma vispo e sano. Adelina rinunziò a riconoscerlo e se ne tornò serena in famiglia, dove non trovò più Ulisse. Si convinse, come le aveva fatto comprendere l’operatrice, che era stato lui, senza neppure volerlo, a mettere nella sua pancia quel semino da cui era nato quel bambino che non aveva neppure visto, ma al quale aveva voluto dare il nome di suo padre, perché sapeva bene che quando nasce un bambino gli spetta il nome del nonno. Adelina sperava che la famiglia che lo avrebbe accolto quel nome glielo avrebbe lasciato. Si era raccomandata in tal senso alla operatrice che aveva raccolto la sua dichiarazione di non voler effettuare il riconoscimento, e inoltre si era fatta promettere dalla madre che l’avrebbe accompagnata nel mio ufficio per fare anche a me questa raccomandazione, da trasmettere alla coppia che avrebbe adottato il neonato. Adelina tornò di sua iniziativa in Tribunale con la mamma dopo una settimana dal parto, in un pomeriggio di fine settembre. Quando entrai nella saletta di attesa per andarle 14­­­­

incontro vidi, nel lato opposto, la coppia che avevamo convocato per l’affidamento del bimbo nato da Adelina. Erano lì, sedute l’una di fronte all’altra: la coppia che poteva rappresentare il futuro per quel bambino non voluto e la madre bambina che lo aveva messo al mondo, ignare dell’intreccio delle proprie storie di vita, di rappresentare il passato e il futuro della stessa vita. Onde evitare qualsiasi contatto diretto tra quelle persone, coinvolte nella stessa vicenda umana, mi affrettai a far entrare la ragazzina nel mio ufficio, e chiamai la psicologa perché facesse entrare nella sua stanza la coppia in sala di attesa. Adelina aveva acquisito una certa sicurezza nei movimenti rispetto all’ultima volta che l’avevo vista, forse perché ormai conosceva i luoghi. Si alzò disinvolta, e prima di dirigersi nel mio ufficio salutò con un gentile sorriso la coppia lì in attesa di essere ricevuta. Poi si rivolse verso di me, sorrise ancora, e camminò con passo di una sicurezza nuova. Pensai che, a volte, il destino manda dei segnali per approvare o disapprovare ciò che stai facendo, e io interpretai quell’incontro casuale tra sconosciuti e quel sorriso diretto da Adelina alla coppia come una implicita approvazione di ciò che avevo ritenuto di fare dopo tante perplessità. In effetti i genitori di sicuro avrebbero scelto la strada dell’aborto per cancellare ogni traccia di quell’incidente non voluto, mentre io avevo virato di bordo e li avevo portati a scegliere di far nascere il bambino. Non seppi più nulla di Adelina e della sua famiglia, ma qualche volta pensavo a lei e mi chiedevo quale traccia avesse lasciato la nascita del bambino nella sua storia personale. Napoli, quindici anni dopo Il solito tocco impetuoso del nostro usciere che stava sicuramente per annunziare “un’urgenza” rappresentata da qualcuno che gli aveva allungato una mancetta. «Dottoressa, c’è fuori una bella giovane che deve vedervi urgentemente. Dice che voi la conoscete bene...». «Che aspetti... ma non vedete che 15­­­­

sono con altre persone?». La risposta fu: «Ma non ci sono avvocati, scusate, ho pensato che potevo...». «Non basterebbero cento anni» pensai, «per fargli accettare il fatto che l’urgenza la stabilisce il giudice e non la persona che viene in Tribunale senza convocazione e pretende di entrare grazie a lui». Terminato il colloquio in corso con le assistenti sociali, feci entrare la persona che chiedeva di vedermi e che, naturalmente, mi disse di non essere stata lei a sollecitare l’urgenza. La donna era davvero carina: bionda, longilinea, sguardo intelligente; si muoveva con grazia. Le feci segno di sedersi e le chiesi il motivo della sua venuta. «Non mi riconosce, dottoressa? Sono Adelina. Lei si è occupata di me, del mio caso, tanti anni fa. Sono qui per un mio problema familiare; se non ha tempo oggi, mi dica quando posso tornare, e mi scusi se sono venuta senza una chiamata, ma se avessi telefonato mi avrebbe risposto di sicuro una segretaria e mi avrebbe chiesto il motivo, e io non avrei saputo cosa dire...». Le risposi: «Prima di parlarmi del tuo problema, dimmi come stanno i tuoi genitori e i tuoi fratelli; ti vedo con una fede al dito, ti sei sposata...». Lei mi guardò, tirò un profondo respiro che mi riportò alla mente la bambina di un tempo, e cominciò a parlare con un tono di voce pacato e dolce assieme senza distogliere gli occhi da me, come volesse, anche lei, rinnovare il ricordo. Mi disse che suo padre era morto l’anno precedente, mentre sua madre stava bene; che si era diplomata in scienze infermieristiche; che i due fratelli più piccoli erano ben sistemati con il lavoro, e che il più grande, Salvatore, aveva, insieme con il padre, ampliato la falegnameria e realizzato una impresa di una certa importanza. Ulisse era morto alcuni anni prima in un incidente stradale. «E ora dimmi di te, da quanto tempo sei sposata, che lavoro fa tuo marito e perché sei qua da me». «Io sono sposata da quattro anni; mio marito è geometra e lavora al Comune di S. Mi trovo molto bene, il padre di mio marito, che era costruttore, ha realizzato una bella palazzina di tre piani, e così siamo andati ad abitare là. Al primo piano c’è mia suocera con 16­­­­

il fratello di mio marito che ha la mia stessa età, e al secondo ci siamo io e mio marito; il terzo piano è in fitto. Mio suocero è morto, come mio padre, lo scorso anno, e mi è dispiaciuto molto perché era una brava persona e mi voleva bene come fossi stata sua figlia, quindi ho perso due persone a me care». La interruppi: «Perché sei qui da me oggi, cosa è successo?». E lei tutto di un fiato: «Non ho mai detto a mio marito di quella gravidanza, e non so come dirglielo, e sono qui da lei per sapere come fare... Non sono rimasta incinta in questi quattro anni, e lui vuole assolutamente portarmi da un ginecologo. Io ho paura che si possa scoprire quello che non gli ho mai rivelato, e che possa accadere qualcosa tra noi; e poi, come dirgli che fu mio cugino?... Insomma, sono qua perché è lei che glielo deve dire, perché fu lei che mi aiutò all’epoca e che deve aiutarmi pure adesso. Mia suocera mi assilla regalandomi bavaglini e scarpine che lei fa con il filo. Mia madre, quando viene a farmi visita, per non essere da meno, mi porta cuffiette e tovagliette ricamate, e soprattutto mi ripete continuamente di mantenere il segreto..., dicendomi che prima o poi un bambino arriverà perché quell’esperienza è una chiara conferma che sono una donna fertile. Io invece ho paura che il dottore dell’epoca possa aver fatto un errore: ho sentito dire da una mia amica che sua sorella non ha bambini per un errore del chirurgo nel corso di un intervento banale...». La bloccai spiegandole con dolcezza che lei non aveva subìto alcun intervento, che comunque si trattava di fatti molto personali, e quindi spettava a lei trovare le parole opportune nel momento opportuno; intanto l’avrei fatta incontrare con una psicologa molto competente che forse le avrebbe potuto dare dei consigli in merito. Feci chiamare la psicologa, un giudice onorario, alla quale intendevo affidarla e alla quale accennai il problema, senza dire quale fosse l’accadimento non rivelato. Adelina si alzò, volle darmi un bacio e uscì con la dottoressa, cui chiesi di ritornare da me per farmi sapere. Dopo due ore, quando stavo per andare via, sopraggiunse la dottoressa alla quale avevo affidato Adelina. Mi disse che 17­­­­

a suo avviso la giovane donna non avrebbe mai trovato il coraggio – perché per lei di coraggio si trattava – di affrontare l’argomento. Era troppo grande la paura che il marito Vittorio potesse lasciarla, che la suocera potesse immediatamente interrompere i rapporti e considerarla una donna falsa, una bugiarda, e convincere il figlio, magari propenso al perdono, ad abbandonarla. Le aveva fissato un secondo incontro dopo una settimana e mi avrebbe tenuta aggiornata sul caso. L’aggiornamento non apportò alcuna novità: Adelina non sarebbe mai riuscita a rivelare al marito la nascita di quel bambino che, tra l’altro, proprio in quel periodo, si affacciava, prepotentemente, alla mente della giovane donna. In effetti, Adelina si rendeva sempre più conto di aver sbagliato a non aprirsi subito a Vittorio. Sapevo che era rimasta in contatto con la psicologa, ovvero il giudice onorario che aveva incontrato in Tribunale, la quale, a sua volta, quando ci incontravamo in udienza, mi riferiva dei loro colloqui. *** Dopo qualche tempo Adelina chiese di parlarmi, e io già nel prendere la telefonata percepii una voce carica di emozione. Adelina mi comunicava che, d’accordo con suo marito, aveva deciso di dare la sua disponibilità all’adozione; perciò mi chiedeva un incontro, insieme con il marito, per avere informazioni al riguardo. Le diedi, quindi, un appuntamento, pensando che forse era la migliore delle soluzioni possibili. Conobbi così Vittorio, un bel ragazzo poco più che trentenne: una bella figura e un sorriso rassicurante. Si sentiva che il legame affettivo verso la moglie era forte e solido, come era forte il desiderio di un figlio, anzi di più figli. Parlai a lungo con loro, e poi li indirizzai all’ufficio adozioni del Tribunale per ogni informazione sulle attività che sarebbero seguite alla dichiarazione di disponibilità, che peraltro avrebbero potuto presentare anche subito, essendo ormai sufficiente 18­­­­

l’autocertificazione. Sarebbe poi stato compito del Tribunale assumere le informazioni necessarie e curare il loro invio ai Servizi sociali e sanitari per una relazione dettagliata sulla loro situazione di coppia, sulle loro capacità e competenze nella prospettiva genitoriale. Manco a dirlo...: Adelina credeva di dovermi comunicare ogni incontro che avrebbero dovuto sostenere con il Servizio sociale, chiedendomi consigli sul colloquio che avrebbero avuto di lì a qualche giorno. Quando io le suggerivo di esprimersi semplicemente, con sincerità, di dire insomma la verità, mi sentivo rispondere: «Ma non quella verità di quando ero piccola...». Poi, dopo il colloquio, l’immancabile telefonata in cui mi dettagliava le domande dell’assistente sociale e le loro risposte, aspettando per ognuna di esse il mio assenso ben argomentato. Terminati i colloqui, la coppia tornò da me per consegnare la documentazione relativa agli incontri con l’assistente sociale e lo psicologo, e finalmente la pratica fu completata. Erano arrivate, infatti, anche le informazioni dei Carabinieri sulla condotta e l’estimazione in pubblico, e quelle sulla loro condizione di salute, ragion per cui comunicai loro che tutto era stato fatto, di rimanere tranquilli perché prima o poi sarebbe arrivata una telefonata di convocazione per un ulteriore colloquio con due giudici onorari. Questo incontro non sarebbe stato molto diverso da quelli già sostenuti con l’assistente sociale e lo psicologo, ma avrebbe arricchito il fascicolo di nuove osservazioni utili al giudice per individuare il bambino per il quale sarebbero potuti essere buoni genitori. Li rassicurai nuovamente sull’esito positivo della decisione, data la loro giovane età e il loro entusiasmo, la loro vita dinamica, la loro rete familiare estesa, ma li avvertii che i tempi non sarebbero stati brevi, e che avrebbero potuto cominciare a sperare di lì ad un anno. La pratica fu istruita e fu chiusa di lì a poco, con parere favorevole del pubblico ministero al suo inserimento nella banca dati delle coppie aspiranti all’adozione di un bambino dichiarato adottabile della fascia di età da zero a tre anni. 19­­­­

*** Un giorno di autunno in cui iniziava a fare fresco e, camminando, c’era il rischio di scivolare sulle foglie bagnate da una pioggerellina sottile ma incessante, rientrata in ufficio dopo una colazione di lavoro affrettata come sempre, sentii il mio telefono squillare. Accelerai il passo per prendere la chiamata; e subito dall’altro capo riconobbi la voce di Adelina che, sovraeccitata come non mai, mi farfugliava parole quasi scomposte. Io intanto avevo capito che era incinta, ma lei non riusciva a dirmelo, come se ancora non riuscisse a credere di aspettare un bambino, tanto da non trovare le parole che potessero rendere credibile l’avvenimento. «Ho compreso che aspetti un bambino. Cosa ha detto tuo marito?». «Ancora non lo sa. Gli ho telefonato in ufficio ma non c’era. Dopo volevo chiamare mia madre, ma poi ho deciso che doveva saperlo per primo mio marito, e poi mia madre e mia suocera. Però a voi lo dovevo dire subito». «Hai fatto bene, ma ora devi calmarti e restare calma e a riposo. Adesso dovrai necessariamente andare da un ginecologo. Vai senza paura perché devi stare sicura che, anche se lui riscontrasse qualcosa di anomalo alla esplorazione del tuo utero, non direbbe nulla in presenza di tuo marito e ti chiamerebbe poi a casa. Lasciagli, quindi, il tuo numero e, ad ogni buon conto, fatti dare il suo. Sai che i medici sono tenuti alla segretezza sui problemi sanitari delle persone che hanno in cura, e devono essere autorizzati prima di comunicare ad altre persone informazioni sullo stato di salute dei loro pazienti. È vero che si tratta di tuo marito, ma sono sicura che non direbbe niente in sua presenza se si dovesse rendere conto di una tua precedente gravidanza. Magari ti farà delle domande del tipo: “Signora, questa è la prima gravidanza?”; tu risponderai di sì, e se lui dovesse verificare, come dire, una incongruenza con il tuo stato fisico, sono sicura che richiamerebbe te, ma non ne parlerebbe in presenza di tuo marito». 20­­­­

Il marito di lì a poco mi richiamò per ringraziarmi, sostenendo che, dopo l’ultimo colloquio, Adelina si era davvero convinta che prima o poi il Tribunale avrebbe dato loro un bambino, e così evidentemente si era come sbloccata, abbandonando quell’ansia che l’avvolgeva come una cappa anche nei momenti più intimi, e che lui non era riuscito a dissolvere e neppure a ridimensionare. Quello stesso pomeriggio Adelina mi richiamò. Mi disse che avevo sbagliato a mandare gli auguri a sua madre attraverso il marito, perché lui si era sorpreso del messaggio e le aveva chiesto come mai il giudice conoscesse sua madre. Mi disse che lei, sul momento, gli aveva risposto che, dopo aver dato la disponibilità alla adozione, la madre era venuta in Tribunale per avere una delucidazione sui tempi di attesa. Voleva mettermi al corrente di questo episodio e della sua versione dei fatti per ogni futura evenienza, e mi disse che naturalmente aveva riferito anche alla mamma la circostanza. Io colsi nuovamente l’occasione per dirle: «Vedi, Adelina, tu devi aprirti con tuo marito e parlargli di quanto avvenne nella tua vita di preadolescente. Le bugie, o verità non dette, portano solo ad ulteriori bugie. Vedrai che ce la farai». Ritornai al lavoro e per lungo tempo non pensai più ad Adelina, anche perché ero sicura che tutto sarebbe andato per il meglio. *** Adelina mi richiamò a fine giugno per comunicarmi che era ormai in clinica e che la nascita era imminente, e mi disse che si trattava di due gemelli. Parlava tra le lacrime, naturalmente! Passarono alcuni giorni e non ebbi notizie. In verità ero quasi in pensiero e decisi che al termine del lavoro avrei chiamato in clinica per avere notizie. Ma quello stesso pomeriggio ricevetti una telefonata di Adelina. La voce era squillante e felice. Erano nati due bambini, un maschio e 21­­­­

una femmina, e si sarebbero chiamati come i nonni, volgendo al femminile quello del suocero. «Dottoressa» continuò Adelina «sono riuscita a dire “quella cosa” a mio marito. Secondo me perché ero un po’ addormentata e molto confusa ed emozionata, in quel frangente, poco prima di partorire. Tra le lacrime gli ho detto del bambino nato tanti anni fa e lasciato nell’ospedale, di cui non ricordo più il nome: un neonato che non ho mai visto e di cui nulla posso e voglio ricordare. Non vi so dire perché proprio in quel momento mi è venuto il coraggio di dirglielo, quasi mi dovessi confessare perché potevo anche morire di parto, come accadde tanti anni fa a mia zia Franchina, la cugina di mia madre, mentre partoriva Ulisse. Forse avevo perso il controllo sui miei pensieri, e quel pensiero che avevo sempre ricacciato e tenuto dentro è riuscito a venir fuori spontaneamente. Non ricordo le mie parole, ma lui mi ha detto: “Basta, non dirmi più nulla perché ti addolora, oggi dobbiamo essere felici, ne riparliamo al prossimo parto...”». L’uomo, invece, venne da me dopo qualche settimana. Non ne aveva parlato con Adelina, che era felice di fare la mamma tra poppate e cambi di pannolini, bensì con la suocera. Naturalmente non sapevo cosa gli avesse detto, sicuramente non tutta la verità, ma l’aveva rimandato a me perché era stata “la giudice che aveva deciso tutto...”. Io gli riferii tutto ciò di cui avevo memoria e gli dissi che, se Adelina avesse voluto leggere quello che era scritto nel procedimento che tanti anni prima l’aveva riguardata, ben poteva esservi autorizzata; ma che comunque quella era stata, a parere mio e della psicologa che l’aveva seguita, una esperienza che non l’aveva segnata perché vissuta da bambina qual era. Mi chiese, tuttavia, con voce alterata: «Ma perché non scegliere l’aborto che non avrebbe lasciato traccia?». «Ma a quale traccia si riferisce?» ribattei a tono. «Ad un bambino che ha avuto la possibilità di nascere e fare felice una coppia infertile? L’aborto procurato ad una donna, in particolare ad una bambina dodicenne, può produrre danni irreparabili e 22­­­­

rendere la donna incapace per sempre di concepimento. Se io avessi mandato Adelina dal giudice tutelare per ottenere l’autorizzazione all’aborto – ma in ogni caso dubito che l’avrebbe data – oggi avrebbe potuto non essere in grado di concepire e non sarebbe mai stata madre e lei mai padre». L’uomo si alzò in piedi visibilmente scosso dalle mie parole e mi prese le mani. Io mi ritrassi e gli dissi a mo’ di commiato: «E vissero, nonostante tutto, felici e contenti...». E così il caso per me fu definitivamente chiuso. Archiviammo la disponibilità dei coniugi all’adozione a motivo della nascita dei gemelli, perché, anche se avessero voluto mantenere ferma l’intenzione di adottare, avrebbero comunque dovuto ricominciare da zero la procedura e sostenere nuovi colloqui perché la situazione familiare era completamente cambiata. Roma, aprile 2005 Lavoravo all’epoca alla Commissione per le adozioni internazionali. Un giorno mi giunse da Napoli una telefonata dalla mia ex segretaria che mi chiese se poteva dare l’indirizzo della mia attuale sede di lavoro a due persone che volevano consegnare una bomboniera e, appreso del mio trasferimento a Roma, volevano spedirmela. Io non domandai chi fossero le persone perché dovevo rientrare in riunione, e autorizzai a comunicare l’indirizzo. Dopo circa un mese mi arrivò in ufficio un pacchetto contenente nientedimeno che la bomboniera fatta in occasione della prima comunione dei due gemelli di Adelina. Era allegata una lettera molto affettuosa e commovente, che mi raccontava quanto successo in ben dieci anni: la morte di sua madre; la buona sistemazione lavorativa dei fratelli e della sorella Mena; il buon rapporto con la suocera; la promozione in carriera di suo marito; l’inizio del suo lavoro come infermiera in un ospedale non lontano da casa, che le consentiva di assolvere compiutamente al suo ruolo di madre, ma le dava anche la possibilità di avere la sua indipendenza economica. 23­­­­

Si dilungava a descrivere i suoi gemelli, ma si perdeva a raccontare le virtuosaggini del terzo maschietto, già alunno di prima elementare, il cocco di casa. Sono trascorsi dieci anni da allora. Non ho saputo più nulla.

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La dimensione dell’attesa

Napoli, primi anni Ottanta L’uomo entrò nel mio ufficio, la faccia scura di rabbia. Borbottò un buongiorno e si sedette senza aspettare che lo invitassi a farlo. Quasi si appiattì su quella vecchia sedia. Taceva e mi fissava. Tutto a un tratto iniziò a parlare in modo concitato, inframezzando l’italiano al dialetto: «Siete voi la dottoressa Cavallo? Ho visto la targa sulla porta e sono entrato. Nel quartiere mi hanno detto che voi li risolvete i problemi, e io ne tengo uno grosso assai, e perciò sto qua. Abito a Scampia, quindi sono della zona di vostra competenza». «Ditemi qual è il vostro problema», gli dissi sorridendogli. L’uomo rispose con tono duro: «Voglio disconoscere mio figlio Mario, anche se ha già quindici anni». Ero abituata a ricevere richieste di disconoscimento di figli in situazioni in cui il padre, avendo appreso dell’infedeltà della moglie e sentendosi tradito e ferito nell’onore, non accettava di continuare a fare da padre al figlio altrui. Di rimando, gli domandai da quanto tempo aveva appreso che il ragazzo non era figlio suo, e se la moglie avesse confermato che era stato concepito con altra persona. L’uomo si sbalordì e rispose: «Mia moglie non mi ha mai tradito, il ragazzo è figlio “a me”; comunque voglio fare il test del DNA, perché non si sa mai...; in ogni caso lo voglio disconoscere e togliergli il mio cognome. Dice che vuole diventare donna, perché da fuori è fatto come un maschio, ma da dentro si sente come una femmina. Quando sono tornato dal Brasile mi ha addirittura chiesto un milione di lire per andare a Londra a farsi visitare da un professore 25­­­­

che poi lo dovrebbe operare. Insomma, io voglio togliermi questo figlio. È un degenerato e non voglio più sapere niente di lui. Mi porto mia moglie e i due bambini piccoli a San Paolo, e questi miei ultimi figli non dovranno mai sapere di avere questo fratello degenerato». Impiegai un bel po’ di tempo per cercare di fargli capire che un figlio resta figlio per tutta la vita, e che per nessuna ragione al mondo il padre può rinunziare ai suoi doveri di padre. Gli spiegai che comunque sarebbe stato tenuto al mantenimento del figlio, e che se non voleva occuparsi più di lui sarebbe stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale. Mi interruppe esclamando: «Fatemelo subito questo provvedimento. Levatemi questo incubo a me e a mia moglie, che non fa altro che piangere. Mettetelo in un posto ove gli possono raddrizzare “le cervella”». Ricordo di essere rimasta esterrefatta per le dichiarazioni così decise e irrevocabili espresse da quell’uomo che rifiutava di sentirsi padre di un ragazzo esclusivamente perché era diverso da lui e non rispondeva alle sue aspettative. Emergeva chiaro il rifiuto categorico della persona, un rifiuto protratto nel tempo, come poi avrei appreso. Avrei a breve saputo che il padre trascorreva la maggior parte della sua vita in Brasile, e che nei suoi rari e brevi rientri in Italia non dava mai attenzione al figlio, nonostante i timidi segnali che il bambino mandava in particolare al padre, quando di tanto in tanto lo rivedeva, per comunicargli il suo segreto. Magari non aveva mai espresso il suo disagio e la sua diversità con le parole, ma spesso lo aveva fatto con atteggiamenti inequivoci, tuttavia non raccolti dal padre, che non voleva vedere. Mentre cercavo di chiarirmi le idee, l’uomo continuò di botto: «Ma forse mi conviene andare da un avvocato, spendere bei soldi, ma risolvere il problema». «Quello che voi definite un problema» gli risposi con tono piuttosto seccato «è vostro più che di vostro figlio, e non c’è avvocato al mondo che possa ottenere ciò che voi chiedete. I figli restano figli per tutta la vita, sia se rispondono alle aspettative dei genitori, 26­­­­

sia se non vi rispondono, deludendoli oltre misura; cioè, in parole semplici, sia se sono buoni figli sia se non lo sono agli occhi dei genitori». Gli feci così comprendere che non c’era niente da fare, anche se fosse andato dal più bravo tra gli avvocati di famiglia, e aggiunsi che, comunque, non era competenza del Tribunale per i minorenni decidere su questioni come il disconoscimento, per cui l’avvocato si sarebbe dovuto rivolgere al Tribunale ordinario. Lui sembrò felice di apprendere che non sarei stata io a decidere, e si sentì evidentemente sollevato pensando che non era detta l’ultima parola perché così si espresse: «Altri giudici altre teste, e c’è sempre il modo di rigirare le carte...», e rapidamente salutò e uscì dalla stanza. Ebbi giusto il tempo di aggiungere: «Se vostro figlio vuole venire a parlare con me per i suoi problemi può farlo, perché ricevo sempre tutti i ragazzi che vivono nei quartieri di Napoli di mia competenza». Ma superò la porta senza voltarsi e senza richiuderla. *** Passarono alcuni giorni quando, sfogliando un rapporto dell’Ospedale Santobono, rabbrividii nel leggere del ricovero per pestaggio di un ragazzo di cui venivano indicati il nome e la residenza. Mi resi subito conto che si trattava del figlio di quell’uomo che pochi giorni prima mi aveva cercato. Il ragazzo aveva riportato lesioni gravi ad opera del padre dopo una violenta discussione a motivo della sua condotta, a giudizio del padre riprovevole: il ragazzo non intendeva tagliare i capelli che il padre invece gli aveva sforbiciato durante la notte; inoltre insisteva ad indossare dei pantaloncini che somigliavano molto ad una minigonna e a recarsi a scuola in questo inusuale abbigliamento, avendo conseguentemente riportato una sospensione per dieci giorni. A seguito di questo fatto il padre lo aveva picchiato violentemente con un bastone, procurandogli la frattura dell’omero del braccio destro, nonché della tibia e del perone della 27­­­­

gamba sinistra. Il ragazzo, certificava il referto, aveva anche riportato contusioni ed ecchimosi su tutte le parti del corpo a causa delle numerose sferzate che, con la cintura, il padre gli aveva inferte, prima di passare al bastone. Il padre stesso aveva ammesso la sua condotta maltrattante ai Carabinieri intervenuti sul posto, giustificandola col fatto che il ragazzo persisteva nelle sue convinzioni e continuava a gridare: «Voglio diventare una donna perché mi sento una ragazza e mi chiamo Mariolina». Il pubblico ministero minorile, con mia somma meraviglia, trasmessi gli atti alla Procura della Repubblica in riferimento alla condotta criminosa del padre – trasmissione cui comunque già i Carabinieri e l’ospedale avevano provveduto –, aveva chiesto al Tribunale di avviare un procedimento rieducativo ai sensi dell’articolo 25 della vecchia legge del 1934 istitutiva del Tribunale per i minorenni. Si tratta di un procedimento che il Tribunale attiva quando, di fronte ad un ragazzo deviante che manifesta comportamenti non conformi alle regole sociali, ritiene di poter evitare la sua caduta nell’area della delinquenza collocandolo in una comunità dove viene adeguatamente seguito da operatori competenti con l’obiettivo di farlo rientrare nella cosiddetta “normalità”. Mi chiesi perché considerare quel minorenne un deviante, cioè un ragazzo che ha preso una brutta strada, che è inserito in un gruppo che commette piccoli reati, che disturba la società, che la minaccia facendo prevedere comportamenti delinquenziali. Vennero immediatamente richiesti il referto e una approfondita relazione al Servizio sociale sul contesto familiare e sui rapporti madre-figlio, con richiesta di segnalare figure di riferimento nella rete familiare allargata per un eventuale affidamento. Intanto il ragazzo restava ricoverato; le lesioni e le fratture erano state dichiarate guaribili entro sessanta giorni. L’ampia relazione del Servizio sociale pervenne in tempo record. Emergeva che – stando a quanto affermava il padre del ragazzo – sua moglie, nel periodo immediatamente prece28­­­­

dente al concepimento di Mario, era rimasta da sola a Napoli mentre lui era, come sempre, ripartito per il Brasile; quindi, presumibilmente, Mario non era suo figlio. Egli aggiungeva che sua moglie, quando lui le aveva manifestato il suo dubbio, causato dall’assenza di mascolinità nel giovane Mario, non aveva proferito parola alcuna e si era limitata a piangere a dirotto, come a negare la sua idea di tradimento. Il padre aveva inoltre dichiarato di avere fama di “sciupafemmine” nel quartiere e nella sua residenza brasiliana; come sarebbe stato dunque possibile che suo figlio fosse un ragazzo che desiderava diventare una femmina? No, Mario non poteva essere suo figlio, e nel dichiararlo avrebbe “messo la mano sul fuoco come Muzio Scevola”. L’uomo aveva riferito all’assistente sociale e alla psicologa che era sua intenzione ritornare in Brasile con la moglie e i due figli più piccoli di due e tre anni, e dimenticare e far dimenticare a tutti i membri della sua famiglia l’esistenza di Mario. Aveva loro comunicato di aver accettato la conseguenza prospettatagli dal giudice, che sarebbe stato dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale, e si augurava che pure sua moglie l’avrebbe accettata. Alla domanda della psicologa se davvero pensava che recandosi dall’altra parte del mondo sarebbero spariti i pensieri e le preoccupazioni, se davvero riteneva che in Brasile sarebbe riuscito a cancellare dalla mente un figlio, costringendo anche sua moglie a tanto, l’uomo aveva risposto che, anche se sua moglie al momento non era d’accordo, lo sarebbe stata non appena arrivata a San Paolo, dove lui si era costruito una villa con un grande giardino, perché sua moglie desiderava molto un pezzo di terra per coltivare i fiori; e poi il da fare con gli altri due figli Giorgino e Antimo l’avrebbe tenuta talmente occupata che nella sua mente non ci sarebbe stato spazio per quel “dannato Mario”. Nella relazione del Servizio sociale si era anche profilata la presenza, nel contesto familiare allargato, di una zia materna molto legata affettivamente al ragazzo, sulla quale poter far leva per un affidamento familiare, una volta che la famiglia si 29­­­­

fosse trasferita in Brasile. La zia Rosa era stata contattata e si era dichiarata disponibile ad accogliere il nipote minorenne, al quale era affezionata per aver vissuto a lungo con sua sorella quando Mario era piccolo, durante l’assenza del marito emigrato in Sudamerica. Chiesi, intanto, al Servizio sociale di recarsi in ospedale per sentire il ragazzo sui rapporti con il padre nel corso dei suoi rientri dal Brasile. Mi premurai però di contattare preventivamente il collega del Tribunale penale che indagava sul fatto reato a carico del padre per conoscere lo stato degli atti e comprendere se potevamo procedere all’ascolto del minorenne, essendo stato proposto dal nostro pubblico ministero un ricorso per la decadenza dalla potestà genitoriale paterna. Il collega mi disse che avevano già provveduto ad ascoltare il minore in sede protetta e che, quindi, il Tribunale per i minorenni ben poteva ascoltarlo sulla situazione familiare pregressa. Il Servizio sociale mi comunicò che il ragazzo di lì a qualche settimana – ne erano trascorse già due – sarebbe stato dimesso dall’ospedale e che perciò l’assistente sociale sarebbe andata direttamente a casa per sentirlo nel suo contesto familiare; a tal fine aveva chiesto alla madre di trattenere a casa anche i piccoli per osservare l’interazione di Mario con i fratellini. Sollecitai il rapporto e chiesi all’assistente sociale – secondo una prassi per me abituale, utile a ridurre i tempi e a ottenere una chiara visione delle cose – di venire, successivamente alla visita domiciliare, direttamente nel mio ufficio per riferire in merito, dato che la stesura del rapporto e la firma del dirigente avrebbero preso tempo. Avvenne così che, dopo poco più di quindici giorni, l’assistente sociale e la psicologa vennero nel mio ufficio per riferirmi sull’esito di un ulteriore incontro con il padre e dell’incontro, in separata sede, con il ragazzo e la madre. Le operatrici si erano recate in prima battuta alla residenza della famiglia di origine del padre, dove il giudice penale ne aveva stabilito per un tempo limitato la dimora. Riferi30­­­­

rono che l’incontro era stato faticoso: l’uomo aveva preteso di rifare una cronistoria della vicenda familiare, ovvero di dare la sua versione dell’accaduto, e che, nonostante i ripetuti tentativi di bloccarlo, aveva tenuto la scena per oltre un’ora, parlando ininterrottamente del suo lavoro a San Paolo e dei soldi che mandava a casa per la moglie e i figli. A suo parere Mario era sempre stato un po’ strano e non se l’era mai sentito figlio, ragion per cui, avendo appreso dell’intenzione del ragazzo di vestirsi da donna e di volere addirittura cambiare sesso, si era sentito preso da un feroce senso di rabbia, per cui non era riuscito a frenare la sua violenta reazione quando l’aveva sentito affermare che se ne sarebbe andato di casa per riuscire a diventare una ragazza. Le operatrici si erano recate successivamente nella casa coniugale per incontrare il minore nel suo contesto familiare. Il ragazzo era a letto perché ancora convalescente, ma leggeva un libro di storia. Appena giunto a casa aveva, infatti, iniziato a recuperare i compiti arretrati assegnati dagli insegnanti nel corso dei tanti giorni di assenza dalla scuola, comprensivi dei dieci giorni di sospensione. Il Servizio sociale rilevò pertanto l’impegno e il senso di responsabilità del ragazzo. Mario si era dimostrato disponibile al colloquio e aveva espresso il desiderio di tornare a scuola quanto prima, affermando di essere disposto a contenere quei comportamenti che gli erano stati contestati dagli insegnanti. I fratellini di Mario erano apparsi sereni e a loro agio intorno al fratello maggiore. L’incontro con la madre aveva fatto registrare lo sfogo della donna verso il marito, persona a suo parere autocentrata esclusivamente sui propri bisogni e assolutamente ignara delle esigenze familiari. Era sempre stato decisamente oppositivo verso Mario che, sin da piccolo, aveva mostrato la sua propensione per i giochi adatti alle bambine più che ai maschietti. Aveva sempre cercato di indossare i vestiti femminili e le scarpine col tacco delle cuginette; non amava giocare a pallone come gli altri bambini, ma gli piaceva portare “a spasso” il bambolotto nel carrozzino o preparare la pappa 31­­­­

per le varie bambole che le cuginette esibivano come mamme felici. Lei aveva notato tutto questo e lo aveva anche detto al marito, il quale le aveva ingiunto di impedire al bambino di frequentare le figlie di Ninetta, una sua cugina vicina di casa, e di mandarlo alla scuola di calcio con il cugino Felice, di due anni più grande di lui. Lei aveva ubbidito, ma Mario alla scuola di calcio non voleva proprio andarci, e soffriva per il divieto di frequentare Linuccia, Assuntina e Titina, con le quali aveva un ottimo rapporto. La donna aveva saputo dal bambino che la maestra un certo giorno lo aveva mandato in un’altra classe, poi in un’altra ancora, e così via; lei ne aveva chiesto il perché all’insegnante, in quanto il figlio non era stato in grado di spiegarselo, e tantomeno di spiegarglielo. L’insegnante le aveva risposto che c’era qualcosa nel bambino che non quadrava con il suo sesso; ebbene sì..., tutte le maestre avevano concordato che Mario si sentiva più femminuccia che maschietto, e che quindi era bene farlo seguire da uno psicologo. Quel giorno si era sentita cadere il mondo addosso ed era corsa dal suo medico di base, che però l’aveva rassicurata dicendole di non preoccuparsi perché crescendo le cose si sarebbero messe a posto. Era stato quello il primo segnale evidente, ma le era bastata l’assicurazione del dottore, che aveva visto nascere Mario, per sentirsi meglio e tirare avanti nella speranza che quei comportamenti sarebbero spariti. Invece non solo non sparirono, ma diventarono più evidenti: il bambino voleva vestire con magliette adatte per le bambine, e lei non poteva fare niente per evitarlo. Tra l’altro una volta il bambino le aveva detto: «Mamma, io voglio diventare una bambina perché mi sento dentro come una bambina e voglio crescere come una donna». La madre si era allora spaventata e aveva portato il figlio da un endocrinologo di chiara fama, e poi anche da uno psicologo. Il primo aveva prescritto degli esami, il secondo aveva parlato a lungo con lui, e Mario era rimasto contento, così che glielo aveva riportato molte volte, nella speranza che 32­­­­

le cose potessero cambiare; ma purtroppo non cambiarono affatto. Entrambi i dottori «alla fine della storia» aveva concluso la madre «si sono trovati d’accordo nel dirmi che questi atteggiamenti non andavano contrastati e che bisognava tenere in osservazione il ragazzo per poi rivalutare la situazione dopo qualche anno, in quanto con la pubertà si sarebbe chiarito il suo orientamento sessuale e lo si sarebbe potuto aiutare ad assumere l’identità da lui sentita come propria». La madre aveva inoltre riportato al Servizio sociale un ulteriore avvenimento verificatosi quando il ragazzo era da alcuni mesi in terza media. Era stata convocata dalle insegnanti per renderle noto che suo figlio manteneva dei comportamenti decisamente intollerabili in classe perché distraeva tutti i suoi compagni: si metteva il lucido sulle labbra, accavallava le gambe, indossava spesso, più che pantaloni corti, che nel periodo primaverile ed estivo erano ammessi, minigonne e magliette indubbiamente più adatte alle ragazzine che ai ragazzi. Questa condotta suscitava spesso l’ilarità degli altri alunni, che solevano sottolineare la sua camminata alquanto ondeggiante verso la lavagna o verso la cattedra con fischi più o meno prolungati o con degli “ooh” più o meno sottovoce. La madre fu informata del fatto che, se il figlio avesse continuato ad avere tali atteggiamenti, sarebbe stato in prima battuta sospeso e successivamente, in caso di persistenza di quella condotta, espulso dalla scuola. Pensai che la scuola aveva semplificato il problema decretando l’espulsione del ragazzo, riconosciuto sotto il profilo del profitto addirittura meritevole, esclusivamente per l’incapacità di quegli insegnanti di gestire il problema e di predisporre la classe all’accettazione della diversità. Non si era minimamente ritenuto di chiedere alla ASL di riferimento l’intervento in classe di un sessuologo, o anche più semplicemente di uno psicologo, che potesse aprire le menti di quegli alunni e metterli di fronte alle difficoltà che il loro compagno attraversava sentendosi diverso da loro e alla complessità in sé della ricerca della propria identità. 33­­­­

La madre aveva pure riferito alle operatrici che da quel giorno aveva sempre controllato che suo figlio uscisse con l’abbigliamento consono ad uno studente delle medie: pantaloni lunghi, ovvero i comunissimi jeans, e magliette che gli aveva mandato il padre dal Brasile per inculcare nel figlio la passione per il calcio, con i nomi e le foto dei calciatori brasiliani più famosi nel mondo. La scuola però lamentava sempre la sua condotta e il suo abbigliamento, perché evidentemente Mario si cambiava maglietta e pantaloni prima di arrivare a scuola, nonostante lo negasse categoricamente. Una volta approdato alla scuola superiore, già al primo anno di Istituto tecnico per elettrotecnici fioccavano di tanto in tanto sospensioni e note sul diario da sottoporre alla firma del genitore. La madre era di continuo convocata per sentirsi addebitare la “mancanza di polso” e l’incapacità di gestire il figlio e di convincerlo ad abbandonare l’ostentazione della sua diversità. I professori avevano insistito per avere un colloquio con il padre, così che la donna si vide costretta ad informarlo della situazione scolastica di Mario e a chiedergli di fare ritorno, in occasione del Natale, prima della chiusura della scuola. Durante l’incontro con i professori e il dirigente scolastico il padre si mostrò fermo e autoritario, e dichiarò che sarebbe intervenuto drasticamente per imporre al figlio di comportarsi correttamente. Il padre fu convincente, e la scuola rinunciò per il momento ad attuare provvedimenti drastici. Mario, ripresa la scuola dopo le vacanze, sensibile alle lacrime materne e alle minacce paterne, aveva forse moderato i suoi atteggiamenti perché riuscì ad ottenere la promozione. Il secondo anno portò però nuovi problemi. A casa Mario era abbastanza tranquillo; soltanto la sera fremeva perché voleva uscire con gli amici, e lei lo lasciava andare perché sperava che il gruppo lo avrebbe controllato. Ma si rese tristemente conto, qualche tempo dopo, che in realtà Mario non si accompagnava ai compagni di scuola, ma a giovinastri del quartiere che scorrazzavano per le strade con le loro au34­­­­

to, consentendogli di guidare nonostante non avesse ancora raggiunto l’età. A scuola il suo profitto era più che sufficiente perché Mario era dotato di buone capacità di apprendimento, in particolare nell’area scientifica; ma ritornava a non poter essere tollerato il suo comportamento, nel frattempo riemerso più ostentato di prima: il rossetto, anche se pallido, sulle labbra e lo smalto sulle unghie, il leggero tacco delle scarpe, la foggia dei capelli, tutte caratteristiche che lo contraddistinguevano come una ragazza, tanto vero che sui quaderni e sui libri si firmava come Maria. Quelle rare volte in cui in classe si faceva l’appello, correggeva l’insegnante che pronunziava Mario, dicendo: «Prego Maria... prossimamente qui», facendo ridere tutti i compagni dai quali provenivano anche frasi sconce e irripetibili, motivo per cui ormai non si faceva più l’appello onde evitare le risatine e i commenti. Si avvicinava il Natale, e nuovamente i professori chiesero alla madre un incontro col padre, poiché l’anno precedente il suo intervento aveva sortito un certo effetto. Il padre tornò a scuola per un colloquio con i professori e con il dirigente scolastico, ma una volta giunto a casa iniziò a manifestare la sua ira e la sua violenza. La madre ricordava quel breve periodo di tempo che aveva preceduto le vacanze natalizie come il più triste e il più lungo della sua vita per le continue mortificazioni che sia lei che il figlio avevano dovuto subire. Tutto avveniva in presenza dei figli piccoli, che iniziavano a piangere e ad urlare, attirando l’attenzione di tutti i vicini che accorrevano per sottrarli alla lite familiare. Spesso in quelle due settimane erano intervenuti i Carabinieri, fino a quando quella terribile notte non avevano dovuto ricoverare Mario e portare il marito in caserma. *** Insomma dal colloquio con la madre, così come riferitomi in ufficio, emergeva una donna affettivamente adeguata, legata ai figli, ma stanca, provata dalle vicende familiari che aveva 35­­­­

dovuto fronteggiare sempre da sola, limitandosi il marito, per oltre dieci anni, al versamento di una somma di denaro, tra l’altro mai puntuale e sempre diversa. Lavorava come donna delle pulizie in una ditta del luogo e, quando era chiamata a scuola e non poteva recarsi al lavoro, la paga diminuiva, creandole ulteriori difficoltà. Si era perciò stancata, anche lei, della situazione di Mario, dal quale avrebbe voluto più comprensione e maggiore rispetto delle regole. La sera della lite – aveva riferito la donna – aveva temuto per la vita del figlio, che al cospetto del padre si era presentato con un vestitino e i capelli tinti di un biondo chiaro, pettinati come Ivana Spagna, la sua cantante preferita, tanto da sembrare davvero una ragazza. Mario aveva chiesto al padre di accettare la sua nuova identità, della quale non era colpevole perché era nato da lui; perciò doveva essere stato proprio lui a fargli quello scherzo, e dunque doveva ora riparare dandogli il denaro necessario per poter cambiare sesso e assumere l’identità che sentiva essere la propria, altrimenti sarebbe stato condannato alla infelicità e ad una perenne frustrazione. Come già riferito dallo stesso padre, a queste parole forse coraggiose e piene di sofferenza e dignità nel dichiararsi per quello che era, ma percepite dal padre come una sfida, si era scatenata la terribile lite degenerata in un esasperato confronto corpo a corpo. L’uomo aveva continuato ad inveire contro il figlio fin quando non aveva preso il bastone e si era scagliato sul ragazzo massacrandolo di botte; il tutto in presenza dei bambini, anche se subito portati nella loro stanza dalla madre in lacrime. Le forze dell’ordine, chiamate al solito dalla vicina di casa, avevano portato il ragazzo all’ospedale e il padre in caserma. Le due professioniste furono esaustive nella loro relazione orale e si riservarono di mandarla per iscritto entro un mese. Confermai loro che era mia intenzione sentire il ragazzo entro qualche giorno e che le avrei convocate perché potessimo insieme pensare alla migliore soluzione possibile. Chiesi intanto di contattare la zia Rosa, residente fuori città, attraverso 36­­­­

il Servizio sociale del luogo per concordare una visita domiciliare al fine di valutare il contesto abitativo, e soprattutto la nuova scuola che avrebbe dovuto accogliere il ragazzo, in quanto fortunatamente nei pressi della abitazione della zia c’era un istituto con lo stesso indirizzo formativo di quello fino ad allora frequentato da Mario. Ascoltai il ragazzo agli inizi di febbraio. Aveva ancora il braccio ingessato e camminava con l’aiuto di una gruccia. Volle ribadire quanto già riferito alle forze dell’ordine e poi al magistrato inquirente, anche se io gli avevo per ben due volte ripetuto che l’avevo convocato in relazione alla sua disponibilità ad essere affidato alla sorella della madre, la zia Rosa, perché quanto avvenuto quella terribile sera riguardava la Procura della Repubblica che lo aveva già ascoltato sui fatti e che avrebbe provveduto a giudicare la condotta tenuta da suo padre. Lui mi chiese: «Andrà in prigione?». Gli risposi: «Per ora ha lasciato la casa coniugale, ove tu sei tornato, e gli è stato intimato di non avvicinarsi anche alla tua scuola oltre che alla casa dove vivi con la tua famiglia, in modo che puoi stare tranquillo; poi sapremo cosa deciderà il giudice penale». Il ragazzo disse: «So che è andato da un buon avvocato. Sicuramente se la caverà; dirà che l’ho provocato e che lui voleva salvarmi dalla rovina e dall’inferno, perché gliel’ho sentito ripetere spesso». «E allora» gli chiesi, riportando la conversazione sul tema da discutere, «andiamo da zia Rosa se mamma va in Brasile con tuo padre e i tuoi fratellini? So che zia Rosa ti vuole bene e che ti ha quasi cresciuto: venne a vivere a casa tua quando tu eri piccolo e papà restava per lunghi periodi lontano». Il ragazzo rispose: «Sì, zia Rosa si sforza di capirmi. Ha anche comprato un libro dove si tratta di casi come il mio, e questo mi ha fatto piacere perché se una persona è ignorante di un certo argomento, prima di giudicare frettolosamente e di respingere una persona, deve capirla fino in fondo, e poi può prendere posizione... Invece mio padre non sa niente di niente, sa solo offendere e denigrare una persona, percuoter37­­­­

la tanto da volerla eliminare. Sì, ci vado da zia Rosa, però le dovete parlare e chiarire che io sono così e non posso essere diverso. Intendo cercare un lavoro perché voglio andare a Londra e farmi operare e diventare una ragazza così come mi sento. Ho parlato con un dottore dove mi ha portato un amico che è come me, e mi ha detto che Londra è la città dove si fanno questi interventi, ma mi ha detto anche il costo dell’intervento, è intorno ai 20 milioni di lire, una cifra enorme per me; perciò devo trovare un lavoro e ci vorrà qualche anno, ma ce la farò; vedrete...». Io ripresi il discorso della frequenza scolastica: gli mancavano ormai due anni, e non poteva lasciar perdere e rimanere senza un diploma superiore, perché in tal caso gli sarebbe risultato molto difficile trovare poi un lavoro onesto e decoroso in grado di dargli da vivere. Mi sembrò che il ragazzo fosse convinto di questo, e incalzai: «Quando avrai raggiunto la maggiore età ti aiuterò a reperire il chirurgo in grado di fare questa tipologia di intervento, te lo prometto». Ma il ragazzo ebbe un moto di disappunto e leggera stizza, e mi disse: «Ma voi mi volete far fare “nu’nguacchio”: qui in Italia non ci sono esperti nel campo, per ora stanno solo in Inghilterra, e io là voglio andare; troverò i soldi, non vi preoccupate...». Mi salutò molto educatamente, e mi ringraziò per averlo convocato e per aver sentito il suo parere sulla sua futura collocazione invece di affidarlo alla zia senza neanche dirglielo. *** Dopo qualche giorno convocai la zia Rosa, che comparve all’udienza felice di essere protagonista nella vicenda familiare e personale del nipote. Si presentava abbastanza bene: era maestra di quella che oggi si denomina scuola dell’infanzia e che a quel tempo si chiamava scuola materna. A differenza della sorella, mingherlina e psicologicamente fragile, appariva, già a prima vista, forte e determinata, alta e robusta, una faccia tonda e aperta con occhi vispi e penetranti. Mi 38­­­­

squadrò e mi chiese di poter sedere; le feci cenno di accomodarsi. Appena seduta, la donna esclamò: «Mi dica in che cosa posso rendermi utile per mio nipote Mario perché sono a disposizione». Le chiesi cosa pensasse di questa crescente determinazione del ragazzo nel volersi vedere e sentire come una ragazza. Mi rispose: «Signor giudice, uno deve essere come si sente, non può sforzarsi e costringersi per tutta la vita ad essere come gli altri lo vogliono; la vita è una sola e deve essere vissuta al meglio delle proprie possibilità. Sono perciò disposta ad aiutare mio nipote e sto risparmiando al massimo per aiutarlo economicamente a realizzare questo suo progetto di vita». Incalzai chiedendole se era disposta ad accogliere in casa il nipote, e anche ad esercitare il ruolo di tutrice nei suoi confronti se fosse stato confermato il progetto dei genitori del ragazzo di allontanarsi da Napoli e stabilirsi a San Paolo. La donna acconsentì; le dissi che avrebbe avuto il sostegno del Servizio sociale, tenuto a monitorare la situazione e a riferirne al giudice. Non appena tornata a casa, zia Rosa telefonò alla sorella riferendole di avere accettato di accogliere in casa sua il nipote, la qual cosa avrebbe anche significato il cambio di scuola; aveva perciò bisogno del nulla osta per l’iscrizione al nuovo istituto tecnico. La zia Rosa le chiese di procurarsi subito tale certificato: la scuola sarebbe stata più che ben disposta, e si sarebbe evitata la minacciata espulsione. Questa conversazione tra le due sorelle io la intuii chiaramente il giorno successivo, allorquando la madre di Mario si precipitò in Tribunale e chiese di potermi parlare perché erano sopravvenuti fatti nuovi. Entrata nella stanza si sedette immediatamente, e con grande incertezza nella voce mi disse: «Avete già deciso di affidare mio figlio Mario a mia sorella Rosa; e io, madre, cosa rappresento più, se mio marito mi porta in Brasile con i piccoli? Io voglio essere sempre la mamma, voglio sapere di mio figlio, mia sorella mi deve dire tutto di lui ogni giorno...». La mia 39­­­­

risposta fu secca: «Cara signora, voi resterete per sempre sua madre, anche se vostro figlio viene affidato a vostra sorella; e poi, per il ragazzo il cambio di scuola sarà, a mio parere, un fattore molto positivo. In questo momento in cui la dirigenza vi ha palesato la probabile decisione di espellerlo dall’istituto, il cambio di scuola, data la nuova residenza di Mario, costituirà la possibile alternativa per impedire l’espulsione». La donna sembrò rasserenata e mi chiese ancora se dal Brasile lei avrebbe potuto esercitare la potestà. Le risposi che sarebbe stato impossibile e che la potestà sarebbe passata in capo al tutore, e si sarebbe dovuto anche decidere se nominare tutrice la zia o invece un’altra persona, in modo da tenere distinti i due ruoli. Lei disse sommessamente che avrebbe preferito come tutore una persona estranea, sennò sua sorella avrebbe fatto “il bello e il cattivo tempo”, anche se le avevo già precisato che la zia avrebbe avuto non solo il sostegno del Servizio sociale, ma anche un controllo sullo svolgimento dei compiti inerenti al ruolo di affidataria di un adolescente difficile. La donna sembrò sufficientemente rassicurata dalle mie parole, e allora si spinse in avanti nel suo racconto: «Mio marito vuole che io non parli più di Mario né a lui, né ai figli che verranno con noi. Pretende che io mantenga questo segreto per sempre, come se Mario non fosse mai esistito. Secondo lui i bambini lo dimenticheranno ben presto perché sono piccoli e perché Mario, questo è vero, è stato negli ultimi due anni spesso fuori casa. Insomma lui vuol cancellare Mario dalla nostra vita familiare come se fosse facile, come se poche ore di aereo bastassero ad annullare anni di vita. Dottoressa, gli parli e gli dica che la sua è una crudeltà; come potrei non telefonare a mio figlio...? Io ho paura che mi chiuda in casa e mi tolga il telefono e i soldi. Insomma io ho paura che mi voglia isolare dal mondo; ma non posso dargli i bambini. Lui dice che se voglio rimanere con Mario sono padrona; in questo caso lui chiederebbe l’affidamento dei bambini, e pensa che il giudice potrebbe accogliere la sua richiesta perché lui a San Paolo ha una grande e bella casa e un buon lavoro, e perché 40­­­­

ci sono i suoi fratelli e le sue cognate che possono dargli una mano a crescerli, e che possono venire anche qua da voi per confermarlo e farsi conoscere. Ma se parto con lui me lo devo dimenticare... Può mai tutto questo essere possibile?...». Le risposi che sarebbe stato molto difficile per il padre ottenere l’affidamento dei due figli piccoli, stante la decadenza dalla potestà su Mario: sarebbe stata una contraddizione. Invece, se lei avesse seguito il marito in Brasile i bambini sarebbero stati affidati a lei, e avrebbe inoltre potuto tenere i contatti con il primogenito, anzi il Tribunale avrebbe potuto indicare come prescrizione il mantenimento dei rapporti con il figlio Mario; quanto a garantirlo, sarebbe dipeso da lei e da Mario, ormai quindicenne. In riferimento poi alla volontà espressa dal padre di voler cancellare dalla mente dei piccoli il ricordo del fratello, sarebbe dipeso dalla evoluzione di elementi allo stato imponderabili. I bambini ricordano le immagini e i contesti vissuti nell’infanzia, e mi era stato riferito che la domenica Mario era solito condurre i fratellini alla villa per farli giocare, e che tornavano felici e sorridenti perché Mario faceva fare loro le capriole e insegnava loro ad andare in bicicletta: immagini e sensazioni che restano nella memoria dei bambini. La donna sembrò relativamente più tranquilla nell’intraprendere quel viaggio oltreoceano che l’avrebbe portata lontano da un figlio amato, nonostante le difficoltà della vita. Intanto il padre doveva rispondere dei maltrattamenti in danno del figlio; era infatti emerso che sistematicamente nel corso degli anni, durante i suoi periodici rientri dal Brasile, avendo conferma della chiara tendenza di Mario a comportarsi come fosse una ragazza, perdeva il controllo e lo percuoteva violentemente con la cintura dei pantaloni. Rinviato a giudizio, fu condannato ad una pena rientrante nella sospensione; gli fu possibile perciò ripartire per il Brasile con moglie e figli nell’autunno di quell’anno. Il provvedimento adottato dal Tribunale nel mese di maggio, quando ormai si erano delineate tutte le coordinate del 41­­­­

caso, aveva dichiarato la decadenza dalla potestà genitoriale del padre sul figlio Mario e aveva disposto l’affidamento dei due figli piccoli alla madre, inserendoli sul suo passaporto. Mario fu affidato alla zia Rosa, nominata tutrice provvisoria, stante l’allontanamento della madre per un tempo non precisato e la decadenza del padre. Il Servizio sociale fu incaricato di dare sostegno materiale e morale all’affidataria e un sostegno psicologico al ragazzo, nonché di contattare la nuova scuola affinché gli insegnanti fossero preparati alla presenza di un ragazzo che avrebbe potuto presentare dei problemi di inserimento, e affinché i compagni potessero essere preparati ad accoglierlo. Il Tribunale prevedeva relazioni semestrali sul caso fino alla maggiore età del minore. La prima relazione riferiva che il ragazzo si era inserito serenamente nella nuova scuola e che aveva conseguito un buon risultato di fine anno. *** Non passarono tre mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico, la terza superiore di Mario, che la zia Rosa si presentò nel mio ufficio per segnalarmi che il nipote da qualche settimana aveva preso l’abitudine di rientrare a casa nelle ore notturne, tra le due e le tre, e si rifiutava di dirle dove era stato; l’indomani andava a scuola, ma gli insegnanti avevano riscontrato la sua assoluta mancanza di attenzione, oltre ad un atteggiamento poco corretto quando veniva ripreso, e segnalavano l’intollerabilità del suo modo di abbigliarsi, e soprattutto di truccarsi in classe mentre l’insegnante faceva lezione. In seguito a tale inammissibile condotta non intendevano più tenerlo per il buon nome della scuola, anche perché i genitori degli altri studenti avevano protestato e minacciato di far cambiare istituto ai loro figli se Mario fosse rimasto ancora una sola settimana. Insomma, il provvedimento di espulsione ci sarebbe stato di lì a qualche giorno e lei, quindi, non se la sentiva più di 42­­­­

proseguire nell’affidamento e rinunziava al ruolo di tutrice provvisoria sollecitando la nomina di altro tutore. Ricordo di essermi fatta dare il numero e il nome del dirigente scolastico e, non appena terminata l’udienza, di averlo chiamato al telefono. Il dirigente fu irremovibile sul rifiuto del ragazzo, pur riconoscendo che si trattava di un alunno intelligente e anche sufficientemente preparato. Cercai allora di pervenire ad un compromesso: il ragazzo si sarebbe ritirato dalla scuola per ragioni di salute con la possibilità di presentarsi agli esami come privatista. Successivamente chiamai l’assistente sociale e le chiesi di cercare una comunità nei pressi della residenza della zia, in modo che il rapporto tra i due potesse essere facilitato e non interrotto, e le chiesi di condurmi l’indomani il ragazzo in ufficio. Quando Mario mi fu davanti, ordinato nella persona e ben vestito, gli chiesi dove andasse nelle ore notturne, facendo preoccupare la zia oltre misura. Mi rispose tranquillamente: «L’ho detto a mia zia, vado a lavorare come lavapiatti in un ristorante a Napoli con due amici; si finisce tardi, e mentre torniamo si fanno le due, e talvolta le tre. Vi ho già detto che devo mettere da parte i soldi per l’operazione. Ho detto a mia zia: “Dammi cinquantamila lire al giorno e non ci vado più”, e lei ha fatto finta di non sentire. Ma i soldi li ha e me li potrebbe pure dare, ma non li vuole sganciare “per il mio bene”, perché dice che l’operazione è rischiosa e posso pure morire...; ma che sciocchezza! Mia madre non mi ha mai chiamato, ha chiamato mia zia per sapere di me perché dice che ha promesso a mio padre di punirmi in questo modo...». Mentre parlava, la sua iniziale tranquillità pian piano lasciava il posto ad agitazione e tensione. Incalzò: «Pure questa scuola si scandalizza perché porto i capelli così, perché metto lo smalto alle unghie. Là dentro ci sono ragazzi che rubano nei supermercati, che sniffano, e tutti gli insegnanti fanno finta di non vedere, e se la prendono con me che non mi approprio delle cose che appartengono agli altri e non mi compro le pasticche che mi propongono. Andate 43­­­­

un po’ a vedere che passa in quella scuola. Io non faccio del male a nessuno e studio bene; a chi do fastidio se le mie unghie sono rosa e se le mie labbra sono lucide? I ragazzi e le ragazze fanno sesso nei bagni: questo per me è scandalo; comprano la droga: questo è scandalo. Mi sembra che il concetto di scandalo sia sovvertito. Che dice il giudice su queste cose che succedono nella mia scuola? Eppure io che studio, che ho un buon rendimento devo lasciare la classe soltanto perché gli altri, insegnanti compresi, non riescono a tollerare le mie abitudini nel vestire e qualche volta nel truccarmi. I termini che usano nell’apostrofarmi sono leciti, le battutacce a cascata sono lecite. Lo smalto sulle mie unghie li sconvolge, il mio modo di vestire li turba, e nessuno di loro capisce il mio problema esistenziale. Forse qualcuno glielo dovrebbe spiegare. Adesso, ancora una volta, dovrò andarmene... per dove?». Cercai di calmarlo. Gli dissi che avrebbe comunque potuto sostenere gli esami a fine anno scolastico, e che in quei pochi mesi avrebbe alloggiato in una comunità non lontana da zia Rosa, presso la quale sarebbe rientrato ogni fine settimana. Nella comunità ci sarebbero stati educatori pronti a dargli una mano, ad aiutarlo anche sotto il profilo scolastico. Gli dissi che avevo incontrato il dirigente scolastico e parlato con gli insegnanti, ma non ero riuscita ad abbattere il rifiuto della diversità. Comunque l’allontanamento dalla scuola sarebbe stato volontario e motivato su problematiche psicologiche di integrazione, per cui avrebbe potuto ritirarsi per sostenere l’esame a fine anno. Avevo inoltre richiesto che Mario, avendo buoni risultati scolastici, potesse continuare a studiare da privatista fino al conseguimento della licenza di lì a un anno, essendo a mio parere in grado di presentare il programma di quarta e quinta. Questo avrebbe evitato una volta per sempre i problemi vissuti sulla sua pelle nel corso della frequenza scolastica. Il ragazzo mi sembrò soddisfatto di questa proposta e mi disse: «Studiare non mi spaventa, e quando andrò all’esame mi impegno a vestirmi come gli altri 44­­­­

ragazzi perché non voglio rischiare di essere bocciato se verrò esaminato da persone che giudicano e valutano solo in base all’apparenza». Non fu facile per il Servizio sociale individuare una comunità che accogliesse Mario, nella consapevolezza della difficoltà di riuscire a lavorare con lui per un inserimento accettabile, anche perché le comunità tra le quali scegliere erano pochissime. Dopo una settimana l’assistente sociale mi comunicò che aveva collocato il minore e spianato il cammino per facilitare il suo inserimento. L’assistente sociale aveva parlato a lungo con il responsabile della comunità, il quale conosceva le problematiche attraversate da Mario per aver accolto anni addietro un ragazzo alla ricerca di una identità diversa da quella che si sentiva cucita addosso; avrebbe perciò seguito personalmente Mario e si impegnava anche a farlo sostenere nella preparazione scolastica, finalizzata al salto dell’ultimo anno, per il conseguimento della licenza superiore. Un ragazzo della comunità gli fece visitare la struttura unitamente all’educatore. Così Mario conobbe anche gli altri ospiti, che gli apparvero simpatici perché lo salutarono cordialmente: non erano spocchiosi e supponenti come i suoi compagni di scuola. Ognuno di loro sembrava avere dei problemi; forse quella matrice comune – pensò l’assistente sociale – li avrebbe aiutati a creare una sintonia, e in quel luogo sarebbe potuta nascere anche un’amicizia. Quando fu riaccompagnato dalla zia, Mario le disse: «La comunità mi piace; penso che mi troverò quasi bene, non ti preoccupare». La zia scoppiò a piangere, e Mario ne restò colpito: aveva visto piangere tante volte sua madre, e ogni volta era stato per lui un grande dolore; ma il pianto della zia lo sorprese. Lei disse: «Mario, ti voglio bene come a un figlio, perciò ho chiesto aiuto, ho avuto paura quando la notte non ti vedevo tornare e mi sono detta che da sola non ce la potevo fare». L’indomani Mario tornò nel mio ufficio e incontrò finalmente il suo tutore. Il Collegio aveva scelto un giovane 45­­­­

avvocato che si spendeva molto nell’affermazione dei nuovi diritti civili: una persona che aveva avuto esperienza di aiuti umanitari in Africa e che era sempre disponibile a dare una mano a ragazzi che attraversavano situazioni difficili. Il tutore gli porse la mano; il ragazzo fu felice di questo gesto di amicizia e di rispetto e gli sorrise, scoprendo una fila di denti regolari e bianchissimi. In quel momento mi resi conto che non l’avevo mai visto sorridere, pur avendolo incontrato più volte; mi sembrò un segno di buon auspicio. Li invitai a fermarsi e a scambiarsi qualche idea sul programma di inserimento in comunità, e li introdussi in una piccola stanza destinata all’ascolto. L’assistente sociale si affacciò alla mia porta comunicandomi che la zia era fuori e avrebbe voluto salutarmi se non fossi stata impegnata. Le feci cenno di sì, che poteva entrare, e la informai rapidamente che avrebbe presto avuto la comunicazione della decisione del Tribunale relativa al nipote. Lei si sarebbe dovuta attenere a quanto disposto, e l’assistente sociale sarebbe stata il suo riferimento se avesse voluto comunicare qualcosa al mio ufficio. Pensai che per un po’ la situazione avrebbe sicuramente retto perché avevo avuto ampie assicurazioni di un sostegno didattico a Mario, che peraltro si era dedicato anima e corpo allo studio, suscitando grande meraviglia nel contesto comunitario e costituendo un buon esempio per tutti gli altri ragazzi, tutti molto indietro nei programmi scolastici. Il problema principale di Mario comunque restava sempre come guadagnare la somma necessaria per le cure ormonali e gli interventi chirurgici, che voleva fare a Londra, necessari per completare la riassegnazione di genere. In comunità tutti i ragazzi conoscevano il suo problema, e ognuno di loro di tanto in tanto gli proponeva qualcosa. Cosimo una volta gli aveva proposto una rapina “facile facile” che gli avrebbe fruttato “qualche milioncino”. Si trattava di entrare in una villa forzando il cancello e la porta di ingresso – e questo lo avrebbe fatto un suo amico che lavorava in un negozio di ferramenta – e poi portare via la cassaforte divellendola dalla parete in 46­­­­

cui era murata...: tutto semplice. Uno del gruppo sapeva bene dove era situata la cassaforte perché aveva portato “i ferri” al suo padrone che l’aveva montata; la sua parte sarebbe stata quella del palo, perché sapeva imitare molto bene il cinguettio degli uccelli, e quindi avrebbe dovuto fare quel verso se fosse sopravvenuto qualcuno, ipotesi peraltro rara assai perché in quel viale di notte non passava mai nessuno. Mario rifiutò categoricamente, dicendo che non sarebbe stato in grado di partecipare a simili azioni che lo avrebbero portato dritto in prigione. Voleva guadagnare onestamente il suo denaro. Un altro ragazzo, amico di un giovane residente in comunità, gli propose di andare a prendere dei pacchetti da un certo Peppe, che abitava sopra la farmacia vicina alla comunità, e di portarli in un paese vicino all’indirizzo di volta in volta indicatogli. Mario capì subito che si trattava di droga e si mostrò reticente. Di rimando l’altro disse: «Se non vuoi portare la droga puoi portare materiale pornografico, ma guadagni di meno». Mario rifiutò anche questa proposta. Decise, dopo averci riflettuto molto, di parlare con il suo tutore di questi potenziali piani per chiedergli – così mi disse poi l’avvocato – se poteva magari fare da tutore anche ai compagni intenzionati a mettersi nei guai, senza però far capire che era stato lui a “fare la spia”. Il tutore apprezzò il comportamento di Mario, che sicuramente dimostrava coscienza di ciò che è sbagliato perché nuoce agli altri, e anche la volontà di aiutare i suoi amici ad abbandonare queste scelte pericolose. *** L’incontro con il professor Ivan avvenne in un giorno di fine febbraio. Una serata piovosa come non mai: una pioggia insistente, stranamente trasversale a causa di un forte vento freddo, per cui tutti camminavano tenendo l’ombrello inclinato verso destra o verso sinistra a seconda che salissero o scendessero per quella strada che portava dalla comunità al supermercato. 47­­­­

Mario, che quasi correva temendo la chiusura del negozio dove si stava dirigendo, travolse l’ombrello della persona che gli si era trovata di fronte, facendoglielo cadere. Il ragazzo si chinò per raccogliere da terra l’ombrello al passante; ma nel prenderlo gli cadde di mano il suo, e in un momento entrambi videro volare molti metri più in là i rispettivi ombrelli. L’uomo era alto e magro, e aveva una carnagione pallida. Si rivolse a Mario in maniera garbata dicendogli: «Scusi signorina». Mario trasalì: «Perché signorina?» gli chiese. E l’uomo di rimando: «Mi scuso, forse è già una signora?». «Ma vuole scherzare! Ho sedici anni e sono un ragazzo che però, detto francamente, vuole diventare una ragazza; non ho problemi a dirlo. Perciò amo portare questi pantaloni e questi capelli lunghi». «Permetta che mi presenti» disse l’uomo. Intanto Mario aveva recuperato con qualche difficoltà gli ombrelli che erano volati via ognuno per suo conto. «Sono il professor Ivan, insegno al liceo in questo grande paese che ambisce a definirsi città». «Cosa insegna?» chiese Mario. «Scienze» rispose. «Se hai bisogno di qualche lezione sono disponibile. Abito accanto alla comunità che si trova qui vicino». Mario gli confessò: «Ad essere onesto avrei davvero bisogno di aiuto per la matematica e la chimica; potrei sottoporle dei quesiti cui non ho saputo dare risposta; sto studiando da privatista, e talvolta ho dei dubbi». Dopo averci pensato su un secondo, Mario decise che non vi era ragione di nascondere il fatto che fosse residente proprio nella comunità vicina all’abitazione del professore, e glielo disse. «Sicuramente» rispose il professore, «sarò felice di aiutarti. Passerò io a parlare col responsabile della comunità, e poiché sei un ragazzo della struttura non voglio denaro». Poi aggiunse, sbottonandosi anche lui: «Già impartisco lezioni private ad un altro ragazzo della comunità, si chiama Giannetto, lo conoscerai sicuramente». Mario non solo conosceva Giannetto, ma era diventato suo amico; era un ragazzo con il quale l’amicizia era stata sancita dal fatto che, pur non avendo – al contrario di Mario – nessun dubbio sulla sua identità di genere, era gay. In effetti, Mario sin dall’i48­­­­

nizio ebbe il vago sospetto, che peraltro gli fu confermato in seguito, che il professor Ivan lo avesse approcciato di proposito perché conosceva tramite Giannetto il suo progetto di vita e le relative difficoltà economiche. Così Mario iniziò a prendere lezioni settimanali dal professor Ivan e, sulla base di quella conoscenza comune che costituiva un forte punto di attrazione e riferimento per entrambi, la sua amicizia con Giannetto si rafforzò sempre di più. A Giannetto Mario aveva detto tutto della sua vita, di sua madre, di sua zia, della scuola che non l’aveva mai accettato e del desiderio di cambiare sesso, che però non si sarebbe potuto realizzare senza una grossa somma di denaro. Fu così che un pomeriggio di maggio, poco prima di dare gli esami, Giannetto gli propose di andare nei pressi della stazione, al calar della sera, per incontrare qualcuno che pagava bene per incontrare ragazzi come lui. Mario aveva più volte sentito parlare di incontri di questo genere, ma si era sempre rifiutato per paura di beccarsi qualche malattia; ma la maggiore età si avvicinava e di soldi non ne aveva. Una sera, accompagnato da Giannetto, ci andò superando le paure e il disgusto di se stesso, convinto che non c’era via d’uscita per risolvere il suo problema esistenziale. Bastava percorrere la stradina dietro la stazione e correre giù per il viale di accesso ad un posto chiamato “garage”; si entrava in una sorta di appartamentino arredato semplicemente ma con gusto, costituito da una camera da letto, un living con angolo cottura e un bagno. Per entrare avevano premuto un pulsante sotto una targa senza nome. Giannetto gli aveva detto: «Se il cuore ti batte forte è normale, non preoccuparti, io ti aspetto qua fuori e non me ne vado, puoi stare sicuro». La saracinesca del garage si richiuse alle spalle di Mario, e gli parve che il suo cuore scoppiasse e uscisse fuori dal petto. Sentì una voce dal fondo che lo invitava ad avvicinarsi e a non aver paura perché sarebbe andato tutto bene: quella sera avrebbero fatto soltanto conoscenza. Finalmente Mario vide l’uomo che doveva incontrare; si trattava di una persona di 49­­­­

mezza età dall’aspetto blando che gli si avvicinò presentandosi: «Mi chiamo Pasquale, ma in queste occasioni mi piace essere chiamato Cesare. Siediti e beviamo qualcosa di fresco». Mario gli disse di non avere sete, e la conversazione andò avanti stentatamente perché Mario era ancora molto teso e in preda all’ansia. Ad un certo punto, mentre la conversazione con Cesare proseguiva in maniera forzata, il ragazzo sentì dei passi provenienti dall’ingresso del “garage”; si girò con apprensione verso la porta, e vide entrare nientedimeno che il professor Ivan. Ivan salutò Cesare come se lo conoscesse bene e stesse facendo capolino solo per vedere proprio lui, il suo alunno. Ivan infatti aveva salutato Mario con un ampio sorriso e, dopo aver scambiato pochi convenevoli con Cesare, era andato via. Tutto sembrava a Mario vissuto in un’altra dimensione, quasi in un sogno, dove personaggi e azioni si confondono in maniera inaspettata. Vedere Ivan da una parte gli diede sicurezza, ma dall’altra si delineava nella sua mente il fatto che tutto l’incontro fosse stato in realtà macchinato da Ivan ed eseguito tramite Giannetto. Forse era sempre lui che procurava i ragazzi a Cesare, e Mario era stato identificato come una possibile recluta... Una parte dell’ansia era sparita e aveva ceduto il posto ai suoi pensieri, tra i quali predominava il tentativo di ricordare tutto ciò che aveva confidato al suo professore di scienze sulle sue esigenze sessuali, senza rendersi conto che era stato lui a portarlo a quelle confessioni. Insomma Mario si sentì irretito, ma capì anche che non sarebbe stata quella una situazione di pericolo per lui. Sentendosi più tranquillo, Mario chiese un bicchiere di Coca-Cola. «Così va bene» disse Cesare. «Ora rilassati e andiamo di là» aggiunse, facendo segno verso la camera da letto, visibile dal salottino. E Mario col pensiero rivolto all’ospedale di Londra, di cui già conosceva il nome, entrò... All’uscita trovò l’amico Giannetto che nulla gli chiese, e lui niente disse; ma in tasca aveva duecentomila lire. Insomma Mario aveva accettato di prostituirsi, e se lo ripeteva 50­­­­

condannandosi, ma anche giustificandosi in nome del suo progetto che cominciava a delinearsi; la dimensione dell’attesa, da tempo accarezzata e sognata, assumeva finalmente un inizio e una fine. Quando Mario incontrò nuovamente il professore di scienze non disse nulla, né l’altro profferì parola a riguardo degli incontri serali al “garage”. E così passarono i mesi, e il piccolo tesoro di Mario aumentava; si poneva quindi il problema di dove nasconderlo. Dopo aver rimuginato a lungo pensò che il luogo migliore sarebbe stato una vecchia cassa nella soffitta di zia Rosa, dove lei ormai da tempo non saliva più. Insomma Mario si sentiva sicuro. Il suo tutore nel frattempo non aveva mai dubitato di lui, e aveva continuato a seguire e sostenere il suo impegno scolastico; lo aveva rincuorato quando si sentiva giù non avendo notizie della madre e dei fratelli; lo rassicurava sempre e riusciva a convincerlo che le cose si sarebbero messe a posto. Le ore di assenza dalla comunità, quel buco dopo le lezioni di matematica e chimica, venivano sempre coperte dal professor Ivan che, conoscendo il responsabile della struttura, lo rassicurava che in quelle ore serali Mario era in sua compagnia, a casa sua o per una passeggiata. *** Trascorse l’estate. Mario aveva deciso di non abbandonare i libri e il suo impegno nello studio per riuscire a presentare i programmi di quarta e quinta l’anno successivo, conseguendo così la licenza. Trascorsero anche l’autunno e l’inverno, a ritmo incalzante ma senza portare grandi novità; insomma gli esami si avvicinavano parallelamente alla maggiore età, mentre il suo tesoro aumentava. Arrivò così il giorno dell’esame. Le prove scritte andarono benissimo, e all’orale fu encomiato dai professori. Prese il massimo dei voti e sua zia gli regalò centomila lire! Doveva solo attendere che il tutore gli portasse il passaporto di cui, appena maggiorenne, aveva fatto richiesta. Intanto il re51­­­­

sponsabile della comunità pensava di trattenerlo ancora nella struttura in una situazione di semiautonomia per indirizzarlo ad un lavoro; ma Mario si presentò spontaneamente da me e mi comunicò che il tutore si stava occupando di fargli rilasciare il passaporto e che, di lì a qualche mese, non appena in possesso del documento, sarebbe partito alla volta di Londra, dove si sarebbe arrangiato, visto che conosceva abbastanza bene l’inglese, imparato grazie ad un corso in audiocassette. Mentre gli altri ragazzi ascoltavano musica e tutti davano per scontato che anche lui avesse in cuffia le ultime hits, in realtà Mario ascoltava e riascoltava le sue lezioni di inglese... Quando il tutore fu in possesso del passaporto di Mario me lo portò in ufficio, perché fossi io a consegnarlo al ragazzo dandogli le dritte necessarie. Avevo convocato Mario e gli avevo chiesto dove sarebbe andato, quale appoggio aveva trovato. «Nessuno» mi rispose. «Ma qualcuno troverò e lavorerò per guadagnare perché, come lei sa, l’operazione ha un grande costo. Io ho una piccola somma di denaro, esattamente un milione di lire, che mi ha lasciato mia madre prima di partire; questa somma mi servirà per le prime spese, a sistemarmi in qualche modo...». All’epoca mai avrei potuto supporre che quel ragazzo aveva guadagnato con le sue prestazioni ben cinque milioni di lire, tutti riposti nella cassa di zia Rosa, pochi forse per gli interventi cui doveva sottoporsi, ma pur sempre un cospicuo sostegno iniziale. Di questo denaro e degli ultimi avvenimenti narrati avrei saputo dopo qualche anno. Il Tribunale archiviò il fascicolo relativo a Mario, ormai maggiorenne. Ma io nella mia mente non l’avevo archiviato, e spesso pensavo: «Cosa sarà accaduto a quel ragazzo?». Quando vedevo in ufficio il suo tutore o la sua assistente sociale chiedevo se avessero avuto notizie, attraverso la zia; ma la risposta era sempre negativa.

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Roma, primi anni Duemila Passarono gli anni. Un giorno – ero ormai a Roma alla presidenza della Commissione per le adozioni internazionali – la mia segretaria mi disse che c’era una persona che voleva solo salutarmi; si era recata a Napoli al mio vecchio ufficio, e non avendomi trovato in quella sede era venuta a Roma. Dissi alla segretaria di farla entrare. Entrò una giovane donna che sicuramente avevo conosciuto perché gli occhi mi ricordavano qualcuno, ma non riuscivo a ricordare chi. «Sicuramente ti ho conosciuta perché i tuoi occhi..., questo sguardo mi ricorda una ragazza...». «No!» disse lei di rimando. «Non una ragazza, ma un ragazzo...». Balzai in piedi ed esclamai: «Mario, tu sei Mario..., sei riuscito nel tuo progetto..., Dio sia benedetto, non ti sei perso..., sei stato bravo..., e sei venuto fin qui proprio per sentirti dire bravo!...». «No, dottoressa» mi rispose. «Sono venuta a dire brava a voi che non mi avete abbandonata, siete venuta in comunità, vi siete interessata del mio esame – questo l’ho saputo dopo – per farmi avere il massimo. Ora sono venuta a chiedervi come posso fare per rivedere mia madre: sono passati tanti anni, mia nonna sta morendo e mia zia mi ha detto che verrà in Italia. Io vorrei vederla, ma c’è pure mio padre con lei; i miei fratelli li lasciano a San Paolo dagli zii, perché non sanno della mia esistenza... Assurdo!... Mia madre ha giurato a mio padre che non sapranno mai di me! E lei ha accettato questo ricatto e ha mantenuto il segreto... Come posso fare senza creare casini? E poi, voglio raccontarvi delle situazioni in cui mi sono trovata all’epoca perché è bene che le sappiate... Se mi posso permettere di invitarvi a pranzo...». «Ho molto da fare; però ci facciamo portare un toast e un succo di frutta, e ti dedico un’ora del mio tempo; poi chiamiamo l’assistente sociale e vediamo che si può fare per rivedere la mamma. Ma tu ora cosa fai, dove vivi, con chi?». L’ora dedicata a Maria fu per me fonte di conoscenza del suo passato e di riflessione sui controlli mancati. Maria mi 53­­­­

raccontò di aver trovato subito lavoro a Londra in un ristorante gestito da due ragazzi di Milano, e di aver fatto prima il lavapiatti e poi il cameriere; di aver trovato alloggio presso uno dei ragazzi che lavoravano in quello stesso posto e di essersi subito informato presso l’ospedale di cui aveva letto su Internet; di aver chiesto una visita, di aver atteso un tempo che gli era sembrato interminabile, e poi di essere stato ricevuto e visitato; di aver appreso che le operazioni dovevano essere almeno tre, distanziate tra loro, ma che raggiungere il suo obiettivo era possibile. Aveva quindi iniziato la cura ormonale, e anche il sostegno psicologico fornito prima e dopo gli interventi era stato eccellente. Ogni due mesi tornava da zia Rosa e prelevava ogni volta una somma. Aveva poi ottenuto l’attribuzione di sesso, che mi documentò con orgoglio mostrandomi il passaporto. Infine era passato a lavorare in un centro di elaborazione dati dove aveva conosciuto un uomo di parecchi anni più grande di lui; si erano legati affettivamente. Lui aveva un bambino di tre anni, la moglie era morta subito dopo il parto, e il padre si era sempre occupato del figlio lasciandolo nelle ore di lavoro ad una vicina di casa. «Voi adesso vi occupate di adozioni, ma un bambino di certo a me e a George non l’avreste mai dato, anche perché la legge italiana non lo permette; invece il Signore, che mi ha guardato dentro e mi ha perdonato tutti i miei peccati, me lo ha dato, e io lo benedico per questo grande dono. George è un ottimo informatico e la sua ditta l’ha mandato a Milano, dove ora viviamo; ma credo che torneremo a Londra dove lui ha molti fratelli che mi vogliono bene. Ho perso la mia famiglia ma ne ho trovato un’altra. A Londra nessuno si scandalizza, e quello che è capitato a me è una cosa accettata». Chiamai l’assistente sociale e miracolosamente la trovai al numero che ancora avevo in rubrica. Le chiesi di organizzare, attraverso la zia Rosa, l’incontro di Mario, divenuto Maria, con la madre. Lei di rimando mi comunicò che la zia Rosa l’aveva chiamata perché la madre voleva per l’appunto 54­­­­

rivedere il figlio. Aveva però chiesto che l’incontro si tenesse presso la sede del Servizio sociale all’insaputa del marito, che non intendeva mai più rivedere il figlio. Suggerii di chiedere la presenza dei Carabinieri, potendosi prevedere che il padre facesse pedinare la moglie per raggiungerla nel luogo dove avrebbe sicuramente rivisto il figlio, e di farmi poi sapere. L’assistente sociale mi telefonò di lì ad una settimana e mi ringraziò del suggerimento perché solo la presenza dei Carabinieri aveva calmato il padre, sopraggiunto qualche minuto dopo la moglie e bloccato fuori dagli agenti. L’incontro era stato molto commovente, ma la madre confermò di non aver rivelato, o meglio ricordato, ai figli più piccoli l’esistenza del fratello maggiore, altrimenti i bambini ne avrebbero inutilmente sofferto; perciò avrebbe continuato a tenere il segreto. Maria chiese attraverso l’assistente sociale di poter salutare il padre; ma quest’ultimo si rifiutò categoricamente e attese giù al portone la moglie e la cognata scortate dai Carabinieri, i quali gli ingiunsero di comportarsi correttamente, assicurando in caso contrario il loro intervento. Quella sera, tornando a casa, avevo davanti agli occhi il bel volto di quella giovane e nella mente le sue parole: «Dottoressa, ero finalmente una donna, ma non potevo avere figli, e questo limite secondo me è la cosa più mortificante per una persona che vuole bene al suo compagno. Ma ho avuto anche questa benedizione con il figlio di George. E io sono sicura che istinto paterno e istinto materno, se sono buoni e sinceri, prescindono dall’appartenenza biologica. La mia esperienza mi ha confermato questa verità». E mi convinsi che aver soddisfatto il suo desiderio di maternità aveva reso Maria ancora più donna.

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Scavalcare il destino

Antefatto Chiara era una ragazza cresciuta in istituto dall’età di dieci anni. Vi era entrata agli inizi degli anni Settanta quando sua madre Lorena era morta di tetano, e vi era rimasta fino alla maggiore età perché nessuno dei parenti prossimi aveva dato la disponibilità ad accoglierla a causa di vecchi dissidi con Lorena, insorti da quando lei aveva scelto di convivere con un artista straniero, a parere della famiglia irresponsabile e profittatore. Infatti tale si era rivelato allorquando i genitori della ragazza ebbero chiuso i cordoni della borsa, dopo aver mantenuto la figlia e il convivente per alcuni anni. Non essendoci più il supporto economico dei genitori della sua compagna, il bel forestiero di cui Lorena si era innamorata tornò nel suo paese di provenienza e se ne persero le tracce. La giovane madre, rimasta sola, non volle ritornare in famiglia, e con la piccola Chiara decise di lasciare Milano e scendere al Sud, fermandosi a Napoli perché aveva sempre sentito dire che quella era una città ospitale. Lorena si sistemò in una camera a lei subaffittata da un’anziana donna, incontrata per caso nei dintorni della stazione, alla quale si era rivolta per sapere dove poter trovare alloggio per qualche giorno con la sua bambina. La donna era una brava persona rimasta vedova da tempo, che trascorreva le sue giornate nella più totale monotonia e solitudine, e fu perciò contenta di avere una bambina nella sua casa. Lorena trovò lavoro presso una ricamatrice; riusciva così a racimolare quel poco che le serviva per pagare la pigione, ma doveva 56­­­­

trovare qualcos’altro per poter provvedere alla bambina. Il fornaio del quartiere le propose di lavorare per lui perché lei gli aveva riferito di saper fare torte e dolcetti; decise così di metterla alla prova. Passarono i mesi. Lorena viveva per la sua bambina. Bice, l’anziana con cui condivideva ormai la casa, era affezionatissima alla piccola Chiara e l’accudiva con molta attenzione nelle ore di lavoro della madre. Lorena si sentiva perciò sicura e serena; non pensava quasi mai alla sua famiglia. Era stata tanto denigrata e svilita nella persona che non aveva più voluto fare ritorno nella sua città, consapevole che sua figlia sarebbe stata sempre la cenerentola tra i nipoti dei suoi genitori. A Napoli, anche se da sola, era sicura di potercela fare, e il suo orgoglio le dava una marcia in più. La piccola Chiara cresceva bene, era serena; di tanto in tanto chiedeva di suo padre, e la madre le diceva che era lontano a lavorare e che forse un giorno sarebbe ritornato, che stava bene e di non aver pensiero per lui. Era quello l’anno in cui Chiara avrebbe conseguito la licenza elementare, e Lorena si preparava a festeggiarla con una grande torta al cioccolato che avrebbe mandato a scuola perché la condividesse con le compagne di classe. Ma poco prima dell’esame di licenza elementare della sua bambina Lorena si ammalò; il medico non capì subito che si trattava di tetano, e Laura se ne andò in pochi giorni, quando non aveva ancora trent’anni, lasciando la sua bambina a Bice. Quest’ultima, dopo alcune settimane, decise di recarsi al Servizio sociale per chiedere un sostegno per la bambina: bisognava iscriverla alla scuola media e lei non sapeva come muoversi; per la bambina lei era un’estranea, e poi alla sua età – contava ormai sessant’anni – e con i suoi acciacchi non era facile andare di qua e di là a chiedere informazioni. L’assistente sociale si recò all’abitazione di Bice e parlò sia con la donna sia con Chiara. Si convinse immediatamente che andava fatta subito la segnalazione al Tribunale per i minorenni affinché la bambina potesse essere adottata, essendo 57­­­­

sola al mondo perché, al momento, non si sapeva chi fossero i parenti; e su questo versante avrebbe comunque indagato il giudice. Il Tribunale, appena pervenuta la segnalazione, aprì il procedimento per accertare lo stato di abbandono ai fini della dichiarazione di adottabilità. Fu evidente sin dall’inizio, a parere dell’assistente sociale, che la bambina non intendeva allontanarsi da Bice, anche perché quest’ultima, essendo affettivamente molto legata alla bambina, non dava una mano, non avendo compreso che l’adozione era ormai l’unica strada percorribile in quanto i parenti prossimi della bambina, convocati dal giudice, avevano dichiarato che non erano disposti ad accoglierla. D’altra parte Chiara, quando riceveva a casa di Bice la coppia di potenziali genitori adottivi inviata dal Tribunale, accompagnata dall’assistente sociale, faceva di tutto per farsi rifiutare “con perspicacia sopraffina”, come si espresse il giudice onorario dell’epoca; si mostrava scontrosa e si dichiarava in loro presenza contraria ad entrare a far parte di una qualsiasi famiglia. Nonostante ciò, fu tentato l’inserimento in alcuni nuclei familiari, ma Chiara non riuscì ad integrarsi in nessuno di essi. Il Tribunale decise allora di collocarla temporaneamente in un istituto perché il distacco da quella donna che chiamava zia Bice potesse essere mediato dal passaggio in una struttura di accoglienza. Il Servizio sociale la sistemò nella migliore struttura che a quei tempi offriva accoglienza ai minori; era gestita da una suora che amava molto i bambini, sapeva condividerne le sofferenze e capire i loro bisogni sia affettivi che materiali, le loro tendenze e le loro aspettative. Fu così che Chiara, mentre frequentava la prima media, fece ingresso nell’istituto. L’incontro tra suor Angela e la piccola ebbe successo: Chiara si inserì quasi subito tra le bambine ospiti della struttura, continuando comunque a frequentare zia Bice, la quale andava a trascorrere la domenica dalle suore. Emergevano nelle relazioni di aggiornamento del Servizio sociale il suo amore per lo studio, la sua capacità di 58­­­­

organizzare il gioco, il suo amore per i bambini piccoli: aiutava, infatti, l’educatrice dell’asilo, e sapeva come far ridere un piccino in lacrime. Gli anni passarono, e Chiara rimase in quella struttura fino alla maggiore età. Napoli, fine anni Settanta Questi i fatti documentati nelle numerose relazioni del Servizio sociale, che lessi con molta attenzione quando, a fine anni Settanta, mi fu assegnato il fascicolo che riguardava Chiara, ormai diciottenne e quindi dimissibile dall’istituto. Mi toccò dunque revocare la sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità – che non aveva mai trovato attuazione a causa dell’opposizione della minore – e archiviare il procedimento. Ricordo di averla convocata per informarla che, comunque, il Servizio sociale avrebbe potuto continuare ad aiutarla se lei ne avesse fatto richiesta. Ricordo ancora che mi incantarono la sua bellezza pulita, i suoi capelli ricci di un biondo intenso, naturali e lucenti, gli occhi di un azzurro profondo: insomma, era una bellissima ragazza. Dopo alcuni mesi, un’ultima relazione del Servizio sociale mi comunicava che Chiara era stata assunta come istitutrice nella casa di una famiglia nobiliare della provincia napoletana, la quale si era rivolta a suor Angela per l’individuazione di una giovane di buona moralità e di adeguata istruzione. Chiara aveva conseguito la licenza magistrale, parlava un buon italiano e aveva un’ottima educazione. Fu segnalata da suor Angela e, dopo un breve periodo di prova, fu accolta in casa. La giovane aveva riferito che era stata assunta dalla signora Cordelia per occuparsi dei suoi nipoti, i due figli maschi del figlio Luigi, rimasto vedovo giovanissimo. Aveva anche aggiunto che veniva trattata bene ma con molto distacco dalla signora Cordelia, e che il padre dei bambini faceva l’ingegnere edile, lavorava a Milano e tornava a casa raramente. La ragazza aveva all’epoca quasi diciannove anni. 59­­­­

Quell’ultima relazione del Servizio sociale sembrava dunque registrare un lieto epilogo della vicenda di Chiara. Disposi, dunque, che la relazione fosse inserita nel fascicolo in archivio. *** Rividi il nome di Chiara dopo circa due anni tra i procedimenti a me assegnati: lo ricordavo perché aveva un nome in assonanza con il cognome. Aveva partorito due gemelline, Manuela e Melania. La seconda veniva segnalata come abbandonata perché, essendo nata con un soffio al cuore causato da malformazioni cardiache, la madre aveva accettato la proposta di non effettuare il riconoscimento per consentirne l’affidamento immediato ad una coppia in grado di assicurarle le cure sanitarie di cui aveva urgente bisogno. Le venne spiegato, infatti, che la coppia in questi casi viene scelta proprio tra quelle in cui uno dei due svolge la professione di medico, e la ragazza, consapevole di non poter provvedere alle cure della neonata perché senza lavoro e senza casa, e priva di rete familiare, accettò per salvarla. Ricordavo molto bene la rassicurante relazione finale del caso; perciò rimasi profondamente colpita da quell’epilogo così drammatico. In effetti la sua storia come istitutrice fu di breve durata. Ciò emergeva dalle stesse dichiarazioni rese da Chiara all’assistente sociale che operava nella struttura ospedaliera dove aveva partorito. Le aveva infatti riferito che i bambini affidati alle sue cure erano adorabili, mentre la nonna la sorvegliava continuamente, e non perdeva occasione per riprenderla e farla sentire estranea alla famiglia, come l’ultima dei suoi dipendenti. Un giorno Chiara si scoprì incinta, e per questo motivo la signora Cordelia, avvedutasi del suo stato di gravidanza, l’aveva messa istantaneamente alla porta. A seguito di questo traumatico evento Chiara decise di far ritorno da zia Bice, unico porto sicuro, anche perché suor Angela era in quel periodo all’estero; era stata felice di ri60­­­­

tornare dove era vissuta da bambina, in quegli anni sereni e gioio­si con mamma Lorena, e rincuorata di avere la compagnia dall’anziana donna che, dal canto suo, fu lieta di assisterla e di consolarla. Prima del ricovero in ospedale per il parto Bice trovò l’occasione per chiederle chi fosse il padre delle gemelline che portava in grembo; ma Chiara glissò e le rispose che era doloroso per lei ricordare. Il Tribunale provvide al collocamento della neonata non riconosciuta presso una famiglia napoletana trasferitasi al Nord. L’aspirante padre era un medico e accettò il rischio sanitario. La piccola Melania fu quindi prelevata immediatamente dalla coppia in ospedale, e l’anno successivo, al momento della dichiarazione di adozione, l’epilogo del caso fu davvero molto felice: i problemi sanitari della gemellina erano quasi interamente risolti, e per di più la madre adottiva era incinta! Non si erano invece risolte le condizioni di salute di Chiara che purtroppo, dopo il parto, aveva riportato una grave forma di anemia per cui non poteva lavorare, essendo estremamente debilitata. Nel frattempo suor Angela aveva trasformato il vecchio istituto in una ridente casa-famiglia. Accettò, allora, di prendere con sé sia la neonata che la madre, assegnando a Chiara con la sua piccolina una delle stanze destinate alle suore. Come disposto dal Tribunale, Chiara godeva del sostegno morale e materiale del Servizio sociale e, una volta ripresasi, avrebbe potuto trovare in quella struttura un lavoro come educatrice per i bambini della comunità e guadagnare così un modesto stipendio. Manuela sarebbe andata al nido, e tutto sarebbe proceduto per il meglio. In effetti zia Bice, che pur rimaneva una presenza costante nella vita di Chiara, alla sua età non avrebbe potuto sopperire a tutte le necessità conseguenti all’attuale stato di cose. Suor Angela non aveva mai chiesto a Chiara chi fosse il padre delle gemelle, aspettava che fosse lei a parlarne, così mi riferì nel colloquio che avemmo sul caso. 61­­­­

Mi tornò in mente una frase che era trascritta nel verbale finale del vecchio fascicolo, in cui si descriveva una Chiara serena, istitutrice di due bimbi, e in cui si diceva testualmente: «I bambini le vogliono così bene che a volte la chiamano mamma, nonostante lei li rimproveri quando ciò avviene perché, se la nonna è presente, si adira molto con lei intervenendo bruscamente e precisando ai bambini che Chiara non è la loro mamma, ma una specie di cameriera più istruita, messa al loro esclusivo servizio». Una espressione sicuramente cattiva, che mi aveva molto colpito e che in realtà era in linea con la frase riportata proprio nella relazione che apriva il nuovo fascicolo. Questa frase, pronunziata all’atto del licenziamento, era stata riferita da Chiara all’assistente sociale: «Ho fatto mettere nelle tue valigie quanto ti appartiene; vattene e non farti più vedere né in questa casa, né nei dintorni». La scena si sarebbe svolta non appena la signora Cordelia si era resa conto che Chiara era incinta. Insomma fu licenziata in tronco e in malo modo non appena fu evidente il suo stato di gravidanza. Il commento orale dell’assistente sociale fu il seguente: «La preparazione al Natale dovrebbe addolcire le persone e non inasprirle, e la signora è per di più una donna di chiesa, sempre presente alla Santa Messa...; che senso ha il Natale o l’andare in chiesa se poi si lascia senza soldi e senza casa una giovane incinta?». Quel disprezzo, quell’odio della signora Cordelia verso Chiara mi fecero pensare che molto probabilmente il padre del bambino fosse un altro dipendente della famiglia, e che magari la signora lo sospettasse, o avesse addirittura sorpreso i suoi dipendenti in flagrante. Seppi successivamente da suor Angela che la signora Cordelia aveva assunto un’altra istitutrice; così per lei il problema fu risolto. Sicuramente non fu così per i bambini, tanto affezionati a Chiara. Avrei in seguito saputo che il padre dei bambini, al ritorno dal suo ultimo viaggio di lavoro, avendo appreso dei traumatici avvenimenti verificatisi durante la sua assenza, si era dato da fare per ritrovare Chiara. L’ingegnere non voleva vedere i suoi figli così tristi, e non comprendeva 62­­­­

il comportamento così duro della madre. I tentavi di rintracciare Chiara furono però vani, dato che non sapevano nulla di lei, né conoscevano nessun parente o amico, al di là di suor Angela che gliela aveva presentata; ma la suora era da alcuni mesi in missione in Africa e vi sarebbe rimasta a lungo. La permanenza di Chiara presso la struttura, nonostante le cure di suor Angela, non portò ad alcun miglioramento; la giovane si consumava lentamente. Quando la piccola Manuela ebbe compiuto due anni, sopravvenne una setticemia e Chiara raggiunse la sua mamma, lasciando sola al mondo un fiore di bambina. Anche per Manuela dunque, così come era avvenuto due anni prima per la gemella Melania, il Tribunale decise di dichiarare lo stato di adottabilità, essendo ormai evidente la posizione dei parenti di parte materna che, infatti, avevano confermato la loro indisponibilità ad occuparsene. Fu, dunque, intrapresa la strada della adozione. Ricordo la mia telefonata alla coppia che aveva adottato Melania due anni prima, al fine di tentare in primo luogo di riunire le gemelline. Ma la madre mi rispose che ormai i figli erano due e lo stipendio del marito bastava appena, perché la loro casa era gravata da un mutuo molto alto, Milano era una città molto cara, e perciò non si potevano permettere di accogliere un’altra figlia. Ricordo di aver chiesto se erano disponibili a mantenere contatti con la coppia che avrebbe adottato Manuela: la mia interlocutrice fu evasiva, mi rispose che la lontananza da Napoli non avrebbe di certo favorito i rapporti. Insomma, non mi era sembrata affatto disponibile, era stato quello il suo modo di dire di no. La coppia selezionata per accogliere Manuela era una coppia aperta, semplice e affiatata, lei insegnante della scuola dell’infanzia, lui impiegato alle Poste, non ancora quarantenni. Attendevano l’adozione da tre anni e furono molto felici alla notizia che la loro attesa era finalmente giunta al termine e aveva portato loro una splendida bambina. Così, di lì a un anno, la sentenza di adozione chiudeva il caso e il procedimento veniva conseguentemente archiviato. 63­­­­

Napoli, sedici anni dopo L’usciere bussò alla porta per annunziarmi che due ragazze volevano parlare con me, e poiché non riusciva mai ad esimersi da un suo pur breve commento, aggiunse: «Si somigliano moltissimo, saranno sorelle». Fecero ingresso nella stanza due belle ragazze, entrambe brune e ricciolute. Le invitai a sedersi e a dirmi perché erano venute da me. Iniziarono a parlare all’unisono: «Siamo qui in quanto è stata proprio lei a curare la nostra adozione molti anni fa. Siamo ormai maggiorenni e vorremmo avere informazioni sulle nostre origini». E dissero i loro rispettivi nomi e quelli dei loro genitori adottivi. Fu per me davvero una sorpresa trovarmi di fronte le due gemelline di tanti anni prima, diventate due splendide ragazze. Nessuna delle due somigliava alla madre, si somigliavano invece tra loro come due gocce d’acqua. Manuela continuò: «Ho appreso dalla mia famiglia di essere stata riconosciuta da mia madre, con la quale ho vissuto i primi anni della mia vita, e quindi, avendo ormai raggiunto la maggiore età, so che posso chiedere notizie sulla mia nascita senza attendere il compimento dei venticinque anni perché ho problemi psicologici. So che invece mia sorella Melania non può conoscere le origini perché la nostra mamma biologica non ne effettuò il riconoscimento per consentirle di essere adottata alla nascita da un medico che avrebbe potuto aiutarla a risolvere il suo grave probema di salute. Ma naturalmente condividerò con lei ogni informazione che mi sarà data». «Raccontatemi tutto» fu la mia risposta, e chiamai la segretaria perché avvisasse casa che non sarei tornata per pranzo. Melania iniziò a raccontare come il destino le aveva riunite: «Sono vissuta sempre a Milano, ho un fratello più piccolo di me di poco più di un anno che frequenta il quarto liceo scientifico. Ho saputo solo recentemente di essere una figlia adottiva. Mia sorella Manuela, invece, l’ha sempre saputo perché i suoi genitori glielo hanno rivelato. Lei ha sempre 64­­­­

vissuto a Napoli. L’anno scorso mio padre ha concorso per un posto di primario in un ospedale della Campania, l’ha vinto e siamo tornati a Napoli. Così nello scorso settembre ci siamo sistemati nella casa di mia nonna, lasciata in eredità a mio padre». «Il trasferimento a Napoli», continuò Melania, «mi ha portato una grande sorpresa. Un giorno Sara, una compagna di classe di mio fratello, che spesso frequenta la nostra casa, mi fa: “Ma lo sai che nel liceo di mia sorella Titti c’è una ragazza che si chiama Manuela, che ti somiglia tale e quale?! Ieri sono andata all’uscita della scuola da mia sorella per portarle la tuta e le scarpette, e ho salutato quella ragazza credendo che fossi tu, e lei gentilmente mi ha detto che la confondevo di certo con un’altra persona. Sono rimasta molto sorpresa. Mia sorella Titti, alla quale l’ho indicata per sottolinearle la somiglianza con te, mi ha detto che si tratta di una ragazza che frequenta la quinta A”. Io inizialmente non ho dato alcuna importanza alla cosa, ma Sara dopo alcune settimane mi ha portato una foto di gruppo fatta in una gita scolastica cui aveva partecipato sua sorella Titti, e nella foto, in primo piano, c’era la ragazza che mi somigliava, e la somiglianza era schiacciante! Quella sera l’ho detto a mia madre, confessandole che la cosa mi aveva molto incuriosito, ma anche turbato, al punto da volerla conoscere. Ho visto mia madre sussultare e sbiancare. Quella stessa sera mi ha rivelato che ero stata adottata alla nascita, non essendo stata riconosciuta dalla mia mamma biologica, e che molto poco sapeva della mia storia familiare pregressa; era a conoscenza, però, che da qualche parte avevo una gemella, la cui adozione le era stata proposta a due anni di distanza dalla mia, in seguito alla morte della nostra mamma biologica. Mia madre non aveva potuto accettare perché intanto era nato mio fratello e tre figli sarebbero stati troppi. Aveva giustificato questo lunghissimo silenzio ritenendo che la diversità tra la mia nascita come adottiva e quella biologica di mio fratello Nicola avrebbe potuto fare ai miei occhi una continua differenza se mi 65­­­­

avesse sgridato, se i miei genitori mi avessero dato una sia pur piccola punizione, pensiero che loro volevano scongiurare, e perciò avevano sempre rinviato il giorno della rivelazione». «Mi sono sentita cadere il mondo addosso» continuò Melania; «sono uscita di casa sbattendo la porta, e per un po’ sono stata da una mia amica: proprio non riesco a capire come sia stato possibile che mia madre e mio padre mi abbiano tenuto all’oscuro di una verità così importante che mi appartiene nella sua interezza. E così tutti i miei parenti. Per me forse non sarebbe cambiato niente se avessi saputo tutto dall’inizio, e li avrei egualmente amati e rispettati; ma ora come ora, avendo appreso la verità solo per caso, non riesco a perdonare nessuno. In ogni caso quello che mi sta più a cuore adesso è altro: io voglio muovermi per sapere tutto ciò che riguarda la mia nascita, perciò sono qua. Comunque, riprendendo la storia, l’indomani sono andata fuori al liceo scientifico frequentato dalla ragazza che mi somigliava, convinta ormai che fosse la mia gemella, e ho atteso l’uscita delle classi. Quando l’ho vista il cuore mi è sobbalzato; sono andata verso di lei, sgomitando tra i suoi compagni di classe, e mi ci sono fermata davanti». A questo punto continuò la narrazione la sorella Manuela: «Io l’ho stretta al petto sussurrandole all’orecchio: “Sapevo che il destino ci avrebbe fatto incontrare; sono felice, veramente felice...”. Da allora Melania è venuta a vivere un po’ con me, e ci siamo dette le cose più importanti della nostra vita. Poi lei è tornata dai suoi genitori che si sono incontrati con i miei. Dovevamo sostenere entrambe l’esame di licenza, io la licenza scientifica e Melania quella del liceo classico. Avevamo un gran bisogno di rasserenarci, e i nostri genitori se ne sono resi conto e ci hanno aiutato; e credo che ci siano riusciti. Siamo state entrambe promosse con un buon risultato, e Melania è venuta in vacanza con me. Io mi sono iscritta a Scienze ambientali e Melania a Ingegneria ambientale, così un giorno potremo anche lavorare insieme. E ora siamo qui, perché vogliamo conoscere la nostra storia. 66­­­­

Ho sempre saputo di essere stata adottata, ma psicologicamente ho un vuoto che devo riempire il prima possibile perché non diventi un chiodo fisso che potrebbe pregiudicare il mio futuro. La psicologa che mi ha seguito per un periodo di tempo alcuni anni fa potrà confermare questa mia necessità di sapere, perché mi conosce bene e sa quanto lo desideri per tranquillizzarmi e vivere pienamente tutta la mia vita senza incertezze e senza paure». Manuela continuò: «Questa legge che vieta alla persona adottata non riconosciuta alla nascita di risalire alle proprie origini ci è sembrata disumana e cattiva, e soprattutto incurante dei problemi comuni a tantissime persone costrette a vivere senza passato. Insomma, io sono qui perché voglio presentare una istanza per richiedere di avere accesso alle “carte” esistenti nell’archivio di questo Tribunale e sapere tutto su nostra madre. Voglio anche sapere i nomi delle persone che le erano intorno, che l’hanno conosciuta, che l’hanno aiutata o non l’hanno aiutata; insomma quello che c’è dentro le carte e che riguarda la sua vita, e quindi la nostra vita. Voglio anche sapere chi è mio padre. Insomma, dottoressa, vogliamo raccogliere ovunque sia possibile i pezzi del puzzle che compongono la storia della nostra famiglia di origine». Si erano fatte le quattro e l’usciere si affacciò nel mio ufficio, essendogli evidentemente il colloquio sembrato troppo lungo e avvicinandosi l’ora della sua uscita; forse si era pentito di aver dato accesso alle due ragazze. La mia segretaria era già andata via per un impegno improvviso. Non mi rimase che chiamare il cancelliere perché venisse dato a Manuela il modulo di domanda per l’accesso alle origini del figlio adottivo riconosciuto alla nascita. Il cancelliere era, come sempre, al suo posto; consegnò il foglio alla giovane, dandole anche maggiori chiarimenti sulle modalità di compilazione e consegna della domanda. Il cancelliere era noto per il lungo servizio prestato in Tribunale, e anche per la sua ferrea memoria. Perciò, quando le ragazze furono andate via, gli dissi: «Vi ricordate la storia 67­­­­

delle due gemelline, figlie di quella bellissima giovane, dolce e sorridente, che era rimasta per tanti anni da suor Angela?». Lui accennò di sì, dicendomi che, all’epoca, gli era tanto dispiaciuto sapere che era morta, lasciando la seconda bambina; e aggiunse: «Ma queste due ragazze, per quanto anche loro molto carine, non somigliano affatto alla madre. Sono però due gocce d’acqua, nessuno potrebbe dubitare che sono gemelle, e, se ho ben intuito, quella tra le due che è stata riconosciuta chiede l’accesso alle origini. Io, dottoressa, spero che questa legge cambierà perché è ingiusto negare all’adottato di conoscere il passato racchiuso nelle nostre carte o nei vecchi archivi degli ospedali». Tornai a casa pensando a quale impatto avrebbe avuto sulle due ragazze la triste e desolante storia della loro povera mamma. Mi chiesi se quella anziana donna, di nome Bice, che l’aveva seguita con tanta dedizione fosse per caso ancora in vita; avrebbe dovuto avere più di ottant’anni. Ma se fosse stata viva e in grado di ricordare sarebbe stata la persona più adatta a raccontare loro la storia familiare; e poi suor Angela sicuramente avrebbe potuto dare notizie ulteriori... Insomma, mi persi a immaginare i possibili orizzonti che si sarebbero aperti agli occhi delle ragazze, perché era chiaro che la gemella non riconosciuta avrebbe condiviso il viaggio nell’ignoto, superando così il divieto di accesso alle origini, non previsto per la sorella. *** Dopo qualche settimana comparve sul mio tavolo il procedimento relativo alla domanda di Manuela. L’istanza era presentata da un avvocato, il quale produceva a sostegno una relazione medica molto ampia, redatta da una psicologa che aveva seguito e sostenuto Manuela dall’età di dodici anni per circa due anni. La relazione era, dunque, datata a quattro anni prima, quindi non riferita alle attuali necessità e richieste di Ma68­­­­

nuela, ed era stata presentata a suo tempo alla scuola in un periodo in cui la bambina aveva mantenuto in classe un comportamento decisamente oppositivo, insorto a seguito di uno specifico avvenimento: nella sua classe erano presenti quattro bambini adottati all’estero e un quinto in Italia, avendo la dirigente scolastica ritenuto opportuno concentrare tutti i figli adottivi nella stessa classe, invece che distribuirli tra le classi. Si erano verificati problemi di integrazione, per cui la maestra, sapendo che Manuela era una figlia adottiva, senza prima tastare bene il terreno e sincerarsi della reale volontà della bambina a parlarne, aveva invitato la madre a presentare in classe la storia della sua “bella adozione”, di come tutto era andato bene, oltre ogni previsione. La platea era costituita dai genitori dei suoi compagni di classe e dagli alunni medesimi. L’incontro però non andò bene, e al termine Manuela scoppiò a piangere, e tutti gli altri bambini adottati la seguirono, perché si sa che tra i bambini il pianto, come il riso, è contagioso. L’idea non era da condannare in linea di principio, ma sicuramente era stata mal gestita, perché le parole che muovono le emozioni vanno ben controllate e articolate, e queste iniziative vanno condotte da esperti del settore e non da una insegnante di buona volontà. A seguito di questo episodio i genitori di Manuela avevano correttamente ritenuto opportuno consultare una psicologa. La scelta fortunatamente era caduta su una persona responsabile e cosciente di avere in mano la vita di una bambina: aveva saputo rassicurarla e prepararla alla adolescenza, cercando di farle superare le sue paure. La dottoressa aveva rilevato nella bambina un vuoto, un’angoscia, e riteneva di individuarne la causa nella consapevolezza del suo stato di adottiva, per aver perso la mamma a soli due anni di età ed essere rimasta per qualche tempo in istituto. Si era interrotto così improvvisamente il rapporto significativo con la figura di riferimento. In più, il disagio della minore sembrava anche dovuto al bisogno di appartenenza alla famiglia, non pienamente soddisfatto in quanto si sentiva non amata dai nonni paterni come gli altri nipoti. 69­­­­

Con i nonni, infatti, i rapporti erano stati sempre decisamente difficili a motivo della loro aperta opposizione all’adozione da parte del figlio, avversione che era poi ricaduta sulla bambina adottata. All’istanza presentata da Manuela era allegata anche una relazione, redatta dalla stessa psicologa che l’aveva seguita quattro anni prima, riferita a colloqui recenti. Questo aggiornamento affermava, in conclusione, che la possibilità di avere conoscenza delle proprie radici avrebbe certamente giovato alla ragazza, che si sarebbe così avviata alla vita di donna con maggiore sicurezza, quali che fossero state le notizie acquisite attraverso le vie legali. Sottolineava che il dubbio erode, corrode e problematicizza tutto, mentre la verità illumina e rende tutto più chiaro e comprensibile. E questo era ciò di cui la giovane aveva bisogno, essendo venute a cadere o a incrinarsi molte delle certezze in cui aveva riposto totale fiducia. Istruii la pratica convocando Manuela e ascoltandola unitamente ad un giudice onorario, psicologo molto addentro al tema delle adozioni e delle difficoltà incontrate dalle persone che ignorano totalmente le loro origini. Mi convinsi che la ragazza non avrebbe incontrato grossi problemi nella lettura degli atti che la riguardavano, anche perché era ben orientata e adeguatamente sostenuta dai suoi genitori, persone equilibrate e serene che, infatti, avevano correttamente rivelato alla bambina, sin da piccolissima, di essere stata adottata. Insomma, le risultanze cosiddette processuali apparivano orientate all’accoglimento dell’istanza; eppure la camera di consiglio in cui portai il caso fu molto dibattuta, perché l’altro giudice che componeva il collegio era tra quelli ideologicamente schierati per il no alla conoscenza delle origini prima dei venticinque anni, a prescindere dall’esistenza o meno di problemi sanitari o psicologici del richiedente. Il collega, quindi, non cambiò opinione alla luce delle due relazioni psicologiche in atti e del rapporto del nostro giudice onorario esperto nel settore adozioni. Fortunatamente la mia linea, appoggiata da entrambi i giudici onorari, passò, e il 70­­­­

pubblico ministero diede parere favorevole all’accoglimento; trascorsi così un pomeriggio a motivare il provvedimento. Il decreto consentiva, dunque, a Manuela di prendere visione del contenuto del fascicolo che la riguardava. Ordinai perciò di prelevare dall’archivio i due fascicoli, quello relativo alla madre biologica delle due ragazze e quello relativo alla minore Manuela C. Ciò non avvenne rapidamente, a causa della perdurante mancata organizzazione del materiale presente in archivio. Intanto Manuela veniva quasi ogni giorno in Tribunale a chiedere informazioni, e io cercavo di farle capire che purtroppo vi erano difficoltà, e che il commesso aveva già effettuato diversi tentativi senza riuscire a trovare i fascicoli a causa del disordine e dei numerosi errori di archiviazione. La rassicuravo comunque che si sarebbero reperiti, che era solo questione di tempo, e che sarei stata io stessa ad informarla; poteva perciò stare tranquilla. Finalmente dopo qualche settimana i fascicoli furono rinvenuti, e Manuela fu convocata. *** Manuela attendeva nella saletta antistante la mia stanza. Fascicolo alla mano, dissi all’usciere di farla entrare e di chiamarmi lo psicologo che si era allontanato. Quel giorno mi sembrò ancora più carina del solito; forse il vestito di un giallo ocra faceva risaltare i suoi riccioli neri e la luminosità degli occhi; la sua figura snella era elegante e sinuosa. Diversa nei tratti e nei colori dalla mamma, ma la stessa grazia e la stessa simpatia. La ragazza si avvicinò sorridendo alla mia scrivania e disse timidamente: «Dottoressa, posso avere in mano il fascicolo e leggerlo da sola?». «No, lo leggeremo insieme» risposi. «I tuoi diciotto anni hanno indotto il collegio a stabilire che la lettura sarà accompagnata dal giudice delegato e da uno psicologo. Quindi siedi di fronte a me, e se il tuo avvocato vuole assistere non ho problemi ad autorizzarlo. Era già entrato poco prima di te, e 71­­­­

mi ha detto che doveva recarsi in cancelleria e che sarebbe tornato per assisterti. Mentre lo attendiamo ti dico che io, appena arrivata, ho dato uno sguardo al fascicolo relativo agli atti che riguardano la tua mamma, che io stessa definii circa diciotto anni fa, appena trasferita in questo ufficio, e ho ricordato tutto, perché era e resta una storia molto triste e dolorosa. Emerge la tua storia familiare per metà, perché si succedono le vicende di due donne, la tua nonna materna e la tua mamma, ma nulla che ci rimandi alla famiglia paterna. È come una foto strappata a metà. La tua mamma non ha mai fatto parola con nessuno dell’uomo che l’aveva resa madre. Ci sono soltanto due persone alle quali ti potrai rivolgere per avere informazioni aggiuntive a quelle che troverai in questo fascicolo: suor Angela, la responsabile della casa-famiglia che ospitò tua madre, che è tuttora nella stessa struttura, e la vecchia signora Bice, se ancora in vita, della quale esiste in atti il domicilio all’epoca dei fatti». Intanto era arrivato l’avvocato che si accomodò sulla sedia dietro la sua assistita. Il primo fascicolo, quello relativo a Chiara, era poderoso. Le pagine, come sempre, non erano numerate e non c’era un indice. Erano annotati in copertina i provvedimenti emessi: il decreto che collocava la minore Chiara in istituto e le nominava una tutrice; il decreto che regolamentava le visite di Bice presso la struttura; la sentenza dichiarativa dello stato di adottabilità; la sentenza di revoca dello stato di adottabilità, emessa quando la giovane era ormai diciottenne. Avevo segnato e piegato le pagine interessanti sotto il profilo della conoscenza dei fatti avvenuti nella famiglia materna, a mio avviso necessari e utili per ricostruire la storia. La lettura integrale sarebbe potuta avvenire il sabato successivo con il giudice onorario, noto al suo avvocato per aver lavorato con lui in altri casi. Manuela ripercorse così la storia della sua mamma, da quando era rimasta orfana e senza parenti disposti ad accoglierla fino alla sua scomparsa, come ricostruibile dal fascicolo. Si iniziava con la relazione del Servizio sociale da cui emer72­­­­

geva lo stato di abbandono della piccola Chiara, rimasta orfana, e la conseguente scontata dichiarazione di adottabilità. Venivano poi documentati la riottosità di zia Bice nei confronti della proposta di adozione, per il timore di perdere la sua adorata bambina; il rifiuto sistematico di Chiara di tutti i tentativi sia di adozione sia di affidamento familiare, vissuti dalla bambina come una sorta di tradimento verso la memoria della madre; il felice collocamento nella struttura di suor Angela, che le consentiva, tra l’altro, il mantenimento del rapporto con zia Bice; e finalmente, una volta maggiorenne, l’assunzione come istitutrice presso una famiglia nobiliare della provincia napoletana. Manuela era rimasta per tutto il tempo immobile come una statua; sembrava impietrita, eppure lacrime lente scendevano dai suoi occhi, a volte come persi nel vuoto, a volte fissi sulle carte che io andavo sfogliando. Quando ebbi terminato di parlare mi chiese l’indirizzo dell’istituto e quello di Bice, e mi chiese pure se potevo chiamare suor Angela e fissarle un appuntamento. Cosa che feci subito; sentii l’emozione della suora anche attraverso la cornetta del telefono e riferii alla ragazza che suor Angela sarebbe stata ben felice di incontrarla l’indomani; sarebbe tornata appositamente perché era al momento fuori Napoli. Telefonai anche al Servizio sociale per chiedere se era ancora in servizio l’assistente sociale che all’epoca aveva seguito il caso oppure, in alternativa, se fosse possibile raggiungerla telefonicamente, spiegandole naturalmente il motivo. Rimandai al pomeriggio la lettura rapida del secondo fascicolo, quello che riguardava la minore Manuela C. Questo fascicolo era molto meno poderoso e più scorrevole del primo. Vi era documentato il crudele, e per certi versi incomprensibile, licenziamento in tronco di Chiara da parte della signora Cordelia non appena venuta a conoscenza della gravidanza; il ritorno di Chiara da zia Bice, in un ambiente che significava per lei sicurezza e serenità, nel ricordo tenero della sua mamma; il parto in ospedale, con l’adozione di Melania 73­­­­

non riconosciuta alla nascita. A questo proposito feci notare a Manuela che la decisione materna di non riconoscere la piccola – che aveva bisogno di cure immediate a cui la madre non poteva provvedere, e alla quale Chiara aveva chiesto di attribuire, se possibile, il nome Melania – era stata ponderata e voluta nell’interesse della neonata. Quella rinuncia, insomma, era stata un profondo, quasi eroico, atto d’amore. Veniva ancora riportata l’affettuosa accoglienza di suor Angela verso Chiara e la sua piccola Manuela, e il progressivo aggravarsi delle condizioni di salute di Chiara, fino alla sua morte; infine l’adozione di Manuela, a seguito della indisponibilità nei suoi confronti dei parenti di parte materna. Non vi era nel fascicolo alcun riferimento alla paternità delle gemelle. A questo proposito riferii a Manuela che avevo proposto alla madre l’assistenza legale per chiamare in giudizio l’uomo con cui l’aveva concepita, anche allo scopo di ottenere un contributo di mantenimento, ma Chiara aveva decisamente rifiutato. Manuela appariva provata e turbata. Mi disse che l’indomani lei e Melania sarebbero andate da suor Angela e avrebbero poi cercato di contattare la signora Bice; che lei e la sorella intendevano sapere chi fosse il loro padre, e quindi avrebbero cercato in questa direzione, e poi avrebbero anche esplorato la rete familiare materna. *** L’indomani suor Angela mi chiamò per riferirmi che le ragazze erano andate in casa-famiglia, avevano visitato la struttura e visto la stanza dove la madre si era sistemata con la piccola Manuela. Avevano portato via tutti i quaderni e i libri di scuola della madre, tenuti in perfetto ordine, e anche il vestito della prima comunione. Suor Angela aveva loro raccontato che la permanenza di Chiara in casa-famiglia era stato un tempo pieno di commozione, e che prima di andare via per assumere il lavoro di istitutrice Chiara le aveva det74­­­­

to: «Poi li riprenderò questi libri e questi quaderni, come ricordo di questo luogo dove mi sono trovata tanto bene e, se non io, qualcuno di sicuro manderò a prenderli; insomma non vi terrò occupati questi cassetti per sempre!». Avevano pranzato con le suore, che avevano regalato loro centrini, fazzolettini e asciugamani ricamati con le loro mani, fatti tutti per il corredo di Chiara. Continui momenti di commozione si erano alternati ad abbracci e baci di vecchie suore che ricordavano Chiara bambina, e come aveva preferito restare con loro piuttosto che essere adottata, sentendosi forse più sicura di mantenere i contatti con zia Bice e di poter ricordare la sua mamma e parlare di lei con tutte loro. Suor Angela aveva poi dato loro le uniche due foto che aveva di Chiara: una foto tessera e una foto di gruppo a scuola in cui era in prima fila e la si distingueva molto bene. Insomma le ragazze se ne andarono felici, arricchite da tanti ricordi e tante testimonianze fatte di calore umano e di amore per una bambina passata all’adolescenza in quel luogo severo, nonostante i giochi dei bambini disseminati ovunque. Le gemelle, prima di accomiatarsi, avevano chiesto l’indirizzo di Bice, e suor Angela si era offerta di accompagnarle perché la zona dove abitava Bice era divenuto luogo di spaccio, ed era più sicuro andare con lei. Decisero di andarvi l’indomani mattina sul presto. A quell’indirizzo trovarono la casa che era stata di Bice occupata da altre persone, le quali riferirono di non sapere se la signora Bice fosse viva o morta. Suor Angela si diresse allora alla panetteria dove aveva lavorato Lorena, la madre di Chiara, e chiese all’anziano panettiere notizie di Bice. L’uomo riferì che due anni prima la donna era stata ricoverata in una residenza per anziani in provincia di Napoli, di cui peraltro conosceva il nome e l’indirizzo, e riferì che nel periodo natalizio, quindi ormai dieci mesi prima, le aveva mandato, attraverso un amico che aveva la madre nello stesso luogo, i suoi dolci; lei li aveva ricevuti e aveva rimandato i suoi ringraziamenti. La suora prese nota dell’indirizzo della struttura 75­­­­

e spiegò che quelle ragazze erano le nipoti di Lorena, che aveva lavorato da lui più di trent’anni prima. A questa notizia l’uomo, lo stesso giovane panettiere che aveva apprezzato la bravura della loro nonna nel fare i dolci tanti anni addietro, incurante della folla degli acquirenti che ormai si era formata in negozio, uscì dal bancone per abbracciare le due ragazze e offrire loro i suoi dolci, la cui ricetta gli era stata data dalla loro nonna. Manuela e Melania trascorsero così altri momenti di tristezza misti a gioia per la calorosa testimonianza del vecchio fornaio e andarono via cariche di dolci da portare a Bice, che il fornaio era sicuro fosse in vita in quanto “una donna forte come lei” non l’aveva mai conosciuta. Le ragazze e la suora se ne andarono rincuorate, saltando coi loro dolci in un altro taxi alla volta della casa di riposo. Appena arrivate, chiesero di Bice: era ancora là, e in quel momento era in chiesa. Vi entrarono in silenzio, e videro una donna accasciata su di una sedia a rotelle a lato dei primi banchi della piccola chiesa. Attesero, rimanendo in fondo, con il cuore sospeso, aspettando che la funzione finisse e la donna si voltasse per uscire. L’attesa sembrò infinita. Né Melania né Manuela riuscirono a dire una preghiera, tanto era forte la loro tensione. Finalmente Bice si voltò; una ragazza di colore spingeva la sedia, e man mano che si avvicinava intuiva che la suora e le ragazze erano lì per Bice; perciò le sussurrò qualcosa all’orecchio, evidentemente per comunicarle la loro presenza. Fu allora che Bice riconobbe suor Angela per il suo abito bianco, e capì immediatamente che quelle ragazze erano le figlie di Chiara; così, quando fu vicina a loro, allargò le braccia e disse con voce tremante: «Questo era il momento che aspettavo prima di volare al cielo... Dio sia benedetto!». Seguirono discorsi senza fine, frasi troncate dalle lacrime, abbracci senza parole... Si parlò molto della nonna Lorena, di cui soltanto Bice poteva raccontare qualcosa. Infatti, con voce un po’ roca, raccontò per ore della sua determinazione, della sua tenacia, del suo amore per la figlia cui non aveva 76­­­­

mai fatto mancare niente, lavorando sia in sartoria che in pasticceria e facendosi voler bene da tutti. Le ragazze, prima di andare via, promisero di tornare presto e chiesero a Bice se la loro mamma le avesse rivelato chi mai fosse l’uomo che l’aveva resa madre; la donna rispose che soltanto una volta aveva fatto quella domanda, ma Chiara non aveva risposto, e mai le rivelò il suo segreto. Uscendo, le ragazze chiesero a suor Angela l’indirizzo della famiglia dove la madre era rimasta per due anni come istitutrice, fin quando non fu licenziata; suor Angela disse loro che si sarebbero potute incontrare nuovamente dopo qualche giorno, e nel frattempo avrebbe chiamato la signora Cordelia, sempre che fosse ancora in vita. Le ragazze tornarono alle rispettive case soddisfatte delle informazioni che avevano raccolto, perché le loro uniche figure familiari di riferimento, la nonna Lorena e la loro mamma biologica, si erano fatte amare e avevano dimostrato che, anche da sole, erano riuscite a vivere dignitosamente e a lasciare un ricordo che sapeva di dolcezza, amore e dignità. *** Seppi poi da suor Angela che Chiara, pochi giorni prima di finire la sua vita terrena, le aveva rivelato il suo segreto: l’identità del padre delle sue figlie. Una sera l’aveva chiamata al suo letto per chiederle una coperta: «Siediti accanto a me, ti devo parlare...», e le rivelò cosa accadde, nella villa dove lavorava, in una notte a lei sempre presente nel ricordo, a volte come vicina, a volte come molto lontana. Chiara aveva spento la luce sul comodino e le aveva raccontato con voce ovattata: «Avevo finito di leggere la solita favola ai bambini, la loro preferita, ed ero distesa sul letto di uno di loro perché avevo finito il racconto e mi avevano chiesto di restare; ero a fianco del più piccolo, perché quella sera era il suo turno. Il sonno mi prese perché ero stanchissima; avevo corso in giardino tutto il giorno con loro... Mi risvegliò 77­­­­

una sensazione dolcissima, mai provata prima, che non potrei descrivere tanto era bella: qualcuno mi accarezzava dolcemente il viso, il collo, il seno...; stavo sicuramente sognando perché una sensazione così non l’avevo mai provata. Aprii lentamente gli occhi e vidi, disteso accanto a me, il padre di quei teneri bambini che mi diceva: “Non aver paura..., non ti farò male..., ti prenderò con amore..., lasciati andare..., rilassati...; riuscirò a vincere l’opposizione di mia madre e sarai la mamma dei miei figli. La tua immagine mi è entrata dentro dal primo momento che ti ho vista..., i tuoi colori saranno i colori degli altri figli che avremo..., amami, mi devi amare perché io ti amo tanto...”. Io ho atteso attimi o minuti, non so, prima di prendere piena consapevolezza di ciò che mi stava accadendo; ho risposto ai suoi baci maldestramente per la mia inesperienza, e devo avergli detto qualcosa come: “Sarebbe meraviglioso, ma non sarà possibile...”, e sono scappata via coperta soltanto dalla mia vestaglietta; ma correvo lentamente, volevo che lui mi seguisse, che mi raggiungesse nella mia stanza, che mi amasse, non volevo resistere, volevo essere sua... Dal momento che lo avevo conosciuto, me ne ero innamorata perdutamente. Per me le uniche giornate piene di sole erano quelle poche nelle quali lui faceva ritorno da Milano e rimaneva a casa... Dopo quella notte è accaduto altre volte prima della sua partenza a fine settembre, e poi a novembre ho capito che aspettavo un bambino. Riuscii a nascondere la gravidanza fino a metà dicembre, poi diventò abbastanza evidente, e la signora Cordelia se ne accorse anche perché qualche volta mi prendevano dei conati di vomito. Lei doveva aver capito che era stato suo figlio, perciò mi ha immediatamente cacciata di casa come una traditrice: non avrebbe mai ammesso che il figlio potesse stare con una persona semplice come me». Il dilemma di suor Angela era se dirlo o meno alle gemelle perché, quando, in quella notte, aveva chiesto a Chiara se avesse mai voluto che le gemelle sapessero, la giovane aveva risposto: «Decidi tu se e quando, perché io non vorrei dare 78­­­­

loro emozioni forti, delusioni, sofferenze e tormenti come li ho avuti io in questi due anni». Così suor Angela si era dibattuta tra il sì e il no, e aveva deciso di prendere tempo. Telefonò a Manuela per dirle che per un po’ di giorni era impegnata nella casa-famiglia e non avrebbe potuto accompagnarle; bisognava attendere la settimana successiva; si sarebbe fatta sentire entro alcuni giorni. Ma l’impeto delle gemelle travolse la previsione degli avvenimenti. Le ragazze infatti – come poi mi raccontarono in un incontro successivo di lì a qualche mese – erano impazienti e volevano incontrare quella strega che aveva buttato fuori, senza tentennamenti, una ragazza in stato di gravidanza che non aveva famiglia, senza minimamente offrirsi di aiutarla, senza darle neppure il tempo di fare le valigie, imponendole di andare via all’istante e di attenderne la consegna al portone d’ingresso! Volevano guardarla negli occhi e chiederle come aveva potuto comportarsi in modo così disumano. Le avrebbero detto che quella ragazza purtroppo era morta, ma che le sue due figlie erano decise a difenderne la memoria. Pertanto non attesero che suor Angela le richiamasse, decisero di ignorare il suo consiglio di andare insieme e di non aspettare un giorno di più per andare alla villa della famiglia nobiliare dove la mamma aveva lavorato. Entrambe avrebbero preferito fare un secondo esame di maturità piuttosto che bussare a quella porta, di fronte alla quale erano ormai arrivate. Tuttavia si fecero forza, perché volevano sapere, e bussarono chiedendo della signora Cordelia. Il cancello del giardino si aprì davanti a loro; attraversarono il viale di accesso ad un grande portone di legno, e quando vi furono giunte uno scatto lo aprì; si trovarono in una immensa sala di ingresso, dal fondo partiva un grande scalone di marmo che saliva per due piani. Una donna con un candido grembiule le guardò dall’alto dello scalone e disse loro: «Strofinate bene i piedi perché stamani è piovuto!». Entrarono in quel grande ingresso e la donna continuò: «Aspettate, scende l’ingegnere». Un grosso 79­­­­

cane le guardava fisso; nessuna delle due ebbe paura, ed entrarono nel salone che si apriva alla loro sinistra; il cane le seguì, e quando si furono sedute si stese tranquillo ai loro piedi. Attesero alcuni minuti che sembrarono ore, fino a quando un uomo entrò e chiese loro gentilmente cosa volessero da sua madre. «Vorremmo delle informazioni su una ragazza che ha lavorato qui da voi circa diciannove anni fa; si chiamava Chiara, e fu mandata via da questa casa in malo modo perché in attesa di una bambina, o meglio di due bambine. Ecco, noi siamo le sue figlie, e vorremmo sapere, anche se dopo molti anni, cosa può dirci sua madre di nostra mamma». L’uomo sembrò sorpreso; chiese notizie della loro mamma e, apprendendo della sua morte tanti anni prima, apparve visibilmente rattristato e commosso; disse subito che nulla sapeva della gravidanza, e che sua madre gli aveva riferito che Chiara aveva improvvisamente interrotto il rapporto di sua iniziativa perché i bambini erano terribili e la stancavano molto. Aggiunse anche che aveva cercato di rintracciarla appena rientrato, in occasione del Natale, ma che purtroppo non c’era riuscito. Poi l’uomo chiese loro quando erano nate, e le ragazze declinarono all’unisono la loro data di nascita. «Allora siete vissute anche voi un po’ in questa casa, perché vostra madre deve aver trascorso qui i primi mesi di gravidanza; infatti andò via poco prima del Natale. Ricordo bene che, tornando da Milano per le festività, non la trovai più in casa e me ne dispiacqui molto. Ora che vostra madre non c’è più vivete quindi con vostro padre?». «Veramente noi siamo state adottate dopo la morte di nostra madre, quindi abbiamo un padre adottivo, ma non abbiamo mai conosciuto il nostro padre biologico». L’uomo aveva il cuore in tumulto. Da quello che aveva appena ascoltato non vi era alcun dubbio che quelle ragazze fossero figlie sue, ma non aveva la forza di proferire parola. Si alzò chiedendo scusa, risalì lentamente su per le scale, e dopo pochi minuti ridiscese con una signora che non poteva 80­­­­

essere “la nonna malvagia” perché era abbastanza giovane, e che sembrò molto sorpresa nel vedere le ragazze. Scambiò uno sguardo d’intesa con l’uomo, probabilmente il fratello, come intuirono correttamente le gemelle. La donna si presentò come Elisabetta, la sorella di Luigi. Detto ciò, mostrò loro una foto che provocò a Manuela la stessa sensazione che aveva provato quando le fu mostrata la foto di gruppo in cui riconobbe la sua gemella Melania: ma poteva mai esserci una terza gemella? Sollevò lo sguardo interrogativo sulla signora che le era di fronte, che disse: «Questa sono io alla vostra età; ci somigliamo davvero tanto, non è così? Sono vostra zia; sapevo che mio fratello aveva amato vostra madre e voleva sposarla, credetemi, non si è mai dato pace per non essere riuscito a ritrovarla. Nostra madre non ha mai detto la verità a noi figli, cioè che mandò via Chiara perché in attesa di un figlio. Fu subito evidente a tutti noi che nostro fratello quasi impazziva dal dolore per non aver ritrovato a casa la giovane donna che amava tanto i suoi bambini. Ma nostra madre ci disse che non sapeva da dove veniva, né dove andava quando si allontanava la domenica mattina, e noi ci dovemmo rassegnare, pensando che era accaduto qualcosa di imprevedibile. Nostra madre è morta quasi dieci anni fa, e credo che negli ultimi anni della sua vita il rimorso tornasse spesso a perseguitarla, nonostante la sua durezza, perché uno dei miei nipoti, i figli di Luigi, ha avuto un terribile incidente con la moto ed è oggi costretto su una sedia a rotelle; e mia madre ripeteva spesso: “Il Signore mi ha punito per quello che ho fatto..., il Signore mi doveva punire, ma non così...”». Luigi non parlava, le lacrime solcavano la sua pelle bruna e rugosa. Voleva abbracciare quelle figlie ma si sentiva impietrito; non sapeva se ne avesse il diritto dopo tanti anni di assenza, anche se non aveva mai saputo della loro esistenza fino a quel giorno. Le ragazze, da parte loro, erano affrante e confuse, e non avevano parole; apparivano pallide e svuotate di pensieri; guardavano fisso quella foto, e forse pensavano 81­­­­

entrambe che se quell’uomo, il loro padre biologico, fosse tornato qualche settimana prima di quel fatidico Natale, la loro vita sarebbe stata diversa, molto diversa. Ancora una volta, un segreto aveva cambiato la vita di più persone, aveva cambiato il loro destino. Tuttavia la forza e la determinazione di Melania e Manuela – qualità che avevano marcato anche la vita sia di Lorena che di Chiara – e la loro lotta per la verità le avevano portate a ritrovare una storia non vissuta, a riprendersi un destino spezzato. Ora, ciò che potevano fare era cercare quanto più possibile di ricucirlo. Neanche loro riuscirono subito ad abbracciare il padre appena ritrovato, ma ognuna delle due gli prese una mano tra le sue e gliela strinse forte.

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Il colore della verità

La famiglia Calbarrelli era molto considerata nel quartiere perché tutti coloro che da almeno vent’anni vi abitavano avevano vivo il ricordo della rapina che aveva subìto. L’avvocato Calbarrelli aveva saputo reagire con prontezza e sangue freddo, allertando subito le forze dell’ordine e sventando così altre future rapine ad opera della stessa banda. Insomma, tutti avevano per quella famiglia ammirazione e gratitudine per aver tolto dalla circolazione dei pericolosi criminali. Si trattava di un fatto risalente negli anni, quando i quattro figli dell’avvocato erano ancora piccoli. La banda era costituita da immigrati che in quella settimana di Ferragosto, afosa e piovosa, imperversavano nel quartiere rimasto quasi disabitato: erano quattro giovani di colore che nessuna delle precedenti vittime era riuscita ad identificare nelle foto segnaletiche mostrate loro dai Carabinieri. E invece l’avvocato Calbarrelli aveva fatto arrestare l’intera banda! Era stato infatti proprio l’avvocato che, sentiti rumori insoliti provenire dall’appartamento adiacente, aveva fatto appena in tempo a collegarsi con il numero telefonico dei Carabinieri. La banda si era poi introdotta in casa Calbarrelli e, dopo aver rinchiuso i bambini terrorizzati nella loro stanza e picchiato e imbavagliato sia lui che la moglie, avevano cominciato a svaligiare l’appartamento quando le forze dell’ordine sopraggiunsero e arrestarono i rapinatori. I vicini di casa e tutti gli abitanti del quartiere erano grati all’avvocato, che veniva considerato un cittadino modello, coraggioso e solidale. Nonostante fossero passati ormai 83­­­­

vent’anni e di rapine ce ne fossero state tante, ad opera di immigrati così come di cittadini italiani, quella veniva ancora ricordata, e con il passare del tempo il signor Calbarrelli era diventato “l’avvocato” del quartiere, anche se avvocato in realtà non era. Egli, infatti, lavorava nella segreteria di uno studio legale associato, ed essendo persona intelligente, pronta e disponibile, conosceva tutto il mondo giudiziario. Si muoveva nelle cancellerie dei Tribunali con molta disinvoltura, e amava leggere gli atti più importanti degli avvocati; insomma, sapeva un po’ di tutto e aveva, alla luce della sua esperienza in quello studio, un buon fiuto. L’avvocato però aveva sicuramente un grande difetto: era ormai noto come un razzista convinto. Contestava l’immigrazione e la politica dell’accoglienza, memore delle percosse subìte e della triste esperienza mai dimenticata, ed era stato inutile ogni tentativo di fargli cambiare le sue idee così estreme. I figli non osavano più contestarlo perché quello era l’unico argomento sul quale la conversazione giungeva sempre ad un vicolo cieco, semplicemente causando l’irritazione del padre. *** Laura, l’ultima dei quattro figli, era la più estroversa e la preferita del padre perché, rispetto ai tre fratelli, era quella che più gli assomigliava come capacità organizzativa, determinazione e impegno lavorativo. Il sogno dell’avvocato era che sua figlia divenisse un vero avvocato; sognava per lei uno studio megagalattico al centro della città. Ogni sera si raccomandava a san Gennaro, santo patrono della città di Napoli, perché desse una mano a sua figlia. E una mano il santo patrono certamente gliela diede perché Laura si era laureata con il massimo dei voti in giurisprudenza e aveva ottenuto l’abilitazione all’esercizio della professione. Era poi andata a Londra per un dottorato di 84­­­­

ricerca e sembrava volerci rimanere, spezzando così i sogni dell’avvocato che voleva avere la soddisfazione di vedere sua figlia esercitare la professione a Napoli. Laura, invece, concluso il dottorato, era rimasta a Londra, si era sistemata con un’amica polacca in un appartamentino e lavorava al momento alla segreteria della Metropolitan University. Era contenta perché guadagnava un discreto stipendio, mentre nel pomeriggio lavorava come paralegal in uno studio associato che si occupava prevalentemente di contenzioso societario. Nello studio c’erano molti giovani avvocati, come lei desiderosi di imparare e di mettere in pratica lo studio fatto a tavolino. Ognuno di loro afferiva ad uno degli avvocati anziani del gruppo associato e gli faceva in pratica da segretario. Laura lavorava prevalentemente per il team dell’avvocato Ashon, inglese di origini kenyote e di madre tunisina, che aveva notato la sua passione per la professione e le sue qualità. Laura lavorava con estremo interesse fino a tarda sera anche se l’indomani doveva uscire molto presto per andare all’Università. Un giorno l’avvocato Ashon, vedendola entrare trafelata e timorosa per il ritardo, gliene chiese il motivo, e lei dovette dirgli del lavoro part time che svolgeva presso l’Università. Fu così che le propose di lavorare come avvocato per lo studio a tempo pieno. A Laura sembrò di toccare il cielo con un dito, ed accettò immediatamente. Gli avvocati che collaboravano nello studio costituivano un bel gruppo molto affiatato: si scambiavano le esperienze e discutevano a lungo sui casi da trattare; insomma, c’era tra loro una sintonia piena. Nello studio facilmente si intrecciavano relazioni amicali, e anche sentimentali; ma Laura si teneva fuori da legami affettivi, non voleva perdere o limitare la sua libertà. Da casa le pervenivano continue e-mail in cui sia la madre che il padre le ripetevano che i suoi amici napoletani l’attendevano, che il suo ex fidanzato sarebbe andato a trovarla, che tutti aspettavano il suo rientro. Ma Laura non pensava 85­­­­

affatto a tornare a Napoli. Aveva iniziato a lavorare allo studio a tempo pieno, era puntuale e si impegnava al massimo nel lavoro. L’avvocato Ashon sembrava soddisfatto, ma era estremamente professionale e le rivolgeva la parola solo per comunicazioni o per consigliarle lo studio di determinate sentenze o di particolari testi, utili all’impostazione del procedimento che stava seguendo. Con il tempo l’avvocato le sembrava sempre più distaccato mentre, quando le aveva chiesto di collaborare con lo studio a tempo pieno, si era mostrato più accogliente. Lei spesso si soffermava ad osservarlo mentre era immerso nelle sue carte, e lo trovava simpatico e in un certo senso attraente: era molto alto e muscoloso, e aveva un sorriso smagliante come molti uomini del suo paese. Una sera la discussione si era protratta oltre il consueto: Amani (questo il nome di battesimo dell’avvocato Ashon) esaminava con Laura e Rajesh, un altro giovane avvocato di origine indiana, un caso molto dibattuto anche in altre precedenti riunioni, quando improvvisamente Rajesh fu chiamato dalla moglie per un’emergenza e dovette correre a casa. Amani e Laura continuarono così un’accesa discussione, in quanto lei non era d’accordo con l’interpretazione della giurisprudenza che era generalmente prevalsa nella prassi e sosteneva che si potesse avanzare un’altra tesi, fino a quando, avendo entrambi saltato la cena, l’avvocato disse: «Laura, lei cena sempre con i suoi giovani colleghi, vi vedo quando, uscendo dallo studio, vi fermate al pub qui di fronte. Non vorrebbe stasera, data l’ora tarda, far compagnia ad un vecchio avvocato? Non conosco la musica che oggi amano i giovani, ma vorrei portarla in un localino dove suonano un genere che a me piace molto». Laura si sorprese di questa precisazione; e pensò che l’indomani i suoi colleghi, se fossero venuti a conoscenza dell’invito, si sarebbero molto meravigliati e ne avrebbero sicuramente spettegolato. Ma non poteva che accettare... E in fondo le faceva piacere cenare in un posto nuovo, conoscere una Londra che ancora non aveva esplorato. 86­­­­

Cenarono di gusto. Lei si sentiva un po’ a disagio, e quando l’avvocato si offrì di accompagnarla a casa invano cercò di rifiutare... Quella cena le era sembrata ad un tratto poco professionale, benché l’atmosfera non le fosse dispiaciuta. Fu sollevata nel salutarlo, e mentre saliva le scale di casa aveva in testa una confusione come non mai. *** Quella notte Laura sognò suo padre; ne udì la voce, rimbombante nel silenzio, che diceva ripetutamente: «Non mi portate in casa amici di colore; siete liberi di frequentarli fuori casa, ma a casa mia non li voglio...». Poi l’immagine del padre sfumava, assumendo contorni sempre più indefiniti, fino a quando il suo volto diventava quello dell’avvocato Ashon: Amani che le sorrideva con i suoi denti così bianchi, Amani che la guardava fisso negli occhi, uno sguardo magnetico dal quale era suo malgrado affascinata. Smetteva quindi di opporre resistenza e cercava di avvicinarsi a lui, di sorridere a sua volta; ma mentre gli si avvicinava Amani non c’era più..., di fronte a lei c’era di nuovo il volto severo del padre e la sua voce che proferiva quella orribile, crudele e insensata richiesta... Laura si svegliò di soprassalto. Perché aveva fatto quel sogno, così nitido, così preciso?, si chiese. Ma soprattutto si domandava: se suo padre avesse conosciuto Amani, quale sarebbe stato il suo giudizio? Si sarebbe ricreduto sui suoi pregiudizi risalenti alla triste esperienza della famosa rapina? Per fortuna lei nulla ricordava di quell’accadimento perché era la più piccola dei quattro bambini presenti alla scena dell’aggressione, ma sapeva quanto ne fosse rimasto traumatizzato il padre, e quindi gli perdonava la sua pur illogica avversione verso le persone di pelle scura. Restò sveglia a pensare... a pensare ad Amani, e quel pensiero la rendeva felice... Cosa le stava accadendo? Si stava forse innamorando? «Alt» si disse quasi ad alta voce. «Basta così. Stai per tuo conto e non uscire mai più con lui». Solo verso l’alba si riaddormentò. 87­­­­

Alle sette di mattina la sveglia trillò, come sempre. Dopo appena cinque minuti qualcuno bussò alla porta: era un ragazzo con in mano un’orchidea blu come non ne aveva mai viste. Il ragazzo le disse che aveva trovato il portone sulla strada aperto e che doveva consegnare la pianta all’interno numero 6. Vedendo il suo sguardo così sorpreso le chiese se quello era effettivamente l’appartamento numero 6. Laura era ancora confusa per il sogno di quella notte, ma cercò di ritrovare la sua presenza; confermò che quello era l’indirizzo giusto, e prese la pianta nelle mani. L’orchidea recava un biglietto: “Posso sperare in un’altra serata come quella di ieri sera? Non lo capirò dal suo comportamento sul lavoro, ma soltanto dal suo sorriso e dai suoi occhi”. Era firmato con il nome di battesimo, Amani, che, nonostante ormai lo pronunziasse spesso, continuava a suonarle inusuale e intrigante. Si vestì in tutta fretta perché aveva impiegato tempo nel sistemare l’orchidea; saltò la colazione, ma nonostante ciò arrivò alla stazione della metro in piena ora di punta. Dovette aspettare un altro treno. Così arrivò con leggero ritardo, con il cuore che le batteva forte, sperando di non incontrarlo subito. Vide attraverso le pareti vetrate che c’era una riunione in corso nella sala grande, di cui evidentemente erano stati avvertiti tutti all’arrivo in ufficio perché sembrava che tutti gli assistenti fossero presenti. Si affrettò ad entrare, per fortuna seguita da una sua collega, anche lei appena arrivata. La discussione verteva sul caso che le era stato prospettato la sera prima dall’avvocato Ashon. Si era deciso di certo quella stessa mattina di portarlo alla discussione plenaria, trattandosi di un caso molto complesso che vedeva in gioco il nome dello studio. Era il caso sul quale lei aveva proposto una nuova possibile lettura, certamente innovativa, che avrebbe aperto la possibilità di agire in giudizio a molti altri azionisti di una società per azioni. La discussione era già andata avanti per circa un’ora, quando ad un certo punto l’avvocato Ashon disse: «Laura vuole prospettarci la sua lettura del caso e la possibile articolazione della difesa nei termini che vi illustrerà». 88­­­­

Laura si sentì arrossire; ma si alzò in piedi, come da prassi, e, pur sentendosi osservata da tutti come non mai, parlò con sicurezza e convinzione. Presentò la sua tesi con crescente fervore, concludendo: «Spero di avervi convinto. Sono pronta a rispondere ad ogni obiezione». Diede uno sguardo in direzione del capo, che però non la guardava affatto, anzi sembrava distratto. Avrebbe voluto conoscere subito il suo giudizio, ma non era possibile: bisognava aspettare il pomeriggio, forse addirittura la sera. Terminata la riunione, i giovani tornarono nelle rispettive stanze che occupavano in due; Lora (così la chiamavano gli amici) aveva sin dall’assunzione diviso la stanza con il collega Rajesh. Ma ora, entrando nella stanza, si trovò di fronte una nuova collega, Sarah, una giovane praticante di origine canadese proveniente da Manchester che si era aggiunta da una settimana al gruppo. Laura si meravigliò di quel cambiamento ma dette il benvenuto alla collega, la quale aveva anche lei come referente l’avvocato Ashon. Laura si sforzò da subito di essere amichevole con Sarah, ma in realtà le dispiacque un po’ di aver perso la vicinanza con Rajesh, un simpaticone che aveva sempre la battuta pronta, buone idee sui ristorantini dove andare, e pure una moto con la quale ogni tanto a tarda sera le dava un passaggio. Proprio pensando alla moto del collega le venne in mente che quella sostituzione potesse essere stata una mossa dettata dalla gelosia da parte dell’avvocato Ashon, per evitare che lei si avvicinasse troppo a Rajesh. Possibile?! Quando dal campanile della vecchia chiesa che sovrastava l’edificio suonavano le due pomeridiane i giovani scattavano e si dirigevano dai rispettivi referenti. Quel giorno nella stanza di Laura e Sarah era arrivato anche Steven, un altro praticante, e in tre si mossero per la riunione. Ognuno di loro aveva studiato una parte della difesa da esporre all’avvocato Ashon, il quale poi avrebbe incaricato un collaboratore di lavorare alla stesura dell’atto. Durante la riunione, si sarebbe discusso anche dell’impostazione generale della difesa, per 89­­­­

scegliere quale interpretazione della giurisprudenza sostenere. Pur non essendo necessario svolgere argomentazioni giuridiche nella difesa, era tuttavia essenziale, per l’impostazione dell’atto, scegliere la tesi che si sarebbe seguita. La riunione fu lunga e la discussione complessa. Quando l’avvocato Ashon decise di seguire la tesi prospettata da Laura, lei si alzò e lo ringraziò per averle consentito di illustrarla. «Dottoressa, lei deve costruire su quell’assunto tutta la difesa; certo lo faremo insieme, ma bisognerà che ci si lavori anche sabato perché, come sa bene, la difesa va depositata mercoledì prossimo e devo avere il tempo di rivederla e inviarla al cliente per la sua approvazione». Lavorarono davvero in armonia e con grande efficienza dalla mattina alla sera sia il venerdì che il sabato, e anche la segreteria ebbe un bel da fare per sistemare l’incartamento. Al termine del lavoro l’avvocato le chiese di poterla condurre di nuovo in quel ristorantino dove si erano recati la prima volta e che le avrebbe lasciato tutto il tempo per prepararsi perché sarebbe passato a prenderla a casa di lì a due ore, alle nove. Laura accettò. Si sentiva euforica e felice. Indossò l’unico vestitino elegante che aveva, si sciolse i capelli neri e li pettinò a lungo. Decise anche di truccarsi un po’, cosa che per l’ufficio non faceva mai perché il trucco richiede tempo e testa, e lei di prima mattina non aveva né l’uno né l’altra. Quando Amani suonò al citofono, Laura si precipitò giù e lo raggiunse in un attimo. Lesse turbamento e ammirazione nel suo viso, e un po’ per spavalderia, un po’ per scherzo gli porse la mano per prima. Amani le prese la mano, la tirò energicamente a sé e la baciò sulla guancia e sulla fronte; lei non si ritrasse, mentre il suo cuore batteva talmente forte che si domandò se lui lo potesse udire. E lui continuò con i suoi baci, e scese lentamente sulla bocca, e lei rispose appassionatamente... Trascorsero una splendida serata romantica all’insegna dell’innamoramento più impetuoso che Lora avesse mai vissuto. 90­­­­

*** I due mesi che seguirono furono molto intensi, e segnarono l’inizio del periodo più felice della vita di Laura. Lavorava tanto, con passione e tante soddisfazioni. Si integrava sempre di più in quella Londra che tanto amava; ma soprattutto ora c’era l’amore nella sua vita. La storia con Amani continuava, e la frequentazione al di fuori del lavoro, così come i sentimenti che provavano l’uno per l’altra, si intensificavano sempre di più. Una mattina in ufficio, in un giorno all’apparenza come tanti, l’avvocato Ashon iniziò la riunione plenaria del team con una comunicazione personale: la decisione presa con la dottoressa Laura di sposarsi. Laura arrossì, sorpresa ma felice, chiedendosi come mai in pochi mesi lui si sentisse così sicuro di lei, del suo sì ad una domanda mai fattale, ad una proposta matrimoniale mai pronunziata. In effetti l’avvocato Ashon aveva forse peccato di arroganza, ma Laura avrebbe certamente detto di sì, cento volte! Lei gli andò incontro e lo abbracciò tra gli applausi scroscianti dei colleghi. Decisero di sposarsi in prossimità dell’estate perché quell’inverno era troppo piovoso, e dopo il matrimonio di recarsi prima a Napoli, per conoscere la famiglia di Laura, e poi a Tunisi, per conoscere la famiglia materna di Amani. Intanto Laura accettò di andare a vivere nell’appartamento di lui, peraltro molto più confortevole del suo e più vicino all’ufficio. Un pomeriggio in cui non era in ufficio perché impegnato a chiudere un accordo a Manchester, l’avvocato Ashon fu chiamato da un collega per una comunicazione urgente: Laura era in ospedale perché era svenuta ripetutamente nel corso della giornata. Il medico, prontamente chiamato, aveva riscontrato una gravidanza in atto e consigliato il ricovero ospedaliero. Un grido di felicità fu la risposta alla telefonata. Amani chiamò subito Laura, che fortunatamente poté rispondere e ascoltare parole che le suonarono come poesia e che le sarebbero poi rimaste per sempre nel cuore, ogni giorno 91­­­­

della sua vita, perché a causa di un infausto destino mai più avrebbe sentito quella voce calda e gentile, mai più avrebbe incrociato quegli occhi scuri che la seguivano con amore... Laura restò tre giorni in ospedale; ne uscì per partecipare al funerale di Amani, rimasto ucciso in un incidente stradale sulla via del ritorno a Londra. L’incidente fu causato da eccesso di velocità, il che escluse ogni forma di risarcimento. La povera Laura non si sentì di riprendere il lavoro in quello stato d’animo, così diverso e così sofferente. Dopo giorni di tentennamenti e ripensamenti, di consigli e suggerimenti, pensò di tornare a Napoli, dove prima o poi avrebbe trovato il coraggio di dire a suo padre che la bimba che portava in grembo sarebbe stata una bambina di colore. In estate non ci sarebbe stato il matrimonio programmato, ma la nascita di Lilia, la figlia di un grande avvocato, come suo nonno desiderava, un grande avvocato inglese di origini kenyote e madre tunisina. Molteplici interrogativi, continui e insistenti, martellavano la mente di Laura: come continuare a vivere, in quale dimensione? Forse quella del ricordo... Ma non sarebbe stato giusto per una bambina che si affaccia alla vita; la sua bambina doveva crescere serena e felice, ma le sarebbe stato possibile senza un padre? Questi i suoi pensieri mentre volava verso Napoli con le mani sul ventre, come per difendere uno scrigno che contiene un tesoro. Portava con sé una piccolissima urna cineraria, il passaporto di Amani e una scatola di ebano e avorio con preziosi gioielli, dono della madre di Amani, Joanne, quando aveva saputo che sarebbe nata una bambina. *** Scesa dall’aereo e guadagnata l’uscita, Laura fu assalita dai genitori e dai fratelli, dalle cognate e dai nipoti. Rimase sorpresa dalla folla che era in sua attesa e sorrise: aveva dimenticato l’affettuosità tipica della sua famiglia tutta napo92­­­­

letana. Suo padre si affannava a ripetere: «Fate attenzione, non dimenticate che nella pancia di Laura c’è una bambina; a proposito, ha già un nome questa creatura?». Arrivati a casa iniziarono le domande sul suo compagno, prossimo sposo; ma la reazione di Laura, che scoppiò a piangere, disorientò i genitori i quali – appresa la notizia del terribile incidente – non sapevano come consolarla. Il padre le disse subito che comunque era possibile ottenere il riconoscimento anche dopo la morte del padre biologico, e avrebbe fatto tutto lui; ma la figlia lo fermò dicendogli: «Lascia decidere a me, papà, ormai sono una donna fatta, ho quasi trent’anni e so cosa fare e cosa non fare. Adesso vorrei vedere la mia stanza». La trovò come l’aveva lasciata, e ne fu felice; si tuffò sul suo letto, preparato con le lenzuola ricamate dalla nonna per il suo corredo. Già l’indomani iniziò la processione degli amici in visita. Il primo a bussare alla porta fu il suo fidanzato degli anni del liceo e dell’Università. Antonio era nel frattempo diventato un buon avvocato lavorista, molto noto in città. La strinse a sé con lo stesso entusiasmo di un tempo; lei si scostò dolcemente e gli disse: «Fa’ piano, ho una bambina nella pancia!». Antonio scolorì, si fece indietro e le chiese scusa per l’abbraccio troppo stretto. Lei gli disse che il papà della bambina era scomparso in un incidente stradale e che era tornata proprio per dare alla piccola la sua famiglia. Antonio non trovò parole e seppe solo abbracciarla nuovamente, questa volta più teneramente, sussurrandole: «Non ho mai saputo niente della tua vita personale; tuo padre mi parlava soltanto della tua vita professionale, esaltandola naturalmente alla sua maniera. Quando tu rispondevi alle mie e-mail non hai mai fatto riferimento alla tua relazione, parlavi solo di lavoro». «È successo tutto molto in fretta, nel giro di pochi mesi» rispose Laura. «Per questo nessuno ha saputo niente, saremmo scesi a Napoli in agosto, dopo il matrimonio». Antonio rimase con lei tutto il pomeriggio e insistette per farle fare un giro e vedere come era cambiata la città. Lei ac93­­­­

cettò per sottrarsi per qualche ora al continuo interrogatorio del padre, sapendo bene che Antonio nulla le avrebbe chiesto. E così fu lei a parlare di Londra, dello studio di avvocato, dei colleghi, del sistema di lavoro, molto organizzato e produttivo. Lui annuiva e le sorrideva; la riaccompagnò a casa solo dopo una cenetta nella pizzeria dove solevano andare con gli altri amici dopo aver sostenuto un esame all’Università. Lei ne fu contenta; era forse ciò che desiderava, reimmergersi nel passato per proiettarsi verso il futuro. Nei giorni successivi Laura sistemò le sue cose personali che aveva portato da Londra. Chiese alla madre di uscire con lei per fare spese: desiderava comprare un secrétaire per racchiudervi il passaporto di Amani, la piccola urna funeraria, i gioielli regalati da Joanne e piccoli ricordi di un tempo felice, che nessuno avrebbe dovuto mai violare. Non trovarono subito il mobile perché Laura lo voleva molto piccolo per non ingombrare la stanza. Fu Antonio a risolverle il problema: conosceva un ebanista molto bravo con il quale furono fissate le misure, scelto il legno e definito ogni altro particolare. Dopo un tempo record il mobile le fu consegnato a casa dei genitori con un biglietto che diceva: “Perché possa custodire i segreti dell’anima che non appartengono a nessuno se non alla persona che li ha vissuti”. Laura fu grata ad Antonio perché capì fino in fondo quel che lui aveva voluto dirle. Del resto, nel corso delle settimane che dal suo arrivo erano corse veloci, le era stato molto vicino, ma con una discrezione e una leggerezza che non gli erano mai state congeniali; lei se ne sorprendeva e lo apprezzava. Era davvero un amico, il suo vecchio compagno di studi, il suo primo amore. Si erano lasciati quando lei si era intestardita a voler andare in Inghilterra, perché lui aveva lo studio del padre, era l’unico figlio e non se la sentiva di abbandonare tutto. Le aveva fatto visita a Londra più volte nei primissimi tempi, poi aveva compreso che lei non sarebbe più tornata a Napoli e aveva allentato i rapporti, mai però troncandoli del tutto. A Laura la situazione era molto dispiaciuta: odiava 94­­­­

l’idea che Antonio dovesse soffrire per causa sua, ma ancora più forte era stato il desiderio d’indipendenza e di potercela fare da sola. Sistemò tutte le cose importanti nel secrétaire e decise di prepararsi al parto, che si stava avvicinando. Aveva sempre però nella mente che, oltre alla sua preparazione al parto, andava innanzitutto preparata la sua famiglia ad avere la prima nipotina femmina di pelle scura: come dirlo, dove dirlo, quando dirlo. Nessun giorno, nessun momento le sembrava quello opportuno. Venti giorni prima della data prevista per il parto si ruppero le acque, e Laura fu ricoverata d’urgenza. Tutto accadde così rapidamente che a Laura sembrò di vivere un sogno; e le sembrò di continuare a sognare anche quando, riaperti gli occhi, si ritrovò di fianco una bambina dalla pelle di porcellana, bianca come il latte. Il medico e l’infermiera si complimentavano con lei per la bellezza della piccola, dovuta anche al fatto che non aveva sofferto perché, essendo molto minuta, era venuta alla luce con estrema facilità. Laura, riportata nella sua stanza, vi trovò i suoi genitori felici di quella nipotina che già avevano potuto ammirare dietro il vetro, trovandola naturalmente somigliante al nonno... Ricevette via via le visite di parenti e amici, e quando fu la volta di Antonio gli sentì dire davanti a tutti: «È una bambina splendida. È proprio così che vorrei una figlia. Vorrei essere, madre permettendo, il suo padrino di battesimo». Il nonno sorrise annuendo, e anche Laura ne fu felice. Tornata a casa cominciò la sua vita di mamma, e il dolore per la perdita di Amani si andava attenuando, presa com’era dalla piccola e dalle visite delle amiche che dispensavano consigli e suggerimenti. Antonio, dopo il lavoro, passava sempre a trovarla e giocherellava con la piccola, che curiosamente sembrava avere una predilezione per lui. Appena arrivava si dimenava per indicare che voleva essere presa in braccio, e solo allora si acquietava e sorrideva a tutti. Iniziava a vocalizzare, e Laura aspettava con ansia che dicesse la parola “mam95­­­­

ma”; quando questo avvenne fu molto contenta, ma rimase perplessa quando, rivolgendosi ad Antonio, la bimba ugualmente lo chiamava “mamma”... Lui trovò immediatamente una giustificazione spiegando che la bambina con quella parola si riferiva alle persone alle quali chiedeva di essere presa dalla culla e dalle quali si sentiva amata. Laura rifletté a lungo su questo comportamento della piccola, perché nei confronti dei nonni la bambina non si rivolgeva nello stesso modo; infatti di lì a poco, a conferma, la piccola cominciò anche a dire “nonna” e “nonno”. Fu allora, grazie alla sua figlioletta, che Laura cominciò a vedere Antonio sotto una nuova luce, come il padre di sua figlia. Gli disse che era molto contenta che Lilia gli facesse tutte quelle feste, e lui, che l’amava da sempre, di rimando le chiese di sposarlo perché la piccola potesse chiamarlo papà. Tra lacrime e sorrisi, Laura acconsentì. Fu un matrimonio semplice e commovente. Unirono alla festa per il matrimonio quella del battesimo di Lilia. Le famiglie dei due sposi erano raggianti, e gli sposi non erano da meno; la piccola era a dir poco esaltata, come se invece del latte avesse succhiato anche lei dello champagne! *** Gli anni passarono velocemente. Lilia cresceva forte e sana, e la famiglia si era accresciuta di altri due figli maschi. Laura spesso raggiungeva il marito allo studio, dava una mano, ma non aveva mai più voluto andare in Tribunale e vivere il mondo giudiziario. Talvolta si fermava a pensare come sarebbe stata la sua vita se quel lontano giorno non fosse svenuta e non avessero allertato Amani, o se semplicemente lui non fosse andato a Manchester. Dove sarebbe ora..., cosa farebbe...; ma subito tornava al presente, come se soltanto il chiederselo fosse un torto fatto ad Antonio, che amava la famiglia e aveva anzi un debole per Lilia, che peraltro lo ricambiava teneramente. 96­­­­

Dopo alcuni anni dalla nascita di Lilia, un giorno Laura andò a Roma per incontrarsi con una compagna di scuola. In quell’occasione aveva fissato una visita con un genetista al quale sottoporre quel quesito che non aveva potuto rivolgere a nessuno: come mai la sua bambina era nata bianca pur essendo figlia di un uomo dalla pelle scura? Il medico le fornì approfondite spiegazioni: in sintesi, il gene di uno dei genitori può prevalere sull’altro, ma nella seconda generazione “il colore” potrebbe riaffermarsi. Laura si andava quindi convincendo che prima o poi avrebbe dovuto rivelare alla figlia – divenuta ormai adolescente – che l’uomo da cui era stata generata non era la persona che lei amava teneramente come padre, ma una persona di colore: un avvocato di spessore che avrebbe sposato se il destino non gli fosse stato avverso. Doveva sapere che un figlio nato da lei avrebbe potuto avere la pelle scura come il nonno materno. Ma non riusciva mai a trovare il momento opportuno per rivelare il suo segreto. In effetti Antonio spesso la esortava a dire a Lilia la semplice verità, che l’uomo che credeva essere suo padre in realtà l’aveva legittimata come figlia in sede di matrimonio, perché il padre biologico era un avvocato inglese, morto prima che lei nascesse. Ma gli anni passavano, e il segreto non veniva mai condiviso con Lilia. I figli di Laura e Antonio erano ormai tutti sistemati professionalmente e sposati, e Laura era diventata nonna. Solo Lilia, tra l’altro la più grande di età, non era sposata. Lavorava nello studio legale del padre, aveva già i suoi clienti e spesso discuteva con la madre, tornando a casa, dei casi difficili da impostare. Aveva affittato un appartamentino per suo conto, ma al padre dispiaceva di non vederla tornare ogni sera, così lei spesso rientrava, anche se sul tardi, nella casa dei genitori. Una sera, mentre era tra le sue carte, ricevette una telefonata del fratello che le chiedeva di tornare subito a casa, dove suo padre, smarrito e in preda all’angoscia più profonda, le disse con parole confuse che sua madre aveva perso 97­­­­

conoscenza per strada ed era caduta. Portata all’ospedale, le era stato diagnosticato un infarto; purtroppo si era arrivati troppo tardi e non ce l’aveva fatta. Fu così cha Laura terminò la sua vita terrena, lasciando il marito e tre figli e portando per sempre con sé il segreto sulla paternità di Lilia, che mai a nessuno aveva rivelato. *** La perdita della mamma e le esortazioni del padre spinsero Lilia ad accettare la proposta di matrimonio di un giovane ingegnere, Lorenzo, che da tempo la corteggiava. In effetti lei ricambiava le sue attenzioni, ma era troppo presa dalla sua vita frenetica per trovare il tempo per una relazione sentimentale. Il matrimonio sarebbe stato celebrato di lì ad un anno perché la recente perdita di Laura non consentiva festeggiamenti. I due giovani decisero comunque di andare a vivere insieme e di fare un viaggio che, se non si poteva chiamare viaggio di nozze, sarebbe stato di “pre-nozze”. Lilia scelse l’Africa perché quel continente l’aveva sempre affascinata, nonostante le preoccupazioni, relative alla sicurezza, del papà Antonio, ma soprattutto dei nonni materni, ormai molto anziani. Chissà se l’attrazione che Lilia provava per i paesi africani e per la loro cultura non fosse, almeno in parte, dovuta alla sua identità biologica, a lei ancora ignota... Così Lilia e Lorenzo toccarono, tra gli altri paesi, il Marocco, l’Egitto, e poi proprio il Kenya, per terminare in Sud Africa. Il lungo viaggio si svolse senza problemi, e fu l’occasione per i due giovani per consolidare il loro rapporto e finalmente rilassarsi dall’assiduo lavoro. Poco dopo il rientro in Italia Lilia si accorse di essere in dolce attesa, e tutti si rallegrarono della lieta notizia. Arrivò il giorno del ricovero di Lilia in ospedale ed emerse subito la necessità di un parto cesareo, perché la bambina non si presentava di testa. C’erano i nonni in sala d’attesa, 98­­­­

seduti l’uno accanto all’altra, con intorno i tre figli maschi, i fratelli maggiori di Laura. L’ormai anziano avvocato Calbarrelli e la moglie, che ancora piangevano la perdita della loro tanto amata “piccola” Laura, rivivevano ora, con il parto della nipote, cinquant’anni di storia della propria vita. I due fratelli di Lilia erano lì con il padre. C’erano anche i parenti di Lorenzo, che era entrato in sala parto ma poi, sentendo la compagna in preda alle doglie, si era allontanato, preferendo non vederla soffrire così. Finalmente il medico raggiunse i parenti in sala d’attesa con la notizia di una bella bambina! Eugenia – questo il nome scelto dal padre – era nata, e tutti attendevano che l’infermiera la portasse al nido per poterla ammirare attraverso il vetro. Ma Lorenzo, che voleva abbracciare Lilia e vedere per primo sua figlia, rientrò subito in sala parto, dove vide a testa in giù, mentre la stavano lavando, una bambina dalla pelle scura, e chiese confuso dove fosse sua figlia. L’infermiera, il ginecologo e l’anestesista, con grave disagio, gli risposero all’unisono che quella era la bambina nata dalla signora Lilia, come risultava chiaramente dai braccialetti apposti al polso della madre e a quello della neonata. Il padre uscì profondamente turbato dalla stanza e, senza salutare i parenti, si allontanò in fretta palesemente alterato in viso. Nonni e zii attendevano di poter vedere la neonata, interrogandosi nel mentre sullo strano comportamento del padre. Arrivati davanti al vetro si resero conto in un attimo di tutto ciò che poteva essere scattato nella mente di Lorenzo. Il nonno paterno si recò subito dal medico per chiedergli “spiegazioni”, ma questi non ebbe spiegazione alcuna da dargli se non che quella era senza dubbio la bambina partorita da Lilia, la quale era quindi l’unica in grado di fornire spiegazioni. Ma Lilia ancora non si era resa conto di nulla. Pensava che la piccola fosse stata portata via per essere lavata, e quando apprese da suo padre che Lorenzo si era allontanato sconvolto appena visto la sua bambina, a motivo del colore della pelle, invece di correre da lei per sapere come stesse e cercare 99­­­­

di capire insieme come potesse essere accaduta una cosa così strabiliante, fu pervasa da una profonda disillusione. Tra lacrime pungenti reagì chiamando subito nella sua stanza l’infermiera che poco prima le aveva lasciato il documento da firmare per il riconoscimento della neonata. Fu lei a firmare e a chiedere il solo riconoscimento materno: aveva deciso in un attimo di non rivedere mai più il suo compagno e di non voler sentire più la parola matrimonio. Pensò che solo allora lo aveva davvero conosciuto per quello che veramente era; e si ripeteva continuamente: «È l’occasione che ti fa conoscere le persone». Inutilmente il padre cercava di calmarla, ripetendole a sua volta che la reazione di Lorenzo era naturale, perché una coppia di pelle bianca non può generare una bambina di colore. Però entrambi, padre e figlia, avevano come un presentimento che forse la spiegazione c’era, ed era racchiusa in quel secrétaire che Antonio stesso aveva fatto costruire per Laura dal suo ebanista tanti anni prima. Bisognava andare a casa e aprirlo; ma Lilia disse: «No papà, devi aspettare me prima di aprire la calatoia del secrétaire. Voglio essere presente, non riesco a capirci più niente». E il padre le promise che avrebbe atteso il suo ritorno a casa. Nei giorni di permanenza in ospedale Lorenzo non si fece vivo, e Lilia ne soffrì ma non aveva intenzione di telefonargli. Doveva aspettare, come gli aveva detto suo padre, nel quale aveva una fiducia smisurata. Al sesto giorno, tornata a casa, Lilia trovò un breve messaggio telefonico e una lettera di Lorenzo che diceva: «Ti ho sempre detto che sei l’unica donna che da sempre mi stupisce e mi sconvolge, ma come questa volta mai... Perdonami, ma non me la sento di effettuare il riconoscimento di una bambina non mia. Non so come sia potuto accadere essendo noi stati in Africa quasi sempre insieme; se avrai la bontà di dirmelo mi eviterai di mettere infinite volte alla moviola nella mia mente l’intero viaggio. Mi sento uno stupido. Ti abbraccio perché non riesco a non volerti bene». 100­­­­

Lilia decise di rifugiarsi da suo padre, il quale aveva capito che la chiave del problema non era in lei, ma da un’altra parte: lui avrebbe spiegato l’enigma e deciso il da farsi. Antonio era in casa ad aspettarla; le andò incontro, le prese di mano il porte-enfant, e lei disse tra le lacrime: «Io non ho mai conosciuto uomo prima di Lorenzo, né dopo; non so spiegarmi cosa sia successo». Il padre la guardò dritto negli occhi: «La spiegazione è una soltanto. Apriremo il secrétaire di tua madre e sapremo la verità...». «Che vuoi dire, papà, non capisco che c’entra la mamma, di quale verità parli?». Il padre continuava a borbottare, perso nei suoi pensieri: «Ma non so neppure dove sono le chiavi, bisognerà cercarle, se no lo forziamo perché è là dentro la spiegazione di tutto...». Cercò dovunque, ma le chiavi non si trovarono; allora, con un cacciavite, forzò la chiusura e la calatoia cadde giù. Il mobile appariva quasi vuoto; nel centro c’era soltanto un passaporto e un piccolo contenitore di bronzo chiuso ermeticamente, più una lettera indirizzata ad Antonio. L’uomo leggendola prese a piangere lentamente: «Lettera d’amore ad Antonio che mi ha salvato e mi ha dato una famiglia meravigliosa...»; la lettera continuava esaltando i momenti più intensi della loro vita in comune. Laura doveva averla scritta soltanto qualche mese prima di morire, ed era evidente la sua intenzione di parlare al marito di quel segreto ancora custodito e non rivelato. Il passaporto posto a lato della scatola di bronzo era sicuramente del padre di Lilia, di quell’uomo del quale mai Laura aveva parlato. Antonio lo aprì, vide la foto dell’avvocato Ashon e capì tutto in un attimo. «Quando hai finito di allattare parliamo...» disse a Lilia. «Adesso mi è tutto chiaro, e sarà chiaro anche a te e al padre di questa creatura». «No papà, io non voglio che a lui sia chiaro un bel niente perché l’unica cosa che ha saputo pensare è stato che lo avevo tradito appena in viaggio. Ma che fiducia ha in me quest’uomo...». Ma il padre ribatteva che sul momento non si poteva dare altra spiegazione. «Papà, ma tu mi hai creduto...». «Io ti ho creduto, ma ci sono molte cose 101­­­­

che tu non hai mai saputo. Io ho sposato tua madre che era tornata da Londra già incinta di te, e io in sede di matrimonio ho dichiarato che eri mia figlia, e perciò ti ho legittimato. Tuo padre era un avvocato di grido, come mi disse tua madre, sottacendomi però che era di colore, elemento di cui vengo solo oggi a conoscenza, vedendo il suo passaporto; morì in un incidente stradale mentre si recava all’ospedale dove avevano ricoverato tua madre perché era svenuta più volte, ignorando di essere incinta. Io ti ho preso in braccio appena nata; volevo bene a tua madre fin dai banchi di scuola, e lei lo sapeva bene, così proprio perché tu mi tendevi le braccia consentì a sposarmi, e ci siamo amati e rispettati sempre. E così sarà tra te e Lorenzo, appena avrò chiarito con lui». «Papà, tu non devi chiarire niente. Sono dieci giorni che ho partorito, non si è neppure informato in ospedale se ero viva o morta, perché ha emesso la sentenza, ha cambiato ruolo, adesso giudica senza gli atti...; eppure dice sempre di fare attenzione alle apparenze perché al giudice bisogna dare dati certi...». «Figlia mia, ma una bambina di colore che nasce da una coppia di genitori bianchi può essere considerata una prova certa. Evidentemente il colore può saltare una generazione. La bambina ha il colore dell’estate, è bella e sana, deve avere un nome che richiama l’estate: chiamiamola Maria Sole». Per un attimo Lilia si distrasse dai suoi tristi pensieri ed esclamò: «Maria Sole, papà, è veramente il nome che ci vuole...». Poi, tornando col pensiero alla situazione presente, aggiunse: «Papà, guarda negli altri cassettini del secrétaire, ci potrebbe essere qualcos’altro...». Antonio li aprì tutti, e in ognuno trovò foto a suo parere dell’Africa, «evidentemente conservate perché sono del paese da cui veniva tuo padre» le disse. «Ora abbiamo questo passaporto e potremo fare qualche ricerca, se vuoi; sul passaporto abbiamo la data di nascita, ho visto che abbiamo lo stesso mese e giorno di nascita; io sono nato esattamente dieci anni dopo; con tua madre, lo sai, eravamo coetanei». Nell’ultimo cassettino c’era uno scrigno di chiara fattura 102­­­­

africana, con un biglietto che recava scritto in francese “da Joanne a Laura”. Chi fosse Joanne nessuno sapeva, ma nell’aprire lo scrigno apparvero dei meravigliosi gioielli. «Probabilmente sono gioielli di famiglia di tuo padre, ma Laura, che pur amava ingioiellarsi, non li ha mai tolti dalla scatola, conservandoli forse per te. Figlia mia, hai fatto male a fare tu per prima il riconoscimento, perché adesso dovrai recarti al Comune e dare il consenso per il riconoscimento da parte del padre...». «Papà, ma tu allora non hai ben capito che questa bambina Lorenzo non la riconoscerà mai e poi mai, perché non se la merita!». A questo punto Antonio decise di raccontare a Lilia della rapina che tanti anni prima aveva subìto suo nonno da parte di quattro giovani di colore per farle comprendere il motivo per cui probabilmente Laura aveva sempre rimandato di parlare dell’avvocato inglese di colore che avrebbe sposato. Pensava di venire a Napoli dopo il matrimonio e che tutto si sarebbe risolto conoscendolo; ma gli eventi successivi le consigliarono di rimandare ancora per evitare la reazione di suo padre, che temeva fortemente. *** Nelle settimane che seguirono, Lilia si mantenne ferma nella decisione di non rivedere Lorenzo. Questi, invece, contattato da Antonio, che era riuscito a chiarire la straordinarietà della situazione, comprese di aver profondamente offeso Lilia, cui voleva bene da sempre e avrebbe voluto bene per sempre. Vista anche la foto della bambina che, al di là del colore della pelle, gli somigliava per davvero, chiese di poterla riconoscere immediatamente come sua figlia; ma non vi fu verso di convincere Lilia, la quale accondiscese poi che il riconoscimento avvenisse per via giudiziaria, così che sarebbe stato un giudice a decidere se era interesse della bambina essere riconosciuta da un padre che aveva dubitato della paternità e abbandonato in ospedale madre e figlia. E così 103­­­­

Lorenzo fu costretto a richiedere il riconoscimento per le vie legali, ricorrendo al giudice minorile. Il ricorso presentato da Lorenzo, padre biologico di Maria Sole, illustrava le motivazioni in base alle quali aveva superato l’iniziale volontà di non riconoscere la minore, manifestata con l’allontanamento immediato dall’ospedale alla vista di una neonata di colore. Non appena Antonio, il padre di Lilia, gli ebbe chiarito ciò che a lui era apparso inspiegabile, si era dichiarato disposto ad effettuare il riconoscimento, ma gli era stato impedito. Chiedeva perciò al Tribunale la sentenza che tenesse luogo – ovvero fosse sostitutiva – del consenso mancante della madre. La resistente, da parte sua, non negava la paternità, ma si opponeva al riconoscimento esclusivamente a motivo della condotta tenuta dal ricorrente alla vista della bambina: sottolineava la sua assoluta mancanza di fiducia nella donna che gli era stata sempre fedele, senza neppure sentire il bisogno di vederla dopo il parto, facendosi da subito la sua costruzione dei fatti alla luce del condizionamento comune a tutti gli uomini, che vedono tradimenti del partner dietro l’angolo. Per questi motivi persisteva nell’opposizione. Quando lessi il ricorso, pensai subito che la donna appariva eccessiva nella sua posizione punitiva, posizione che finiva per coinvolgere una bambina che aveva bisogno di un padre, non solo del nonno. Un bambino ha diritto a due genitori, quando è possibile: era necessaria una mediazione familiare. Ricordo che convocai la madre e il suo avvocato, nonché l’avvocato di controparte. Parlai prima con gli avvocati chiedendo loro di poter avere un colloquio con la madre della bambina non alla loro presenza, per cercare di smontare la sua posizione che, a mio parere, non teneva conto dell’interesse della minore, e di inviare entrambi in mediazione. Gli avvocati naturalmente acconsentirono. Essi sapevano bene che il Tribunale avrebbe accolto il ricorso perché il minore ha diritto alla identità biologica paterna, quando il ricorrente è persona qualificata, in grado di essere un riferimento educativo e affettivo per il minore e di svolgere responsabilmente il 104­­­­

ruolo genitoriale. Perché, dunque, non cercare di convincere la resistente a rinunziare ad opporsi e andare insieme con il ricorrente dall’ufficiale dello stato civile per consentire al riconoscimento e riunire la famiglia? L’avvocato della madre – avevo visto dagli atti che aveva solo ventisette anni – mi disse: «Mi creda, giudice, non volevo accettare di assisterla perché conosco e stimo il ricorrente, ma l’ho fatto soltanto nella speranza di poterla convincere a desistere e ritornare insieme». «Bene, poiché siamo sulla stessa lunghezza d’onda mi consenta di parlare da sola con la resistente. La faccia entrare». La giovane mamma entrò, molto carina ed elegante; le indicai la sedia e le dissi: «Lo sa che tempo fa ho conosciuto sua madre ad un convegno e ci siamo soffermate a parlare di Londra? Perché io ho due figli che vivono a Londra, e lei vi aveva vissuto per alcuni anni da giovane. Poi il discorso è caduto proprio su sua figlia, cioè su di lei, perché entrambe avevamo una figlia troppo impegnata nel lavoro, e abbiamo concordato che il lavoro per una donna costituisce sicuramente una sponda che dà sicurezza economica e autonomia; ma una famiglia è anche importante sia per l’uomo che per la donna. E la sua mamma sperava in una sua sistemazione con un giovane promettente ingegnere, che oggi mi pare sia l’attuale ricorrente. Quando ho visto i vostri nomi mi sono ricordata di quella conversazione, ed ho pensato che, se il caso ha voluto che il procedimento fosse assegnato a me, vuol dire che mi devo impegnare al massimo perché questa piccolina abbia la sua famiglia, formata da un padre e da una madre che per un momento hanno dubitato l’uno dell’altra, ma che possono superare le attuali difficoltà per amore della loro bambina, ricomponendo la famiglia, che è il valore più grande per un bambino in crescita. Se la verità fosse emersa prima non ci sarebbe stato tutto questo fraintendimento. Ritengo che sua madre si ripromettesse di parlargliene, ma l’infarto ha stroncato il suo cuore e il suo desiderio di trovare il momento giusto per dirglielo. Il fatto è che per dire la verità non c’è il 105­­­­

momento giusto: la verità va detta subito, prima che si creino problemi. Io credo che adesso, con questa sua resistenza ad un ricorso scontato nel suo accoglimento, lei incrina un rapporto ancora salvabile e pregiudica la bambina, che un giorno la potrà condannare per quanto ora sta facendo. Lei ha chiuso la porta al padre e cerca di rendere difficile il suo rapporto con la bambina, assumendosi una responsabilità troppo grande. Pensi a questa differenza, sulla quale ho riflettuto leggendo gli atti: lei nega il riconoscimento all’uomo che è padre di sua figlia e vuole accoglierla tra le sue braccia, mentre sua madre consentì all’uomo, che della bambina padre non era, di riconoscerla e di amarla per tutta una vita». «Mi creda» continuai, «la reazione del suo compagno alla vista della bambina è stata assolutamente comprensibile; e poi è tornato subito sui suoi passi; l’ha cercata per trovare una ragione a qualcosa che non sapeva spiegarsi. Lei, invece, si è fatta negare; in effetti, quando suo padre gli raccontò la verità, lui già gli aveva chiesto di incontrarla per fare la pace». Lei disse: «Questo non mi risulta»; e io: «Le leggo quello che dice suo padre all’assistente sociale nel corso della visita domiciliare: “Lorenzo mi disse che voleva chiarire e che si era convinto che da qualche parte ci doveva essere una spiegazione”». Lilia rispose: «Io questo non l’ho mai saputo». E io non potei non aggiungere: «Forse lei non l’ha mai voluto sentire, presa com’era da livore per essersi sentita abbandonata in un momento in cui la donna è emotivamente fragile. Comunque questa sua posizione mi conferma che nel giro degli ultimi trent’anni le donne sono diventate autocentrate e indifferenti al benessere dei figli, anche perché incapaci di comprendere l’importanza della figura paterna nel loro percorso di crescita. Le chiedo di accettare la mia proposta di andare in mediazione, di fare cioè degli incontri, prima da sola e poi unitamente al ricorrente, con un mediatore. La mia segretaria le darà i nominativi dei centri che lavorano nella sua zona, e ci rivediamo fra tre mesi. Lei deve anche tener conto che il suo atteggiamento oppositivo al riconoscimento, 106­­­­

se sfornito di prova, potrebbe essere ritenuto pregiudizievole per la bambina, che ha diritto al riconoscimento paterno. Il problema è semplice e concreto: volete essere genitori nel conflitto e frequentare questo Tribunale con assiduità per gli anni a venire? Pensi a tutto quanto le ho detto, e accolga la mia proposta di mediazione». Comunicai agli avvocati la mia proposta: le parti entrarono e dichiararono di accettare l’intervento del mediatore. Anche se il Tribunale avrebbe sicuramente autorizzato il riconoscimento, c’era in tutta evidenza bisogno di fare in modo che riprendesse il dialogo tra le parti e si ridimensionasse l’accaduto riconducendo, se possibile, la madre e il padre biologico alla ripresa della convivenza, o almeno a rapporti distesi e collaborativi. La mediazione ebbe successo, e di lì ad alcuni mesi ricevetti una relazione esaustiva e approfondita dal mediatore, e mi pervenne anche comunicazione dell’avvenuto riconoscimento. Il procedimento fu archiviato. L’intervento mediativo era, dunque, riuscito a garantire la piena bigenitorialità alla piccola Maria Sole, evitandole in tal modo, in una così tenera età, quei disagi materiali e psicologici che, nel percorso della sua infanzia, avrebbero potuto rappresentare per lei una situazione di rischio. L’anno successivo uno degli avvocati mi raccontò che la coppia aveva avuto il secondo bambino, che tutto andava a gonfie vele, e che era loro intenzione portarmi la bomboniera dopo il battesimo. Salutandomi, l’avvocato aggiunse: «Ma poi, dottoressa, come ha fatto a convincerla ad accettare la mediazione?».

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Oscurantismo materno

Rimasta vedova ancora giovane – non aveva ancora raggiunto i quarant’anni – e con una pensione a dir poco ridicola, Francesca aveva dovuto iniziare un lavoro che non le piaceva fare per gli altri, ma che aveva sempre fatto volentieri per sé. In effetti il taglio e il cucito erano sempre stati la sua passione; aveva sin da bambina imparato da sua madre, che spesso le cuciva qualcosa per un’occasione importante, oppure modificava vecchi vestiti, e mettendo insieme un po’ dell’uno e un po’ dell’altro venivano fuori un pantaloncino, una camicia, una gonnellina o addirittura un pigiama per uno dei suoi tre figli; e spesso Francesca, che era la più grande, l’aiutava con interesse, osservando con grande attenzione le abilità della sua mamma. Senza rendersene conto, Francesca aveva un mestiere tra le mani. Quando si vide stretta dai bisogni dei suoi figli, che chiedevano ripetutamente oggetti di consumo comuni agli altri ragazzi della loro età, e in fondo necessari nel percorso scolastico ed extrascolastico, si decise ad uscire fuori dal guscio e a fare della sua casa una piccola sartoria. I tre figli, tutti maschi, ignoravano la loro ormai diversa condizione economica in conseguenza della morte del padre; la madre aveva inizialmente voluto tenerli all’oscuro per preservarli da una possibile ulteriore sofferenza, ma con il tempo se ne resero ben conto, vedendo che ormai non cuciva più soltanto per loro, ma anche per altri. E spesso le dicevano, raggiungendola all’improvviso alle spalle mentre cuciva a macchina, di non lavorare di notte perché le si sarebbe rovinata la vista, e la consolavano dicendole che ben presto sarebbero stati loro a lavorare anche per lei. 108­­­­

Francesca si doleva di non aver avuto una figlia che adesso, in queste condizioni, le sarebbe stata di aiuto, come lei lo era stata per sua madre. D’altra parte un quarto figlio non se lo sarebbero potuto permettere, mancando poi la sicurezza che sarebbe stata femmina. I suoi tre figli non le avevano mai dato preoccupazioni per la salute; avevano avuto le comuni malattie esantematiche – morbillo e varicella – e crescevano sani e forti. Ma un brutto giorno a Marco, il più piccolo dei tre, appena sei anni, in piena notte scoppiò un febbrone, e tutta la notte il bambino gridò di continuo per un dolore all’orecchio. Il dottore, chiamato alle prime luci dell’alba, diagnosticò una parotite, ovvero i comuni “orecchioni”, e prescrisse dei semplici antipiretici. Passavano i giorni, e la febbre non accennava a diminuire. Francesca era molto allarmata, ma il medico le diceva che la malattia doveva fare il suo corso e insisteva nella cura iniziale. Insorse una complicanza, una orchite bilaterale, e il bambino fu bombardato con antinfiammatori e antibiotici. Francesca trasferì la macchina per cucire nella stanza di Marco per sorvegliarlo momento dopo momento, perché era veramente preoccupata: la febbre non scendeva, e il bambino gridava sempre per il dolore ai testicoli. Il suo lavoro languiva e le clienti protestavano, ma lei non si mosse dal letto del figlio fin quando la febbre non cessò. Il medico, quando il bambino fu sfebbrato, disse alla madre che quella malattia ai maschi poteva giocare brutti scherzi e in alcuni casi portare alla sterilità, quindi di controllare la situazione una volta che il ragazzo avesse raggiunto la pubertà, consultando uno specialista. La madre quella notte non dormì affatto; poi si rasserenò alquanto pensando che si trattava soltanto di una eventualità, e che nel tempo si sarebbero potute sviluppare tecniche idonee a scongiurarla. Cercò così di allontanare il suo pensiero da questa prospettiva insidiosa, che fu da allora in poi per lei solo un brutto ricordo. *** 109­­­­

La vita riprese e gli anni trascorsero tra preoccupazioni e piccole difficoltà per il lavoro sartoriale, sempre peraltro superate da Francesca, fortunata – come lei stessa riconosceva – ad avere tre figli che la sostenevano affettuosamente. Dal canto suo Francesca diventava, anno dopo anno, sempre più gelosa e possessiva verso i figli, come le ragazze che li frequentavano ben presto si rendevano conto. Fu così che i due figli più grandi lasciarono la casa materna e andarono a convivere con le proprie ragazze. Solo Marco, ormai anche lui studente universitario, viveva ancora a casa ed era il centro delle attenzioni di Francesca. Nel frattempo la piccola sartoria si era ingrandita, tanto che Francesca dovette assumere un’aiutante. Per evitare che potesse sollecitare l’interesse di Marco scelse una ragazza, a suo avviso, bruttina e poco attraente: Sofia, la figlia di una ricamatrice della zona che le faceva gli occhielli a mano. Si trattava di una ragazza che stava per conseguire la licenza nel settore moda presso l’Istituto professionale per il commercio e il turismo; aveva passione e talento per il taglio e il cucito e voleva aiutare la sua numerosa famiglia con il suo contributo economico, dedicando il pomeriggio a questo lavoro. Sapeva anche consigliare, benché così giovane, le clienti, le quali seguivano i suoi suggerimenti nella realizzazione dell’abito e se ne trovavano poi contente, tanto che tutte le signore le elargivano mance non trascurabili. Sofia amava cantare. Così, mentre lavorava, accennava sottovoce canzoni in voga, e anche arie operistiche che Francesca non conosceva; e allora la ragazza le spiegava la trama dell’opera perché potesse capire la romanza che lei accennava. Le aveva raccontato che suo padre era stato direttore di una piccola orchestra, che le aveva insegnato a suonare il pianoforte e che a lei sarebbe piaciuto continuare; ma dopo la morte del padre aveva smesso, anche se qualche volta ritornava al piano per sua madre, che era felice nell’ascoltare quelle melodie che le ricordavano il marito prematuramente scomparso. Le confessava che il suo sogno sarebbe stato di 110­­­­

lavorare in un’orchestra, ma che ormai non era più possibile; comunque non le dispiaceva fare la sarta e accontentare le clienti, specie quelle gentili, e renderle più carine con un vestito del giusto colore e del giusto taglio. Sofia convinse Francesca ad ampliare l’offerta proponendo alla clientela stoffe particolari, anche costose; e la decisione, anche se rischiosa, si dimostrò vincente. Il lavoro aumentò notevolmente, tanto che arrivò il momento in cui ci sarebbe stato bisogno di un aiuto ulteriore. Francesca chiese a Sofia di fermarsi qualche ora in più, essendo ormai sicura delle sue capacità; la ragazza accettò. Ma Francesca, invece di essere contenta, era sempre più presa da una sorta di irrequietudine, di gelosia rabbiosa verso quella ragazza che, aiutandola, stava ai suoi occhi lentamente rubandole il mestiere. Le clienti, allorquando rispondeva al telefono, chiedevano di parlare con Sofia, e giovani signore che in passato avevano sempre comprato abiti confezionati ora afferivano alla sartoria per avere una gonna come quella dell’amica Clara o un abitino da sera sullo stile di quello indossato da Monica Bellucci sulla copertina di un mensile di moda. La stanza adibita a sartoria si era intanto ingrandita con l’annessione della camera prima destinata ai tre figli, mentre Marco aveva guadagnato un bel divano letto nello studiolo. Alla fine di quell’anno Francesca diventò pure nonna di un bellissimo bambino, nato dal suo primogenito Emanuele, al quale era stato imposto il nome del nonno paterno, la qual cosa l’aveva riempita di orgoglio. Sofia aveva confezionato per il piccolo, in tutto segreto, dei completini a dir poco “da esposizione”, che destarono l’ammirazione finanche di Francesca, che riuscì finalmente a dire il suo primo grazie a Sofia. Durante tutto il primo anno in cui Sofia aveva lavorato a casa di Francesca non aveva mai incontrato personalmente Marco, ormai iscritto all’ultimo anno della Facoltà di Scienze e Tecnologie Informatiche: questo in parte perché Marco passava molte delle sue giornate fuori casa studiando all’Università, in parte a causa della timidezza di Sofia, che di solito 111­­­­

entrava e usciva silenziosamente senza cercare nessun contatto. Marco però, quando era in casa, si fermava sovente ad ascoltare Sofia che cantava: la voce era talmente accattivante che, a volte, non poteva fare a meno di fare capolino nella stanza e dire qualcosa a sua madre per sbirciare quella ragazzina che aveva una voce così bella. Sofia però si interrompeva all’istante quando sentiva la porta aprirsi dietro di lei; e allora Marco, invece di entrare, si fermava sulla soglia a chiedere alla madre se desiderava qualcosa perché stava uscendo. Il fatto che Sofia si interrompesse da una parte gli dispiaceva, ma per un altro verso lo gratificava perché gli sembrava che lei lo sentisse come una persona importante. Così, dopo oltre un anno che la ragazza collaborava con Francesca, Marco di lei non conosceva altro che la sua bella voce e i suoi capelli, lunghi, di un biondo scuro; non il sorriso, non lo sguardo. La frase spesso ripetuta da sua madre: «Peccato che sia così bruttina» non poteva in tutta verità confermarla perché non era mai riuscito a vederla in viso. Ricordava che una volta sua madre, non riuscendo a prendere dall’armadio una gruccetta, l’aveva chiamato in aiuto entrando nella sua stanza; ma poi, vedendolo con un libro in mano, gli aveva detto di non preoccuparsi perché l’avrebbe presa, al suo rien­tro, quella “stannaccona”. Da questa espressione Marco aveva dedotto che la giovane Sofia doveva essere molto alta, a differenza della sua mamma. *** Una mattina in cui eccezionalmente sua madre non era in casa bussarono alla porta, e Marco si trovò di fronte una bella ragazza, molto alta, quasi più di lui, con dei bellissimi occhi azzurri e un sorriso luminoso e sincero. Il suo sguardo interrogativo fece sì che la ragazza disse porgendogli la mano: «Sono Sofia. Vengo qui da oltre un anno, ma non ci siamo mai presentati; però so tutto di lei perché sua madre mi racconta ogni particolare della sua vita di studente...», e intanto 112­­­­

si dirigeva verso il laboratorio; ma lui la trattenne: «Lei sa tutto di me, ma io non so niente di lei, tranne che ha una voce d’angelo e ama la musica lirica che io adoro». Lei raccontò di suo padre, del suo pianoforte e della sua licenza superiore nel settore moda, dove si era così tanto appassionata al cucito da riuscire anche a vincere dei premi messi in palio per chi realizzava il capo più applaudito nella sfilata. E questa sua competenza l’aveva messa in pratica con la signora Francesca, dalla quale aveva appreso molte piccole astuzie utili a facilitare il rapporto con le clienti. Confessava di avere soltanto un sogno: mettere su una vera e propria sartoria, diffonderne il nome, avere molte collaboratrici selezionate, rendere la sua attività presente anche sul web e sui social media. Marco fece un fischio tra lo stupito e l’ammirato, e le chiese se sua madre fosse al corrente di questi progetti. «Certo, io le ho accennato...; ormai ho vent’anni, mia nonna morendo mi ha lasciato un piccolo gruzzolo, ed ho deciso di investirlo così, perché, come lei sa bene, non conviene più tenere il denaro in banca». «Un bel programmino, signorina Sofia, me lo lasci dire...; io potrei aiutarla a costruire il sito web, mi tenga da subito a sua disposizione. E per fare amicizia la invito subito stasera al concerto di Tiziano Ferro al Palalottomatica, perché l’amica che avevo invitato ha preso improvvisamente il morbillo ed è entrata in quarantena». Lei sorrise, scoprendo una chiostra di dentini piccoli e bianchissimi che sembrava un filo di perline – pensò Marco – come quelle che sua madre soleva portare al collo. Il ragazzo avvertì un effetto particolare, e pensò: «Questa ragazza è una strega...». A questo punto sentirono la chiave girare nella toppa; Francesca entrò e, vedendoli insieme nel salottino di attesa, pensò che Sofia fosse arrivata poco prima, e disse: «Avete fatto conoscenza, finora non ce ne era stato il tempo, perché qua, figlio mio, si deve lavorare». Marco rispose: «Ma io la conosco da oltre un anno attraverso le sue canzoni e le sue melodie. C’è un mio amico che identifica la personalità di 113­­­­

una ragazza dalle canzoni che canta, cioè sa descrivere il suo carattere e le sue aspettative». «E chi non canta come me?» disse Francesca. «Mamma, ma io ho parlato di ragazze, non di madri. Stasera sono rimasto senza Paola perché ha preso il morbillo, e perciò ho offerto il biglietto del concerto a Sofia, perché non voglio andare da solo». La madre fece buon viso a cattivo gioco, e disse: «Come vuoi; però ora dobbiamo lavorare fino a stasera; a che ora è il concerto?». «Alle nove» rispose il figlio tornando verso lo studio. «Ma dobbiamo uscire alle sette e mezza, perché penso che Sofia debba passare da casa. So dov’è perché più volte mi hai mandato a portare la stoffa al suo portiere; non è lontano». Parlando, si era nuovamente avvicinato al laboratorio per dare un ultimo sguardo a Sofia, «sorpresa della giornata» disse tra sé e sé. «Avere una simpatica ragazza a portata di mano e non saperne niente è veramente da stupidi...». Aveva dato credito ciecamente a sua madre: «È bruttina, è insignificante, è una pertica», e così via, per cui si era scioccamente persuaso che il buon Dio le aveva donato una bella voce proprio perché mancava di altre qualità fisiche. «Forse ha ragione mia cognata Romina» pensò «quando dice che mia madre non vuole che io mi sposi per non lasciarla sola». Questa storiella, che circolava tra parenti e amici stretti, all’inizio l’aveva fatto sorridere, ma ora gli dava fastidio; e quando una delle cognate commentava qualche suo flirt come fuga dalla realtà, si urtava moltissimo e si allontanava subito per fumare e scaricare il nervosismo che lo prendeva per essere considerato sempre il piccolo di casa sul quale ognuno poteva permettersi di dire la sua. Mentre rimuginava questi pensieri, guardò l’orologio e vide che erano già le sette; fece subito una doccia e si vestì con una bella camicia bianca e una giacca estiva di cotone blu. Ci teneva molto ad essere elegante agli occhi di Sofia, che quando lo vide disse: «Ma io non ho un abito tanto elegante da non farla sfigurare; ne faccio, anzi ne facciamo, tanti, ma non ho mai pensato a me...». Francesca intanto era uscita dalla stanza 114­­­­

per prendere una sciarpa per il figlio perché, nonostante la primavera inoltrata, temeva si potesse raffreddare al concerto. Sofia ne approfittò per prendere dall’armadio un vestitino in seta quasi pronto per la consegna, e lo mise rapidamente in borsa. Arrivata a casa, lo indossò in un attimo e altrettanto velocemente si diede un leggero trucco, sottolineando particolarmente gli occhi; e poiché quella sera di maggio era abbastanza fresca, tirò giù una mantellina nera bellissima, anni Cinquanta, della sua amata nonna, che si addiceva benissimo al vestito e ne nascondeva la profonda scollatura, sicura che la cliente che aveva commissionato l’abito non poteva essere tra i giovani che vanno al concerto di una pop star. In effetti impiegò un quarto d’ora, che per Marco fu un attimo perché le ragazze lo facevano aspettare in queste occasioni anche un’ora. Il ragazzo la guardò, e le parve più bella perché l’azzurro degli occhi risaltava per i luccichini tutt’intorno: «Se la mamma fosse qua non ti riconoscerebbe...». Lei pensò che il riferimento alla mamma indicava quella che per lui era la necessaria approvazione. La serata fu a dir poco entusiasmante. Sofia cantò tutto il tempo, come del resto la maggior parte dei giovani presenti, e si divertì moltissimo. Marco, più che seguire Tiziano Ferro, guardava la ragazza e si chiedeva come era stato possibile avere una perla rara a due passi di distanza dal suo studio senza accorgersi di lei, pur sentendone la voce. Quando il concerto fu terminato andarono a bere qualcosa, nonostante le insistenze della ragazza di voler ritornare a casa. Mentre chiacchieravano nel locale, o meglio quasi urlavano per sovrastare la musica di sottofondo e il vociare che li circondava, Marco a bruciapelo le chiese: «Ma come mai quando entravo nel laboratorio non ti sei mai voltata? dico mai...». E lei di rimando: «E perché tu non hai mai, dico mai, superato la soglia della porta? Dopo averla aperta ti fermavi, come se ci fosse stato poi un muro da scalare...». Risero entrambi; lui la guardava sempre più affascinato dai suoi capelli lucidi come la seta e dall’azzurro dei suoi occhi. Riaccompagnandola a casa le chiese: «Sofia, vuoi venire que115­­­­

sto fine settimana con me a Capri?». Sofia accettò: sull’aliscafo sembravano i due innamorati di Peynet. *** Quando il lunedì mattina alle nove Sofia bussò a casa di Francesca non sapeva cosa aspettarsi, se il licenziamento o un rimbrotto o un comportamento indifferente. Francesca, aprendole la porta, le sorrise freddamente e le disse che Marco le aveva riferito della bella serata al concerto, e passò a parlare di lavoro. Lei aveva in borsa il vestito preso per quell’occasione che, essendo di seta, si sarebbe presentato tutto spiegazzato alla cliente; lo prese velocemente dalla borsa e preparò l’asse da stiro, sperando di poter passare inosservata. Ma Francesca, che si era accorta di tutto, la riprese duramente: «Quello che hai fatto è gravissimo; che non si ripeta mai più, altrimenti sarò costretta a mettere sotto chiave gli abiti in consegna!». «Non si ripeterà..., mi spiace molto..., sono pentita..., ho ceduto a un impulso che avrei dovuto controllare...». Si immerse nel lavoro sotto lo sguardo indagatore di Francesca, dalla quale si sentiva osservata come non mai; tuttavia la giornata lavorativa trascorse come al solito. All’ora di pranzo Sofia era solita andare in rosticceria, consumare un panino e un caffè e poi risalire; ma quel giorno comparve sulla soglia del laboratorio Marco il quale, raggiunta la madre, le chiese di poterle sottrarre per mezz’ora Sofia per condurla alla rosticceria che serviva l’Università, non molto lontana e di gran lunga migliore di quella sotto casa. La madre diede il suo placet, e Sofia si rafforzò nel convincimento che quel ragazzo esprimeva continuamente la sua dipendenza dalla madre; comunque accettò con piacere perché ormai era tardi e aveva più fame del solito. La storia d’amore era cominciata, e andò avanti sotto lo sguardo inquieto di Francesca che cercava di rallentare i tempi e di contrastare, per quanto possibile, il rafforzamento del legame. Tuttavia, ad un certo momento, dovette rendersi conto che, diversamente da altre occasioni, i suoi sforzi per 116­­­­

interrompere quella relazione sarebbero stati vani, per cui sarebbe stato meglio dare il suo benestare per scongiurare il rischio concreto di perdere sia la sua preziosa collaboratrice sia il figlio, il quale invero le appariva seriamente preso dalla ragazza. Gli altri figli furono contenti che la madre avesse trovato una nuora che, continuando a lavorare con lei, le sarebbe rimasta vicina; pensavano che la soluzione appariva la migliore possibile anche per tutti loro, in quanto la madre, andando avanti negli anni, avrebbe sicuramente avuto bisogno di una presenza in casa. Tutti i parenti erano dunque assai favorevoli al futuro matrimonio, che Sofia desiderava particolarmente in quanto appartenente ad una famiglia molto cattolica. La laurea di Marco e la sua assunzione in uno studio di informatica diedero concretezza al progetto; così, quando Marco ebbe la certezza della stabilità lavorativa, i giovani fissarono la data delle nozze e iniziarono i preparativi con largo anticipo, cercando, tra l’altro, un appartamento abbastanza vicino alla casa di Francesca; quest’ultima, da parte sua, proponeva insistentemente alla coppia di restare in casa con lei e di aprire altrove un laboratorio. Questa prospettiva però non incontrava il consenso di Sofia, che desiderava l’autonomia della coppia, anche in un appartamentino vicino alla casa materna, purché indipendente; era inoltre del parere di lasciare il laboratorio in casa di Francesca, eventualmente inglobando lo studiolo di Marco. Così presero in fitto un piccolo appartamento nella stessa strada, a qualche centinaio di metri di distanza, e tutti furono felici tranne Francesca, per la quale l’assenza del figlio da casa, come si espresse con Sofia, sarebbe stato un tormento; e a chi le contestava il fatto che così non era stato per gli altri figli, rispondeva: «Gli ultimi figli sono quelli che devono restare a casa!...». *** Celebratosi il matrimonio e finita la festa, iniziarono subito discussioni sulla ripartizione dei proventi della sartoria. 117­­­­

Francesca, in quanto titolare, pretendeva di andare avanti sempre con le stesse modalità e di continuare a dare la stessa retribuzione alla nuora; Sofia invece faceva notare come ormai il lavoro ricadeva quasi tutto sulle sue spalle, soprattutto da quando Francesca aveva rifiutato di impiegare un’altra collaboratrice e le aveva chiesto di prolungare il suo orario di lavoro. Ci fu un momento in cui quasi si ventilò la possibilità di trasferire la sartoria nella nuova abitazione di Sofia, benché piccola. Alla fine, per evitare malumori, Sofia decise di non essere intransigente, e le cose rimasero pressoché come prima, con un aumento quasi simbolico della sua retribuzione. Marco si tirò fuori dalla discussione, né Sofia ritenne opportuno coinvolgerlo, anche perché in fondo non era sicura della posizione che avrebbe preso, data la sua forte dipendenza dalla madre, che le era ormai divenuta evidente. Le settimane si susseguivano, e la nuova routine familiare si andava stabilizzando. Sofia continuava ad andare al lavoro puntuale alle nove ogni mattina; usciva di casa sempre insieme con Marco, perché lui passava dalla casa materna a prendere un secondo caffè. Tutta la famiglia si aspettava una gravidanza, e tutti chiedevano a Sofia se ci fossero “novità”; ma Sofia rispondeva in tutta tranquillità che era presto, che bisognava prima sistemare bene la casa e mettere da parte un po’ di denaro per le spese che la nascita di un bambino avrebbe comportato. Così passarono i mesi, e dopo il primo anno di matrimonio il discorso si fece più caldo, e Sofia cominciò ad innervosirsi per le continue domande dei parenti... Francesca dal canto suo lavorava a maglia completini gialli e verdi, sottoponendoli anche al giudizio delle clienti: «Devo usare questi colori perché non sappiamo se sarà maschietto o femminuccia»; «Ma quindi Sofia aspetta?»; «No, non ancora, per adesso...»; e alcune clienti iniziarono a portare a loro volta qualche altro capo per arricchire il corredino. Sofia aveva chiesto a Francesca di non farne altri e di non esibirli perché le dava fastidio e le impediva di concentrarsi sul lavoro; ma 118­­­­

Francesca continuava con bavette merlettate e copertine di lana, incurante del desiderio espresso dalla nuora, non comprendendone l’ansia per la mancata gravidanza. Marco, da parte sua, non si preoccupava e rassicurava Sofia, dicendole che probabilmente lavorava troppo, che doveva ridurre il lavoro, e proponeva spesso una vacanza di qualche giorno. Avveniva così che si allontanavano dal venerdì pomeriggio al lunedì mattina, felici e sereni, e lui le diceva: «Vedi, se avessimo ora un bebè non potremmo fare questo bel giro qui a Procida; capisci la differenza tra pappe, pannolini e nottate, e salire e scendere tra gli scogli, restarsene tutto il giorno al mare senza impegni, cenare fuori la sera, andare al concerto? Dovremmo rinunciare a tutto questo, e non abbiamo nemmeno trent’anni..., io penso che possiamo aspettare, non ti preoccupare...». Lei era felice di sentirselo dire, e si rassicurava. Ma il lunedì mattina le bastava mettere piede nel laboratorio per caricarsi d’ansia, e poiché aveva ormai le chiavi di casa cercava di entrare quando la suocera era ancora a letto per restare sola almeno all’inizio del lavoro e poter organizzare la giornata secondo il suo criterio. Passarono gli anni, e poiché un figlio non arrivava Francesca sentenziò che Sofia doveva andare da un buon ginecologo per una visita che potesse accertare se c’erano dei problemi che impedivano il concepimento. Se ne parlava apertamente in famiglia, e a lei dava molto fastidio; ma per amore di Marco accettò, e fissarono una visita presso un primario ritenuto uno dei più competenti in città. Manco a dirlo, la suocera insisteva per accompagnarli; questa volta però il rifiuto di Sofia fu categorico, e Marco condivise. Al rientro, naturalmente, Francesca volle sapere tutto; la ragazza rispose che era risultato tutto a posto, ma che le erano stati prescritti altri esami. Quella notte Francesca non dormì per niente. Per quanto stesse mentendo a se stessa ormai da tempo, cercando in tutti i modi di ignorare la realtà, ricordava invece benissimo, come se le fosse stato detto il giorno prima, quanto le era stato comunicato dal pediatra a proposito delle conseguen119­­­­

ze che l’orchite può portare ai maschi. La parola “sterilità” le era sempre restata come scolpita nella mente; ma dopo il matrimonio era diventata una sorta di ossessione. Sperava perciò dentro di sé che anche Sofia avesse un problema che le impedisse di procreare, così Marco non avrebbe mai saputo della sterilità causatagli da quella stupida malattia avuta da bambino. Intanto Sofia aveva avuto i risultati delle analisi, e il ginecologo, dopo averle esaminate, disse a Marco: «Ora che sappiamo che non ci sono problemi con la moglie, spetta al marito dimostrare che tutto è a posto da parte sua; e se tutto è a posto potrebbe trattarsi, come talvolta avviene, di un blocco psicologico della signora, che prima o poi troverà fine». A quel punto la sterilità di Marco emerse in maniera lampante, e tra le possibili cause il medico chiese a Marco se avesse avuto malattie veneree o altre malattie, tra le quali annoverò anche la parotite, che colpisce molti bambini e che, degenerando in orchite, può causare nel liquido seminale l’assenza di spermatozoi. Appena risalito in auto Marco telefonò alla madre che, ormai con le spalle al muro, confermò tra le lacrime; e quando il figlio le domandò perché aveva mantenuto quel silenzio su un fatto così importante per la sua vita e per la vita di sua moglie, la risposta fu: «Per non farti soffrire prima del tempo..., potevi anche non sposarti mai..., anche tua moglie avrebbe potuto avere problemi, e tu avresti potuto non saperlo mai...». «Ma è un problema mio; avrei dovuto saperlo subito, così forse si sarebbe potuto fare qualcosa...». Sofia piangeva, ma gli prese la mano e gli disse: «Tu sai quanti bambini ci sono nel mondo che non hanno famiglia; saremo la famiglia di uno di quei bambini. Ti prego, non ti angosciare; io desidero essere mamma, non partorire e allattare; e poi, come tu dicevi sempre, se è un bambino un po’ cresciutello potremmo continuare con i nostri fine settimana e vivere con lui le passeggiate, il mare, la spiaggia...». Le lacrime scendevano lente lungo il suo bel viso, ma lui non 120­­­­

se ne accorse perché Sofia riuscì a parlare senza tremito nella voce; il tremito restò dentro, e divenne immediatamente progetto per adottare un bambino straniero. *** I rapporti madre-figlio si interruppero bruscamente. Soprattutto, Marco non riusciva a comprendere perché mai sua madre avesse preparato tutti quei completini e quelle bavette, pur sapendo che un bambino non sarebbe mai arrivato. Sofia decise di mettersi in proprio e si dissociò dalla suocera, portandosi dietro tutta la clientela. Assunse due ragazze che avevano studiato nel suo stesso istituto scolastico e conseguito il diploma l’anno precedente, consigliatele, come giovani competenti e precise, dalla dirigente con la quale aveva mantenuto i rapporti. Fittò un appartamento di non grandi dimensioni, ma adatto come laboratorio, e lo arredò in modo originale: nella sala prova, specchi su tutte le pareti, disposti in modo che dovunque la persona si trovasse avrebbe potuto vedersi riflessa sia di fronte che di spalle; poltroncine e divanetti moderni e colorati; tappeti ben assortiti con le tappezzerie, e una saletta per scegliere i modelli e le stoffe. Marco curò la diffusione del nuovo nome, “Sofì e sofà”, il sito web aziendale, e ne assicurò la presenza sui social network, come aveva promesso a Sofia il giorno in cui si erano conosciuti. La clientela aumentò, tanto che si incominciò a pensare ad un trasferimento in un ambiente più ampio e ad assumere qualche altra dipendente. Marco soffriva sapendo che la madre si disperava per quel segreto custodito per tanti anni, per proteggere il figlio lasciandolo nell’ignoranza della sua sterilità. Francesca, dal canto suo, non avrebbe mai immaginato che il suo comportamento avrebbe causato l’interruzione del rapporto col figlio. Non si dispiaceva invece di aver dovuto rinunziare al lavoro perché ormai, alle soglie dei settant’anni, era giusto pensare a fare solo la nonna. Tuttavia il suo cruccio era che non sarebbe 121­­­­

stata mai la nonna dei figli di Marco; nulla sapeva infatti della decisione della coppia di adottare un bambino straniero. Marco e Sofia, appena presa la decisione, erano venuti di corsa in Tribunale per presentare la documentazione necessaria, e attendevano la visita delle operatrici del Servizio sociale. Appresi dalla relazione psico-sociale la storia di questi due giovani, che avevano aspettato ben cinque anni per decidere di adottare in quanto all’oscuro della sterilità di lui, situazione peraltro ben nota alla madre. Poiché la normativa richiede che i genitori della coppia aspirante all’adozione diano il proprio consenso all’adozione stessa, decisi di sentire questa madre, anche se in generale non era prassi del Tribunale provvedere alla convocazione, essendo ritenuta sufficiente una dichiarazione autenticata. Mi orientai in questo senso perché, leggendo la relazione, la figura della futura nonna paterna mi era sembrata essere quella di una madre piovra che con i suoi tentacoli tende a stritolare più che a proteggere; perciò, unitamente al giudice onorario, decidemmo di indagare ulteriormente la sua personalità. Mi aspettavo una donna diversa non solo nell’aspetto ma anche nel modo di rapportarsi, pur considerando che la presenza davanti al giudice può indurre la persona ad alterare il suo abituale comportamento. Piccola nella struttura e sicuramente sovrappeso, si presentò con un sorriso conciliante e chiese se poteva sedersi; le feci cenno di sì. Le illustrai la norma in base alla quale l’avevo convocata per chiederle il suo assenso all’adozione del figlio, e le domandai perché nascondergli la sua sterilità. La donna scoppiò in lacrime e disse: «È stato il troppo amore per mio figlio ad impedirmi di rivelargli la verità sul suo stato; io pensavo che non si sarebbe sposato perché sapeva quanto gli ero affezionata, specie dopo la morte di mio marito; e poi ho sperato che non avrebbe voluto figli perché diceva sempre che i figli limitano troppo la vita dei genitori, modificandone i ritmi e le consolidate abitudini; infatti i pri122­­­­

mi anni di matrimonio sono stati tranquilli. Quando poi ho visto che volevano avere un figlio, ho cercato, a modo mio, di spingere mia nuora a farsi visitare, sperando che avesse un problema anche lei, così che mio figlio non si potesse sentire responsabile del mancato arrivo di un bambino». «Lei, dunque, ha pensato di poter decidere e orientare la vita di suo figlio, anzi di una famiglia...; e ora che la coppia ha deciso di adottare, quale sarà il suo atteggiamento?». «Signor giudice, io non ho niente in contrario all’adozione; ma perché andare all’estero e non restare in Italia, questo io dico, qui so che si aspetta ancora più tempo, ma è meglio attendere un anno in più e avere un bambino che parla la nostra lingua e ha le nostre abitudini...». «Quindi, signora, lei pensa di non poter sentire per un bambino proveniente da un paese diverso dal nostro lo stesso sentimento, lo stesso trasporto che sente ora per i suoi nipoti, figli biologici degli altri due suoi figli?». «Questo, adesso come adesso, non lo posso sapere con sicurezza; dipenderà dal bambino, da come si comporta con me... Potrebbe pure essere che mi posso affezionare... Insomma, non ho niente in contrario all’adozione; spero solo che non vadano in Africa, lei mi capisce..., nella nostra città ci sono tutti questi scontri con la gente di colore..., insomma non stiamo a Londra o a New York, dove c’è sempre stata la gente di colore. Bisogna evitare...». «Signora, le rileggo ciò che ha detto perché deve firmare, e poi può andare. Le preciso, comunque, che non è il Tribunale a mandare la coppia in un determinato paese, ma è la coppia a scegliere. Un assistente sociale la contatterà per fissarle un colloquio con lo psicologo del Gruppo adozioni». Credetti di comprendere il perché del segreto e della volontà di mantenerlo fino all’estremo: forse quella sterilità, diagnosticata già nell’infanzia, era stata sentita dalla madre come un suo proprio limite, perché il figlio era considerato come promanazione di sé. Ne avrei voluto parlare con lo psicologo, perché davvero quella donna era un caso particolare... Chiesi all’assistente sociale di organizzare per lei degli incontri con 123­­­­

lo psicologo, perché ritenevo necessaria la sua preparazione all’arrivo del bambino: ogni suo intervento, verbale o comportamentale, avrebbe potuto pregiudicare nuovamente il rapporto con il figlio e la nuora, che appariva ora più disteso, ma soprattutto nuocere al bambino, ove non fosse stata stemperata quella sua difficoltà ad accettare il diverso. Dopo qualche settimana incontrai la coppia. Si presentava bene anche fisicamente: due bei giovani pieni di vita, uniti e dinamici che si aprivano alla adozione con slancio ed entusiasmo. Giustificarono l’attesa dei cinque anni dal matrimonio con i motivi già espressi all’assistente sociale nel corso della visita domiciliare e riprodotti nella relazione inviatami, quindi a me già noti. Chiesi quali fossero in quel momento i loro rapporti con la rete familiare. Mi risposero che avevano sempre avuto con i reciproci cognati ottimi rapporti, anche dopo il loro matrimonio. Incalzando mi rivolsi ad entrambi: «E con vostra madre?». Fu lui a rispondere: «Mia madre ha sbagliato a non farmi sapere quanto mi sarebbe potuto accadere, perché la cosa riguardava esclusivamente me, e non altri. E poi io e mia moglie abbiamo ritenuto, e continuiamo a ritenere, del tutto assurdo che lei continuasse a ricamare e preparare completini per un bambino, nella consapevolezza, da parte sua, che non sarebbe mai nato. Mia moglie soffriva molto per quei vestitini e bavaglini che giravano per casa, che la facevano sentire come inadeguata... Per me è davvero inconcepibile... Ho consigliato a mia madre di andare da uno psicologo che l’aiuti a capire perché si è comportata in questo modo: il perché del segreto e il perché della sua operosità nel fare preparativi per un bambino che non sarebbe mai nato! Questa è la premessa per la riappacificazione». A questo punto dissi loro che avevo convocato la madre e le avevo parlato la settimana precedente proprio per cercare di capire cosa l’avesse indotta a tenere quel comportamento, e che avevo raccomandato all’assistente sociale di farle avere qualche colloquio con lo stesso psicologo che trattava la loro adozione. Sarebbe stata una delle due 124­­­­

nonne, non poteva e non doveva sparire, ma doveva capire cosa le era successo, perché aveva tenuto quella condotta e come avrebbe dovuto comportarsi con il bambino quando ne avrebbe fatto la conoscenza. Marco e Sofia non poterono che approvare la mia decisione, dal momento che coincideva con il loro desiderio; entrambi si dichiararono più sollevati, nella speranza che il contributo di uno specialista potesse ridare loro fiducia nella donna che li aveva profondamente delusi. In effetti, anche Sofia riconosceva di essere legata affettivamente alla suocera perché a lei doveva il successo della sua sartoria, avendo iniziato a lavorare con lei quando era ancora giovanissima, e grazie a lei aveva potuto affinare le sue capacità e avere oggi una clientela scelta e benestante. Qualche tempo dopo l’assistente sociale incaricata di seguire il caso mi contattò per comunicarmi che la futura nonna aveva cominciato un percorso di psicoterapia al fine di assumere maggiore consapevolezza sul dolore inflitto, seppur inconsapevolmente, alla neo-famigliola. Lo psicoterapeuta notò da subito “l’amore patologico” che legava questa madre iperprotettiva al figlio ultimogenito, e non tardò a riconoscere l’invischiamento emotivo di Francesca verso il figlio. Questa situazione le aveva impedito persino di intravvedere per il giovane un futuro al di là delle mura domestiche, non consentendogli così il normale percorso di crescita evolutiva. La donna aveva sostituito il figlio al perduto marito, attribuendogli di fatto il ruolo di compagno di vita e, in quanto tale, affidandogli molti dei compiti a cui un buon marito deve assolvere. In quest’ottica le divenne inconcepibile pensare a un Marco autonomo, indipendente, sposato, fuori casa: inimmaginabile pensarlo con accanto un’altra donna che non fosse lei. Dunque, era stata “costretta” a custodire gelosamente il segreto della sua sterilità, inconsapevolmente giustificabile per l’assimilazione del figlio al marito: può un marito, costrui­ to e modellato nella propria mente come fedele e rispettoso, procreare figli con altra donna e divenire adultero? 125­­­­

Lo psicoterapeuta che stava seguendo la signora Francesca, però, rassicurò che la paziente stava collaborando, perché desiderosa di recuperare quanto meno la relazione affettiva con il figlio e la nuora, alla quale riconosceva di essere in fondo legata. Avrebbe presto rielaborato il lutto per la perdita del secondo marito immaginato, ridefinito i propri schemi mentali e modificato profondamente le modalità di comportamento. *** In conclusione, mi resi conto dei buoni sentimenti di Marco e Sofia e del desiderio di un bambino di cui non vollero indicare neppure la fascia di età; esclusero soltanto, relativamente alle condizioni sanitarie, le malattie irrecuperabili, e insistettero per avere due bambini, in quanto, non potendone avere di propri in futuro, avrebbero preferito che un bambino non restasse da solo ma avesse un fratello, anche perché provenivano entrambi da famiglie con più figli. La loro preferenza era per un paese dell’Est europeo perché entrambi non potevano allontanarsi per lunghi periodi dal lavoro; così si sarebbero rivolti ad un ente autorizzato per la Russia, un grande paese che essi avevano scelto come una delle mete nel viaggio di nozze e che ricordavano con molto piacere. Furono poi ascoltati da due giudici onorari, i quali emisero un giudizio molto positivo sulla coppia, che fu anche ritenuta in grado di accogliere più fratelli, in quanto capace di fronteggiare le difficoltà che più bambini con pregresse esperienze di prolungato abbandono avrebbero potuto manifestare. Depositai il decreto di idoneità della coppia alla adozione di due bambini tra loro fratelli, prescrivendo all’ente una frequentazione adeguata prima della pronunzia dell’adozione. Dimenticai ben presto il caso, perché il Tribunale è il luogo in cui un caso scaccia via l’altro, e non c’è il tempo di soffermarsi a meditare perché il tuo pensiero, il tuo impegno, il 126­­­­

tuo interesse si devono necessariamente spostare su un’altra vicenda che pone questioni intricate, sempre più intricate, da risolvere. Dopo circa due anni mi ritrovai sulla scrivania una richiesta, presentata da un ente autorizzato, di aumento del numero dei bambini previsto in decreto; la richiesta riguardava proprio quel caso che avevo trattato due anni prima. L’autorità straniera, infatti, aveva proposto alla coppia non due – come previsto nel decreto di idoneità – bensì tre fratelli. La coppia fu immediatamente richiamata per accertare non soltanto la sua volontà alla adozione dei tre bambini, ma soprattutto la sua capacità ad accoglierli. Il colloquio con i due giudici onorari, gli stessi di due anni prima, fu positivo. La coppia mi sembrò preparata al “parto trigemino” ed entusiasta che si trattasse di due maschietti e di una bambina. Sofia mi riferì anche, prima ancora che io chiedessi, che la suocera aveva ricevuto un efficace sostegno dallo psicoterapeuta e che era molto cambiata: sembrava essersi come addolcita e aspettava i bambini con entusiasmo quasi pari al loro. Dopo qualche mese vidi sul mio tavolo la richiesta di trascrizione dell’adozione fatta dalla coppia; infatti il Tribunale per i minorenni è l’organo delegato a ordinare all’ufficiale di stato civile la trascrizione della sentenza straniera. L’autorità russa aveva assegnato alla coppia tre bambini, due maschietti di sei e cinque anni e la sorellina di tre. Immaginai la felicità di Marco e Sofia. Definito il procedimento, mi augurai che quei tre bambini potessero dare ai loro genitori tutte le piccole e grandi soddisfazioni che nel corso della vita i figli possono dare, e che le difficoltà e le sofferenze che ogni famiglia si trova a dover fronteggiare potessero essere affrontate e superate con forza e unità familiare. E mi resi conto, ancora una volta, che l’affermazione e il rispetto della verità costituiscono la premessa necessaria alla risoluzione dei problemi e al miglioramento delle situazioni che la vita familiare quotidianamente propone. 127­­­­

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Storie incrociate

Quella mattina di settembre, al rientro dalle vacanze con il marito e i ragazzi, Livia stava lavorando in cucina per preparare il pranzo; pensava, tra sé e sé, che se avesse avuto una figlia forse avrebbe avuto un aiuto, mentre i suoi tre figli maschi, ogniqualvolta cercava di convincerli a sbrigare qualche faccenda domestica, facevano orecchio da mercante. Si diceva che forse aveva sbagliato a non assegnare loro sin da bambini piccoli compiti, che avrebbero potuto coinvolgerli poi, sia pure in misura limitata, nella gestione domestica. Il telefono squillava, ma nessuno dei ragazzi si muoveva, tutti e tre con smartphone e tablet tra le mani, totalmente immersi nel mondo virtuale e assolutamente indifferenti a quanto accadeva intorno a loro nel mondo reale. Così Livia dovette abbassare la fiamma e dirigersi al telefono per rispondere. Dall’altra parte una voce gentile: «Chiamo dal Comune. Sono l’assistente sociale competente per la sua zona; è lei la signora Livia?». Alla risposta affermativa continuò: «Scusi il disturbo, stiamo svolgendo un’indagine sui bisogni del quartiere allo scopo di migliorare i nostri servizi, e stiamo per questo interpellando un campione selezionato di cento residenti. Poiché la conosciamo come persona autorevole nel quartiere e impegnata nel sociale, ci terremmo molto ad avere la sua opinione. Può venire al nostro ufficio, in via..., nella mattinata che più le aggrada o nel pomeriggio del lunedì o del giovedì?». Terminata la conversazione, il figlio Stefano le chiese: «Che c’è ma’, i soliti seccatori per il cambio del contratto della luce?». «No» rispose la madre. «Era un’assistente sociale del 128­­­­

nostro Municipio che mi ha scelto per farmi un’intervista». «Su che cosa?». «Sui bisogni del quartiere» concluse Livia con una certa soddisfazione. Quando il marito Giorgio rientrò, Livia lo salutò frettolosamente, e già sulla porta lo informò dell’intervista che le aveva proposto l’assistente sociale. Giorgio, preside in un liceo cittadino, era anche lui persona attenta ai bisogni della città, e si dichiarò subito disponibile a darle una mano. Soprattutto, le consigliò di scrivere una lista per non dimenticare nulla, e le elencò tutte le disfunzioni che, a suo parere, andavano segnalate. L’indomani mattina Livia si avviò verso la sede del Servizio sociale. Una volta arrivata, chiese della persona che le aveva telefonato e si accomodò nella sala di attesa. Dopo qualche minuto una signora dall’aspetto distinto e dai modi garbati la invitò a seguirla e la introdusse in una stanza con due scrivanie e molte sedie, poi salutò e uscì dalla stanza mentre la dottoressa che era seduta alla scrivania si alzò, le porse la mano e si presentò: era la persona che le aveva telefonato. Livia le consegnò la lista, dicendole che l’aveva condivisa con suo marito. L’operatrice diede uno sguardo sommario, e sorridendo le disse: «Dica pure a suo marito che registreremo questi suggerimenti, apprezzandoli tutti, e che corrispondono più o meno a quelli segnalati da altri cittadini del quartiere». E aggiunse subito dopo: «Cara signora, lei è qui perché devo farle un’altra comunicazione, sicuramente più importante. Mi riferisco ad una situazione in cui lei si è trovata circa trentacinque anni fa a Milano». Livia sentì immediatamente la gola chiudersi e l’impossibilità di muovere la lingua: quelle frasi che la rimandavano ad un tempo lontano e ad un’esperienza dolorosa le avevano tolto la parola. *** Furono attimi interminabili in cui immagini lontane nel tempo si affollarono nella sua mente. Tutto era cominciato 129­­­­

in una afosa giornata di agosto, nella quale i suoi genitori scoprirono il suo stato di gravidanza, del quale lei stessa non si era resa conto. Fu sua madre a capirlo per prima allorquando una mattina Livia, mentre preparava il caffè, di cui aveva sempre gradito l’aroma, avvertì un evidente disgusto e non poté neppure assaggiarlo; la madre insistette, e lei vomitò. Iniziò l’interrogatorio, e dovette ammettere che, in occasione della festa di fine anno scolastico, aveva avuto un rapporto con un ragazzo della quinta il quale, dopo averla fatta bere, l’aveva presa e poi riaccompagnata a casa dopo qualche ora. Si trattava di un ragazzo con cui aveva avuto un breve flirt; le piaceva molto e si era lasciata andare, senza rendersi conto delle possibili conseguenze di quella serata scatenata che le due classi, la quarta e la quinta B, avevano vissuto per festeggiare la promozione; tutti si erano divertiti, soltanto a lei avrebbe portato lacrime e dolore. I genitori, ferventi cattolici, esclusero l’aborto, e condussero la figlia al Nord a casa della madrina di Livia, Beatrice, trasferitasi da qualche anno a Milano, dove gestiva una scuola di lingue straniere. Le assicurarono due professori privati per seguirla nel programma scolastico, avendo deciso che la figlia si sarebbe presentata da privatista alla vecchia scuola per sostenere l’esame di maturità. La versione ufficiale fu che Livia doveva perfezionare la lingua inglese, avendo deciso di frequentare, dopo il liceo, il corso di laurea in Business Studies a Londra, dove già si erano laureati due suoi cugini. Ricordava che, quando i genitori decisero il suo allontanamento dalla famiglia per non dare scandalo, si sentì molto sola, e pianse per tutta la notte. L’indomani seppe che sarebbe stata sistemata presso Beatrice, e questo la consolò perché le voleva bene e adorava i suoi bambini. Il suo umore si risollevò, certa com’era che Beatrice le sarebbe stata vicina in quei difficili momenti. A marzo Livia diede alla luce una bambina che non volle neppure vedere; ma poi, il mattino seguente, chiese di poterla avere accanto solo per un minuto, e la trovò bellissima. Beatri130­­­­

ce le fu molto vicina in quel momento, e le sussurrò: «Sarà una bambina felice e una donna fortunata, ne sono sicura». Livia sorrise mesta, e il giorno successivo lasciò l’ospedale sicura che, non avendo effettuato il riconoscimento, la bambina sarebbe stata immediatamente data in adozione a una famiglia. *** L’assistente sociale proseguì: «Signora, non si sente bene? Voglio soltanto parlarle, le cose possono rimanere così come stanno, non voglio invadere la sua privacy, ma siamo stati contattati dal Tribunale per i minorenni di Roma che ci ha chiesto di darle alcune informazioni». E cominciò a spiegarle che di recente una sentenza della Corte Costituzionale aveva reso possibile per i neonati non riconosciuti alla nascita, una volta divenuti adulti, richiedere il rintraccio della donna che li aveva partoriti in anonimato per sapere se quella donna desiderava o meno rimuovere il segreto; se la madre biologica accettava, il giudice minorile si sarebbe occupato di organizzare e gestire il contatto; in caso contrario, la donna rimaneva anonima. «Quindi, signora Livia, se lei mi dice che non ne vuole sapere, daremo questa risposta al Tribunale, e lei può stare tranquilla che non la disturberemo mai più». Livia, che nel frattempo si era un po’ ripresa, rispose: «Mio marito non sa niente di questa bambina, e per me è difficile dirglielo; ma vorrei trovare il modo... Voi che cosa suggerite in queste situazioni?». «Si tratta di decisioni personali, ognuno si regola come ritiene opportuno; ma se vuole, possiamo chiedere per lei un colloquio con lo psicologo, che l’aiuterà a mettere ordine nei suoi pensieri...». Poi Livia chiese: «Posso sapere dove vive mia figlia, cosa fa: lavora, è sposata?». «Vada piano, cara signora; noi non sappiamo niente di sua figlia. Soltanto se lei rimuoverà il segreto potrà avere queste notizie, e anche incontrarla; ma fin quando lei mantiene il segreto non ci può essere comunicazione alcuna né dall’una né dall’altra parte». 131­­­­

Livia accettò l’offerta di sostegno psicologico, e si accomiatò dicendo che rimaneva in attesa dell’appuntamento. Eccezionalmente tornò a casa in taxi, e durante il tragitto pensava tra sé e sé che aveva tanto desiderato una bambina, per avere in una figlia una compagnia e un certo tipo di supporto, anche solo morale, che non sempre un marito, e tantomeno figli poco più che adolescenti, possono offrire. Ora questa donna, lasciata neonata in ospedale, chiedeva di conoscerla e di incontrarla; ne sarebbe stata felice, magari solo per confermarsi in quella scelta obbligata di tanti anni prima. Ma quella bambina era stata felice? Aveva studiato? Era stata amata dai genitori adottivi? Pensieri simili le erano spesso riaffiorati prepotentemente alla mente, soprattutto in occasione della nascita dei figli; ma il senso di colpa andava poi rapidamente attenuandosi, assorbito dagli impegni che il nuovo nato comportava. Forse incontrandola e parlandole avrebbe potuto liberarsi da quei fantasmi che di tanto in tanto continuavano a tormentarla, rimandandole immagini di una bambina forse sofferente nella situazione familiare in cui si era trovata a vivere... *** Quel giorno Livia restò per molte ore distesa sul letto, immersa in un mare di pensieri che risalivano alla sua adolescenza. Il volto di quella bambina lo ricordava bene, lo aveva come stampato nella mente; e adesso tutto ad un tratto quella bambina, divenuta donna, irrompeva nella sua vita squarciando quel velo con cui aveva coperto il suo segreto per ben trentacinque anni... Si scoprì terrorizzata all’idea che uno dei suoi figli, aprendo la porta, avrebbe potuto trovarsi di fronte una donna che avrebbe potuto dirgli: «Io sono tua sorella...». Ma no, non sarebbe mai potuto accadere..., l’assistente sociale le aveva assicurato che il suo nome sarebbe rimasto segreto, a meno che non avesse deciso diversamente... Non aveva mai parlato con suo marito di quella bambina 132­­­­

perché la famiglia di lui, che naturalmente avrebbe appreso immediatamente la notizia dal figlio che era abituato a non avere segreti con i suoi, le avrebbe creato dei problemi; e poi in ospedale le avevano assicurato che, non avendo effettuato il riconoscimento, nessuno sarebbe mai risalito a lei. E ora? Cosa sarebbe accaduto ora? Ricordava che quando era nato il primo figlio aveva cercato le parole giuste per dirglielo, ma poi aveva pensato che forse quella rivelazione avrebbe gelato la felicità di quel momento, la felicità di essere diventato padre per la prima volta. Anche in occasione delle altre due nascite le era tornato alla mente il volto di quella bambina, ma ogni volta lo aveva cacciato via senza riuscire a liberarsi di quel segreto che, con l’avanzare dell’età, era diventato sempre più pesante da custodire. Ripensò al ragazzo con cui aveva fatto l’amore in quella notte d’estate e che nulla mai aveva saputo; a sua madre che aveva tanto pianto quando si era accorta del suo stato; al test di gravidanza e alla speranza che fosse negativo; al viaggio in auto fino a Milano; a Beatrice che l’aveva aiutata facendola seguire da un amico psicologo nella preparazione al parto. Rivedeva tutto come in un film, e si rendeva conto che a quel punto era ancora più difficile parlarne con Giorgio perché non era lei ad aver deciso liberamente, ma altri a chiederle di prendere una decisione. «Eppure devo trovare il coraggio di parlarne con mio marito» pensò ancora una volta mentre di notte si rigirava nel letto, incapace di prendere sonno. Giorgio, sentendola inquieta, le disse: «Ti vedo preoccupata; domani mattina prima di andare in ufficio passiamo dal nostro medico; sono sicuro che ti dirà, come al solito, che tutto dipende dallo stress; comunque è sempre bene sentirlo». L’indomani, mentre preparava la colazione, Giorgio le chiese come si sentisse, e lei rispose che tutto era passato, forse un disturbo dovuto all’emozione provata durante l’intervista con l’operatrice del Comune. Le parve così di non aver mentito. 133­­­­

*** Il Servizio sociale le fissò l’appuntamento con lo psicologo di lì a quindici giorni. Livia ne fu molto contenta, perché ricordava quanto le era stato utile un aiuto specialistico in quel lontano periodo a Milano. Il tempo dell’attesa le sembrò infinito e lo impiegò a rimuginare tutto ciò che avrebbe voluto chiedere per sapere il più possibile sulle modalità dell’eventuale incontro con quella donna che era sua figlia: dove si sarebbe svolto? Poteva al momento rimanere segreto? Quale il momento più appropriato per parlarne con suo marito? E poi, doveva dirlo anche ai figli? Forse sarebbe stato meglio decidere tutto questo insieme con Giorgio... Il colloquio con lo psicologo fu per Livia un’ondata di ossigeno, che le consentì di mettere ordine nei suoi pensieri, di leggere il suo desiderio di incontrare la figlia e di decidere la rimozione del segreto anche nei confronti della sua famiglia, benché rimanessero confusi in lei le modalità e i tempi. D’altra parte Giorgio ben si era avveduto dell’inquietudine di Livia, del suo comportamento distratto, del suo sonno intermittente e agitato e, dietro suggerimento del medico di famiglia, aveva fissato per lei una visita cardiologica. E quando lei gli chiese perché consultare proprio un cardiologo, Giorgio le spiegò che la notte precedente, avvicinandosi a lei mentre sembrava dormire, al contatto aveva sussultato spaventata, e il suo cuore si era messo a battere talmente forte da averne distintamente avvertito il battito. Fu allora che le venne quasi spontaneo, per sollevarlo dalla preoccupazione, parlargli di quel segreto per anni custodito: «Giorgio, devo confessarti ciò che mi tormenta e mi fa sentire colpevole verso di te e verso i nostri figli». Vide il volto del marito rasserenarsi: «Bene, dimmi tutto. Sono contento che non si tratta della tua salute; tutto il resto sarà accettabile». Livia si sentì risollevata e si sedette sulla grande poltrona, per lei non solo confortevole, ma anche affettivamente cara 134­­­­

perché era appartenuta a sua madre. Guardò suo marito negli occhi: «Siediti, Giorgio; ti prego di non interrompermi perché per me non sarà facile dirti ciò che devo...», e cominciò a raccontare quella esperienza vissuta quando era ragazza, mai completamente rimossa anche quando, quindici anni dopo, aveva deciso di sposare l’uomo che amava e dal quale era sinceramente ricambiata, proiettati entrambi a costruire il futuro secondo una progettualità condivisa. Quel ricordo, attenuato dalle nuove esperienze di sposa e madre felice, era prepotentemente ritornato tutto a un tratto in seguito all’incontro con l’assistente sociale: era diventato possibile per quella bambina che aveva partorito tanti anni prima, divenuta adulta, rintracciare la donna che le aveva dato la vita per chiedere se voleva o meno rimuovere il segreto. Era questo il vero motivo per cui era stata convocata dal Servizio sociale: doveva dare questa risposta, e perciò aveva bisogno di lui perché solo lui avrebbe potuto aiutarla a decidere. Giorgio aveva ascoltato con molta attenzione e il suo volto, con grande sorpresa di Livia che lo osservava, non mostrava apprensione, ma soltanto commozione: una cosa del tutto nuova per lui, solitamente molto riservato e abituato a nascondere i sentimenti. Quando lei ebbe finito di parlare l’abbracciò e la strinse forte: «Non pensare più al prima e ragioniamo sul poi. Se ho ben capito, la donna che è oggi quella neonata di un tempo lontano ha chiesto di incontrarti, e tu vorresti vederla, e ti preoccupavi di dirmelo pensando che la mia reazione avrebbe potuto essere colpevolizzante nei tuoi confronti. Ma come hai potuto per un solo momento pensare a questo? Non dimentico che tu, dopo il primo, e specialmente dopo il secondo figlio maschio, desideravi tanto una bambina; forse la ricordavi quella bambina; ebbene la vedrai, ti accompagnerò, se vuoi, dall’assistente sociale, ma penso che non ce ne sarà bisogno perché ormai ti sei rasserenata. E poi, sai che ti dico? I nostri ragazzi saranno contenti di avere d’un botto una sorella già bella che cresciuta e tanto più grande di loro, quindi da rispettare e da guardare dal basso in alto...». 135­­­­

Livia si sentì sollevata, e ricambiò l’abbraccio del marito ringraziandolo per la sua comprensione, anche se rimase un po’ perplessa per quella sua accettazione incondizionata, per quell’abbraccio così caloroso e immediato. Ripensò allora al suo colloquio con lo psicologo di qualche giorno prima, e ricordò la sua viva esortazione a liberarsi da ogni remora e raccontare al marito quell’episodio di tanti anni prima, e la sua sicurezza che una persona come Giorgio, avvezza alle problematiche esistenziali dei ragazzi, non avrebbe certamente avuto una reazione oppositiva. In verità, lo psicologo era impegnato in una serie di incontri con alcune classi di istituti superiori cittadini sul tema dell’educazione all’affettività, nell’ambito di un progetto predisposto dalla ASL. Uno di questi istituti era – manco a farlo apposta – il liceo di cui era preside Giorgio, che lo psicologo aveva subito individuato essere il marito della “madre ritrovata”, avendo letto l’incartamento relativo ai colloqui che avrebbe avuto con Livia. Aveva così avuto modo di conoscere Giorgio e di discorrere con lui sui comportamenti dei giovani. Si erano trovati d’accordo sull’importanza dei progetti di educazione di genere diretti agli adolescenti perché oggi, ancora più di ieri, le ragazze sono esposte a gravidanze inaspettate, frutto di amplessi precoci ai quali le spinge una serata romantica o una festa di gruppo che la loro inesperienza non sa gestire; e si vedono poi costrette ad abortire o ad abbandonare il bambino in ospedale. Lo psicologo aveva osservato, alquanto strumentalmente ma a fin di bene, che nel suo lavoro aveva avuto modo di verificare come simili esperienze, comunque, quasi mai segnano queste ragazze se nel loro percorso di vita si sistemano e si costruiscono una famiglia adeguata. L’educazione all’affettività e l’educazione di genere, di cui si stava discutendo, avrebbero sicuramente ridotto questi comportamenti perché avrebbero insegnato ai ragazzi cosa significano parità di genere e sessualità consapevole. Non era molto tardi. Giorgio le propose di uscire e di 136­­­­

cenare fuori; i figli si sarebbero arrangiati. «Domani insieme parleremo ai ragazzi dell’esistenza di questa figlia e dell’incontro che avrai con lei, e vedrai che la loro reazione sarà positiva, e saranno felici di avere una sorella». Tornarono a casa rasserenati, aperti alle novità in termini positivi. *** L’indomani Livia cominciò a pensare a come avrebbe potuto comunicare questa notizia ai figli. Temeva, in particolare, che il più piccolo, Stefano, avrebbe potuto soffrirne perché spesso, abbracciandola, le diceva ridendo: «Anche il terzo figlio è stato un maschio, lo so che volevi una bambina, però sono quello che più di tutti ti dà una mano e che non ti lascerà mai!». Pensava che forse sarebbe stato meglio che a parlarne fosse suo marito, per sottolinearne la condivisione e il sostegno. Giorgio sicuramente avrebbe precisato che anche lui aveva saputo da poco, in modo che i figli potessero meglio accettare di aver appreso una simile notizia soltanto dopo molti anni; certo, era molto probabile che i ragazzi avrebbero rimarcato che erano venuti a conoscenza dell’esistenza di questa sorella soltanto perché lei aveva cercato di rintracciare la donna che l’aveva partorita, altrimenti mai l’avrebbero saputo, e magari un giorno l’avrebbero pure incontrata per caso da qualche parte. La sera, mentre erano tutti seduti in attesa che la madre portasse in tavola le buone cose preparate per la cena, il padre disse: «Stasera, prima di iniziare, la mamma e io dobbiamo dare una notizia che vi giungerà forse strana, ma che oggi strana non è più grazie ad una nuova legge. Questa legge consente ad un bambino di essere adottato piccolissimo, ovvero in fasce, come si diceva ai miei tempi, perché la madre è giovanissima e i suoi genitori ritengono che non possa assumersi la responsabilità di un ruolo tanto importante qual è quello genitoriale; così la convincono, qualche volta la co137­­­­

stringono, ad abbandonare il neonato nell’ospedale dove lo ha partorito e a non riconoscerlo come figlio. Quando questo neonato diventa un adulto può fare richiesta ad un Tribunale di rintracciare la madre biologica perché le si domandi se vuole rimuovere il segreto sulla nascita avvenuta tanti anni prima. Se la madre risponde di sì all’assistente sociale che ha fatto da tramite, il segreto, sepolto per tantissimi anni, può essere rimosso, e può avvenire un incontro tra chi generò e chi fu generato». I figli, ammutoliti, guardavano tutti la madre. Stefano ruppe il silenzio: «Scommetto che è una femmina! Come si chiama? Quanti anni ha? Dove abita?». Livia non rispose, e guardò il marito come per chiedergli di proseguire perché lei non riusciva a parlare. «Vostra madre non sa nulla per adesso, né il nome, né dove abita perché è stata chiamata soltanto per esprimere o meno il suo consenso alla rimozione del segreto da lei richiesto tanti anni fa, cioè trentacinque anni fa, quando aveva poco più di sedici anni». Sempre Stefano chiese: «Papà, vedo che ti sei preparato; ma questi bambini che fine facevano?». «Venivano dati in adozione e diventavano figli di quelle persone che si erano dichiarate disponibili ad allevarli». «Quindi» riprese Stefano «quella bambina, questa donna non ha il cognome di mamma e legalmente non è sua figlia». «Sì, è così, Stefano; però poteva fare un’istanza al Tribunale per conoscerne il nome e incontrarla; e l’ha fatta; la mamma poteva rifiutarsi o accogliere quella richiesta, e ha deciso di rispondere di sì». «Quindi questo vuol dire» si inserì Ludovico, detto Ludo «che prima o poi ce la ritroveremo a tavola con noi?». Finalmente la madre prese la parola: «No, non credo che la cosa sarà possibile; non la conosco, e quando la conoscerò saprò dirvi se mi sentirò di presentarvela; dipenderà da tante cose che mi salteranno subito agli occhi; non ho alcuna intenzione di alterare i ritmi della nostra vita. Tutto andrà avanti come sempre: la vostra mamma le racconterà di voi e racconterà a voi di lei; penso che la conoscenza si fermerà qui». 138­­­­

La conversazione finì, perché i maschi si alzarono tutti per seguire la partita dell’Italia in televisione; e Livia, per la prima volta nella sua vita, trovò interessante una partita di calcio e si mise anche lei a seguirla per stare vicina ai figli sul grande divano. Si scoprì a pensare: se vince l’Italia il mio incontro con lei andrà bene... L’indomani l’assistente sociale telefonò per invitarla al secondo colloquio, in cui avrebbe dovuto esprimere la sua volontà sulla rimozione o meno del segreto. Livia, puntualissima, espresse il suo consenso sottoscrivendo un’apposita dichiarazione, che sarebbe stata immediatamente trasmessa al giudice minorile il quale avrebbe fissato la data e le modalità dell’incontro. *** Avevo convocato le due donne in orari diversi: decisi di far entrare per prima la donna che aveva prodotto l’istanza, il cui nome era Serenella, e poi la donna che aveva rimosso il segreto. In effetti, questa non è prassi costante perché si decide di volta in volta: dipende da quale figura ci sembra meno forte o più fragile; così quest’ultima, prima dell’incontro, viene ancora una volta supportata e preparata a conoscere la persona che si troverà di fronte. In questo caso la madre biologica era stata descritta nella relazione inviatami dal Servizio sociale come una donna forte, determinata, attiva nel mondo del volontariato, impegnata ad organizzare incontri formativi per le famiglie sui temi del bullismo e della dipendenza da Internet, mentre Serenella, che era stata convocata in Tribunale dopo il deposito dell’istanza, era apparsa sia a me che al giudice onorario piuttosto incoerente e caratterialmente instabile. Serenella ci aveva raccontato di essere stata adottata a pochi mesi di vita, che la sua infanzia non era stata felice nonostante gli sforzi di sua madre perché il padre beveva, e quando alzava troppo il gomito picchiava la moglie con violenza, 139­­­­

e non si fermava se non quando arrivava il geometra che abitava di fronte a bussare energicamente alla porta. Allora la violenza del padre cessava, e la madre poteva rifugiarsi nella sua stanzetta, perché non dormiva più con lui per evitare litigi anche di notte. Il conflitto insorgeva a causa della sua gelosia nei confronti della donna, gelosia eccessiva e quasi morbosa, fondata sul niente, se non sulla sua paura di perderla. Serenella accorreva spesso in aiuto della madre, che però l’allontanava intimandole di non impicciarsi e di andare nella sua stanza. Aveva cercato di intervenire per la prima volta in modo deciso all’età di tredici anni, e ricordava che aveva trovato il coraggio di dire a suo padre di fermarsi; ne aveva ricevuto in cambio, per la prima volta, un sonoro ceffone e l’ordine di dire alla madre di smetterla di piangere come una bambina. La madre le diceva di non preoccuparsi: in fondo non era mai dovuta ricorrere all’ospedale perché lui, ad un certo punto, quando la vedeva sfinita, si fermava: insomma, lui non perdeva il controllo, e dunque lei non correva alcun pericolo; e poi capitava che, per farsi perdonare, il giorno dopo le portasse in regalo lo scialle che aveva ammirato in una vetrina, mentre passeggiavano per il corso. Secondo sua madre, la gelosia del padre si poteva quasi considerare la manifestazione di un grande amore che persisteva anche con il trascorrere del tempo... La madre, inoltre, la invitava continuamente a sopportare per il buon nome della famiglia, pensando ai risultati che la fama di violenza domestica avrebbe potuto avere nell’ambiente lavorativo del padre, nel condominio e nel quartiere, dove erano stimati, e non ultimo nel suo ambiente scolastico. A parere di Serenella, non era estraneo a questo atteggiamento di estrema sopportazione il fatto che la madre non avesse un lavoro (guarda caso il marito glielo aveva sempre impedito), sicché la dipendenza economica rendeva difficile allontanarsi da lui. La donna aveva anche tentato di organizzarsi confezionando a casa, con eccezionale abilità, bomboniere realizzate con merletti lavorati a mano. Ma il padre una 140­­­­

sera aveva distrutto filati e merletti, urlando che sua moglie «non aveva bisogno di lavorare» perché era lui a provvedere alla famiglia, e sarebbe stato scandaloso se nel suo ufficio si fosse saputo... Ovviamente queste vicissitudini familiari incidevano pesantemente sul percorso di crescita di Serenella, che spesso di notte si svegliava con il cuscino impregnato di lacrime e l’indomani mattina fingeva di asciugarsi i capelli, asciugando anche il cuscino, per cercare di nascondere alla madre la sua sofferenza. Ma Serenella, con il suo racconto, ci aveva testimoniato non solo il suo dolore per la violenza paterna e il suo amore per la madre adottiva, ma anche il desiderio di conoscere chi le aveva dato la vita, non foss’altro che per rendersi conto se la sua incapacità di reagire ad un padre violento fosse solo frutto dell’esempio materno o fosse nel suo DNA. Si chiedeva se la donna che l’aveva partorita sarebbe rimasta così passiva come lo era stata la sua mamma adottiva. Forse no, perché lei si sentiva dentro una forte rabbia, che però non era riuscita a canalizzare in fatti concreti per sottrarre la madre alla violenza del marito. Emergeva dunque che la vita di Serenella fino alla morte del padre, causata da un infarto fulminante, era stata molto tormentata e caratterizzata dal desiderio di fuga da quell’ambiente familiare malato; ma sempre era prevalso l’amore per la madre e la paura di lasciarla sola alla mercé del padre. Serenella aveva inoltre raccontato di aver appreso di essere figlia adottiva solo dopo la morte del padre, a diciannove anni, e di non averne mai avuto sentore prima perché nessuno dei familiari e degli amici dei suoi genitori le avevano detto nulla che potesse suscitare in lei un qualche dubbio. La madre, rimproverata per non averle raccontato da subito la verità sulle sue origini, si era giustificata dicendole che aveva deciso, di comune accordo con il marito, di metterla al corrente della sua condizione di adottiva quando avesse conseguito la licenza media; ma proprio allora era iniziato il periodo più tormentato della 141­­­­

vita coniugale, sicché lei stessa chiese al marito di rimandare temendo la reazione di Serenella nei confronti di chi avrebbe appreso non essere il padre biologico. Dopo la scomparsa del marito, la donna aveva finalmente trovato la forza di rivelare alla figlia la sua condizione di adottiva. Serenella ne era rimasta più sorpresa che turbata, e da quel momento si era impegnata nella ricerca della donna che le aveva dato la vita, interagendo con persone che avevano lo stesso problema. Dal canto suo, la madre di Serenella sin dal primo momento aveva sostenuto la ricerca della figlia per darle serenità, tenuto anche conto che la ragazza, dopo la morte del padre, cessata la tensione causatale dal costante conflitto tra i genitori, si era decisa a richiedere formalmente al Tribunale il rintraccio della donna che l’aveva generata. La richiesta era stata rigettata in base alla normativa all’epoca in vigore; e così anche lei si era sentita sconfitta leggendo la motivazione del provvedimento di rigetto. Intanto Serenella era entrata in depressione, e la madre pensò di consultare uno psicoterapeuta che aiutasse la figlia a superare quel periodo di difficoltà nel rapporto con se stessa e con gli altri. Serenella, infatti, aveva preso ad isolarsi, a rinunciare ai momenti di socializzazione e ad immergersi in letture esoteriche; era stata così costretta a rinviare l’ultimo esame per conseguire il master in finanza aziendale e aveva interrotto rapporti che avrebbero potuto rivelarsi utili anche al fine di migliorare la sua precaria attività lavorativa. Ma ciò che più preoccupava la madre era l’allentarsi della relazione affettiva tra Serenella e Alberto, che sin dai tempi del liceo le stava dietro aspettando di trovare un lavoro più redditizio per sposarla. Era questa mancata presenza di Alberto in casa che la madre temeva più di ogni altra cosa; desiderava infatti che la figlia si sposasse al più presto perché, se lei fosse rimasta vittima di un male improvviso, come era accaduto a suo marito, Serenella sarebbe rimasta sola. Infatti la sua rete familiare e quella del marito non erano mai state a loro molto vicine, tranne la zia Dora, una sua cugina 142­­­­

senza figli, che prediligeva la nipote e sosteneva economicamente ogni sua richiesta. Era stata comunque contenta che la figlia avesse accettato il supporto psicoterapeutico, per il quale l’aveva poi ringraziata. Serenella era finalmente riuscita a esprimerle che si era resa conto di averla avuta sempre vicina e che senza di lei le cose sarebbero andate molto diversamente; le aveva pure detto quanto male le aveva fatto vederla soccombere di fronte al padre, e sentirsi impotente a darle aiuto. Finalmente, dopo alcuni anni, Serenella aveva saputo che il Tribunale per i minorenni di Roma aveva aperto al rintraccio delle donne che avevano partorito in anonimato, e così aveva presentato la sua istanza. *** Questa la storia di Serenella, come si poteva rilevare dall’ampio verbale contenuto nel fascicolo sulla mia scrivania. La giovane donna attendeva ora fuori dal mio ufficio l’incontro che aveva cercato per tanti anni. Chiesi all’usciere di farla entrare. Serenella si sedette immediatamente, senza attendere un mio cenno, come affranta, e disse: «Non ho dormito niente stanotte per l’emozione; mia madre mi è restata vicino tutta la notte, mi ha voluto accompagnare, ora è fuori, ma dopo vorrei che entrasse, perché mi ha sempre aiutata, ed è contenta che le mie speranze oggi, grazie al vostro intervento, saranno appagate». Il giudice onorario, una psicologa di grande esperienza, che quel giorno collaborava con me nell’ascolto si era messo in contatto nei giorni precedenti con lo psicoterapeuta che aveva seguito Serenella; così aveva potuto acquisire informazioni importanti sulla situazione vissuta da lei in un periodo particolare della sua vita, sul suo travaglio esistenziale, le sue ansie e i suoi tormenti. Il giudice onorario le disse che aveva letto la sua storia, così come l’aveva riferita al giudice, e 143­­­­

le assicurò che l’incontro che stava per aver luogo non solo avrebbe eliminato tutte le sue ansie, ma avrebbe anche potuto rappresentare per lei un’apertura verso nuovi rapporti, con nuove e più intense motivazioni. Livia entrò con passo sicuro, e con lo sguardo spaziò in un attimo nella stanza per individuare la “figlia”. C’erano Serenella, la psicologa giudice onorario e la responsabile del Servizio sociale che aveva contattato Livia, tutte giovani e più o meno sulla trentina; ma lei andò diritta verso Serenella, si fermò a breve distanza da lei e, vedendola quasi spaurita, le disse: «Somigli in tutto a mia sorella Brigida..., sarà felice di rivedersi in versione giovanile; ho saputo stamani che ti chiami Serenella, un nome diverso da quello che io ti avevo dato, e che speravo ti avrebbero lasciato; era il nome che avevo dato alla mia prima bambola, con un vestito da sogno: la chiamavo Claretta, che era poi il nome di una mia cugina più grande, che mi sembrava bellissima. Dimmi di te: cosa fai? Sei sposata? Lavori? Dove? Ho dei nipotini?». Serenella rimase ancora qualche istante come inebetita; guardava Livia e le sembrava di sognare: un bel sogno, naturalmente... E poi, con un balzo, si levò in piedi, aprì le braccia e la strinse forte; Livia rispose, e così restarono avvinghiate per un po’. Quando si sciolsero dall’abbraccio le invitai a sedersi, e iniziarono a raccontarsi. Appena fu possibile, le interruppi per dire che potevano proseguire nella saletta adiacente la mia stanza. Serenella mi chiese di far entrare subito la madre perché fossi io a presentarla a Livia, dal momento che il Tribunale l’aveva scelta per lei, bambina appena nata; le sembrava giusto che fosse un giudice, anche se non era quello che aveva operato la scelta trentacinque anni prima. Quel pensiero aveva una sua logica; così feci entrare la madre adottiva, che appariva intimidita dalla situazione e si limitò a porgere la mano a Livia, la quale però l’attirò a sé per abbracciarla. Sentii che sussurrava: «Grazie per aver acconsentito all’incontro. Serenella è stata tanto felice; non l’ho mai vista così emozionata...». 144­­­­

Mi inserii, al mio solito, per sottolineare che un’emozione così forte non sono in molti a provarla, che è necessario del tempo per metabolizzarla, anche perché trascina con sé tantissime altre piccole emozioni; e di questo sia Serenella che Livia si sarebbero da subito rese conto. Così dicendo le accompagnai personalmente nella saletta accanto, dove erano state disposte delle sedie intorno al tavolo, dal quale avevamo per l’occasione tolto i fascicoli per disporvi una piantina fiorita, presa dal davanzale della finestra. La mia segretaria chiese se desideravano un caffè, perché eccezionalmente, in casi come quelli, la Presidente consentiva che venisse preparato e offerto. Un buon aroma si diffuse nella presidenza e nella segreteria, e mise tutti in grado di riprendersi un po’ dalle emozioni vissute in un tempo così concentrato, unico per ognuno dei soggetti coinvolti, nella irrepetibilità di un incontro fino a pochi mesi prima imprevedibile e imprevisto, anche se intensamente desiderato da Serenella, ma anche da Livia, una volta liberatasi dal peso del segreto, ormai condiviso con il marito e i figli. Rimasero nella saletta per oltre due ore, poi bussarono alla mia porta per salutarmi e comunicarmi che la domenica successiva Serenella sarebbe andata a casa di Livia per conoscere i fratelli. Intanto chiesero di poter fare entrare nella mia stanza il marito di Livia, che ancora aspettava fuori in sala di attesa, per non fare la mia conoscenza in un anonimo corridoio, quando sarei passata a salutarli tutti. La richiesta mi parve più che giusta. Quando il preside entrò nel mio ufficio cercai di giustificargli la lunga attesa, ma lui disse sorridendo: «Dopo trentacinque anni, lasciarle parlare tre minuti e mezzo per ogni anno mi sembra il minimo». Pensai: si vede che prima di essere preside era professore di matematica... «La ringrazio, dottoressa» continuò. «Volevamo una bambina, la volevamo crescere, la troviamo già cresciuta: un gran lavoro risparmiato... Mettiamola così! La vita ci riserva sempre sorprese, e questa è davvero una bella sorpresa!».

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Parte seconda

Il segreto sulle origini

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Ritrovarsi per caso

Ricordo una ragazza all’incirca ventenne, bella, molto bella, biondissima di un biondo nordeuropeo, occhi di un blu intenso e un corpo alto e slanciato, un’eleganza innata, un sorriso splendente e luminoso, un profumo che le si addiceva, una fragranza fatta di fiori, di erbe e di sole... Mi si presentò in una piovosa giornata di fine marzo, e quando entrò nel mio ufficio mi parve che nella stanza avesse fatto capolino il sole. Era accompagnata da un operatore della segreteria, sicuramente perché colpito dal suo fascino. Le feci cenno di sedere. Le dissi che avevo letto la sua istanza di accesso alle origini e che avevo svolto le prime indagini facendo prelevare dall’archivio il fascicolo che la riguardava, ma che, in quanto nata da parto anonimo, mi era precluso ogni ulteriore accertamento. La informai che null’altro avrei potuto fare per lei se non consegnarle il certificato integrale di nascita e dirle che era stata per molti mesi nella Casa Santa dell’Annunziata prima di essere adottata dai suoi attuali genitori. Le confermai che era nata, come lei ben sapeva, a Napoli nell’Ospedale SS. Annunziata. A questo punto, d’improvviso, scoppiò a piangere, e tra le lacrime iniziò a sussurrare: «Sin da piccola mi sono sentita a disagio quando per la strada – nel paese ci conosciamo tutti o quasi – mi guardavano mentre, mano nella mano con i miei genitori, passeggiavo o andavo a scuola. Mi guardavano perché io ero molto esile e alta quasi più di loro già a dieci anni, bionda e bianchissima di carnagione, loro piuttosto bassi di statura e di corporatura molto forte, e soprattutto scuri di 149­­­­

pelle per il sole, come un po’ tutti in famiglia; e più crescevo, più mi guardavano... Io ho capito sin da bambina che non ero la loro figlia, non ho avuto bisogno che me lo dicessero di essere figlia adottiva, l’ho capito da me perché nella mia classe c’erano due bambini adottati, e tanti altri nella scuola, e io vedevo che non somigliavano alle loro mamme. Ma se non ero figlia dei miei genitori, di chi ero figlia? Quando ho chiesto loro notizie sulla mia nascita mi hanno detto che nulla sapevano della mia famiglia di origine, perché mi avevano accolta all’età di un anno prelevandomi dalla Casa Santa dell’Annunziata. Ci sono andata tante volte a chiedere qualche notizia sulla donna che mi aveva partorito; ma nulla, nulla mi hanno voluto dire, se non che la struttura non esiste più. Mi hanno riferito che è stata chiusa, e che voi l’avete fatta chiudere; ma dove avete fatto mettere gli atti dell’epoca? Dove sono adesso? Nessuno dopo vent’anni ricorda più nulla. Ho anche rintracciato una persona presente all’epoca in quella struttura che però, pur essendoci io rimasta per un anno, non ricordava niente, proprio niente di me! Come è possibile? Cosa impedisce loro di darmi uno straccio di informazione?». La sofferenza della ragazza che stava lì seduta davanti a me era evidente; io però, dal canto mio, non potei fare altro che chiarirle cosa stabiliva la legge in materia: «Prima di tutto la legge fa divieto di dare informazioni alla persona nata da parto anonimo, perché all’atto della tua nascita la tua mamma biologica ha chiesto di rimanere ignota e non ha effettuato il riconoscimento. Se ha espresso questa precisa volontà, la legge le assicura che nessuno potrà conoscere il suo nome come tua genitrice. Per la struttura che ti ha ospitata sono passati centinaia e centinaia di bambini in questi vent’anni dalla tua nascita; capirai che per alcuni degli operatori i bambini sono tutti uguali... Perché poi sei rimasta lì un anno intero e non sei stata adottata subito, potrebbe essere dipeso da un rischio sanitario; infatti in quella struttura i bambini venivano sottoposti a controlli sanitari continui, spesso inutili, perché 150­­­­

quei medici erano tenuti, al momento del collocamento nella famiglia adottiva, a presentare una diagnosi chiara circa eventuali patologie». «Ma io stavo benissimo; pensi che non ho mai avuto un’influenza, e neppure un raffreddore, in tutta la mia vita. Perché sono rimasta là?... Può essere che qualcuno volesse riprendermi?... Può essere che qualcuno mi visitasse?... Ogni volta che passo davanti a uno specchio e mi capita di guardarmi, penso: “Somiglio a lei?... Ma dov’è mai?... È viva?... Mi pensa?... Mi cercherà?...”. I miei genitori adottivi vogliono aiutarmi, hanno persino pagato un investigatore privato; ma niente, nessuna traccia...; io voglio loro bene, ma non mi arrendo, e farò di tutto per sapere chi è la donna che mi ha messo al mondo. Sono convinta che è una straniera; qui ne vengono tante, soprattutto in estate; io le guardo sempre, tutte, e mi innamoro di loro, del loro portamento, della loro immagine molto simile alla mia, quella che mi riflette lo specchio, e vorrei chiedere ad ognuna di loro se non fosse venuta qui in vacanza vent’anni fa e conosciuto una donna bionda con gli occhi azzurri in procinto di partorire». La salutai dicendole che, se si fosse mosso qualcosa, le avrei fatto sapere attraverso l’assistente sociale di zona, e che c’era un certo fermento intorno al tema delle origini. Le assicurai che mi sarei battuta per rendere possibile agli adottati nati da parto anonimo accedere alle informazioni sulle loro origini, e le promisi – come era del resto mia abitudine in questi casi – che avrei autorizzato l’ufficiale di stato civile al rilascio del certificato integrale di nascita, dal quale la persona partorita in anonimato può conoscere anche l’ora ed il peso al momento della nascita: qualche notizia in più. La giovane donna sembrò rassicurata dalle mie parole: era evidente che aveva bisogno di ancorarsi ad una speranza, e mi disse: «Spero proprio che questo nuovo secolo porti una ventata nuova, e possa aprirsi anche per me una strada...». Appena Olga – questo il suo nome – fu andata via chiamai la segretaria e le dissi che, prima di trasmettere il fascicolo al 151­­­­

pubblico ministero per il rigetto dell’istanza e l’archiviazione degli atti, intendevo sentire i genitori della ragazza e, quindi, di convocarmeli entro la settimana per verificare la loro effettiva adesione al progetto di accesso alle origini della figlia, e anche perché avrebbero potuto fornire ulteriori informazioni utili alla nostra raccolta dati, che avevamo organizzato per evidenziare l’andamento del fenomeno in relazione all’età del richiedente, al sesso, al livello di scolarizzazione, all’adesione o meno della famiglia adottiva alla richiesta di accesso alle origini, all’eventuale incarico dato ad un investigatore, e così via. Avevo, infatti, in mente di scrivere qualcosa su questa problematica sempre più diffusa e così umanamente sentita da molti giudici minorili. *** L’anno successivo, mentre salutavo i miei colleghi perché era l’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie estive, l’usciere mi annunziò che una donna che non aveva preso appuntamento voleva parlarmi; era venuta dalla Sicilia perché aveva ascoltato un mio intervento alla radio sulla ricerca delle origini. Guardai l’orologio, quasi le due del pomeriggio: pensai che non potevo tardare ancora... ma nello stesso tempo dissi: «Faccia entrare». Entrò una donna giovanile sui trentacinque anni. Si accasciò sulla sedia senza che io le dicessi di accomodarsi. Mi sembrò che fosse già venuta, e le chiesi: «Ci siamo già conosciute? Mi sembra di averla già vista...». La donna esclamò: «Mi chiamo Agata F. Non vengo a Napoli da tanto tempo; sono siciliana, fui condotta qui a Napoli circa vent’anni fa perché dovevo partorire; i miei genitori mi costrinsero a lasciare la bambina... L’espressione “bambini abbandonati alla nascita” che lei ha pronunziato nel corso di una recente intervista alla radio mi è rimasta dentro come un’accusa terribile, perché io non volevo abbandonarla, quella bambina! Ci sono stata costretta dai miei genitori, i quali ritenevano, e ancora 152­­­­

oggi ritengono, quando ne riparlo con loro dopo tanti anni, che un bambino non può crescere senza padre. E il padre sicuramente la mia piccola non l’avrebbe avuto: era nata da due ragazzi che per la prima volta scoprirono l’amore in una calda notte d’estate in riva al mare. Quel ragazzo era straniero, venuto per la prima volta in Italia con amici a passare qualche giorno nel mio paese, al mare. Non conoscevo che il suo nome; era tedesco ed era un bel ragazzo, ma nulla che mi potesse rimettere in contatto con lui, anche se penso che comunque non mi avrebbe risposto se gli avessi comunicato di essere rimasta incinta. Avevo quindici anni e frequentavo il secondo anno di un Istituto tecnico commerciale. Interruppi gli studi a causa della gravidanza perché mio padre non voleva che in paese si sapesse del mio stato, e mi condusse qui a Napoli, dove un suo amico mi sistemò presso una sua parente, molto accogliente e gentile, dove però trascorsi i sei mesi più tristi della mia vita. Più volte pensai di abortire, ma avevo paura più dell’aborto che del parto; e poi ero sicura che fosse un peccato gravissimo non far nascere quella bambina che mi portavo dentro; e così restai tranquilla fino al parto nella casa di zia Ninetta, con la quale mi sono sempre mantenuta in contatto fin quando non è morta lo scorso anno. Specialmente negli ultimi tempi mi diceva che ogni tanto andava all’ospedale per vedere se si poteva sapere qualcosa della bambina, nella speranza di trovare una persona disponibile, e che aveva anche dato una cospicua mancia ad una persona che si era impegnata a farle avere notizie di quel parto... Ma niente, non era riuscita a sapere niente, pur essendo una persona con molte conoscenze perché aveva lavorato nel Comune di Napoli...». «Ma perché è venuta qui nel mio ufficio proprio oggi?» le chiesi interrompendola, perché avevo fretta e volevo andar via. Mi ripeté che la settimana precedente, nel corso del mio intervento alla radio, mi aveva sentito affermare che molte sono le persone adottate che cercano informazioni sulle origini, più raramente le madri vengono a chiedere notizie dei figli 153­­­­

biologici partoriti in anonimato. Si era allora sentita chiamata in causa, e aveva deciso di venire a Napoli perché a quella bambina aveva sempre rivolto il pensiero, ogni giorno della sua vita. Mentre la donna continuava a parlare mi ricordai a un tratto della bella ragazza bionda che era venuta da me un anno prima, convinta che la madre fosse una straniera. La somiglianza con la donna che ora mi sedeva di fronte era molto forte, ecco perché mi era sembrato di averla già conosciuta; e così cercai di ricordare il nome della giovane che avevo incontrato l’anno precedente. Un dettaglio mi era rimasto impresso nella mente: quella ragazza era nata lo stesso mese e lo stesso giorno di mia figlia, anche se qualche anno dopo. Consultai allora la mia rubrica nella quale annotavo, anche se non proprio ordinatamente, alcune notizie sulle persone che chiedevano informazioni sulle loro origini, essendomi impegnata a comunicare loro l’eventuale modifica legislativa, e cercai il nome di quella ragazza. Quando trovai ciò che cercavo ed ebbi conferma della data di nascita di quella ragazza bionda di cui avevo annotato il nome, Olga, interruppi bruscamente il racconto della donna siciliana per chiederle quando era nata la bambina, e dove. La sua voce, rotta dal pianto, mormorò: «Ospedale SS. Annunziata, poi trasferita alla annessa Casa Santa dell’Annunziata» e continuò con la data di nascita, che era la stessa che io leggevo in quel momento nella nota relativa al caso della bella ragazza ossessionata dall’immagine di una madre straniera. Le chiesi se, nei mesi successivi al parto, avesse chiamato la struttura ospedaliera per avere informazioni sullo stato di salute della piccola. «I miei genitori mi guardavano a vista e non avrei potuto; ma quando andavo a scuola telefonavo ad una infermiera dell’ospedale che mi dava informazioni sulla piccola, e mi diceva che stava bene. Poi, dopo alcuni mesi, mi riferì che mia figlia era stata trasferita nell’annessa casa dove venivano collocati i bambini abbandonati in ospedale, e perciò non mi avrebbe più potuto dare notizie». 154­­­­

Chiesi ancora alla donna per quanti giorni si sarebbe fermata, e lei mi rispose che non aveva molto denaro per una permanenza prolungata, ma che comunque poteva ritornare l’indomani se c’era speranza di avere qualche informazione. In effetti non doveva dare conto a nessuno perché viveva da sola, non più con i suoi genitori, entrambi ancora viventi, e aveva un rapporto da molti anni con un vedovo, il quale però rimandava la decisione sulla convivenza perché attendeva che i suoi figli raggiungessero l’autonomia. Le dissi che avrei avuto bisogno di un po’ di tempo per gli accertamenti necessari e che forse le avrei potuto dare qualche informazione di lì a qualche giorno. Nel frattempo avrebbe potuto anche alloggiare in una struttura che si rendeva disponibile in casi come il suo: suor Chiara, la responsabile, l’avrebbe sicuramente accolta. La donna accettò. Guardai l’orologio: segnava le 15,30 e mi affrettai ad andare, non prima però di aver detto alla segretaria di far riprendere dall’archivio il fascicolo relativo alla richiesta di notizie sulle origini depositato nell’ultima settimana di luglio dell’anno precedente, relativo all’istanza di Olga F., e le fornii anche il numero del procedimento annotato sulla mia rubrica. Le dissi anche di convocarmi per l’indomani la dirigente del Servizio sociale competente per il luogo di residenza della richiedente. *** Andai a casa, ma non smisi di pensare a quella ragazza così carina e semplice nella sua bellezza, e a come condurre le cose per l’avvicinamento delle due donne nel modo più rispettoso possibile delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Pensai che, nonostante i genitori adottivi della ragazza incontrata l’anno precedente mi avessero chiesto di aiutare la figlia nella ricerca della donna che l’aveva partorita, andavano comunque risentiti prima di convocare la figlia. Olga, infatti, mi era apparsa molto confusa e insicura; quindi con155­­­­

veniva che l’assistente sociale contattasse preventivamente i genitori per avere notizie sull’attuale situazione psicologica della ragazza e sulla conferma della loro condivisione al progetto di ricerca delle origini avviato l’anno precedente dalla figlia, il tutto da fare nel giro di qualche giorno, ivi compreso il rinnovo dell’istanza di accesso alle origini. Tornando a casa, riflettevo che forse tutto viene mosso da fili invisibili perché, se la richiesta di quella ragazza non fosse stata assegnata a me, non ci sarebbe potuto essere alcun collegamento tra quella istanza e questa richiesta informale di una donna che nei fatti, senza alcun dubbio, ne era la madre biologica. Nel pomeriggio chiamai la collega con la quale si formava settimanalmente il collegio che io presiedevo per rappresentarle il caso e la mia volontà di consentire l’incontro. Lei mi apparve decisamente contraria, richiamandosi alla legge che vietava l’accesso alle origini ai nati da parto anonimo. Decisi comunque che l’indomani ne avrei parlato con il Presidente del Tribunale perché, pur essendo cosa certa che quella donna era la madre biologica della ragazza che un anno prima aveva presentato istanza di accesso alle origini, ritualmente rigettata e archiviata, si sarebbe posto il problema se la rimozione del segreto sulle origini poteva essere ammessa soltanto perché il caso aveva voluto questo sorprendente raccordo di eventi e di incontri. Ricordo che ne parlai con mio marito, facendogli notare come i fili del destino a volte si intrecciano per facilitare la soluzione di problemi che gli uomini non sono in grado di gestire; e anche a lui la storia sembrò davvero incredibile. Il Presidente, sentito il caso, volle coinvolgere nella discussione anche il pubblico ministero. Decisi allora di andare ad illustrare personalmente la vicenda al Procuratore, che d’altronde mi aveva sempre dato fiducia. Ma le cose andavano per le lunghe, e dissi perciò alla mia segretaria di non contattare per il momento il Servizio sociale, come avevo chiesto di fare il giorno precedente. Intanto, risalita nella mia stanza, trovai che il fascicolo era già sul mio tavolo. 156­­­­

Appena arrivata nell’ufficio del Procuratore, vidi che la tradizionale tazzina di caffè era già pronta; la bevvi di un fiato perché il tempo era prezioso, in quanto dovevo andare in udienza. Gli presentai il caso per filo e per segno nel modo più neutrale possibile per evitare che potesse comprendere sin da subito la mia opinione favorevole all’incontro e per dargli la sensazione che la decisione dipendesse solo da lui, oltre che dal mio Presidente. Il Procuratore mi fece più volte ripetere alcuni passaggi, e poi disse ridendo: «Ma con queste due parole alla radio non è che ci farai venire qui una processione di madri biologiche? Io sono convinto che è meglio non parlare con i giornalisti, e che noi magistrati meno che mai dobbiamo rilasciare interviste». «Procuratore, io credo che dare una informazione chiara e precisa all’utenza è dovere di tutti quelli che sono in grado di darla. Comunque, qui abbiamo, da una parte, una donna che vuole rimuovere il segreto sulla nascita della bambina che partorì all’Ospedale SS. Annunziata; vuole incontrarla, e dalla storia che ha raccontato si desume che non ci sono altre persone coinvolte: la donna non è sposata e vive da sola, anche se ha da alcuni anni un compagno con il quale mantiene un rapporto sentimentale. Dall’altra parte, abbiamo una ragazza di vent’anni che ha presentato l’anno scorso istanza per la conoscenza delle sue origini. La data, l’ora e il luogo di nascita corrispondono esattamente alla data, all’ora e al luogo del parto della donna che si è presentata in Tribunale. Io sarei favorevole, ma naturalmente mi rimetto alla sua saggezza, prima ancora che alla sua competenza giuridica». Intanto, attraversando il giardino, ci dirigemmo verso l’ufficio di presidenza del Tribunale per parlare con il Presidente, al quale riferii di avere già presentato il caso al Procuratore, e riformulai la mia richiesta di ammettere la richiedente a conoscere le sue origini e di autorizzarla all’incontro con la madre biologica. Aggiunsi che era ben vero che il Tribunale non era in possesso del certificato di parto, prova documentale della nascita della richiedente dalla donna che si era presentata in Tribunale e che asseriva di aver partorito in anonimato una 157­­­­

bambina all’Ospedale SS. Annunziata nel giorno e nell’ora precisi in cui la richiedente poteva, questo sì, provare di essere nata; tuttavia pensavo di risolvere formulando una richiesta al direttore dell’Ospedale SS. Annunziata per sapere se dagli atti dell’archivio risultava che, alla data e all’ora della nascita di Olga, Agata F. aveva partorito in anonimato una bambina, e che in quel giorno e a quell’ora non si erano verificati altri parti di neonati di sesso femminile. In questo modo noi non avremmo violato la norma perché conoscevamo già ciò che non avremmo potuto conoscere, cioè che il luogo, la data e l’ora di nascita di Olga coincidevano con quelli del parto di Agata F.; ci saremmo limitati a chiederne conferma. «A mio parere» dissi «si è verificato un evento eccezionale che ha messo in relazione un prima e un poi: non possiamo non prenderne atto, ed è nostro dovere aiutare due persone in situazione di forte disagio psicologico, consentendo un incontro appropriatamente gestito». Rappresentai loro quanto fosse importante per taluni figli adottivi ottenere informazioni sulle proprie origini per sedare l’ansia di conoscenza dell’ignoto, a prescindere dal loro star bene nella famiglia adottiva e dal loro affetto sia per i genitori che per l’ambiente familiare in cui sono vissuti e intendono continuare a vivere. Dopo una discussione che si protrasse oltre un’ora si decise di inviare un fonogramma al direttore dell’Ospedale SS. Annunziata e attendere la risposta, all’esito della quale il Tribunale avrebbe preso la decisione sulla richiesta, che intanto andava comunque rinnovata. Feci partire, quindi, la richiesta all’ospedale, e decisi di convocare la richiedente solo se avessimo consentito l’incontro, per non darle un’inutile speranza. Ma con la donna venuta dalla Sicilia, come l’avrei messa? Era andata intanto a dormire nella struttura di suor Chiara, e almeno così aveva risparmiato il costo dell’albergo. Prima di andare via contattai telefonicamente il direttore dell’Ospedale SS. Annunziata, che si impegnò a mandare il giorno stesso un commesso nell’archivio per cercare il regi158­­­­

stro di quell’anno, in modo da darmi la risposta il giorno successivo. L’indomani, come previsto, mi pervenne la nota dell’ospedale, che così più o meno recitava: “Si conferma che dai registri di questo ospedale risulta che, nella data e nell’ora da Voi indicate, ovvero..., una donna i cui dati anagrafici, ovvero..., pure corrispondono a quelli da Voi indicati ha partorito in anonimato un neonato di sesso femminile”. Soddisfatta della inusuale celerità della risposta, mi recai subito in presidenza sicura dell’esito positivo, stante la piena corrispondenza dei dati. Ma il Presidente mi comunicò che, dopo aver a lungo riflettuto unitamente con il Procuratore, aveva deciso che, come Tribunale, dovevamo rispettare e applicare la norma sull’anonimato, e quindi la ragazza bella e bionda che gli avevo descritto «dovrebbe aspettare che il legislatore si decida a valutare il diritto di migliaia di persone che chiedono notizie sulle loro origini...» aggiunsi io con voce leggermente alterata. *** Nel risalire le scale per tornare nel mio ufficio pensai a come aggirare gli ostacoli formali frapposti per l’impossibilità di procedere come Tribunale, perché la mia decisione di far incontrare le due donne era ormai presa, in quanto mi sembrava disumano spezzare quel filo che ormai legava l’una all’altra: entrambe si cercavano, si erano praticamente ritrovate, e io, proprio io avrei dovuto spezzare quel filo...; no, sentivo di non doverlo fare, sarebbe stata una crudeltà. Chiamai allora suor Chiara, la madre superiora della struttura in cui era stata accolta la signora Agata, e le illustrai la situazione, chiedendo la sua disponibilità a ospitare l’incontro tra le due donne: la ragazza partorita a suo tempo in anonimato e la madre biologica. Le sottolineai anche che poteva decidere liberamente e indipendentemente da qualsiasi vincolo con il Comune di appartenenza, perché ormai la sua struttura non ospitava più bambini ed era esclusivamente un luogo di 159­­­­

riposo per suore anziane. Avevo lavorato con loro per tanti anni quando accoglievano bambini e mi volevano tutte un gran bene, anche perché non poche volte le avevo tolte d’impaccio nella gestione di casi difficili, in particolare quando i bambini provenivano da famiglie connotate da condotte delinquenziali. La superiora mi diede la sua disponibilità all’incontro, anche perché aveva parlato con la sua ospite e aveva sentito forte il suo desiderio di gridare alla “figlia” di non averla abbandonata, di averla avuta sempre nel cuore, di aver rifiutato decisamente l’aborto perché voleva darle la vita. Chiamai subito l’assistente sociale del luogo di residenza della ragazza e le chiesi il suo numero telefonico. Telefonai e parlai a lungo con la madre adottiva, alla quale spiegai che era possibile il contatto con la madre biologica – avrei avuto poi modo di illustrarle le modalità – e che l’incontro si sarebbe svolto nel pomeriggio del giorno successivo nella struttura di accoglienza dove la donna aveva trovato alloggio; di comunicare quindi alla figlia di recarsi – accompagnata sia da lei che dal padre – presso la struttura di cui fornii l’indirizzo. Le suggerii di dire ad Olga che erano stati tutti convocati per comunicazioni che la riguardavano in riferimento alla sua richiesta fatta l’anno precedente al mio ufficio, ma di non dirle dell’avvenuto rintraccio della madre biologica. Ritenevo, infatti, opportuno darle personalmente la notizia dopo averle riferito, unitamente alla psicologa, lo svolgersi degli eventi successivi al nostro primo contatto e per prepararla così all’incontro, che si sarebbe svolto quella stessa sera oppure – se ci fosse apparsa troppo tesa – in un’altra data. Eravamo molto vicini al Natale. Il giorno successivo mi recai nella struttura, dove le buone suore mi fecero trovare un bel pranzetto, che peraltro non mi feci pregare due volte a gustare. Alla madre superiora si erano intanto unite tutte le consorelle non allettate, incuriosite dalla insolita situazione umana. Iniziai a spiegare a tutte loro per filo e per segno come erano andate le cose. Fui aiutata nel compito dalla psicologa, una mia cara amica che non lavora160­­­­

va più in Tribunale, ma esercitava la libera professione, che sottolineò il profilo psicologico del caso. Va da sé che erano tutte dalla mia parte, e mi rafforzarono così nella mia decisione di incrociare le due richieste: quella della giovanissima Olga di conoscere le sue origini e quella della giovane donna venuta dalla Sicilia di rintracciare la figlia biologica partorita in anonimato. Le suore avevano cercato di rendere più accogliente la saletta di ricevimento, che peraltro ben conoscevo: vi avevano allestito un bel presepe, fiori sul tavolo, e diversi cuscini sul divanetto. Intanto le persone erano arrivate, mentre la donna ospitata, la quale era stata informata che ci sarebbero state delle notizie per lei, quasi prefigurandosi l’incontro aveva deciso di andare dal parrucchiere per rendersi – così aveva detto alla madre superiora – più presentabile. Entrarono per primi i genitori di Olga, i quali confermarono il bisogno, più ancora che il desiderio, di vedere realizzata la speranza della figlia di conoscere il nome della donna da cui era nata e di poterla finalmente incontrare. Se ne parlava spesso in casa, ed essi la vedevano ormai abbastanza tranquilla e sicura di arrivare al traguardo da quando aveva appreso da me che c’era ormai un certo movimento anche nell’ambito di alcuni giudici minorili; così era più che pronta ad accogliere una notizia positiva sul rintraccio. Mi resi conto che i genitori di Olga erano più che aperti a ricevere notizie sulla madre biologica della figlia e a favorire il contatto, consapevoli del beneficio che la ragazza ne avrebbe tratto. Nel frattempo la psicologa parlava con Olga in una saletta adiacente per prepararla all’incontro, cercando di alleviare la tensione che la notizia dell’imminente incontro con la donna che l’aveva partorita avrebbe sicuramente provocato in lei. A questo punto i genitori di Olga uscirono, e chiesi alla madre superiora di chiamare la signora Agata per comunicarle che di lì a poco avrebbe incontrato la figlia biologica. La donna entrò rapidamente nella saletta e si guardò intorno 161­­­­

con vivacità: forse aveva capito che la “figlia” era lì. Mi apparve diversa da quando era venuta in ufficio, evidentemente stanca per il viaggio: meno segnata dallo stress, più sicura di sé, indossava un vestito di lana azzurro che le delineava il corpo prestante, e i capelli ben acconciati le davano un’aria scanzonata che contribuiva a ringiovanirla. Le dissi che la “figlia” aveva fatto richiesta di accesso alle origini un anno e mezzo prima, e che l’avevo tenuta in evidenza perché registravo, per scopi statistici, tutte le domande, anche quelle non assegnate a me. Le spiegai che mi aveva colpito la data di nascita della ragazza, la stessa, a meno di qualche anno, di mia figlia, per cui la ricordavo molto bene. Ero poi riuscita ad avere conferma di tutti i dati dall’Ospedale SS. Annunziata, e mi ero convinta che lei era la madre biologica di quella ragazza. La signora Agata iniziò a piangere e disse: «Benedetta quella radio e quel giorno, e benedetta lei che stava parlando proprio in quel momento. Io mi sono sentita subito un freddo addosso e mi sono detta: “Devi andare, forse potrai avere qualche risposta..., questa dottoressa lavora a Napoli, la bambina è nata a Napoli, forse qualcosa mi potrà dire..., andrò in quel terribile ospedale..., qualcosa verrà fuori...”. Dottoressa io me lo sentivo..., sì, me lo sentivo..., e adesso so che quella bambina sta qua..., l’avete fatta venire..., ditemi che è venuta..., ditemi che mi vuole vedere...». Io le risposi semplicemente sì e la lasciai in compagnia della madre superiora, recandomi nell’altra saletta dove si trovava Olga in compagnia della psicologa. La giovane mi apparve radiosa, al settimo cielo; mi ringraziò e mi disse che avrebbe sempre pregato per me. Quindi la condussi nella saletta dove la signora Agata la aspettava. Olga sulla porta si fermò come paralizzata; fu un attimo, e poi corse verso la donna che a sua volta era rimasta ferma, e si incontrarono tenendosi strette l’una all’altra in un abbraccio lungo e caloroso. Quando si sciolsero si guardarono a lungo... Ruppi il silenzio dicendo una banalità: «Vi somigliate moltissimo, siete due gocce d’acqua. In casi come questi non c’è bisogno del test del DNA!». 162­­­­

Poco dopo facemmo entrare anche i genitori di Olga: baci e abbracci anche per loro; poi arrivarono le suore con i loro pasticcini. Il padre di Olga scattò tante foto, dalle quali mi tenni fuori, e le suore furono le più felici nel farsi riprendere con le due donne. Dissi: «Tutti noi ringraziamo infinitamente la madre superiora che ha reso possibile l’incontro in questo luogo di due persone lontane ritrovatesi per caso...». «E no» disse la madre superiora, arzilla e volitiva come sempre nonostante la sua veneranda età, «si sono ritrovate per volontà di Dio, che ha deciso così. La signora Agata ci ha detto che ha molto pregato, e anche Olga ha molto pregato, e così la preghiera si è rinforzata salendo al cielo. E il Signore le ha ascoltate...». Tutti annuirono, e la madre superiora fu felice di aver esaudito la volontà di Dio. Nessuno dei miei colleghi ha mai saputo che quel rintraccio controverso ebbe poi una svolta che consentì l’incontro. Una mano di certo ce la mise il buon Dio, come aveva detto suor Chiara, che, una volta ancora, non aveva condiviso la giustizia degli uomini; o, più semplicemente, la storia di Olga dimostra come nell’eterno conflitto, regolatore delle vicende umane, tra lo ius di Antigone e la lex di Creonte, di sofoclea memoria, a volte il diritto delle persone, scritto nella natura e consolidato nella tradizione, riesce a prevalere sulla immobile vacuità della legge scritta dagli uomini.

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Il filo mai spezzato

La richiedente aveva circa quarant’anni, era nata da parto anonimo ed era stata adottata a pochi mesi di vita. La coppia che l’accolse in quel giorno di inizio estate, caldo quanto basta a farti assaporare il passaggio verso la bella stagione, ebbe finalmente la felicità di stringere tra le braccia la bambina che aveva a lungo sognato. Quel giorno non si chiese né da dove venisse, né chi mai fosse la donna che l’aveva partorita e perché l’avesse lasciata tutta sola in ospedale; quel giorno, quel primo giorno, Maria e Adriano si inebriarono del suo profumo di latte, dell’azzurro dei suoi occhi e della porcellana di cui sembrava fatto il suo faccino. Il suo nome era Milena, e non pensarono che poteva averglielo dato la donna che l’aveva messa al mondo; a loro piaceva molto, e decisero che era giusto lasciarglielo, anche perché già qualcuno, come la puericultrice, l’assistente sociale e la suora, sicuramente aveva pronunziato il suo nome, e il suono “Milena” era forse a lei già familiare. Decisero così di lasciarle l’unica cosa che le apparteneva e con la quale si era a loro presentata. Milena crebbe serena e felice con i suoi genitori adottivi, circondata dall’affetto anche di parenti e amici. Il suo papà le aveva insegnato a nuotare e ad andare in bicicletta, ad amare i libri e la musica, mentre la mamma, di origini spagnole, amava trasmetterle la cultura di quel paese. Si recavano spesso a Barcellona, e lei ricordava quei viaggi come una meravigliosa avventura. Una sera, quando Milena aveva sei anni, mentre era seduta vicino alla mamma e, come sempre, si lasciava coccolare, Ma164­­­­

ria ritenne fosse giunto il momento di rivelarle il segreto sulla sua nascita: le disse che tutti i bambini hanno, prima della loro mamma terrena, la mamma celeste, cioè la Madonnina di cui vedeva l’immagine in chiesa, ma che lei aveva una mamma in più, la donna che l’aveva tenuta nella sua pancia e che l’aveva fatta nascere, ma non aveva potuto crescerla; perciò Milena, piccola piccola, di soli due mesi, era arrivata in quella casa dove c’erano Maria e Adriano che aspettavano da tempo una bambina. Milena comprese bene, e lo ricorda ancora, che non aveva soltanto quella mamma lì, sempre presente e pronta ad aiutarla se aveva bisogno, che le preparava quei dolcetti così buoni, che l’accompagnava a scuola, che la metteva a letto e le raccontava le fiabe, ma anche un’altra mamma, di cui la mamma che stava lì con lei nulla sapeva e nulla poteva dirle. Da quel preciso momento Milena comprese che non poteva fare alcuna domanda su quell’altra mamma; e allora, non potendone parlare, cominciò a pensare spesso a quella donna che l’aveva messa al mondo. Soltanto alla scuola di danza riusciva a liberarsi completamente delle sue ansie e dimenticava quelle domande, così assillanti nella sua mente, che mai avrebbero trovato risposta. Negli anni dell’adolescenza riproponeva di tanto in tanto ai genitori qualche timida domanda sulle sue origini, ma il loro imbarazzo era evidente; e allora desisteva, ma in cuor suo cercava il volto della donna che l’aveva generata, si chiedeva come fosse e se fosse ancora in vita. Ricordava che, per esorcizzare il desiderio di conoscere la madre ignota, fantasticava identificandosi con i vari personaggi dei cartoni animati dell’epoca, molti dei quali avevano come protagoniste bambine abbandonate e adottate in famiglie che non davano loro attenzione alcuna; e così Milena si identificava ora con Heidi, ora con Candy, ora con Georgie, tutte bambine abbandonate e adottate da famiglie problematiche o poco amorevoli. Ma poi rifletteva: «Io la mamma e il papà li ho, e mi vogliono bene, e io voglio bene a loro; quindi non sono come quelle bambine, io sono fortunata; però vorrei sapere come è quella 165­­­­

mamma che mi ha messa al mondo». Infatti per Milena l’unico punto fermo era costituito dai genitori, che le avevano trasmesso i loro valori e le loro passioni, e dato tutto l’amore possibile; ciononostante continuava a pensare a quella donna che le aveva dato la vita, quella vita che amava; avrebbe voluto semplicemente dirle: «Grazie per la vita che mi hai dato». Così Milena si era sentita sicura e protetta dai suoi genitori durante l’infanzia, ma, sapendo di avere una mamma in più, non vedeva l’ora di diventare grande per conoscere la verità che le apparteneva. Questa condizione le causava spesso nell’adolescenza un senso di vuoto. *** Quando Milena divenne maggiorenne si sentì più libera di muoversi per cercare notizie sulle sue origini, ma si rese subito conto delle difficoltà dell’impresa. Riuscì a contattare un giudice, che le spiegò come fosse impossibile conoscere le proprie origini, ovvero il nome della donna che l’aveva generato, per colui che non fosse stato riconosciuto alla nascita, in quanto la legge poneva il divieto di accedere agli archivi che custodivano la relativa documentazione fino alla scadenza di un tempo pari a cento anni dalla nascita del bambino non riconosciuto! Una presa in giro, pensò giustamente Milena, una cattiveria istituzionale da parte di chi è mille miglia lontano dal problema vissuto dalla persona partorita in anonimato. Si pretendeva che si aspettasse un tempo così lungo per essere sicuri che fosse morta! Milena si era posta i tanti interrogativi legati alla sua nascita che in generale si pone la maggior parte dei figli adottivi: «Chi sono veramente io? Da dove vengo? Chi è la donna che mi ha partorito? Perché non ha potuto tenermi con sé? Era stata costretta o era stata una sua libera scelta? Se fosse stata aiutata mi avrebbe tenuta con sé?...». L’aveva anche sfiorata l’idea che potesse trattarsi di una donna dipendente da alcol o da sostanze, o dalla condotta immorale; ma questi pensieri 166­­­­

non l’avevano portata a desistere perché, in fondo, l’unico motivo per cui desiderava l’incontro era il bisogno di ringraziarla per averle dato la vita, quella vita che aveva trascorso fino ad allora in piena serenità e amicizia con tutti. I suoi genitori non erano ancora pronti ad essere coinvolti nella ricerca perché l’amavano come se fosse da sempre appartenuta a loro e dovesse per sempre appartenere esclusivamente a loro. Il desiderio di un bambino, che nel loro progetto matrimoniale era sempre stato presente, li aveva evidentemente convinti che quella era la loro bambina e non c’era posto per altri affetti. In qualche approccio sull’argomento tentato verso parenti e amici, Milena avvertiva pregiudizi e chiusura mentale: quasi la facevano sentire un’ingrata verso i suoi genitori, mentre lei era profondamente consapevole del loro amore e della loro protezione. Così Milena solo dopo qualche tempo decise di parlarne ai suoi genitori: voleva che anche loro capissero che desiderava rintracciare la madre biologica al solo fine di dirle grazie per averle donato la vita e consentito di essere adottata dalla migliore famiglia al mondo. Era infatti assolutamente convinta che si può essere madre al di là del legame di sangue. I genitori di Milena dichiararono immediatamente la loro adesione al progetto e, consapevoli del suo stato d’animo, la colmavano di attenzioni, perché l’amavano come e più di quanto avrebbero amato una figlia da loro stessi generata. Tuttavia Milena era perplessa sul loro coinvolgimento diretto nella ricerca della madre biologica, perché avrebbe comportato loro un notevole stress. *** Passarono gli anni. Quando anche Milena divenne madre decise di affrontare nuovamente con i genitori l’argomento che le stava a cuore, senza se e senza ma, e comunicò loro la sua decisione di fare il possibile per ritrovare la madre bio167­­­­

logica. Ottenne la massima comprensione; Maria e Adriano le promisero di fare quanto nelle loro possibilità per aiutarla nella ricerca della donna che molti anni prima l’aveva data alla luce. Milena si mosse a trecentosessanta gradi: volle conoscere altre persone che intendevano raggiungere lo stesso obiettivo, e si unì a loro nelle manifestazioni di piazza e nelle richieste al Parlamento; andò varie volte in televisione per sensibilizzare l’opinione pubblica su quella tematica, in nome del principio che la verità è sempre un valore; entrò a far parte del Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche. Nel 2011 Milena inoltrò una domanda al Tribunale per i minorenni di Roma, diretta ad ottenere informazioni sulle proprie origini; ma la risposta fu negativa. Fui molto chiara nel comunicarle che, a mio parere, una modifica della legge era ancora lontana, e non sembrava al momento esserci possibilità alcuna per l’accoglimento delle istanze intese a conoscere il nome della donna che aveva partorito in anonimato. Inoltre spesso gli archivi degli ospedali ove erano contenuti i documenti relativi ai parti in anonimato risultavano danneggiati, e perciò l’attività di rintraccio sarebbe stata molto complicata. Scendendo le scale del Tribunale, calde lacrime rigavano il viso di Milena, senza che lei cercasse di frenarle. Pensava che non era riuscita a trasmettere l’intensità del suo bisogno psicologico, e anche fisico, di conoscere...; guadagnò in fretta l’uscita in cerca di una boccata di aria fresca, convinta di non avere più speranza. Provava rabbia contro il sistema, contro uno Stato che crea discriminazione, ingiustizia e infelicità. Inevitabilmente lo sconforto la invase. Milena cominciò a soffrire di insonnia; e nelle poche ore di sonno agitato i suoi sogni, come i suoi pensieri, avevano sempre come protagonista quella donna, la sua vana ricerca nel mondo reale. Talvolta sognava che qualcuno le dava la notizia della sua morte, perché in fondo era questo l’evento che più di ogni altro temeva; talvolta si abbandonava al pensiero che forse la 168­­­­

madre biologica era straniera: poteva essere spagnola, come la sua mamma adottiva; o poteva essere francese, perciò le piaceva tanto quella lingua. Milena insomma era vicina ad una profonda crisi di identità. Nel 2013 partecipò ancora una volta ad una trasmissione televisiva nel corso della quale, vincendo la sua naturale riservatezza, trovò il coraggio di fare un appello presentando il suo problema della ricerca delle origini; ma il suo appello servì soltanto a diffondere ulteriormente la tematica. Continuava, intanto, a seguire le attività del Comitato, e un giorno venne a Roma per partecipare con sua madre, in piazza Monte Citorio, ad una manifestazione di protesta contro l’ingiustizia del segreto sulle origini. Fu in quell’occasione che apprese come il Tribunale per i minorenni di Roma aveva cambiato politica, perché stava accogliendo le istanze degli adottivi richiedenti l’accesso alla conoscenza delle origini, probabilmente in quanto – pensò Milena – aveva tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale che aveva abrogato la vecchia legge dei cento anni e del fatto che il legislatore, dopo oltre un anno dalla sentenza della Corte, non aveva ancora predisposto una nuova legge che potesse bilanciare i frapposti diritti: quello della donna che partorì in anonimato a mantenerlo, e quello del figlio biologico a chiederne la rimozione per accedere alle informazioni sulle proprie origini. *** Così Milena presentò per la seconda volta la sua istanza e si mise in attesa della telefonata di convocazione; e lo squillo amico arrivò dopo un tempo che le sembrò interminabile. Erano trascorsi, infatti, ben sette mesi perché le indagini, come poi le avrebbe spiegato, nel corso dell’incontro, il nostro impegnatissimo poliziotto, portarono via molto tempo perché furono decisamente difficili. L’appuntamento era per le 9,30 di un fatidico martedì. Milena arrivò puntualissima in ufficio, accompagnata dalla 169­­­­

madre, e, nonostante la rassicurante presenza materna, sentiva l’ansia che le saliva dentro... Le due donne vennero ricevute nella saletta adiacente la mia stanza dal giudice onorario, di professione antropologa, che collaborava con me nella gestione di queste richieste che necessitano di un approccio non tanto giuridico quanto soprattutto umano, nel rispetto della persona e dei suoi problemi. La dottoressa, assistita dal poliziotto che aveva svolto le indagini, le si presentò in modo molto garbato e le spiegò, come di consueto, che a volte le ricerche prendono tempo per la complessità che il caso progressivamente presenta, che spesso i documenti non sono dove dovrebbero essere, ma altrove; e quell’altrove è un luogo in cui regna il più grande disordine... Alla fine le comunicarono che, nel suo caso, le cose si erano messe bene, e che l’impegno profuso nella ricerca aveva avuto successo: il rintraccio era stato possibile, e la Presidente le avrebbe dato le informazioni acquisite. Milena si rese subito conto dell’impegno speso nelle indagini, con il coinvolgimento e il senso di responsabilità di chi ha a cuore la ricerca della verità. Il giudice onorario e il poliziotto parlarono a lungo con lei, con l’obiettivo di offrire una boccata di ossigeno a quella donna che si trovava lì seduta di fronte a loro, con gli occhi stanchi di chi aveva sicuramente trascorso una notte insonne. Milena a sua volta raccontò loro di tutte le vane ricerche che negli anni aveva svolto a livello individuale e, anche in quella circostanza che la avvicinava ormai alla meta, ancora una volta non poté fare a meno di rendere partecipi i suoi interlocutori del senso di rabbia contro i luoghi comuni, contro i pareri pronunciati da chi non conosce e non approfondisce il tema del parto in anonimato e il diritto alla verità, e che finisce col parlare di questi problemi come argomento da salotto televisivo, in cui i “tuttologi di turno” giudicano con la superficialità che caratterizza il loro modo di essere. Il giudice onorario interloquiva con acume e sicurezza, perché replicare sulle difficoltà era anche un modo per confortarla 170­­­­

e rassicurarla che da sola non avrebbe potuto fare di più; era comunque finalmente arrivata ad un passo dalla verità. Il giudice onorario mi riferì poi che, in quel breve colloquio avuto con Milena prima che apprendesse formalmente la notizia positiva circa il rintraccio, la donna espresse loro quanto il fatto di “non poter sapere” avesse condizionato a livello profondo la sua percezione identitaria, ma soprattutto quanto nella vita di tutti i giorni questo avesse influenzato il suo comportamento. Il solo fatto di passeggiare in strada e cercare negli occhi dei passanti delle somiglianze, delle risposte, o dei segni di riconoscimento; e il desiderio, o la possibilità, di incontrare in un qualsiasi ufficio o in un locale pubblico, insomma ovunque, un fratello o una sorella, le rendevano la vita ogni volta un’affannosa “ricerca”, quasi a dover essere sempre vigile ai particolari. E fu a questo punto che il giudice onorario le fece comprendere che quest’ansia, adesso, ora, proprio ora, sarebbe finita. E in quella manciata di minuti il suo pensiero galoppò attraverso le ipotesi più diverse, aprendosi a tutti i possibili scenari che il rintraccio avrebbe potuto dischiudere. Attraversando la saletta vidi la donna che cercava di intercettare il mio sguardo. Rapidamente mi infilai nella mia stanza e, dopo pochi minuti, riaprii la porta e con un sorriso – di cui Milena aveva ormai afferrato il significato positivo – feci loro cenno di entrare. Il cuore di Milena sembrò impazzire; si accomodò in uno stato di quasi incoscienza su una poltrona, e pensò: «Questo è uno dei momenti più importanti della mia vita; la Presidente già sa cosa dovrà dirmi, già sa tutto sulla mia madre biologica, sa che è viva, mentre io devo ancora aspettare attimi infiniti...; e lei, che ha in mano il mio destino, non capisce che sto morendo, e voglio subito sapere per tornare a respirare e a vivere...». Pronunziai con tranquillità parole che pervennero sicuramente prima al suo cuore e poi al suo orecchio: «La donna che tanti anni fa l’ha partorita è viva, ha ottantatré anni, sta abbastanza bene e vuole incontrarla; le fa sapere che ha vissu171­­­­

to aspettando il suo arrivo». E qui Milena si sciolse in lacrime e sorrisi, abbracciò sua madre che le sedeva accanto e non riuscì per qualche minuto a proferire parola. Le spiegai che l’incontro non si sarebbe svolto nel mio ufficio, ma avremmo dovuto recarci tutti al domicilio della madre ritrovata, perché non era in grado di affrontare il viaggio da Bracciano a Roma; e così fissammo l’incontro di lì a qualche giorno. *** Milena dedicò i pochissimi giorni che la separavano dall’incontro all’acquisto di un dono per la madre ritrovata. Pensò a qualcosa che la potesse avvolgere per trasmetterle un abbraccio forte, pieno di calore, e così scelse un grande scialle di lana di colore bordeaux, il suo colore preferito, che scoprirà poi essere anche quello preferito dalla donna che l’aveva generata. Sorrise pensando anche che, appena una settimana prima, sua figlia aveva fatto per la prima volta una gita a Bracciano, quasi che il destino volesse già darle un segnale di avvicinamento alla meta. Cercammo di arrivare un po’ prima di Milena per renderci conto delle condizioni di salute della signora Marcella, che ci era stata descritta come persona fragile in ragione della sua età, convivente con una sorella più giovane che l’aiutava nelle incombenze domestiche con vero amore fraterno. Iniziammo a parlare con la signora Marcella, che ci raccontò quanto già appreso dal rapporto del Servizio sociale; ma il tono di voce pacato, smorzato, sempre commosso, quasi tremante lo rendeva naturalmente più autentico ed emotivamente coinvolgente. Si aprì con spontaneità, e la sua fragilità si manifestava nel racconto frammentato della nascita, nel suo ritornare a quei momenti attraverso un ricordo che si manteneva nitido e congruo, nonostante l’altalenare delle immagini che man mano le tornavano alla mente. Ricordava il nome che aveva dato alla neonata; volle chiamarla Milena, ed era felice che la coppia adottiva glielo avesse lasciato, an172­­­­

che perché l’aveva sempre pensata negli anni con quel nome: chissà dov’è Milena..., chissà che fa Milena..., chissà se Milena si è sposata..., e così via. A questo punto si era già creata una piena sintonia tra i presenti: la madre biologica, sua sorella che amorevolmente si occupava di lei, e noi tre rappresentanti del Tribunale che ci eravamo presentati all’inizio declinando il nostro rispettivo ruolo nel rintraccio. Chiesi perciò al poliziotto, naturalmente in abiti civili, di far entrare Milena. L’ingresso di Milena nella stanza rappresentò il momento più emozionante della storia, che culminò in un abbraccio dolce e tenero, che non poteva essere forte perché la signora Marcella era fisicamente esile, minuta, fragile, rimpicciolita dall’età, e bella come un vetro di Murano. Milena la strinse teneramente a sé, e le loro lacrime si confusero: ognuna delle due donne, a suo modo, aveva pregato affinché quell’incontro tanto sognato potesse non restare un sogno, ma divenire realtà. Nella stanza accanto era rimasta la mamma adottiva di Milena. Quando il giudice onorario le chiese di raggiungerci, per l’emozione fece fatica ad alzarsi dalla sedia e non sembrava in grado di reggersi in piedi. Disse che aveva bisogno di prendere fiato, e che era giusto che quei momenti la figlia li vivesse senza di lei; e così dicendo le lacrime le riempivano il viso, lasciando tuttavia intravvedere un sorriso dolce e tenero, espressione del suo amore incondizionato. Si unì a noi solamente quando fu Milena a chiamarla. La signora Marcella raccontò che Milena era nata dal rapporto con l’unico amore della sua vita, una relazione che non si poté consolidare perché l’uomo era purtroppo già coniugato. Per questo motivo era stata costretta a lasciare la bambina in ospedale: una creatura senza padre... I suoi non vollero accogliere la bambina, che però per alcuni giorni le era rimasta accanto; le aveva preparato il biberon e l’aveva tenuta nelle sue braccia. E Milena, ripensando poi a quei giorni in cui mamma Marcella l’aveva coccolata, si ricordò che sua madre 173­­­­

le aveva raccontato che, quando le fu comunicato dal giudice che le era stata affidata una bambina di nome Milena, era andata subito a visitarla, l’aveva presa in braccio con estrema delicatezza perché era così piccola e tenera, e più volte le aveva dato il biberon: due cuori avevano battuto all’unisono in due donne, le cui storie si erano ora finalmente incrociate. La signora Marcella confidava via via a Milena che l’aveva sempre avuta nei suoi pensieri: c’era stato un filo che non si era mai spezzato che la riportava sempre al volto bellissimo di quella bambina. Scoprivano intanto tra loro molte affinità: amavano entrambe il colore rosso in tutte le sue sfumature, la pizza e i gatti, mentre entrambe odiavano i peperoni e l’orzo. Insomma si lasciarono con la sicurezza che si sarebbero riviste per chiacchierare ancora e scoprire altre sintonie. Le figlie di Milena hanno successivamente conosciuto la nonna biologica e le hanno portato dei doni, dimostrandole simpatia e rispetto. Il trasporto e l’affetto non possono ancora manifestarsi pienamente perché le bambine hanno nel cuore i loro nonni, ma quei sentimenti potranno insorgere nel tempo vedendo quanto la loro mamma è felice di aver ritrovato la sua “mamma di pancia”, e quanto bene le vuole. Inoltre Milena mi ha riferito che una delle bambine somiglia molto alla nonna ritrovata, e che entrambe le figlie avevano sofferto in passato per l’assenza della mamma impegnata per affermare – in trasmissioni televisive e in dibattiti pubblici – il diritto alle origini. Ora ne hanno compreso il motivo, e il loro disagio per quelle assenze ha lasciato il posto alla gioia, avendo compreso che la mamma ha così raggiunto il suo obiettivo ed è felice e soprattutto serena. Ho appreso recentemente che Milena e la madre biologica si sono nuovamente incontrate e che, da ultimo, la signora Marcella ha trascorso una settimana in casa della figlia ritrovata. In questo tempo insieme Milena ha potuto realizzare quanto le abbiano trasmesso, in termini di amore, autostima e fiducia negli altri, i suoi genitori adottivi, rendendosi conto che solo adesso ha pienamente compreso chi è davvero Milena. 174­­­­

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Ti ringrazio di avermi detto sì

La richiedente si chiamava Anna e aveva cinquantasei anni, aveva tre figli, ed era già nonna di una bellissima bambina di un anno. Chiedeva di poter conoscere il nome della donna che le aveva donato la vita mettendola al mondo e di poterla incontrare; raccontò che il nome Anna le era stato imposto dai genitori adottivi e che era stata registrata all’anagrafe con un altro nome, scelto dalla madre biologica. Va detto che, fino agli anni Novanta, era prassi diffusa sostituire il nome ai bambini adottati: si preferiva dare il nome del nonno o della nonna, così come i neo-genitori avrebbero fatto se il figlio fosse stato generato da loro, senza riflettere che quel bambino aveva già sentito pronunziare quel nome e aveva compreso che con quel suono le persone intorno si rivolgevano a lui, proprio a lui; così si riconosceva come Mario, Lello o Gianna. Altre volte le coppie adottive preferivano che il figlio avuto in adozione portasse il nome di quel santo cui avevano rivolto le loro preghiere per veder esaudito il progetto di genitorialità. Fortunatamente alle soglie del nuovo millennio c’è stata una maggiore attenzione a lasciare al bambino adottato il nome avuto alla nascita, nella consapevolezza che, spogliandolo di questa connotazione, lo si priva dell’unica cosa che gli appartiene. Anna era stata accolta nella casa e nel cuore di persone che da tempo coltivavano il desiderio di un figlio; così la sua infanzia fu vissuta in piena serenità, in un’atmosfera accogliente e amorevole, in un autentico rapporto familiare tra genitori e figlia. 175­­­­

Quando stava per raggiungere la maggiore età i genitori le svelarono la sua condizione di figlia adottiva. Nulla sapevano però sulle sue origini perché erano stati chiamati in Tribunale da un giudice che aveva annunziato loro l’arrivo di una bambina di sedici mesi, per la quale aveva emesso il provvedimento che li autorizzava a prelevarla dalla struttura ove era rimasta collocata successivamente alla nascita; nulla aveva potuto dire loro sulla famiglia d’origine perché non era stata riconosciuta dalla donna che l’aveva generata. Tuttavia, contestualmente alla rivelazione, i genitori la rassicurarono che l’avrebbero lasciata libera di intraprendere, se ne avesse manifestato il desiderio, la ricerca della madre biologica, anzi si dichiararono disposti ad aiutarla da subito in questo percorso. Anna fu molto sorpresa nell’apprendere che non era nata dalla sua mamma, poiché mai aveva percepito una qualsiasi forma di disagio o difficoltà nel rapporto con i suoi genitori, e neppure con i tanti componenti della rete familiare sia paterna che materna: evidentemente non costituiva motivo di diversità la sua condizione di figlia adottiva, e di questa accoglienza da parte di tutti i parenti era davvero felice. Si chiedeva però come mai fosse rimasta tanti mesi in una struttura e non affidata da subito alla sua mamma e al suo papà. Questa domanda me la ripropose a distanza di tanti anni, e io cercai di spiegarle che all’epoca in cui lei era nata, alla fine degli anni Cinquanta, le coppie che adottavano erano poche perché non erano in molti a superare lo stigma della sterilità che veniva resa palese con la decisione di adottare un bambino abbandonato in istituto. Si chiedeva poi che il bambino fosse sano, e quindi si sottoponevano questi bambini abbandonati a numerosi e frequenti controlli medici, e venivano resi disponibili per l’adozione soltanto quando potevano essere dichiarati sani con tanto di certificazione medica. Potevamo, quindi, ragionevolmente presumere che alla piccola Anna fosse stato diagnosticato qualche non grave problema di salute, poi superato. E probabilmente la sua adozione era 176­­­­

stata una delle prime in Italia ad essere poi formalizzata quando nel 1967 entrò in vigore la legge sulle adozioni che dava maggiori garanzie alle famiglie adottive. Le precisai che la situazione in seguito era completamente cambiata: oggi i bambini partoriti in anonimato vengono immediatamente dichiarati adottabili e affidati ad una delle famiglie in lista di attesa. In linea di massima il bambino viene prelevato direttamente dall’ospedale dopo qualche settimana dalla nascita. *** Quando Anna si prospettò concretamente la possibilità di conoscere le sue origini aveva ormai intrapreso gli studi di giurisprudenza; poté così approfondire le tematiche relative al problema che la interessava, e capì subito che la normativa in vigore non offriva nessuna apertura al rintraccio; perciò accantonò il progetto iniziale. Solo dopo molti anni, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che aveva giudicato incostituzionale la legge dei cento anni e imposto al legislatore il bilanciamento tra il diritto della donna che aveva partorito in anonimato a mantenere il segreto sulla nascita e il diritto del figlio a ottenere informazioni sulle proprie origini, Anna si rese conto che si era accesa una luce in fondo al tunnel, fino ad allora buio e accidentato, che avrebbe potuto condurla alla conoscenza delle proprie origini. E questa sua volontà si rafforzò seguendo intanto le attività di numerosi gruppi attivi su questa problematica, in particolare quella del Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche. Fu così che nel luglio 2015 Anna presentò un’istanza al Tribunale per i minorenni di Roma intesa ad ottenere l’accesso alle origini, per conoscere il nome della donna dalla quale era stata partorita e per poterla incontrare, sempre che quella stessa donna avesse consentito a rimuovere il segreto sull’anonimato. E grande fu la sua sorpresa quando, alla fine di set177­­­­

tembre del 2015, dopo poco più di due mesi dalla domanda, venne convocata dal Tribunale, convinta che si sarebbe trattato di un incontro conoscitivo. Ebbe invece un vero e proprio sussulto quando, con estrema naturalezza, le comunicai l’esito positivo della ricerca, e che già la settimana successiva avrebbe potuto incontrare, presso il Servizio sociale di una cittadina dell’Umbria, la madre biologica che ivi risiedeva; le spiegai che era necessario recarsi lì perché la donna non era in grado di affrontare un viaggio fino a Roma, essendo in non perfette condizioni di salute; mi affrettai comunque a precisare: «Niente di grave, nessuna preoccupazione...». Le comunicammo che, nel giorno stabilito, ci saremmo trovate, sia io che il giudice onorario, in quell’amena cittadina medievale, dove avrebbe incontrato la donna che le aveva dato la vita. L’appuntamento fu fissato per il 15 ottobre. *** L’incontro, svoltosi presso la sede del Servizio sociale, fu intenso e molto suggestivo, profondamente partecipato anche dalle persone non direttamente coinvolte, ma nel contempo assolutamente naturale e spontaneo. Prima di introdurre la madre biologica ascoltammo dall’assistente sociale le informazioni sostanzialmente già contenute nella relazione trasmessa al Tribunale, arricchite di maggiori particolari, utili per accogliere meglio la donna che era là in attesa e per meglio gestire l’incontro, nella consapevolezza che quei momenti che di lì a poco le due donne avrebbero vissuto sarebbero rimasti unici, irripetibili e straordinariamente incisivi nella memoria sia di Anna sia della donna che tanti anni prima le aveva dato la vita. La madre biologica si chiamava Mirella; appariva una persona semplice e gentile, dolce e tenera. Raccontò con delicatezza e nostalgia la sua storia, quella storia che è poi diventata l’inizio di quella di Anna, ed espresse subito la sua gratitudine per la scelta fatta dalla “figlia” di chiedere di conoscerla, avendo sempre sperato che ciò avvenisse. Anna, appena 178­­­­

entrata, si diresse con affettuosa sollecitudine verso di lei, e le disse a bassa voce – ma tutti potemmo sentire – una espressione bellissima ed emotivamente significativa: «Ti ringrazio di avermi detto sì...». L’assistente sociale che aveva fatto la visita domiciliare alla signora Mirella, evitandole così il disagio di doversi recare alla sede del Servizio a causa del suo precario stato di salute, fece riferimento ad una bellissima foto di grande formato che aveva notato appena entrata in casa, nella quale si poteva ammirare una ragazza molto giovane e altrettanto bella, dal sorriso radioso e dagli occhi pieni di speranza. La signora Mirella le aveva detto che era una sua foto da giovane, scattata proprio mentre era in attesa di Anna. Nel riferire anche a noi di questa foto, il suo sguardo si perse nel ricordo di una Mirella giovane..., e tornò quasi con naturalezza agli avvenimenti di quel periodo. Ci raccontò che la gravidanza era stata frutto di un unico rapporto avuto con un uomo che lavorava nella stessa fabbrica dove alcuni suoi parenti le avevano trovato un impiego. Era la sua prima esperienza lavorativa, tra l’altro all’estero. C’era lì un uomo che le sorrideva sempre, una persona gentile che all’entrata e all’uscita la salutava con amicizia. Il giorno del suo compleanno, quando tutti furono andati via lasciandola sola con tanti piccoli regali, lui, che era restato in disparte e non si era confuso nel mucchio degli altri operai, le si avvicinò con un bellissimo fascio di fiori, porgendoglielo con un bacio; lei lo abbracciò, e finirono con l’esprimersi a vicenda la propria istintiva attrazione, mai fino ad allora manifestata se non con sguardi intensi e dolci sorrisi. Entrambi lontani da casa e molto soli; lui aveva famiglia e lei lo sapeva: una storia “voluta e non voluta”, espressione che descrive molto bene la situazione delle persone lontane dalle rispettive famiglie per un lavoro che le ha portate altrove, in un altrove dove sono e si sentono stranieri. Dopo qualche mese Mirella si avvide di essere in attesa... Non poté che tornare a casa, al suo paese, dove i genitori la 179­­­­

convinsero a lasciare il bambino, una volta nato, in ospedale senza effettuarne il riconoscimento, così che sarebbe stato adottato da una brava famiglia e nessuno avrebbe saputo della sua gravidanza. Così Mirella fu portata a partorire lontano dal suo paese. Il distacco da quella bambina, che per qualche giorno aveva potuto vedere perché gliela avevano messa accanto, le era sempre rimasto dentro come un dolore a volte insopportabile. Spesso aveva sognato di incontrarla, e aveva sempre sperato, giorno dopo giorno, di poterla nel tempo rivedere, che si sarebbe fatta viva; e ora, tutto a un tratto, era successo...; le sembrava ancora un sogno stare là di fronte a lei che l’abbracciava così dolcemente, come per non farle male! La signora Mirella continuò raccontando che suo marito era morto da qualche anno. A lui aveva detto di quella esperienza giovanile alla quale andava spesso con la memoria, ma non ancora ai figli, entrambi maschi e ormai quasi cinquantenni, nonostante nel corso del colloquio con l’assistente sociale avesse chiaramente manifestato la sua volontà di rimuovere il segreto sull’anonimato e di accettare l’incontro. Voleva, infatti, prima di comunicare ai figli l’esistenza di una bambina da lei partorita nella sua prima giovinezza, valutare, dopo l’incontro con lei, se sarebbe stato possibile stabilire un certo rapporto con questa “figlia” che l’aveva cercata, oppure se l’essersi incontrate sarebbe rimasto un fatto episodico senza alcun seguito. Solo nella prima ipotesi ne avrebbe parlato con i figli, mettendoli a parte della sua esperienza giovanile da sempre taciuta; escludeva comunque che si potesse instaurare una relazione stabile tra loro. Ma ora le sembrava di comprendere che, da parte di Anna, c’era il desiderio di conoscersi, forse anche un sentimento; perciò, tornando a casa, avrebbe immediatamente rivelato ai suoi due figli, in tutta tranquillità, il suo segreto, nonché l’esito dell’incontro. I suoi figli erano persone mature e responsabili, entrambi bene inseriti socialmente, per cui non ci sarebbe stato nessun terremoto, ma soltanto la conoscenza di una persona a cui lei, la loro mamma, aveva 180­­­­

nella sua vita ripetutamente rivolto il pensiero, sperando che l’avrebbe cercata, non potendo farlo lei stessa perché il luogo dove aveva partorito non c’era più da moltissimo tempo. La sua narrazione tornò nuovamente indietro nel tempo: dopo il parto, nel corso degli anni, si era più volte recata in quel luogo; ma il punto nascita era stato chiuso, e nessuno le aveva saputo indicare dove fossero i documenti di un tempo, firmati senza neanche rendersi ben conto che in quel modo non avrebbe mai più potuto rintracciare “sua figlia”, quella bambina tanto amata sin dal primo giorno, quando aveva compreso che un esserino prendeva vita dentro di lei. La fortissima emotività con cui la signora Mirella raccontava la sua storia coinvolgeva naturalmente tutti i presenti, ma soprattutto Anna che, palesemente commossa, interloquiva di tanto in tanto con voce spezzata e con gli occhi lucidi; riuscì però a trattenere le lacrime e a non piangere. Quando il livello emotivo si fu alquanto normalizzato, Anna presentò il marito, che aveva partecipato all’attesa e aveva condiviso le speranze della moglie: anche lui si dichiarò felice che finalmente quelle speranze avevano lasciato il campo ad una conoscenza che sarebbe potuta diventare, col tempo, un’affettuosa amicizia. *** Alcune settimane dopo l’incontro Anna venne nel mio ufficio per chiedermi se la sua vicenda si sarebbe definita con un provvedimento giudiziario. Le risposi che nel suo caso i tre passaggi chiave del procedimento – il rintraccio della madre biologica, la rimozione del segreto da parte di quest’ultima e l’adesione di entrambe all’incontro – si erano realizzati, e pertanto il Tribunale avrebbe archiviato il procedimento, e ne avrebbe avuto rituale comunicazione. «Insomma» conclusi «per noi tutto è finito, per lei qualcosa comincerà...». In quest’ultima occasione Anna mi confidò che, quando la informai dell’incontro e le comunicai che ci saremmo 181­­­­

dovute spostare in Umbria perché la sua mamma biologica risiedeva in una bellissima cittadina medievale di quella regione, ebbe un breve ma intenso periodo di disorientamento: le sue radici non erano dunque nei luoghi dove era da sempre vissuta ma altrove, in un contesto geografico e sociale diverso. Si rendeva ben conto che questo fatto poteva sembrare un dettaglio non molto significativo; tuttavia provocò in lei uno stato di ansia profonda, quasi un senso di sradicamento esistenziale. A questo proposito il giudice onorario mi raccontò della sua esperienza maturata nello stesso ambito in Australia e delle sue ricerche sul rapporto tra uomo e territorio nella società australiana, negli anni in cui le normative autorizzavano in quel paese la ricerca delle origini attraverso un’agenzia governativa dedicata a tutte le fasi del procedimento. Infatti in Australia si era verificato, approssimativamente tra il 1910 e il 1970, il fenomeno della “stolen generation”, consistente nell’allontanamento sistematico dei figli degli aborigeni dalle loro famiglie e nel loro inserimento nelle famiglie degli occidentali per omologarli alla cultura di questi ultimi. Fu formata una commissione di inchiesta che indagò per anni sul fenomeno, e alla fine degli anni Novanta il governo garantì il ricongiungimento di quei bambini, diventati da tempo adulti, alle loro famiglie di origine. Quasi sempre i loro genitori erano morti, ma giungere a conoscere il luogo di origine veniva comunque considerato, più che un elemento di conforto, un punto di partenza per riappropriarsi della propria cultura e, molto spesso, della propria identità. Infatti la conoscenza del luogo di origine “determina”, sia a livello identitario personale che a livello sociale, l’individuo stesso, dando un significato alla sua esistenza. Da sempre i gruppi umani si riferiscono a loro stessi con il nome del proprio territorio, e questa consuetudine – che si ritrova in tutte le aree del mondo – permette la costruzione unica di una vera e propria identità sociale di appartenenza, la quale, attraverso la condivisione degli stessi valori e delle stesse tradizioni, si 182­­­­

rivela anche nel confronto con gruppi originari di territori diversi, caratterizzati da altre peculiarità culturali. In base a queste analisi, nei casi in cui la donna interpellata non ha inteso rimuovere il segreto sulla propria identità, ho sempre ritenuto opportuno comunicare al ricorrente almeno il luogo di origine della donna che lo partorì in anonimato. Ritengo tale scelta doverosa perché il termine “origine” indica proprio questo: il luogo originario dei propri ascendenti. Così abbiamo convenuto che era importante dare risposta ad un desiderio, a volte un bisogno, che potrebbe definirsi ancestrale. Queste informazioni in molti casi, come ci hanno riferito in seguito i ricorrenti, hanno dato loro lo slancio e la possibilità di recarsi nei luoghi di origine e sentirsi comunque parte di una comunità e di un territorio al quale in qualche misura appartengono. Un famoso detto aborigeno australiano recita: “La terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra”. Anna mi confidò anche che, nell’attesa dell’incontro, fu presa dal timore che, a causa di quel suo prepotente desiderio di incontrare la donna che le aveva dato la vita, non sarebbe riuscita a controllare l’emozione, come invece avrebbe voluto. D’altra parte, non voleva assolutamente apparire distaccata, perché aveva appreso del grande desiderio espresso dalla madre biologica di conoscerla; l’avevo infatti informata che dalla relazione del Servizio sociale emergeva molto chiaramente che la signora Mirella viveva una situazione emotiva molto intensa per il forte desiderio di incontrare la “figlia”. Provvidenziale, da questo punto di vista, fu l’errore del nostro autista che, sbagliando strada, ci fece arrivare in ritardo, offrendo in tal modo ad Anna il tempo necessario per stemperare l’ansia che aveva accumulata nel viaggio e giungere così all’incontro in uno stato emotivo più controllato. E quando entrò nella stanza e vide la signora Mirella, che noi avevamo fatto entrare per prima, riuscì alquanto a tranquillizzarsi. Anna aggiunse, con evidente emozione, che guardando la madre biologica comprese cosa vuol dire “assomigliare a 183­­­­

qualcuno”: ritrovare improvvisamente i tuoi stessi occhi, il tuo stesso sorriso, il tuo stesso ovale, addirittura la tua stessa postura in chi ti ha partorito. Una emozione forte, bella e sconvolgente al tempo stesso! Mi riferì anche che, quando la signora Mirella nel corso dell’incontro aveva raccontato a tutti noi il dolore provato nel lasciarla, si era resa conto che era stata lei la più fortunata, perché non aveva portato dentro un dolore grande come il suo, era stata felice e serenamente aveva accettato la storia della sua nascita; la madre biologica invece aveva vissuto la sofferenza dell’abbandono della sua creatura, al quale peraltro era stata costretta. Mi disse che per un istante aveva immaginato di trovarsi ad essere costretta a lasciare uno dei suoi figli e a varcare quel grande portone dell’ospedale tutta sola e senza il suo bambino desiderato e amato... E fu in quel preciso momento che Anna “perdonò” tutto, e si ripromise di dare il meglio di sé alla “madre” ritrovata. Anna mi raccontò infine che il viaggio di rientro a casa dall’incontro era stato molto silenzioso: lei doveva mettere ordine nelle sue idee, e il marito, che le era stato sempre vicino sostenendola nella sua attività per il rintraccio della madre biologica, non aveva voluto interrompere i suoi pensieri, perché aveva capito il suo bisogno di silenzio intorno a sé; quando poteva, di tanto in tanto le prendeva la mano per rassicurarla. E lei riconobbe, in quei momenti, quanto fosse stato importante il sostegno del marito, in particolare dopo la morte dei suoi genitori, e come aveva saputo anche aiutarla ad evitare che i loro figli fossero coinvolti in quella sua ansia di ricerca. Insomma, quella sera si rese conto come un sentito grazie doveva essere affettuosamente rivolto anche a suo marito... *** In ultimo, appresi che era ormai iniziato un processo di conoscenza e partecipazione non soltanto tra le due donne, ma anche tra le due famiglie, in quanto la relazione – carat184­­­­

terizzata da grande empatia – si andava progressivamente estendendo ai due figli della signora Mirella, mentre si andava stabilendo un contatto telefonico quasi quotidiano tra Anna e la madre biologica. In definitiva, Anna è riuscita a risalire alle sue origini, ad accettarle e riconoscerle come proprie perché ha compreso che la scelta di non essere stata riconosciuta non fu causata da un rifiuto, ma da una delle tante situazioni che accadono nella vita, per il fatto che la sua mamma biologica non era ancora maggiorenne e per i pregiudizi che all’epoca sussistevano nei confronti delle cosiddette “ragazze madri”, ritenute ingiustamente, e direi crudelmente, colpevoli. Anna comincia ora ad accettare l’ingresso, nella sua vita personale, di altre persone, verso le quali può serenamente provare sentimenti di affetto, soprattutto dopo la perdita dei genitori che per lei è stata davvero traumatica. Come mi ha successivamente confidato, anche il suo rapporto con i figli si è sempre mantenuto buono e non è mai stato influenzato dalla sua condizione di figlia adottiva, perché nell’ambito della sua famiglia la relazione genitori-figli si è sempre svolta serenamente, senza traumi e senza fratture, senza conflitti e senza incomprensioni, al di là delle piccole e grandi preoccupazioni che ogni famiglia attraversa. Così il problema di dire loro della sua condizione di figlia adottiva non si è mai posto, era sembrato assolutamente ininfluente sui rapporti intrafamiliari in quanto Anna si è sempre sentita a tutti gli effetti figlia dei suoi genitori, dei quali i suoi figli restano i carissimi nipoti. Quando essi lo seppero per caso dal nonno, nell’età della preadolescenza, dissero solo, mostrando una grande maturità di sentimenti, che i nonni erano più nonni degli altri perché avevano tenacemente voluto quella bambina che era diventata la loro mamma, e quindi da quell’amore e da quella volontà essi discendevano.

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Il silenzio nell’incontro

Clotilde era una giovane donna di trent’anni, adottata, non riconosciuta alla nascita e orfana di madre. Un giorno apprese attraverso una trasmissione televisiva che le persone partorite in anonimato potevano presentare una semplice istanza al Tribunale per i minorenni di Roma, se residenti nel Lazio, per acquisire informazioni sulle proprie origini. La notizia le riaprì il cuore alla speranza; decise così di presentare la domanda, e la sua eterna insicurezza la indusse, sebbene non fosse necessario, a rivolgersi ad un avvocato. Il padre temeva fortemente questo possibile incontro di Clotilde con la madre biologica, forse portatrice di problemi esistenziali, magari dipendente dall’alcol o dalla droga. Inutilmente cercò di dissuadere la figlia, il cui bisogno di conoscenza si era peraltro ulteriormente rafforzato dopo la perdita della mamma; così, quando l’avvocato gli comunicò l’avvenuta presentazione dell’istanza, chiese immediatamente alla mia segreteria un incontro con me, in quanto questi procedimenti erano di competenza della Presidente. Il padre di Clotilde mi apparve da subito contrario al rintraccio che la figlia intendeva attivare, e credo che in quel primo incontro quasi mi volesse indurre a dissuaderla. Mi sembrò che la motivazione fosse sostanzialmente la paura: la famiglia di Clotilde era di livello sociale medio-alto, e quindi il padre temeva forse non il rapporto, ma anche solo il semplice contatto con quella “estranea” che sua figlia intendeva rintracciare. Clotilde – mi riferì – era stata educata in una scuola d’élite, aveva amicizie molto selezionate, si era lau186­­­­

reata in una delle più prestigiose università italiane, aveva conseguito un master in Business Administration a Dublino e conosceva due lingue straniere. Temeva perciò che questa donna ritrovata potesse recarsi all’incontro con altri figli che si sarebbero potuti avventare sul suo patrimonio, vedendo – perché sarebbe stato evidente dal suo portamento e dalla sua classe – che si trattava di una ragazza appartenente ad una famiglia “bene”... Con forzata pacatezza risposi: «E allora quel giorno suggeritele di venire vestita molto semplicemente...; comunque le indagini sono partite, ma sua figlia può sempre fermarle». Conobbi poi la giovane. Mi si presentò proprio come me l’ero immaginata: mesciata e riccioluta, griffata da capo a piedi, sapientemente truccata, rigorosamente accompagnata dal suo avvocato, persona tra l’altro a me nota per la sua capacità di mediare i conflitti. Egli mi disse che si rendeva conto che in quel caso il suo ruolo era molto limitato, ma era lì per rassicurare il padre che la figlia non avrebbe subìto contraccolpi dall’incontro. Gli precisai comunque che l’incontro – sempre ovviamente se le indagini avessero avuto esito positivo – sarebbe stato gestito da me e dal giudice onorario con l’eventuale presenza anche dell’assistente sociale che avrebbe contattato la madre biologica per verificarne la volontà di rimuovere o meno il segreto; e aggiunsi che nessun altro avrebbe potuto partecipare, a meno che la ragazza non ne avesse fatto esplicita richiesta. L’avvocato annuì, nella piena consapevolezza che l’incontro doveva svolgersi essenzialmente tra la madre biologica e la sua assistita, e che le persone presenti dovevano essere esperte nella gestione delle emozioni e non nelle questioni giuridiche. L’avvocato volle anche allontanarsi nel corso del colloquio che ebbi con la sua cliente quando si rese conto che la ragazza aveva difficoltà a parlare in sua presenza dei suoi ma e dei suoi perché: «Sono costretto ad assentarmi un quarto d’ora perché devo andare d’urgenza nella cancelleria adozioni». Era chiaramente un pretesto. Clotilde iniziò raccontandomi di aver vissuto a Milano fi187­­­­

no a cinque anni prima, quando suo padre era stato trasferito come direttore della filiale romana dell’azienda dove lavorava da molti anni; era lo stesso anno della morte di sua madre in un grave incidente stradale. Nella stessa filiale romana Clotilde aveva trovato lavoro nel settore del marketing. Avevano però preferito andare a vivere fuori città, in una tranquilla località dei Castelli. La perdita della madre era stata per Clotilde una vera e propria tragedia perché costituiva per lei un riferimento costante, era la sua consigliera e la sua guida da quando era bambina; anzi Clotilde faceva risalire proprio a questa perdita il suo desiderio così forte e urgente di ricercare la madre biologica. Clotilde infatti era cresciuta nel culto dei suoi genitori: sapeva bene che la sua mamma era molto bella ed era sempre ammirata quando andava in giro con le amiche perché, tornata a casa, raccontava al suo papà e a lei tutti i complimenti che aveva ricevuto, e come erano stati ammirati il suo vestito e la sua pettinatura; e lei, ormai grandicella, quattordici anni compiuti, cercava di somigliarle in tutto. Si sforzava oltre ogni limite; i genitori le compravano gli abiti più costosi e le scarpine ormai già con il tacco alto, e andava anche lei dal parrucchiere con sua madre, che le aveva finalmente consentito di schiarire i capelli. Clotilde era venuta a conoscenza del suo stato di adottiva solo dopo la morte della madre; ne era rimasta sconvolta. Il padre le aveva giustificato la ritardata rivelazione con il fatto che lei era per i suoi genitori la figlia amatissima, e attendevano sempre l’occasione propizia che però non arrivava mai. E più lei cresceva, più per loro aumentava la difficoltà di affrontare l’argomento, e si dolevano entrambi di non aver risolto la questione quando era bambina, quando magari avrebbe accettato la storia dell’adozione come una bella favola. A dar loro questo consiglio era stato proprio quel giudice che li aveva convocati in Tribunale un freddo giorno di gennaio, in cui tutta Milano era spolverata di neve. Così avevano deciso che 188­­­­

la rivelazione sarebbe dovuta avvenire non appena lei sarebbe stata in grado di capire; e avevano persino comprato, quando la iscrissero in prima elementare, dei libriccini colorati con la storia dell’adozione, scritti proprio per aiutare i genitori adottivi a dire ai loro figli la verità sulla loro nascita. Invece quei libriccini finirono in cantina... Clotilde avrebbe appreso della sua condizione di adottiva ormai donna, più di vent’anni dopo, in circostanze che mi volle raccontare diffusamente. Una sera infatti, mentre sistemava dei fiori di campo davanti alla fotografia della mamma, disse al padre: «Sto mettendo a posto in questo album le foto della mamma; ci sono foto anche di quando era piccolina, addirittura in fasce. La mia prima foto invece è quella davanti alla torta con due candeline; prima dei due anni, nulla; che strano...». E improvvisamente le sovvenne che, quando in seconda elementare la maestra le aveva chiesto delle foto del battesimo e del primo anno di vita, la mamma le aveva dato due foto che lì ora non c’erano, mentre lei ricordava di avergliele restituite: «Perché? Chi le ha prese?...». Vide il padre emozionarsi, cosa davvero inusuale perché era una persona molto riservata, dotata di grande autocontrollo. Lui iniziò a parlare lentamente, con evidente fatica: «Siediti qui vicino a me e ascoltami, perché devo rivelarti qualcosa che avremmo dovuto dirti tanti anni fa, quando eri bambina, ma che non abbiamo mai fatto, d’accordo con tua madre, per non turbarti e farti crescere felice e senza problemi». Clotilde gli si avvicinò sorpresa, invasa da un’apprensione che sembrava scivolare in angoscia. Così ascoltò dalla voce del padre, sempre più roca, la storia della sua adozione, quella storia che aveva diritto di conoscere da piccola, quando l’avrebbe accettata senza porsi tanti interrogativi, se non quelli semplici e ingenui di una bambina alla quale ogni risposta può essere data se la si tiene tra le braccia e la si copre di baci, fugando ogni pensiero con amore e senso di appartenenza. Ma saperlo ora che sua madre non c’era più, senza nulla poterle chiedere del suo arrivo in casa, del luogo in cui era stata 189­­­­

prima di essere affidata a loro, e soprattutto chi fosse la donna che l’aveva partorita... Non riusciva a parlare, e non ascoltava neanche più suo padre, che cercava di giustificare la mancata rivelazione del segreto sulla sua nascita con parole su parole che non le dicevano nulla di ciò che voleva sapere. Nel corso di quella notte insonne Clotilde capì finalmente perché, nonostante i suoi sforzi, non era riuscita a somigliare a sua madre: non avrebbe mai potuto somigliarle semplicemente perché non era sua figlia! Da quel momento in poi la sua mente, di giorno e di notte, in casa o fuori, al lavoro o per strada, era presa da un unico pensiero a dir poco martellante, costituito da interrogativi stringenti: «Chi è mia madre?... Qual è il suo nome?... Vivrà a Milano, dove sono nata?... O dove?... Quanti anni avrà?... Perché mi ha lasciato?... È stata costretta o non mi ha voluto tenere con sé?... E se fosse straniera? Che so, romena, russa, bulgara, o addirittura sudamericana... Ma no, io ho questa carnagione chiarissima... E se, essendo straniera, fosse tornata nel suo paese di origine perché non aveva trovato un lavoro così come lo desiderava?... Forse non la rintraccerò mai più... No, speriamo che non sia straniera... In effetti le straniere che vengono in Italia prima o poi si inseriscono... Forse una interprete perché, provenendo da un paese straniero, conosceva bene la sua lingua e magari anche altre lingue, come me... E se fosse un’infermiera?... Le sarebbe forse piaciuto, come me, studiare medicina, anche se poi aveva scelto altro per mancanza di mezzi economici...». Il padre era fortemente preoccupato per il suo disagio psicologico, ormai evidente in casa come in ufficio. La convinse perciò a frequentare lo studio di uno psicologo, che la faceva parlare a ruota libera senza interromperla mai. Questa frequentazione – mi raccontò Clotilde – durò due anni. Smise quando aveva iniziato a lavorare in un settore più impegnativo, ma anche più interessante e gratificante, essendosi resa conto dei benefici ottenuti in termini di rassicurazione e autostima. 190­­­­

Dopo aver presentato la domanda per conoscere le sue origini, Clotilde riprese tuttavia i contatti con lo psicologo, perché sentiva il bisogno di essere aiutata nel corso dell’avventura che l’avrebbe riportata al passato. Si era resa conto che l’attuale tumulto tra speranze, sogni e pensieri che albergava nella sua mente aveva bisogno di essere sedato. Pensieri che lei stessa definiva “tenebrosi” si impossessavano di lei e la assorbivano completamente fino a provocarle uno stato di frustrazione profonda. Lo psicologo comprese che Clotilde aveva bisogno di un’adeguata preparazione perché, dopo la presentazione della domanda al Tribunale, si era lentamente ingenerata in lei la paura che non sarebbe stato tutto così bello come aveva inizialmente immaginato, perché la donna contattata avrebbe potuto rifiutarsi e non rimuovere il segreto, sarebbe potuta risultare irreperibile, sarebbe potuta essere deceduta o espatriata, e lei, che in questo incontro aveva riposto tanta speranza, avrebbe potuto ritrovarsi in condizioni psicologiche ancor più critiche. Ricordo che a questo punto le chiesi il nome e il recapito telefonico dello psicologo, così avrei potuto contattarlo per avere qualche informazione in più, utile a organizzare al meglio l’eventuale futuro incontro. Mi rispose che ci avrebbe pensato e che, comunque, avrebbe chiesto l’autorizzazione al padre, il quale, non ritenendo evidentemente di darla, l’indomani senza preavviso si precipitò a prima mattina nel mio ufficio. *** Ricordo che pensai: «Ma qual è la sua preoccupazione? Che la figlia voglia mollarlo? Lo escludo, è così piena di sé e contornata dal lusso che non lo abbandonerebbe mai... O forse è già riuscito a sapere qualcosa della madre e non vuole che si conoscano per paura di vedersi avanzare richieste di denaro?...». L’uomo entrò con fare ossequioso, e mi espresse subito 191­­­­

con decisione il suo no al mio contatto con lo psicologo, persona di massima fiducia, chiedendomi apertamente di dissuadere la figlia dall’incontro con la donna che l’aveva partorita a causa della estrema precarietà del suo stato emotivo, come confermatogli dallo stesso psicologo. Fu allora che mi resi conto che la mia prima impressione era stata corretta: la sua fretta nel venire nuovamente da me, la sua chiara e inequivoca posizione di rifiuto all’incontro esprimevano paura non solo per la figlia, ma anche per se stesso. Doveva aver saputo qualcosa sulla donna che Clotilde avrebbe incontrato, non so come, non so da chi... Infatti la relazione del Servizio sociale documentava che la madre ritrovata era una povera donna malmenata dal marito durante tutta la sua vita, e che in quel periodo aveva un po’ di pace soltanto perché lui era andato in Germania presso alcuni parenti. Era persona ben nota al Servizio sociale del suo luogo di residenza perché spesso aveva avanzato richiesta di sussidi e altro. Gli risposi che la figlia aveva ormai superato i trent’anni, che mi aveva ripetutamente richiesto il rintraccio, presentandosi una prima volta con un avvocato che era rimasto presente per quasi tutta la verbalizzazione e che aveva comunque assistito alla lettura del verbale e all’apposizione della firma, e una seconda volta da sola, qualche giorno prima, per richiedere un’accelerazione della ricerca, ritenendo che già la sola notizia del rintraccio avrebbe calmato la sua ansia. Gli dissi dunque che avrei dovuto comunicarle che il rintraccio aveva avuto esito positivo perché nel pomeriggio di quello stesso giorno, subito dopo che Clotilde ebbe lasciato il mio ufficio, era pervenuta al Tribunale la notizia trasmessa dal Servizio sociale che la madre biologica consentiva alla rimozione del segreto. Avrei fatto osservare alla figlia che le notizie avrebbero anche potuto ulteriormente turbarla, e perciò, se avesse voluto, avrebbe potuto farsi accompagnare dallo psicologo o da un’amica, o rimandare l’incontro, o persino rinunziarvi del tutto. Era però doveroso da parte mia comunicarle che la donna era stata rintracciata. 192­­­­

Il padre andò via alquanto contrariato per la mia posizione di chiusura alle sue istanze, che di tutta evidenza gli era apparsa troppo rigorosa. Pensai, comunque, che l’incontro con una donna di così diverse condizioni sociali, in una situazione di evidenti difficoltà economiche, avrebbe potuto causare alla ragazza non dolore ma un senso di non appartenenza, perché mi era apparsa alquanto autocentrata e indifferente a un mondo che non era il suo; questo senso di non appartenenza avrebbe potuto aiutarla a rimuovere tutto ciò che la conoscenza della sua condizione di adottiva le aveva causato in termini di disagio psicologico ed esistenziale. L’indomani disposi la convocazione di Clotilde per comunicazioni urgenti. Dopo qualche giorno la ragazza chiamò la mia segreteria, e le dissi di passare nel primo pomeriggio con il suo avvocato. Quando entrò, il suo solito profumo di gran classe inondò la stanza. Le comunicai che il rintraccio aveva dato esito positivo e che, se avesse mantenuto ferma la sua volontà di incontrare la donna che tanti anni prima l’aveva partorita, sarebbe stato possibile incontrarla, perché la donna era d’accordo a rimuovere il segreto. Ribadii che, comunque, era sempre possibile per lei revocare la sua decisione; l’avvocato le confermò le mie parole, suggerendole di pensarci su ancora durante il fine settimana e che, se avesse rinunziato, sarebbe stato lui a comunicarlo al mio ufficio. La ragazza rispose con voce sicura: «Voglio vederla e parlarle; so che mio padre è venuto da lei perché non vuole questo incontro. È la prima volta che non gli ubbidisco, ma devo sapere e devo vedere per smettere di pensare a chi veramente sono, da dove vengo e perché sono stata abbandonata». L’incontro fu deciso per il pomeriggio del lunedì successivo. L’assistente sociale avrebbe accompagnato a Roma la donna che aveva rimosso il segreto; la ragazza sarebbe venuta con il padre, il quale però sarebbe rimasto in sala d’attesa, a meno che Clotilde non avesse fatto esplicita richiesta della sua presenza. 193­­­­

*** Entrò per prima la ragazza, si sedette e mi disse che il padre era molto teso e che le aveva trasmesso un’ansia che la stava estenuando. Le dissi di calmarsi e le ordinai una tazza di camomilla, ma le consigliai di berla fredda, in quella torrida giornata di fine luglio, quando il sole brucia e le auto ingolfate nel traffico rendono l’aria ancora più pesante. Il giudice onorario cominciava intanto a prepararla: «Spesso l’incontro può essere diverso da come ce lo aspettiamo..., anche per noi che lo prepariamo a volte accade l’imponderabile..., c’è sempre qualcosa che uno di noi può non aver previsto...». Prese la parola l’assistente sociale, alla quale avevo chiesto di riferire come la madre aveva reagito alla proposta di rimuovere il segreto: «Sua madre non ha mai pensato di abortire, pur sapendo che non avrebbe potuto tenerla con sé per motivi familiari; le avevano assicurato che avrebbero affidato la sua creatura alla migliore famiglia possibile. Lei si è fidata della suora che la seguiva e ha lasciato la sua bambina nell’ospedale, consapevole che il suo destino sarebbe stato di gran lunga migliore di quello che lei poteva assicurarle, date le sue condizioni personali e familiari. Ha sessant’anni, fa dei lavoretti a domicilio, e vive al momento da sola in un monolocale in una località in provincia di Bologna. Ha accolto subito la proposta di rimuovere il segreto volendo rassicurarsi che la figlia stesse bene». Clotilde sembrò abbandonare ogni espressione, mentre guardava verso la porta che di lì a poco si sarebbe aperta perché l’assistente sociale era uscita per introdurre la donna che aspettava di là, nella saletta adiacente il mio ufficio. Quando la donna entrò la ragazza non si alzò in piedi; fui io ad alzarmi e a porgerle la mano invitandola a sedersi. Purtroppo la donna si presentava disordinata e quasi sciatta nella persona e nell’abbigliamento; forse il viaggio in treno nella calca estiva aveva contribuito a dare di lei una immagine, a dire il vero, poco gradevole; con lei entrò l’odore forte di un profumo di 194­­­­

pessima qualità, del quale si era inondata. Si lasciò cadere sulla sedia; guardò estasiata la ragazza seduta di fronte a lei, e rivolta a noi domandò: «È lei mia figlia? Questa bella signorina..., questo figurino di Parigi...». Le sorrise, scoprendo una bocca cui mancavano molti denti, ma i suoi occhi esprimevano felicità, e tra le lacrime cominciò a parlare a scatti, con accento marcatamente emiliano: «Sono contenta di vederti, figlia mia..., di vedere che stai così bene..., che sei così bella ed elegante... Non ti avrei mai abbandonato se avessi avuto le possibilità... Vedi, tuo padre beveva, e quando beveva menava, e se ti portavo a casa menava pure a te...». Così dicendo si tolse il grande foulard che le copriva la testa, e mostrò al centro l’assenza di capelli e una brutta cicatrice; e continuò: «La macchinetta del caffè bollente sbattuta sulla mia testa... perché me l’ero dimenticata sul fuoco... e lui aspettava la sua tazza di caffé... Capisci..., era ubriaco..., perché aveva mangiato e bevuto troppo... E se c’era la bambina... No, una bambina non poteva entrare in quella casa... Avevo sempre evitato di avere un figlio... Tu sei nata per errore, e ti ho voluto salvare da una vita difficile... Gli ho nascosto la gravidanza fino all’ultimo. Dal terzo mese sono andata da mia sorella a Milano, dicendogli che stava male e dovevo assisterla. Figuriamoci se ti avessi portata con me! In cuor mio sapevo che avresti avuto una famiglia normale, e ora capisco che stai bene, tirata a puntino, e che intorno hai tutte le cose belle che io vedo solo nelle vetrine... A volte mi incanto davanti a quelle belle cose, e sono felice che tu le puoi avere, sono proprio felice che mia figlia può avere tutto quello che non ho avuto io... Grazie che hai chiesto di incontrarmi, perché ora ho almeno un motivo per essere felice...». Di fronte a lei Clotilde era rimasta immobile, inespressiva, assente, forse confusa, quasi impietrita. Mi rivolsi a lei chiedendole cosa volesse dire a chi le aveva dato la vita e immediatamente dopo l’aveva salvata dal rischio sicuro di diventare la piccola vittima di un padre violento. La ragazza non rispose, non fu capace di prendere la mano alla donna 195­­­­

che le era di fronte e di dirle semplicemente grazie, senza neanche aggiungere la parola mamma...; non ne fu capace. Recuperò rapidamente dal divano la sua borsa Louis Vuitton, fece verso noi tutte un rapido cenno di saluto con la mano, come una diva, e uscì. Uscì senza neanche una parola rivolta a quella donna che aveva sofferto tutta la vita e che le aveva risparmiato una vita simile alla sua; uscì così, in silenzio, un silenzio che però gridava rabbia e che avrebbe risuonato a lungo in chi era stato presente e aveva constatato la mancanza di umanità, l’assenza di sentimento... L’anziana donna restò seduta e, asciugando le sue stanche lacrime, disse: «La capisco..., appartiene ad un altro mondo e non vuole sapere cosa c’è dall’altra parte... Ha paura, mi dispiace che sia rimasta male..., ma la verità è così, quasi sempre fa male...». Le dissi che probabilmente la ragazza, superato l’iniziale disorientamento, sarebbe tornata da me per chiedermi di fare un altro incontro. Lei rispose: «Sono sicura che non tornerà perché non vuole vedere... Ma vi ringrazio perché ora so che sta bene e non le manca niente. Se dovesse tornare ditele che ho voluto l’incontro ma non desidero altro; comunque l’assistente sociale ha il mio nome e il mio indirizzo, perché ormai il segreto l’ho rimosso». Salutò tutte noi e disse all’assistente sociale che l’avrebbe aspettata per il ritorno al binario del treno. Appena la donna fu uscita, Clotilde rientrò e mi disse d’un fiato: «Presidente, non le ha mica detto il mio cognome, dove abito, insomma qualcosa per cui mi può rintracciare...». La guardai intensamente, e ritengo che avesse compreso dal mio sguardo ciò che pensavo perché continuò: «Lo dico per mio padre, non vorrei che se la ritrovasse sotto casa...». «Non temere» le dissi, «non mi ha chiesto proprio nulla di te, le è bastato vederti; ha capito che stai bene, questo le è bastato». Poi entrò il padre e mi chiese: «Mi conferma, Presidente, che la donna non conosce il nostro indirizzo? Mia figlia è così confusa...». «Ve lo confermo» esclamai. «Ora potete 196­­­­

andare via tutti e due». Il padre di rimando: «Se non le dispiace vorrei attendere ancora un po’ per essere sicuri di non incontrarla». «Attendete fuori, per cortesia...». Questa storia lasciò me, il giudice onorario e l’assistente sociale con molto più che l’amaro in bocca. Riflettemmo molto sulle modalità dell’incontro di Clotilde con la madre biologica, e alla fine le interpretammo come essenzialmente dovute al fatto che una persona partorita in anonimato può costruirsi un mondo fantastico, mitizzando le proprie origini in una visione del tutto avulsa dai fatti, così che, quando poi quella realtà le si presenta con la forza della concretezza e della verità, la sua accettazione diventa quasi impossibile, e il suo rifiuto diventa l’unica via di scampo. Il crollo della rappresentazione fantastica mitizzata da Clotilde, e vissuta pensando che la madre biologica fosse bella e attraente come la sua mamma adottiva, le aveva provocato uno shock insopportabile, che la giovane non era in grado di metabolizzare nell’immediato. Tuttavia non potemmo fare a meno di rilevare come e quanto l’influenza del padre e la sua presenza il giorno dell’incontro avesse condizionato la reazione di Clotilde. In ogni caso, al di là di ogni lettura psicologica, fummo tutti d’accordo sul fatto che non aver capito un atto d’amore così grande, non aver sentito neppure il bisogno di prendere la mano della donna che le aveva dato la vita e dirle grazie denotava una evidente mancanza di sensibilità e di capacità di relazionarsi con le persone diverse da lei, una patologica carenza di slanci vitali che sicuramente avrebbe reso la vita di Clotilde molto problematica nei suoi rapporti con gli altri, se non fosse nel tempo cambiata. Forse un giorno, divenuta mamma, avrebbe potuto capire...

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Così vicine così lontane

Amelia è una ragazza adottata, nata da parto anonimo. È affetta da una patologia di non lieve entità alla vista a carattere ereditario, e ogniqualvolta un oculista chiedeva chi della famiglia avesse il medesimo problema e come si fosse evoluto, la madre, in grande difficoltà, rispondeva di non sapere nulla al riguardo. E sulla via del ritorno si riprometteva ogni volta di rivelare alla figlia la sua condizione di adottiva; e arrivata a casa, ne riparlava con il marito, che la convinceva a rimandare. Quando Amelia aveva quattordici anni i suoi genitori si separarono, e il padre andò a vivere con una compagna dalla quale poi ha avuto un bambino. Amelia mantenne comunque i rapporti con lui, che ogni giorno la prelevava da scuola e l’accompagnava a casa dalla mamma. Amelia apprese di essere figlia adottiva soltanto dopo la separazione dei genitori, anche se la sua curiosità e la sua perspicacia le avevano fatto notare tante piccole “stranezze”: la mancanza di foto della mamma col pancione, che tutte le mamme hanno sempre nei loro album; o del suo battesimo, benché questo tipo di cerimonia fosse stato sempre occasione di festa grande nella sua famiglia. Tanto che una volta, in occasione del battesimo della figlia di zia Laura, ebbe modo di chiederle se era stata presente al suo, e come mai non c’erano foto di gruppo di quella giornata. Zia Laura rispose: «Chiedilo a mamma, mi pare che lo hanno fatto celebrare per devozione in una chiesa lontana dalla nostra, in un’altra città...». Questa risposta le sembrò posticcia, anche perché non spiegava affatto la mancanza di foto. 198­­­­

Un pomeriggio di un’estate molto calda, in cui sentiva il bisogno di frescura, Amelia entrò con un’amica in un cinema dove si proiettava un film intitolato Il colore dell’amicizia. Il film trattava di una ragazza di colore adottata da una famiglia inglese, e narrava come questa bambina non riuscisse ad integrarsi: aveva otto anni e faceva a sua madre molte domande, a cominciare da quelle relative alla non somiglianza con le figure genitoriali e parentali, e soprattutto al colore della pelle. Una volta tornata a casa Amelia – che pure quelle domande sulla non somiglianza se le era fatte tante volte dentro di sé – interrogò insistentemente sua madre, chiedendole perché non assomigliava affatto né a lei né al padre. La madre cercò di rassicurarla dicendole che, se anche fosse stata una figlia adottiva, nulla sarebbe cambiato, lei sarebbe restata sempre la sua mamma e Filippo il suo papà, perché entrambi l’amavano e volevano soltanto il suo bene. Ma un giorno, di poco successivo alla avvenuta separazione tra i genitori, la ragazza ebbe con sua madre una discussione per futili motivi, nel corso della quale i toni si accesero come mai era avvenuto prima; e fu allora, in quella occasione, che sua madre le rivelò il suo stato di figlia adottiva. Glielo diceva cercando di abbracciarla, mentre Amelia cercava di sottrarsi e le chiedeva di dirle tutta la verità sulle sue origini, di rivelarle tutto ciò che sapeva e le aveva da sempre taciuto. Seppe così quelle poche notizie che erano state riferite ai suoi genitori al momento dell’adozione: era nata dall’unione di due ragazzi, troppo giovani per assumersi la responsabilità di crescere un figlio; la ragazza aveva rifiutato di abortire e preferito darle la vita, pur nella consapevolezza che sarebbe stata costretta a lasciarla subito dopo la nascita. Quella rivelazione provocò ad Amelia «un grande gelo dentro» – come avrebbe poi avuto modo di riferirmi – e rivide in un attimo, come in una moviola più veloce del vento, tutta la sua infanzia come una grande bugia, mentre la madre cercava invano di tranquillizzarla. Ci volle molto tempo per riprendersi da quella sensazione di abbandono alla quale il segreto sulla sua nascita la ri199­­­­

mandava; era come se quella sensazione si fosse impossessata della sua mente e del suo corpo, e non ci fosse più spazio per altri sentimenti, altri pensieri... Si risollevò quando comprese che la madre, più amorevole che mai in quel periodo così buio della sua adolescenza, era davvero la sua mamma perché le aveva dedicato tutta la sua vita, giorno dopo giorno, con amore e dedizione, cercando in tutti i modi di renderla felice: un ruolo al quale, comunque, la sua madre biologica, anche se costretta, aveva abdicato. *** Amelia, avvicinandosi ai diciotto anni, scoprì il crescente fermento intorno alla maternità biologica. Cominciò così a seguire le istanze che muovevano le persone partorite in anonimato, in nome del diritto alla conoscenza delle origini, e a documentarsi sul lavoro portato avanti dal Comitato nazionale per il diritto alla conoscenza delle origini biologiche; seguiva poi le campagne di informazione sul tema e le proposte parlamentari dirette a predisporre una nuova normativa successivamente all’abrogazione della legge dei cento anni, che imponeva appunto il passaggio di un tempo così lungo perché l’adottato partorito in anonimato potesse accedere alle origini. E siccome, come ogni ragazza della sua età, si muoveva benissimo su Internet, scoprì che alcuni Tribunali, tra i quali quello competente per la sua residenza, accettavano le istanze di persone che chiedevano il rintraccio della donna che le aveva partorite in anonimato. Così presentò immediatamente la sua domanda per conoscere le proprie origini. Fece tutto da sola; scoprì che era facilissimo, perché bastava riempire un modulo e allegare il certificato di nascita e quello di residenza. Ma, poiché aveva solo diciotto anni e non venticinque, aveva indicato il motivo sanitario per cui intendeva anticipare la conoscenza delle informazioni, ritenendo di potersi uniformare a quanto previsto dalla legge per le persone riconosciute alla nascita, 200­­­­

anche perché aveva saputo che praticamente tutte le forze politiche presenti in Parlamento erano ormai orientate a prevedere che il diritto alla conoscenza delle origini da parte delle persone nate da parto anonimo si sarebbe acquisito con la maggiore età. Amelia decise così di voler conoscere tutto ciò che riguardava la donna che l’aveva partorita in anonimato, ivi compresa la sua storia personale e familiare, sempre ovviamente che accettasse di rimuovere il segreto. Il collegio che esaminò la domanda rilevò che Amelia era fidanzata e frequentava l’ultimo anno dell’Istituto professionale alberghiero. Inoltre prese atto del problema sanitario non lieve da cui la giovane era affetta; della sua piena consapevolezza che sollevare il velo del segreto sulle origini avrebbe potuto anche causarle una forte delusione; del sostegno psicologico disponibile da parte della madre, ma anche del padre, nonostante la separazione. Fu deciso, perciò, che si poteva procedere al rintraccio. *** Partirono subito le indagini, che in questo caso apparvero al nostro poliziotto alquanto semplici rispetto alle altre; avrebbero tuttavia richiesto un certo tempo, perché si accertò lo stato di gravidanza di Mariella, la madre biologica, il che ci imponeva di aspettare la nascita e lo svezzamento del bambino per evitare che la richiesta di rimuovere il segreto sulle origini e di un eventuale successivo contatto potesse causare ansia per il riaffiorare di memorie sepolte in una donna che, nel periodo della gestazione, ha assoluto bisogno di tranquillità e riposo mentale per vivere con serenità e gioia l’attesa del figlio. Ma la notizia ancor più sorprendente dello stato di gravidanza fu che Mariella abitava nella stessa cittadina dove viveva Amelia, addirittura a pochi isolati di distanza, tanto che qualcuno di noi ritenne che la variazione di residenza 201­­­­

fatta dalla donna qualche anno prima potesse essere motivata dalla volontà di seguire la “figlia” da lontano, avendo sempre saputo, o avendo nel corso degli anni appreso, dove abitava. La relazione del Servizio sociale era molto dettagliata e approfondita e, tra l’altro, faceva riferimento ad un’assistente sociale che aveva a lungo seguito la ragazza allorquando si scoprì incinta. Questa assistente sociale era allora in pensione; ne chiesi il recapito telefonico per sapere qualcosa di più. Lei ci riferì che il ragazzo, di poco più grande di Mariella, con cui Amelia era stata concepita si dileguò immediatamente appena seppe della gravidanza, sottraendosi così ad ogni responsabilità. D’altra parte i genitori di Mariella non avevano mai approvato il suo legame con lui giudicandolo, a giusta ragione, immaturo e irresponsabile; per questo motivo convinsero la figlia a non riconoscere il nascituro, anche perché quel ragazzo, che non si sapeva dove fosse, sarebbe un giorno potuto tornare e “dare fastidio”, causando così a Mariella imprevisti e difficoltà. Così, in questa situazione di abbandono da parte del ragazzo e di contrasto con la sua famiglia, alla giovanissima madre – non aveva ancora raggiunto la maggiore età – non restò che obbedire alla volontà dei genitori e lasciare in ospedale la bambina senza effettuarne il riconoscimento, perché potesse avere sin da subito una famiglia adeguata e amorevole che l’avrebbe responsabilmente cresciuta, anche se – mi precisò molto chiaramente quell’assistente sociale –, qualora Mariella avesse potuto fare affidamento sull’aiuto dei genitori, non l’avrebbe mai lasciata. Mariella però, sebbene costretta dalle circostanze a lasciare la sua bambina, continuava a rivolgersi alla sua assistente sociale per avere notizie della sua piccolina, dove si trovava, come stava, fin quando non seppe che era stata collocata presso la famiglia che l’avrebbe adottata. Aveva chiesto ripetutamente una foto, ma le era stato riferito che non era possibile. Sembrava essersi rassegnata; ma di tanto in tanto chiamava la sua assistente sociale e le confessava che spesso 202­­­­

le tornava alla mente quella neonata lasciata in una culletta di ospedale, e implicitamente chiedeva di essere rassicurata, voleva sentirsi ripetere che stava bene, che cresceva bene... L’assistente sociale ad un certo momento le disse con una certa fermezza che non sapeva, e non avrebbe mai potuto sapere, dove si trovava e come stava la bambina, ma che sicuramente la coppia adottiva le avrebbe assicurato quanto necessario alla sua crescita in termini di cura e amore. A seguito di ulteriori indagini del Tribunale ai fini del contatto con la madre biologica appresi poi che Mariella si era successivamente sposata, ma non aveva avuto figli, e che dopo dieci anni di matrimonio aveva divorziato e si era unita ad un altro uomo, e che proprio in quel periodo aspettava un bambino da lui. *** Così attendemmo il parto di Mariella, e anche il primo periodo di allattamento, per dare il via all’assistente sociale di zona che avrebbe dovuto informarla sulla richiesta avanzata da Amelia, sottolineandole anche il motivo sanitario che l’aveva spinta a tanto. Nel frattempo io e il giudice onorario incaricato avevamo molto riflettuto sulle considerazioni espresse dall’assistente sociale che all’epoca dei fatti si era occupata del caso: ci aveva infatti manifestato la sua titubanza nell’andare avanti con la procedura di interpello, ritenendo che riportare alla luce un dolore così forte poteva essere pregiudizievole per la donna, che peraltro aveva già tanto sofferto all’epoca. Le spiegammo che ora questa modalità era possibile perché una sentenza della Corte Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale la legge dei cento anni; ciononostante il suo atteggiamento restò di totale non condivisione. Spesso ci siamo trovati a ragionare e a confrontarci su tali interrogativi: è vero che ricordare antichi dolori è come viverli di nuovo, ma abbiamo sempre ritenuto che sarebbe una violenza sostituirsi alla 203­­­­

possibile volontà di ripensamento dei soggetti coinvolti, motivazioni peraltro chiaramente espresse nella sentenza della Corte Costituzionale. Quando finalmente l’assistente sociale poté contattarla, Mariella manifestò da subito grande contentezza, dichiarandosi felice di rimuovere il segreto. Infatti, venuta in udienza, riaffermò la sua volontà: «Se ho sbagliato la prima volta, quest’oggi sicuramente non posso sbagliare di nuovo...». Riferì anche all’assistente sociale che spesso il suo pensiero era andato, nel passato, a quella bambina, e che ne aveva altrettanto spesso parlato con il suo compagno, il quale la confortava e la sosteneva con affetto; vedeva, ad esempio, che quando insieme incontravano la sorella di lui, che aveva la stessa età di quella bambina, Mariella non poteva fare a meno di rivolgere a lei i suoi pensieri per chiedersi: «Ma dove sarà? Cosa farà? Sarà una studentessa...». Così anche lui era stato felice del “ritrovamento”. Mariella confidò pure all’assistente sociale che sperava tanto che la ragazza non avesse mai provato rancore verso di lei per non averla tenuta con sé, e che potesse capire il suo tormento in quella situazione così difficile, aggiungendo che in cuor suo aveva sempre sperato che la famiglia adottiva l’avrebbe curata e amata, come avrebbe fatto lei stessa se le fosse stato possibile... Sperava che fosse aperta di carattere come era lei, propensa alla mediazione nelle situazioni difficili, e che tenesse nel debito conto come, nel corso degli anni, aveva sempre pensato a lei, a come avesse vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza restandole, per quanto possibile, vicina con il pensiero. Concluse riferendo di un sogno: sua “figlia” entrava nel suo negozio, e poi... poi l’emozione era stata così forte che si era svegliata di colpo; e aveva pensato all’incontro che ci sarebbe stato dopo qualche giorno... Quell’incontro la rimestava tutta, interrogandosi anche su come Amelia si sarebbe presentata fisicamente: alta, perché il ragazzo con cui l’aveva concepita era molto alto, bella, buona, conciliante come lei... Non vedeva 204­­­­

l’ora di poterla tenere tra le braccia e sentirla raccontare di sé, dei suoi studi, delle sue esperienze... Dopo alcuni giorni, nel mio ufficio, ebbe luogo l’incontro. Amelia e la sua mamma adottiva entrarono per prime. Erano entrambe molto emozionate, al limite della fibrillazione, come sempre accade alla fine di quel viaggio avventuroso che è la ricerca delle origini: il traguardo raggiunto determina nelle persone un’ansia ancora più forte di quella avvertita nel corso del viaggio medesimo. In generale, l’incontro tra madre biologica e figlio avviene in presenza del Presidente del Tribunale e del giudice onorario; talvolta vi assiste anche l’assistente sociale se lo si ritiene necessario per motivi particolari che attengono al caso specifico. Ma quella volta lasciammo che anche la madre adottiva fosse presente perché desiderava quanto la figlia questo riavvicinamento, forse perché separata e protesa ad assicurarle altre sponde di appoggio per il futuro... L’incontro tra Mariella e Amelia fu estremamente emozionante, e anche tutto il contesto era connotato da forte empatia. Le due donne si abbracciarono con slancio, e all’abbraccio si unì anche la madre adottiva. Le due madri iniziarono a ringraziarsi a vicenda, l’una per avere dato alla luce la sua bambina, e l’altra per averla cresciuta così bene! Fu un momento di comunione e di estrema generosità dell’una verso l’altra, che faceva fin da subito capire la grandezza dei loro sentimenti: una testimonianza di fratellanza e solidarietà da parte di tutte e tre, molto lontana dalla esasperata competitività, anche negli affetti, che talvolta caratterizza i rapporti fra donne. Cominciarono a parlare come se si fossero conosciute da sempre. Ci rendemmo immediatamente conto come la madre adottiva fosse protesa a facilitare il consolidamento di quella relazione che allora appena iniziava, quasi a voler assicurare alla figlia, come del resto avevamo intuito, una protezione affettiva in caso di sua scomparsa o malattia. Le donne si confrontarono pure sulla patologia che Amelia accusava ad un occhio, e la ragazza seppe che anche la nonna biologica aveva 205­­­­

sofferto della stessa malattia. La madre biologica la rincuorò dicendole che oggi le tecniche mediche sono di gran lunga migliorate, e basta farsi seguire da uno specialista con adeguata frequenza. Le parlò a lungo del piccolino nato da poco, sottolineando che quel bambino era il suo “vero” fratellino, mentre il figlio del padre adottivo era solo il suo fratellastro. Era tuttavia evidente che con questa sottolineatura Mariella aveva solo voluto dire che il suo bambino aveva con Amelia un legame genetico più forte, non che Amelia non potesse amare entrambi con eguale trasporto e tenerezza. Intanto la madre adottiva benediceva il Signore che aveva mosso i fili perché le loro vite si incontrassero... *** Dopo alcuni mesi dall’incontro così tanto desiderato, Amelia raccontò al giudice onorario che il giorno stesso, all’uscita dal Tribunale, Mariella l’aveva invitata con sua madre a casa dei suoi genitori, dove iniziarono subito a vedere le foto di famiglia, e risero tutte di cuore per la forte somiglianza tra Amelia e Mariella: sembrava incredibile, due gocce d’acqua! E Amelia si ricordò di quanto la mancata somiglianza con i suoi genitori l’aveva tormentata nell’infanzia, riconoscendo finalmente adesso come la somiglianza confermata fosse rassicurante, al di là di tutto. La sera stessa la mamma adottiva organizzò a casa sua una cena per conoscere il bambino nato da poco e il compagno di Mariella, che si dimostrò da subito capace e felice di accogliere questa nuova condizione familiare. Mariella e Amelia sono riuscite successivamente a superare anche momenti di difficoltà, quando hanno raccontato i fatti accaduti alle rispettive famiglie; tuttavia tali difficoltà sono poi apparse come dovute più a condizionamenti e timori personali che a problemi reali. I rapporti tra le due mamme e Amelia con il tempo si sono sempre più consolidati; l’amore per quella che può definirsi “loro figlia” ha portato 206­­­­

di fatto alla genesi di un “nuovo modello familiare”, tutto da costruire e vivere, nella consapevolezza che la verità ha portato finalmente, a tutte loro, uno stato di benessere così tanto atteso. Emerge ancora una volta, da questa storia, il tema della ricerca della somiglianza che la donna fa nel volto della madre ritrovata, e come la constatazione della somiglianza faciliti il rapporto tra le due donne, indipendentemente dalla differenza di età, riducendo e quasi annullando la lontananza protrattasi nel tempo. Allo stesso modo, in tutte le storie in cui è avvenuto tra le due donne un immediato riavvicinamento la somiglianza si è rivelata un elemento caratterizzante, presente e sentito, che ha reso possibile una immediata fluidità del rapporto nel rispetto dei rispettivi e reciproci sentimenti. In sintesi, la somiglianza fonda il senso di appartenenza e crea nuovi legami.

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Rintraccio “fai da te”

Ho conosciuto Michela agli inizi degli anni Novanta. Mi contattò per avere aiuto nella ricerca delle sue origini telefonandomi al Tribunale per i minorenni di Napoli dopo aver ascoltato una mia intervista in cui contestavo il segreto sulle origini, e mi chiese un incontro a Roma, dove frequentemente mi recavo per le riunioni del Consiglio direttivo dell’Associazione dei magistrati minorili. Le diedi un appuntamento, e da allora ci siamo sempre mantenute in contatto. Le ho chiesto di raccontarmi ordinatamente tutto il suo personale iter investigativo; ne è venuta fuori questa storia. *** La storia di Michela si caratterizza per quel sentimento indistinto, di certo non razionale, ma continuo e persistente, segnalato da quasi tutte le persone venute da me in Tribunale sia a Roma sia a Napoli per richiedere il rintraccio della donna che molti anni prima le aveva messe al mondo senza però averne effettuato il riconoscimento alla nascita. Si tratta del sentimento di non appartenenza da sempre alla famiglia. Perché mancavano le foto della mamma col pancione, come quelle che la zia Lina aveva sul cassettone? Perché non si trovava nessuna foto di quando era piccina, nella culla o nel passeggino? Quando con i genitori andava ad una festa di battesimo, vedeva che il bambino veniva fotografato tante volte, anche da suo padre, anche se quel bambino non era suo figlio; «Ma allora perché a me non ha fatto neppure 208­­­­

una foto?». Quando faceva questa domanda, le dicevano che c’era stata una grande festa per il suo arrivo, e anche per il suo battesimo; eppure nessuna foto... Michela è stata sin da piccola una grande osservatrice, potremmo dire una grande esploratrice, e molto presto si avvide che c’era qualcosa che nessuno le aveva mai detto; ne ebbe la sensazione sin dal momento in cui fu iscritta all’asilo, e poi lo comprese sempre più chiaramente nel suo percorso di crescita dall’infanzia alla preadolescenza. La prima persona cui si rivolse fu Giorgio, il suo cugino preferito, al quale era particolarmente legata perché le loro famiglie si incontravano frequentemente; era perciò facile parlare e mantenere con lui un filo nel discorso, così che ad ogni incontro poteva fargli qualche domanda sulla famiglia. Aveva successivamente iniziato a chiedere agli zii, ma vedeva strane espressioni, e le sue domande ricevevano risposte incerte e imbarazzate. Si chiedeva cosa stesse succedendo intorno a lei, cosa le stessero nascondendo. «Perché» si chiedeva «quelle facce confuse e disorientate alle semplici e innocenti domande di una bambina incuriosita, che vuole solo sapere qualcosa in più sui suoi primi anni di vita?». E con il passare del tempo si sentiva sempre più inquieta, tanto da decidere un giorno di prendere in mano la situazione: una volta che, ormai maggiorenne, era rimasta sola in casa ed era sicura che nessuno sarebbe tornato prima del pranzo perché i suoi genitori erano partiti per Roma, iniziò a cercare in giro, nei cassetti che il papà teneva chiusi a chiave e nell’armadio della mamma, aprendo scatole e scatolini. Ad un certo punto le venne in mente di aprire una vecchia cassa dove sua madre teneva la biancheria particolare del suo corredo; era chiusa, ma lei sapeva bene dove era conservata la chiave perché ogni tanto sua madre l’apriva per far prendere aria alla biancheria. Dopo averla svuotata, trovò nel fondo una grossa busta bianca un po’ ingiallita; fu subito sicura che si trattava di documenti importanti, nascosti con cura perché nessuno li potesse trovare; forse là dentro c’era qualcosa che l’avrebbe 209­­­­

aiutata a capire... E infatti c’erano alcuni certificati sanitari di tanti anni prima che riportavano un nome e un cognome che non conosceva, ma con una data e un luogo di nascita identici ai suoi! Chi era quella persona? Di chi era quel nome mai pronunziato in casa sua? Chi era quella bambina nata a Roma nel suo stesso giorno? Pazzesco, pensò Michela: «Fu un attimo intenso, rapidissimo che sembrò infinito, in cui mi sentii morire..., in quell’attimo ebbi la sensazione che la mia anima abbandonasse il corpo per salire verso l’alto e da lontano osservasse la scena che stavo vivendo... Una sensazione indescrivibile: era mio quel nome che non conoscevo, ero io quella sconosciuta il cui nome era trascritto su quel documento; sì, dovevo essere proprio io!...». Da quel momento mille domande iniziarono ad assillarla; ma soprattutto si chiedeva perché nessuno le aveva mai detto nulla, nessuno l’aveva mai aiutata a capire; avrebbero dovuto dirle che era stata adottata!... Perché mantenere il segreto sulle origini, segreto che prima o poi sarebbe comunque emerso e avrebbe inciso, complicandoli, sui rapporti familiari? *** Michela inizialmente non disse nulla ai genitori, combattuta tra incertezza e desiderio di sapere; e, nonostante avesse ormai raggiunto i vent’anni, non sapeva come risolvere quella difficile situazione. In fondo, aveva vissuto un’infanzia gioio­ sa, una vita serena in una famiglia stupenda, che le aveva dato tutto ciò che era stata in grado di darle, e anche di più; ma proprio quando si affacciava alla vita, frequentando l’Università e vivendo le prime esperienze amorose, in un attimo sembrava che tutto le fosse crollato addosso. Di un sentimento Michela era certa: l’amore per i suoi genitori era così grande e così vero che mai avrebbe potuto provare rabbia nei loro confronti, né tantomeno astio. Si sentiva però ferita, ed erano stati proprio loro a ferirla per non 210­­­­

averle svelato, quando era piccola, quel segreto che avrebbe accettato come una favola e che sarebbe restato più nel suo cuore che nella sua mente. Era sicura che lo avevano fatto per timore di perderla quando sarebbe stata adulta; seppe poi che erano stati consigliati in tal senso dal pediatra che la seguiva da bambina. Era invece arrabbiatissima con il resto della famiglia, non rendendosi conto che i parenti avevano il dovere di rispettare la volontà dei suoi genitori e non potevano fare altro che tacere; ma non lo capiva, non lo voleva capire, perché aveva bisogno di un capro espiatorio per potersi acquietare. Un giorno, non riuscendo a gestire da sola i suoi pensieri e le sue emozioni, chiese aiuto alla zia Maria, alla quale era particolarmente affezionata, per affrontare con i genitori l’argomento che tanto l’angustiava. La zia la seppe orientare e preparare al colloquio che avrebbe avuto come oggetto il bisogno della verità. In un incontro con me la giovane ricordò che il padre rimase impietrito e la madre, invece, scoppiò in un pianto irrefrenabile. Michela ebbe così la conferma che, come aveva intuito, il motivo del segreto era il timore di perdere l’amatissima figlia, perché anche allora, in quel momento, si mostrarono addirittura terrorizzati dal fatto che lei potesse abbandonare la casa. «Incredibile...» mi riferì Michela, «davvero incredibile, davvero strana la vita...», perché più ripeteva loro che si sbagliavano, che non c’era assolutamente quella possibilità perché li riconosceva come i suoi amatissimi genitori ai quali voleva un mondo di bene, e mai avrebbe voluto cambiarli con altri, e più essi manifestavano la loro paura di perderla. «Insomma» concluse Michela, «alla fine sono stata io a doverli consolare e a rassicurarli che nulla sarebbe cambiato tra noi». Ma in quel momento il punto per Michela era un altro: si poneva infatti le domande che prima o poi la maggior parte dei figli adottivi si fa: «Chi sono io? Chi mi ha messo al mon211­­­­

do? A chi somiglio?». E la cosa buffa è che davvero un po’ assomigliava a suo padre perché la conformazione del viso, l’altezza e gli occhi verdi erano identici; infatti non c’era chi, incontrandola insieme con il padre, non dicesse: «Mamma mia, quanto ti assomiglia tua figlia!». Purtroppo tutte le domande che poteva ormai rivolgere ai genitori erano destinate a non avere risposta, in quanto le avevano riferito di averla presa a Roma, nell’orfanotrofio di Villa Pamphili, che era nata al Policlinico Umberto I, e che nulla sapevano delle sue origini in quanto non era stata riconosciuta alla nascita. Allora Michela confessò alla mamma di aver rovistato nella cassa della biancheria e di avervi trovato un certificato di nascita con il nome di una bambina nata nel suo stesso giorno e anno e nello stesso ospedale, e di aver capito che si trattava proprio di lei, e si era chiesta se fosse quello il cognome della donna che l’aveva partorita. La madre le spiegò che, quando una neonata non viene riconosciuta dalla donna che l’ha messa al mondo, le viene imposto un nome ed un cognome di fantasia dall’ufficiale di stato civile del luogo di nascita. Quando poi la bambina viene adottata assume il cognome della coppia adottante; e anche il nome di battesimo può essere cambiato perché per la neonata non ha ancora assunto il carattere identitario. Così essi avevano deciso di darle il nome Michela, che a loro piaceva moltissimo, ed anche per devozione al Santo; tuttavia aggiunse che, se invece di poche settimane avesse avuto qualche mese, le avrebbero sicuramente lasciato quel nome. Era il 1991, e Michela così si sarebbe poi espressa: «Ennesima batosta dopo la batosta... In quel momento nella mia vita c’era solo una parola: caos». «A posteriori, con la maturità dei quarant’anni» mi ha riferito Michela in un colloquio che abbiamo avuto di recente, «devo dire che il mio percorso è stato davvero lungo e doloroso...»: una ricerca delle origini durata ben tredici anni ma che, dopo tante delusioni, l’ha portata finalmente alla verità. Michela riconosce di essere stata molto fortunata: negli anni 212­­­­

ha avuto tante “porte sbattute in faccia”, ma più quelle porte si chiudevano brutalmente davanti a lei e più quella ragazza smarrita e confusa sentiva dentro di sé crescere una forza che non aveva eguali, una caparbietà che, con l’aiuto di “alcuni angeli” incontrati durante il percorso e che ancora oggi sono presenti a proteggerla e sostenerla, l’ha portata, dopo tanto impegno, a sapere chi era e da dove proveniva. Michela dunque si definisce fortunata, a differenza di tante altre donne e uomini che ancora oggi soffrono perché non sanno nulla delle loro origini, pur essendo stata abrogata quella legge disumana dei cento anni. Lei, al contrario, è riu­ scita a sapere... nonostante tutto; ed è stata fortunata anche perché non ha mai ceduto allo sconforto e alla depressione nel percorso duro e doloroso che ha dovuto affrontare proprio negli anni più belli della vita di una ragazza. E di questo ringrazia il Signore. *** Le persone che si spesero sin dal primo momento per lei furono i suoi genitori: si offrirono immediatamente di aiutarla nella ricerca, e per prima cosa l’accompagnarono all’orfanotrofio di Roma dove dall’ospedale era stata trasferita. Quella struttura però era stata chiusa, e al suo posto c’erano degli uffici comunali. Fin da subito riuscì a parlare con una suora che vi era rimasta, per avere informazioni. Ma non ottenne nessun risultato: la suora era là da poco. Andò poi al Policlinico Umberto I dove era nata, e sul suo atto di nascita ritrovò quel nome e cognome trovato tanti anni prima nella vecchia cassa della biancheria, e lesse la terribile frase: “nata da donna che non consente di essere nominata”, che purtroppo segna nell’anima di chi legge la dolorosa sensazione di essere stata rifiutata fin dalla nascita... Sono emozioni che non si possono esprimere a parole, e che poi influenzano tutta la vita della persona, anche nei rapporti con gli altri. 213­­­­

Il percorso è stato poi pieno di appuntamenti: da una parte Michela tornava spesso a Villa Pamphili alla ricerca di informazioni, nella speranza di trovare qualche persona più umana che non le chiudesse la solita “porta in faccia”, dall’altra i suoi genitori cercavano, tra le varie conoscenze, qualcuno che potesse aiutarli nella ricerca. Io stessa, in occasione di un mio ritorno a Roma, mi resi disponibile ad accompagnarla a Villa Pamphili, dove erano custoditi i documenti relativi alle nascite in anonimato. Michela sperava che il mio ruolo avrebbe potuto facilitare l’ottenimento di qualche informazione, ma le spiegai che la mia presenza come magistrato non sarebbe stata di alcuna utilità, anzi il personale, di fronte ad una figura istituzionale, si sarebbe vieppiù irrigidito nella sua posizione intransigente. Così l’accompagnai come persona amica, e tentai di convincere la nostra interlocutrice a consultare il “mattoncino” – così denominavano l’incartamento relativo ad ogni bambino abbandonato nato a Roma dal dopoguerra in poi – relativo a una neonata partorita in un determinato giorno e a una determinata ora al Policlinico Umberto I, esclusivamente per verificare se la donna era italiana o straniera, e se era minorenne o no: due sole informazioni minime che sicuramente non avrebbero potuto portare allo svelamento dell’identità. La persona si allontanò e al ritorno ci disse: «È italiana e più che adulta». Io, in tutta sincerità, dubitai che avesse realmente consultato i documenti, e ritenni che aveva preferito dire qualcosa al solo fine di liberarsi della nostra insistenza. Anni dopo invece quelle notizie risultarono veritiere. Finalmente, dopo qualche tempo, qualcosa si mosse. Michela andò nella chiesa di via di Donna Olimpia dove venivano battezzati negli anni Settanta i bambini abbandonati, e riuscì a rintracciare la donna che le aveva fatto da madrina al battesimo: una signora sarda che però non ricordava nulla della sua storia, ma che la mise in contatto con un’altra donna che aveva lavorato a Villa Pamphili, la quale, ancora una volta, non seppe fornirle alcuna ulteriore informazione. 214­­­­

«Che emozione pensare che quella persona mi aveva tenuta in braccio al mio battesimo...; per me era un sentimento così forte, mentre era stato per quella donna un attimo della solita routine...; chissà quanti bambini vi erano passati, e di nessuno di loro aveva memoria...; per me fu, ancora una volta, una triste esperienza». Michela tornò poi a Villa Pamphili per incontrare una donna che le era stata indicata da un’amica di famiglia. E qui la prima svolta: quella donna le disse che ovviamente non poteva rivelarle il nome della persona che l’aveva partorita; le riferì però con sicurezza che proveniva dal Nord Italia, esattamente da Milano; che non era giovanissima perché aveva trentotto anni al momento del parto; che non era alla sua prima gravidanza. Furono le prime informazioni concrete acquisite da Michela, e per lei apprendere che aveva dei fratelli, come aveva tanto desiderato in quanto figlia unica, la rese felice. Rimase tuttavia ben consapevole che doveva ancora lottare a lungo per arrivare al traguardo, perché la legge “maledetta” era contro di lei, tutelava solo le mamme ma non i bambini che, una volta adulti, volevano giustamente sapere da dove venivano, quali malattie genetiche potevano essere state loro trasmesse, e tanto altro ancora: informazioni legittime, cui una legge spietata non consentiva loro di accedere. *** Gli anni passavano, e altre porte le furono dolorosamente “sbattute in faccia”: tante informazioni risultavano poi false, o poco importanti, e nessuna utile ai fini della identificazione di colei che le aveva dato la vita. Ad esempio, il fascicolo esistente in Tribunale non riportava nulla di significativo: qualcosa relativamente alle modalità del parto, al suo peso alla nascita e ai piccoli segni particolari evidenziati sul suo corpicino. Ma l’esperienza più dolorosa Michela la ebbe in occasione dell’incontro con una suora, tra l’altro originaria del suo 215­­­­

stesso paese, che si trovava allora a Villa Pamphili, parente, oltretutto, di amici di famiglia. Fu appunto per il loro tramite che i suoi genitori avevano potuto contattarla e fissare un incontro a Villa Pamphili. C’erano Michela, il suo fidanzato di allora e la madre che, come un angelo custode, non l’abbandonava mai. «Non dimenticherò mai la freddezza, la cattiveria, l’ostinazione con cui quella suora continuava a dire di non sapere nulla, nonostante le preghiere di mia madre. Era, invece, chiaro che lei era al corrente di tutto, ma aveva paura di parlare perché non si fidava di noi. Fino all’ultimo sperai nell’aiuto di quella donna che invece, dopo tante implorazioni, ci congedò bruscamente lasciandoci nel più assoluto disorientamento, anche perché le persone che avevano fatto da tramite ci avevano assicurato che avremmo risolto il problema. Io mi chiedevo: e questa sarebbe una suora? Non dovrebbe avere pietà di una ragazza e di sua madre andate là per essere aiutate a superare una situazione di così forte disagio psicologico? E perché, se non voleva aprirsi aggiungendo qualche informazione a quanto già sapevamo, ci aveva fatte andare fino a Roma? Non si rendeva conto che ci stava facendo tanto male?...». Una volta uscite, Michela ebbe una crisi di pianto e la povera mamma si sentì male; davvero una giornata da dimenticare, perché tutte le speranze erano nuovamente crollate! Questo episodio era avvenuto nel 2001. Pian piano, però, qualcosa si stava muovendo a favore di Michela, come un piccolo ingranaggio che si va rodando e lentamente arriva a regime, grazie soprattutto alla sua ostinazione e alla continua ricerca di qualcuno che potesse aiutarla, ma anche grazie alle persone che lei chiama “i miei angeli”. Nel 2004, grazie al suo fidanzato, lo stesso che l’aveva accompagnata dalla suora di Villa Pamphili e che le era stato accanto in tutti quegli anni bui e dolorosi, Michela conobbe finalmente la persona giusta che, a differenza della suora di villa Pamphili, con la sua umiltà e la sua disponibilità fece in 216­­­­

modo che tornasse finalmente a vivere. Si trattava di un portantino che lavorava al Policlinico Umberto I, il quale creò un contatto tra Michela e un dipendente dell’ospedale, che si commosse a tal punto da prometterle che avrebbe fatto il possibile per farle avere le notizie che lei cercava con tanta determinazione e da tanto tempo; e dopo alcune settimane il vecchio portantino si rifece vivo, e tra le mani aveva un semplice foglietto sul quale, scritto in stampatello con una bic di colore blu, erano riportati nome, cognome e data di nascita della donna da cui era nata. Michela non dimenticherà mai quel giorno; era con il suo fidanzato, e lesse e rilesse mille volte quel nome dal suono dolce ma deciso, che rapidamente le divenne familiare. Mi ha riferito di recente di non essere tuttora in grado di descrivere ciò che ha provato quando ha avuto in mano quel pezzo di carta che racchiudeva il segreto della sua nascita; le tornò in mente la documentazione ritrovata nella cassa della biancheria di sua madre: due pezzi di carta che dopo quasi tredici anni si integravano a vicenda... *** Tuttavia Michela si rendeva conto che non era ancora finita, anzi che sarebbe iniziata una nuova fase, anch’essa non facile, e cioè la ricerca di quella persona; ma si sentiva di affrontarla con rinnovata energia, ed era finalmente felice, perché la sua tenacia e la sua forza interiore avevano ottenuto un primo significativo, importante successo. Pensò di rivolgersi all’investigatore che aveva inizialmente contattato, anche se fino ad allora non le era stato di nessun aiuto, perché ormai aveva finalmente il nome della persona da rintracciare. L’investigatore per prima cosa decise di cercare tra le donne schedate, perché i soggetti in difficoltà purtroppo incappano spesso nelle maglie della giustizia. Ebbe una giusta intuizione. La ricerca portò alla individuazione di due persone che avevano lo stesso nome e cognome e la 217­­­­

stessa data di nascita. Una delle due aveva in quel momento una famiglia e una situazione regolare sotto tutti i punti di vista, e il reato commesso in anni lontani era di lieve entità; questa persona non si era mai mossa dal suo paese nel Sud d’Italia e perciò fu subito esclusa, in considerazione di quanto Michela aveva precedentemente appreso a Villa Pamphili, che la donna da rintracciare proveniva dal Nord Italia. L’altra persona invece era vissuta tra la Lombardia e il Trentino, aveva ripetutamente violato la legge e sul posto era nota per la sua condotta alquanto sbandata, perché si era accompagnata con uomini di pessima condotta morale. Non fu bello per Michela scoprire che quella donna si presentava con un passato alquanto burrascoso, trascorso a rubacchiare con il suo compagno di turno, spesso incinta, pensando forse che era più facile farla franca..., un po’ come nel famoso film di Sofia Loren Ieri, oggi, domani. Si trattava dunque di quella donna: era del Trentino ed era morta a sessantanove anni... «E lì mi cascò per la seconda volta il mondo addosso... Non potevo crederci..., ero arrivata tardi..., era tutto finito; in un attimo mi attraversarono la mente migliaia di se, di ma, di forse: se magari quella suora quel giorno..., se quella persona forse... Ma era tutto inutile, non c’era più nulla da fare, era morta..., e le mie tante domande sarebbero rimaste, almeno in parte, senza risposta...». Ma non tutto fu perduto. Michela già da tempo sapeva di non essere stata l’unico parto di quella donna, e non fu difficile per l’investigatore trovare in paese un’altra sua figlia, l’unica ad avere il nome della madre in quanto non adottata ma allevata adeguatamente dai nonni materni, persone per bene e stimate da tutti. L’investigatore contattò la presunta sorella di Michela informandola che la sua assistita le aveva dato mandato di trovare la donna dalla quale era stata partorita in anonimato, e che era giunto alla conclusione che la madre biologica della sua cliente era la stessa donna dalla quale la sua interlocutrice era nata; perciò proponeva un contatto. 218­­­­

L’incontro fra le due donne è rimasto indimenticabile nella memoria di Michela. Qualcuno della famiglia aveva avanzato l’ipotesi che Michela si sottoponesse all’esame del DNA; ma tutti rimasero immediatamente impressionati dalla sua grande somiglianza con la sorella ritrovata. E chi tagliò la testa al toro fu il marito della sorella: «Che bisogno c’è di fare il test? È uguale a lei..., benvenuta in famiglia!». È stato bellissimo per Michela ritornare poi nella sua casa in Abruzzo e stringere in un unico abbraccio i suoi genitori, finalmente felici perché la loro carissima figlia aveva finito di soffrire. Ma la storia non era ancora finita: a quel punto non fu difficile per l’investigatore trovare tutti i fratelli di Michela, che erano stati adottati da coppie residenti in tre diverse regioni. Michela è riuscita, progressivamente nel tempo, a contattarli tutti, li ha conosciuti unitamente alle loro famiglie, e continua a mantenere rapporti con loro. Michela ora è serena, svolge un lavoro gratificante, ha molti amici e continua ad essere vicina ai suoi genitori. Peccato però che, nel corso della ricerca dei fratelli, nella quale ha continuato ad investire tutte le sue risorse, ha perso il fidanzato storico, che l’aveva sempre sostenuta e aiutata nella ricerca della identità, fino al ritrovamento della sorella: forse ad un certo punto quel ragazzo ha avvertito una profonda stanchezza per il legame con una donna con la testa sempre altrove, e così il rapporto si è allentato fino ad interrompersi. Michela ne ha comunque elaborato la perdita, avendo acquisito non solo la sua identità genetica, ma anche la ricomposizione ideale della sua possibile famiglia di origine.

Appendice

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Il diritto alla conoscenza delle origini

Le storie raccontate nella seconda parte del libro condividono il tema della ricerca delle origini da parte dei figli adottivi divenuti adulti, ovvero della loro volontà di acquisire informazioni sulla donna che ha dato loro la vita e sulle situazioni estreme che hanno portato all’abbandono. In questa ricerca del passato sono spesso aiutati dai genitori adottivi, verso i quali continuano a mantenere sentimenti filiali. Per comprendere la difficile situazione in cui si trovano coinvolti i figli adottivi quando si rivolgono al Tribunale per i minorenni per avere informazioni sulle proprie origini, è necessario guardare brevemente alla normativa di settore. Il diritto alla conoscenza delle origini da parte dell’adottato deriva dalla volontà del legislatore di porre la verità alla base della storia familiare. Esso viene definito nell’art. 28 della seconda legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, come modificata dalla legge n. 149 del 2001. L’art. 28 impone ai genitori l’obbligo di informare il figlio sulla sua condizione di adottivo, lasciando comunque a loro la scelta di quando e come farlo, in funzione del percorso di maturazione del bambino. Si volle in tal modo arginare il fenomeno della rivelazione tardiva agli adottati, che il più delle volte avveniva in maniera casuale, persino nell’età adulta e da parte di soggetti terzi alla famiglia, producendo quanto meno turbamenti profondi, non di rado vere e proprie crisi esistenziali, essendo la mancata rivelazione da parte dei genitori adottivi vissuta come tradimento. Lo stesso articolo riconosce all’adottato il diritto alla co223­­­­

noscenza delle origini. Questo articolo però si riferisce esclusivamente al figlio adottivo riconosciuto alla nascita, il cui procedimento fu trattato dal Tribunale a seguito di segnalazione di grave disfunzione dell’ambiente familiare di appartenenza, valutata poi come abbandonica e irreversibile, e definito con la sentenza di adottabilità. Restano pertanto esclusi gli adottivi non riconosciuti alla nascita. L’art. 28 garantisce, dunque, all’adottato riconosciuto alla nascita che ha raggiunto il venticinquesimo anno di età la facoltà di adire il Tribunale per i minorenni competente per residenza al fine di richiedere le informazioni relative alle sue origini. Egli accede così al procedimento che lo ha riguardato molti anni prima; può così conoscere il nome di colei che lo ha partorito e le vicissitudini familiari che hanno indotto il Tribunale a dichiararne lo stato di adottabilità. Il figlio adottivo orfano di entrambi i genitori può chiedere l’accesso alle origini al raggiungimento della maggiore età, senza attendere il compimento dei venticinque anni. Non appare tuttavia totalmente condivisibile la scelta del legislatore di riconoscere all’adottivo la facoltà di accesso alle origini solo al compimento del venticinquesimo anno d’età e non al raggiungimento della maggiore età, limitandone così la capacità di agire pur trattandosi di un diritto fondamentale della persona ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Questa norma, valutata unitamente a quella per cui il figlio adottivo orfano di entrambi i genitori può conoscere le origini al diciottesimo anno d’età, fa ritenere che l’innalzamento a venticinque anni sia stato pensato nell’interesse dei genitori e non del figlio adottivo, per spostare in avanti nel tempo l’eventuale disagio relazionale che potrebbe insorgere nel contesto familiare a motivo della volontà del figlio di conoscere le proprie origini. Nell’ipotesi che l’adottato manifesti un grave problema di salute psicofisica sia i genitori adottivi di un figlio ancora minorenne, sia il figlio maggiorenne, e anche lo stesso medico curante possono presentare domanda al Tribunale minorile 224­­­­

per conoscere, ai fini dell’intervento terapeutico, le patologie familiari che eventualmente risultino dal procedimento relativo all’adozione. Il Tribunale si pronuncia con decreto dopo adeguata istruttoria, finalizzata a valutare l’esistenza dei gravi motivi. Se, invece, il richiedente non fu riconosciuto alla nascita dalla donna che lo aveva messo al mondo, avendo la stessa richiesto di partorire in anonimato, l’accesso agli atti giudiziari per ottenere informazioni sulle origini sarebbe vano. Infatti, in questo caso, il fascicolo custodito nell’archivio del Tribunale contiene soltanto la comunicazione dell’ospedale relativa alla nascita di un bambino nato da parto anonimo – cui l’ufficiale di stato civile ha dato un nome e un cognome di fantasia –, il provvedimento di affidamento preadottivo alla coppia prescelta per l’adozione e la sentenza di adozione. Il nome della donna che partorì tanti anni addietro non risulta negli atti giudiziari perché, avendo la gestante chiesto all’epoca di partorire in anonimato, il suo nome è coperto da segreto ed è custodito esclusivamente nell’archivio dell’ospedale ove avvenne il parto, conservato nella relativa certificazione. La mancanza negli atti giudiziari dei riferimenti anagrafici della donna che partorì in anonimato dipende dal fatto che l’accesso alle informazioni sulle origini è stato negato per legge agli adottivi nati da parto anonimo fino al 22 novembre 2013, come vedremo in seguito. Questa scelta del legislatore risale al periodo fascista, al 19391. Tale normativa affonda radici nella convinzione che andava data la massima tutela alla donna in attesa di un bambino che non avrebbe potuto allevare perché in situazione di estrema difficoltà, per sottrarla, in prima istanza, alla possibile decisione di abortire in tempi in cui l’aborto era per lo più procurato da persone non appartenenti alle strutture sanitarie, che mettevano a rischio la vita della donna, e, in seconda istanza, per indurla a partorire 1

Regio Decreto n. 1238 del 9 luglio 1939, art. 70 comma 1.

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in una struttura sanitaria, il che avrebbe assicurato alla madre adeguata assistenza medica e avrebbe scongiurato l’abbandono del neonato in luoghi insalubri o addirittura pericolosi per la sua sopravvivenza. Così l’ingresso della gestante in una struttura sanitaria avrebbe garantito la salute di entrambi e consentito alla donna di restare anonima per sottrarsi al giudizio della famiglia e del contesto sociale di appartenenza, che in quei tempi l’avrebbe esclusa, condannata e vituperata. Non fu previsto che la donna potesse rimuovere il segreto a seguito di un successivo ripensamento. Il principio è stato mantenuto nella normativa successiva2, fino a quando, da ultimo, il Codice in materia di protezione dei dati personali ha affermato nel 20033 che il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali identificativi della donna che ha dichiarato di non voler essere nominata, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse decorsi cento anni dalla formazione del documento. Questa normativa, che ha negli anni impedito ai figli adottivi nati da parto anonimo di accedere alle proprie origini, è caduta allorquando la Corte Costituzionale nel 2013 ha dichiarato incostituzionale la legge dei cento anni4, non sussistendo nella norma il necessario bilanciamento tra il diritto della madre biologica a mantenere il segreto e il diritto dell’adottato ad accedere alle informazioni sulle proprie origini. La Corte, quindi, ha prospettato al legislatore la possibilità del ripensamento della donna che partorì in anonimato. Questa sentenza “liberatoria” ha fatto seguito ad una sentenza emessa nel 2012 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo5, nella quale veniva 2 Decreto Presidente della Repubblica n. 396 del 3 novembre 2000, Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, art. 30 comma 1. 3 Decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003, art. 93 comma 2. 4 Corte Cost., sentenza n. 278 del 22 novembre 2013. 5 Corte europea dei diritti dell’uomo, Godelli c. Italia, ricorso n. 33783/09, sentenza del 25 settembre 2012.

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accertata la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che si riferisce al rispetto del diritto alla vita privata e familiare riconosciuto ad ogni persona. Pertanto la Corte condannava l’Italia per la prevalenza che la sua legge dava al diritto della madre di rimanere ignota per cento anni, non prevedendo l’eventualità di un suo ripensamento, rispetto al diritto del figlio biologico di conoscere le proprie origini. Va da sé che, ove l’abbandono si è configurato come ritrovamento di un bambino sulle scale di una chiesa o in un cespuglio o in un contenitore di rifiuti, la possibilità di accedere alle origini è preclusa, a meno che la madre biologica non sia poi stata rintracciata e abbia dichiarato di voler riconoscere il neonato. Un tempo, quando esistevano le ruote e i figli indesiderati vi venivano collocati, spesso le donne lasciavano al bambino un segno di riconoscimento, soprattutto copertine recanti un nome ricamato e medagliette a metà, di cui conservavano l’altra metà da utilizzare per un futuro rintraccio, e poi ritornavano dopo molti anni all’ospedale per chiedere di loro. Ovviamente, se un bambino nato da parto anonimo e dichiarato adottabile raggiunge, per i motivi più vari, la maggiore età senza essere stato adottato, può chiedere sin da subito l’accesso alle origini, essendo la sua situazione assimilabile alla fattispecie dell’adottato maggiorenne divenuto orfano di entrambi i genitori. Successivamente alla sentenza che ha dichiarato incostituzionale l’irreversibilità dell’anonimato da parte della madre biologica, i Tribunali minorili hanno invano atteso per un congruo lasso di tempo che il legislatore emanasse una norma sostitutiva di quella abrogata, dopo di che alcuni Tribunali hanno aperto alle domande dei figli adottivi non riconosciuti alla nascita finalizzate ad avere accesso alle origini e hanno, nel rispetto della massima riservatezza, cercato di rintracciare le loro madri biologiche e organizzarne l’incontro con i richiedenti, ormai adulti. Le prassi seguite dai Tribunali per i minorenni non sono state uniformi. Finalmente, il 25 gennaio 2017 la Corte di 227­­­­

Cassazione6 ha stabilito che il giudice minorile, nel silenzio del legislatore, ha il compito di organizzare, caso per caso, il procedimento più efficace, nel rispetto delle tutele imposte dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2013 dichiarativa della incostituzionalità della legge dei cento anni. La Corte di Cassazione ha pure affermato7 che il diritto alla conoscenza delle origini può essere esercitato anche se il rintraccio ha accertato la morte della madre biologica: le sue generalità potranno essere rivelate «fatto salvo il trattamento, lecito e non lesivo dei diritti di terzi, dei dati personali conosciuti». Le donne che non hanno rimosso il segreto – e sono la minor parte – hanno tuttavia dato notizie su patologie presenti nella discendenza familiare, anche se non richieste; qualcuna ha scritto una lettera da consegnare al figlio, nella quale rappresentava la sua difficoltà a rendere nota la lontana nascita al proprio contesto familiare; qualche figlio adottivo ha affidato al Tribunale una lettera da far pervenire alla madre. Va da sé che queste lettere non contengono riferimento alcuno che renda possibile l’identificazione; in caso contrario non verrebbero accettate. Va anche detto che ci sono donne che si dichiarano disponibili all’incontro ma non intendono rimuovere il segreto sulle loro generalità. Mi sono trovata a decidere in uno di questi casi, nel quale ho ritenuto che l’incontro era possibile, essendovi il consenso della persona richiedente. Le storie testimoniano come, lungi dal provocare tragedie o mettere in crisi l’adozione, come qualcuno teme, l’accesso alle origini realizza, nella grande maggioranza dei casi, il benessere di tutti i soggetti coinvolti, liberando le ansie e i fantasmi, creando nuovi legami e nuovi modelli familiari, ma soprattutto contribuendo a definire meglio l’identità e  Corte di Cassazione, sezioni unite, sentenza n. 1946 del 25 gennaio 2017. 7  Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza n. 22838 del 9 novembre 2016. 6

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la personalità del figlio adottivo. Né va sottovalutato il fatto che, quasi sempre, i genitori adottivi sostengono il figlio nella ricerca delle origini. In conclusione, l’aspirazione dell’adottato alla conoscenza delle origini non contrasta con la sua condizione di figlio adottivo, accettata e rispettata, come le storie raccolte in questo libro dimostrano. La ricerca delle origini deve essere, allora, favorita e regolamentata, perché il bisogno di conoscenza altro non è che il bisogno della persona di riconoscersi nella primaria relazione con la donna che l’ha generata, per poter ricostruire una storia che le consenta di acquisire la piena identità tornando indietro nel tempo alle azioni, ai comportamenti, agli atteggiamenti di tutti coloro che hanno portato la madre biologica all’abbandono: la storia che l’ha vista nascere ma non l’ha accolta. La spinta verso la rivelazione delle radici è l’esigenza di verità negata a livello giuridico che riemerge prepotentemente a livello psicologico. Così la conoscenza delle origini, squarciando il velo sull’ignoto, spazza via il disagio psicologico, il tarlo nella mente, l’ossessione della perdita, e contribuisce a definire l’identità.

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Il rintraccio della madre biologica

Come già detto, il 22 novembre 2013 la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278, dichiarava l’incostituzionalità della cosiddetta legge dei cento anni che negava l’accesso alle informazioni sulle origini all’adottato partorito in anonimato se non, appunto, dopo cento anni dalla nascita; la stessa sentenza imponeva al legislatore di introdurre una normativa intesa a realizzare il bilanciamento tra i due diritti: quello della madre biologica a partorire in anonimato e quello del figlio ad ottenere informazioni sulle sue origini. Dopo circa un anno di vana attesa di una legge ad hoc, il Tribunale per i minorenni di Roma decise di dare seguito alle tante istanze di accesso alle origini dei nati da donna che non aveva consentito di essere nominata. Si presentò così la necessità di una persona competente, dedicata a svolgere le opportune attività di indagine per il rintraccio delle madri biologiche. Chiesi collaborazione al Questore, che distaccò presso il Tribunale un assistente capo di Polizia particolarmente qualificato allo scopo. Potemmo così iniziare le attività di rintraccio. Le domande rivolte all’assistente capo della Polizia di Stato1 che collabora con l’ufficio giudiziario minorile di Roma vogliono illustrare, sia pure per sommi capi, le modalità di svolgimento di indagini di questo tipo, così delicate e complesse.

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Intervista curata dalla dott.ssa Vanessa Carocci.

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*** Come si svolgono le indagini che portano alla conoscenza del nome della donna che partorì in anonimato? Nei casi trattati finora ho seguito le linee-guida concordate con la Presidente Cavallo. Si procede in primo luogo con l’acquisizione del certificato integrale di nascita del ricorrente, rilasciato dall’ufficio anagrafe del Comune di nascita; questo documento riporta il nome della struttura sanitaria o, in alternativa, l’indirizzo dell’abitazione dove è avvenuto il parto. La prima difficoltà nella ricerca è costituita dal fatto che spesso la struttura sanitaria risulta chiusa o assorbita da altri centri ospedalieri; in questo caso occorre individuare in quale struttura si trova allo stato l’archivio originario. E qui l’indagine può rivelarsi molto complessa, difficilmente schematizzabile in passi operativi predefiniti, perché si tratta di ricostruire situazioni risalenti a decenni precedenti. Individuata la struttura che ospita l’archivio, occorre prendere contatti con il direttore sanitario. E qui, devo dire, sono molto avvantaggiato dal fatto che posso presentare una richiesta scritta della Presidente del Tribunale nella quale viene, tra l’altro, esplicitata l’incostituzionalità della norma impeditiva dell’accesso alle origini da parte della persona partorita in anonimato. Talvolta la Presidente precede il mio arrivo con una telefonata per spianarmi la strada ed evitare attese. La consultazione dell’archivio consente di rintracciare la cartella clinica, utilizzando i dati riportati nel certificato integrale di nascita del ricorrente: i suoi dati anagrafici e la struttura sanitaria o la casa dove avvenne il parto. Si riesce così a individuare l’identità della donna che partorì in anonimato. Ma già la lettura e l’analisi delle cartelle cliniche di parto della donna e di nascita del neonato possono comportare delle difficoltà, in quanto si tratta di moduli riempiti manualmente con grafie a volte illeggibili o scolorite dal tempo, e che sono 231­­­­

difformi a seconda dell’epoca della loro redazione. Alcune addirittura non riportano le generalità della donna. Inizia a questo punto la verifica anagrafica, a partire dall’anagrafe del Comune di residenza indicato, che però si può estendere a più Comuni a causa dei vari spostamenti della donna. La ricerca anagrafica nel suo complesso consente anche di individuare la composizione dell’attuale nucleo familiare della donna rintracciata, e soprattutto di fornire informazioni precise per l’interpello da parte del Servizio sociale del suo attuale Comune di residenza, tenendo presenti tutti gli accorgimenti del caso, come disposto dalla legge in materia di diritto alla privacy. La verifica anagrafica pure comporta notevoli difficoltà, anche perché il progetto ANPR (Anagrafe nazionale della popolazione residente) non è ancora completamente implementato; ad esempio, una eventuale cancellazione della donna dai registri anagrafici richiede ulteriori indagini per capire se è emigrata all’estero e, se sì, in quale paese. L’indagine infine spesso richiede anche l’individuazione del brefotrofio dove il neonato fu eventualmente collocato dopo la nascita, per acquisire la relativa documentazione. E qui possono insorgere le stesse complicazioni di cui abbiamo già detto in relazione alla sede dell’archivio. In più, c’è in questo caso il problema della qualità di questa documentazione: a volte le generalità della donna sono compiutamente riportate, ma più spesso sono parziali, altre volte ancora si trovano addirittura nomi o cognomi segnati a matita. L’acquisizione della certificazione relativa al neonato consente, in generale, di comprendere meglio la situazione sanitaria della donna che partorì in anonimato e anche di acquisire elementi utili a delinearne l’identità e il contesto sociale di appartenenza, informazioni importanti per procedere poi all’interpello. Come descriverebbe il suo contatto con gli operatori d’archivio? Questa indagine richiede agli operatori che gestiscono l’archivio un notevole impegno, perché occorre reperire documenti 232­­­­

risalenti a decine di anni prima, spesso conservati fuori della struttura e gestiti da società esterne. Comunque ho sempre riscontrato in queste persone grande impegno e particolare sensibilità alle problematiche del parto in anonimato; solo poche volte ho dovuto ricorrere a tutte le mie capacità di persuasione, sottolineando l’importanza che questa ricerca aveva per la vita stessa dei ricorrenti. Così abbiamo sempre, alla fine, reperito la documentazione richiesta, risalendo a volte ad archivi che neanche si conoscevano, nel rispetto, ovviamente, della massima riservatezza che il procedimento di rintraccio impone. Va sottolineato che questi operatori sono a conoscenza del problema della ricerca delle origini perché da sempre hanno ricevuto, e tuttora ricevono, richieste di accesso alle cartelle cliniche di parto direttamente dagli interessati, cui devono necessariamente opporre un rifiuto, sia pure esprimendo umana comprensione. Lei svolge anche un’attività su documenti in possesso del Tribunale? Parallelamente si acquisisce dall’archivio del Tribunale il fascicolo di adozione, in cui naturalmente non è mai riportata l’identità della donna che partorì in anonimato, ma ci potrebbe essere, per esempio, qualche elemento utile alle indagini in corso in una relazione dell’assistente sociale che ha riferito sul caso. Lo studio minuzioso di queste carte è importante anche perché nei fascicoli di cinquant’anni fa venivano riportati, a volte a matita, elementi rilevanti i quali possono far risalire ad informazioni che, unite alle altre già raccolte, consentono di confermare le generalità, o eventualmente di rilevare alcune caratteristiche personali della donna che deve essere rintracciata. Qual è il cuore del problema, nell’ambito di una indagine per ricercare una donna che partorì in anonimato? Il reperimento e l’interpretazione dei dati, entrambi legati al233­­­­

la vetustà dei dati stessi. Come abbiamo già detto, il problema del reperimento dei dati dipende dalla difficoltà di individuare l’attuale sede dell’archivio che li contiene; l’interpretazione poi è condizionata dalla difformità delle scritture, dalla loro incompletezza, dalla difficoltà di interpretare calligrafie sbiadite anche di tantissimi anni fa. Teniamo presente che una consonante semplice o doppia in un cognome può condurre a persone diverse, errore che in questo delicatissimo campo non ci si può permettere. Perciò la ricerca non consiste nella mera consultazione di un database in cui sono registrate le anagrafiche delle donne che partorirono in anonimato, e i tempi possono essere molto lunghi. Naturalmente, quando la donna che partorì in anonimato non intende rimuovere il segreto, dei dati fino ad allora acquisiti non resta traccia alcuna nel fascicolo. In conclusione, qual è il suo giudizio su questo tipo di indagine? Si tratta di un’esperienza investigativa nuova per la Polizia di Stato, che richiede molto impegno ma che offre anche ampie gratificazioni, nella consapevolezza che l’indagine per il rintraccio della madre biologica è un pezzo importante di un processo più grande verso la soluzione di un problema umano di grandissima rilevanza.

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