I mizrahim in Israele. La storia degli ebrei dei paesi islamici (1948-77) 9788843078592, 8843078593

Il volume narra la storia degli ebrei dei paesi islamici (mizrahim) dalla fondazione d'Israele al 1977, anno della

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I mizrahim in Israele. La storia degli ebrei dei paesi islamici (1948-77)
 9788843078592, 8843078593

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STUDI STORICI CAROCCI /

249

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Claudia De Martino

I mizrahim in Israele La storia degli ebrei dei paesi islamici ( 1948-77)

Carocci editore

Ringrazio l'Università Ca' Foscari di Venezia per il premio junior alla ricerca 2.013 ed il generoso sostegno finanziario alla pubblicazione di questo libro.

Università Ca'Foscari Venezia

edizione, novembre 2.015 © copyright 1015 by Carocci editore S.p.A., Roma 1

a

Realizzazione editoriale: Studio Agostini, Roma Finito di stampare nel novembre 1015 da Grafkhe VD srl, Città di Castello (PG)

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Prefazione di Giovanni Levi

l. I.I.

1.2.

1.3. 1.4. 1.5. 1.6.

2.

2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

2.5.

9

Premessa metodologica

13

Introduzione: la scomparsa delle comunità ebraiche nel mondo arabo

17

L'immigrazione di massa in Israele (1948-52)

25

Il background dell'immigrazione di massa: l'Yishuv prima di Israele Il dibattito sulla "grande aliyah" La società sionista degli anni Cinquanta: quale Israele? Sefarditi e mizrahim: gli ebrei "del Levante", del Maghreb e della Mezzaluna fertile La "grande aliyah": tutte le diaspore in Israele La "grande aliyah": tra pianificazione e improvvisazione statale

37 41 46

L'"assorbimento" (Qjitah) dei nuovi immigrati: le strategie d'acculturazione israeliana

51

Il dibattito culturale e la percezione delle élite: "che gatekeepers" La strategia del Mapai sull' immigrazione La confisca delle case arabe e le maabarot I nuovi immigrati tra maabarot, moshavim, kibbuzim e moshvei 'ovdim (1950) Veterani e immigrati a confronto: l'esperienza dei villaggi agricoli

25 27 32

51 61 67 71 74

6

I�DICE

3.

Oltre l'emergenza

85

3.1. 3.1.

85

3.4.

I "cittadini" mizrahi nella prima e seconda Knesset Misure discriminatorie negli anni Cinquanta: diffusione dell'ebraico e sanità pubblica L'avvio della stratificazione sociale tra "aristocrazia kibbutznikim" e campi di lavoro Il Mapai e la cooptazione delle élite agricole

4.

Il nuovo Israele che avanza

II5

4.1. 4.1. 4.3. 4.4.

II5

4.5.

Le development towns: la nuova geografìa delle periferie d'Israele Enti locali e mizrahim: le periferie sociali ai margini dello Stato Le prime proteste sociali: Wadi Salib e i "Marocco-Sakin" Il processo Eichmann: gli ebrei dei paesi islamici di fronte alla Shoah La de-ideologizzazione degli anni Sessanta

5.

Il sorpasso demografico

5.1.

Le prime proteste organizzate: la battaglia politica di David Hacham Gli scioperi del porto di Ashdod: i mizrahim contro l' Histadrut La crisi prima dei "Sei giorni": problemi sociali del "Secondo Israele" e svolta "militarista" del Labour Gli ebrei dei paesi arabi e la conquista di Gerusalemme, Giudea e Samaria "' L uscita dal ghetto": il "Secondo Israele" e il nuovo sionismo religioso Mapai e periferie sociali: la rivolta delle Pantere nere e la guerra del Kippur La "rivincita di Begin": i mizrahim tra colonie e nuova classe media

3.3.

5.1. 5.3. 5.4. 5.5. 5.6. 5.7.

Bibliografia

91 100 107

Ili

116 137 145 153 153 160 166 172 17 5 183 194 105

Oh, what did you do, Ben Gurion? You smuggled us ali in: Because of the past we gave ic all Up and carne co Israel Oh, if only we'd ridden in on donkeys And had'n yet gotcen chere! Also, whac a black hour ic was To hell with che plane chac broughc us here! (Canzone popolare irachena, 1950) I have never denied my Arab origins or che Arabic language, des­ pite also having a French education. The Arab idencicy has always been a part of me. And I have said and I say: I am an Arab who has caken up an Israeli identity, but I am no less an Arab than any other Arab. T hat's a fact, and I have nothing to be ashamed of abouc ic. If Arabs are perceived as being inferior, then ic seems as if I am doing chis as a provocation. Buc there are Arab Jews, just as there are FrenchJews. How come a Christian might be an Arab and a Jew cannot? (Shimon Ballas, Outcast, 1007 [ed. or. 1991]) This absorption of the old worlds' ancienc Jews within a national lsraeli collective has managed what no empire had been able, or wanced, to achieve: the exchange of che legai covenant, and com­ munal basis ofJewish existence for the racial, the ethnic, and che national, a rapture whose further implications and deep marks are only beginning to surface. (Ilan Halevi, An History ofthe]ews, 1987)

Ringraziamenti Questo libro è frutto di molti contributi, senza i quali non avrebbe mai visto la luce. Vorrei ringraziare la famiglia Deutsch, Beli, Evelyn, Schira e Ido, che mi hanno sempre accolta in tutte le mie peregrinazioni da e verso Gerusalemme, sostenuta nelle difficoltà incontrate con l'ebraico ed accolta come un membro della famiglia. Un grazie sentito va ai miei due "mentori", i professori Giovanni Levi e Rolf Petri, che, con modi e critiche diverse, mi hanno consigliata, stimolata e a volte "moderata" nei toni, quando tendevo ad essere troppo dogmatica o mono-causale. Devo molto a Federica De Giorgi, che con pazienza infinita, cura, attenzione e un'enorme curiosità, mi ha sostenuta, letta, supportata e "sopportata'', fornendo tanto un aiuto pratico, quanto morale. Vorrei anco­ ra ringraziare il professor Rizzi, che mi è sempre stato accanto in questi anni e grazie al quale si è risvegliato il mio amore e il mio interesse, di studio e di ricerca, per il Mediter­ raneo. Un ringraziamento va anche al professor Rafael Vago, che mi ha accolta con un sorriso in Israele, aiutandomi con le autorità aereoportuali e i controlli e agli archivisti dell'Archivio di Stato di Gerusalemme (ISA), e in particolare a Galia Weissman, sempre molto disponibile nei miei confronti. Infine, un ricordo va tutti i miei amici e colleghi "israeliani" - Alessandra Terenzi, Filippo Petrucci, Maya Shapiro, Ivonne Meybohm, Daniela Hueber, Verena Kasper-Marienberg, Anika Pilnei, Dekel Canetti, Alon Firon, Laura Egida, Dana e Adi Goral, Rhiannon McHugh - che hanno condiviso le mie an­ sie e le mie avventure, intellettuali e non, in un paese che tutti abbiamo amato moltis­ simo. E a Giulia e papà, che, pur lontani da questi argomenti, si sono sempre mostrati solidali a distanza.

Prefazione di Giovanni Levi..

Delle vicende dello Stato di Israele si parla continuamente da molti anni, ma nel tempo l'opinione pubblica si è progressivamente allontanata dalla realtà e dalla storia, una storia resa confusa dalla carica ideologica e sentimentale che l'ha estremizzata e semplificata. Questo libro affronta un aspetto fondamentale e trascurato di quella storia per ricostruire una vicenda molto importante svol­ tasi nei trent'anni che seguono la fondazione dello stato; ci suggerisce molte domande e chiarisce alcuni caratteri di Israele che sono in generale assenti dal dibattito e dall'informazione, specialmente nel nostro paese in genere mala­ mente infarmato sulla politica internazionale. Il tema del libro è la relazione fra i circa 7oomila ebrei presenti in Palestina nel 1948, in grandissima maggioranza di origine e di cultura askenazita, e l'immigrazione quasi altrettanto numerosa, dei sefarditi (mizrahim) giunti tumultuosamente in varie date ma in grandissi­ ma maggioranza fra 1949 e 1952 dai paesi del Nord Africa, dall'Iran e dall'Iraq, dallo Yemen e da Aden. Questa immigrazione, provocata dalla situazione di pericolo in cui gli ebrei di questi paesi vivevano dopo la guerra del 1948 e la pro­ clamazione dello stato, ha creato enormi problemi di integrazione sociale, eco­ nomica e culturale, con risultati complessi le cui conseguenze hanno mutato profondamente il carattere originario dello stato. L'autrice ci mostra appunto il lento assorbimento di questa popolazione, le difficoltà, le incomprensioni, i conflitti, i cambiamenti fino al 1977, quando i laburisti vengono sostituiti al go­ verno da una coalizione di destra composta dal futuro Likud e da alcuni partiti religiosi.E il libro ci mostra appunto anche questo: gli immigrati sefarditi, nella seconda generazione, ormai inseriti nella vita politica, sono portatori di un'i­ deologia diversa da quella della tradizione laburista e sionista, un'ideologia più legata all'immagine di un ebraismo religioso, a un nazionalismo accesamente antiarabo, perché dai paesi musulmani erano stati cacciati. Un'ideologia che portava le tracce di un ebraismo diverso, cresciuto in una vicinanza stretta con la cultura di quei paesi, ma anche frutto di una storia recente di emarginazione, di povertà, di umiliazioni che - progressivamente superate - avevano esaspe• Professore dell'Università Ca' Foscari di Venezia.

IO

GIOVA�NI LEVI

rato per reazione alcuni dei caratteri che vediamo oggi nella contradditoria e drammatica politica israeliana. Ma questa ricerca ci mostra anche un altro aspetto, di particolare interes­ se oggi in cui siamo di fronte a grandi migrazioni e a problemi complessi di integrazione. Israele è stato un caso particolare, con un carattere quasi di la­ boratorio. Non si e trattato di accogliere migranti che giungevano in un paese estraneo perché Israele si era posto come il paese degli ebrei, di tutti gli ebrei e dunque si presentava in teoria come un luogo di uguali, unificati da una storia millenaria comune, da una tradizione religiosa comune. Era un caso diverso da quello che pongono oggi i migranti che arrivano in Europa o quelli che giunge­ vano negli Stati Uniti, in cui !>integrazione si poneva fra una realtà nazionale definita che gli immigrati riconoscono e riconoscevano come diversa dalla loro e che li rendeva meno ostili ad accettare le difficoltà del!' inserimento e più di­ sponibili a farsene carico. Nel caso di Israele si trattava in un certo senso di cre­ are una popolazione complessiva e teoricamente uniformata dall'appartenenza religiosa, in un paese che andava raddoppiando in pochissimi anni il numero dei suoi abitanti.C'era semmai qualcosa di simile alle immigrazioni interne nei paesi caratterizzati da uno sviluppo dualistico in cui la mobilità della popola­ zione riguardava persone che appartenevano alla stessa realtà nazionale e dun­ que condividevano lingua, sistema scolastico, servizio militare e altri elementi teoricamente omogenezzanti ma che malgrado ciò producevano resistenze e discriminazioni. Si pensi al caso italiano, alle migrazioni dal Sud agricolo verso il triangolo industriale, che aveva prodotto un lungo periodo di un rifiuto dif­ fuso. Ricordo che su "La Stampa" di Torino un illustre professore universitario scriveva degli immigrati meridionali: « una popolazione estranea al nostro pas­ sato s'è insediata nel centro storico, trasferiamola in periferia ... Trasportiamo il mercato di piazza della Repubblica 25 chilometri più in là, sostituendolo con ippocastani risanatori» (Luigi Firpo, "La Stampa", 21.1.1972). Era forse inevi­ tabile che l'ondata immigratoria in Israele composta da persone differenti per cultura, lingua, abitudini rispetto alla maggioranza askenazita che ne aveva sol­ lecitato l'arrivo e che li accoglieva, implicasse un periodo più o meno lungo di adattamento da ambe le parti, anche perchè gli immigrati provenivano da mol­ ti paesi, ed erano diversi anche fra loro. Atteggiamenti che a loro volta creava­ no risentimenti e conflitti. Ed era del resto prima di tutto anche un problema straordinario di affrontare le difficoltà dell'insediamento, della sussistenza, del lavoro. Le poche risorse e il numero enorme di arrivi - che si ripeteranno an­ che negli anni 1956-59 specialmente dal Marocco -, avevano implicato lun­ ghe residenze in campi fatti di tende e di baracche, poi una distribuzione nei kibutzim,o nei moshavim fino alla decisione, nel corso degli anni '50, della pia­ nificazione generale del territorio dello stato con le 34 development towns che fungessero anche di appoggio agli insediamenti agricoli. Ma questo non basta-

PREFAZIO:SE

II

va a superare le proteste, all'inizio, nei campi di prima accoglienza, sporadiche e poi progressivamente più mature, nelle periferie dei giovani disoccupati come nel luglio 1959 con la rivolta di Wadi Salib che coinvolgerà tutta Haifa, e con le più esplicite proteste politiche e sindacali, contro il monopolio dell' Histadrut e contro le assunzioni privilegiate dei lavoratori portuali di Tel Aviv invece dei 2000 lavoratori immigrati di recente che avevano costruito il nuovo porto di Astarod nel 1961. Era una popolazione che non parlava l'ebraico, che non trovava lavoro e comunque lo trovava ai più bassi livelli salariali semmai nell'agricoltura e nell'industria mentre aveva perloppiù sempre svolto attività urbane di piccolo commercio o artigianali, e che per un lungo periodo vivrà in zone prossime ai confini o in quartieri poveri, pieni di delinquenza e violenza, con molte analo­ gie con la degradata banlieue della Francia di qualche anno fa. Il libro dunque segue la progressiva parziale normalizzazione della situa­ zione, ma una normalizzazione che andava trasformando lo stato dalle fonda­ menta, facendo dei sefarditi una parte alla fme maggioritaria ma creando al contempo una situazione estremamente polarizzata e politicamente frammen­ tata, in cui i partiti religiosi aumentavano la loro presenza e il conflitto ideolo­ gico fra gruppi non era più caratterizzato dall'origine da paesi e culture diver­ si ma da una mescolanza radicata di una concezione religiosa e nazionalistica dell'ebraismo, da un antiarabismo estremo in una parte maggioritaria del paese e da una tragica paralisi incapace di avviarsi verso un processo di pace. «Non è più possibile - dice l'autrice - pensare all'Israele di oggi come a un paese di matrice europea» : il discorso si è spostato verso la comune appartenenza all'e­ braismo che ha modificato le premesse sociali e culturali su cui era nata la de­ mocrazia israeliana. Un libro dunque che fa molto pensare, sui meccanismi complessi di inte­ grazione fra culture differenti, sulla storia di Israele e sulle cause profonde di una drammatica paralisi che non permette di vedere concrete prospettive in di­ rezione della pace in un paese a cui sono sentimentalmente legato e che in molti di noi ha creato molte speranze e troppe delusioni.

Premessa metodologica

Il tema oggetto di questo lavoro è il processo di integrazione degli ebrei mizrahi in Israele negli anni compresi tra il 1948 e il 1977, che introdusse nella società israeliana cambiamenti profondi e rivelatori di una profonda frattura sociale e culturale esistente nel paese. Una frattura ancora presente e attuale nelle ten­ sioni sociali che attraversano oggi la società israeliana e che riaffiora in occa­ sioni simboliche o momenti di svolta, come nella polemica che ha riguardato aggressiva campagna a sfondo etnico-identitaria condotta dal partito mizrahi SHAS nel marzo del 2015 in occasione delle elezioni della 34a Knesset. Il periodo affrontato spazia dalla fondazione dello Stato di Israele all'alter­ nanza elettorale tra "sinistra" e "destra nazionalista" di Begin del 1977, defini­ ta in ebraico "mahapakah", ovvero "la rivoluzione". Il termine si riferisce a una svolta epocale: il passaggio di consegne dal partito Mapai (laburista), che aveva governato per quasi trent'anni il paese, all'Herut-Likud (revisionista), deter­ minato da un importante cambiamento demografìco maturato in quegli anni. Si può dire, infatti, che Israele "cambiò volto" in quei trent'anni che sepa­ rano la sua fondazione dal 1977 e lo fece a seguito di un profondo cambiamen­ to demografico seguito all'immigrazione in massa degli ebrei dei paesi arabi e islamici negli anni compresi tra il 1949 e il 1952., durante il fenomeno poi noto come "grande 'aliyah� Essa non riguardò esclusivamente gli ebrei "orientali", ma marcò l'avvio di un lento sorpasso demografico da parte di quest'ultimi sugli ebrei aschenaziti di origine europea che avevano ideato il movimento sio­ nista e fondato il paese. Tale "sorpasso" non fu affatto neutrale, ma produsse cambiamenti sostanziali e di lungo periodo nella mentalità, nelle politiche, nei costumi, nel governo, nel rapporto tra Stato e religione e in molti altri campi sociali e istituzionali. Tracciare questa evoluzione interna è essenziale per com­ prendere perché non è più possibile pensare all'Israele di oggi come a un paese di matrice europea. Il libro esplora cali cambiamenti seguendo una ripartizione cronologica e tematica allo stesso tempo, che estrapola, nell'arco dei primi trent'anni di sto­ ria israeliana, gli eventi marcanti a livello politico-istituzionale in relazione alle dinamiche sociali di lungo periodo e alle azioni e reazioni dei gruppi protago­ nisti e motore di conflitti sociali. La sua proposta è quella di una lettura inter-

r

l MIZRAllIM IN ISRAELE

14

disciplinare di questo periodo storico, costruita su una sintesi feconda tra storia sociale e delle mentalità di "lunga durata" braudeliana, storia dei partiti e dei movimenti e storia politica. L'oggetto principale dello studio, la storia specifica degli ebrei dei paesi arabi e islamici (mizrahim) ali' interno dello Stato di Israele, si arresta al 1977, data in cui gli "orientali" conseguirono la prima vittoria simbolica, ovvero de­ terminarono grazie al loro voto la prima alternanza elettorale al potere dal 1948. Poiché il ricambio elettorale coincise con l'avvento al potere della destra nazionalista di Begin, gli ebrei mizrahi vennero automaticamente associati alla "destra'' religiosa e antiaraba, opposta ai presunti "valori socialisti" propugnati dal primo sionismo, quello dei partiti laici e socialisti. Tuttavia questa lettura risulta troppo binaria e datata a uno storico di oggi, troppo ancorata nel Novecento. In questo libro si proverà quindi a scardinare alcuni presupposti della logica che vuole i mizrahim associati alla "destra" per ragioni culturali e la "sinistra" al potere nei primi trent'anni dello Stato come il blocco laico e flloeuropeo che riuscì a evitare le derive militaristiche e etno­ centriche a cui si sta assistendo negli ultimi anni'. Se gli "orientali" ebbero una responsabilità diretta nell'evoluzione interna alla politica israeliana, essa fu di altra natura: essi riportarono lo Stato alle sue premesse religiose, mai definite ma presenti fln dall'origine dello Stato d'Israele, spostando l'asse della società maggiormente "a Oriente", ovvero su principi più simili al patto sociale e all'e­ thos che sono alla base dei patti fondativi e della legittimità democratica di altri paesi mediorientali. I mizrahim, semplificando, resero più esplicite le premesse iniziali del sio­ nismo: ovvero che Israele fosse stato ideato principalmente come uno Stato ebraico, fondato sulla comune appartenenza religiosa (e presumibilmente etni­ ca, data l'associazione tra ebraismo e nazionalismo) dei suoi cittadini. Essi in­ trodussero categorie ideologiche e sociali "nuove" in contrasto con quelle euro­ pee, ma non essenzialmente antidemocratiche, proponendo piuttosto una con­ cezione della democrazia più radicata nell'area, fondata su premesse differenti. La ricerca si basa sulla consultazione sistematica di una vasta gamma di documenti conservati negli archivi israeliani - che vanno dai verbali del Parla­ mento (la Knesset) e altre istituzioni, alle lettere private, ai ritagli di giornale, ai diari, ai manifesti delle campagne elettorali, ai programmi scolastici, ai verbali delle sedute dei partiti ecc. - che dialogano a loro volta con una vasta lettera­ tura storica, sociologica, antropologica e narrativa, principalmente in inglese e francese ma anche in italiano, ebraico e tedesco, servita a inquadrare l'argo­ mento. È questa la lettura ddla scoria che dà, ad esempio, l'ultimo libro di Ari Shavit (Afy Promised Land: The Triumph and Tragedy oflsrael, 1013), divenuto celebre negli Stati Uniti grazie ali' accoglienza calorosa degli ebrei americani. 1.

P RE M E S S A :M E T O D O L O G I C A

IS

Le domande sollevate dal libro non presentano tutte una risposta esausti­ va e univoca, ma aprono una via feconda di ricerca sullo studio di processi di costruzione nazionale ispirati a modelli europei ma realizzati in contesti geo­ grafici e politici molto distanti, cronologicamente differiti e caratterizzati da popolazioni e concezioni della democrazia da essi divergenti e completamente originali.

Nota sulle translitterazioni Per la translitterazione delle parole si è adottato il sistema brevettato dall'Uni­ versità ebraica di Gerusalemme (HUJI) con alcune importanti semplificazioni. Secondo le indicazioni della HUJI, le ":," ("hei") sono state translitterate con la lettera "a", tranne se in fine di parola "ah"; le "n" ("bet") sono state translitterate con "l}"; le "J" ("kaf ") con "k" e le "p" ("quf ") con "q", le "tv" ("sin") con la "s" e le "1)" ("shin") con la "sh", le "1" ("vav") sono state vocalizzate in "u" o "o" a se­ conda dell'assonanza e le ":!l'' ("tzadi") nella coppia "tz"; infme la "li" ("ayn") è stata trascritta come un " ' " (apostrofo) sia a inizio, che in mezzo che a fìne di parola. J.Vota bene: Per le parole ebraiche di uso corrente in italiano, come "kib­ buz", si è rimandato alla trascrizione più comune in lingua italiana. Si troverà, dunque, "kibbuz" invece di "kibbutz".

Introduzione: l a scomp ars a delle comunità ebraiche nel mondo arabo

All 'atto della sua fondazione, lo Stato di Israele poteva definirsi uno Stato de­ mograficamente a maggioranza europea, o meglio est-europea, poiché i suoi abitanti provenivano per lo più da Polonia, Unione Sovietica e Repubbliche baltiche. Gli ebrei dei paesi arabi e islamici ne erano pressoché assenti: si calcola che prima del maggio 1948 solo una percentuale compresa tra il 10 e il 1 2% degli immigrati ebrei della Palestina mandataria provenisse da tali paesi', principal­ mente Yemen e Aden. La vera immigrazione di massa dai paesi arabi e islamici verso Israele av­ venne dopo il 1948 in tre ondate principali: tra il 1949 e il 195 2., la cosiddetta "grande 'aliyah" ("grande immigrazione") ; tra il 1956 e il 1959, a seguito dell'e­ voluzione della situazione interna in Marocco ; e ali' indomani della guerra dei Sei giorni (1967 ) , il conflitto che più di tutti sancì l'emigrazione pressoché to­ tale delle comunità ebraiche del Maghreb e Mashrek verso Israele, Canada e Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, ponendo fìne alla presenza ebraica nel mondo arabo. L'evento fu scarsamente recepito dall'opinione pubblica internazionale e dalla storiografia e solo con un ampio scarto cronologico, poiché - tanto nel 1949-5 2. che nel 1967 - né il governo israeliano né i nuovi governi dei paesi arabi e islamici appena approdati ali' indipendenza avevano interesse a portare all'attenzione generale tale migrazione di massa. L'esodo degli ebrei dai paesi islamici non fu oggetto né di risoluzioni né di negoziati: esso avvenne nel silen­ zio di tutte le parti e con la loro connivenza e fu interpretato come un tardivo scambio di popolazioni legato ad aggiustamenti e compensazioni risalenti alla Seconda guerra mondiale. Il fatto che circa 800.000 persone si trasferissero simultaneamente da Iraq, Yemen, Libia, Marocco, Algeria, Egitto, Tunisia, Siria, Aden, Oman, Bahrein e Libano in Israele (e nei paesi occidentali) fu interpretato dai più come un "riLa percentuale oscilla tra il 10 e il 1 2 % perché nella Palestina mandataria esistevano due uffici di statistica, quello dell'Agenzia ebraica e quello dd governo britannico, che non concordavano sui dati (cfr. Schmelz, 1989 ). 1.

18

l MIZRAllIM I N I S RA E L E

torno" degli ebrei alla loro patria d'origine, quasi la creazione dello Stato ebrai­ co bastasse da sola a giustificare lo sradicamento di intere comunità di migliaia di persone che avevano abitato in quei paesi per duemila anni. Il "ritorno" degli ebrei in "patria" fu percepito come una conseguenza naturale dei rapporti con­ flittuali venutisi a creare tra Israele e i paesi arabi all'indomani della guerra del 19481• Una seconda tesi accreditata da vari autori, soprattutto ebrei, è che tale emigrazione di massa sia stata dovuta a pogrom o fenomeni di antisemitismo conseguenti alla creazione di Israele. Tali pogrom si sarebbero radicati in una storia bi-millenaria di persecuzioni islamiche nei confronti dei dhimmi - le minoranze religiose -, e in particolare di quelle ebraiche 3 . Il conseguimento dell'indipendenza da parte dei paesi arabi non avrebbe fatto che inasprire le precarie condizioni di vita di cui godevano gli ebrei, costituendo uno degli in­ centivi più importanti all'emigrazione. Le comunità ebraiche non avrebbero potuto continuare a risiedere in paesi in cui la loro accettazione da parte della comunità di maggioranza sarebbe presto diventata un'incognita. Una terza tesi storiografica individua nel messianismo il vero motore dell'emigrazione degli ebrei dai paesi islamici4. Tali comunità ebraiche, in parte analfabete e intrise di credenze messianiche, avrebbero identificato la creazione dello Stato di Israele con il segnale a lungo atteso da intere generazioni: il ri­ torno in patria degli ebrei dalle diaspore indicava l'avvicinarsi del compimento della storia, la ricostruzione della Gerusalemme ebraica preannunciava quella del Terzo Tempio e l'imminente arrivo del Messia. Questa ipotesi è, però, mi­ noritaria, in quanto la maggior parte degli storici ritiene che la creazione dello Stato di Israele e l'emigrazione di massa abbiano risposto, più che ad attese re­ ligiose millenaristiche, soprattutto a difficili condizioni economiche, avendo fornito a una popolazione ebraica una valvola di sfogo privilegiata. L'eccitazio­ ne messianica, che pure avrebbe spinto le comunità ebraiche meno moderniz­ zate dei paesi islamici - quelle dell'Atlante marocchino, di Aden e dello Yemen - a emigrare verso Israele, presenterebbe, dunque, il carattere misto di una mo­ tivazione economica contingente a cui si sarebbe sovrapposta l' interpretazione escatologica di un mitico ritorno degli ebrei in Palestina, da sempre celebrato nelle preghiere del sabato. Al contrario autori più recenti, in gran parte sociologi israeliani e storici palestinesi, ritengono che tra le cause che portarono all'emigrazione di massa sia stato trascurato - o volontariamente oscurato - il disegno del governo israe­ liano di spingere questi gruppi a immigrare in Israele, alla ricerca di un consoli1. Autori a sostegno: Ha'im Sadoun, Raphad Isradi, Ruth Lapidot. 3. Autori a sostegno : Shmud Trigano, Bat Ye'or, Ruth Toledano Attias, Ya'akov !vieron, Bcmard Lcwis. 4. In riferimento agli ebrei yemeniti e marocchini: Aharon Kafeh, Tudor Parfìtt, Nor­ man Stillman.

I :S T RO D U Z I O N E :

LA SCO M PARSA

D E L L E C O M t.: � I TÀ

E B RA IC H E

:S E L M O N D O

A RA B O

19

damento demografico indispensabile sia dal punto di vista militare che politico (cfr. Shiblak, 1986). Le decisioni del governo israeliano di rivolgersi alle comu­ nità ebraiche dei paesi islamici sarebbero derivate dalla Shoah e dal conflitto tra il neonato Stato di Israele contro tutti i suoi vicini, che avrebbe inoltre imposto al governo di non temporeggiare, nel timore che le frontiere dei paesi islamici si richiudessero inesorabilmente. L'emigrazione di massa sarebbe stata un'azio­ ne pianificata dal governo, che avrebbe fornito i mezzi per spostare migliaia di persone a seconda delle opportunità politiche presenti in ogni paese. In alcuni casi il governo israeliano non si sarebbe limitato a fornire mezzi di trasporto e compiere attività di lobby per l'ottenimento di visti d'uscita, ma avrebbe gioca­ to un ruolo attivo nel creare pretesti per spingere gli ebrei a emigrare, ricorren­ do perfino alla simulazione di attentati\ Il comune denominatore di tutte queste interpretazioni è forse la pretesa di spiegare, con una semplificazione molto accentuata e un principio monocausa­ le, la ragione di un esodo simultaneo di comunità ebraiche anche molto diverse tra loro nell'arco di appena tre anni. Tali comunità, per di più, presentavano una vasta pluralità di voci e di condizioni al proprio interno, essendo percor­ se da profonde stratificazioni in classi sociali diversamente attratte o respinte dall'idea dell'emigrazione. Una sicura forzatura è quella di presentare il fenomeno dell'emigrazione di massa degli anni 1949-52 come se dovesse sintetizzare non solo le tensioni pro­ dottesi in quegli anni, ma anche condensare tutto il vissuto preesistente delle comunità ebraiche nei paesi islamici. Tale propensione a individuare un fattore unico a spiegazione della fine della presenza ebraica nel mondo arabo-islami­ co tende a tracciare un falso parallelismo con quanto avvenuto alle comunità ebraiche europee con la Shoah. Così come quest'ultime sarebbero state quasi completamente annientate dalle persecuzioni nazifasciste e avrebbero visto l'e­ sodo dei loro sopravvissuti verso Israele - determinando, ad esempio, la fine della cultura yiddish in Romania, Ucraina, Bielorussia, Repubbliche baltiche, Germania, Polonia ecc. -, altrettanto sarebbe avvenuto nei paesi islamici per persecuzioni, ostilità e antisemitismo riconducibili alla Seconda guerra mon­ diale. Tale parallelismo è, però, infondato, in quanto nelle società arabo-islami­ che non si sono avuti episodi di violenza sistematica su base razziale sostenuti dai governi al potere e finalizzati allo sterminio fisico della minoranza ebraica. Rimane, poi, aperto, il problema circa il giudizio storico sulle ombre e le luci che l'esodo proietta, in retrospettiva, sulla convivenza arabo-ebraica 5.

�d caso iracheno, lo storico Shiblak riporta che l' 8 aprile 1950 a Baghdad esplose

una granata vicino a un caffè ebraico e che cale episodio provocò un'impennata del numero di richieste di visto per l'emigrazione della comunità ebraica. L'anno successivo si sareb­ bero succedute: altre: 4 esplosioni senza vittime. Secondo fonti sioniste, riportate da Mcir­ Glitzenscein ( 2004), la responsabilità sarebbe stata di nazionalisti iracheni musulmani; se­ condo Shiblak, invece, sarebbe stato il governo israeliano tramite il Nlossad.

2.0

l MIZRAllIM I N I S RA E L E

in terra d'Islam nei secoli precedenti. Lo storico Weinstock - così come Bat Ye'or e Norman Stillman - ritiene che negli anni Cinquanta si sia posta «fine a duemila anni di esistenza conflittuale» e che «l'irreversibile sradicamento delle comunità ebraiche del mondo arabo ci insegna che ogni coabitazione, anche problematica, suppone un solco comune di valori fondati sullo spirito di apertura e il mutuo rispetto. Riflessione che dovrebbe mettere in guardia contro la tentazione di abdicare alle nostre convinzioni nella futile speranza di un riavvicinamento fondato su concessioni che attengono alla nostra stessa ragion d'essere. Perché, a forza di scendere a patti con le tenebre, si rischia di perdere la propria anima» . Affiora, in questo e in analoghi giudizi, il vizio di valutare i periodi storici precedenti alla luce degli eventi che li hanno seguiti e che costituiscono all'og­ gi questioni irrisolte. La dhimmitudine - lo stato di soggezione in cui tanto gli ebrei che i cristiani furono per secoli assoggettati nei paesi islamici - e altri istituti simili non possono essere valutati nella prospettiva dei valori contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 1948, pena la completa astoricità. Occorre, invece, scindere i periodi storici della con­ vivenza delle comunità ebraiche e musulmane nel mondo arabo, berbero e per­ siano6, e quello della loro immigrazione di massa in Israele (assieme a Francia, Inghilterra e Stati Uniti) in periodi distinti e non comparabili, valutare quanto le contingenze politiche ed economiche abbiano pesato in ogni paese e riper­ correre i maggiori pogrom e le violenze avvenute a ridosso della guerra del 1948 e di quella dei Sei giorni per comprendere quanto realmente antisemitismo e antisionismo - in differenti gradi, nei differenti paesi - ne abbiano determina­ to gli esiti e la recrudescenza. Tutto ciò a prescindere dal riconoscimento che il 15 maggio del 1948 la fon­ dazione dello Stato di Israele e il suo successivo riconoscimento dalle Nazioni Unite hanno davvero costituito un fatto nuovo e irreversibile nella storia del Medio Oriente, inserendosi nel solco di un processo di decolonizzazione già di per sé contraddittorio e accelerando le tensioni già esistenti tra Europa e società arabo-islamiche. Rimane aperta la domanda sul perché la storiografia - araba certamente, ma anche israeliana e occidentale - si sia così poco occupata, fìno a tutt'oggi, di questa frattura storica, e della scarsa attenzione che essa abbia ricevuto dal mondo politico. Gli ebrei che abbandonarono i loro paesi di origine e immigrarono in Isra­ ele misero fìne a un'esperienza, in alcuni casi, bimillenaria. Dopo la cacciata degli ebrei da Spagna e Portogallo nel 1492 e dopo la Shoah in Europa, la scom­ parsa degli ebrei dal mondo arabo-islamico ha costituito il terzo grande evento collettivo della moderna storia ebraica. Tuttavia, non è stato percepito come 6. Per una buona storia degli ebrei nei paesi arabi e islamici, cfr. Cohen, 1973.

l :S T RO O U Z I O N E : LA S C O M PA R S A D E L L E C O M t.: � I TÀ E B RA I C H E :S E L M O N D O A RA B O

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uno spartiacque di pari importanza nemmeno dallo Stato d'Israele, né è passa­ to alla storia come una tragedia che ha colpito il popolo ebraico nel suo com­ plesso, com'è avvenuto, invece, per lo sterm inio degli ebrei in Europa. Il senso di abbandono che colse gli ebrei dei paesi islamici e il loro sentimento di sradi­ camento si è trasformato col tempo in un ricordo privato, familiare o, al più, nel "museo" delle tradizioni etniche di varie comunità trapiantate in Israele. La prima generazione immigrata in Israele fu troppo impegnata nella so­ pravvivenza quotidiana per rielaborare il proprio sconforto: cedere alla tenta­ zione di riflettere su quanto accaduto fu il privilegio di pochi intellettuali o membri delle élite, che riuscirono a confrontarsi culturalmente con il dramma intervenuto nella loro vita. Ai più toccò costruire un nuovo Stato dalle fonda­ menta, far fiorire il deserto del Negev e combattere le guerre per l'affermazione di uno Stato su cui incombevano gravi minacce militari su ogni confine. La seconda generazione, già in scarsa misura memore della cultura d'origi­ ne e tutta rivolta al futuro, si comportò come aveva visto fare ai figli dei soprav­ vissuti della Shoah, che preferivano concentrarsi sulla nuova società che stava­ no edificando in Israele più che indugiare sui traumi. A partire dalla terza generazione, non è più stato possibile chiudere gli oc­ chi sullo sradicamento brutale avvenuto negli anni Cinquanta: alcuni si sono chiesti come esso fosse potuto avvenire così repentinamente, cancellando se­ coli di convivenza ebreo-araba; altri, invece, si sono domandati perché i loro genitori non fossero stati trattati da rifugiati dalle Nazioni Unite, così com'era avvenuto per i palestinesi del 1948 e i loro discendenti. Nel 1975, quando a seguito della guerra del Kippur si sprigionò una nuova consapevolezza collettiva sul rapporto tra Stato e società, i discendenti degli ebrei dei vari paesi islamici - ormai associati nella percezione comune in un'u­ nica categoria di "orientali" (mizrahim) - istituirono un comitato che tutelasse la loro memoria storica e i loro interessi: l'Organizzazione mondiale degli ebrei dei paesi arabi (World Organization of Je\vs of ArabCountries, WOJAC ). Trac­ ciando un parallelismo disarmante tra la loro evacuazione in massa e quella dei palestinesi, nella loro narrativa storica descrissero la partizione della Palestina da parte dell'ONU come la data fondante della "riorganizzazione del Medio Oriente� A loro opinione nel 1948 le Nazioni Unite avevano, consapevolmente o meno, avallato uno scambio di popolazioni, inevitabile a partire dal ricono­ scimento dello Stato di Israele. Per tale ragione essi ritenevano le Nazioni l)nite responsabili nei loro confronti : cosl come l'uNRWA si era fatta carico del pro­ blema dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti fino e oltre alla terza gene­ razione, altrettanto la comunità internazionale si sarebbe dovuta occupare del problema del risarcimento dei beni confiscati dai governi dei vari paesi arabi ai loro cittadini di fede ebraica, costretti all'emigrazione. Lo Stato d'Israele, a lo­ ro parere, non aveva i mezzi per indennizzarli né, d'altronde, sarebbe spettato al governo israeliano pagare per un crimine commesso dagli Stati arabi a danno

2. 2.

I MIZRAilIM l :S I S RA E L E.

di quelli che, all'epoca, erano ancora loro cittadini. Infine, poiché Israele non aveva canali diplomatici aperti per negoziare con i governi responsabili, tale ap­ pello era rivolto ali'o�v. Nel rifiuto delle Nazioni Unite di riconoscere la pro­ pria responsabilità verso i profughi ebrei, gli ebrei dei paesi islamici leggevano l'ipocrisia e la parzialità, ovvero il double-standard, adottato nei confronti di Israele. Nelle parole di una donna-rifugiato egiziana, l'ONU considerava « fosse il loro destino [ di ebrei] quello di essere sradicati» . Le Nazioni Unite avevano effettivamente considerato il fenomeno una mi­ grazione "interna", appiattendosi sulla narrativa nazionale israeliana che parlava "di ritorno" degli ebrei in Israele, quasi queste persone vi avessero mai vissuto prima. Il trattamento dello Stato d'Israele da parte dell'o�v, inoltre, è certa­ mente pieno di incongruità giuridiche e concettuali. Tuttavia, l'accanimento dei profughi nei confronti delle Nazioni Unite deresponsabilizza le scelte po­ litiche del governo israeliano. La tesi formulata dal WOJAC venne infatti a più riprese sconfessata anche dalle autorità israeliane, che non avevano alcun inte­ resse a riaprire un dibattito spinoso che avrebbe in qualche modo attirato 1 'at­ tenzione internazionale sul problema dei rifugiati, in primis palestinesi. La po­ sizione del governo rimase quella espressa dall'ex ministro degli Esteri Sharett: il problema dei rifugiati ebrei e delle loro vertenze irrisolte era stato «estinto (o equilibrato) dai beni confiscati ai palestinesi sotto l'Absentee Law » (Shenhav, 2006). Se ne deduceva che, a titolo individuale, gli ebrei dei paesi arabi e islami­ ci non avessero diritto ad alcuna compensazione pecuniaria. La posizione del governo in merito era chiara: lo Stato di Israele aveva già sostenuto spese esor­ bitanti per il trasferimento in massa e l'integrazione degli ebrei orientali negli anniCinquanta, restituendo loro, in altra forma, ciò che aveva incamerato dalla confisca delle proprietà arabe di Palestina. L'attività del WOJAC, boicottata a livello governativo, sarebbe cessata nel 1999, andandosi a concludere senza nemmeno esser riuscita ad avviare un vero dibattito all'interno della società. I suoi promotori non erano riusciti a diffon­ dere nell'opinione pubblica il messaggio che, come si erano avute "riparazioni" da parte della Germania per i singoli cittadini d • Israele toccati dalla Shoah, cosl sarebbe dovuto accadere per gli ebrei mizrahi a seguito di negoziati con i governi arabi. Una delle questioni aperte era quella relativa alla volontarietà dell'atto di immigrazione in Israele: gli ebrei dei paesi islamici avevano scelto di immigrare in Israele tra il 1949 e il 1952.? E se lo avevano scelto liberamente e individual­ mente, perché si erano ritrovati apolidi e privi dei propri beni ? In che misura avrebbero potuto prevedere che Israele non avrebbe mai intrattenuto rapporti diplomatici con alcuno Stato islamico e che, dunque, nessun contatto si sareb­ be più ristabilito con i loro paesi d'origine ? Era prevedibile allora che lo Stato d'Israele sarebbe stato continuamente in lotta con tutto il mondo islamico nei sessanta anni successivi?

I :S T RO D U Z I O N E :

LA SCO M PARSA

D E L L E C O M L' :S I TÀ

E B RA IC H E

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Negli ultimi anni si assiste a un parziale sostegno alle tesi del woJAC da parte delle autorità, seppure non come risultato di una coerente politica gover­ nativa. Questo sostegno appare, però, strumentale, in quanto punta a indebo­ lire le rivendicazioni dei rifugiati palestinesi senza, però, voltare affatto pagina nei rapporti col mondo arabo. La questione dell'esodo degli ebrei dai paesi arabo-islamici rimane un di­ battito storico aperto su cui non si registra un consenso generale e che per molti non è ancora venuto il momento di riportare alla luce. Nel frattempo Israele ha vissuto e incorporato nuovi esodi - come quello degli ebrei etiopi e dei falashmura, consumatosi principalmente in due ondate, nel 1 9 8 5 e 1 9 9 1 - e si profila all'orizzonte una nuova "questione sociale" aperta con forti ripercussioni sul futuro.

I

L' immig razione di massa in Israele ( 1 948-5 2)

I. I

Il background dell' immi grazione di massa : I' Yishuv prima di Israele Lo Stato di Israele fu fondato il 14 maggio del 1948, anche se il suo anniversario viene celebrato secondo il calendario ebraico - oscillante tra il 4 e il s del mese di Nisan e Iyar -, ovvero in una data che varia ogni anno tra aprile e maggio del calendario gregoriano. La sua proclamazione precedette di un giorno la scadenza del Mandato bri­ tannico. Il giorno dopo il neo -Stato era già guerra con sei paesi arabi limitrofi e non: Iraq, Arabia Saudita, Libano, Transgiordania, Egitto e Siria. I paesi arabi che pure non parteciparono alla guerra - come Libia, Tunisia, Algeria e Maroc­ co - inviarono truppe di volontari a sostegno di quella che fu considerata una grande guerra panaraba per la liberazione della Palestina. Gli Stati arabi non ave­ vano accettato il Piano di partizione dell' uNSCOP\ contestando il diritto degli ebrei ad avere un proprio Stato e criticando le condizioni della partizione pre­ viste dal Piano, che assegnava la striscia costiera, più fertile e popolata, in preva­ lenza a Israele. La guerra, definita dalla storiografia israeliana "Guerra d'indipendenza" e da quella araba 1Vakba ("catastrofe") - in quanto comportò la distruzione del­ la Palestina mandataria e della sua unità territoriale e l'evacuazione di massa di 7 26.0 00 profughi1 - terminò nel marzo del 1949 con la conquista pacifica del porto di Eilat, unico sbocco israeliano sul Mar Rosso. Nel frattempo, nel dicembre del 1948 era intervenuta la Risoluzione ONU n. 194 che stabiliva la creazione di una Commissione di conciliazione internazionale e disponeva il Si tratta ddla Risoluzione oxt: n. 181 dd 18 novembre 1947. Il Piano ddl'uxscoP as­ segnava il 55% della Palestina mandataria allo Stato di Israele e il 45% a quello arabo (Uniced Ì\ations Special Committee on Palestine, Rapporto all'Assemblea Generale, A /364, 3 set­ tembre 1947, e U N Doc. n. A/AC.14/34, 17 novembre 1947). 1. Ì\ations Economie Survey Mission for che Middle Easc, Uniced Nations Concili­ ation Commission, 18 dicembre 1949. 1.

2. 6

l MIZRAllIM I N I S RA E L E

ritorno dei profughi, di entrambe le parti, che volessero far ritorno alle loro lo­ calità d •origine. Alla fine della guerra, Israele aveva acquisito il 78% della super­ ficie della Palestina mandataria: ovvero il 22% in più del territorio assegnatale dal Piano di partizione del 1947. Le modifiche territoriali più sostanziali com­ prendevano l'annessione dell' intera Galilea, l'acquisizione della maggior parte della striscia costiera (inclusiva delle città di Ashdod, 'Arab Suqrir e Ashkelon­ al Majdal) e la conquista di città a maggioranza araba come Akko e di altre precedentemente assegnate allo Stato arabo come Beersheva. Nessuna nuova risoluzione O NU sanzionò i nuovi confini usciti dalla guerra e la definizione degli stessi spettò a commissioni di armistizio bilaterali istituite tra Israele e ogni paese arabo. Non si addivenne ad alcun trattato di pace permanente, ma alla tracciatura di una "Linea verde": il limite sul quale i due eserciti si erano ar­ restati durante la guerra. Il neonato Stato di Israele, pur avendo enormi problemi da risolvere, non doveva costruire le proprie istituzioni dalle fondamenta. L' Y ishuv, ovvero la comunità ebraica di Palestina nel suo assetto prestatale - si era dotato di istitu­ zioni di autogoverno fin dal 1929 1 , come nello spirito della Dichiarazione Bal­ four, i cui principi erano stati sottoscritti dalla Società delle Nazioni. L'Agenzia ebraica si era occupata degli affari interni della comunità, agendo come un "esecutivo" dell' Y ishuv4 , mentre il Va 'ad Leumi (o "consiglio naziona­ ,, le ) aveva svolto il ruolo di organo legislativo della comunità e l' ha-Hagana (o "la difesa"), un'organizzazione paramilitare, ne aveva costituito l'esercito. Per quan­ to riguarda il potere giudiziario, la potenza mandataria britannica aveva accorda­ to piena indipendenza a tutte le comunità sulla base della rispettiva appartenenza religiosa, riprendendo la tradizionale divisione ottomana in millet e conferendo autorità ai tribunali rabbinici, così come alle corti musulmane che applicavano la shari 'a, sebbene limitata a questioni di diritto privato. L' Histadrut include­ va il 75% della forza-lavoro ebraica: si trattava, oltre che di un sindacato unico, del vero motore dell'economia, quasi uno "Stato nello Stato" (Chermesh, 1989 ). Esistevano inoltre altre istituzioni, come il Fondo nazionale ebraico (Keren Kayemet le-Israel), fondato nel 190 1, con il compito di acquisire e riscattare terre per lo sviluppo di insediamenti ebraici in Palestina, sollecitando dona­ zioni dalla diaspora. Una volta acquistate le terre, il Fondo le assegnava in le­ asing ai vari gruppi di immigrati. Infine, per quanto i kibbuzim , cooperative agricole collettive, e i moshavim, cooperative agricole costituite da fattorie sin­ gole, rappresentavano reti e cooperative agricole ben strutturate, divise in base all'orientamento politico e religioso, la loro importanza non derivò tanto dalla diffusione dell'esperienza di socialismo diretto in Israele, ma dalla qualità degli uomini che essi seppero produrre, che andarono a costituire la classe dirigente 3. L'Agenzia ebraica fu istituita nd 1929. 4. Dal 193s David Ben Gurion era stato eletto presidente dell'Agenzia ebraica.

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del paese. Lo Stato di Israele non nacque, dunque, in un vuoto politico e isti­ tuzionale, ma al contrario su fondamenta ben rodate, che nel 1948 avevano già dimostrato di garantire la coesione della comunità ebraica in Palestina, come il successo della guerra stava ad attestare.

1.2

Il dibattito sulla "grande 'aliyah" Scrive Rubinstein (2006, p. 89) che «il movimento sionista, in tutte le sue correnti, legava l'istituzione di uno Stato alla costituzione di una maggioran­ za ebraica in Israele» . Solo una solida maggioranza ebraica in Israele avrebbe potuto garantire il carattere democratico del nuovo Stato. Le comunità ebrai­ che avrebbero dovuto "far ritorno" in Palestina, riconoscendo il loro legame ancestrale con la terra da cui erano partite duemila anni prima, secondo un modello definito nella teoria politica come "nazionalismo diasporico", ovvero un nazionalismo articolato su tre pilastri: il carattere etno-religioso comune a un gruppo, il ricordo di una catastrofe storica e la convinzione di costituire un "popolo eletto" s. Shenhav, sociologo israeliano, critica la teoria del "nazionalismo diaspori­ co", sostenendo che non tutte le diaspore con una stessa origine etnica condivi­ dono le stesse aspirazioni nazionaliste. Al contrario, ciò a cui si assiste in molti casi è che un'élite politica si "impossessa" del passato comune strwnentalizzan­ dolo per i propri fini. Tale operazione annulla la volontà delle comunità diaspo­ riche più periferiche, che non sono chiamate a esprimersi sul progetto naziona­ le in corso, ma solo obbligate a sostenerlo (Shenhav, 1999, p. 624). In questo dibattito si inserisce il discorso altrettanto critico dello storico Sand, che pur riconoscendo il carattere etno-religioso del nazionalismo isra­ eliano, argomenta che: «l'esistenza del giudaismo tradizionale [ ovvero quello diasporico] si è fondata sull'esistenza di un esilio "metafisico" e sull'aspirazio­ ne religiosa a un luogo sacro, era [dunque] necessario per gli agenti nazionali ebrei di impegnarsi a inventare un discorso storico che implicasse l'esilio del popolo ebraico a seguito della distruzione del Tempio, nel primo secolo dell'e­ ra cristiana, al fine di giustificare il diritto al ritorno laico in "patria"» . L'oblio consisterebbe nel fatto di aver collettivamente voluto dimenticare « che vi era­ no degli ebrei credenti che vivevano sia all'interno, sia al di fuori del territorio della Giudea ben prima della distruzione del Tempio» (Sand, 2006, pp. 70-2). Sand sostiene che gli intellettuali e i politici israeliani della "generazione dello Stato" (della seconda e terza 'aliyah) preferirono attribuire alla nazione ebraica un carattere sacrale immaginario, fondato sul mito di un ancestrale legame di 5 . Sul nazionalismo diasporico cfr. Smith, 1998.

2. 8

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sangue - piuttosto che ispirarsi agli ideali del patriottismo repubblicano -, per­ ché si rivolgevano a comunità ebraiche eterogenee, la cui identità comune non poteva poggiare che su basi mitico-religiose. Kellerman (1993 ) scrive che il sionismo ha sempre poggiato su tre elementi, che di volta in volta, nei vari periodi storici, si sono invertiti tra loro per ordi­ ne di importanza: terra, popolo e modello sociale. Nel periodo precedente alla fondazione dello Stato avrebbe prevalso il modello sociale: la volontà di fondare una società rivoluzionaria socialista. Dopo la proclamazione dello Stato e l'avvio ,, dell'immigrazione ( 'aliyah) di massa, l'elemento "popolo si sarebbe sostituito a quello sociale e lo Stato avrebbe anteposto come primo obiettivo l'aumento della demografia. Infine, dopo il 1967, l'elemento "terra" avrebbe prevalso su tutti gli altri, con l'avvio di una nuova fase messianica in Giudea e Samaria. La maggioranza ebraica era stata una preoccupazione costante dei primi sionisti. Ben Gurion era riuscito a imporre la sua visione statocentrica, favo­ revole a un'immigrazione illimitata in Palestina, a partire dalla Conferenza di Biltmore (maggio del 1 942.). Durante la Seconda guerra mondiale, le autorità del neonato Stato di Israele non espressero seriamente l'intenzione di salvare gli ebrei d'Europa - compito che avrebbe ecceduto le loro forze -, ma piutto­ sto l'urgenza di portare in Palestina quanti più ebrei possibile. Ben Gurion ebbe a dire: «Abbiamo conquistato territori, ma senza insediamenti essi non hanno un valore decisivo [ ... ] La colonizzazione è la vera conquista. [ . . . ] Il futuro dello Stato dipende dall'immigrazione» 6• Essendo difficile trasferire gli ebrei rinchiusi nei campi di concentramento del continente, i sionisti iniziarono a volgere la loro attenzione ai paesi arabi. Le comunità ebraiche che vi si trovavano erano rimaste a lungo ai margini della storia sionista, sia perché ideologicamente il sionismo non le aveva incluse nel suo progetto di costruzione nazionale, sia perché, come ideologia, non vi aveva attecchito. Così le élite delle comunità ebraiche "orientali" si erano limitate a sovvenzionare, attraverso donazioni individuali, le attività dell' Y ishuv. Prima della guerra, solo alcune migliaia di ebrei siriani, yemeniti e iracheni erano immigrati in Palestina, spesso per ragioni personali o religiose, e lo ave­ vano fatto illegalmente, soprattutto via terra e con lunghi viaggi a piedi. Testi­ monianze delle opinioni dell'establishment nei confronti degli ebrei dei paesi islamici sono state raccolte da Meir-Glitzenstein, che riporta i commenti di un emissario socialista, Benzion lsraeli, sugli immigrati iracheni, annotati in un diario personale: «L'immigrazione da Baghdad [ ... ] non ha aggiunto molto in termini di valore e capacità di costruire il paese. La ricerca di un guadagno facile, tutte le sorti di posti e uffici, e il piccolo numero che ha intrapreso lavori in generale e lavori agricoli in particolare, dovrebbe suscitare serie ansie in noi e 6. Segretariato dd !vfapai, Archivi dd Partito laburista, sez. 2, 24/ 49, Segev, 1998, p. 336.

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aprile 1949.

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spronare a un'azione coraggiosa e urgente. [ ... ] La cosa più triste è che non po­ chi dei giovani di questo gruppo di immigrati sono un peso per la nostra eco ­ nomia in Palestina, invece di essere una benedizione e una forza aggiuntiva » (Benzion, 1955, p. 3 8). Verso il termine della guerra, Yishuv aveva ottenuto dall' Inghilterra il permesso di costituire un proprio corpo militare all'interno dell'esercito bri­ tannico, defìnito la "Brigata ebraica", un'unità di fanteria che era stata dispiega­ ta in Iraq, Siria e in alcuni paesi del Nordafrica, tra cui Libia ed Egitto ( Gelber, 1983). I primi emissari sionisti erano entrati così in contatto con le comunità ebraiche del Maghreb e del Mashrek. Nei dispacci le comunità ebraiche locali erano descritte come povere, degradate e vulnerabili, ma anche in preda a un messianismo che poteva essere sfruttato a fini politici. Dal 1942. il Mossaci le- 'Aliyah Bet - l'unità dell' Hagana che si occupava dell' immigrazione clandestina in Palestina in violazione delle quote imposte dal "Libro bianco" britannico - decise di inviare delle missioni strutturate presso ta­ li comunità. Le missioni toccarono Iraq, Siria, Libano e Iran e, dal 1943, anche il Nordafrica. L'attività di propaganda del Mossad non ebbe grande successo, ma ottenne di istituire un contatto permanente tra le autorità dell' Yishuv e le co­ munità ebraiche locali. Avviò e sostenne, inoltre, una serie di attività educative sul sionismo, soprattutto rivolte ai giovani, per promuovere tra gli ebrei "orien­ tali" i successi conseguiti dai pionieri in Palestina. Le autorità dell' Yishuv si erano nel frattempo convinte che, per assicurare una maggioranza ebraica, occorresse accelerare l ' immigrazione a tutti i costi. Gli ebrei dei paesi islamici rappresentavano una "riserva naturale". Il rapporto tra lo sterminio degli ebrei in Europa e l'attenzione rivolta alle comunità ebrai­ che "orientali" era diretto, ed è ovvio che quest'ultime costituissero una secon­ da scelta indotta dalle contingenze. A un Comitato centrale del Mapai nel luglio del 1943, Dobkin, direttore del Dipartimento immigrazione dell'Agenzia ebraica, dichiarò : « Non sappia­ mo quanti ebrei rimarranno in Europa dopo la campagna di sterminio e con quanti di loro riusciremo a rimanere in contatto, dal momento che milioni ri­ marranno sotto il controllo sovietico russo e saranno separati da noi a lungo. [ ... ] [Gli ebrei orientali] è più facile raggiungerli - non sono separati da noi da mari e fronti di guerra - ed è più facile per loro giungere in Palestina » 7• Pesò, dunque, il fattore della contiguità geografìca: gli ebrei dei paesi islamici pote­ vano essere inviati in Palestina via terra, secondo rotte già brevettate. Dall' Iran dello Shah, dalla Siria, dal Libano e dalle montagne del Kurdistan era semplice raggiungere la Palestina, mentre l' immigrazione dal Nordafrica doveva essere oggetto di una pianificazione più meticolosa.

r

rista.

7. Verbale del Comitato centrale del �fapai,

Il

luglio 1943, Archivi del Partito labu-

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Nella seconda metà del 1943 venne redatto dall'Agenzia ebraica un pia­ no globale per intraprendere missioni sioniste nei paesi islamici, intitolato "Piano pionieristico uniforme della diaspora'', che introduceva per la prima volta il concetto della "fusione delle diaspore" (mizug galuyiot). Tale piano includeva valori tipicamente sionisti come l'esaltazione del lavoro manuale, soprattutto agricolo, il sostegno all'alfabetizzazione di massa e l' insegnamen­ to dell'ebraico come lingua veicolare8 • La sua realizzazione fu affidata all'A­ genzia ebraica. La tecnica adoperata, analizzata a fondo da Meir-Glitzenstein (1997 ), era quella di presentare ai giovani ebrei dei paesi islamici una versio­ ne "semplificata" del sionismo, che non rifletteva la sua divisione in correnti politiche in competizione tra loro. La strategia di "semplificazione" del sio­ nismo adottata rispecchiava la convinzione che tali ebrei non fossero avvezzi alla vita politica e alle sue sofisticazioni e che la coscienza politica degli ebrei "orientali" fosse compromessa dai bassi livelli educativi e dalla consuetudine all'asservimento e alla tirannia. ,, Il "Piano da un milione (Hacohen, 1994) fu il primo tentativo di pianifica­ re l'immigrazione di massa e sarebbe dovuto servire all'indomani della guerra, quando le potenze alleate avrebbero richiesto all' Y ishuv di formulare le richieste ebraiche rispetto a un'eventuale partizione. Tra le possibilità di finanziamento oltre a donatori privati e collette presso tutte le comunità ebraiche, soprattutto quelle statunitensi -, venivano già considerate le "riparazioni" che la Germania nazista avrebbe dovuto versare ai rappresentanti del popolo ebraico ed eventuali prestiti da parte degli alleati. Il Piano prevedeva di assegnare priorità assoluta ai potenziali rifugiati europei - calcolati in numero di 500.000 - , e poi agli ebrei dei paesi islamici - calcolati in numero di 800.000 -, perché, nelle parole di Ben Gurion, a rischio di « degenerazione umana e culturale» e, in quelle di Dobkin, «a rischio di un massacro più grave di quello avvenuto in Europa» 9 • I governi arabi si sarebbero sforzati con ogni mezzo di ostacolare l' immi­ grazione di massa e il rafforzamento dell'Y ishuv: una seria minaccia per le co­ munità ebraiche locali, che avrebbero potuto diventare oggetto di ritorsioni 1°. I dibattiti interni tra i dirigenti sionisti rivelano che le autorità dell' Y ishuv erano consapevoli che la creazione dello Stato avrebbe provocato reazioni dure da parte dei paesi arabi: reazioni che avrebbero avuto come principali vittime le comunità ebraiche locali, che costituivano l'anello più debole11 • Ciò significa8. L'adozione dell'ebraico nell' Yishuv avvenne nel 1913 (cfr. Hofman, Fisherman, 1971). 9. Verbali dell'esecutivo dell'Agenzia ebraica, 24 giugno 1944, Archivio centrale sio­ nista ( CZA) . 10. Discorso di Eliyahu Dobkin, cc del �fapai nel luglio del 1943, 12. giugno 1943, Ar­ chivi del Partito laburista. 1 1 . Ben Gurion all'esecutivo dell'Agenzia ebraica: « Quando dico a un ebreo di venire, mi assumo la responsabilità della sua vita e non mi faccio dissuadere » (Verbale dell'esecuti­ vo dell'Agenzia ebraica, 24 giugno 1944, CZA).

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va, però, che si sentivano legittimate ad assumere delle decisioni che avrebbero impattato profondamente sul futuro di queste comunità. Il Comitato di pianificazione presentò il testo definitivo del piano all 'esecuti­ vo dell'Agenzia ebraica nel giugna del 1 944 e incluse inizialmente - degli 800.000 ebrei dei paesi islamici valutati come potenziale riserva d' immigrazione - solo il 20% di loro. Dovette, però, rivedere le sue stime al rialzo al termine del conflitto. Ben Gurion aveva premuto molto affinché un numero consistente di ebrei "orien­ tali" vi fosse inserito. Il Comitato accluse un progetto specifico per l 'assorbimen­ to, che distingueva gli immigrati in base alla provenienza: per gli "europei� campi di transito allestiti sulla costa tra Haifa e Gaza e periodo massimo di permanenza fissato a 3 mesi; per "gli orientali': i campi approntati nel deserto del Negev, dove avrebbero potuto trascorrere da 1 a 2 anni. Il loro compito sarebbe stato « coloniz­ zare le regioni meridionali del paese attraverso il lavoro agricolo». Non si trattava di disposizioni operative, ma solo di indicazioni di massima riguardo all'impiego dei nuovi immigrati come forza-lavoro (Hacohen, 1 994, pp. us-8 ). L' impianto ideologico del Piano presentava, inoltre, delle contraddizioni. Si faceva esplicito riferimento allo sterminio degli ebrei in Europa, inaugurando secondo alcuni storici - quell'uso politico della Shoah che poi si sarebbe rivelato un tratto ricorrente della politica dello Stato di Israele 11• Puntando sul carattere "umanitario" del salvataggio dei profughi ebrei in Europa e sulla loro immigra­ zione in Palestina come unica possibilità di salvezza da un annientamento altri­ menti certo, venivano tralasciati gli argomenti più propriamente sionisti, come il diritto all'autodeterminazione degli ebrei in Palestina. Da questa narrativa tutta incentrata sull' Europa, rimanevano esclusi gli ebrei dei paesi islamici. In generale, il salvataggio degli ebrei "orientali" suscitava meno emozione negli Stati Uniti e meno sostegno nella comunità internazionale. Tale contraddizione si sarebbe palesata al termine della guerra. Il problema dei rifugiati ebrei disseminati nei campi in Europa o ancora ospitati dai campi di concentramento tedeschi liberati tornò a imporsi come la priorità assoluta. In termini politici, sfruttare la Shoah equivaleva a costruire una legittimazione morale per il "focolare ebraico" in Palestina e a sostegno della creazione di uno Stato indipendente 1 3 . In termini pratici, puntare sui rifugiati in Europa signifi­ cava attingere alle ampie risorse dell'American Jewish Joint Distribution Com­ mittee (AJJDC ) , che a sua volta beneficiava delle donazioni, pubbliche e private, delle organizzazioni ebraico-americane 1 4• Gli Stati Uniti, che si erano affermati proprio con la vittoria alleata come prima potenza mondiale, percepivano un legame ideale con il continente euroShlomo Sand, Les mots et la terre; Tom Segev, Il settimo milione; Hanna Yablonka, I mizrahim e la Shoah. 13. Le Nazioni Unite nel 1948 erano composte a maggioranza da Stati occidentali. 14. AJJDC, History ofJDC - the 194 0s (http://archives.jdc.org/history-of-jdc/ ?s=a­ rchivestopnaY) . 11.

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peo e con la tragedia morale e materiale che vi si era consumata negli anni del nazismo, e contavano, inoltre, una vasta comunità ebraica, accresciuta dai rifu­ giati ebrei scappati dall' Europa negli anni Trenta. Ben Gurion e i dirigenti del Mapai si resero immediatamente conto che il futuro dell' Yishuv sarebbe dipe­ so dalla capacità della comunità ebraica di Palestina di avviare un canale prefe­ renziale con gli Stati Uniti. Questo legame poggiava sulla necessità di risarcire il popolo ebraico per il genocidio di sei milioni di ebrei, ma per ottenere di rappresentarlo le autorità ebraiche della Palestina dovevano dimostrare di con­ siderare l 'annientamento degli ebrei in Europa come una tragedia dell' Yishuv. Riorientarono, dunque, il Mossad le- 'Aliyah Bee verso l' Europa, in modo da occuparsi dell'emigrazione dai campi nazisti, e l ' immigrazione degli ebrei dei paesi islamici, che pure erano considerati a rischio di persecuzioni imminenti, passò in secondo piano. Essa non sarebbe tornata a essere una priorità fino al 1949, quando nuovi problemi di sicurezza si sarebbero posti, modificando l'a­ genda politica sionista.

1.3

La società sionista degli anni Cinquanta : quale Israele ? Scrive lo storico Scernhell ( 1 0 0 1 , p. 3 3 ) , considerato un "revisionista di sinistra" dalla storiografia "ufficiale", che « lo Stato d' Israele è un classico prodotto del nazionalismo europeo » . Le generazioni di immigrati ebrei che arrivarono nei sessant'anni precedenti all' istituzione dello Stato, non sarebbero stati dei "so­ cialisti", ma "nazionalisti". Da dove allora si sarebbe originato il mito delle pri­ me generazioni di pionieri con l'obiettivo di creare una società ugualitaria in Palestina, attraverso il lavoro manuale ? Sternhell risponde che la generazione della seconda 'aliyah fu associata al­ la rivoluzione russa, poiché era immigrata in Palestina a seguito del fallimento della rivoluzione del 1905. Dal momento che, al suo interno, il gruppo più orga­ nizzato era composto dai militanti socialisti del Po'alei Tzion (Operai di Sian) , l'ondata migratoria sarebbe stata associata al progetto di costruire una società socialista in Medio Oriente. Tuttavia la maggioranza del movimento sionista si era spostata fin da subito su posizioni nazionaliste. Esponenti celebri di questa svolta erano stati Ben Gurion, Katznelson e Gordon, che avevano coniugato i principi universali del socialismo con il nazionalismo e il mito dell'eccezionali­ tà ebraica. Risale al 1 9 14 una dichiarazione di Ben Gurion in cui sosteneva che « i sionisti socialisti non erano venuti in Palestina per realizzare il comunismo, ma per sviluppare il paese al fine di creare una nuova nazione » 1 5 • La sua diffi15. Ben Gurion alla conferenza ddl'Ahduc ha 'Avoda, in Afi-ma'amad le-am, Avyanoc, ,. Tel Aviv 1955, p. 2.2.1.

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denza verso il comunismo era nota, e risaliva alla scissione interna del movi­ , mento Po alei Tzion, a cui Ben Gurion era appartenuto, in due correnti, di cui , 1 una fìlosovietica e 1 'altra incentrata sulla creazione di uno Stato in Palestina (Teveth, 1987, pp. 166-9). La tesi di Sternhell è, dunque, che il sionismo non abbia mai avuto veri in­ tenti socialisti, ma affondi le proprie radici nei movimenti etnonazionalisti (o ispirati al nazionalismo etnico herderiano) intrisi di connotazioni romantiche e religiose, diffusi nel tardo Ottocento in tutta l'Europa orientale16• Tale tesi è molto diffusa tra gli intellettuali che appartengono alla corrente dei "nuovi storici", tra cui il sociologo Kimmerling (1983) , che identificò anch'egli nel lin­ guaggio sionista una tendenza giudeocentrica tipica dei movimenti nazionali­ sti. Un corollario di questa ideologia nazionalista era, infatti, la diffidenza verso il mondo esterno, verso la condotta dei "gentili". Se i Sionisti Generali e gli ebrei liberali, che a maggioranza si identificavano con gli ebrei tedeschi e statuniten­ si, avevano sempre cercato di coltivare buoni rapporti con i paesi occidentali, negli ebrei dell'Europa orientale persisteva una forte sfiducia verso il "mondo esterno". Questo atteggiamento di sospetto e di timore è ben esemplificato da una celebre poesia di Amir Gilboa del 1965 intitolata T édi come le nazioni dove il testo della poesia si sviluppa lungo il paragone tra Israele e gli altri paesi, so­ stenendo che Israele non possa fare affidamento su di essi, ma sia un paese de­ stinato a «farcela da solo» (Gilboa, 1976, p. 205). La critica di Sternhell, tuttavia, si spinge ancora oltre, sostenendo che il movimento sionista non avrebbe mai varato politiche improntate alla redistri­ buzione della ricchezza, puntando piuttosto su una separazione netta (o apar­ theid) tra lavoro ebraico e non. La società sionista, all'atto della fondazione dello Stato, era costituita da una popolazione di circa 671.900 ebrei (cresciu­ ti già a 758.700 alla fine del 1948) 1 7• La classe dirigente del paese era, propor­ zionalmente, molto esigua anche rispetto alla popolazione dell'epoca, nonché estremamente coesa, essendo composta quasi esclusivamente da immigrati del­ la seconda 'aliyah (1904-14). Horowitz mise all'indice il prestigio morale di cui si era circondata tale élite della seconda 'aliyah, definendo la classe dirigente sionista del Mapai una sorta di "Mayflower israeliana", ovvero un'élite purista ed esclusivista, fanaticamente impegnata nella difesa della propria identità, col tempo involutasi in una casta chiusa, tanto a nuovi membri che alle nuove idee che circolavano nella società (Horowitz, 1975, p. 26). In effetti, le persone che 1 6. «Nell' Europa centro-orientale : ... ] ciò [ ... ] a cui tendiamo a riferirci è il nazionali­ smo dd periodo posteriore: al 1848 [ ... ] riferito a un periodo nd quale: c:sso ha pc:rso il proprio legame esclusivo con il liberalismo » ( intervista a Stuart Woolf, Enciclopedia multimedia­ le delle scienzefrl.osofiche, Rai-Educationa1, 12 febbraio 1000, wv..-w.emsf.rai.it, accessibile su http: //vv·w·w.caffc:c:uropa.it/attualita/70attualita-,voolf.html) . 17. CBS, Statistica! Abstract of Israel, Population Estimates by Religion and Population Group, Table 1.1, 1006, p. 85 .

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andarono a confluire nel governo provvisorio e poi nella prima Knesset furono in gran parte le stesse e il Mapai provò a limitare il più possibile il numero dei seggi al Parlamento 18• I centoventi seggi finali furono il prodotto di un compro­ messo con i movimenti sionisti di minoranza, che avevano cercato, al contrario, di allargare la rappresentanza parlamentare. La prima classe dirigente sionista aveva una chiara e organica concezio­ ne delle istituzioni e un piano di sviluppo per il paese. Nessuna forza politica concorrente poteva proporre una visione alternativa altrettanto esaustiva dello Stato e della sua "missione'•, e questo fu l'elemento che spostò radicalmente gli equilibri interni a favore del Mapai. Il partito credeva nella democrazia, ma al servizio dello Stato e quest' ultimo doveva avere priorità sui cittadini. Il Mapai, influenzato dalla figura carismatica di Ben Gurion - considerato già in vita un "padre della patria" -, aveva stilato nel marzo del 1949 un "decalogo" dei prov­ vedimenti da varare nei primi anni di governo. Tra questi, risultavano : la legge sull'uguaglianza civile e la libertà di religione e di coscienza; la parità tra i sessi ; la libertà di espressione e associazione e il suffragio universale ; la coscrizione universale obbligatoria; la nazionalizzazione delle fonti d'acqua, delle risorse naturali e delle terre abbandonate ; la regolamentazione di prezzi e importazio­ ni; una tassazione progressiva; provvedimenti a incoraggiamento e sostegno della natalità ; l' istituzione dell'obbligo scolastico ; esenzioni per i soldati smo­ bilitati e molte altre 1 9 • Al centro della visione del nuovo Stato si collocava l ' Histadrut, di cui Ben Gurion era stato eletto primo segretario. Secondo Ben Gurion, l' Histadrut do­ veva essere considerata un "patto" del lavoro sottoscritto dalla nazione nel suo complesso. « Un patto tra i fondatori del paese, tra i rinnovatori della nazione, tra i creatori dell'economia e della cultura, tra i riformatori della società. Que­ sto patto non si basa sul tesseramento, e nemmeno sulla legislazione, ma su un'unione di fato e destino - una comunione per la vita e la morte. » 10 Parole auliche per un uomo altrimenti pragmatico, spese per uno dei pilastri del nuovo ordine istituzionale. La democrazia che l'élite sionista sembrava delineare aveva caratteri consociativi : la rappresentanza degli interessi non avveniva per catego­ ria, ma puntava sulla ricerca continua di un compromesso tra le parti. In passato, nell' Yishuv, si erano già tenute elezioni per l'Assemblea elettiva con un sistema proporzionale e alla prima tornata elettorale post-indipendenza per eleggere l'Assemblea costituente il Mapai si assicurò nuovamente la mag­ gioranza dei voti con il 53% 1'. Il potere esecutivo veniva accentrato nella figura 18. lvi, p. XIV. 19. Diari di Ben Gurion, note personali, datate I I marzo 1949. 20. Ben Gurion, In anticipazione deljùturo, discorso alla VI Conferenza dell' Histadru t, gennaio 1945, in Afi-ma'amad le-am, Ayyanoc, Td Aviv 1955, p. 5 20. 21. « La sua percentuale di voci era cresciuta dal 35 % del 1920 al 53% del 1944 » ( Schindler, 2008, p. 6 6).

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del primo ministro, espresso dal partito di maggioranza, mentre al presidente spettava un ruolo di garanziau. Un altro dei principi-guida dell'azione del Mapai fu l'assoluta separazione tra arabi ed ebrei. Se altri partiti sionisti si erano cullati nell'idea di poter inte­ grare gli arabi tra le proprie fila o puntare a uno Stato binazionale, il Mapai non aveva mai coltivato questa illusione. Ancora una volta, facendosi espressione di una visione consapevole tanto dei limiti contingenti che del carattere effi­ mero delle proposte di collaborazione arabo-ebraiche, il Mapai aveva imposto una politica di fermezza, fondata sulla costituzione di una solida maggioranza ebraica all'interno dei confini usciti dalla guerra. In politica estera la posizio­ ne antiaraba del Mapai si era andata delineando gradualmente, fino a giungere alla persuasione che solo una netta separazione "etnica" avrebbe potuto porre le basi per una cooperazione regionale. In un discorso del 1 947, Ben Gurion ebbe a dire che gli arabi volevano trattare gli ebrei in Palestina come « avevano fatto con gli ebrei di Baghdad, del Cairo e di Damasco» 1 J . Una dichiarazione che indicava come la pulizia etnica della Palestina in funzione antiebraica fos­ se ritenuta dal Mapai una minaccia concreta. Il 1 6 giugno del 1 948 il gabinetto provvisorio (di guerra) israeliano assunse la decisione di vietare il ritorno alle loro case degli arabi di Palestina, fuggiti allo scoppio delle ostilità, per tutta la durata del conflitto. Tale decisione si sarebbe poi trasformata in una disposizio­ ne definitiva, in vigore fino al 1 9 67 14 • Più difficile fu il dibattito interno allo stesso partito su come gestire i 1 70.0 0 0 "nativi interni", ovvero la minoranza araba, determinata a rimane­ re. Molti membri del Mapai ritenevano gli arabi pericolosi e peroravano uno scambio di popolazioni2S , mentre altri optavano per soluzioni più conciliatorie, come quella espressa da Lavon - allora segretario generale dell' Histadrut - , che contemplava la possibilità di integrare limitatamente i giovani arabi di Palesti­ na nell' Histadrut16• Haim Weizmann - primo presidente dello Stato di Israele - apparteneva infatti ai Sionisti Generali, eredi di una vasta rete di rapporti internazionali con i paesi occidentali. 13. David Ben Gurion, dichiarazione all'Assemblea elettiva, 2 ottobre 1947. 2.4. "Emergency Defence Regulations", promulgate dal governo britannico ( 1945). « Attorno a Lidda e Ramleh [ ... ] molti abitanti arabi scappano dalle due città, gli altri ven­ gono espulsi, solo una piccola parte di essi rimane nelle città. I pochi palestinesi rimasti ven­ gono concentrati in enclave; a Lidda questa enclave prende il nome di ghetto, aJaffa diventa il quartiere di Ajami, mentre a Ramleh quello di Juwarish, quartiere esclusivamente arabo, dove ancora oggi vivono concentrati soprattutto beduini » (Terenzi, 2.015, cap. IV, par. 5). 15. Verbale della riunione del Mapai : ?vfapai, deputati (a colloquio) con il Segretariato, 8 gennaio 1949, Archivi del Partito laburista. 16. Pinhas Lavon: « Gli ultimi venti anni che abbiamo educato il nostro pubblico [ ... ] non hanno condotto a una coesistenza ebreo-araba. La ragione è che :... ] vi sono dei peri­ coli molto reali » (Problemi dell'Histadrut e dello Stato, febbraio 1 948, Archivi dd Partito laburista, 7/69/ 48). 2.2..

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Inizialmente fu istituito un ministero per le Minoranze, a testimonianza dello sforzo d'integrare la minoranza araba sulla base della parità dei diritti e nel rispetto delle proprie specificità culturali. A capo del ministero sarebbe stato posto il primo (e a lungo unico) ebreo "orientale" presente al governo, l'i­ racheno Bechor Shalom Sheetrit (o Shitrit). Tuttavia, appena alcuni mesi do­ po, il ministero delle Minoranze fu declassato a Dipartimento degli Affari ara­ bi ali'interno dell'l}fficio del primo ministro, in modo da essere direttamente controllato dallo stesso Ben Gurion (Segev, 1998, pp. 47-8). Questa decisione sarebbe stata accompagnata - nel febbraio 1949, subi­ to dopo la conquista di Ramleh e Lydda - dalla promulgazione della legge marziale, che avrebbero imposto severi vincoli alla mobilità della minoranza araba, tra cui il coprifuoco e l'arresto senza obbligo di comparizione davanti a una corte. La legge marziale, giustificata con la necessità di combattere le infiltrazioni di rifugiati o assalitori arabi lungo i confini - aiutati e nascosti dalla popolazione araba locale -, in realtà serviva al governo per controllare in modo capillare i movimenti della popolazione araba e confiscare tutti gli immobili non ancora rivendicati. Il controllo militare di alcune località per­ mise anche alle autorità di "trasferire" un certo numero di arabi oltre i confini anche a ostilità concluse17• Il Mapai si fece promotore nei confronti degli arabi di una politica artico­ lata su tre principi: la separazione netta tra comunità etniche, il divide et impera all'interno della minoranza - prassi ereditata dai britannici - e la cooptazione delle élite nel partito. Per questa ragione, nella prima Knesset, figuravano tre deputati arabi. Fu stabilito di demandare il governo della popolazione araba non più all'amministrazione civile, ma all'esercito, e alla promulgazione del­ la legge marziale poche voci si levarono in senso contrario: tra queste, alcuni giudici, ma non quelli della Corte Suprema18 , e i membri dell' Herut, incluso Menachem Begin, che temevano che la stessa legge potesse essere rivolta contro altri gruppi minori, come i Sionisti Revisionisti 19 • I notabili arabi continuarono a essere cooptati nelle fila del partito, eletti su liste arabe separate: un'impostazione pragmatica, tesa a sventare il pericolo della formazione di liste arabe autonome i 0 L'attitudine generale del governo nei confronti della minoranza araba è ben evidenziata dalla testimonianza di Fel•

27. Il Reg. n. 109 assegnava al governo militare il potere di deportare persone per "mo­ tivi di sicurezza" ( Cohen, 2.007). 28. Tra questi, il giudice della Corte distrettuale di Td A,iv, Shalom Kassan, che si pronun­ ciò apertamente: in modo contrario, sollevando una questione: di coscienza ( Sc:gcv, 1998, p. s 1 ). 29. L'opposizione di Menachem Begin è riportata in un articolo di "Ha'aretz" del 7 gennaio 1949. 30. «La prassi ddla divisione: era comunità porta frutto e [ ... ] riesce a creare barriere: : .. . ] la diffìdenza tra drusi e arabi » (!vfapai, Memorandum interno, Archivi del Partito laburista, sez. 2., n. 901) .

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mann ("ribattezzato" Palmon), consigliere per gli Affari arabi presso l' Ufficio del primo ministro: «Nel 1 929, le sollevazioni antiebraiche in Palestina mi insegna­ rono che avevamo soltanto due alternative davanti a noi: arrenderci o la spada. Ho scelto la spada. [ ... ] Non sono sorpreso dal fatto che gli arabi siano fuggiti, è stata una reazione naturale. I migliori tra loro sono scappati - i leader, l' intelli­ ghenzia, l'élite economica. Soltanto i "piccoli polli" sono rimasti [ ... ] . Mi sono opposto all'integrazione degli arabi nella società. Preferivo uno sviluppo separa­ to. È vero, ciò ha impedito agli arabi di integrarsi nella democrazia israeliana. Ma loro non avevano mai avuto la democrazia prima. Poiché non l'avevano mai avu­ ta, non poteva nemmeno mancare loro. La separazione rese possibile mantenere un regime democratico per la sola popolazione ebraica » 3 \ Il discorso sull'arretratezza della minoranza araba in confronto alla società ebraica era diffuso tra la classe dirigente sionista degli anni Cinquanta. Gli arabi di Palestina erano stati lasciati ai margini della modernizzazione dalle loro stesse élite, principali responsabili della sciagura che li aveva colpiti perché incapaci di elaborare una strategia "nazionale" di fronte alla penetrazione ebraica in Palesti­ na. Tale atteggiamento di aperto disprezzo, ispirato da sentimenti di superiori­ tà culturale, si sarebbe presto riproposto nell'attitudine delle autorità statali nei confronti degli ebrei dei paesi islamici. 1.4

Sefarditi e mizrahim: gli ebrei "del Levante", del Maghre b e della Mezzaluna fertile La distinzione tra ebrei aschenaziti e sefarditi ricalca una ripartizione in due ma­ crogruppi ebraici che storicamente si distinguevano tra loro in base alla tradizio­ ne religiosa, senza nessuna accezione etnica. I sefarditi, nella voce dell'Enciclope­ dia Treccani, vengono definiti come: «Gli ebrei residenti nella Penisola Iberica sino alla fine del quindicesimo secolo, gli esuli da quella regione (insediatisi in molti paesi del bacino mediterraneo e altrove) e i loro discendenti. Rappresen­ tano uno dei due gruppi principali in cui è diviso l'ebraismo» 3 1 • Se l'origine fu, dunque, iberica e la lingua comune il giudeo-spagnolo, ciò che li contraddistinse storicamente fu una pratica religiosa diversa, che ne fece la seconda tradizione ebraica dal punto di vista filosofico e rituale. In generale, si definiscono sefar­ dite quelle "scuole" che si rifanno al Shulban Arukn di Joseph Caro, un com31. Intervista di Segev a Yehoshua Felmann, realizzata il 6 giugno 1983, in Segev, 1998, p. 67. 32. Enciclopedia Treccani, voce Sefarditi ( \\'\\'W.treccani.ic/enciclopedia/sefarditi/). 33. 11 Shulban Aruk è un testo sapienziale del 1563, nato dalla fusione dei commentari di tre grandi rabbini medioevali Al-Alfasi, Rabbi !vfoshe ben Maimon e ben Yekhyd, anche definiti Rif, Rambam e Rosh, compilato da Rabbi Yosef Caro.

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pendio delle leggi talmudiche elaborato dal rabbino di Zfat nel 1563. Si intende anche una liturgia dove spesso la recitazione della Torah è accompagnata dal canto e con rituali e divieti alimentari, soprattutto connessi alla celebrazione della Pasqua ebraica, differenti. Oltre la differenza di costumi, appartiene alla tradizione sefardita una maggiore identificazione con le società mediterranee e l'assimilazione di aspet­ ti della cultura arabo-islamica. Tra i sefarditi prevale una minore codificazione legale e una maggiore flessibilità e capacità di adattamento alle evoluzioni della società e ai suoi bisogni reali, a cui la legislazione rabbinica deve rispondere 14 • Le comunità sefardite erano presenti in "Terrasanta", in tutti i paesi arabi e islamici (inclusa la Turchia ed escluso lo Yemen, che vantava una propria tra­ dizione autonoma), ma anche, in misura minore, in Bulgaria e nei paesi balca­ nici. La diffusione del rito aschenazita coincise di massima con il continente europeo e - tramite l'emigrazione - anche con gli Stati Uniti. Differente la situazione in Sudamerica, dove si ritrovano entrambe le tradizioni anche se vi prevalgono gli aschenaziti. Sintetizzando, è facile comprendere come alle due tradizioni religiose è facile attribuire profonde connotazioni culturali, in base al carattere dei paesi che ne videro la loro maggiore diffusione. Col tempo "se­ farditi" vennero considerati tutti gli ebrei che provenivano da paesi "levantini" mediterranei e, soprattutto, da quelli a maggioranza musulmana31 • I termini "levantino" e "arabo-islamico" non sono, però, sinonimi, né si riferiscono strettamente alla stessa cultura, per quanto esistano aree di sovrap­ posizione reciproca. Lo evidenzia bene Kahanoff, un'ebrea cairota, immigrata prima negli Stati Uniti e poi in Israele, che, nei suoi scritti, dedicò molto spazio alla riflessione sulla cultura levantina, la cui eredità e memoria sosteneva fosse­ ro andate perse in Israele 3 6• La sua definizione di "Levante" era rivelatrice del Kulturkampfche ella andava conducendo in Israele negli anni Cinquanta, data della sua immigrazione nel paese: «Il Levante [ . .. ] non è sinonimo di Islam, anche se una maggioranza dei suoi abitanti sono musulmani. [ . .. ] È chiama­ to "Vicino" o "�ledio Oriente" in relazione con l'Europa, non rispetto a se stesso. Visto dall'Asia, potrebbe essere chiamato "l'Occidente di mezzo". Qui, infatti l'Oriente e l'Asia si sono incrociati, lasciando la propria impronta in monumenti decadenti e nelle memorie indistinte dei popoli del Levante. [ . . . ] Il concetto di luce è contenuto nella parola "Levante", come anche nella parola "mizrah"» (Kahanoff, 1978, pp. 4-5). 34. Cn episodio riportato da Z. Zohar { 19 85): « Sul voto alle donne, Benzion Uziel, il rabbino capo di Jaffa, formulò un verdetto originale che superava l'autorità misogina di Mai­ monide. Questo avveniva nel 192.0, quando solo i paesi europei avevano garantito il voto alle donne » . 35. Gli ebrei italiani vengono associati alla "tradizione sefardita" nonostante la tradizio­ ne ebraica italiana vanti una tradizione liturgica autonoma. 36. La Kahanoff, scrittrice e saggista, è autrice di (Jnagmerazione di levantini.

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All'interno delle comunità ebraiche del Levante erano presenti molte stra­ tificazioni: non era raro riscontrare ebrei che si definivano "autoctoni" ed ebrei, spesso appartenenti a fasce sociali più agiate, che continuavano a vantare ori­ gini sefardite (nel senso di spagnole, nel caso del Marocco, o portoghesi e ita­ liane, nel caso della Tunisia). Alcalay sostiene che la tradizione sefardita avreb­ be potuto essere proficuamente incorporata nella cultura nazionale israeliana, qualora le sue basi non fossero state denigrate dall'intellighenzia nazionale aschenazita, imbevuta di orientalismo europeo. La tradizione "levantina" caratterizzò l'appartenenza culturale delle co­ munità ebraiche presenti nelle località costiere del ìviediterraneo, mentre quelle dell'interno si erano integrate alla cultura arabo-islamica, assumendo­ ne la lingua, nonché i costumi e le abitudini alimentari. Le comunità arabo­ fone vantavano un patrimonio culturale assai ricco, che aveva tratto profitto dal confronto, dall'apertura, dalla tolleranza, dall'estensione geografica degli imperi islamici in epoca classicaP. I sefarditi avrebbero poi inevitabilmente risentito del declino dei paesi islamici a partire dai primi secoli dell'età mo­ derna, quando si sarebbe compiuto quel rovesciamento dei rapporti di forza con l'Europa poi sfociato nello smembramento dell'Impero ottomano. Gli ebrei "orientali" avrebbero condiviso con i loro connazionali i contraccolpi della storia. Nella Palestina mandataria la comunità ebraico-sefardita aveva sempre goduto di grande prestigio, tanto che il Gran Rabbino, la massima autorità religiosa, era stato eletto tra le sue fila3 8 • Tale usanza, praticata nell'Impero ottomano fin dal XVI I secolo, rimase inalterata nella prassi dell' Y ishuv al­ meno fino al 1 9 2 1 , quando al Gran Rabbino sefardita venne affiancato da­ gli inglesi un Gran Rabbino aschenazita, con funzioni e autorità equivalen­ ti. Tale misura rientrava nella logica coloniale di scindere la rappresentanza ebraica in Palestina e indebolire il gruppo più fedele all'Impero ottomano. Un'intenzione che si evince bene dalle parole di Elyachar, uno dei più no­ ti esponenti della comunità sefardita di Palestina 1 9 : « La ragione fu questa: così come l'autorità era passata dalla Turchia alla Gran Bretagna, tale e qua­ le la leadership passò agli ebrei anglosassoni, occidentali o est-europei. [ ... ] Dall'occupazione britannica in poi, i sefarditi vennero messi in un angolo. 37. « Con la conquista araba che segul l'espansione ddl' Islam, [ ... ] la maggioranza degli ebrei all'epoca cadde sotto la dominazione araba : ... ] . Iniziò il periodo della grande simbiosi arabo-ebraica » (Goitein, 19 67-83, vol. 1 , pp. 6-7). 38. Dal 184 l, le funzioni di Gran Rabbino di Costantinopoli, chiamato Hakham Bashi, e di Gran Rabbino di Palestina vennero assommate in una carica unica, chiamata Rishon

le-Zion .

39. Eliyahu Elyachar, di formazione medico, era un ebreo sefardita presidente della co­ munità sefardita gerosolimitana, deputato, editore dd settimanale "'Ed ha-mizrah" :L'eco dell' Oriente] .

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Dimenticati, come non fossero mai esistiti» (Alcalay, 1993, p. 39) . La cultura sefardita, levantina e araba degli ebrei di Palestina venne erosa fin dagli anni Venti, a beneficio del colonialismo. Parimenti, venne erodendosi l'atmosfera di simbiosi culturale tra arabi ed ebrei, a vantaggio di una percezione reci­ , procamente negativa, impostata sull esaltazione delle differenze e sulla con­ trapposizione frontale. Il colonialismo ebbe un impatto altrettanto lesivo sul rapporto che legava le comunità ebraiche alle maggioranze arabe dei rispettivi paesi, che storica­ mente poggiava sui limiti posti dalla dhimmitudine, ma anche sull'attribuzio­ ne alle comunità ebraiche di un'ampia autonomia collettiva, rispetto a quella concessa ai loro correligionari europei4 0 I regimi coloniali imposero a tali pa­ esi cambiamenti repentini e radicali, con obiettivo di integrare i mercati del Medio Oriente nel sistema mondiale del commercio e servire i traffici europei. È evidente che le fasce sociali superiori delle comunità ebraiche si avvantaggia­ rono della presenza coloniale europea e che le autorità coloniali, a loro volta, sfruttarono la presenza di una minoranza ebraica in tali paesi ali' insegna del divide et impera 4 '. Il colonialismo europeo si insinuò all'interno del rapporto tra arabi ed ebrei in maniera subdola, riproducendo la distinzione ottoma­ na in millet per trasformarla da appartenenza religiosa a minoranze etniche all'interno di Stati-nazione. Soffermarsi sulla definizione degli ebrei dei paesi islamici come sefarditi, levantini, arabi o arabofoni, è utile a evidenziare la difficoltà esistente nel ri­ correre a un'etichettatura unica. Risalta, al contrario, l'estrema eterogeneità di comunità che si distinguevano dalle maggioranze musulmane dei rispettivi paesi in base sia all'appartenenza religiosa e culturale che, in alcuni casi, alla lingua. Come si arrivò, quindi, a una definizione collettiva unica di tutte que­ ste comunità in un gruppo omogeneo, successivamente definito dei "mizra­ him " (gli "orientali") ? Raz-Krakotzkin ha fornito la definizione più chiara del termine, scri­ vendo che la categoria "mizrahim" « entrò in uso solo dopo che gli ebrei dei paesi islamici erano arrivati in Palestina [ ... ] . In Israele "mizrahim" arrivò a denotare un'identità di cui gli ebrei dei paesi islamici si appropriarono in ri­ sposta alla loro marginalizzazione all'interno dello Stato ebraico sulla base della loro provenienza - un' identità ibrida prodotta sia dall'atteggiamento assimilazionista che dalla resistenza a esso» (Raz-Krakotzkin, 20 0 5 , p. 17 3). •

r

40. « �on si vuole negare che lo statuto di dhimmi, applicato tanto agli ebrei che ai cristiani in quanto minoranze: protette:, fosse: fondamc:ntalmc:ntc: iniquo. Ma, come: sottoli­ neò !v1axime Rodinson, tale particolarismo si iscriveva nella logica propria al contesto sto­ rico dell'epoca e non aveva niente dell'antisemitismo patologico di tipo europeo » (Shohat, loo 6, p. s8). 41. Come ben ricorda Alcalay, le comunità "intermediarie" - greci, ebrei, armeni - fu­ rono tutte ugualmente oggetto ddl'avida competizione coloniale (Alcalay, 1993, p. 199).

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In altre parole, il termine "mizrahim" sarebbe stato frutto di un doppio im­ pulso: da una parte, di un incontro ambiguo tra ebrei europei e ebrei di altra provenienza, avvenuto su basi ineguali, in un momento in cui le istituzioni dello Stato erano già formate e le cui autorità, politiche e intellettuali, erano imbevute di orientalismo -, e dall'altra, dall'omologazione di questi ultimi in un'unica categoria, contraddistinta dalla propria passività storica nei primi vent'anni di vita dello Stato. Tale omologazione sarebbe stata interiorizzata da tutti i nuovi immigrati ebrei {levantini, arabofoni o sefarditi) ugualmente oggetto di discriminazione per la loro vicinanza alla cultura arabo-islamica e marginalizzati all'interno della nuova cultura israeliana. Le esperienze maturate in Israele, più che la somiglianza della cultura d'o­ rigine, avrebbero reso tutti gli ebrei di origini "arabo-islamiche" - gli ebrei ma­ rocchini di cultura araba maghrebina e berbera, quelli egiziani di cultura "levan­ tina", quelli iracheni di cultura araba classica e, ancora, quelli yemeniti scarsa­ mente toccati dalla modernizzazione delle élite perseguita dall'Alliance israélite universelle (Laskier, 1983) -, tutti, universalmente, dei "mizrahim". Alcalay si mostra ancora più radicale su questo punto, sostenendo che il sionismo come progetto politico avrebbe condotto « a ciò che nessun impero era stato capace d'ottenere: la sostituzione di un fondo comune, esemplificato dal patto alla base dell'esistenza collettiva ebraica, con un'appartenenza nazionale, etnica e razzia­ le, una rottura le cui implicazioni profonde stanno appena iniziando a emerge­ re» (Alacalay, 1993, p. 52.) .

1. 5

La "grande 'aliyah": tutte le diaspore in Israele Per "grande 'aliyah" si intende il fenomeno di immigrazione di massa degli ebrei in Israele compreso era il 1948 e il 1951. Nel solo 1948, a guerra ancora in corso, giunsero in Israele 100.000 persone; nel 1949 furono 239.576, nel 1950, 170.249 e nel 1951, 175.0954 1 : in totale, il numero complessivo si aggirò intor­ no 634.700 persone 4 ' (che sarebbero cresciute ancora l'anno successivo, fino a giungere a 7 20.000 ), tra cui 313.2.00 ebrei dei paesi islamici4 4 . La cifra comples­ siva s'aggirò intorno alle 686.700 4s . È possibile scindere i dati dell'immigrazione in base alle regioni d'origine per afferrare meglio la portata complessiva del fenomeno. Nel 1948, della po42. Cifre riportate in Bar-Zohar, 1986, p. 188. 43. La cifra dell' immigrazione di quegli anni, in realtà, ammontò a 8 7 0.000 persone, di cui un 13% riemigrò verso Stati Cniti e Canada (19s3) (Shicron, 1986, pp. 31-52). 44. La "grande 'aliyah" comprese anche 321.so1 immi graci aschenazici. 45. Di 1 9 .0 0 0 persone non fu riportata l'origine all'ateo dell' immigrazione.

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polazione ebraica totale (pari a I I milioni e mezzo), la maggioranza assoluta si trovava negli Stati Uniti (e inCanada), pari al 51,2%. Seguiva l'Europa con una percentuale del 32,8% e, estremamente distanziate, il Nordafrica con il 6,5%, Israele con il 5,7% e l'Asia con il 3,8% 46• Israele avrebbe festeggiato il supera­ mento del suo primo milione di abitanti nello stesso momento in cui l'Europa orientale e l'Asia si svuotavano pressoché completamente di ebrei. La "grande 'aliyah" venne così definita per una serie di condizioni del tutto eccezionali. La prima fu che la fondazione dello Stato di Israele aveva compor­ tato un fatto totalmente nuovo nello scenario mondiale, innestando un feno­ meno migratorio maggiore. La seconda fu che le reazioni del mondo arabo, entrato in lotta contro il nuovo Stato, fecero sì che alcune minoranze ebraiche al loro interno si ritrovassero in condizioni di pericolo. La terza fu la particola­ re urgenza di integrare migliaia di profughi. La quarta fu l'estrema varietà dei paesi di provenienza degli immigrati, che spaziavano dall'India al Marocco. La quinta che, per la prima volta, non si trattò di un'immigrazione individuale, ma dell'evacuazione - assistita dal governo israeliano -, di intere collettività di migliaia di persone, inclusi donne, vecchi e bambini. La sesta fu l'incombente minaccia di guerra che gravava sul paese. La settima, infine, la difficoltà legata all'assorbimento di una popolazione d'immigrati eccedente quella allora pre­ sente sul territorio dello Stato. Sociologicamente, la "grande 'aliyah" si distinse rispetto alle precedenti ondate migratorie per l'aumento esponenziale della percentuale di ebrei pro­ venienti dai paesi islamici. Si trattò infatti, di un'impennata del 405% per gli ebrei asiatici e del 769% di quelli del Nordafrica (Lissak, 1972, p. 13): prima del 1948, gli ebrei provenienti dall'Africa erano stati assenti in Palestina. La popo­ lazione "israeliana", allora prevalentemente d'origine europea, nell'arco di po­ chi anni venne in contatto con un'importante immigrazione da paesi islamici. Tra i veterani, alcuni temettero - oltre ai costi economici ai quali lo Stato do­ veva far fronte - l'imbarbarimento del paese e spronarono le autorità a favorire piuttosto l'emigrazione dagli Stati Uniti. Un altro elemento distintivo della "grande 'aliyah" furono le ragioni che avevano causato tale immigrazione di massa: per la prima volta non si trattava di una decisione volontaria, presa a titolo individuale dai potenziali immigra­ ti, ma di una scelta indotta dalla fondazione dello Stato di Israele. Per quanto riguarda i paesi musulmani, lo storico Sadoun sottolinea l'impatto che in tutti i paesi arabi ebbero i "fatti di Palestina", tale da spingere, quasi contemporanea­ mente, le com unità ebraiche all'immigrazione•"!: per numero di morti, gli even-

4 6. In Europa sarebbero rimasti solo 3.2.00.000 ebrei, di cui la netta prevalenza in U R S S . 47. In Egitto il sionismo fu messo fuori legge il 2 novembre 1945: in Libia si ebbe un pogrom il 12. giugno dd 1948, cosl come in Egitto, circa una settimana dopo: infine, in Siria, si ebbe un pogrom nell'agosto del 1949 (Sadoun, 1995).

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ti violenti avvenuti in Libia sarebbero risultati gli episodi più gravi, ma in tutti i paesi arabi le tensioni creatisi ali' indomani della fondazione di Israele contri­ buirono a ingenerare nelle comunità ebraiche un sentimento di rigetto da parte delle maggioranze musulmane. Non sarebbero state, però, soltanto le violenze fisiche a spingere gli ebrei più riluttanti all'emigrazione, ma anche le reazioni politiche dei governi e delle opinioni pubbliche arabe. Sulla stampa, nei principali paesi arabi, com­ parvero articoli che incitavano all'odio antisionista e in cui tutti gli ebrei ve­ nivano considerati potenziali candidati ali' immigrazione in Palestina4 8• Tra gli atti ostili alle comunità ebraiche vennero istituiti comitati di solidarietà agli arabi di Palestina e indetti scioperi e campagne di boicottaggio a danno dei negozi ebrei. Le violenze a sfondo antiebraico coglievano spesso pretesto dall'interpretazione forzosa di episodi di cronaca, contribuendo a esacerbare i rapporti tra ebrei e musulmani49 per ragioni politiche e non religiose (Sa­ doun, 1995, p. 91). Altro elemento specifico della "grande 'aliyah" fu che si trattò di un'on­ data migratoria non sionista. Nei rapporti redatti dagli emissari del Mossad si evinceva spesso la diffidenza degli ebrei dei paesi islamici nei confronti di un movimento nazionale dai caratteri laici. Certamente, anche nei paesi islamici si trovavano dei gruppi sionisti. soprattutto giovanili, ma essi si rifacevano al "movimento revisionista" di Jabotinsky. Il governo israeliano era a conoscen­ za della scarsa penetrazione degli ideali sionisti tra queste comunità e aveva approntato un programma di "rieducazione delle masse" una volta immigra­ te in Israele, che non era stato possibile avviare nei paesi musulmani per l'a­ perta ostilità di alcuni rabbini e delle classi dirigenti locali. Nell'emigrazione di massa dai paesi islamici sarebbero, poi, rientrati anche numerosi ebrei ap­ partenenti a partiti comunisti e a gruppi anarchici. Questo perché le autorità arabe e iraniane mal distinsero tra sionisti e ebrei militanti in gruppi politici radicali di altra ispirazione, reprimendo tutti i gruppi di protesta internazio­ nalisti di cui gli ebrei facessero parte. Fu così che, come risultato finale, molti ebrei comunisti e anarchici si ritrovarono costretti a immigrare in Palestina alla stregua degli altri, pur non avendo mai scelto Israele come destinazione e pur non essendosi mai percepiti come un "corpo nazionale" distinto all'inter­ no dei paesi d'origines c .

48. « In Tripolitania vi erano annunci che invocavano allo sciopero e a manifestazioni per la Palestina affissi lungo tutte le mura ddle città » ( Roumani, 1008, p. 47 ) . 49. « Nell'ottobre del 1944 piombò sugli ebrei l'accusa di aver ucciso una giovane don­ na araba gettandola in un pozzo. Fu poi scoperta esser stata uccisa da una donna araba » ( De Fdice, 1978, p. 190). 50. Si considerino, ad esempio, i casi di alcuni scrittori ebreo-iracheni come Samir Ì\aqqash, Shimon Ballas e Sami �Hchad, tutti accomunati dall'ostilità al sionismo.

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Un ulteriore elemento distintivo fu la composizione socio-professionale degli immigrati. Si trattò, nel caso dei mizrahim, per gran parte di artigiani e commercianti al dettaglio s '. Il fatto che vi fossero anche pochi agricoltori tra loro dipendeva dal fatto che la grande maggioranza degli ebrei fosse urbaniz­ zata, ad eccezione degli ebrei curdi in Iraq e in Turchia e dei marocchini delle montagne dell'Alto Atlante. Per quanto riguarda il grande commercio, praticato dalle famiglie più be­ nestanti, gli ebrei erano favoriti dalla loro rete di contatti internazionali che permettevano a una stessa famiglia "allargata" di coprire tutte le città poste lun­ go le rotte carovaniere e sulle maggiori piazze mercantili del Medio Oriente. Il grosso della popolazione ebraica non era, però, benestante, né - prima del No­ vecento e della diffusione delle scuole dell'Alliance israélite universelle - aveva avuto accesso a livelli di educazione superiore e a professioni molto diverse da quelle della maggioranza musulmana: piccoli empori, spacci alimentari, arti­ gianato. I livelli educativi dei nuovi immigrati costituirono un elemento di dif­ ferenza rispetto ai gruppi migratori precedenti: tra gli ebrei dei paesi islamici quasi la metà non aveva terminato il ciclo di studi di base e solo rispettivamente lo 0,7% e lo 0,2.% degli uomini e delle donne aveva conseguito un' istruzione superiores 1 • Il quarto punto caratterizzante verteva sulla scelta di Israele come destina­ zione. Nei flussi migratori precedenti alla guerra del 1948, la scelta ultima di dirigersi verso Israele era stata volontaria: i pionieri avevano inteso fondare in Palestina una nuova società e rispondere alla sfida della "questione ebraica" in Europa. Nel caso degli ebrei dei paesi islamici non lo fu. Per ragioni che si sono esplorate precedentemente, emigrare all 'estero fu una decisione indotta dal­ le circostanze, che non implicava necessariamente Israele, e non parimenti per tutte le classi sociali. Tuttavia vi furono vari fattori che militarono a renderla una scelta obbligata per la maggioranza degli immigrati. Tra questi, il fatto che l' immigrazione in Europa e negli Stati Uniti risultasse difficile per le restrizioni poste all'ingresso. Non restavano aperte molte opzioni agli ebrei di questi pa­ esi, che, in alcuni casi, essendo stati occidentalizzati dalle scuole dell'Alliance, guardavano piuttosto a Occidente. Una minoranza, in possesso di passaporto estero - ebrei italiani, francesi o inglesi in Egitto, italiani in Libia, algerini, ma-

51. Collocazione socioprofessionalc: degli immigrati dc:i paesi islamici: Iran e Iraq: ar­ tigiani 28,4%, commercianti 28,8%, "colletti bianchi" 15%; Libia: artigiani 45,3%, commer­ cianti 1 7%, "colletti bianchi" 7,6%: simili le percentuali di Turchia e Yemen. :'\ordafrica { Tu­ nisia, ;\,farocco e Algeria): 58,9% artigiani, 10,8% commercianti (Sichron, 1986, p. 42). 51. I dati esatti erano i seguenti: il 57,8% delle donne: di provenienza dell'Asia e dell'A­ frica risultavano analfabete. Lo 0,7 e lo 0,1 rispettivamente degli uomini e delle donne ave­ va conseguito qudla superiore (Seker Khoab:Adam - Sondaggio sulla forza-lavoro, giugno 1954, Dip. di statistica e ministero dell' Istruzione: e: della Cultura, "Livello ddl'c:ducazionc: della popolazione", n. 6 6, Gerusalemme, 1958).

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rocchini e tunisini delle fasce sociali più agiate - fece rotta verso le ex potenze coloniali, inprimis la Francia, e gli Stati Uniti. La maggior parte finì per indiriz­ zarsi verso l'unico paese che, attraverso la "Legge del ritorno", aveva manifestato la volontà di accoglierli. Questo non per minimizzare la diffusione di convin­ zioni religiose che possono aver spinto molti ebrei verso la Palestina, ma per far emergere un quadro chiaro delle limitazioni a cui la loro scelta fu sottoposta. Ancora, l'aiuto delle organizzazioni ebraiche internazionali non era disin­ teressato. Israele aveva bisogno di manodopera, di aumentare la propria popo­ lazione e di popolare un territorio che fino al 1948 era stato costituito da un reticolato sparso di settlements e kibbuzim. Era chiaro che l'attività di assisten­ za finanziaria di organizzazioni come l 'A merican Jewish Committee (AJC) e l'Organizzazione sionista mondiale era rivolta a spingere le comunità ebraiche dei paesi islamici verso l' immigrazione in Israele. Il Comitato si adoperava af­ finché le autorità statali arabe accordassero agli ebrei il diritto a emigrare, anche scontrandosi con la volontà delle autorità ebraiche locali. Il quinto elemento, infine, fu la scarsità di informazioni su Israele che la maggior parte degli immigr ati della "grande 'aliyah" possedeva al momento dell'immigr azione. Questo dato vale anche per gli ex deportati europei, che erano emigrati nelle stesse condizioni di necessità. Così come per i veterani del paese gli ebrei dei paesi islamici erano "terra incognita", altrettanto lo erano Israele, i partiti sionisti e la storia dell' Y ishuv per i nuovi immigrati. Essi non sospettavano nemmeno la presenza di arabi in Palestina. Avevano, inoltre, po­ chi contatti con ebrei veterani o connazionali immigrati in precedenza, caratte­ ristiche che in passato aveva facilitato l'inserimento dei nuovi arrivati nel paese. In questo senso, sia per quanto riguardava l'immigrazione che l'immediato so­ stentamento, gli ebrei dei paesi islamici divennero completamente dipenden­ ti dalle autorità, in primis dal Mossad, che si era occupato del loro trasporto, e dall'Agenzia ebraica, preposta a gestire la loro integrazione nel paese1 .l. Tale condizione comportò un'incapacità di percepirsi su un piede di parità con gli altri cittadini. Infine, la "grande 'aliyah" per gli ebrei dei paesi islamici rappresentò anche un passo senza ritorno. Gli ebrei che lasciarono l'Iraq in aereo o via camion at­ traverso l'Iran, quelli che scapparono a piedi dalla Siria e dal Libano, quelli che, come gli yemeniti, furono condotti in aereo in Israele o, come i marocchini e i tunisini - imbarcati verso campi di transito in Europa in pieno clima di guerra tra Israele e i paesi di origine -, sapevano di non poter fare ritorno. Forse si at­ tendevano che, una volta conclusa la guerra, i rapporti nella regione potessero tornare a essere più regolari. 53. Tale condizione di assoluta dipendenza, economica, sociale e culcurale allo stesso tempo, si ripeterà nella storia del paese nel caso dcli' immigrazione degli ebrei etiopici negli anni Ì'\ovanta (cfr. Ì'\ ' Diaye, 2004) .

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L•emigrazione di massa dai paesi arabi non ricevette una grande attenzio­ , ne internazionale. Ciò fu dovuto all intrecciarsi di numerosi fattori, il primo dei quali fu la segretezza con cui le stesse autorità israeliane condussero le operazioni di "salvataggio" dei profughi. Un secondo elemento fu, però, anche la particola­ , re contingenza storica in cui la "grande 'aliyah' avvenne, in un momento in cui la preoccupazione internazionale era tutto rivolta al conflitto arabo-israeliano. Ancora, un terzo e forse centrale aspetto fu l'empatia provata nei confronti del ri­ torno degli ebrei in Palestina da una parte maggioritaria delle opinioni pubbliche occidentali: nel complesso, su di esse pesò il ricordo della Shoah e la volontà di riconoscere i diritti collettivi del popolo ebraico. Sembrò ai più che fosse naturale che gli ebrei, dopo le sofferenze patite, desiderassero "fare ritorno" alla loro terra , d origine. Il facto, dunque, che molti ebrei fossero stati costretti dalle circostanze a emigrare, non sflorò nemmeno un•opinione pubblica occidentale tutta assorta a contemplare il coraggio di una nazione che risorgeva dopo duemila anni. Persi­ stevano, infatti, dei limiti evidenti nella capacità di osservazione della realtà isra­ eliana : limiti dettati dal favore riservato a Israele e dal successo della propaganda israeliana (hasbara), che cosl abilmente aveva parlato sempre di "ritorno" per de­ scrivere lo sradicamento, in alcuni casi anche molto doloroso e repentino 54 , delle , comunità ebraiche dai loro paesi d origine.

r.6 La "grande 'aliyah" : tra pianificazione e improvvisazione statale Il governo israeliano aveva sceso un piano strategico per 1 • immigrazione che pre­ , vedeva 1 • assorbimento nel paese di un milione di persone nell arco di dieci anni. Il governo si spinse a negoziare compensi individuali per ogni ebreo bulgaro, polacco, russo e rumeno a cui fosse data facoltà di abbandonare il proprio pae­ se ss . Nel caso degli ebrei dei paesi islamici non si trattava solo di negoziare aper­ tamente con i governi s 6, ma di sfruttare strategicamente le tensioni antiebraiche. 54. Rafael commenta: « In tutti i paesi orientali [ ... ] vi fu sempre un desiderio forte di rimanere nelle "patrie" a cui erano legati. Molti di coloro che immigrarono in Israele fecero il passo [ ... ] quando le politiche del governo non lasciarono loro alcuna alternativa >> (Rafa­ el, 1985, p. 114). 55 . Segev ripercorre tutti gli accordi che furono siglati tra governo israeliano e governi europei nd 1949, disponibili presso l'Archivio centrale sionista ( CZA), serie "Immigrazione per paese", S41/ 156. 56. Incontri certi ebbero luogo tra il Mossaci e autorità di alcuni paesi arabi e l' Iran. Compensi monetari furono offerti allo Shah dell' Iran e alla polizia transgiordana perché permettessero il passaggio di mezzi e a Nuri al-Sa'id per promulgare la legge di denaturaliz­ zazione (del 1950).

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La politica migratoria fu affidata a due capisaldi legali: il "Piano da un mi­ lione" e la "Legge del ritorno" s 7 (1950 ). Il primo si poneva l'obiettivo ambizioso di assorbire un milione di persone nell'arco di quattro anni, mentre il secondo rappresentava una dichiarazione simbolica, ma con ricadute pratiche dirette: essa accordava pieni diritti politici a tutti i potenziali nuovi immigrati ebrei. In Israele, infatti, tutti i nuovi immigrati venivano chiamati fin da subito alle urne per decidere delle sorti della nazione. Per lo Stato, dall'altra parte, ogni nuovo immigrato rappresentava un potenziale elettore e ciò spiega l'importanza che i vari partiti politici assegnavano all'educazione dei giovani nuovi immigratP 11 e alla loro penetrazione nei campi d'accoglienza. La competizione per "la con­ quista" dei nuovi elettori era, infatti, intensa. In conseguenza di questa accesa rivalità interpartitica, l'Agenzia ebraicas9 era stata preposta a gestire sia l'immigrazione che l'assorbimento dei nuovi 'olim ( immigrati). Tuttavia la spartizione di diverse funzioni legate all'immi­ grazione tra i vari partiti aveva fatto sì che coesistessero dipartimenti con vi­ sioni anche contrastanti. Ad esempio, il dipartimento preposto ali' :A.liyah era tradizionalmente "feudo" del partito religioso ha-Po'el ha-Mizrabi, mentre la "Sezione per gli Affari ebraici in Medio Oriente", una sottounità dello stes­ so dipartimento, apparteneva al Mapam. Questo generava numerose tensioni interistituzionali, causando dispersione di fondi e sovrapposizione di attività. Dal 1948 fu a capo del Dipartimento dell' :A.liyah Y itzhak Rafael dell'ha­ Po'el ha-Mizrabi: il suo partito era favorevole all'immigrazione di massa, moti­ vando la scelta sia su motivi religiosi che di convenienza politica. Al contrario, i membri del Mapam, come Ya'acov Zerubavel - a capo della Sezione per gli Affari ebraici in Medio Oriente - erano favorevoli a un'immigrazione selettiva di giovani e militanti. Tuttavia col tempo, entrando in contatto con le comuni­ tà locali e negativamente colpiti dallo stato di povertà in cui versavano alcune di esse - come gli ebrei dell'Alto Atlante marocchino - anche i rappresentanti del Mapam si convinsero che l'emigrazione di tali ebrei costituisse un atto di "salvataggio" dalla miseria materiale. Si attivarono, dunque, affinché l'Agenzia ebraica concedesse loro più quote migratorie, "forzandole la mano" con vari espedienti: tra questi, la creazione volontaria di situazioni di ammassamento

57. La Legge del ritorno 5710-1950 (in ebraico ]foaq ha-Shvut) fu promulgata dalla Knesset il 5 luglio del 1950 e pubblicata nel "Libro delle leggi" (Sefer ha-Jfoaqyym) , n. 51, p. 159. Fu emendata due volte: nel 1954, a firma del primo ministro Moshe Sharett, e nel 1970, a firma dell'allora primo ministro Golda Meir. Nel 1970 fu emendata per permettere l'e­ stensione: ddla cittadinanza a discendenti e: congiunti di ebrei, in convergenza ddl' 'a/iyah dall ' U R S S .

58. Si tratta del programma dell' :1/iyah ha-i.Vo'ar [ 'Aliyah dei giovani], che dal 1933 pre­ vedeva la selezione: di giovani adolescenti e: la loro educazione: nei kibbuzim e: moshavim. 59. "Legge sullo status dell' Organizzazione sionista mondiale e dell'Agenzia ebraica, 5713-1952.

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nei campi profughi che poi essa era chiamata a smaltire in regime di emergenza, superando le quote pattuite per paese. Il Mapam, inoltre, ricorreva alla propa­ ganda tra gli immigrati per convincere coloro che mostravano qualche esitazio­ ne60 : in tal modo, il partito si trasformò nel vero "motore" dietro l'emigrazione degli ebrei dei paesi islamici. Sebbene gli obiettivi ultimi di Mapai, Mapam e ha-Po'el ha-Mizrabi non fossero poi così divergenti, tra le due unità dell'Agenzia ebraica - il Diparti­ mento dell' 'Aliyah e la Sezione per gli Affari ebraici in Medio Oriente -, si ac­ cese un conflitto politico che riproduceva le divisioni ideologiche già esistenti alla Knesset. Nei confronti dell 'attività del Mossad 61 nei paesi islamici si adden­ sava tutta la diffidenza che gli altri partiti nutrivano nei confronti del Mapam e del suo orientamento fìlosovietico 61 ; inoltre veniva rimproverata al partito un'eccessiva autonomia nella gestione delle sue azioni clandestine per il trasfe­ rimento degli immigrati, le cui modalità restavano segrete, a fronte di costi no­ tevoli e non rendicontati per le fìnanze statali 6 3 • Temevano anche che il Mapam sfruttasse il suo contatto diretto con gli immigrati dei paesi islamici per diffon­ dere tra di loro l ' ideologia marxista. Il contrasto divenne così ingestibile che nel 1951 la Sezione per il Medio Oriente si scisse dal Dipartimento delr 'Aliyah, divenendo un' istituzione indipendente. Rispetto all' immigrazione di massa, invece, esistevano forti convergenze tra Mapai e ha-Po'el ha-Mizra.bi (almeno fìno al 195 1 ) : non a caso i due partiti collaboravano al governo 64 • Entrambi ritenevano che gli immigrati dovessero essere "salvati" dai paesi considerati a rischio di pogrom e nutrivano una perce­ zione negativa della diaspora. Locker ebbe a dire, durante una riunione dell'A­ genzia ebraica sulla situazione degli ebrei in Libia, che « anche gli ebrei che non volevano lasciare [ le loro case] , sarebbero stati forzati a farlo » 6s . Analogamen­ te, Rafael espresse preoccupazione riguardo alla possibilità che gli ebrei libici, in assenza di tensioni evidenti, si potessero dimostrare riluttanti a emigrare 66• 60. Rapporto di un agente del Mossad, nome in codice Maxie, all'esecutivo del Nlos­ sad, 18 novembre 1949, Dip. per l' Immigrazione, serie "Permessi migratori per l' Egitto", pac­ chetto n. 60, fìle n. 389. 61. Il .Mossad le-'Aliyah Bet non compariva sui documenti ufficiali in quanto tale, ma sotto il nome di "Organizzazione per i compiti speciali". Sarebbe stato attivo fino al 1952.. 62.. Per un approfondimento sul dissidio Mapai-Mapam, c&. Schindler, 2.008, pp. 70-7. 63. I bilanci dd tvlossad, contenuti nell'Archivio ddl' 1nF Jsrad Defense Forces, Forze di difesa israeliane] (Archivio I DF, "Il Mossad per l' immigrazione", n. 14/Io, 1951), non veni­ vano visionati dall' Ufficio contabilità dell'Agenzia ebraica. 64. Il Mapai formò il primo governo di Israele con il blocco religioso, i Sefarditi di Eliyahu Elyachar, i Progressisti e con i voti dell' Ha' Po'd ha-mizral}.i. 65. Kote dell' Esecutivo sionista, 1 2. aprile 1949, "Il Nlossad per l' immigrazione': Archi­ vio I DF, 1 4/12.3. 66. « Le condizioni in Libia oggi non sono negative. C 'è pericolo che questa fonte di immigrazione giunga alla fine », citazione di Yitzha.k Rafael riportata in Segev, 1998, p. 1 1 0.

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Lo stesso Rafael arrivò a censurare la corrispondenza tra immigrati e famiglie rimaste in patria se conteneva critiche circa la loro accoglienza in lsraele67• Le lettere private venivano aperte e il loro contenuto vagliato per valutare se arre­ cassero un danno al paese. La frustrazione iniziale non riguardava soltanto gli ebrei dei paesi arabi, ma anche quelli originari dei paesi europei. La differenza tra loro, però, era che i secondi avrebbero avuto la possibilità di fare ritorno ai loro paesi d'origine, mentre ai primi questa opzione era negata. Spesso nelle let­ tere censurate gli immigrati chiedevano infatti soldi o aiuto per tornare nei pro­ pri paesi d'origine e in alcuni casi si scagliavano contro gli emissari del Mossad, accusandoli di aver mentito loro. In altri casi. esprimevano invece lo sgomento per la scoperta di una società ampiamente secolarizzata : il contrario di ciò che avevano creduto di trovare in Palestina. Opinioni negative venivano espresse anche a riguardo della mancata emi­ grazione degli ebrei americani, ma in questo caso il governo israeliano e il Mossad si limitarono a cercare di smuovere maggiori fondi a sostegno di Israe­ le. Era un fatto assodato che il sionismo aveva avuto su molti ebrei occidentali un'attrattiva limitata, per cui le autorità avevano dovuto rivolgersi altrove, ma Israele temeva che anche le frontiere di altri paesi potessero richiudersi do­ po la guerra. Ad esempio, il regime comunista sovietico, non considerando­ si responsabile delle persecuzioni antisemite perpetrate nella Seconda guerra mondiale, sarebbe diventato ostile a Israele, in funzione filoaraba6 8 • Un di­ scorso a parte meritavano, invece, i paesi arabi, con i quali solo i canali segreti potevano funzionare, dal momento che ufficialmente non intrattenevano re­ lazioni con il nuovo Stato 6 9 • L'Agenzia ebraica e il Mossad si affrettarono a portare a compimen­ to due delle più importanti operazioni di salvataggio di massa mai operate : }"'Operazione tappeto magico" - anche conosciuta come "Operazione sulle ali delle aquile" - e !'"Operazione antica Babilonia" - anche conosciuta come 1 "Operazione Ezra e Nehemia : La prima trasportò in Israele 47.0 0 0 ebrei ye­ meniti, 1.5 00 ebrei di Aden più alcune centinaia di ebrei di Etiopia ed Eritrea, attraverso l'approntamento di un ponte aereo che collegava Sana'a con l'aero­ porto di Lod. Per gli ebrei yemeniti si trattò anche dell'esperienza di un salto tecnologico : il primo viaggio su un aereo. La seconda spedizione organizzò il trasferimento di 1 30.0 0 0 (Zimhoni, 1 9 8 9 ) ebrei iracheni, in parte per via aerea e in parte via terra, attraverso l ' Iran e la Transgiordania.

67. Discorso di Rafad, Esecutivo sionista, 18 agosto 1949, "Il !vfossad pc:r l' immigra­ zione': A. I DF, n. 14/ 451. 68. « L' URSS era contraria a che i sue due milioni di ebrei [ ... ] lasciassero il paese. Le or­ ganizzazioni sioniste: erano proibite e: i loro membri confinati in campi di lavoro. Le: autorità sovietiche: sostenevano che: non vi fosse: antisemitismo in t:RSS » ( Schindler, 2.008, pp. 6 1 -1 ) . 69. Il riferimento è al fallimento della Conferenza di Losanna.

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Nei paesi del Maghreb vennero condotte alcune operazioni di più pic­ cola scala e l'allestimento di campi profughi temporanei in Francia e nel sud Italia. Si trattava, a loro volta, di operazioni governative finanziate da fondi dell'AJJDC, che volevano prevenire le difficoltà in cui tali comunità ebraiche si sarebbero trovate in vista dell' indipendenza dei paesi nordafricani. In Ma­ rocco, ad esempio, misure specifiche vennero prese nel 1 9 5 4 , anticipando di due anni la programmata evacuazione degli eserciti francese e spagnolo, per­ ché il governo israeliano temeva l'influenza di Gamal Abd el-Nasser sul par­ tito lstiqlal marocchino. Nel 1 9 5 5 venne fondata un'organizzazione governati­ va segreta speciale, "ha-Misgeret", con mandato su Marocco, Tunisia e Algeria: prova del coinvolgimento diretto del governo israeliano nell' 'aliyah dai paesi nordafricani (Laskier, 1 9 9 5 , pp. 1 3 2-59 ). Via terra giungevano contemporanea­ mente in Israele gli ebrei siriani, mentre i libanesi non abbandonarono il loro paese nel 1 948, non essendo soggetti a misure discriminatorie'c. Una volta terminata la stagione delle grandi migrazioni, con 68 6.o o o immigrati giunti nel paese in appena tre anni - una cifra superiore alle aspet­ tative -, si aprl la stagione dell'assorbimento, che costituì la fase più delicata. Era ora necessario elaborare una visione di lungo periodo della società che si voleva costruire in Israele: essa si sarebbe rivelata, però, una sfida molto più dura, perché oggetto di un'aspra lotta politica e culturale tra le forze sioniste sul futuro dei nuovi immigrati.

70.

Per un approfondimento cfr. Parfltt, 2 0 0 0, p. 9 1.

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L' "assorbimento" (Qjitah) dei nuovi immig rati: le strate g ie d'acculturazione israeliana

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Il dibattito culturale e la percezione delle élite : "che gacekeepers" L' 'a liyah di massa degli anni 1948-52 fu un evento che modificò profondamen­ te la società israeliana. Questo periodo è stato ampiamente studiato dal pun­ to di vista delle istituzioni statali e degli equilibri tra le forze partitiche, meno dalla prospettiva degli immigrati, che pure furono i principali protagonisti del cambiamento in atto. Questo principalmente per due ragioni: la prima è che i nuovi immigrati non rilasciarono sufficienti testimonianze dirette (memorie, diari, lettere e carteggi) attraverso le quali fosse possibile ricostruire la loro per­ cezione dell' incontro con la società ospitante; la seconda è che per anni i nuovi immigrati non furono capaci di esprimere una propria rappresentanza culturale autonoma all'interno della società israeliana. È tuttavia fondamentale, per rico­ struire una "storia dal basso': esaminare le poche testimonianze degli immigrati che si sono conservate, indipendentemente dalla rappresentatività di coloro che le formularono. Negli anni Cinquanta circolavano diverse teorie sull'assorbimento degli immigrati: esse si rifacevano alla scuola del sociologo Eisenstadt, allievo di Bu­ ber e a capo del primo Dipartimento di sociologia istituito presso l'Università ebraica di Gerusalemme. Per primo, Einsenstadt formulò la teoria sulla "mo­ dernizzazione" della società israeliana: si interessò ai processi di modernizza­ zione sociale, studiando in Israele il tema dell'immigrazione di massa, che ne costituiva il principale banco di prova1 • La sua teoria della modernizzazione sociale poggiava su alcuni assunti: pri­ mo, l' incontro tra "vecchi" e "nuovi" israeliani sarebbe dovuto avvenire all' in­ segna della modernizzazione dei nuovi immigrati; secondo, un' integrazione soddisfacente doveva puntare a conseguire un minimo di uniformità in quelle La sua principale opera è: S. N. Eisenscadt, The Absorption ofImmigrants, Routledge & Kegan Paul, London 1954. 1.

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sfere sociali - come la scuola, l'esercito e la cittadinanza - che erano alla base dell'identità nazionale. Il nuovo Stato non poteva che basare la propria azione politica su alcuni principi condivisi con le democrazie occidentali, come la pa­ rità tra i sessi e l'obbligo scolastico universale. La modernizzazione degli immigrati era al contempo oggetto di un esteso dibattito pubblico sui giornali e di un acceso conflitto tra le forze politiche in Parlamento. L'influenza dei sociologi sarebbe stata limitata se le loro teorie fos­ sero state confinate all'accademia: esse, invece, assunsero una rilevanza generale perché furono adottate dal governo. Ben Gurion era solito coinvolgere intellet­ tuali ed esperti per analizzare questioni difficilmente affrontabili dal solo Par­ lamento, in assenza di una prassi governativa cui rifarsi. Si era andata consoli­ dando la prassi che il governo si avvalesse di accademici dell'Università ebraica - allora la sola istituzione di istruzione superiore presente nel paese, insieme al Technion, dedicato alle materie scientifiche - per ottenere consulenze su diver­ si aspetti della sua azione politica. Le teorie dei sociologi vennero poi semplifi­ cate dall'escablishment politico, che le traspose in un piano organico di inter­ vento. Il principio ideologico fondante fu quello della "fusione delle diaspore", sostenuto dall'onesta convinzione che il superamento dei costumi delle comu­ nità d'origine avrebbe costituito un fatto positivo1 e che i nuovi israeliani sareb­ bero nati dall'esperienza del lavoro manuale, dalla riscoperta della lingua ebrai­ ca e dalla fusione di tutte le comunità in una nuova "razza locale" - i sabra senza più alcuna specificità "tribale". Eventuali differenze iniziali sarebbero sta­ te colmate nello spazio di una generazione. Lo Stato d'Israele avrebbe promos­ so l'uguaglianza tra tutti i cittadini e realizzato dei programmi di educazione di massa per i nuovi immigrati. Il principio-guida alla base dell'intervento statale sarebbe stato l'assimi­ lazione' di tutti i cittadini al modello ideale del sabra che si riteneva esempli­ ficare le virtù civiche e della società veterana4 . Un rapporto del Comitato di assorbimento esplicitava lo scopo dell' intervento statale: «Devono avvertire l'orgoglio, non l'inferiorità. Devono sentirsi pari cittadini, in diritti e doveri, e devono considerare la ma 'abara come un'unità sociale a cui i capi della nazione fanno riferimento nei loro discorsi» \ Anche Ben Gurion ebbe a dire: «Dob­ biamo sradicare le barriere geografiche, culturali e linguistiche che separano i

2. Ben Gurion, « Sono ebrei e israeliani prima di tutto e, come cali, da ognuno di loro ci si aspetta che si scordi da doYe arriva, così come io mi sono dimenticato di essere polacco » ( Ben Gurion, Carrying the burden ofthe State, in "Molad", n. 3, 1949 ). 3. Sul concetto di "assimilazione" cfr. Ben-Porac, 2003, p. 6 6. 4. « Le idee di rinascita nazionale dell' Yishuv erano incentrate su tre dementi: l'uomo ebraico, la terra di Israele e la lingua ebraica » (Zerubavd, 1994, p. 28 ). 5. Comitato di assorbimento governo-Agenzia ebraica, I S A ( Israd State Archives, Ar­ chivi di Stato israeliani (Gerusalemme)] , file n. 6 1 6 1 /242105.

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diversi segmenti della società e trasmettere una lingua, una cultura, una fedeltà, nuove regole e nuove leggi» 6• A questo scopo, Eisenstadt e gli altri sociologi della prima generazione ri­ tenevano che lo Stato dovesse svolgere un ruolo attivo nel processo di assorbi­ mento degli immigrati: combattere le differenze emiche, minimizzando l'im­ , portanza e adottando un enfasi ideologica sulla costituzione di un'unica iden­ tità comune in costruzione (melting pot). L'educazione - e, in particolar modo, le scuole statali non religiose e i programmi di alfabetizzazione dei nuovi im­ migrati portati avanti dalresercito -, doveva ricoprire un ruolo primario. Gli immigrati erano percepiti come dei "contenitori vuoti" a cui impartire nozioni, non soltanto di lingua ebraica, ma anche di cultura occidentale. Per conseguire un'acculturazione più spedita sarebbe stato necessario imporre delle abitudini in contrasto con le tradizioni maturate nei paesi di origine: obiettivo era cre­ are "uomini nuovt, cittadini israeliani da una massa eterogenea di ebrei della diaspora. Un rapporto governativo del 1 9 50 citava: «Non possiamo assorbire [ i nuovi immigrati] in Israele senza rivoluzionare le [ loro] vite umane. Devono rompere con il loro stile di vita, cambiare le loro abitudini, le loro lingue e co­ stumi. Dobbiamo produrre questo cambiamento almeno nei giovani, che sono i costruttori, i difensori e i cittadini del futuro Stato di Israele» 7• , , L accento posto sui giovani, poi, conteneva un ambiguità di fondo. Da un lato, infatti, esso tendeva a esaltare un aspetto centrale - come il ruolo positivo che l'educazione avrebbe potuto svolgere nel facilitare una soddisfacente inte­ grazione delle nuove generazioni -, dall'altro, però, le autorità si prefiggevano l'obiettivo di "strappare" tali giovani alle famiglie d'origine, ritenute responsa­ bili delle resistenze culturali all'assorbimento. La cultura giovanilistica era fa­ vorita perché in linea con gli obiettivi di rivoluzione culturale del governo. La coesione sociale era necessaria allo scopo di rendere la nazione compatta contro i nemici esterni che avrebbero potuto speculare sulle divisioni interne. Nel gennaio-febbraio 1 9 5 0 Saul Adler, un professore universitario dell' Università ebraica e medico, scriveva il suo famoso [ln esperimento in sociologia, in riferimento era ali' 'aliyah di massa e ai problemi nuovi che essa poneva. Nel suo studio, analizzava alcuni punti centrali dell'incontro tra ve­ terani e nuovi immigrati in corso in Israele con pretese di oggettiva scientifi­ , cità: « Le barzellette sugli "yekke", sui "galizianr', sui "franchi, sui "sabra' » , scrisse, « sono talvolta gentili e altre crudeli, ma sono sempre l'espressione di una sociologia popolare cruda che riconosce che siamo un popolo social­ mente eterogeneo. La maggior parte delle nazioni "civilizzate" è composta da un numero di componenti etniche differenti, che col tempo si mescolano

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6. Discorso di Ben Gurion, in lsrael Govermnent Yea,-book :Annuario del Governo di Israele], 1 9 5 1, p. 3. 7. Rapporto del governo, Gerusalemme, 1 9 50, Archivio centrale sionista ( CZA) S41/289.

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in un massa più o meno omogenea. [ ... ] In contrasto con questo modello si collocava Gerusalemme prima della Seconda guerra mondiale. Prendiamo un esempio estremo. Due uomini, un ebreo curdo e uno aschenazita, lavo­ rano nello stesso cantiere. Entrambi sono membri dell' Histadrut e percepi­ scono lo stesso salario. Hanno lo stesso obiettivo nella vita, [ovvero] vivere in Israele, e parlano la stessa lingua, l'ebraico, sebbene con intonazioni di­ verse. A parte ciò, differiscono in tutto. Si consideri ad esempio la loro atti­ tudine verso il genere femminile, un criterio utile per le classificazioni socio­ logiche in Medio Oriente. Per l'aschenazita, l'idea che sua moglie abbia pari diritti è assiomatico; per l'ebreo curdo, questa idea non è soltanto rivoluzio­ naria, ma rivoltante, e l'attuale generazione di ebrei curdi a Gerusalemme non lo permetterà. L'aschenazita si rallegra alla nascita di una figlia, il curdo esprime la sua frustrazione apertamente e può anche rimproverare sua mo­ glie per la sua incapacità di partorire un figlio maschio. L'aschenazita man­ da sua figlia scuola e [aspira] anche al suo conseguimento di un'istruzione superiore; il curdo non permette a sua figlia di conseguire un'istruzione su­ periore e, a volte, nemmeno quella elementare. Io conosco personalmente casi in cui padri curdi hanno severamente proibito alle proprie figlie di im­ parare a leggere e scrivere [ ... ] . Altre differenze lampanti sono riscontrabili. L'aschenazita, a differenza del suo collega, legge i quotidiani, compra libri, partecipa a incontri e, in generale, si dedica ad attività definite, in un cer­ to senso, "culturali". Tutto questo non implica un giudizio etico, perché sia l'aschenazita che il curdo in questione possono essere due uomini ammire­ voli, ma esemplifica come i gruppi differiscono fondamentalmente nei loro costumi sociali e nella loro mentalità, anche se vivono e lavorano insieme» (Adler, 19 so, pp. 17-8 ) . Adler non reputava di nutrire dei pregiudizi nei confronti nei confronti degli ebrei dei paesi islamici. La sua concezione della classificazione dei di­ versi paesi in "moderni e premoderni" era parte dell'accettata cultura europea dell'epoca. Adler insisteva, ad esempio, sul fatto che il termine paesi "arre­ trati"