I miti di fondazione della civiltà anglo-americana 9788878704428

La civiltà anglo-americana ha plasmato più di ogni altra il mondo moderno nel quale viviamo. Questo libro affronta i sin

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I miti di fondazione della civiltà anglo-americana
 9788878704428

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA» DIPARTIMENTO DI ANGLISTICA

STUDI E RICERCHE 72

CATERINA SALABÈ

I MITI DI FONDAZIONE DELLA CIVILTÀ ANGLO-AMERICANA

BULZONI EDITORE

In copertina: J. M. W. Turner, Totnes on River Dart, 1824

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-442-8 © 2009 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

INDICE

Introduzione

p.

11

Mito e storia ..................................................................................................... Il principio di speranza ............................................................................

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15 17

II. La Britannia ...................................................................................................... 1. Brutus, il principe fondatore ..................................................... 2. L’Inghilterra riconquistata ............................................................ 3. La ricezione della Historia Regum Britanniae come storia .................................................................................................

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III. L’America ........................................................................................................... 1. Avventurieri e santi, i padri fondatori ............................... 2. Terra vergine, terra promessa ..................................................... 3. L’imprinting coloniale del mito come storia ................

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IV. Archetipi culturali ....................................................................................... Canaan e Roma ............................................................................................ 1. La stirpe di Abramo e la fuga dall’Egitto ........................ 2. La gens di Enea e l’alba dell’Impero .....................................

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V. Ragione e mito ............................................................................................... Il principio di prudenza ........................................................................

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Bibliografia

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I.

..............................................................................................................

...................................................................................................................

Indice dei nomi e dei luoghi

.......................................................................

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Ai miei genitori, Giovanni Battista Salabè e Helga Lotz

INTRODUZIONE

La critica novecentesca intorno ai miti di fondazione delle nazioni e delle civiltà storiche si è distinta per un approccio ideologico alla questione delle origini, volto a metterne in evidenza le implicazioni violente e dunque a rigettarne il sentimento positivo che poteva scaturirne su un piano puramente immaginativo e affettivo1. Cosa vale, ci si chiede, sentirsi felici di appartenere ad una nazione, se la stessa idea di nazione si nutre di miti di origine fondati sulla persecuzione e sull’omicidio altrui? Questa critica di denuncia ha avuto un grande rilievo sul piano teorico e si basa su una concezione evoluzionistica dell’uomo e della società, i quali da un primitivo e semi-bestiale stato di violenza si sarebbero evoluti e continuerebbero ad evolversi verso un sempre maggiore e più razionale stato di umanità non-violenta. Ciò avverrebbe anche attraverso una decostruzione del mito come categoria del pensiero, e un costante esercizio di disincanto progettuale nei confronti di una realtà da plasmare secondo ideali razionali. Il rilievo di questa critica ancora fortemente influenzata dai grandi pensatori dell’800 è stata a mio avviso sopratutto teorica, in quanto non ha tenuto conto del fatto che un sentimento come quello nazionale non è un dato di superficie simile ad un intonaco che si possa rimuovere dal proprio immaginario con un lavoro di raschiatura o a Cfr. R. Girard, Miti d’orgine. Persecuzioni e ordine culturale, Ancona - Massa 2005; in senso contrario B. Gladigow, “Gewalt in Gründungsmythen”, in N. Buschmann, D. Langewiesche (Hg.), Der Krieg in den Gründungsmythen europäischer Nationen und der USA, Frankfurt a. M./New York 2003. 1

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colpi di picconate, salvo il pericolo di far crollare l’intero edificio dell’identità individuale. La natura e ragion d’essere della dimensione affettiva della nazionalità ha radici che affondano in una realtà della persona pressoché inaccessibile al puro e semplice atto di volontà, poiché risponde proprio ad un’esigenza di identità e di senso di appartenenza imprescindibile nell’uomo2. La componente violenta non ne costituisce l’essenza, se non nella misura in cui la si voglia considerare “essenzialmente” umana. Già Platone nella sua critica del mito chiede ai poeti e ai pedagoghi di “ripulire” i miti antichi delle loro parti contrarie all’etica, non di eliminare tutti i miti3. Questo perché essi assolvono pur sempre ad una funzione educativa e diremmo esistenziale fondamentale, dal momento che fondano il senso del vivere umano4. Se è dunque un bene rigettare il carattere violento insito nei miti di fondazione, non è certo bene eliminare tutto il pensiero mitico a priori, ma anzi cercare di capirne le funzioni e gli effetti anche positivi o perlomeno necessari alla salute e al benessere psichico dell’uomo. Questo è quanto ho tentato di fare in questo libro, concentrandomi in particolare sui miti di fondazione della Britannia e dell’America, due nazioni che sono storicamente legate da un rapporto di filiazione culturale e genetica, e che nel loro insieme hanno plasmato più di qualunque altra civiltà moderna il mondo nel quale oggi viviamo. Affronterò i singoli miti di fondazione della Britannia e dell’America, nonché i loro chiari archetipi culturali ravvisati sinteticamente nell’Esodo biblico e nell’Eneide virgiliana. A chiudere la cornice teorica iniziata nel primo capitolo, tratterò nell’ultimo il problema del limite etico del mito in accordo con la critica novecentesca, proponendo tuttavia una visione “duplice” e non ideologica, oltre che una soluzione dinamica dell’irrisolto problema del divario tra fe-

Cfr. B. Anderson, Imagined Communities, London 1983; E. Gellner, Nations and Nationalism, Oxford 1983; in parte critico E. J. Hobsbawn, Nations and Nationalism since 1780, Cambridge 1990. 3 Platone, La Repubblica, 382d, trad. it. di F. Sartori, Roma-Bari 1997 (20063). 4 Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt a. M. 1979 (19843). 2

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de e pensiero nel senso di alcuni versi di William Blake, poi ripresi nell’opera-testamento di Northrop Frye. L’assunto finale per quanto riguarda la civiltà anglo-americana è che la sua possibilità di successo politico e culturale sul piano globale sia stata enormemente incrementata sul piano dell’autostima e della capacità immaginativa dall’aver creduto e forse dal credere ancora in miti di origine che le conferiscono una forte identità collettiva nonostante le disomogeneità etniche, e che contemplano nelle loro proiezioni rivolte al futuro un ideale imperiale “liberale” ispirato a quello romano, unito ad un’aspirazione religiosa universalistica di stampo giudaico-cristiano5 . L’opposizione e le critiche contro questa civiltà si stanno facendo sempre più pressanti nell’epoca attuale. Appare dunque altrettanto importante far rilevare come una tale spinta mitica possa condurre a pericoli ancora maggiori di quelli ai quali intendeva sfuggire. Se il mito nazionale rappresenta un principio di speranza e di unità per un popolo, contro la speranza si può peccare o fallire non solo per difetto, ma anche per eccesso. Sarebbe allora auspicabile per gli AngloAmericani di oggi apporre un freno razionale - un principio di prudenza - alle proprie aspirazioni individuali e collettive, salvo rischiare di perdere le conquiste etiche e giuridiche fatte dalla civiltà occidentale in molti secoli di storia.

5 Cfr. L.B. Wright, Religion and Empire: the Alliance between Piety and Commerce in English Expansion, 1558-1625, Chapel Hill 1943.

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Ringraziamenti Vorrei ringraziare il mio maestro, Piero Boitani, e le altre persone che mi hanno dato fiducia con il loro insegnamento, la loro amicizia: Rosy Colombo, Giorgio Mariani, Nadia Fusini, Stephen Wilson, Joan Fitzgerald, Alessandro Gebbia, Emilia Di Rocco, Fiorella Gabizon, Stefania Porcelli e tutti i colleghi del Dottorato di Ricerca, Bruno Germano e la fondazione Natalino Sapegno; Giovanni Cavero, Alda Maggiora, la scomparsa Maddalena Zucchet Morini, Claudio Trotta, Annette Mertens, Rebecca Lamadè, Mariella Ferrari, Brad Lapin, Federica De Vierno, Igor Michel, Rosa Martins, Waltraud Niedermaier, Maria Pavlijk; Phillip Lopate, François Chausson, Ersilia Valente, Dante Matelli, Luigi Attardi, Desmond O’Grady, Lorenzo Franchini, Eric Varner. Last but not least, Maurizio Catarinozzi della Bulzoni Editore per la pazienza e la dedizione. Con particolare riverenza ringrazio anche Pietro Citati e Franz Georg Schmücker. Roma, maggio 2009 Caterina Salabè

I. MITO E STORIA

IL PRINCIPIO DI SPERANZA

In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. Isaia 57, 15 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Vangelo secondo Matteo 5, 3 Nothing almost sees miracles, but misery1. SHAKESPEARE, King Lear, II.iii.158-9 Wo aber die Gefahr ist, wächst Das Rettende auch2. HÖLDERLIN, Patmos

La scienza del mito in occidente ha origini molto antiche, che risalgono ai primi interpreti e critici di Omero e di Esiodo, ed ha da allora sempre mantenuto vivo il suo interesse culturale, estendendosi all’esegesi biblica, all’umanesimo e alle scienze moderne fino ai giorni

«Ormai nessuno / vede più miracoli tranne gli infelici.» Re Lear, II. iii. 158, trad. it. di A. Lombardo, Milano 1991. 2 «Ma dove è pericolo, cresce / Anche ciò che salva», F. Hölderlin, Poesie, a cura di L. Crescenzi, Milano 2001 (20062). 1

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nostri. Questo nonostante il fatto che il suo oggetto formale – il concetto di mito – si sia rivelato nel corso delle epoche e a partire da differenti prese di posizione teoriche non suscettibile di una definizione univoca, e che i suoi oggetti sostanziali – i singoli miti – abbiano cambiato e cambino di volta in volta l’intera prospettiva del problema. Ancora oggi non esiste un accordo tra gli studiosi per quello che concerne i problemi di base, per cui sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di poter dire l’ultima parola sul mito, e nello stesso tempo superficiale attribuire le scoperte di uno studio specifico all’intera area di ricerca3. In questo senso quella del mito non si può propriamente dire una scienza, quanto piuttosto una ricerca sempre aperta, così come evocato dal termine tedesco ‘Mythosforschung’, o più semplicemente racchiuso nel significato della parola ‘mitografia’, l’attività critica di chi scrive sul mito (accanto a quella poietica di chi scrive il mito)4. Nell’analizzare i miti di fondazione della civiltà anglo-americana, vale a dire i miti letterari che narrano rispettivamente le origini civiche della nazione britannica e di quella americana, è mia intenzione tentare di comprendere il loro particolare significato a partire dal confronto con il contesto storico dentro al quale sono emersi, dall’esperienza che li ha fatti scaturire. I miti di fondazione fanno parte di particolari tipi di miti, definiti in genere miti eroici (in contrapposizione a quelli cosmogonici e a quelli divini) 5, ed hanno una propria antichissima tradizione letteraria che nella nostra cultura risale alla Genesi biblica da un lato (12, 1-9), e all’Iliade omerica dall’altro (II 546-549). Hanno soprattutto carattere di miti storici, riferiti proprio a fatti accaduti nella storia, e che della storia colgono essenzialmente l’elemento sociale e quello sacro6. La reale storicità, potremmo dire anche la verità

Cfr. J. Ries, Il mito e il suo significato, Milano 2005, p. 209. Cfr. “Mythos, Mythologie”, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, Hrsg. Joachim Ritter, Basel/Stuttgart 1974; H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960/1990, p. 471. 5 Cfr. J. Ries, Il mito e il suo significato, Milano 2005. 6 Cfr. B. Malinowksi, “Il mito come sviluppo drammatico del dogma” (1962), in Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, a cura di U. Fabietti, Torino 2000; E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, a cura di C.A. Viano, Torino 2001; 3 4

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storica, non è qui rilevante, dal momento che il mito di fondazione la presuppone e anzi chiede di essere accolto come storia vera, essendo la sua essenza e la sua funzione non tanto documentarie, quanto piuttosto immaginative7. L’autore o gli autori di questi miti sembrano rispondere a un’esigenza diffusa in momenti storici particolarmente critici di fondare attraverso il mito l’identità di un popolo storico e il senso di ciò che accade appunto nella storia8. Per quanto riguarda la principale fonte britannica, la Historia Regum Britanniae (Storia dei re di Britannia) di Geoffrey of Monmouth, siamo alla fine del primo secolo dopo la conquista normanna (1066). È un periodo in cui all’antico ed eroico mondo celtico e anglo-sassone è venuta a sovrapporsi una tradizione culturale affatto diversa, quella di una corte feudale francese, che introduce sul territorio un nuovo apparato politico-amministrativo. Il mito della fondazione della monarchia inglese da parte degli antichi Britanni nel II millennio a. C., alla cui discendenza apparterrebbe la corte degli invasori, vuole legittimare il nuovo dominio normanno, e pacificare gli animi degli isolani creando un senso di continuità tra il passato e il presente. Le principali fonti americane, da parte loro, tra cui A General Historie of Virginia, New England and the Summer Isles (Storia generale della Virginia, del New England e delle Isole Summer) di John Smith e Of Plymouth Plantation (Della colonia di Plymouth) di William Bradford, vedono la realtà storica di questi fondatori delle prime colonie inglesi, rispettivamente di Jamestown e di Plymouth sul continente americano all’inizio del XVII secolo, contrassegnata dal confronto drammatico, e per certi aspetti tragico, con le fatiche e L. Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, Paris 1910 [trad. it. Psiche e società primitive, a cura di S. Lener, Roma 1970]; R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, a cura di E. Buonaiuti, Milano 1976 (19924); M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, trad. it. di G. Cantoni, Roma 1999. 7 Cfr. W.F. Otto, Gli dei della Grecia, a cura di G. Moretti e A. Stavru, trad. it. di G. Federici Airoldi, Milano 2004. 8 Cfr. C. G. Jung-K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1972 (20032).

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i pericoli del viaggio per mare, e il difficile ambientamento in un continente sconosciuto e ancora selvaggio. Il mito della missione imperiale o divina delle nuove colonie vuole placare il senso di terrore che quella esperienza del Nuovo Mondo aveva ingenerato nei suoi primi temerari testimoni. Sia in Britannia che in America, seppure in modi assai differenti, è dominante a livello psichico l’urgenza di dare una risposta all’esigenza di identità sentita da queste comunità. Identità intesa non solo come origine passata, ma anche come esperienza presente e destinazione futura. Un’identità che sappia inserire il disagio quotidiano in un disegno dotato di senso e aperto verso un futuro ricco di buone promesse. In questa visione i miti di fondazione informano l’uomo nella sua condizione naturale e storica ad un principio di speranza. Tali considerazioni si ricollegano ad una comprensione del mito frutto di una sintesi particolare tra diversi approcci critici e teorici alla questione. I principali punti di riferimento sono il significato omerico del mythos nell’interpretazione di W. F. Otto, la sua trattazione filosofica da parte di Aristotele nella Poetica, e la sua comprensione moderna a partire da G. Vico e F. W. J. Schelling, passando per la scuola storicoculturale prima e quella fenomenologica poi, fino ad arrivare alla sua più recente “riabilitazione” nel senso di E. Bloch e K. Hübner. Si tratta di pensatori molto eterogenei tra loro, che tuttavia presentano almeno una convergenza nel voler riconoscere al mito autonomia e verità. Per converso, lasceremo per ora quasi del tutto da parte le teorie critiche – prima fra tutte quella platonica – che tendono a voler screditare il mito arcaico oppure a tradurlo in qualche cosa di altro da sé. Da un punto di vista filologico la parola greca mythos compare per la prima volta nella nostra tradizione letteraria nell’Iliade e nell’Odissea di Omero, dove ha la duplice accezione di parola e di racconto, ma può anche significare progetto. Essa sembra provenire etimologicamente dalla radice indoeuropea meudh, muhd, riferita al ricordarsi, al pensare, all’immaginare, alla dimensione dello spirito in genere9. 9 Cfr. G. Kittel, G. Friedrich, Grande Lessico del Nuovo Testamento, a cura di F. Montagnini, G. Scarpat, O. Soffritti, Brescia 1965-1992.

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Secondo l’analisi di W. F. Otto il significato arcaico di mythos nel dialetto ionico di Omero si riferisce a una “parola” conforme alla verità dell’essere, una parola che coincide proprio con l’essere, essenzialmente vera e fonte inesauribile ed eterna di ogni linguaggio umano. «È la “parola” dell’effettività, ma soprattutto di ciò che è effettivamente accaduto nel passato»10. Quando ad esempio Odisseo si presenta al focolare di Alcinoo e si siede in mezzo alla cenere, tutti rimangono muti, finché non prende la parola «il vecchio eroe Echèneo» che «nei discorsi eccelleva, sapendo molte cose [m¥uoisi] e antiche»11. Vediamo qui come la conoscenza dei miti sia intesa come autentica sapienza che rende agile il pensiero e la parola. I miti sono i fatti veri che fondano «l’autorità in seno alla comunità che li ha creati»12. In un’altra scena, nel bel mezzo della strage dei pretendenti, il bovaro colpendo l’empio Ctèsippo, che aveva precedentemente offeso Odisseo, gli dice: «Mordace Politerside, non parlare grosso mai più, cedendo a stoltezza, ma lascia agli dei la parola [m†uon], poiché sono molto più forti»13. Alle ingiurie, alle ciance, alla follia del pretendente è contrapposto il mythos, la “parola”, che è parola della verità la cui massima espressione deve essere lasciata agli dèi, dal momento che nel senso antico e venerabile essa è «autorivelazione dell’essere»14. Tale essenza le viene riconosciuta implicitamente ancora da Aristotele nella Poetica, in tarda epoca classica, quando ormai i critici del mito ne avevano proclamato l’esilio nel mondo fantastico e menzognero dell’epos, quasi a volerlo contrapporre a quello razionale e luminoso del logos. Quest’ultimo termine nel dialetto attico classico (che non conosceva il significato comune di mythos nel dialetto ionico arcaico) era venuto

W.F. Otto, Il volto degli dei: legge, archetipo e mito, a cura di G. Moretti, trad. it. di A. Stavru, Roma 2004, pp. 51-57. 11 Omero, Odissea, VII, 155-157, trad. it. di G. A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1982 (19972). 12 C. Calame, Mito e storia nell’antichità greca, trad. it. di E. Savoldi, Bari 1999, p. 12 (Mythe et histoire dans l’Antiquité greque. La création symbolique d’une colonie, Lausanne 1996). 13 Omero, Odissea, XXII, 287-289. 14 W.F. Otto, Il volto degli dei: legge, archetipo e mito, p. 57. 10

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ad assumere il significato di verità dell’essere già attribuito alla parola mythos – seppure in un senso assai meno immediato e più riflesso, calcolato e soggettivamente pensato – e ne aveva cambiato il segno. La prima antitesi in questo senso tra mythos e logos la troviamo in Pindaro, nella I Ode Olimpica del 476 a.C.: Molte le cose stupefacenti, ma spesso di là dal vero [løgon] la voce che corre fra gli uomini ci svia: storie ricamate di cangianti menzogne [m†uoi]15.

In questo spostamento del valore gnoseologico del mythos sul logos nell’uso classico – spostamento che come abbiamo visto comporta una perdita del significato più antico della parola – si può riconoscere un importante distacco spirituale dei Greci da un mondo sentito ormai come lontano, un mondo che non può più fungere da modello e la cui verità, se esiste, resta nascosta. L’uomo filosofico nasce forse proprio anche da un’esigenza di emancipazione dal peso della tradizione, da un’affermazione della propria libertà e, per certi versi, come vedremo nel capitolo conclusivo di questa ricerca, da una scelta etica in vista del presente. Queste le parole di Socrate nel Fedro di Platone: Per conto mio, o Fedro, considero queste teorie sopratutto divertenti, ma è pane per gente di genio, che si travaglia assai e non esattamente fortunata, non fosse altro perché dopo ciò spetta loro di interpretare la figura degli ippocentauri e poi quella della Chimera. E già ti precipita addosso una valanga di tali esseri, di Gorgoni e Pegasi, e una assurda moltitudine di mille altre mostruose e leggendarie creature. Che se qualche scettico vorrà ridurle, ciascuna, alla verisimiglianza, con quel certo tipo di scienza grossolana, gli ci vorrà tempo assai. Ed io non ho certo tempo per queste occupazioni; ed eccone la ragione, mio caro: che non riesco ancora a conoscere me stesso come vuole il motto delfico. Mi sembra proprio ridicolo che io, mentre sono ancora all’oscuro di questo, mi ponga ad indagare problemi che mi stanno di fuori16.

15 16

Pindaro, Olimpiche I, 28 ss., a cura di F. Ferrari, Milano 1998 (20013). Platone, Fedro, 229d-e, trad. it. di P. Pucci, Roma-Bari 1998 (20077).

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Tuttavia, il mythos come lo intendeva Omero mantiene una sua irriducibile verità, che non consiste nello spiegare il senso di una o più determinate realtà ed esperienze della vita umana, bensì nell’annunciarlo 17. Il primo filosofo a riconoscere autonomia al linguaggio del mito sulla scia dei grandi poeti tragici del V secolo è, come appena ricordato, Aristotele. Quando nella Poetica afferma che «i miti tramandati non si possono alterare»18, attribuisce loro un’autorità e un valore assoluti – come ad una tradizione sacra di cui si ha istintiva premura e riverenza – e aggiunge che «la poesia è attività teoretica e più elevata della storia», in quanto «non consiste nel riferire gli eventi reali, bensì fatti che possono avvenire e fatti che sono possibili, nell’ambito del verosimile o del necessario»19. Gli altri interpreti antichi, dai presocratici a Platone, da Evemero ai filosofi ellenistici, fino ai neoplatonici, avevano dato interpretazioni del mito che rimandavano ad altro che al mito stesso: a verità razionali o storiche o allegoriche o misteriche, secondo «il criterio determinante, tipicamente greco, dell’utile»20. Aristotele invece rimane incantato ancora dal mito stesso: attribuisce alla sua rappresentazione cultuale nella tragedia antica un valore di conoscenza superiore a quello della storia e diverso da quello della filosofia. Una conoscenza che non va infatti intesa in senso puramente intellettualistico, ma piuttosto interpretata come portatrice di una soddisfazione di tipo emotivo o affettivo. Il filosofo osserva che la tragedia costruita a regola d’arte sa suscitare nel pubblico i sentimenti della paura e della pietà, dei quali produce poi la purificazione o catarsi. Il mito, nella sua fantasmagoricità, nella sua straordinaria leggerezza e abissale violenza, ha – manifestato nel culto – un peculiare effetto evolutivo sull’anima umana: sia nel senso mistico-religioso di una elevazione Cfr. H. Blumenberg, Arbeit am Mythos, Frankfurt a. M. 1979. Aristotele, Dell’Arte Poetica, 14, 4, a cura di C. Gallavotti, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1974 (19957). 19 Ivi, 9, 1-2. 20 C. Calame, Mito e storia nell’antichità greca, pp. 29 e 34. 17 18

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dello spirito, che in quello etico-sociale di un rasserenamento psichico. Esso non rimanda ad altri significati che a quelli suoi propri, non richiede uno sforzo di traduzione. Il senso è qualcosa che può essere afferrato in maniera immediata. L’avvento del cristianesimo rovescia l’intero sistema del rapporto tra mito e storia, dal momento che si pone come rivelazione di un unico Dio all’uomo prescelto, Abramo, e come nuova verità del logos, universale e cosmopolita, testimoniata dagli Apostoli nella narrazione ispirata dallo Spirito Santo della vita di Gesù Cristo come prima e unica incarnazione del divino nella storia. In questo modo il cristianesimo si mette al centro, ma si offre anche come centro della storia universale. Per farlo assume l’allegoresi mitologica dei pagani e la applica prima all’esegesi biblica, in particolare alla comparazione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, e poi a tutto il sapere umanistico fino a sviluppare una vera e propria «concezione profetica della storia» nel segno di Cristo21. Il concetto di mito come linguaggio autonomo scompare allora completamente dalla scena, poiché se quello cristiano non è definito come mythos, bensì è il logos rivelato nella storia, a tutte le altre “storie” non resta che la scelta tra ricollegarsi a quella centrale cristiana, oppure andare ad arricchire il gran numero di narrazioni intorno a quella schiera di dèmoni che ancora Dante chiama «li dèi falsi e bugiardi»22. Tra i moderni, sebbene a lungo negletto, è G. Vico nella Scienza Nuova a recuperare al mito una sua sfera primigenia, collocandola tuttavia storicamente dentro la Bibbia, tra il diluvio universale e la prima rivelazione di Dio all’uomo. In questo periodo “prelogico” l’uomo caduto è simile a un bestione che comunica soltanto per via di un’eP. Boitani, L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna 1992, p. 19; cfr. anche E. Auerbach, “Figura”, in Studi su Dante, Milano 1963 (20073); H. Rahner, Miti greci nell’interpretazione cristiana, Bologna 1990. 22 Dante Alighieri, Inferno, I 72, in Commedia, a cura di A.M.Chiavacci Leonardi, Milano 2006 21

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spressione poetica di forti emozioni – tra cui la meraviglia, ma anche la paura – legate all’esperienza terrena. In tale infanzia dell’umanità il mito è prodotto autentico e intraducibile della creatura divina, prima che Dio l’abbia illuminata della sua infinita sapienza, dando così avvio alla storia della salvezza23. Se Vico ha senza dubbio il merito di aver ristabilito una verità del mito, egli l’ha tuttavia relegata all’uomo primitivo (in maniera peraltro non dissimile da Platone, che considerava il mito una forma infantile di linguaggio)24, concezione nella quale è stato seguito, dal Romanticismo al fin de siècle fino in pieno Novecento, dalla più gran parte degli studiosi, alcuni dei quali possono dirsi tutt’altro che apologeti cristiani interessati a salvare le verità bibliche, come F. Nietzsche, E. Durkheim, C.G. Jung o C. LéviStrauss. A questo punto mi preme sottolineare che la mia ricerca sui miti di fondazione della civiltà anglo-americana impone un congedo da una simile visione storicizzante e primitivista del mito – a meno che non vogliamo considerare comunque primitivi i popoli che non possiedono ancora una letteratura “nazionale”, quali erano in un certo senso gli Inglesi del 1100 e gli Americani del 1600. Non penso tuttavia che una tale ipotesi vada oltre ciò che si potrebbe considerare un’interessante provocazione25. Né quella inglese medievale, né quella coloniale moderna possono in alcun modo essere considerate società primitive nel senso in cui lo intendono l’etnologia e la sociologia eurocentriche e progressiste dell’800 e di buona parte del ’900. Ci troviamo di fronte a degli esempi che contraddicono l’idea che il mito nasca soltanto in seno a gruppi non evoluti, lontanissimi dalla civiltà nel tempo come, diciamo, gli uomini preistorici, o nello spazio, come, ad esempio, le tribù che attualmente abitano le foreste amazzoniche26. Anzi, vi è un ulteriore aspetto collegato a questo, che

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Cfr. G. Vico, La scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, Torino

1996. Platone, La Repubblica, 377a ss., trad. it. di F. Sartori, Roma-Bari 1997 (20063). 25 Cfr. C. Calame, Mito e storia nell’antichità greca, p. 17. 26 Cfr. R. Barthes, Mythologies, Paris 1957, pp. 179-233. 24

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ridimensiona ancora l’intera prospettiva del problema: illuministi come Vico, de Brosses o Hume collegano l’insorgenza del mito presso i primitivi alla loro connaturata ignoranza e paura di fronte all’esistenza. Si tratta ovviamente di un pregiudizio, che tuttavia è riuscito a navigare indisturbato attraverso le epoche fino ai giorni nostri, come se l’ignoranza e la paura fossero prerogativa delle società primitive. L’esistenzialismo e la psicoanalisi hanno invece dimostrato come tali sentimenti appartengano a tutte le età evolutive, e che forse non siano affatto suscettibili di evoluzione, dal momento che, per quanto possa mutare la natura dell’uomo, la sua condizione di essere mortale in un universo incommensurabile rimane invariata. La “tesi della paura” dell’Illuminismo, così come tutte le spiegazioni romantiche, positiviste o fenomenologiche sull’origine del mito sono dunque a mio avviso di per sé corrette, salvo che errano nel momento in cui si riferiscono esclusivamente alla sfera del primitivo. La mentalità mitica, o «logica poetica»27, non è superabile in quanto afferisce alla condizione stessa dell’uomo. Nelle parole di W. F. Otto, «non abbiamo a che fare con una mentalità che può essere superata da un’altra più esatta, ma con un’esperienza unica che si afferma con insistenza maggiore o minore in tutti gli stadi della civiltà»28. Vi è qualcosa del vivere umano che, riprendendo la riflessione di Schelling nella Philosophie der Mythologie, richiama naturalmente la verità e il contenuto profetico del mito come espressione della speranza dell’umanità. Dicevamo sopra che i miti storici, quali sono quelli di fondazione, della storia colgono essenzialmente l’elemento sociale e quello sacro. Si tratta di due elementi distinti, ma non antitetici. Il primo è affrontato soprattutto dalla cosiddetta scuola storico-culturale, che è erede della scuola storica di impostazione vichiana, rappresentata in primo luogo da K. O. Müller nei Prolegomeni a una mitologia scientifica del

27 Vedi G. Vico, La scienza nuova e altri scritti, a cura di N. Abbagnano, Torino 1996, II. II. 1. 28 W.F. Otto, Il volto degli dei: legge, archetipo e mito, p. 66.

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1825 e da P. Buttmann nel Mythologus del 1828, e del positivismo evoluzionistico di scienziati dell’800 come A. Comte, H. Spencer, W. Wundt e Lévy-Bruhl. Gli studi compiuti da tale scuola indagano, soprattutto nella figura di B. Malinowski29, la molteplice relazione del mito con le strutture sociali, da cui prende le mosse l’opera di E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico del 1895. Tale indirizzo scientifico va sotto il nome di funzionalismo, e analizza appunto le funzioni che il mito svolge all’interno di un gruppo sociale. L’elemento sacro è invece affrontato soprattutto dalla scuola fenomenologica, da autori come R. Otto, che ne Il sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale del 1917 riconosce nel mito una categoria del sacro nella sua apparizione storica, M. Eliade, che ne Il mito dell’eterno ritorno del 1949 equipara il mito a un fatto sacro nel suo duplice valore storico e archetipale universale, e infine K. Kerényi, che dopo una iniziale convergenza di idee con C. G. Jung30, si distacca dalla concezione innatistica degli archetipi e dell’inconscio collettivo, a favore di uno studio più attento alla ricezione empatica e alla trasmissione umanistica del mito, che secondo lui è ciò che fonda il senso dell’esistenza31. Questi indirizzi teorici possono essere entrambi avvicinati ai miti di fondazione che qui ci interessano in modo particolare. A partire dal contesto storico a noi interessa capire in che modo essi realizzino la funzione sociale, i.e. la coesione identitaria del gruppo, e il significato esistenziale, i.e. la sua conquista del senso. Per concludere, considererò due ulteriori posizioni teoriche che mi appaiono particolarmente interessanti in questo orizzonte: quella di E. Bloch ne Il principio speranza del 1959, e di K. Hübner nel più recente Glaube und Denken. Dimensionen der Wirklichkeit (Fede e pen-

Cfr. B. Malinowksi, “Il mito come sviluppo drammatico del dogma” (1962), in Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, a cura di U. Fabietti, Torino 2000. 30 Cfr. C.G. Jung-K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1972 (20032). 31 K. Kerényi, Die Mythologie der Griechen, Zürich 1951. 29

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siero. Dimensioni della realtà) del 2001. Bloch elabora una concezione del pensiero utopico che a mio avviso si avvicina molto all’idea di pensiero mitico delineata in queste pagine. Sebbene egli usi il termine ‘Utopie’ in contrapposizione a quello di ‘Mythos’, con il quale ultimo designa ogni forma di credenza, e dunque di falsità, mi sembra evidente che, al di là della discriminazione terminologica, egli riprenda la tradizione “filomitica”32 di Aristotele e la sviluppi nel senso di una pedagogia della speranza33. Non è un caso forse, che egli abbia formulato tale pensiero negli anni tragici della Seconda Guerra Mondiale, mentre si trovava a vivere e a insegnare negli Stati Uniti, in fuga dalla Germania, che pure amava. La speranza per lui è un affetto naturale che – come la paura – può essere insegnato. In una interpretazione non ortodossa del marxismo, egli riconosce proprio al pensiero utopico la capacità di insegnare tale speranza all’uomo. Speranza che va intesa in senso esistenziale, come spinta progettuale verso la realizzazione delle proprie potenzialità positive nella vita futura, e non come escatologia che riduce al silenzio. Come dicevamo prima, i miti di fondazione sono intrisi di questa speranza esistenziale, di questo contenuto profetico. Nascono in momenti storici di grave crisi come risposta della dimensione utopica della coscienza, come principio, appunto, di speranza. Hübner, da par suo, affronta in maniera nuova il problema del rapporto tra verità mitica e verità scientifica. Il suo approccio mi pare molto fecondo e di una mirabile chiarezza. In sintesi, egli distingue due tipi di logos: quello della rivelazione, che paragona metaforicamente al «mangiare dell’albero della vita», e quello della metafisica, paragonato invece al «mangiare dell’albero della conoscenza»34. Da questi due modi di pensare emergono più dimensioni della realtà. La dimensione della rivelazione mostra un carattere particolare: essa è sempre attraversata dal mito. Esiste il mito senza rivelazione, ma non è possi-

Cfr. Aristotele, Metafisica, A 2 982b, 11-19, a cura di G. Reale, Milano 2004. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a. M. 1959 (1985), p. 1. 34 K. Hübner, Glaube und Denken. Dimensionen der Wirklichkeit, Tübingen 2001 (20042). 32 33

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bile osservare il contrario, ovvero dove si manifesta una verità rivelata, ciò avviene sempre attraverso il mito. La dimensione della metafisica, invece, si esprime attraverso il pensiero discorsivo, che, per quanto accumuli innumerevoli verità parziali e provvisorie, si dimostra alla fine fallace nella misura in cui è incapace di dare risposte nelle esperienze limite dell’esistenza umana. Troviamo così ancora una volta confermata la verità del linguaggio del mito come unica dimensione della realtà capace di restituire l’uomo alla sua integrità. Il mito è ciò che ricongiunge l’uomo al cosmo.

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II. LA BRITANNIA

1. BRUTUS, IL PRINCIPE FONDATORE

Sulla scorta dei manoscritti antichi e medievali ad oggi rinvenuti, il primo uomo di lettere a individuare e a fissare un fondatore della nazione britannica fu il monaco di nome Nennius (o Pseudo-Nennius), vissuto nel Galles settentrionale a cavallo tra l’VIII e il IX secolo1. Proprio sulla soglia dell’anno 800 egli redasse in latino una Historia Brittonum (Storia dei Britanni) nella quale è menzionata per la prima volta nella letteratura europea la figura di Brutus (o Britto)2, il

1 Si ritiene che questi possa essere in realtà il tardo recensore di un testo compilato intorno all’anno 679 e ad oggi perduto. Vedi A.W. Ward, A.R. Waller, W.P. Trent, J. Erskine, S.P. Sherman, e C. Van Doren (Eds.), The Cambridge History of English and American Literature, Vol. I, Cambridge 1907-1921, Cap. V § 3; cfr. anche T. Mommsen, Monumenta Germaniae Historica Auctores antiquissimi XIII, Berlin 1898, pp. 111-222; F. Lot, Nennius et l’Historia Brittonum: étude critique suivie d’une édition des diverses versions de ce texte, Paris 1934, pp. 143-231; D.N. Dumville (ed.), The Historia Brittonum: The “Vatican” Recension, Cambridge 1985; M. Lapidge & R. Sharpe, A Bibliography of Celtic-Latin Literature 400-1200, Dublin 1985, pp. 42-45. I manoscritti dell’opera oggi esistenti sono 11, di cui il più antico data intorno al 900 e fu rinvenuto alla fine del XIX secolo a Chartres, mentre il più recente, il London Burney 310, è del 1381. All’inizio della Historia Brittonum Nennius si proclama discepolo del santo Elvodug, che gli storici hanno identificato nell’arcivescovo di Gwynedd, considerato la figura più eminente del Galles del VIII secolo. Da questo nome si è tentato di ricostruire l’identità di Nennius. Cfr. A.W. Wade-Evans (ed.), Nennius’s “History of the Britons”, London 1938. 2 Manteniamo qui l’uso del nome latino originale conformemente alla prassi corrente nell’accademia inglese, la quale usa l’idioma nazionale moderno soltanto per i personaggi più familiari della matière de Bretagne come ‘Merlin’ (it. Merlino) e

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Le scogliere di Dover, dalle quali sembra essere derivato il nome di ‘Albion’, dal lat. album, ‘bianchezza’

mitico principe fondatore della monarchia britannica. Da questa figura quella che precedentemente veniva chiamata isola di ‘Albione’ avrebbe derivato non solo il nome3, «Britannia insula a quodam Bruto […] dicta»4, («l’isola di Bretagna è così chiamata dal nome [di] Bruto»)5, ma anche e soprattutto l’ascendenza troiano-latina, vale a dire romana, dei suoi primi abitanti6. Nella premessa all’opera Nennius spiega di avere raccolto una serie di testi antichi e di tradizioni orali relativi alle origini del popolo britannico: «Ego autem coacervavi omne quod inveni tam de annalibus Romanorum quam de cronicis sanctorum patrum, et de scriptis Scottorum Saxonumque et ex traditione veterum nostrorum» («Io ho così raccolto tutto ciò che sono riu-

‘Arthur’ (Artù). Vedi M.D. Reeve (ed.), in Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain, Woodbridge 2007, p. lxxv. 3 In realtà, il nome fu usato nel V secolo dal navigatore cartaginese Imilcone, ed è probabimente riferito alle bianche scogliere di Dover. Il primo breve riferimento al viaggio di Imilcone si trova nella Naturalis Historia (II 169a) di Plinio il Vecchio (Storia Naturale, a cura di G. B. Conte, vol. I, Torino 1982). 4 Nennius, Historia Brittonum, II, 7, in J. Morris (ed.), Nennius. British History and The Welsh Annals, London and Chichester 1980, p. 59. 5 Nennio, La storia di Re Artù e dei Britanni. Historia Brittonum, a cura di A. Morganti, Rimini 2003, p. 20. 6 Cfr. A. W. Wade-Evans (ed.), Nennius’s “History of the Britons”, London 1938.

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scito a trovare, sia degli annali dei Romani che delle cronanche dei Padri Santi, nonché degli scritti degli Irlandesi e dei Sassoni e della tradizione dei nostri anziani»)7. Il carattere di raccolta del volume, fa sì che vi troviamo due diverse versioni della fondazione della Britannia, alle quali si aggiunge nei manoscritti a partire dal X secolo, una importante glossa di Samuel, discepolo del chierico Beulan – entrambi personaggi avvolti nel mistero – che inserisce nella storia un’ulteriore genealogia parzialmente diversa dalle precedenti8. Abbiamo dunque in Nennius complessivamente tre diverse versioni della storia delle origini della civiltà britannica. La prima fonte è tratta, secondo quanto affermato dall’autore, dagli «annalibus Romanorum»9, presunti documenti scritti lasciati, si suppone, dagli storici conquistatori romani di un tempo, i quali colonizzarono l’isola nel periodo che va dall’occupazione di Cesare nel I secolo a. C., all’abbandono definitivo delle truppe nel V d. C. In base a tali annali, le origini della nazione britannica sarebbero strettamente legate ad alcune vicende chiave della tradizione storico-culturale del Mediterraneo, in particolar modo la guerra di Troia e la fondazione di Roma. Nennius incomincia infatti il suo resoconto della fondazione della Britannia parlando dell’eroe troiano Enea, il quale, fuggito da Troia alla fine della guerra, giunse per mare insieme al figlio Ascanio nella penisola italica, vi sconfisse Turno, sposò Lavinia, la figlia del re Latino – figlio di Fauno, figlio di Pico, figlio di Saturno – alla morte del quale acquisì il regno dei Romani, o Latini («Romanorum vel Latinorum»)10, fondò la città di Alba, e vi condusse la moglie, che in seguito gli diede un figlio di nome Silvio. L’estrema sintesi di questa prima parte della fonte evidenzia la notorietà per il lettore antico e alto-medievale dei nomi e delle vicende menzionate, che sono infatti quelli dell’Eneide di Virgilio, il libro “scolastico” più diffuso e letto dell’Europa antica e medievale (e in seguito anche moderna)11. Nennius, Historia Brittonum, Praefatio, p. 50. Cfr. T. Mommsen (ed.), Chronica Minora, iii. ed., 1894, p. 144. 9 Nennius, Historia Brittonum, II, 10, p. 60. 10 Ivi. 11 Cfr. D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Firenze 1967. 7 8

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Poi, a partire dal primo figlio latino di Enea, viene costruito il passaggio dalla mitostoria romana a quella britannica: Silvio, una volta cresciuto, prese anch’egli una moglie, la quale pure rimase incinta. Quando Enea venne a saperlo, chiese al suo figlio maggiore, Ascanio, di mandare un mago a esaminare la donna, per scoprire se nel ventre portasse un maschio o una femmina. Il mago eseguì l’ordine e tornò poi da Ascanio, ma ne venne ucciso per la profezia che fece, secondo la quale il bambino era maschio e sarebbe stato «il figlio della morte» («filius mortis»)12, poiché avrebbe ucciso suo padre e sua madre, e sarebbe per questo stato odiato da tutti gli uomini. La profezia si avverò: la madre del bambino morì nel darlo alla luce. Egli venne chiamato ‘Britto’ e fu allevato da un’altra donna. Molto tempo dopo, durante un gioco insieme ad altri compagni, uccise accidentalmente suo padre con un tiro di freccia. Venne allora cacciato dall’Italia e tentò di rifugiarsi su certe isole del mar Tirreno. Ma una volta giuntovi ne venne anche lì scacciato dai Greci che vi abitavano, i quali non avevano dimenticato che il loro affine Turno era stato ucciso da Enea, e non tolleravano l’idea di dare asilo ad un suo discendente diretto. Britto si diresse dunque in Gallia, dove fondò la città di Tours, allora chiamata ‘Turnis’, in onore e memoria proprio di Turno, come a far intendere da parte di Nennius (o della sua fonte) che con quella prima fondazione egli volesse espiare una volta per tutte la colpa ereditata dal nonno Enea di essersi messo in guerra con le popolazioni autoctone della nuova patria, ma nello stesso tempo donare alla stirpe dei Britanni il primato “civile” sulla Francia nord-occidentale corrispondente all’antica Armorica. Tuttavia in questa fondazione di Tours vi è anche un implicito riferimento alla Historia Francorum di Fredegario o Pseudo-Fredegario (VII sec.), il continuatore dell’opera dallo stesso titolo iniziata da Gregorio di Tours (VI sec.), che narra altrettanto miticamente l’origine troiana del regno franco, con la differenza significativa rispetto a quello britannico, che il suo fondatore, Francio, non discendeva dalla stirpe troiano-latina di Enea, ma era figlio di Ettore e padre di una civitas più antica di quella romana, giunta nell’Europa 12

Nennius, Historia Brittonum, II, 10, p. 60.

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occidentale passando da nord attraverso il Mar Nero e il Danubio13. Questa nobile e antichissima origine sarebbe servita alla dinastia carolingia per legittimare il nuovo Sacro Romano Impero e Nennius voleva forse dimostrare ai vicini francesi che quanto a nobili e antiche origini la Britannia non era da meno14. Anche la figura di Artù da lui menzionata per la prima volta in letteratura doveva probabilmente rappresentare un parallelo a Carlo Magno, motivo politico poi ripreso ampiamente da Geoffrey of Monmouth15. Il Britto della prima fonte proseguì poi il suo viaggio fino ad approdare sull’isola che da lui prese il nome di ‘Britannia’, la riempì con la sua gente («suo genere»)16 e vi si stabilì in maniera definitiva. Nennius conclude questa breve narrazione, che si estende su tre generazioni vissute, secondo il suo computo del tempo, tra il XII e l’XI secolo a. C., indicando che Britto regnò in Britannia nello stesso periodo in cui l’alto sacerdote Eli regnava in Israele (1Samuele 3), e l’arca dell’alleanza fu presa dagli stranieri. Da allora fino all’epoca in cui egli scriveva l’isola era sempre stata abitata. La seconda fonte riguardante il primato di Brutus e della sua stirpe nella colonizzazione della Britannia arcaica è tratta, sempre secondo quanto affermato da Nennius, da alcuni non meglio identificati antichi libri di antenati britannici («ex veteribus libris veterum nostrorum»)17. L’autore la riporta sotto forma di una genealogia biblica che risalirebbe – sempre attraverso i Romani ed Enea – ai tre grandi popoli postdiluviani nati dalla discendenza dei tre figli di Noè su fino ad Adamo stesso, «filii Dei vivi» («figlio del Dio vivente»)18. Vedi C. Beaune, Naissance de la nation France, Paris 1985. Cfr. W.F. Schirmer, Die frühen Darstellungen des Arthurstoffes, Köln und Opladen 1958, p. 9 n. 8. 15 Cfr. G.H. Gerould, “Arthur and Politics” in Speculum 2 (1927), pp. 33 ss. e W.A. Nitze, „Geoffrey of Monmouth’s King Arthur“ (ivi, pp. 317 ss.) In senso contrario v. E. Faral, La Légende Arthurienne, 3 vols., Paris 1929, vol. II, p. 391 e R.S. Loomis, “Geoffrey of Monmouth and Arthurian Origins” in Speculum 3 (1928), pp. 16 ss. Cfr. anche E. Köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik, Tübingen 1956. 16 Nennius, Historia Brittonum, II, 10, p. 60. 17 Ivi, p. 63. 18 Ivi. 13 14

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Quella di far risalire le storie nazionali alla creazione biblica dell’uomo, e alla sua successiva cacciata dal paradiso terrestre, è una consuetudine diffusa tra gli storici del Medioevo cristiano19, e anzi, la funzione dell’eroe civilizzatore viene interpretata proprio come quella di portare a termine la Creazione20. Ricordiamo che dopo l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino, e la cacciata di quest’ultimo a oriente dell’Eden, Dio aveva concesso ad Adamo una nuova discendenza nel figlio Set, discendenza alla quale appartenevano Noè e i suoi figli Sem, Cam e Iafet. Nennius inizia il suo racconto genealogico parlando proprio di Noè e dei suoi tre figli, i quali divisero il mondo in tre parti dopo il diluvio e lo popolarono con le loro discendenze. Sem estese i suoi confini verso l’Asia, Cam verso l’Africa e Iafet verso l’Europa. Sempre secondo Nennius, il primo uomo a giungere in Europa fu lo Iafetide Alanus, che aveva per madre Rea Silvia, figlia di Numa Pompilio, figlio di Ascanio, figlio di Enea, figlio di Anchise, figlio di Troo, figlio di Dardano, figlio di Elisa, figlio di Iavan, figlio di Iafet. Dai tre figli di Alanus, e cioè Hessitio, Armeno e Negue, discesero tutti i popoli d’Europa. Hessitio ebbe quattro figli: Francus, Romanus, Britto e Albanus, dai quali discendono i popoli appunto dei Franchi, dei Latini, degli Albani e dei Britanni. Vi è una certa confusione e sovrapposizione di momenti storici e leggendari, in quanto, ad esempio, Rea Silvia, madre dei fondatori di Roma, Romolo e Remo, difficilmente poteva essere la figlia di Numa Pompilio, secondo re di Roma, scambiato forse per l’assonanza del nome erroneamente per Numitore. Oppure l’illogicità nell’affermare che Alanus fu il primo uomo a giungere in Europa e da cui sarebbero discesi tra gli altri gli Albani e i Romani, quando poi è nello stesso tempo inserito in una genealogia che lo vede a sua volta come discendente di una stirpe già europea e tanto più albano-romana. Eppure, per quanto confusa possa apparire la questione da un punto di vista moderno – è difficile Cfr. R.W. Hanning, The Vision of History in Early Britain, Columbia University Press, New York 1966. 20 J. Ries, Il mito e il suo significato, Milano 2005, p. 252; cfr. anche M. Eliade, Aspects du mythe, Paris 1963; G. Steiner, Grammars of Creation, Yale University Press, New Haven 2001. 19

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immedesimarsi realmente nella mentalità dell’amanuense gallese del IX secolo – il punto fondamentale, il tèlos del suo discorso, sta nel documentare il fatto che la stirpe di Brutus non solo è un’autentica discendente e degli eroi romani e dei patriarchi biblici, ma fu anche la prima a stabilirsi sull’isola di Albione. Laddove la vicenda tratta dalla prima fonte appartiene ad un ambiente chiaramente pagano, e la storia biblica – inserita nel riferimento cronologico al sacerdote Eli – vi corre solamente parallela, quella tratta dalla seconda è prodotta alla luce della rivelazione cristiana e riesce, grazie ad alcuni salti fantasiosi, a far convergere l’ascendenza eroica dei Britanni con quella biblica (in particolare iafetica). Si può d’altronde considerare l’ipotesi secondo cui l’aver inserito due diverse versioni della fondazione della nazione britannica sarebbe anche ispirato ai due opposti racconti della creazione dell’uomo già presenti nella Genesi (1, 26-31; 2, 5-25), dove l’uomo creato è nello stesso tempo «divino e infimo, creato dal nulla e fatto di terra, culmine e inizio»21. Così anche Brutus discende per un verso da una stirpe pagana, ovvero, in una prospettiva cristiana, da una stirpe non illuminata dalla rivelazione, ed è oltretutto stigmatizzato dalla profezia del mago e dal suo avveramento come «il figlio della morte […] odiato da tutti gli uomini» («filius mortis [...] exosus omnibus hominibus»)22, mentre per un altro verso discende da Adamo e da Noè e diventa il fondatore di una grande nazione cristiana. Tra le due versioni appena discusse troviamo inserita in alcuni manoscritti la glossa di Samuel, discepolo di Beulan, (entrambi personaggi avvolti nel mistero), la quale aggiunge una terza genealogia dei Britanni trasmessagli oralmente dall’illustre (e altrettanto oscuro) anziano Cuanu («Guanach»), così come questi l’aveva raccolta nella sua memoria dagli annali romani: «Sic inveni, ut tibi, [...] in ista pagina scripsi. Set haec genealogia non scripta in aliquo volumine Britanniae, set in scriptione mentis scriptoris fuit» («Così l’ho trovata, come l’ho 21 Cfr. P. Citati, “La Genesi”, in La civiltà letteraria europea, Milano 2005, p. 424. 22 Nennius, Historia Brittonum, II, 10, p. 60 (corsivo mio).

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scritta su questa pagina per te [...]. Ma questa genealogia non è scritta in alcun libro della Britannia, ma nella scrittura della mente dello scrittore»)23. Tale glossa va ad integrare il primo resoconto di Nennius, quello tratto appunto dagli annali romani, e ne differisce in quanto – diversamente dall’Eneide virgiliana e conformemente alla Storia di Roma di Tito Livio – aggiunge una generazione tra Enea e Silvio, per cui quest’ultimo sarebbe figlio di Ascanio e non direttamente di Enea (il quale ultimo sarebbe di conseguenza il bisnonno e non il nonno di Brutus), ma soprattutto estende in maniera completamente diversa da come aveva fatto Nennius nella seconda versione delle origini l’ascendenza di questi eroi classici ai patriarchi biblici: Brutus vero fuit filius Silvii f. Aschanii f. Enee f. Anchise f. Capen f. Asaraci f. Tros f. Erectonii f. Dardani filii Iupiter, de genere Cam filii maledicti videntis et ridentis patrem Noe. Tros vero duos filios habiut, Hilium Asaracumque. Hilius condidit Hilium civitatem, id est Troiam, primo, genuitque Lamedon. Ipse est pater Priami. Asaracus autem genuit Capen. Ipse est pater Anchise. Anchises genuit Eneam. Ipse Eneas pater Ascanii. (Brutus fu autentico figlio di Silvio, figlio di Ascanio, figlio di Enea, figlio di Anchise, figlio di Capi, figlio di Assaraco, figlio di Troo, figlio di Erettonio, figlio di Dardano, figlio di Giove, del genere di Cam, il figlio maledetto che vide suo padre Noè e lo derise. Troo aveva due figli, Ilio e Assaraco. Ilio fondò la città di Ilio, cioè Troia, per primo, e generò Lamedone, che è il padre di Priamo. Assaraco anche generò Capi, che è il padre di Anchise. Anchise generò Enea, che è il padre di Ascanio.)24

Da un punto di vista formale, sia la genealogia riportata da Samuel che quelle recensite da Nennius appaiono chiaramente modellate sul calco di quelle presenti nella Genesi e in tutta la Bibbia fino all’incipit del Vangelo secondo Matteo. Rispetto a Nennius tuttavia, Samuel apporta delle variazioni sostanziali che rendono particolarmente

23 24

Ivi, p. 61. Ivi, p. 60.

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odiosa la figura di Brutus, detto infatti da lui «Bruti exosi»25, il quale non discenderebbe dalla stirpe benedetta di Iafet26, bensì da quella di Cam, ovvero tra i figli di Noè quello maledetto con parole durissime dal padre per averlo deriso («ridentis»27) dopo averlo visto giacere inebriato di vino e nudo nella sua tenda, maledizione così riportata nella Genesi28: «Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!»29. Con questa modifica genealogica Samuel assimila i Britanni ai figli di Cam, i Camiti (o Nordafricani), condannati a sottomettersi come schiavi ai figli del primogenito e prediletto Sem, i Semiti (o Mediorientali), e di Iafet, gli Iafetidi (o Indoeuropei), rovesciando in tal modo completamente lo spirito nazionalistico di Nennius. Anche qui è difficile indovinare il motivo della glossa. Si può ipotizzare che Samuel avesse una appartenenza o delle simpatie etniche diverse da quelle di Nennius, che provasse ostilità e intendesse dunque denigrare i Britanni come stirpe schiava degli Europei e dei Mediorientali. In questo il nome latino del Galles, Cambria, contenente la radice ‘Cam’ e derivato da una forma antica dell’odierno gallese ‘Cymru’, patria da sempre inespugnata dei Britanni, poteva forse fornirgli un buon esempio di eponimia. Ma si tratta soltanto di una ipotesi, poiché vedremo in una riscrittura successiva come l’origine del nome ‘Kambria’ venga attribuita ad uno dei figli di Brutus, Kamber30. D’altra parte già nel VI secolo troviamo uno “storico” della Britannia, il primo indigeno, che ne lamenta il carattere dissoluto e Ivi, p. 60; cfr. anche l’origine del nome di Odisseo in Omero, Odissea, XIX 403-409, trad. it. di G. A. Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1985 (19966), pp. 248-249 . 26 Genesi, 9, 27. 27 Nennius, Historia Brittonum, II, 10, p. 60. 28 Genesi 9, 20-23 non parla esplicitamente di derisione o mancanza di rispetto, ma accenna al fatto che Cam riferì ciò che aveva visto ai suoi due fratelli, i quali andarono allora a coprire il padre, ma lo fecero voltandogli le spalle, senza guardarlo. 29 Genesi 9, 25. 30 Geoffrey of Monmouth, The Historia Regum Britanniae, I. Bern, Burgerbibliothek, MS. 568, ed. by N. Wright, Cambridge 1985, § 23, p. 15. 25

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coatto. Figura di spicco del movimento monastico gallese tardo-antico, Gildas Sapiens è un Britanno romanizzato annoverato tra i Padri della Chiesa e fervente sostenitore dell’Impero cristiano. Egli si trova a testimoniare con grande rammarico il risultato delle invasioni barbariche sassoni avviatesi in Britannia nel V secolo31. Nel Liber Querulus de Calamitate, Excidio et Conquestu Britanniae (Libro querulo della sventura, distruzione e conquista della Britannia) detto anche De Excidio Britonum o Britanniae (La distruzione dei Britanni o della Britannia) (ca. 547)32, individua le cause della rovina della sua patria nel comportamento vizioso e inconcludente dei principi e del clero, i quali avrebbero per propria colpa condotto la fiorente civiltà romanobritannica alla sopraffazione e alla distruzione da parte dei «falsi mercenari» («manipularibus spuriis») anglo-sassoni33. Gildas afferma di non volere parlare degli errori comuni a tutti i popoli appartenenti al genere umano prima dell’incarnazione di Cristo («ante adventum Christi in carne») (4, 2)34. A lui interessa denunciare quelli ai quali Dio si è già rivelato, come avvenne per primo a Israele, e A.W. Wade-Evans (ed.), Nennius’s “History of the Britons”, London 1938, pp. 16-17. 32 Vedi A.W. Ward, A. R. Waller, W.P. Trent, J. Erskine, S. P. Sherman, and C. Van Doren (eds.), The Cambridge History of English and American Literature, Vol. I, Cambridge 1907-1921, Ch. V § 1; cfr. anche T. Mommsen, Monumenta Germaniae Historica Auctores antiquissimi XIII, Berlin 1898; v. anche J.A. Giles, Six Old English Chronicles, London 1848; H. Williams (transl.), Two Lives of Gildas by a monk of Ruys and Caradoc of Llancarfan, Llanerch 1990; D. N. Dumville, “The chronology of De Excidio, book I”, in Gildas: New Approaches, pp. 61-84 (pp. 7677); P. Sims-Williams, “Gildas and the Anglo-Saxons”, Cambridge Medieval Celtic Studies, 6 (1983), 1-30 (pp. 1, 4); T.D. O’Sullivan, ibid. and I. Wood, ibid. T.D. O’Sullivan, The De Excidio of Gildas: its Authenticity and Date, Leiden 1978; I. Wood, “The End of Roman Britain: Continental evidence and parallels”, in Gildas: New Approaches, Suffolk, 1984. 33 Gildas, De Excidio Britonum, 23, 5, in M. Winterbottom (ed. and transl.), Gildas. The Ruin of Britain and other works, London and Chichester 1978; cfr. anche la trad. ingl. di M. A. Faletra (ed.) in The History of the Kings of Britain. Geoffrey of Monmouth, Toronto 2008, p. 227. 34 Osserviamo qui uno dei primi esempi della suddivisione cristiana della storia nelle due grandi ed opposte ere, quella pagana e quella cristiana. 31

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che non ne rispettano l’alleanza. Un trattato sulle origini storiche o genealogiche dei Britanni non rientra dunque tanto nelle priorità di Gildas, che infatti non ne rintraccia una fondazione civica, né ne determina la discendenza da Cam o da altri: egli cerca unicamente di delinearne il carattere originario, o genius populi, che permetta di comprenderne la sfortuna. Sostiene così che il popolo britannico si sia mostrato malvagio sin da quando iniziò a stabilirsi sull’isola: Haec erecta cervice et mente, ex quo inhabitata est, nunc deo, interdum civibus, nonnumquam etiam transmarinis regibus et subiectis ingrata consurgit. Quid enim deformius quidque iniquius potest humanis ausibus vel esse vel intromitti negotium quam deo timorem, bonis civibus caritatem, in altiore dignitate positis absque fidei detrimento debitum denegare honorem et frangere divino sensi humanoque fidem, et abiecto caeli terraeque metu propriis adinventionibus aliquem et libidinibus regi? (La Britannia, altera e ardita, sin da quando è abitata, si è sollevata ingrata ora contro Dio, ora contro i suoi stessi abitanti, e talvolta anche contro i re al di là del mare ed i loro sudditi. Quale azione può essere, adesso o in futuro, più turpe o più ingiusta per l’audacia degli uomini, che negare il timore verso Dio, anche, senza la perdita della fede, negare la stima verso gli onesti cittadini e il debito onore a coloro che occupano i posti di più alto prestigio, indebolire la fede al divino ed umano sentire e che, allontanato il timore del Cielo e della terra, qualcuno sia governato dai propri espedienti e dalle proprie passioni?)35

Un popolo che si sarebbe distinto per un’ignoranza e una follia innate e incancellabili36, tali che la sua fama di essere composto di gente tirannica sarebbe giunto fino in Oriente, dove anche un «cane pazzo» («rabidus canis»)37 come l’anticristiano Porfirio avrebbe definito la Britannia «fertilis provincia tyrannorum» («una provincia fertile di tiranni»)38. Gildas, De Excidio Britonum, 4, 1, (Gildas, La conquista della Britannia (De Excidio Britanniae), a cura di S. Giuriceo, Rimini 2005). 36 Ivi, 1, 13. 37 Ivi, 4, 3. 38 Ivi. 35

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Con la conquista romana poi, gli abitanti dell’isola si sarebbero mostrati imbelli, ma infidi. A differenza di altri popoli, non sarebbero stati sottomessi con la spada, con il fuoco e con le macchine da guerra, bensì con le minacce e le sanzioni legali. Così sarebbe divenuta proverbiale l’opinione secondo cui i Britanni sono codardi in guerra e sleali in tempo di pace. Successivamente la mancanza di timore di Dio e di solidarietà nei confronti dei compatrioti, nonché di rispetto verso gli stranieri, li avrebbe portati a perdere l’indipendenza dai popoli invasori e ad essere uccisi, sottomessi o costretti all’esilio oltremare: «alii transmarinas petebant regiones cum ululatu magno ceu celeumatis vice hoc modo sub velorum sinibus cantantes: ‘dedisti nos tamquam oves escarum et in gentibus dispersisti nos’» («Altri, dirigendosi verso i paesi d’oltremare, sotto le vele rigonfie cantavano al posto del celeuma questa melodia: “Ci hai dato come pecore per cibo e ci hai dispersi tra i pagani»)39. L’esilio oltremare ha, come vedremo, particolare interesse per la successiva formazione del mito di fondazione della Britannia, sopratutto il dato della sua localizzazione nell’antica Armorica, che fornirà una basilare e implicita legittimazione al grande “apologeta” dell’invasione normanna del XI secolo, Geoffrey of Monmouth40. Inoltre è proprio da lì, cioè dall’Armorica, che Gildas trae la sua principale fonte storica in una, seppure lacunosa, tradizione orale («transmarina relatione»), che supplisce alla perdita dei moltissimi documenti scritti andati dispersi o distrutti nelle guerre e nelle grandi fughe dal nemico:

Ivi, 25, 1. La migrazione dei Britanni in Armorica è confermata da altre fonti storiche, tra cui una lettera di Sidonius Apollinaris del 472 all’amico Riothamus, in cui menziona la presenza di Britanni in Gallia (O. M. Dalton, The Letters of Sidonius, Oxford 1915, Ep. 3.9), la Getica di Jordanes (Storia dei Goti, a cura di E. Bartolini, Milano 1991), in cui è riferito un intervento militare del capo britannico Riotimus con 12.000 uomini sbarcati a Biturigas nel 469 contro i Visigoti su richiesta dell’imperatore Antemio (45), e la Historia Francorum di Gregorio di Tours (La storia dei franchi, a cura di M. Oldoni, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1981), che narra come i Britanni furono cacciati dai Goti da Bourges e vennero poi massacrati in gran numero nel villaggio di Déols (2, 18). 39 40

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[...] quantum tamen potuero, non tam ex scriptis patriae scriptorumve monimentis, quippe quae, vel si qua fuerint, aut ignibus hostium exusta aut civium exilii classe longius deportata non compareant, quam transmarina relatione, quae crebris inrupta intercapedinibus non satis claret. ([...] non userò i monumenti letterari e gli scritti della patria, poiché di questi, anche se ve ne furono, non ne disponiamo: o sono stati bruciati dagli incendi dei nemici, o sono stati portati lontano dalla flotta di cittadini in esilio. Userò piuttosto una tradizione d’oltremare, la quale però, essendo invasa da numerose lacune, non è chiara a sufficienza.)41

Così, nonostante l’esempio avuto nei quattro secoli di convivenza con i Romani («temporibus imperatorum Romanorum»)42, i Britanni non avrebbero saputo coglierne la lezione di civiltà – di “romanitas” – ed emanciparsi una volta per tutte dalla barbarie pagana. Essi avrebbero anzi ignorato i segni divini, e continuato a vivere nel vizio e nella falsità senza curarsi del futuro, con un’atteggiamento esistenziale rievocato nelle parole di Isaia (22, 13): «Si mangi e si beva, perché domani moriremo!»43. Da questa cecità sarebbe derivata – una volta abbandonati dalle truppe romane e lasciati a difendersi da soli dalle incursioni dei Picti e degli Scoti – l’incapacità di guidare la nazione britannica verso un futuro di autonomia e di libertà. Il riscopritore di queste tradizioni e l’autore del vero e proprio mito di fondazione della Britannia, colui che restituì pieno vigore letterario al compendio redatto da Nennius, creando una storia unitaria ricca di innumerevoli motivi e suggestioni, e che partendo dalla fondazione arrivò fino alla storia della sua rovina appresa da Gildas, fu il presunto canonico di origine bretone vissuto a Oxford presso il collegio laico di St George nella prima metà del XII secolo44, Gaufridius Monemutensis, meglio noto come Geoffrey of Monmouth. Gildas, 4, 4. Ivi. 43 Ivi, 22, 3. 44 E.K. Chambers, Arthur of Britain, London, 1927, pp. 24 e 63; J. E. Lloyd, “Geoffrey of Monmouth”, in English Historical Review, 57 (1942), pp. 460-468. 41 42

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La sua Historia Regum Britanniae (Storia dei Re di Britannia) (ca. 1138)45 costruisce una straordinaria genealogia di novantanove re britannici, che si estende per diciannove secoli e «crea un mondo mitologico che, nella storia della cultura europea, ha una posizione simile a quella dei poemi omerici»46. È un’opera certamente più nota per le profezie del mago Merlino e la meravigliosa vicenda di re Artù, che ne rappresentano l’apice e occupano più di un terzo di essa, ma contiene molte altre storie avvincenti – pensiamo soltanto al Leir e al Kimbelinus che ispirarono Shakespeare – tra cui appunto anche quella del fondatore della nazione, il principe mediterraneo Brutus, primo re britannico. Benché Geoffrey non menzioni mai l’autore della Historia Brittonum, Nennius, (da non confondere con il personaggio omonimo che compare nell’opera), è evidente che egli abbia preso il racconto della fondazione della Britannia (nonché la figura di re Artù) dall’opera dell’amanuense dell’VIII-IX secolo, o da qualche sua derivazione. Il problema è che all’epoca l’opera di Nennius si trovava comunemente rilegata insieme a quella di Gildas in un unico volume, che Geoffrey non era l’unico a citare semplicemente come «Gildas»47. Pur non figurando dunque il nome di Nennius, la sua opera – o qualche sua derivazione – è certamente la fonte principale di Geoffrey, almeno per quanto riguarda la storia della fondazione della Britannia da parte di Brutus. La questione riserva ancora qualche mistero: Geoffrey stesso scrive, in una dedica contenuta nella maggior parte dei manoscritti (ad oggi ne sono stati rinvenuti più di duecento)48, di avere sempliceCfr. A. Griscom, “The Date of Composition of Geoffrey of Monmouth’s Historia: New Manuscript Evidence”, in Speculum 1 (1926), pp. 129-156. 46 P. Boitani, La letteratura del Medioevo inglese, Roma 1991, p. 60 . 47 J.S. P. Tatlock, The Legendary History of Britain: Geoffrey of Monmouth’s Historia Regum Britanniae and its Early Vernacular Versions, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1950, p. 4; v. anche N. Wright, “Geoffrey of Monmouth and Gildas” in Arthurian Literature 2, 1982, pp. 1-40, e “Geoffrey of Monmouth and Gildas revisited” in Arthurian Literature 4, 1984, pp. 155-63. 48 J.C. Crick, The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth III. A Summary Catalogue of the Manuscripts, Cambridge 1989; Tatlock, p. 6 n.7. 45

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mente tradotto in latino un certo antichissimo libro scritto nella lingua britannica – «Britannici sermonis librum vetustissimum» – 49 su richiesta di Walter, arcidiacono di Oxford, uomo erudito nell’arte oratoria e nelle storie esotiche («exoticis historiis»)50, quelle riguardanti i paesi stranieri. Non sappiamo quale sia questo libro, ma è dimostrato che è esistita una traduzione irlandese della Historia Brittonum di Nennius fatta da Gilla Coemáin, morto nel 1072, che è nota come Lebor Bretnach, di cui Geoffrey sembra aver avuto una versione gallese ora perduta51. Vi è anche chi sostiene che Geoffrey intenda il misterioso libro come la metafora diffusa nel Medioevo (pensiamo a Dante) del libro della memoria52, e che si riferisca dunque alla tradizione orale di un’antica mitologia celtica53. La questione delle fonti – della loro autenticità e veridicità – ha prevalso in quasi tutta la letteratura critica e filologica intorno all’opera di Geoffrey54, ma ai fini del nostro discorso essa ha un’importanza secondaria, dal momento che 49 The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I, Bern, Burgerbibliothek MS. 568, ed. by Neil Wright, Cambridge 1985, p. 1, § 2. Tutte le citazioni dal latino sono tratte da questo testo fondato sul manoscritto ‘Bern, Burgerbibliothek, MS 568’, ritenuto il più autorevole dalla critica contemporanea. Le traduzioni italiane sono in parte tratte dall’edizione basata sul manoscritto curato da A. Schultz a Halle nel 1854 e pubblicata in Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia, a cura di G. Agrati, Parma 1989 (20052). Per altre edizioni v. anche Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain, ed. by M. D. Reeve, transl. by N. Wright, Woodbridge 2007; Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain. Geoffrey of Monmouth, M. A. Faletra (ed.), Toronto 2008; Goffredo di Monmouth, Historia Regum Britanniae, a cura di I. Pin, (Pordenone 1993) Roma 2006. 50 Historia Regum Britanniae, § 2. 51 A.W. Wade-Evans (ed.), Nennius’s “History of the Britons”, London 1938, p. 10 n. 1 e p. 17; v. in senso contrario, J.E. Lloyd, A history of Wales from the earliest time to the Edwardian Conquest, London, 1939, p. 526. 52 L. Thorpe (ed.), Geoffrey of Monmouth. The History of the Kings of Britain, London 1966, Introduction, n. 18 e pp. 42-43. 53 V.R. Bromwich (ed.), Trioedd Ynys Prydein: The Triads of the Island of Britain, University of Wales Press, Cardiff 2006; B. Roberts, “Geoffrey of Monmouth and the Welsh Historical Tradition”, Nottingham Medieval Studies 20, 1976, pp. 29-40. 54 Schirmer, p. 19 n. 61; cfr. anche G. Ashe, “’A Certain Very Ancient Book’: Traces of an Arthurian Source in Geoffrey of Monmouth’s History”, Speculum 56, 1981, pp. 301-323.

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Geoffrey of Monmouth ca. 1100 - ca. 1155

noi partiamo dal presupposto che la Historia sia un mito e che rappresenti la trascrizione “ordinata” di una tradizione sia scritta che orale non sempre ricostruibile filologicamente. Ciò che ci preme approfondire qui è il contenuto del mito, il suo significato e la sua ricezione e trasmissione dopo Geoffrey. Il canonico di Oxford inizia la dedica della sua Historia Regum Britanniae elogiando gli storici del passato, Gildas e Beda, aggiungendo tuttavia di non aver trovato nel «luculento tractatu»55 né dell’uno, né dell’altro, alcunché riguardante i re che vissero in Britannia 55

Historia Regum Britanniae, § 1.

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prima dell’incarnazione di Cristo, né tanto meno su Artù e quelli che l’abitarono subito dopo (affermazione che, al contrario di quanto detto precedentemente, sembra confermare la sua ignoranza della Historia Brittonum di Nennius, ma potrebbe essere un trucco)56. Prosegue allora dicendo che le gesta di quegli antichi re britannici furono però tali da meritare di essere lodate in eterno, e che molti popoli le avevano tramandate oralmente, «quasi inscripta»57, come se fossero state fissate attraverso la scrittura. Questo conferma in qualche modo il carattere mitologico della tradizione e avvicina effettivamente Geoffrey alla figura di Omero. Poi racconta di aver ricevuto il famoso libro che illustra tutte le gesta di quegli uomini, «a Bruto, primo rege Britonum usque ad Cadvaladrum filium Cadvallonis» («a partire da Bruto, primo sovrano dei Britanni, per arrivare a Cadwaladro figlio di Cadwalone»)58, da parte del suo amico e protettore, l’arcidiacono Walter, e di avere accettato volentieri l’incarico di tradurlo in latino. Anche Geoffrey (o l’autore della sua qualsivoglia fonte), come Nennius, ritiene importante dare avvio alla sua storia risalendo alle origini del primo re dei Britanni, Brutus, il principe fondatore della nazione. Sin dal principio il racconto assume un respiro vastissimo e ci trasporta al tempo subito dopo la guerra di Troia, quando Enea fuggì dalla città distrutta insieme a suo figlio Ascanio e giunse per mare in Italia. Geoffrey narra che lì fu ricevuto con tutti gli onori dal re Latino, ma che Turno, il re dei Rutuli, ne divenne invidioso e lo attaccò. Enea uscì vittorioso dalla battaglia che ne conseguì, uccise Turno e si impadronì sia del regno d’Italia che della persona di Lavinia, che era figlia di Latino. Non viene chiarito se Enea giunse in Italia soltanto con suo figlio Ascanio, oppure anche con un seguito di uomini e donne troiani, come avviene nell’Eneide virgiliana. Ma vedremo fra poco l’interesse di questo dettaglio. Quando Enea finì i suoi giorni, Ascanio fu eletto re, fondò la città di Alba sulle rive del Tevere e successivamente divenne padre di un figlio di nome Silvio. Come nella Ivi. Ivi. 58 Ivi, § 2. 56 57

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glossa di Samuel all’interno della Historia Brittonum di Nennius, di cui sopra, e nella Storia di Roma di Livio, ma contrariamente all’Eneide, Silvio è considerato figlio di Ascanio e non di Enea. Non sappiamo se sua madre sia una donna italica – come lo è Lavinia – oppure una Troiana: la distinzione non è irrilevante per un autore che cerca di ricostruire una genealogia sulla base di precise convinzioni razziali59. Possiamo rilevare che nel caso di Silvio l’appartenenza etnica e l’identità della madre non sembrino assumere un ruolo decisivo. Importa però che egli a sua volta si sposò ed ebbe un figlio con una nipote di Lavinia, dunque con una donna di sangue latino, o misto troiano e latino. Quando Ascanio venne a sapere del concepimento, ordinò ai suoi indovini di scoprire il sesso del bambino che la donna portava in grembo. Non appena questi ebbero accertato lo stato delle cose, comunicarono che avrebbe partorito un maschio, il quale avrebbe ucciso suo padre e sua madre e peregrinato in conseguente esilio per molte terre, finché non sarebbe alla fine pervenuto ai più alti onori. Gli indovini non sbagliarono nel loro vaticinio. Quando venne il giorno della nascita, la donna diede alla luce un maschio e morì a causa delle conseguenze del parto. Il bambino fu affidato ad una levatrice e venne chiamato ‘Brutus’. Passarono quindici anni. Poi un giorno il giovane uccise accidentalmente suo padre con un colpo di freccia mentre si trovavano insieme a caccia. I battitori avevano convogliato alcuni cervi sul loro cammino e Brutus, che credeva di puntare la sua arma contro una delle bestie, colpì suo padre sotto al petto. Questa morte gli costò l’espulsione dall’Italia: i suoi parenti rimasero indignati per ciò che aveva fatto. Fin qui la storia corrisponde grossomodo a quella contenuta negli annali romani riportati da Nennius come prima fonte. Ma d’ora in poi Geoffrey inizia ad aggiungere molti fatti nuovi: Brutus andò in esilio in una certa parte della Grecia («partes Gretie»)60 e lì trovò i discendenti di Èleno, il figlio indovino del vecchio Priamo di Troia, i Cfr. H.A. MacDougall, Racial Myth in English History: Trojans, Teutons, and Anglo-Saxons, University Press of New England, Hanover, NH, 1982; Tatlock, Chap. XVI. 60 Historia Regum Britanniae, § 7. 59

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quali erano tenuti in schiavitù sotto la potestà di Pandrasus, re dei Greci. Geoffrey non ci dice in quale parte della Grecia si trovino, ma se ci avvaliamo delle indicazioni relative ad Èleno presenti nell’Eneide dovrebbe trattarsi dell’Epiro. Dopo la caduta di Troia, Pirro, il figlio di Achille, aveva deportato in catene Èleno e altri Troiani, ordinando che fossero tenuti prigionieri, per vendicarsi con loro della morte del padre. Quando Brutus scoprì che questi schiavi facevano parte della stessa stirpe dei suoi avi, decise di restare con loro per qualche tempo. Presto le sue capacità militari e la sua integrità personale gli valsero tale fama, che re e principi cominciarono ad amarlo più di qualunque altro giovane del paese («patrie»)61. Geoffrey lo descrive come sapiente tra i sapienti, bellicoso tra i bellicosi, e generoso in oro, argento e ornamenti con i suoi soldati. Essendosi diffusa in tal modo la sua fama per tutte le nazioni («nationes»)62, i Troiani cominciarono ad accalcarsi intorno a lui, pregandolo di diventare il loro capo. Volevano essere liberati dalla schiavitù dei Greci e ritenevano di poterlo ottenere facilmente, perché il loro numero nel paese era cresciuto fino a contare settemila persone, escluse le donne e i bambini. Rispetto alla parte precedente del racconto, questa sembra essere ispirata, con le debite differenze, alla vicenda biblica della schiavitù del popolo di Israele in Egitto, alla figura di Mosè e all’Esodo. Ma vedremo più da vicino le tracce e il significato di questo modello storico-letterario o archetipo culturale nel capitolo dedicato espressamente ad esso (vedi Indice). Geoffrey prosegue il racconto narrando che in Grecia vi era un nobile giovane di nome Assaracus, il quale si era messo dalla parte dei Troiani, essendo lui stesso nato da madre troiana. Sperava con il loro aiuto di liberarsi dalle persecuzioni («inquietudini») 63 causategli dai Greci. Il suo fratellastro gli contestava i tre castelli che il loro padre morente gli aveva donato, sostenendo che era nato da una concubina. Essendo il fratello greco di padre e di madre, era riuscito a convincere Ivi. Ivi. 63 Ivi. 61 62

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il re e gli altri Greci a schierarsi dalla sua parte. Brutus, considerando il gran numero di uomini che aveva intorno a sé e i tre castelli che Assaracus gli aveva offerto come rifugio, decise di dare seguito alle richieste dei Troiani. Una volta eretto nella posizione di capo («ducem»)64, convocò i suoi alleati da tutte le parti e fece fortificare i castelli. Poi chiese agli uomini e alle donne che lo sostenevano di occupare le radure dei boschi e le colline del regno. A quel punto inviò una lettera al re nella quale rivendicava le nobili ascendenze del popolo da lui guidato e sosteneva che esso preferiva vivere come le bestie nelle foreste, mantenendo la propria dignità, piuttosto che sottomettersi ulteriormente alla schiavitù dei Greci. Quindi gli chiedeva di concedergli il permesso di abitare nelle foreste, o altrimenti di lasciarlo partire per altre terre e nazioni. Pandrasus fu enormemente sorpreso dal contenuto della lettera e decise di attaccare i Troiani. Ma Brutus fu più veloce e riuscì a colpire i Greci all’improvviso, uccidendone molti e spingendone altri alla fuga oltre il fiume Akalon. Questa è l’unica coordinata geografica che Geoffrey ci fornisce di questa lunga tappa del viaggio di Brutus: da essa possiamo tentare di individuare il luogo dal quale egli partì insieme ai Troiani di Èleno alla ricerca della nuova patria. Così come è riportato, il nome ‘Akalon’ è sconosciuto in Grecia, ma potrebbe per assonanza essere associato a due diversi fiumi dell’Epiro che sfociano nella baia di Azio – l’Acharon e l’Achelous – oppure, nel senso di una geografia simbolica, alla valle della Terra Promessa – Ajalon – dove Giosuè (10, 12; 19, 42) si vendicò dei nemici amorrei con l’aiuto divino65. Su questo stesso fiume Brutus attaccò nuovamente i Greci provocandone un enorme massacro dentro e fuori dall’acqua. Antigonus, il fratello del re Pandrasus, fu fatto prigioniero insieme al suo compagno Anacletus. Il giorno seguente i Greci ripresero la battaglia assediando il castello di Sparatinum66, nel quale si trovavano molti Troiani. Questi ultimi inIvi, § 8. Tatlock, p. 112. 66 Nome ripreso probabilmente dalla città di ‘Sparta’, che geograficamente è assai più a sud dell’Epiro, ma che qui è forse impiegato in senso simbolico. V. anche Tatlock, p. 112. 64 65

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viarono un messaggero per chiedere aiuto a Brutus, il quale dopo la battaglia si era rifugiato insieme ai suoi guerrieri e ai prigionieri presso la gente troiana in un recesso segreto della foresta. Preoccupato di non avere forze sufficienti per affrontare la battaglia sul campo, il futuro fondatore della Britannia decise – simile ad Odisseo – di ricorrere ad un piano astuto, «callido deinde usus consilio proponit»67: avrebbe avvicinato l’accampamento nemico di notte, tratto in inganno le guardie ed attaccato i Greci nel sonno. In questa, che appare come un’inversione dello stratagemma del cavallo, possiamo intravedere il progetto di una vendetta troiana contro i Greci per aver distrutto la loro antica patria con l’inganno. Per dare seguito al suo piano Brutus si avvalse della collaborazione di un Greco, il prigioniero Anacletus, minacciando di morte lui e il suo compagno Antigonus. Gli chiese di far allontanare con un pretesto le guardie greche dalle loro postazioni e di condurle in un luogo prestabilito dove i Troiani avrebbero atteso per ucciderle in un’imboscata. Anacletus acconsentì a condizione che lui e Antigonus fossero stati lasciati in vita. L’accordo fu concluso e il giovane guerriero si avviò in piena notte a compiere la sua missione. Quando le guardie greche lo videro, si radunarono subito intorno a lui e gli chiesero se era venuto a tradire il loro esercito. Egli fu bravo a recitare e a convincerli a seguirlo, quando furono massacrati da Brutus e dai suoi uomini. I Troiani cominciarono allora ad appostarsi in segreto nel campo greco aspettando un segnale di Brutus. Il loro capo, una volta avvicinata la tenda del re, suonò il suo corno («littuum suum [...] sonaret»)68, ed essi attaccarono il nemico senza pietà («nullam pietatem»)69. Geoffrey paragona la reazione dei Greci sorpresi nel sonno a quella di agnelli attaccati improvvisamente dai lupi. Nella morte improvvisa e violenta, senza possibilità di pentimento per i peccati commessi in vita, l’anima, come vuole la concezione cristiana del trapasso, si perde insieme al corpo: «Qui semivivus evadebat aviditate fuge fe-

Historia Regum Britanniae, § 11. Ivi, § 13. 69 Ivi. 67 68

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stinans scopulis vel fructicibus allidebatur et infelicem animam cum sanguine emittebat» («Alcuni, che erano scampati più morti che vivi, nella smania di fuggire cercavano la salvezza nella corsa e urtavano nelle rocce, negli alberi e negli arbusti dove, insieme al sangue, perdevano l’anima straziata».)70 Brutus nel frattempo aveva fatto prigioniero il re Pandrasus e lo aveva legato e nascosto in un luogo sicuro: mantenendolo in vita avrebbe più facilmente ottenuto ciò che voleva. L’assalto continuò per l’intera notte e i Troiani uccisero tutti i Greci che riuscirono a prendere. La luce dell’alba svelò il gran numero di uomini che erano stati disfatti, e Brutus se ne rallegrò assai («Brutus matutino gaudio fluctuans»)71. Allora concesse ai suoi di depredare quelle spoglie e successivamente, dopo aver raggiunto il castello, si spartì con loro il tesoro reale sotto gli occhi di Pandrasus. Fece presidiare nuovamente il castello e diede ordine di seppellire i morti. Poi riunì le sue truppe e tornò giubilante nelle profondità della foresta. Una volta giuntovi, radunò gli anziani e deliberò insieme a loro su che cosa avrebbero dovuto chiedere a Pandrasus. C’erano diverse aspirazioni tra i saggi della comunità: alcuni volevano chiedere la concessione di una parte del regno per potervi abitare, altri avevano in mente di partire lontano con il consenso del re e tutto il necessario per il viaggio. Dopo lungo vacillare, uno di loro di nome Mempritius si alzò in piedi, domandò silenzio e pronunciò un lungo discorso in cui sostenne che l’unica soluzione che avrebbe garantito a loro e ai loro eredi futura prosperità ed una pace duratura («eternam pacem»)72 era quella di chiedere al re il permesso di partire («licentia [...] eundi»)73. Se fossero rimasti in Grecia accanto ai Danai e ai loro discendenti, questi non avrebbero mai dimenticato il massacro inflitto alla loro gente e li avrebbero odiati per sempre. In qualunque disputa i Troiani si sarebbero oltretutto sempre trovati in minoranza numerica rispetto a loro. Per questi Ivi. (Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia, a cura di G. Agrati, Parma 1989 (20052), p. 52). 71 Ivi, § 14. 72 Ivi. 73 Ivi. 70

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motivi reputava che la cosa migliore fosse chiedere a Pandrasus di dare la sua figlia primogenita Innogen in sposa a Brutus, e insieme a lei oro, argento, navi, grano e tutto ciò che poteva servire al loro viaggio verso altre terre. Terminato questo discorso, l’intera assemblea aderì alla sua proposta. Decretarono allora di condurre Pandrasus in mezzo a loro e di condannarlo alla più crudele delle morti se non avesse accolto le loro richieste. Subito fu convocato e posto su una sedia più alta delle altre («cathedra»)74. Rispose alle loro richieste riconoscendo che la sua sconfitta era da attribuire all’ostilità degli dei («adversi dii»)75 nei suoi confronti e – simile ad Achille nell’Ade –76 che non vi fosse nulla di più valido e amabile della vita («nichil enim vita prestantius, nichil iocundius censeo»)77, per cui era ben diposto a conservarla in cambio dei suoi altri beni. Avrebbe dunque obbedito ai loro precetti, sebbene contro la sua intima volontà. Aggiunse poi di provare sollievo all’idea di concedere sua figlia ad un giovane di tale «probitas» – qualità attribuita a tutte le figure eccellenti della Historia –78 la cui fiorente nobiltà e la grande fama apparivano come il chiaro segno di appartenenza all’autentica stirpe di Priamo e di Anchise. Chi altri se non lui avrebbe potuto liberare dalle catene i Troiani esiliati e imprigionati da tanti potenti principi? («Quis etenim alter exules Troie in servitutem tot et tantorum principium positos eorumdem vinculis eriperet?»)79. Chi altri avrebbe potuto con così pochi uomini sfidare in battaglia il re dei Greci? Ad un giovane di tale coraggio egli poteva anche concedere sua figlia Innogen e l’oro e l’argento e le navi e il grano e tutto ciò che gli era stato richiesto. Alla fine del suo discorso egli porpose però un’alternativa ai Troiani, e cioè di prendere un terzo del suo regno nel caso Ivi, § 15. Ivi. 76 Cfr. Omero, Iliade, IX 401 ss.; Odissea, XI 488-491; G. Paduano, La nascita dell’eroe, Milano 2008, p. 25. 77 Historia Regum Britanniae, § 15. 78 Vedi M.A Faletra (ed.), Geoffrey of Monmouth. The History of the Kings of Britain, Toronto 2008, p. 26 n.2. 79 Historia Regum Britanniae, § 15. 74 75

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che avessero cambiato idea e deciso di restare in Grecia, proposta che chiaramente non fu accolta. Concluso l’accordo, Pandrasus fece radunare trecentoventiquattro navi da tutte le coste della Grecia e ordinò che fossero caricate di ogni tipo di grano. Sua figlia e Brutus vennero uniti in matrimonio e, come richiedeva il loro rango principesco, tutti ricevettero in dono oro e argento. Poi il re fu liberato e i Troiani salparono le navi con un vento favorevole. Dopo la partenza Innogen restò a lungo in alto a poppa sulla sua nave e più volte in rapimento estatico cadde svenuta tra le braccia di Brutus. Piangeva e singhiozzava, perché era stata costretta ad abbandonare i suoi cari e la sua patria. Non distolse gli occhi dalla costa fino a che non divenne invisibile. Brutus allora tentò di confortarla avvolgendola tra le sue braccia con dolci baci e carezze. Egli non cessò i suoi sforzi finché lei, sfinita dal pianto, si addormentò. Possiamo sin d’ora indovinare il matrimonio d’amore che sarà quello tra Brutus e Innogen, entrambi sradicati dalla propria terra e dai propri affetti e fatalmente indirizzati alla fondazione di una nuova patria. La loro progenie – i monarchi britannici – nascerà da questa condizione limite da un punto di vista esistenziale, dove l’impresa non concede ritorno – nostos –80 ma richiede il continuo coraggio di proseguire il viaggio: «Not fare well,/ but fare forward, voyagers» («Non buon viaggio/ ma avanti, viaggiatori».)81, direbbe forse anche a questo proposito il T. S. Eliot dei Quattro quartetti. Il sentimento di appartenenza ad una qualsivoglia radice si trasforma necessariamente in una proiezione in avanti che diventa seconda natura di chi la vive e «chiude il cerchio delle nostalgie per affermare [...] l’accettazione del futuro»82. Anche l’identità etnica non potrà essere rifugio univoco di senso, visto che sarà il frutto di un connubio in cui si uniranno Troia, Roma e la Grecia. In questa prospettiva Geoffrey si avvicina molto agli ideali cosmopoliti di Virgilio e della cultura ellenistica in genere, Cfr. Paduano, pp. 165-178. T. S. Eliot, Four Quartets, “The Dry Salvages”, vv. 168-9 (T. S. Eliot, La terra desolata. Quattro quartetti, a cura di A. Tonelli, Milano 1995 (20067), p. 139). 82 Paduano, p. 174. 80 81

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in cui la cosa cercata non è la negazione della tradizione, bensì la sua apertura. Quel desiderio di novità che Gildas denunciava come difetto della sua gente – «patriae novi semper aliquid audire volenti et nihil certe stabiliter optinenti infigebant» («[una] patria, che voleva sempre sentire cose nuove e che non conservava di certo niente in modo stabile») – 83 Geoffrey lo trasforma nel suo destino e nella sua qualità vincente: come il più autentico dei cristiani, l’homo britannicus è un uomo nuovo84. Vediamo ora in che modo si sviluppa ulteriormente la narrazione. I Troiani guidati da Brutus navigarono per due giorni e una notte con un vento propizio, finché non giunsero presso un’isola chiamata Leogetia. Questa era rimasta disabitata da quando venne attaccata dai pirati in tempi antichi. Si tratta di un’isola dal nome immaginario e il testo di Geoffrey non fornisce alcuna coordinata geografica, se non quella secondo cui si troverebbe a due giorni e una notte di navigazione in buone condizioni di vento dal luogo da cui erano partiti. Se accettiamo per valida l’ipotesi secondo cui i futuri Britanni partirono dall’Epiro meridionale, possiamo identificare l’isola immaginaria di Leogetia con quella reale di Lèucade (gr. Lefkada, menzionata anche nell’Eneide)85, che si trova nel Mar Ionio e sulla quale si erigeva un tempio dedicato ad Apollo. L’episodio che vi si svolge nella Historia è una chiara riscrittura di alcuni momenti profetici dell’Eneide come la predizione del fantasma di Creusa (II, 771-791), l’interrogazione di Febo Apollo sull’isola di Ortigia (III, 73-89)86, l’apparizione notturna delle statue parlanti dei Penati di Frigia (III, 147-188), la profezia di Gildas, 12, 3. Cfr. San Paolo, Lettera ai Colossesi, 3, 9-11: «Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.», in La Bibbia di Gerusalemme, a cura di F. Vattioni, Bologna 1974 (200017). 85 Virgilio, Eneide, III, 274-75 ; VIII, 677, a cura di E. Paratore, trad. di L. Canali, 6 vol., Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1978-1983; v. anche Stazio, La Tebaide, VIII, a cura di G. Arico, Torino 1979. 86 Cfr. anche Tatlock, pp. 112-113; E. Faral, La Légende Arthurienne, Etudes et Documents, 3 vol., Paris 1929, II, pp. 77-81. 83 84

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Èleno (III, 369-462) e quella di Anchise nel VI libro, la quale ultima sarà trattata più approfonditamente nel capitolo IV.2 (v. Indice). Brutus fece scendere a terra trecento uomini affinché esplorassero l’isola e scoprissero chi vi abitasse. Non trovarono nessuno, ma uccisero diversi tipi di bestie selvatiche che si trovavano sui pascoli e nei terreni boscosi. Ad un certo punto giunsero in una città deserta («civitatem desertam»)87 e lì scoprirono un tempio dedicato a Diana contenente una statua della dea che rispondeva se interrogata. Alla fine del giro gli esploratori tornarono alle loro navi carichi di cacciagione e descrissero ai loro compagni l’interno dell’isola e la città che avevano visto. Poi suggerirono al loro capo di recarsi al tempio e di offrire sacrifici alla dea locale con la richiesta di indicare loro una patria dove insediarsi. Con il consenso di tutto il popolo Brutus decise di avviarsi verso il tempio di Diana, accompagnato dall’auguro Gerio, da dodici anziani e con tutto ciò che poteva servire per offrire un sacrificio. Questi accompagnatori di Brutus evocano figure mitologiche, come il gigante a tre teste, o bibliche, come i ventiquattro anziani dell’Apocalisse di Giovanni (4, 4.10; 5, 8-14; 11, 16.17; 19, 4), che bene si adattano all’atmosfera del soprannaturale e al ruolo sacerdotale nella rivelazione che sta per aver luogo. Quando i celebranti raggiunsero il tempio, fasciarono le loro fronti con delle bende secondo l’antichissimo rito («veterrimo ritu»)88, accesero tre fuochi per Giove, Mercurio e Diana, e a ciascuno offrirono delle libagioni. Brutus, stando eretto davanti all’altare della dea, con un vaso colmo di vino sacrificale misto al sangue di un cervo bianco nella mano destra, e il viso rivolto in alto verso la statua, ruppe il silenzio con le seguenti parole: Diva potens nemorum, terror silvestribus apris, Cui licet amfractus ire per ethereos Infernasque domos, terrestria iure resolve; Et dic quas terras nos habitare velis. 87 88

Historia Regum Britanniae, § 16. Ivi.

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Dic certam sedem, qua te venerabor in evum, Qua tibi virgineis templa dicabo choris. (Potente dea delle foreste, terrore dei cinghiali selvaggi, tu che hai il potere di trascorrere tra le orbite dei cieli e per le aule degli inferi, risolvi un caso di noi terrestri e dicci: quale paese vuoi che abitiamo? Indicaci una sede sicura, e là sarai venerata in eterno: là, tra canti di vergini, ti saranno dedicati dei templi.)89

Questo lo disse nove volte, procedette quattro volte intorno all’altare versando il vino che teneva sul focolare sacrificale, quindi si prostrò sulla pelle di cervo che era distesa davanti all’altare. Invitato dal sonno finalmente si addormentò. Era quasi la terza ora della notte, quando i mortali sono vinti dal più dolce sopore, allorché ebbe l’apparizione della dea, che ergendosi di fronte a lui gli rivolgeva queste parole: Brute, sub occasu solis trans Gallica regna Insula in occeano est undique clausa mari. Insula in occeano est, habitata gigantibus olim, Nunc deserta quidem, gentibus apta tuis. Hanc pete: namque tibi sedes erit illa perennis; Hic fiet natis altera Troia tuis. Hic de prole tua reges nascentur, et ipsis Totius terre subditus orbis erit. (Bruto, oltre il tramonto del sole, oltre i regni di Gallia, nell’Oceano c’è un’isola tutta cinta dal mare: quell’isola dell’Oceano, un tempo abitata dai giganti, ora è deserta, e adatta alla tua gente. Dirigiti verso di essa, che sarà la tua sede perenne, la nuova Troia della tua progenie. Là nasceranno i sovrani discesi dal tuo lignaggio, a loro tutta la terra sarà assoggettata.)90 89 90

Ivi. (trad. it., p. 56). Ivi. (trad. it., p. 57).

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Il ruolo profetico di Diana, oltre ai personaggi virgiliani ricordati poco fa, evoca quello di Circe (X, 488-540) e quello di Tiresia nell’Odissea (XI, 90-137)91, che Geoffrey probabilmente non conosceva se non in maniera indiretta, ma anche le parole che Dio rivolge ad Abramo in Genesi 12, 1-3. La predizione della futura fondazione di una nuova patria che sarà per i figli di Brutus una «sede perenne» e perfino una «nuova Troia», dove essi saranno re e domineranno su «tutta la terra» rappresenta certamente il culmine profetico di questo mito di fondazione, quello che nel primo capitolo chiamavamo principio di speranza, e che in queste parole della dea non riguarda più soltanto l’identità dei Britanni intesa come origine, ma catalizza una proiezione immaginativa rivolta al futuro inteso come missione e motore del presente. Il viaggio affrontato da Brutus e dalla sua gente si anima di una mèta che è anche orizzonte della nazione. Che in questo, come in molti altri orizzonti immaginativi nazionali eredi della cultura romana vi sia un’ambizione imperiale, è certamente legato alla giustificazione data a quell’ambizione dalla tradizione filosofica stoica (ripresa poi nell’ideale cristiano del “regno universale”)92, ma anche questo lo vedremo meglio in IV.2 (v. Indice). Destatosi dalla visione, Brutus rimase nel dubbio se ciò che aveva visto era stato un sogno oppure se la dea gli aveva predetto con viva voce la patria verso la quale doveva dirigersi. Come in tutte le profezie, aggiunge Geoffrey, il confine tra sogno e realtà rimane qualcosa di inafferrabile. Il principe riunì allora i suoi accompagnatori e raccontò loro in maniera dettagliata cosa gli fosse accaduto durante il sonno. Questi ne gioirono assai e consigliarono di tornare alle navi e partire per l’Oceano a vele spiegate, finché il vento era favorevole, in cerca di ciò che la dea aveva promesso («spoponderat»)93. Solcando il mare in una traversata che durò trenta giorni, i futuri Britanni arrivarono davanti alle coste dell’Africa, senza tuttavia sapere ancora dove dirigere le loro navi. Geoffrey delinea ora le varie tappe Cfr. E. Di Rocco, Io Tiresia. Metamorfosi di un profeta, Roma 2007. Schirmer, p. 30. 93 Historia Regum Britanniae, § 17. 91 92

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del viaggio verso la nuova patria. Per prima cosa arrivarono presso le Are dei Filistei («Aras Philistonorum») (riferimento che compare già in Nennius) e il Lago delle Saline («Lacum Salinarum»)94. Va notato che ci troviamo in un’epoca precedente le grandi circumnavigazioni del continente africano da parte degli Europei, e che per Africa si intendeva allora solamente l’antica provincia romana corrispondente al territorio circostante prima Cartagine e poi a buona parte dell’Africa settentrionale. Sulle «Are dei Filistei» non esistono tuttavia riferimenti archeologici né geografici. Dal nome si potrebbe supporre che fossero situate nella zona dell’antica pentapoli filistea, corrispondente grossomodo all’odierna “Striscia di Gaza” in Palestina, che, all’epoca riportata nella narrazione (XI secolo a.C.), conosceva l’apice della sua potenza, prima della biblica sconfitta di Golia per mano di David; in alternativa potevano essere situate sull’isola di Creta, in quanto presunta terra d’origine di quel popolo del mare. Ma se manteniamo il dato che i Troiani guidati da Brutus arrivarono in Africa dal Mar Ionio e che erano diretti verso occidente, la soluzione più probabile sta nel considerare il nome delle Are come volutamente riferito ai Filistei e a Canaan, la Terra Promessa da Dio agli Israeliti, al fine di creare un parallelismo con quella vicenda. D’altra parte il nome potrebbe riferirsi anche alle Are dei Fileni («Philaenorum arae») menzionate da Sallustio nel De bello Iugurthino (79), le quali consistevano in costruzioni o mucchi di pietre segnanti il confine tra il territorio cartaginese e quello greco cirenaico dopo la seconda guerra punica, confine difeso peraltro, secondo la leggenda, attraverso il sacrificio della sepoltura in vita di due fratelli cartaginesi. Per quanto riguarda la menzione del Lago delle Saline, essa trova riscontro in entrambe le ipotesi interpretative, poiché vi sono numerose lagune saline sulla costa mediterranea dell’Africa, sia sulle rive del Sinai ad ovest di Gaza, che nel Golfo di Sidra e oltre, ad ovest delle Are dei Fileni in fondo alla Grande Sirte. Di lì continuarono a navigare tra Russicada, oggi Skikda in Algeria, ma anticamente il nome dato al porto della capitale del regno di 94

Ivi.

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Numidia, Cirta, quando divenne provincia romana, e i monti dello Zarec (nome derivato dal latino classico ‘montes Azariea’, dalla tribù degli Aisaronesioi menzionata da Tolomeo), con i quali si intendono con ogni probabilità i rilievi montuosi della Sardegna sud-occidentale, oggi meglio noti come monti dell’Iglesiente. In quel punto furono attaccati dai pirati, ma riuscirono a resistere e perfino a prendere il loro bottino. Passarono il fiume Malve (Mulùia), che in età imperiale segnava il confine politico tra la Mauretania Caesariensis e la Mauretania Tingitana, ed approdarono in quella che corrisponde alla parte nordorientale dell’odierno Marocco. Attanagliati dalla fame e dalla sete, furono costretti a scendere a terra; lì si divisero in torme e devastarono il paese da cima a fondo. Con le navi ricolme di provviste si diressero poi verso le colonne d’Ercole, dove apparvero loro quei mostri marini chiamati Sirene, che circondandoli quasi li fecero affondare. Le colonne d’Ercole sono individuate, a partire dall’età ellenistica, e in particolare da Eratostene in poi, nelle due rupi di Calpe e di Abila formanti lo stretto di Gibilterra95. Le Sirene, la cui sede abituale è tradizionalmente posta sulla costa meridionale della penisola sorrentina, presso le isolette dette ‘Sirenusae’ o ‘Li Galli’, e in seguito localizzata sulle coste vicine allo Stretto di Messina, vengono in questo caso spostate sullo stretto di Gibilterra. Secondo il mito antico le uniche navi ad esser loro sfuggite furono quella di Odisseo al ritorno della guerra di Troia e quella degli Argonauti, i quali rappresentano entrambi le figure archetipiche dei navigatori arditi e avventurosi. Così anche gli eroi britannici riuscirono a sfuggire alle Sirene e a raggiungere, così dice il testo, il mar Tirreno («Tyrrenum equor»)96. L’avvicinamento alle Colonne d’Ercole riprende il mito omerico della navigazione che fece Odisseo prima di tornare a Itaca. Qui la meta è invece l’isola che si trova «trans Gallica regna» («oltre i regni di Gallia»)97. In epoca classica e arcaica esse sembrano essere individuate nel Canale di Sicilia. Cfr. S. Frau, Le Colonne d’Ercole. Un’inchiesta: come, quando e perché la frontiera di Herakles/Milqart, dio dell’Occidente, slittò per sempre a Gibilterra, Roma 2002. 96 Historia Regum Britanniae, § 17. 97 Ivi, § 16. 95

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Il viaggio di Brutus secondo Geoffrey of Monmouth (con qualche incertezza)

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La fuga dal pericolo delle Sirene riportò le navi di Brutus verso il Tirreno, presso i cui lidi italici incontrarono quattro generazioni di esuli troiani che un tempo avevano seguito Antenore, il leggendario fondatore di Padova, nella sua fuga da Troia. Possiamo supporre di trovarci nella parte settentrionale del Tirreno ad una latitudine non distante da quella veneta, dunque sulle coste toscane o liguri. Il capo di questi esuli si chiamava Corineus ed era un uomo misurato, squisitamente intelligente e di grande virtù e audacia. Non appena i viaggatori conobbero le sue antiche origini, strinsero subito un’alleanza con lui e con il suo popolo e decisero di invitarli ad unirsi a loro. Insieme giunsero in Aquitania, che sotto l’Impero Romano e fino al Medioevo comprendeva tutta la parte meridionale della Francia; da lì arrivarono alla foce della Loira e fissarono l’ancora. Ora, il passaggio diretto di una grossa flotta di navi dalle coste mediterranee della Francia alla foce della Loira sull’Atlantico non potrebbe che avvenire per via fluviale. Ma sebbene l’idea di un canale artificiale che unisse i due mari sia esistita sin dai tempi di Augusto, la sua effettiva realizzazione risale al XVII secolo (“Canal des Deux Mers”). Geoffrey of Monmouth mostra qui qualche lacuna nelle sue conoscenze geografiche, cosa peraltro non infrequente per la sua epoca. Il risultato è che le trecentoventiquattro navi di Brutus riuscirono in qualche modo a “saltare” la Francia e gettare l’ancora presso la foce della Loira. Rimasero lì per sette giorni e i Troiani scesero a terra per esplorare il territorio. A quel tempo in Aquitania regnava Goffarus Pictus. Quando venne a sapere che un popolo straniero con un’enorme flotta era giunto entro i confini del suo regno, inviò loro dei messaggeri per chiedere se portavano pace o guerra. Mentre i messaggeri si dirigevano verso la flotta, incontrarono Corineus che era appena sbarcato con duecento uomini per andare a caccia di selvaggina nei boschi. I messaggeri lo avvicinarono immediatamente e gli chiesero con quale permesso egli entrasse nelle foreste del re per uccidere i suoi animali, visto che sin da tempi antichi era stato decretato che nessuno poteva esercitarvi la caccia senza un ordine del sovrano. Corineus rispose che non c’era alcun bisogno di un permesso, allorché uno di loro, chiamato Himbertus, si fece avanti, tese il suo arco e gli scagliò contro una freccia. Corienus schivò la freccia, puntò a sua volta contro Him64

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bertus e poi gli fracassò la testa con il suo stesso arco. Allora gli altri scapparono, riuscendo con qualche difficoltà a sfuggire alle mani di Corineus, ed andarono a riferire a Goffarus dell’uccisione del loro compagno. Il capo dei Pittoni fu rattristato dalla notizia e radunò un grande esercito per vendicare la morte del suo messaggero. Quando Brutus ne fu informato, preparò le sue navi alla difesa ed ordinò alle donne e ai bambini di rimanere a bordo sotto coperta. Poi si diresse ad incontrare il nemico insieme all’intera schiera vigorosa dei suoi giovani guerrieri. La battaglia incomiciò e la lotta fu feroce da entrambe le parti. Passarono gran parte della giornata a massacrarsi vicendevolmente. Corineus si vergognava del fatto che gli Aquitani fossero tanto audaci nel resistere e che i Troiani non fossero capaci di imporre la propria vittoria. Prese allora nuovo coraggio, chiamò i suoi uomini sulla parte destra del campo di battaglia, li dispose in formazione da combattimento e puntò dritto al nemico. Con le truppe in ordine serrato ruppe frontalmente le file del nemico e continuò a uccidere finché non riuscì a scardinare le sue schiere e a costringerlo alla fuga. Perse la sua spada, ma trovò una scure, con la quale si mise a squartare da cima a fondo chiunque gli capitasse sotto tiro. Brutus rimase molto colpito dalla sua audacia e dalla sua forza e così fu anche per i suoi compagni e per il nemico. Corineus agitava la sua scure fra i battaglioni in fuga e fece aumentare di non poco il loro terrore gridando: Quo fugitis timidi? Quo fugitis segnes? Revertimini, o revertimini et congressum cum Corineo facite. Proh pudor! Tot milia me solum diffugitis? Attamen habetote solatium fuge vestre quod ego vos insequar, qui totiens soleo Tyrrenos gigantes in fugam propellere, qui ternos atque quaternos ad Tartara detrudere. («Dove scappate, vigliacchi?» urlava. «Dove correte, smidollati? Tornate indietro, tornate a battervi con Corineo! Vergogna, siete in migliaia e fuggite davanti a me che sono solo! Fuggite pure, ma consolatevi perché colui che vi incalza è uno che in più occasioni ha fatto scappare i giganti tirreni, spedendoli agli inferi a tre o quattro alla volta.») 98

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Ivi, § 18 (trad. it., p. 59).

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A queste parole un condottiero di nome Suhardus si voltò in dietro e lo attaccò insieme a trecento guerrieri. Corineus si ricordò della scure che teneva in mano, la sollevò in aria e lo colpì dapprima in cima all’elmo, squartandolo poi completamente a metà. In seguito si scagliò contro gli altri agitando la scure e continuando il suo sterminio. Correva su e giù senza evitare i colpi nemici e senza ridurre la strage. A uno amputò un braccio e una mano, a un altro staccò le spalle dal corpo. A uno troncò la testa con un unico colpo, a un altro staccò entrambe le gambe. Tutti attaccavano soltanto lui e lui da solo si difendeva contro tutti. Di fronte a questo spettacolo Brutus non riuscì a trattenere il suo amore per quell’uomo e gli corse in aiuto con una schiera dei suoi. Un gran frastuono di grida si alzò tra le due genti: molti colpi furono inferti e entrambe le parti subirono un massacro durissimo. Ma la vittoria dei Troiani non si fece attendere e presto spinsero Goffarius e i Pittoni alla fuga. Il re aquitano riuscì a salvarsi con difficoltà e partì poi per certe parti della Gallia in cerca di aiuto presso i suoi parenti ed amici. A quel tempo in Gallia regnavano dodici re con pari dignità su tutto il paese. Questi accolsero Goffarius con benevolenza e gli promisero di unirsi a lui per espellere i popoli stranieri dai confini dell’Aquitania. Brutus intanto, felice per la vittoria, concesse ai suoi compagni di fare bottino sulle spoglie dei morti. Poi riordinò le file e si avviò con loro a marciare attraverso il paese con lo scopo di saccheggiare il suo interno e caricare tutti i suoi beni sulle navi. Appiccò il fuoco in tutte le città dopo averne estratto ogni ricchezza e fatto strage dei loro abitanti, devastò i campi e massacrò i contadini con l’intento di cancellare quella gente infelice fino all’ultimo elemento. Dopo aver devastato quasi tutta l’Aquitania, venne al futuro sito della città di Tours che, come secondo Geoffrey è testimoniato anche da Omero («ut Homerus testaur»)99, lui stesso avrebbe fondato. Vi installò un accampamento per il caso in cui avesse avuto necessità di mettersi al sicuro in una zona protetta. Temeva di essere incalzato da Goffarius, che si stava avvicinando con i re e i principi della Gallia, nonché con un 99

Ivi, § 19.

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grandissimo esercito pronto a combattere. Quando l’accampamento fu pronto, Brutus passò due giorni in attesa di Goffarius, confidando nella propria esperienza e nel coraggio dei giovani che si trovavano sotto il suo comando. Venuto a sapere della presenza dei Troiani nella regione, Goffarius marciò giorno e notte finché non fu tanto vicino da poter avvistare il loro accampamento. Lo fissò con sguardo sprezzante e poi, dopo un breve sorriso, pronunciò le seguenti parole: Proh fatum triste! Castra etenim sua in meo regno fecerunt ignobiles exules. Armate vos, viri, armate et per densatas turmas incedite. Nulla mora erit quin semimares istos velut oves capiemus atque captos per regna vestra mancipabimus. («Che triste destino! Quegli ignobili esuli hanno anche piantato un accampamento nel mio regno! Armatevi, uomini, armatevi e avanzate a schiere serrate! Non dobbiamo esitare a catturare quegli imbecilli come pecore e a renderli schiavi per le nostre terre!»)100

Tutti i suoi uomini si armarono e disposti in dodici colonne cominciarono a marciare contro il nemico. Anche Brutus fece avanzare valorosamente le sue truppe, dopo averle sapientemente istruite sulla tattica di combattimento. Gli eserciti arrivarono allo scontro e inizialmente prevalsero i Troiani infliggendo gravi perdite ai loro nemici. Quasi in duemila caddero, mentre i superstiti terrorizzati tentavano di darsi alla fuga. La vittoria tuttavia arride di solito all’esercito più numeroso. I Galli erano trenta volte più numerosi dei Troiani e, benché all’inizio fossero stati respinti, li attaccarono finalmente da ogni lato infierendo su di loro fino a costringerli a ritirarsi nel loro accampamento. Poi decisero di assediarli finché non avrebbero accettato di essere incatenati, oppure, afflitti da una lunga fame, sarebbero andati incontro ad una morte miserbile. Quella notte Corineus presentò a Brutus un piano: uscito dal campo per una via secondaria, si sarebbe nascosto in un bosco fino all’alba. Allo spuntar del giorno Brutus sa100

Ivi, § 20 (trad. it., p. 61) .

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rebbe dovuto uscire ad affrontare il nemico, mentre lui e la sua coorte lo avrebbero attaccato da dietro fino a distruggerlo. A Brutus piacque la proposta di Corineus, il quale uscì allora furtivamente dal campo insieme a tremila uomini per andare a cercare un nascondiglio nei boschi. All’alba Brutus radunò le sue schiere, aprì i varchi dell’accampamento e uscì fuori a combattere. I Galli si destarono immediatamente e si prepararono ad attaccare. Migliaia di uomini caddero da entrambe le parti sotto i colpi che non si risparmiavano. Fra i Troiani vi era il nipote di Brutus di nome Turnus, il più forte e coraggioso di tutti dopo Corineus. Armato soltanto della sua spada uccise seicento uomini, ma fu ucciso a sua volta prima del tempo da un attacco improvviso dei Galli. La città di Tours («Turonis»), nata sul luogo dove fu sepolto, prese il suo nome da lui. Qui Geoffrey modifica la fonte di Nennius, che attribuiva la fondazione di Tours alla volontà di Brutus di espiare l’uccisione di Turno da parte di suo nonno Enea, e la ispira alla morte in battaglia di un nipote di Brutus. Il motivo appare evidente, considerando il gusto per la guerra che leggiamo in queste pagine della Historia. Mentre i due eserciti combattevano in maniera accanita, sopravvenne all’improvviso Corineus e con velocità attaccò il nemico alle spalle. Incoraggiati da ciò gli altri lottarono con forza ancora maggiore tentando di sconfiggere il nemico una volta per tutte. I Galli rimasero spaventati dalle grida degli uomini di Corineo che li attaccavano alle spalle, e credendo il loro numero molto maggiore di quanto in realtà fosse, si apprestarono ad abbandonare il campo di battaglia. I Troiani li inseguirono fino a colpirli nuovamente e non cessarono finché non ebbero assicurato la vittoria. Brutus si rallegrò molto di questo trionfo, ma era nello stesso tempo angosciato dal numero dei suoi uomini che continuava a diminuire, mentre quello dei Galli tendeva a crescere. Alla fine, dubitando che fosse saggio protrarre la lotta, e considerando che la maggior parte dei suoi compagni era ancora illesa e il rispetto per la vittoria era al massimo grado, decise di tornare alle navi e partire verso l’isola che la profezia divina gli aveva promesso come nuova patria. Con l’assenso dei suoi ritornarono alla flotta, la caricarono di tutti i beni che avevano ottenuto e partirono. I venti favorevoli li spinsero verso l’isola promessa, «promissam in68

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J. M. W. Turner, Totnes sul Fiume Dart, 1824

sulam»101, – espressione, quest’ultima, che sembra proprio rievocare il già rilevato motivo biblico della Terra Promessa – dove finalmente sbarcarono a Totnes102. Questo luogo incantevole si trova oggi in una valletta sull’estuario del fiume Dart nel Sud-Ovest dell’Inghilterra, nel Devon, a circa sei miglia a monte della foce di Dartmouth e non molto distante da Plymouth, il porto da cui nel 1620 partì il “Mayflower”. A Totnes Guglielmo il Conquistatore fece costruire un castello, ma il nome del borgo e i resti delle sue antiche mura sembrano risalire al tempo dei Sassoni. È uno dei borghi più antichi d’Inghilterra ed ebbe sempre grande importanza nel commercio con la Bretagna. Sebbene la HiIvi, § 20. Sulla conoscenza geografica della Gran Bretagna e in particolare del SudOvest di Geoffrey of Monmouth v. Tatlock, pp. 58-65, e O. Padel, “Geoffrey of Monmouth and Cornwall”, Cambridge Mediaeval Celtic Studies 8, 1984, pp. 1-27. 101 102

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storia Regum Britanniae non vi faccia accenno, la leggenda vuole che Brutus scendendo a terra pose il primo piede su una pietra di granito che fu conservata e venerata per secoli e che si trova ancora oggi incastonata in un marciapiede della cittadina con il nome di “Brutus Stone” (“Pietra di Brutus”). Una tradizione orale vuole che poggiando il piede sulla pietra Brutus avesse esclamato (in perfetto inglese moderno): «Here I stand, and here I rest. The town shall be called Totnes.» («Qui poggio il piede, e qui mi fermo. La città sarà chiamata Totnes».)103. Una leggenda affine riguarda un’altra pietra poco conosciuta che si trova a Londra, il “London Stone” (“Pietra di Londra”), alla quale è associato il detto: «So long as the stone of Brutus is safe, so long shall London flourish» («Finché la pietra di Brutus sarà al sicuro, Londra prospererà»). Si ritiene fosse parte di un altare costruito da “Brutus the Trojan” per un tempio dedicato alla dea Diana, che si erigeva là dove oggi si trova Saint Paul’s Cathedral, e potrebbe perfino indicare la tomba del principe fondatore. Anche questa pietra è conservata oggi in una cripta illuminata dentro la parete esterna di un edificio in Cannon Street a guardiano della City e come centro mistico di Londra o perfino di tutta la Britannia. Shakespeare la menziona in 2 Henry VI, IV. vi. 1-2: «[...] here sitting upon London Stone[...]» («[...] qui seduto sulla Pietra di Londra [...]»)104. L’ipotesi più accreditata è che si tratti della pietra miliare di partenza di tutte le strade britanniche al tempo dei Romani e che divenne nei secoli un luogo di culto religioso e giuridico. Ma la pietra come simbolo ha una presenza centrale in molti miti di fondazione, non solo posteriori, come vedremo in quello americano con “Plymouth Rock”, ma anche e sopratutto biblici. Al di là del suo significato come fondamento assoluto, nel momento in cui viene paragonata a Dio stesso, «Pietra d’Israele»105, la troviamo nell’attraverT. Brown, Trojans in the West Country, Guernsey 1970. W. Shakespeare, The Complete Works, (Gen. Eds.) S. Wells and G. Taylor, Oxford University Press 1988; W. Shakespeare, Enrico VI, parte seconda, a cura di C. Pagetti, Milano 1999. 105 Genesi, 49, 24; cfr. anche Deuteronomio, 32, 4.15.18.37; Salmi, 18, 3+. 103 104

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Pietra di Brutus, Totnes

sata del Giordano che prelude all’entrata di Israele nella Terra Promessa, quando le acque del fiume si ritirano prodigiosamente sotto ai piedi dei sacerdoti che portano l’arca dell’alleanza lasciando passare all’asciutto tutto il popolo: Quando tutta la gente ebbe finito di attraversare il Giordano, il Signore disse a Giosuè: «Sceglietevi dal popolo dodici uomini, un uomo per ogni tribù, e comandate loro: Prendetevi dodici pietre da qui, in mezzo al Giordano, dal luogo dove stanno immobili i piedi dei sacerdoti; trasportatele con voi e deponetele nel luogo, dove vi accamperete questa notte». Allora Giosuè convocò i dodici uomini, che aveva designati tra gli Israeliti, un uomo per ogni tribù, e disse loro: «Passate davanti all’arca del Signore vostro Dio in mezzo al Giordano e caricatevi sulle spalle ciascuno una pietra, secondo il numero delle tribù degli Israeliti, perché diventino un segno in mezzo a voi. Quando domani i vostri figli vi chiederanno: Che significano per voi queste pietre? risponderete loro: Perché si divisero le acque del Giordano dinanzi all’arca dell’alleanza del Signore; 71

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mentre essa attraversava il Giordano, le acque del Giordano si divisero e queste pietre dovranno essere un memoriale per gli Israeliti, per sempre». Fecero dunque gli Israeliti come aveva comandato Giosuè, presero dodici pietre in mezzo al Giordano, secondo quanto aveva comandato il Signore a Giosuè, in base al numero delle tribù degli Israeliti, le trasportarono con sé verso l’accampamento e le deposero in quel luogo. Giosuè fece collocare altre dodici pietre in mezzo al Giordano, nel luogo dove poggiavano i piedi dei sacerdoti che portavano l’arca dell’alleanza: esse si trovano là fino ad oggi106.

Nel Vangelo secondo Matteo (16, 13-20) la pietra simboleggia la fondazione della stessa Chiesa per volontà del Cristo: Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Voi chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Il racconto di Geoffrey prosegue narrando che al tempo in cui i Troiani di Brutus sbarcarono sull’isola promessa, il suo nome era ‘Albion’, ed era disabitata, tranne che per alcuni giganti, peraltro già menzionati nella profezia di Diana. Il motivo del gigante come creatura dei tempi primordiali è diffuso nella mitologia classica, come nelle figure dei Titani e di certi eroi, così come nella tradizione biblica, dove si narra che nel periodo precedente e in quello successivo al diluvio universale la terra fu abitata da una razza fortissima e insolente di giganti (ebr. ‘Nefilîm’):

106

Giosuè, 4, 1-9; cfr. anche 4, 21-24.

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C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi107.

Quest’idea non è mai stata estranea alla cultura della maggiore isola europea, e fu probabilmente anche determinata dalla presenza fisica sul territorio di alcune imponenti e spesso misteriose rovine come quella di Stonehenge, dei valli di Adriano e di Antonino, della città di Bath e di molte altre strutture che sin dall’Alto Medioevo, come vediamo in un poema anglo-sassone quale The Ruin, erano comunemente ritenute «opere di giganti»108: Wrætlic is þes wealstan, wyrde gebræcon; burgstede burston, brosnað enta geweorc. Hrofas sind gehrorene, hreorge torras, hrungeat berofen, hrim on lime, scearde scurbeorge scorene, gedrorene, ældo undereotone. Eorð grap hafað waldend wyrhtan forweorone, geleorene, heardgripe hrusan, oþ hund cnea werþeoda gewitan. [...] (Mirabile è questo muro di pietra, distrutto dal fato; gli edifici delle città si sgretolano, le opere dei giganti vanno in rovina. I tetti sono sprofondati, le torri crollate, le porte sbarrate sono rotte, la brina canuta si attacca alle pareti, le case sono spalancate, barcollanti e inclinate, insidiate dall’età. L’abbraccio della terra, la sua stretta crudele, tiene i possenti artigiani; sono morti e finiti. Cento generazioni sono passate da allora. [...])109

Genesi, 6, 4. Cfr. P. Boitani, La letteratura del Medioevo inglese, Roma 1991, p. 23. 109 R. Hamer (ed.), A Choice of Anglo-Saxon Verse, London 2006. 107 108

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Ma l’idea dei giganti è forse per Geoffrey anche un modo per evitare uno dei problemi di fondo dei miti fondativi più esemplari della nostra cultura, che è quello del rapporto tra fondatori immigrati e popolazioni autoctone. La distruzione dei giganti da parte dei Britanni non porrà lo stesso tipo di questioni etiche che porrebbe la distruzione o l’assoggettamento di uomini, insomma di esseri simili, che già si trovavano in quella terra e detenevano un primato temporale su di essa in quanto “patria”. Solitamente il fondatore immigrato cerca e trova un primato divino che legittima la sua pretesa di insediamento e spesso di dominio, ma certo è che la soluzione forse ideale per ogni popolo migrante in cerca di una patria, sarebbe quella di trovare una terra fertile e disabitata da altri uomini, oppure quella quasi utopica, di essere pacifico e trovare una terra fertile abitata da altri uomini pacifici110. Geoffrey cerca sicuramente la pacificazione tra le varie etníe che convivono nel regno d’Inghilterra della sua epoca, ma vuole altrettanto chiaramente stabilire il primato temporale e divino di una di esse – quella britannica o celtica – e giustificarne il dominio sulle altre (e, come si è visto nella profezia di Diana, perfino sul mondo intero). Così narra che la piacevolezza del luogo e i numerosi fiumi ricchi di pesci, e le foreste fecero nascere in Brutus e i suoi compagni il desiderio di stabilirsi in quel luogo, e che dopo averne esplorato ogni regione, spinsero i giganti in cui incapparono a rifugiarsi nelle caverne di montagna. Poi, per concessione del loro capo, si spartirono il territorio. Iniziarono a coltivare campi e a costruire case, così che in poco tempo il paese apparve come se fosse stato abitato da sempre. Poi Brutus diede all’isola un nuovo nome derivato dal proprio – ‘Britannia’ – e al suo popolo quello di ‘Britanni’, in modo da poter essere ricordato per sempre. Anche la lingua della sua gente, che fino ad allora era nota come il troiano o “greco contorto” («curuum Graecum»)111, fu chiamata “britannica” per la stessa ragione. Corineus seguì l’esempio del suo capo e chiamò secondo il proprio nome ‘Corineia’ la porzione 110 Cfr. A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005. 111 Historia Regum Britanniae, § 21.

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del regno che gli fu assegnata e ‘Corineiensi’ il suo popolo. Gli era stata concessa una prelazione su tutte le regioni ed egli aveva scelto la provincia ora chiamata Cornovaglia («Cornubia»)112, in quanto è “il corno” della Britannia («cornu Britanniae»)113, oppure, per la predetta corruzione del suo nome. Corineus amava lottare contro i giganti, i quali erano molto più numerosi nella sua regione che in tutte quelle distribuite ai suoi compagni. Ve n’era uno abominevole di nome Goegmagog114, alto dodici cubiti, ovvero quasi sei metri, la cui forza era tale che poteva smuovere e sradicare una quercia come se si trattasse di un ramoscello di nocciolo. Un giorno, quando Brutus stava celebrando una festa in onore degli dèi nel porto dove era approdato, Goegmagog arrivò insieme ad altri venti giganti e fece un terribile massacro di Britanni. Gli altri accorsero allora da tutte le parti riuscendo ad annientarli tutti tranne Goegmagog. Brutus ordinò che la sua vita fosse risparmiata, perché voleva assitere ad una lotta tra lui e Corineus, il quale ardeva oltremodo di scontrarsi con simili mostri. Questi colmo di gioia gettò la sua armatura e sfidò il gigante al combattimento. La contesa cominciò con entrambi che cercavano di cingersi con le braccia e l’aria che vibrava per l’affanno del loro respiro. Goegmagog strinse Corineus con tutta la forza e gli ruppe tre costole, due nel lato destro e una nel sinistro. Corineus infuriato raccolse tutte le sue forze, sollevò il gigante sulle sue spalle e cominciò a correre più veloce che potesse verso la costa vicina. Arrivato al limite di un’alta scogliera, scaraventò il mostro dal dirupo giù nel mare. Questi cadendo sulle rocce appuntite si schiantò in mille pezzi e macchiò il mare con il flutto del suo sangue. Il luogo prese il nome dalla caduta del gigante e fu sempre chiamato «Saltus Goegmagog» («Salto di Goegmagog»)115. Ivi. Ivi. 114 Nome derivato da Ezechiele, 38ss. (cfr. anche Genesi 10, 2; 1Cronache, 1, 5), e presente in molta letteratura apocalittica. Sdoppiato nei due giganti, Gog e Magog, è rappresentato nelle effigi di legno poste nella Guildhall di Londra a protezione della città e risalenti all’epoca di Enrico V (1387-1422). 115 Historia Regum Britanniae, § 21. 112 113

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Una volta diviso il suo regno, Brutus aspirava a costruire una città («affectavit Brutus civitatem aedificare»)116. Per raggiungere il suo scopo girò per tutto il paese alla ricerca di un sito adatto. Quando arrivò sul fiume Tamigi («Tamensem fluvium»)117 esplorò le sue rive e finalmente trovò il posto adatto al suo scopo. Vi fondò dunque una città («condidit civitatem»)118 e la chiamò «Troia Nova»119. Qui, rispetto a poco prima, Geoffrey usa il verbo latino condere, ‘fondare’, che da un punto di vista concettuale è più che costruire (aedificare) materialmente. Anche il significato della parola civitas si sposta qui verso il suo concetto più immateriale, per cui possiamo comprendere che questa è la fondazione mitica di una nuova città che sarà anche una nuova civiltà. Il suo nome, Troia Nova, denota sia la sua origine troiana, che il desiderio di far rinascere il passato nel presente. Questo schema, già riscontrato nell’Eneide virgiliana (senza dubbio il modello principale della Historia), appartiene filosoficamente al pensiero stoico, in particolare all’idea del logos come fato e come vettore della storia, motore di un ciclo dinamico e perenne di nascita, morte e rinascita120. D’altra parte il nome Troia Nova è anche una ricostruzione fantasiosa dell’antico nome di Londra, Trinovatum, derivato a sua volta dall’antica popolazione storica dei Trinovantes che abitava nella valle del Tamigi. Geoffrey prosegue subito dopo dicendo che con il passare del tempo il nome della città venne corrotto fino a diventare appunto Trinovatum, e mostrandoci ancora una volta la sua abilità nel fondere il mito con la storia. Quasi un millennio più tardi Lud, quel fratello di Cassibellanus che secondo la Historia combatté contro Giulio Cesare, salì al trono

Ivi, § 22. Ivi. 118 Ivi. 119 Cfr. ivi. 120 Vedi C. Lévy, Le filosofie ellenistiche, Torino 2002; A. A. Long, La filosofia ellenistica, Bologna 1997; A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005; S. Morton Braund, Virgil and the cosmos: religious and philosophical ideas, in The Cambridge Companion to Virgil, ed. by C. Martindale, Cambridge University Press 1997 (20075), pp. 208-9. 116 117

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di Britannia e costruì intorno alla città delle nobilissime mura con torri di meravigliosa fattezza. Quindi comandò che fosse chiamata Kaerlud o ‘Città di Lud’, da cui fu poi derivato il nome Londinium o Londra. Vi furono aspre controversie intorno alla rinuncia di mantenere una traccia di Troia nel nome della capitale del regno britannico, ma la volontà di Lud alla fine prevalse. Tornando a Brutus, dopo aver fondato la sua città («urbem condidit»)121, invitò la sua gente ad insediarvisi e promulgò un codice di leggi che le permettesse di vivere in pace. Era l’epoca in cui Eli regnava in Giudea, e l’arca dell’alleanza era stata catturata dai Filistei. I figli di Ettore regnavano a Troia, poiché i discendenti di Antenore si trovavano in esilio. In Italia regnava il terzo dei Latini, Silvio Enea, figlio di Enea e zio di Brutus. Alla fine del racconto della fondazione della Britannia, viene nuovamente sottolineata la stretta parentela carnale dei Britanni con i Romani, e tracciata una pseudo-geopolitica che vede il mondo arcaico da cui nascerà tutto l’occidente come essenzialmente sorretto da quattro pilastri di riferimento civile: Gerusalemme, Troia, Roma e Londra. Dal matrimonio tra Brutus e Innogen nacquero tre figli illustri di nome Locrinus, Kamber e Albanactus. Quando il padre morì, nel ventiquattresimo anno dall’approdo in Britannia, i figli lo seppellirono all’interno delle mura della città che aveva fondato («sepelierunt eum infra urbem quam condiderat»)122, e divisero il regno in tre parti. Locrinus, che era il primogenito, ricevette la parte centrale dell’isola che poi fu chiamata Loegria a imitazione del nome del suo sovrano. In realtà il nome Loegria è derivato dall’antico gallese ‘Lloegyr’, che indicava grossomodo la regione dell’odierna Inghilterra con la sua capitale Londra, e che a quanto pare doveva significare “il paese perduto”123. A partire da questa idea di paese perduto dagli antichi Britanni a seguito dell’invasione anglo-sassone, prenderemo le mosse nel prossimo capitolo. Intanto aggiungiamo che Historia Regum Britanniae, § 22. Ivi, § 23. 123 Tatlock, p. 19. 121 122

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Kamber ricevette la regione oltre il fiume Severn, ora conosciuta come Galles, ma che per lungo tempo fu chiamata Kambria, mentre Albanactus, il più giovane, ricevette la regione che oggi si chiama Scozia, e che egli chiamò Albania. Per molto tempo regnarono in pace e in buona armonia.

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2. L’INGHILTERRA RICONQUISTATA

«Britannia insularum optima in occidentali occeano [...]» («La Britannia, la migliore delle isole, è situata nell’oceano occidentale [...]»)1. Così Geoffrey of Monmouth dà inizio alla sua Historia Regum Britanniae, rivelando subito l’amore per la sua terra ed elencandone poi, come già avevano fatto Gildas, Beda2 e Nennius prima di lui, tutti i pregi del paesaggio e delle risorse naturali: minerali di ogni genere, campi e colline, foreste ricche di cacciagione, terreni fertili, bestiame, fiori e api dispensatrici di miele, montagne scosse dal vento con chiare sorgenti e verdi prati, laghi e fiumi ricolmi di pesci, e uno stretto di mare attraverso il quale navigare verso la Francia, ma anche importare mercanzie da tutti i paesi. Malgrado una prima impressione, Geoffrey non rievoca con queste parole il giardino di Eden, dove forse non ci sarebbe bisogno di metalli, di campi da arare, né di commerci, quanto piùttosto una terra ideale per l’uomo caduto nel tempo. Tempo la cui presenza è resa evidente subito dopo nella descrizione delle molte città in rovina, ma anche dei santuari intatti nelle città turrite dove uomini e donne prestano i giusti ossequi a Dio secondo la tradizione cristiana.

The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I, Bern, Burgerbibliothek MS. 568, ed. by Neil Wright, Cambridge 1985, § 5. 2 Vedi N. Wright, “Geoffrey of Monmouth and Bede” in Arthurian Literature 6, 1986, pp. 27-59. 1

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In questo breve accenno alle città riconosciamo la suddivisione patristica, già trovata in Gildas, della storia umana nelle due ere, pagana e cristiana, di cui una in rovina e l’altra fiorente. Geoffrey, che è un chierico educato nella Chiesa di Roma, e ne conosce bene la tradizione, ci tiene a sottolinearlo. Nella grande fioritura del cristianesimo vi è un segno della sua verità e della sua bontà. Il breve prologo si conclude poi con una nota fondamentale riguardante la Britannia in cui egli scrive: essa è abitata da cinque popoli diversi, e cioè i Normanni, i Britanni, i Sassoni, i Pitti e gli Scoti. Fra questi i Britanni una volta occupavano il paese da mare a mare, prima che arrivassero gli altri. Ma a causa della loro superbia – qui viene ripreso uno dei temi centrali in Gildas – dovettero subire la punizione divina e sottomettersi ai Pitti e ai Sassoni. La sottrazione della libertà ai Britanni sulla loro terra di appartenenza ricorda nuovamente la Genesi, in particolare la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva, ma anche qui la terra perduta non è l’Eden, bensì un luogo del tutto terreno, anche perché lì non sarebbe concepibile una lotta tra popoli diversi. A questo punto, chiude Geoffrey, non rimane che spiegare come e da dove siano venuti i Britanni, con lo scopo implicito – come si è visto e si vedrà – di legittimarne il primato temporale e divino su «la migliore delle isole»3. I dati che appaiono più curiosi in questo prologo, e i cui risvolti costituiscono il vero e proprio focus del presente capitolo, sono la mancata menzione dei Romani – pur presenti nel resto dell’opera – e sopratutto dei Normanni tra i popoli oppressori dei Britanni inviati per punizione divina. Qual’è il legame particolare e privilegiato che lega i Britanni ai Romani e ai Normanni 4? Il dato storico dell’invasione da parte di Cesare e della conquista definitiva della Britannia da parte di Claudio nel 43 d.C. è ampiamente trattato nella Historia. Ma rispetto al De bello Gallico (IV 20)5, che costituisce la principale fonte Historia Regum Britanniae, § 5. Cfr. F. Tolhurst, “The Britons as Hebrews, Romans, and Normans : Geoffrey of Monmouth’s British Epic and Reflections of Empress Matilda”, in Arthuriana 8.4, 1998, pp. 69-87. 5 Cesare, Le guerre in Gallia (De bello Gallico), a cura di C. Carena, Milano 1987 (1991), p. 175-177; cfr. anche Tacito, La vita di Agricola, trad. it. di B. Ceva, Milano 1990 (200612). 3 4

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storica per quanto riguarda il primo fatto, vi sono in essa alcune fantasiose e significative integrazioni. Geoffrey narra perfino che Cesare una volta giunto sulle coste occidentali della Gallia avrebbe avvistato l’isola, chiesto ed ottenuto notizie su di essa e i suoi abitanti, ed infine esclamato: «Hercle! Ex eadem prosapia nos Romani et Britones orti sumus quia ex Troiana processimus gente» («Per Ercole! Noi Romani e quei Britanni siamo della stessa razza, poiché discendiamo entrambi dalla gens troiana»)6. Quella dei Romani non sarebbe stata dunque una vera e propria invasione “straniera”, bensì l’inizio di un mutamento dei rapporti territoriali e di potere avvenuto, per così dire, “in famiglia”. Oltretutto la stirpe dei Romani in quanto tale, pur essendo rimasta in Britannia per ben quattro secoli dopo la conquista, non può più considerarsi presente nell’Inghilterra del XII secolo, se non in un’unica discendenza romano-britannica, e dunque forse per brevità “britannica”, frutto di un connubio ormai inscindibile7. Oppure anche nella Chiesa romana, sebbene in questo caso la discendenza sarebbe di natura culturale e non genealogica. La romanità dell’Impero e della Chiesa e l’idea di una continuità spirituale tra il primo e la seconda era ormai un’interpretazione largamente diffusa nell’Europa basso-medievale8. La concezione apocalittica (13, 1-10; 17, 1-14) del cristianesimo primitivo che equiparava Roma alla «bestia scarlatta», era stata superata dalla nuova storiografia ecclesiastica introdotta da Eusebio, e con la cristianizzazione dell’Impero iniziata sotto Costantino, poi definitivamente sancita nell’editto di Salonicco del 3809. Historia Regum Britanniae, § 54. D. Wallace (ed.), The Cambridge History of Medieval English Literature, Cambridge 1999, pp. 35-60; C. Cencini, M.L. Scarni, Le isole britanniche, Bologna 1993, pp. 41-49; I.A. Richmond, revised by M. Todd, Roman Britain, London 1995, pp. 1-20; P. Salway, Roman Britain, in K.O. Morgan (ed.), The Illustrated History of England, Oxford University Press 1984. 8 Cfr. Tommaso d’Aquino (san), Summa theologiae, III, suppl. 71, 5, a cura di P. Caramello, 3 vol., Milano 1986; Dante, Purgatorio, X 74; Paradiso, VI, in Commedia, a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano 2006. 9 Cfr. T.E. Mommsen, “St. Augustine and the Idea of Progress”, in Medieval and Renaissance Studies, Cornell University Press, Ithaca 1959, pp. 267-68. In questo 6 7

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In realtà, ad un più attento esame, la costruzione mitica di questa comune discendenza con i Romani risponde ad una precisa e duplice esigenza da parte dei Britanni. Da un lato significa affermare la parità tra i due popoli sul piano della nobiltà di sangue e dunque – vista la straordinaria vicenda di Roma – far confluire nel sentimento identitario britannico una forza immensa e un’attesa che ciò che i Romani furono nel passato, i Britanni potranno essere nel futuro; dall’altro, legittimare per i Britanni un diritto di libertà dal dominio assoluto della cultura e della politica romane in senso lato, quindi comprendenti anche la Chiesa di Roma. Ci troviamo in un’epoca in cui la lotta per le investiture era particolarmente accesa, e la monarchia britannica era entrata in conflitto con l’arcivescovo di Canterbury, S. Anselmo d’Aosta (o di Bec), proprio per questa ragione. Potremmo dire che Geoffrey, pur essendo un chierico, nella Historia mostra un carattere più marcatamente “ghibellino” e fedele al suo re. Rappresentare quella britannica come una stirpe non solo lontanamente imparentata con i Romani dei tempi ancestrali di Brutus e di Enea, ma anche nuovamente mischiata con quella romana dei tempi gloriosi di Cesare e della nascita dell’Impero, è segno dell’aspirazione ad una defintiva assimilazione da parte dei Britanni dell’identità romana e delle sue potenzialità. Translatio imperii, sì, ma anche qualcosa di più da un punto di vista psicologico: metamorfosi del sangue, emancipazione tramite la trasformazione nell’altro: Roma è ormai la Britannia10. Geoffrey narra d’altronde – con qualche appiglio storico – che l’imperatore Costantino era figlio di una madre inglese, figlia del re britannico Coel e futura sant’Elena, e di un padre romano, l’imperatore Costanzo Cloro, e che inoltre era nato in Britannia ed era senso furono interpretati anche il sogno di Nabucodònosor in Daniele 2, 31 ss. avveratosi nel Vangelo di Matteo e il sogno di Daniele delle quattro bestie (ivi. 7, 1 ss.), nonché il Salmo 72. V. anche R.H. Hanning, The Vision of History in Early Britain. From Gildas to Geoffrey of Monmouth, Columbia University Press, New York and London 1966, pp. 21 ss. 10 Cfr. W. Shakespeare, Cymbeline, V.v.436-485, in The Complete Works, (Gen. Eds.) S. Wells and G. Taylor, Oxford University Press 1988; W. Shakespeare, Cimbelino, a cura di P. Boitani, Milano 1994.

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stato proclamato imperatore a York11. Sebbene sappiamo che Elena era con assai maggiore probabilità di origine siciliana, e che suo figlio Costantino non nacque in Britannia, il fatto che quest’ultima sia stata culturalmente e geneticamente “romanizzata” tra il I e il V secolo è una dato storico che rimane pacifico. Una parte consistente dei Celti britannici convisse e si mischiò con il conquistatore romano per tanti secoli, da potersi, verso la fine dell’Impero e con l’abbandono delle truppe, autenticamente definire “romano-britannica”. Come abbiamo visto, Gildas ci ha fornito una delle prime testimonianze di questa comunione genetico-culturale che rimase profondamente radicata nell’immaginario dei Britanni insulari e resistette, come in Nennius, perfino a più di tre secoli di egemonia anglo-sassone, fino a rifiorire altri tre secoli dopo appunto con Geoffrey of Monmouth12. Evidentemente i Romano-Britanni, o quelli più resistenti e colti tra essi, non seppero mai pienamente accettare i popoli germanici che avevano cominciato a invadere la Gran Bretagna nel V secolo. Essi si rifugiarono infatti per quanto possibile nella zone più occidentali dell’isola, come il Galles e la Cornovaglia, quando non emigrarono perfino in Irlanda o, in direzione opposta, nelle regioni costiere della Gallia nord-occidentale, corrispondenti all’antica Armorica, e alle medievali e odierne Bretagna e Normandia13. Persero così per molti secoli la loro antica patria e libertà. Veniamo ora al secondo quesito di questo capitolo, ovvero il motivo della mancata menzione dei Normanni tra i popoli oppressori dei Britanni, che anzi sono i campioni impliciti di tutta l’opera e coloro ai quali è dedicata. Geoffrey of Monmouth è con ogni probabilità l’erede di una delle varie migrazioni romano-britanniche provocate dall’arrivo degli Anglo-Sassoni in Britannia. Ad indicarcelo vi sono – oltre ai contenuti stessi della sua opera – il legame con Monmouth, Cfr. Historia Regum Britanniae, § 78. J. J. Parry and R.A. Caldwell, “Geoffrey of Monmouth”, in R.S. Loomis (ed.), Arthurian Literature in the Middle Ages, Oxford 1959, pp. 72-93. 13 Vedi P.-R. Giot, P. Guigon & B. Merdrignac, Les premiers Bretons d’Armorique, Rennes 2003. 11 12

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che si trova nel Galles meridionale, e la probabile origine bretone ipotizzata da diversi storici14. Egli non vive più in quella che era la Britannia tardo-antica o alto-medievale di un Gildas o di un Nennius, bensì nel regno d’Inghilterra del 1100. Regno che da più di due secoli porta il nome datole dall’ormai sconfitto invasore germanico, Angelcynn o Engla land, i.e. ‘terra degli Angli’15, e che da poco più di cinquant’anni è stato conquistato dai duchi di Normandia. Esso comprende, da un punto di vista politico, tutta la parte centrale e meridionale della Gran Bretagna (la Scozia rimarrà indipendente fino al 1707) – con l’eccezione di alcune impervie regioni montuose del Galles settentrionale – e, naturalmente, i ducati di Normandia e di Bretagna in Francia, per i quali ultimi vige tuttavia un rapporto di vassallaggio nei confronti del re di Francia. Guglielmo il Bastardo, detto poi il Conquistatore (1066-1087), vi aveva sin dal principio adottato gravose misure anti-inglesi, sostituendo praticamente l’intera aristocrazia e tutto l’alto clero anglo-sassoni con quelli normanni. Gli stessi Normanni erano una popolazione di origine scandinava stabilitasi nella Francia settentrionale all’inizio del X secolo, ma, a differenza degli Anglo-Sassoni in Britannia, si erano adattati rapidamente alla 14 N. Wright (ed.), The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I, Cambridge, 1985, p. 9; W. L. Jones, “Geoffrey of Monmouth” in Transactions of the Honourable Society of Cymmrodorion, 1898/9, pp. 52-95; J.J. Parry and R.A. Caldwell, „Geoffrey of Monmouth“, in R.S. Loomis (ed.), Arthurian Literature in the Middle Ages, Oxford 1959, pp. 72-93; E. Faral, “Geoffrey of Monmouth : les faits et led dates de sa biographie” in Romania LIII, 1927, pp. 1-42 ; J.E. Lloyd, “Geoffrey of Monmouth” in The English Historical Review LVII, 1942, pp. 460-8; E.M.R. Ditmas, “Geoffrey of Monmouth and the Breton Families in Cornwall”, Welsh History Review 6, 1973, pp. 452-61; J. S. P. Tatlock, The Legendary History of Britain: Geoffrey of Monmouth’s Historia Regum Britanniae and its Early Vernacular Versions, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1950, pp. 438-48; P. Boitani, La letteratura del Medioevo inglese, Roma 1991. 15 La prima menzione scritta si trova in un testo del re letterato Alfredo il Grande (871-899). Vedi S. Keynes and M. Lapidge (trans.), Alfred the Great, Harmondsworth 1983; e anche R. Abels, Alfred the Great, Harlow 1998; J. Campbell (ed.) The AngloSaxons, Oxford 1982; M. Lapidge, J. Blair, S. Keynes, and D. Scragg, The Blackwell Encyclopaedia of Anglo-Saxon England, Oxford 1999; F.M. Stenton, Anglo-Saxon England, Oxford 1971.

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cultura della nuova patria francese assumendone subito la lingua, i costumi e la religione cristiana. Gli Anglo-Sassoni avevano invece per secoli dopo il trasferimento continuato a identificarsi con la loro cultura di origine germanica, come testimoniano la lingua (“Old English”) e un’opera letteraria come Beowulf 16. È forse questo uno dei motivi per cui i Normanni mostrarono in Inghilterra un forte interesse per la storia e la cultura britanniche precedenti l’invasione anglo-sassone, che essi potevano sentire più vicine al proprio status e animus presenti, tantopiù che la Normandia faceva parte di quella più estesa regione armoricana in cui gli antichi Britanni o Romano-Britanni si erano rifugiati in massa all’arrivo degli Anglo-Sassoni, per cui si era già stabilita tra loro una certa familiarità. Da un punto di vista culturale Geoffrey of Monmouth appartiene dunque all’etnia di origine romanobritannica, ma si inserisce politicamente e intellettualmente in quello che è il regno normanno d’Inghilterra17. Egli vive in un periodo in cui le storie dell’Inghilterra e della Normandia sono inestricabilmente legate, e il canale della Manica può essere paragonato ad un grande fiume che separa le due sponde di una singola nazione18. Gli storici parlano, per quanto riguarda i secoli che vanno dal XII al XIV, di una «cross-Channel structure» del regno d’Inghilterra19. La genesi della Historia Regum Britanniae si colloca in particolare nell’epoca di Enrico I (1100-1135), il figlio più giovane e secondo successore di Gugliemo I, che indirizzato in tenera età alla carriera ecclesiastica e poi rivelatosi abile stratega politico, divenne noto anche come fine uomo di cultura, qualità che gli valse il soprannome di ‘Beauclerc’. Geoffrey trascorse la prima parte della sua vita, e quella più importante dal punto di vista della produzione letteraria, in un Cfr. P. Boitani, La letteratura del Medioevo inglese, Roma 1991, p. 18. Vedi J. Gillingham, „The Context and Purposes of Geoffrey of Monmouth’s History of the Kings of Britain“, Anglo-Norman Studies 13, 1990, pp. 99-118. 18 Cfr. J. Gillingham & R.A. Griffiths, Medieval Britain. A Very Short Introduction, Oxford 2000, p. 3; v. anche K.O. Morgan (ed.), The Oxford Illustrated History of Britain, Oxford 1984. 19 Gillingham & Griffiths, p. 23; v. anche Morgan (ed.); R.A. Griffiths, “Il Basso Medioevo”, in K.O. Morgan, Storia dell’Inghilterra, Milano 1993/2002, p. 105. 16 17

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periodo in cui l’incontro tra le diverse culture etniche e politiche del regno – che nel secolo precedente era ancora stato diviso al suo interno da violenti conflitti20 – poteva dirsi compiuto. Guglielmo il Conquistatore aveva lasciato in eredità al suo primo successore sul trono d’Inghilterra, Guglielmo II (1087-1100), una popolazione formata in larghissima maggioranza da Anglo-Sassoni e Danesi che, sebbene sottomessa, aveva continuato a esercitare, con la sua cultura di origine e carattere ancora fortemente germanici, una dura resistenza alla penetrazione della lingua e dei costumi normanni. Soltanto con Enrico I l’ostilità cominciò ad allentarsi: egli era il primo re normanno ad essere nato in Inghilterra, ad utilizzare ampiamente la lingua inglese e ad avere sposato una donna della vecchia dinastia anglo-sassone, Edith di Scozia, poi chiamata Matilda, come la prima regina normanna d’Inghilterra. Nella loro progenie le due dinastie si sarebbero finalmente unite, e in questo senso egli aveva posto le basi per un futuro armonioso e florido dell’Inghilterra anglo-normanna. Le cose non andarono nella maniera prevista, poiché nel 1135 Enrico morì inaspettatamente e senza lasciare eredi maschi, dopo una settimana di agonia, per un avvelenamento da cibo. Il suo unico figlio legittimo, William Adelin, era morto appena diciassettenne nel famoso naufragio del White Ship nel 1120, e a nulla era valso il nuovo matrimonio con la giovanissima Adeliza di Lovanio dal quale non erano nati figli. «Nulla unquam fuit navis Angliae tantae miseriae» («Nessuna nave mai causò tanta infelicità in Inghilterra»)21, scriveva il contemporaneo William of Malmesbury nel suo Gesta Regum Anglorum del 1127, e qualche divulgatore storico dei nostri giorni ne parla perfino come di un ”Titanic” del Medioevo22. La successione dell’unica legittima figlia femmina vivente di Enrico I, chiamata Matilda come la madre e sposata con il sacro romano imperatore Enrico V (e per questo detta “Empress” o “Queen of the Romans”), era fortemente Cfr. J.J. Cohen, “The Flow of Blood in Medieval Norwich”, Speculum 79, 2004, pp. 26-65. 21 William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum (Deeds of the English Kings), Vol I, Bk. V, §419, ed. and transl. by R. A. B. Mynors, Oxford University Press 1998. 22 R. Lacey, Great Tales from English History, London 2003, pp. 115-121. 20

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osteggiata dai magnati del regno. Tutto ciò mandò all’aria i piani dinastici di Enrico I e fece precipitare l’Inghilterra in una crisi di successione. Sul letto di morte egli chiese ai suoi più fedeli uomini di garantire la successione a Matilda, ma il nipote Stephen di Blois (11351154), venendo meno al giuramento fatto ad Enrico qualche anno prima e appoggiato da un’importante fazione di baroni, una volta appresa la notizia della sua morte corse a Westminster e si fece incoronare prima che Matilda potesse giungere in Inghilterra. A questo seguì il «tempus atrocissimus»23 di guerra civile soprannominato “The Anarchy”, superato poi finalmente dall’ascesa al trono del figlio di Matilda e del secondo marito, Goffredo V di Angiò, il re Enrico II “Plantageneto” (1154-1189). Il capolavoro di Geoffrey of Monmouth comparve sulla scena letteraria nel momento di più alto tumulto sociale dal tempo della Conquista normanna. Geoffrey of Monmouth visse fino a circa il 1155, ma la sua Historia Regum Britanniae è datata tra il 1135 e il 113824, dunque nel periodo immediatamente precedente o successivo la morte di Enrico I. Appare significativo per la datazione che l’opera non sia dedicata al re, ma ai suoi due più fedeli uomini di corte: il figlio illegittimo Robert, «dux Claudiocestrie»25, e il figlio “adottivo” Waleran, conte di Meulan26. In uno dei manoscritti originali 27 perfino al re Stephen («Stephane rex Anglie»)28. Ciò nonostante la Historia deve essere stata concepita e Espressione usata dallo storico contemporaneo Henry of Huntington, v. W. F. Schirmer, Die frühen Darstellungen des Arthurstoffes, Köln und Opladen 1958, p. 25. 24 Cfr. A. Griscom, “The Date of Composition of Geoffrey of Monmouth’s Historia: New Manuscript Evidence”, in Speculum 1, 1926, pp. 129-156; W. Schirmer, Die frühen Darstellungen des Arthurstoffes, Köln und Opladen 1958; N. Wright (ed.), The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I, Cambridge 1985, Introduction. 25 Cfr. C. Given-Wilson & A. Curteis, The Royal Bastards of Medieval England, London 1984. 26 Per un’analisi del mecenatismo anglo-normanno e del significato simbolicopolitico della Historia Regum Britanniae v. L. A. Finke and M. B. Shichtman, King Arthur and the Myth of History, University Press of Florida, Gainesville, pp. 46-70. 27 Cfr. A. Griscom, pp. 129-156; N. Wright (ed.), Introduction. 28 Cfr. D. Crouch, The Reign of King Stephen, 1135-1154, London 2000. 23

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realizzata negli anni successivi al naufragio del White Ship, quando Enrico I era ancora vivo e il regno era ormai entrato nella crisi di successione. Sappiamo che Geoffrey entrò in contatto con l’arcidiacono Walter, per il quale dice di aver redatto e la Historia e la Vita Merlini, ad Oxford, dove la sua presenza è attestata dal 1129 al 115129. Forse lui o il suo committente erano stati coinvolti emotivamente, oltre che politicamente, dalla morte prematura dell’unico legittimo erede al trono d’Inghilterra e volevano con quest’opera contribuire a infondere nuovo vigore nello sforzo iniziato da Enrico I, «Henricus illustris rex Anglorum», per portare a compimento l’unità nazionale all’interno del regno d’Inghilterra30. Geoffrey scrive infatti che la sua opera è rivolta agli uomini di lettere (con l’eccezione forse di Stephen) più influenti della corte normanna, e chiede a Robert di Gloucester di fare sua la Historia e di emendarla sapientemente e diffonderla come il lavoro di un discendente del famoso re degli Inglesi, Enrico, o addirittura come l’impresa di un uomo, che per la sua educazione nelle arti liberali e il suo talento militare riceveva l’affetto del popolo britannico come fosse un «alterum Henricum» («secondo Enrico»)31. A Waleran, che indica come «altera regni nostri columna» («seconda colonna del nostro regno»)32, prode guerriero nutrito da «mater philosophia»33 e discendente di Carlo Magno34, il fondatore del Sacro Romano Impero, chiede di unirsi a Robert nel sostenere l’opera, in Cfr. M. Curley, Geoffrey of Monmouth, New York 1994, pp. 1-10; J. E. Lloyd, “Geoffrey of Monmouth”, English Historical Review, LVII, 1942, pp. 460-68; H.E. Salter, “Geoffrey of Monmouth and Oxford”, in English Historical Review XXXIV, 1919, pp. 382-5. 30 Cfr. Schirmer, p. 26. 31 Historia Regum Britanniae, § 3. 32 Ivi, § 4. 33 Ivi. 34 Sulla figura di Artù come parallelo a Carlo Magno v. G.H. Gerould, “Arthur and Politics” in Speculum 2, 1927, pp. 33 ss. e W.A. Nitze, “Geoffrey of Monmouth’s King Arthur” (ivi. pp. 317 ss.). In senso contrario v. E. Faral, La Légende Arthurienne, 3 vols., Paris 1929, vol. II, p. 391, e R.S. Loomis, “Geoffrey of Monmouth and Arthurian Origins” in Speculum 3, 1928, pp. 16 ss. Cfr. anche E. Köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik, Tübingen 1956. 29

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modo da renderla tanto più nobile e dilettevole quando sarà presentata al pubblico. Poi conclude la dedica, definendo se stesso come vate di una musa appartenente alla stirpe dei re. Per giudicare lo status di Geoffrey of Monmouth come uomo di grande rilievo politico per il suo tempo, non va sottovalutato il fatto che anche i suoi altri dedicatari – prima Alexander of Blois per le Profezie di Merlino e poi Robert de Chesney per la Vita Merlini – erano figure molto influenti nella compagine del regno normanno, e che egli stesso aveva inoltre partecipato come firmatario all’accordo di Wallingford del 6 novembre 1153 tra il re Stephen e Enrico di Angiò (futuro Enrico II “Plantageneto”, figlio della Empress Matilda e di Goffredo di Angiò) per la successione al trono di quest’ultimo e la fine della guerra civile35. Una seconda ipotesi circa la motivazione della Historia, che non contrasta con la prima, è che Geoffrey volesse fissare per iscritto un mito tramandato oralmente nella memoria dei Britanni, che con l’incremento della cultura scritta promosso dai Normanni sarebbe forse sparito36. Ma il motivo a mio avviso più profondamente storico e politico dell’opera fu quello di costruire un nuovo mito che facesse dei Normanni i legittimi discendenti “carnali”, oltre che culturali, degli antichi Britanni venuti da Troia e dal Lazio, i quali, dopo secoli di sottomissione e di esilio, erano riusciti finalmente a riconquistare l’Inghilterra perduta e a porre le basi per una nuova grande nazione unita. Nella sezione arturiana della Historia è scritto infatti che Artù – il più glorioso tra i discendenti di Brutus – una volta sottomesse tutte le regioni della Gallia, si recò a Parigi per tenervi una corte, e che «fu allora che donò al proprio coppiere Beduero la Neustria, che oggi è chiamata Normandia» («Tunc largitus est Bedvero pincerne suo Etrusiam, quae nunc Normannia dicitur»)37. Poco oltre, nella grande cerimonia per le solennità della Pentecoste nella Città delle Legioni, Beduero viene poi esplicitamente presentato come «duca di Normandia» («dux v. Schirmer, pp. 21-22. v. M.T. Clanchy, From Memory to Written Record. England 1066-1307, London 1979. 37 Historia Regum Britanniae, § 155 (trad. it. p. 207). 35 36

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Normannie»)38. Ecco che Geoffrey con un tocco lievissimo realizza il passaggio dinastico dai Britanni ai Normanni, permettendo a questi ultimi di considerarsi legittimi eredi dei re di Britannia e creando un senso di necessaria continuità tra il passato e il presente39.

Ivi. § 156. Cfr. E. Köhler, Ideal und Wirklichkeit in der höfischen Epik, Tübingen 1956, p. 7: «Galfried [...] läßt König Artus Neustrien seinem Mundschenk, Anjou und die Touraine seinem Truchseß übertragen, um so den Anspruch des englischen Königs auf diese Gebiete zu rechtfertigen». («Goffredo fa conferire ad Artù la Neustria al suo coppiere, l’Angiò e la Turenna al suo scalco, così da legittimare il diritto del re inglese su quelle regioni»). 38 39

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3. LA RICEZIONE DELLA HISTORIA REGUM BRITANNIAE COME STORIA

Il titolo più comunemente in uso del capolavoro di Geoffrey of Monmouth fu estratto dalle prime parole della sua dedica: «Cum mecum multa et de multis saepius animo revolvens in hystoriam regum Britanniae inciderem [...]» («Ogni volta che mi accade di volgere la mente alla storia dei re di Britannia e ai problemi a essa collegati [...]»)1. Dagli studi più recenti è tuttavia emerso che Geoffrey stesso lo abbia intitolato De gestis Britonum (Le gesta dei Britanni)2, cosa che – anche alla luce dei suoi contenuti – potrebbe far supporre che idealmente egli intendesse inserirlo nel genere della chanson de geste o dell’epica medievale, piuttosto che in quello della historia3. D’altra parte l’uso del latino e la forma in prosa lo avvicinano nuovamente al genere storico, sempre considerando che questo termine nell’epoca ha un valore tutto interno all’orizzonte culturale cristiano e bi1 The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I. Bern, Burgerbibliothek, MS. 568, ed. by N. Wright, Cambridge 1985, § 1 (corsivo mio). 2 V. Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain, ed. by M.D.Reeve and transl. by N. Wright, Woodbridge 2007, p. lix; J. C. Crick, The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth IV: Dissemination and Reception in the Later Middle Ages, Cambridge 1991, pp. 126-9; cfr. anche Historia Regum Britanniae, § 110, e Galfridus Monemutensis, Vita Merlini (Life of Merlin), vv. 1525-9, ed. by B. Clarke, University of Wales Press, Cardiff 1973. 3 Riguardo all’impiego dei titoli M. D. Reeve suggerisce di mantenere il titolo più familiare, purché non vi si fondino argomentazioni: «Keeping the familiar title will do no harm, though, as long as no arguments are founded on it», in Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain, Woodbridge 2007, p. lix.

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blico, che non può essere equiparato, se non in minima parte, a quello di una storiografia moderna4. Fin dalle sue origini il cristianesimo presentò l’incarnazione del Verbo e le vicende legate alla vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo e al suo legame filiale con l’unico Dio come fatti storici, come verità compiuta. La nuova storiografia romano-cristiana introdotta da Eusebio di Cesarea all’inizio del IV secolo (Historia ecclesiastica)5, in concomitanza con la politica filocristiana dell’Impero sotto Costantino, espone e interpreta i fatti storici alla luce delle Scritture. Secondo tale indirizzo esegetico, che segue essenzialmente le orme di Origene, la Bibbia così come la storia hanno un senso spirituale o mistico (oltre a quello letterale o fattuale), che dal cristiano perfetto va colto e fatto sostanza della propria vita interiore. Dio è il vero protagonista degli eventi, e lo storico cristiano è colui che sa riconoscerne i segni e donare alla sua esposizione dei fatti i toni profetici dei testi biblici. Viene a crearsi così un rapporto osmotico tra storia e Scritture, per cui da un lato si può osservare il progresso della provvidenza divina nella storia dell’Impero Romano, e dall’altro i fatti narrati nella Bibbia diventano fonte inesauribile di prefigurazione (o “tipologia”) di ciò che avviene ed avverrà nel mondo6. Così Eusebio, ad esempio, interpretava le persecuzioni di Diocleziano, di cui fu in parte vittima e testimone, come punizione divina inferta alla Chiesa cristiana per la sua recente negligenza e peccaminosità, da cui fu liberata attraverso la forza purificatrice della sofferenza e l’intervento politico di Costantino, oppure l’avvento dell’Impero Romano come realizzazione del sogno di Nabucodònosor nel libro di Daniele dell’Antico Testamento. Con la presa di Roma nel 410 da parte dei Visigoti di Alarico e la premonizione di un crollo imminente dell’Impero, questa storiografia 4 Cfr. R.H. Hanning, The Vision of History in Early Britain. From Gildas to Geoffrey of Monmouth, Columbia University Press, New York and London 1966; M.A. Faletra (ed.), The History of the Kings of Britain. Geoffrey of Monmouth, Toronto 2008, p. 16. 5 Vedi J. Danielou, Des Origines à Saint Grégoire le Grand, Paris 1963; H.I. Marrou, Théologie de l’histoire, Paris 1968. 6 V. Hanning, pp. 20-32.

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ebbe una virata antipolitica significativa nel De civitate Dei (La città di Dio) di S. Agostino. A differenza di Eusebio, egli tentò di slegare il cristianesimo dalla storia ormai decadente dell’Impero, e di creare il senso di una civiltà opposta a quella terrena, che il cristiano potesse scegliere come cammino interiore di salvezza personale. Ma il modello eusebiano, più fortemente politico, rimarrà prevalente nella successiva storiografia cristiana, almeno fino alla Monarchia di Dante: ciò è riscontrabile anche nell’allievo di Agostino, Paolo Orosio, «avvocato de’ tempi cristiani»7, che nel suo Historiarum adversos paganos libri septem (Le storie contro i pagani in sette libri) (417-18), reinterpreta le invasioni barbariche come fase iniziale di un ampliamento della civiltà cristiana («Romània»), e costruisce una storia “romana” della salvezza modellata su quella dell’Israele biblica, a cui Roma succederebbe. Dio nella persona di Gesù Cristo ha scelto di nascere sotto l’Impero di Augusto preparato proprio per il suo avvento. Si impone così per i secoli a venire l’idea fondamentale che a determinare i destini delle nazioni sia Dio e che da lui derivi ogni potere temporale. Non credere ad una simile origine trascendente degli eventi terreni equivarrebbe ad essere «uomini di poca fede»8. La concezione medievale della storia era dunque fortemente influenzata dalla storiografia cristiana9. Non che nel Medioevo non esistessero numerosi cronachisti dediti all’elencazione oggettiva degli eventi, o storici inglesi che avessero già adottato il nuovo metodo d’indagine critico inaugurato dalla Historia ecclesiastica di Ordericus Vitalis (1075-ca. 1142)10. Ma Geoffrey of Monmouth ha buona ragione di non temere più del dovuto che la sua opera possa essere recepita come falsa, forse proprio perché si considera uno storico “cristiano”, capace di interpretare la storia nazionale britannica secondo l’eterno disegno divino individuato dai suoi predecessori, e poi, natuDante, Paradiso X, 119, in Commedia, a cura di A. M. Chiavacci Leonardi, Milano 2006. 8 Matteo, 8, 26 (v. anche 6, 30). 9 Cfr. Hanning; Faletra (ed.), p. 16. 10 W. F. Schirmer, Die frühen Darstellungen des Arthurstoffes, Köln und Opladen 1958, p. 11. 7

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ralmente, anche perché in realtà presenta se stesso soltanto come il traduttore di un antichissimo libro datogli dal suo amico, l’arcidiacono Walter. La quantità di elementi soprannaturali e profetici presenti nella sua Historia possono anzi essere valutati come il frutto di un’autentica immaginazione storica volta ad ispirare una visione della storia piuttosto che una sua rappresentazione realistica11. In questo senso egli rientra certamente in quella «più antica e lunga tradizione della storia come intrattenimento serio, che fu particolarmente ricca in Inghilterra»12. La sua storia nazionale fu recepita da gran parte dei suoi contemporanei nonché dei posteri come vera, cosa che troviamo documentata nelle copiosissime opere storiche e poetiche che la menzionarono, citarono od imitarono fino al Rinascimento e oltre13. Per i contemporanei era perfino considerato una vergogna non aver letto il libro: «A quindici anni dalla sua pubblicazione non averlo letto era motivo di rimprovero; divenne uno stimato libro di testo del Medioevo; fu incorporato in una cronaca dopo l’altra; fu trasformato in poesia; spazzava via ogni opposizione con la forza indomita di una grande epica; i suoi precedenti venivano riportati in Parlamento; due re d’Inghilterra lo citarono a sostegno del proprio diritto di dominio sulla Scozia; fu persino usato per giustificare le spese della famiglia reale»14. 11 Hanning, p. 2 ss.; v. anche M. Otter, Inventiones: Fiction and Referentiality in Twelfth-Century English Historical Writing, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1996. 12 N. F. Partner, Serious Entertainments: The Writing of History in Twelfth Century England, The University of Chicago Press, Chicago and London 1977, p. 4 (corsivo mio). 13 V. R. W. Chambers, “Geoffrey of Monmouth and the Brut as sources of Early British History”, History III, 1918-19, pp. 225-8; per una lista di riferimento delle menzioni contemporanee della Historia di Geoffrey v. dello stesso autore: Arthur of Britain, London 1927, pp. 258-82; v. anche H. Matter, Englische Gründungssagen von Geoffrey of Monmouth bis zur Renaissance, Heidelberg 1922, pp. 98-115 e 651685; E. Jones, Geoffrey of Monmouth 1640-1800, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1944; H. A. MacDougall, Racial Myth in English History, Trojans. Teutons and Anglo-Saxons, University Press of New England, Hanover and London 1982, pp. 7-27. 14 T. D. Kendrick, British Antiquity, London 1950, p. 7; cfr. anche Schirmer, p. 16 n. 45.

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Tra gli storici, solo per citarne alcuni, vi sono Alfred of Beverley (Annales sive Historia de gestis regum Britanniae, 1143), Henry of Huntington (Historia Anglorum, 1154), Gervasius of Canterbury (Gesta Regum, ca. 1200)15, Radulf of Coggeshall (Chronicon Anglicanum, ca. 1215)16, Matthaeus Parisiensis (Chronica majora, 1259)17, Adam of Domerham (Historia de rebus gestis Galstoniensibus)18, fino ai suoi difensori rinascimentali tra cui John Stow e John Leland, il quale ultimo scrisse persino un “Codrus sive laus et defentio Gallofridi Arthurii” (“Lode e difesa dell’Artù di Goffredo”), e Raphael Holinshed, le cui Chronicles furono la principale fonte storica per le opere di Shakespeare. Tra i poeti l’elenco diventa immenso, poiché Geoffrey fu l’inventore della “matière de Bretagne”, un genere che non si esaurì mai. Questa lunga tradizione iniziò con il poeta di corte di Enrico II Plantageneto, l’anglo-normanno Wace, che scrisse in francese medievale un Roman de Brut (1155) dedicato alla regina Eleonora d’Aquitania, e che tra le traduzioni in volgare della Historia di Geoffrey fu certamente la più influente per l’irradiazione dei suoi temi in Francia e poi in tutta l’Europa. A parte la perduta Estoire des Bretuns di Geffrei Gaimar, pensiamo ai Lais (specialmente il Lanval) di Marie de France, ai Erec et Enide, Cligès, Lancelot, Yvain e Perceval di Chrétien de Troyes, al Parzival di Wolfram von Eschenbach, al Brut del chierico Layamon, che segna la rinascita dell’inglese letterario (ca. 1216), e poi alla Vulgata arturiana, al poeta del Gawain e a Chaucer, che nella Hous of Fame loda Geoffrey come narratore di storie troiane: «Englyssh Gaufride [...] was besy for to bere up Troye»19, fino al King Lear W. Stubbs (ed.), Gervase of Canterbury. Chronica, Rolls Series, London 1879 J. D. Stevenson (ed.), Radulph of Coggeshall : Chronicon Anglicanum, Rolls Series, London 1875 (v. il capitolo: “Quomodo ossa regis Arturi reperta sunt”). 17 H. R. Luard (ed.), Matthei Parisiensis Chronica Majora, Rolls Series, London 1872-83 (v. il resoconto sulla Tavola Rotonda). 18 T. Hearne (ed.), Oxford 1727, p. 587 ss. (qui si narra della sepoltura delle presunte ossa di Artù, al posto di dove si trovavano quelle del re anglo-sassone Edmund Ironside, morto nel 1016). 19 G. Chaucer, The House of Fame, III 1470-1472, in L. D. Benson (gen ed.), The Riverside Chaucer, Oxford University Press 1987; G. Chaucer, Opere, a cura di P. Boitani e E. Di Rocco, Torino 2000. 15 16

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e al Cymbeline di Shakespeare, la Faerie Queene di Edmund Spenser, la History of Britain e il Comus di John Milton, il King Arthur, or the British Worthy di John Dryden, le traduzioni di Alexander Pope, l’Artegal and Elidure di Wordsworth, The Idylls of the King di Lord Tennyson, i versi di Swinburne e i romanzi di Sir Walter Scott. Tuttavia tra i contemporanei e fino al Rinascimento non mancarono i detrattori di Geoffrey come storico, che evidentemente si opponevano alla ricezione dilagante della Historia Regum Britanniae come storia, e in qualche modo confermano quanto il mito avesse preso piede nell’immaginario nazionale. Tra questi spiccano William of Malmesbury, autore delle Gesta Regum Anglorum (1127), Gerald of Wales (o Giraldus Cambrensis) che nel suo Itinerarium Cambriae20 [Journey Through Wales]21 del 1191 parla dell’opera di Geoffrey come di «fabulata historia», e William of Newburgh, considerato da qualcuno il «padre del criticismo storico»22, che nella sua Historia Rerum Anglicarum23 del 1198 (ca.) critica alcuni episodi della Historia Regum Britanniae con termini come «figmenta ridicula» e «divinationes fallacissimae», e sostiene che Geoffrey «contra fidem historicae veritatis deliravit», e «impudenter fere per omnia mentiatur». Nel XVI secolo si aggiunsero due figure fondamentali che screditarono quasi defintivamente lo status storico della Historia, senza però riuscire a fermare, ma anzi forse incoraggiando ancor più le variazioni poetiche sul tema. Si tratta dell’urbinate detto Polydore Vergil, che con la sua Historia Anglica del 1534 nega ogni verità al mito di fondazione di Geoffrey, e di William Camden, con la Britannia del 158624. Nonostante queste polemiche, Geoffrey of Monmouth resta ancora oggi il più letto tra gli storici medievali.

20 In J. S. Brewer et al. (ed.), Giraldus Cambrensis, Opera, 8 vol., Rolls Series, London 1861-1891. 21 R. C. Hoare (transl.), Journey Through Wales, Everyman’s Library N. 272. 22 E. A. Freeman, Contemporary Review, vol. XXXIII, 1878, p. 216. 23 In R. Howlett (ed.), Chronicles of the Reigns of Stephen, Henry II and Richard I, Rolls Series, London 1884-89, Vol. I e II. 24 V. Schirmer.

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III. L’AMERICA

1. AVVENTURIERI E SANTI: I PADRI FONDATORI

Nel vasto panorama letterario sorto intorno all’esplorazione e poi alla fondazione delle prime colonie inglesi sul continente nordamericano all’inizio del XVII secolo, si distinguono in maniera netta le figure quasi antitetiche di due dei suoi maggiori protagonisti, John Smith e William Bradford. Questi uomini, oggi forse poco ricordati, non solo ebbero un ruolo decisivo nella progettazione e nella fondazione materiale dei nuovi insediamenti coloniali inglesi in America, ma furono anche gli autori delle prime scritture “ordinate” volte a fissare la memoria e il mito di quell’esperienza individuale e collettiva, in resoconti dettagliati e intrisi di elementi epici e tipologici1. John Smith partecipò nel 1607 alla fondazione di Jamestown lungo il James River nella Chesapeake Bay, in Virginia, insieme a un gruppo di avventurieri (cd. “London adventurers”) in cerca di gloria e di ricchezze. L’impresa venne sponsorizzata da una grande compagnia commerciale inglese, la London Company, che nel 1606 aveva ottenuto la concessione reale dei diritti coloniali nordamericani da Giacomo (James) I d’Inghilterra. William Bradford, invece, fu tra i promotori nel 1620 della fondazione di Plymouth all’interno della baia di Cape Cod, nel New England, insieme ad un gruppo di famiglie di separatisti della Chiesa Anglicana (cd. “Pilgrims”) imbarcatosi sulla famosa Mayflower in cerca di una terra dove poter fondare una nuova 1 Cfr. E.O. Aldridge, Early American Literature, Princeton University Press 1982; A.U. Abrams, The Pilgrims and Pocahontas. Rival Myths of American Origin, Westview Press, Boulder, Colorado, 1999.

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I primi viaggi dei “London Adventurers” (1607) e dei “Pilgrims” (1620)

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chiesa cristiana, cioè letteralmente una comunità di santi (i.e. ‘credenti’) simile a quella delineata nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli. Entrambi i gruppi condividono oggi lo stesso appellativo di “forefathers” o “founding forefathers” (“avi” o “avi fondatori”) della nazione americana, che serve forse a distinguerli da quelli che tradizionalmente negli Stati Uniti vengono chiamati “Founding Fathers” (“Padri Fondatori”), ovvero i firmatari della Dichiarazione di Indipendenza del 1776. D’altra parte ritengo che ai fini del nostro discorso, che non è storico-politico, ma mito-storico, sia più che legittimo impiegare anche per i fondatori coloniali delle origini il termine di “padri fondatori” (con le iniziali minuscole), dal momento che nella lingua italiana esso assume maggiore incisività che non “avi fondatori”, e inoltre contiene il concetto non secondario presente nell’inglese ‘fore-fathers’ di ‘padre’, o meglio, di ‘padri’, al plurale, cosa che oltretutto ha il vantaggio di mettere in evidenza il carattere e lo sviluppo più marcatamente patriarcali della nascente società americana rispetto all’Inghilterra post-elisabettiana. Smith e Bradford costituiscono due figure rappresentative di questi padri fondatori, così come emerge anche dalle loro opere letterarie, che, messe a confronto, rivelano chiaramente le due anime che sono alla radice dell’America britannica e della civiltà che ne è scaturita nell’epoca moderna.

1.1. Capt. John Smith e The Generall Historie of Virginia, NewEngland and the Summer Isles with the names of the Adventurers, Planters, and Governours from their first beginning An. 1584 to this present 1624 Come già accennato, Captain John Smith non solo partecipò direttamente alla fondazione nel 1607 di Jamestown, il primo insediamento inglese riuscito in America, e in seguito esplorò tutta la parte settentrionale della Virginia britannica, da lui ribattezzata ‘New England’, ma fu anche l’ideatore e l’autore di The Generall Historie of Virginia, New-England and the Summer Isles with the names of the Adventurers, Planters, and Governours from their first beginning An. 1584 to this present 1624 (Storia generale della Virginia, del New 101

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England e delle Isole Summer con i nomi degli avventurieri, dei coloni e dei governatori, dalla loro origine nell’anno 1584 fino al presente 1624), la prima opera organica riguardante quell’impresa dalle origini e in tutti i suoi aspetti fino all’anno della pubblicazione a Londra nel 1624. Si tratta, malgrado l’attribuzione al solo Smith, che pure ne è il sistematore e ne redasse di persona una buona parte, di un’opera volutamente e apertamente scritta a più mani – tutte meticolosamente identificate alla fine di ogni capitolo – il che ci fa notare sin d’ora l’anima corale tipica del mito di fondazione americano, che ritroveremo anche in Bradford. In una delle dediche al libro Smith si presenta anzi non come un uomo di lettere, ma come un soldato che ha prestato la sua «rude military hand» («rude mano militare»)2 alla chiara ed essenziale illustrazione delle gesta del suo esercito, paragonandosi in questo perfino a Giulio Cesare: «Where shall we looke to finde a Julius Cæsar, whose achievements shine as cleare in his owne Commentaries, as they did in the field?» («Dove dobbiamo volgere lo sguardo per trovare un Giulio Cesare, le cui imprese brillano tanto chiaramente nei suoi Commentari, quanto sul campo di battaglia?»)3. In effetti John Smith aveva avviato la sua carriera da soldato e da avventuriero, ma anche da letterato, sin da giovanissimo4. Nato in un piccolo borgo del Lincolnshire nel 1580, aveva sentito l’eco durante tutta la sua infanzia e giovinezza delle grandi imprese di uomini celebratissimi in Inghilterra – in realtà dei mezzi pirati – come Sir Walter Raleigh e Sir Francis Drake. Proprio in quegli anni veniva oltretutto pubblicato per la prima volta il volume di Richard Hakluyt che fece epoca, The Principal Navigations, Voyages, Traffiques and Discoveries of Captain John Smith, The Generall Historie of Virginia, New-England and the Summer Isles with the names of the Adventurers, Planters, and Governours from their first beginning An. 1584 to this present 1624, in Writings with other Narratives of Roanoke, Jamestown, and the First English Settlement of America, The Library of America, New York 2007, p. 203. L’unica edizione italiana esistente della Generall Historie è quella comprendente il solo III libro nella traduzione di M. Pustianaz e curata da F. Marenco nel volume Nuovo Mondo. Gli Inglesi, Torino 1990, pp. 368-465. 3 Smith, p. 203. 4 P. L. Barbour, The Three Worlds of Captain John Smith, London 1964. 2

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the English Nation (Le principali navigazioni, i viaggi, i traffici e le scoperte della nazione inglese) (1589)5. Il padre di Smith era un ambizioso fittavolo di Lord Willoughby de Eresby ed aveva pensato bene di mandare il figlio a scuola – quella public school umanistica e laica, ideata e realizzata quasi un secolo prima da Thomas More, Erasmo da Rotterdam e John Colet, che tanti talenti fece emergere durante l’epoca dei Tudor, sebbene il suo spirito originario fosse stato ormai tradito dal continuo abuso di gravose pene corporali nei confronti degli alunni 6. Smith frequentò la scuola primaria alla Queen Elisabeth’s Grammar School di Alford, a due miglia da Willoughby, mentre per la secondaria si spostò alla King Edward VI’s Grammar School di Louth, che si trovava a dodici miglia di distanza dalla casa dei suoi genitori. A quindici anni iniziò l’apprendistato presso un ricco commerciante, Thomas Sendall, nel porto di King’s Lynn nel Norfolk. Morto suo padre e finito l’apprendistato, Smith si arruolò come soldato nella compagnia comandata dal Capitano Joseph Duxbury che combatteva contro gli Spagnoli nei Paesi Bassi. Dopo un anno, nel 1599, tornò a casa nel Lincolnshire, dove Lord Willoughby lo incaricò di accompagnare suo figlio Peregrine Bertie per un tour della Francia. Durante il viaggio i due si separarono e Smith proseguì per la Scozia subendo prima un naufragio sull’isola di Lindisfarne e poi un rifiuto per un’udienza con l’allora re di Scozia, Giacomo VI, che di lì a tre anni sarebbe diventato re d’Inghilterra con il nome di Giacomo I. Forse deluso da un senso di inadeguatezza personale, John Smith tornò nuovamente a casa e si ritirò nella campagna a esercitarsi nell’equitazione con il grande maestro italo-greco, Theodore Paleologue, ed a studiare alcuni libri, tra cui Dell’arte della guerra di Machiavelli, un dialogo ricco di insegnamenti pratici e di strategie militari ispirate dal fascino per le legioni romane dell’epoca repubblicana, e gli scritti di Marco D. and T. Hobbler, Captain John Smith: Jamestown and the Birth of the American Dream, Hoboken, NJ, 2006, pp. 7-22. 6 G. Mialaret et J. Vial (ed.), Histoire mondiale de l’éducation, Paris 1981, vol. 2 ; J.A. Hoeppner Moran, The Growth of English Schooling 1340-1548, Princeton 1985; F. Seebohm, The Oxford Reformers, London 1887; J.K. McConica, English Humanists and Reformation Politics, Oxford 1965. 5

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Aurelio, l’imperatore filosofo che nel suo Tå eºq ®aytøn (A se stesso) lasciò una fine ed intima testimonianza dello stoicismo romano. Quando si sentì nuovamente pronto per affrontare avventure e impegno militare, il ventenne Smith decise di arroularsi nell’esercito degli Asburgo che combatteva contro gli Ottomani nell’Europa sudorientale. Alla fine di questo ingaggio, e durante la traversata in mare per tornare in Francia, partecipò all’assalto di un vascello mercantile veneziano nell’Adriatico e decise allora di usare la sua parte di bottino per viaggiare in Italia. Nel 1601 trascorse la Pasqua a Roma, di cui, parecchi anni dopo, ricordò – scrivendo in terza persona, come Cesare nel De bello gallico – quasi esclusivamente il papato, e questo con un duplice senso di fascino ed di estraniazione: Then to Viterbo and many other Cities he came to Rome, where it was his chance to see Pope Clement the eight, with many Cardinalls, creepe up the holy Stayres, which they say are those our Saviour Christ went up to Pontius Pilate, where bloud falling from his head, being pricked with his crowne of thornes, the drops are marked with nailes of steele, upon them none dare goe but in that manner, saying so many Ave-Maries and Pater-nosters, as is their devotion, and to kisse the nailes of steele: [...] right against them is a Chappell, where hangs a great silver Lampe, which burneth continually, yet they say the oyle neither increaseth nor diminisheth. A little distant is the ancient Church of Saint John de Laterane, where he saw him say Masse, which commonly he doth upon some Friday once a moneth. Having saluted Father Parsons, the famous English Jesuite, and satisfied himselfe with the rarities of Rome, he went downe the River of Tiber to Civita Vechia, where he embraked himselfe to satisfie his eye with the faire Citie of Naples, and her Kingdomes nobilitie. (Poi passando per Viterbo e molte altre città arrivò a Roma, dove ebbe la fortuna di vedere il Papa Clemente VIII, insieme a molti Cardinali, arrampicarsi sulla Scala Santa, di cui dicono sia quella che il nostro Cristo Salvatore salì per recarsi da Ponzio Pilato con la testa grondante di sangue per via delle punture causate dalla corona di spine. Le gocce sono segnate da chiodi d’acciaio, che nessuno può calpestare, se non nella maniera stabilita dalle pratiche del loro culto, ossia ripetendo molti Ave Maria e Padre Nostro e baciando i chiodi d’acciaio: [...] di fronte a loro 104

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vi è una Cappella, nella quale pende una grande lampada d’argento che brucia perennemente, di cui l’olio, dicono, non aumenta né diminuisce mai. A breve distanza vi è l’antica Chiesa di San Giovanni in Laterano, dove lo vide [il papa] dire Messa, cosa che solitamente fa di un venerdì al mese. Dopo aver salutato Padre Parsons, il famoso Gesuita inglese, ed essersi appagato delle rarità di Roma, discese il Tevere fino a Civitavecchia, dove si imbarcò per deliziare i suoi occhi con la bella città di Napoli e con la nobiltà del suo regno)7.

Continuò a girare l’Italia verso nord fino ad attraversare le Alpi ed arrivare a Graz, in Austria, dove si arruolò nuovamente in un reggimento ungherese anti-turco comandato da Henry Volda. Dopo diverse battaglie, in cui dimostrò il suo valore militare, fu promosso capitano di cavalleria, da cui il titolo di “Captain”. Continuò a combattere con lo stesso reggimento in Transilvania, dove uccise tre sostenitori dei Turchi in altrettanti duelli individuali. In seguito fu ferito e fatto prigioniero nella battaglia del passo di Turnu Ros≤u. Lo condussero al mercato degli schiavi ad Axiopolis [Cernavoda¨] sul Danubio e lì fu comprato da un commerciante turco che lo spedì a Costantinopoli al servizio di una giovane donna. Questa lo mandò a sua volta da suo fratello, un pascià ottomano che si trovava nei paesi tartari sulla costa orientale del Mar Nero. Maltrattato dal padrone, John Smith lo uccise e fuggì a cavallo finché non trovò rifugio presso un presidio russo sul fiume Don. Viaggiò attraverso la Moscovia (Russia), l’odierna Ucraina, la Polonia, la Transilvania e l’Ungheria, fino a raggiungere Praga e poi Lipsia alla fine del 1603. Il 24 marzo di quell’anno Elisabetta I d’Inghilterra morì e sul trono le successe il nipote Giacomo I. A Lipsia il principe di Transilvania, Zsigmond Báthory, diede in premio a Smith 1500 ducati d’oro e uno stemma araldico raffigurante tre teste turche, dopodiché il giovane ventitreenne, ormai nobilitato dalle sue imprese, cominciò a dirigersi nuovamente verso la patria. Attraversò la Germania, la Francia e poi la Spagna, dove si unì alla ciurma di una nave corsara francese che operava sullo Stretto di 7

Smith, p. 695.

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Gibilterra, visitò il Marocco e sopravvisse ad una battaglia in mare contro due navi spagnole. Tornato in Inghilterra alla fine del 1604, John Smith cominciò a pensare di unirsi ad una delle spedizioni coloniali inglesi dirette nel Nuovo Mondo. Nel 1605 incontrò Bartholomew Gosnold, che aveva già condotto una riuscita spedizione nella Virginia settentrionale nel 1602, e suo cugino Edward Maria Wingfield, che insieme stavano promuovendo un piano per fondare una nuova colonia inglese (dopo quella fallita di Roanoke del 1584) nella Virginia del Sud. Nel 1606 Giacomo I concesse il privilegio reale dei diritti coloniali nordamericani, diritti che sotto Elisabetta I erano appartenuti a Sir Walter Raleigh8, a due delle maggiori compagnie commerciali dell’epoca: la London Company, formata da mercanti ed investitori londinesi, e la Plymouth Company, che invece riuniva i mercanti e gli investitori di Plymouth, Bristol, Exeter e di altri porti del West Country. Alla London Company fu concesso il diritto di fondare colonie tra le latitudini 34° e 41° nord: da Cape Fear, nell’odierno North Carolina, a dove oggi si trova New York City; alla Plymouth Company fu concessa invece la parte tra le latitudini 38° e 45° nord: dalla Chesapeake Bay all’odierna Bangor, nel Maine. Come si nota, vi era un accavallamento dei territori nella concessione, per cui il tratto che va dalla Chesapeake Bay (38° nord) all’odierna New York City (41° nord) era in realtà condiviso dalle due compagnie, anche se vigeva la regola per cui la fondazione di eventuali nuove colonie doveva avvenire in un raggio di almeno 100 miglia da quelle preesistenti 9. Entrambi i territori dovevano essere governati a Londra da un consiglio nominato direttamente dal re. Il 20 dicembre di quello stesso anno Smith si imbarcò insieme a Wingfield e al Capitano Christopher Newport, che era il comandante della piccola flotta, sulla Susan Constant. Insieme alla Godspeed e alla Discovery lasciarono i Blackwall Docks nel porto di 8

E. Edwards, The Life of Sir Walter Raleigh and His Letters, 2 voll. London

1868. 9 Vedi S. Sarson, British America 1500-1800. Creating Colonies, Imagining an Empire, London 2005, pp. 49-50 .

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Londra diretti in Virginia con a bordo un totale, tra coloni e marinai, di 144 persone. La storia della vita di John Smith appare fin qui certamente sorprendente, e forse qualcosa in essa è stato inventato o esagerato da lui stesso, che è la nostra pressoché unica fonte per quanto riguarda il periodo precedente il viaggio in America. Egli scrisse infatti assai più di una sola opera, e non tutte ruotano intorno all’esperienza americana, come l’autobiografia The True Travels, Adventures, and Observations of Captaine John Smith, in Europe, Asia, Affrica, and America, from Anno Domini 1593. to 1629 (I veri viaggi, le avventure e le osservazioni del Capitano John Smith in Europa, Asia, Africa e America, dall’Anno Domini 1593 al 1629), che naturalmente narra anche dei viaggi e delle avventure precedenti la fondazione di Jamestown in Virginia. La tendenza ad esagerare nel racconto fa di Smith comunque una figura emblematica di molti degli avventurieri che fondarono le prime colonie europee nel Nuovo Mondo. Nei loro resoconti – come nella letteratura di viaggio in genere – non mancano mai elementi epici che fanno sospettare della loro veridicità, ma nello stesso tempo li elevano ad uno status mitico. La Grammar School inglese dell’epoca forniva d’altra parte agli alunni un bagaglio culturale incentrato proprio sugli auctores latini del periodo aureo, primo fra tutti il Virgilio del mito di fondazione di Roma sancito nell’Eneide 10. Durante la traversata dell’Atlantico Smith venne arrestato e imprigionato a bordo della nave, perché sospettato di tramare un complotto per uccidere i capi della spedizione e «make himselfe King» («nominarsi egli stesso re»)11. Riuscì a sfuggire ad una condanna a morte, che in seguito venne del tutto accantonata dall’apertura – una volta giunti in Virginia ed entrati nella Chesapeake Bay alla fine di Vedi C. Martindale (ed.), Virgil and his Influence, Exeter 1984; C. Baswell, Virgil in Medieval England, Cambridge 1995; C. Kallendorf, The Virgilian Tradition, Aldershot 2007; cfr. anche Y. Syed, Vergil’s Aeneid and the Roman Self, The University of Michigan Press 2005. 11 Smith, p. 309 (trad. it., p. 372). 10

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Il ritratto del Capitano John Smith Simon van de Passe, 1617

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aprile – delle lettere sigillate della London Company, che lo contava tra i sette membri del consiglio residente designato a governare la colonia. Di lì cominciarono ad esplorare uno dei fiumi che sfociavano nella baia, fiume da loro battezzato ‘James River’ in onore del loro re Giacomo (James) I, e ad incontrare diversi gruppi indiani, con uno dei quali vi fu subito una schermaglia12. Dopo due settimane di esplorazione, il presidente designato del governo locale, Wingfield, scelse quella che chiamarono “Jamestown Island” – oggi una penisola sul fiume – come sito sul quale costruire l’insediamento inglese, e ordinò di scaricare le navi. Il Capitano Newport, insieme a Smith e ad altri, continuò ad esplorare il James River, ed eresse sul terreno una croce rivendicando il territorio da Cape Henry fino alle cascate del fiume (vicino all’odierna Richmond) all’autorità di Giacomo I d’Inghilterra. Nonostante diversi incontri anche amichevoli con gli Indiani, il 26 maggio vi fu un attacco su Jamestown di circa duecento guerrieri provenienti da diversi gruppi, che uccisero due coloni e ne ferirono dieci, ma vennero poi messi in fuga dai cannoni delle navi inglesi. Gli Inglesi decisero allora di costruire un piccolo forte triangolare a palizzata munito di cannoni su ogni punta. Per qualche tempo gli attacchi indiani continuarono. Alla fine di giugno il Capitano Newport ripartì per l’Inghilterra con due navi, lasciando a Jamestown un centinaio di coloni. Nei mesi successivi quasi metà della popolazione inglese fu uccisa dal tifo, dalla dissenteria e da altre malattie. I viveri cominciarono a scarseggiare e Smith si mise a trattare con gli Indiani offrendo rame e utensili inglesi in cambio di cibo. Ciò che accadde in quel primo anno dell’avventura di Jamestown è narrato “a caldo” in una lunga lettera che Smith scrisse ed inviò con la seconda nave di ritorno in Inghilterra, nell’aprile del 1608, ad un suo «worshipfull friend» («venerabile amico»)13 (trattasi forse di un Thomas Watson)14, il quale la fece a sua insaputa immediatamente pubblicare con il titolo di A True Relation Cfr. E. Zolla, I letterati e lo sciamano. L’Indiano nella letteratura americana dalle origini al 1988, Venezia 1989. 13 Smith, p. 1. 14 Ivi, p. 3. 12

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“James Fort” costruito nel maggio e giugno 1607 – Dipinto da Sidney King per il Colonial Historical Park

of such occurences and accidents of note, as hath hapned in Virginia, since the first planting of that Collony, which is now resident in the South part thereof, till the last returne (Una vera relazione delle occorrenze e degli accadimenti di rilievo avvenuti in Virginia, dalla prima fondazione della Colonia, che ora risiede nella parte Sud della stessa, fino all’ultimo ritorno). Si tratta di una relazione sobria e puntuale, che non nasconde la speranza dell’autore che il suo contenuto possa diffondersi in modo tale «to incourage our adventurers in England» («da incoraggiare i nostri avventurieri in Inghilterra») a seguire il suo esempio e ad andare in America, «as wel for his own discharge as for the publike good» («sia per il proprio vantaggio che per il bene pubblico»)15. L’accento è infatti tendenzialmente rassicurante e posto sopratutto sulla ricchezza e la fertilità del paesaggio, e sul raggiungimento, «by Gods assistance» («con l’aiuto di Dio»)16 e dopo qualche difficoltà iniziale, di un ac15 16

Ivi, p. 13. Ivi, p. 8.

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cordo di pace con la popolazione nativa dei «selvaggi» («savages»), in particolare con «Powhatan [...] their great Emperor» («Powhatan... il loro grande Imperatore»)17. Si sa oggi che il vero nome del capo supremo delle circa trenta tribù algonchine della Virginia costiera insediate tra i fiumi James e Potomac era Wahunsonacock e non Powhatan, che invece era il nome del villaggio vicino alle cascate del James River dove questi era nato. Dopo neppure un anno di frequentazione con la nuova gente, Smith aveva comprensibilmente frainteso qualcosa, ma il nome Powhatan rimase in uso presso gli Inglesi (e lo stesso Smith) per indicare sia l’insieme di quelle tribù indiane, che il loro capo supremo18. Nel dicembre del 1607, durante una delle sue spedizioni commerciali, Smith venne catturato dagli Indiani e i suoi due compagni massacrati. Fu condotto a Werowocomoco, presso la residenza del loro capo supremo – che anche noi per semplicità chiameremo Powhatan –, il quale lo interrogò e gli offrì di stabilirsi con la sua gente nel territorio di Capahowasicke per viverci in pace sotto la supremazia indiana. Qualche giorno dopo Smith fu da lui adottato e nominato capo powhatan con il nome di Nantaquod. Successivamente venne rimesso in libertà con la richiesta di ritornare con un cannone e una mola di pietra in cambio di cibo per i coloni. Quando Smith tornò a Jamestown all’inizio del 1608, trovò i membri del consiglio in procinto di abbandonare la colonia. Venne inoltre accusato da loro di essere responsabile della morte dei suoi due compagni, e condannato a morte. A salvarlo fu il tempestivo arrivo di Newport dall’Inghilterra, con gli approvigionamenti e circa ottanta nuovi coloni (cd. “first supply”, i.e. ‘primo approvigionamento’). Poco dopo, un incendio accidentale distrusse il forte con le sue abitazioni e lasciò gli Inglesi a patire il freddo fino alla sua ricostru-

Ivi, p. 6. Cfr. E. Cheyfitz, The Poetics of Imperialism. Translation and Colonization from “The Tempest” to “Tarzan”, Oxford University Press 1991, pp. 175-213. 17 18

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zione. A febbraio Smith tornò da Powhatan insieme al Capitano Newport e altri trenta uomini. Portarono dei vasi di rame e li barattarono con del granturco. Poi si informarono sulla presenza di miniere all’interno del paese. Ci fu anche uno scambio di adozioni: gli Inglesi cedettero agli Indiani un ragazzo di 13 anni di nome Thomas Savage, e ricevettero in cambio un giovane di nome Namontack. Questi doveva viaggiare in Inghilterra per al ritorno riferire alla sua gente di quel regno lontano. Nel frattempo i coloni si illusero di aver trovato dell’oro sulle rive del James River. In aprile il Capitano Newport ripartì con un campione di quel presunto oro e con il primo Powhatan – ma certo non il primo Indiano19 – a varcare l’oceano per visitare il vecchio mondo. Smith intanto continuò ad esplorare altri fiumi della Chesapeake Bay, tra cui il Nansemond River, rimanendo sempre più impressionato dalla fertilità di quelle regioni. Ulteriori approvigionamenti e altre due dozzine di coloni arrivarono con la nave comandata dal Capitano Francis Nelson. Fu a lui che John Smith affidò la lunga lettera per il suo «venerabile amico», che poi venne pubblicata come A True Relation (Una vera relazione), insieme ad una mappa abbozzata (poi divenuta nota come “Zúñiga map”) delle terre e dei fiumi da lui esplorati. Dopo la partenza di Nelson, Smith riprese ad esplorare la Virginia su una scialuppa insieme ad altri quattordici uomini. Il loro scopo era cercare oro e un passaggio fluviale per l’Oceano Pacifico. La spedizione durò sette settimane, e durante il viaggio di ritorno Smith venne punto gravemente da una razza velenosa. Tornati a Jamestown ripartiSin dai tempi della colonia poi perduta di Roanoke (1584), gli Inglesi avevano condotto diversi Indiani nella propria madrepatria, i quali non di rado venivano usati come attrazione pubblica, fatto testimoniato anche da Shakespeare in The Tempest del 1611 (II.ii.27-33): «Where I in England now [...] not a holiday fool there but would give a piece of silver [...]: when they will not give a doit to relieve a lame beggar, they will lay out ten to see a dead Indian». («Se lavoravo ancora in Inghilterra... la domenica qualsiasi fesso pagherebbe uno scudo d’argento per vederlo... – laggiù magari non danno un soldo bucato a un povero zoppo, ma ne cavano dieci per vedere un indiano morto». Trad. it. di A. Lombardo, in W. Shakespeare, La tempesta, Milano 1984 (200112). Cfr. anche E. Cheyfitz, The Poetics of Imperialism, pp. 175-213. 19

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rono quasi subito per una nuova spedizione nel corso della quale ebbero incontri più o meno pacifici con gruppi di Indiani irochesi, che parlavano una lingua diversa dall’algonchino che era loro ormai abbastanza noto. A settembre Smith fu eletto presidente del Councell, il consiglio residente. Decise allora di ampliare il forte e di incrementare la capacità militare dei coloni attraverso quotidiane esercitazioni da lui stesso dirette. In ottobre tornarono dall’Inghilterra, su una nave carica di nuovi approvigionamenti, il Capitano Newport insieme a Namontack e altri settanta coloni, di cui otto tra Tedeschi e Polacchi e le prime due donne («second supply», i.e. ‘secondo approvigionamento’). Newport aveva con sé le ultime direttive della London Company, la quale aveva deliberato che i coloni dovessero continuare nella ricerca dell’oro, del passaggio per il Pacifico e degli eventuali sopravissuti della colonia di Roanoke, e, infine, incoronare Powhatan come re subordinato all’autorità di Giacomo I. Ciò che il sovrano nativo aveva tentato di fare con Smith, cioè nominarlo capo indiano sotto la propria autorità “imperiale”, ora gli Inglesi tentavano di farlo con lui: una gara, insomma, per la supremazia territoriale. Smith e Newport si recarono da Powhatan e misero effettivamente in atto la cerimonia di incoronazione, cosa che però ebbe l’effetto di persuadere il capo indiano ad imporre un embargo ai coloni durante l’inverno. Frattanto Smith aveva scritto una lettera alla London Company, in cui criticava ciò che essa progettava per la colonia, e vi accludeva un manoscritto contenente una descrizione del paese e dei suoi vantaggi come terra d’insediamento. La inviò in Inghilterra insieme a Newport, che partì questa volta oltre che con Namontack, anche con un altro Powhatan di nome Machumps. Smith si recò nuovamente a trattare con Powhatan, ma questa volta si trovò di fronte alla richiesta di spade e di pistole in cambio del cibo, e all’accusa di non cercare un’economia di scambio con i Powhatans, ma l’invasione e il possesso delle loro terre. I nativi cominciavano così ad esprimere i propri sospetti, che erano quasi divenuti certezze. La discussione fu tesa e durò due giorni. Alla fine Smith riuscì a sfuggire ad un agguato da parte di due sicari powhatan, e in seguito anche a rapinare gli abitanti di un altro villaggio del loro granturco. 113

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Zúñiga map, 1608

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Tornato a Jamestown cominciò a distribuire il cibo soltanto come salario per lo svolgimento di qualche lavoro utile alla colonia e ai suoi abitanti. Intanto in Inghilterra alcuni dirigenti della London Company erano venuti a sapere, forse da Machumps, che i coloni scomparsi del primo tentativo coloniale inglese di Roanoke erano stati uccisi da guerrieri powhatan intorno all’epoca in cui erano arrivati i “London adventurers”. Questa notizia fu determinante come pretesto nella decisione della compagnia di deporre Powhatan, eliminare i suoi sacerdoti, e dare avvio all’evangelizzazione degli Indiani. Nel maggio del 1609 una flotta di otto navi con a bordo circa cinquecento coloni partì per Jamestown sotto il comando di Sir Thomas Gates. Quest’ultimo doveva assumere il governo ad interim della colonia, in attesa dell’arrivo di Sir Thomas West, barone De La Warr. Soltanto sei navi arrivarono tuttavia a destinazione, mentre la Sea Venture nella quale si trovavano Gates, Newport e Sir George Somers fece naufragio sulle isole Bermuda. Questo evento fece clamore in Inghilterra, e Shakespeare vi si ispirò per scrivere La Tempesta. Smith, che aveva saputo affrontare e trovare vari rimedi alla fame propria e dei coloni nel periodo più difficile, continuò a comandare anche i nuovi arrivati, inviandone perfino alcuni a fondare nuovi insediamenti. Ma la sua autorità cominciava ad essere messa in discussione, e, dopo essersi bruciato in maniera grave con della polvere da sparo, fu deposto dal suo incarico e tenuto sotto sorveglianza su una delle navi. Intanto i suoi rivali redigevano una lista dei suoi presunti abusi nella gestione della colonia, in modo da screditarlo di fronte alla London Company. All’inizio di ottobre Smith partì da Jamestown per non ritornarvi mai più. Qualche anno più tardi, in Inghilterra, Smith cominciò a lavorare con l’incisore William Hole e il segretario della prima spedizione, Richard Pots, ad una storia della colonia che venne pubblicata a Oxford nel 1612 da Joseph Barnes con il titolo The Proceedings of the English Colonie in Virginia (Atti della colonia inglese in Virginia) e comprendente A Map of Virginia with a Description of the Countrey (una Mappa della Virginia con la descrizione del paese). Come si desume dal titolo, si tratta qui di una serie di verbali o atti ufficiali scritti da diverse mani, che narrano fatti ed elencano dati già trovati in parte nella precedente A True Relation (1608), scritta di pugno da Smith, e che 115

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Mappa della Virginia con la descrizione del paese, 1612

saranno poi anche riutilizzati per la stesura della Generall Historie (1624). Anche qui nell’introduzione di Thomas Abbay viene sottolineata la professione militare di questi autori: «If you finde false orthography or broken English, they are small faultes in souldiers, that not being able to write learnedly, onlie strive to speake truely, and be understood without an Interpreter». («Se trovate un’ortografia sbagliata o un inglese scorretto, questi sono errori di poco conto in dei soldati, che non sapendo scrivere in modo dotto, si sforzano soltanto di parlare in maniera veritiera, e di essere compresi senza il bisogno di un interprete»)20. Sopratutto viene sottolineata la verità di ciò che è 20

Smith, p. 40.

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scritto, in quanto proveniente da più voci appartenenti a coloro che effettivamente avevano vissuto quell’esperienza in prima persona: Long hath the world longed, but to be truely satisfied what Virginia is, with the truth of those proceedings, from whence hath flowne so manie reports of worth, and yet few good effects of the charge, which hath caused suspition in many well willers that desire yet but to be truely satisfied therein. If any can resolve this doubt it is those that have lived residents in the land: not salers, or passengers, nor such mercinary contemplators, that only bedeck themselves with others plumes. This discourse is not from such, neither I am the author, for they are many, whose particular discourses are signed by their names. (Per molto tempo il mondo ha desiderato sapere che cosa sia veramente la Virginia e lo ha fatto con l’aiuto di quegli atti dai quali sono poi derivati moltissimi resoconti di valore, ma anche scarsi effetti positivi, in quanto l’avanzare di certe accuse ha cagionato sospetto in molti benintenzionati, i quali non desideravano altro che essere soddisfatti nella verità dei fatti. Se ora vi è qualcuno che può risolvere questo dubbio, si tratta proprio di coloro che hanno vissuto stabilmente nel paese: non i venditori o i passeggeri, né quei contemplatori mercenari, che non fanno che ornarsi delle piume altrui. Questo discorso non deriva da certa gente, e neppure io sono l’autore, poiché sono in molti, ed ogni singolo discorso è firmato dai loro rispettivi nomi)21.

Nel marzo del 1614, non potendo tornare a Jamestown per i suoi dissidi con la London Company, Smith ripartì per l’America, dirigendosi tuttavia nelle regioni più a nord della Virginia in cerca di oro e di rame, e a caccia di balene. Imbarcatosi insieme all’equipaggio di due piccole navi esplorò le coste e i fiumi degli odierni Maine e Massachusetts, esercitando nel contempo la pesca e il commercio di pelliccie con gli Indiani. Di nuovo in Inghilterra Smith ottenne l’appoggio finanziario di Sir Ferdinando Gorges e dei mercanti della Plymouth Company per la colonizzazione di quella regione che lui stesso ribattezzò ‘New England’ (‘Nuova Inghilterra’). Nel maggio del 21

Ivi, p. 39.

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1615 partì da Plymouth, nel Devon, per andare a fondare un insediamento nell’odierno Maine, ma il viaggio fallì a causa di una tempesta in mare. Smith non si arrese e tentò di nuovo, ma questa volta fu catturato da corsari francesi e costretto lontano dall’Inghilterra fino alla fine dell’anno. Tornato a Londra cercò il sostegno degli investitori inglesi per il suo piano di colonizzazione del New England e pubblicò nel giugno 1616 A Description of New England (Descrizione della Nuova Inghilterra), che includeva una mappa dettagliata della regione. Si tratta di una vera e propria descrizione del paese, quasi priva di elementi epici, ma piena di richiami propagandistici volti ad attirare avventurieri e coloni dall’Inghilterra. In essa Smith appare come un vero entusiasta delle possibiltà che le colonie americane offrono a chi si trova in patria senza mezzi e senza relazioni, ma anche ai gentiluomini che mirano a incrementare enormemente i propri guadagni. Smith tentò ancora una volta di partire per il New England, ma fu nuovamente impedito da venti contrari. Frattanto la Virginia cominciava a popolarsi sempre più di coloni, grazie anche al florido commercio che era sorto intorno allo sviluppo delle piantagioni di tabacco lungo il James River. Nel 1618 Smith scrisse una lunga lettera a Sir Francis Bacon per chiedere il suo patrocinio sulla colonizzazione del New England, ma non ottenne alcuna risposta. Nel 1619 la London Company concesse ad un gruppo di separatisti della Chiesa Anglicana esiliati in Olanda – poi divenuti noti come “Pilgrims” – il permesso di insediarsi nella parte settentrionale del territorio coloniale nordamericano. Nello stesso anno una nave corsara olandese arrivò a Jamestown per vendere venti Angolani precedentemente sottratti ad una nave negriera portoghese. Non è chiaro se questi vennero impiegati come manodopera a contratto, oppure come schiavi, ma in questi anni decisivi si costituisce quella che sarà la futura composizione etnica originaria dell’America britannica: inglese (con qualche altra presenza europea), indiana (o nativa) e africana. Nel 1620 i Pilgrims approdarono a Cape Cod e decisero di stabilirvi la colonia di (New) Plymouth, al di fuori del territorio in concessione alla London Company. Nello stesso anno Smith pubblicò in Inghilterra i New England Trials (Tentativi nella Nuova Inghilterra) (poi 118

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Descrizione della Nuova Inghilterra, 1616

ampliati in una seconda edizione del 1622), che sono una versione rivista della sua lettera a Francis Bacon. Tentò anche, ma senza successo, di ottenere dalla London Company una ricompensa per i suoi servizi in Virginia. Nel 1622 i Powhatans sferrarono un’attacco violentissimo contro i coloni della Virginia uccidendone più di trecento. La notizia raggiunse rapidamente Londra, dove Smith si offrì alla Compagnia per intervenire oltreoceano come comandante militare, ma questa lo rifiutò nuovamente. Durante il 1623 la situazione della Virginia peggiorò drammaticamente. Fame e malattie portarono alla morte di centinaia di coloni. Nel 1624 la concessione reale della London Com119

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pany venne revocata e la colonia ritornò alla Corona. In quell’anno Smith pubblicò The Generall Historie of Virginia, New-England and the Summer Isles (Storia generale della Virginia, del New England e delle Isole Summer), alla quale George Percy rispose, senza pubblicarlo, con “A Trewe Relacyon” (“Un resoconto veritiero”)22, una confutazione della versione smithiana degli eventi. La Generall Historie (Storia generale) del 1624 rappresenta la summa di tutte le opere sull’esplorazione e la fondazione delle prime colonie inglesi in America. Si tratta in effetti della storia più completa e più ricca di elementi epici riguardante le origini dell’America britannica. La sua “generalità” rispetto alle altre è data dal fatto che inizia dalle origini, perfino mitiche, dei viaggi oltreoceano della nazione britannica, e che incorpora tutte le voci, letterarie e non, che vi ebbero un qualche ruolo decisivo. Essa è divisa in sei libri, di cui il primo narra di tutti i viaggi di scoperta e di esplorazione degli Inglesi fino al 1605, il secondo descrive la Virginia in tutti i suoi aspetti, il terzo racconta la fondazione di Jamestown e i primi due anni di permanenza fino alla partenza di John Smith, il quarto prosegue nel racconto sugli sviluppi della colonia fino al 1624, il quinto riguarda le vicende legate alla scoperta e alla fortificazione delle isole Bermuda, dette anche “Summer” o “Somers Isles” (dal nome del naufrago Sir George Somers), il sesto narra dei viaggi di Smith nel New England e della fondazione di «New-Plimouth», il secondo insediamento permanente, dopo quello di Jamestown, realizzato dagli Inglesi in America. Con l’eccezione del terzo e del quarto libro, che sono quelli più narrativi, gli altri quattro libri, più descrittivi, sono corredati ciascuno di incisioni con disegni e mappe dettagliate (di cui alcune già viste sopra) delle colonie. Vale certamente la pena citare le prime righe dell’intera opera per comprenderne l’ambizione: «For the Stories of Arthur, Malgo, and Brandon, that say a thousand yeares agoe they were in the North of America; or the Fryer of Linn that by his blacke Art went to the North 22

Smith, p. 1093-1114.

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pole in the yeare 1360. in that I know them not. Let this suffice.» («Quanto alle storie di Artù, Malgo e Brandon, secondo cui mille anni fa approdarono nel Nord dell’America, oppure del frate Linn, che con l’aiuto della sua arte nera andò al Polo Nord nell’anno 1360, ebbene non le conosco. Basti questo»)23. Il primo “Inglese” ad aver messo piede in Nordamerica sarebbe dunque stato il mitico Artù24, figura centrale – come abbiamo visto nel II capitolo di questo libro – del mito nazionale britannico, e dopo di lui il meno noto Malgo, suo quarto successore, che, secondo Geoffrey of Monmouth, fu il conquistatore di alcune isole e penisole dell’oceano: «Cui successit Malgo, omnium fere ducum Britanniae pulcherrimus, multorum tirannorum depulsor, robustus armis, largior ceteris, et ultra modum probitate praeclarus nisi sodomitana peste volutatus sese Deo invisum exhibuisset. Hic etiam totam insulam obtinuit, et sex comprovintiales occeani insulas, Hiberniam videlicet atque Islandiam, Godlandiam, Orcades, Norvegiam, Daciam, adiecit dirissimis proeliis potestati suae.» («Gli succedette Malgo, uno degli uomini più belli di Britannia. Questi si liberò di vari nobili che governavano tirannicamente le loro provincie. Fu un ottimo guerriero e più generoso dei suoi predecessori, e si conquistò una vasta fama di valore, ma si rese odioso a Dio perché aveva il vizio della sodomia. Malgo riuscì a conquistare il potere su tutta l’isola e, con una serie di accanite battaglie, assoggettò anche le sei vicine isole dell’Oceano, e cioè l’Irlanda, l’Islanda, Gotland, le Orcadi, la Norvegia e la Danimarca»)25. Anche Artù aveva precedentemente conquistato quelle isole, e Geoffrey parla di una sua fama mondiale diffusa fin nei più lontani recessi d’oltremare, facendosi perfino profeta del futuro dominio britannico in Nordamerica: Denique, fama largitatis atque probitatis illius per extremos mundi cardines divulgata, reges transmarinorum regnorum nimius invadebat timor ne inquietatione eius oppressi nationes sibi subditas amitterent. Ivi, p. 227. Cfr. J.R. Goodman, Chivalry and Exploration, pp. 168-191. 25 The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I. Bern, Burgerbibliothek, MS. 568, ed. by N. Wright, Cambridge 1985, § 183 (Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia, a cura di G. Agrati e M.L. Magini, p. 243). 23 24

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Frontespizio della “Generall Historie” di John Smith, 1624 122

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(In tal modo la fama della generosità e del valore del re raggiunse anche i paesi più lontani del mondo e i sovrani dei regni d’oltremare tremavano per il terrore di un assalto o di un’invasione, poiché sapevano che Artù li avrebbe costretti a perdere la sovranità sui propri sudditi)26.

John Smith chiarisce subito di non sapere – e quasi sembra non voglia sapere – nulla di queste storie, che pure menziona, riprendendo una delle sue fonti principali per il primo libro della Generall Historie, ovvero le Principal Navigations (1589) di Hakluyt; ma a noi che veniamo direttamente da quelle letture, pare naturale domandarci se l’avventuriero inglese del ’600, seguendo Hakluyt, non volesse legare la sua Generall Historie alla Historia di Geoffrey, ovvero al mito nazionale inglese, e con questo affermare che il popolo britannico aveva già toccato in tempi antichi l’America, e insinuando forse che essa poteva anzi perfino corrispondere a quella misteriosa isola di Avalon sulla quale Artù si ritirò per curare le sue ferite. Dopotutto Smith prosegue subito dopo confermando l’idea secondo cui alcuni Britanni si erano già trasferiti in una «terra sconosciuta» e «senza abitanti», in un «Paese nuovo», assai prima della “scoperta” del continente americano, in questo caso nel 1170, quando Madock, uno dei figli dell’allora principe di Galles, visto il conflitto che divideva i suoi due fratelli riguardo a questioni ereditarie, decise di partire con alcune navi in cerca di avventura, trovò «paesi piacevoli e fertili», e vi si trasferì con i suoi connazionali desiderosi di vivere in pace e in tranquillità: The Chronicles of Wales report, that Madock, sonne to Owen Guineth, Prince of Wales seeing his two brethren at debate who should inherit, prepared certaine Ships, with men and munition, and left his Country to seeke adventures by Sea: leaving Ireland North he sayled west till he came to a Land unknowne. Returning home and relating what pleasant and fruitfull Countries he had seene without inhabitants, and for what barren ground his brethren and kindred did murther one another, he provided a number of Ships, and got with him such men and women as were desirous to live in quietnesse, that arrived with him in this new Land in the yeare 1170: Left many of his people there and returned for more. But where this place was no History can show. 26

Historia Regum Britanniae, § 154 (trad. it., p. 205).

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(Le Cronache del Galles riportano che Madock, figlio di Owen Guineth, Principe di Galles, vedendo i suoi due fratelli dibattere su chi di loro dovesse ereditare, preparò alcune navi con uomini e approvigionamenti e lasciò il suo paese alla ricerca di avventure per mare: lasciando l’Irlanda del Nord navigò verso ovest finché non arrivò in una terra sconosciuta. Tornando a casa e raccontando che paesi piacevoli e fertili aveva visto e senza abitanti, e considerando per quale suolo arido i suoi fratelli e i suoi parenti si ammazzavano l’un l’altro, procurò un certo numero di navi e prese con sé quegli uomini e quelle donne che erano desiderosi di vivere in tranquillità, i quali arrivarono con lui in questo Paese nuovo nell’anno 1170: vi lasciò molta della sua gente e tornò a casa per prenderne altra. Ma dove si trovasse questo posto nessuna Storia può rivelarlo)27.

Questi coloni britannici, e più precisamente gallesi, del XII secolo potrebbero aver raggiunto il Nuovo Mondo, che già qui viene celebrato come mondo migliore rispetto al «barren ground» («suolo arido») della madrepatria, causa di folle violenza. Ma questi brevi accenni a tempi remoti servono ovviamente anche a sancire il primato coloniale degli Inglesi sugli Spagnoli in Nordamerica28, tanto che Smith, seguendo la tradizione hakluytiana, ed enfatizzando molto un certo dato storico, attribuisce ad un puro azzardo perfino l’impresa di Cristoforo Colombo per conto della Corona spagnola: The Spanyards say Hanno a Prince of Carthage was the first: and the next Christopher Cullumbus, a Genoesian, whom they sent to discover those unknowne parts, 1492. But we finde by Records, Cullumbus offered his service in the yeare 1488. to King Henry the seaventh; and by accident undertooke it for the Spanyards. (Gli Spagnoli dicono che Hanno, un principe di Cartagine, fu il primo; e il successivo Cristoforo Colombo, un Genovese, che loro avevano inviato a scoprire quelle parti sconosciute nel 1492. Ma in base ad alcuni documenti si è rivelato che Colombo aveva offerto il suo servizio al re Enrico VII nell’anno 1488, e che solo per un caso intraprese il viaggio per conto degli Spagnoli)29. Smith, p. 227. Cfr. J.R. Goodman, Chivalry and Exploration, pp. 168-191. 29 Smith, p. 227. 27 28

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Anzi, visto che le cose andarono in questo modo, tanto vale specificare che in realtà non fu l’Italiano Colombo a scoprire il continente, ma il naturalizzato Inglese (di origine veneziana) John Cabot (Giovanni Caboto): In the Interim King Henry gave a Commission to John Cabot, and his three sonnes, Sebastian, Lewis, and Santius. John and Sebastian well provided, setting sayle, ranged a great part of this unknowne world, in the yeare 1497. For though Cullumbus had found certaine Iles, it was 1498. ere he saw the Continent, which was a yeare after Cabot. (Nel frattempo il re Enrico conferì un mandato a Giovanni Caboto e ai suoi tre figli, Sebastiano, Luigi e Santo. Giovanni e Sebastiano salparono le vele ben muniti e vagarono per gran parte di questo mondo sconosciuto nell’anno 1497. Infatti benché Colombo avesse scoperto certe isole, fu soltanto nel 1498 che vide il Continente, un anno dopo Caboto)30.

Anche il nome ‘America’, dal navigatore italiano Amerigo Vespucci, sembra essere considerato quasi un sopruso nei confronti di Sebastiano Caboto: Now Americus came a long time after, though the whole Continent to this day is called America after his name, yet Sebastian Cabot discovered much more then them all, for he sayled to about forty degrees Southward to the lyne, and to sixty-seaven towards the North: for which King Henry the eight Knighted him and made him grand Pilate of England. (Ora Amerigo venne molto tempo dopo, anche se tutto il Continente fino ad oggi è chiamato America in base al suo nome, ma fu Sebastiano Caboto a scoprirne molto più di tutti gli altri, poiché navigò fino a quaranta gradi a Sud dell’Equatore ed a sessantasette a Nord: impresa per la quale il re Enrico VIII lo fece cavaliere e lo nominò Gran Pilato d’Inghilterra)31.

Notiamo che l’impiego in senso positivo dell’antonomasia ‘Pilato’ per indicare il prefetto o il procuratore della provincia di un impero è tipico del senso di esaltazione della romanitas repubblicana e imperiale 30 31

Ivi, pp. 227-8. Ivi, p. 228.

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coltivato nella scuola latina d’Inghilterra sin dal Medioevo. Se confrontiamo altre citazioni letterarie di Pilato nell’orizzonte culturale cristiano anche inglese – dai Vangeli a Dante e da Bacon a Bulgakov – notiamo subito la differenza rispetto ad un autore militante e nazionalista come John Smith, che pure non è uno scettico ed appartiene a pieno titolo alla cultura cristiana. Noteremo anzi come il testo sia pieno di richiami alla provvidenza divina e alla sua sicura guida – nonostante tutte le reali difficoltà – nella fondazione di Jamestown. Vi troviamo continuamente citazioni di proverbi inglesi derivati da fonti classiche e cristiane tratti dall’opera del vescovo anglicano Martin Fotherby, Atheomastix; clearing foure truthes, against atheists and infidels (Mastice per Atei: chiarisce quattro verità, contro atei e infedeli) (1622). La Generall Historie vuole infatti anche essere un antidoto all’ateismo, e interpretare la colonizzazione inglese dell’America come frutto di un disegno divino. Ciò che può apparire come una contraddizione, è in realtà un tratto distintivo di quella cultura cristiana, diffusa peraltro, con sfumature diverse, anche in altri parti d’Europa. Accanto alla fede religiosa è infatti altrettanto forte in John Smith la concezione stoica della vita come capacità di fermezza e di resistenza di fronte alle asperità, nonché la presenza (forse anche inconscia) di certe immagini epiche assimilate ai tempi della scuola, provenienti in particolare dal VII libro dell’Eneide – quando i Troiani in un momento di straordinario incanto e poesia giungono finalmente alle foci del Tevere – di cui vedremo alcuni momenti speculari nella Generall Historie. Con la menzione di Artù e degli antichi Britanni il fondatore di Jamestown vuole dunque affermare il primato degli Inglesi sul Nordamerica e creare anche un senso di immutabile e quasi necessaria affinità e continuità politica tra le due terre, simile a quella fra i Troiani discendenti dell’antico Dardano tirreno e l’Italia (v. cap. IV). Egli si presenta come forza trainante di questa grande impresa che unisce le due sponde dell’Atlantico, come colui che fonda effettivamente la prima «towne» dell’Impero Britannico in America, il primo oppidum di una civiltà destinata a crescere e a durare nel tempo. Ma non intende d’altra parte negare i meriti di chi prima di lui – primo fra tutti Sir Walter Raleigh – si impegnò nel tentativo di costruire insediamenti stabili in Virginia. Gran parte del primo libro della Generall Hi126

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storie è dedicato proprio al resoconto dettagliato delle cinque spedizioni inglesi, avvenute tra il 1576 e il 1605, che precedettero la sua, ma fallirono da un punto di vista fondativo. Il secondo libro, di natura prevalentemente descrittiva, si intitola «The Sixt Voyage» («Il sesto viaggio»), quasi a voler sottolineare che tra i viaggi e i tentativi di fondazione fu l’unico a riuscire e a dare i suoi frutti: «our English Colonies, Whom God increase and preserve: Discovered and Described by Captaine John Smith, sometimes Governour of the Countrey» («le nostre colonie inglesi, che Dio incrementa e preserva: scoperte e descritte dal Capitano John Smith, già Governatore del Paese»)32. Per quanto riguarda invece il vero e proprio racconto o mito della fondazione materiale e spirituale dell’America britannica, dobbiamo rivolgerci al terzo libro della Generall Historie, e in particolare ai primi due capitoli, che – oltre a vedere la firma di Smith tra gli autori diretti – sono quelli che hanno avuto maggiore risonanza nell’immaginario europeo e americano. Il primo capitolo del terzo libro della Generall Historie inizia con un appello al lettore dell’epoca, affinché comprenda il divario che evidentemente sussisteva tra la percezione dell’estrema facilità di colonizzare un paese bello e pacifico come la Virginia, «to the satisfaction of the adventurers, and the eternizing of the memory of those that effected it» («per la soddisfazione degli avventurieri e ad eterna memoria di chi per primo ne realizzò la conquista»)33, e l’opinione al tempo stesso diffusa nel mondo, che quel tentativo da parte degli Inglesi fosse stato un fallimento. La sua lettura doveva quindi servire a colmare quello scarto e a spiegare come «la faccenda» («the businesse») 34 venne realmente svolta nei tempi e con gli sforzi necessari: «how it came to passe there was no better speed and successe in those proceedings» («capire perché non si ebbe maggiore rapidità e fortuna nella nostra impresa»)35. Un appello dunque a voler considerare la veIvi, p. 265. Ivi, p. 306 (trad. it. di M. Pustianaz – con qualche mia modifica a favore di una maggiore letteralità – in F. Marenco, Nuovo Mondo. Gli Inglesi. 1496-1640, Torino 1990, p. 368). 34 Ivi. 35 Ivi. 32 33

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rità degli eventi, lasciandosi trascinare dentro la storia dalla voce di quelli che la vissero in prima persona. Molti fatti narrati in questo III libro sono in parte una ripetizione di A True Relation del 1608 e di The Proceedings of the English Colonie in Virginia del 1612, ma vi si trovano anche fatti diversi e accenti nuovi. Il racconto prende le mosse dal momento in cui il Capitano «Bartholomew Gosnoll», uno dei primi promotori dell’impresa, cominciò a sollecitare amici ed investitori, finché nel 1606 non trovò entrambi, tra cui anche il «Gentleman» e «Captaine» John Smith. Partirono da Blackwall sul Tamigi londinese con tre imbarcazioni, di cui una grande, una media e una scialuppa da venti barili, portando con sé gli ordini della compagnia commerciale concessionaria dei diritti reali sulla colonia, la London Company, da tenere sigillati fino all’arrivo in Virginia. A causa dei venti sfavorevoli rimasero tuttavia a largo dell’Inghilterra per sei settimane. Il loro pastore, Master Hunt, si ammalò al punto che pochi avrebbero scommesso su una sua guarigione. Ma la motivazione a prendere parte in quel viaggio al servizio di Dio fu talmente forte in lui – «all this could never force from him so much as a seeming desire to leave the busines, but preferred the service of God, in so good a voyage» («nulla lo indusse alla benché minima preghiera di abbandonare l’impresa... preferì invece rimanere al servizio di Dio in questo viaggio provvidenziale»)36 – da permettergli di resistere perfino all’aperta ostilità della maggioranza dell’equipaggio, formata da uomini senza Dio, «little better then Atheists, of the greatest ranke amongst us» («poco più che atei, della schiera più numerosa tra noi»)37. Vediamo così sin dall’inizio dell’impresa il ruolo determinante dell’iniziativa privata di pochi gentiluomini coraggiosi, il benestare della Corona pronta a delegare e aperta al nuovo, e la endurance dell’uomo di Dio che resiste a tutto grazie alla sua fede. Vi sono poi i «labourers» dell’equipaggio, visti come gente malvagia e difficile da gestire, ma sopratutto da tenere sotto il controllo dell’autorità. Ci troviamo in un epoca in cui la società europea è ancora nettamente divisa 36 37

Ivi, p. 307 (trad. it., p. 369). Ivi.

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per ceti, pur con una certa mobilità per merito, in genere cavalleresco, come dimostra proprio il caso di John Smith38. La sua ascesa sociale non fu d’altra parte mai pienamente accettata da gran parte degli altri gentiluomini, sia quelli che parteciparono alla spedizione, che quelli della London Company, i quali lo percepirono presto come un personaggio arrogante e fin troppo intraprendente. Fu così che durante il viaggio, dopo aver passato le Canarie, egli venne fatto prigioniero sulla sua nave a causa di alcune accuse infamanti, secondo cui avrebbe trascinato alcuni compagni nella trama di un complotto volto a rovesciare il governo della spedizione: Now Captaine Smith, who all this time from their departure from the Canaries was restrained as a prisoner upon the scandalous suggestions of some of the chiefe (envying his repute) who fained he intended to usurpe the government, murther the Councell, and make himselfe King [...]. [They would] make him so odious to the world, as to touch his life, or utterly overthrow his reputation. [...] Many were the mischiefes that daily sprung from their ignorant (yet ambitious) spirits. (In quanto al capitano Smith, sin da quando erano partiti dalle Canarie era rimasto confinato come prigioniero per le scandalose accuse di alcuni capi, i quali invidiosi della sua fama sostenevano spudoratamente che egli intendeva usurpare il governo, assassinare i membri del Consiglio e nominarsi egli stesso re [...] rendendolo talmente odioso al mondo da porre in pericolo la sua vita e rovinare del tutto la sua reputazione. [...] Molti furono i misfatti provocati ogni giorno dai loro animi ignoranti ma ambiziosi)39.

Dopo l’arresto di Smith a bordo della Susan Constant, giunsero nelle Indie Occidentali dove fecero diverse tappe fino a spiegare le vele in direzione della Virginia. Quando ebbero secondo i loro calcoli superato di tre giorni l’arrivo previsto senza avvistare terra, il Capitano «Ratliffe», che comandava la scialuppa, esternò la volontà di abbandonare la ricerca e tornare in Inghilterra. Si tratta di uno dei tanti 38 39

Cfr. J.R. Goodman, Chivalry and Exploration, pp. 192-218. Smith, p. 309 (trad. it., p. 372).

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esempi in cui al sopraggiungere di momenti di scoraggiamento segue l’immancabile superamento della difficoltà, fondato sulla resistenza dei singoli attori e sull’aiuto della provvidenza divina nel portare a termine l’azione giusta. Accadde infatti che una tempesta notturna li spinse inaspettatamente nel porto desiderato presso l’estremità meridionale della Chesapeake Bay. In onore del loro principe, chiamarono quel capo marino “Cape Henry”: But God the guider of all good actions, forcing them by an extreame storme to hull all night, did drive them by his providence to their desired Port, beyond all their expectations, for never any of them had seene the coast. (Ma Dio, guida di ogni buona azione, costringendoli alla deriva con una violenta tempesta che durò una nottata intera, li condusse provvidenzialmente al porto agognato, al di là di ogni loro speranza, giacché nessuno di loro aveva mai visto prima quella costa)40.

Il motivo della tempesta provvidenziale è già presente nell’epica classica e pagana, pensiamo all’ira di Nettuno nei confronti di Odisseo, o all’azione di Eolo invocato da Giunone per condurre Enea a Cartagine. Ma il paragone più affine al racconto di Smith va a mio avviso cercato nel mito di fondazione del popolo romano, ed è forse quello dell’aiuto di Nettuno nel portare le navi troiane per la prima volta direttamente alla foce del Tevere: Adspirant aurae in noctem nec candida cursus Luna negat, splendet tremulo sub limine pontus. [...] Quae ne monstra pii paterentur talia Troes Delati in portus neu litora dira subirent, Neptunus ventus inplevit vela secundis Atque fugam dedit et praeter vada fervida vexit. Iamque rubescebat radiis mare et aethere ab alto Aurora in roseis fulgebat lutea bigis, 40

Ivi, p. 307 (trad. it., p. 370).

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Cum venti posuere omnisque repente resedit Flatus et in lento luctantur marmore tonsae. Atque hic Aeneas ingentem ex aequore lucum Prospicit. Hunc inter fluvio Tiberinus amoeno, Verticibus rapidis et multa flavos harena, In mare prorumpit. Variae circumque superaque Adsuetae ripis volucres et fluminis alveo Aethera mulcebant cantu locuque volabant. Flectere iter sociis terraeque advertere proras Imperat et laetus fluvio succedit opaco. (Spirano brezze nella notte e la candida luna asseconda il corso, i flutti risplendono sotto una tremula luce. [...] Perché i pii troiani non soffrissero questi prodigi, sospinti nel porto, e non approdassero alle terribili sponde, Nettuno gonfiò le vele di favorevoli venti, e concesse la fuga e li condusse oltre le secche schiumanti. Già il mare rosseggiava di raggi, e dall’alto etere l’Aurora dorata rifulgeva sulla rosea biga: quando i venti posarono e ad un tratto ogni alito cadde, e i remi si affaticano nel lento marmo delle acque. Allora Enea dal mare scorge lontano un ampio bosco. Nel mezzo il Tevere con amena corrente, con rapidi vortici e biondo di molta sabbia, sbocca nel mare. Variegati, intorno ed in alto, uccelli avvezzi alle rive e all’alveo del fiume carezzavano l’aria con il canto, e volavano per il bosco. Comanda ai compagni di piegare la rotta e di volgere le prue a terra, e lieto s’addentra nell’ombrosa corrente del fiume)41.

A Cape Henry gli Inglesi scesero a terra, e fecero il loro primo incontro con cinque selvaggi («Salvages»)42, i quali ferirono due di loro 41 Virgilio, Eneide, VII 8-36, a cura di E. Paratore, trad. di L. Canali, 6 vol., Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1978-1983. 42 Smith, p. 307.

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in maniera grave. Durante la notte gli avventurieri aprirono gli ordini sigillati della London Company, in cui venivano nominati i sette membri del consiglio direttivo della colonia («the Councell»)43: «Bartholomew Gosnoll, John Smith, Edward Wingfield, Christopher Newport, John Ratliffe, John Martin, e George Kendall»44. Questi membri designati dovevano eleggere in seno al consiglio un presidente, che avrebbe dovuto governare collegialmente per un periodo annuale: «to choose a President amongst them for a yeare, who with the Councell should governe» («[avevano l’incarico di] scegliere un presidente che avrebbe governato con loro per un anno»)45. È questa, forse, se si esclude la colonia perduta di Roanoke, la prima rudimentale costituzione scritta dell’America britannica: «Matters of moment were to be examined by a Jury, but determined by the major part of the Councell, in which the President had two voyces» («Le questioni di più grave importanza dovevano essere esaminate da un giurì, ma deliberate dal voto maggioritario del Consiglio, in cui il presidente godeva di due voti»)46. Fino al 13 maggio i nuovi coloni cercarono un posto dove insediarsi, e infine scelsero un’isola sul fiume Powhatan (da loro chiamato “James River”), e la chiamarono «James Towne, in honour of the Kings most excellent Majestie» («Città di Giacomo, in onore di sua eccellentissima maestà il re»)47. Poi il consiglio fece un giuramento solenne (ad esclusione di Smith, che formalmente si trovava ancora agli arresti) ed elesse come suo primo presidente il Master Edward Wingfield. Tutti si misero al lavoro: il consiglio progettò un forte, mentre gli altri uomini tagliarono alberi per poter piantare le tende, fabbricarono doghe per riparare le navi, prepararono orti e reti per pescare, ecc. Tra loro non vi era neppure una donna. Intanto gli Indiani facevano loro visita in maniera del tutto pacifica: «The Salvages often visited us kindly»48. Ivi, p. 308 (trad. it., p. 370). Ivi. 45 Ivi. 46 Ivi. 47 Ivi, p. 268. 48 Ivi, p. 308. 43 44

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I Capitani Newport e Smith furono mandati ad esplorare il fiume a monte insieme ad altri venti uomini. In sei giorni arrivarono presso un villaggio composto di circa dodici case e piacevolmente situato su una collina circondata da campi di granturco e tre fertili isolette fluviali. A meno di un miglio di distanza la corrente contraria del fiume aumentava fino a trasformarsi in un torrente non navigabile interrotto da alcune splendide cascate. Il nome del fiume, della «città», dei suoi abitanti e del suo «principe» era Powhatan. Questo almeno fu ciò che gli esploratori, non pratici della lingua indigena, riuscirono a capire49. La loro accoglienza fu assai benevola: «the people in all parts kindly intreated them» («in ogni luogo la gente li accolse con cortesia»)50. Vediamo qui la rappresentazione smithiana del Nuovo Mondo come una realtà fatta di poca gente aborigena e pacifica, abitante sulle colline ai bordi di un fiume ameno, simile a quella del Lazio arcaico, con la città di Laurento e il suo re Latino, da Virgilio evocata nell’Eneide : Nunc age, qui reges, Erato, quae tempora rerum, Quis Latio antiquo fuerit status, advena classem Cum primum Ausoniis exercitus appulit oris, Expediam at primae revocabo exordia pugnae. [...] Rex arva Latinus et urbes Iam senior longa placidas in pace regebat. (Ma ora avanti, Erato, esporrò quali re, quale età e condizione ebbe l’antico Lazio, quando un esercito straniero per la prima volta approdò con la flotta alle rive ausonie, e rievocherò le origini del conflitto. [...] Re Latino, vegliardo, reggeva i campi e le città in una lunga pace tranquilla)51.

Cfr. E. Cheyfitz, The Poetics of Imperialism. Smith, p. 308 (trad. it., p. 371). 51 Virgilio, Eneide, VII 37-46. 49 50

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Qui tuttavia lo scenario cambia subito, poiché quando Smith, Newport e gli altri uomini della spedizione fecero ritorno a Jamestown, trovarono i loro compagni scampati solo grazie ai cannoni delle navi ad un attacco da parte dei «selvaggi», i quali erano comunque riusciti a ferire diciassette di loro e a uccidere un ragazzo, circostanza che, senza il provvidenziale intervento di Dio, avrebbe fatto rischiare ancora una volta il fallimento dell’intera spedizione: «but had God not blessed the discoverers otherwise then those at the Fort, there had then beene an end of that plantation» («se Iddio non avesse riservato agli esploratori miglior sorte che agli uomini rimasti al forte, quella sarebbe stata la fine di tutta la colonia»)52. Il presidente diede allora ordine di cintare il forte con una palizzata, montare l’artiglieria ed armare e far esercitare i suoi uomini per difendersi contro gli assalti e le imboscate dei selvaggi. Questo lavoro durò sei settimane e non fu facile. L’impegno di Smith indusse il consiglio a liberarlo dalle precedenti accuse e ad ammetterlo finalmente nel suo cerchio. Seguì la partenza del Capitano Newport per l’Inghilterra, dove avrebbe fatto rapporto alla London Company e disposto un approvvigionamento. Gli autori sottolineano qui nuovamente, chiedendo al lettore di soffermarvisi, la particolare capacità di resistenza di quei coloni nel fondare la loro città: What toyle we had, with so small a power to guard our workemen adayes, watch all night, resist our enemies, and effect our businesse, to relade the ships, cut downe trees, and prepare the ground to plant our Corne, etc., I referre to the Readers consideration. (Lascio immaginare ai lettori quanta fatica costasse, con così poche forze, difendere di giorno i nostri operai, la notte montar guardia, respingere i nemici e al tempo stesso condurre i nostri affari, caricare le navi, tagliare alberi, preparare il terreno per la semina del grano, e via dicendo)53.

52 53

Smith, p. 308 (trad. it., p. 371). Ivi, p. 309 (trad. it., p. 371).

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Menzionare la resistenza alla fatica e al pericolo nell’ambito di una missione fatale evoca ancora una volta l’anima stoica dell’Eneide, specialmente nella conclusione del proemio, dove Virgilio commenta: «Tantae molis erat Romanam condere gentem» («Tanto costava fondare la gente romana»)54. Dopo la partenza di Newport in giugno e prima del suo ritorno in ottobre con gli approvvigionamenti necessari, il centinaio di coloni rimasti a Jamestown ebbe infatti a soffrire non poco e più di una volta fu tentato di abbandonare il progetto, ma riuscì a resistere grazie alla determinazione di Smith, che lottò con tutte le forze pur di non soccombere alle difficoltà. Nel giro di dieci giorni cominciarono ad indebolirsi e ad ammalarsi causa la scarsità di cibo55, che molti anni dopo ricordavano con ironia: «Had we beene as free from all sinnes as gluttony, and drunkennesse, we might have been canonized for Saints» («Fossimo stati liberi da peccati quali la golosità o l’ubriachezza, avremmo potuto essere tutti canonizzati santi»)56. Il loro presidente si mostrò egoista ed ingiusto, tenendo soltanto per sé le provviste più sostanziose, lasciando gli altri nell’indigenza: «we might truely call it rather so much bran then corne, our drinke was water, our lodgings Castles in the ayre» («poteva dirsi più crusca che grano; nostra bevanda era l’acqua, e nostro alloggio un castello in aria»)57. La metà di loro, tra cui anche Bartholomew Gosnoll, che era stato il promotore dell’impresa, morì in pochi mesi. Il presidente Wingfield fu deposto e al suo posto venne eletto John Ratcliffe. I circa cinquanta sopravissuti se la cavarono anche grazie al favorevole intervento del medico chirurgo («Chirurgian generall»)58, Master Thomas Wotton. Ancora una volta, nel momento di maggiore sconforto, interviene la provvidenza Virgilio, Eneide, I 33. R. Appelbaum, “Hunger in Early Virginia: Indians and English Facing Off over Excess, Want, and Need”, in R. Appelbaum & J. Wood Sweet (eds.), Envisioning an English Empire. Jamestown and the Making of the North Atlantic World, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2005. 56 Smith, pp. 312-313 (trad. it., p. 373). 57 Ivi, p. 313 (trad. it., p. 373). 58 Ivi. 54 55

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divina, questa volta nell’animare la pietas dei selvaggi a confortare i coloni con abbondante cibo: But now was all our provision spent, the Sturgeon gone, all helps abandoned, each houre expecting the fury of the Salvages; when God the patron of all good indevours, in that desperate extremitie so changed the hearts of the Salvages, that they brought such plenty of their fruits, and provision, as no man wanted. (Ora però tutte le nostre provviste erano state consumate, gli storioni esauriti, ogni altro aiuto venuto meno; di ora in ora ci attendevamo la furia dei selvaggi. Ma ecco che Iddio, protettore di ogni virtuosa impresa, in quell’ora disperata tanto mutò il cuore dei selvaggi che li indusse a portare frutti e viveri in abbondanza per tutti)59.

Poi, quasi per quietare in cuor suo il ricordo delle polemiche sorte tra i coloni sull’opportunità e l’organizzazione di quel viaggio, Smith riflette sulla difficoltà di tutte le grandi imprese, come quella di fondare una nuova repubblica («Common-wealth») in una terra remota e selvaggia: Such actions have ever since the worlds beginning beene subject to such accidents, and every thing of worth is found full of difficulties, but nothing so difficult as to establish a Common-wealth so farre remote from men and meanes, and where mens mindes are so untoward as neither doe well themselves, nor suffer others. (Dal principio del mondo le azioni come queste sono state soggette a simili imprevisti e ogni impresa fruttuosa costa mille difficoltà; ma non v’è nulla di più difficile del fondare una repubblica così remota dagli uomini e dai mezzi, soprattutto quando gli animi dei partecipanti sono così indocili che non solo non fanno del bene ma neppure tollerano che altri lo facciano.)60

59 60

Ivi, p. 313 (trad. it., p. 374). Ivi, p. 314 (trad. it. (letteralizzata), p. 374).

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Il motivo della fine delle scorte di viaggio e del subentrare della fame come prova di resistenza e segno di un piano divino all’arrivo nella nuova patria, lo troviamo peraltro sempre nel libro VII dell’Eneide (107-129): Aeneas primique duces et pulcher Iulus Corpora sub ramis deponunt arboris altae, Instituuntque dapes et adorea liba per herbam Subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat) Et cereale solum pomis agrestibus augent. Consumptis hic forte aliis, ut vertere morsus Exiguam in Cererem penuria adegit edendi Et violare manu malisque audacibus orbem Fatalis crusti, patulis nec parcere quadris: Heus! etiam mensas consumimus, inquit Iulus, Nec plura, adludens. Ea vox audita laborum Prima tulit finem primamque loquentis ab ore Eripuit pater ac stupefactus numine pressit. Continuo, Salve fatis mihi debita tellus, Vosque, ait, o fidi Troiae salvete penates: Hic domus, haec patria est. Genitor mihi talia namque, Nunc repeto, Anchises fatorum arcana reliquit: Cum te, nate, fames ignota ad litora vectum Accisis coget dapibus consumere mensas, Tum sperare domos defessus ibique memento Prima locare manu molirique aggere tecta. Haec erat illa fames, haec nos suprema manebat, Exitiis positura modum. (Enea e i primi capi e il leggiadro Iulo distendono i corpi sotto i rami d’un alto albero: imbandiscono le vivande, e tra l’erba sottopongono ai cibi focacce di frumento (così Giove ispirava) e ricolmano il piatto cereale con frutti selvatici. Allora divorato il resto, quando la penuria di cibo spinse a volgere i morsi nella pasta sottile di Cerere e a violare con la mano e con audaci mascelle il cerchio della fatale focaccia, e a non risparmiarne i larghi riquadri, 137

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«Oh, divoriamo anche le mense» esclamò Iulo, scherzando, e null’altro. La frase ascoltata per prima portò la fine degli affanni e per prima il padre la colse dal labbro del figlio e la impresse nel cuore ispirato dal nume. Subito disse: «Salve, o terra a me dovuta dai fati, e salute a voi, o fidi Penati di Troia: qui la casa, questa la patria. Infatti il padre Anchise mi lasciò, ora rammento, tali segreti del fato: quando, o figlio, giunto a ignote contrade, la fame, consumati i cibi, ti costringerà a divorare le mense, allora stanco ricorda di sperare le case e di fondare lì le prime dimore e di costruire le fondamenta e le mura. Questa era la fame; questa ci attendeva per ultima a mettere fine ai travagli.»)

Ma già nel libro III le Arpie avevano annunciato ad Enea: Italiam cursu petitis ventisque vocatis: Ibitis Italiam portusque intrare licebit: Sed non ante datam cingetis moenibus urbem, Quam vos dira fames nostraeque iniuria caedis Ambesas subigat malis absumere mensas. (“Voi navigate verso l’Italia, e la invocate seguendo i venti: giungerete in Italia, e potrete entrare in porto; ma non cingerete di mura la città destinata prima che una terribile fame e l’offesa fatta coll’aggredirci vi costringa a consumare con le mascelle le róse mense”) 61.

Finalmente gli Inglesi fondarono la loro «città» ereggendo una palizzata a pianta triangolare (v. immagine a pag. 110). Smith afferma come di fatto la fondazione di Jamestown fosse stata merito suo, dal momento che i capi ufficiali dell’impresa erano in realtà inadatti a svolgere la loro funzione e delegarono ogni cosa a lui, che potremmo dire allora il fondatore non riconosciuto dell’America britannica:

61

Virgilio, Eneide, III 253-257.

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The new President and Martin, being little beloved, of weake judgement in dangers, and lesse industrie in peace, committed the managing of all things abroad to Captaine Smith: who by his owne example, good words, and faire promises, set some to mow, others to binde thatch, some to build houses, others to thatch them, himselfe alwayes bearing the greatest taske for his own share, so that in short time, he provided most of them lodgings, neglecting any for himselfe. This done, seeing the Salvages superfluitie beginne to decrease (with some of his workmen) shipped himselfe in the Shallop to search the Country for trade. The want of the language, knowledge to mannage his boat without sailes, the want of a sufficient power, (knowing the multitude of the Salvages) apparell for his men, and other necessaries, were infinite impediments, yet no discouragement. (Il nuovo presidente e Martin, non certo benvoluti e altrettanto indecisi nei momenti di pericolo quanto poco attivi in periodo di pace, affidarono la direzione di tutti gli affari esterni al Capitano Smith. Costui, con il buon esempio, con gentili parole e promesse leali, mise tutti all’opera, chi a mietere, chi a legar giunchi, a costruir case o ricoprirle di paglia, mentre egli stesso s’addossava sempre il compito più gravoso. Così in breve tempo riuscì a procurare alloggi alla maggior parte di loro, senza preoccuparsi di averne uno per sé. Terminato questo e accorgendosi che i viveri portati dai selvaggi iniziavano a scarseggiare, s’imbarcò con alcuni aiutanti sulla scialuppa per perlustrare il paese e commerciare. Gli ostacoli quasi insormontabili erano tanti: l’ignoranza della lingua, l’inesperienza nel governare la scialuppa senza le vele, la mancanza di una forza militare sufficiente a contrastare il gran numero di selvaggi, la scarsità di vestiario per i suoi uomini e di altri generi di necessità. Eppure tutto questo non lo scoraggiò) 62.

Così Smith narra di avere iniziato il commercio con i Selvaggi che permise agli Inglesi di sopravvivere, e di aver stabilito con loro una conoscenza reciproca e un rapporto di cauto, anche se non sempre schietto dialogo. Durante una di queste spedizioni di scambio all’interno della Chesapeake Bay e lungo i fiumi che in essa sfociano, avviene un’episodio chiave dell’intera epica smithiana. Il Capitano in62

Smith, p. 314 (trad. it., p. 374-5).

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glese venne sorpreso da un gruppo di Indiani, che uccisero i suoi due compagni e fecero lui prigioniero. Era inverno e il paese si trovava coperto da un manto gelato. Smith fu condotto da Opechankanough, il capo dei Pamunkee, al quale pensò di offrire subito in dono una bussola nel tentativo – poi dimostratosi riuscito – di suscitare la sua curiosità ed evitare così di essere ucciso come i suoi compagni. In una scena poco credibile63, ma senza dubbio sorprendente, Smith riuscì ad affascinare il capo indiano mostrandogli lo strumento tecnologico per eccellenza della navigazione moderna europea, e spiegandogli la geografia e la cosmologia scientifiche del mondo64: He demanding for their Captaine, they shewed him Opechankanough, King of Pamunkee, to whom he gave a round Ivory double compass Dyall. Much they marvailed at the playing of the Fly and Needle, which they could see so plainly, and yet not touch it, because of the glasse that covered them. But when he demonstrated by that Globe-like Jewell, the roundnesse of the earth, and skies, the sphere of the Sunne, Moone, and Starres, and how the Sunne did chase the night round about the world continually; the greatnesse of the Land and Sea, the diversitie of Nations, varietie of complexions, and how we were to them Antipodes, and many other such like matters, they all stood as amazed with admiration. (Smith chiese del loro capo, così lo portarono davanti a Opechankanough, re di Pamunkee, a cui egli offrì una bussola a doppio quadrante, tutta d’avorio. Furono molto stupiti di come si muovevano l’ago e i quadranti; e il loro stupore derivava dal fatto che pur vedendo tutto nitidamente, non lo potevano toccare a causa del vetro che lo ricopriva. Con l’aiuto di quel gioiello a forma di globo Smith parlò loro della rotondità della terra e dei cieli, delle sfere del sole, della luna e delle stelle, e di come il sole continuamente incalza la notte intorno alla terra; e parlò della vastità dei continenti e degli oceani, della diversità delle genti, della varietà del loro aspetto; e mostrò come noi fossimo agli antipodi rispetto a loro, e molte altre cose di questo genere: essi allora rimasero a bocca aperta per la meraviglia)65. Cfr. E. Cheyfitz, The Poetics of Imperialism, pp. 175-213. Cfr. E. Zolla, I letterati e lo sciamano. 65 Smith, p. 317 (trad. it., p. 378). 63 64

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Dopo una serie di misteriosi riti e una finta esecuzione lo portarono al villaggio. Una volta stabilitosi come loro prigioniero, li sorprese nuovamente, tanto da essere considerato forse un mago capace di far “parlare” la carta attraverso lo strumento a loro sconosciuto della scrittura alfabetica66. Li invitò infatti a trasmettere ai coloni di Jamestown un suo messaggio scritto, del quale seppe predire gli esiti, ovvero la consegna agli Indiani da parte degli Inglesi di alcuni beni prestabiliti: [...] they came againe to the same place where he had told them they should receive an answer, and such things as he had promised them, which they found accordingly, and with which they returned with no small expedition, to the wonder of them all that heard it, that he could either divine, or the paper could speake. ([...] erano ritornati al luogo dove avrebbero dovuto ricevere la risposta e tutte le cose da lui promesse. Qui trovarono tutto ciò che era stato convenuto, per cui se ne tornarono di gran carriera, con gran meraviglia dei loro compagni che ascoltarono l’accaduto ed affermarono che o lui aveva capacità divinatorie, o la carta poteva parlare)67.

Condussero Smith di villaggio in villaggio, quindi lo sottoposero ad una cerimonia divinatoria di tre giorni, che doveva servire a svelare le sue vere intenzioni nei loro confronti: «Three dayes they used this Ceremony; the meaning whereof they told him, was to know if he intended them well or no» («Andarono avanti con questa cerimonia per tre giorni. Lo scopo, come gli fu spiegato in seguito, era di sincerarsi se egli avesse o meno buone intenzioni nei loro confronti»)68. Finalmente arrivò a Meronocomoco (storicamente è più corretto parlare di Werowocomoco), dove si trovava il capo supremo di tutti quei gruppi indiani: «Powhatan their Emperor» («Powhatan, il loro imperatore»)69. Qui i «cortigiani» («Courtiers»), che avevano la pelle della testa e delle Cfr. Zolla. Smith, p. 319 (trad. it., p. 380). 68 Ivi, p. 320 (trad. it., p. 381). 69 Ivi, p. 321. 66 67

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spalle tinta di rosso70, lo osservarono con meraviglia, come si osserva un mostro: «more than two hundred of those grim Courtiers stood wondering at him, as he had beene a monster» («più di duecento di questi truci cortigiani rimasero stupiti a guardarlo, quasi fosse un mostro»)71. Poi lo festaggiarono alla loro maniera «barbara» («barbarous»), e subito dopo gli parve di dover subire una condanna a morte. All’ultimo momento intervenne tuttavia Pocahontas, la figlia prediletta di Powhatan, che lo salvò dall’esecuzione: [...] a long consultation was held, but the conclusion was, two great stones were brought before Powhatan: then as many as could layd hands on him, dragged him to them, and thereon laid his head, and being ready with their clubs, to beate out his braines, Pocahontas the Kings dearest daughter, when no intreaty could prevaile, got his head in her armes, and laid her owne upon his to save him from death: whereat the Emperour was contented he should live [...]. ([...] ebbe luogo un lungo consulto al termine del quale furono portate dinanzi a Powhatan due enormi pietre. A quel punto tutti si buttarono su di lui e lo trascinarono verso le pietre, sulle quali gli fecero poggiare il capo. E con le loro mazze erano già pronti a fargli saltar le cervella, quando Pocahontas, la più amata delle figlie del re, visto che nessuna supplica era servita, gli abbracciò la testa chinando il capo sopra il suo per salvarlo dalla morte. Allora l’imperatore lo risparmiò [...])72.

Questo episodio, concentrato nelle poche righe che abbiamo appena visto, e ripetuto in maniera poco più estesa nel IV libro, è quello che ebbe maggiore eco fra i lettori della Generall Historie. Per secoli i critici si sono interrogati sulla sua veridicità e sul suo significato simbolico, e la letteratura secondaria in merito è più vasta che su qualunque altro argomento dell’opera di Smith73. Una delle ragioni criCfr. N. Shoemaker, “How Indians Got to be Red”, American Historical Review 102, no. 3, June 1997, pp. 625-644. 71 Smith, p. 321 (trad. it., p. 382). 72 Ivi. 73 Vedi A. Bonnet, Pocahontas, princesse des deux mondes. Histoire, mythe et représentations, Rennes 2006; C. Rountree, Pocahontas, Powhatan, Opechancanough: Three 70

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tiche più importanti sta nel fatto che la famosa lettera di Smith del 1608, poi pubblicata come A True Relation, non presenta traccia del famoso intervento di Pocahontas volto a salvare la sua vita da un’esecuzione capitale. Questo ha indotto gli storici e i critici ad interpretare il significato della sua presenza nel III e IV libro della Generall Historie come una costruzione mitica voluta da Smith per far rieccheggiare nell’immaginario europeo l’idea di una vergine benevola e protettiva come la Madonna – il gesto descritto è a tutti gli effetti una raffigurazione della Pietà: «got his head in her armes, and laid her owne upon his» («gli abbracciò la testa chinando il capo sopra il suo») –, ma anche di una principessa aborigena, che salva l’eroe venuto da lontano, così come Nausicaa “salva” Odisseo, o Lavinia sposa Enea. In A True Relation l’incontro con Powhatan è anzi amichevole – o perlomeno cauto – e non v’è menzione diretta della fanciulla: Arriving at Werawocomoco, their Emperor proudly lying uppon a Bedstead a foote high upon tenne or twelve Mattes, richly hung with manie Chaynes of great Pearles about his necke, and covered with a great Covering of Rahaughcums: At his heade sat a woman, at his feete another, on each side sitting uppon a Matte uppon the ground were raunged his chiefe men on each side the fire, tenne in a ranke, and behinde them as many yong women, each a great Chaine of white Beads over their shoulders, their heades painted in redde, and he with such a grave and Indian Lives Changed by Jamestown, University of Virginia Press, Charlottesville 2005; C. Townsend, Pocahontas and the Powhatan Dilemma, New York 2004; P. Gunn Allen, Pocahontas: Medicine Woman, Spy, Entrepreneur, Diplomat, San Francisco 2003; D.A. Price, Love and Hate in Jamestown: John Smith, Pocahontas, and the Heart of a New Nation, New York 2003; R.S. Tilton, Pocahontas: The Evolution of an American Narrative, Cambridge University Press 1994; A. Sundquist, Pocahontas and Co., Oslo 1987; J. B. Hubbell, “The Smith-Pocahontas Story in Literature”, The Virginia Magazine of History and Biography, Vol. 65 No. 3, July 1957, pp. 275-300; P. Young, “The Mother of Us All: Pocahontas Reconsidered”, The Kenyon Review, Vol. XXIV, No. 3, Summer 1962, pp. 391-415; R. Green, “The Pocahontas Perplex: The Image of Indian Women in American Culture”, The Massachusetts Review, Vol. XVI, No. 4, Autumn 1975, pp. 698-714; M. LeMaster, “Pocahontas: (De)Constructing an American Myth”, The William and Mary Quarterly, Vol. 62, No. 4, 2005; P. Cabibbo, “L’invenzione di Pocahontas”, in Studi Americani, 21-22, 1975-76.

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Majesticall countenance, as drave me into admiration to see such state in a naked Salvage, hee kindly welcomed me with good wordes, and great Platters of sundrie Victuals, assuring me his friendship, and my libertie within foure dayes; hee much delighted in Opechancanoughs relation of what I had described to him, and oft examined me upon the same. (Arrivato a Werawocomoco trovai il loro imperatore fieramente adagiato su un letto alto un piede e coperto da dieci o dodici stuoie, adornato riccamente con molte catene di grandi perle intorno al collo, e coperto da un’ampia coperta di pelli di procione. Alla sua testa sedeva una donna, ai suoi piedi un’altra, ai lati, seduti sopra una stuoia appoggiata per terra, si trovavano allineati i suoi uomini più importanti, dieci per ogni fila ad ogni lato del fuoco, e dietro di loro altrettante giovani donne, ciascuna con una grossa catena di perle bianche sulle spalle. Le loro teste erano tinte di rosso, e il loro sovrano aveva un’espressione del volto talmente grave e maestosa, che rimasi stupefatto nel vedere tanta dignità in un selvaggio nudo. Mi accolse in maniera benevola e con buone parole, offrendomi anche grandi vassoi con diversi cibi, e assicurandomi la sua amicizia, nonché la mia libertà entro quattro giorni. Si dilettò molto della relazione di Opechancanough su quanto gli avevo descritto, e continuò spesso a chiedermi ulteriori notizie a riguardo)74.

«Pocahuntas, the Kings Daughter» («Pocahontas, la figlia del re»)75 viene menzionata solo più tardi, verso la fine della lettera, e descritta da Smith come la più «impareggiabile» fra tutti gli abitanti di quel paese, pur essendo, sempre secondo lui, una bambina di appena dieci anni. Il padre Powhatan l’aveva mandata in visita al forte degli Inglesi con lo scopo di imbonirli e indurli a liberare alcuni prigionieri indiani, per cui il suo ruolo di “salvatrice” non riguarderebbe tanto il Capitano Smith quanto semmai la sua propria gente: Powhatan, understanding we detained certaine Salvages, sent his Daughter, a child of tenne yeares old, which not only for feature, countenance, and proportion, much exceedeth any of the rest of his people, but for wit, and spirit, the only Nonpareille of his Country. 74 75

Smith, p. 17. Ivi, p. 35.

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(Powhatan, venuto a sapere che tenevamo prigionieri alcuni selvaggi, inviò sua figlia, una bambina di dieci anni, che non solo per fisionomia, portamento e proporzioni era superiore a chiunque altro membro del suo popolo, ma per ingegno e animo era l’unica impareggiabile del suo paese)76.

Comunque, l’abbiamo visto, Smith voleva gia nella lettera del 1608 rendere attraente la colonia nonostante la presenza degli Indiani, tanto da terminarla con una nota positiva, che poi anni dopo fu forse consapevolmente trasformata nel mito di Pocahontas: [...] wee now remaining being in good health, all our men wel contented, free from mutinies, in love one with another, and as we hope in a continuall peace with the Indians, where we doubt not but by Gods gracious assistance, and the adventurers willing minds and speedie furtherance to so honorable an action in after times, to see our Nation to enjoy a Country, not onely exceeding pleasant for habitation, but also very profitable for comerce in generall, no doubt pleasing to almightie God, honourable to our gracious Soveraigne, and commodious generally to the whole Kingdome. ([...] noi che restiamo ci troviamo in buona salute, tutti i nostri uomini sono ben soddisfatti, liberi da ammutinamenti, in armonia gli uni con gli altri, e, come speriamo, in una pace duratura con gli Indiani. Non dubitiamo che con l’aiuto benigno di Dio e la buona volontà e il rapido avanzamento degli avventurieri in questa impresa tanto onorabile, noi possiamo nei tempi a venire vedere il nostro popolo godere di un paese non solo estremamente piacevole da abitare, ma anche molto vantaggioso per il commercio in generale, senza dubbio gradito a Dio onnipotente, causa di onore per il nostro grazioso sovrano, e generalmente utile a tutto il regno)77.

La menzione del ruolo salvifico di Pocahontas contenuta nel IV libro della Generall Historie compare invece già nel presunto riassunto 76 77

Ivi, p. 34. Ivi, pp. 35-36.

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di una lettera – mai rinvenuta – che Smith avrebbe indirizzato alla regina Anne per raccomandargli la giovane principessa indiana in occasione del suo viaggio in Inghilterra del 1616. Egli la descrive come «tender Virgin» («tenera Vergine»)78 e «she next under God» («lei così prossima a Dio»)79, e mette in rilievo il suo ruolo determinante nella sopravvivenza non solo di Smith, ma dell’intera colonia di Jamestown: [...] had the Salvages not fed us, we directly had starved. And this reliefe, most gracious Queene, was commonly brought us by this Lady Pocahontas, notwithstanding all these passages when inconstant Fortune turned our peace to warre, this tender Virgin would still not spare to dare to visit us, and by her our jarres have beene oft appeased, and our wants still supplyed; were it the policie of her father thus to employ her, or the ordinance of God thus to make her his instrument, or her extraordinarie affection of our Nation, I know not: but of this I am sure; when her father with the utmost of his policie and power, sought to surprize mee, having but eighteene with mee, the darke night could not affright her from comming through the irkesome woods, and with watered eies gave me intelligence, with her best advice to escape his furie; which had hee knowne, hee had surely slaine her. James towne with her wild traine she as freely frequented, as her fathers habitation; and during the time of two or three yeeres, she next under God, was still the instrument to preserve this Colonie from death, famine and utter confusion, which if in those times had once beene dissolved, Virginia might have line as it was at our first arrivall to this day. ([...] se i Selvaggi non ci avessero nutriti, saremmo subito morti di fame. E questo soccorso, graziosissima Regina, ci era solitamente portato da tale Lady Pocahontas, e nonostante tutti i momenti in cui la fortuna incostante trasformava la nostra pace in guerra, questa tenera Vergine non si esimeva mai dall’osare farci visita. Da lei le nostre giare sono state riempite tante volte e i nostri bisogni soddisfatti. Non so se era parte del piano d’azione di suo padre impiegarla in tal modo, o se fu il decreto divino a fare di lei il suo strumento, oppure ancora il suo straordinario affetto per il nostro popolo. Di una cosa sono tuttavia certo, che quando 78 79

Ivi, p. 440. Ivi, p. 441.

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suo padre con il massimo della sua sagacia e della sua potenza, tentò di cogliermi di sorpresa – ché ero rimasto solo con diciotto uomini – la notte oscura non poté spaventarla al punto di impedirle di raggiungermi attraverso la foresta tediosa, e con gli occhi allagati darmene notizia, insieme ai suoi migliori consigli su come sfuggire alla sua furia. Cosa per cui, se lui lo fosse venuto a sapere, l’avrebbe sicuramente uccisa. Insieme al suo seguito barbaro frequentava Jamestown con la stessa libertà con cui frequentava la dimora di suo padre. E nei successivi due o tre anni, lei così prossima a Dio, continuò ad essere lo strumento per preservare questa Colonia dalla morte, dalla fame e dalla confusione totale, ché se a quel tempo si fosse dissolta anche una sola volta, la Virginia sarebbe fino ad oggi nelle stesse condizioni in cui si trovava al nostro primo approdo)80.

Da un punto di vista storico, all’epoca del viaggio in Inghilterra la «principessa» indiana si era ormai già convertita al cristianesimo assumendo il nome di Rebecca – il nome della madre biblica di GiacobbeIsraele (e moglie di Isacco)81 – e si era sposata con il coltivatore di tabacco John Rolfe, da cui aveva avuto un figlio di nome Thomas. Insieme erano partiti nel 1616 per un viaggio in Inghilterra dove furono presto – forse anche grazie alla lettera di Smith – ammessi e coinvolti nella vita di corte. Smith ebbe allora un breve incontro con lei a Branford. Erano passati sette anni da quando aveva lasciato per sempre e senza dare più notizie di sé la Virginia. Nell’introduzione al riassunto della lettera a «Queene Anne» ricorda quell’incontro e ritrae Pocahontas come madre tenera e amorevole del primo “frutto” dell’incontro tra l’Inghilterra e l’America: «shee had also by him a childe which she loved most dearly» («aveva anche avuto da lui un bambino, che amava assai teneramente»)82. Quanto alla sua apparenza e al suo comportamento, sembrava aver rapidamente assimilato la religione, la lingua e le maIvi, pp. 440-441. Vedi N. Shoemaker, “How Indians Got to be Red”, American Historical Review 102, no. 3, June 1997, pp. 625-644. 82 Smith, p. 439; v. anche P. Young, “The Mother of Us All: Pocahontas Reconsidered”, in The Kenyon Review XXIV 3, Yellow Springs, Ohio, 1962. 80 81

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Matoaka 83 come Rebecca, 1616-17 Simon van de Passe

83 Matoaka era il vero nome di Pocahontas, soprannominata così da Powhatan per il suo carattere giocondo. Rebecca divenne il suo nome di battesimo.

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niere inglesi: «was taught to speake such English as might well bee understood, well instructed in Christianitie, and was become very formall and civill after our English manner» («le era stato insegnato l’Inglese in modo da farsi comprendere nel parlare, era ben istruita nel cristianesimo, ed era divenuta molto formale e civile secondo la nostra maniera inglese»)84. Purtroppo, dopo qualche mese di soggiorno a Londra, Pocahontas morì appena ventunenne quando già si era imbarcata con la sua famiglia sulla George per tornare in America. Fu sepolta nel piccolo cimitero di Gravesend sulle sponde del Tamigi. Suo figlio Thomas fu allevato in Inghilterra, ma tornò e si stabilì in Virginia all’età di vent’anni nel 1635, dove divenne il capostipide di molte generazioni, che ancora oggi celebrano con fiererezza il proprio retaggio “americano” nel senso più nobile ed epico del termine, ovvero come fusione etnica e culturale nata dall’incontro “fatale” tra un gentleman inglese e una principessa indiana85. Al di là dell’aspetto romantico e sentimentale di questa vicenda basilare del mito di fondazione americano, Smith non si esime dal rilevarne anche gli aspetti più grotteschi e tragici (e a ben guardare la trasformazione di Pocahontas già appare sufficientemente grottesca). Innanzitutto egli è preoccupato che i monarchi inglesi possano non comprendere la personalità della giovane principessa proveniente da un mondo totalmente diverso e votata con tutto il cuore ai coloni inglesi e al loro progetto, e dunque non riceverla con la sufficiente gentilezza e riverenza: [...] hir birth, vertue, want and simplicitie, doth make me thus bold, humbly to beseech your Majestie to take this knowledge of her [...] if she should not be well received, seeing this Kingdome may rightly have a Kingdome by her meanes; her present love to us and Christianitie, Smith, p. 439. Cfr. S.E. Brown, L.F. Meyers, E. Chapel, Pocahontas’ Descendants, Pocahontas Foundation, Berryville, VA, 1985 ; Tilton, pp. 9-33. Per la diversa concezione dei matrimoni misti da parte dei conquistatori spagnoli cfr. H. Mumford Jones, O Strange New World, New York 1952. Anche i coloni inglesi di Plymouth perseguivano un ideale razziale contrario all’esogamia (v. cap. IV). 84 85

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“Il ritratto Sedgeford” Rebecca e Thomas Rolfe in Inghilterra, 1616 Kings Lynn Museum, Norfolk, U.K.

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might turne to such scorne and furie, as to divert all this good to the worst of evill. ([...] la sua nascita, virtù, esigenza e semplicità, mi inducono ad essere talmente sfrontato, da supplicare umilmente sua Maestà di prenderne atto [...] se lei non dovesse essere ben accolta, vedendo che questo Regno potrebbe legittimamente avere il suo Regno attraverso di lei; il suo attuale amore per noi e la sua cristianità, potrebbero trasformarsi in tale disprezzo e in tale furia, da deviare tutto questo bene verso il peggiore dei mali)86.

Smith teme insomma che la regina possa offendere Pocahontas, e con essa l’intero popolo indiano, cosa che oltre ad un aspetto credo sinceramente sentimentale, ne rivela ovviamente anche uno pratico per quanto riguarda il futuro delle colonie. Nel riferire, ad esempio, del suo incontro con Pocahontas, Smith non nasconde il rancore della giovane nei suoi confronti, dovuto forse all’essersi fatto credere morto per tanti anni, oppure più probabilmente alla sensazione di essere stata in qualche modo tradita dagli Inglesi nel loro insieme: I went ot see her: After a modest salutation, without any word, she turned about, obscured her face, as not seeming well contented; and in that humour [...] we all left her two or three houres [...]. But not long after, she began to talke, and remebered mee well what courtesies shee had done: saying, You did promise Powhatan what was yours should be his, and he the like to you; you called him father being in his land a stranger [...] Where you not afraid to come into my fathers Countrie, and caused feare in him and all his people (but mee). (Andai a trovarla. Dopo un breve saluto, senza una parola, lei si girò e si fece scura in viso, come se fosse scontenta. In quello stato d’animo [...] la lasciammo tutti per due o tre ore [...]. Dopo un po’ iniziò a parlare e a ricordarmi quali e quante cortesie lei mi aveva fatto. Disse: «Tu hai promesso a Powhatan che quello che era tuo sarebbe stato suo, e la stessa cosa fece lui con te. Tu lo chiamavi padre essendo uno straniero nel suo

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Smith, pp. 441-442.

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paese [...]. Non hai avuto paura di venire nel paese di mio padre, e di creare spavento in lui e in tutta la sua gente (eccetto me)»)87.

Qui Pocahontas, che come moglie di John Rolfe può essere avvicinata alla figura virgiliana di Lavinia, ricorda più il personaggio di Didone tradita, in particolar modo nel suo incontro con Enea agli Inferi88: Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem Lenibat dictis animum lacrimasque ciebat. Illa solo fixos oculos aversa tenebat : Nec magis incepto voltum sermone movetur, Quam si dura silex aut stet marpesia cautes. (Con tali parole Enea cercava di lenire quell’anima ardente, dal torvo sguardo, e piangeva. Ella, rivolta altrove, teneva gli occhi fissi al suolo, e il volto immobile all’intrapreso discorso, più che se fosse dura selce e roccia marpesia) 89.

Smith ci fa comunque comprendere come nella coscienza della giovane indiana convertita all’Inghilterra sia venuta a crearsi una frattura, probabilmente dovuta anche al trauma di aver visto con i propri occhi il mondo – l’Inghilterra del ‘600 – dal quale provenivano i coloni. Segue infatti subito un aneddoto significativo per spiegare il divario tra le due civiltà: l’avventuriero inglese racconta di un Indiano di nome Uttamatomakkin, mandato in Inghilterra da Powhatan per vedere e contare quante persone vi si trovassero. Questo conteggio doveva avvenire, secondo gli ordini del capo, attraverso l’incisione di tacche su un bastone di legno. Una volta sbarcato nel porto inglese di

Ivi, p. 442. Cfr. J. Higham, “Indian Princess and Roman Goddess: The First Female Symbols of America”, in Proceedings of the American Antiquarian Society, 100, 1, 1990. 89 Virgilio, Eneide, VI 468-471. 87 88

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Plymouth, lo straniero si stancò presto della sua mansione (la sola città di Londra contava allora ca. 300.000 abitanti): [...] the King purposely sent him, as they say, to number the people here, and informe him well what wee were and our state. Arriving at Plimoth, according to his directions, he got a long sticke, whereon by notches hee did thinke to have kept the number of all the men hee could see, but he was quickly wearie of that taske. ([...] il re lo inviò di proposito, come dicono, per conteggiare le persone qui da noi, ed informarlo bene su cosa fossimo e in quali condizioni vivessimo. Arrivato a Plymouth [in Inghilterra], e seguendo le sue istruzioni, si procurò una lunga stecca sulla quale pensava di poter incidere il numero di tutti gli uomini che avrebbe visto, ma presto si stancò di quel compito)90.

Quando poi Smith lo incontrò a Londra, questi gli raccontò tristemente del suo incontro con il re Giacomo I: «Then he replied very sadly, You gave Powhatan a white Dog, which Powhatan fed as himselfe, but your King gave me nothing, and I am better than your white Dog» («Allora mi rispose con gran tristezza: “Tu hai dato a Powhatan un cane bianco, che Powhatan ha nutrito come se stesso, ma il tuo re non mi ha dato niente, e io sono meglio del tuo cane bianco”»)91. Vediamo come accanto al mito dell’incontro felice tra le due nazioni, emerge anche il senso diffuso di una crescente e per certi aspetti atroce delusione da parte degli Indiani92. Delusione che nel tempo porterà alle vere e proprie guerre e alla progressiva sconfitta e distruzione degli Indiani nordamericani da parte degli Inglesi. Il mito di Pocahontas sopravvive fino ad oggi nei grandi cartoons della Walt Smith, p. 442. Ivi, p. 443. 92 Cfr. S. Mallios, The Deadly Politics of Giving. Exchange and Violence at Ajacan, Roanoke and Jamestown, University of Alabama Press, Tuscaloosa 2006, pp. 80-106; M. Mauss, «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les societés archaiques», in Année sociologique, 1, Paris 1925 [M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, trad. it. di F. Zannino,Torino 2002]. 90 91

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“Pocahontas”, Walt Disney 1995

Disney, o in opere cinematografiche come The New World (Il nuovo mondo) di Terrence Malick (2005), quasi a voler rendere più dolce la vera storia di una colonizzazione che si trasformò in un genocidio. Smith passò gli ultimi anni della sua vita a scrivere un manuale per marinai e corsari, An Accidence, or The Pathway to Experience (Una morfologia, o Il sentiero dell’esperienza), che ebbe grande successo e lo indusse a pubblicare una seconda edizione dal titolo A Sea Grammar, With the plain Exposition of Smith’s Accidence for young Seamen, enlarged (Grammatica marina, con la chiara esposizione della morfologia di Smith per giovani marinai, ampliata), poi la sua autobiografia, The True Travels, Adventures, and Observations of Captaine John Smith (I veri viaggi, le avventure e le osservazioni del Capitano John Smith), e infine una manuale per aspiranti coloni, Advertisments for the unexperienced Planters of New England, or anywhere (Istruzioni per i coloni inesperti della Nuova Inghilterra o di qualsiasi altro luogo). Morì a Londra il 21 giugno del 1631 e fu sepolto a St. Sepulchres nella City of London. 154

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1.2. William Bradford e Of Plimoth Plantation 1620-1647 Nel 1630, a dieci anni dalla fondazione dell’insediamento coloniale inglese di Plymouth nel New England, il suo governatore e uno dei maggiori promotori dell’intera missione, William Bradford, si accinse a scrivere una “storia” di quell’esperienza cristiana, di cui riuscì a finire i primi dieci capitoli entro l’anno, mentre completò il resto «a pezzi» («pieced up»)93 fino al 1646, con qualche ultima aggiunta del 165094. Si tratta di un’opera per certi versi sacra, dal momento che narra l’intera vicenda della nascita e del consolidamento della comunità religiosa e coloniale di Plymouth alla luce della Scrittura e dell’esegesi biblica, o, potremmo dire ancora di più, come figura degli Atti apostolici e dell’Esodo. Non pochi commenti e riscritture successive la paragonano infatti ai Vangeli95, e ne tramandano il contenuto e il significato allo stesso modo, tanto da fare dell’esperienza di Plymouth, e poi dell’America intera, quasi un testo sacro, diciamo pure, una costruzione “verbale”. Bradford stesso, pur essendo stato votato alla carica annuale di governatore della colonia per ben trentatre volte, non esalta il proprio ruolo di leader della comunità, ma si fa semmai portavoce o autore sacro di una congregazione di ‘Santi’. L’impiego comune del concetto di santità tra questi coloni risale all’uso che se ne fa nel testo biblico come attributo del credente o dell’eletto, e non ha naturalmente a che vedere con l’istituto della canonizzazione introdotto dalla Chiesa di Roma. Of Plimoth Plantation (Della colonia di Plimoth) vuole testimoniare – con spirito anche qui di sebbene più intima coralità 96– della nascita di un nuovo ordine esistenziale sulla base della «semplice verità in tutte le cose» («the simple truth in all things»)97, con chiaro ri93 William Bradford, Of Plymouth Plantation 1620-1647 by William Bradford, S.E. Morison (ed.), New York 1952 (200624), p. 351. 94 Ivi, p. xxvii. 95 Ivi, pp. xxxv e xxxviii. 96 Vedi sopra, p. 102. 97 Bradford, p. 3. L’unica edizione italiana esistente di Of Plymouth Plantation è quella comprendente soltanto alcuni estratti significativi nella traduzione di M. Pu-

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ferimento alle parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni (18, 37): «Per questo io sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità». Questa vocazione religiosa era emersa in Bradford sin dalla tenera età98. Rimasto orfano di padre ad appena un anno e dato in adozione prima al nonno e poi agli zii dopo le nuove nozze della madre, il giovane, di salute cagionevole, cominciò verso i dodici anni a leggere appassionatamente la Bibbia – nella traduzione inglese del 1560 eseguita nella Ginevra calvinista (cd. “Geneva Bible”)99 – e a frequentare regolarmente la messa nella parrocchia di Babworth nel Nottinghamshire. Per raggiungerla doveva percorrere a piedi dodici miglia, tanto distava dalla sua casa e dal villaggio di Austerfield (che pure aveva una sua parrocchia) nel Yorkshire, dove nel 1590 era venuto al mondo. La chiesa di Babworth era diretta dal protestante dissidente Rev. Richard Clyfton, che proveniva dall’università di Cambridge, ed aveva accolto nel suo gruppo di preghiera il giovane Bradford. Nel 1606 – quando Clyfton fu costretto a lasciare la parrocchia – Bradford lo seguì nell’unirsi alla congregazione separatista che teneva i suoi incontri segreti a casa di William Brewster nel villaggio di Scrooby, una delle stazioni lungo l’antica strada romana che collegava Londra con la Scozia100. I suoi zii, che lo avevano allevato per farne un agricoltore come loro e come suo padre e i loro padri prima di loro, non vedevano di buon occhio questo comportamento anticonformista e temevano che potesse creare al ragazzo, ma anche a loro, dei guai con l’autorità monarchicoecclesiastica. Infatti presto il gruppo fu scoperto, chiamato a presentarsi davanti alla Corte Ecclesiastica Suprema e condannato in alcuni stianaz e curata da F. Marenco nel volume Nuovo Mondo. Gli Inglesi, Torino 1990, pp. 582-634. 98 C. Mather, Magnalia Christi Americana, Hartford 1855, Bk. ii, Ch. 1; S.E. Morison (ed.), Of Plymouth Plantation 1620-1647 by William Bradford, New York 2006, Introduction; B. Smith, Bradford of Plymouth, Philadelphia and New York 1951; L. Bonfanti, The Massachusetts Bay Colony, Vol. I - Plymouth Colony to 1623, New England Historical Series, Wakefield, MA, 1974, pp. 17-19. 99 V. The Geneva Bible (The Annotated New Testament, 1602 Editio), ed. by G. T. Sheppard, New York 1989. 100 L. Bonfanti, The Massachusetts Bay Colony, pp. 17-19.

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casi alla reclusione, in altri al pagamento di ammende, e comunque ad essere tenuto sotto sorveglianza per evitare che continuasse i suoi incontri. Quando Brewster fu costretto a lasciare il suo incarico a capo della congregazione, questa comprese finalmente che non sarebbe più potuta rimanere in Inghilterra. Decise allora di trasferirsi nella vicina Olanda, dove vigeva la libertà di culto religioso. Ma il trasferimento non fu facile né immediato – benché avessero tutti venduto o affittato le loro proprietà a Scrooby e altrove – dal momento che non possedevano la licenza necessaria per poter emigrare e si trovarono così costretti a cercare la complicità e l’aiuto di marinai e intermediari non sempre affidabili. Dopo varie difficoltà riuscirono a partire da Boston nel Lincolnshire – in una prima andata gli uomini, in una seconda le donne e i bambini – diretti ad Amsterdam. Lì trovarono un gran numero di altri dissidenti inglesi, ma compresero presto che si trattava di un ambiente troppo conflittuale e infuocato per loro, e decisero così di trasferirsi nella più tranquilla città universitaria di Leyden. Qui la congregazione si consolidò non solo teologicamente, sotto la guida del suo nuovo pastore, il Rev. John Robinson (Clyfton aveva deciso di restare ad Amsterdam), ma anche economicamente: a parte il lavoro nei campi, dal quale la maggior parte di loro proveniva, si provò anche in diversi mestieri artigianali, tra cui quelli del tipografo e del tessitore. Lo stesso Bradford avviò una manifattura di fustagno, dedicando tuttavia il suo tempo libero allo studio dell’olandese, dell’ebraico e del latino, nonché all’acquisto e alla lettura di opere letterarie di ogni epoca e genere, fino a crearsi una discreta biblioteca e una buona cultura generale. La congregazione rimase nell’esilio olandese per undici anni, fino al 1620, quando la «tregua dei dodici anni»101 tra la Spagna e le Provincie Unite stava per scadere, e vi era buona ragione di temere l’arrivo di una milizia cattolica solita alle violenze contro gli eretici. Dopo varie consultazioni il gruppo giunse alla conclusione che il luogo ideale per loro, dove avrebbero potuto godere libertà, risorse econo101 H. Kamen, L’Europa dal 1500 al 1700, Roma-Bari 1987, p. 258; v. anche Bradford, p. 23.

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miche tanto abbondanti da attrarre altri separatisti, e – non meno importante – mantenere la propria identità nazionale inglese, doveva essere cercato nel Nuovo Mondo. Pensarono dapprima alla Guiana descritta nei pamphlets di Sir Walter Raleigh come paese dell’El Dorado102, ma l’idea del clima tropicale e della vicinanza alle colonie spagnole li orientarono presto verso altre mète. Così presero a considerare la Virginia, che già aveva una colonia inglese avviata dal 1607 – Jamestown – e la cui ulteriore colonizzazione veniva fortemente incoraggiata dalla Corona inglese e dalla London Company che ne deteneva i diritti coloniali. Il tentativo di ottenere una concessione firmata da Giacomo I, che avrebbe significato una certa garanzia per la loro libertà religiosa, fallì. Ricevettero allora la proposta della compagnia nazionale olandese, che era ansiosa di popolare le terre che rivendicava lungo il Hudson River e per questo era pronta a garantir loro la copertura delle spese del viaggio e dell’insediamento, oltre che la fondamentale libertà di culto. La proposta era certo interessante, ma comportava anche un certo disagio, in quanto accettandola i separatisti avrebbero in qualche modo perso una volta per tutte la loro identità nazionale inglese. Fu in quel periodo che la congregazione ricevette la visita di una vecchia conoscenza, il commerciante di ferramenta londinese Thomas Weston, il quale li avvisò che la London Company stava per fallire e li dissuase anche dal continuare le trattative con gli Olandesi, dal momento che vi era un gruppo di uomini d’affari londinesi, di cui lui stesso faceva parte, interessato a finanziare il loro progetto. Elaborarono subito un contratto dettagliato e lo inviarono a Londra per l’apposizione delle firme. Nel tempo a seguire gli esuli si impegnarono a vendere i loro beni immobili e commerciali e a preparasi per la partenza. Durante questo periodo giunse da Londra una lettera di Weston, che suggeriva loro di scegliere il New England come mèta del loro viaggio, soprattutto per le eccellenti possibilità di pesca. Il “New England” (i.e. “Nuova Inghilterra”) era il nome dato da John Smith alla parte settentrionale (40°- 48° nord) della Virginia di allora, che nella sua interezza copriva

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W. Raleigh, The Discovery of Guiana, ed. B. Schmidt, London 2007.

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l’intera fascia costiera orientale del Nordamerica che va grossomodo dall’attuale Stato del North Carolina a quello del Maine. I diritti coloniali di quella parte di territorio, a Nord, appartenevano alla Plymouth Company per concessione di Giacomo I103. La lettera di Weston sollevò una grossa controversia tra le parti, il cui principale argomento riguardava la lunghezza e durezza degli inverni nel New England, secondo loro troppo gravosi per essere sopportati da gente proveniente dall’Inghilterra. In quell’anno, il 1620, dopo difficoltà ancora maggiori di quelle che ebbero per trasferirsi dall’Inghilterra all’Olanda, riuscirono a spostarsi prima sulla Speedwell da Delft-Haven a Southampton, poi da lì a recuperare la più grande Mayflower, e dopo vari tentativi sfortunati con entrambe le navi e una diminuzione progressiva degli effettivi partecipanti alla missione, a salpare sulla sola Mayflower dal porto di Plymouth nel Devon con a bordo 102 passeggeri diretti nel New England. Questi rappresentavano solo circa un quarto dei membri dell’intera congregazione di Leyden. Il resto li raggiunse solo in seguito. I passaggeri del Mayflower arrivarono a Cape Cod dopo sessantacinque lunghi e difficili giorni di navigazione. Lì si rifugiarono nel porto naturale in cima alla penisola dove oggi si trova Provincetown. Credettero di essere arrivati in prossimità del Hudson River, che era la loro mèta originaria, ma si resero conto di esserne lontani e vi rinunciarono presto, poiché comportava troppi ulteriori rischi. Quindi deliberarono di fondare l’insediamento coloniale di «New Plimoth» sulla costa interna della baia di Cape Cod. Tra i tanti gruppi di dissidenti della Chiesa Anglicana, questo entrò nella storia con il nome di “Pilgrims” (i.e. “Pellegrini”)104, da non confondere, come spesso accade, con quello di “Puritans” (i.e. “Puritani”)105. Da un punto di vista teologico i Puritans precedettero i V. sopra a p. 106. N. Morton, New Englands Memoriall, Cambridge, MA, 1669. Questa fu la prima pubblicazione a stampa del libro I (parafrasato) del manoscritto intitolato Of Plimoth Platation di William Bradford. 105 J.A. Conforti, Saints and Strangers. New England in British North America, The John Hopkins University Press, Baltimore 2006, p. 38 ss.; J. A. Goodwin, The 103 104

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Pilgrims e ne furono anche, diciamo così, il terreno di coltura, ma per quanto riguarda la colonizzazione del New England, la precedenza è invertita, dal momento che i Puritani fondarono Boston soltanto dieci anni dopo la fondazione di Plymouth, ovvero nel 1630. Mentre questi ultimi restarono sempre un movimento di riforma interno alla Chiesa Anglicana, desideroso di ripristinare in essa la purezza del cristianesimo originario, i Pilgrims furono tra coloro che si spostarono su posizioni sempre più radicali fino a convincersi che soltanto fuori da quella Chiesa – dunque costituendosi come Chiese alternative “separatiste” o “congregazionali” – avrebbero potuto vivere una vita autenticamente cristiana. L’emblematico nome di “Pilgrims” è derivato da un famoso passaggio dell’opera di Bradford, in cui, di fronte alla tristezza di dover lasciare l’esilio olandese, l’autore ricorda quale fosse la vera vocazione di quella comunità di credenti: So they left that goodly and pleasant city which had been their resting place near twelve years; but they knew they were pilgrims, and looked not much on those things, but lift up their eyes to the heavens, their dearest country, and quieted their spirits. (Così lasciarono quella splendida e gradevole città che era stata il loro rifugio per quasi dodici anni; ma sapevano di essere pellegrini, e non badarono troppo a quelle cose, anzi alzarono gli occhi al cielo, la loro amatissima patria, e calmarono i loro animi)106.

L’idea del credente come straniero, come persona di passaggio sulla terra, è comune all’Antico e al Nuovo Testamento. In Genesi 23, 4 Abramo annuncia agli Hittiti: «Io sono forestiero e di passaggio in mezzo a voi». Nel Salmo 39, 13 Davide implora il Signore: Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l’orecchio al mio grido, non essere sordo alle mie lacrime, Pilgrim Republic. An Historical Review of the Colony of New Plymouth, Boston and New York 1920 (1879), pp. 1-16. 106 Bradford, p. 47 (corsivo mio).

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La colonia di New Plymouth, 1620-1650

poiché io sono un forestiero, uno straniero come tutti i miei padri107.

Ma è nella Lettera di San Paolo agli Ebrei (11, 13-16) che viene usato esattamente il termine di ‘pellegrini ’: Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra

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V. anche Salmi, 119, 19.

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di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città108.

Bradford equipara dunque la congregazione di Leyden ai patriarchi biblici, primo tra tutti Abramo, esortato da Dio a lasciare la casa paterna, e a vivere sulla terra come uno straniero. Questo tipo di operazione esegetica applicata all’esperienza storica ha origini antiche nella storiografia cristiana109, ma è anche in un certo senso esclusivo di questo mito di fondazione americano per l’intensità dell’identificazione figurale dei Pilgrims con il popolo eletto di Israele. Nelle prime pagine del manoscritto troviamo infatti alcuni esercizi di ebraico110, e tra questi un calligramma raffigurante una sorta di coppa richiamante forse il Graal, in cui l’autore paragona se stesso a Mosè, che vide la Terra Promessa solo da lontano: «as Moses saw the land of Canaan afar off» 111 e conclude con un’esplicita dichiarazione d’intento letterario tipologico112: [...] My aim and desire is to see how the words and phrases lie in the holy text, and to discern somewhat of the same, for my own content. ([...] Il mio fine e desiderio è di vedere come le parole e le locuzioni si trovano nel

(corsivo mio). V. sopra II.3. 110 Questi esercizi sono riprodotti in un facsimile corredato di annotazioni in I.S. Meyer, “The Hebrew Preface to Bradford’s History”, American Jewish Historical Society Publications, No. xxxviii, Part 4 (June 1949). Non è tuttavia corretto considerarli una prefazione all’opera. Essi furono aggiunti anni dopo la sua composizione, quando Bradford era ormai anziano. 111 Bradford, p. xxviii. 112 Vedi S. Bercovitch, Typology and Early American Literature, University of Massachusetts Press, Amherst 1972. 108 109

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Il governatore William Bradford, 1590-1657

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testo sacro, e di comprenderne qualcosa per ciò che mi riguarda)113.

Il manoscritto di Bradford ebbe una vicenda che sembrerebbe anomala per l’epoca moderna, ad un secolo e mezzo e più dalla diffusione della stampa a caratteri mobili. La sua prima pubblicazione risale infatti al 1856, e prima di allora venne tramandato di padre in figlio, e poi di biblioteca in biblioteca sui due lati dell’oceano, fino a giungere in forma di trascrizione nelle mani del suo primo editore a Boston. Questo non significa tuttavia che i suoi contenuti non avessero larghissima diffusione già prima di allora, e, in realtà, sin dal loro primo apparire, dal momento che il testo fu letto, ricopiato, trascritto e riscritto in molti altri volumi che invece raggiunsero la stampa già a partire dalla seconda metà del ’600. Dopo la morte di Bradford il manoscritto passò al suo figlio maggiore, Major William Bradford, poi al figlio maggiore di questo, Major John Bradford, poi a sua volta al figlio di questo, Samuel Bradford, che nel 1705 aggiunse una nota al manoscritto, la quale illumina questa tradizione familiare. Già nei primi cinquant’anni dopo il suo compimento, l’opera deve essere stata letta anche al di fuori della cerchia famigliare, come è dimostrato dal fatto che Nathaniel Morton se ne servì, parafrasandone molte parti, per il suo New Englands Memoriall (Memoriale della Nuova Inghilterra) del 1669, che è la prima storia di una colonia del New England pubblicata in America (a Cambridge, Massachusetts). Lo stesso Morton ricopiò poi nei registri della chiesa di Plymouth la storia di Bradford fino al IX capitolo del primo libro, insieme ad alcune altre parti estratte dal resto dell’opera. La parte comprendente soltanto i primi nove capitoli di questa copia fu poi pubblicata per la prima volta nel 1841 da Alexander Young nelle sue Chronicles of the Pilgrim Fathers (Cronache dei Padri Pellegrini). La copia intera fu pubblicata successivamente, nel 1920, come parte dei

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Bradford, p. xxviii.

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Plymouth Church Records (Registri della Chiesa di Plymouth) nelle Publications XXII della Colonial Society of Massachusetts114. Dopo Morton il manoscritto di Bradford passò nelle mani del noto pastore puritano di Boston, Increase Mather, che lo impiegò come fonte per la sua storia delle guerre indiane, A Brief History of the Warr With the Indians in New-England (Breve storia della guerra contro gli Indiani nella Nuova Inghilterra) (1676). Suo figlio Cotton lo utilizzò invece per redigere la parte riguardante la colonia di Plymouth all’interno della sua celeberrima storia ecclesiatica americana, Magnalia Christi Americana (I miracoli americani di Cristo), pubblicata a Londra nel 1702. William Hubbard lo usò a sua volta per la sua History of New England (Storia della Nuova Inghilterra), finita prima del 1683, ma pubblicata solo nel 1815. Poi il manscritto fu preso in prestito dal giudice Samuel Sewall, autore di un famoso diario, e da lui passò nelle mani del Rev. Thomas Prince nel 1728. Prince era un pastore della Old South Church di Boston e fu uno dei primi collezionisti di cd. “Americana”. Chiese all’allora erede vivente di Bradford, Major John Bradford, di poter acquistare il manoscritto di Of Plimoth Plantation per la sua biblioteca personale situata all’interno del campanile del Meeting House, biblioteca divenuta a quel punto talmente ampia da essere chiamata “The New England Library”. John Bradford, pur acconsentendo al prestito, rifiutò l’offerta di acquisto assicurando che «he would never part with the property» («non si sarebbe mai separato dalla sua proprietà»)115. Prince scrisse allora nel risvolto del libro: «I write down this that Major Bradford and his heirs may be known to be the right owners» («Prendo nota che il Maggiore Bardford e i suoi eredi siano riconosciuti come i legittimi proprietari»)116. Ma sulla stessa pagina si trova anche incollata l’etichetta della New England Library. A quanto pare Bradford avrebbe acconsentito a che il manoscritto fosse depositato nella suddetta biblioteca a condizione che lui stesso avrebbe potuto disporne, e che suo S. E. Morison (ed.), Of Plymouth Plantation 1620-1647 by William Bradford, New York 2006, p. xxviii. 115 Ivi, p. xxix. 116 Ivi, p. xxix. 114

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figlio Samuel ne fosse considerato il legittimo proprietario. Anche il Rev. Prince fece uso del manoscritto di Bradford come fonte per una Chronological History of New England (Storia cronologica della Nuova Inghilterra) pubblicata a Boston nel 1736. Ma a differenza di altri copisti egli aggiunse al manoscritto originale note, sottolineature e perfino correzioni ortografiche. Alla sua morte nel 1758 lasciò tutta la sua biblioteca in eredità alla Old South Church. Il manoscritto fu poi consultato dal governatore Thomas Hutchinson per il secondo volume della sua History of Massachusetts Bay (Storia della Baia del Massachusetts) pubblicata a Boston nel 1767. Qualche anno dopo seguì la Guerra d’Indipendenza Americana, alla fine della quale ci si accorse che il prezioso manoscritto di Bradford era sparito dalla New England Library. I sospetti caddero sul governatore che l’ebbe per ultimo, ma durante la guerra il Meeting House era stato occupato anche dalle milizie inglesi, le quali potevano quindi a loro volta essere ritenute responsabili della scomparsa. Of Plimoth Plantation riemerse più di cinquant’anni dopo a Londra nella biblioteca di Fulham Palace, residenza del vescovo della città. Anche in Inghilterra alcuni storici ecclesiastici come Samuel Wilberforce o il Rev. James S. M. Anderson o Joseph Hunter ne avevano fatto buon uso, ad insaputa degli Americani, e fu grazie ad alcune delle loro note che che nel 1855 John T. Thornton si accorse di una citazione da Bradford nella History (Storia) di Wilberforce, citazione seguita dalla localizzazione del manoscritto: «Fulham MS. History». Fu subito fu avviata una procedura per commissionare la trascrizione del testo, che venne affidata, con il consenso del vescovo, ad un certo «gentleman» per la modesta cifra di £ 40. Questa accuratissima trascrizione fece da base per tutte le edizioni dell’opera di Bradford pubblicate prima del 1912117. Charles Deane, che era il curatore della Massachusetts Historical Society, e colui che aveva commissionato la trascrizione del manoscritto di Of Plimoth Plantation, fece pubblicare il testo corredato 117 Nel 1912 venne pubblicata dalla “Massachusetts Historical Society” la prima monumentale edizione critica basata sul manoscritto originale e curata da W.C. Ford; v. Morison (ed.), p. xxxii.

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di molte note erudite ed interessanti nel III volume della Quarta Serie delle Collections della Società nel 1856. Fu la sua prima pubblicazione a stampa, due secoli dopo la compilazione per mano di William Bradford. Nello stesso anno e dalle stesse lastre la Little, Brown & Company stampò e pubblicò la prima edizione per il grande pubblico, creando un evento letterario sensazionale. Già nel 1855 l’Inglese Rev. John Waddington aveva proposto che il manoscritto venisse restituito al governo del New England. Nel 1860 l’allora presidente della Massachusetts Historical Society, Robert C.Winthrop, fece al principe di Galles, futuro Edoardo VII, una richiesta ufficiale per la sua restituzione. Ma la Chiesa e il Governo inglesi si mostrarono profondamente riluttanti ad accontentare i loro ex-sudditi americani, forse anche per timore che la lista dei passaggeri del Mayflower annotata in appendice all’opera, potesse indurre i loro discendenti a rivendicare possibili diritti di proprietà ancora vigenti in Inghilterra. Il vescovo di Londra prese tempo, dichiarando di non avere il diritto di restituire il manoscritto, senza prima ricevere l’autorizzazione della regina Vittoria in persona, o di un apposito atto parlamentare. Ci vollero più di quarant’anni prima che potesse tornare in patria il “Vangelo americano”, con l’appellativo svilente inventato dalla corte ecclesiastica inglese di “The Log of the Mayflower” (“Il diario di bordo del Mayflower”). Nel 1897 attraversò nuovamente l’oceano, nelle mani dell’ambasciatore americano Thomas F. Bayard, ed è ad oggi esposto in una teca in bronzo e vetro nella Massachusetts State Library di Boston. Da un punto di vista storico le peripezie di questo manoscritto possono essere collocate in un immaginario punto di incontro tra la tradizione evangelica, la copisteria medievale e l’editoria moderna. Ritroviamo la tradizione evangelica nelle riscritture “sinottiche” e non del manoscritto di Bradford (sul modello del Vangelo di Marco, ritenuto più antico rispetto a Matteo, Luca e Giovanni). La ricopiatura e la trascrizione fino al 1800 inoltrato assomiglia invece ad un’anomala sopravvivenza della copisteria medievale, tantopiù che la tipografia cominciò ad essere introdotta nel New England sin dal 1639118. Infine la 118

Vedi L.C.Wroth, The Colonial Printer, New York 1931.

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“Of Plimoth Plantation” (1630) prima pagina del manoscritto originale 168

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pubblicazione a stampa del 1856, che risultò subito in un “best-seller”, lo colloca nel moderno mercato dell’editoria di massa. Anche da un punto di vista stilistico l’opera di Bradford presenta in molte parti lo stile paratattico e non privo di una certa letterarietà tipico dei testi biblici119. L’autore appare come uno strano ibrido tra un cronachista moderno e un autore sacro: pur avendo preso parte agli eventi narrati, egli scrive dei Pilgrims nella terza persona al plurale, come avviene nella Bibbia per il popolo d’Israele, e per Gesù e i suoi discepoli. Of Plimouth Plantation è diviso in due libri di rispettivamente dieci e ventisei capitoli. Il primo libro – che è stato quello più generalmente ricopiato e letto, e può essere considerato quello contenente il vero e proprio mito di fondazione – inizia con la spiegazione dell’interpretazione separatista della Riforma in Inghilterra, a partire dall’epoca successiva al re Edoardo VI, fervente calvinista, fino alla negata libertà di culto religioso sotto Giacomo I, che spinse un gruppo di dissidenti prima all’esilio in Olanda e poi alla fondazione di una nuova colonia inglese nell’America britannica. Particolarmente interessanti sono gli ultimi due capitoli, IX e X, in cui è narrata la traversata dell’Oceano Atlantico sul Mayflower, l’arrivo sulle spiagge deserte di Cap Cod, il riparo nel porto della baia con le prime esplorazioni, e, infine, la scelta di Plymouth Harbour come luogo di insediamento e la costruzione della prima casa comune. Il primo libro copre dunque l’antefatto storico-teologico della Riforma inglese, l’esilio olandese, il viaggio oltremare, e le prime settimane di soggiorno nel New England, fino alla fondazione del villaggio di Plymouth. Il libro secondo invece è diviso in un capitolo per ogni anno di vita della nuova colonia, dal 1620 fino al 1647. Se andiamo alla prima pagina del primo libro, proprio al paragrafo iniziale dell’opera, troviamo subito quasi elencati i protagonisti e i concetti chiave dell’intera vicenda: la luce del Vangelo, la nazione

119 Vedi E.F. Bradford, „Conscious Art in Bradford’s History”, New England Quarterly I, 1928, pp. 133-157.

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d’Inghilterra, il Signore, l’oscurantismo del Papato cattolico, Satana, i Santi120 la verità, le Chiese di Dio, l’antica purezza, l’ordine, la libertà e la bellezza primitive. It is well known unto the godly and judicious, how ever since the first breaking out of the light of the gospel in our honourable nation of England, (which was the first of nations whom the Lord adorned therewith after the gross darkness of popery which had covered and overspread the Christian world), what wars and oppositions ever since, Satan hath raised, maintained and continued against the Saints, from time to time, in one sort or other. Sometimes by bloody death and cruel torments; other whiles imprisonments, banishments and other hard usages; as being loath his kingdom should go down, the truth prevail and the churches of God revert to their ancient purity and recover their primitive order, liberty and beauty. (Ai veri credenti in Dio e agli uomini di senno è ben noto quante contese e guerre Satana abbia periodicamente scatenato, fomentato e sostenuto in un modo o nell’altro contro i Santi, sin da quando la luce del Vangelo illuminò per la prima volta la nobile nazione inglese (la prima ad essere rischiarata dal Signore dopo che la fitta tenebra del papismo ebbe coperto e avviluppato il mondo cristiano): talvolta a prezzo di morte cruenta e crudeli torture, talaltra con prigionia, esilio e altre persecuzioni, spinto dal timore che il suo regno tramonti, che prevalga la verità e le chiese di Dio ritornino all’antica purezza restaurando il primitivo ordine, la libertà e lo splendore degli inizi)121.

Si tratta, come abbiamo già potuto rilevare in precedenza, di un’opera di interesse prevalentemente teologico e politico. Al centro troviamo, appunto, il Vangelo e l’Inghilterra, la quale ultima è considerata la prima tra le nazioni del mondo cristiano ad averne ricevuto in dono la luce dal Signore. Bradford si riferisce probabilmente a qualche traduzione in volgare inglese della Bibbia, possibilmente

120 121

Vedi sopra p. 155. Bradford, p. 3 (trad. it., pp. 582-3).

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quella di Wycliff del 1383 o quella di Tyndale del 1525, sebbene quest’ultima sia successiva a quella luterana del 1522. I credenti – o ‘Santi’ – della nazione inglese diventano così il nuovo popolo eletto da Dio, quello al quale egli si rivelò con la sua parola prima che alle altre nazioni cristiane. Proprio per questo è continuamente insidiato dall’oscurantismo papista alleato di Satana, che pur di non vedere tramontare il proprio dominio sull’uomo, vuole minare la sua libertà e purezza. La recuperata attualità della caduta dell’uomo e del suo trovarsi al centro dello scontro tra Dio e Satana è uno dei tratti distintivi dell’esegesi protestante da Lutero in poi. Ma ciò che qui interessa in maniera particolare è l’affiancamento del discorso nazionale a quello invece cristiano. I Pilgrims riprendono la concezione “tribale” incentrata sulla stirpe eletta di Abramo presente nel Pentateuco («in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»)122 e la traspongono sulla nazione inglese come nuovo Israele, ovvero come nuovo popolo guida dell’umanità delineato nelle benedizioni di Mosè agli Israeliti: Certo egli ama i popoli; tutti i suoi santi sono nelle tue mani, mentre essi, accampati ai tuoi piedi, ricevono le tue parole123.

La stessa predilezione per il popolo eletto e per il suo ruolo di guida è espresso da Gesù in Matteo 15, 24: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele», e in Giovanni 4, 22: «[...] la salvezza viene dai Giudei». Più volte è anche sottolineato il fatto che Gesù appartenga alla stirpe di Abramo come suo diretto discendente in linea maschile. D’altra parte è indubbio che una delle maggiori novità introdotte dal Nuovo Testamento stia nella maggiore enfasi dell’imparzialità divina e dell’apertura cosmopolita nei confronti degli ultimi e degli stra-

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Genesi, 12, 3 (cfr. anche 22, 18). Deuteronomio, 33, 3.

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nieri, con la quale la teologia tendenzialmente selettiva e nazionalista dei Pilgrims sembra porsi in netta contraddizione: «Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti»124.

Gesù si pone anche in contrasto con la concezione “tribale” della comunità dei giusti: «Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti». Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»125.

In Marco 6, 4 (cfr. anche Luca 4, 24) introduce l’idea che i popoli siano inclini a disprezzare i propri profeti: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».

Questa apertura cosmopolita del Nuovo Testamento è ancora più marcata negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo. Così ad esempio nel discorso di Pietro presso il centurione romano Cornelio: Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti»126.

Matteo, 8, 11-12; Luca, 13, 22-30. Matteo, 12, 46-50; cfr. anche Marco, 3, 31-35 e Luca, 8, 19-21. 126 Atti, 10, 34-37. 124 125

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Oppure nella Lettera ai Romani (10, 11): Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato127.

Senza volerci addentrare troppo in questioni esegetiche troppo difficili e controverse, possiamo comunque concludere che i Pilgrims ebbero sin dal principio l’ambizione di considerarsi i promotori più autentici dell’avanzamento della fede cristiana nel mondo: Having undertaken, for the Glory of God and advancement of the Christian Faith and Honour of our King and Country, a Voyage to plant the First Colony in the Northern Parts of Virginia, do by these presents solemnly and mutually in the presence of God and one of another, Covenant and Combine ourselves together into a Civil Body Politic, for our better ordering and preservation and furtherance of the ends aforesaid. (Avendo intrapreso, per la gloria di Dio e il progresso della fede cristiana e dell’onore del nostro re e del nostro paese, un viaggio per fondare la prima colonia nelle zone settentrionali della Virginia, noi qui presenti conveniamo e ci uniamo insieme solennemente e alla pari di fronte a Dio ed a noi stessi in un corpo politico civile, per poterci amministrare e preservare meglio e favorire i suddetti scopi)128.

Ma veniamo ora al primo libro di Of Plymouth Plantation e così al secondo mito di fondazione americano, dopo quello codificato da John Smith nella Generall Historie. Bradford lo scrisse a dieci anni di distanza dai fatti, ma esisteva già un diario dettagliato del primo anno di soggiorno nel New England redatto nel 1621 dal colono Edward Winslow insieme allo stesso Bradford. Questo diario scritto “a caldo”

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Cfr. anche Romani, 2, 11. Bradford, p. 76.

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sta alla colonia di Plymouth come A True Relation sta a quella di Jamestown. Anch’esso fu quasi immediatamente pubblicato a Londra (1622) con il titolo di Journal of the Beginning and Proceeding of the English Plantation settled at Plymouth in New England (Diario del principio e del prosieguo della colonia inglese insediata a Plymouth in Nuova Inghilterra), e divenne noto come Mourt’s Relation (La relazione di Mourt), probabilmente dal nome del suo editore, George Morton. Tale pubblicazione permise, ad esempio, a John Smith di usarne i contenuti come fonte per alcuni capitoli del libro VI della sua Generall Historie. Come in A True Relation, anche in Mourt’s Relation si cerca di rendere appetibile l’emigrazione agli Inglesi desiderosi di cambiare radicalmente la loro esistenza lontano dalla madrepatria. Essa copre le esperienze dei passeggeri del Mayflower dal loro primo approdo a Cape Cod alle prime esplorazioni della regione e gli incontri con gli Indiani, fino alla celebrazione inaugurale del “Thanksgiving” (“Ringraziamento”) e l’arrivo della Fortune nel novembre del 1621. Si tratta grossomodo degli stessi eventi ripetuti poi con toni più tipologici nel primo libro e all’inizio del secondo libro di Of Plymouth Plantation. Due sono i momenti salienti di questo mito di fondazione americano, quelli che più si impiantarono nella memoria e nell’immaginario della nazione: lo sbarco nel luogo del futuro insediamento, e la celebrazione del primo “Thanksgiving”. Al primo fatto è legato il culto della pietra di approdo dei Pilgrims, pietra conservata ad oggi sulla spiaggia di Plymouth e nota come “Plymouth Rock” (“Pietra di Plymouth”). Questa reliquia non è in realtà affatto menzionata da Bradford, che descrive l’approdo della scialuppa del Mayflower in toni assai più modesti: On Monday they sounded the harbor and found it fit for shipping, and marched into the land and found divers cornfields and little running brooks, a place (as they supposed) fit for situation. At least it was the best they could find, and the season and their present necessity made them glad to accept it. So they returned to their ship again with this news to the rest of their people, which did much comfort their hearts. 174

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“Plymouth Rock” Pietra di approdo dei ‘Pilgrims’, 1620

(Nella giornata di lunedì sondarono le acque del porto giudicandolo adatto alla navigazione; si inoltrarono poi sulla terraferma incontrando numerosi campi di granoturco e piccoli ruscelli. Il luogo sembrò loro ottimo per stabilirvisi; era in ogni caso il migliore che poterono trovare e, data la stagione dell’anno e le loro condizioni in quel momento, furono ben lieti di accogliere quella possibilità. Ritornarono quindi alla nave per portare agli altri la buona notizia ed essa recò al loro animo gran conforto)129.

Plymouth Rock fu infatti identificata solo nel 1741 da un novantacinquenne di nome Elder John Faunce, il quale ricordava dai tempi

129

Bradford, p. 72 (trad. it., pp. 596-7).

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dell’infanzia, che quella gli era stata indicata come «il punto in cui erano approdati gli antenati» in un lunedì dell’11 o del 21 dicembre 1620130. Vedremo nel prossimo capitolo (III. 2.) i significati tipologici che possono essere attribuiti a questa pietra. Il secondo evento importante, il cui possibile significato tipologico verrà invece discusso nel cap. IV. 1., è, come accennato poco fa, la prima celebrazione del “Thanksgiving” nell’autunno del 1621, dopo il primo raccolto, quando soltanto la metà dei passeggeri del Mayflower era sopravvissuta al primo inverno nel New England. Anche qui Bradford si tiene basso e non menziona una vera e propria celebrazione: They began now to gather in the small harvest they had, and to fit up their houses and dwellings against winter, being all well recovered in health and strength and had all things in good plenty. For as some were thus employed in affairs abroad, others were exercised in fishing, about cod and bass and other fish, of which they took good store, of which every family had their portion. All the summer there was no want; and now began to come in store a fowl, as winter approached, of which this place did abound when they came first (but afterwards decreased by degrees). And besides waterfowl there was great store of wild turkeys, of which they took many, besides venison, etc. Besides they had about a peck a meal a week to a person, or now since harvest, Indian corn to that proportion. Which made many afterwards write so largely of their plenty here to their friends in England, which were not feigned but true reports. (Cominciarono allora a raccogliere i pochi frutti che avevano, e a montare le case e i ripari per l’inverno, essendo ormai ben ricostituiti in salute e in forze e avendo abbondanza di tutte le cose necessarie. Così, mentre alcuni erano impegnati in faccende fuori casa, altri si esercitavano nella pesca di merluzzi, spigole e altri pesci, dei quali presero una gran quantità, dandone una porzione ad ogni famiglia. Per tutta l’estate non ci fu scarsità di nulla; ed ora, con l’avvicinarsi dell’inverno, cominciarono ad arrivare tantissimi uccelli, dei quali quel luogo abbondava

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Morison (ed.), p. 72 n. 4.

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quando erano arrivati all’inizio (ma che poi diminuirono gradualmente). E a parte gli uccelli acquatici, c’era una enorme quantità di tacchini selvatici, di cui fecero un gran rifornimento, e inoltre cervi e altre bestie. Avevano dunque un sacco di cibo a persona per una settimana, e dopo la mietitura, la stessa proporzione di grano indiano. Cosa che indusse molti a scrivere dell’abbondanza di quel luogo ai loro amici in Inghilterra, e non erano racconti inventati, ma veri)131.

Esiste tuttavia una lettera di Edward Winslow dell’11 dicembre 1621, in cui viene descritta l’effettiva e ricca celebrazione del “First Thanksgiving” (“Primo Ringraziamento”) in compagnia degli Indiani, e che è inclusa nella Mourt’s Relation (pp. 60-65) del 1622: Our harvest being gotten in, our Governor sent four men on fowling, that so we might after a more special manner rejoice together, after we had gathered the fruit of our labours. They four in one day killed as much fowl as, with a little help beside, served the Company almost a week. At which time, amongst other recreations, we exercised our arms, many of the Indians coming amongst us, and amongst the rest their greatest king, Massasoit with some 90 men, whom for three days we entertained and feasted. And they went out and killed five deer which they brought to the plantation and bestowed on our Governor and upon the Captain and others. (Avendo ritirato il raccolto, il nostro governatore mandò quattro uomini a caccia di uccelli, affinché si potesse festeggiare meglio la mietitura dei frutti del nostro lavoro. In un giorno i quattro uomini uccisero tanti uccelli da bastare, con qualche minima aggiunta, all’intera compagnia per una settimana. In quel periodo ci dedicammo a diversi svaghi, tra cui l’esercitazione con le armi. Vennero tra noi molti Indiani insieme al loro re supremo, Massasoit, accompagnato da novanta uomini, che ospitammo facendo grandi banchetti per tre giorni. Gli indiani uscirono e uccisero cinque cervi, che riportarono alla colonia donandoli al nostro governatore, al capitano e ad altri)132.

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Bradford, p. 90. Morison (ed.), p. 90 n. 8.

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Bradford voleva naturalmente evitare di descrivere nel suo “Vangelo” americano un simile banchetto, che a giudicare dalla lettera di Winslow sembra avere avuto dei connotati quasi orgiastici. Ciò non toglie che la celebrazione del ringraziamento a Dio per essere sopravissuti, seppure in pochi, ad una sfida tanto grande come quella affrontata dai Pilgrims, sia divenuta la festa nazionale e religiosa più importante della tradizione americana.

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2. TERRA VERGINE, TERRA PROMESSA

Il continente americano scoperto dagli Europei come “mondo nuovo” alla fine del XV secolo, fu da questi certamente ritenuto una tabula rasa da un punto di vista toponomastico. Lo stesso continente – America – prese il nome dal navigatore italiano Amerigo Vespucci, e similmente accadde con le singole regioni, i fiumi, le montagne e le altre località e coordinate geografiche che assunsero i nomi di persone o di luoghi del “vecchio mondo”. Il fatto che le popolazioni autoctone di quella terra avessero da migliaia di anni già provveduto a nominare le cose e i luoghi, fu solo in parte compreso e fatto proprio dagli esploratori e dai coloni europei. Questa fase assai curiosa della storia moderna fa sì che troviamo oggi in quel continente un mosaico sconfinato e mirabilante di nomi di origine diversissima, che vanno da Santo Domingo ad Acapulco, da Washington a Mississippi, da New Orleans a Idaho. Il primo toponimo dato dagli Inglesi nel Nuovo Mondo fu ‘Virginia’. Il secondo ‘Cape Fear’ (i.e. ‘Capo della Paura’)1. Si tratta in quest’ultimo caso e nel concreto di un promontorio sporgente nell’Atlantico dall’odierno Stato del North Carolina, dove nel 1585 la nave capitanata da Sir Richard Grenville e diretta alla colonia poi perduta di Roanoke2, restò insabbiata e fece precipitare i suoi uomini nel ter-

G.R. Stewart, Names on the Land. A Historical Account of Place-Naming in the United States, Boston 1945, p. 22; Captain John Smith, Writings with other Narratives of Roanoke, Jamestown, and the First English Settlement of America, The Library of America, New York 2007, pp. 234 e 835. 2 D.B. Quinn, The Roanoke Voyages, 1584-90, 2 voll., London 1955. 1

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rore di naufragarvi, da cui il nome “Capo della Paura”3. Al di là dell’episodio specifico, il sentimento della paura e perfino del terrore è – per quanto universalmente diffuso – emblematico di tutte le prime fasi della colonizzazione inglese dell’America, tanto da assumere una sua particolare connotazione nella cultura anglo-americana, come un segno indelebile, quasi un odore fisico, che essa non è riuscita mai a togliersi del tutto dalla pelle, e che secondo qualcuno ne determina il carattere subliminalmente paranoico. John Smith e William Bradford furono tra i primi a riuscire ad esorcizzarlo – o quasi – dando un significato più alto a quell’esperienza, attraverso la creazione del mito di essere approdati in una terra vergine e promessa. Ciò non toglie che tale sentimento rimase sempre presente anche nei loro scritti: paura della lontananza dalla patria e della mancanza di un riparo, di una casa («we had no houses to cover us» – «non avevamo case per metterci al riparo»)4, paura degli assalti («an alarum caused us with all speede to take our armes, each expecting a new assault of the Salvages» – «un allarme ci spinse a prendere le nostre armi con massima velocità, visto che ognuno di noi si aspettava un nuovo assalto da parte dei selvaggi»)5 o della cattura da parte degli Indiani («at each place I expected when they would execute me» – «ad ogni fermata pensai che mi avrebbero giustiziato»)6, paura della fame e della solitudine, del male e delle potenze diaboliche: Some, from their reasons and hopes conceived, laboured to stir up and encourage the rest to undertake and prosecute the same; others again, out of their fears, objected against it and sought to divert from it; [...] as that it was a great design and subject to many unconceivable perils and dangers; [...] there they should be liable to famine and nakedness and the want, in a manner, of all things. [... They] should yet be in continual danger of the savage people, who are cruel, barbarous and most Sir Richard Grenville, “The Journal of the Tiger”, in Captain John Smith, Writings with other Narratives of Roanoke, Jamestown, and the First English Settlement of America, The Library of America, New York 2007, p. 835. 4 Smith, pp. 7-8. 5 Ivi, p. 30. 6 Ivi, p. 14. 3

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treacherous, being most furious in their rage and merciless where they overcome; [...] And surely it could not be thought but the very hearing of these things could not but move the very bowels of men to grate within them and make the weak to quake and tremble. (Alcuni, spinti dalle proprie ragioni e speranze, si sforzavano di smuovere ed incoraggiare gli altri a intraprendere e portare a termine l’impresa; altri invece, a causa delle loro paure, si opposero e cercarono di distoglierci da essa; [...] si trattava di un grande progetto esposto a rischi e pericoli inconcepibili; [...] lì sarebbero stati soggetti alla fame, alla nudità e alla mancanza, in un certo senso, di qualsiasi cosa. Sarebbero stati sotto la continua minaccia dei popoli selvaggi, che sono crudeli, barbari e assai infidi, essendo furiosissimi nella loro rabbia e senza pietà quando vincono; [...] E chiaramente era inevitabile pensare che solo il sentir parlare di queste cose, non faceva altro che indurre le viscere degli uomini a ribollire dentro, e quelli più deboli a fremere e tremare)7.

Queste paure persistenti indussero non pochi di quei primi coloni a tentare ripetutamente di abbandonare il progetto e riattraversare l’oceano per tornare in Inghilterra, oppure perfino al suicidio, come avvenne per alcune donne dei Pilgrims, tra cui la prima moglie di William Bradford, Dorothy (di cui significativamente non c’è traccia in Of Plimoth Plantation), che si gettò in mare dal Mayflower, ancorato da settimane nella baia di Cape Cod di fronte alle dune gelide e deserte, in attesa che la piccola spedizione di uomini tornasse dalla prima esplorazione del territorio e indicasse il luogo scelto per la costruzione dell’insediamento. «Never had a Promised Land looked more unpromising» («Mai una Terra Promessa era apparsa meno promettente»)8, ha notato uno storico americano riflettendo sull’approdo desolante del Mayflower a Cape Cod; approdo così descritto nel penultimo paragrafo del capitolo IX di Of Plymouth Plantation, che qui vale la pena citare quasi per intero: W. Bradford, Of Plymouth Plantation 1620-1647, S.E. Morison (ed.), New York 2006, pp. 25-26 (corsivo mio). 8 D.J. Boorstin, The Americans: The Colonial Experience, New York 1958, Prologue. 7

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But here I cannot but stay and make a pause, and stand half amazed at this poor people’s present condition; and so I think will the reader, too, when he well considers the same. Being thus passed the vast ocean, and a sea of troubles before in their preparation [...] they had now no friends to welcome them nor inns to entertain or refresh their weatherbeaten bodies; no houses or much less towns to repair to, to seek for succour. [...] And for the season it was winter, and they that know the winters of that country know them to be sharp and violent, and subject to cruel and fierce storms, dangerous to travel to known places, much more to search an unknown coast. Besides, what could they see but a hideous and desolate wilderness, full of wild beasts and wild men – and what multitudes there might be of them they knew not. Neither could they, as it were, go up to the top of Pisgah to view from this wilderness a more goodly country to feed their hopes; for which way soever they turned their eyes (save upward to the heavens) they could have little solace or content in respect of any outward objects. [...] If they looked behind them, there was the mighty ocean which they had passed and was now as a main bar and gulf to separate them from all the civil parts of the world. (Non posso fare a meno a questo punto di fermarmi con un senso quasi di smarrimento di fronte alla situazione in cui si trovava allora quella povera gente – un sentimento che penso condividerà anche il lettore, se ben vi rifletta. Con alle spalle il vasto oceano e davanti a sé un mare di difficoltà incombenti, non avevano né amici ad accoglierli, né taverne ad ospitarli o a ristorare il fisico spossato dalle intemperie, né case o tanto meno cittadine presso le quali cercar riparo o aiuto. [...] Era poi la stagione invernale, e coloro che conoscono gli inverni in quelle regioni sanno come siano rigidi e aspri, soggetti a furiose e tremende tempeste: se è pericoloso viaggiare in tali condizioni verso luoghi conosciuti, tanto più lo sarà esplorando una costa ignota! Null’altro si stendeva dinanzi a loro se non una spaventosa landa desolata piena di animali selvatici e popolazioni selvagge, il cui numero e la cui forza non erano in grado di prevedere. Né potevano, per così dire, salire sulla vetta del monte Pisgah9 per godere da quella landa desolata la vista di un fertile paese capace di nutrire le loro speranze; da qualunque parte volgessero gli occhi, 9 Dal monte Pisgah Mosè poté guardare alla Terra Promessa (Deuteronomio, 3, 27).

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salvo che in alto verso il cielo, potevano trovare ben poco conforto e soddisfazione rispetto ad ogni loro necessità esteriore. [...] Se poi si guardavano alle spalle, ecco il possente oceano appena attraversato che rimaneva ora come un grande abisso e sbarramento a separarli da tutte le nazioni civili del mondo)10.

Chiaramente in America il principio di speranza innescato dal mito di fondazione come antidoto alla paura e al disagio degli inizi ebbe un’importanza assai maggiore che per qualunque altra nazione moderna, e la parola “hope” (i.e. ‘speranza’) è senza dubbio tra le più profondamente radicate nell’anima americana. Basta viaggiare in qualche parte della East Coast per ritrovarla ovunque. Il suo contenuto specifico ha riguardato tradizionalmente il paese stesso, una realtà fisica che poteva coinvolgere sia l’individuo che la collettività, e lo ha percepito ora come nuovo Lazio dell’età dell’oro, ora come nuovo Eden e ora come nuovo Canaan o nuova Gerusalemme. Nei primi due casi possiamo parlare concettualmente, sebbene secondo interpretazioni diverse, di terre vergini, i cui connotati essenziali sarebbero la fertilità, la piacevolezza, la ricchezza e la semplicità. Si aggiunge, nel caso edenico, l’esclusività del dominio sulle altre creature da parte dell’uomo, che del giardino è l’”usufruttuario”11 designato da Dio12: E Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». [...] Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse13. 10 Bradford, pp. 61-62 (trad. it. di M. Pustianaz in F. Marenco (a cura di), Nuovo Mondo. Gli Inglesi, Torino 1990, pp. 592-3). 11 Vedi L. Franchini, “Ecologia: per un dialogo tra le culture”, Studium sett./ott. 2001, Anno 97, pp. 739-746. 12 Cfr. L. Marx, The Machine in the Garden, Technology and the Pastoral Ideal in America, Oxford University Press 1964/2000, pp. 73-88. 13 Genesi, 1, 26 e 2, 15.

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Così ad esempio William Bradford interpretò la presenza degli Indiani in America non come la presenza di altri uomini di pari “grado” creazionale, ma come creature di ordine subordinato, simili alle bestie selvatiche da dominare, cosa che oltretutto faceva dell’America un terra di fatto “disabitata”: The place they had thoughts on was some of those vast and unpeopled countries of America, which are fruitful and fit for habitation, being devoid of all civil inhabitants, where there are only savage and brutish men which range up and down, little otherwise than the wild beasts of the same. (Il luogo che avevano in mente era una di quelle vaste e spopolate regioni d’America, che sono fertili e adatte all’insediamento in quanto prive di abitanti civili. Vi sono solamente uomini bruti e selvaggi che vagano di qua e di là, in maniera poco diversa dalle bestie selvatiche)14.

Già i primi esploratori paragonarono l’America ad un grande giardino profumato, e non è un caso che la prima colonia spagnola continentale fu dal suo scopritore Juan Ponce de León nel 1513 chiamata “Florída”15. Anche i Capitani Arthur Barlowe e Philip Amadas, che nel 1584 guidarono la prima spedizione inglese per conto di Sir Walter Raleigh, il quale aveva in quell’anno ottenuto da Elisabetta I il royal patent (i.e. ‘patente reale’) per la colonizzazione del Nuovo Mondo a nord della Florida, scrissero un resoconto quasi idilliaco del loro viaggio americano. Tale resoconto fu poi pubblicato all’interno delle Principal Navigations di Hakluyt nel 1589, che ebbero, come già ricordato, un’eco gigantesca nell’Inghilterra degli anni in cui John Smith era ancora un ragazzo (lo stesso Smith lo riassunse poi anche nel primo libro della sua Generall Historie del 1624). In esso Barlowe descriveva il passaggio dalla navigazione d’alto mare a quella costiera come segnato dalla propagazione di un profumo dolcissimo, che richiamava alla mente l’immagine di uno splendido giardino, simile a 14 15

Bradford, p. 25 (corsivo mio). Stewart, p. 11.

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quello della «prima creazione» («first creation»), anche se vi aggiungeva poi un innesto classico, per cui i nativi – a differenza che in Bradford – venivano paragonati a uomini dell’«età dell’oro» («golden age»)16, per nulla bestiali, ma anzi, nella loro essenza, naturalmente buoni: The second of July [1584], we found shole water, which smelt so sweetly, and was so strong a smell, as if we had bene in the midst of some delicate garden, abounding with all kind of odoriferous flowers, by which we were assured, that the land could not be farre distant. [...] The soile is the most plentifull, sweete, fruitfull, and wholesome of all the world. [...] We were entertained with all love, and kindness, and with as much bountie, after their manner, as they could possibly devise. Wee found the people most gentle, loving, and faithfull, void of all guile, and treason, and such as lived after the manner of the golden age. The earth bringeth foorth all things in aboundance, as in the first creation, without toile or labour. (Il 2 luglio [1584] trovammo acqua bassa: a questo punto sentimmo un profumo così dolce e così forte che pareva di essere in mezzo a un giardino delicato traboccante di ogni sorta di fiori odorosi. Avemmo allora la certezza che la terra non poteva essere molto lontana. [...] La terra è la più ricca di piante, la più bella, la più fertile e salubre del mondo. [...] Fummo trattati con cordialità e ogni possibile cortesia, e con tutta la magnificenza di cui erano a loro modo capaci. Trovammo che erano gente di animo gentilissimo e affettuoso, schietti, senza ombra di falsità o inganno, che vivevano come nell’età dell’oro. La terra è prodiga di tutte le cose, come quando il mondo fu creato, senza che la si coltivi col sudore della fronte)17. cfr. Esiodo, Opere e giorni, v. 109 ss., in Opere, a cura di G. Arrighetti, Biblioteca della Pléiade, Torino 1998; Ovidio, Metamorfosi, I, 89 ss., a cura di A. Barchiesi, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 2005. 17 A. Barlowe, “Discourse of the First Voyage”, in Captain John Smith, Writings with other Narratives of Roanoke, Jamestown, and the First English Settlement of 16

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Prima di essere pubblicato all’interno dell’opera di Hakluyt, il Discourse of the First Voyage (Discorso sul primo viaggio) era stato inviato in forma di lettera a Sir Walter Raleigh18, che lo aveva immediatamente sottoposto all’attenzione della sua regina. Questa rimase colpita dalla descrizione di quel paese, che il corrispondente chiamava – secondo la trascrizione del suo nome indiano – ‘Wingandacoa’. Forse ispirata dal nome del suo re, ‘Wingina’, Elisabetta I decise allora di dare il nome latino ‘Virginia’ a quella provincia; un nome che la identificava sia con la sua rigogliosa e intatta natura di “terra vergine”, che con la sua sovrana inglese, celebrata dai poeti e i pittori dell’epoca come “Virgin Queen” (“Regina Vergine”), assumendo quindi anche il significato di “terra della Vergine”19. Questo nome implicava oltretutto uno smacco non da poco alla Chiesa di Roma, che aveva voluto sancire sin dal 1493 con la bolla papale Inter Caetera (dello spagnolo Alessandro VI) l’assegnazione europea delle terre del Nuovo Mondo a favore della Spagna, ed aveva inoltre recentemente promulgato una sorta di condanna a morte di Elisabetta I. La Corona d’Inghilterra, con la sua Chiesa scismatica e protestante, di conseguenza ormai quasi completamente privata dell’antico culto della verginità perpetua di Maria e delle altre prerogative a lei assegnate dalla teologia tradizionale, celebrava così la sua vergine terrena e moderna. Allo stesso modo e anni dopo, forse anche John Smith – la regina era ormai morta da tempo – volle con la figura di Pocahontas restituire al nascente Impero Britannico il mito di una principessa vergine, madre spirituale della nuova terra inglese d’oltremare20. Fu così che al resoconto di Barlowe, quando venne stampato e pubblicato nei volumi di Hakluyt, venne aggiunta la parentesi: «the King is called Wingina, the countrey Wingandacoa, (and nowe by her Majestie, Virginia)» («Il nome del re

America, The Library of America, New York 2007, pp. 820-826 (trad. it. di Fl. Marenco, in Fr. Marenco (a cura di), Nuovo Mondo. Gli Inglesi, Torino 1990, pp. 343-349) (corsivi miei); cfr. D.B. Quinn, The Roanoke Voyages, 1584-90, 2 voll., London 1955. 18 E. Edwards, The Life of Sir Walter Raleigh and His Letters, 2 voll. London 1868. 19 Stewart, p. 22. 20 V. p. 143.

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è Wingina e il paese si chiama Wingandacoa, ora Virginia in onore di Sua Maestà»)21, allo stesso modo in cui Smith annotò nel primo libro della Generall Historie: «This discovery was so welcome into England that it pleased her Majestie to call this Country of Wingandacoa, Virginia» («La scoperta fu talmente gradita in Inghilterra, che Sua Maestà volle che questo paese di Wingandacoa fosse chiamato Virginia»)22. La colonia inglese di Roanoke, che nacque proprio con quella prima spedizione del 1584, divenne poi un inspiegato fallimento, poiché fu nel 1590 trovata deserta dei suoi circa centoventi coloni, i quali non furono mai più ritrovati e di cui si perse ogni traccia e notizia23. Questa inquietante realtà strideva naturalmente con il quadro idilliaco della terra vergine e dell’età dell’oro che avevano tracciato Barlowe e Amadas, ma il loro resoconto doveva servire – come quelli di avventurieri successivi – proprio a togliere la paura e invogliare gli Inglesi ad avventurarsi nella colonizzazione della Virginia. Abbiamo visto come anche John Smith abbia con le sue opere essenzialmente assolto a questo compito mito-politico24. Così, ad esempio, descrive la Virginia al momento del suo arrivo all’inizio di A True Relation: [...] the Countrie (for the moste part) on each side plaine high ground, with many fresh Springes, the people in all places kindely intreating us, daunsing and festing us with strawberries, Mulberies, Bread, Fish, and other their Countrie provisions whereof we had plenty. ([...] quasi tutto il paese è composto da un terreno alto e piano, con numerose sorgenti d’acqua dolce. Ovunque la gente ci ha accolto

Barlowe, p. 822 (trad. it., p. 345). Smith, p. 233. 23 Vedi S. Sarson, British America 1500-1800. Creating Colonies, Imagining an Empire, London 2005, pp. 15-19; D.B. Quinn, England and the Discovery of America, 1481-1620, London 1974; Set Fair for Roanoke: Voyages and Colonies, 1584-1606, Chapel Hill 1985; K.O. Kupperman, Roanoke: The Abandoned Colony, Totowa 1984. 24 J. Horn, “The Conquest of Eden: Possession and Dominion in Early Virginia”, in R. Appelbaum & J. Wood Sweet (ed.), Envisioning an English Empire. Jamestown and the Making of the North Atlantic World, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2005. 21 22

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amichevolmente, danzando e offrendoci banchetti di fragole, gelsi, pane, pesci ed altri cibi del loro paese, di cui abbiamo mangiato in abbondanza)25.

Corregge però continuamente il tiro della narrazione, per dare una dimensione anche eroica, oltre che realistica (e forse un tanto paranoica) alle circostanze, come quando smaschera i sentimenti contrastanti degli Indiani nei confronti dei coloni (da questi probabilmente ricambiati): «I knew their faning love is towards me, not without a deadly hatred» («Sapevo che il loro amore simulato verso di me non era privo di un odio mortale»)26. Ma i primi coloni di Roanoke, di Jamestown e sopratutto di Plymouth interpretarono la loro esperienza americana anche nel senso di un viaggio provvidenziale. Lo abbiamo già visto fare a John Smith nella Generall Historie, quando attribuisce all’intervento di Dio un momento di inaspettata clemenza da parte degli Indiani – «But almightie God (by his divine providence) had mollified the hearts of those sterne Barbarians with compassion» («Ma Dio onnipotente per Sua divina bontà aveva intenerito il duro cuore di quei barbari muovendoli a compassione»)27 – oppure l’azione del vento che spinge le navi degli avventurieri nel porto desiderato: But God the guider of all good actions, forcing them by an extreame storme to hull all night, did drive them by his providence to their desired Port, beyond all their expectations, for never any of them had seene the coast. (Ma Dio, guida di ogni buona azione, costringendoli alla deriva con una violenta tempesta che durò una nottata intera, li condusse provvidenzialmente al porto agognato, al di là di ogni loro speranza, giacché nessuno di loro aveva mai visto prima quella costa)28. Smith, pp. 5-6. Ivi, p. 32. 27 Ivi, p. 322 (trad. it. di M. Pustianaz in F. Marenco (a cura di), Nuovo Mondo. Gli Inglesi, Torino 1990, p. 383). 28 Ivi, p. 307 (trad. it., p. 370). 25 26

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D’altra parte, come accennato poco fa, quella del viaggio provvidenziale è una visione vissuta in maniera ancora più intensa, per non dire esclusiva, dai Pilgrims, i quali concepirono l’America stessa come Terra Promessa a loro che erano «the Lord’s free people» («il popolo libero di Dio»)29, e che in quanto tale doveva essere desiderata e difesa a qualunque costo: «whatsoever it should cost them»30. Ci troviamo nuovamente di fronte ad una interpretazione tipologica dell’esperienza storica, che trasfigura il loro viaggio in un vero e proprio Esodo dalla schiavitù dell’Egitto verso una nuova Canaan o Gerusalemme. Già Barlowe, poi ripreso da Smith nel primo libro della Generall Historie, parlava di una straordinaria abbondanza di uva selvatica trovata al momento dello sbarco: [...] wee viewed the lande about us, being whereas we first landed very sandie, and lowe towards the water side, but so full of grapes, as the very beating, and surge of the Sea overflowed them, of which they founde such plentie, as well there, as in all places else, both on the sande, and on the greene soile on the hils, as in the plaines, as well on every little shrubbe, as also climing towardes the toppes of the high Cedars, that I thinke in all the world the like aboundance is not to be founde. (La riva su cui eravamo sbarcati era tutta sabbia, e bassa dalla parte dell’acqua, ma così traboccante d’uve che la risacca le sommergeva a ogni ondata. C’erano grappoli dappertutto, lì come da ogni altra parte, sulla sabbia e sul verde terreno della colline, nelle piane e su ogni arbusto. Le viti si arrampicavano fin sulle alte cime dei cedri, con tale abbondanza di frutti che credo non se ne possano trovare altrettanti sulla faccia della terra)31.

L’enfasi sulla scoperta di questa uva americana vuole forse richiamare alla mente e al cuore del lettore quella trovata dagli Israeliti nella

Bradford, p. 9. Ivi. 31 Barlowe, p. 820 (trad. it., pp. 343-344). 29 30

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ricognizione di Canaan ordinata da Dio a Mosè nel libro dei Numeri (13, 1-24): Il Signore disse a Mosè: «Manda uomini a esplorare il paese di Canaan che sto per dare agli Israeliti». [...] Mosè dunque li mandò a esplorare il paese di Canaan e disse loro: «Salite attraverso il Negheb; poi salirete alla regione montana e osserverete che paese sia, che popolo l’abiti, se forte o debole, se poco o molto numeroso; come sia la regione che esso abita, se buona o cattiva, e come siano le città dove abita, se siano accampamenti o luoghi fortificati; come sia il terreno, se fertile o sterile, se vi siano alberi o no. Siate coraggiosi e portate frutti del paese». Era il tempo in cui cominciava a maturare l’uva. [...] Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga [...]. Quel luogo fu chiamato valle di Escol a causa del grappolo d’uva che gli Israeliti vi tagliarono.

Lo stesso episodio biblico – sebbene nella versione deuteronomica (1, 24-25) – è richiamato in maniera assai più esplicita da Bradford nel capitolo X della sua opera: «And so, like the men from Eshcol, carried with them of the fruits of the land and showed their brethren; of which, and their return, they were marvelously glad and their hearts encouraged» («E così, come gli uomini da Escol, portarono con sé i frutti della terra per mostrarli ai loro fratelli, i quali ne furono incredibilmente allietati tanto da prendere nuovo coraggio»)32. Ma si tratta in realtà soltanto di uno dei continui riferimenti biblici presenti in Bradford al viaggio del popolo d’Israele verso la Terra Promessa di Canaan: «as [...] Moses and the Israelites when they went out of Egypt» («come [...] Mosè e gli Israeliti quando uscirono dall’Egitto»)33. Perfino la traversata dell’oceano vuole ricordare quella del Mar Rosso: Being thus arrived in a good harbour, and brought safe to land, they fell upon their knees and blessed the God of Heaven who had brought them over the vast and furious ocean, and delivered them from all the perils

32 33

Bradford, p. 66. Ivi, p. 19.

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and miseries thereof, again to set their feet on the firm and stable earth, their proper element. (Giunti così felicemente in porto e sbarcati sani e salvi, caddero in ginocchio benedicendo il Signore dei Cieli che li aveva guidati oltre il vasto e tempestoso oceano mettendoli al sicuro da tutti i pericoli e dalle avversità, permettendo loro di porre piede sulla salda terraferma, l’elemento a loro famigliare)34.

D’altra parte per i Pilgrims il primo arrivo in un’America fredda e inospitale non fu già arrivo nella Terra Promessa, quanto ancora viaggio attraverso il deserto (Deut. 107, 5, 7; Salmi, 25, 1-5, 8)35: What could now sustain them but the Spirit of God and His grace? May not and ought not the children of these fathers rightly say: “Our fathers were Englishmen which came over this great ocean and were ready to perish in this wilderness, but they cried unto the Lord, and He heard their voice and looked on their adversity,” etc. “Let them therefore praise the Lord, because He is good: and his mercies endure forever.” “Yea, let them which have been redeemed of the Lord, shew how He hath delivered them from the hand of the oppressor. When they wandered in the desert wilderness out of the way, and found no city to dwell in, both hungry and thirsty, their soul was overwhelmed in them. Let them confess before the Lord His lovingkindness and his wonderful works before the sons of men.” (Che altro poteva ora sostenerli se non lo Spirito Santo e la Sua misericordia? Forse che i figli di quei padri non potrebbero, o anzi dovrebbero, esclamare giustamente: «I nostri padri erano Inglesi e viaggiarono oltre il vasto oceano, pronti a morire in quel deserto, ma invocarono il Signore ed Egli ascoltò la loro voce e fu loro vicino nelle avversità»? «Lasciate perciò che rendano lode al Signore, poiché Egli è buono e la Sua misericordia durerà per sempre». «Sì, lasciate che chi è stato redento dal Signore mostri come Lui l’abbia liberato dalla mano dell’oppressore. Quando vagarono errando nelle deserte solitudini lontani dal cammino, 34 35

Ivi, p. 61 (trad. it., p. 592). Cfr. P. Miller, Errand into the Wilderness, New York 1956, Ch. I.

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e affamati e assetati non trovarono città in cui abitare, le loro anime furono oppresse. Lasciate che rendano gloria dinanzi al Signore per la Sua bontà e dinanzi ai figli degli uomini per le Sue opere miracolose»)36.

Il loro viaggio era considerato perpetuo in quanto viaggio dell’anima verso Dio, ma anche viaggio apostolico di missione evangelica: Lastly (and which was not least), a great hope and inward zeal they had of laying some good foundation, or at least to make some way thereunto, for the propagating and advancing the gospel of the kingdom of Christ in those remote parts of the world; yea, though they should be but even as stepping-stones unto others for the performing of so great a work. (Ultimo motivo, ma non meno importante, erano la grande speranza e l’intimo desiderio che provavano, di gettare delle buone basi, o perlomeno porre i presupposti, per diffondere e far avanzare l’annuncio del Regno di Dio in quelle remote parti del mondo, anche a costo di essere solamente le pietre di appoggio affinché altri portassero poi a compimento un’opera così impegnativa)37.

I Pilgrims descrivono se stessi come le pietre di appoggio – «stepping-stones» – per quelli che dopo di loro sarebbero stati chiamati ad adempiere la missione di far avanzare il Vangelo in America, simili in questo alle pietre del fiume Giordano (cfr. II.1. pp. 71-72) sulle quali passarono i sacerdoti d’Israele che trasportavano l’Arca dell’alleanza per entrare nella Terra Promessa, e di cui ogni tribù doveva portare con sé un esemplare per ricordare «per sempre» quel prodigio e quella missione alle generazioni future38, ma anche alle «pietre vive» del nuovo sacerdozio apostolico annunciato da Pietro nella sua prima lettera (2, 4-6): Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la

Bradford, pp. 62-63 (trad. it., p. 593-4). Ivi, p. 25 (trad. it., p. 587). 38 Giosuè, 4, 1-9; cfr. anche 4, 21-4. 36 37

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costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.

Ecco che il significato simbolico e ancor più tipologico di ‘Plymouth Rock’ come pietra angolare dell’«edificio spirituale» dell’America – «a great hope and inward zeal they had of laying some good foundation» («la grande speranza e l’intimo desiderio che provavano, di gettare delle buone basi») – raggiunge finalmente la sua pienezza: essa è pietra memoriale dell’attraversata del Giordano prima dell’entrata in Canaan, pietra dell’altare nella nuova Gerusalemme di Davide (2 Samuele 24, 18-25), pietra di fondazione della Chiesa per volontà di Cristo (Matteo 16, 13-20), e pietra viva del nuovo sacerdozio apostolico dei primi cristiani. Attraverso il mito di fondazione di una nuova civiltà su una terra vergine e promessa, i primi coloni dell’America britannica seppero incidere una volta per tutte nell’immaginario anglo-americano la visione di un orizzonte di speranza mai svanito, che fino ad oggi può dirsi costituire l’essenza del “sogno americano”.

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3. L’IMPRINTING COLONIALE DEL MITO COME STORIA

Trasponendo la celebre figura retorica di Charles Singleton riferita al capolavoro di Dante Alighieri – «la fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio»1 – alle opere discusse in questa terza parte del libro, potremmo dire che il mito della Generall Historie di John Smith e di Of Plymouth Plantation di William Bradford è che esso non sia un mito. Si tratta di un’affermazione che si rivela subito come un rompicapo, dal momento che il suo significato cambia di segno a seconda del valore di verità o di menzogna che si intende attribuire alla parola ‘mito’2. Non ci troviamo tuttavia di fronte ad una strana anomalia propria solo del mito di fondazione americano, quanto ad un fenomeno tipico delle opere letterarie che come genere si collocano nel punto di intersezione tra storia e allegoria, e che richiedono un continuo passaggio dialettico dall’una all’altra. Smith e Bradford scrivono entrambi una storia autobiografica, ma nel farlo la elevano ripetutamente sul piano dell’allegoria epica o tipologica, in modo da conferirle un significato appunto mitico. Quello che a noi interessa qui è capire se e come venne recepito questo significato mitico dai lettori e dagli altri fruitori indiretti che da tali storie furono effettivamente persuasi – quando non costretti – a trasferirsi in America, e che una voltà lì iniziarono a sviluppare una nuova identità nazionale di coloni inglesi e via via di cittadini ameri1 2

C. Singleton, La poesia della Divina Commedia, Bologna 1978, p. 88. Cfr. sopra, cap. I.

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cani3. D’altra parte, per poter parlare di ricezione di un’opera letteraria, bisogna presupporre l’esistenza di una società civile che sia già costituita sulla base di un qualche tipo e grado di identità culturale collettiva, e dunque capace di recepirne il contenuto in maniera critica4. L’America britannica delle origini non aveva una tale società civile nazionale, per cui sembrerebbe difficile poter parlare di un’effettiva ricezione della storia o del mito, poiché il distacco critico del ricettore era praticamente inesistente. Sarebbe perciò nel nostro caso forse più corretto parlare di imprinting: un termine mutuato dalle scienze naturali, dove il significato letterale di ‘impronta’ venne riferito dall’etologo Konrad Lorenz ad un processo di apprendimento precoce e irreversibile nell’animale, durante una fase sensibile coincidente grossomodo con quella neonatale5. D’altra parte, per quanto riguarda l’umano, già Platone aveva descritto la paidèia come una forma di apprendimento pre-razionale e irreversibile nell’uomo giovane: Il giovane non è in grado di giudicare ciò che è allegoria e ciò che non lo è: tutte le impressioni che riceve a tale età divengono in genere incancellabili e immutabili6.

Sulla base di questo ragionamento egli metteva in guardia i filosofi e i poeti affinché facessero attenzione a ciò che impiantavano una volta per tutte nelle menti dei giovani. Il mito di fondazione americano fu per almeno due secoli dopo la fondazione storica delle colonie una sorta di paidèia o di imprinting Cfr. S. Bercovitch, The Rites of Assent. Transformations in the Symbolic Construction of America, New York-London 1993. 4 Cfr. H.R. Jauß, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt a. M. 1982. 5 K. Lorenz, „Der Kumpan in der Umwelt des Vogels“, in Journal für Ornithologie 83 (2-3), 1935, pp. 137-215 e 289-413. 6 Platone, La Repubblica, 378e + nota a p. 731, trad. it. di F. Sartori, Roma-Bari 1997 (20063). 7 Cfr. S. Bercovitch, Rites of Assent. 3

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dell’essere umano anche adulto di quel paese7, che si trovava, in maniera del tutto eccezionale rispetto agli abitanti degli altri paesi europei, in una fase costantemente sensibile – per analogia diremmo “neonatale” – per quanto concerne la formazione dell’identità nazionale. In tale fase, segnata, come abbiamo visto, quasi sempre da enormi difficoltà e pericoli, avvenne a mio avviso l’imprinting del mito come storia, il fissarsi nell’immaginario americano di un sogno “terapeutico”, che permettesse ai suoi individui di superare le paure e il dolore, simile alle endorfine – qui impiantatesi nel “codice genetico” della nazione – che il corpo libera nel caso dell’insorgenza di un trauma forte8. È per questo che oggi possiamo parlare di un’identità anglo-americana che è autentica e originale e non il surrogato di quella inglese, sebbene ne condivida gli archetipi e da lì provenga almeno in parte. L’America ha fatto e fa la storia politica dell’èra contemporanea, nonostante essa stessa viva in un certo senso sempre al di fuori della storia, e trovi la sua vera patria in un orizzonte mitico dal fascino irresistibile, anche per chi americano non è. In questa prospettiva, l’intera storia della letteraura americana “nazionale”, sopratutto a partire dal suo “Rinascimento” verso la metà dell’Ottocento, presenta il suo tratto distintivo rispetto alle storie letterarie delle nazioni del vecchio mondo, proprio nel suo continuo e necessario confronto viscerale, e nello stesso tempo drammaticamente critico, con l’eccezionalità e le contraddizioni anche molto amare della storia e del mito americani.

8

Cfr. J. Hillman, Healing Fiction, Barrytown, NY, 1983, pp. 78-81.

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IV. ARCHETIPI CULTURALI

CANAAN E ROMA

Nei capitoli precedenti abbiamo potuto osservare in molti punti come gli archetipi culturali determinanti del mito di fondazione e della Britannia e dell’America siano quelli della conquista biblica della Terra Promessa da parte del popolo d’Israele, e del mito di fondazione della civiltà romana sancito nell’Eneide virgiliana, ma anche nella Storia di Roma di Tito Livio. Parliamo di archetipi culturali per distinguerli da quelli cosiddetti innati studiati dalla psicologia analitica di C.G. Jung1, dunque di modelli letterari e immaginativi trasmessi e diffusi per via appunto culturale. Nell’orizzonte cristiano medievale e moderno nel quale ci muoviamo, la Bibbia e l’Eneide rappresentano due tra i testi più conosciuti ed influenti in assoluto. La Bibbia viene divulgata oralmente durante le messe e la catechesi o tramite lettura individuale dei chierici, e, a partire dalla Riforma protestante, anche dei laici; l’Eneide è il testo scolastico che senza soluzione di continuità dall’Impero di Augusto fino al Rinascimento e molto oltre è il più studiato dai giovani e dagli eruditi, sia per i suoi contenuti edificanti, che per l’esemplarità stilistica e grammaticale, o classicità, del suo latino2, tanto da farne «la stella polare di ogni grammatico»3. Vedi C. G. Jung, Archetypen, München 2001. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Antonelli, Milano 2000, Cap. XIV, 1, 2. 3 D. Comparetti, Virgilio nel Medioevo, Firenze 1967, vol. I, p. 37. 1 2

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Dal punto di vista della struttura del racconto abbiamo visto come la vicenda di Brutus, principe fondatore della Britannia secondo la Historia Regum Britanniae di Geoffrey of Monmouth, sia una “diramazione britannica” del mito latino di Enea, che ne riproduce infatti alcuni elementi di base, come l’esilio forzato dell’eroe, il viaggio per mare in cerca della nuova patria fatale, l’incontro con la dea protettrice, l’arrivo felice nel luogo cercato, la lotta contro l’ostilità degli autoctoni, e la fondazione della nuova città nel cui futuro è iscritto un impero. All’interno di queste vicende è inserito però anche un elemento narrativo molto diverso dai precedenti, che richiama il modello dell’Esodo biblico guidato da Mosè: si tratta del racconto della permanenza di Brutus in Grecia e della sua successiva fuga insieme ai Troiani che vi si trovavano prigionieri. Presso la corte straniera che da anni tiene in schiavitù i discendenti di Priamo, il giovane troiano di origine acquista alcuni privilegi. Quando viene eletto a capo dalla stirpe troiana tenuta in schiavitù, tenta di contrattare con il sovrano greco la liberazione del suo popolo. Di fronte al rifiuto del re decide di lottare fino ad ottenere il permesso di partire. Infine si mette per mare con i Troiani liberati e giunge – dopo un lungo viaggio e numerose peripezie – alla terra promessa dalla volontà divina (in questo caso, per coerenza storico-geografica di Geoffrey, una divinità ancora pagana). Per quanto riguarda le vicende presenti nei miti letterari dei padri fondatori dell’America britannica, troviamo nella Generall Historie di John Smith un racconto che – analogamente a Geoffrey – si avvicina di più al modello classico, sebbene non sia del tutto privo di connotati biblici4. Gli elementi di base dell’Eneide che vi possiamo riconoscere sono il coraggio, la endurance e la pietas dell’eroe sulle cui spalle pesa il compito di fondare un impero ex novo su una terra sconosciuta, il viaggio per mare aiutato dalla provvidenza divina, l’arrivo alla mèta desiderata, e l’incontro fatale dai risvolti più o meno positivi con la popolazione autoctona. Al contrario, in Of Plymouth Plantation di William Bradford il modello è quasi esclusivamente biblico, con par4

V. sopra cap. III. 2.

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ticolare enfasi sulla tipologia del viaggio del popolo eletto di Dio verso la Terra Promessa. Dico quasi, perché vi sono anche qui richiami, se non all’Eneide, almeno a un certo tipo di “romanitas”. Così, ad esempio, il pastore della congregazione di Scrooby, William Brewster, viene paragonato all’imperatore Marco Aurelio: Yea, such was the mutual love and reciprocal respect that this worthy man had to his flock, and his flock to him, that it might be said of them as it once was of that famous Emperor Marcus Aurelius, and the people of Rome, that it was hard to judge whether he delighted more in having such a people, or they in having such a pastor. (Ebbene, tale erano l’affetto ed il rispetto reciproci che questo degno uomo aveva verso il suo gregge ed il suo gregge per lui, che di loro si potrebbe dire ciò che un tempo si diceva di quel famoso imperatore Marco Aurelio e del popolo di Roma, e cioè che era difficile giudicare se fosse più felice lui di avere un popolo come quello, o loro di avere un pastore come lui)5.

D’altra parte anche il grande esponente di una delle dinastie puritane più influenti di Boston, Cotton Mather, darà inzio alla sua storia ecclesiastica del New England, Magnalia Christi Americana (1702), con una frase che è una riscrittura molto interessante proprio dei primi versi dell’Eneide: «I write the wonders of the Christian religion, flying from the depravations of Europe, to the American strand» («Scrivo dei miracoli della religione cristiana, che sfuggì alle depravazioni d’Europa, per raggiungere le sponde americane»)6, [cfr.: «Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris/ Italiam fato profugus Laviniaque venit litora» – «Canto le armi e l’uomo che per primo dalle terre di Troia/ raggiunse esule l’Italia per volere del fato e le sponde lavinie»]7. L’autore puritano non canta, ma scrive; l’oggetto della sua W. Bradford, Of Plymouth Plantation 1620-1647 by William Bradford, S.E. Morison (ed.), New York 2006, p. 18. 6 C. Mather, Magnalia Christi Americana or The Ecclesiastical History of New England, General Introduction §1, Hartford 1855. 7 Virgilio, Eneide, I 1-3, a cura di E. Paratore, trad. di L. Canali, 6 vol., Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1978-1983. 5

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scrittura non sono l’eroe e le armi, ma la religione cristiana; Troia è l’Europa depravata, l’Italia delle spiagge lavinie, l’America. In un colpo solo Mather ha catapultato oltreoceano tutto il meglio della tradizione europea e ne ha fatto una prerogativa americana. Riassumendo possiamo dire che il mito di fondazione della Britannia, pur essendo stato codificato da un chierico, rivela uno spirito più decisamente laico, o cavalleresco, mentre il mito di fondazione dell’America denota una duplice vocazione cavalleresca (o più semplicemente militare) e religiosa. Considerando le due nazioni nell’insieme, come parti costituenti di un’unica grande civiltà anglo-americana, sembrano a prima vista e da un punto di vista quantitativo prevalervi il carattere laico e l’ideale imperiale ed epico; ma ad un più attento esame, e quanto ad intensità qualitativa, lo spirito anche teocratico e missionario può essere ritenuto alla pari dei primi. Al di là di queste considerazioni generali sugli archetipi culturali, che ci hanno accompagnato nel corso dell’intero libro, il presente capitolo intende in realtà riprendere altri due aspetti della questione, che richiedono a mio avviso un’ulteriore, seppure breve trattazione. Si tratta da un lato del problema dell’etnicità – o della “razza” – presente in tutti i miti di fondazione, dall’altro della duplice e forse contraddittoria aspirazione alla libertà propria e al dominio sugli altri, tipica dei miti fondativi che stiamo discutendo. Il mito di fondazione in generale narra le origini di una nazione o di un gruppo civico, ed in quanto tale contiene sempre anche delle indicazioni normative su che cosa si debba intendere appunto per nazione o gruppo da un punto di vista etnico. Sappiamo, ad esempio, che il terzo grande archetipo dei miti di fondazione occidentali, che è quello di Atene, e serve qui solo come pietra di paragone (essendo estraneo al nostro discorso)8, vede all’origine del costituirsi della polis greca l’eroe autoctono Eretteo, che letteralmente significa nato dallo stesso suolo: 8 Vedi C. Calame, Mythe et histoire dans l’Antiquité greque. La création symbolique d’une colonie, Lausanne 1996. (Mito e storia nell’antichità greca, trad. it. di E. Savoldi, Bari 1999).

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Su quelli poi che abitavano Atene, città ben costruita, terra del grande Eretteo, che un giorno Atena, la figlia di Zeus, allevò – ma lo partorì la fertile zolla – e lo stabilì in Atene, dentro al suo ricco tempio9;

Il figlio “adottivo” di Atena era nato infatti direttamente dalla terra attica, fecondata dal desiderio di Efesto per la dea10. Con questo mito di fondazione la polis di Atene stabilì un ideale di “purezza” della cittadinanza da un punto di vista etnico, che secondo gli studi più recenti servì a giustificare l’idea di democrazia al suo interno11, anche se ciò non toglie che nel contempo fondò un’ideologia razzista12. Vediamo ora in che modo le questioni dell’etnicità e dei diritti civili e politici di articolano negli archetipi della Britannia e dell’America.

Omero, Iliade, II, 546-549, trad. it. di G. Cerri, Milano 1999 (20055). Apollodoro, I miti greci, III, 14, 6, a cura di P. Scarpi, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1996. 11 N. Loraux, Né de la terre. Mythe er politique à Athènes, Paris 1996. 12 M. Detienne, Comment être autochtone. Du pur Athénien au Français raciné, Paris 2003. 9

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1. LA STIRPE DI ABRAMO E LA FUGA DALL’EGITTO

Iniziamo dall’archetipo più antico, quello biblico, anche se la sua ricezione nel bacino del Mediterraneo e nel continente europeo coincide grossomodo o è perfino cronologicamente posteriore a quella del mito di Enea. Due sono i concetti chiave che analizzeremo: quello della stirpe eletta, e quello della liberazione dalla schiavitù. Dopo la creazione dell’uomo, la caduta originale e il diluvio universale, Dio dà inizio alla storia della salvezza ripopolando la terra con la discendenza di Noè. Nel susseguirsi delle generazioni il racconto biblico stringe la sua attenzione sempre più su Abramo, l’uomo della fede, che Dio ricompensa per la sua obbedienza promettendogli una terra santa per i suoi discendenti. Ma come si arriva a questa elezione di un uomo e della sua stirpe? La risposta può essere solo narrativa: subito dopo il diluvio l’umanità era composta di «un solo popolo»1 e «tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole»2. Per ostacolare la superbia degli uomini manifestata nel progetto di costruire una torre la cui cima toccasse il cielo, Dio scese sulla terra, confuse la loro lingua, e li disperse su tutta la terra. Dopo Babele l’umanità perde la sua unità originaria e si divide in tanti gruppi parlanti lingue diverse. È la nascita dei popoli. La Genesi si concentra immediatamente sulla discendenza di Sem, il figlio maggiore di Noè, e da questi – passando per i patriarchi Arpacsad, Selach, Eber, Peleg, Reu, Serug e Nacor – a Terach, padre di Abram, Nacor e Aran. Questi figli erano nati in Ur 1 2

Genesi, 11, 6. Ivi, 11, 1.

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dei Caldei, nella bassa Mesopotamia, ma dopo essersi sposati il padre «uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan»3. Quando arrivarono però a Carran, che si trova a miglialia di chilometri di distanza da Ur sull’alto corso del fiume Eufrate, vi si stabilirono senza proseguire oltre. Accadde un giorno che Abram, la cui moglie Sarai era sterile e non aveva figli, fu chiamato dal Signore nel suo settantacinquesimo anno di età per lasciare il suo paese, la sua patria e la casa di suo padre, e dirigersi verso il paese che Dio gli avrebbe indicato: Il Signore disse ad Abram: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»4.

Quasi a voler portare a termine l’antico progetto di suo padre Terach, Abram si incamminò con il seguito della sua famiglia e dei suoi servi verso il paese di Canaan. Lo attraversò fino a Sichem, e presso la Quercia di More il Signore gli apparve e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questo paese»5. La volontà di Terach di andare nel paese di Canaan era forse già stata fondata su un’intuizione circa il destino della sua stirpe, sebbene il vero eletto sarebbe stato suo figlio Abramo. In Canaan si trovavano i Cananei, discendenti di Cam, il figlio maledetto da Noè, e condannato insieme alla sua discendenza ad essere schiavo di Sem, di Iafet e delle loro discendenze. L’arrivo del Semita Ivi, 11, 31. Ivi, 12, 1-3. 5 Ivi, 12, 7. 3 4

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L’Antico Oriente. Mappa copiata dalla Bibbia di Gerusalemme (Bologna 2000)

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Abramo nella terra abitata dai Camiti cananei implichava oltretutto un rapporto di subordinazione dei secondi sul primo anche in via di principio patriarcale, essendo Sem il figlio maggiore di Noè. Veniamo ora alla discendenza di Abramo. Per grazia divina e benché fosse anziana e sterile Sara ebbe da lui un figlio, che chiamarono Isacco. Quando questi raggiunse l’età del matrimonio, il padre non volle che sposasse una donna cananea, per cui inviò il suo servo a cercare una moglie nel suo paese d’origine: Allora Abramo disse al suo servo, il più anziano della sua casa, che aveva potere su tutti i suoi beni: «Metti la mano sotto la mia coscia e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, ma che andrai al mio paese, nella mia patria, a scegliere una moglie per mio figlio Isacco»6.

Il servo tornò con Rebecca, che era nipote di Nacor, fratello di Abramo. Isacco la sposò ed ebbero due gemelli: Esau, e Giacobbe che divenne il prescelto. Sempre per volontà dei suoi genitori, che non volevano vederlo prendere moglie tra le Cananee, Giacobbe sposò le figlie di Làbano, fratello di sua madre Rebecca: Poi Rebecca disse a Isacco: «Ho disgusto della mia vita a causa di queste donne hittite: se Giacobbe prende moglie tra le hittite come queste, tra le figlie del paese, a che mi giova la vita?» Allora Isacco chiamò Giacobbe, lo benedisse e gli diede questo comando: «Tu non devi prender moglie tra le figlie di Canaan. Su, va’ in Paddan-Aram, nella casa di Betuèl, padre di tua madre, e prenditi di là la moglie tra le figlie di Làbano, fratello di tua madre»7.

Da Lia e da Rachele e dalle loro rispettive schiave, Bila e Zilpa, Giacobbe ebbe dodici figli maschi, che divennero i capostipiti delle dodici tribù d’Israele, e una figlia femmina, Dina. È evidente come il 6 7

Ivi, 24, 2-4. Ivi, 27, 46; 28, 1-2.

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passaggio delle prime generazioni della stirpe di Abramo avvenga sempre all’interno della stessa parentela allargata, e l’ipotesi del matrimonio misto con membri di altri popoli sia considerata una sorta di tabù. Nei miti di fondazione da noi analizzati ritroviamo questo aspetto tribale dell’archetipo biblico del popolo d’Israele quasi esclusivamente in Of Plimoth Plantation di William Bradford. I Pilgrims, pur affermando il proprio status di “stranieri” sulla terra, appaiono in più occasioni condizionati dalla volontà di mantenere la propria identità nazionale inglese, e dal perseguimento di una politica matrimoniale tutta volta all’endogamia. Il secondo aspetto interessante dell’archetipo biblico è quello della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto, e della conseguente visione del nuovo paese di destinazione come terra della libertà. Troviamo questo ideale libertario e di riscatto sia nel mito di fondazione della Britannia, che in quello del New England. Nella Historia Regum Britanniae di Geoffrey of Monmouth il principe Brutus vuole sfuggire alla propria colpa e all’esilio perpetuo decretato dal suo mondo d’origine, e nello stesso tempo liberare dalla schiavitu un gruppo di suoi parenti di origine troiana, per rifondare insieme a loro una “Troia Nova” sull’isola disabitata di Albione. Similmente l’idea di libertà e di fuga è fondamentale per i Pilgrims, avendo tutta la loro vicenda esistenziale e storica preso avvio da una negata libertà religiosa, che li costrinse prima all’esilio olandese e poi al “pellegrinaggio” americano. La difesa di tale ideale di libertà politica in America rimase sempre il valore terreno fondamentale della loro impresa. D’altra parte non è un caso se il rito più importante della cultura americana, la celebrazione del “Thanksgiving”, sembri formarsi proprio sul calco del rito pasquale fondato da Mosè su ordine del Signore al momento della fuga dall’Egitto: «Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione»8. Allo stesso modo della Pasqua, che rappresenta il rito a sua volta più importante della tradizione ebraica, il Thanksgiving celebra la memoria del ringraziamento a Dio per aver restituito al suo popolo la libertà.

8

Esodo, 12, 42.

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2. LA GENS DI ENEA E L’ALBA DELL’IMPERO

L’archetipo culturale della fondazione di Roma sancito nell’Eneide di Virgilio presenta delle caratteristiche diverse rispetto a quello biblico della conquista della Terra Promessa, soprattutto per quanto riguarda la concezione razziale e l’aspirazione politica dei Romani. Qui i concetti chiave sono quello della gens multietnica, e quello del dominio imperiale sugli altri popoli. Il diritto familiare romano classico aveva una stretta correlazione con l’istituto della proprietà fondiaria, la cui origine veniva fatta risalire a delle antiche gentes stanziali che l’avevano preservata e tramandata nelle generazioni. La gens condivideva un nome – in genere quello di un capostipite mitico, come Iulo per la gens Iulia – ed era composta da un gruppo di famiglie. Per familia si intendeva a sua volta un insieme di persone legate sia da vincoli di parentela, che da altri tipi di vincoli come la servitù, la clientela, l’adozione ecc. La potestà assoluta apparteneva al pater familias, che esercitava la propria autorità nei limiti dello ius civile. Il culto della stirpe carnale aveva sì una sua importanza e tradizione, ma vigevano anche precisi obblighi di esogamia1. Nell’Eneide Virgilio traccia – epicamente – le origini storiche e genealogiche di tale struttura della società romana. In che modo venne a crearsi la discendenza dell’eroe troiano Enea, vale a dire il popolo romano? Enea era figlio di Anchise, che a sua volta era pronipote di Dardano, il fondatore di Troia. Secondo la leggenda italica

1

P. de Francisci, Sintesi storica del Diritto Romano, Roma 1968, pp. 130-134.

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ripresa nell’Eneide, Dardano era originario dell’Italia tirrenica, dove nacque nella città etrusca di Còrito (l’odierna Cortona), fondata da suo padre eponimo, che era figlio di Giove. Sua madre Elettra era invece figlia di Atlante. Va rilevato che in questa prospettiva genealogica il viaggio di Enea in Italia rappresentava anche un ritorno della sua gens nell’antica patria, un nostos delle origini. A Troia Enea aveva sposato Creusa, figlia di Priamo, che gli aveva dato un figlio di nome Ascanio, anche detto Iulo. Gli dèi non vollero che Creusa partecipasse al viaggio in Italia. Infatti, per la disperazione di Enea, ella morì durante la fuga dalla città assediata e gli comparve un’ultima volta come fantasma per profetizzargli la futura patria e la «sposa regale» («regia coniunx») Lavinia2. Nella fuga Enea portò con se il figlioletto Iulo, che alcuni segni prodigiosi avevano già indicato come la speranza dei Troiani, poiché avrebbe fondato la città di Albalonga, e sarebbe diventato il capostipite della gens Iulia di Cesare e di Ottaviano Augusto. Dalla sua sposa latina, Lavinia, Enea ebbe invece un figlio postumo «di sangue misto italico» («italo commixtus sanguine») che fu chiamato Silvio3, perché allevato dalla madre in mezzo ai boschi albani. Lavinia era a sua volta figlia del re dei Laurenti, Latino, e di sua moglie Amata. Secondo la tradizione italica Latino era figlio del dio indigeno Fauno e della dea di Minturno, Marica, mentre secondo la tradizione greca, egli era figlio di Telemaco, il figlio di Odisseo, e di Circe. In onore di Lavinia Enea chiamò Lavinium la prima colonia da lui fondata nel Lazio4. La discendenza del capostipite dei Romani si compone dunque di due gens primigenie, una più puramente troiana dal figlio Ascanio, ed una di sangue misto latino e troiano dal figlio Silvio. Nel susseguirsi delle generazioni la purezza troiana venne necessariamente a “contaminarsi” sempre più con i Latini e con gli altri popoli italici. Ne consegue che la concezione razziale dei Romani, e di Virgilio in primo luogo, si distinse per l’apertura cosmopolita tipica della cultura elleniVirgilio, Eneide, II 783, a cura di E. Paratore, trad. di L. Canali, 6 vol., Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1978-1983. 3 Ivi, VI 762. 4 V. Bimillenario Virgiliano, Enea nel Lazio: archeologia e mito, Roma 1981. 2

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stica, fondata su criteri di esogamia e sul valore della multietnicità. La romanità, in altre parole, non era fondata unicamente sul sangue, ma anche e sopratutto sull’adesione ad un determinato tipo di ordine civile. Nei miti di fondazione da noi trattati ritroviamo questo aspetto cosmopolita dell’archetipo virgiliano sia nella Historia Regum Britanniae di Geoffrey of Monmouth, che nella Generall Historie di John Smith. La discendenza di Brutus nasce, come abbiamo visto, dall’incontro già romano tra Troiani e Latini e si arricchisce di una componente greca nella persona di Innogen, figlia di Pandrasus e madre dei Britanni. John Smith, invece, esalta la figura della principessa aborigena Pocahontas – già paragonata a Lavinia5 – e considera in termini positivi il suo matrimonio con l’Inglese John Rolfe, e in special modo il suo ruolo di madre di Thomas, il primo figlio carnale del connubio ideale tra Inghilterra e America6. Il secondo aspetto dell’archetipo virgiliano che ci interessa in modo particolare è quello del dominio universale dei Romani sugli altri popoli, legato all’ideale stoico di un impero liberale fondato sulla giustizia. Già la scelta del troiano Enea come capostipite dei Romani seguiva una lunga tradizione iniziata in Grecia a partire dal VI secolo a. C. ed era ulteriormente motivata in Virgilio da alcune caratteristiche proprie di quell’eroe7: Enea era figlio di una dea – Venere – e di

Vedi J.B. Hubbell, “The Smith-Pocahontas Story in Literature”, The Virginia Magazine of History and Biography, Vol. 65 No. 3, July 1957, pp. 275-300. 6 Cfr. R.S. Tilton, Pocahontas: The Evolution of an American Narrative, Cambridge University Press 1994, pp. 9-33 ; J. Higham, “Indian Princess and Roman Goddess: The First Female Symbols of America”, in Proceedings of the American Antiquarian Society, 100, 1, 1990; S.E. Brown, L.F. Meyers, E. Chapel, Pocahontas’ Descendants, Pocahontas Foundation, Berryville, VA, 1985. Per la diversa concezione dei matrimoni misti da parte dei conquistatori spagnoli, cfr. anche H. Mumford Jones, O Strange New World, New York 1952. 7 J. Poucet, “Les Troyens aux origines des peuples d’Occident, ou les fantasmes de l’Histoire”, FEC – Folia Electronica Classica N. 12, Louvain-la Neuve, juilletdécembre 2006. http://bcs.fltr.ucl.ac.be/FE/12/TroyensParis.htm#Troie; A. La Penna, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005. 5

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un discendente diretto di Giove; difendeva, a differenza di altri eroi omerici come Odisseo o Diomede, i valori della fides e della pietas, che avevano un’importanza fondamentale nell’universo mentale dei Romani; era, come i Romani, un antagonista dei Greci; simboleggiava infine con la sua vicenda – la rovina di Troia che si trasforma nella genesi di Roma – l’evolversi fatale del logos della storia come un costante susseguirsi della nascita, della morte e della rinascita degli ordini civili. A giustificazione della necessarietà dell’Impero propugnata dalla filosofia stoica e cosmopolita tanto in voga all’epoca8, Virgilio gli fa compiere un viaggio agli Inferi – che riprende più lietamente quello di Odisseo in Omero – dove nei Campi Elisi l’ombra di suo padre Anchise gli profetizza l’arduo compito e il meraviglioso destino della sua gente (VI, 756-853): Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur Gloria, qui maneant Itala de gente nepotes, Inlustris animas nostrumque in nomen ituras, Expediam dictis et te tua fata docebo. [...] Tu regere imperio populos, Romane, memento. Hae tibi erunt artes, pacisque inponere morem, Parcere subiectis et debellare superbos. («Ora ti svelerò con parole quale gloria si riserbi alla prole dardania, quali discendenti dall’italica gente siano sul punto di sorgere, anime illustri e che formeranno la nostra gloria, e ti ammaestrerò sul tuo fato. [...] Tu ricorda, o romano, di dominare le genti; queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.»)

Troviamo questo ideale imperiale e di giustizia sia nel mito di fondazione della Britannia, che in quello della Virginia. Nella Historia di 8 Cfr. D. Quint, Epic and Empire, Politics and Generic From from Virgil to Milton, Princeton University Press 1993, pp. 50-96.

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Geoffrey, Brutus riceve dalla dea Diana una profezia analoga a quella di Anchise per quanto riguarda il destino di dominio universale della sua gente: «Hic de prole tua reges nascentur, et ipsis totius terre subditus orbis erit» («Là nasceranno i sovrani discesi dal tuo lignaggio,/ a loro tutta la terra sarà assoggettata»)9. Anche John Smith nella Generall Historie appare più incline, rispetto ai commercianti della London Company, ad una colonizzazione “romana” della Virginia, con i suoi connotati essenziali di militarismo preventivo e di diplomazia contrattuale.

9 The Historia Regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth I. Bern, Burgerbibliothek, MS. 568, ed. by N. Wright, Cambridge 1985, § 16 (Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia, a cura di G. Agrati, Parma 1989 (20052), p. 57).

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V. RAGIONE E MITO

IL PRINCIPIO DI PRUDENZA

Mark Twain, in un discorso tenuto nel dicembre del 1881 alla prima cena annuale della New England Society di Philadelphia, si espresse alla sua maniera insieme bonaria e sarcastica contro il culto ormai diffusissimo in America dei Pilgrims e di Plymouth Rock: I rise to protest. I have kept still for years, but really I think there is no sufficient justification for this sort of thing. What do you want to celebrate those people for? Those ancestors of yours of 1620? The Mayflower tribe, I mean. What do you want to celebrate them for? [...] Celebrating their landing! What was there remarkable about it, I would like to know? What can you be thinking of? Why, those Pilgrims had been at sea three or four months. It was the very middle of winter. It was cold as death off Cape Cod there. [...] Why, to be celebrating the mere landing of the Pilgrims, to be trying to make out that this most natural and simple and customary procedure was an extraordinary circumstance, a circumstance to be amazed at and admired, aggrandized and glorified at orgies like this for two hundred and sixty years – hang it, a horse would have known enough to land. A horse – [...] Well then, what do you want to celebrate those Pilgrims for? They were a mighty hard lot - you know it. [...] They took good care of themselves but they abolished everybody else’s ancestors. [...] My first American ancestor, gentlemen, was an Indian - an early Indian. Your ancestors skinned him alive, and I am an orphan. [...] Cease to come to these annual orgies in this hollow modern mockery, the surplusage of raiment. [...] All those Salem witches were ancestors of mine. Your people made it tropical for them. [...] The first slave brought into New England out of Africa by your progenitors was an ancestor of mine [...] Disband these New England societies 221

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nurseries of a system of steadily augmenting laudation and hosannaing which, if persisted in uncurbed, may some day in the remote future beguile you into prevaricating and bragging. [...] Hear me, I beseech you. Get up an auction and sell Plymouth Rock. The Pilgrims were a simple and ignorant race. [...] Gentlemen, pause ere it be too late. You are on the broad road which leads to dissipation, physical ruin, moral decay, gory crime and the gallows. [...] Go home and try to learn to behave. (Mi alzo per protestare. Ho mantenuto il silenzio per anni, ma credo che francamente non ci sia una giustificazione sufficiente per questo genere di cosa. Per quale ragione volete celebrare quella gente? Quei vostri antenati del 1620? La tribù del Mayflower, intendo. Qual’è il loro merito, per il quale volete celebrarli? [...] Celebrare il loro sbarco! Cosa c’era di tanto straordinario in ciò, vorrei saperlo? A cos’è che pensate? Diamine, quei Pellegrini erano stati in mare per tre o quattro mesi. Era pieno inverno. Faceva un dannatissimo freddo là giù a Cape Cod. [...] Ma come, celebrare il semplice sbarco dei Pellegrini, cercare di asserire che questa procedura assolutamente naturale e semplice e consuetudinaria fu un avvenimento straordinario, un avvenimento del quale stupirsi e da ammirare, ingrandire e glorificare in orge come questa per duecento sessanta anni - al diavolo! Perfino un cavallo sarebbe stato capace di sbarcare. Un cavallo – [...] E allora, per che cosa volete celebrare quei Pellegrini? Loro erano un mucchio di gente assai dura – voi lo sapete. [...] Si sono presi ben cura di se stessi, ma hanno abolito gli antenati di tutti gli altri. [...] Il mio primo antenato americano, signori, era un Indiano - un Indiano antico. I vostri antenati lo hanno scuoiato vivo, e io sono un orfano. [...] Smettete di venire a queste orge annuali, in questa insignificante beffa moderna, che è il massimo dell’abbaglio. [...] Tutte quelle streghe di Salem erano mie antenate. La vostra gente le ha mandate ai tropici. [...] Il primo schiavo portato nella Nuova Inghilterra dall’Africa da parte dei vostri progenitori era un mio antenato. [...] Sciogliete queste società del New England - non sono che il vivaio di un sistema di lode e di osannamento in costante aumento, che se dovesse persistere in maniera incontrollata, un giorno nel lontano futuro potrebbe indurvi alla prevaricazione sugli altri e alla millanteria. [...] Ascoltatemi, vi supplico. Bandite un’asta e vendete Plymouth Rock. I Pellegrini erano una razza semplice e ignorante. [...] Signori, fermatevi prima che sia troppo tardi. Siete sulla larga strada che conduce alla dissipazione, alla rovina fi222

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sica, al decadimento morale, al crimine insanguinato e alla forca. [...] Andate a casa e cercate di imparare a comportarvi)1.

È un discorso che colpisce per la sua schiettezza e la sua volontà di smascherare il mito del coraggio e della liberalità dei Pilgrims. Se questi innescarono un meccanismo di autocelebrazione come forefathers (i.e. ‘avi’) di tutta l’America – il Thanksgiving ne è una chiara testimonianza – Twain vuole mettere a nudo quello che secondo lui era il loro vero volto, e cioè quello di una «tribù» mediocre e intollerante. Ma la autentica motivazione dell’autore americano non sta a mio avviso tanto in una esternazione gratuita di spregio, quanto in un accorato invito alla prudenza dei suoi connazionali. Egli vede tutto il pericolo insito nella mitizzazione eccessiva dell’identità nazionale, che, se incentivata con persistenza, può nel tempo capovolgere i suoi indubbi benefici sulla nazione, in una legittimazione alla millanteria e alla prevaricazione sugli altri. Quello di Mark Twain è un appello contro il decadimento morale, che egli presentiva sarebbe potuto scaturire dal mito di fondazione più potente dell’America. Questo tipo di critica feroce contro il mito, insieme all’esortazione a fare uso della propria ragione per liberarsi dalle sue menzogne, è vecchia (nel senso buono del termine) quanto la cultura occidentale. Potremmo perfino dire che la filosofia greca nacque proprio come risposta critica alla rappresentazione mitica o mitologica della realtà, da parte di nuove generazioni di pensatori che vollero emanciparsi dal peso della tradizione e guardare le cose del mondo con uno sguardo libero. Platone, ad esempio, nella Repubblica, riconosce inzialmente una certa utilità dei miti in situazioni in cui possono servire da «farmaco»: E che dire della falsità nelle parole? Quali sono le occasioni e le persone cui essa è utile sì da non attirarsi odio? Non forse nei rapporti con i nemici? e non diventa utile, come un farmaco, anche verso coloro cui si dà il nome di amici, per dissuaderli ogni volta che un accesso di furore o di

1 M. Twain, Plymouth Rock and the Pilgrims, and Other Salutary Platform Opinions, ed. by C. Neider, New York 1983, ch. 23, pp. 94-98.

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follia li spinga a qualche cattiva azione? E non la rendiamo utile quando nelle favole mitiche or ora ricordate foggiamo il falso quanto più possibile simile al vero, ignoranti come siamo del vero svolgersi di quei fatti antichi2?

Successivamente però ne condanna l’immoralità qualora siano creduti fino in fondo, tanto da tramutarsi in un veleno: Per questo motivo occorre smetterla con simili favole: c’è pericolo che facciano sorgere nei nostri giovani grande facilità a commettere il male3.

La posizione platonica non rifiuta quindi del tutto la tradizione omerica, ne rappresenta piuttosto una sua ricezione critica, o appunto filosofica: Perciò pur facendo molte lodi di Omero non loderemo il passo in cui Zeus invia il sogno ad Agamennone; né il brano di Eschilo dove Teti dice che, cantando alle sue nozze, Apollo ne celebrava la felice figliolanza. [...] Quando uno arriverà a dire simili cose sugli dèi, ci inquieteremo e non gli concederemo un coro e non permetteremo che i maestri se ne valgano per educare i giovani, se è vero che i nostri guardiani devono diventare pii e divini quanto più è possibile a un uomo4.

Seguendo questa tradizione, se nel primo capitolo del presente libro ho voluto asserire la verità del mito, qui voglio invece delinearne il limite. Non si tratta di dover scegliere tra una delle due visioni, quanto di muoversi dialetticamente tra di esse al fine di comprenderne la rispettiva funzione e il valore specifico. Abbiamo detto che il mito di fondazione rappresenta un principio di speranza per un popolo, dovremmo allora a questo punto definire bene il significato di questo concetto. Ci viene in aiuto la Summa theologica di Tommaso

Platone, La Repubblica, 382d, trad. it. di F. Sartori, Roma-Bari 1997 (20063); v. anche C. Calame, Mythe et histoire dans l’Antiquité greque, Lausanne 1996, pp. 2530. (Mito e storia dell’antica Grecia, trad. it. di E. Savoldi, Bari 1999). 3 Platone, La Repubblica, 392a. 4 Ivi, 383b-c. 2

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d’Aquino (cfr. II, II, 17, 1; 20, 4)5, dove la speranza viene definita come un’attesa fiduciosa di un bene futuro, con la precisazione che contro di essa si può peccare (o fallire) non solo per difetto, ovvero con la disperazione (che per i cristiani è il più grave peccato contro lo Spirito Santo), ma anche per eccesso, vale a dire con l’illusione che a sua volta genera superbia e sfrenatezza. Quest’analisi tommasiana contiene sufficienti elementi razionali, per poterla ritenere valida anche da un punto di vista filosofico. Una buona critica del mito inteso come principio di speranza dovrebbe dunque non condannare il mito tout court, ma comprenderne gli elementi “terapeutici” e perfino evolutivi per l’uomo nella loro giusta misura, e, in un secondo momento, mettere in evidenza il limite razionale che deve essere rispettato per restare nell’ambito di ciò che si può ritenere eticamente giusto, in altre parole introdurre un principio di prudenza. E l’invito alla prudenza avanzato dalla critica filosofica non è retorico, ma mira ad evitare i pericoli reali che un eccesso di presunzione può ingenerare nei coltivatori acritici di una mentalità fortemente mitizzante, che, come diceva Mark Twain, può condurre alla millanteria e alla prevaricazione sugli altri, e alla lunga avere anche un inaspettato effetto boomerang. Abbiamo visto nei capitoli dedicati alla ricezione dei miti di fondazione della Britannia e dell’America, come vi siano stati in entrambi i casi moltissime critiche e tentativi di smentita degli stessi e dei loro archetipi culturali. Potremmo anche dire che tanto più forte è una lotta contro la presunta verità di un racconto, di una storia o di un mito, tanto più può essere considerata un indice del suo successo nella penetrazione dell’immaginario individuale e collettivo. È una lotta dura e probabilmente, finché ci sarà l’uomo, non avrà mai fine. Anzi, la sua durezza ci fa a volte comprendere quanto si tratti in realtà di una lotta tra miti diversi, in quanto anche la razionalità può assurgere allo status di mito ed essere così venerata in maniera eccessiva6. Tommaso d’Aquino (san), Summa theologiae, a cura di P. Caramello, 3 vol., Milano 1986. Cfr. anche Agostino (Sant’), Fede Speranza Carità. Enchiridion, 30. 114, a cura di L. Alici, Roma 2001. 6 Cfr. R. Barthes, Mythologies, Paris 1957, pp. 179-233 ; P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, Frankfurt a. M. 1983. 5

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Vorrei concludere riprendendo una lezione poetica di William Blake fatta propria da William Butler Yeats e poi dal critico Northrop Frye7, secondo cui una giusta visione critica e non ideologica della realtà, e nel nostro caso della letteratura, debba essere una visione duplice, una «double vision», che «permetta di cogliere ciò che è umano nelle cose»8: What to others a trifle appears Fills me full of smiles or tears; For a double vision my eyes do see, And a double vision is always with me: With my inward eye ‘tis an old man grey; With my outward a thistle across my way. (Quello che ad altri appare un’inezia riempie me di sorrisi o di lacrime; ché una duplice visione i miei occhi vedono, e una duplice visione è sempre con me: col mio occhio interiore è un vecchio canuto; con quello esteriore un cardo lungo il cammino)9.

7 N. Frye, The Double Vision. Language and Meaning in Religion, University of Toronto Press 1991. 8 W. B. Yeats, L’opera poetica, a cura di P. Boitani, A. L. Johnson e A. Marianni, Milano 2005, p. 1218, nota alla poesia “The Double Vision of Michael Robartes” (p. 540). 9 W. Blake, lettera a Thomas Butts del 22 novembre 1802, in G. Keynes (ed.), The Letters of William Blake, Oxford University Press 1980; v. anche D. Wells, A Study of William Blake’s Letters, Tübingen 1987.

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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

Abbay, Thomas 116 Abele 38 Abila 62 Abram v. Abramo Abramo 24, 60, 160, 162, 171172, 207-208, 210-211 Acapulco 179 Acharon 52 Achelous 52 Achille 51, 55 Adamo 37-39, 80 Adam of Domerham 95 Ade 55 (cfr. Inferi) Adeliza di Lovanio 86 Adriano 73 Adriatico 104 Africa 38, 60-61, 107, 221-222 Agamennone 224 Agostino d’Ippona 93 Ajalon 52 Akalon 52 Alanus 38 Alarico 92 Alba (o Albalonga) 35, 49, 214 Albanactus 77-78 Albania v. Scozia Albanus 38

Albione 34, 39, 72, 211 Alcinoo 21 Alessandro VI, Papa 186 Alexander of Blois 89 Alford 103 Alfred of Beverley 95 Algeria 61 Alpi 105 Amadas, Captain Philip 184, 187 Amata 214 America 12, 20, 99-101, 106-107, 110, 117-118, 120-121, 123127, 132, 138, 147, 149, 153, 155, 159, 164, 169, 179-180, 183-184, 189, 191-193, 195197, 201-202, 204-205, 211, 215, 221, 223, 225 Amsterdam 157 Anacletus 52-53 Anchise 38, 40, 55, 58, 137-138, 213, 216-217 Anderson, Rev. James 166 Angelcynn 84 Angiò 87, 89-90 Anjou v. Angiò Anne, regina d’Inghilterra 146-147 Anselmo d’Aosta (o di Bec) 82

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Antenore 64, 77 Antigonus 52-53 Antonino 73 Apollo 57, 224 Apostoli 24, 101, 155, 172, 192193 Aquitania 64, 66, 95 Aran 207 Are dei Fileni 61 Argonauti 62 Aristotele 20-21, 23, 28 Armeno 38 Armorica 36, 44, 83, 85 (cfr. Bretagna e Normandia) Arpacsad 207 Arpie 138 Arthur v. Artù Artù, re dei Britanni 33, 37, 46, 49, 88-90, 95-96, 120-121, 123, 126 Asburgo 104 Ascanio 35-36, 38, 40, 49-50, 137-138, 213-214 (cfr. Iulo e Gens Iulia) Asia 38, 107 Assaraco (avo di Enea e di Brutus) 40 Assaracus (guerriero greco-troiano) 51-52 Atena 205 Atene 204-205 Atlante 214 Atlantico, Oceano 59-60, 64, 79, 107, 121, 126, 169, 179 Augusto, Imperatore Ottaviano 64, 93, 201, 214

Austerfield 156 Avalon 123 Axiopolis 105 Azio 52 Babele 207 Babworth 156 Bacon, Sir Francis 118-119, 126 Bangor, Maine 106 Barlowe, Captain Arthur 184, 186-187, 189 Barnes, Joseph 115 Bath 73 Báthory, Zsigmond 105 Bayard, Thomas F. 167 Beauclerc 85 (cfr. Enrico I d’Inghilterra) Beda 48 Beduero 89 Bedvero v. Beduero Beowulf 85 Bermuda (isole) v. Summer Isles Bertie, Peregrine 103 Betuèl 210 Beulan 35, 39 Bila 210 Blackwall Docks 106, 128 Blake, William 13, 226 Bloch, Ernst 20, 27-28 Blois 87, 89 Boston, Inghilterra 157 Boston, New England 160, 164167, 203 Bradford, Dorothy 181 Bradford, Major John 164-165 Bradford, Samuel 164, 166

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Bradford, William 19, 99, 101-102, 155-157, 160, 162-167, 169170, 173-174, 176, 178, 180181, 184-185, 190, 195, 202, 211 Bradford, Major William 164 Brandon 120-121 Branford 147 Bretagna 69, 83-84 (cfr. anche Armorica) Brewster, William 156-157, 203 Bristol 106 Britannia 12, 19-20, 34-35, 37, 39-46, 48, 53, 70, 74-75, 77, 79-85, 87, 90-91, 96, 121, 201-202, 204-205, 211, 215216, 225 Britto v. Brutus Brosses, Charles de 26 Bruto v. Brutus Brutus 33-34, 36-41, 46, 49-61, 63-68, 70-72, 74-77, 82, 89, 95, 202, 211, 215, 217 Brutus Stone 70 Bulgakov, Michail 126 Buttmann, Philipp 27 Cabot, John v. Caboto, Giovanni Cabot, Lewis v. Caboto, Luigi Cabot, Santius v. Caboto, Santo Cabot, Sebastian v. Caboto, Sebastiano Caboto, Giovanni 125 Caboto, Luigi 125 Caboto, Santo 125 Caboto, Sebastiano 125

Cadvaladrus 49 Cadvallonus 49 Cadwaladro v. Cadvaladrus Cadwalone v. Cadvallonus Caino 38 Calpe 62 Cam 38, 40-41, 43, 208 Cambria v. Galles Cambridge, Inghilterra 156 Cambridge, Massachusetts 164 Camden, William 96 Campi Elisi 216 Canaan 41, 61, 162, 183, 189190, 193, 201, 208, 210 Canal des Deux Mers 64 Canarie 129 Cannon Street 70 Canterbury 82 Capahowasicke 111 Cape Cod 99, 118, 159, 174, 181, 221-222 Cape Fear 106, 179 Cape Henry 109, 130-131 Capi 40 Carlo Magno 37, 88 Carran 208 Cartagine 34, 61, 124, 130 Cassibellanus 76 Cerere 137 Cernavodã v. Axiopolis Cesare, Gaio Giulio 35, 76, 80-82, 102, 104, 214 Cesarea 92 Cesarèa di Filippo 72 Channel v. Manica Chaucer, Geoffrey 95

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Chesapeake Bay 99, 106-107, 112, 130, 139 Chimera 22 Chrétien de Troyes 95 Circe 60, 214 Cirta 62 Civitavecchia 105 Claudio, Imperatore 80, 87 Clemente VIII, Papa 104 Clyfton, Rev. Richard 156-157 Coel 82 Colet, John 103 Colombo, Cristoforo 124-125 Colonne d’Ercole 62 Comte, Auguste 27 Corineia 74 (cfr. Cornovaglia) Corineus 64-68, 74-75 Còrito 214 (cfr. Cortona) Cornelio (centurione romano) 172 Cornovaglia 75, 83 Cornubia v. Cornovaglia Cortona v. Còrito Costantino, Imperatore 81-83, 92 Costantinopoli 105 Costanzo Cloro, Imperatore 82 Creta 61 Creusa 57, 214 Cristo 24, 42, 49, 57, 72, 92-93, 104, 165, 172, 193 (cfr. anche Gesù) Ctèsippo 21 Cuanu 39 Cymbeline v. Kimbelinus Cymru v. Galles Daniele 82, 92

Danimarca 121 Dante Alighieri 24, 47, 93, 126, 195 Danubio 37, 105 Dardano 38, 40, 126, 213-214 Dart 69 Dartmouth 69 David 61, 160, 193 Deane, Charles 166 De La Warr, Barone v. West, Sir Thomas Delft-Haven 159 Devon 69, 118, 159 Diana 58, 60, 70, 72, 74, 217 Didone 152 Dina 210 Diocleziano, Imperatore 92 Diomede 216 Discovery 106 Disney v. Walt Disney Don 105 Dover 34 Drake, Sir Francis 102 Dryden, John 96 Durkheim, Émile 25, 27 Duxbury, Captain Joseph 103 East Coast 183 Eber 207 Echèneo 21 Eden 38, 79-80, 183 Edith di Scozia 86 (cfr. Matilda) Edoardo VI d’Inghilterra 169 Edoardo VII d’Inghilterra 167 Efesto 205 Egitto 51, 189-190, 207, 211

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El Dorado 158 (cfr. Guiana) Elena (madre di Costantino) 82 Èleno 50-52, 58 Eleonora d’Aquitania 95 (cfr. anche Enrico II d’Inghilterra) Elettra 214 Eli 37, 39, 77 Elia 72 Eliade, Mircea 27 Eliot, Thomas Stearns 56 Elisa 38 Elisabetta I d’Inghilterra 105-106, 184, 186 Enea 35-38, 40, 49-50, 68, 77, 82, 130-131, 137-138, 143, 152, 202, 207, 213-215 Engla land 84 (cfr. anche Angelcynn e Inghilterra) Enrico di Angiò v. Enrico II d’Inghilterra Enrico I d’Inghilterra, “Beauclerc” 85-88 Enrico II d’Inghilterra, “Plantageneto” 87, 89, 95 Enrico V d’Inghilterra 75 Enrico VII d’Inghilterra 124-125 Enrico VIII d’Inghilterra 125 Enrico V, Sacro Romano Imperatore 86 Eolo 130 Epiro 51-52, 57 Erasmo da Rotterdam 103 Erato 133 Eratostene 62 Ercole 81 (v. anche Colonne d’Ercole)

Eretteo 204-205 Erettonio 40 Esau 210 Eschilo 224 Escol 190 Eshcol v. Escol Esiodo 17 Etrusia v. Neustria Ettore 36, 77 Eufrate 208 Europa 35-36, 38, 81, 95, 104, 107, 126, 203-204 Eusebio 81, 92-93 Eva 80 Evemero 23 Exeter 106 Faunce, Elder John 175 Fauno 35, 214 Febo v. Apollo Fedro 22 Florída (Florida) 184 Ford, Worthington 166 Fortune 174 Fotherby, Martin 126 Francia 36, 64, 79, 84, 95, 103105 Francio 36 Francus 38 Fredegario 36 Frigia 57 Frye, Northrop 13, 226 Fulham Palace 166

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Galles 33, 41, 78, 83-84, 96, 123124, 167 (cfr. Cambria, Kambria e Wales) Gallia 36, 44, 59, 62, 66, 81, 83, 89 Gates, Sir Thomas 115 Gaufridius Monemutensis v. Geoffrey of Monmouth Gawain 95 Gaza 61 Geffrei Gaimar 95 Gens Iulia 213-214 (cfr. anche Ascanio e Iulo) Geoffrey of Monmouth 19, 37, 44-45, 48, 63-64, 79, 83, 85, 87, 89, 91, 93, 96, 121, 202, 211, 215 George 149 Gerald of Wales 96 Geremia 72 Gerio 58 Germania 28, 105 Gerusalemme 77, 183, 189, 193, 209 Gervasius of Canterbury 95 Gesù 24, 72, 92-93, 156, 169, 171172, 193 (cfr. anche Cristo) Giacobbe 147, 172, 210 Giacomo I d’Inghilterra 99, 103, 105-106, 109, 113, 132, 153, 158-159, 169 Giacomo VI di Scozia 103 (cfr. Giacomo I d’Inghilterra) Gibilterra, Stretto di 62, 106 Gildas Sapiens 42-46, 48, 57, 7980, 83-84

Gilla Coemáin 47 Ginevra 156 Giona 72 Giordano 71-72, 192-193 Giosuè 52, 71-72, 192 Giovanni (evangelista) 58, 156, 167, 171 Giovanni Battista 72 Giove 40, 58, 137, 214, 216 (cfr. anche Zeus) Giraldus Cambrensis v. Gerald of Wales Giunone 130 Godspeed 106 Goegmagog 75 Goffarius v. Goffarus Pictus Goffarus Pictus 64, 66-67 Goffredo V di Angiò, “Plantageneto” 87, 89 Golia 61 Gorges, Sir Ferdinando 117 Gosnold, Bartholomew 106, 128, 132, 135 Gosnoll v. Gosnold, Bartholomew Gotland 121 Gran Bretagna 69, 83-84 Grande Sirte 61 Gravesend 149 Graz 105 Grecia 50-52, 54, 56, 202, 215 Gregorio di Tours 36, 44 Grenville, Sir Richard 179 Guanach v. Cuanu Guglielmo I d’Inghilterra, “il Conquistatore” 69, 84, 86 Guglielmo II d’Inghilterra 86

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Guiana 158 (cfr. anche El Dorado) Hakluyt, Richard 102, 123-124, 184, 186 Hanno, Principe di Cartagine 124 Henry of Huntington 87, 95 Hessitio 38 Himbertus 64 Hole, William 115 Holinshed, Raphael 95 Hubbard, William 165 Hübner, Kurt 20, 27-28 Hudson River 158-159 Hume, David 26 Hunt, Master Robert 128 Hunter, Joseph 166 Hutchinson, Thomas 166 Iafet 38, 41, 208 Iavan 38 Idaho 179 Iglesiente 62 Ilio (città) 40 (cfr. Troia) Ilio (figlio di Troo) 40 Inferi 59, 65, 72, 152, 216 Inghilterra 69, 74, 77, 79, 81, 8489, 94, 99, 101-103, 105-106, 109-113, 115, 117-118, 125126, 128-129, 134, 146-147, 149-150, 152-153, 157, 159, 167, 169-170, 177, 181, 184, 186-187, 215 (cfr. Loegria) Innogen 55-56, 77, 215 Irlanda 83, 121, 124 Isacco 147, 172, 210 Islanda 121

Israele 37, 42, 70-71, 93, 147, 162, 169, 171-172, 190, 192, 201, 210-211 Itaca 62 Italia 36, 49-50, 77, 104-105, 126, 138, 203-204, 214 Iulo v. Ascanio (cfr. anche Gens Iulia) Iupiter v. Giove James I v. Giacomo I d’Inghilterra James Fort 110 James River 99, 109, 111-112, 118, 132 Jamestown 19, 99, 101, 107, 109, 111-112, 115, 117-118, 126, 134-135, 138, 141, 146-147, 158, 174, 188 Jamestown Island 109 Jung, Carl Gustav 25, 27, 201 Kaerlud 77 (cfr. Londinium) Kamber 41, 77-78 Kambria v. Cambria Kendall, George 132 Kerényi, Károly 27 Kimbelinus 46, 96 King, Sidney 110 King’s Lynn 103 Kings Lynn Museum 150 Labano 210 Lamedone 40 Laterano 105 Latino, re dei Laurenti 35, 49, 133, 214

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Laurento 133 Lavinia 35, 49-50, 143, 152, 203, 214-215 Lavinium 214 Layamon 95 Lazio 89, 133, 183, 214 Lear v. Leir Lefkada 57 Leida v. Leyden Leir 17,46, 95 Leland, John 95 Leogetia 57 Lèucade 57 Lévi-Strauss, Claude 25 Lévy-Bruhl, Lucien 27 Leyden 157, 159, 162 Lia 210 Li Galli 62 (cfr. Sirenusae) Lincolnshire 102-103, 157 Lindisfarne 103 Linn, Fryer 120-121 Lipsia 105 Little, Brown & Company 167 Livio, Tito 40, 50, 201 Lloegyr v. Loegria Locrinus 77 Loegria 77 (cfr. Inghilterra) Loira 64 Londinium 77 (cfr. anche Londra e Troia Nova) London v. Londra London Adventurers 99, 100, 115 London Company 99, 106, 109, 113, 115, 117-119, 128-129, 132, 134, 158, 217 London Stone 70

Londra 70, 75, 76, 77, 102, 106107, 118-119, 149, 153-154, 156, 158, 165-167, 174 (cfr. anche Troia Nova e Londinium) Lorenz, Konrad 196 Louth 103 Luca (evangelista) 167, 172 Lud 76-77 (cfr. Londinium) Lutero, Martin 171 Machiavelli, Niccolò 103 Machumps 113, 115 Madock 123-124 Madonna 143 (cfr. anche Maria Vergine) Maine 106, 117-118, 159 Malgo 120-121 Malick, Terrence 154 Malinowski, Bronislaw 27 Malve 62 Manica 85 Marco (evangelista) 167, 172 Marco Aurelio, Imperatore 103104, 203 Maria Vergine 104, 186 (cfr. anche Madonna) Marica 214 Marie de France 95 Mar Ionio 57, 61 Mar Nero 37, 105 Marocco 62, 106 Mar Rosso 190 Martin, John 132, 139 Massachusetts 117, 164-167 Massasoit, Capo 177 Mather, Cotton 165, 203-204

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Mather, Increase 165 Matilda (moglie di Guglielmo I) 86 Matilda (moglie di Enrico I) 86 (cfr. Edith di Scozia) Matilda, “Empress” (figlia di Enrico I, madre di Enrico II) 86-87, 89 Matoaka 148 (cfr. Pocahontas) Matteo (evangelista) 17, 40, 72, 82, 167, 171, 193 Matthaeus Parisiensis 95 Mauretania Caesariensis 62 Mauretania Tingitana 62 Mayflower 69, 99, 159, 167, 169, 174, 176, 181, 221-222 Mediterraneo 35, 207 Meeting House, Boston 165-166 Mempritius 54 Mercurio 58 Merlino 33, 46, 88-89 Meronocomoco 141 (cfr. Werowocomoco) Mesopotamia 208 Messina, Stretto di 62 Meulan 87 Milton, John 96 Minturno 214 Mississippi 179 Monmouth 83 More, Quercia di 208 More, Thomas 103 Morton, George 174 Morton, Nathaniel 161-165 Moscovia 105 (cfr. Russia) Mosè 51, 162, 171, 182, 190, 202, 211

Müller, Karl Otfried 26 Mulùia v. Malve Nabucodònosor 82, 92 Nacor (nonno di Abramo) 207 Nacor (fratello di Abramo) 207, 210 Namontack 112-113 Nansemond River 112 Nantaquod 111 Napoli 105 Nausicaa 143 Negheb 190 Negue 38 Nelson, Captain Francis 112 Nennius 33-38, 40-41, 45-47, 4950, 61, 68, 79, 83-84 Nettuno 130-131 Neustria 89-90 (cfr. Normandia) New England 19, 99, 101, 117120, 154, 155, 158-160, 164167, 169, 173-174, 176, 203, 211, 221-222 New Orleans 179 New Plimouth v. Plymouth, New England New Plymouth v. Plymouth, New England Newport, Captain Christopher 106, 109, 111-113, 115, 132-135 New York City 106 Nietzsche, Friedrich 25 Noè 37-41, 207-208, 210 Nordamerica v. America Norfolk 103, 150

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Normandia 83-85, 89 (cfr. anche Armorica e Bretagna) Normannia v. Normandia North Carolina 106, 159, 179 Norvegia 121 Nottinghamshire 156 Numa Pompilio 38 Numidia 62 Numitore 38 Nuova Gerusalemme v. Gerusalemme Nuova Inghilterra v. New England Nuovo Mondo 20, 106-107, 124, 133, 154, 158, 179, 184, 186 Odisseo 21, 41, 53, 62, 130, 143, 214, 216 Olanda 118, 157, 159, 169 (cfr. anche Paesi Bassi e Provincie Unite) Old South Church 165-166 Omero 17, 20-21, 23, 49, 66, 216, 224 Opechancanough, Capo 140, 144 Opechankanough v. Opechancanough, Capo Orcadi 121 Ordericus Vitalis 93 Oriente 38, 43, 172, 209 Origene 92 Orosio, Paolo 93 Ortigia 57 Otto, Rudolf 27 Otto, Walter Friedrich 20-21, 26 Ottomani 104-105

Owen Guineth, Principe di Galles 123-124 Oxford 45, 47-48, 88, 115 Pacifico, Oceano 112-113 Paddan-Aram 210 Padova 64 Paesi Bassi 103 (cfr. anche Olanda e Provincie Unite) Paleologue, Theodore 103 Palestina 61 Pamunkee 140 Pandrasus 51-52, 54-56, 215 Paolo (apostolo) 57, 161, 172 Parigi 89 Parsons, Padre Robert 105 Passe, Simon van de 108, 148 Peleg 207 Penati 57, 137-138 Percy, George 120 Philadelphia 221 Pico 35 Pietro 72, 172, 192 Pilato, Ponzio 104, 125-126 Pilgrims 99-100, 118, 159-160, 162, 169, 171-175, 178, 181, 189, 191-192, 211, 221-223 (cfr. anche Puritans) Pindaro 22 Pirro 51 Pisgah 182 Plantageneti v. Goffredo V d’Angiò e Enrico II d’Inghilterra Platone 12, 22, 23, 25, 196, 223 Plimoth v. Plymouth, New England

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I miti di fondazione della civiltà anglo-americana

Plymouth, Inghilterra 69, 106, 118, 153, 159 Plymouth Company 106, 117, 159 Plymouth, New England 19, 99, 118, 120, 153, 155, 159-161, 164-166, 168-169, 173-174, 181, 188, 195, 202, 211 Plymouth Rock 70, 174-175, 193, 221-222 Pocahontas 142-149, 151-154, 186, 215 (cfr. anche Matoaka e Rebecca) Polonia 105 Polo Nord 121 Ponce de León, Juan 184 Pope, Alexander 96 Porfirio 43 Potomac 111 Pots, Richard 115 Powhatan, Capo 111-113, 115, 133, 141-145, 148, 151-153 (cfr. Wahunsonacock) Powhatan (fiume) v. James River Powhatan (villaggio) 111 Praga 105 Priamo 40, 50, 55, 202, 214 Prince, Rev. Thomas 165-166 Provincie Unite 157 (cfr. anche Olanda e Paesi Bassi) Puritani v. Puritans Puritans 159-160, 165, 203 (cfr. anche Pilgrims) Rachele 210 Radulf of Coggeshall 95

Raleigh, Sir Walter 102, 106, 126, 158, 184, 186 Ratcliffe, Captain John 129, 132, 135 Ratliffe, Captain John v. Ratcliffe, Captain John Rea Silvia 38 Rebecca (madre biblica) 147, 210 Rebecca (nome di battesimo di Pocahontas) 147-148, 150 Reu 207 Richmond, Virginia 109 Roanoke 106, 112-113, 115, 132, 179, 187-188 Robert de Chesney 89 Robert di Gloucester 87-88 Robinson, Rev. John 157 Rolfe, John 147, 152, 215 Rolfe, Thomas 147, 149-150, 215 Roma 35, 38, 40, 50, 56, 77, 8082, 92-93, 104-105, 107, 155, 186, 201, 203, 213, 216 Romània 93 Romanus 38 Romolo e Remo 38 Russia v. Moscovia Russicada 61 Santo Domingo 179 Saint Paul’s Cathedral 70 Saint Sepulchres 154 Salem 221-222 Sallustio 61 Salonicco 81 Samuel 35, 39-41, 50 Sara 208, 210

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Sarai v. Sara Sardegna 62 Satana 170-171 Saturno 35 Savage, Thomas 112 Scala Santa 104 Schelling, Friedrich 20, 26 Scott, Sir Walter 96 Scozia 78, 84, 86, 94, 103, 156 Scrooby 156-157, 203 Sea Venture 115 Sedgeford Portrait 150 Selach 207 Sem 38, 41, 207-208, 210 Sendall, Thomas 103 Serug 207 Set 38 Severn 78 Sewall, Samuel 165 Shakespeare, William 17, 46, 70, 95-96, 112, 115 Sichem 208 Sicilia, Canale di 62 Sidra, Golfo di 61 Silvio 35-36, 40, 49-50, 214 Silvio Enea 77 Simon Pietro v. Pietro Sinai 61 Singleton, Charles 195 Sion 193 Sirene 62, 64 Sirenusae 62 (cfr. Li Galli) Skikda 61 Smith, Captain John 19, 99, 101109, 111-113, 115, 117-120, 122-124, 126-130, 132-136,

138-147, 149, 151-154, 158, 173-174, 180, 184, 186-189, 195, 202, 215, 217 Socrate 22 Somers, Sir George 115, 120 Somers Isles v. Summer Isles Southampton 159 Spagna 105, 157, 186 Sparatinum 52 Sparta 52 Speedwell 159 Spencer, Herbert 27 Spenser, Edmund 96 Stati Uniti 28, 101 Stephen di Blois v. Stephen d’Inghilterra Stephen d’Inghilterra 87-89 Stonehenge 73 Stow, John 95 Stretto di Gibilterra v. Gibilterra Stretto di Messina v. Messina Suhardus 66 Summer Isles 19, 101, 115, 120 (cfr. Bermuda) Susan Constant 106, 129 Swinburne, Algernon 96 Tamigi 76, 128, 149 Telemaco 214 Tennyson, Lord Alfred 96 Terach 207-208 Terra Promessa 52, 61, 69, 71, 162, 179, 181-182, 189-192, 201, (202), 203, 213 Teti 224 Tevere 49, 105, 126, 130-131

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I miti di fondazione della civiltà anglo-americana

Thornton, John T. 166 Tiresia 60 Tirreno 36, 62, 64 Titani 72 Titanic 86 Tolomeo 62 Tommaso d’Aquino 81, 224-225 Totnes 69-71 Touraine v. Turenna Tours 36, 66, 68 Transilvania 105 Trinovatum v. Troia Nova Troia 35, 40, 49, 50-51, 56, 5960, 62, 64, 76-77, 89, 137138, 203-204, 211, 213-214, 216 (cfr. Ilio) Troia Nova (59-60), 76, 211 (cfr. anche Londra) Troo 38, 40 Tudor 103 Turenna 90 Turner, William 69 Turno 35-36, 49, 68 Turnu Ros∫u 105 Turnus 68 Twain, Mark 221, 223, 225 Tyndale, William 171 Tyrrenus v. Tirreno Ucraina 105 Ungheria 105 Ur 207-208 Uttamatomakkin 152 Vallo di Adriano 73 Vallo di Antonino 73

Venere 215 Vergil, Polydore 96 Vespucci, Amerigo 125, 179 Vico, Giambattista 20, 24-26 Virgilio 35, 56, 107, 133, 135, 213-216 Virginia 19, 99, 101, 106-107, 110-112, 115-120, 126-129, 146-147, 149, 158, 173, 179, 186-187, 216-217 Virgin Queen v. Elisabetta I d’Inghilterra Viterbo 104 Vittoria, regina d’Inghilterra 167 Volda, Henry 105 Wace 95 Waddington, Rev. John 167 Wahunsonacock, Capo v. Powhatan, Capo Waleran 87-88 Wales v. Galles Wallingford 89 Walt Disney 153-154 Walter, arcidiacono di Oxford 47, 49, 88, 94 Washington 179 Watson, Thomas 109 Werawocomoco v. Werowocomoco Werowocomoco 111, 141 West, Sir Thomas (Barone De La Warr) 115 West Country 106 Westminster 87 Weston, Thomas 158-159

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Caterina Salabè

White Ship 86, 88 Wilberforce, Samuel 166 William Adelin 86 William of Malmesbury 86, 96 William of Newburgh 96 Willoughby 103 Willoughby de Eresby, Lord 103 Wingandacoa 186-187 Wingfield, Edward Maria 106, 109, 132, 135 Wingina, Capo 186-187 Winslow, Edward 173, 177-178 Winthrop, Robert 167 Wolfram von Eschenbach 95

Wordsworth, William 96 Wotton, Master Thomas 135 Wundt, Wilhelm 27 Wycliff, John 171 Yeats, William Butler 226 York 83 Yorkshire 156 Young, Alexander 164 Zarec 62 Zeus 205, 224 (cfr. anche Giove) Zilpa 210 Zúñiga map 112, 114

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA» FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

DIPARTIMENTO DI ANGLISTICA

STUDI E RICERCHE Volumi pubblicati 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

BIANCAMARIA PISAPIA, L’arte di Sylvia Plath PAOLA COLAIACOMO, Biografia del personaggio nei romanzi di Daniel Defoe NICCOLÒ ZAPPONI, L’Italia di Ezra Pound AGOSTINO LOMBARDO, Un rapporto col mondo – Saggio sui racconti di Nathaniel Hawthorne MARIO MATERASSI, Il ponte sullo Harlem River – Saggi e note sulla cultura e la letteratura afro-americana di oggi MARIA STELLA, Cesare Pavese Traduttore AA. VV, Saggi sulla cultura afro-americana, a cura di A. PORTELLI ALESSANDRO PORTELLI, Il re nascosto – Saggio su Washington Irving STEFANIA PICCINATO, Testo e contesto della poesia di Langston Hughes CAROLE BEEBE TARANTELLI, Ritratto di ignoto – L’operaio nel romanzo vittoriano DANIELA GUARDAMAGNA, Analisi dell’incubo – L’utopia negativa da Swift alla fantascienza ALBA GRAZIANO, Il linguaggio dell’ironia – Saggio sui Gulliver’s Travels AA.VV., Settecento senza amore – Studi sulla narrativa inglese, a cura di R. M. COLOMBO AA. VV., Melvilliana, a cura di P. CABIBBO ROSAMARIA LORETELLI, Da Picaro a Picaro – Le trasformazioni di un genere letterario dalla Spagna all’Inghilterra AA. VV., I piaceri dell’immaginazione, a cura di B. PISAPIA P. CABIBBO – D. IZZO, Dinamiche testuali in The Great Gatsby MARIO MARTINO, Il problema del tempo nei sonetti di Shakespeare GIUSEPPE NORI, La scrittura sconfitta – Saggio sul Pierre di Melville FRANCA RUGGIERI, Maschere dell’artista – Il giovane Joyce GIOVANNI LUCIANI, L’arte della biografia – Saggio su Lytton Strachey MARISA SESTITO, L’illusione perduta – Saggio su John Milton AA. VV., Identità e scrittura – Studi sull’Autobiografia Nord Americana, a cura di A. L. ACCARDO – M. O. MAROTTI – I. TATTONI ALESSANDRO CABONI, Nonsense – Edward Lear e la tradizione del nonsense inglese GUIDO BULLA, Il muro di vetro – Nineteen Eighty-Four e l’ultimo Orwell

26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52.

SIMONETTA FAIOLA NERI, Il romanzo giacobino in Inghilterra AA. VV., Ritratto di Northrop Frye, a cura di A. LOMBARDO UGO RUBEO, L’uomo visibile. La poesia afro-americana del 900 ROBERTO BARONTI MARCHIÒ, Il futurismo in Inghilterra: tra avanguardia e classicismo JANE WILKINSON, Orpheus in Africa. Fragmentation and Renewal in the Work of Four African Writers AA. VV., Il sogno di Acadia. Saggi sull’origine del romanzo canadese di lingua inglese, a cura di A. GEBBIA MARIA VALENTINI, Shakespeare e Pirandello ODETTA TITA FARINELLA, Timon of Athens AA. VV., Un’altra America. Letteratura e cultura degli Appalachi meridionali, a cura di A. L. ACCARDO, C. MATTIELLO, A. PORTELLI, A. SCANNAVINI AA. VV., The Artist and His Masks. William Faulkner’s Metafiction, a cura di A. LOMBARDO PAOLA RUSSO, Il bosco delle Ninfe. Nathaniel Hawthorne e la classicità IGINA TATTONI, The Unfound Door. Innovative Trends in Thomas Wolfe’s Fiction STEFANIA D’AGATA D’OTTAVI, Il sogno e il libro. La mise en abyme nei poemi onirici di Chaucer NORTHROP FRYE, Reflections on the Canadian Literary Imagination, a cura di B. GORJUP PAOLA CASTELLUCCI, Letteratura dell’assenza GIORGIO MARIANI, Allegorie impossibili. Storia e strategie della critica melvilliana DONATELLA MONTINI, Le lettere di Shakespeare DANIELE NIEDDA, Joseph Addison e l’Italia LUCA BRIASCO, La ricerca di Ishmael: Moby Dick come avventura dell’interpretazione CRISTINA MATTIELLO, Le frontiere della solidarietà. Chiesa cattolica statunitense e New Deal ANNA SCANNAVINI, Per una poetica del bilinguismo.Lo spagnolo nella letteraura portoricana in inglese AA. VV., Il Minotauro ultramarino. Saggi sull’origine della poesia anglo-canadese, a cura di A. GEBBIA La figlia che piange. Saggi su poesia e meta-poesia, a cura di A. LOMBARDO ELISABETTA TARANTINO, Le metamorfosi dell’amore. Lyly, Greene, Shakespeare e le origini della commedia romantica ANNALUCIA ACCARDO, Il racconto della schiavitù negli Stati Uniti D’America. AA.VV., Giornale di Bordo. Saggi sull’immagine poetica del mare, a cura di A.LOMBARDO LUISA CALÈ, Visione e cosmo. La prospettiva nel Paradise Lost

53. ANNAMARIA MORELLI, La scena della visione. L’eccesso barocco e la teatralità shakespeariana. 54. AA. VV, Ulisse: archeologia dell’uomo moderno, a cura di P. BOITANI e R. AMBROSINI 55. MARIO FARAONE, Un uomo solo. Autobiografia e romanzo nell’opera di Christopher Isherwood. 56. CARLA POLLETTI, Lo scrittore e il suo doppio. Saggio sul Tristram Shandy. 57. Gioco di specchi. Saggi sull’uso letterario dell’immagine dello specchio, a cura di A. LOMBARDO 58. FRANCESCA TESTA, Tristram Shandy in Italia. Critica, traduzioni, influenze. 59. LINO BELLEGGIA, Lettore di professione fra Italia e Stati Uniti. Saggio su Paolo Milano. 60. MIRELLA MARTINO, La linea d’acqua. Moby-Dick e le retoriche del narciso americano. 61. Presenza di T.S. Eliot, a cura di A. LOMBARDO 62. RICHARD AMBROSINI, R.L. Stevenson: la poetica del romanzo. 63. CARLO MARTINEZ, L’arte della critica. Ideologia e forma narrativa nelle Prefazioni di Henry James. 64. ALESSANDRO GEBBIA, Cartografie del Nuovissimo Mondo: Viaggi nella letteratura canadese di lingua inglese. 65. STEFANIA TONDO, Henry James e l’arte della lettera. 66. Shakespeare e il Novecento, a cura di A. LOMBARDO 67. SALVATORE PROIETTI, Storie di fondazione. Letteratura e nazione negli Stati Uniti post-rivoluzionari. 68. EMILIA DI ROCCO, Letteratura e legge nel trecento inglese. Chaucer, Gower e Langland. 69. VALERIO MASSIMO DE ANGELIS, Nathaniel Hawthorne. Il romanzo e la storia 70. SARA ANTONELLI, Rinascita di una nazione. Le scrittrici americane e la Guerra civile. 71. Il romanzo dell’attore, a cura di A. LOMBARDO.