I diversi 8811674956, 9788811674955

La donna, l'ebreo, l'omosessuale: tre aspetti della diversità. Miti, personaggi, destini reali tra letteratura

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I diversi
 8811674956, 9788811674955

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HANS MAYER

I DIVERSI

Garzanti · Gli elefanti Saggi

La donna, l’ebreo, l’omosessuale: tre aspetti della diversità. Miti, personaggi, destini reali, tra letteratura e storia.

Hans Mayer, nato nel 1907, è stato professore di lette­ ratura tedesca al politecnico di Hannover. Per gli stu­ di su Goethe, Thomas Mann, Georg Büchner, Bertolt Brecht, sul Classicismo e sul Romanticismo, è consi­ derato uno dei massimi germanisti contemporanei. Di Hans Mayer Garzanti ha pubblicato nel 1991 Let­ teratura vissuta.

Gli elefanti sono di buona memoria Dove maggiori sono l'inquietudine e il dubbio nella nostra cultura e nella nostra società, li incontriamo le parole che indicano il nodo non sciolto, il viluppo ine­ stricabile: differenza, anormalità, emarginazione, esclusione. Hans Mayer individua alcune costellazioni storiche della diversità (femminile, omosessuale, ebrea...) e mostra le mutevoli configurazioni che hanno assunto, sia nell'immediatezza dei processi storici, sia attra­ verso la mediazione delle opere dello spirito. I diversi può essere considerato una sorta di enciclopedia. Da Giuditta e George Sand allefemministe, da Edoardo u a Oscar Wilde a Genet, dall'Ebreo errante a Shylock alle vittime di Auschwitz? Slayer rileggefigure del mi­ to e destini reali, portando alla luce tensioni e conflitti occultati, e articolando le differenze nella loro concre­ tezza, secondo un disegno e un intento che trovano il loro punto di partenza nelpensiero critico di Adorno e Horkheimer.

L. 28.000 (prezzo di vendita al pubblico)

gli elefanti saggi

Hans Mayer

I diversi

Garanti

In questa collana Prima edizione: maggio 1992

Traduzione dal tedesco di Ludovico Bianchi Titolo originale dell’opera: Aussenseiter © Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main, 1975

ISBN 88-11-67495-6 © Garzanti Editore s.p.a., 1977, 1992 Printed in Italy

Premesse: diversi e illuminismo

1 ■ Il mostro come caso di emergenza dell’umanità

Questo libro parte dalla premessa che l’illuminismo borghe­ se è fallito. Per contestare questa affermazione non basta pen­ sare ai postulati ugualitari. L’uguaglianza formale davanti alla legge non deve essere confusa con l’uguaglianza materiale delle prospettive di vita, anzi, si presta egregiamente a impe­ dirla, come dimostra la storia della società borghese. Dialettica deH’illuminismo ovunque: nel contrasto fra la libertà e le li­ bertà, fra uguaglianza materiale e formale, nel tentativo di dare concretezza politica e giuridica alle elevate emozioni della « fraternità ». E quindi gli eredi di Gracco-Babeuf nel secolo XIX evitano la terminologia generosa della fraternità, e la sosti­ tuiscono con la più precisa espressione della « giustizia ». Solo che tali esperienze non confutano l’illuminismo bor­ ghese, ma lo confermano: si possono correggere difetti, estor­ cere soluzioni rifiutate, strappare alla borghesia i suoi postulati per realizzarli tramite nuovi portatori sociali, con validità asso­ luta e nella lotta contro i protagonisti borghesi di un tempo. Così svincolato dalle sue origini borghesi e storiche, l’illumi­ nismo diventa allora sinonimo di una rivoluzione permanente. Fallimento di un illuminismo borghese non equivale neces­ sariamente a bancarotta del pensiero illuministico-umanistico. Le contraddizioni della realtà sociale confermano la necessità di un’illuminazione razionale. Nel suo libro su Diritto natu­ rale e dignità umana [Naturrecht und menschliche Würde] Ernst Bloch ha analizzato il nesso interno che esiste fra il giusnaturalismo borghese del secolo xvm e il socialismo utopi­ stico antiborghese del xix. Bloch si rifiuta di separare netta­ mente l’una dall’altra le « due forme di pensiero utopico che propongono una migliore vita sociale ». Poiché « si intrecciano fra loro, le teorie della felicità non intendono realizzare uri paradiso terrestre per animali immaturi, le teorie della dignità 5

non si ispirano all’ideale di asceti sprezzanti con la sensibilità di una colonna ». La permanenza è accentuata con molta ener­ gia: « Forza della certezza: non c’è dignità umana senza fine dell’indigenza, ma non c’è neanche una felicità adeguata al­ l’uomo senza la fine della sudditanza vecchia e nuova. »' La filosofia della speranza di Ernst Bloch, con i postulati fon­ damentali dell’andatura umanamente eretta e del cammino umano verso una patria dove non è mai stato nessuno ha pro­ clamato quella permanenza deH’illuminismo oltre la borghesia in un modo più serio e spregiudicato di quanto fosse mai av­ venuto prima. Del « principio speranza » ha sempre fatto parte il « programma cittadino [citoyen] ». Ma per « cittadino » doveva essere inteso l’uomo borghese che era rimasto fedele ai sogni della sua giovinezza, dunque alla rivoluzione borghese: dunque un giacobino permanente. Ma il Principio Speranza [Prinzip Hoffnung] condivide con tutte le filosofie dell’ottimismo sociale (non solo con Rousseau) il disprezzo dell’uomo che soffre concretamente, a favore di un’umanità sofferente. Bloch parla efficacemente di coloro che sono umiliati e offesi, ma si riferisce soltanto al comune desti­ no, non al singolo umiliato e offeso di cui l’agire e il soffrire non possono essere sussunti sotto nessuna legge generale. Ac­ canto ai numerosi richiami a Platone, Rousseau o Hegel, e cioè a pensatori che rifiutano la loro simpatia a un individuo singolarmente estraneo ed estraniato, nel Prinzip Hoffnung i tre avari richiami a Montaigne appaiono quasi sprezzanti. C’è una sola citazione dai Saggi·, proprio là dove Bloch giunge in prossimità dell’isolato e atipico.2 Devono essere composte « ta­ vole della solitudine » : accanto a quelle dell’amicizia, dell’in­ dividuo e della comunità. Ma la soggettività irriducibile e iso­ lata che doveva essere così importante per Montaigne Bloch invece ben presto la spinge nuovamente da parte : la luce della speranza brilla bensì per i molti che stanno nelle tenebre, ma non per quello che ha cercato egli stesso l’oscurità. La filosofia di Bloch conosce l’Alta Coppia, ma non la strindberghiana « lotta dei sessi » : come in tutti gli illuministi borghesi, anche qui la natura è equiparata al comportamento cosiddetto nor­ male; la sua origine ebraica non assume mai, per Bloch, la fun­ zione di un impulso per un nuovo modo di pensare. La consi­ dera al massimo come un aspetto accidentale della sua prove­ nienza, come fanno anche Karl Marx e Lev Trockij. Il Prinzip 6

Hoffnung riflette sulla musica celeste di Belmonte nell’ultimo atto del Mercante di Venezia, ma non su Shylock, e meno che mai sul suo mostruoso antagonista, sul mercante Antonio. Tutto rientra nel principio: il rifiuto di considerare la sog­ gettività isolata, eccezionale; l’impaziente imbarazzo davanti a solitudini che non sono condivise da un collettivo; infine la minima affinità di questo filosofo con la filosofia di Michel Montaigne. Poiché qui una filosofia umanitaria della nostalgia umana trova le sue contraddizioni finora irrisolte. Il suono di tromba del Fidelio, la musica di Belmonte : devono risuonare anche per coloro che sono uomini oppressi senza poter insor­ gere come umanità oppressa. Florestano è un coraggioso uomo qualsiasi, e conferma la filosofia della libertà. Solo che è su quei diversi, quegli esclusi della società che nacquero come mostri, che si deve provare se l’illuminismo permanente ha ancora una possibilità nel presente e nel futuro. Per loro non brilla la luce dell’imperativo categorico, poiché il loro agire non può diventare la massima di una legislazione universale. Ma proprio per questo l’illuminismo deve provare la sua ve­ rità davanti a loro. Un ampio catalogo di questi tipi emarginati si trova nel dramma elisabettiano: con sorprendente esattezza e completez­ za in Christopher Marlowe, con tutte le oscurità e superficialità in Shakespeare. La ricerca moderna ha potuto stabilire come Shakespeare sia stato fortemente impressionato, come lettore e drammaturgo, dai Saggi di Montaigne, che uscirono nel 1603 nella traduzione di Flory. I Saggi di Montaigne, di cui i primi e più importanti volumi (i e n) escono nel 1580, otto anni pri­ ma del Faustus di Marlowe, ignorano completamente l’uma­ nità in generale, insieme a tutte le utopie, le città del sole e le nuove atlantidi. Conoscono soltanto il singolo reale, che non si propongono affatto di compatire, ma di comprendere. Si è fatto un gran parlare dello scetticismo di Montaigne e si è di­ sapprovata la sua apparente mancanza di un punto di vista. Nel famoso controsaggio del 1938 su Montaigne e la funzione dello scetticismo,3 Max Horkheimer ha sostenuto questa tesi: « In Montaigne si esprimono importanti tratti dello spirito borghese. » Poiché « il contenuto positivo dello scetticismo è l’individuo ». Allora in contrasto con questo i riformatori de­ vono fare effettivamente un’impressione di inumanità, gli uto­ pisti di astrazione. Ora non si può negare che ciò riflette anche 7

il quietismo borghese, però non dovrebbe essere semplicemen­ te e astoricamente identificato con esso, e meno che mai con una filosofia dell’egoismo liberale. Le motivazioni di Montai­ gne possono essere indovinate: nella lotta fra la lega cattolica e i puristi ugonotti egli voleva difendere la verità dell’espe­ rienza personale. La guerra di religione permetteva soltanto l’a­ strazione ideologica: amico o nemico. Montaigne sceglieva la concretezza del particolare. Anche quando si presentava nella forma di un mostro. Nel π libro dei Saggi il trentesimo capitolo 4 ha il titolo D’un bambino mostruoso. Secondo la sua abitudine stilistica Montaigne sceglie l’esperienza quotidiana. Ciò di cui riferi­ sce è accaduto « ieri l’altro ». Vita contadina in Guascogna. Una famiglia con un bambino di 14 mesi, che non prende altro cibo fuorché il latte della balia. Porta in giro con sé un sia­ mese senza testa. Dopo una precisa descrizione della situazione il saggista viene a parlare di un caso analogo: di un pastore di Medoc sulla trentina, che non ha organi sessuali. « Ha la bar­ ba, è sensuale, cerca il contatto delle donne. » Montaigne tenta un’interpretazione; conforme al suo modo di pensare indeciso, continuamente oscillante tra la religione e la filosofia, dapprima ricorre a un piano provvidenziale, di­ vino. « Quelli che noi chiamiamo mostri, non lo sono per Dio, che vede nell’immensità della sua opera l’infinità delle forme che vi ha compreso. » Però noi non conosciamo questo piano e siamo meravigliati. Segue allora il non meno obbli­ gato ricorso alla saggezza antica, è citato Cicerone, che aveva interpretato il meraviglioso semplicemente nel senso di un ina­ bituale. Montaigne sembra concordare con lui, infine azzarda una propria conclusione: « Noi chiamiamo contro natura quello che avviene contro la consuetudine; non c’è niente se non secondo essa, qualunque cosa sia. Che questa ragione uni­ versale e naturale cacci da noi l’errore e lo stupore che ci arreca la novità » (Que cette raison universelle et naturelle chasse de nous l’erreur et l’estonnement que la nouvelleté nous ap­ porte).5 Ciò non è soltanto tolleranza, è qualcosa di più. L’esigenza dell’uguaglianza con l’enfatica invocazione di tutto ciò che ha un volto umano resta contraddittoria — se non addirittura antilluministica — finché cerca di fondarsi su un’apparente regolarità dell’umano. Allora uguaglianza significa la norma. 8

disuguaglianza feudale e gerarchica l'anormalità. Donde si do­ vrebbe concludere che bisogna abbattere le barriere della « moda » (Schiller), per liberare l’illuminismo. E in effetti il « programma cittadino » invocato da Ernst Bloch doveva essere inteso così. Tuttavia esso ignorava l’ineguaglianza che può esistere nel­ l’umano, non soltanto nel sociale. L’umanità consisteva davve­ ro soltanto di uomini e donne, razze, complessioni mentali, fisiche e psichiche di uguale valore? O, più esattamente : i mo­ stri di ogni specie appartenevano all’umanità, in modo che la luce dell’illuminismo poteva splendere anche per loro? Que­ sta antinomia è lo scoglio contro cui l’illuminismo è naufra­ gato fino a oggi. Di fronte ai diversi finora l’illuminismo è fallito. 2 ■ Diversi intenzionali ed esistenziali

La letteratura appartiene alla categoria del particolare. Ciò vale per la soggettività creatrice come per la particolarità di forma e contenuto. La letteratura tratta sempre casi eccezio­ nali. Tutti gli appelli di politica culturale che avevano esor­ tato a raffigurare esistenze quotidiane perfettamente normali sono naufragati contro questa costellazione. La tragedia greca e l’effetto che ha continuato a produrre attraverso i tempi possono dimostrarlo. Stupito e quasi a ma­ lincuore, quando scriveva l’abbozzo per un’introduzione alla Critica dell'economia politica, Karl Marx doveva constatare che il tramonto di un ordinamento economico e sociale non rendeva affatto obsolete le opere artistiche e letterarie che era­ no nate nel suo ambito. Marx se lo spiegava considerando il caso dell’arte ed epica greca. « Ma la difficoltà non sta nel capi­ re che l’arte e l’epica greca sono legate a certe forme di svilup­ po sociale. La difficoltà è che esse ci procurano ancora godi­ mento estetico, e che in un certo senso valgono tuttora come norma e irraggiungibile modello. »6 Che questo passo si riferisca anche alla tragedia antica è evidente; e del resto Marx ha detto più volte che Eschilo è il suo poeta preferito. La risposta a questo difficile rompicapo tentata da Marx (che non ha stampato l’introduzione) non può soddisfare: il piacere prodotto dall’arte e dalla poesia dei 9

greci può essere spiegato come commozione per una serena giovinezza dell’umanità: « Perché mai l’infanzia sociale del­ l’umanità, in cui essa si è dispiegata nel modo più bello, non dovrebbe esercitare un fascino eterno, come fase che non ritor­ nerà mai? Ci sono bambini viziati e saccenti. Bambini normali furono i greci. » Ciò è contraddittorio, poiché vuole interpre­ tare le opere dei greci insieme come opere infantili e come perfezione. Inoltre questa interpretazione entra in contraddi­ zione con i dati della poesia drammatica greca, non soltanto della tragedia. Ben lungi dal riflettere la realtà quotidiana di bambini lieti e normali, il palcoscenico dei greci trattava esclu­ sivamente dei diversi anormali. Già qui la divisione nei due mondi della commedia e della tragedia può essere intesa insie­ me come contrasto tra i diversi intenzionali ed esistenziali. Gli eroi della commedia di Aristofane sono solitari e origi­ nali volontari: sia che — come Trigeo e Lisistrata — facciano ciò che è ragionevole nella generale irrazionalità, sia anche che — come le stravolte caricature di Euripide e Socrate — siano messi a nudo come mattoidi dal loro commediografo, portavoce dei sani e normali bambini greci. Invece i protago­ nisti della tragedia sono prototipi della diversità esistenziale in quanto per lo più soggiacciono alla maledizione divina, non hanno veramente voluto la costellazione tragica e quindi insolubile. La maledizione degli Atridi in Argo e dei Labdacidi a Tebe; l’Aiace che gli dei colpiscono con la follia o le baccanti accecate da Dioniso e il Filottete lebbroso. Ci sono forme miste del processo di isolamento, che stanno tra quello volontario e quello tragico, imposto dall’hybris e dalla maledi­ zione divina: Prometeo o il'Serse accecato di Eschilo; l’Antigone di Sofocle; Eracle e Medea in Euripide. Quando consta­ tava: « La mitologia egiziana non avrebbe mai potuto essere il terreno e grembo materno dell’arte greca », Marx legava l’arte e la poesia greca ai miti greci, ma quindi anche alla reli­ giosità dei popoli greci nel secolo quinto. Essa è ancora intatta in Eschilo, in Sofocle e nel loro pubblico, e anche in Aristo­ fane, che sacrifica a Echilo Euripide, apertamente ateo o al­ meno scettico. Il ruolo degli dèi in Euripide è stato così ca­ ratterizzato da Jean-Paul Sartre, nella spiegazione della sua rielaborazione delle Troiane del 1965: « Da un lato essi do­ minano il mondo: la guerra di Troia è stata opera loro. Però se osserviamo più attentamente ci accorgiamo che non si com10

portano diversamente dagli uomini [...] Utilizzando i cliché religiosi per distruggerli tanto meglio, Euripide si serve della leggenda per contrapporre tra loro i miti e rappresentare le dif­ ficoltà di un politeismo a cui il suo pubblico non crede già più. »’ Questo processo continua nelle tragedie romane di Seneca. La filosofia stoica e il pluralismo religioso di Roma imperiale estorcevano una formalizzazione ed estetizzazione della trage­ dia. La Medea o la Fedra di Seneca, il suo Ercole e i suoi Atridi divennero poesia educativa per i borghesi romani. I perso­ naggi tragicamente diversi dei greci degenerarono a letteratura edificante. Avevano perso la loro funzione catartica. Il monoteismo cristiano conosce il diverso solo nell’ambito dell’unità di fede. C’è l’essoterica e l’esoterica. Pagani senza fede, ebrei della sinagoga con gli occhi bendati, cattolici, ere­ tici. Tutto viene ridotto a un rapporto di interiorità o esterio­ rità rispetto al mondo del Corpus christianum. All’interno di questa comunità è pensabile soltanto la diversità intenzionale. Mostri per le loro azioni e opinioni sono i peccatori. Un solo mostro esistenziale si trova nel mondo dei Vangeli: l’apostolo traditore Giuda Iscariota.8 Colui che tradiva per la ridicola somma di trenta denari; o forse l’uomo che doveva eseguire lo scandalo profetizzato; o anche il vero apostolo che decise di contribuire affinché la scrittura si compisse. In tutte le descri­ zioni e interpretazioni la sua posizione eccentrica non appare tanto come una miserabile volontà di tradire, quanto piuttosto come lo svolgimento di un ruolo provvidenziale. Così Giuda diventa l’incarnazione del popolo ebraico irrimediabilmente macchiato dal deicidio. L’ebreo diventa Giuda. La sua iden­ tità è quella di un diverso esistenziale. La comprensione del fatto che i diversi sono possibili al di là del mito e del dogma si realizza come processo di secolarizza­ zione. Si diffonde nel rinascimento e appartiene al pensiero borghese: come esperienza quotidiana dei cittadini e dei co­ muni italiani·, di una magistratura borghese che, in Francia, si appoggia alla monarchia centralizzatrice per sfuggire alla duplice stretta dei signori feudali e delle leghe religiose ostili; dei cittadini e dei navigatori inglesi che devono assistere al­ l’autodistruzione della feudalità della Rosa bianca o rossa. In quell’epoca sono nati i personaggi drammatici che hanno potuto sopravvivere come unica alternativa ai nomi mitici

II

della tragedia greca. In quanto anch’essi possono « ancora procurarci godimento estetico » : Faust e Amleto, Shylock e Eulenspiegel, don Giovanni e don Chisciotte, Giovanna d’Arco e le femmine distruttive. Comune a tutti questi personaggi è il fatto che significano estraneità nella comunità esistente. Non sono condannati da un altro ceto, strutturalmente e ideo­ logicamente avverso, ma dai loro simili. Faust è uno scandalo borghese e don Giovanni uno scandaloso membro dell’aristo­ crazia: per gli aristocratici. Amleto pratica un pensiero bor­ ghese nella cortigianamente malata Danimarca. Don Chisciot­ te vive in un suo mondo feudale isolato e immaginario in mezzo aH’imborghesimento generale. Nel Prinzip Hoffnung Ernst Bloch mette insieme Faust e don Giovanni, Amleto e anche Prospero, come < modelli del superamento dei limiti Invece l’hidalgo dalla triste figura è considerato più esattamen­ te come un « modello di superamento dei limiti astratto e me­ diato ». Bloch vede la mediazione nell’amalgama donchisciot­ tesco di anacronismo e utopia. Le bastonate che il cavaliere errante riceve nella vita quotidiana borghese non possono edu­ carlo. « E quindi don Chisciotte non può essere guarito nean­ che dall’esperienza, » pensa Ernst Bloch, poiché « questo mo­ mento pietoso non tiene affatto testa allo strato onirico, il solo evidente e in sepolta attesa». Bloch cita le parole che Cervantes fa dire dal cavaliere a Sancho Panza: « Poiché sap­ pi, amico Sancho, che il cielo mi ha fatto nascere affinché ride­ stassi, nella nostra età di ferro, l’età dell’oro » (Don Quijote, I, 20). A tutte queste figure che rappresentano un superamento im­ mediato o mediato dei limiti è proprio il fatto di essere riu­ scite a svincolarsi dal contesto di un singolo dramma e del suo autore — come Edipo e Oreste, Antigone o Fedra. Anfitrione compare in più di quaranta versioni, c’è l’Elettra di Eschilo e quella di Euripide, di Hofmannsthal e Giraudoux. C’è don Giovanni al di là di Tirso de Molina e di Mozart, ci sono le più contraddittorie interpretazioni della Faust-Story, da Mar­ lowe a Goethe, da Valéry a Thomas Mann. Il fenomeno non può essere affrontato con un’indagine sto­ rica dello sviluppo dei motivi. Anche la forza icastica di un grande scrittore non può spiegare la trasformazione per cui una figura singola acquista carattere tipico. Amleto e don Chi­ sciotte mostrano di non essere stati esauriti — neanche da Sha12

kespeare e Cervantes. Tirso de Molina nel 1630 ha soltanto potuto evocare il suo Burlador de Sevilla, ma non fissarlo. La Tragical History del dottor Faust di Marlowe non ha la classe dei grandi drammi di Shakespeare. Tali figure del superamento dei limiti possono anche pro­ vocare il superamento storico dei limiti in due modi. O attra­ verso l’imitazione e trasformazione di un modello, come accade nel caso della pulzella di Orléans, di don Giovanni e di Faust. O attraverso un continuo rinnovamento dell’interpretazione, dove il mutare del tempo è accompagnato da trasformazioni spirituali. Sono esempi di questo processo Amleto, Shylock e don Chisciotte. Ma anche qui bisogna distinguere fra il superamento dei li­ miti intenzionale e quello esistenziale. Chi supera il confine sta fuori. Si potrebbe chiamare titanico, ciò che è stato intrapreso volontariamente, con ribellione prometeica. Firmato col san­ gue, come il patto col diavolo di Faust. Ubbidienza alle voci, come in Giovanna d’Arco. Ma se il superamento dei confini, se l’isolamento sono stati imposti dalla nascita: dal sesso, dalla provenienza, dalla particolare costituzione psicofisica? In que­ sto caso è stata la stessa esistenza che è diventata un superamen­ to dei confini. A quanto pare questa scoperta è stata fatta dal­ l’Inghilterra elisabettiana. Christopher Marlowe e William Shakespeare hanno fornito i materiali, e con essi anche i mo­ delli di pensiero. 3 ■ Marlowe e Shakespeare Al suo studio sulla vita e le opere di Christopher Marlowe Harry Levin (1952) ha dato il titolo The Overreacher.10 In que­ sto modo il poeta elisabettiano è stato caratterizzato essenzial­ mente come uomo che supera i confini. In una maniera assolu­ tamente singolare, nella sua vita breve, probabilmente conclu­ sa da un assassinio ordinato e predisposto, Marlowe non ha sol­ tanto praticato la diversità sociale, come si può intuire, ma ha anche inteso la sua opera drammatica come rappresentazione di tragedie della diversità intenzionale ed esistenziale. In che misura in queste opere, che appaiono affascinate dall’agnosti­ cismo, dalla violenza, dalla pederastia, dal tradimento, si riflet­ tano fatti specifici della vita dell’autore, è una domanda che B

resta irrilevante, di fronte alla sbalorditiva precisione che per­ mette di rintracciare, dietro coloro che superano i confini nel senso di un abuso machiavellico del potere (Tamerlano) o della conoscenza (Dottor Faust), i diversi, gli oltreconfine per così dire « nati ». Con il caso dell’ebreo Barabba di Malta e quello di re Edoardo d’Inghilterra prigioniero dell’amore per il favorito Gaveston il superamento dei confini viene rimosso dalla sfera della volontà per costituire una necessità ineludi­ bile del diverso. Si tratta soltanto in apparenza della situazio­ ne tragica fondamentale e originaria dei poeti antichi, da cui Hegel ha tratto questa teoria: « La forza dei grandi caratteri sta proprio in ciò, che essi non scelgono, ma interamente e per loro natura sono ciò che vogliono e compiono [...] È il vanto dei grandi caratteri, essere colpevoli. »" Gli antichi protagonisti stavano sotto la maledizione divi­ na: la loro necessità era imposta dall’alto, e quindi poteva es­ sere revocata da un cambiamento della volontà divina, come sapeva il pubblico del teatro di Dioniso di Atene. Gli eroi di un mondo secolarizzato che sta oltre la maledi­ zione degli dèi e la peccaminosità cristiana sono chiusi nell’ec­ cezionaiità della loro costituzione fisica, della loro origine, della loro struttura pulsionale. Christopher Marlowe ha bensì scoperto questo stato di cose per sé e per la letteratura, ma non ne ha tratto tutte le possibili conseguenze. L’ebreo Ba­ rabba non è veramente l’emarginato ebreo; come dovremo an­ cora mostrare, è assai più il rappresentante di una terza reli­ gione, accanto a quella dei cristiani e dei musulmani di Mal­ ta. Anche re Edoardo è presentato piuttosto come pederasta intenzionale e capriccioso, che come una sorta di guardia di confine dell'eròtico caduta irrimediabilmente in balìa dell’a­ more per il proprio sesso. Il contemporaneo e ammiratore di Marlowe William Sha­ kespeare lo ha notato. Per cui in quelle due opere che sono im­ pensabili senza Marlowe: nella storia di re Riccardo II e nel Mercante di Venezia, ha separato la tragedia del re ambiva­ lente e non all’altezza del suo potere dal caso del diverso ses­ suale che porta il marchio incancellabile della sua anormalità. Antonio, il mercante di Venezia, diventa la figura che dà il ti­ tolo a una « commedia » : proprio come Shylock, l’ebreo di Rialto. Nel confronto drammatico di questi due diversi esi­ stenziali (poiché in Shakespeare Shylock è un vero ebreo!) H

Shakespeare scopre gli elementi specificamente borghesi della tragedia in un mondo secolarizzato: la diversità di natura, che sembra opporsi a ogni istanza ugualitaria. Che il conflitto in Shakespeare possa essere superato in forma di commedia, è un fatto che si spiega con un mondo feudale che coltiva la partico­ larità all’interno di una gerarchia stabile, e quindi è in grado di capire tutti i diversi come varianti della disuguaglianza, e di deriderli: che si tratti dei pazzi o dei melanconici, del puri­ tano Malvolio o dell’ebreo Shylock, della pederastia o della promiscuità erotica dell’alta e della bassa sfera sociale. Soltanto la donna come diversa per Shakespeare non è argo­ mento di commedia. Il libro di Leslie A. Fiedler The Stranger in Shakespeare (1972) 12 mostra chiaramente come e in che mi­ sura questo teatro inglese del periodo elisabettiano interpre­ tasse la scoperta di varietà umane — regolari e strane — come compiensione dell’individualità. Ma nella misura in cui, a partire dal puritanesimo, progredisce il vero e proprio imbor­ ghesimento dell’economia e della società, la scoperta della di­ versità si trasforma in un livellamento repressivo. Leslie A. Fiedler interpreta quattro tipi di diversi nel­ l’opera di Shakespeare. Anzitutto The Woman as a Stranger: la donna come estranea. Poi l’ebreo. Il moro di \zenezia. Infine The New World Savage as Stranger : il Calibano della Tem­ pesta come incarnazione dello schiavo coloniale. Ma la por­ tata della ricerca va molto oltre i casi singoli di Lady Macbeth, Shylock, Otello e Calibano. Il cosmo drammatico di Shake­ speare non è un mondo estraniato, e un mondo di estranei, sol­ tanto in questi mostri. Ciò diventa evidente nel caso delle donne di Shakespeare, che sono mostrate ripetutamente in si­ tuazioni che rappresentano un superamento dei confini. La tesi che Fiedler presenta può essere sorprendente, ma appa­ re come risultato di precise analisi : « Evidentemente Sha­ kespeare sente che due individui dello stesso tipo, due uomini, possono trovare l'unità nell’amore; invece è impossibile per un uomo e una donna (dunque per due esseri diversi) che sono estranei l’uno all’altra raggiungere questa comunione. »13 ’ Come interprete Fiedler è molto lontano dall’accettare la tesi; ma come specialista di letteratura anglosassone, la conti­ nuità di una letteratura dove la donna è vista come estranea e corruttrice dell’uomo lo fa riflettere: da Shakespeare attra­ verso il Moby Dick di Melville fino al Tropico del Capricorno !5

di Henry Miller. Certamente il monologo di Postumo Leonato in una tarda opera shakespeariana come il Cimbelino può es­ sere spiegato come sfogo di gelosia e furore per un preteso tra­ dimento femminile. Solo che comincia con i versi : Is there no way for men to be, but women Must be half-workers? We are all bastards (n, 5).14

In effetti nulla sorprende di più del fatto che una tesi in cui un uomo si lagna perché gli uomini non possono mai ve­ nire al mondo senza l’aiuto delle donne abbia fatto insorgere, nei filologi del secolo xix, il dubbio che forse queste parole non furono scritte veramente da Shakespeare. Non ci aiuterebbe una psicologia individuale dell’uomo Shakespeare, che comunque ci sarebbe ben difficile chiarire. Ma probabilmente egli formulò cognizioni della sua società, e cioè del mondo aristocratico sotto una regina vergine e poi sotto un re omoerotico (Giacomo i) che non riuscì a liberarsi dal ricordo della' madre Maria Stuart, quando concepì la don­ na come essere per natura estraneo, e tutte le commedie che in apparenza si concludono con lieti spettacoli matrimoniali devono essere intese come serate teatrali in cui uomini che rappresentavano uomini recitavano assieme a uomini con parti femminili. Fiedler fa giustamente notare che in queste com­ medie le donne (rappresentate da uomini) si travestono conti­ nuamente da uomini, mentre c’è un solo caso in cui un uomo si traveste da donna: quello del nobile Falstaff in difficoltà. All’interno di una società che concepisce le donne come es­ seri estranei non possono mancare le estranee dell’estraneità: Giuditta e Dalila, la donna armata e la donna che seduce e di­ strugge. Marlowe presentava le donne solo nell’atto di svol­ gere funzioni politiche o come strumenti del potere, come nel caso dell’ebreo di Malta. Shakespeare conosce la donna assas­ sina, nella figura di Lady Macbeth, e l’amante che distrugge l’eroe: la Cleopatra di Antonio. È anche interessante il fatto che i diversi esistenziali recente­ mente scoperti siano continuamente legati tra loro da rapporti segreti. Sono isolati contro il mondo regolare di coloro che non oltrepassano i confini, ma sono anche alleati tra loro. In un’interessante interpretazione del Mercante di Venezia, Wys­ tan Hugh Auden ha così interpretato il rapporto fra Shylock 16

e Antonio, i due diversi, richiamandosi a Dante: « Non ci sono ragioni per supporre che Shakespeare abbia letto Dante, però non gli doveva essere estraneo il collegamento mentale fra usura e sodomia che guida anche Dante nel canto undicesimo dell’Inferno. »ls La successiva storia della società europea le contrappone continuamente: sia quando si tratta di confronti reali — Heine e Platen, Maximilian Harder e il principe Eu­ lenburg —, di compresenza in una stessa persona — Marcel Proust —, che quando le due situazioni sono rappresentate da figure artistiche. Ma nello stesso processo sociale, dal rinascimento alla fine dell’Ancien Regime, in cui regnava lo sforzo di ignorare, se non di opprimere, coloro di cui si era riconosciuta la posi­ zione eccentrica, la diversità esistenziale, era avviato anche un processo che addomesticava i diversi per propria volontà, che superavano i confini della conoscenza e del sentire normali, mediante la « comprensione », degradando la singolarità a ca­ priccio, a ipocondria, a fenomeno nervoso. 4 ■ Melanconia e misantropia Nel suo libro sull’Originale nella poesia tedesca, Herman Meyer ricorda una definizione che Caspar Stieler aveva trovato glia fine del secolo xvn per indicare il tipo dello stravagante sociale. Nel repertorio Albero genealogico e sviluppo della lingua tedesca [Der deutschen Sprache Stammbaum und Fort­ wachs, Nürnberg 1691], colui che si ritira dalla società viene definito « homo singularis et peculiaris opinionis, alienus a consortio hominum, solitarius ».“ Compare l’interessante pa­ rola « alienus », che nella lingua inglese e francese attuale [alien, aliénation) è sempre usata quando si traita di indicare estraneità, straniero, estraniazione. L’originale ha a che fare con Visolamento non soltanto nella lingua tedesca [Sonderling - Absonderung]. Ma ci sono due forme. Una cosa è che uno si allontani dalla comunità, un’al­ tra è che sia la comunità a respingere, tenere lontano da sé, infine a segregare un individuo o un gruppo « particolare ». La vita dei diversi esistenziali è assolutamente diversa da quel­ la percorsa dagli stravaganti intenzionali, per melanconia o misantropia. Ma, curiosamente, coloro che hanno pensato di

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tenersi lontani dalla vita comune non sono mai stati segregati sul serio. Al contrario, colui che si isolava veniva altamente stimato e segretamente ammirato da coloro insieme a cui rifiu­ tava di vivere. I pazzi non erano mai stati segregati. Al contrario, nel regi­ me feudale e in quello assolutistico avevano una funzione for­ temente integrata. Basandosi su molte fonti, Wolf Lepenies la spiega nel suo libro su Melanconia e società, dove sembra aleg­ giare un certo scherno verso coloro che pensano già ai pazzi di Shakespeare con quella compassione che all’epoca dello stile Liberty, per esempio in Wedekind, era dedicata alle prostitute e ai pazzi : « Il buffone di corte è un funzionario che ha il com­ pito di scaricare, e cioè di scacciare la melanconia del signore e appunto per questo convalidare il privilegio della melanco­ nia che egli possiede a corte. Contemporaneamente il folle opera come sostituto: prende su di sé ciò che potrebbe impe­ dire al signore di dominare — deviando la sua emozionalità. » E più avanti: « Ma il folle diventa non da ultimo un disoccu­ pato a causa della comparsa della melanconia borghese. Se il signore non è più il solo a cui è lecita la melanconia, viene a cadere la necessità di un’istituzione che scaccia la melanconia comune e contemporaneamente documenta il privilegio me­ lanconico. »'7 Anche il melanconico appartiene alla società, e nonostante tutti i suoi atteggiamenti non può affatto richiamarsi a un’e­ straneità ostile. Shakespeare ha sempre mostrato i suoi pazzi nella loro esatta funzione, ma anche i suoi melanconici. Sa di­ stinguere accuratamente fra la melanconia nobile e quella sol­ tanto usurpata, e cioè non nobile. Nobile e aristocratica è la melanconia di Jacques, al Seguito del duca esiliato nelle Ardenne, mentre è usurpata quella del melanconico illegittimo e comico don Juan in Molto rumore per nulla. Ma questi melan­ conici appartengono sempre al mondo della commedia. Non sono tragici. A partire da Platone, si riteneva che il melanconico avesse doti geniali: soprattutto nel campo dell’arte e della scienza. Aristotele vedeva una connessione fra la melanconia e il ta­ lento artistico; Marsilio Ficino, filosofo del rinascimento ita­ liano, equiparava la melanconia del genio a quello che Pla­ tone aveva chiamato il dono divino della « mania », e cioè dell’invasamento.18 t8

Dal rinascimento in poi melanconia significava: sia essere nati sotto il segno di Saturno sia anche isolamento dalla gente comune per nascita ed ingegno. Amleto è entrambe le cose: principe e melanconico geniale. Persino dove la melanconia assume la forma estrema della misantropia, il totale isolamento cercato dal misantropo viene prodotto soltanto in apparenza. Che anche qui ci possa aiutare Shakespeare, con il suo serbatoio di tipi sociali, lo mostra il suo misantropo Timone d’A tene. La debolezza del dramma Timo­ ne d’Atene sta nel fatto che Timone tenderebbe naturalmente a essere troppo socievole. La sua casa è sempre aperta, si crede che sia smisuratamente ricco, cerca di comprare amicizia e sim­ patia facendo piaceri agli altri. L’improvvisa perdita dei suoi beni, determinata da sfortuna, cattiva amministrazione e dissi­ pazione, non lo spinge a un brutto affare come quello che in una situazione analoga il melanconico mercante Antonio di Venezia conclude con l’ebreo Shylock: però a un odio paros­ sistico per gli uomini. Di fatto, pur senza dare una spiegazione teorica di questo contrasto, Shakespeare relativizza ancora la misantropia apparente di Timone, determinata soltanto dalla sfortuna e dall’ingratitudine, contrapponendogli un misan­ tropo organico nella persona del cinico Apemanto, misantropo per motivi filosofici. Apemantus: « This is in thee a nature but infected; / A poor unmodly melancholy sprung / from change of fortune. Why this spade? this place? / This slave-like habit? and these looks of care? / Thy flatterers yet wear silk, drink wine, lie soft, / Hug their diseas’d perfumes, and have forgot / that ever Timon was. Shame not these woods / by putting on the cunn­ ing of a carper » (iv, 3). Nel rifacimento di Karl Kraus che seguiva la versione di Dorothea Tieck: « Questa in te è solo una maniera adottata artificialmente, / melanconia effeminatamente povera, che nac­ que / dal cambiamento di fortuna. Perché questo posto, la vanga? / l’abito da schiavo e questa faccia da funerale? / An­ cora il tuo adulatore è adagiato sui cuscini, beve vino, è vestito di seta, abbraccia la voluttà e il profumo, / e ha dimenticato che ci fu mai un Timone. / Non profanare questo bosco con le tirate: del misantropo. Sii tu un adulatore, ora: rimettiti in piedi appoggiandoti a ciò che ti ha abbattuto! »*’ Nel Misantropo di Molière Alceste vorrebbe rimanere con­ 19

temporaneamente uomo di società, restare fedele alle sue nor­ me e godere delle delizie della moralità attraverso un isola­ mento volontario. La sua misantropia non è che insoddisfazio­ ne per le forme di comportamento dell’aristocrazia francese, che hanno quasi lo stile del balletto. E quindi la società — co­ me vuole Molière — ride giustamente di questo misantropo tale solo per metà, dunque fallito, mentre ancora Shakespeare non aveva voluto minacciare la situazione tragica di Timone. Alceste è un personaggio comico. La società pretende il com­ promesso. Ma invece di rifiutarlo Alceste lo concede per metà, dunque non lo concede affatto. È prodigo di complimenti per gli insulsi versi di Orante, è cortigiano senza voler essere cor­ tese, aspira all’autenticità e ama una mondana, disprezza i suoi giudici e si sottopone al loro giudizio. In questo modo il potere del sociale viene riconosciuto proprio attraverso lui, che lo di­ sprezza. Non c’è neanche una soluzione: né tragica né lieta. La commedia del misantropo termina « en queue de poisson ». Può ritirarsi nei suoi possedimenti come i nobili della fronda o il duca della Rochefoucauld: ciò non decide nulla, che egli torni alla società oppure no. Un secolo dopo Rousseau è stato più inesorabile, ha rifiutato il mezzo compromesso, ha vissuto la protesta fino in fondo. Così poteva fare un effetto bizzarro, stravagante, come si vuole — ma non era comico. Ma proprio Rousseau diventava l’avvocato di Alceste contro Molière. La Lettera a d’Alembert riabilitava il misantropo contro tutti quelli che ridevano. Ma nella stessa misura in cui la melanconia degli artisti rina­ scimentali e degli aristocratici dell’assolutismo viene sostituita dalla melanconia borghese (Lepenies tratta il processo come « fuga nella natura e interiorità »), il comportamento di Alce­ ste si rivela come incomprensibile per il nuovo, borghese uo­ mo qualsiasi dell’età dell’illuminismo. Nella rivoluzione in­ glese del XVII secolo i puritani di Cromwell abbattono (sebbe­ ne soltanto per breve tempo) il mondo dell’aristocrazia e dei suoi folli, melanconici e misantropi. Un misantropo che era nel contempo folle e melanconico, ancora una volta Jean-Jac­ ques Rousseau, offrì all’emancipazione borghese le due cose insieme: il pensiero del dominio degli uomini borghesi qual­ siasi che aspiravano al titolo onorifico di « citoyen » — e la solitudine melanconica dello stravagante che si è ritirato nella Peterinsel del lago di Biel, del « promeneur solitaire ». 20

Si tratta di un paradosso soltanto in apparenza. Che alla sua maniera Rousseau potesse anche essere un folle, un genio me­ lanconico, un bugiardo letterario e un eremita con la smania del pubblico, era soltanto l’aspetto individuale del caso, che ne aveva anche uno sociale, molto più importante. Quella con­ traddittorietà che in apparenza poteva essere spiegata solo co­ me singolare esistenza del ginevrino Rousseau — mania della solitudine e contemporaneamente dichiarazione di guerra bor­ ghese ed egualitaria alla società gerarchicamente strutturata —si rivelava pura incarnazione dell’iHuminismo borghese. Con l’assalto alla Bastiglia gli uomini qualsiasi aggredivano il ba­ luardo della società feudale, con lo scopo di fondare l’ugua­ glianza. Come membri della 'società borghese contemporanea­ mente perseguivano una piena realizzazione di se stessi come individui. Uguaglianza e individualità entravano in contrad­ dizione tra loro. La situazione di classe faceva sì che vincesse l’individualità borghese. Il cittadino (citoyen) diventava bor­ ghese (bourgeois). Ma in quanto tale voleva nuovamente due cose incompati­ bili: stabilizzazione della borghesia ora dominante e libera realizzazione di un’individualità all’occorrenza antiborghese. Questa contraddizione non poteva essere sciòlta dal riso, come era accaduto in Molière, per cui il suo Misantropo diventava subito sospetto ai nuovi borghesi. Goethe si è continuamente preoccupato per questo proces­ so. Il Misantropo era una delle sue opere preferite. Ancora nel luglio 1828, nella lettera a Zelter, si rallegrava che l’amico e musicista berlinese avesse scoperto Molière e non accettasse il rifiuto di Alceste di Schlegel. Goethe proseguiva: « Gli stessi francesi non sono perfettamente in chiaro sul Misantropo; ora Molière avrebbe preso a modello un certo cortigiano dai modi rustici, ora avrebbe dipinto se stesso. Certamente ha dovuto trarre questo modello dal proprio seno, ha dovuto necessaria­ mente dipingere le proprie relazioni verso il mondo; ma quali relazioni I Le più generali che ci possano essere. Vorrei scom­ mettere che ti sei colto sul fatto più di una volta. E non fai forse la stessa parte verso i tuoi correi? Io sono diventato abba­ stanza vecchio, e tuttavia non sono ancora riuscito a mettermi accanto agli dèi di Epicuro » (Lettera del 27 luglio 1828). Goethe stacca decisamente la posizione « universalmente umana » del misantropo dalla sua casuale integrazione in una 2i

società. Vorrebbe concedere ad Alceste le due cose insieme: at­ teggiamento cortigiano e misantropia. In questo modo la rigida separazione dalla società che Rousseau aveva praticato (seb­ bene in forma teatrale) si trasforma in mera interiorità. Come la melanconia borghese, anche la misantropia borghese si pre­ sentava come interna riserva della mente e del cuore.

5 · Il principio uguaglianza come sfida Si presenta come un paradosso, e tuttavia è stato realtà sto­ rica: il fatto che il riconoscimento del diritto alla vita e della dignità dei diversi esistenziali fosse assicurato nel modo miglio­ re in quell’epoca in cui, sotto l’Ancien Régime, le esigenze bor­ ghesi erano rappresentate da illuministi aristocratici. Non solo in Germania, e cioè in un paese diviso in molti stati dove una borghesia forte e autonoma poteva affermarsi soltanto in pochi luoghi; anche in Russia, in Ungheria, in Italia, l’illuminismo borghese con i suoi postulati avversi al privilegio era rappre­ sentato da portavoce dei circoli aristocratici, alleati con bor­ ghesi provenienti dall’ambiente della magistratura e del capi­ tale commerciale. Gli illuminati eroi di Lenz e del giovane Schiller sono nobili: come lo sono, in Francia, i Montesquieu, i Condillac e i d’Holbach. La nostalgica battuta di ex antibonapartisti dopo il 1871: l’attuale Terza Repubblica Francese aveva raggiunto il suo massimo splendore nell’epoca in cui governava ancora Napo­ leone in, vale anche per la fine dell’Ancien Régime verso la fine del xvm secolo. L’illuminismo borghese era armonico e quasi senza conflitti finché la borghesia non poteva impadro­ nirsi del potere politico. Quando regnavano le zarine a San Pietroburgo, e Maria Teresa conduceva la sua guerra privata contro I’« uomo cattivo » di Sanssouci — senza temere l’al­ leanza con la marchesa di Pompadour —, l’uguaglianza dei sessi era assicurata: nella sfera feudale. Il vizio della sodomia era considerato come talmente diffuso tra i monarchi, gli uffi­ ciali, i cortigiani della società rococò, che rimaneva pensabile soltanto la maldicenza (ad esempio quella delle malignità di Voltaire contro Federico n); ma non la repressione. Si pensava che il sistema degli ebrei di corte funzionasse bene: il ban­ chiere Ephraim di Berlino, con cui Voltaire speculava, possede­ 22

va uno splendido palazzo nella città. Il processo dell’ebreo Süss Oppenheimer era un incidente che non si ripeteva. Una strana comunità li comprendeva e teneva uniti tutti quanti : la zarina Caterina e Denis Diderot, Federico di Prussia e il suo ex suddito Winckelmann, Lessing e Moses Mendelssohn, i massoni Giuseppe n, Wieland e Mozart, gli inglesi Fielding e Hogarth. Alla letteratura era tributato un incommensurabile rispet­ to: le si attribuiva la capacità di fondare una nuova società umana al di là di tutti i privilegi. La letteratura doveva contri­ buire a estirpare tutti i pregiudizi emozionali contro gli uomi­ ni di altre razze e religioni, di altri costumi e moralità, con la forza dell’argomentazione razionale. Non c’è forse un altro li­ bro che si sia sforzato di realizzare questo programma più uni­ versalmente che « il Knigge », vale a dire il trattato Sulle rela­ zioni con gli uomini di Adolph Freiherr Knigge, uscito per la prima volta nel 1788.20 Nel periodo borghese successivo il ba­ rone di Hannover è stato falsamente considerato come un pre­ cettore cbe insegna le buone maniere sociali alle persone del suo ceto e deH’alta borghesia. Invece Knigge aspirava a un filantropismo che non facesse distinzione fra gli uomini, voleva livellare le differenze sociali al servizio di una razionalità uni­ versale. Non temeva di applicare questo postulato di un’ugua­ glianza universale, provocatoriamente, persino alle relazioni degli uomini con gli animali. Il capitolo Sul modo di trattare con gli animali (ni, 9) pretende il completo rispetto di ogni sfera di libertà: « Non ho mai potuto capire quale piacere si può provare nel chiudere gli animali dentro gabbie e casse. La vista di un essere vivente che è messo neH’impossibilità di svi­ luppare e usare le sue forze naturali non può piacere a nessun uomo ragionevole. » Questa concezione universale dell’illuminismo pensava di affermarsi nella società senza l’eccezione dell’estraneità. Nel se­ colo xvm il Calibano di Shakespeare non è più lo « stranger », ma educa all’umanità universale: è una sfida. I nobili selvaggi di Montesquieu nelle Lettere persiane, di Voltaire, o di J.M. R. Lenz nel Nuovo Menoza dovevano promuovere l’addestra­ mento all'uguaglianza, non soltanto a una « tolleranza » che sopporta sì il diverso, l’altro, ma senza integrarlo. La società borghese dei secoli xix e xx ha cancellato tutto questo sviluppo. Responsabile non fu soltanto il principio del­ 23

la concorrenza economica, che presupponeva la disuguaglianza, non il suo contrario. E neanche la virtù borghese, che si con­ trapponeva orgogliosamente al vizio aristocratico. Più decisivo rimase il fatto che la gerarchia feudale distrutta doveva essere sostituita da una nuova, borghese, che poteva essere costruita soltanto sulla disuguaglianza economica: nell’ambito di una pa­ rità giuridica universale. Trasformava la donna in una schiava parassitarla che non guadagna e non deve guadagnare denaro. Combatteva l’emancipazione degli ebrei mediante la cultura e il possesso. Fin dall’inizio ostile agli stranieri, diventava sem­ pre più nazionalistica. L'Essai sur l’inégalité des races humai­ nes del conte Gobineau (1853-55) è un vero e proprio manife­ sto dell’antilluminismo. D’ora in poi ci sono la specie e le de­ generazioni, ci sono vite degne di vivere e vite indegne della vita. Ogni diverso diventa una provocazione. Ma chi era incon­ cepibile, in quanto diverso?

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Giuditta e Dalila

I ■ Il secondo sesso e le sue diverse

Il romanticismo non si stancava di pensare alle ondine: es­ seri che stanno a metà fra l’uomo e l’animale, fra la femmini­ lità e una spettralità insensibile. Si tentava continuamente l’umanizzazione : mediante l’uomo terreno. Il tentativo falliva, come dimostravano con un certo sollievo tutte le storie e le opere. La femminilità strana e inquietante non poteva essere addomesticata. È vero che Hofmannsthal fece partecipare la principessa spettrale, attraverso l’amore, alla felicità terrena e alla mortalità, alla fine la donna proiettò un’ombra umana. Divenne feconda, mentre Galatea, la creatura dello scultore Pigmalione, rimase sterile, come constata con soddisfazione Büchner nella conversazione estetica della Morie di Danton. Nell’Ondina di Giraudoux, uno scrittore che sembrava osses­ sionato dall’idea che ogni legame dell’uomo con una donna si­ gnifica soltanto autoinganno dell’uomo, a causa dell’inumanità della donna il dramma termina — secondo la tradizione — nella morte dell’uomo e in un oblio spettrale, non umano dello spirito delle acque. Le ondine della belle epoque alla fine del secolo scorso e agli inizi del nostro avevano un nome comune: quello di femme fatale. Non aveva molta importanza, per il singolo caso, che quelle creature distruttive e infantilmente insensibili che Ger­ hart Hauptmann cercò continuamente di esorcizzare fossero ondine come l’elfo della Campana sommersa, o creature bar­ bariche come Gersuind nellOsfaggio dell’imperatore Carlo, o vessatrici ebree e intellettuali come Hanna Elias nel dramma di artisti La fuga di Gabriel Schilling. Tutte corrispondevano al modello: irraggiungibili, infantili, distruttive, inaccessibili alla parola e alla ragione (maschile). Hauptmann notava con angoscia e paura ciò che Wedekind esaltava nelle figure di Lulu e Franziska come « natura » demoniaca e non domata dalle convenzioni borghesi : per entrambi è evidente che si trat­ ta di un’alterità radicale. Sono tutte irraggiungibili e inespli27

cabili, che la cornice dell’azione drammatica (poiché tali don­ ne fatali sono essenzialmente personaggi del palcoscenico) sia determinata da un mito antico o biblico, dal mondo della fiaba o dall’interno di un salotto borghese. È una caratteristica co­ mune a Lulu e alla Salomè di Wilde, alla Melisenda di Mae­ terlinck e all’Elettra di Hofmannsthal. La circostanza apparen­ temente esteriore per cui i compositori Strauss e Debussy e Alban Berg si fecero ispirare proprio da questa lontana pros­ simità di tali ondine in realtà ha a che fare con la sostanza della cosa. In effetti la femminilità irraggiungibile non ap­ parteneva alla sfera discorsiva del dramma, dove un caso può essere trattato attraverso il dialogo e la discussione razionale. La donna distruttiva, fatale non si lascia esorcizzare dalla pa­ rola, come vorrebbe concordemente affermare quella letteratu­ ra. I dialoghi di Wedekind sono conversazioni a sghimbescio, tra sordi, dove tutti parlano senza raggiungere nessuno. Si può parlare alla'donna fatale soltanto nel modo in cui si « scon­ giura » un incantesimo.1 Fin dai suoi inizi nell’età dell’umanesimo, del rinascimento e della riforma il mondo borghese cercava quasi morbosamente 1’evocazione di un’estraneità femminile. Dove le arti figurative osavano spingersi molto più in là degli scrittori dell’epoca fra Erasmo e Shakespeare, che oscillavano fra uno stile dotto e uno popolare. Non era soltanto la tendenza, ben nota dalla pittura del tardo medioevo, a dipingere il martirio dei santi con piace­ vole orrore (i supplizi preferiti erano quello di san Lorenzo sulla graticola e la strage degli innocenti di Betlemme), che induceva gli artisti a rappresentare i tre clamorosi scandali femminili di cui riferisce la Bibbia: Salomè, Dalila e Giuditta. L’infantile principessa ebrea che chiede e ottiene la testa di Giovanni Battista, e danza agitandola come una preda. L’arte bizantina del mosaico aveva rappresentato la vicenda in rosso e oro, a San Marco di Venezia. Giuditta diventa un motivo assai ricorrente della pittura; assai più di rado viene dipinta la premessa dell’episodio — Giuditta al banchetto con il comandante Oloferne: è la conclusione, che deve essere gu­ stata e temuta: la donna con la spada e la testa dell’uomo e nemico. Dalila, filistea, non si inserisce direttamente in quest’ambivalente ed evocativa arte della crudeltà. Ma anch’essa è una creatura distruttiva, generata dalla paura maschile della ca28

strazione. Lucas Cranach il Vecchio l’ha dipinta come una bra­ va borghese tedesca del rinascimento, vestita con ricchi abiti di antica foggia tedesca, mentre taglia i riccioli biondi a un San­ sone addormentato e armato, per privarlo così della sua forza e consegnarlo nelle mani del nemico — affinché venga acce­ cato: con un’espressione che ricorda piuttosto il senso del do­ vere che una libidine distruttiva. Cranach era un pittore che non si permetteva una ricchezza illimitata di motivi, ma pareva sforzarsi di ripetere continuamente ed elaborare alcuni temi fondamentali, che corrispon­ devano in larga misura alle relative preferenze dei contempo­ ranei. I riformatori e i principi che promuovevano la storia della riforma, idealizzata a leggenda. Sempre, anche, il con­ fronto della nudità maschile e femminile — Adamo ed Èva. E anche, ripetutamente, quasi nella forma di una storia d’a­ more dei contemporanei reificata, le Salomè, le Dalile, le Giu­ ditte. Proprio nel significativo schematismo di questa tematica in Cranach, negli artisti del suo tempo e nel suo pubblico, diventa liconoscibile la prospettiva sovrapersonale, e cioè inquietante e minacciosa, in cui Salomè, Giuditta e Dalila si vedevano collocate dall’inizio della borghese e secolarizzata età mo­ derna. Significano Vinferno mondano. E quindi il contrario della madonna. La donna Venere era diventata un’allegoria astratta, un po’ scipita. Dipingere il monte di Venere come inferno li­ bidico e senza ammonimenti non andava. Così si offrivano le donne distruttive tramandate dal racconto biblico. Salomè distrugge un uomo di Dio, come Dalila. È vero che Giuditta agisce per incarico del Signore, per salvare il popolo eletto. Solo che tutte le rappresentazioni di Giuditta nei quadri dei pittori, da Cranach a Corinth, non suscitano ammirazione per la donna eroica, ma l’orrore che si prova davanti a un mostro. Sono immagini decisamente antifemminili, dipinte — nono­ stante la diversità delle circostanze e dei tempi — come am­ monimento: come mostruoso contrasto di femminilità e non femminilità; infine come civettuolo incontro di piacere e mor­ te, di sensualità e assassinio. Nel suo libro Le deuxième sexe, analizzando « i fatti e i miti » dell’esistenza femminile Simone de Beauvoir viene a parlare delle polarità fondamentali: « È sempre difficile descri29

vere un mito; non si lascia cogliere, né limitare, perseguita la coscienza senza mai collocarsi davanti ad essa come un oggetto definito. Questo è così ondeggiante, così contraddittorio, che è difficile afferrarne subito l’unità: Dalila o Giuditta, Aspasia o Lucrezia, Pandora o Atena, la donna è insieme Èva e la Ver­ gine Maria. È un idolo, una schiava, la sorgente della vita, una potenza delle tenebre; è la preda dell’uomo e la sua confu­ sione... »2 Nell'interpretazione di questa tesi bisognerà tener presente che gli antagonismi qui affiancati non sono equivalenti, e nean­ che si integrano reciprocamente come miti totali e parziali, ma, così sommati, tendono piuttosto a nascondere il fenomeno del­ l’emarginazione femminile. Naturalmente c’è la separazione tradizionale dell’amor sacro dall’amor profano, che, nel cèle­ bre dipinto di Tiziano, si configura come antitesi della donna nuda e di quella vestita con decorosi panni borghesi. L’etera Aspasia, che ad Atene, come compagna di Pericle, era ammessa alle conversazioni con gli uomini e i giovinetti, e Lucrezia, la leggendaria incarnazione della costumatezza femminile: anch’esse sono temi prediletti da Cranach e dai suoi contempora­ nei. Nella mitologia greca Pandora e Pallade Atena non sono ~ figure antagonistiche. Ma non hanno neppure lo stesso rango teologico e mitologico. Minerva e Venere sqno contrapposte molto più chiaramente l’una all’altra. Pandora apportatrice di mali è uno strumento degli dèi contro la hybris del titano Prometeo. L’antitesi fra Pandora e Minerva si ritrova nel pen­ siero del XVIII secolo come espressione del conflitto fra istintualità e ragione, libido incontrollabile e illuminismo discor­ sivo. Così si spiega il fascino che Pandora aveva per Goethe: anche molto tempo dopo il fallimento dello « Sturm und Drang » e del frammento su Prometeo che era sorto nel clima di quel movimento.3 Tra gli esempi addotti da Simone de Beauvoir rimane l’as­ sociazione effettivamente sorprendente di Giuditta e Dalila: della filistea e dell'ebrea che combatte per il suo dio. L’unità nel contrasto apparente è evidente. Solo che essa si fonda sul fatto che entrambe devono essere interpretate come minoranza di una minoranza. Le altre antitesi —- fra la casta Lucrezia e l’impudica Aspasia, fra Èva e Maria, l’etera e la santa -— si riferivano all’esistenza generale della donna come una forma di esistenza diversa interpretata dalla coscienza maschile in senso 3°

peggiorativo. Proprio questo intendeva Simone de Beauvoir col titolo ironico Le deuxième sexe, dove la donna, conforme alla segreta convinzione maschile, era interpretata come « seconda scelta ». Il libro sulla questione femminile esaminava questo assioma apparente e ne ricostruiva la genesi mitica, storica e biologica. Con una quantità di esempi tratti dal passato, in cui le donne, i negri e gli ebrei erano accomunati dalla loro situa­ zione marginale.4 In base a questa interpretazione della storia come pure del fenomeno della sublimazione letteraria anche Leslie A. Fiedler, nel suo libro The Stranger in Shakespeare, aveva fatto precedere ai capitoli sugli ebrei, sui mori e sui ne­ gri, e cioè su Shylock, Otello e Gabbano, un fondamentale trat­ tato su The Woman as Stranger.5 La Beauvoir liquidava que­ sto trattamento tradizionale della donna nella società — so­ prattutto borghese -—, la sua condizione di minoranza, ac­ canto agli ebrei, ai negri e ai diversi del sesso, con la consta­ tazione del fatto che le donne dopo tutto non sono una mi­ noranza. Bisogna partire di qui, per interpretare la connessione fra Giuditta e Dalila. Entrambe rappresentano la minoranza al­ l’interno di una minoranza che non è tale, ma è stata ed è trat­ tata come tale. Dalila è nota ai posteri come incarnazione della compagna ingannatrice e distruttiva di un uomo ingenuo, pio e forte. È strano che anche Frank Wedekind, nel suo dramma del 1913 intitolato Sansone o vergogna, e gelosia (che egli chia­ ma « poema drammatico »),6 le abbia conferito, in modo estre­ mamente convenzionale, tutti i requisiti dell’etera ingannatri­ ce, in netto contrasto con le figure di Lulu e Franziska, o di Effi nel Castello Wetterstein. La giustizia punitiva di un uomo ingannato la raggiunge. (Il re le taglia la gola con le parole: « ... ora hai la morte che ti spetta! / Ha meritato mille volte la sua pena. »)’ Sansone, l’uomo di Dio, è ascoltato dal Signore nella sua preghiera di vendetta. Anche il musicista Camille Saint-Saëns nella sua opera Sansone e Dalila (1877) aveva di­ stribuito i ruoli in un modo sostanzialmente non diverso. Per­ iino nel carattere delle voci: alla voce tenorile di Sansone, l’e­ roe innocente, si contrapponeva quella profonda e sensuale di. Dalila, nella famosa aria della seduzione. Dalila è anche una corruttrice straniera. È vero che in Cra­ nach essa è della stessa stirpe del Sansone tedesco dormiente, ma la storia biblica è narrata comunemente come una leg31

genda epica e religiosa del popolo ebraico. Dalila è la stra­ niera, la pagana, la filistea. Come è essenziale al ruolo funesto di Carmen che essa sia una zingara. Nel mondo degli uomini Dalila rappresenta la minoranza della minoranza della mino­ ranza. È una minoranza come donna, come compagna infedele, come straniera. Apparentemente la distanza che separa Dalila da Giuditta non potrebbe essere maggiore. Quella più profonda associazio­ ne cbe è affermata (giustamente) da Simone de Beauvoir sem­ bra priva di ogni evidenza. Giuditta è casta in un senso che va oltre quello della romana Lucrezia. È la vedova intatta che è stata eletta da Dio. Per Friedrich Hebbel ciò costituiva un motivo centrale della mostruosa tragedia. Giuditta è un’eroi­ na popolare e religiosa del popolo ebraico: assai più una compagna di Sansone che una collega della straniera e men­ dace Dalila. Ma proprio questo eroismo al servizio di Dio rende Giu­ ditta profondamente problematica per il mondo e la letteratu­ ra degli uomini. È vero che la storia biblica dell’Antico Testa­ mento conosce anche eroine ispirate da Dio; c’è la storia della Figlia di Jefte. Ma non ci sono state profetesse come non ci furono sacerdotesse (né, meno che mai, una donna con la di­ gnità di supremo sacerdote). Ciò avrebbe contrastato con il codice ebraico della purezza. Salomè con la testa di Giovanni era teologicamente condannata: era una donna distruttiva co­ me Dalila, che tuttavia diventava strumento del volere divino, poiché provocava il martirio del Battista. Anch’essa — ora se­ condo le regole del Nuovo Testamento — era la Straniera. Giudicata dal dio del Nuovo Testamento, che si serviva del Tetrarca. Ogni idolatria della principessa ebrea parte dall’in­ tesa che la testa sanguinante era stata staccata dal corpo del precursore del redentore. Invece Oloferne è il nemico e oppressore, avversario degli ebrei e del loro dio. Giuditta ha dato esecuzione a una sentenza divina. Però non c’è rappresentazione figurativa o interpreta­ zione letteraria della storia di Giuditta — per quanto possia­ mo vedere — che sia immune da riserve e trasfiguri l’eroina senza preoccuparsi del suo agire. I miti biblici di Giuditta e Oloferne e di Davide contro Golia rivelano una struttura del tutto analoga. Il debole pio contro il forte nemico del popolo e di Dio. Ma tutte le rappresentazioni di Davide con la testa 32

di Golia spirano estasi e approvazione. Non così le evocazioni di Giuditta con la testa di Oloferne. Ciò significa: anche se è ispirata da Dio, Giuditta agisce in una maniera che non è quella del suo ufficio e del suo sesso. I.a sua azione « non è femminile » : Hebbel non fu il primo a trovare qui lo spunto per l’interpretazione di una tragedia che era stata concepita in antitesi alla Pulzella d’Orléans di Schil­ ler. In una misura ancora molto maggiore della Giovanna d’Arco di Shakespeare di cui parla Riedler, Giuditta dovrebbe es­ sere intesa come « The Woman as Stranger ». « Indubbiamente, tra i dotti asini di sesso maschile esiste un certo numero di rimbecilliti amici delle donne, che consi­ gliano alla donna di sfemminilizzarsi in questo modo e di imi­ tare tutte le sciocchezze di cui in Europa è malato l’uomo, la . mascolinità > europea — e costoro vorrebbero degradare la donna fino alla < cultura generale >, o addirittura fino a leg­ gere giornali o a occuparsi di politica. » Sono frasi della fa­ mosa diatriba di Friedrich Nietzsche contro l’emancipazione della donna contenuta nella settima sezione del libro Al di là del bene e del male* In questo senso Giuditta è per Nietzsche un mostruoso caso particolare di defemminilizzazione, come prima lo era stata per Hebbel, o come lo era stata Ortrud per il Wagner del Lohengrin, che Nietzsche ancora amava. Tali diatribe del borghese e « maschile » secolo xix, che sono state sistematizzate nel trattato Sulle donne di Schopenhauer, e all’i­ nizio del secolo xx ancora riecheggiano nella frase di Otto Weininger: « Ondina, l'ondina senz’anima, è l’idea platonica della femmina permettono di capire che all’inizio dell’età moderna si era avviato, in Europa, un grande processo di emancipazione, anche se gli archetipi Dalila e Giuditta erano guardati con paura e orrore. Ma si tendeva a registrarle come eccezioni, però non come eccezioni di eccezioni. Nel secolo xvm questo processo emancipatorio dell’ugua­ glianza generale, e quindi anche femminile, raggiunse il suo culmine. Simone de Beauvoir constata: « Le epoche che han­ no amato più sinceramente le donne non sono né la feudalità cortese né il galante xix secolo: sono quelle — il xvm secolo per esempio — in cui gli uomini hanno visto nelle donne dei loro simili. »‘° E quindi questo secolo dell’illuminismo, in cui l’uguaglian­ za era praticata in corti come quella della principessa elettrice 33

Sophie di Hannover e del suo consigliere Leibniz, tramite la marchesa di Bayreuth, la marchesa di Pompadour, la russa Caterina della famiglia wettiniana di Anhalt-Zerbst, quando nasceva, in Germania, una seria letteratura femminile, e alla fine del secolo comparivano le figure di Therese Heyne e Karoline Schlegel, la Günderode e Dorothea Mendelssohn, — questo secolo xvm dava esecuzione a una parità intesa nel sen­ so di un rifiuto della condizione di minoranza. In questo mo­ vimento rientra anche il tentativo intrapreso da Schiller all’inizio del nuovo secolo, di contrapporre alla Pucelle di Voltaire l’immagine nuova e valutata in modo nuovo di una Giuditta storicamente collocabile: la fanciulla di Orléans. Certamente al prezzo di sacrificare il contesto storico concreto. Questo illuminismo borghese, rappresentato da aristocratici, favorite, letterate ed ebree, è presto fallito. Fu sacrificato nella stessa misura in cui la borghesia assumeva la posizione di classe dominante. La via che va da Schiller a Hebbel, da Kant a Schopenhauer, dal successo di Germaine de Staël all’insuccesso di George Eliot e George Sand, è un processo di antilluminismo borghese. Sempre più l’immagine della donna della lette­ ratura, della filosofia, dell’arte europea viene epurata da tutti gli aspetti della parità, e quindi, per usare le parole di Nietz­ sche, della defemminilizzazione. Ne consegue che l’immagine di una donna con pari diritti e persino felice viene rimossa a favore di una rappresentazione di donne che non vogliono un’esistenza minoritaria e sono distrutte dal fatto di costituire una minoranza: la Bovary, la Karenina, Effi Briest. È una let­ teratura delle illusioni perdute. Nella Sonata a Kreutzer Tol­ stoj svetta sulla generale ritrattazione con la sua estremamente personale rinuncia alla sessualità, che egli (richiamandosi a presunte considerazioni del cristianesimo primitivo) trova in­ carnata nella donna, nell’eterna Pandora. Al mito di Èva e del serpente nel Paradiso terrestre corrisponde, in Esiodo, la punizione di Epimeteo da parte di Zeus, con l’aiuto del « va­ so » di Pandora. Tolstoj non esita a intendere esattamente in questo modo la ritrattazione dell’iHuminismo. Nell’ulteriore corso del secolo xix e agli inizi del xx il fallimento dell’illuminismo di fronte alle escluse femminili si impernia attorno a tre motivi: come permanente reinterpreta­ zione dello scandalo di Giovanna d’Arco; come trasformazione di Giuditta in un’eroina borghese; come trasformazione di Da-

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lila nella vamp, nella femme fatale, nell’archetipo della donna distruttiva. Alla fine si giunge, nella civiltà americana, alla sintesi chimicamente pura di Giuditta e Dalila. Letteratura ? Intende il fronte dello spi­ rito, che resta orientato sul futuro, illuminante e consapevole del suo grande compito e responsabilità? O invece intende uno strumento di propaganda della Terza Internazionale? »2 La domanda conteneva già la risposta, come ben sapeva lo scrivente, che subito si censurava. L’onesto sforzo di realizzare una comunione nel « progresso nella coscienza della libertà » lo ha probabilmente spinto alla morte. Che Klaus Mann abbia presto conosciuto l’incantesimo romantico dell’accordo di bellezza, gioia fìsica e desiderio di morte, lo mostrano i suoi racconti, romanzi e saggi. Il suicidio è stato un motivo dominante della sua vita. Perché stupirci, se dopo Alessandro il Macedone Klaus Mann sceglieva gli eroi dei suoi due romanzi storici fra i suicidi, la cui « autoeliminazione », come l’ha chiamata una volta Thomas Mann, era avvenuta in modo indiretto e mediato: Cajkovskij e -Ludovico di Baviera? Anche un terzo personaggio, che — in modo non meno mediato — perisce nel romanzo Mephisto, muore di propria mano. Tuttavia quella fine avvenuta a Cannes e nel 1949, e che era stata preceduta da un tentativo di suicidio, era una morte politica. Klaus Mann morì nella guerra fredda e per la guerra fredda. L’« incontro » era fallito. « Ma quando il maestro e fondatore Stalin emerse felicemente dalle macerie della guerra che aveva quasi perso, » scrive sarcasticamente Solzenicyn, « si accinse a riflettere sul bene dei suoi sudditi. » Tutti i comitati centrali comunisti dovevano fornire lo smascherato traditore e agente dei servizi segreti anglosassoni, che dopo essere stato torturato nel processo confessava tutto, dopodiché era condan­ nato a morte, subiva umiliazioni indescrivibili, finché veniva fucilato, o, preferibilmente, impiccato. A Budapest, Sofia e 267

Praga si forniva l’azione sacra desiderata. A Berlino Est non si andò oltre la fase iniziale, arresti e deportazioni in Siberia, per­ ché Stalin era morto nel 1953. Inoltre qui c'era da tener conto di una situazione strategica particolare. La controazione sacra negli Stati Uniti si chiamava McCarthismo. Il suo « contatto col sacro e col demoniaco » è stato analizzato nel 1954 da Joseph Gabel (ungherese, del resto) sulla « Revue Socialiste », e messo dialetticamente in relazione con il rituale comunista della proscrizione del rinnegato.3 Un dramma come Les mains sales di Sartre traeva la sua sostanza da questa situazione; e quindi Aleksandr Fadeev chiamava l’autore di questo dramma « anticomunista », con semplici parole, una « iena alla macchina da scrivere », nel suo discor­ so programmatico redatto — anche in collaborazione con 2danov — per il « Congresso degli intellettuali per la difesa della cultura » tenuto a Breslavia nell’agosto 1948. Klaus Mann, che in quel primo congresso degli intellettuali di Parigi, nel 1935, aveva tenuto un discorso, non venne a Breslavia, però seguì quei dibattiti con attenzione e angoscia. Nel suo saggio, a sua volta programmatico, sulla Prova dello spirito europeo,4 non cita, è vero, Fadeev, però cita una dichia­ razione di 11 ja Ehrenburg secondo cui la letteratura angloame­ ricana è semplicemente una « marea di oppio intellettuale ». Erano tutti sintomi — così pareva a Klaus Mann, al letterato antifascista — di una quasi universale « Trahison des clercs », per citare l’espressione di Julien Benda, che il saggista esplici­ tamente usa e spiega. Probabilmente allora Klaus Mann non sapeva che anche Julien Benda aveva parlato a quel congresso di Breslavia, esortando a una comunione spirituale contro i eli­ dè mentali nemici deH’illuminismo. Senza il minimo effetto. Così si giunge alla perturbante conclusione di quel saggio in certo modo testamentario di Klaus Mann, che era pubbli­ cato per la prima volta in inglese, nel giugno 1949, sulla rivista americana « Tomorrow »: alcune settimane prima del suicidio di Cannes. Ma questa conclusione non chiede altro che un’azione organizzata di suicidio degli intellettuali euro­ pei — per indurre alla riflessione un’opinione pubblica mon­ diale nella cui integrità e autonomia evidentemente si crede ancora: « Un’ondata di suicidi di cui cadessero vittime gli spiriti più eminenti, più celebrati, desterebbe i popoli dal loro letargo, in modo che essi comprenderebbero la mortale serietà 268

della prova che l’uomo ha chiamato su di sé con la sua stupi­ dità e il suo egoismo. »5 La sua azione — poco dopo che que­ ste parole erano state scritte e stampate — era compiuta con lede o con sfiducia? È impossibile deciderlo. Gli argomenti e gli esempi storici addotti in quel saggio di critica della cultura fanno pensare a un’incredulità. Il testo analizza la situazione di quel dopoguerra 1949 come conse­ guenza di una colpa degli intellettuali. « Troppo audacemente gli intellettuali si immersero nei segreti dell'anima umana, della società, della natura. Ciò che estrassero alla luce dalle profondità era orribile come il capo di Medusa. » Venivano fatti dei nomi : tutti stavano a testimoniare per una solitudine esistenziale determinata dalla follia o dall’eterodossia erotica. Nietzsche e Strindberg, Wilde e Cajkovskij, Verlaine e Rim­ baud. In quest’ultimo testo Klaus Mann parla come uno di loro. Già nei primi saggi degli anni Venti, poi nell’ultimo grande scritto autobiografico, il Turning Point del 1944 (tradotto in tedesco col titolo Wendepunkt [Svolta] nell’edizione ampliata del 1952), gli autori preferiti erano elencati e celebrati con amore. Prevalevano gli scrittori di Sodoma: Herman Bang e Rimbaud, Verlaine e Whitman, Radiguet e Cocteau, Spender e Auden. Klaus Mann li leggeva e riconosceva come propri autori. Fin dal tempo del liceo, quando frequentava la Odenwald­ schule, Klaus Mann non aveva nascosto che la sua attività let­ teraria doveva essere intesa come operare di uno scrittore omo­ sessuale. Le alternative del borghese secolo xix non potevano più reggere. Né l’adeguamento né lo scandalo. Però si pote­ vano provocare piccoli scandali. La repubblica di Weimar era solo moderatamente tollerante. Anche qui continuava la cro­ naca degli assassini e degli scandali : con Haarmann e Rohm e molti suicidi occultati. Il dramma Die Verbrecher [/ delin­ quenti] di Ferdinand Bruckner lavorava con materiale cor­ rente. Gründgens vi aveva ottenuto il suo primo grande suc­ cesso berlinese. Klaus Mann, come romanziere e del resto an­ che come saggista, era solito evitare questi temi. Un’ostenta­ zione teoretica dell’omosessualità come quella che s’incontra nel Corydon di André Gide non gli era congeniale. Cercava la comunione con gli altri, ma senza assimilazione, e cioè senza mimesi. Ciò non gli doveva riuscire. In quell’ultimo saggio 269

egli faceva sì parte di una comunità, ma era quella dei suoi si­ mili. Il che equivale a dire: non si tratta di una vera comuni­ cazione, poiché quelli di Sodoma vivono monadicamente, co­ me gli Strindberg e i Nietzsche e i Van Gogh che sono citati da Klaus Mann. Ciò ha anche determinato il fallimento dell’impegno po­ litico di questo autore. Egli non poteva mai essere altro che un compagno di strada tollerato benevolmente o segretamente deriso (a seconda delle circostanze). Compagno Klaus Mann: lo scrittore non pensava di inscenare questa commedia. Che cosa poteva succedere, nel momento della minima insubordi­ nazione, lo mostrava l’esempio di André Gide. Era stato rice­ vuto a Mosca con grandi onori, aveva dovuto provare alcune delusioni, di cui aveva riferito dopo il ritorno: con cautela e simpatia, ne era seriamente convinto. Le conseguenze erano prevedibili. In un saggio che Klaus Mann pubblicava nel 1937 nell’esiliata « Weltbühne », a Praga, La polemica intorno ad André Gide, si legge che persino uomini come Kisch, Rolland o Feuchtwanger ora trattavano Gide « non soltanto come un traditore, ma come un vecchio peccatore avido di piaceri e un po’ debole di mente, il cui tradimento è sì schifoso, però d’im­ portanza intellettuale irrilevante »? Klaus Mann non voleva fare questo né a se stesso né agli altri. In questo modo gli erano bensì risparmiati oltraggi di questo genere, però doveva ’ trasgredire il controrituale. Nel suo ultimo periodo di vita per il McCarthismo era diventato una specie di ripugnante agente dei « rossi ». Superava questa situazione con la morte. Infine viveva soltanto tra negazioni., Né compagno come Aragon o la Seghers, né anticomunista co­ me Koestler; e neppure convertito al cattolicesimo come Eliot o Dòblin; per di più troppo vecchio per continuare a giocare col vecchio bambino Cocteau. Nessuna simbiosi: né con gli altri né con i suoi. Glielo aveva insegnato proprio quell’uomo a cui si sentiva spiritualmente (e anche esistenzialmente) più vicino. Così aveva interpretato per sé V esempio di André Gide. Però non era abbastanza potente da mantenerlo in vita. E del resto, come sarebbe stato possibile? Nella prefazione delle Nourritures Terrestres1 l’autore Gide si rivolge a un giovane uòmo che egli non conosce ancora, al lettore che so­ gna e a cui dà il nome di Nathanael. La dottrina di un libro sugli alimenti terrestri deve essere: « Que mon livre t’einse270

gne à t’intéresser plus à toi qu’à lui même, — puis à tout le reste plus qu’à toi. » È il consiglio di un outsider a uno che non lo sarà: leggi il mio libro, ma poi gettalo via. Tu sei più importante per te del mio libro. Ma più tardi tutto il resto dovrà diventare più importante per te di te stesso. L’autore Gide non poteva ubbidire a se stesso. Tutti i suoi tentativi di interessarsi a tutto il resto più che a se stesso sono falliti. Klaus Mann aveva capito. La sua unica monografia dedi­ cata a tutta un’opera e una vita trattava di André Gide. Ma il libro André Gide und die Krise des modernen Denkens [A.G. e la crisi del pensiero moderno] giungeva alla conclusione che con gli strumenti e la morale di Gide quella crisi poteva esse­ re sì analizzata, ma non risolta. Anche l’uomo Gide non poteva essere imitato. Pochi mesi prima di quel 21 giugno 1949 Klaus Mann parlava di Gide nel Hebbel-Theater di Berlino. Nel corso della discussione gli era rivolta una domanda a propo­ sito dell’esperienza russa del suo « eroe », a cui rispondeva freddamente che era altrettanto assurdo andare a Mosca pieni di pregiudizi positivi, quanto ritornare pieni di pregiudizi ne­ gativi... Anche nel caso di Maurice Sachs la sola analisi monografica di un autore è dedicata alla vita e all’opera di André Gide. Sachs aveva letto Gide e non pensava di seguire il suo avverti­ mento di non imitarlo; in occasione della sua prima visita, il giorno del suo ventunesimo compleanno, si vedeva rimandare indietro e si sentiva « respinto » : non senza un segreto piace­ re. « Ero disperato, » si legge in quel libro di confessioni che è Le Sabbat, « ma il subconscio si rallegrava segretamente per­ ché ora poteva ritornare alle sue orribili pratiche: questa vol­ ta con un passaporto valido e una buona giustificazione. »8 Nelle origini di Klaus Mann e Maurice Sachs ci sono paral­ lelismi singolari. Anche Ettinghausen-Sachs proveniva da una famosa famiglia di artisti e letterati. Per lui come per il figlio di Thomas Mann era stato facile, fin dall’infanzia, conoscere ogni sorta di persone che potevano stimolarlo o promuovere il suo sviluppo intellettuale. Il nonno era amico di Jaurès e Anatole France ed era stato tra i fondatori dell’« Humanité ». Quando si separò dalla moglie, quest’ultima sposò il figlio di Georges Bizet e prese con sé la loro unica figlia (la madre di Sachs). Jacques Bizet diventò il primo eroe e modello per il bambino Maurice. 271

Ma quando esordiva come letterato Klaus Mann sapeva di essere protetto dal solido benessere della casa paterna. Quando il padre riceveva il premio Nobel, nel 1929, erano anche can­ cellati i debiti di Klaus ed Erika Mann. Maurice Sachs a 16 anni doveva cominciare a guadagnarsi la vita. D’altra parte vorrebbe diventare anch’egli un letterato, se sarà mai possibi­ le. Si hanno conoscenze, e anche talento, come dovrà risultare in seguito, anche se probabilmente Maurice Sachs non posse­ deva quel senso della forma e quell’elegante tradizionalismo che Klaus Mann dimostrava già nei suoi scritti di adolescente. Il figlio di Thomas e nipote di Heinrich Mann aveva per così dire dei consiglieri « naturali », in caso di necessità. Ettinghausen-Sachs non aveva un nome famoso; dal suo idolo, dal figlio del compositore e di Madame Bizet-Strauss, c’era molto da imparare sul piano del comportamento sociale e del godi­ mento, ma nulla che riguardasse la tecnica e la funzione del lavoro di scrittore. Che egli, agli inizi degli anni venti e a Parigi, fosse attratto dal fascino di Jean Cocteau, era quasi ine­ vitabile. Nel libro Le Sabbai Sachs ha ancora proclamato la sua rottura da Cocteau con uno stridulo accento di disprezzo, a posteriori. Poiché anche Jacques Bizet moriva suicida e la madre di Maurice si allontanava improvvisamente dal marito e dalla famiglia, il ragazzo, allora quindicenne, doveva provve­ dere a se stesso. A quei tempi era per così dire impregnato di poesia e di arte. Un compagno di scuola lo porta da Cocteau. « Credevo già che Cocteau fosse il più grande poeta vivente, e uno dei più grandi di tutti i tempi. » A questo proposito si dice più avanti, nello stesso libro; « Un giorno non si capirà più perché questo autore era così amato. E infine si citerà Wilde e si ripeteranno le sue parole, dicendo che anche Coc­ teau applicava il suo genio piuttosto alla sua vita che alla sua opera. »’ Cocteau era benestante, come Gide. Non aveva precisamente la fama di essere generoso, come Gide. Una storia poliziesca pose termine ai rapporti fra maestro e discepolo. Ma prima Sachs aveva voluto competere col modello anche nel senso che si era convertito al cattolicesimo. Nel caso di Cocteau ne era nata una letteratura edificante: un carteggio con Maritain. Sachs confondeva continuamente la letteratura e la vita. Vuole entrare in convento, entra nel seminario dei carmelitani. Ma anche questa vicenda si conclude con uno scandalo. Complica272

zioni erotiche e finanziarie, inganno e autoinganno anche in questa tappa della sua vita. Poiché sa bene l’inglese, anche Sachs va in America per una serie di conferenze, pochi anni dopo analoghe tournées di Klaus Mann. Parla dappertutto in­ torno a numerosi argomenti di cui per sua ammissione non ca­ pisce nulla. Come omosessuale a cui sono possibili rapporti erotici con donne, si trasforma, in America, per amore di una donna, in un presbiteriano, sposa la figlia di uno dei diri­ genti di questa chiesa, l’abbandona e ritorna in Francia. Nella prigione di Amburgo Sachs ha steso un breve curri­ culum vitae, per così dire un riassunto del Sabbai, dove si dice: « Sachs si abbandonò a un’esistenza di intrighi ed entu­ siasmi; di farse e sventure; di trucchi e divertimenti che lo spingevano da un paese all’altro e da una professione all’altra. Giornalista, attore, monaco, impiegato pubblico e privato, commerciante, critico, operaio; famoso conferenziere in Ame­ rica, poi oscuro mendicante; uomo delle città e della vita agre­ ste; invitato in molti salotti, adorato in molte professioni, ripu­ diato in molte altre, ha molto visto e molto vissuto; però sa di aver pagato il suo prezzo. »“ Infine il prezzo è stato quello della sua vita. Sachs non era stato deportato a forza. Aveva chiesto egli stesso di lavorare nella fabbrica tedesca di armi, come francese e semiebreo. Poi aveva osato il gioco con la posta estrema, quando si era offerto alla Gestapo, che però evidentemente era presto scontenta di lui: Sachs andava a finire a Fuhlsbüttel, dietro le cinque sbar­ re. Derrière cinq barreaux, s’intitola il manoscritto delle sue annotazioni nella prigione tedesca; lo faceva uscire di nasco­ sto, in Francia. Dove era pubblicato nel 1952 presso Galli­ mard, sotto la sigla della « Nouvelle Revue Française », e così ricordava che durante una delle molte tappe della sua vita Maurice Sachs era stato appunto lettore di questa casa. Le biografie e le posizioni letterarie di Klaus Mann e di Maurice Sachs rivelano qualcosa di più di un semplice anta­ gonismo politico fra l’emigrato politico da un lato, il collabo­ razionista e spia prezzolata dall’altro. In una maniera singolar­ mente mediata si ripetono le antitesi del secolo xix : come al­ ternativa di assimilazione e scandalo. Certamente, l’assimila­ zione di Klaus Mann non ha più nulla dell’autoripudio o addi­ rittura di una mendacia anderseniana. Soltanto, anch'egli vor­ rebbe essere un partigiano del progresso e di una maggiore 273

umanizzazione, come altri che non sono dei diversi, nella loro esistenza. Così come l’ebreo Bronstein-Trockij pensava di es­ sere un comunista come lo erano altri. Quando il desiderio di morte in Klaus Mann prese il sopravvento, questo outsider di buona volontà seppe di aver perduto. Maurice Sachs entrò nella vita come outsider di dimensioni quasi estreme: segnato da scandali familiari e povertà, dal risentimento e da una natura di avventuriero senza scrupoli. Per di più era un omosessuale che avrebbe voluto godere tutto ciò che era possibile. Così restava solo la strada dello scandalo manifesto e manifestato. La confessata infedeltà diventa massi­ ma di vita. Dapprima sono truffe e malversazioni: anche Coc­ teau è una delle vittime. Infine questo francese che non è nulla per intero, né ebreo né francese, inganna questa patria che per lui non significa nulla. La Francia non è Sodoma. Ma Sodoma non è una patria. L’omosessuale francese che fa causa comune con i domina­ tori tedeschi non è stato un fenomeno isolato. Nella terza parte dei Chemins de la liberté di Sartre è descritto il letterato omo­ sessuale Daniel, che nella Parigi occupata si prepara a una vita voluttuosamente infame di tradimento e promiscuità. Nel romanzo Pompes funèbres di Jean Genet, che è composto nella forma di un racconto in prima persona, questa costellazione diventa il motivo centrale dplla narrazione. Le lettere di Sachs ad amici francesi si rifiutano di riflettere i motivi del volontario esilio in Germania e di questo tradi­ mento « non necessario ». Una confessione avrebbe dovuto dire che qui era stata scelta coscientemente, e con segreto pia­ cere, la morale opposta al modulo di comportamento corrente e adeguato. Proprio come il ventunenne Sachs, deluso da Coc­ teau, cercava rifugio da Gide, come l’Olivier dei Falsari cerca rifugio dallo zio Edouard, ma poi, respinto, da questo rifiuto cercava di derivare, pieno di soddisfazione, una patente di fran­ chigia che lo autorizzasse a un’esistenza scandalosa. Lo scandalo non si è fatto attendere, è anche sopravvissuto alla morte. Come uno scandalo venne sentita la pubblicazione del libro Le Sabbat nel 1946, due anni dopo la liberazione del­ la Francia. Era l’epoca in cui i collaborazionisti erano chia­ mati a rendere i conti. Sarebbe stato perfettamente pensabile il paradosso che se Sachs fosse sopravvissuto in Germania, alla fine della guerra, in Francia sarebbe stato condannato a morte. 274

Entrambi, Sachs e Klaus Mann, accettarono la situazione marginale propria ed esistenziale. Pensavano anche di vivere e godere l’erotismo che era loro consono. Ciò liberava subito segrete forze e capacità di commedia, poiché questo eros non conosce il domani: qui la prassi erotica diventa, con necessità, una rappresentazione statica. Sachs metteva la frenesia, e quin­ di l’infedeltà, al di sopra di tutto: persino al di sopra dell'apparentemente tanto amata letteratura. I suoi libri, e cioè le confessioni, sono un prodotto della precedente sconfìtta sul piano dell’eros e su quello della commedia. Là dove Sachs, che aveva scelto lo scandalo, pensava di es­ sere un uomo dell’aut-aut, Klaus Mann cercava di spuntarla conciliando i corni dell’alternativa. La condotta di vita eroticoestetica doveva conciliarsi con quella politico-morale. Klaus Mann ha creduto in questa possibilità. Lo ha aiutato, in que­ sto, rispetto a Maurice Sachs, il talento molto più ampio e fondato su una più solida base artigianale. Però la sintesi desi­ derata non si realizzava. Si può pensare che alla fine Klaus Mann se ne sia reso conto. Quando uscì, nel 1952, la versione tedesca e definitiva del più importante rapporto autobiografico di Klaus Mann, La Svolta, il libro migliore e più veritiero di questo autore, il vero antilibro rispetto al Sabbat di Sachs, il critico Friedrich Sieburg si chiedeva se la sintesi di un erotismo isolante e una vo­ lontà morale di comunicazione che Mann aveva cercato era riuscita. Sieburg 11 sosteneva di no. Egli scriveva tre anni do­ po la morte di Klaus Mann, nel momento della prima edizione tedesca della Svolta. Poiché sa che cosa significa lottare su due fronti e avere a che fare con gente a cui ci si sente segre­ tamente estranei, è pieno di simpatia. Ma ha anche lo sguar­ do malevolo. Di fronte ad esso Klaus Mann sembra frantu­ marsi in pochissimi anni buoni e armoniosi: preceduti e se­ guiti, da nient’altro che da un agire e scrivere senza scopo. Que­ sti anni buoni e felici sono stati quelli dell’esilio e della guer­ ra. Il teste principale è Thomas Mann, che ha potuto consta­ tare: « Hitler ebbe la grande prerogativa di determinare una semplificazione dei sentimenti, il No che non dubita un istan­ te, l’odio chiaro e mortale. Gli anni della lotta contro di lui furono buoni anni. » Lo furono anche per Klaus Mann. Si sentiva infine al suo posto: accettava ed era accettato. Come antifascista stava — 275

per così dire — nella falange generale. Ciò era precluso a Mau­ rice Sachs, che lo sapeva. Non c’era nessuna comunità dei col­ laborazionisti. Lo ha scritto un significativo collaborazionista e scrittore: Louis-Ferdinand Céline, che poteva superare il 1945, nella cronaca D’un château à l’autre.12 Ma poi la comunione era di nuovo improvvisamente spez­ zata: dalla vittoria sul Reich hitleriano. Sieburg vede che cosa è accaduto: « Klaus Mann lo ha saputo, e la sua disperazione può averlo spinto alla conclusione mortale, quando ha visto che la svolta, e cioè la caduta della tirannide, gli restituiva la possibilità di disporre della sua vita, di cui non sapeva più che fare. »u Che cosa c’era ancora da fare e da scrivere? La cronaca della sua vita, ma poi? Che cosa era accaduto a Wilde dopo il Dorian Gray e a Gide dopo I falsarti Quando Klaus Mann scriveva la Svolta, era nuovamente solo. Ancora alcuni viaggi e discorsi e saggi. Infine l'idea fìssa insieme così commovente e poco seria: proprio dalla morte far sorgere una nuova comunità, una nuova comunione. Il suicidio collettivo come condizione della nuova comunità e del nuovo legame collettivo. Heinrich von Kleist aveva avuto sentimenti simili. Molto prima di mo­ rire sul Wannsee cercava compagni per l’ultima azione. Trovò una donna sola e mortalmente malata. Klaus Mann moriva solo. Maurice Sachs venne fucilato da un uomo che bon era neanche suo nemico, semplicemente come vittima accidentale. Così terminavano, anche per Maurice Sachs, i buoni anni, e cioè quelli che aveva passato dietro le sbarre: finalmente solo con se stesso, col passato, con la letteratura. Quando non c’era più nulla da vivere — non c era pili che da annotare.

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Vili ■ Svolta Jean Genet

ì ■ Sartre e Genet La storia del detenuto e scrittore Jean Genet può essere raccontata in modi molto diversi.1 Persino in una maniera che avrebbe soddisfatto l’avversario cattolico François Mauriac, anche se dopo la lettura dei primi libri di quel « poète mau­ dit » egli scongiurava pubblicamente lo scrittore a suo dire così infelice e dannato di non continuare a scrivere, o almeno a pubblicare: affinché non portasse altri alla dannazione. Ma la storia di Genet può essere perfettamente raccontata come una leggenda del Libro d’Oro: con una morale edifi­ cante. TI figlio di una prostituta, come si può supporre, viene ab­ bandonato dalla madre non sposata e affidato all’assistenza pubblica. L’Assistance Publique affida il bambino, che era nato a Parigi, a gente che vive in campagna, a contadini. I primi anni di vita devono essere trascorsi senza avvenimenti notevoli. Non è accaduto nulla che potesse colpire. Nessun difetto fisico, nessun disturbo mentale. Un piccolo contadino in mezzo ad altri. In Notre-Dame-des-Fleurs2 Genet ha de­ scritto la giovinezza del piccolo Culafroy in campagna — di colui che più tardi sarà la « Divine » di Montmartre. Probabil­ mente nel libro sono stati rielaborati ricordi propri. Ma il bambino ruba, evidentemente con candore e per incli­ nazione, non per bisogno. Quando ha dieci anni è sorpreso, qualificato come « ladro », scacciato. Sempre nuovi furti e le prime condanne. Poi la colonia penale per adolescenti, a Mettray. Più tardi sarà sciolta. Genet ha descritto il suo mondo interno ed esterno nel Miracolo della rosa.3 Chi lascia Mettray ha concluso il suo periodo di apprendistato come delinquente. Seguono gli anni di pellegrinaggio di un ladro. Nel Diario dì un ladro 4 sono stati descritti anch’essi : fame ed espulsione, prostituzione e furto, le prime rapine organizzate e occasionali 277

servizi come spia della polizia che tradisce i suoi compagni. Un mondo europeo e nordafricano, descritto nella prospettiva del battone e ladro di professione. Praga e Varsavia, Germania e Austria, la prostituzione a Barcellona e sulla place Pigalle. Talvolta il furto permette di vivere proprio bene per un certo periodo. Persino senza ricadute. Talvolta si trovano an­ che protettori: egoisti e altruisti che aiutano e vorrebbero riportare « sulla retta via ». Però proprio questi ultimi ven­ gono truffati o ricattati dal protetto. Nuove condanne. Per il ladro di professione la prospettiva di un carcere preventivo a vita diventa sempre più concreta. Quando Genet compie trent’anni, venti anni dopo il pri­ mo procedimento penale, nel mondo e in Francia c’è la guer­ ra. Nella disperata attesa della reclusione definitiva comincia a scrivere. I testi sono conosciuti « fuori » : persone come Sar­ tre e Cocteau e Picasso si adoperano perché siano pubblicati e per la scarcerazione del loro autore. Entrambi i tentativi hanno successo. È vero che i libri vengono dati sottobanco, e sono perseguiti dalla polizia; anche la prima traduzione del romanzo Querelle de Brest presso l’editore Rowohlt di Am­ burgo porta al processo e alla condanna dell’editore. Ma la cri­ tica elogia ovunque il genio letterario del detenuto, che viene graziato, alla fine vede rappresentate proprie opere teatrali, fa stampare nuovi libri, che ora non sembrano più particolar­ mente « pornografici ». D’ora in poi Jean Genet è « storia della letteratura », può essere oggetto di dissertazioni. Il fa­ moso autore non ha più bisogno di essere recidivo; al massimo visita gli Stati Uniti illegalmente e con l’aiuto di amici negri, nonostante un divieto, di soggiorno. Ma questa è burocrazia americana, rispondono subito i letterati. Sembra che persino il comportamento sessuale si sia trasformato: Divine e il suo bisogno di forti ruffiani appartengono ormai al passato. Nel suo libro su Genet Sartre racconta che il rapporto sessuale con un giovane si è trasformato in « amicizia » ; il protettore procurava al giovane una moglie, e poi partecipava con soddi­ sfazione alla vita della nuova famiglia e alla sua crescita, come amico di casa. È una bella storia che finisce bene. È possibile e probabile che i singoli fatti siano esatti, ma la loro connessione causale e psicologica è completamente carente. Colpa ed espiazione, o meglio colpa e grazia, o, ancora meglio, liberazione attra278

verso il lavoro e il genio. È una bella storia borghese. E tutta­ via: anche se tutti i fatti fossero concatenati nella maniera de­ scritta, cosa che non è possibile, i libri di questo soggetto « salvato » parlerebbero contro ogni intento edificante. Non furono concepiti come testi di una resurrezione, ma di una dannazione. La storia di questo detenuto e letterato non può essere nean­ che gravata di una critica sociale, [.'origine di questa vita è una panne. Ciò che le è seguito ricorda ben poco la miseria dei bambini dei romanzi di Charles Dickens. Naturalmente molti dei delitti successivi furono compiuti in condizioni di disperata miseria: da un accattone, da un immigrato illegale, da un ladro recidivo a cui nessuno vuol dare lavoro. Ma Genet ha sottolineato che i suoi furti hanno sempre coltivato un momento estetico — e ci sono molte buone ragioni per cre­ derlo. Il furto non è motivato dalla necessità, ma da piacere e senso artistico. Inoltre i libri di Genet sono il contrario di una letteratura determinata da un senso di rivolta. Questo autore non pensa né ad accusare né a « smascherare ». Riconosce e accetta l’or­ dine borghese, non lo critica. Dal punto più basso della ge­ rarchia sociale legittima la sua struttura e le sue sommità. Di qui Walter Heist5 ha voluto derivare un « fascismo » di Ge­ net, ma Γ interpretazione non regge, perché si basa su una let­ tura inesatta dei suoi libri, di cui non riconosce il carattere di gioco estetico, il lusso provocatorio. Che nella Parigi occupata Genet abbia fatto causa comune con la Wehrmacht, come vie­ ne raccontato in prima persona nel libro Pompe funebri,6 non è mai stato affermato, neanche dai suoi avversari. Maurice Sachs divenne collaborazionista, il Genet « reale » no. Però tutti i suoi libri rivelano una passione sessuale per l’uniforme, la forza, il potere esecutivo, per il dominio che non deve ren­ dere conto a nessuno. E così si ritorna continuamente a quel­ l’alleanza politicó-poliziesco-erotica fra il delinquente e il po­ liziotto che è stata descritta con la massima maestria nel perso­ naggio di Querelle. Ma persino qui si potrebbe ancora cercare di salvare la leg­ genda aurea con l’espediente di derivare tale servilismo dalla paura e dall’impotenza. Brecht si è servito talvolta di questo accorgimento, rappresentando i proletari come servili e devoti al dominio. Nella Santa Giovanna dei macelli, dove questa 279

tesi è dimostrata abbondantemente, Iohanna Dare risponde al capitalista Mauler replicando: egli non ha dimostrato la mi­ seria morale dei poveri, ma soltanto la loro povertà. Però Brecht non avrebbe (o ha) mai esaltato il tradimento, il sacri­ ficio della solidarietà: fosse pure quella di una comunità di ladri. Invece Genet vuole, pratica e loda il tradimento. Ciò determina il fallimento della leggenda, e del resto così vuole questo uomo e autore. Il furto: conseguenza di un’infanzia infelice. La pederastia: conseguenza di una violenza subita nell’infanzia, della miseria e infine anche di una predisposi­ zione naturale. Il tradimento: qui il caso Genet diventa una svolta. Occorre un’impostazione mentale completamente nuova. Che scrivendo Genet potesse liberarsi dalle coazioni esterne che prima aveva interiorizzato, e in questo modo raggiungesse l’identità, è un fatto che non si può negare. Ciò non era in­ consueto, anzi, ha quasi già il carattere di un cliché. Non a caso nelle poco meno che seicento pagine del suo libro su Saint Genet. Comédien et martyr Jean-Paul Sartre presenta il suo primo tentativo di indicare nell’attività dello scrivere, nell’esi­ stenza letteraria, la ragione della salvezza di un uomo. Non è l’ultima volta che Sartre si è occupato di questo conflitto esi­ stenziale. La sua autobiografia Les mots non aveva uno scopo diverso. Si trattava nuovamente di descrivere l’infanzia di uno scrittore che perviene alla sua identità spirituale attraverso la lettura, e poi scrivendo, sia pure male e plagiando — come mostrano i titoli delle due sezioni Lire e Ecrire. Solo che que­ sta volta Sartre presentava l’esperimento come « autoesperi­ mento ». Dopo l’esempio di Genet, l’esempio del giovane Sar­ tre. Il terzo tentativo di Sartre è ancora in corso: l’esempio di Gustave Flaubert. Le articolazioni dei tre volumi dell’/dioi de la famille finora usciti seguono esattamente l’ordine e le regole del libro su Genet. Genet sceglieva se stesso scrivendo e come scrittore. Ciò non è inconsueto, e inoltre da un punto di vista morale è in certo modo neutrale. In Genet la letteratura si presenta contempo­ raneamente come autismo e come negazione dei valori. I due motivi sono connessi tra loro. L’autismo o solipsismo letterario di Genet vuole avere un unico lettore: l’autore. È possibile che questo atteggiamento si sia un po’ modificato nelle ultime opere teatrali, come Le balcon o Les paravents·, agli inizi del 280

processo di emancipazione attraverso lo scrivere (in cella, e il­ legalmente) le cose stavano così. Genet non ne fa un mistero. Notre-Dame-des-Fleurs e il Miracle de la Rose lavorano secon­ do la tecnica del resoconto dell’autore, che evoca ricordi, li lascia nuovamente cadere, intreccia passato e presente e sa anche di essere il lettore onnipresente (e unico). È una lette­ ratura onanistica, quella che deve nascere da questo procedi­ mento. E il testo accoglie in sé, come proprio momento, que­ sta situazione e funzione. Questa letteratura non ha nessun messaggio e non vuole nessuna comunicazione. Poiché vuole l’isolamento, nella vita come nello scrivere, deve interpretare tutti i processi del passato che hanno con­ dotto qui, alla cella e all’accettazione, come condizioni poste, e poste coscientemente. Ciò accade attraverso la non meno cosciente negazione dei valori. « In una carica che ha come obiettivo il delitto maggiore possibile Genet batte tutti i re­ cord, » si dice nel saggio di Sartre. Il libro di Sartre descrive questo processo come un processo kafkiano. La parola d’ordine è « metamorfosi », e vuol ricordare quel Gregor Samsa che un mattino si svegliò trasformato in un insetto gigantesco. Il bam­ bino Genet si trasforma nel delinquente che viene riconosciu­ to e scacciato; il delinquente dapprima accetta le regole del gioco, poi le forme linguistiche, infine gli antivalori specifici dei « bassifondi », nel loro rapporto col mondo e col ceto che stanno in alto. Ma questo antimondo fa ancora interamente parte della generalità dominante: come l’ipocrisia fa parte della virtù. Genet parte di qui e va avanti da solo. Questo intende Sar­ tre col termine « carica ». Su questa strada si era già arrischiato un pochino Oscar Wilde, nel periodo vittoriano, quando va­ gheggiava il delitto, in particolare l’assassinio, considerandolo come uno dei campi delle arti belle. Era qualcosa di più di una civetteria paradossale: Wilde praticava l’estetizzazione nel sen­ so di una de-moralizzazione. Genet è più coerente, e anche più duro. Per quanto lo ri­ guarda, scaccia la morale da ogni teoria e anche da ogni prassi. Non ha più valore che il bel rituale, la bell’azione, la bella per­ sona. Anche la morte degli assassini Pilorge o Harcamone sotto la ghigliottina è un rituale bello, poetico. Indietro ri­ mane il brutto (e morale) mondo borghese. Qui Genet non è affatto l’unico a praticare questa recisa negazione di norme 281

giuridiche e forme di comportamento dominanti a favore di una legislazione nient’altro che estetica. Flaubert si era propo­ sto lo stesso scopo. È vero che sotto l’impressione della Comu­ ne di Parigi l’esteta era presto ritornato ad accettare il mondo borghese : allo stesso modo che Genet nella sua netta estetizzazione della vita non rinunciava al contatto con coloro che do­ minano nello stato e nella società. Genet poteva sia celebrare il delinquente per la bellezza del suo essere e agire, che il po­ liziotto, il milite fascista, l’ss e il boia di Berlino. Il rifiuto di Genet da parte di André Breton e dei surrealisti era meno inatteso di quello che Sartre sembra credere. L’isolamento nella società è bensì cercato da Genet, però non è raggiunto. Non è l’unico. L’antimondo resta all’interno della società, come l’antimorale resta interna alla morale. An­ che l’estetizzazione del tradimento, cioè dell’azione socialmen­ te più disprezzata e isolante, non ha spezzato il legame con la società. Sartre, che dovrebbe essere informato, non crede poi tanto ai tradimenti « reali » di Jean Genet. L’autismo di Genet che scriveva nella cella ha avuto la sua ora, che è passata. Il Genet liberato e che continua a scrivere deve comunicare, infine anche lo vuole: con gli algerini, con i negri americani. La negazione dei valori borghesi con l’aiu­ to dei valori negati dalla società borghese non porta fuori di questa società. Si rapporta ad essa come l'ateismo di Nietzsche si rapporta al cristianesimo, o l’immoralismo di Gide al mo­ ralismo protestante, o come l’antiteatro si rapporta al teatro. È vero che si cominciava con una caccia ai libri stampati, però proibiti, che sostenevano quell’antimorale, ma ben presto an­ che l’azione contro il Querelle di Brest diventava un esperi­ mento letterario, come lo era stato un tempo Madame Bovary, poi YUlisse di Joyce, e infine come il Tropico del carierò di Henry Miller. Alla fine l’edizione tascabile era liberamente in vendita. 11 ladro Genet, il traditore cultuale, il santo di una reli­ gione individuale del satanismo è stato recuperato alla lettera­ tura, ma in questo modo anche alla comunicazione sociale. Erano soltanto peccati veniali. Non è così facile diventare un outsider assoluto. Il significato dell’esperimento Jean Genet, con tutta l’inquietudine che continua a suscitare, sta nel rap­ porto dell’omosessuale Genet con la letteratura omosessuale. In questo caso era stata raggiunta e posta una svolta. Anche 282

qui provvisoriamente c’è una specie di indulgenza. Premio No­ bel Gide, Jean Cocteau dell’Académie Française. Però ogni nuovo ordine autoritario si ricorda ben presto della gente con il segreto segno rosa, che nel Terzo Reich doveva essere por­ tato nei Lager. Quando il potere di Stalin non era quasi più attaccato, egli cambiò le indulgenti leggi penali dell’Unione Sovietica; anche qui Gor'kij gli stava al fianco, e scopriva la depravazione morale di un Verlaine. Fidel Castro raccoglieva una maggioranza contro gli outsider del comportamento ses­ suale sospetti, che con il loro modo di vivere sabotavano l’or­ dine esistente. L’appello al « diritto e all’ordine » intende sempre anche l’ordine nel letto e il torto della minoranza. Per questo i libri di Jean Genet rappresentano un caso estre­ mo, che può essere sì revocato, ma non superato. Nel suo libro su Genet Jean-Paul Sartre ha ripercorso la genealogia dell’au­ tore omosessuale, e l’ha definita in questo modo, come caso par­ ticolare dell’esistenza omosessuale nella società borghese: « Il dramma del pederasta borghese è un dramma del non con­ formismo. Come conserverà egli la propria originalità colpe­ vole nel seno di una società in cui famiglia, mestiere, censo, cultura e religione contribuiscono d’altra parte a fortemente integrarlo? »’ Continuamente si ripete il caso di Andersen, co­ me integrazione fallita, quello di Verlaine-Rimbaud come pro­ vocazione fallita, il desiderio di morte di Ludovico di Baviera, di Cajkovskij, di Lorca e di Klaus Mann. Genet ha respinto tutte queste alternative. Con forza veni­ va realizzata la decisione di sopravvivere, contro il suicidio. Un adeguamento, che all’inizio sarebbe pensabile, era impe­ dito dalle circostanze: sia dell’ambiente che interiori. Lo scandalo veniva obiettivato dai tribunali e dagli istituti pe­ nali: in questo modo poteva essere evitato sia il dilettantismo di Verlaine, che la sua « santità » lasciva e convenzionale. Proust cercava di evitare il conflitto tra il diverso e la società facendo di tutto il mondo un mondo di diverbi. « Ils le sont tous, » constatava, rassicurato. La gelosia di Swann era un cancro divoratore allo stesso modo della cupidigia del barone di Charlus nei confronti degli uomini giovani e belli. Il cal­ vinista André Gide puntava contemporaneamente su due nu­ meri: sull’onnipotenza divina che aveva creato anche la sua specie, e sulla forza creatrice della natura, che conosce tutte le specie e le varianti. 283

Come caso parallelo a quello di Genet, Sartre presenta la vita del cattolico, scrittore e collaborazionista francese Marcel Jouhandeau. Dopo la guerra Jouhandeau cercava d’interpre­ tare la scelta del male come scelta religiosa della dannazione. Sartre tratta il caso, molto seccamente, come una surrezione morale: « Lo dico chiaro: questa dialettica puzza. Prima di tutto si fanno troppe storie per qualche masturbazione solita­ ria o a due. Bell’affare! Dov’è il delitto? Dove il misfatto? Fra pederasti, relazioni umane sono possibili altrettanto bene che fra un uomo e una donna... Meglio vale di sicuro andare a letto gentilmente con un amichetto che andar a viaggiare nella Germania nazista quando la Francia è disfatta e strangolata. »’ Secondo l’interpretazione di Sartre Jouhandeau resta un pavi­ do provinciale francese che deve temere quello scandalo che il barone Gharlus di Proust può invece altezzosamente igno­ rare. Da tutti loro, e dai loro sforzi per raggiungere un equilibrio fra diversità e integrazione borghese, Genet si distingue per Yunità del soggetto e dell'oggetto letterario. In questo caso c’è un omosessuale che scrive letteratura omosessuale. Non tra­ sforma l’amato Albert in un’Albertine, come aveva fatto Proust. E nemmeno separa l’Io reale dello scrittore da ciò che è scritto, come fa Gide quando scrive il trattato Corydon. Non recita la parte del peccatore pentito perdonare al quale è così dolce e opportuno per la società: ciò era accaduto nel caso di Verlaine, di Maurice Sachs nella prigione di Fuhlsbüttel, di Jouhandeau. Diversamente da James Baldwin, Genet non ave­ va neanche la possibilità — ammesso che lo fosse — d’integra­ re la diversità sessuale nella diversità di una maggioranza, quella dei negri. Ciò ha determinato il fallimento dell’opera drammatica di Genet Les Nègres. Nei libri di Jean Genet il pederasta parlava della pederastia come pederasta: senza chiedere indulgenza, senza chiedere comprensione, senza guardare indietro e senza un’oggettività impossibile. Anche senza confessioni, poiché le confessioni cercano un partner a cui confidarsi. Da quel Daniel che in un romanzo di Sartre confida improvvisamente ad un amico di essere pederasta, in modo estremamente superfluo e vano, fino alla grande comunità dei lettori dei diari di Gide. Ogni tentativo di una « sincerità » apparentemente coraggiosa na­ sconde insincerità segrete. Hans Christian Andersen aveva svi284

liippato questo tipo di procedimento fino al virtuosismo. Una confessione che doveva sempre comportare una nuova confes­ sione che la completasse. Genet non confessa. A chi? Nemmeno si loda, come fa Alien Ginsberg. Certamente non si integrerà in un movimento per il « Gay Power ». Chi ha posto e raggiunto una svolta, non può più tornare indietro. Ma non può neanche andare avanti. Il silenzio di Jean Genet, dello scrittore, può essere interpretato privatamente: come conclusione di un processo di identifica­ zione. Più sul serio deve essere presa un’interpretazione obict­ tivante, che a partire dal punto che è stato raggiunto può rico­ noscere soltanto un’alternativa letale: ripetizione o regressio­ ne. Il silenzio di Genet sembra indicare che egli rifiuta anche questa alternativa.

2 - Genet e Bucharin

A partire di qui il caso individuale di Genet si amplia fino ad assumere il carattere di un processo socialmente rappresen­ tativo. Un caso Giovanna d’Arco non si è più ripetuto, nella società borghese. La spia Mata Hari e quelle effettive prefigu­ razioni di un « commissario » femminile dell’Armata rossa che hanno potuto entrare nella Tragedia ottimistica di Visnevskij, il premio Nobel Maria Curie e la regina d’Inghilterra: nessuna di queste outsider femminili è immunizzata dal ri­ schio di essere estetizzata, e quindi integrata, nella società mo­ derna e nella cultura dei suoi mass-media. Possono diventare benissimo argomenti di film. Il caso Marilyn Monroe ha rap­ presentato una situazione estrema: la vita di un outsider che il cinema aveva contemporaneamente disarmato e sublimato, come semplice premessa per la definitiva apoteosi cinemato­ grafica. Tale integrazione del diverso omosessuale è altrettanto im­ possibile quanto è impossibile una neutralizzazione estetica di Shylock, anche se la fabbrica dei sogni americana continua a sforzarsi di manipolare in senso folkloristico la vita quoti­ diana ebraica, neutralizzandola fino a toccare il limite del po­ grom. È il metodo di « Anatevka ». Pogrom filmati, recitati da stelle. Ma tutto questo è accaduto l’altroieri, forse anche ieri. Oggi le cose sono diverse. Designazioni degli omoses285

lettuale simbolico: per nulla sconosciuto, dunque noto nel senso dell’accusa, non abbastanza conosciuto nel mondo da procurare conseguenze spiacevoli,, il procuratore generale e pubblico accusatore Melsheimer osservava che tra gli altri quattro imputati che avevano ordito la congiura si trova­ vano un ebreo, e un omosessuale. Entrambi vivono il totale isolamento, che nella società vir­ tualmente minaccia sempre il singolo, però nel caso dei diversi sembra ineluttabile. Passando dal caso Genet a quello del co­ munista fallito Bucharin Sartre constata: « Conosce la vera solitudine, quella del mostro, aborto della Natura e della So­ cietà, e vive fino all’estremo, fino all’impossibile, codesta soli­ tudine latente, larvata, che è la nostra e che noi tentiamo di passare sotto silenzio. Non si è soli, se si ha ragione, perché la Verità deve rifulgere: e nemmeno se si ha torto, giacche ba­ sterà confessare gli errori· perché questi si cancellino. Si è soli quando si ha torto e ragione contemporaneamente: quando ci si dà ragione come soggetti... e ci si dà torto come oggetti, perché non si può rifiutare la condanna obiettiva decretata dall’intera Società. »12 È questo il caso di Bucharin come quello di Jean Genet. Ma nel modo in cui affrontano o hanno affrontato questo isola­ mento, essi diventano antagonisti, rappresentano un’alterna­ tiva. Se Bucharin fosse riuscito a prevalere politicamente nella lotta contro Stalin, di fronte ai posteri avrebbe potuto riven­ dicare la necessità storica. Un alto tradimento fallito è un delitto politico; un alto tradimento riuscito significa l’introdu­ zione di una nuova legalità e legittimità: quella della vittoria e del potere. Poiché fallirono, sia Trockij che Bucharin di­ ventarono criminali politici nel senso della legalità sovietica. Però esiste una differenza essenziale, che sembra sfuggire a Sar­ tre, poiché egli si limita a confrontare Bucharin con Genet, ma non con Lev Trockij. Nella sua lotta contro Stalin, come anche prima, nell’esilio, interrotto soltanto da un breve periodo di sei o sette anni di partecipazione al potere, Trockij era e restava colui che dice di no. È stato combattuto, esiliato, calunniato, alla fine lo si è fatto uccidere da un assassino prezzolato; ma egli è sempre rimasto il nemico, il soggetto autonomo, l’avversario vinto, ma ancor sempre pericoloso. Trockij non è mai diventato l’og­ getto, che si può avvilire, ridurre a una cosa, a un giocattolo. 288

Bucharin diventava la cosa con cui si giocava ancora per un certo tempo: davanti al tribunale, nell’interrogatorio dei testi in contraddittorio, che però poi veniva interrotto, come era stato progettato prima. Naturalmente i metodi della polizia segreta hanno avuto la loro parte, hanno contribuito a portare alla « confessione » anche N.I. Bucharin. Però la differenza fra Trockij e Bucharin sta in un atteggiamento radicalmente diverso rispetto al ruolo di outsider. Entrambi — rafforzati, in questo, dal loro illuminismo marxista — non considerano la loro origine ebraica come determinante per il destino che è loro preparato. Trockij reagisce con disprezzo all’odio di Sta­ lin per gli ebrei. Lo considera semplicemente come espressio­ ne di un’aberrazione nazionalistica, e anche di un’insufficiente educazione marxista. È probabile che dentro di sé Bucharin abbia formulato un giudizio analogo. Ma entrambi sbagliavano. La debolezza teoretica di Stalin era la sua forza pratico-politica. Il « bolscevismo ebraizzato » dell’età di Lenin, come la propaganda fascista era solita qua­ lificare la Russia sovietica di Trockij e Zinov’ev e Litvinov e Bucharin, non era destinato a durare. Stalin rappresentava per il paese la posizione opposta: il non-esilio, il non-letterato, il non-ebreo. All’interno di tale costellazione soltanto il compor­ tamento di Trockij era coerente. Dire di no, ritornare alla po­ sizione dell’outsider, da questa non-legittimità distillare una teoria: quella della non-stabilizzazione della rivoluzione, della rivoluzione « permanente ». Bucharin non ha ritenuto giusto questo atteggiamento, né ha osato assumerlo. In questo modo è diventato un oggetto. Sartre ha così interpretato il suo caso: « Poiché non può fare appello né ai suoi vecchi compagni che lo condannano, né ai suoi nemici che continua ad odiare, né alla· posterità, che non manterrà forse l’accusa di tradimento, ma che lo porrà nel no­ vero degli sfortunati e degli arruffoni della storia, egli è solo. Non trova più in sé che niente e smacco... il suo ultimo atto... è per annientarsi... confessa il suo tradimento. Ecco il primo atteggiamento: il solitario sfugge alla solitudine con un suici­ dio morale; respinto dagli uomini, pi fa ciottolo in mezzo ai ciottoli. »” 11 secondo atteggiamento, la seconda possibilità secondo Sar­ tre è quella di Genet. « Poiché Genet è il Bucharin della so­ cietà borghese. » Genet è cittadino di una società che lo re289

spinge. Ma qui comincia la differenza. Genet può adorare se­ gretamente il potere borghese e i suoi apparati, quello fa­ scista compreso: tuttavia cercherà orgogliosamente di affer­ mare la sua soggettività, come quella del non-integrato. Bucharin si umilia, Genet sceglie l’orgoglio e la non-comunione. Nel suo studio su Umanesimo e terrore 14 Merleau-Ponty aveva analizzato i processi di Mosca e interpretato l’insostenibile po­ sizione di Bucharin, che confessa e contemporaneamente cerca di contestare almeno l’accusa di spionaggio e sabotaggio. Un vinto della società sovietica, di conseguenza un traditore. Con una famosa formulazione Merleau-Ponty aveva spiegato: « Tout opposant est un traître, mais tout traître n’est qu’un opposant. » Ma Genet, se lo si definisce, con Sartre, un « traditore e op­ positore della società borghese », appartiene piuttosto alla parte di Trockij, che a quella del semitraditore e semioppo­ sitore Bucharin. Genet accetta la sua posizione di mostro. Gosì come Trockij si era stabilmente affermato come comunista fuori del comuniSmo sovietico ufficiale. Ma qui vengono su­ bito in luce le differenze, che non consentono, come crede Sartre, un avvicinamento di Genet a Bucharin, e neppure, d’altra parte, un integrale parallelismo di Genet e Trockij. Ciò corrisponde meno ai rispettivi caratteri, che alle diverse po­ sizioni della loro diversità, e soprattutto alle differenze tra una società borghese restaurativa e una dottrina rivoluzionaria come il marxismo. Genet è un oppositore borghese che non può essere un bo«ghese. In quanto deve sottrarsi all’integrazione — grazie alla sua diversità sessuale — e infine le si sottrae consapevolmente, legittima le situazioni esistenti e le loro norme morali. Sodo­ ma fu distrutta e non potrà mai più essere ricostruita. I sodo­ miti devono (e vogliono) vivere nella diaspora. Per questo hanno orrore di incontrarsi con uno dei loro, in una società. Jean Genet stabilisce la massima della non-integrazione. Ma essa non può diventare la base di una legalità sodomitica. Quello che egli cercava, nella vita come, più tardi, nella lette­ ratura, era qualcosa di cui era forse balenata l’idea al giovane Rimbaud. Ma uno può essere integrato anche come mostro. Obiettivamente, ma non nella soggettività.15 Trockij sfugge alla critica di un Merleau-Ponty. È un oppo­ sitore vinto, e all’interno della dottrina sovietica è anche un 290

traditore. Ma la sua posizione di contestatore integrale gli per­ mette di rovesciare le posizioni ideologiche. Trockij denuncia il tradimento di Stalin. Il suo libro politico più importante ha il titolo La rivoluzione tradita. Genet lodava il tradimento: al­ l'interno della società borghese. Era questa una protesta della soggettività del diverso: una professione di fede nella nonintegrazione in una gerarchia sociale venerata, ma irraggiun­ gibile. Bucharin confessava un tradimento che non era stato compiuto. In questo modo diventava oggetto e vittima, ma non il martire per un possibile mondo futuro. Anche Trockij non è diventato un martire. Non c’era e non c’è la religione che potrebbe canonizzarlo. Ciò non ha niente a che fare con il successo o l’insuccesso del « trozkismo ». Ha molto più a che fare con la sua origine ebraica, che egli pen­ sava sprezzantemente di dover considerare soltanto come un problema di nazionalità. Che egli abbia vissuto come compa­ gno Shylock, è un fatto di cui non si è mai reso conto. La disuguaglianza della donna poteva essere mascherata at­ traverso la sublimazione. La disuguaglianza del comportamen­ to sessuale poteva oscillare fra l’inutile adeguamento di Ander­ sen o di Cajkovskij e l’altrettanto inutile stilizzazione demonia­ ca di Rimbaud o Genet. Ma per Shylock c’è sempre una sola alternativa (a cui non contraddicono i casi di Bucharin e Trockij): Auschwitz o Israele.

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Shylock

I ■ Da Aasvero a Shylock

Nelle riflessioni di filosofia della storia di Sigfried Kracauer un capitolo era intitolato Aasvero o l’enigma del tempo. Ιλ spiegazione è questa: « Ho l’impressione che l’unico garante attendibile... sia un personaggio leggendario: Aasvero, l’ebreo. E infatti egli avrebbe informazioni di prima mano sugli svi­ luppi e le trabsizioni, poiché in tutta la storia è il solo ad avere involontariamente l’occasione di sperimentare personalmente il processo del divenire e del passare. (Come dev’essere indici­ bilmente terribile il suo aspetto! Certamente, il suo volto non ha sofferto per la vecchiaia, ma io me lo immagino composto di molti volti, di cui ciascuno rispecchia uno dei periodi che egli ha attraversato e che offrono tutti modelli eternamente nuovi, mentre senza pace e invano egli cerca, errando, di ricostruire, con i tempi che lo hanno formato, quel tempo che è condan­ nato a incarnare.) »' Ma in questo modo il filosofo della storia ha degradato, in realtà, quell’Ebreo Eterno a cui attribuisce tanta forza simbo­ lica: facendo di lui uno storico universale. Aasvero rappre­ senta la sempre vana impresa di cogliere col pensiero l’irrever­ sibile corrente della storia e trasformarla in storia scritta, in storiografia, assai più che la stessa incarnazione della storia reale. È vero che questo paradosso — apparente — è connesso con certe caratteristiche dell’impostazione della filosofia della storia di Kracauer; ma contemporaneamente rivela un tratto peculiare di questo stesso personaggio « leggendario », secon­ do Fespressione di Kracauer. È una caratteristica abbastanza strana: l’Ebreo Eterno non è affatto un personaggio ebreo. Significa passato cristallizzato, che ricompare continuamente come tale nel presente di volta in volta dato: spesso con ef­ fetti comici, come accade ad esempio nelle Memorie di Satana di Wilhelm Hauff, dove Aasvero partecipa a un tè estetico (forse addirittura nel salotto ebreo di Rahel Levin o di Hen­ riette Herz?), e per la noia non rispetta la sua parte. Incarna 295

il tempo trascorso e irrecuperabile, però non impersona una qualche esistenza ebraica, anche se gli illustratori, dalla rifor­ ma in poi, lo hanno sempre rappresentato con il cappello israe­ lita, il caffettano e i riccioli sulle tempie. Accade anche di rado che sia disprezzato o deriso — nella relativa letteratura. Per lo più è circondato dall’aura di una venerabilità strana e inquietante. Questo ebreo è ben poco ebreo. Immortalità co­ me maledizione : condivide questo destino con altri compagni, senza che essi fossero ebrei. L’Olandese Volante è stato chia­ mato da Heinrich Heine un « Aasvero dell’oceano », nelle Memorie del Signor di Schnabeleuopski, dove l’autore deli­ neava la storia e senza saperlo preparava il libretto per Richard Wagner: ma l’olandese non è ebreo; e anche la maledizione che lo ha colpito è un fatto dell’età moderna, ed è sanabile. Aasvero significa la provocazione insanabile, non così l’olan­ dese. Anche la Kundry del Parsifal di Wagner può essere riscat­ tata — e cioè morire. Già il nome non è ebreo. Storici delle religioni che incon­ trano il nome Ahaswerrosch o Ahasuerus nel libro di Esther e in Esdra iv, 6 lo identificano con un re persiano, con un ne­ mico degli ebrei.2 Il modo in cui è scritto sembra una forma ebraizzata del nome Artaserse; è chiaro che si riferisce al per­ sonaggio storico di Serse. Hans Joachim Schoeps informa che « secondo l’interpretazione rabbinica si tratta di un uomo della sventura e del dolore » ? La leggenda di Aasvero eternamente errante attraversa il Mediterraneo col cristianesimo. Non così il nome Aasvero. In Italia il personaggio è chiamato Buttadio: colui che è battuto da Dio. Nella penisola iberica ha il nome conciliante di « Juan Espéra en Dios ». Elementi antisemitici compaiono per la prima volta nelle versioni tedesche, ad esempio nel trattato Kurtze Beschreibung und Erklärung von einem Juden mit Namen Ahasver [Breve descrizione e spiegazione di un ebreo di nome Aasvero] del 1602. In tutti i libri popolari su colui che erra in eterno la maledizione è ricondotta a Gesù, che durante la via crucis il calzolaio di Gerusalemme scacciava lontano da sé. Wagner giu­ stifica analogamente la maledizione di Kundry : « Io lo vidi — Lui — Lui / e... risi: / Allora mi colpì... il suo sguardo! — / Ora di mondo in mondo io cerco / d’incontrarlo nuova­ mente. » (Parsifal, secondo atto.) 296

La figura e la mitologia di Aasvero è di origine cristiana: significa, con un segreto dileggio, la non riuscita parusia ebraica. Il Messia ebraico apparve, ma non fu riconosciuto dal popolo eletto. Aasvero rientra nel mondo iconico dei costrut­ tori delle cattedrali gotiche: assieme alle vergini folli e alla sinagoga con la benda sugli occhi. Naturalmente incarna il suo popolo, la diaspora, le peregrinazioni senza pace e il male­ detto diritto di essere ospitato dai popoli stranieri. Però l’Ebreo Eterno non sta mai a significare il singolo ebreo. Rappresenta un destino teologico, non una qualche esistenza individuale. E quindi Aasvero non è uno scandalo, neanche in un senso escatologico. Lo scandalo presuppone colui che lo dà. Ciò che implica un’esistenza individuale nello spazio e nel tempo: a Rialto, sotto le palme di Nathan il saggio, come capo dei tories nella Camera bassa, al Jockdyclub, come ministro degli esteri tedesco. Fenotipo per la fal­ lita emancipazione ebraica non è l’immortale Aasvero, ma il personaggio creato da un poeta drammatico: Shylock, l’uomo che non ha un nome, l’ebreo di Venezia.

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II ■ L'ebreo di Malta e l’ebreo di Venezia (Marlowe e Shakespeare)

Non sono stati disegnati secondo un modello reale: l’ebreo Barabba di Malta, smisuratam.ente ricco, creato da Marlowe, e il benestante ebreo Shylock di Shakespeare, che impresta denaro sul ponte di Rialto, poiché i concili della chiesa catto­ lica.proibivano ai cristiani l’esercizio dell’usura a partire dal­ l’ottavo secolo, mentre avevano lasciato agli ebrei la facoltà di praticarla, giacché nel caso di un popolo escluso dalla salvez­ za eterna un peccato in più o in meno non aveva molta impor­ tanza. I giuristi della chiesa romana la pensavano così. Però in Inghilterra, a partire dalla fine del secolo xm, non c’era neanche questo dualismo di una società divisa in ebrei e non ebrei. Dopo che nella città di Lincoln era stato celebrato ancora una volta, nel 1255, quella specie di rituale antiebraico che nel Medioevo era in uso in tutti i paesi d’Europa e del­ l’Asia minore, per cui l’accusa di assassinio rituale era seguita da una sommossa popolare, da saccheggio e assassinio, nel 1290 era decisa l’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra. Duecento anni prima dell’espulsione degli ebrei spagnoli e portoghesi. Il ritorno era permesso solo in pochi casi. Da allora l’ebreo in Inghilterra restava in larga misura una voce. Lo era ancora per i poeti dell’età elisabettiana: per Marlowe e Shakespeare. Il contenuto di realtà si limitava a un sentito dire: a voci raf­ forzate dai racconti dei viaggiatori che avevano potuto vedere ebrei in carne e ossa, in Germania o in Italia. Comunicato e ritenuto era soltanto ciò che sembrava adattarsi allo spaurac­ chio di un popolo diverso dagli altri, strano e minaccioso. Riti incomprensibili e libri sacri incomprensibili nel linguaggio e nella scrittura; caffettano e filatterio, riccioli sulle tempie e copertura rituale del capo; disprezzo per la carne di maiale prediletta nel freddo paese nordico; sabato invece della dome­ nica cristiana; alta erudizione e arte medica, che era conside­ rata con sospetto ancora nel periodo del rinascimento e della riforma. In una prefazione alla prima traduzione tedesca del 298

Dottor Faust di Marlowe da parte di Wilhelm Müller, nel 1818, lo Junker prussiano, poeta romantico e antisemita Achim von Arnim aveva indicato questo intreccio: che dimo­ strava la stretta connessione del trauma ebraico e faustiano.' Magia custodita in appositi libri e capacità terapeutica mira­ colosa: veniva attribuita e imputata sia a Faust, individuo mostruoso, che al popolo ebraico, collettivo mostruoso. « I reli­ giosi, » dice Arnim, « si trovavano molto al di sopra del genere umano, avvolti in un’aura di sacro mistero, e quindi la loro caduta era tanto più terribile. Questa circostanza, unita al pos­ sesso delle scienze, tra cui la conoscenza della natura in parti­ colare provocava la fama di mago, era la causa per cui tanti monaci, e persino vescovi, erano sospettati di alleanza col dia­ volo. » Si ricordi il mito del « Cenodoxus », del rinnegato « dottore di Parigi ». Ma alla dannazione eterna stabilita per contratto, stipulata attraverso questo patto col diavolo, nel caso dell’ebreo corri­ spondeva una dannazione molto più inquietante ancora, per­ ché non riducibile a una decisione volontaria individuale: l’eterna dannazione prestabilita, per così dire, dell’ebraismo e dei suoi seguaci. È vero che lo scultore del moriastero di Stra­ sburgo circondava la figura femminile della Sinagoga, costret­ ta alla cecità da una benda che le copre gli occhi, di un’aura di leggiadra afflizione, molto più commovente del personaggio superbo e sbruffone dell’Ecclesia militans; ma per i prìncipi e i cittadini, i contadini e i chierici del Medioevo e del rina­ scimento l’eterogeneità esteriore dell’esistenza ebraica, che fosse vista direttamente oppure soltanto rappresentata sulla base di voci, restava un segno esterno di dannazione. Anche Martin Lutero, che non era un umanista come Erasmo da Rotterdam o Giovanni Reuchlin, ma, al contrario, restava in­ ternamente avverso a un lassismo religioso di tipo umanistico, non aveva voluto cambiare in nulla questa situazione. Ciò che per i teologi e giuristi di Roma era stata la prassi conciliare antiebraica, nel catechismo evangelico era dedotto dalla lettera e dallo spirito del Nuovo Testamento: con risultati analoghi. Per di più era in causa la concupiscenza. Il sacro aveva sem­ pre avuto i più stretti rapporti contemporaneamente con la consacrazione e Pinfamia, la salvezza e la dannazione, la magia bianca e nera. L’uso linguistico francese del « sacré » ha con­ servato fino a oggi tale ambivalenza. 299

Ma la cupidigia e la concupiscenza erano evocate dall’esi­ stenza estranea e dannata dell’ebreo in due modi: come pos­ sesso dell’oro e come enigmatica bellezza femminile. Che una frase come « une belle juive » ancora oggi non sia pronun­ ciata in Francia senza emozione, quasi schioccando la lingua e roteando gli occhi, è stato constatato da Sartre nelle sue ri­ flessioni sulla questione ebraica. La letteratura, e soprattutto il teatro, pullulano di confronti tra una « bella ebrea » e l’innamorato non ebreo, che può essere imperatore o re o arti­ sta, ma è comunque attirato, in una maniera chiaramente so­ spetta, nella rete di una sensualità strana e perturbante, deve soffrire e fa soffrire. Si va dall’« ebrea di Toledo » di Lope de Vega o Grillparzer e dalla bella principessa ebrea Berenice di Racine fino all’ebrea Hanna Elias di Gerhart Hauptmann, che sconvolge i sentimenti del pittore Gabriel Schilling e lò spinge ad annegarsi. La bella ebrea e l’oro dell’ebreo: questi ingredienti sono indispensabili sia a Marlowe che a Shakespeare, anche se il dramma dell’ebreo di Malta viene indicato, nell’edizione po­ stuma del 1633, come « The Famous Tragedy of the Rich Jew of Malta », mentre il « Merchant of Venice » era inserito tra le commedie di William Shakespeare. Ma in entrambi i dram­ mi degli elisabettiani — e si può indurre che l’opera di Mar­ lowe fosse conosciuta dall’autore del Mercante di Venezia — sono stati utilizzati gli ingredienti di tutte le voci che circola­ vano intorno agli ebrei. Nulla è natura, tutto è leggenda e sen­ tito dire. Al punto che l’ebreo Barabba di Marlowe e lo Shy­ lock di Shakespeare sono stati privati con precisione di tutte le proprietà che avrebbero potuto creare una qualche comu­ nione, ancorché precaria, con il loro ambiente. Persino Am­ ieto, e Malvolio, persino l'uomo di colore, il moro di Vene­ zia: tutti sono integrati parzialmente in una società, e altret­ tanto si può dire del dottor Faust o del re Edoardo di Marlowe. Invece i due ebrei non significano altro che estra­ neità. Shakespeare fornisce Shylock di una maggiore concretezza ebraica di Marlowe, che non può precisamente usare di que­ sta concretezza. Antonio, il mercante di Venezia, aveva spu­ tato sul caffettano dell’ebreo, « my Jewish gabardine », come ricorda Shylock. Lancillotto Gobbo, servitore di Shylock vene­ ziano e falso, sa riferire alcune delle cose che l’ebreo fa a 300

casa propria, mentre Ithamore, lo schiavo che Barabba ha comprato sul mercato, non compie e riferisce altro che delitti, però non consente nessuna occhiata all’interno del mondo di questo Machiavelli ebreo incredibilmente ricco, il mondo di un vendicatore e di un vedovo. L’ebreo di Malta di Christopher Marlowe non mostra nes­ suna tragedia dell’esistenza ebraica, ma l’immoralismo di un uomo del rinascimento italiano e inglese: al di là delle reli­ gioni e delle morali. Un Cesare Borgia in caffettano. Il suo autore ha bisogno che l’eroe sia ebreo per due ragioni : per la struttura formale della tragedia, e per la concezione che essa esprime. Il « ricco ebreo di Malta » significa la situazione am­ bivalente di una ricchezza imponente, ma costantemente mi­ nacciata. Ciò che costituisce l’introduzione della tragedia: i turchi riscuotono dai cavalieri di Malta il tributo arretrato, gli ebrei di Malta devono fornirlo — oppure passare al cristiane­ simo, possibilità che deve essere scartata perché secondo la concezione di Marlowe significherebbe ipocrisia da parte dei cristiani, poiché il governatore cristiano conta sulla fedeltà degli ebrei alla loro religione, e quindi sulla legalità del suo intervento. È soltanto l’ebraismo, inteso sostanzialmente come elemento esteriore dell’azione, che mette in moto la vendetta di Barab­ ba, e quindi il cumulo di omicidi eseguiti con sottile astuzia e con piacere. Più importante è il secondo aspetto della trage­ dia ebraica, l’aspetto concettuale. Marlowe ha bisogno che Ba­ rabba sia ebreo per la struttura triadica del suo dramma, che si propone di essere un incontro delle tre confessioni. Malta presenta il contrasto tra il protettorato maomettano e i cava­ lieri cristiani. Si aggiunge l’ebreo: dapprima come membro della comunità ebraica, anche se potentissimo; ma poi i piani e le azioni di Barabba fanno sì che egli si privi di ogni soli­ darietà da parte degli ebrei. Il suo isolamento assoluto, persino dai suoi compagni di fede, è la premessa necessaria della soli­ tudine tragica che Marlowe vuole istituire: come solitudine che deriva dai due fattori isolanti dell’origine e della decisione. La concezione deWEbreo di Malta fa l’impressione di una preesistenza del « Nathan » di Lessing rovesciata in senso dia­ bolico. Nella parabola dell’illuminista borghese tedesco l’azio­ ne si svolge in Palestina, con il protettorato islamico, gli ebrei protetti, i crociati prigionieri. Tre confessioni che infine con­ 301

vergono in un’azione. La parabola dell’autore elisabettiano deve mettere in luce la funzione disintegrante dell’appartenen­ za ad una confessione religiosa in quanto tale. Non c’è un’uma­ nità comune che sormonti e abbracci le tre confessioni in lotta tra loro. Al contrario: l’ebreo, i cristiani e i musulmani sono uniti soltanto dalla comune disposizione ad una totale inu­ manità. Nessuna religione apre la prospettiva di una solida­ rietà umana: questo pare il senso del dramma di Marlowe. La coerente illegalità del fare e del patire di Barabba fa sì che egli sia l’incarnazione di un imperativo categorico dell’immo­ ralità, del « machiavellismo », così come lo interpreta Mar­ lowe: agisce come agirebbero tutti gli altri se fossero ridotti, come lui, ad una condizione di marginalità integrale. La sua esistenza di individuo ricco e di ebreo che vive a Malta rap­ presenta in maniera esemplare i principi di una legalità gene­ rale — « maltese ». Anche da questa tragedia, come dalla Tragical History of Doctor Faustus di Marlowe, spira un soffio di ateismo. La ter­ na delle confessioni non induce a risalire ad una « religione naturale » alla base di tutti i rivestimenti confessionali, come accadrà più tardi nella parabola lessinghiana dell’anello, ma è un indizio che allude a una segreta familiarità intellettuale dell’autore (che veniva ucciso in una bettola in un modo così equivoco — da un assassino prezzolato?) con le argomentazioni del misterioso trattato De tribus impostoribus, sui tre filibu­ stieri che hanno fondato le religioni ebraica, cristiana e mu­ sulmana, vale a dire Mosè, Gesù e Maometto. E quindi Barab­ ba non è il protagonista di una « storia tragica », come il dot­ tor Faust. La sua rovina è provocata da una singola azione di rinuncia al machiavellismo coerente. Ha introdotto segretamente i turchi a Malta; il governatore cristiano che gli aveva portato via le sue sostanze ora è suo prigioniero. Il principio che ha guidato finora l’azione chiederebbe che l’avversario fosse ucciso. Ma Barabba lo lascia in vita, e viene assassinato proditoriamente dal cristiano, che agisce esattamente nello stesso modo in cui ha agito l’ebreo di Malta. Il confronto delle tre religioni avviene all’insegna di una totale estraniazione. Dove non esiste nessun vincolo e ostacolo, impera il puro machiavellismo. L’autore del Principe apparteneva già al se­ colo di Marlowe. Era morto nel 1527, a Firenze. L’autore delVF.breo di Malta lo fa parlare nel Prologo. Fa apparire lo spi­ 302

rito del morto su un palcoscenico inglese: un suo temporaneo soggiorno a Parigi è stato concluso dalla morte dell'organizza­ tore cattolico della notte di San Bartolomeo, del duca di Guisa (a cui Marlowe aveva dedicato un altro dramma: The Mas­ sacre al Paris). Dunque ora Machiavelli è in Inghilterra: per presentare la storia di un ebreo. I come not, I To read a lecture here in Britain, But to present the tragedy of a Jew, Who smiles to see how full his bags are cramm’d; Which money was not got without my means.

Ma il prologo spiritico dà subito all'autore la possibilità di dire apertamente quello che si è proposto di dire. Se si fosse preso l’autore in parola (come sarebbe effettivamente accadu­ to), egli avrebbe sempre potuto spiegare che era stato soltanto Machiavelli a fare certe affermazioni. Come questa: 1 count religion but a childish toy, And hold there is no sin but ignorance. Birds of the air will tell of murderers past; I am asham’d to hear such fooleries.

Ma Barabba finisce come il don Giovanni di Mozart: con una decisa professione di fede nella propria legge di mostro, come ebreo che ha « deciso volontariamente » di condurre una mostruosa esistenza particolare. Then, Barabas, breathe forth thy latest fate. And in the fury of thy torments strive To end thy life with resolution.

Damn’d Christians, dogs, and Turkish infidels! 2

Marlowe aveva bisogno dell’outsider ebreo per poter dise­ gnare un mondo essenzialmente politico dove ogni elemento privato, persino la realtà effettuale del potere economico, ave­ va importanza soltanto come mezzo del potere decisionale: co­ me potere sulla vita e sulla morte. È vero che il ricco ebreo 3°3

di Malta fallisce — nonostante tutti i suoi piani — non appe­ na deve esercitare un potere politico, e non soltanto econo­ mico, cioè mediato. La legge fondamentale che sta alla base dell’esistenza della borghesia ebraica dell’Europa occidentale può già essere riconosciuta — alla luce dell’esperienza succes­ siva — in questa prima, possente rappresentazione dell’ebreo che s'incontra nella storia della letteratura europea. Barabba è un personaggio tragico. Per quanto possa fare ombra sulla lietezza di Belmonte, o addirittura minacciarla, lo Shylock di Shakespeare è stato inserito in una commedia. Se, come Lorenzo spiega a Jessica, a Belmonte, l’armonia delle sfere è stata prestabilita come musica delle cose, rientra in essa anche l’oscura armonia di Shylock: proprio come ne fa parte anche la melanconica esistenza di quell’antagonista di Shylock che incarna l’eros platonico, del Mercante di Venezia, che dà pur sempre il titolo a questa commedia di Shakespeare. I tratti caratteriali dell’ebreo di Malta non si possono chia­ mare ebraici. Il machiavellismo potrebbe anche essere attri­ buito ai cristiani o ai musulmani; è impensabile che egli parli apertamente e confidenzialmente con i suoi compagni di fede; non ama né la figlia Abigail né la fede ebraica. La figlia è uno strumento dei suoi piani e intrighi : Barabba le ordina di cam­ biare religione e di entrare in convento. Invece Shakespeare ha provvisto Shylock di molti requisiti della realtà ebraica. Reale è il .fatto che un Act of Parliament del 1552 anche in Inghilterra proibiva ai cristiani l’usura, men­ tre alcuni ebrei espulsi dalla Spagna e ammessi in piccolo nu­ mero potevano praticarla. Reale è anche il fatto che uno di loro, il dott. Lopez, insieme ebreo e medico secondo la famige­ rata mescolanza « faustiana », nel periodo londinese di Sha­ kespeare veniva accusato di aver progettato di avvelenare la re­ gina Elisabetta. È stato accertato che l’accusa era inventata. Lopez veniva pubblicamente torturato e impiccato.3 II personaggio teatrale di Shylock dimostra questa mescolan­ za di dicerie e di una realtà non compresa. Però sorprende la presenza di uria grande quantità di caratteristiche individuali e nazionali, in questo benestante ebreo e usuraio di Venezia. È orgoglioso della sua fede, disprezza i cristiani e là loro reli­ gione. Odia Antonio, in quanto cristiano e in quanto mercante veneziano che « lends out money gratis ». Il padre di Jessica frequenta gli altri ebrei di Venezia, non vuole demeritare nei 304

loro confronti. Il suo famoso lamento sulla nazione ebraica infamata davanti al fannullone e parassita Salarino (ni, 1) non è né machiavellico né egocentrico: è una lamentazione che esprime i sentimenti di tutta la comunità ebraica. L’odio di Antonio è un odio rappresentativo. « He hates our sacred nation » ο « Cursed be my tribe if I forgive him ». Egli, il vedovo, ha amato la defunta Lea e ha venerato profondamente il suo anello di turchesi che la figlia ha rubato per scambiarlo con una scimmia. Che egli amasse Jessica, che considera un « inferno » la casa del padre offeso e avido, è evidente. Sol­ tanto la maledizione e il tradimento della figlia fanno appa­ rire come una possibilità reale il rompicapo dello strano patto con Antonio, il singolare contenuto della « ricevuta » : ora è giunto il momento di vendicarsi di tutto in una volta sola. L'outsider su cui la società ha sputato, che è stato bastonato e imbrogliato in modo mostruoso si trasforma in un mostro « in sé e per sé ». In questo modo si compie una metamorfosi quasi insospettata: finora l’ebreo e usuraio del ponte di Rialto era quasi un ebreo qualsiasi. Ora diventa il mostro unico. Diventa Shylock. Ma in questo modo diventa V antagonista, per la vita e per la morte, di un altro uomo che non può pretendere di essere un veneziano e cristiano qualunque. Antonio è « a merchant of Venice » : un ricco mercante veneziano che guadagna molto con il commercio marittimo, ma — buon cristiano e citta­ dino ligio alla leggi di Venezia — impresta denaro senza inte­ ressi. È evidentemente un borghese che frequenta i nobili gio­ vani e prodighi. L’uomo che egli ama per lui è sempre « Lord Bassanio ». Anche il mercante di Venezia, sotto i suoi decenti panni bor­ ghesi, è un mostro che vive in solitudine e la diffonde intorno a sé. Borghese che regala denaro in mezzo a spensierati aristo­ cratici. Amico e innamorato di Bassanio, che deve aiutare gli amici giovani e leggiadri a conquistare le loro donne e fan­ ciulle. È sciocco chiedere come Shakespeare abbia potuto intitolare la sua commedia a questo personaggio che ha così poco « testo » e neanche una « scena importante ». Soltanto il confronto dei due isolati marginali Antonio e Shylock, che sono irrevocabili, per usare il termine di Sartre, e cioè privi di ogni possibilità di scelta e libertà di decisione, poiché l’uno non può cessare di essere ebreo, e l’altro non potrebbe « inver­ 3°5

tire i poli » del suo sentire e amare, consente la struttura del dramma, e anche la sua dimensione. Il mercante Antonio fa parte dei personaggi androgini del mondo della commedia di Shakespeare: come Orlando e Seba­ stiano o Patroclo. È un carattere lirico che appartiene alla sfera dei sonetti di Shakespeare. Un melanconico, ma per la stessa struttura della sua esistenza, non per moda cortigiana, come il Jacques di Come vi piace. Sua è la prima frase del dramma, che suona: « In sooth, I know not why I am so sad, » che Schlegel traduce: « Fürwahr, ich weiss nicht, was mich traurig macht » [In verità, non so che cosa mi rende triste]. I gio­ vani bellimbusti con cui si confida scambiano la tristezza con apprensione, la preoccupazione con la paura. Questo mercante teme per il ritorno delle sue navi! Già la prima costellazione dell’opera contrappone l’outsider con i tipi comuni, che sen­ tono e argomentano come tutti gli altri. Anche Antonio ha il suo momento di sincerità liberatoria, proprio come Shylock, che di fronte a Salarino si era rivelato apertamente, mentre davanti al tribunale, quando gli si chie­ dono le ragioni della sua richiesta, non lascia che il suo odio erompa liberamente, ma lo esprime soltanto in modo stilizzato e contenuto. Antonio aveva parlato apertamente nella lettera a Bassanio, dove Lord Bassanio era chiamato improvvisamente « Sweet Bassanio » e gli era ricordato il suo amore (anche i suoi debiti). Ora, quando tutto pare perduto, deve rinun­ ciare alla stilizzazione dei sentimenti, però rispettare lo stile di un rapporto dove « love » potrebbe significare tutto, o niente del tutto.

Give me your hand, Bassanio; fare you well! Grieve not that I am fallen to this for you; Commend me to your honourable wife: Tell her the process of Antonio’s end; Say how I lov’d you, speak me fair in death; And, when the tale is told, bid her be judge Whether Bassanio had not once a love.4 (iv, 1)

In un’importante analisi del Mercante di Venezia W.H. Auden 5 non ha soltanto interpretato Antonio e Shylock come 306

veri antagonisti, ma li ha anche contrappQsti entrambi, da pa­ recchi punti di vista, a tutti gli altri personaggi. E infatti attra­ verso l’antagonismo di questi due mostri altrettanto incurabili che reali il mondo arcadico di Belmonte viene insanabilmente e inevitabilmente disincantato. La musica diventa improvvi­ samente produzione di musicanti; i versi non possono distrug­ gere la miseria dell’ebreo e di colui che ama senza speranza; tutti i giuramenti di Lorenzo giocano con la mitologia e civet­ tano con i grandi infedeli: Cressida, Giasone, Enea, ma sono già infedeli. Sia Antonio che Shylock diventano guastafeste che disturbano la felicità di tutti. Entrambi sono esclusi dalla fe­ licità di Belmonte. Antonio vi compare sì, ma come para­ ninfo superfluo e segretamente ridicolo, come « amico pa­ terno ». Quando Bassanio, pretendente di Porzia, sceglieva la cassettina di piombo che gli donava la felicità, si affidava alla scritta: « Who chooseth me, must give and hazard all he hath. » (« Chi mi sceglie, deve dare e rischiare tutto quello che possiede. ») Scegliendo la cassetta di piombo, Bassanio aveva conquistato Porzia in certo modo con la superbia: come un individuo che per propria ammissione disprezza la febbre dell’oro della moltitudine come le monete d’argento del commercio quoti­ diano. Auden osserva giustamente che propriamente è ed è sta­ ta la comune caratteristica di Shylock e Antonio, quella di dare e rischiare contemporaneamente tutto, con la loro scelta: « In realtà Shylock rischiava tutto, sebbene involontariamente, allo scopo di distruggere l’odiato nemico, e Antonio, sia pure senza riflettere, rischiava tutto quanto aveva, firmando la rice­ vuta, per la felicità dell’amato Bassanio. » Auden conclude l’analisi con questa riflessione: « Ma proprio questi due non possono giungere a Belmonte. Belmonte vorrebbe far credere che gli uomini sono per natura buoni o cattivi, ma Antonio e Shylock ci dimostrano che è un’illusione. Nel mondo reale nessun odio è interamente giustificato, nessun amore è com­ pletamente innocente. » In Marlowe l’ebreo Barabba precipitava egli stesso nell’abis­ so che aveva destinato ai suoi nemici. È una sorta di discesa al­ l'inferno — suggerisce l’autore — che può ricordare la fine del dottor Faust. Ma a entrambi, ai machiavellici e a coloro che disprezzano la fede, resta l’appena celata, quasi manifesta sim­ patia del loro poeta. L’ebreo di Malta doveva impersonare 3°7

moke cose insieme: magia, solitudine della ricchezza, assenza di scrupoli dell’immoralista, esistenza mostruosa dell’outsider ebreo. L’ebreo Shylock di Shakespeare agisce in una sconsolata commedia,6 dove la sua oscura epifania rende anzitutto pro­ blematica ogni pretesa felicità degli altri, con i fattori che la compongono: bellezza, paesaggio, amore, musica. Anche il mercante cristiano Antonio di Venezia è un guastafeste, a Beimonte e per Belmonte. Si può provare a immaginare — poi­ ché l’opera è una commedia — come i due personaggi conti­ nuano a vivere, sopravvivono, tirano avanti. Non c’è comu­ nione tra i diversi, e meno che mai solidarietà. Nella commedia di Shakespeare il personaggio Shylock ha col suo antagonista Antonio lo stesso rapporto che c’è in Mar­ lowe, tra l’ebreo di Malta che precipita all’inferno e il re Edoardo innamorato del suo Gaveston che viene macellato in un modo atroce, ma non privo di comicità. Nel suo libro The Stranger in Shakespeare, che nelle sue quattro sezioni cataloga tutti i tipi di outsider che s'incontrano nel poeta, le donne, gli ebrei, i mori e gli outsider « selvaggi » (Gabbano), Leslie A. Fiedler non conclude la sua analisi con la morte di Shylock (poiché battesimo ed espropriazione signi­ ficano uccisione), ma con le atroci conseguenze dell’intricata storia nell’apparentemente così armonioso .Belmonte. Fiedler nega la serietà del discorso di Porzia sulla grazia, poiché Porzia mente quasi sempre. Per cui anche Shylock sta in guardia. Alla vendetta operata su Shylock segue la vendetta sulla vitti­ ma di Shylock, sull’amico e innamorato Bassanio. L’anello do­ veva legare Bassanio al merchant of Venise: « tentativo desti­ nato a priori a fallire, poiché per una lunga tradizione l'anello significa il matrimonio e la sessualità femminile ».7 Cosicché Antonio, con una solenne ritrattazione, deve infilare l’anello al dito di Bassanio: in modo che il diverso sposa l’amato, e resta infelicemente indietro. Per morire, come Shylock.

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HI ■ Nathan il Saggio e il masnadiero Spiegelberg

Antinomie dell’emancipazione ebraica in Germania Lè interrelazioni che esistono fra il protocapitalismo e il pu­ ritanesimo sono dimostrate con evidenza dal processo del ritor­ no di Shylock in Inghilterra: subito dopo la rivoluzione bor­ ghese del 1648. Quando il rabbino, stampatore e diplomatico Manasseh ben Israeli chiese a Oliver Cromwell di riammettere gli ebrei nella repubblica puritana del Lord protettore, addus­ se singolari argomenti e citazioni chiliastici, che fecero una forte impressione su Cromwell: la promessa messianica (Da­ niele, 12; 7) aveva predetto che gli ebrei sarebbero tornati nella patria palestinese soltanto dopo la più completa disper­ sione nel mondo. Ma poiché la nordica Inghilterra si era rifiu­ tata da tempo di diventare un elemento della diaspora ebraica, ritardava l’attuazione della promessa messianica. Questa tesi era sviluppata nello scritto di Manasseh The Hope of Israel, che usciva nel 1650 a Londra in traduzione inglese. Era stato preceduto da scritti di puritani come il segretario del Parlamento Edward Nicholas, che nell’anno in cui era de­ capitato Carlo I Stuart (1648) presentava, a Londra, wn Apo­ logy for the honorable nation of the Jews. Incominciava così una singolare letteratura estremamente « filosemitica » di trat­ tati e manifestini che si richiamavano disinvoltamente alla /fibbia per identificare il manifesto interesse per l’afflusso di capitali ebraici con l’adempimento dei comandamenti divini.1 Da questo momento Shylock cessava di essere un semplice personaggio artistico che il drammaturgo William Shakespeare aveva composto sulla base di dicerie e di elementi poetici, e diventava realtà inglese. Contemporaneamente poteva essere presentata un’interpretazione del tutto nuova, realistica della commedia del Mercante di Venezia e del suo antagonista ebreo. Senza sapere molto degli ebrei e delle loro cose, tanto che aveva dato all’ebreo Tubai un nome per niente ebreo, tut­ 3°9

tavia Shakespeare aveva creato un personaggio teatrale, abba­ stanza concreto da poter essere rappresentato in modo che d’o­ ra in poi poteva evocare gli ebrei che abitavano nella Londra dello Strand e dello Haymarket. Nella terza delle sue lettere dall’Inghilterra, il 2 dicembre 1775 Georg Christoph Lichtenberg riferisce di una rappresen­ tazione del Mercante di Venezia dove la parte di Shylock era recitata da Macklin, attore allora famoso e considerato pari a Garrick. Dalla descrizione si possono riconoscere due fatti : che la realtà aveva raggiunto soltanto allora la visione di Sha­ kespeare, e che appunto per questo l’illuminista borghese Lichtenberg era messo di fronte a tutte le contraddizioni che derivavano dalla mostruosa diversità degli Shylock reali in una Inghilterra reale. Lichtenberg avverte la scissione che esiste fra il suo credo illuministico e le sue sensazioni razionalmente non controlla­ bili, quando a teatro è ammaliato da Macklin che rappresenta la parte di Shylock, e non può negare che « ... vedere quest’e­ breo è più che sufficiente per ridestare nuovamente, nell’uomo più posato, tutti i pregiudizi infantili contro questo popolo. Shylock non è uno dei meschini, eloquenti imbroglioni che possono parlare per un’ora sulle virtù di una catena d’orologio d’oro (di similoro); è lentamente silenzioso, insondabilmente astuto, e quando ha la legge dalla sua parte è giusto fino alla malvagità. »2 Evidentemente questo spettatore si sente quanto mai lonta­ no dalla sfera del « meraviglioso » poetico, come usava dire nel secolo xviii. Shylock è realtà, realtà ebraica. Si può persino distinguere la sua dalla realtà di altri, ben noti tipi della vita quotidiana ebraica. Non era uno di quei rigattieri, venditori ambulanti e imbroglioni che erano fin troppo noti, non appar­ teneva al popolino ebraico. Questo Shylock è « lento », come dev’essere un gentleman, è anche « silenzioso » come lo sono, in Inghilterra, gli uomini d’affari cristiani importanti. Ma la sua manierata distanza è tuttavia contrapposta in modo com­ pleto al grande borghese normale, come Lichtenberg sente piuttosto che riconoscere esplicitamente. L’analogia delle for­ me di comportamento sociale rivela tanto più crudamente la totale divergenza che esiste fra lo Shylock londinese e i suoi interlocutori e antagonisti inglesi. Nel conflitto delle sue sensazioni e opinioni Lichtenberg 310

ripete precise formule caserecce. Dunque in lui sono nuova­ mente affiorati « pregiudizi dell'infanzia ». L’« uomo posato » a teatro si sorprende nell'atto di riprodurre improvvisamente l'orrore infantile per i tipi ebrei della fiera o della Judengasse. Non come avversione per questo notorio malvagio di Rialto, come si potrebbe pensare, ma « contro questo popolo », come Lichtenberg non dimentica di precisare. E cioè: Shylock significa sempre un popolo emarginato, escluso. Paura e ribrezzo dello spettatore, persino se egli vede davanti a sé, sulla scena, uno Shylock « nobile », che desta simpatia, per così dire sulla via della riabilitazione, secondo un’interpretazione che non è rara nelle attuali rappresenta­ zioni del Mercante di Venezia·, persino i facili sentimenti di compassione destati dal lamento di Shylock per Jessica non sono diretti su un singolo Iago o re Riccardo, ma su un po­ polo: su Shylock e sui suoi fratelli. Attraverso Shylock viene messa a nudo la seconda contrad­ dizione fondamentale dell’illuminismo borghese, accanto alla separazione dell’uguaglianza formale da quella materiale: la dialettica di origine e trasformazione. Se l’illuminismo vuole attuare veramente sul serio il principio di un’uguaglianza di tutto ciò « che ha un volto umano », deve allora accettare gli ebrei nella loro alterità, come popolo, in ciò che sono social­ mente diventati. Ovviamente, come fa capire lo stato di diritto borghese: nell’« ambito delle leggi generali ». Secondo cui sul banco degli accusati ci possono essere soltanto truffatori, ma non truffatori ebrei. La teoria e prassi dell’illuminismo, per cui si vuole risol­ vere il problema affermando l’istanza degassimilozione degli ebrei, nel senso di una rinuncia all’origine a favore della tra­ sformazione, della riduzione di un popolo nel caso peggiore a una « fede comune », ma se possibile a una fusione totale, com’era postulata anche dal giovane Marx nei suoi pensieri sulla Questione ebraica, ha soltanto rimosso questa contraddi­ zione dialettica, senza risolverla. Per cui Nathan il saggio non poteva diventare una ritrattazione di Shylock, ma soltanto di­ mostrare come anche la letteratura borghese più importante fosse incapace di rimuovere l’ebreo Shylock dalla coscienza di una borghesia europea illuminata. La reazione emotiva di Lichtenberg indica la ragione di questo fallimento. Che il tentativo di contrapporre al personaggio di Shake311

speare una figura letteraria antitetica potesse essere intrapreso proprio in Germania è logico. Nonostante tutti i pogrom e le espulsioni, in questo paese gli ebrei erano sempre rimasti una realtà, soprattutto a causa dei confini aperti verso Oriente e della pluralità degli stati. Nel suo discorso su Ebrei e tedeschi tenuto al Congresso Israelita Mondiale di Bruxelles del 1966 Gershom Scholem ha constatato: « Fino alla seconda metà del secolo XVIII, e in parte anche oltre, in Germania gli ebrei han­ no condotto sostanzialmente la stessa vita che conducevano gli ebrei in tutti gli altri paesi. Erano chiaramente riconosci­ bili come nazione, possedevano un’identità inequivocabile e dna propria storia attraverso i millenni... »3 Però due posizioni sociali estreme condizionavano l’immagine dell’ebreo nella coscienza generale dei tedeschi: gli ebrei di corte e i ricettatori ebrei. «Ma gli elementi economicamente più forti, quali apparivano nella figura del banchiere di corte ebreo, e i gruppi situati socialmente più in basso, che comu­ nicavano con l’ambiente tedesco, avevano a che fare con i tede­ schi in una maniera che in entrambi i casi metteva a repenta­ glio la vita. » (Scholem)4 In un Liber vagatorum stampato a Strasburgo nel 1558 si trova, in appendice, un Vocabularis in Rotwelsch, e cioè un vocabolario della malavita. Comincia con le parole « Adonis gleich Gott » e « Achelen-Essen ». Due espressioni ebraiche per l’uso linguistico più injmediato. E così, in netta antitesi con l’Inghilterra, in Germania il singolare « filosemitismo » del secolo xvn era ridotto a una disputa erudita di ordine teologico-filosofico priva di ogni con­ seguenza pratica, come non è difficile capire se si considerano i rapporti economici fondamentalmente diversi. Invece l’im­ magine dell’ebreo come realtà sociale era improntata alla tripartizione sociale : ebrei di córte, piccola borghesia del ghetto, impenetrabile malavita tedesco-ebrea. Questo schema ben noto e interiormente riconosciuto ha continuato a operare nella letteratura tedesca fino al liberalismo del secolo xix, fino al romanzo Soll und Haben di Gustav Freytag. Nella cosiddetta età del barocco non èra dominante, in Ger­ mania, il filosemitismo astratto, ma la solida ingiuria antise­ mitica. Un esemplare letterario amaramente comico è costi­ tuito dai Wunderbarliche und Wahrhaftige Gesichte Philan­ ders von Sittewald [Mirabili e veritiere visioni di Philander di 312

Sittewald] (1643) di Johann Michael Moscherosch. Consigliere militare ed ecclesiastico a Hanau, membro di una società lin­ guistica, l’autore ironizza sulla germanomania (Sittewald!). Figlio devoto della patria tedesca, Philander sostiene un’ideo­ logia chiaramente intesa alla restaurazione del Medioevo, dove compare il diabolico binomio del « Commissarius », e cioè del commerciante cristiano, e dell’ebreo.

Ein Kommissarius ohne Lohn Ein Jud ohn Spott, Meineid und Hohn Sind zwei Buben in einer Haut, Der dritt, der diesen beiden traut.5 Però secondo lo studioso dell’età barocca Curt von Faber du Faur sarebbe provato che Moscherosch, che pretendeva di discendere da una famiglia spagnola di antica nobiltà, falsi­ ficava il suo albero genealogico. La situazione è comica. In realtà si trattava invece di una famiglia ebrea, i Rosch (Testa), e cioè la famiglia di Mosche ha Rosch, più tardi cristianizzata in Alsazia; e Moscherosch non ignorava queste origini della sua famiglia. E quindi Faber du Faur constata con un certo sarcasmo: « Quest’origine dj Moscherosch è singolarmente in­ compatibile con il suo spiccato antisemitismo. Ma queste scis­ sioni in lui sono numerose, anzi, la contraddizione fra appa­ renza e realtà, fra esigenza etica e comportamento pratico ha finito per determinare la sua stessa natura; anche la sua germa­ nomania resta sempre un po’ forzata. »6 Un singolare caso di odio di sé ebraico in pieno secolo XVII, che fa in certo modo da pendant all’azione, all’inizio del xvi, dell’ebreo battezzato Pfefferkorn, contro il quale aveva prote­ stato un Johannes Reuchlin. La posizione marginale del po­ polo ebraico si manifestava continuamente attraverso le rea­ zioni tipiche che provocava, come affermazione razionale ma impotente del particolare non riducibile; come aggressività emotiva; come confusione dei sentimenti nel singolo che si trova esposto a questa esistenza particolare, ciò che può portare all’odio di sé, all’adattamento forzato, o anche all’accettazione della particolarità.

Nessuno scrittore tedesco dell’illuminismo nel senso più la­ to del termine si è impegnato con tanta coerenza intorno a 3l3

questa dialettica dell’Enlightenment, e senza che apparisse una scissione tra la sfera razionale e quella emotiva (come accade invece in Lichtenberg); nessuno ha lavorato con migliore vo­ lontà e con maggiore acume di Gotthold Ephraim Lessing. Ciò vale anzitutto per la sua commedia su Nathan il saggio. « Per riconoscenza per questo cantico dei cantici della tolleranza, » scrive Theodor Lessing nelle sue memorie, « parecchie fami­ glie Israelite della Prussia, di Hannover e della Baviera presero allora il cognome Lessing. »’ In che misura la commedia Nathan il saggio fosse interpre­ tata come un'incarnazione deirilluminismo, della tolleranza, dell’emancipazione ebraica, non solo in Germania, ma nelle vaste regioni dell'Europa orientale dove si usava conoscere e leggere il tedesco, è dimostrato non solo dalla disgrazia in cui cadeva quest’opera, e con essa anche, indirettamente, il suo autore Lessing, fra il 1933 e il 1945; subito dopo la fine della guerra reagivano con un atteggiamento opposto i responsabili delle quattro potenze occupanti e i direttori di teatro da loro nominati, e cioè forniti di certificato di ineccepibilità politica. Si rappresentava, in certo modo per purificare e riconsacrare la casa, l’opera tacitata per anni, con l’infausta parabola dei tre anelli. I primi a farlo erano gli uomini dell’amministrazione militare sovietica di Berlino, dove il « Deutsches Theater » di Max Reinhardt era per così dire purgato,con l’opera didat­ tica sulla « pura tolleranza.». Nelle altre regioni del Reich vinto e diviso si aveva la stessa idea, tutt’al più, a volte, con la variazione di sostituire Lessing con Goethe e ΓIfigenia in Tauride ; con un grossolano fraintendimento e dell’opera e del mo­ mento storico. Dietro la fama che Gotthold Ephraim Lessing — interrom­ pendo, per ordine del duca, gli Anti-Göze, e continuando la sua polemica8 con i mezzi del palcoscenico — conquistava con la sua commedia del saggio ebreo Nathan, il suo precedente tentativo di affrontare il tema degli ebrei doveva necessaria­ mente passare in secondo piano. La commedia Die Juden, che l’autore accompagnava con la nota « Composta nel 1749 » (dunque vent’anni prima), è tutt’altro che un’opera giovanile irrilevante, che oggi potrebbe essere discussa al massimo in un seminario di germanistica, e soltanto in considerazione dell’im­ portanza del suo autore. Vero è piuttosto che questo atto uni­ co, che il giovane scrittore aveva composto perché aveva ca3M

pito che ogni proclamazione illuministica doveva restare pura retorica, finché non veniva integrato il popolo estraneo di coloro che portavano il caffettano, imprestavano denaro, ven­ devano nelle fiere e ricettavano le merci rubate, va pili a fon­ do, sviluppa argomenti più perspicaci della commedia di Na­ than il saggio. Il giovane Lessing vede la vicenda come un rompicapo: senza investire ancora forti sentimenti personali. La conoscenza con Moses Mendelssohn avveniva soltanto nel 1754, e del resto era ampiamente condizionata appunto dalla commedia sugli Ebrei. Lessing ha dato alla sua commedia la forma di un atto unico: poiché si è reso giustamente conto che una situazione teatrale statica, non suscettibile di modificazio­ ne in seguito a una discussione razionale (un personaggio è ebreo, gli altri non lo sono, anzi, in larga misura sono antise­ miti dichiarati) deve essere presentata e dimostrata contempo­ raneamente, con un’unica azione, senza peripezie e azioni se­ condarie.’ Ê un atto unico e una commedia. L’ingenuità del dramma di Lessing deriva assai meno dalla mancanza di esperienza scenica che da un profondo fraintendimento della questione ebraica come tema centrale intorno a cui sviluppare la dialet­ tica dell’illuminismo. Sulla base di una concezione errata, il drammaturgo tratta la sua materia come se si trattasse di una eccezionalità mentale o emozionale nel senso dtdla commedia di carattere francese. Un avaro, un malato immaginario, un bugiardo, un misantropo o anche misogino, un topo di biblio­ teca o un letterato presuntuoso. A partire da Molière, la com­ media di carattere era solita annunciare già nel titolo il caso eccezionale dell’outsider, che era sacrificato all’ilarità generale e nel corso di un’azione predestinata, con domestici e came­ riere, personaggi ragionevoli e irragionevoli, doveva essere condotto a sacrificare le sue ubbie. Il giovane drammaturgo Lessing aveva proceduto così con il suo Freigeist [Il libertino], che era parimenti composto nel 1749.'° L’effetto finale degli Ebrei-si trova già, espresso quasi con le stesse parole, in quella commedia, che tratta ugual­ mente della contesa dei pregiudizi, ma contrappone .un liber­ tino « inautentico » a un religioso non meno inautentico, e cioè del tutto illuminato e tollerante. Il libero pensatore Adrast si vergogna di sé: « Cielo! se mi inganno sempre come mi sono ingannato con Lei, Theophan... » Se tutti i religiosi 315

fossero così imparziali! E quindi la replica di Theophan suo­ na: se tutti i libertini fossero così ragionevoli come il Signor Adrast! Negli Ebrei si dice: « Oh, come sarebbero rispettabili gli ebrei, se tutti assomigliassero a Lei! » Lo dice il barone anti­ semita. Il « viaggiatore » — anonimo — risponde: « E come sarebbero amabili i cristiani, se avessero tutti le Sue qualità! » Sotto queste parole non si cela soltanto uno schematismo illu­ ministico che vorrebbe infine sussumere tutti i casi particolari sotto un unico principio fondamentale. Diventa evidente un tratto estremamente personale di Lessing, il suo aristotelismo: come rifiuto di ogni atteggiamento mentale e psichico eccessi­ vo, come ritorno al giusto mezzo, a un « sia... che anche ». Ma il tentativo di dominare « analogamente » la problematica del libertinaggio e degli ebrei con l’aiuto di un comportamento eccezionale, mostrato dall’alto del palcoscenico, dei pretesi outsider, con il quale si dimostrerebbe appunto la possibilità che l’integrazione nella comunità diventi la «regola», — questo tentativo è sbagliato. La marginalità degli ebrei non è un’ubbia mentale, né, ancora meno, un’idiosincrasia emozio­ nale, analoga a quella che s’incontra ad esempio nel Misogino del giovane Lessing: nella società del tempo ha carattere esi­ stenziale, e quindi è insolubile. Dopo che il « viaggiatore », uscendo daH’anönimato, deve distruggere tutte le possibilità di matrimonio e di amicizia con l’unica frase: « Sono ebreo,·» la baronessa ignara, che lo ama, si limita a balbettare: « Oh, che cosa significa? » e la ca­ meriera deve subito istruirla: « Pst! Signorina, silenzio! Glie­ lo dirò poi, che cosa significa. » In effetti la cosa importa moltissimo. Non da ultimo anche sul piano della costruzione teatrale, poiché fa sì che questo allegro atto unico, che Lessing aveva erroneamente impostato secondo lo schema della commedia di carattere, termini per così dire « en queue de poisson » : il matrimonio, che era la conclusione obbligata della commedia, in questo caso è esclu­ so, poiché ci sono leggi che vietano formalmente non solo le nozze fra nobili e borghesi, ma anche e più che mai quelle tra ebrei e cristiani. In questo caso gli ingredienti della commedia dovevano necessariamente fallire. Invece l’illuminista speculativo Les­ sing svolge contemporaneamente un lavoro sorprendente. Ri­ 316

velando, involontariamente, quanto poco « gli ebrei » si la­ scino integrare in una comunità di altri casi eccezionali, l’au­ tore mostra d’altra parte con evidenza che ogni sforzo illumi­ nistico per emancipare gli ebrei deve distinguere fra il pregiu­ dizio generale contro gli ebrei che si alimenta della vista dei reali abitanti del ghetto, e il rigoroso postulato mentale di un’uguaglianza e parità generale di tutti gli uomini, quindi anche degli ebrei. Lessing non può pensare di portare sulla scena, come esempio e prova, il venditore ambulante ebreo che abita nel ghetto, per presentarlo come portavoce e reale rappresentante del perfetto amore umano, come accade nel caso del suo viaggiatore. Il conflitto viene acuito proprio dal fatto che Lessing cerca di minimizzarlo, riducendolo al caso di un « ebreo che non ha l’aspetto di un ebreo e non viene ritenuto tale ». Nella più recente ricerca lessinghiana è stato giustamente indicato il pa­ rallelismo che esiste fra gli Ebrei di Lessing e la parabola Andorra di Max Frisch.11 Nella commedia di Lessing: uno è ebreo, ma non viene ritenuto tale, e la cosa consente comiche complicazioni, che sono insolubili. In Frisch : uno non è ebreo, ma si crede che lo sia e viene trattato in conseguenza, con una conclusione letale. Nell’atto unico di questo giovane illuminista si trova an­ cora un’altra, sbalorditiva anticipazione: la sobria, positiva presentazione delle condizioni sociali date le quali soltanto po­ trebbe essere realizzato il postulato dell’emancipazione degli ebrei. Vale a dire la cultura e il possesso. Di conseguenza il viaggiatore diventa entrambe le cose; colto e ricco. Questo per­ sonaggio di Lessing rappresenta una prefigurazione dello Shy lock borghese del secolo xix. È un modello mentale dove sono già comprese tutte le successive contraddizioni sociali, in parti­ colare nel conflitto fra il padrone ebreo e il servo cristiano. « Dieci anni fa, quando qualcuno diceva che non si notava affatto che ero ebrea, tu replicavi: < Eh, altroché! > Era una cosa che mi faceva piacere; era sincerità. » Chi parla così è la moglie ebrea che compare in una scena di Terrore e miseria del Terzo Reich, nel suo monologo interno rivolto al marito « ariano ». Lessing evita tale chiarezza. La strada che Shylock e i suoi fratelli dovevano percorrere dal secolo xvm al xx, at­ traverso l’illuminismo borghese e l’antilluminismo, deve essere misurata a partire di qui. 3*7

Subito dopo la pubblicazione dei suoi primi scritti teatrali, tra cui Gli Ebrei, l’autore di quell’atto unico doveva convin­ cersi che il suo tentativo di ampliare la tematica della com­ media di carattere con il suo cliché della derisione dei pregiu­ dizi, in verità aveva toccato i confini deH’illuminismo borghe­ se, di quello tedesco almeno. J.D. Michaelis, professore di orientalistica a Göttingen, padre di Karoline Schlegel, collega di Lichtenberg, amico di Georg Forster, attivo fautore della ricerca sull’Arabia di Garsten Niebuhr, era certamente un illuminista come lo erano Les­ sing e Lichtenberg, era tutt’altro che un rappresentante dei pregiudizi e delle emozioni collettive della plebe. Tanto più seriamente deve essere giudicata la sua critica dell'atto unico di Lessing. Anche in questo documento, come nell’emozione provata da Lichtenberg davanti al personaggio teatrale di Shylock, si tratta dell’apparizione del mostruoso durante l’im­ presa dell’emancipazione degli ebrei. In una recensione delle commedie di Lessing (apparsa sulle « Göttingische Anzeigen von gelehrten Sachen »), che in gene­ rale le giudica insolitamente riuscite, Michaelis discute so­ prattutto il personaggio del viaggiatore ebreo. Naturalmente non gli sfugge il fatto che anche qui Lessing si è ispirato a un modello letterario; non più all’opera teatrale di un altro auto­ re, ma, tanto per cambiare, a un romanzo che allora aveva grande successo e strappava molte lacrime, Das Leben der schwedischen Gräfin von G... [La vita della contessa svedese di G...] di Ghristian Fürchtegott Geliert, che Lessing aveva letto ancora a Lipsia, dove il libro era uscito nel 1746-48; solo un anno prima della commedia Gli Ebrei. Anche nel libro di Gel­ iert, in mezzo a circostanze estremamente avventurose e anche improbabili, era descritto l’umanità esemplare di un nobile ebreo che si trovava in un campo di prigionieri della lontana Siberia. Michaelis non esita, nella sua recensione su Lessing, a sollevare contro entrambi, Geliert e Lessing, l’obiezione di avere piuttosto nociuto che giovato alla causa dell’universale amore umano, con la loro eccessiva idealizzazione. Quando, nel 1754, Lessing si accinge a replicare in modo ampio e det­ tagliato, non può fare a meno di citare le obiezioni di Michae­ lis; per poterle confutare. Anche il tono di Lessing è amiche­ vole, confidenziale, quasi cordiale: il professor Michaelis è uno spirito affine, non è il professor Klotz o il pastore Goeze. 318

Michaelis aveva obiettato: « Il viaggiatore ignoto in tutte le scene è così perfettamente buono, nobile, preoccupato di fare torto al suo prossimo... che non è impossibile, ma troppo improbabile, che in un popolo con questi principi, questi co­ stumi e questa educazione, e che in realtà l’ostilità dei cristia­ ni deve colmare anche troppo di avversione, o almeno di un senso di freddezza nei loro confronti, possa formarsi in certo modo da solo un animo così nobile. Questa improbabilità di­ sturba tanto più il nostro piacere, quanto più desideriamo che l’immagine nobile e bella sia vera e reale. Ma anche la virtù e onestà mediocre si trova così raramente in questo popolo, che i pochi casi non diminuiscono l'odio contro di esso tanto quanto si desidererebbe. » Lessing cita tutto per esteso e onestamente,12 quando decide di rispondere, sulla rivista « Theatralische Bibliotek », nel 1754. Riteneva che il testo Über das Lustspiel « Die Juden », im vierten Theile der Lessingschen Schriften [Sulla commedia « Gli Ebrei », nella quarta parte degli scritti di Lessing] fosse abbastanza importante da essere accolto, più tardi, nelle Opere Complete. L’argomentazione affronta i due punti della critica di Michaelis: insufficiente concretezza del personaggio del viaggiatore, e improbabilità interna. Quanto alla verosimi­ glianza, Lessing replica citando una lettera che un ebreo ha scritto a un altro ebreo a proposito di quella commedia: il do­ cumento dimostra che « ci sono e ci possono essere ebrei come il viaggiatore ». La lettera era autentica. Moses Mendelssohn l’aveva mandata al medico Aaron Samuel Gumpertz di Ber­ lino. Più importante è l’argomentazione di Lessing circa la possi­ bilità che nelle condizioni di vita date un ebreo diventi un filantropo del tipo del viaggiatore. Qui intervengono gli argo­ menti della proprietà e della cultura. Lessing non può certo negare che gli ebrei si trovano in uno stato di « disprezzo e oppressione », e che le leggi impediscono loro di vivere di altro che del commercio. È dunque improbabile liberarsi da questo stato e mostrare modi di comportamento come quelli (lei viaggiatore degli Ebrei? Lessing risponde: « Sia: non con­ segue dunque necessariamente che l’improbabilità viene a ca­ dere, non appena queste circostanze cessano di provocarla? » È già il tipo di argomentazione di Nathan il saggio (e di molti pensatori ebrei) e di Lessing: preparare la risposta a una do3‘9

manda attraverso una controdomanda. Ma a quali condizioni un ebreo potrebbe sollevarsi al di sopra della miseria dell'esi­ stenza di tutti gli ebrei? La risposta di Lessing a Michaelis rivela già, nel 1754, tutte le caratteristiche deH’illuminismo borghese che si affermerà più tardi in Germania: rinuncia a soluzioni generali a favore del caso individuale: orientamento sull’alta borghesia: allean­ za fra il ceto superiore benestante e quello intellettuale. Ciò si esprime nel modo seguente: « Ma che cosa è più necessaria, a questo scopo, della ricchezza? Certo, anche il giusto uso di questa ricchezza è necessario. Ora si veda se nel carattere del mio ebreo non ci sono entrambi questi requisiti. È ricco; dice di se stesso che il dio dei suoi padri gli ha dato più di quanto gli occorra; lo faccio viaggiare; sì, lo libero persino da quell’ignoranza che gli si potrebbe forse attribuire: legge, e anche in viaggio non rimane senza libri. » Fa parte del concetto di cultura di Lessing e degli illumi­ nisti europei, credere che i libri debbano essere in larga mi­ sura opere di letteratura amena, se devono creare una cultura borghese. Per cui il servo del viaggiatore ebreo, zotico ma cri­ stiano, si beffa del pesante bagaglio di libri di amena lettura. La conseguenza? Come accade nel caso di quel viaggiatore, la ricchezza e la cultura possono emancipare anche gli ebrei dalla sfera dove incontrano soltanto pregiudizio e oppressio­ ne. Buon conoscitore degli ebrei, Lessing crede di poter arri­ schiare questa conclusione: « È vero che per credere questo bisogna conoscere gli ebrei più davvicino, senza limitarsi alla marmaglia che si aggira per le fiere. » Viene postulato lo Shylock borghese: come compito di una emancipazione individuale. La possibilità ovvia, che Michae­ lis giudica negativamente, di cambiare la legislazione sugli ebrei, e quindi suggerire agli ebrei nel loro complesso altre attività sociali, non viene in mente né al professore e illumi­ nista di Göttingen né al suo interlocutore, all’autore degli Ebrei. Come sarebbe stato facile, dal momento che la stessa emancipazione formale e giuridica avvenuta nel corso della Rivoluzione francese risultava un’unione di equiparazione giuridica degli ebrei e necessità economica per gli ebrei di assolvere alla funzione economicamente indispensabile del commercio e dell’economia finanziaria. Anche i re polacchi e gli zar russi non avevano appoggiato l’immigrazione degli

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ebrei per attirare nel paese nuovi maestri di bottega o grossi contadini, ma per attirare un capitale facile'da prendersi, che sarebbe stato a disposizione senza quelle difficoltà che una borghesia cittadina benestante autoctona avrebbe creato. Se dalla parte degli illuministi tedeschi la fiducia nel be­ nessere e nella cultura corrispondeva alle premesse generali del razionalismo, che non poteva dubitare di riuscire a supe­ rare le antitesi generali di pregiudizio e convinzione razionale anche nel caso dell’esistenza ebraica, singolare e così enigmalira, retrospettivamente gli impulsi ebraici al l’emancipazione si rivelano come un'ambivalenza di speranza e paura. Il sioni­ sta Jochanan Bloch ·’·’ ha analizzato le premesse mentali con una durezza quasi crudele, ma non senza esattezza storica. Si è partiti dalla tesi di una ragione capace di conciliazione e che alla fine deve condurre alla meta, « anche se ci possono essere deviazioni, che derivano dallo strato sensibile-caotico e irrazio­ nale ». In effetti questa argomentazione può essere ritrovata non solo negli Ebrei, ma anche, espressa in modo molto più ampio ma analogo, in Nathan il saggio : il dialogo razionale del sultano, dell’ebreo ricco e saggio e del nobile templare che è insieme cristiano e musulmano, orientale e tedesco, rende possibile la tolleranza e la felicità materiale. Restano escluse dall’alleanza l'ortodossia del patriarca e la semplicità della domestica Daja. Jochanan Bloch sa replicare: « Questa fede disdegna la du­ rezza dei contrasti. D'altro lato è razionale, e razionale signifi­ ca accomodante e moderata. Quindi crede nell'evoluzione, non vuole la rivoluzione, e le manca ogni istinto per il sopravve­ nire della catastrofe e la sua fatale necessità. Però con tutta la sua modestia è superba nei confronti della dimensione della concretezza, di cui non dispone. A suo onore occorre dire che questa superbia nasce dalla paura. » Questo modo di parlare può dispiacere. L’argomentazione non ha neanche, con la «concretezza», una familiarità incondizionatamente mag­ giore di quella che avevano con essa quegli ebrei che segui­ vano Moses Mendelssohn nella rinuncia —r voluta in una mi­ sura sempre più totale — alla nazionalità ebraica a favore di quella tedesca. Che oggi l’alternativa abbia i nomi di Ausch­ witz e Israele, non deve indurre all’errore di credere che nel secolo win si presentasse per gli ebrei tedeschi un'alternativa reale, « concreta » fra V emancipazione tedesco-borghese e il 321

messianismo ebraico. Le fantasie di Moritz Spiegelberg nei Masnadieri di Schiller (di cui dovremo ancora discutere} non offrono affatto un’alternativa alla tolleranza predicata da Na­ than e da Lessing. Però già nell’anno della pubblicazione (1779) una lettura accurata del poema drammatico Nathan il saggio avrebbe per­ messo di riconoscere — al di là di ogni musicalità e umanità — la fragilità delle premesse filosofiche e sociali.’4 Anche Nathan è insieme ricco e colto: come quel giovane viaggiatore dell’atto unico del giovane Lessing. Piena di pre­ giudizi, Daja si stupisce che la popolazione israelita parli an­ zitutto della saggezza di Nathan, e non del « ricco Nathan », e il templare, (allora ancora) pieno di pregiudizi, osserva sar­ casticamente:

Seinem Volk ist reich und weise Vielleicht das Nämliche.15 (i, 6)

Ricchezza e saggezza fanno di Nathan il partner del sultano e del templare. Ma forse soltanto superficialmente? Nell’apo­ teosi operistica della conclusione, dove tutti appaiono parenti di tutti, un’umanità riunita sotto il sole della ragione, Nathan esce a mani vuote. Non è parente di nessuno. sultano e Sittah, Recha e suo fratello: sono tutti congiunti da rapporti di san­ gue, tra l’Oriente e l’Occidente. L’ebreo Nathan è un amico, gli si è grati, sarà sempre il benvenuto, però resta un outsider: come Shylock a Venezia. La struttura drammatica di questo « poema » scritto per il palcoscenico si presenta — per quanto sorprendente la cosa possa apparire — come un pendant positivo alla tripartizione della religione nell’Ebreo di Malta di Marlowe. L’ebreo Ba­ rabba di Malta aveva unicamente la funzione di adattare an­ che la terza delle note religioni del mondo al totale sospetto di ideologia dell'ateo Marlowe. Prescindendo dalle dicerie, non doveva presentare caratteristiche tipicamente ebraiche. Anche il Nathan di Lessing è in larga misura un’astrazione; solo il famoso racconto del pogrom (iv, 7) collega questa esi­ stenza alle condizioni di vita degli ebrei; per il resto Nathan rappresenta l’illuminismo in generale, non una sua speciale edizione ebraica. Le sue domande e controdomande dialetti­ che sono una caratteristica espressiva che egli condivide col 322

suo autore Lessing. Soprattutto — ciò che è connesso con la concezione fondamentale dell’opera — Yebràismo di Nathan non è interpretato come nazionalità, ma come religione. Ne deriva una petizione di principio: all’inizio dell’emancipazione illuministica degli ebrei Lessing anticipa già l’auspicabile risultato, nel personaggio di Nathan. Nathan è ancora un ebreo soltanto per la sua religione, e questa religione la ritiene egli stesso casuale e permutabile.

Wir haben beide Uns unser Volk nicht auserlesen. Sind Wir unser Volk? Was heisst denn Volk? Sind Christ und Jude eher Christ und Jude, Als Mensch? 16 (n, 5). Saladino spiega:

Ich habe nie verlangt, Dass allen Bäumen eine Rinde wachse 17 (iv, 4). Ciò che agli occhi del templare fa sembrare cristiano il mo­ do di agire di Nathan, lo stesso Nathan lo sente come espres­ sione di un’etica ebraica. Questa sostituibilità che si considera tolleranza, tolleranza pura, è unita solo nel comune scetticismo del sultano, del ca­ valiere crociato e dell'ebreo ricco e saggio nei confronti delΓimportanza sociale delle religioni positive. Proprio questo significa' la parabola dell’anello. Proprio per questo il dram­ maturgo Lessing deve scegliere una forma che si destreggia molto abilmente fra la realtà e la possibilità. Il poema dram­ matico sul saggio Nathan è contemporaneamente una favola e una parabola. È vero che nella sua interpretazione Günther Rohrmoser ha affermato: « Per Lessing la tolleranza è un con­ cetto agonistico, che gli permette di superare una situazione di sterilità teologica e trasformarla nel senso della produttività religiosa, »'8 però le posizioni di Nathan e dei suoi interlocu­ tori nel dramma non giustificano questa tesi. Ma Rohrmoser ha ragione, quando osserva, a proposito della struttura dram­ matica di Nathan il saggio: « Solo in un’organizzazione unita­ ria creata dalla forma della poesia drammatica la favola può conservare il suo carattere di realtà; se invece la si considera 323

come staccata dalla sua funzione, viene fuori il suo carattere di parabola, di possibilità. »*’ Ma persino nell’abile, audace tentativo di Lessing, di pre­ sentare ciò che dev'essere ancora compiuto come se fosse già stato compiuto, di far apparire l’anticipazione come una real­ tà, ci sono continuamente cenni alle difficoltà dell’impresa, che non provengono solo dall’incomprensione plebea di una Daja o dal pregiudizio del patriarca, ma dal conflitto fra la ragione e l'interesse individuale. Un esempio terrificante è offerto dal templare. Aveva stretto con Nathan il patto della tolleranza, ora apprende, in seguito a fraintendimenti e intrighi, che Na­ than ha agito a suo danno. Er ist entdeckt. Der tolerante Schwätzer ist entedeckt! Ich werde hinter diesen jüd'schen Wolf Im philosoph’schen Schafpelz Hunde schon Zu bringen wissen, die ihn zausen sollen! 20 (iv, 4)

Chi leggendo o ascoltando questo passo non inorridisce, alla luce dell’esperienza successiva, ma intona fedelmente l’a­ ria della parabola dell’anello, sminuisce il tentativo generoso — e vano — di Lessing, di liberare Shylock, nella figura di Nathan, dall’eccezionaiità della sua vita, con l’aiuto del benes­ sere e di un colto umanesimo, trasformandolo in un individuo come tutti, che si limita a praticare una religione un po’ anti­ quata, ma venerabile. Allora la tolleranza pura si converte effettivamente in una tolleranza repressiva. Nella fiaba didascalica Nathan il saggio è volutamente esclu­ sa ogni concretezza sociale, in quell’ambivalenza di realtà e possibilità. Ci si ritrova tra persone ricche, che evidentemente praticano la tolleranza solo tra i loro pari. Herbert Marcuse 21 ha parlato delle « background limitations of tolerance », che nel processo sociale trasformano ogni tolleranza « pura » in uno strumento repressivo di dominio finché la tolleranza non può essere praticata indistintamente e con la stessa efficacia dai « dominanti come dai dominati, dai padroni come dai conta­ dini, dagli sceriffi come dalle loro vittime ». Anche qui, come nella lietezza fiabesca della Minna von Barnhelm, come nel disegno teoreticamente e praticamente sbagliato della Dram­ maturgia di Amburgo, la grandezza di Lessing sta nella neces324

sita del suo fallimento. Ha concepito l’emancipazione ebraica come irrinunciabile elemento deH’illuminismo. universale. In (pianto intendeva anche questa liberazione ed equiparazione come conseguenza della cultura e del possesso, da un lato ve­ niva bensì incontro ai bisogni dell’evoluzione capitalistica, ma d'altro lato fondava la tolleranza su un postulato dell’intol­ leranza, dal momento che per Shylock e i suoi fratelli l’equi­ parazione era pensabile solo a prezzo di una rinuncia alla na­ zionalità: in fondo, a quella particolarità esistenziale all’in­ terno della società europea che data dall’inizio dell’era cri­ stiana. Lo sviluppo storico ha contraddetto Lessing: la sua separazione di realtà e dicerie negli Ebrei, come la sua conce­ zione di una interscambiabilità delle religioni sotto il segno di un colloquio razionale fra benestanti e signori (Nathan il saggio). Ma Shylock non incarna un problema religioso, ma sbarra la strada, insieme ai suoi fratelli, aH’illuminismo bor­ ghese. Non si risolve o fonde nell’« umanità » di Lessing b di Kant. Rappresenta una relazione d’indeterminazione, per ogni illuminazione formale. Con un singolare, ma suo peculiare disconoscimento della drammaturgia lessinghiana del compromesso, di una tolle­ ranza generale, unita all'espediente dell’anticipazione, Frie­ drich Schiller 22 ha biasimato il poema drammatico di Nathan il saggio, che ha interpretato come una tragedia fallita. Nel suo saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale osserva sprezzante­ mente: « Qui la natura gelida della materia ha raffreddato tutta l’opera d’arte... Senza mutamenti molto essenziali sareb­ be stato difficilmente possibile trasformare questo poema drammatico in una buona tragedia; ma con mutamenti pura­ mente accidentali, esso avrebbe potuto fornire una buona commedia. » È evidente che Schiller non capisce qual è la vera intenzio­ ne di Lessing. La forma teatrale, dice, si adatta soltanto al dramma, però Lessing, come poeta tragico, ha avuto « il tic­ chio... di elaborare... una materia teoretica ». Che Schiller giudichi il Nathan una tragedia che l’autore non è riuscito a realizzare è un fatto che in se stesso dice qualcosa solo a pro-· posito della poetica di Schiller. Più interessante è la distanza (ronologica fra l’uscita del Nathan (1779) e la composizione del saggio di Schiller, nel 1795. 325

Non sono passati neanche vent’anni, anche se in questo periodo sono comprese tutte le fasi della Rivoluzione francese, dell’assalto alla Bastiglia fino a Termidoro. In questo inter­ vallo di tempo è evidentemente avvenuta la trasformazione di uno dei nuclei deH’illuminismo borghese, e cioè dell’emancipazione degli ebrei, in un fenomeno interessante soltanto sul piano estetico. Schiller — come anche altri — considera il Nathan unicamente come un « argomento teoretico ». Come un tema poco adatto alla rappresentazione drammatica: ina­ datto alla tragedia, utilizzabile al massimo in un commedia, ma non senza cambiamenti formali sostanziali. Questo processo di estetizzazione non può essere interpre­ tato come una risposta individuale di Schiller a Lessing: si tratta invece di una nuova testimonianza di carattere sociale. Il deismo di Lessing diventa obsoleto per colui che ha letto la Critica della ragion pura. Ma l’equiparazione giuridica e (no­ nostante tutto chiaramente anche) sociale degli ebrei in Fran­ cia era già stata compiuta nella fase iniziale della Rivoluzione: con l’approvazione di Schiller. In questo modo l’argomento aveva perso la sua sostanza propriamente tragica. La capacità di riflessione storica non era la migliore prerogativa dello storico Schiller. Anche le sue considerazioni storiche erano solitamente intralciate dal suo gusto per gli argomenti tragici. Però nel caso di Nathan il saggio ciò era tanto più strano, in quanto proprio Schiller ai suoi esordi non si era mostrato af­ fatto indifferente di fronte alle particolari caratteristiche del­ l’esistenza ebraica nella Germania del tempo. Il critico di Les­ sing e del suo poema drammatico aveva scritto egli stesso un dramma dove aveva sperimentato la fecondità di un confron­ to tra la « mostruosità » ebraica e la società cristiana. Il tentativo (cifrato, ma inequivocabile) del giovane Schil­ ler, di contrapporre, nei Masnadieri, Moritz Spiegelberg sia all’Ancien Régime che al movimento di protesta dello Sturm und Drang, può essere interpretato come rappresentazione let­ teraria dell’alternativa ebraica al Nathan·, come antitesi del messianesimo ebraico dell’esigenza di emancipazione dell’illuminismo borghese.23 Che Moritz Spiegelberg, il solo dei masnadieri a essere pre­ sentato con nome e cognome, sia caratterizzato da una « to­ 326

nalità ebraica », secondo la formulazione di Gerhard Storz,2* è un fatto inequivocabile: i tentativi stranamente apologetici intrapresi dalla ricerca precedente per negarlo non reggono, se si legge esattamente il testo, anche e soprattutto con l’aiuto del « Manoscritto soppresso » (conservato per caso), che conte­ neva la versione originaria della prima scena fra Karl Moor e Moritz Spiegelberg. Moritz era considerato un nome tipica­ mente assimilato, poiché contemporaneamente evocava il ri­ cordo del nome originale Mosche o Moses. Nell’architettura molto equilibrata dei Masnadieri, dove c’è un preciso rapporto fra Kosinsky e Karl Moor, fra Spiegel­ berg e Franz Moor, il personaggio singolarmente impenetra­ bile di Moritz — è difficile determinare la sua posizione so­ ciale e religiosa, e il suo mondo mentale più che mai — non si adatta a nessuna delle relazioni prestabilite. Nella prefazione definitiva alla sua opera teatrale Schiller parla per due volte dei tre nomini eccezionali che non si rivelano « neanche al più acuto conoscitore dell’anima umana nel giro di ventiquattr'ore ». È vero che poi l’autore analizza più diffusamente sol­ tanto due di loro: Franz e Karl. Chi è il terzo « uomo eccezio­ nale » dell’opera? Può essere soltanto Spiegelberg. Anche qui il giovane autore evita una maggiore precisione. Mentre nella prima edizione del dramma il primo dialogo fra Karl e Moritz in quella « taverna ai confini della Sasso­ nia » contrappone Karl, che impersona lo Sturm und Drang, al « secolo scribacchino », mentre Spiegelberg si limita a intervenire con interiezioni e repliche scurrili, fa più la parte del buffone che quella di un vero antagonista spirituale, in­ vece nella redazione originale la situazione è esattamente op­ posta.25 Spiegelberg impegna con l’oste un orologio rubato, fa servire vino ungherese, incomincia a bere con Karl, ma fin dall’inizio si accumulano i motivi biblici, soprattutto del Vec­ chio testamento, come altrettanti impulsi che determinano il movimento drammatico della scena: dalla « scritta scaraboc­ chiata » sulla parete della taverna, che parla del figliuol progido, e dal motivo del biblico Tobia, fino alla grottesca descri­ zione, da parte di Spiegelberg, di un nuovo stato israelita: « Vogliamo nuovamente raccoglierli nella valle di Giosafat, scacciare dall’Asia i turchi e costruire nuovamente Gerusalem­ me. Tutti i vecchi costumi devono essere nuovamente staccati dall’attaccapanni. I pezzi dell’arca dell’alleanza sono nuova327

mente incollati insieme. Il Nuovo testamento viene espulso. Si aspetta ancora il Messia, o tu, o io, o uno dei due... »“ I.a risata di Karl viene interrotta, Spiegelberg parla sul se­ rio. « Ti mettiamo una tassa sulla carne di maiale, può man­ giarla chi paga, e deve tirar fuori un sacco di soldi. Nel frat­ tempo ci facciamo abbattere i cedri del Libano, costruiamo una flotta e vendiamo fibbie e fermagli, tutta la popolazione. » Karl Moor ha subito capito che l’ambigua frase sul futuro Messia, per di più espressa con una frase jiddisch — o tu, o io, o uno dei due: Spiegel dice anche, un’altra volta, con quello stesso accento: « Oh, perché non sono rimasto a Gerusalem­ me? » —, non poteva significare un’alternativa, ma evocava il Messia Moritz Spiegelberg. Per cui risponde seccamente: « Bella nazione! Bel re! » È un dialogo tra sordi. Il mondo culturale e iconico dei due goliardi, del figlio del conte e di Moritz, che forse è stato bat­ tezzato, ma comunque è già stato « mirabilmente circonciso preventivamente », è fondamentalmente diverso. Moor si ri­ chiama ai grandi uomini di Plutarco, al Satana ribelle del Pa­ radiso perduto di Milton, ai classici ribelli del mondo antico e del rinascimento, secondo la concezione del tempo: Catilina e Cesare Borgia. Il diavolo di Spiegelberg non è l’avversario di pari rango che compare nella poesia della rivoluzione ingle­ se, è soltanto il diavolo con le corna e gli zoccoli di caprone della superstizione popolare.27 I suoi sogni sono orientati sul passato: vuole creare nuovamente i regni biblici di Israele e di Giuda, nella valle di Giosafat, ma, con una peculiare me­ scolanza di, chiliasmo e realismo politico-economico, inserisce nel suo calcolo i turchi, misure giuridiche e militari. Infine il piano per l’unione dei compagni in una banda di briganti nasce proprio dal cervello di quest’uomo sorprendente, a cui Schiller attribuisce molte proprietà ebraiche, però senza essere mai chiaro ed esplicito, neanche nella seconda edizione. Nel suo studio ebraico-germanistico su Lo strano caso di Moritz Spiegelberg, il germanista americano Philip E. Veit ha considerato la funzione svolta da questo messianesimo ebraico in un’opera teatrale 28 che a tutti i livelli rielabora continuamente, accanto al fenomeno fondamentale della rivolta e del­ l’eccesso libertinistico deH’illuminismo, idee teologiche che derivano dal circolo di Albrecht Bengel. Ma in queste idee teologiche del Settecento tedesco la concezione di una reden328

zione insieme cristiana ed ebraica occupa uno spazio notevole. In queste visioni che devono essere intese in un senso senz’al­ tro reale e sociale, cosicché segrete corrispondenze legano il pastore Moser con il capo dei briganti Moor, sono esclusi dal­ la comunità spirituale (se si prescinde dalla caricatura del par­ roco cattolico) soltanto Franz Moor e Spiegelberg. Il libertino ateo e fendale e l’ebreo chiliastico. Spiegelberg è tutto fuorché una caricatura. Veit ricorda i modelli di ebrei avventurieri, illuminati, anche capibanda del secolo xvm, anche e in par­ ticolare nella Germania meridionale. L’avventuriero messia­ nico Jakob Frank, che aveva molto successo sia tra i cristiani che tra gli ebrei, moriva soltanto nel 1791, a Offenbach.29 Karl Lessing, fratello di Gotthold Ephraim, alludendo evidente­ mente a Frank ricorda tali « fantasticherie di un ebreo po­ lacco », in una lettera del 26 ottobre 1769.30 Spiegelberg non è una caricatura, ma un personaggio carat­ terizzato dal conflitto fra audacia speculativa e paura fìsica, fra la parità che esiste fra tutti i membri della compagnia, con il figlio del conte e i Roller o gli Schweizer cristiani, e la parte di buffone che l’outsider folle recita spontaneamente e invo­ lontariamente. Il suo chiliasmo vive di nostalgia, del desiderio di un ritorno a Gerusalemme e di una restaurazione del pas­ sato più antico; ma che cosa vi si farà dopo la vittoria? « E si traffica con fìbbie e fermagli, tutta la popolazione. » Se almeno il libertino fallito e poi masnadiero fosse seria­ mente fissato con questi rompicapi di un ritorno del messia­ nesimo ebraico! Ma come oscilla fra i libri, le religioni, le po­ sizioni sociali, così oscilla anche fra gli eccessi del messianesi­ mo e quelli dell’assimilazione borghese. I sogni di Spiegelberg non toccano soltanto la funzione di redentore in Oriente, dove si pensa chiaramente a un Messia per i cristiani e per gli ebrei, poiché il Nuovo testamento viene « espulso ». Contemporanea­ mente sogna la supercarriera di consigliere ebreo dei potenti nel mondo occidentale: « E < Spiegelberg! > si dirà a est e a ovest, e giù nel fango voi, vigliacchi, voi, rospi; mentre con ali spiegate Spiegelberg volerà fino al tempio dell’immorta­ lità » (i, 2). Viene qui suggerita una doppia successione, che sarebbe pensabile solo come un « aut-aut ». Nel secolo xvn e nel xvm gli corrispondono le due infelici figure degli ebrei Sabbatai Zewi e Süss Oppenheimer. Spiegelberg vuole realizzare le due 329

cose insieme. Con logica teatrale, Schiller descrive senza nessu­ na riluttanza, anzi, piuttosto affascinato dal caso, la misera fine di colui che diventava solo brigante e assassino, per essere infine eliminato dai suoi simili. Il poema drammatico del saggio Nathan si concludeva in modo lieto, quasi arioso. Ma Nathan era rimasto fuori. Con tutte le sue allucinazioni, Spiegelberg era vicino alla realtà ebraica più di Nathan. Vale a dire: non era ricco. Così oscilla fra l’esistenza ebraico-messianica in una nazione a cui appar­ tiene per nascita, e una carriera sensazionale nelle altre. Il saggio Nathan e il brigante Spiegelberg: solo da questo con­ fronto emergono, all’inizio deH’illuminismo borghese tedesco, le prospettive di uno Shylock nel mondo borghese dell’Europa del Secolo xix.

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IV ■ Lo Shylock borghese

1 ■ Rothschild e Heine Nell’interpretazione della propria commedia Die Juden Gotthold Ephraim Lessing faceva dipendere l'integrazione di questa comunità etnica e religiosa estranea da due condizioni: la cultura e la proprietà. Gli interessati erano d’accordo. Il be­ nessere era diffuso nelle comunità ebraiche tedesche, vale a dire nei ghetti: non soltanto tra i banchieri di corte e tra gli ebrei che godevano della protezione dei principi o dell’impe­ ratore. Del resto i rigorosi comandamenti della misericordia della legge mosaica provvedevano affinché anche i piccoli ven­ ditori ambulanti, e persino gli « Schnorrer » [sonatori ambu­ lanti], potessero condurre una vita sopportabile. Anche il comandamento della cultura era preso sul serio nelle comunità ebraiche tedesche. Il passaggio dall’oratorio e dalla scuola ele­ mentare a un intenso studio della letteratura tedesca e della scienza, così come Moses Mendelssohn l’aveva raccomandato ai suoi compagni di fede, avveniva senza difficoltà. Le condizioni dell’emancipazione ebraica poste da Lessing si dimostravano troppo facilmente realizzabili. Quando — in seguito alla rivoluzione francese e al codice napoleonico, che aveva stabilito l’uguaglianza civile e giuridica, — per gli ebrei i diffusi dibattiti sulla qualità e quantità di questa emancipa­ zione arrivarono fino alle deliberazioni dell’Assemblea nazio­ nale nella Paulskirche di Francoforte (1848-49), erano diven­ tati manifesti nuovi argomenti, che nelle premesse di Lessing vedevano piuttosto un ostacolo che una condizione di possi­ bilità. Come pensatore e scrittore di teatro Lessing aveva sem­ pre visto il pericolo della tragedia in un’eccessiva manifestazio­ ne di qualità lodevoli. Eccessivo coraggio di Eracle, troppo ap­ passionato bisogno di sapere di un dottor Faust, persino l’ec­ cessiva virtù di Sara Sampson o di Emilia Galotti. Ora a partire dall’inizio del secolo xix gli ebrei tedeschi 331

realizzavano il loro tentativo di apparire borghesi e di assimi­ larsi in una maniera che era subito doppiamente eccessiva. All’istanza del benessere rispondeva il fatto di un’ipertrofìa della ricchezza. Anche l'imperativo della cultura veniva sod­ disfatto in una maniera eccessiva. Ipertrofia del sapere e dell’intellettualismo. Nel confronto si formava ben presto, nella Germania borghese, l’immagine negativa e polemica. L’ebreo troppo ricco e l’ebreo troppo intelligente. Già la figlia di Mo­ ses Mendelssohn, Dorothea Veit, poi Dorothea Schlegel, come moglie di Friedrich Schlegel convertita al cattolicesimo, in­ contrava odio e scherno. Contro il romanzo Lucinde di Frie­ drich Schlegel non si obiettava soltanto, da parte della chiesa e da parte laica, che era immorale: nel franco dialogo episto­ lare fra amanti che evidentemente non erano sposati. Si ag­ giungeva l’argomento emotivo: per di più il partner femmi­ nile di questa corrispondenza scandalosa era di origine ebraica. La riserva della Germania nazionalistica, cristiana e piccolo­ borghese contro il postulato illuministico e l’emancipazione degli ebrei trovava la sua più perfetta realizzazione quando Harry Heine debuttava come poeta lirico e scrittore polemico. Il suo equipaggiamento era limitato al certificato di battesimo, a un immenso talento e a una non meno immensa fiducia nella validità e nel potere persuasivo delle massime illuministiche. Subito incontrava sulla sua strada nemici, che dovevano inces­ santemente aumentare, ancora molto tempo la sua morte, per malattia. Nel caso di Heinrich Heine esplodeva ogni contrad­ dizione deH’illuminismo borghese in Germania. Questo autore doveva accorgersi che contro di lui non era insorta soltanto la vecchia reazione, l’Ancien Régime: sovrani e aristocratici, gesuiti e pastori luterani. Come Lichtenberg nel teatro londi­ nese, di fronte al personaggio di Shylock, aveva dovuto con­ frontare i suoi veri sentimenti con i principi di un illumini-' smo sincero, ma poco radicato, così il fenomeno Heine provo­ cava scompiglio e confusione nel campo della borghesia pro­ gressista. Persino esponenti della Giovane Germania che usa­ vano definirsi orgogliosamente portatori dello « spirito del tempo » leggendo gli scritti di Heine diventavano insicuri. L’emancipazione degli ebrei era opportuna,.se poteva produrre manifestazioni di talento ebreo così eccessive? Heine si è sempre compiaciuto di denunciare l’antisemiti­

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smo dei germanomani come semplice reazione politica e so­ ciale — e presentava questa semplificazione come articolo di lede illuministico. Aveva torto. Come altrove, la dialettica del­ l’illuminismo si manifestava anche nella Germania di allora, dove gli stati erano al tramonti) e le classi non erano ancora nate (Marx), anche in quel movimento degli studenti e gin­ nasti.' In un romanticismo tedesco e cristiano e in un’acre ostilità per i francesi si trovavano contemporaneamente pro­ gresso e regressione. Era indicativo di questo stato di cose la polemica intorno all’antisemitismo e alla « germanomania », che scoppiava poco dopo le guerre di liberazione. È legata al nome di uno scrittore ebreo per il resto dimenti­ cato: del dottor Saul Ascher, che Heine conobbe dedicando­ gli parole amichevoli. Il suo scritto Germanomanie,2 del 1815, può essere considerato come un primo tentativo di combattere quella correntè di un romanticismo tedescomane che era di­ ventata di moda, dopo la vittoria su Napoleone, in tutta la Germania, ma in particolare nel Nord protestante, con gli ar­ gomenti dell’ideologia borghese della tolleranza. Il cristiane­ simo luterano e il senso messianico di una missione tedesca trovavano i loro modelli negativi nel non-tedesco, in partico­ lare nel francese, e nell’ebreo, che combattevano con fervore Ancora una volta il progresso si univa alla regressione. Era un movimento tedesco unitario, quindi diretto contro il partico­ larismo dei principi, che ai tempi della Lega renana e del ser­ vilismo di fronte a Napoleone nel congresso di Erfurt era ap­ parso ancora una volta come ostacolo ad una politica di unifi­ cazione nazionale. Al culto del Medioevo preborghese (come si credeva di doverlo intendere) e di un luteranesimo a cui si attribuiva una coscienza della patria tedesca e un orienta­ mento antiuniversalistico (e che in verità aveva reso possibi­ le quel particolarismo dei principi), contrastava l’illuminismo moderno con la sua astratta esigenza di un’uguaglianza di tutti gli uomini, come contrastava l’incipiente, non meno astratta economia monetaria. Gli ebrei erano partecipi di entrambi i movimenti, e interessati a entrambi. Il movimento ideolo­ gico politico e militare di liberazione contro l’occupazione francese era quindi fin dall’inizio ostile aH’illuminismo e agli ebrei. Formule del Tugendbund del 1814, poi del movimento dei ginnasti e degli studenti dopo il 1815, per esempio lo slo­ gan « I traditori alla Santa Verna »3 (si ricordino le scene

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della Santa Verna nel Käthchen von Heilbronn di Kleist, del 1808), saranno comprese, nel secolo xx, nel repertorio verbale e rituale delle ss. Ascher aveva considerato questa corrente come una malat­ tia tedesca, una germanomania. Lo scritto veniva letto e re­ spinto con rabbia dai giovani seguaci del Turnvater4 Jahn. Il famoso-famigerato congresso dei germanomani alla Wart­ burg, nell’ottobre 1817, dove si pensava di celebrare contem­ poraneamente il giubileo della riforma luterana del 1517 e il ricordo della vittoria su Napoleone a Lipsia (19 ottobre 1813) aveva il suo punto culminante in un autodafé dei libri dete­ stati: immemore del rituale cattolico di tali fanatici olocausti. Anche qui le posizioni spirituali erano ambivalenti. Si bru­ ciavano un bastone da caporale e un codino per esprimere il proprio rifiuto degli eserciti mercenari dei principi: per pro­ fessare la propria fede nella libertà civile e nell’idea della « nazione in armi » propagata dalla Francia rivoluzionaria. Ma contemporaneamente si gettava sul rogo anche il codice civile di Napoleone, che rappresentava, allora, la quintessenza di una codificazione moderna dei diritti umani e civili. Anche il libretto Germanomanie di Ascher era gettato alle fiamme fra grida ingiuriose. Col pretesto che vi si affermava che la vittoria tedesca su Napoleone era stata conquistata sol­ tanto con l’aiuto di volontari ebrei. Era facile insultare e ri­ dere per una dichiarazione del genere. Ma Ascher aveva scrit­ to soltanto questo: polemizzando contro un tedescomane chia­ mato Riihs, osservava che nella sua germanomania fanatica quel Riihs aveva dimenticato che « nella lotta contro la Fran­ cia eserciti tedeschi soccombevano prima ancora che ne faces­ sero parte soldati ebrei », e che si era rimosso il fatto che gli eserciti tedeschi avevano conquistato la vittoria solo « dopo che erano schierati tra le loro file gli ebrei della Russia, della Polonia, dell’Austria e della Prussia ».5 Anche una lettura più attenta di questa imbarazzata argo­ mentazione del dottor Ascher non gli sarebbe servita a nulla. Presumibilmente non si rendeva neanche conto di quanto do­ vesse apparire equivoco proprio come illuminista. Ma come? Ascher si indigna contro un pensiero che afferma il postulato della totalità tedesca, però non esita affatto a parlare « degli ebrei in Russia, Polonia, Austria e,Prussia », e quindi a sta­ bilire 1’esistenza di una comunità nazionale, non soltanto re­ 334

ligiosa, come usavano fare anche gli stessi germanomani, con ima valutazione completamente diversa? Deve aver avvertito egli stesso questa scissione, poiché tre umi dopo, in uno scritto polemico sulle vicende della festa della Wartburg, ritorna ancora sull’argomento. Il nuovo scrit­ to, intitolato La festa della Wartburg. Con riguardo alla dispo­ sizione religiosa e politica della Germania,6 usa una formula­ zione più cauta: « Io rappresento soltanto /'ebreo, non gli ebrei, allo stesso modo che potrei rappresentare soltanto /’uo­ mo e non gli uomini. Non si creda che io assolva il mio popolo ila ogni colpa. Sono uomini, che hanno tutte le virtù e i vizi die il cielo trapianta nel petto dell’intera specie. »7 Non si tratta affatto di pedanteria, ma della constatazione delle anti­ nomie che caratterizzano l'emancipazione ebraica in Germa­ nia già nel suo stadio primo e decisivo, se si deve avvertire an­ idra una volta, nel testo di Ascher, una singolare mancanza di (lliarezza. Da un lato l’autore rinuncia a parlare come porta­ voce di una comunità israelita, comunque possa essere definita: d’altro lato usa la formula « il mio popolo », che presuppone nuovamente una comunità nazionale. Nel nuovo scritto di Ascher ci sono abbastanza prove delle difficoltà con cui si scontra quotidianamente l'emancipazione ebraica. A Francoforte un libraio germanomane ha protestato (mitro l’autorizzazione di « librai di fede ebraica ». Ascher non osa nemmeno nominare esplicitamente la città di Francoforte. A Dresda erano autorizzate ad abitare nella città 150 famiglie ebree, « ma non è stato loro concesso né assegnato neanche un solo ramo professionale ».8 Il nuovo scritto di Ascher è particolarmente significativo nella sua ultima parte, che è diretta criticamente contro la scuola romantica. Tuttavia, in contrasto con il libro di Hei­ ne, che più di quindici anni dopo condurrà la discussione dal punto di vista di una nuova posizione letteraria e politica, che tiene conto , della rivoluzione di luglio del 1830, e precisa­ mente nel senso di uno sguardo retrospettivo gettato dalla superiore posizione di una nuova letteratura impegnata, solo parzialmente « giovane-tedesca », Ascher argomenta invece nella nostalgica prospettiva di un ritorno aH’illuminismo let­ terario dell’epoca di Lessing. Wieland, Lessing, e Moses Men­ delssohn, che è sempre nominato insieme a loro, sono gli elo­ giati modelli, di fronte ai quali persino 1’« autenticamente te­ 335

desco Schiller », soprattutto Goethe, ma certamente i roman­ tici in senso proprio, come gli Schlegel, Tieck e Zacharias Werner, convertito al cattolicesimo, sono modelli letterari che vengono svalutati, a volte con cautela, ma per lo più esplici­ tamente. Heinrich Heine ha cordialmente elogiato il « dottor Ascher » ; mentre ha ospitato nella sua prosa (e del resto anche nel Racconto d’inverno') colui che aveva diretto l’incendio dei libri alla festa della Wartburg, Hans Ferdinand Massmann,’ come stereotipo polemico e pezzo mobile del suo scenario let­ terario. Tuttavia, diversamente dall'autore della Germanomanie, Heine argomenta nel modo che ha imparato da Hegel, vale a dire sulla base di una coscienza storico-filosofica. Anche in Ascher si trova la tesi sostenuta da Heine più tardi, nel libro Zur Geschichte der Religion und Philosophie in Deutschland [Per la storia della religione e della filosofia in Germania], se­ condo cui Lessing avrebbe continuato il pensiero di Lutero. Ma Heine si guarda dall’attribuire aH’illuminismo dell’età di Lessing un valore assoluto. È vero che del grande progetto di Heine: scrivere un libro storico-critico completo sulla Germa­ nia, restava esclusa proprio la parte che avrebbe dovuto trat­ tare della storia della letteratura in Germania da Lutero fino alla scuola romantica — per motivi che potrebbero essere ri­ costruiti.10 Ma Heine è molto lontano dall’ostinata fedeltà di Ascher agli astratti postulati emancipatori. In questo modo deve diventare necessariamente l’avversario dell’uomo che vorrebbe realizzare nel modo più serio e perspicace la sintesi di emancipazione degli ebrei e patriottismo tedesco: Ludwig Börne. Alla Wartburg e nel 1817 Saul Ascher era stato simbolica­ mente assassinato dai giovani tedeschi. Alla festa di Hambach del 27 maggio 1832 compare come principale oratore il dott. Ludwig Börne, che arriva da Parigi. Gli studenti di Heidel­ berg gli fanno una serenata. Ciò pare una prova di progresso e senso della realtà: Börne come un Saul Ascher più prudente e anche più efficace sul pia­ no morale. Però di questa apparente armonia Heine diffida. La sua concezione della storia non conosce né le antinomie tra ebrei e tedeschi che Ascher aveva analizzato, né le sintesi eman­ cipatone di Börne. Con uno sguardo d’insieme singolarmente intuitivo, Heine vede piuttosto il parallelismo di ebrei e tede­ 336

schi: come'parallelismo di una comune marginalità. E quindi insiste sull’emancipazione civile degli ebrei tedeschi molto me­ no di Ascher e Börne, mentre vorrebbe piuttosto agire nel sen­ so di un superamento della comune marginalità attraverso il riconoscimento di tale affinità. Attraverso un riconoscimento — attraverso la rivoluzione tedesca universale. Il contrasto fra Heine e Börne culmina nella totale diver­ sità delle rispettive interpretazioni di Shylock. Con un atteg­ giamento dualistico e moralizzante, Börne separa l’ebreo stroz­ zino dall’uomo calpestato: « In Shylock noi aborriamo lo stroz­ zino, compiangiamo l’uomo angariato, ma amiamo e ammiria­ mo colui che vendica una persecuzione inumana. »** Shylock viene confrontato con Rothschild, con i « grandi Shylock che portano decorazioni cristiane sulla giubba ebraica ». L’anti­ nomia si basa su un'umanità nobile o ignobile. L’effetto di questo modo di vedere moralistico è una dissimulazione, sia nobile che ludica. Ludico sembra anche il modo in cui Heine si occupa di Shylock. Sceglie il détour attraverso Porzia, però si interessa soltanto del vecchio uomo di Rialto, non della signora che vive nell’estetizzante Belmonte. Anch’egli non rinuncia all’allu­ sione al cugino di Shylock, al « Signor di Shylock che sta a Parigi » e che è diventato il « più potente barone della cri­ stianità ».12 Ma si astiene da un modo di vedere moralistico. Anzi: la divisione moralistica tra ebrei nobili e ignobili è sentita, al contrario, dallo scrittore che lavora al superamento delle antitesi fra spirito nazareno e spirito greco, come un atteggiamento tipico di Shylock. Con il pretesto di Shylock Heine analizza (in particolare nel libro su Börne del 1840) la sintesi di spirito ebraico, cristiano e spiritualismo ascetico che è anche una sintesi tedesca. Nel libro contro Börne questa tesi è enunciata in modo programmatico :13 « Comunque sia, è facilmente possibile che la missione di questa stirpe non sia ancora stata compiuta interamente, e soprattutto ciò è possi­ bile nei confronti della Germania. Anche questo paese aspetta un liberatore, un messia terreno (gli ebrei ci hanno già grati­ ficato di uno celeste), un re della terra, un salvatore con lo scettro e la spada, e questo liberatore tedesco è forse lo stesso in cui spera anche Israele... » Se si considera lo sviluppo spirituale di Heine, una tesi sif­ fatta, formulata dieci anni dopo la rivoluzione di luglio, e 337

anche dopo la delusione per il fallimento del sansimonismo, può significare soltanto la rivoluzione universale, l’azione del­ l’uomo con la scure littoria che comparirà quattro anni pili tardi nel Racconto d’inverno. La rivoluzione trascende tutte le limitazioni di Kant e Robespierre, il rigorismo morale ebraico-börniano come il rigorismo parziale e nazionalistico dei germanomani antisemiti. L’emancipazione dell’ebreo nel mondo può essere attuata solo attraverso « la liberazione del mondo dall’ebreo », diceva Karl Marx nel suo studio Sulla questione ebraica, nel 1844, quando frequentava, a Parigi, Heinrich Heine. La formulazione hegeliana significava que­ sto: se l’esistenza dell’ebreo deve essere equiparata alla mo­ derna economia monetaria, che culmina nel simbolo di Roth­ schild, allora l’emancipazione degli ebrei deve essere equipa­ rata alla liberazione da questo dominio del denaro. Deve es­ sere compiuto un salto qualitativo: dallo Shylock borghese al compagno Shylock. Come è noto, Heine ha esplicitamente rinunciato a questo salto qualitativo. Sui rapporti di Heine con il socialismo e il comuniSmo 14 è stato scritto molto, e non senza un’iperinterpretazione di alcune lettere tra Marx e Heine. Che Ferdinand Lassalle dovesse svolgere nella vita di Heine una parte più im­ portante del dottor Marx, è un punto che sarà ancora discusso. Però accade troppo spesso che il tema « Heine e il capitali­ smo » sia evitato, perché imbarazzante. Anche Heine lo sen­ tiva come un argomento imbarazzante. Per lui significava: abi­ tudine di frequentare gli uffici e i salotti del barone Rothschild a Parigi, nella rue Laffite. Heine e Rothschild: appartenevano ad una stessa catego­ ria, e ciascuno sentiva l’altro (qui si intende soprattutto il più giovane dei cinque fratelli di Francoforte, cioè Jakob, poi James Mayer Freiherr von Rothschild — nato a Francoforte il 5 maggio 1792, morto a Parigi il 15 novembre 1868) in certo modo come un partner, come un caso parallelo al pro­ prio: come ipertrofia della cultura e del possesso. Rothschild era un fenomeno reale che interessava incessantemente lo scrit­ tore Heine. Quando andava nella rue Laffite, Heine era con­ temporaneamente deliziato e inorridito. Franz Grillparzer una volta vi fu invitato a colazione insieme a lui, e nella sua autobiografia ha annotato le sue impressioni: «Tanto Heine mi era piaciuto nella conversazione a quattr’occhi, altrettanto po­ 338

co mi piaceva, quando, due giorni dopo, eravamo a colazione da Rothschild. Si vedeva bene che i padroni di casa temevano Heine, ed egli abusava di questo timore per beffarsi nascosta­ mente di loro ad ogni occasione. Ma non si deve sedere alla tavola di qualcuno verso cui si è maldisposti, e se si trova qual­ cuno spregevole non si deve mangiare alla sua tavola. E quindi questo significava anche l’interruzione dei nostri rapporti. » Anche nei due volumi della storia della casa Rothschild di Egon Caesar Conte Corti15 (Leipzig 1928) — opera che ha un’impostazione in certd modo cortigiana, dove sono descritte in tono ossequioso l’ascesa della casa e 1’« età del suo splen­ dore », mentre è evitata l’associazione « ascesa e caduta » —, il rapporto fra Heinrich Heine e James Rothschild è un argomento importante. Questa relazione si era stabilita facil­ mente, quando Heine, dopo la rivoluzione di luglio, si era domiciliato nella capitale francese. I Rothschild e il ricco zio Salomon Heine erano soci negli affari. Si aggiungeva il fatto che Betty Rothschild, la « bella ebrea », offriva al poeta lirico, costituzionalmente avido di amori infelici, un ulteriore sti­ molo per frequentare la rue Laffite: del resto, non soltanto i salotti, ma anche lo studio del potente banchiere. Heine ne ha scritto ripetutamente; come ha anche descritto i sentimenti di debitori poveri o anche ricchi che aspettavano di essere in­ trodotti nello studio del banchiere. Che talvolta Rothschild abbia fatto benignamente.partecipe Heine di transazioni com­ merciali lo sappiamo dalle sue lettere. Sotto il titolo Die Feinde Goethe und Heine [/ nemici Goethe e Heine], nella « Fackel » dell’ottobre 1915 Karl Kraus ha dato a questo pro­ posito l’interpretazione di un uomo che amava riflettere su « Heine e le conseguenze ». Quando Heine riferisce di essere andato a passeggio per strada « Arm in Arm » con James Rothschild, del tutto « familionarmente », Kraus opina che si sia trattato piuttosto di un « Arm in reich ».“ Ma più interessante della familiarità o dell’ambivalenza emotiva era Vaffinità sociale dei due personaggi. Fatto che po­ tevano sentire chiaramente entrambi — James Rothschild e Heinrich Heine. Entrambi camminavano, il cantore col re, sulle « vette dell’umanità ». Qui il cantore camminava col milionario che era diventato da tempo un re dei re: soprat­ tutto grazie all’alleanza con Amschel Mayer Rothschild di Francoforte, con Salomon Mayer Rothschild di Vienna, con 339

Karl Mayer Rothschild di Napoli, con Nathan Mayer Roth­ schild di Londra. Heine constatava un fatto che corrispondeva semplicemente al principio selettivo del grande capitalismo: nella rue Ladite erano ammessi soltanto i divi di ogni mestiere. O meglio: quei « talenti » che nella casa Rothschild erano considerati insu­ perabili. Tra i musicisti Rossini, ma non Chopin. Tra i pit­ tori Heine cita Ary Scheffer,17 ma non Delacroix. Il fascino del fenomeno Rothschild è stato interpretato da Heine come fascino dei potenti. Nel suo libro su Börne — che naturalmente non era invitato a casa di James Rothschild, poiché in una « lettera da Parigi » del 22 gennaio 1832 aveva osservato sarcasticamente che nel l’incoronazione di Luigi Fi­ lippo Rothschild avrebbe dovuto fungere da arcivescovo —, Heine(chiamava questo banchiere e livellatore, questo distrut­ tore della grande proprietà fondiaria e organizzatore della rendita astratta, uno dei « grandi rivoluzionari », più potente di Richelieu e Robespierre.18 E così, nonostante tutte le sue simpatie per il socialismo utopistico, Heine giungeva a sua volta all’idea del grande binomio: Rothschild e Heine come collaborazione fra il capitale progressista e la letteratura pro­ gressista. Anche la famiglia Rothschild — almeno dalla data del 27 settembre 1810, quando l’ebreo di Francofojte, padre di cinque figli e cinque figlie, aveva fondato la ditta « Mayer Amschel Rothschild &: Söhne » e aveva fatto soci dell’impresa i cin­ que figli — era diventata contemporaneamente leggenda e scandalo sociale. Dove il capitale sociale di 800 000 fiorini non appariva affatto mostruoso: banchieri di corte ebrei dei se­ coli XVII e XVIII, che erano subentrati da tempo nelle funzioni dei Fugger e dei Welser, potevano presentare somme molto maggiori : « Se si considera nel suo complesso la storia dei finanzieri di corte nel primo periodo capitalistico, la sua linea può essere determinata dai nomi Fugger, Oppenheimer e Wert­ heimer a Vienna, Liebmann, Gompers, Ephraim, Itzig, Isaak in Prussia, Behrens a Hannover, Lehmann a Halberstadt, Baruch e Oppenheimer a Bonn, Seligmann a Monaco, Kualla a Stoccarda e Rothschild a Francoforte e a Vienna. All’inizio sta la casa Fugger come massimo potere finanziario, alla fine la casa Rothschild come massimo potere capitalistico. Come il primo grande banchiere di corte Fugger con la sua decisione 34°

di appoggiare gli Absburgo ha contribuito a determinare il corso della storia, allo stesso modo lo ha influenzato la casa Rothschild, quando ha messo il peso del suo potere finanziario sul piatto degli alleati nella lotta contro Napoleone. La storia dell’alta finanza in Germania corre da Fugger a Rothschild. »” Forse erano due circostanze particolari, accanto all’abilità personale di Mayer Amschel e dei cinque francofortesi, che fa­ cevano sì che il banchiere di corte e consulente finanziario del­ l'agiato principe elettore di Assia sorpassasse tutti i suoi com­ pagni di fede e di professione, anche se aveva cominciato con un capitale minore. In primo luogo Mayer Amschel Roth­ schild nella prima e più fortunata fase della sua ascesa aveva realizzato la simbiosi cristiano-ebraica. La sua alleanza con Cari Friedrich Buderus, nato nel 1759 a Büdingen in Assia, consigliere segreto dell’Assia elettorale, più tardi Buderus von Carlshausen, realizzava — molto al di là dell’epoca semifeu­ dale — la nuova unità di fede del grande capitale. Tanto più che anche in Buderus agiva un forte senso della famiglia. Il fratello diventava il fondatore delle ferriere Buderus di Wetzlar.20 In questo modo abbiamo indicato anche l’altra particolare (aratteristica dell'ascesa dei Rothschild: l’adattamento di quel­ li che erano stati un tempo banchieri di corte e dei principi alla nuova prospettiva di un’economia e società borghese che non era più fondata sui privilegi accordati dal principe ad un ebreo protetto, ma sul postulato illuministico dell’uguaglianza dei diritti civili. Quasi nello stesso momento in cui iniziava l’influenza della loro politica finanziaria sulla storia europea, i membri della casa Rothschild potevano, grazie all’ipertrofia del possesso, rivendicare, dalla carta dei diritti umani e civili, anche i privilegi ideologici, accanto a quelli materiali. Pote­ vano permettersi di rifiutare il biglietto d’ingresso alla civiltà europea, come Heine ha chiamato il battesimo. Heine diven­ tava cristiano e sorvegliava il suo cristianesimo per metà sul serio, per metà per gioco. Felix Mendelssohn-Bartholdy, nipo­ te di Moses Mendelssohn, accoglieva gli articoli di fede del cristianesimo luterano, formulati con cura da lui stesso, nel suo ménage spirituale e artistico. Una sinfonia della rifor­ ma, una sinfonia come Te Deum protestante: « Tutto ciò che respira lodi il Signore! » ; nelle sue ultime opere — come nel secondo trio per pianoforte in do minore opera 66 — quasi 341

un’incresciosa tendenza a voler sormontare, nel finale, l'ac­ cadere musicale con l’edificazione corale di un’altra sfera. Anche Ludwig Börne si faceva battezzare, e anche il figlio del consigliere di giustizia Marx di Treviri, Karl Heinrich. Non così i Rothschild. La famiglia Disraeli aderiva alla chiesa anglicana. Invece il figlio di Heyman Lassalle di Breslavia restava ebreo; e del resto anche il figlio del direttore del coro della sinagoga di Colonia Offenbach. I Rothschild non avevano bisogno di cariche pubbliche: erano al di sopra di tutte le cariche. La storia della casa dimo­ stra che persino i titoli nobiliari di barone o di lord non erano veramente cercati, ma, al contrario, spesso erano offerti dai sovrani. Precisamente questo intendeva Heine, quando chia­ mava il barone James di Parigi un vero rivoluzionario, più coerente di Robespierre, e nello stesso tempo lo esaltava, lo te­ meva, lo scherniva. Nella coscienza dei loro contemporanei essi erano già asso­ ciati: il nipote del ricco banchiere Salomon Heine di Ambur­ go e James Rothschild, legato a Salomon Heine da amichevoli rapporti di affari. Lo testimonia una curiosità letteraria, che è stata appena notata e anche oggi è in certo modo misteriosa nelle sue motivazioni. Nella sua Comédie humaine Honoré de Balzac 21 ha asso­ ciato i due personaggi con mezzi sottili : il banchiere Roth­ schild e il dottor Heinrich Heine. In una sezione particolare del gigantesco epos, Scènes de la vie parisienne [Scene della vita parigina] due brevi storie (mediocri) hanno una dedica formulata con ricercata precisione. Il racconto Un homme d’af­ faires [Un uomo d’affari] ha la seguente dedica: « A Monsieur le Baron James Rothschild, Consul Général d’Autriche à Pa­ ris, Banquier ». Nessuna parola particolarmente cortese, o sem­ plicemente gentile, che possa permettere di inferire i motivi di questa dedica. Si potrebbe quasi pensare allo scherno e alla parodia: nell’associazione del « banchiere» della dedica con il titolo, che si riferisce a un « uomo d’affari ». Ma la storia stessa smentisce una siffatta congettura: si tratta di un gioco di travestimenti fra nobili debitori e creditori borghesi, che si svolge a Parigi. È vero che Balzac non può fare a meno di nominare anche e proprio qui il barone di Nucingen, il ben noto banchiere, goffo ed esuberante, per lo più imbrogliato, di cui il romanziere cerca sempre di riprodurre foneticamente 342

l'orribile francese francofortese. Che Nucingen abbia a che fare con i Rothschild non si può negare. Però la storia deli'Uomo d’affari non ci porta esattamente negli uffici della rue Laffite. È una vicenda mediocre e pesantemente raccontata, che merita qualche interesse soltanto per la dedica a Rothschild, misteriosa ed evidentemente dotata di un suo significato. La storia successiva delle Scene della vita parigina, secondo il piano di Balzac, è il racconto Un Prince de la Bohème. Questa volta la dedica è diffusa, cordiale, firmata. Eccola:

A Heine. Mon cher Heine, à vous cette Etude, à vous qui représentez à Paris l’esprit et la poésie de l’Allemagne comme en Allemagne vous représentez la vive et spirituelle critique française, à vous qui savez mieux que personne ce qu’il peut y avoir ici de critique, de plaisanterie, d’amour et de vérité. De Balzac 22 Il testo sembra chiarissimo, ma subito diventa confuso, se si riflette. In questa dedica sono inequivocabilmente presenti cordialità e ammirazione. Heine associato alla storia di un « principe della bohème » : pare che questo sarebbe stato al­ trettanto significativo della dedica appunto dell’t/omo d’af­ fari a James Rothschild. Solo che il principe della bohème di cui vorrebbe raccontare la storia (una storia che si presenta goffamente, con l’aiuto di due racconti-cornice che confondono il testo) non ha nulla in comune con una condotta di vita an­ che solo lontanamente bohémienne dello scrittore Heine, a Parigi. I debiti di Heine — è una cosa nota, e soprattutto è stata resa nota dall’interessato — superano ampiamente i dis­ sensi finanziari in piccola moneta che si associano al concetto di bohème. È vero che Balzac definisce la sua « bohème » in un modo completamente diverso da quello in cui la definirà più tardi Murger nella sua lacrimosa storia di Montmartre. Con questo nome Balzac indica anzitutto « giovani persone con più di vent’anni e meno di trenta, tutte geniali a loro modo, ancora poco conosciute, ma che diventeranno note... » Pare che con­ sideri se stesso uno di loro. Amaramente -— come Stendhal nella storia di Julien Sorel — confronta le prospettive di que­ sta gioventù sotto Napoleone con l’amministrazione degli an­ ziani e dei burocrati sotto il re dei borghesi. 343

Poi viene presentato il principe di questa Bohème: Rusticoli con nove nomi, conte della Paiferine, di antica nobiltà italo-francese. Gran signore abituato a fare grandi debiti, pie­ no di possibilità e senza denaro, caratterizzato da un’usurpatoria superbia che si richiama alla superiorità dell’aristocratico e alla sua nota bellezza. Balzac riferisce pieno di ammira­ zione le arroganti repliche di questo superuomo della Parigi di Luigi Filippo. In questo modo (e involontariamente) ren­ de il principe della Bohème insopportabile al lettore, allo stesso modo che Oscar Wilde gli renderà insopportabile il suo lord Henry del Ritratto di Dorian Gray, che secondo le inten­ zioni dell’autore dovrebbe apparire irresistibilmente spirituale. La storia è semplice. Paiferine, che del resto s’incontra an­ che nella storia di Un uomo d’affari, vuole liberarsi di un’a­ mante, e dichiara che la riceverà nuovamente solo quando si presenterà da lui con un titolo e un equipaggio degno di essere ammirato, e con tutti i segni di una condizione brillante. Clandine risolve questo compito. Spinge l’amante già anziano e non amato, che poi diventa suo marito, a iniziative sempre più ambiziose, finché diventa pari di Francia, e molto ricco: quan­ to a lei, ex ballerina dell’Opéra, ora è una dama dell’alta so­ cietà. In questa storia mediocre il vero Balzac viene fuori solo un momento verso la fine, per enunciare una melanconica mo­ rale e chiedere se quello scrittore di teatro non amato e medio­ cre, Du Bruel, che sua moglie ha spinto avanti fino alla fama, alla nobiltà, alla ricchezza, è stato realmente abbindolato. « Senza gli umori di sua moglie sarebbe ancora uno scrittore del teatro leggero, mentre ora siede nella Camera dei pari di Francia... »H Il poeta Nathan si esprime così. Può avere in comune con Heine alcuni tratti. Però tra Heine e la storia che gli è dedi­ cata non c’è un punto di contatto immediato più di quanto ci sia fra Rothschild e quell’« uomo d’affari ». Tuttavia Balzac deve aver creduto a tali affinità. Nella sua dedica a Heine si dice: « A Lei che sa meglio di ogni altro che cosa ci può essere di critica, di scherzo, di amore e di verità in questa storia. » Ma dove si potrebbe scoprire questa « cri­ tica », accanto a un’evidente celia, amore e verità di vita? Paiferine è chiamato protagonista a torto. Il suo umore fa nascere la storia, ma non è la sua storia. D’altro lato Balzac sembra troppo affascinato dalle aristocratiche sfrontatezze del

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borioso spiantato, perché la storia possa essere interpretata co­ me una critica di questa bohème. Ma quali tesori di verità e di critica doveva scoprire Heine, mediatore fra la poesia tede­ sca e lo spirito francese, come dice la dedica di Balzac, nella storia del conte e della sua ballerina? La risposta è soddisfacente solo se la concezione balzacchiana della bohème viene intesa in un modo del tutto positivo : come termine collettivo per indicare la società, la letteratura e l’arte di domani. Che anche in queste due storie di vita pa­ rigina il narratore prenda le parti dell’aristocratico autentico, degli amanti, dei poveri e dei giovani di talento, è altrettanto evidente quanto lo è la sua avversione per la nobiltà di origine borghese, per i ricchi, per i burocrati. L’antitesi dei « due poeti » del grande romanzo sulle Illusioni perdute e presente ovunque. Da una parte c’è l’intellettuale addomesticato che si mostra compiacente e raggiunge successo e gloria sotto il go­ verno dei banchieri del re dei borghesi Luigi Filippo, come Du Bruel, il marito di Claudine; dall’altra l'intellettuale sco­ modo, spesso senza successo, indebitato, che tuttavia è l’uo­ mo di domani. Se uno non ha la forza di Vivere in questa si­ tuazione, si giunge alla tragedia, come accade nel caso di Lucien de Rubempré, che ha genio e bellezza, ma perisce co­ me amante e come scrittore, nel mondo dei Nucingen e dei Rothschild. Balzac considera Heinrich Heine come amico e alleato. Per lui i mondi dei banchieri e dei bohémiens devono essere intesi come due mondi assolutamente opposti. Rothschild appartie­ ne al primo, Heine al secondo. È sorprendente come in questa concezione, che non costituisce soltanto una peculiarità di Honoré de Balzac, ma sotto il re dei borghesi poteva essere considerata come rappresentativa di un certo comportamento rispetto a una « velenosa economia finanziaria » (Börne), i diversi devono essere nominati rappresentanti. Psicologica­ mente, in Balzac l’illegittimità del proprio titolo nobiliare può avere influenzato questa singolare costellazione. Il credo monarchico di Balzac nasce dalla coscienza della propria ille­ gittimità. La stessa firma della dedica a Heine (« De Balzac ») è troppo invadente. (Nel suo studio su Flaubert Sartre ha vi­ sto un processo parallelo nel comportamento del narratore Flaubert rispetto alla reale aristocrazia di un Alfred de Vigny e nella furia antiborghese di Flaubert.)24 Anche Balzac si sente 345

un outsider: e quindi elegge rappresentante del potere spiri­ tuale e materiale del domani l’outsider Heine, ebreo tra i te­ deschi, tedesco tra i francesi, poeta nel regno dei banchieri e della linea secondaria borbonica, ammiratore dei sansimonisti e invitato nei ricevimenti del barone Rothschild. Una legittimità perduta può essere reintegrata altrettanto poco di un’illusione perduta. La neolegittimità derivata dalla rivoluzione borghese e del bonapartismo e del re dei borghesi è segretamente cosciente della propria illegittimità. E quindi l’illegittimità di primo grado ha bisogno di un'altra, di una seconda illegittimità, da poter discriminare a sua volta. Sotto il dominio di classe della borghesia del secolo xix questa fun­ zione è assolta dagli Shylock borghesi. In particolare nella for ma fenomenica di un’ipertrofia del successo materiale e del talento intellettuale. Heine e Rothschild devono essere intesi come fenotipi. Naturalmente i Rothschild sono socialmente « integrati ». Ma anche se possono essere membri del.Jockeyclub di Parigi o della Camera dei lords inglesi, la loro integra­ zione rimane in certo modo provvisoria. La storia francese do­ po il 1940, dottrina e prassi di un’« Action Française » lo han­ no confermato. Un argomento popolare contro Pompidou non era che fosse giunto al successo svolgendo attività bancaria, ma che aveva lavorato per i Rothschild. Heinrich Heine come scandalo tedesco significa proprio questo: ancora nell’entusiasmo di Nietzsche per Heine, o nel­ la passione per Heine dell’imperatrice d’Austria Elisabetta, si esprime una volontà di provocazione. Heine rimane uno scan­ dalo. Lo scrittore non integrato fra i poeti tedeschi del paese, .l’elegante rivoluzionario, il goethiano che Goethe ignorava. Heine sapeva tutto questo. Il suo scrivere non è mai autenti­ co: anche se vorrebbe soffrire come gli altri — in una poesia dell’amore infelice. La grandezza di Heine come scrittore è sempre assicurata là dove la prosa e i versi riflettono, in un’in­ finita ripetizione, il momento shylockiano dell’esistenza nel mondo borghese e nella società letteraria. Nel modo più chiaro nei — numerosi — casi in cui Heine si mette direttamente in rapporto con l’ebreo di Rialto — come nei suoi studi su Shakespeare. L’insicurezza del suo comportamento nei confron­ ti di altri outsider di talento e di cattiva fama non ha a che fare con un falso giudizio, ma con un’identificazione; come accade nel suo atteggiamento rispetto a Platen e a Lassalle. 346

2 ■ Benjamin Disraeli e Ferdinand Lassalle

II 27 luglio 1837, quando, dopo quattro sconfìtte elettorali, il trentatreenne Benjamin Disraeli veniva infine eletto come deputato conservatore nel collegio elettorale di Maidstone, per la Camera dei comuni, la sera delle elezioni gli avversari lo salutavano gridando « Old clothes! », e cioè « Vecchi vestiti da vendere! » Gli urlavano anche « Shylock! »“ Disraeli mo­ riva a 77 anni, il 18 aprile 1881, come ex primo ministro e lord Beaconsfield. Ai funerali, che avvenivano nella sua residenza di campagna di Hughenden il 26 aprile, partecipavano soltanto persone invitate. Secondo il rituale di allora, la regina Vitto­ ria non poteva partecipare ai funerali di uno dei suoi sudditi, però aveva scritto una lettera di sincera simpatia per il suo ministro preferito, aveva anche mandato fiori. Erano venuti il principe di Galles, il duca di Connaught e il principe Leo­ poldo. Dello stretto gruppo degli amici di Disraeli che erano stati ammessi faceva parte Sir Nathaniel de Rothschild, che più tardi sarebbe stato il primo Lord Rothschild. Quando ve­ niva aperto il testamento, gli amici Sir Philip Rose e Nathaniel Rothschild apprendevano di essere stati nominati esecutori testamentari. Probabilmente in seguito i Rothschild cancella­ vano i debiti relativi a Hughenden che non erano ancora stati estinti, per poter consentire l’eredità al nipote Disraeli. Lo sta­ tista aveva disposto che ogni erede dovesse portare il nome « Disraeli ». Oggi la residenza di campagna del presidente dei ministri tory è un museo, e fa parte di una fondazione nazio­ nale che viene decisamente amministrata da lord Rothschild. L’associazione dei nomi Disraeli e Rothschild non ha niente a che fare con una stretta comunione di affari, o addirittura di speculazioni. Anche nei suoi ultimi anni la situazione finan­ ziaria di Disraeli era tutt’altro che soddisfacente: non aveva condotto una vita particolarmente dispendiosa, certamente non aveva approfittato della sua posizione per arricchirsi, poiché i suoi numerosi avversari si sarebbero subito serviti di questo argomento contro di lui. In questo senso il legame fra lo sta­ tista conservatore e il banchiere dal nome magico non poteva essere paragonato alle transazioni tra il cancelliere del Reich Bismarck e il suo banchiere ebreo, il barone di Bleichröder. Quando, al culmine 'della sua celebrità europea, a 74 anni, Disraeli-Beaconsfield guidava la delegazione inglese al con­ 347

gresso di Berlino, esaltato come « leone del congresso », vez­ zeggiato dalla moglie del principe ereditario tedesco, figlia della regina Vittoria, il suo antagonista e partner diplomatico Bismarck diceva con ammirazione: « Il vecchio ebreo, quello sì che è un uomo! » Lo era rimasto: un vecchio ebreo. E tuttavia sorprendente­ mente simile a un Bismarck, nel suo atteggiamento politico fondamentale come nel modo particolare di lavorare. Il bio­ grafo di Disraeli Robert Blake ha osservato giustamente: « Co­ me Disraeli, anche Bismarck aveva un passato romantico e byroniano, e continuava a pensare in quello stile. Entrambi amavano le frasi alate, considerazioni generali e ambiziose, osservazioni ciniche < da parte >. Erano spazientiti dai dettagli, annoiati dai particolari annessi e connessi. Condividevano i concetti politici fondamentali: conservazione di un ceto aristo­ cratico all'interno, come predominio degli Junker in Prussia, della grande proprietà terriera in Inghilterra. Nella politica estera, risoluto perseguimento di quegli interessi nazionali con cui si identificavano nei loro paesi. Bismarck ammirava il co­ raggio di Disraeli, la sua decisione, e la sua riluttanza a occu­ parsi dei particolari. »“ Però l’equazione non torna. L’identificazione con gli inte­ ressi « nazionali » o anche sociali in senso generale avveniva in due modi completamente diversi, nel caso di Otto von Bis­ marck-Schönhausen e, rispettivamente, del figlio di Isaac Dis­ raeli e di Maria Basevi, che era venuto al mondo il 21 dicem­ bre 1804 nella casa paterna di King’Road, Bedford Row, a Londra. Gli Israeli, poi D’Israeli, infine Disraeli erano ve­ nuti in Inghilterra dall’Italia. Non è escluso che l’affermazione che si trattasse di una famiglia sefardita, con aristocratiche ori­ gini « spagnole », sia stata inventata da Disraeli. Invece i Ba­ sevi della parte materna erano già immigrati in Inghilterra nel secolo xvn, come famiglia Cardoso e probabilmente con ori­ gini spagnole. Ciò è importante a causa delle basi sociali e ideo­ logiche che dovevano fare di Benjamin Disraeli il più fortu­ nato statista conservatore dell’Inghilterra vittoriana e un con­ vinto sostenitore degli interessi dell’aristocrazia capitalistica e imperialistica inglese. Grazie al figlio del letterato e scrittore popolare Isaac Disraeli la regina del Regno unito di Gran Bretagna poteva acquistare il nuovo titolo e il potere reale di un'« imperatrice delle Indie ». 348

Se è vero che grazie a re Guglielmo Bismarck dopo ogni guerra vittoriosa saliva nella gerarchia aristocratica: prima conte, poi principe, infine duca di Lauenburg, tuttavia non usciva dal suo ambiente d’origine, rimaneva fedele alle con vinzioni della propria casta e alle sue convenzioni sociali. In­ vece la strada percorsa da Benjamin Disraeli fino al titolo di Lord Beaconsfield rappresentava un salto qualitativo. Non si trattava del battesimo, a cui si sottoponeva a 13 anni (1817), insieme a tutta la famiglia di Isaac Disraeli. E neanche della fortunata elezione in parlamento. Nella Camera dei comuni inglese del secolo xvm gli ebrei battezzati erano numerosi: an­ zitutto l’economista David Ricardo. Da un punto di vista giu­ ridico ciò che contava non era l’origine, ma la confessione reli­ giosa. Fino al 1829 potevano sedere in parlamento soltanto gli anglicani, poi anche i seguaci di altre confessioni cristiane, soprattutto i cattolici, potevano essere ammessi a prestare il giuramento « come buoni cristiani ». Solo nel 1858 la Camera bassa decideva di ammettere anche parlamentari di religione ebraica. Il deputato anglicano Disraeli si pronunciava a favore di questa disposizione: ma senza richiamarsi alla tolleranza universale dell’illuminismo, come ci si era aspettati. Già dieci anni prima, quando l’ammissione veniva ancora respinta, Dis­ raeli aveva dichiarato davanti alla House of Commons: « La vera ragione per ammettere gli ebrei è che sono così affini a I .oro. Che valore ha il Loro cristianesimo, se non credono nel loro ebraismo? » Singolare argomentazione di un ebreo battezzato, che si ri­ volge ai parlamentari genuinamente cristiani parlando del « Loro » cristianesimo: escludendo così se stesso, chiaramente, dalla comunità cristiana. Dunque « il Loro cristianesimo ». li il suo proprio? L’oratore che aveva abbandonato il ruolo del parlamentare cristiano sembra rientrare, quasi grottescamen­ te, nella pelle del buon cristiano. Giunge alla conclusione del suo discorso: « Ma come cristiano io non voglio assumermi la terribile responsabilità di escludere dalla legislazione coloro che appartengono a una religione nel cui seno è nato il mio Signore e redentore... » Per cui fin dagli esordi di Disraeli, quando aveva arrischiato e fallito certe speculazioni, conduceva 1’esistenza di un avven­ turiero poco stimato, suo padre pagava malvolentieri i suoi debiti, poi, come deputato conservatore, aiutava a rovesciare 349

borghesi del secolo xix dal capostipite shakespeariano è il loro avido aristotrotismo. L’usuraio di Rialto non voleva avere niente in comune con quelli di Belmonte o con gli aristocra­ tici bellimbusti di Venezia. Affari — certamente; ma niente pranzi o cose analoghe. Gli ostentativi Shylock borghesi del se­ colo κιχ, che avevano ormai ottenuto l’uguaglianza civile, ten­ devano all’integrazione totale: per cui dovevano garantire i residui dell’Ancien Regime, salotti aristocratici e Jockey-clubs esclusivi. Heinrich Heine si creava, a Parigi, questa simbiosi: con l’energico aiuto del barone e diplomatico plenipotenziario Rothschild. A Parigi, Vienna e Londra, i Rothschild si per­ mettevano di conservare la religione israelita portando con­ temporaneamente il titolo di barone o di lord. Benjamin Disraeli, letterato e avventuriero, tory e lord, che nomina ese­ cutore testamentario rannobilito Rothschild. Rathenau al cir­ colo degli ufficiali e come consigliere dell’imperatore tedesco. Marcel Proust come membro di clubs esclusivi e antisemiti e come ospite e insieme critico del Faubourg Saint-Germain. Hugo von Hofmannsthal come aristocratico « difficile » e bio­ grafo di Maria Teresa e del principe Eugenio. Agli stessi fenomeni « archetipi » dello Shylock borghese nel secolo xix, accanto a quelle incarnazioni di un talento eccessivo e un eccessivo possesso che sono rappresentate da Heine e da Rothschild, per così dire come figura complemen­ tare al teatrale conservatorismo inglese di un Benjamin Dis­ raeli, appartiene il non meno teatrale tribunato di Ferdinand Lassalle. « Una nuova biografìa politica », s’intitola la prefazione della monografia di Shlomo Na’aman — lunga poco meno di 900 pagine — sul fondatore dell'Unione Generale dei Lavo­ ratori Tedeschi (1970).27 Queste parole hanno il senso di una allusione e una contrapposizione. Infatti alla sua biografia scientifica di Lassalle, pubblicata per la prima volta nel 1904, cioè 40 anni dopo la morte di Lassalle in duello, Hermann Oncken aveva dato in seguito — dopo la terza edizione del 1920“ — il titolo Lassalle, una biografia politica. Na’aman non sceglie il suo sottotitolo per coscienza polemica. Nelle sue note bibliografiche 29 chiama « classici » i lavori di Bern­ stein e di Oncken, e intende questo termine nel senso di un « rispecchiamento della coscienza del tempo ». Però questa nuova biografia politica rappresenta un salto qualitativo. Per 352

la prima volta viene presa sul serio (e dominata) la filosofia di Hegel, così decisiva per la conoscenza del primo· Lassalle. Nuo­ va è anche la solida penetrazione scientifica nelle così dispa­ rate attività di Lassalle, interprete della filosofia di Eraclito, storico del diritto, autore di una (cattiva) opera teatrale, il Sickingen, che peraltro ha conservato la sua attualità a causa dei relativi dibattiti fra Marx, Engels e Lassalle. Ma soprattutto questa nuova monografia politica si sforza di realizzare nuove valutazioni politiche. Evita gli errori di esposizioni precedenti, che erano troppo legate ai personaggi di Bismarck o di Marx: i due più importanti antagonisti di Lassalle. E neppure soggiace alla facile tentazione della psi­ cologia individualistica. Na’aman è uno storico israeliano che scrive in tedesco; è distanziato dal suo « eroe », però non scrive senza calore, intorno alle crisi e agli insuccessi di Las­ salle. È vero che nei suoi sforzi per il movimento operaio te­ desco e la sua unificazione vede un tentativo fin dall'inizio inadeguato con un oggetto inadeguato e con mezzi inadeguati : « L’uomo che per tutta la vita lasciava che fosse suo padre a maneggiare tutti gli affari pratici, non si raccapezzava neanche nella realtà quotidiana della sua Unione. Non sa quanti sono i membri dell’Unione e quanti soldi ci sono nella cassà, e non può neanche saperlo. »” Questa biografia politica senz’altro benevola demolisce tut­ tavia, con l’analisi dettagliata di tutte le azioni politiche di un uomo che moriva a 39 anni, proprio quelle attività di Las­ salle che anche i suoi avversari avevano riconosciuto come va­ lide, anche se per il resto liquidavano la sua storia della filo­ sofia definendola pura compilazione (a proposito dell’EracZito Marx diceva che era un libro « dotto »!), disprezzavano i suoi studi di storia del diritto perché poco seri, e lo stesso Lassalle, in cui vedevano un avventuriero e ciarlatano di di­ scutibile talento. Però prendevano sul serio il retore e il capo del movimento operaio. Solo dall’unione dei marxisti di Ei­ senach e dei cosiddetti « lassalliani » poteva nascere il Partito Socialdemocratico tedesco. Gli operai cantavano la canzone di lotta della « via, che ci ha tracciato Lassalle » ancora negli anni Venti del nostro secolo. Per lui Georg Herwegh aveva scritto i versi del lavoratore che vuole svegliarsi e riconoscere la sua forza. (« Tutte le ruote sono ferme, se il tuo forte brac­ cio lo vuole. ») 353

Tutto ciò è cosi ricco di conseguenze, e così infruttuoso, se ci si chiede quali sono i concetti e i desideri propri di Lassalle. Complicate, ma nei loro particolari difficilmente contestabili, le conseguenze tratte da questo biografo fanno capire perché Lassalle, quest’uomo così versatile, dotato di un grande fasci­ no fìsico e intellettuale, diligente e perspicace, spingesse con­ tinuamente i suoi avversari a passare dall’ammirazione e de­ vozione all’odio, al disprezzo, alla paura. Un caso esemplare in questo senso è il rapporto di Heinrich Heine con Lassalle ventenne. È una breve relazione che tuttavia attraversa tutte le fasi. All’inizio una lettera di Heine a Varnhagen, a cui Lassalle deve consegnare tale scritto, a Berlino. Si dice: « Caro amico, il Signor Lassalle, che Le porta questa lettera, è un giovane dotato delle migliori qualità spirituali: con la più profonda cultura, con il più ampio sapere, con l’ingegno più vivace che abbia mai incontrato: con la massima capacità espositiva unisce un’energia della volontà e un’abilità nel trat­ tare che mi sbalordiscono... » Forse Heine non aveva mai scritto così a proposito di nessun altro — a proposito di Karl Marx e Friedrich Engels certamente no. È vero che da loro — diversamente che da Lassalle — Heine non poteva aspet­ tarsi nessun aiuto nella sua lite con il cugino Karl Heine di Amburgo per l’eredità dello zio. Il 6 marzo 1846, due mesi dopo, Lassallè era già mollato. Varnhagen aveva reagito con disprezzo: « Per i discorsi del Suo amico Lassalle non darei un soldo. » Heine toglie al gio­ vane, così geniale amico ogni procura. Quello che Lassalle programma nelle sue faccende, di Heine, rientra piuttosto « nel campo dei romanzi di Sue che in quello dei miei af­ fari », e cioè: è un romanzacelo nero. « Penso spesso con la massima preoccupazione a Lei e al Suo futuro; ma non lo dico mai, né a Lei né tanto meno ad altri; sono troppo pru­ dente e ho troppa esperienza per farlo. Quante botte nei fian­ chi Si dovrà prendere... »■” È un documento straordinario. Molto più sincero di quella lettera di presentazione all’amico di Berlino, così lirica e am­ bigua. Da un lato Heine si stacca dal giovane diplomatico Las­ salle. D’altro lato con una non comune chiaroveggenza traccia un parallelo tra se stesso e Lassalle. È questo un fatto singo­ lare e unico, nella vita e nelle lettere di Heine. L’autore del Rabbi con Bacharach non ha mai paragonato in questo modo 354

con se stesso nessun altro dei molti Shylock giovani, ambizio­ si, dotati che allora attraversavano la sua strada: dall’hegeliano Eduard Gans a Moses Hess, da Börne fino a Marx. In questa visione stranamente chiaroveggente si vede come il corso della vita di Ferdinand Lassalle sia determinato in modo ana­ logo al proprio: come una successione di successi apparenti e sconfitte durevoli. Nel complesso, anche se certamente non nei particolari, Heine ha avuto ragione. Heine era contemporaneamente un avvenimento europeo e uno scandalo tedesco. Ciò non aveva a che fare soltanto col genio poetico, ma con l’inflessibilità che Heine — sfidando tutte le complicazioni e le delusioni che così preparava — ha sempre dimostrato quando era in questione la propria at­ tività creativa insieme a tutte le condizioni materiali e spiri­ tuali. Heine era scrittore e tamburino della parola illumini­ stica. In questo caso faceva veramente sul serio. Lassalle re­ stava un uomo dai molti talenti e senza un centro, senza un compito fondamentale in cui realizzare se stesso. Sapeva fare tutto e troppo. Così il suo nome non ha mai varcato i confini tedeschi. I suoi libri non trovavano lettori e discepoli, poiché non vi si trattava veramente di Eraclito o del « sistema dei diritti acquisiti », ma della dimostrazione lassalliana: di sa­ pere anche questo. Così Lassalle diventava uno scandalo te­ desco: più ampiamente di chiunque altro dopo Heine. E sen­ za il suo talento poetico. Un capo degli operai a cui gli operai segretamente ripugnavano. « Non aveva nulla, proprio nulla di un capo popolare. Soffriva fisicamente quando doveva en­ trare in un'osteria, respirare aria soffocante, stringere mani sudate. »32 II parallelismo con certe declamazioni di Heine, per esempio nella prefazione della Lutetia, è sorprendente. Si dimostra anche un cavaliere d’industria, continuamente. « Chi è Louis Büchner? », chiede ad un garante in una lettera del 9 aprile, riceve l’informazione, apprende chi è questo fi­ losofo materialista, il fratello più giovane di Georg Büchner. Il 13 aprile Lassalle scrive a Büchner che ha « seguito da an­ ni la sua opera con il massimo interesse »?’ Una vita senza fiducia negli altri e in se stesso, con troppi compiti, ma senza uno autentico. Non c’è quasi nessuna delle sue analisi politiche, specialmente in politica estera, che sia stata confermata. Ha certamente la sua parte anche l’odio di sé dell’ebreo, quando, nelle lettere a Engels, Karl Marx chia355

ma Lassalle « Junker Itzig »,34 ο « Jüdel Braun », o « Exzel­ lenz Ephraim Gescheit »; ma si aggiungeva anche e soprattut­ to la profonda diffidenza di colui che parlava in pubblico con difficoltà e possedeva una cultura solida e profonda contro la fluente loquela di Lassalle e il suo modo di lavorare im­ preciso, e cioè non ispirato da un entusiasmo oggettivo. Il ri­ spetto per la dignità e linearità che Marx dimostrava nella vita e nei suoi lavori era grande anche negli avversari. È stato solo con intenzioni semiserie che Bismarck ha intrapreso un tentativo di corruzione, come riferisce Marx nelle lettere a Kugelmann. Sapeva che sarebbe fallito. Invece il presidente dei ministri prussiano ha trattato Lassalle con un certo di­ sprezzo e ha giocato con lui come il gatto col topo, in occa­ sione di conversazioni e informazioni poliziesche, prima della guerra danese del 1864 e più che mai dopo la vittoria sulle trincee di Düppel. Contribuendo così consapevolmente — poiché i rapporti non potevano restare segreti — a compro­ mettere Lassalle, facendolo apparire come un uomo senza principi. L’occasione esterna che induceva Lassalle a chiedere un’u­ dienza a Otto von Bismarck-Schönhausen, il 24 ottobre 1863, era abbastanza singolare. Lassalle veniva come fautore del di­ ritto elettorale universale. Allora Bismarck poteva avere in­ teresse a sentire gli argomenti. Ma soprattutto Lassalle aveva bisogno dell’aiuto della polizia contro un sequestro del suo opuscolo sul riformatore economico della piccola borghesia Schulze-Delitzsch. La cosa tornava a proposito a Bismarck, lo induceva persino a formulare la cinica proposta di avvisare i pubblici ministeri. Lassalle non poteva permetterlo. Dietro questo atteggiamento di Lassalle stava la sua sin­ golare concezione di un’alleanza del governo autoritario della aristocrazia con il proletariato organizzato: contro i veri ne­ mici di Lassalle, vale a dire gli esponenti della borghesia libe­ rale-democratica. Tali alleanze non erano inconsuete: ancora in Franz Mehring se ne possono scoprire certe tracce sporadi­ che. Fanno parte del lassallianismo di Mehring — segreto, ma permanente. Che l’autore dell’opuscolo contro « BastiatSchulze », il fautore di questa infausta alleanza tra gli Jun­ ker e gli operai, sacrificasse tutti i principi del Manifesto del partito comunista, nonostante tutta la sua verbale disponibili­ tà nei confronti del marxismo, è evidente. 356

Lassalle non ha soltanto conosciuto l’odio di sé dell’ebreo, lo ha anche usato come strumento di agitazione. Un letterato che odiava i letterati. Un antisemita ebreo. Shylock che de­ nuncia Shylock. Da un punto di vista sociologico questo ap­ parente paradosso appartiene al ruolo dell’outsider borghese di famiglia agiata, che non può essere un capitalista (anche se fa speculazioni — dilettantesche — e dà consigli a Heine), e neppure essere riconosciuto esternamente come intellettuale, sulla base di una professione, perché scrive libri di successo o perché riveste qualche funzione ufficiale. Eduard Bernstein, che piti tardi si distinguerà come socialdemocratico riformi­ sta, ha preso sotto la sua protezione lo zio Aaron Bernstein contro Lassalle, che qualificava così questo redattore della « Volkszeitung » di Berlino e suo avversario: « Un uomo che non sa neanche scrivere in tedesco, ma con un particolare gergo che propina ai suoi lettori, il cosiddetto ebraico-tedesco - non c’è una frase senza errori grammaticali, — lentamen­ te, ma sicuramente, rovina persino il linguaggio del popolo e il suo genio! »“ Queste parole non sono scritte su un giornale, ma in un opuscolo agitatorio per lavoratori tedeschi. Il biografo di Las­ salle Na’aman formula questo giudizio: « È una cosa comple­ tamente diversa, portare queste frasi in mezzo alla massa, ele­ varle al rango di un programma socialista. Ciò è espressione di incuria, di quella negligenza che caratterizza tutta la pro­ duzione intellettuale di Lassalle durante l’agitazione prole­ taria: è improvvisazione di proporzioni pericolose. Ciò non giustifica nulla. Un pensiero debole perché improvvisato è una colpa storica. Il figlio di Heyman Lassalle di Breslavia e cognato del ca­ pitalista ebreo Berdinand Friedländer (che è anche uno dei bersagli dell’odio di Heinrich Heine), più tardi annobilito col titolo di cavaliere Ferdinand von Friedland, ha pagato con la vita queste contraddizioni esistenziali. Lassalle cadeva a 39 anni in un duello assurdo. Non era un nobile russo come Puskin o Lermontov, dei quali condivideva la sorte. Ma un parvenu ebreo, che era sì un dirigente del movimento operaio, ma voleva sposare una piccola aristocratica, Helene von Dönniges, però, da buon borghese, non osava compromettere a sangue freddo la ragazza, e quindi Veniva respinto da una famiglia che non poteva permettersi la parentela con il lette­ 357

rato di dubbia fama: poiché anche la sua era soltanto una nobiltà burocratica, e per di più la madre era un’ebrea di Berlino. Ciò che induceva Lassalle a presentare la sua doman­ da di matrimonio era precisamente la causa per cui essa ve­ niva respinta. Due posizioni marginali che si contrapponevano. Quella più solida otteneva la vittoria. Lassalle riceveva una pallottola nel ventre; un fidanzato della Valacchia, ma co­ munque aristocratico, a cui Helene von Dönniges si promet­ teva, uccideva Lassalle. Quest’ultimo viveva ancora due gior ni dopo il duello, e moriva il 31 agosto 1864, a Ginevra. Veniva sepolto nella nativa Breslavia, con grande sollievo del cognato von Friedland, che faceva distruggere certe carte. Insieme a Heinrich Heine, James Rothschild, Benjamin Disraeli, Ferdinand Lassalle è uno dei prototipi dello Shylock borghese nel secolo xix. Non c’è un artista, uno studioso, uno scrittore ebreo che in quell’epoca di dominio della borghesia vittoriosa e di apparente uguaglianza civile sfugga alle con­ traddizioni interne determinate da un’istanza emancipatoria che si accompagna ad una lacerazione reale. Tutti i tentativi individuali di integrazione sono a loro modo tipici. L’interio­ rità protestante di Felix Mendelssohn-Bartholdy quando com­ pone l’oratorio « Paulus » e quando presta magnanimamente aiuto all’inguaiato Robert Schumann. Il che non esclude la presenza di osservazioni antisemitiche nei diari segreti di Ro­ bert e Clara. L’internazionalismo di Marx, finito all’odio di sé ebraico: la prosa dell’ Introduzione alla critica della filoso­ fia del diritto di Hegel accanto al testo La questione ebraica. Il patriottismo democratico di Ludwig Börne assieme alla sua polemica contro Heine, dove l’increscioso outsider viene re­ spinto con profonda irritazione. L’atteggiamento di Moses Hess che oscilla fra internazionalismo e sionismo. L’amore per la campagna della Germania meridionale in Berthold Auer­ bach. La filosofia del diritto prussiana, orgogliosamente lute­ rana e aristocratica del professore berlinese Friedrich Julius Stahl, che nel Terzo Reich improvvisamente verrà di nuovo citato come Joel Joelsohn. In tutti questi casi c’è sempre qual­ cosa di esagerato. Ipertrofia della cultura e della proprietà, dell’entusiasmo per la campagna, del conservatorismo, della musica religiosa, dell’internazionalismo, dello spirito borghe­ se come di quello antiborghese. Lord Rothschild che può permettersi persino di rifiutare la 358

concessione del cambiamento di fede. Lord Beaconsfield che guida il partito conservatore, è amico di duchi,· il prediletto della regina, però nomina esecutore testamentario Rothschild. Jacques Offenbach che contemporaneamente mette in musi­ ca l’apologià del potere e intona il galoppo finale. Marcel Proust, fra il Faubourg Saint-Germain e i bassifondi, che ca­ pisce tutto, anche se stesso, quando fa recitare i personaggi di Charlus e di Bloch. Hugo von Hofmannsthal che viene se­ polto vestito con la tonaca francescana. L’irrazionalismo filo­ sofico di Walther Rathenau, accompagnato alla sua attiva capa­ cità di organizzazione capitalistica. I tipici matrimoni dove i milioni ebrei si uniscono alla nobiltà prussiana, inglese, fran­ cese. Ogni volta la « rigorosa felicità » della commedia epica de\VAltezza reale di Thomas Mann. E, nel suo caso, il matri­ monio che lo introduce nell’orgogliosa famiglia borghese dei Pringsheim di Monaco; poi, ancora in Thomas Mann, l’ef­ fetto finale antisemitico nella prima stesura del racconto Wälsungenblut. Molto di più dello stesso Rothschild, e a maggior ragione di Heinrich Heine, qui Ferdinand Lassalle è il fenotipo per­ fetto. Nessuno ha contribuito più di lui alla fissazione della immagine dell’avventuriero ebreo, intellettuale. Nella coscien­ za generale dei lettori -— che Raabe se lo fosse proposto o meno — Lassalle era il Moses Freudenstein, poi dottor Theo­ phile Stein del romanzo Hungerpastor [Il pastore della fame]. Ha esercitato un’influenza così forte sulla letteratura, però so­ stanzialmente più felice, perché più concentrata, soltanto Georg Brandes, nel mondo scandinavo. Il lettore di letteratura danese ritrova continuamente anche lui: da ultimo ancora nel secolo xx, nel romanzo del Lykke Peer, di Pietro o Gio­ vannino fortunato, del premio Nobel danese Henrik Pontoppidan : non a caso uno dei libri preferiti dal giovane Georg Lukàcs e dal giovane Ernst Bloch. I fenotipi borghesi dello Shylock del secolo xx contraddi­ cono alla magnanima premessa di Lessing: l’emancipazione è resa possibile dalla cultura e dalla proprietà. Lichtenberg aveva avuto una sensazione diversa, quando, a Londra, vede­ va Shylock sul palcoscenico. Anche Moses Mendelssohn ha dovuto probabilmente superare, dentro di sé, scrupoli e per­ plessità, prima di raccomandare ai suoi compagni di fede di adeguarsi — parlando in ebraico. Heine e Rothschild, Disraeli 359

e Lassalle dimostrano l’insanabile provocazione nella cultura e nella proprietà, nella politica conservatrice e in quella so­ cialista. Il secolo XX avrebbe prodotto nuovi fenotipi: nella bohème e nella rivoluzione.

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V ■ Personaggi ebrei nel romanzo borghese

1 ■ Parallelismo delle biografie ebree e tedesche Il contrappunto delle biografie era assai presto un principio operativo dei romanzieri borghesi. In Germania questo mo­ tivo risale fino al secolo xvi e a Jörg Wickram, figlio illegitti­ mo, maestro di bottega e maestro cantore, che tiene già pronte le ricette principali. Nel suo romanzo Der Jungen Knaben Spiegel [Specchio dei bambini] del 1554 sono già contrappo­ ste una biografia ascendente e una discendente. Intese già nel senso di un contrasto di classe, che rappresenta un’anticipa­ zione dei successivi schemi di sviluppo. Il bravo ragazzo bor­ ghese sale, lo Junker ozioso e superbo decade. È Gustav Freytag: trecento anni prima. Ma nella misura in cui la clas­ se e la letteratura borghese si emancipano e quindi si staccano dall’opposto mondo feudale, il parallelismo delle biografie viene interiorizzato in due modi. Da un lato il conflitto d’ora in poi ha luogo all’interno del mondo borghese. È un processo analogo a quello che si svolge per il dramma borghese, che in Kabala und Liebe si basava sull’antagonismo feudale-borghese, ma sessant’anni dopo, nella Maria Magdalena di Heb­ bel, porta sulla scena soltanto gli « individui incapaci di ogni dialettica », secondo l’espressione dell’autore, e cioè i piccolo­ borghesi, naturalmente. La seconda forma deH’interiorizzazione si manifesta come trasformazione di antitesi sociali in antitesi (apparentemente) intraborghesi-morali. La linea dell’ascesa o della discesa corre come integrazione all’interno della sfera borghese: il primo personaggio sale, l’altro va incontro a quella che si usava chia­ mare < morte civile ». Essa poteva avvenire in parecchi modi: dall’esistenza di uno che non viene più invitato, fino al « di­ sconoscimento giuridico dei diritti civili e politici ». La ricetta per costruire questo tipo di romanzo è familiare sia allo scrittore di successo, letterariamente ambizioso dei se­ 361

coli xvnt e XIX, che al suo concorrente disprezzato dal pubbli­ co borghese, all’autore di scritti di letteratura amena privi di ogni pretesa artistica. Dovunque lo schema originario del bra­ vo borghese che sale (però non si tratta mai di un plebeo!) e dell’inutile rampollo di una famiglia aristocratica si trasfor­ ma nell’antitesi tra il borghese capace e morale e il personag­ gio negativo del briccone senza successo. 11 fatto che un pro­ cesso del genere in Fielding si svolga nel mondo della nobiltà di campagna, come parallelismo delle vite del trovatello Tom Jones e dell’ipocrita Master Blifil, non contraddice al sistema categoriale borghese. Il mondo di Fielding e del suo signore di campagna Allworthy è una società borghesizzata. Il processo di una doppia interiorizzazione: attraverso una totale borghesizzazione e una totale moralizzazione, determina la comparsa di un'interessante variante, per cui il parallelismo delle biografie si congiunge con un altro cliché, che questa volta deriva dal mondo feudale: con Vantitesi del buono e del cattivo fratello. Si trattava di un topos aristocratico, fondato sulla frustrazione dei figli più giovani: Shakespeare esaspera questo motivo fino al comportamento paradigmatico di Ric­ cardo di Gloucester, che nulla predestinava a salire, un gior­ no, sul trono come Riccardo in. Fielding adotta anche questo motivo: Jones e Blifil sono cugini. Schiller applica lo schema secondo cui avevano già lavorato, prima di lui, altri esponenti dello Sturm and Drang, all’antagonismo di Karl e Franz Moor. Anche qui si tratta di un antagonismo borghese-morale, no­ nostante ogni drappeggio comitale. Sempre nuove varianti. Nella Fiera delle vanità di Thacke­ ray, cento anni dopo il Tom Jones, viene presentato il corso parallelo di due esistenze femminili·. Amelia Sedley e Becky Sharp. Il modello dell’ascesa e discesa viene magistralmente trasformato, con l’aiuto di peripezie. Dapprima sembra che Becky, intellettuale e borghese solo per metà, e per di più mezza francese, si avvìi verso una vita brillante, mentre l’one­ sta e sentimentale Amelia deve subire umiliazioni su umilia­ zioni, inganni su inganni. E l’ironico Thackeray, che descrive criticamente il mondo vittoriano ai suoi inizi, evita anche, con cura, ogni identificazione con i costumi e la morale della società inglese. Tuttavia anche questo romanzo dove i modi di comportamento e le convenzioni borghesi sono demoliti in modo — quasi — totale si conclude peraltro secondo lo sche­ 362

ma dell’antitesi tra comportamento rispettabile e non rispetta­ bile, contrasto che resta equivalente, anche in Thackeray, che non soltanto ha scritto sullo snobismo, ma non ne era esclu­ so, al contrasto fra la gente che si invita e l’altra. Anche la narrativa borghese tedesca ha lavorato secondo questi progetti. Dapprima, come accade nel caso di Wickram, come anticipazione, più tardi come consolidamento del movi­ mento emancipatorio borghese. Le biografìe parallele aveva­ no ancora come protagonisti il borghese utile e lo Junker im­ produttivo. In quel poema borghese-liberale del mercante te­ desco che è il romanzo Soll und Haben [Dare ed avere] di Gustav Freytag, non veniva disprezzato neanche questo red­ ditizio modello sociologico e ideologico: i baróni di Rothsattel, consumatori improduttivi privi di ogni senso degli affa­ ri, vanno in rovina, la loro eredità tocca al commerciante tedesco Schröter o Wohlfahrt: non già in seguito a una caduta della Bastiglia o ad una Convenzione nazionale, ma attraverso una solida economia criditizia. È vero che anche qui le mésal­ liances devono essere evitate: il barone sposa la baronessa, il borghese la ragazza borghese. In compenso la narrativa tedesca all’insegna delle biografie parallele presenta una variante tipica, che non si trova né in Dickens né in Thakeray, né in Melville né in Thoreau, e neanche nei narratori russi del secolo xix. In una conferenza tenuta agli studenti di Princeton suìl’Arte del romanzo nel 1939, Thomas Mann, che pensava di parlare anche delle pro­ prie origini, ha giudicato con estremo scetticismo il contributo tedesco al romanzo borghese del secolo xix: « Il grande ro­ manzo sociale dei Dickens, Thackeray, Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Zola, Proust è addirittura l’arte monumentale del se­ colo diciannovesimo. Sono nomi inglesi, russi, francesi. Per­ ché non ci sono i nomi tedeschi? » Chi volesse rispondere a questa domanda, dovrebbe indica­ re parecchi fattori, che rinviano tutti al fenomeno fondamen­ tale dell’arretrata situazione sociale tedesca. Di qui la singola­ re inclinazione dei romanzieri tedeschi (che non ha quasi equi­ valenti nella letteratura inglese e francese) a fuggire il mondo borghese della città per rifugiarsi in campagna, nella piccola città, a fuggire la letteratura nazionale, l’illuminismo seco­ larizzato, per trovare rifugio nella letteratura provinciale, nel­ l’ortodossia protestante preborghese. Un motivo dominante 363

di questa epica tedesca è la nostalgia per un mondo prebor­ ghese, che — per una curiosa astrazione — non assume la for­ ma sublimata del feudalesimo, come accadeva ancora, in par­ te, nei romantici, ma ha tutte le caratteristiche della felicità in un cantuccio rustico e piccolo-borghese. Ora questo diventa lo schema prediletto dal lettore tedesco e dal romanziere borghese tedesco tra il 1840 e il 1920 (circa). Gustav Freytag e Wilhelm Raabe, talvolta Storm nelle sue orge evocative, il primo Hermann Hesse del Peter Camenzind, dove l’autore credeva di descrivere un bizzarro outsider, per rendersi presto conto di aver raccontato la storia della propria vita a un ampio strato di lettori tedeschi. Poi Ernst Wiechert. Infine, quando con gli espressionisti e la Neue Sach­ lichkeit la letteratura tedesca prende sempre più coraggiosa­ mente conoscenza del fenomeno della grande città moderna, la vita semplice, la nostalgia per la « benedizione della terra » si trasferisce in Norvegia, con Knut Hamsun. Questa epica socialmente immatura vive di una triplice ani­ mosità, che condivide con molti lettori tedeschi. Ostilità verso la grande città moderna, con il suo minaccioso proletariato moderno. S’intendeva preferibilmente Berlino, dopo che per un certo tempo, anche da parte di Thomas Mann, ài era gio­ cato un pochino con l’immagine positiva di Monaco, contrap­ posta alla prussiana, negativa Berlino. Poi Ostilità verso l’intel­ lettuale borghese di mentalità illuministica. Infine avversione per gli ebrei, che comprende tutto: grande città, dunque sra­ dicamento; illuminismo, dunque irreligiosità; equiparazione dei diritti, dunque volontà di realizzare seriamente la rivolu­ zione borghese e l’emancipazione. Viene così creato il proto­ tipo ideologico di una relazione amico-nemico: Yintellettuale borghese della grande città, che viene indicato di volta in vol­ ta con le espressioni spregiative di letterato della metropoli, letterato da caffè, e, infine, bolscevico della cultura. Ancora una volta secondo i casi, il suo antagonista è il solido com­ merciante tedesco, il pastore della fame, il maestro del villag­ gio, l’ufficiale coraggioso, il colonialista in Sudafrica, preoccu­ pato per il « popolo senza spazio » — il Cornelius Freibott di Hans Grimm. Incredibilmente diffusa, consumata con avidità nelle case della borghesia tedesca e nelle fattorie dei contadini bene­ stanti, quest’epica lavora, in una costellazione tipicamente te­ 364

desca, ancora una volta con lo schema delle vite parallele. Ma si presenta come antitesi fra un'esistenza tedesco-«, ariana » e l'esistenza dell’ebreo. Ascesa e discesa anche qui. Dopo esse­ re salito sempre più in alto l'ebreo infine precipita; il modesto tedesco riceve tuttavia la giusta ricompensa. È vero che l’iro­ nia (analogamente a quello che accade in Thackeray) può relativizzare le antitesi troppo semplici. Il pastore della fame Hans Unwirrsch di Wilhelm Raabe è compensato da un’a­ scesa interiore verso una sempre più perfetta contentezza e pace familiare. Per chi guarda dall’esterno, c’è la povera par­ rocchia di Grunzenow sul Baltico. Invece il giovane ebreo Moses Freudenstein, alias dottor Théophile Stein, subisce la discesa nella forma di un esterno splendore: « A Grunzenow non si seppe più nulla del dottor Theophile Stein, che nella Kröppelgasse si chiamava Moses Freudenstein, fino al milleottocentocinquantadue, quando, disprezzato da quelli che se ne servivano, disprezzato da coloro contro cui era usato, aveva ricevuto il titolo di Gonsigliere segreto di corte — colpito da morte civile nel senso più terribile della parola. » Raabe ha fatto stampare in corsivo le parole « morte civile ». Splendore e miseria, ascesa come discesa, la riverita spia del governo, forse, un giorno, dottor von Stein. Questo dettaglio apparen­ temente irrilevante fa risaltare in modo particolarmente visto­ so la posizione critico-ideologica di quest’epica impostata sul contrasto tra la vita di un tedesco e quella di un ebreo. Wil­ helm Raabe scrive nella prospettiva di un borghese liberale, il suo « pastore povero » nasce nella fase finale di quella re­ staurazione monarchica che è seguita alla sconfitta borghese del 1849. Il dott. Stein è stato colpito da morte civile (e rioè per i liberi cittadini la sua persona non esiste più), da quando si è lasciato assoldare dai ministri della polizia dei principi restaurati come uomo di fiducia e delatore: lautamente remu­ nerato con compensi materiali e titoli. Invece il liberalismo borghese sceglie proprio lui, come personaggio negativo in con­ trasto con il pastore della fame « che sale sempre piti in alto ». Il romanzo di successo di Raabe è un amalgama di antagoni­ smo ebraico-tedesco e interiorizzazione borghese. La vittoria di Hans Unwirrsch sull’intellettuale giovane-hegeliano Moses Freudenstein è una vittoria dell’interiorità. Il Pastore della fa­ me mette contemporaneamente in evidenza tutte le contraddi­ zioni dell’illuminismo borghese in Germania: liberalismo, ma 365

antisemitismo; mentalità borghese, ma insieme interno rifiuto dell’equiparazione giuridica degli ebrei; fede illuministica nella scienza e nella letteratura, e insieme rifiuto di un modo di pensare e di scrivere tale da spezzare il sistema. Se Kant si era interessato alla formula di una possibile religione « nei limiti di una ragione universale », invece il libro di Raabe tende ad affermare i limiti della ragione all’interno di una religione universale. La fame di illuminismo del pastore del­ la fame degenera, nel romanzo, a fame religiosa. Di fronte a Shylock-Freudenstein anche Wilhelm Raabe prova il segre­ to spavento di Lichtenberg, quando deve confrontare l’ebreo reale che gli sta di fronte sul palcoscenico con il postulato astratto di un’emancipazione universale, e quindi anche degli ebrei. 2 ■ Del buono e del cattivo ebreo Questa narrativa molto elogiata e fortunata anche nei par­ ticolari lavora con il cliché antitetico che dal mondo dell’e­ sperienza borghese viene disinvoltamente trasferito nella let­ teratura. Le biografie parallele del piccolo tedesco e del pic­ colo ebreo devono cominciare nel cortile della scuola. O co4 me una genuina inimicizia precoce, oppure come un’amicizia ebraico-tedesca particolarmente curiosa e destinata a non reg­ gere: per colpa dell’ebreo. Freytag e Raabe sono liberali bor­ ghesi; credono — in teoria — che l’amicizia fra un tedesco e un ebreo sia possibile. Essa si attua secondo lo schema: il coraggioso ragazzo tedesco viene in aiuto al piccolo ebreo ves­ sato, debole, e anche vile. Dare e avere è ambientato a Ostrau, nella Slesia. Anton Wohlfahrt e Veitel Itzig. « Itzig non aveva un aspetto parti­ colarmente bello; magro, pallido, con i capelli crespi e ros­ sicci, Vestito con una vecchia giacca e un paio di logori calzoni, aveva un aspetto tale da interessare i gendarmi infinitamente più degli altri viaggiatori. Proveniva da Ostrau, era stato com­ pagno di Anton fin dalle elementari. In quel tempo lontano Anton aveva avuto occasione di difendere il ragazzo ebreo dai maltrattamenti di scolari petulanti, con l’uso coraggioso della lingua e dei suoi piccoli pugni; da quel giorno Itzig aveva mo­ strato una certa devozione per lui. » 366

Nel Pastore della fame, la cittadina di Neustadt, dove Hans Unwirrsch e Moses Freudenstein vengono al mondo nel 1819, si trova certamente nella Germania settentrionale. « In mezzo ai suoi tiranni stava Moses Freudenstein: trattenendo le la­ crime e con un sorriso doloroso tendeva la mano, su cui spu­ tava ogni giovane cristiano e germano, tra grida di scherno, nell’ordine... Ora era venùto il suo turno, toccava a lui spu­ tare nella mano aperta del ragazzo ebreo in lacrime, e come un lampo lo colpì la coscienza che quello che si faceva era una cosa molto bassa e vile. » Hans Unwirrsch si rivolta contro tutti i compagni. « Selvaggiamente $i mise a urlare che biso­ gnava lasciare in pace Moses, che lui — Hans Jakob — non permetteva che si continuasse a fargli del male. Il pugno colpì il primo naso che si era fatto sfacciatamente sotto; esso co­ minciò a sanguinare — poi, una confusione terribile! » Il parallelismo della situazione di partenza è posto: come cliché sociale che contrappone il coraggioso ragazzo tedesco e il debole bambino ebreo. Questo schema verrà adottato tale e quale ancora nella Repubblica di Weimar, nel romanzo Jahrgang 1902 [Anno 1902] di Ernst Gläser. Tale paralleli­ smo non è reale fin dall’inizio. Manca, nel senso del dogma illuministico, l’uguaglianza delle condizioni di partenza. Tutti i personaggi ebrei di Freytag o di Raabe non cercano soltanto quell’uguaglianza civile e politica che manda Itzig e Wohlfahrt alla stessa scuola e per cui Unwirrsch e Moses sostengono con­ temporaneamente la maturità, ma una completa integrazio­ ne sociale che viene rifiutata. Anche da questi due narratori tedeschi esponenti del liberalismo borghese. Freytag è un na­ zional-liberale della prima ora. Come spiega l'autore, Raabe dà coscientemente il nome di Jean-Jacques Rousseau al futuro pastore della fame Hans Jakob Unwirrsch; a proposito della cittadina di Neustadt ricorda con rispetto Eisleben, Kamenz e Marbach. Lutero, Lessing e Schiller. Abbiamo a che fare con un illuminismo modesto, letterario-idealistico, non con una regressione feudale, per nulla. Quella scena postbiblica del piccolo ebreo oltraggiato viene introdotta dalle parole — deboli, ma inequivocabili : « In quei tempi passati era ancora diffuso — soprattutto nelle pic­ cole città e località — un disprezzo per gli ebrei che oggi non s’incontra più, in una forma così accentuata. » È uno sguardo retrospettivo al periodo intorno al 1829, gettato verso il 1861, 367

quando viene scritto il Pastoie della fame. Però il romanzo di Raabe è tutta una ritrattazione di quelle frasi. Con Moses Freudenstein, alias dottor Stein, viene denunciato l’intellettua­ le e illuminista ebreo. Hans studia il suo luteranesimo, Moses la filosofia. « Nella filosofia di Friedrich Wilhelm Hegel c’era­ no certe cose che < gli facevano comodo >, e spesso turbava e metteva molto a disagio l’amico Hans, sussumendo lui e tutto (pianto portava con sé a qualche scellerata categoria. Intanto frequentava con zelo seminari giuristici di ogni-specie, e si occupava soprattutto di diritto pubblico: in quell’epoca il Machiavelli e il Reineke Fuchs erano due libri che mancavano raramente dalla sua scrivania. » Giovane hegeliano; opportunista politico alla maniera di Machiavelli, che qui viene interpretato interamente nel senso dei puerili pregiudizi dell’antimachiavellismo borghese; Rei­ neke Fuchs come manuale dell'inganno e dell’opportunismo senza scrupoli. Non può mancare Heinrich Heine. Moses fa lo sbruffone a proposito del patriottismo e del cosmopolitismo degli ebrei. « Tra noi ci possono essere certi pazzi isolati che rinunciano a questa posizione favorevole e si sentono struggere il cuore per una patria adottiva, come Löb Baruch, germanice Ludwig Börne; nonostante la sua bianca veste di catecumeno il mio amico Harry Heine resta, a Parigi, un ebrèo autentico, a cui tutta l’acqua battesimale, lo champagne francese e il vino del Reno non riescono a sciacquare dalle vene il sangue semitico. Perché non dovrebbe beffarsi dell’onta e vergogna tedesca con un’ombra di malinconia? Ogni stupidaggine e infamia com­ piuta al di qua del Reno per lui è una benedizione di Dio! » Che il narratore giudichi in modo completamente diverso da Freudenstein è evidente. A favore di Börne e contro Harry Heine. Al cliché delle due vite, la vita del tedesco e quella del­ l’ebreo, che si svolgono parallelamente ma in verità non sono affatto parallele, e al luogo comune del piccolo tedesco che protegge il piccolo ebreo, questa letteratura, che è espressio­ ne di un illuminismo profondamente insincero e cede ogni volta che dovrebbe dimostrare la propria autenticità, aggiun­ ge uno schema mentale e iconico non meno ricco di successo e di conseguenze: il dualismo dell’ebreo buono e cattivo. Ad una considerazione superficiale esso si presenta come un’anti­ tesi morale. Wilhelm Raabe l’esprime nella forma di un’ap368

provazione di Börne, di un rifiuto dell’esistenza di Heine. Si tratterebbe, pare, di un contrasto politico-ideologico, perso­ nalizzato nella guerra di due letterati tedesco-ebrei. Tradizioni narrative inglesi ispirate al modello di Benjamin Disraeli e gli epigoni tedeschi di Gustav Freytag usavano con­ cepire il contrasto come antitesi di possesso e non-possesso. Era un più sottile criterio di discriminazione dell’ebreo che si emancipava nel senso della formula della cultura e della proprietà. La diagnosi formulata da Lessing nella commedia Gli ebrei era tuttora valida. Erano possibili parecchie discri­ minazioni. L’ebreo tedesco colto e ricco. Secondo l’ipotesi di lavoro, era emancipabile. Proprietà senza cultura. Dava come risultato il disprezzato parvenu ebreo. Cultura senza proprie­ tà: la caricatura del letterato da caffè che vive di prestiti. Infine, assolutamente non assimilabile, l’ebreo povero e in­ colto. Nei suoi confronti si compieva la seconda discriminazione, che questa volta era intrapresa dagli stessi ebrei assimilati: quella tra gli ebrei tedeschi, che sembrano (virtualmente) ca­ paci di cultura e possesso, e i disprezzati « ebrei orientali ». Che questa costellazione della fallita emancipazione degli ebrei in Germania sia sopravvissuta nella stessa storia del sionismo e all’interno dello stato d’Israele con i suoi « Jeckes » è un fatto noto. Nel romanzo Soll und Haben, che Freytag ha composto se­ condo il rigoroso criterio del giusto mezzo, evitando gli estre­ mi sociali e morali, le posizioni dell’ebreo sono quasi dise­ gnate con la riga e il compasso: Veitel Itzig, Hirsch Ehrenthal, Bernhard Ehrenthal. La progressiva germanizzazione dei no­ mi non è disegnata soltanto nel senso di un processo di eman­ cipazione, ma aqche e decisamente come una progressione morale. Veitel è lontanissimo dall’emancipazione ed è un bric­ cone. Ehrenthal padre non parla quasi più il gergo, ma è una figura moralmente ambigua, nella sua attività di usuraio sen­ timentale. Bernhard è un ebreo letterato e idealista, che la cul­ tura e il possesso potrebbero — quasi — predestinare all’e­ quiparazione giuridica. Il barone von Fink va da lui a pren­ dere il tè. Purtroppo Bernhard muore maledicendo suo pa­ dre: la sua origine. Alla terna dei romanzi di successo per la borghesia tedesca colta e la sua clientela piccolo-borghese appartiene, accanto al 369

romanzo di Freytag del 1855 e al Pastore detta fame del 1864, il romanzo dello storico del diritto e storicista Felix Dahn — un'opera in parecchi volumi, diffusa, piena di puerili antitesi morali intitolata Ein Kampf um Rom [Una lotta per Roma], che proietta la problematica della società tedesca nella tarda antichità. Analogamente al Freytag del romanzo a puntate Die Ahnen [Gli antenati], che fa sfociare la storia germanicotedesca, nella forma di un crescendo, nel liberalismo nazio­ nale tedesco, anche Dahn trasporta disinvoltamente le grosso­ lane antitesi ideologiche di virtù tedesca e malizia latina, di lealtà e tradimento, bionda mentalità nordica e nera mentalità meridionale, nel mondo degli ostrogoti, dei romani, dei bizan­ tini sotto l’imperatore Giustiniano e l’imperatrice Teodora. Il mostro epico-storico era nato fra il 1859 e il 1876: sotto il segno dell’alleanza « dall’alto » fra la Prussia e l’Italia, dopo la vittoria e l’annientamento del secondo Impero con Napo­ leone terzo e l’imperatrice Eugenia, dopo ferro e fuoco, vit­ toria e guerra. È il senso del trionfo tedesco che si prende re­ trospettivamente una tarda rivincita letteraria per la fine de­ gli ostrogoti. In questa epica profezia a posteriori gli ebrei non possono mancare. Poiché Felix Dahn, come Freytag, è un nazional-li­ berale (più nazionale che liberale, è vero), adotta a sua volta lo schema dualistico dell’ebreo buono e cattivo. Naturalmen­ te il cattivo ebreo Joachim è vile, porta sul volto l’astuto cal­ colo «della sua razza». L’ebreo buono, il patriarca Isaak, è fedele ai goti. La curiosa libidine che in tutto il mondo suscita continuamente il desiderio della « bella ebrea » resta soddisfatta anche nel romanzo di Freytag, con la sorella Rosalie Ehrenthal, e in quello di Dahn, con il personaggio di Miriam. In un preciso studio suìl'/mmagine dell’ebreo nella lettera­ tura popolare tedesca lo storico americano George L. Mosse (parente con la dinastia degli ex editori di giornali berlinesi) esamina l’influenza di Freytag e Dahn (mentre sembra stra­ namente ignorare Wilhelm Raabe).1 Mosse fa notare la si­ tuazione solo apparentemente curiosa, per cui Soll und Ha­ ben, come pure il Kampf um Rom, erano altamente apprezzati anche nelle case degli ebrei tedeschi assimilati, che non li consideravano affatto « antisemitici ». « Non c’era, quasi, fami­ glia israelita, in Germania, dove non si potessero trovare i li­

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bri di Freytag e Dahn. Accettare il cliché, leggere questi scrit­ tori, diventava espressione di assimilazione. » Non c’era neanche, da parte degli ebrei tedeschi, una resi­ stenza contro quello schema mentale coniato in sede di let­ teratura e poi applicato nel comportamento sociale, dell’ebreo buono e cattivo, tedesco e non tedesco. La descrizione aper­ tamente antisemitica di usurai e gabbamondo ebrei nel ro­ manzo Der Büttnerbauer [71 bottaio] di Wilhelm von Polenz, del 1859, avrebbe « aperto gli occhi » al Führer del Grande Reich Tedesco, per sua propria ammissione. Anche il se­ guito tedesco era preparato: attraverso le insistenti e stereo­ tipe figure degli ebrei della narrativa borghese. Non tutti ave­ vano conosciuto ebrei tedeschi o « non tedeschi » ; ma si aveva familiarità con i Moses Freudenstein e Veitel Itzig e Jochem. Questa forma di sovrastruttura avrebbe dimostrato un suo po­ tere di mobilitazione? 3 ■ Nel negozio di antiquariato di Charles Dickens Sempre nello studio di Mosse sugli ebrei nel romanzo tede­ sco s’incontra questa frase: « Certamente si può leggere Frey­ tag o Dahn senza esserne toccati, proprio come si legge Ì’Oliver Twist di Dickens senza lasciarsi influenzare dal cliché antise­ mitico del personaggio di Fagin. »3 Dapprima sembrerà che Dickens abbia creato la figura piti crudele e antisemitica di tutta la narrativa del borghese se­ colo κιχ, nel personaggio del re della malavita Fagin del suo romanzo Oliver Twist. Cliché dell’associazione della bruttez­ za fisica e morale con 1’esistenza ebrea sembrano usati per descrivere un tipo di ebreo che non può rivendicare nessuna circostanza attenuante e viene giustiziato dal boia giustamen­ te, come pare e come il lettore deve confermare. « A very old shrivelled Jew, whose villainous-looking and re­ pulsive face was obscured by a quantity, of metted red hair. » Anche i capelli rossi, dunque! La caricatura di Shylock non potrebbe essere spinta più in là. Come autore dellO/iver Twist firmava un giovane scrittore, celebre già a 24 anni, da quando aveva pubblicato i Posthumous Papers of the Pick­ wick Club, nel 1836-37. Dickens ha 26 anni, quando esce ì'Oliver Twist, nel 1838. Il successo morale-sociale del romanzo 371

era immenso, come è noto. Ne erano influenzate la legisla­ zione inglese sui poveri così come l’opinione pubblica, per tutto quanto aveva a che fare con gli ospizi di mendicità, il la­ voro dei bambini, la lotta contro la criminalità. Oliver è sol tanto un punto di riferimento per costellazioni sociali. Impor­ tante solo nel senso che la sua situazione di bambino senza nes­ suna protezione fa apparire tanto più infami le manovre e le azioni criminali a cui viene esposto come complice o come vittima. Dickens conosceva il mondo di cui raccontava. Vagabondo nella Londra degli anni venti, col padre nella torre dei de­ bitori, poi come scrivano di un avvocato, più tardi, come ste­ nografo del parlamento, aveva conosciuto direttamente quei personaggi, conflitti, intrighi di cui doveva raccontare con­ tinuamente in connessione con i signori Twist, Nickleby, Chuzzlewit o Copperfield, come reporter della gente povera e indifesa, dei bambini e delle sartine sfruttate. Anche Fagin come personaggio reale può essere stato pen­ sabile. L’associazione del ladro cristiano col ricettatore ebreo ha carattere di continuità storica dal Medioevo, per motivi connessi con la non emancipazione o con l’emancipazione so­ lo parziale degli ebrei : dovunque erano ammesse' comunità ebraiche. Nell’Inghilterra borghese già nell'età previttoriana le attività degli ebrei comprendevano un arco che andava da Rothschild fino al re dei malfattori Fagin. La tradizione letteraria inglese comprendeva una serie di pittoreschi malviventi. Tradizione deWOpera dei mendicanti di John Gay, delle scene ambientate nei bassifondi dei ro­ manzi di Smollett o di Fielding. Jack Dawkins, l’abilissimo borsaiolo, il brutale rapinatore Sikes assieme alla sua amica Nancy: sono personaggi visti e conosciuti nella giovinezza del loro autore, e nello stesso tempo caratteri, maschere di una tradizione del realismo epico in Inghilterra. Fagin è diverso. Già per il modo in cui Dickens lo fa mori­ re. Nancy viene uccisa da Sikes, quest’ultimo muore mentre fugge, altri vengono deportati, finiscono come borghesi pen­ titi o muoiono in carcere, come lo scapestrato fratellastro di Oliver Monks, che in questo senso fa parte della folta schiera dei cattivi fratelli e captatori di eredità dai tempi del Tom Jones di Fielding in poi. L’ebreo Fagin sale sul patibolo. Fra V Oliver Twist del 1838 e l’ultimo romanzo che Dickens 372

poteva portare a termine, Olir Mutual Friend del 1865,4 ti sono i 27 anni ricchi di successo e di invenzioni del narratore e conferenziere: anni di celebrità in patria, in America e an­ che sul continente europeo. Charles Dickens come coscienza letteraria dei lettori borghesi; come portavoce degli, umiliati e offesi, soprattutto di quelli che non parlano. In questo ro­ manzo del « nostro comune amico » incontriamo nuovamente una miscela di provata efficacia: temi del romanzo popolare, gusto della scoperta (un morto in realtà non è affatto morto!) e martirio. Quasi volesse succedere al rivale Thackeray, mor­ to nel 1863, Dickens se la prende, pili che in altri romanzi, con gli snob recentemente arricchiti, con gli aristocratici buo­ ni a nulla e con bravi cristiani che fanno gli strozzini. Sulla sfondo ci sono nuovamente degli ebrei. Mr. Riah Aa­ ron si occupa degli affari della ditta Riah, Pubsey fe Co., Saint Mary Axe, Londra. Andatura curva, basso cappello con la tesa sollevata, lunga giubba simile a un caffettano. Ma: « a vene­ rable man, bald and shining at the top of his head, and with long hair flowing down at his sides ». Il venerabile vecchio come estrema antitesi a Fagin, spauracchio dai capelli rossi. Per due volte, a breve distanza l’una dall’altra, Dickens lo mostra come un benefattore bonario e silenzioso con le miglio­ ri maniere, che inglesi più giovani, senza scrupoli o senza cervello, trattano nel modo in cui i playboys veneziani ave­ vano trattato Shylock a Rialto. Quando Riah viene in aiuto di Lizzie, tradita dal fratello egoista, il corteggiatore Eugene cerca di liberarsi dal molesto ebreo.5 Non senza sfacciataggine. Se Mr. Aaron volesse essere così buono da rirtunciare alla protezione di Lizzie e lasciare che continuasse a occuparsene il corteggiatore, sarebbe·« libe­ ro, e potrebbe tener dietro ai propri impegni nella Sinagoga ». Il tentativo rimane senza successo, poiché Lizzie resta fedele a Riah. L’usuraio e incettatore di cambiali Fascination Fledgeby è peggiore. Al mattino quando Riah va a trovarlo per affari6 le allusioni antisemitiche si accumulano. Fledgeby rimprovera a torto, come mostra Dickens, a Riah e agli uomini d’affari ebrei, proprio quegli intrighi che pratica egli stesso. Improv­ visamente, quando le malignità dell’uomo con cui deve lavo­ rare non sembrano voler cessare, Riah osserva che evidente­ mente Fledgeby scambia il ruolo che egli, Riah, deve svolgere 373

al servizio del proprio padrone, con il carattere proprio di Riah. Il giovane « Fascination » risponde freddamente. L’ap­ pello di Riah alla giustizia viene respinto, dopo di che si chie­ de « generosity ». Fledgeby risponde: « Ebrei e nobiltà! È una buona combinazione! » Voglia Riah decidersi a parlare di affa­ ri, e interrompa la sua « chiacchierata giudaica ». Il contrasto tra Fagin e Riah non potrebbe essere maggiore. Da una parte l’archetipo del mostro coi capelli rossi: inuma­ no e vile, con la forza del denaro e l’astuzia domina sulla schiera dei ladri e assassini che stanno alle sue dipendenze. Nelle illustrazioni che accompagnavano ogni libro di Dickens per rendere più efficace la narrazione, Fagin è rappresentato in una maniera archetipa che si distingue dai personaggi ebrei di Wilhelm Busch solo per qualche particolare irrilevante, e certamente non è diversa dai disegni dello « Stürmer » di No­ rimberga. La rappresentazione del primo incontro di Oliver e Fagin culmina nel contrasto tra l’innocenza infantile e una bruttezza che è espressione di colpe e delitti. Riah è una figura più astratta, quindi meno precisa. È un vecchio ebreo bonario dall’aspetto poco appariscente e sem­ pre pronto ad aiutare gli altri. Insultato da quelli che sono peggiori di lui. Un cliché tratto dal melodramma e dalla letteratura di dozzina. Che Dickens, non diversamente da Bal­ zac, non soltanto faccia proprie le antitesi morali della fanta­ sia dei lettori, ma le riproduca consapevolmente, è evidente. E quindi i personaggi ebrei falliscono in entrambi gli autori. Fagin e Riah sono altrettanto poco realistici, anche se ci po­ tevano essere ebrei che si comportavano esattamente come il barone Nucingen-Rothschild che parla con accento tedesco nella Commedia umana di Balzac. Sembrerebbe di dover concludere che il parallelismo delle biografie tedesche ed ebree in Raabe o Gustav Freytag e più tardi ancora nel primo Heinrich Mann corrisponde a una maggiore integrazione dei concittadini ebrei nella società bor­ ghese tedesca, mentre il realismo epico di un Balzac o di Dickens quando si tratta di rappresentare personaggi ebrei non produce altro che antitesi morali ed episodi tragici o co­ mici (secondo i casi), dunque una mancanza d’integrazione totale. Ma è vero il contrario. Fagin non è il prodotto di un anti­ semita, né Riah è il personaggio ideale di un sentimentale 374

ammiratore degli ebrei. Non c’è neanche, in Dickens, un pro­ cesso di « maturazione » o addirittura di decantamento, daiYOliver Twist a Our Mutilai Friend. Per Dickens, Fagin e Riah non sono outsider sociali, ma rappresentanti di modi mo­ rali di comportamento estremi. Ciò che significa integrazione sociale totale. Questi ebrei appartengono alla totalità borghe­ se: anche se in un senso estremo della morale o dell’immoralità. Ma il narratore nòn deriva questo estremismo dalla loro emarginazione religiosa e sociale. È vero che sia nel caso di Balzac che in quello di Dickens si deve constatare che l’integrazione epica dei personaggi ebrei è tuttavia fallita. Nessuno di loro s’incontra facilmente, nella vita quotidiana della so­ cietà borghese. Cattivi o buoni, comici o orribili in misura estrema, non importa: non sono paragonabili alle altre figure, ai personaggi non ebrei del mondo di Dickens. Nel David Copperfield Uriah Heep, non ebreo, è eccentrico, ma senza trascendere i limiti di ciò che è socialmente dato. Anche Jonas Chuzzlewit è un assassino e un delinquente senza scrupoli, ma senza l’orrore dell’estraneità. Del resto nel cosmo epico di Dickens gli ebrei non hanno famiglia. In Raabe o Freytag l’estraneità dell’ambiente ebrai­ co, con la bottega del rigattiere o il banco dell’usuraio, parti­ colari abitudini alimentari e belle ebree, apparteneva a uno strano paese straniero. Dickens vorrebbe moralizzare le diver­ genze sociali, e quindi integrarle. A questo scopo l’ambiente ebraico non era utile. Avrebbe prodotto nuovamente una di­ sintegrazione. Mentre pensava precisamente di impedirlo, Dickens produceya questo effetto più che mai.7

4 ■ Deronda o la variante sionistica (il romanzo « Daniel Deronda » di George Eliot) Tra la commedia giovanile di Lessing Gli Ebrei, del 1749, e l’ultimo grande romanzo di George Eliot, che era concluso nel 1876, passavano pur sempre 127 anni. Ma ad un’osserva­ zione superficiale sembra che il tempo si sia fermato. Tutte e due le volte l’ebreo nobile, colto e ricco. Entrambe le volte è costretto a distruggere tutte le speranze e attese con un’unica frase : sono ebreo (« Ich bin ein J ude » nel primo caso, « I am a Jew » nel secondo). Se la giovane baronessa di Lessing ave-

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va ingenuamente pensato che non importasse nulla, la came­ riera la fa presto ricredere. Anche la Gwendolen Grandcourt del romanzo di George Eliot, che il protagonista ama senza speranza, e che prima credeva che Deronda fosse un gentiluo­ mo inglese mentre ora deve ricredersi, finisce per rispondere: « Wath difference need that have made? » Ma prima aveva àccolto la notizia con grande turbamento: « A Jew\ Gwen­ dolen exclaimed, in a low tone of amazement, with an utterly frustrated look, as if some confusing potion were creeping through her system. »8 Questa volta Deronda compie il taglio decisivo. Si sente ebreo, vuole anche sposare un’ebrea. L’autrice, libera pensa­ trice inglese, amica di Herbert Spencer, vagamente simpatiz­ zante con la filosofia positivistica di Auguste Comte, può sol­ tanto consigliare la sua Gwendolin nel senso di un « miglio­ rismo » etico, come usavano dire i comtiani: di usare la delu­ sione come stimolante per un’autoeducazione morale. Pare anche che i lettori reagiscano in modo analogo all’atto unico del giovane Lessing e al nuovo romanzo, ardentemente atteso, di una scrittrice dell'Inghikerra vittoriana famosa e molto letta, che non si può invitare, poiché vive in « libera unione », e tuttavia occupa un posto di privilegio nella biblio­ teca di Sua Maestà. Il professor Michaelis di Göttingen, illu­ minista come Lessing, aveva replicato: ebrei così nobili non possono esistere. Il lettore, vittoriano, per tacere delle lettrici, reagiva analogamente al personaggio effettivamente quasi cri­ stiano del nobile Deronda. Ancora l’Enciclopedia Britannica parla del « less convincingly realized hero Daniel », in certo modo catechizzando il giudizio letterario generale. Il modo ir­ removibilmente nobile, pieno di tatto, disinteressato in cui il giovane gentleman inglese Deronda, che non conosce i suoi genitori, cresce presso lo « zio » Sir Hugo Mallinger, di antica nobiltà inglese, ed è segretamente convinto di essere suo figlio illegittimo, passa attraverso il romanzo (in otto libri), senza che del resto la sua sensibilità d’animo sia mai sfidata da una sola situazione conflittuale, questo modo è effettivamente sner­ vante. Però i lettori vittoriani non avevano nulla da obiettare contro personaggi di romanzo nobili ed esemplari, né in Dick­ ens né nella stessa George Eliot: quando si trattava di per­ sone nobili, anche se forse un po’ semplici, di inequivocabile origine inglese. È vero che la regina Vittoria non riceveva 376

l’autrice Mary Anna Evans, che firmava « George Eliot », pe­ rò era entusiasta di un personaggio esemplare, del suo primo romanzo Adam Bede, della brava Mrs. Poyser. La regina dava persino l’incarico di eseguire due quadri che dovevano fissa­ re (ed effettivamente fissavano) le nobili scene deli zidam Be­ de: con la sensualità dolciastra del pittore E.H. Corbould.9 Invece il nobile Daniel Deronda era ebreo, come doveva ri­ sultare. Subito si accendeva nuovamente la polemica che ave­ va contrapposto l’uno all’altro Michaelis e il giovane Lessing. In questa tarda opera di George Eliot c’erano molte cose con­ venzionali: la prediletta storia del giovane affascinante con un’origine ignota, ma evidentemente rispettabile: la non me­ no prediletta storia dell'affascinante ragazza giovane e bella che ha genitori rispettabili, però né benestanti né tali da po­ ter frequentare l’alta società, e che con tutte le sue forze cerca il matrimonio che le dia l’accesso al ceto superiore. È vero che la vicenda di Gwendolin Harleth, a cui tocca questa fun­ zione nel /Daniel Deronda, non finisce né con una brillante situazione sociale accompagnata da gelo interiore, né con l’e­ sclusione dalla società — alternativa che sembrava imporsi a partire da Thackeray; Gwendolin finisce come penitente nel senso di un positivismo etico che pensa di accogliere l’eredità della morale cristiana. Ma ciò che distingue il Daniel Deronda da tutte le opere letterarie contemporanee, e non soltanto inglesi, è il suo ftlosemitismo accentuato, quasi invadente. Il nobile Riah nel ro­ manzo Our Mutual Friend di Dickens era un personaggio marginale di carattere esotico; proprio come lo era Fagin, il re dei malfattori, ne\V Oliver Twist. A nessuno poteva venire in mente di identificare questo Fagin con qualche ebreo reale. Nella sua autobiografia Lev Trockij racconta quanto grande fosse l’entusiasmo per VOliver Twist nella casa dei suoi geni­ tori, ebrei della Russia meridionale. Ma nel romanzo di George Eliot la famiglia Cohen, a cui appartiene Mirah, che Deronda salva dalla morte nel Tamigi, è un'autentica parte del quartiere ebraico di Londra intorno al 1866, poiché il romanzo si svolge al tempo della guerra austro-prussiana e del secondo impero napoleonico. Daniel e Mirah si incontrano apparentemente per caso. Il mondo degli ebrei gli è estraneo. Però in questo ambiente viene continuamente preso per un ebreo, e si è delusi quando Deronda, in 377

perfetta buona fede, nega questa origine. Lo svolgimento del romanzo si è proposto di rappresentare il cammino, o il cam­ mino di ritorno, o il ritorno in patria di Deronda, come una forma prestabilita di ritrovamento della propria identità. Il reale brivido di orrore che coglieva tanti membri della società borghese apparentemente integrati, soprattutto in Germania dopo il 1933, quando la taciuta origine ebraica o semiebraica veniva scoperta davanti agli interessati che non avevano so­ spettato nulla o non volevano sapere nulla, nel romanzo di George Eliot assume una funzione opposta, positiva, con una leggerezza particolarmente ludica. Daniel è sollevato, infiam­ mato, quando apprende dalla madre quanto segue: è figlio di genitori ebrei, però, dopo la morte del padre e contro la vo­ lontà del pio avo, è stato portato in Inghilterra, affinché fosse allevato come un gentleman. Il figlio si sente ingannato dalla madre che gli aveva taciuto la sua origine. Ma ora può essere ebreo e sposare Mirah: l’ebreo sposa l’ebrea. Secondo le testimonianze del 1876, il romanzo Daniel De­ ronda ha svolto, presso gli ebrei inglesi, una funzione chiara­ mente analoga a quella che aveva avuto Nathan il saggio pres­ so i compagni di fede di Moses Mendelssohn, in Germania. Dove i lettori non ebrei avvertivano un senso di disagio per la superiorità morale e intellettuale di Deronda o anche di Nathan, i lettori ebrei vedevano una possibilità di identifica­ zione, che avrebbe consentiti? loro — speravano — una mag­ giore integrazione illuministica. Ma qui il romanzo del 1876 si distingue in modo nettissimo dallo schema emancipatorio del giovane e del più tardo Les­ sing. Ogni apparente identità dei motivi letterari — nobiltà d’animo e scoperta della vera origine, cultura e possesso, poi­ ché anche a Deronda erano toccati l’una e l’altro — non na­ sconde il fatto che il romanzo Daniel Deronda nega l’emanci­ pazione e integrazione degli ebrei. George Eliot aveva tradotto in inglese David Friedrich Strauss e L’essenza del cristianesi­ mo di Feuerbach. Durante un viaggio in Germania col suo compagno, lo studioso di Goethe George Henry Lewes, si era incontrato con Strauss, a Colonia. Il patrimonio di idee dei giovani hegeliani le era in certo modo familiare. Più tardi, a Londra, incontrava anche Louis Blanc e altri esponenti del socialismo utopico: probabilmente anche Marx. L'idea di un incontro fra George Eliot e Moses Hess sarebbe molto attraen­ 378

te. Però sembra che la scrittrice debba la sua buona conoscen­ za dei costumi e delle dottrine teologiche degli ebrei soprat­ tutto all’incontro con Emanuel Deutsch: uno studioso del Talmud e sionista che morì nel 1872, e talvolta si recava da George Eliot per leggere testi ebraici con lei'e per discutere su un ritorno degli ebrei in Palestina. Glie Deutsch abbia for­ nito il modello per il personaggio di Morderai Cohen, che, nel Deronda, diventa per Daniel maestro di ebraismo, è un punto che gli studiosi della Eliot hanno concordemente accertato, come hanno accertato l’ipotesi che il compositore e pianista ebreo Anton Rubinstein costituisca il modello per la figura del musicista Klesmer, che ama una ricca ereditiera inglese, e che l’irritata madre della fidanzata liquida semplicemente « come un ebreo o uno zingaro ».'° Ma per Daniel Deronda, e quindi per la narratrice, che non è ebrea, addestramento al­ l’ebraismo significa negazione di una possibile emancipazione totale, che entrambi, George Eliot e Daniel Deronda, non ritengono né possibile né desiderabile. « The idea that I am possessed with is that of restoring a political existence to my people, making them a nation again, giving them a national center, such as the English have, though they, too, are scattered over the face of the globe.11 È la variante sionistica del romanzo borghese. « fl mio po­ polo » è un « centro nazionale » : singolare paragone degli ebrei con gli inglesi, che sarebbero entrambi dispersi per il mondo, dove tuttavia gli inglesi non dovrebbero mancare appunto di quel centro nazionale. Queste idee sono esposte da Deronda all’amica Gwendolen, che egli non ha mai pensato di sposare, e che ora, come ebreo, rifiuta di accettare come compagna, allo stesso modo che il compagno ebreo era stato così spesso respinto da famiglie non ebree. « Sono ebreo. » Questo fatto dovrebbe porre termine a tutto. Ciò viene consta­ tato nel romanzo Daniel Deronda del 1876. Ma nello stesso tempo vi si dimostra anche la sua natura di costellazione im­ mutabile, non trasformabile. George Eliot fa sì che al suo Deronda alla fine « si aprano gli occhi », per usare l’espressione di Brecht, con generale disa­ gio: in contrasto col semiebreo Proust e con l’allievo dei ge­ suiti Joyce. In Proust l’emancipazione dello snob ebreo sem­ bra riuscire così perfettamente, che solo l’inesorabile sezio­ namento del processo da parte del narratore può diagnosticare 379

il fallimento là dove lo stesso Bloch credeva di sentire il suc­ cesso. Infine Leopold Bloom, l’Ulisse ebreo-irlandese di Joyce, vive, come il Deronda originario, in uno stato di ambiguità fra l’Oriente e l’Occidente, fra i lotofagi e i ciclopi: come un ebreo che vive in Irlanda, e che improvvisamente lascia che si formino dentro di sé le parole di odio: « Cane di un cri­ stiano! »

5 · Bloch e Bloom a) Marcel Proust e Albert Bloch. Anche Marcel Proust — oil suo narratore, che si chiama ugualmente Marcel — pen­ sa subito allo Shylock di Venezia, quando si tratta di caratteriz­ zare un ebreo, vecchio o non più giovane, non particolarmente piacevole. AJbertine è morta, Robert de Saint-Loup è caduto sul fronte, più di vent’anni separano il mondo del Faubourg Saint-Germain durante la guerra mondiale dai tempi dell’affa­ re Dreyfus. Accettando un invito unicamente grazie al nome « Guermantes », Marcel entra ancora una volta nella casa del principe di Guermantes: che del resto è una nuova costruzio­ ne sull’avenue du Bois, come constata con disappunto l'invi­ tato. Tempo perduto e ritrovato insieme. Vi rivede anche l’amico di gioventù Bloch, dopo molti anni. «Bloch era entrato saltellando come una iena. Pensavo: < Frequenta salotti dove vent’anni fa non avrebbe potuto met­ tere piede. > Ma aveva vent’anni di più. Era più vicino alla morte. A che gli serviva la sua nuova fortuna mondana? Da vicino, nella traslucidità d’un volto dove, più remota e in una luce incerta, io non vedevo che la gaia giovinezza (sia che vi fosse sopravvissuta, sia che la rievocassi), affiorava, quasi ter­ rificante, smaniosa, la maschera d’un vecchio Shylock, in at­ tesa, tra le quinte, già tutto truccato, del momento d’entrare in scena, e già intento a recitare a mezza voce i primi versi. »n Shylock-Bloch nel salotto di un antisemita anch’egli invec­ chiato, di un antidreyfusardo che non aveva voluto ricevere la baronessa Alphonse de Rothschild e che era amico di Swann, nonostante la sua origine israelita, soltanto perché circolava la voce che questo cattolico ebreo di padre cattolico fosse il figlio illegittimo di un Borbone. Albert Bloch aveva realizzato una lunga e fortunata ascesa 380

sociale. Fortunata? « Quali vantaggi gliene derivavano? » Il narratore ripete a se stesso la domanda. Bloch ha fatto un matrimonio di convenienza, un « Einheirat », nel senso inteso da Karl Kraus quando rendeva così il termine « monogamia ». Bloch padre è morto. Il figlio onora la sua memoria in una maniera addirittura cultuale: con un senso della famiglia tipicamente ebraico, che si distingue radicalmente, per la sua autenticità, dal senso della famiglia dei duchi di Guermantes o La Tremolile, che si riferisce alla genealogia, non al singo­ lo portatore di nomi famosi. Àll’inizio del romanzo-fiume sul tempo perduto Bloch non aveva fatto il suo ingresso in un modo precisamente brillante. 11 giovane Marcel può invitare, durante le vacanze a Combray, l’ammirato compagno di scuola, anche se il nonno, liberale ma non particolarmente filosemita, avverte che i Bloch non sono precisamente il vanto della borghesia ebrea. Lo stesso giovane Bloch, cosciente della sua posizione di outsider, fa di tutto per sottolinearla ulteriormente, con cura. Maniere, modo di parlare, apparente disprezzo delle convenzioni detta­ to da un eccessivo rispetto interno delle convenzioni : tutto fa di lui un ospite insopportabile. Secondo la sua abitudine e nel modo magistrale che gli è proprio Proust introduce il giovane ebreo colto, ricco e appa­ rentemente così poco socievole attraverso il suo modo di par­ lare e di esprimersi. Bloch parla di letteratura — e di che cos’altro potrebbe parlare? Ma con un accento che da un lato ricorda il rapporto poliziesco, dall’altro riecheggia gli aggetti­ vi dei poeti omerici. Come si potrebbe leggere nel verbale dell’interrogatorio di un filibustiere, Alfred de Musset è « le sieur de Musset »; con lo stesso tono sospettoso si parla del «nommé Racine». Per esempio, Lamico Marcel è esortato a diffidare della sua « dilezione abbastanza bassa per il sir de Musset. È un mariolo dei più perniciosi e un tipaccio piut­ tosto sinistro. Devo confessare, d’altronde, che lui e anche l’altro di nome Racine hanno fatto nella vita ciascuno un verso abbastanza ben ritmato, e che ha il merito, che per me è il supremo, di non significare assolutamente niente. Sono < La bianche Oloossone et la bianche Camyre > e < La fille de Minos et de Pasyphaé >. Mi sono stati segnalati a discarico di quei due malandrini da un articolo del mio diletto maestro, il pa­ dre Leconte, caro agli dèi immortali. »u Nulla è più lontano 381

da queste parole della spontanea mancanza di rispetto di un giovane studente sfacciato. Tutto è voluto, affettato. La per­ fetta convenzione dell’anticonvenzione. Il « debunking » [ridi­ mensionamento] dei sacri classici e romantici; montaggio dei diversi livelli linguistici, dallo stile poliziesco fino a quello epico; l’amato maestro di questo giovane ebreo, che è un pa­ dre; lode del formalismo artistico estremo. Bloch giura « per Apollo » o « per Zeus », chiama l’amico Marcel « cher maître », e vuole che anch’egli lo chiami così. Le maniere di Bloch sono rigorosamente adeguate a que­ sto modo di esprimersi. Perfetta convenzione dell’anticonvenzione. È invitato a colazione, arriva un’ora e mezza in ritardo, tutto sporco per la pioggia, non soltanto non si scusa, ma istruisce gli ospiti borghesi: « Non subisco mai l’autorità del­ le perturbazioni atmosferiche né delle divisioni convenzionali del tempo. Sarei lieto di riabilitare l’uso della pipa d’oppio e del kriss malese, ma ignoro quello di quegli strumenti infi­ nitamente più perniciosi e d’altronde volgarmente borghesi: l’orologio e l’ombrello. »,4 Comunque Bloch non viene più invitato, in modo che per il momento Marcel non può neanche chiedergli perché mai il merito principale di un verso deve consistere nel fatto di « non significare assolutamente niente ». Questi erano gli esordi. La duchessa di Guermantes lo ignora; suo cognato, il barone di Charlus, dapprima s’informa da Marcel per sapere se Bloch è giovane e bello, ma lo chiama uno straniero. Alla risposta che è francese, l’aristocratico, che contemporaneamente difende il condannato capitano Dreyfus, in contrasto con tutta la sua famiglia, replica: « Ah... credevo che fosse Ebreo. »” Del resto l’argomento di Charlus a favore di Dreyfus è peggiore del crudo rifiuto antisemitico. Il barone spiega che Dreyfus non può aver commesso nessun tradimento contro la Francia, al massimo contro la « Giudea » ; e quindi nel peggiore dei casi — qualora l’accusa sia vera — gli si può contestare una contravvenzione delle « leggi dell’ospitalità». Proust evita di confrontare direttamente Bloch e Charlus. Il risultato di questo confronto sarebbe ancora una volta l’an­ tagonismo di Shylock e Antonio, o di Heine e Platen. Però il confronto è sviluppato indirettamente, ed è un importante elemento della costruzione complessiva del grande romanzo. Importante per la comprensione della Recherche du Temps 382

Perdu non meno delle « intermittences du coeur », del ricor­ do e della filosofia del tempo perduto e riconquistato. Anche qui antiteticità e mescolanza sono mezzi rappresen­ tativi del narratore. In quanto Proust fonde, nel processo del tempo, tutte le posizioni in apparenza rigidamente antiteti­ che, in modo che i domestici comunicano con i padroni e infine possono diventare loro padroni, i donnaioli si mettono per la strada di Sodoma, le mogli impeccabili si avviano verso Gomorra, gli emarginati ebrei diventano pilastri del nobile Faubourg antisemitico. E quindi Bloch e Charlus sono bensì i più puri esponenti dell’assoluta diversità in una società di aristocratici, borghesi, plebei e domestici francesi: come amicizia-inimicizia di Giudea e Sodoma-, però c’è un sistema estremamente raffinato di fu­ sioni e intersezioni. Swann resta un membro della famiglia Shylock, anche se si trova sul più alto gradino dell’assimila­ zione. Non vuole prenderne atto, svicola, sfugge, quando il di­ scorso cade su Bloch, che egli dovrebbe sì disprezzare, come membro del Jockey-club, ma non può farlo, perché è un ebreo. E quindi chiama in aiuto la storia dell’arte. Bloch? « Ah sì, quel ragazzo che è stato qui una volta, e che somiglia tanto al Maometto π di Bellini... »“ In Proust c’è anche l’addizione heiniana di Sodoma e Giu­ dea. Come nei Bagni di Lucca Heine aveva presentato il mar­ chese Gumpelino insieme come ebreo aristocratico e come amico intimo del conte Platen, anche nel poema del tempo perduto ci sono le intersezioni più sbalorditive — e più comi­ che. Per esempio, durante le vacanze estive al mare, a Balbec, dove M.lle Bloch, la sorella, esegue pubblicamente con l’amica-attrice una scena lesbica, inducendo due ufficiali che sono ospiti del Grand Hôtel de Balbec (Baalbek!) con le loro mogli a chiedere al direttore la partenza delle due signore. Del resto senza successo. Lo zio di Bloch, il Signor Nissim Bernard, è uno dei più importanti ospiti permanenti dell’al­ bergo, poiché per lui Sodoma è lì — nella figura di un came­ riere. Ma per il direttore dell’albergo Bernard è più importan­ te degli ufficiali della domenica. Si consiglia semplicemente alle signore di evitare esibizioni pubbliche. Lo stesso Bloch reagisce come un bravo fratello e nipóte ebreo. Dal punto di vista erotico di fronte a Sodoma e Gomor­ ra può provare soltanto un senso di disagio; ma il doppio le­ 383

game è più forte: come comunione della famiglia e dell’e­ braismo. È vero che egli stesso rimane esclusivamente, in tutta purezza, l’outsider ebreo della società, così come Charlus, che può seguire il suo albero genealogico fino alle crociate, rimane e — infine — vuole anche rimanere, in tutta purezza, l’outsider erotico. Del resto col passare del tempo le loro vie hanno una dire­ zione sempre più centrifuga. Nella misura in cui Bloch si fa strada nella società dei salotti aristocratici, Charlus ne viene inarrestabilmente allontanato. Si compie — e ripete —, con lui, il processo del suo amico Swann. Qui la cocotte Odette de Crécy, lì il plebeo e musicista Morel. Alla fine l’ombra sullo splendore sociale dell’aristocratica Odette non è più gettata dalla propria origine e professione, ma dal legame e matri­ monio con Swann, l’amico dei duchi. Morel, che deve tutto al barone, una volta arrivato si sforza di far dimenticare quella protezione. Bloch invece è salito e sale. Era stato un autore di teatro: aveva scritto un libro su Filippo π di Spagna; l’ex dreyfusardo (talvolta, del resto, antisemita ebreo) durante la guerra si è trasformato prima in uno sciovinista, poi in un pacifista; (ira è uno scrittore di sicuro successo, ed ha cercato e trovato il suo nuovo ambiente: il Faubourg Saint-Germain. Del resto ora ha semplicemente trasformato il suo pseudonimo in cogno­ me, e si chiama Jacques du Rozier. Porta anche il monocolo. I capelli crespi sono stati lisciati da tempo; il naso pronunciato potrebbe apparire come segno di antica nobiltà francese. « D’al­ tra parte egli si installava dietro il cristallo di quel monocolo in una posa così altera, distante e comoda, come se fosse stato il cristallo d’una carrozza a otto balestre; e, per conformare il volto ai capelli lisci e al monocolo, i suoi lineamenti non esprimevan più nulla. »” Ora può accedere al salotto della principessa di Guermantes. È vero che colei che porta ora questo nome è nota da tempo ai lettori di Proust: è Madame Verdurin, una borghese peral­ tro molto ricca. Il trascorrere del tempo ha reso possibile tut­ to: Madame Verdurin come principessa, Bloch-du Rozier co­ me idolo dei salotti aristocratici. Per i giovani e « autentici » duchi della nuova generazione entrambi sono sempre stati del numero. Egli stesso ha conservato la religione ebraica: forse per rispetto per il Super-io paterno o per l’orgoglio dell’ir­ 384

revocabilità, come i Rothschild. Sua figlia sposa un cattolico. Il personaggio di Albert Bloch, figlio di Salomon, illustra, per Proust, il semiebreo che in ogni parità sociale aveva sem­ pre subodorato un’illegittimità che poteva essere artisticamen­ te stimolante, insieme le assurdità del processo del tempo che l’inattendibilità della memoria umana, « intermittente ». Alla fine del romanzo, quando si tratta di ritrovare il tempo per­ duto scrivendo, per Proust Bloch è installato nel mondo dei Guermantes altrettanto legittimamente che tutti gli altri, e cioè illegittimamente. Legittimamente come la duchessa de Broglie, figlia di madame di Staël, nipote del banchiere bor­ ghese Necker (lo stesso Proust sceglie quest’esempio). In questo modo, attraverso il corso del tempo, il possesso, l’attività letteraria (che nel caso di Bloch l’autore qualifica come mediocre e usurpatoria) e l’oblio generale, si compie una riuscita assimilazione dell’ebreo. Shylock è stato riscattato dal passare del tempo e dall’uguaglianza giuridico-finanziaria del capitalismo borghese. Resta il problema deWidentità di Bloch con se stesso. Proust vede appositamente il personaggio dall’esterno: si occupa del comportamento di Bloch, non delle sue motivazioni. Ma Bloch — anche se fosse ospite dell'« autentica » duchessa di Guer­ mantes, e non soltanto della borghese che è diventata sua cu­ gina in seguito al matrimonio col principe di Guermantes — resterebbe comunque, davanti a se stesso, l’intruso che ricorre al monocolo e all’inespressività per far dimenticare i suoi tratti troppo spiccati, dunque anche troppo espressivi. La nuova sti­ lizzazione nel senso di un’assimilazione estrema corrisponde esattamente alla stilizzazione di un tempo, nel senso di una provocazione permanente, dunque di un’apparente non-assimilazione. Il grande du Rozier, che con tanta esuberanza (e disturbando tutti gli ascoltatori) ringrazia l’attrice ebrea Ra­ chel, nel salotto della falsa Guermantes, perché ha recitato ma­ le e in modo inesatto alcuni versi di La Fontaine, fa lo stesso gioco del giovane Bloch, che non trovava parole abbastanza sarcastiche per i farabutti Racine e Musset. Allora la conven­ zione dell’anticonvenzione; ora la convenzione della conven­ zione, però praticata da un individuo che è al di fuori di tutte le convenzioni. Uno snob? Solo nella misura in cui non ha Scelta. Ma questo è ancora snobismo? Shylock non è fatto per fare lo snob. 385

b) Leopold Bloom come Ulisse (James Joyce, Ulisse). Per­ ché mai, nel romanzo di James Joyce,18 compaia come pellegri­ no Ulisse proprio un ebreo: Mr. Leopold Bloom, residente al n. 7 dell’Eccles Street di Dublino, di professione « advertise­ ment-canvasser », espressione con cui a quei tempi, e cioè il 16 giugno 1904, si usava indicare un procacciatore di annunci pubblicitari, è un problema che è stato discusso spesso. I ri­ chiami generali ad Aasvero, all’eterno pellegrinaggio, all’inquietudine, alla nostalgia per la patria non portano lontano. Nei dodici episodi in cui si suddivide quel giorno dell’Ulisse ebreo-irlandese, dal tè mattutino per l’infedele Penelope fino al rientro notturno dopo la sosta presso una Circe chiamata Mrs. Bella Cohen, i famosi perigli dell’eroe omerico sono di­ stribuiti nella giornata di Leopold Bloom con grande esattez­ za, anche se degenerati a un livello piccolo-borghese. Dovremo quindi partire dalla premessa che Joyce intende le avventure di Ulisse — sia nel poema omerico che qui, nella capitale ir­ landese e all’inizio del secolo xx — come patimenti ebraici. Un’osservazione che l’autore dell’t/Zisse aveva fatto in pre­ senza di uno dei primi interpreti del libro, Stuart Gilbert,” e che quest’ultimo riferisce, sembra offrire un’ulteriore indica­ zione. Nel modo esitante e allusivo che gli era proprio, Joyce aveva parlato al futuro interprete del libro del filologo fran­ cese Victor Bérard su Les Phéniciens et l’Odyssée, riferisce Stuart Gilbert nella sua prefazione del 1950. Dalla lettura dell’ampio libro di Bérard risultava che questo studioso di Omero interpretava effettivamente VOdissea come un giornale di bordo originariamente fenicio, dunque semitico. In seguito il rapsodo greco che è noto col nome di Omero avrebbe dato all’opera la sua forma artistica, in lingua ionica. La conclusione tratta da Bérard e citata da (filbert è questa: « L’Odissea appare come un libro di bordo fenicio, trasposto in versi greci e in una leggenda poetica che corrispondeva ai principi molto semplici e tipici degli elleni: personificazione antropomorfica di oggetti, umanizzazione di forze naturali, ellenizzazione della materia prima. Gon l’aiuto di questi me­ todi, a cui i greci devono tanti dei loro miti e leggende, il roz­ zo modello semitico era trasformato in un capolavoro autenti­ camente greco: ne\V Odissea. » Anche questo passo di Bérard è stato adottato da Joyce; « ellenizzazione » di un materiale di base dato: ne parla Mul386

ligan all’amico Stephen Dädalus, affermando che è un compi­ to — irlandese — che vale la pena di affrontare. La struttura dell’t/Zisse nella sua duplicità, come racconto della giornata sia di Dädalus che di Bloom, che non riescono a incontrarsi fino alla sera tardi, quando si ritrovano finalmen­ te in ospedale, dovrebbe essere quindi intesa come il viaggio che Kulisse semitico e il suo Omero greco-irlandese compio­ no nella giornata, prima separatamente, poi insieme. Dove, per un fenomeno di rifrazione ironica, quest’Ulisse ebreo e sensuale-melanconico, il personaggio errabondo, appare quasi come una creazione del suo poeta irlandese. Stephen Dädalus ritorna nel romanzo: come continuazione del precedente Au­ toritratto di Joyce, del Portrait, of the Artist as a Young Man. Il personaggio di Bloom s’incontra col suo inventore, poiché Stephen ha il nome dell’inventore primo e archetipo: del gre­ co Dedalo. È vero che Bloom, lo straniero ebreo di Dublino, si rivela protettore del suo giovane, futuro Omero. Entrambi sono outsider: Stephen è irlandese e cattolico, però evade dalla sua comunità, i suoi libri e le sue visioni poe­ tiche lo estraniano allambiente. Cerca di sbarazzarsi della comunità con l’ubriachezza e la bestemmia.20 Con il canto del­ l'introito entra nel bordello di Circe. Il grande dialogo finale fra Dädalus e Bloom, che ricapitola la storia della giovinezza di Bloom, avviene secondo lo schema delle domande e rispo­ ste del catechismo. Leopold Bloom, con un nome che ricorda l'impero degli Asburgo, dove glj imperatori talvolta si chiamavano Leo­ pold e dove all’inizio del secolo xix, in seguito all’einancipazione borghese, gli ebrei ricevevano cognomi schematici in cui comparivano fiori e animali, o metalli, o anche colori come il nero e il rosso e il bianco o il blu, nei suoi monologhi interni non si libera da questa sua natura ebrea. È orgoglioso di Mrs. Marion Bloom, la cantante, di cui giustifica stentatamente davanti a se stesso le sbandate ricordando il suo sangue ebraico-spagnolo. (Ili ebrei spagnoli, i sefarditi, sono piìi nobili degli aschenazi tedesco-orientali. Compaiono locuzioni e maledizioni ebraiche. Nelle visioni della notte di Valpurga dell’ubriaco Bloom, a casa di Circe, il protagonista esclama improvvisamente « Dog of a Chris­ tian ». Al mattino il suo spirito si muove già verso Oriente. L'episodio dei lotofagi lo trova immerso in meditazioni: « The 387

far east. Lovely spot it must be; the garder of the world, big lazy leaves to float on... Flowers of idleness... Waterlilies... »21 Ha nuovamente la sua parte la metempsicosi, la trasmigrazio­ ne dell'anima, come spiega Bloom, che ha una certa cultura, alla sua Molly, che legge « Metempsychosis » come « MetHim-Pike-Hoses »: naturalmente. D’altro lato Bloom crede fermamente di essere un irlandese. Quando il ciclope nazionalista e antisemita, questo Polifemo irlandese che in Joyce non ha nome, ma è chiamato soltanto « the citizen », come incarnazione della massa anonima, ma stabilmente residente nel paese, contro il vagabondo Ulisse, chiede all’intruso che è entrato nella bettola qual è il suo nome — alla maniera del ciclope omerico, — s’intesse il se­ guente dialogo: — What is your nation, if I may ask? — says the citizen. — Ireland, — says Bloom. — I was bom here. Ireland. The citizen said nothing only cleared the spit out of His gullet and, gob, he spat a Red hank oyster out of him right in the corner.22

Allora la conversazione nella bettola sguazza nelle antichità irlandesi, si dicono alcune cose contro ΓInghilterra, si fa nuo­ vamente il giro delle bibite: poi Bloom continua il suo di­ scorso, che a rigore è un discorso ricordato a posteriori e monologicamente.

*— And I belong to a race too, says Bloom, that is hated and persecuted. Also now. This very moment. This very in­ stant. Gob, he near burnt his fingers with the butt of his old cigar. — Robbed, says he. Plundered. Insulted. Persecuted. Taking what belongs to us by right. At this very moment, says he, putting up his fist, sold by auction off in Morocco like slavers or cattles. — Are you talking about the new Je­ rusalem? says the citizen. — I’m talking about injustice, says Bloom.2·’ Naturalmente è una conversazione tra sordi, poiché nessuno sta a sentire l’altro. A eccezione di Bloom, che anche qui re­ sta uno straniero e un vagabondo, poiché non può richiamarsi a qualcosa che abbia in comune con i ciclopi della bettola 388

di Dublino. Non ha niente da dire, quando Joyce sciorina uno dei suoi cataloghi. Questa volta è un catalogo irlandese, una variopinta miscela di leggenda, storia, geografia e affari, come « Glendalough, the lovely lakes of Killarney, the ruins of Clonmacnois, Cong Abbey, (den Inagh and the Twelve Pins, Ireland’s Eye... the Brewery of Messrs. Arthur Guiness, Son and Company (Limited)... Isolde’s Tower, the Mapas obe­ lisk... »24 Poi arriva una carrozza dal castello, con alcuni impiegati. Bloom è uscito per alleggerirsi. Ma anche durante questa attività i suoi pensieri sono fìssati sul contrasto tra quello che potrebbe essere e quello che è. Nel frattempo i ciclopi da­ vanti al banco continuano a discutere sulle strane faccende di questo Bloom che evidentemente non è cugino del dentista Bloom. Uno degli impiegati, che si chiama Martin, sa esatta­ mente di chi si tratta: « He’s a perverted jew from a place in Hungary and it was drew up all the plans according to the Hungarian system. We know that in the castle. »“ Il pubblico ufficiale sa tutto. Del resto si chiama Virag. Poi la confusa discussione si sposta sul messianesimo degli ebrei, per il quale un buon cattolico irlandese può avere sol­ tanto parole di scherno. Ma in quel momento suona la campa­ na delia chiesa, e allora la corrente epica porta infinite masse di ordini monastici e di santi medi e anche insignificanti, c’è anche un san Leopoldo. Bloom ritorna, i ciclopi salgono sulla carrozza per andarsene, il « citizen » che rappresenta il ciclo­ pe P.olifemo, e porta anche una benda su un occhio, si af­ fretta ancora a urlare: « Three cheers for Israel! » (« Tre evviva per Israele »); allora Bloom non sa trattenersi dall’offrire a sua volta un catalogo: « Mendelssohn was a jew and Karl Marx ànd Mercadante and Spinoza. And the Saviour was a jew and his father was a jew. Your God. » 26 Ancora una volta Bloom è scisso anche nel suo modo di esprimersi. Parla sì del redentore, mentre come ebreo non potrebbe farlo, ma poi dice « il vostro dio ». Martin cerca di evitare la nuova scenata, per poter finalmente andare, ma il « citizen » fiuta la possibilità di un nuovo alterco e chiede, di rimando: « Il dio di chi? » Al che Bloom replica: « Il vo­ stro Dio era ebreo. Cristo era un ebreo come me. » Ora Po­ lifemo salta nuovamente dentro la bettola. Per Gesù, vuole ammazzare lo sporco ebreo che ha osato pronunciare il santo 389

nome. « By Jesus, I’ll crucify him so I will. » (« Per Cristo, lo crocifiggo, vedrete. ») L’ironia della situazione è perfetta. Il linguaggio porta alla luce e conferma la pretesa bestemmia di Bloom, quando ha rivendicato per sé Gesù, in quanto ebreo. Ora il bestem­ miatore, by Jesus, deve essere crocifisso, almeno nelle parole del ciclope! Quésto lllisse aveva voluto restare anonimo, come il suo mo­ dello omerico nella caverna di Polifemo: un Outis, un Nessu­ no. Non gli * possibile. Deve confessare la propria identità. Viene continuamente fuori. « Cane di un cristiano! »: è una espressione orientale. Non si può avvertire nessun orgoglio per gli « amabili laghi di Killarney » o la torre di Isotta. Bloom parteggia per Mendelssohn (il nipote e musicista), per Karl Marx, Mercadante e Spinoza. E per il redentore. Della maledizione di Aasvero avevano parlato anche i ci­ clopi davanti al banco, mentre Bloom era fuori, occupato con i suoi pensieri e il suo Busso. Proprio la struttura epica della scena dei ciclopi del \'Ulisse permette di riconoscere che Joyce non intende legittimare il suo Ulisse Bloom solo con i super­ ficiali miti dell’ebreo Aasvero. Per il grecista Bérard il navigatore Ulisse era stato un se­ mita, però il suo Omero era un greco e un poeta. Erano legati l’uno all’altro. Nel xvi episodio (£«meo), quàndo Bloom pren­ de con sé Stephen, che è stanco morto e non sa dove dormire, questa comunione degli outsider viene sottolineata: ancora una volta con un paradosso ironico, com’era accaduto con il comportamento del ciclope Polifemo. Proprio l’irrequieto e non indigeno Bloom vorrebbe ricon­ durre stabilmente alla sua dimora Stephen Dädalus, il figlio dello stimato Simon Dädalus. Di qui la sua domanda al figliuol prodigo, che è un poeta: « ... but why did you leave your father’s house? » « To seek misfortune, was Stephen’s answer, e27 Più tardi, mentre bevono caffè e mangiano panini, un ma­ rinaio si avvicina al tavolo, ma parla soltanto a Stephen. Di cui apprende il cognome, anche se Bloom vorrebbe impedirlo. Ma Stephen non è Ulisse. Non gli viene in mente di presentarsi come « Nessuno ». Il marinaio è entusiasta, quando sente il cognome « Dädalus ». Conosce il padre. Chissà se Stephen lo conosce? Ha sentito parlare di lui.

« — He’s Irish, the seaman bold affirmed, staring much in the same way and nidding. All Irish. » « All too Irish, Stephen rejoined. »“ Ora Stephen conosce improvvisamente quell’uomo troppo irlandese, il proprio padre. E il cognome « Dädalus », è chia­ ro, è « assolutamente irlandese ». Sono legati l’uno all’altro, come risulta dalla catechizzazione nel penultimo episodio (xvu) di questa Odissea. In apparenza tutto è completamente divergente. Bloom ha ricevuto tre battesimi : uno protestante, due cattolici. Stephen è stato battezzato solo una volta, però dallo stesso religioso che ha anche accolto Bloom adulto, per l’ultima volta, nella comunità della chiesa cattolica. Il figlio di Rudolf Virag, più tardi Rudolf Bloom, è partito da Szombathely, in Ungheria, e attraverso Vienna, Budapest, Milano e Londra è infine arrivato a Dublino. Padre e madre Däda­ lus conoscono, come loro luogo d’origine, soltanto Cork e Dublino.29 Stephen è poeta in un mondo non poetico; se ne va come figliuol prodigo e come cattolico miscredente, per cercare la sfortuna. Bloom ha dietro di sé la sfortuna e cerca la sicurezza che non può essere raggiunta: nonostante l’acqua battesimale e l’adattamento all’ambiente dublinese nel modo di parlare e di comportarsi. Bloom e Stephen restano fuori. Incarnano la contemporaneità della partenza con il ritorno in patria. Ma nell’ Ulisse la partenza di Stephen Dädalus non porta lontano da Dublino. E a sua volta il ritorno di Bloom dalla sua so­ gnante Penelope non è un ritorno.30

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VI ■ L’odio di sé dell ’ebreo

La cosa è ben nota. La formula si trova in un libro di Theodor Lessing del 1930. Sotto il titolo L’odio di sé degli ebrei, pubblicato a Berlino dallo Jüdischer Verlag,1 Theodor Lessing, professore di filosofia e psicologo che quattro anni pri­ ma studenti e professori nazionalisti e antisemiti avevano scac­ ciato dalla Technische Hochschule di Hannover, cercava con­ temporaneamente di interpretare due fenomeni costitutivi per la sua esistenza e il suo pensiero: l’odio per gli ebrei e l’odio di sé degli ebrei. Che l’ostinazione della sua riflessione avesse un’origine traumatica, di questo fatto l’autore deli’Untergang der Erde am Geist [La fine della terra a causa dello spirito] era perfettamente cosciente. Lessing non si liberava dall’idea che la sua amicizia con Ludwig Klages — un’amicizia di gioventù, che era nata quando erano compagni di scuola a Hannover — si fosse presto spezzata. In seguito Klages non ha più fatto il nome di Lessing; però certi eccessi di antisemitismo partico­ larmente isterici, per esempio nella terrificante introduzione agli scritti postumi di Alfréd Schuler, possono essere interpre­ tati a loro volta come una reazione traumatica a Lessing.2 Il libro sull’odio di sé degli ebrei cade in una fase sionisti­ ca del pensiero di Lessing. Lo « Jüdischer Verlag » di Berlino era un’impresa sionistica. D’altro lato lo stesso Lessing non incarnava che troppo spesso proprio questo: l’odio di sé del­ l’ebreo. Nella sua autobiografia Einmal und nicht wieder [Una volta e mai più] ha toccato questo argomento solo con esitazio­ ne, quasi con imbarazzo. Quanto fortemente l’odio per gli ebrei e l’odio di sé del­ l’ebreo possano essere intrecciati l’uno con l’altro, Lessing lo dimostrava considerando un affare del 1910 che in una certa misura è diventato un episodio della storia della letteratura, per il fatto che a due letterati ebrei si aggiungeva un terzo letterato, di origine non israelita, sposato con una donna di origine israelita, e persino incline, talvolta, a piccole maligni­ 392

tà antisemitiche. Nello scritto polemico II dottor Lessing Tho­ mas Mann prendeva decisamente posizione a favore del cri­ tico ebreo Samuel Lublinski (1868-1910), che proveniva dal villaggio di Linde bei Pinne, in Posnania, e dunque per Les­ sing, nativo di Hannover, doveva essere annoverato tra gli « ebrei orientali ». Vale la pena di osservare che Lublinski fu il primo a capire il valore letterario mondiale dei Budden­ brook e a valutare esattamente la classe dell’autore. Il suo li­ bro Bilanz der Moderne [Bilancio della letteratura moderna] (1904), seguito quattro anni dopo da uno scritto sulla Conclu­ sione della letteratura moderna (Ausgang der Moderne), è in­ teressante perché rappresenta una precoce applicazione di quel concetto di modernità che più tardi imperverserà nella critica letteraria, e per la sua valutazione altamente positiva dell’ope­ ra di Thomas Mann.3 È difficile dire che cosa può avere indotto Theodor Lessing, sei anni dopo la pubblicazione del libro di Lublinski, e del resto pochi mesi prima della morte dell’autore, a comporre un articolo polemico intitolato Samuel fa il bilancio o il pic­ colo profeta, e a pubblicarlo nella « Schaubühne », edita da Siegfried Jacobson. Il titolo farebbe pensare che l’autore fos­ se un antisemita nazionalista, piuttosto che « Lazarus-Les­ sing », come amavano chiamarlo i suoi avversari. Come se non bastasse, la polemica di Lessing, che non è d’accordo col bilancio letterario di Lublinski, se la prende con le caratteristiche fisiche e private di quel critico: ebreo picco­ lo, con la pancia prominente, che mangia volentieri. Lessing si esprime così : « Parlava di Weltanschauung. Con i suoi brac­ cìni lanciava in aria i suoi pensieri, come un oracolo. Pugna­ lava falsi dei. Saltellava per tutta la letteratura tedesca. Itisomma, faceva come Geova il giorno del giudizio: i buoni alla sua destra, i cattivi a sinistra. » Non c’è da stupirsi se la polemica di Thomas Mann si av­ vale di argomenti analoghi: « Ma io conosco anche il Signor Lessing (che colpa abbiamo delle nostre conoscenze?), e mi limito a dire che chi pretendesse di vedere in lui uno spirito della luce o un modello di virilità ariana dovrebbe essere ac­ cusato di fantasticheria... Esperienze umilianti... dovrebbero averlo predisposto a un atteggiamento altruistico, per quanto riguarda la mancanza di attrattive fisiche. » Pare trattarsi dell’ingiallita polemica di un lontano perio-

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do prebellico, e tuttavia è qualcosa di più. Che fosse ingiusti­ ficata, o che non lo fosse, l’ostilità di Thomas Mann diventava letale per Lessing, come doveva riconoscere egli stesso nella sua autobiografia. Quando veniva proscritto e scacciato come ne­ mico del popolo, a Hannover, colui che aveva « offeso » il feldmaresciallo von Hindenburg, e cioè Lessing, pesava que­ sto argomento: persino il liberale Thomas Mann lo aveva disprezzato. Il 31 agosto 1933 Lessing veniva fucilato a Marien­ bad, nell’esilio cecoslovacco, mentre a Norimberga si svolge­ va il « Congresso della vittoria del partito ». Gli assassini non sono mai stati scoperti. Thomas Mann considererà con disagio questo suo scritto polemico. Per un certo tempo aveva pensato di fare della per­ sona e del modo di vivere di Lessing l’argomento di una no­ vella intitolata Un poveretto. Ci sono appunti in merito. Poi rinunciava anche a questo programma epico. L’autore della Morte a Venezia abbandonava il motivo del suo personaggio Gustav von Aschenbach, che si difende così decisamente con­ tro le influenze culturali « orientali ». Tra i lavori di Aschen­ bach che vengono nominati nel racconto c’è anche la storia di Un poveretto. Che cosa poteva indurre l’ebreo Theodor Lessing a denun­ ciare un altro scrittore ebreo come « ebreo » : come se fosse un argomento? Il caso non è isolato, nell’attività letteraria di Lessing, Ancora nello scritto sionistico sull’odio di sé del­ l’ebreo, Lessing, che fino alla fine conservava la convinzione di essere un poeta lirico importante, non sapeva rinunciare a stampare alcuni versi del 1902. A quel tempo insegnava in uno dei nuovi collegi di campagna (Haubinda) che erano stati creati, in Germania, secondo il modello inglese, da pedagogisti come Hermann Lietz, Gustav Wyneken, e più tardi anché da Paul Geheeb. Vi erano educati molti ragazzi della ricca bor­ ghesia ebraica. Il loro insegnante Lessing poetava così:

Ach, meine Schüler dichten schon gemeinsam, Und reif wie sie werd’ich mein Lebtag nicht, Der Dichter Speier und der Dichter Cohn, Die Dichter Meier, Frank und Mendelssohn.4

L’ironia reale della vita avrebbe contestato l’ironia di Theo­ dor Lessing, nel senso che gli allievi-letterati che egli nomina 394

sarcasticamente, vale a dire Wilhelm Speyer e Bruno Frank, sarebbero diventati effettivamente autori migliori del loro maestro. Però non si trattava di invidia letteraria: poiché evidente­ mente Lessing non disprezzava questa letteratura « minoren­ ne ». Ma allora: che cosa avevano a che fare i nomi e le ge­ nealogie ebraiche, con questa argomentazione? Non erano an­ cora una volta una manifestazioné di odio di sé ebraico? Sembra che Lessing si aspetti l’obiezione, poiché in quel passo del suo libro del 1930 dove abbandona alla curiosità dei lettori questa reminiscenza poetica si sforza di distinguere nettamente tale autodeprezzamento dall’antisemitismo genui­ no. Anche questo non avviene senza ricadute. Lessing viene a parlare dèll’odio antisemitico che cominciava a svilupparsi in questi « collegi di campagna », e che induceva ad esempio Hermann Lietz a scrivere questo passo, nei suoi regolamenti scolastici: « In generale i collegi di campagna tedeschi non ac­ cettano ragazzi scadenti o ragazzi di origine israelita. » Indi­ gnato Lessing dava le dimissioni, però doveva constatare che le famiglie della borghesia israelita non pensavano di reagire ritirando i loro figli da questi istituti pedagogici. Lo Shylock tedesco-borghese accettava l’antisemitismo, quando colpiva « soltanto gli altri ». Ancora una volta Lessing vedeva giusto e ragionava male. Invece di diagnosticare la disperata cecità di una volontà di assimilazione borghese, dunque un fenomeno sociale, il sio­ nista Lessing ricorreva a cavilli di tipo razzistico e parlava della « perversione di questo ceto sradicato ». L’amico di gio­ vinezza e ora nemico Klages non si sarebbe espresso in un modo diverso. L’analisi del trauma dell’identità ebraica degenerava ripe­ tutamente a sentimentalismo, oppure — nuovamente -— alla proclamazione della propria concordanza con i nemici. Ciò può essere connesso con certe caratteristiche dello sviluppo psichico di Lessing che egli stesso ha decifrato in seguito, nel suo libro migliore, e cioè nell’autobiografia, e a cui aveva allu­ so anche Thomas Mann, con una certa meschinità. Ma ha un peso maggiore, tra le cause di questa incapacità di analisi, l’agnosticismo antistorico di Lessing: che, a imitazione di Nietzsche, non tiene in nessun conto il pensiero storico, per tacere della filosofia della storia. Per cui L-essing, proprio co­ 395

me Klages, deve ricorrere all'aiuto del biologismo, per cadere subito iti un ingranaggio mentale caratterizzato da vocaboli come perversione, sradicato, uomini tedeschi. « Come si spiega che tutti gli uomini amino se stessi, mentre soltanto l'ebreo si vuol male? »5 I.a domanda di Lessing è posta ancora una volta sulla base di un pensiero biologistfico antistorico, e quindi è destinata a restare senza risposta. È, la domanda deW'amore di sé dell’outsider sociale. Conosciamo l’atteggiamento della donna intellettuale: « Non posso sof­ frire le donne. Soltanto con gli uomini si può parlare. » O l’odio di sé dell’omosessuale. Per esempio nelle parole di André Gide: « Io non sono omosessuale, sono pederasta. » Lessing dà alla propria domanda una risposta sionista. Ri­ fiuta con scherno l’assimilazione.6 « Tu diventi < uno degli al­ tri >, e diventi incredibilmente autentico. Forse un po' troppo tedesco, per essere pienamente tedesco. » La risposta è nuo­ vamente patetica per l’insicurezza, per l’odio di sé sublimato che esprime. « Chi sei? Forse il figlio del volubile commer­ ciante Nathan e della pigra Sara...? No, Giuda Maccabeo fu tuo padre, la regina Esther tua madre. » Ancora nell’entu­ siasmo sionistico si esprime l’odio per il volubile Nathan e la pigra Sara. Le sei biografie con cui il libro sull Odio di sé dell'ebreo vorrebbe dimostrare la sua tesi sono stimolanti e istruttive nei particolari, però provano il modo inesatto in cui Lessing ha inteso il fenomeno che dà il titolo al suo scritto. Paul Rèe, dap­ prima legato a Friedrich Nietzsche da una stretta amicizia che in seguito si sarebbe spezzata, e inoltre suo rivale nei confronti di Loti von Salomé, non era affatto un esponente dell’odio di sé dell’ebreo, per quanto ci consente di vedere la sua filosofia. Come non lo era il poeta lirico Walter Calé: un suicida che Theodor Lessing si sforza di avvicinare al disgusto di sé teo­ rizzato da Otto Weininger. Neanche Maximilian Harden lo conosceva, lo specifico odio di sé. Il suo sforzo di integrarsi — com’è inevitabile — è caratterizzato da un’ipertrofia dell’assi­ milazione. Contro il Kaiser e per il principe Bismarck. « Forse un po’ troppo tedesco, per essere pienamente tedesco. » Il con­ fronto di questo outsider ebreo con l’outsider omosessuale Eulenburg ripeteva il conflitto Shylock-Antonio o Heine-Platen: però non era determinato da nausea di sé ebraica. Anche la vita di Max Steiner (1884-1910)7 si concludeva 396

con un suicidio: come quella di Weininger e di Calé. Kurt Hiller ha pubblicato il lavoro filosofico postumo su (o contro) il Mondo deU’illuminismo. Steiner — come del resto anche Lessing e Klages — apparteneva alla falange dell’antilluminismo. Contro Darwin e per il cattolicesimo, a cui si era con­ vertito. Contro Georg Simmel e la sua filosofia nella prospet­ tiva di una società concreta e presente, non universalmente umana. Ma si tratta di odio di sé dell’ebreo? Solo se l’illuminismo era identificato con lo « spirito ebraico », come del resto postulavano i Chamberlain e i Klages e Theodor I.essing. Se si prescinde dalla quinta biografia-modello, dove Lessing descrive 1’esistenza delirante di un antisemita furioso di na­ scita ebraica, e cioè dalla storia clinica di Arthur Trebitsch, resta soltanto la storia di Otto Weininger (accanto alla pro­ pria), come autentico documento del rifiuto di sé dell’ebreo. Il libro evitava di parlare di rappresentanti viventi del con­ flitto di identificazione dell'ebreo. Così manca un'analisi del processo della vita e dell’opera di Karl Kraus. C’è soltanto un’allusione nelle pagine su Max Steiner di Praga: «(ionie il suo grande maestro (a cui tuttavia non ha mai osato avvici­ narsi), come Karl Kraus, anche Steiner odiava il pili pericoloso portatore degli ipocriti ideali di potenza e di successo: la lo­ gora compagnia dei letterati ebrei. »8 Ma questo significa sem­ plificare lo stato di cose reali. Karl Kraus non è antilluminismo, ma illuminismo. Ha pubblicato e recitato i poeti del Settecento tedesco, compreso il barone di Goekkingk, e Goethe e Nestroy, e l’ebreo Offenbach. In Kraus la metafisica dell’« ori­ gine » non è razzista, ma melanconicamente conservatrice. L'e­ tà dell’oro è passata, si prepara il tramonto. Stampa e indu­ stria culturale documentano questo tramonto. Poiché nel mon­ do « kakanico » di Kraus esse sono rappresentate in larga mi­ sura da giornalisti e letterati ebrei, Kraus le combatte anche in questa prospettiva. Gome vendicatore della lingua, come si legge nella sua poesia agli epigoni. Nel libro Tramonto del mondo a opera della magia nera, all’insegna del motto coniato perfidamente per lui « Dopo tutto è un ebreo »’ Kraus ha formulato la distinzione tra i con­ cetti razziali, in fondo neodarwiniani, dei Weininger, (Cham­ berlain, Klages e Lessing, e la propria lotta contro la fine del mondo determinata dalla magia nera della stampa, senza nes­ sun odio di sé ebraico: « Io non so se è una caratteristica israe 397

lita, trovare che il libro di Giobbe è degno di essere letto, o se è antisemitismo, gettare un libro di Schnitzler in un angolo della stanza. Se è espressione di sentimenti ebraici o tedeschi, dire che gli scritti degli ebrei Else Lasker-Schiiler e Peter Al­ tenberg sono più vicini a Dio e alla lingua di tutto ciò che la letteratura tedesca ha prodotto negli ultimi cinquant’anni, in cui vive il Signor Bahr. Io non m'intendo di razza. »” La teoria dell’odio di sé degli ebrei, soltanto degli ebrei, ignora un fenomeno che era già stato visto e interpretato da Heinrich Heine: il parallelismo storico che esiste tra il com­ portamento degli ebrei e quello dei tedeschi nell’età moderna europea. Heine credeva di vedere la soluzione nel fatto che gli uni e gli altri, ebrei e tedeschi, non avevano ancora trovato il loro « liberatore »-: espressione che non doveva essere intesa in un senso simbolico, ma in un senso estremamente politico e concreto. C’è il cosiddetto odio di sé dell’ebreo, però nella letteratura e nell’evoluzione spirituale tedesca c’è anche il fe­ nomeno del mal di Germania, che non trova riscontro in altri popoli e culture, ln Hölderlin e Goethe, Platen e Nietzsche. « Come sono malato nella mia patria... », scriveva Platen, il diverso. Thomas Mann citava il verso, quando intitolava i suoi diari del periodo dell’esilio Mal di Germania. Però il parallelismo fra l’immaturità sociale della situazio­ ne tedesca e la fallita assimilazione degli ebrei è soltanto appa­ rente. Hn popolo come quello tedesco non può diventare un outsider, poiché possiede lingua, storia e territorio che posso­ no avere una funzione integrante. L’integrazione degli ebrei in Europa partiva dalla premessa che la lingua e la storia ebraica dovevano essere sacrificate, come aveva insegnato Mo­ ses Mendelssohn; che non ci poteva essere un territorio ebrai­ co, e quindi neanche una nazione ebraica. Tutto doveva essere « adottato » dal paese ospite e dal popolo ospite: lingua, cul­ tura, territorio. Questo programma è fallito. Il mal di Ger­ mania non è mai stato altro che la reazione di outsider tede­ schi alla regolarità tedesca. Ma si trattava di una diversità te­ desca, e restava limitata al caso individuale, non diventava la massima di un codice esistenziale valido per tutti i tedeschi. La crisi d'identità dell'ebreo in mezzo alla società borghese e illuministica colpisce il singolo in quanto parte di una comu­ nità. L'emarginazione non viene fondata individualmente, co­ me accade nel caso dell’omosessuale, ma universalmente: dal 398

fatto di essere un ebreo. Non può essere ignorata e neanche sublimata. Il preteso « odio di sé » dimostra soltanto che 1 il­ luminismo è fallito, e che questo fatto è stato riconosciuto. La continuità con cui è posta la domanda da Weininger lino a Karl Kraus attraverso Theodor Lessing significa una discon­ tinuità sociale all’interno del processo di assimilazione, discon­ tinuità che non poteva essere negataTié dalle gerarchie etiche di Weininger, né dalla metafisica della fine di Kraus, né dal sionismo enfatico, ma inefficace di Lessing. La realtà storica ignorata filosoficamente da Lessing rispondeva a tutti i pro­ blemi ebraici d’identità con l’alternativa: Auschwitz υ Israele. E la situazione non cambiava per nulla anche se in qualche caso particolare il borghese Shylock era deciso a recitare la parte del compagno Shylock.

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VII ■ Compagno Shylock

Lev Trockij, o rivoluzione e letteratura Il libro di ricordi La mia vita 1 è un primo frutto letterario dell’esilio coatto. Dopo il suo allontanamento dalla carica di commissario sovietico per la guerra e la difesa avvenuto ne! gennaio 1925, un anno dopo la morte di Lenin, Lev Davidovië Troëkij era stato privato progressivamente di ogni potere, poi escluso dal Partito Bolscevico, e infine, con una misura che continuava la politica di sicurezza zarista, esiliato ad Alma Ata nel lontano Oriente. Ora, come riferisce l’autobiografia, il 20 gennaio 1929 riceveva la visita di un incaricato della GPU, che lo informava che per decisione del Ministero degli Interni dell’Urss del 18 gennaio era stato stabilito che il cit­ tadino D.L. Troëkij aveva svolto un’attività controrivoluzio­ naria punibile secondo l’articolo 58, comma 10 del codice pe­ nale, poiché aveva organizzato un partito illegale antisovietico. Quindi era stato deciso di deportare il cittadino Troëkij, Lev Davidovië, fuori del territorio dell’Unione Sovietica. Il 22 gennaio cominciava il trasporto dalla Siberia: di Troë­ kij, della moglie e di uno dei due figli. Tempeste di neve im­ pediscono di continuare il viaggio. Troëkij si rifiuta energica­ mente di abbandonare volontariamente il paese della rivolu­ zione d’Ottobre. Viene esaudita la sua preghiera di poter par­ lare all’altro figlio, che vive a Mosca. Si vanno a prendere a Mosca il figlio e la nuora. Poi, l’otto febbraio, giunge la comu­ nicazione che il paese scelto per l’esilio è la Turchia, che se­ condo un accordo con il governo turco l’esiliato risiederà nella zona di Costantinopoli. Si assicura Troëkij che tutti i tenta­ tivi di indurre il governo tedesco a offrire asilo all’ex uomo politico sovietico sono stati categoricamente respinti. La re­ pubblica di Weimar è nella sua fase finale; Stresemann è an­ cora ministro degli esteri, però è già mortalmente malato; il presidente del Reich si chiama Paul von Hindenburg. Inoltre, 400

prescindendo dalle commissioni della Russia sovietica all’in­ dustria tedesca, la politica estera tedesca ha bisogno di avere buoni rapporti col Cremlino, affinché le potenze occidentali rinuncino alle ultime riparazioni di guerra. Si manifestano anche i primi segni della grande crisi economica, già alla fine del 1928 e all’inizio del 1929. Del resto erano anche probabili proteste da parte di quel Partito comunista tedesco che di­ ventava sempre più forte, se fosse stato concesso asilo al de­ portato nemico dell’Unione Sovietica, come si usava dire. Era evidente che non si pensava affatto di dare asilo a Troëkij in Germania. Tuttavia ci doveva essere nell’opinione pubblica, e soprattutto nell'ambiente della spd, una corrente a favore della concessione dell’asilo, poiché il presidente del Reich Paul Lobe dichiarava alla Camera dei deputati, il 6 febbraio, con l’approvazione della maggioranza: « Forse noi arriviamo persino a concedere al Signor Trockij il libero asilo. » Subito dopo l’arrivo a Costantinopoli Trockij si ri­ chiamava a queste parole e chiedeva a sua volta visto e asilo. In una conferenza stampa organizzata da socialdemocratici te­ deschi l’emigrato sottolineava il suo immutato dissenso dalla politica socialdemocratica internazionale. L’avvocato e deputato del Reich dott. Kurt Rosenberg, che più tardi avrebbe fondato, con l’opposizione di sinistra della spd, un Partito Socialista dei Lavoratori Tedeschi (1930), e poi, dopo il 1933, nell'esilio, avrebbe collaborato con l’esiliata KPD, cercava di intervenire a favore di Trockij. Quest'ultimo rilasciava la dichiarazione: « Intendo vivere fuori Berlino, in completo isolamento, non parlare in nessun caso in riunioni pubbliche e mantenere la mia'attività letteraria entro i limiti delle leggi tedesche. » Dopo strane tergiversazioni: si era disposti ad accogliere Trockij in Germania solo per breve tempo, come paziente pet­ tina visita medica, tutto il tentativo falliva. Lobe non rispon­ deva a un telegramma di Trockij. Il governo della Grande Coalizione con il cancelliere del Reich socialdemocratico Her­ mann Müller era rovesciato: Stresemann moriva; tutti i tenta­ tivi che Stalin intraprendeva, evidentemente in collaborazione con la politica estera tedesca, per ottenere da Trockij la rinun­ cia all’attività politica, erano destinati a priori a fallire. Trockij ha raccontato questa storia nell’ultimo capitolo dell’autobiografia sotto il titolo 11 pianeta senza visto, non 401

senza un suo tetro piacere. I fatti successivi sono noti. Per quattro anni il capo dei « trockisti » viveva a Prinkipo, un’isoletta non lontafìa da Istanbul; una volta (1932) poteva recarsi a Kopenhagen, ospite di studenti socialisti danesi. Nel 1933, quando una nuova ondata di persecuzione contro l’opposizio­ ne antistaliniana minacciava di sommergere tutto, Mosca chie­ deva alla Turchia di espellere Trockij. Questa volta gli era concesso asilo dal governo di Daladier, a Parigi. Durava due anni. Poi il rivoluzionario poteva vivere in Norvegia: non lontano da Oslo, nella casa di un parlamentare socialista. Solo che c’era già, in Germania, un Terzo Reich, e in Norvegia un’attiva propaganda che anticipava la politica di Quisling: finanziata da Berlino. Contemporaneamente si svolgevano i processi di Mosca, che dovevano concludersi con l’esecuzione di uomini che erano stati prima amici e poi avversari di Trockij, con la morte di Zinov’ev, di Kamenev e di Bucharin, con la condanna di Karl Radek al cancere a vita. La Norvegia era minacciata da una guerra commerciale da parte di Mosca. Infine il Messico. Il 9 gennaio 19.37 la petroliera norvegese che aveva trasportato i Trockij approdava a Tampico. Il pit­ tore messicano Diego Rivera era il loro primo ospite. Manife­ stazioni di protesta da parte dei comunisti messicani. Il primo settembre 1939 scoppia la seconda guerra mondiale. Poco pri­ ma Stalin aveva concluso, al Gremlino, con Ribbentrop, che rappresentava il suo Führer., un patto di non-aggressione, a cui dovevano seguire un'aggressione alla Finlandia, e poi la mar­ cia dell’armata rossa in Polonia. Trockij aveva già predetto virtualmente tutto nel libro La rivoluzione tradita, che aveva finito di scrivere in Norvegia. I.a residenza messicana di Trockij, che ora aveva già 61 anni, era sorvegliata come una fortezza dalla polizia e anche da suoi fedeli. Un’improvvisa aggressione armata contro di essa falliva, il 24 maggio 1940; ma il 20 agosto Lev Davidovic Trockij veniva ferito a morte con una piccozza da un assassino chiamato Ramon Mercader, e moriva il giorno dopo durante un’operazione. Trockij è stato assassinato mentre sedeva alla sua scrivania. Mentre leggeva e correggeva un articolo politico che l’assas­ sino gli aveva portato, per così dire come esca. Ha scritto fino all’ultima ora. Non sorprende, tuttavia, che egli lasciasse pas­ sare il decennio che intercorre fra la pubblicazione dell’auto­ 402

biografia (S. Fischer Verlag, Berlino 1930) e quest’ultima fase a Coyoacan, in Messico, senza completare adeguatamente il libro La mia vita, che si conclude con l’arrivo nell’esilio turco, e quindi nel 1929. L’autore era anche convinto che il suo libro di ricordi fosse un’opera prevalentemente politico-documen­ taria. Inoltre tutte le successive vicende private avevano ac­ quistato da tempo carattere pubblico. La storia dell’uomo Bronstein-Trockij fra il 1929 e il 1940 era stata completamen­ te integrata nella storia contemporanea. Non restavano cose private da riferire. A meno che non si trattasse di riferire sugli assassini e le sentenze e strani incidenti a cui erano esposti figli e parenti e amici dell’avversario di Stalin: per lo più con esito letale. Ma secondo lo scrittore Trockij queste cose non rientravano più in un libro come La mia vita, ma nei due vo­ lumi di quella storia delle due rivoluzioni russe del febbraio e dell’ottobre 1917 che Trockij aveva scritto ancora in Tur­ chia, o nel piano del volume sulla Rivoluzione tradita. Tuttavia solo la conoscenza, nei suoi momenti essenziali, di questo complesso organico costituito di letteratura, esilio e rivoluzione che è l’ultima fase della vita di Trockij, consente di interpretare la rappresentazione di sé della Mia vita, al di là di ogni interesse documentario o di ogni valutazione lette­ raria, come sorprendente prodotto di una doppia marginalità: come opera di un outsider della letteratura e della politica. Queste parole dapprima suoneranno strane, poiché non si può affatto qualificare un outsider della politica il ventiseienne presidente del soviet di Pietroburgo durante la rivoluzione del 1905, il capo di una ribellione armata nell’ottobre 1917, l’an­ tagonista politico e militare di Ludendorff durante le trattati­ ve a Brest-Litowsk, l’organizzatore di un’armata rossa, il poli­ tico del partito e poi in esilio e il fondatore di una Quarta Internazionale. Tuttavia lo stesso Trockij deve aver intuito la scissione presente nel suo modo di vivere. Pochi, ma interes­ santi passi dell’autobiografia permettono di indovinare che nella stesura delle sue memorie l’autore non ha evitato del tutto di porsi il problema di se stesso. Trockij si propone di scrivere un’autobiografia intesa total­ mente come biografia politica; è un tentativo brillantemente fallito. Con malumore e impazienza, seccamente Trockij si sbarazza di se stesso nel periodo dell’infanzia, della scuola ele­ mentare e della pubertà. Si parla di contraddizioni sociali nel 4°3

villaggio di Janokva in Ucraina, dove cresce il piccolo Brolistein, affinché il lettore pensi: già allora! Il capitolo Libri e primi conflitti resta sorprendentemente vuoto, perché Trockij non è disposto a indicare le sue predilezioni reali, soprattutto i libri, che lo hanno formato: nel contenuto e nella forma del suo scrivere. Altrettanto poco riesce di riconoscere — prescin­ dendo da quelle situazioni dell’impero zarista che potevano bastare in tutti i casi possibili — una pili profonda motivazio­ ne per la decisione di Trockij di intraprendere la carriera del rivoluzionario. Non c’è, in lui, né il dolore di Lenin per l’ese­ cuzione del fratello Aleksandr Ul’janov, né la rivolta e l’odio di Stalin per il processo di educazione a cui era sottoposto un figlio di povera gente nel seminario dei· preti. La famiglia di Trockij, i Bronstein, non aveva difficoltà con le autorità; non erano neanche povera gente, anche se nel vil­ laggio si doveva lavorare duramente. Con un certo imbarazzo Trockij riferisce: « Quando scoppiò la rivoluzione d’ottobre mio padre era un uomo molto ricco... 1 rossi lo minacciavano perché era ricco, i bianchi lo perseguitavano perché era mio padre.-» Aveva, perso i suoi averi, ora dirigeva un piccolo mu­ lino vicino a Mosca per il Commissariato del popolo per i problemi agrari; moriva nel 1922 di tifo. La madre era già morta nel 1910. Trockij proveniva da una famiglia puramente' ebrea. Tut­ tavia, che la sua decisione a favore della politica rivoluziona­ ria possa avere qualcosa a che fare con questa origine, egli sembra volerlo escludere quasi altezzosamente. Non c erano evidentemente conflitti che avessero fatto del bambino un emarginato. Il problematico ritocco della propria infanzia viene eseguito, in particolare, in quanto lo scrittore proietta indietro nella propria giovinezza, come se fosse una cosa ovvia, la propria concezione successiva, marxista del « problema del­ le nazionalità ». Il bambino Lev Davidovic Bronstein non ha da riferire di nessun oltraggio antisemitico subito nel paese e a scuola. È vero che non si può tacere che gli ebrei erano am­ messi alla scuola superiore soltanto nella percentuale del dieci per cento degli studenti, per cui il futuro Trockij può fre­ quentare la scuola tecnica solo a condizione di una corruzio­ ne. Il racconto di questo episodio si legge come una descrizione storica che deve dimostrare l’assurdità della politica scolastica e delle nazionalità nel periodo zaristico. Persino qui, quando 404

si tratta delle dolorose umiliazioni di un ragazzo dotato, non si rinuncia all’accento tacitiano, al resoconto obiettivo dei tat­ ti. Il piccolo Lev Bronstein viveva in un ambiente esclusiva­ mente ebraico, sia nel villaggio ucraino, sia, più tardi, quando frequentava le scuole a Odessa. Tuttavia ci rifiuta qualsiasi informazione sulla maniera — ortodossa, lassista o altra — in cui la sua famiglia di parte paterna o materna seguiva i comandamenti biblici. Quelle omissioni che potevano essere programmate al fine di una negazione della nazionalità ebraica fanno talmente risaltare gli spazi bianchi di questa autobiografia, che proprio per questo ogni voluta integrazione del privato col politico viene impedita, la tensione fra letteratura e rivoluzione è ac­ centuata. Qualunque potesse essere l’intenzione dell’autore, il libro La mia vita descrive, in una maniera altrettanto incon­ sueta che tipica, la vita di un outsider in mezzo a borghesi e comunisti, ebrei e non ebrei, letteratura e rivoluzione. Due passi importanti di queste memorie, che sono intima mente connessi l’uno con l'altro e che sono anche stampati l’uno vicino all’altro, permettono di indovinare ciò che vi è taciuto sulla base di un’intenzione ben precisa: anche dallo scrittore di fronte a se stesso. Queste considerazioni sono così singolari, non da ultimo nel contesto generale del libro La mia vita, poiché all’improvviso negano segretamente l’apparentemente così compatta armonia dell’esistenza privata e pub­ blica. Il capitolo XXIX dei ricordi descrive le attività e le ri­ flessioni di Trockij e dei suoi compagni, soprattutto dello stes­ so Lenin, subito dopo la vittoria della rivoluzione. Questa volta non si deve soltanto rispondere alla domanda: Qual è ora il compito di tutti noi? Prima la risposta era: Portare avanti la rivoluzione. Ma ora ognuno si chiede, con una certa angoscia: Che cosa devo fare io? Trockij non si fa illusioni: « Con la conquista del potere si affacciò anche il problema della mia opera di governo. Strano, non ci avevo mai pensato. Nonostante l’esperienza del 1905 non avevo mai connesso la questione del mio avvenire con quella del governo. Da’ miei primi anni, anzi fin dalla mia infanzia, avevo sognato di diventare uno scrittore. In seguito subordinai la mia opera di scrittore, come tutto il resto, alla meta rivoluzionaria. Io avevo sempre in mente il problema della conquista del potere per opera del partito. » 405

Il momento lo trovava impreparato. Ciò appare credibile. Credibile non da ultimo perché si avverte l’interna esitazio­ ne di chi scrive, di fronte alla necessità di sacrificare l’amata, sebbene frustrante attività dello scrittore politico. E del resto Lev Trockij propone coerentemente al Comitato centrale di affidargli la direzione della stampa. La proposta è rifiuta’ta con l’argomento che N.L Bucharin è altrettanto adatto a que­ sta mansione. Ma Trockij, che pure è stato uno dei capi di una rivolta armata, sembra continuare a credere che i suoi compiti più immediati debbano avere carattere letterario, e cioè propagandistico. Quando il partito gli dà l’incarico di as­ sumere nel nuovo governo, nel « Consiglio dei commissari del popolo », la carica di ministro degli Esteri, Trockij esclama, come ricorda uno dei compagni e come cita lo stesso Trockij: « Che lavoro diplomatico c’è da fare? Farò pubblicare un paio di proclami rivoluzionari ai popoli del mondo, e poi chiuderò bottega. » Nuovamente la segreta riserva, per cui la letteratura non ha la precedenza soltanto davanti alla rivoluzione, ma persino al­ l'interno della rivoluzione. A questa situazione conflittuale se ne congiunge subito un’altra: quella del rivoluzionario che è ebreo. Compagno Shylock e il potere. Trockij è letterato ebreo. Finora aveva potuto unire le due cose con i compiti concreti del rivoluzionario. Letterato — ma al servizio della rivoluzio­ ne. Ancora poco prima dello scoppio della rivoluzione di feb­ braio, che aveva sorpreso Trockij nell’esilio di New York, aveva rifiutato quasi con superbia —- come riferisce il suo libro di ricordi — ogni specie di attività che gli era premurosamente offerta a Manhattan. « Ma devo deludere i miei lettori ame­ ricani. La mia unica professione a New York era quella di un socialista rivoluzionario. » Ora il letterato e socialista rivoluzionario partecipava del potere. E quindi ne partecipava anche l’ebreo Lev Davidovic Bronstein. Fino allora questo stato di cose era stato messo ugualmente da parte: come una semplice questione di nazio­ nalità. Inoltre erano di origine israelita anche Bucharin e Zinov’ev e Kamenev. Come Hilferding e Rosa Luxemburg, Karl Radek e Victor Adler, Eduard Bernstein e August Thalheimer, Paul Levi e Parvus-Helphland. Come lo erano molti avversari di Trockij (e di Lenin) di parte menscevica, o bol­ scevica. Finora tutto questo non aveva importanza. Non l’a­

veva neanche nel 1905, quando il giovane Bronstein, alla testa del soviet di Pietroburgo, faceva riferire allo zar che il popolo rivoluzionario non intendeva pagare i debiti dello zarismo. (Ciò che del resto era messo in pratica nel 1917.) Improvvisamente la nazionalità diventa politicamente im­ portante. Quando i supremi dirigenti del partito bolscevico discutono sulla composizione del governo, Lenin desidera che al compagno Trockij sia affidato il ministero degli Interni. Dunque polizia e polizia di sicurezza, difesa dallo spionaggio e dal sabotaggio. Ciò doveva significare la responsabilità per il terrorismo repressivo, senza il quale il partito di Lenin non poteva sperare di restare al potere. Significava — dopo una conquista del potere avvenuta senza grande spargimento di sangue — la responsabilità per una guerra civile cruenta e per la lotta contro quasi tutti i governi stranieri: da Berlino a Pa­ rigi e a Washington. Il coraggio di Trockij non è mai stato messo in dubbio. Si trattava di qualcos’altro. Si doveva affidare questo incarico proprio a un ebreo, quando l’antisemitismo zarista (che si sarebbe tramandato da Stalin a Kruscev e fino a Breznev) aveva gettato profonde radici nel popolo? Trockij è preoccupato per questo. Lpnin si irrita. P, stata avviata una grande rivoluzione internazionale, e non ci si può soffermare su queste piccolezze. Però l’argomento viene preso in considerazione. Questa vol­ ta l’autobiografo rinuncia a tutti i particolari su cui in gene­ re si diffonde volentieri. Annota brevemente: « Sverdlov e al­ tri membri del comitato centrale presero posizione per me. Lenin era in minoranza. Alzò le spalle, sospirò e mi guardò pieno di rimprovero... » Sverdlov e altri membri del comitato centrale? In genere in queste descrizioni Trockij non teme di indicare i nomi. So­ prattutto se, come in questo caso, accade che Trockij ottenga la maggioranza contro Lenin, per di più in una questione che lo interessa personalmente. Ora si potrebbe pensare che in que­ sta occasione anche Stalin votò contro Lenin e per Trockij: poiché in verità si trattava di una decisione contro Trockij. Come motivazione si può pensare all’antisemitismo subliminare di Stalin, che poteva indurlo a disapprovare la nomina di un ebreo alla direzione suprema della sicurezza, in base alla cono­ scenza delle proprie reazioni. Il tentativo avventuroso, impe­ dito appena dalla sua morte, con cui Stalin cercava, nel 1952-53, 4°7

di allestire un processo in pompa magna contro medici ebrei, accusati, oltre che degli obbligatori tentativi di assassinare Sta­ lin, anche dell’« assassinio » di Gor’kij nel 1936 accanto ad altre infàmie, dimostra quali erano i sentimenti di questo internazionalista georgiano, e anche come egli contasse sul fatto che un processo organizzato nella forma di uno spetta­ colo antisemitico avrebbe incontrato il consenso emotivo del paese, anche 35 anni dopo la rivoluzione d’ottobre. Perciò si può supporre che allora Stalin avesse votato per Trockij e contro Lenin in quanto non voleva concedere quella posizione di potere materiale a uno che era di origine ebrea. Naturalmente in considerazione di certe reazioni del paese, non perché approvasse personalmente tali emozioni. Del resto Stalin in seguito a questa distribuzione di uffici subito dopo la rivoluzione riceveva la carica di « commissario del popolo per i problemi delle nazionalità ». Anche Trockij — se crediamo alle sue parole — in questa seduta aveva inteso il suo argomento dell’origine ebraica come un problema di nazionalità. Nella Mia vita sottolinea conti­ nuamente che la questione ebraica (egli stesso parla sempre della questione delle nazionalità, poiché interpreta gli ebrei, gli ucraini, gli armeni sovietici e i kirghisi come parte di un grande complesso di nazionalità) non lo ha mai toccato a li­ vello emotivo. Quando si manifestavano sentimenti del genere provava soltanto disprezzo,'a volte nausea. « L’educazione mar­ xista aveva approfondito questi miei sentimenti trasforman­ doli in un internazionalismo attivo... Se nel Ί7 e più tardi mi richiamavo al fatto di essere israelita per sottrarmi a qualche nomina, lo facevo esclusivamente per calcolo politico. » È il linguaggio autoritario di un decreto. Dover-essere ed essere vengono identificati. Ma non del tutto: poiché nel mon­ do ci sono tuttora alcuni nazionalisti, individui che non hanno avuto una sufficiente educazione marxista, delle cui emozioni occorre talvolta tener conto. Lo stile sovrano non deve ingannare. Troékij scrive il suo libro nel 1929. Nel frattempo erano stati destituiti anche Zinov’ev e Kamenev. Poi anche Bucharin, insieme a Tomski e a Rykov. È vero che nel gruppo più vicino a Stalin c’è ancora l’ebreo Kaganovic, ma dodici anni dopo l’avvento al potere il modo in cui coloro che detengono il potere si rappresentano la questione delle nazionalità è sostanzialmente diverso, e Troc408

kij lo sa. Quando, nel 1917, rifiutava la direzione della poli­ tica di polizia, sapeva esattamente — anche se nella Mia vita tali episodi sono taciuti per disprezzo e disgusto — che gli ebrei, in ogni caso nell'ex impero zarista, non avevano sempli­ cemente il senso di una nazionalità accanto a molte altre. In­ vece di un russo il georgiano Stalin alla direzione di quell’uf­ ficio, oppure quel polacco Dsersinskij che infine avrebbe as­ sunto la carica: quale russo avrebbe reagito con sentimenti di odio a tale nomina? Invece l’ebreo Bronstein... Lo stesso Le­ nin doveva arrendersi. Questi due episodi dell’autobiografia sono connessi tra loro. Contraddicono a tutti i tentativi dell’autore di razionalizzare il problema dell’origine, minimizzandolo. Nello stesso tempo confermano che subito dopo la vittoria Troèkij sentiva la par­ tecipazione al potere come una forma di autoestraniazione. Ogni prassi della sua teoria marxista fino allora era stata per lui una prassi letteraria. È vero che, in quanto strategia e tatti­ ca letteraria, alla fine aveva contribuito alla rivoluzione mate­ riale. Ma d’ora in poi si trattava di strategia e tattica nella guer­ ra e nella guerra civile. Che l’allora quarantenne BronsteinTrockij fosse capace — nonostante la possibilità di segreti sen­ timenti di frustrazione — di realizzare concretamente la rivo­ luzione permanente in quanto tale, e di negare, in quegli anni fra il 1918 e il 1923, la sua posizione intermedia fra la lettera­ tura e la rivoluzione a favore della realtà non letteraria: ciò costituisce la particolare caratteristica di Trockij, lo distingue sia da teorici di rilievo come Plechanov che da Gustav Lan­ dauer o Ernst Toller. Lenin era discepolo di Plechanov, ma molto.meno letterato del maestro — il che non deve essere inteso nel senso di un’indifferenza, come basterebbero a dimo­ strare, da soli, i saggi di Lenin su Tolstoj. Trockij era un let­ terato che possedeva la capacità di una totale autoalienazione, e quindi come organizzatore e stratega non rinnegava già il piacere della propria parte — cosa che del resto avrebbe dimi­ nuito la forza di convinzione dei suoi famosi appelli ai soldati, -- però prendeva tutte le sue decisioni sulla base di conside­ razioni oggettive, non per qualche bisogno soggettivo di tipo istrionico. Che Trockij debba avere provato una specie di paura del­ l'abisso, di fronte a questi pericoli della letteratura al potere, può essere dimostrato sulla base di molte sue azioni e molti

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scritti. Nessuno era allora più insofferente di lui, di fronte alla confusione di letteratura e politica. Lenin e più che mai Bu­ charin, che possedeva una profonda cultura letteraria, si sono sempre comportati come colleghi cortesi, durante le conversa­ zioni con gli scrittori che venivano a Mosca per intervistarli. Le interviste di Trockij con gli scrittori, da Fritz von Unruh fino ad André Malraux, sorprendono per un’altezzosità che rifiuta ogni comunione fra l’uomo del potere (persino quando sarà in esilio) e i letterati incompetenti. Tuttavia, o forse anche per questo, tutti coloro che si sono incontrati con Trockij hanno sempre avuto la sensazione di trovarsi di fronte a un letterato, che non scrive romanzi o poe­ sie, ma lavora a un dramma gigantesco intitolato La rivolu­ zione permanente. Probabilmente il famoso aneddoto del 1914 è inventato. Però la sua punta è pensabile solo perché si tratta di Trockij e della sua esistenza anfibia fra letteratura e rivo­ luzione. Racconta l’aneddoto che il ministro degli Esteri au­ striaco era messo in guardia, da parte di alcuni consiglieri, contro i pericoli di una rivoluzione in Austria, nel caso di una guerra. Avrebbe risposto: « Ma Vi prego, chi dovrebbe fare la rivoluzione qui da noi? Forse il Signor Trockij del Café Central? » I conti Berchtold e Czernin, del Ballhausplatz di Vienna, hanno i loro informatori. Nella Herrengasse i letterati sede­ vano al caffè, giocavano a scacchi, discutevano appassionata­ mente con altri letterati che rappresentavano la socialdemo­ crazia austriaca, col dott. Bauer e il dott. Adler e il dott. Hilferding, litigavano per i problemi della strategia rivoluziona­ ria come se si trattasse di un partita a scacchi, divoravano tutti i giornali, li leggevano in tutte le lingue, si scrivevano anche articoli in tutte le lingue. Che cosa c’era da temere? II veleno dell’aneddoto non sta nel fatto che il Signor Trockij del Café Central contro ogni attesa faceva tuttavia una rivoluzione; e neanche nel fatto che Lev Davidovic si fosse tra­ sformato, improvvisamente e nell’atto di fare la rivoluzione, nel senso di una « riconoscibilità », per usare un’espressione di Ernst Bloch, o anche di un’« irriconoscibilità ». Nel primo caso, nel caso della riconoscibilità, un rivoluzionario sarebbe rimasto a lungo e malvolentieri in compagnia di letterati, co­ me il brutto anatroccolo di Andersen : fino al momento in cui il cigno poteva realizzare se stesso nella rivoluzione. Invece 410

nell’altro caso, nel caso dell’irriconoscibilità, Trockij era e ri­ maneva un letterato, che peraltro poteva trasformarsi tempo­ raneamente fino a diventare irriconoscibile: per tornare tut­ tavia, alla fine, alla sua « forma originaria ». Il corso della vita di Trockij dopo la perdita del potere potrebbe essere inter­ pretato pressappoco così. In questo caso dovremmo vedere anzi­ tutto perché TroÌkij poteva venire rovesciato. Ci avviciniamo di più a questo processo complicato e unico, se rinunciamo a ogni ipotesi di una metamorfosi temporanea, e invece cerchia­ mo di ricostruire la dialettica reale di una vita che si muove fra la rivoluzione, dunque fra il potere, e la letteratura. Come è noto, e come conferma anche l’aura che circondava a quel tempo (1914) l’espressione « letterato da caffè », l’aned­ doto insinua che Trockij non aveva successo neanche in lette­ ratura. Fame e debiti. Trockij è uno scrittore che nessuno pub­ blica. Però oggi nessuno potrà negare che Trockij è un grande scrittore. Uno scrittore brillante, e che del resto ha anche avuto grande successo in senso materiale. La replica ufficiale del governo sovietico, che questo rivela il rinnegato, non è per­ tinente. Viceversa, la storia di tutti i divieti d’entrata dimostra che non si temeva soltanto la collera del Cremlino, ma anche la presenza di un rivoluzionario comunista. Se Trockij conti­ nua a essere letto, vent’anni dopo la morte del suo avversario, non è per un bisogno d’informazione che è stato superato da tempo, ma per il fascino esercitato da uno scrittore importante. Un libro come La mia vita o il capitolo sullo zar e la zarina nella storia della rivoluzione di febbraio, o anche, natural­ mente, il famoso libro su Letteratura e rivoluzione sono lette­ ratura autentica, che è quasi riuscita a rendersi indipendente dall’esistenza particolare dell’autore. È vero, tuttavia, che l’in­ terazione fra letteratura e politica, origine e rifiuto dell’ori­ gine, bohème e potere diventa quanto mai evidente proprio perché Trockij deve essere annoverato tra gli scrittori impor­ tanti d’origine israelita, e perché rivela particolari caratteristi­ che di questa sua specie. C’è una descrizione maligna di Trockij da parte di un av­ versario. L’ex socialdemocratico belga Hendrik de Man crede di ricordare che nel primo anteguerra Trockij era un uomo che « passava metà dei giorni leggendo e scrivendo, e metà delle notti discutendo vicino al samovar o al caffè dei letterati. Aveva l’aspetto di un pianista bohémien, e aveva anche il 411

nervosismo incontrollato che caratterizza un certo tipo di arti­ sti. Quando, più tardi, era esaltato come organizzatore dell’ar­ mata rossa, io credetti che si trattasse di un bluff propagan­ distico »? Quanto allo stesso de Man c’è poco da aggiungere. La cita­ zione è tratta da un libro di memorie composto da un emi­ grato. Durante la seconda guerra mondiale Hendrik de Man si rese colpevole di collaborazionismo in Belgio, fu condannato in contumacia e finì i suoi giorni fuori della patria. Un ex socialdemocratico, autore di un libro sulla Psicologia del so­ cialismo, che veniva a patti coi fascisti. Anche Trockij ricorda. Nella Mia vita l’autore riferisce di un suo incontro con Emile Vandervelde, ministro di Stato della monarchia belga e presi­ dente della Seconda Internazionale, e il suo accompagnatore de Man, in Finlandia. Entrambi erano in viaggio verso Pietrogrado per incarico dell’Internazionale: nello stesso treno che riportava in Russia Trockij di ritorno dall’esilio america­ no, poche settimane dopo lo scoppio della rivoluzione di feb­ braio del 1917. De Man chiede se non ci si conosce già. « Cer­ to, » avrebbe risposto Trockij, « anche se in tempo di guerra la gente cambia molto. » Retrospettivamente lo definisce un « agente del suo governo ». L’ulteriore evoluzione di Hendrik de Man non avrebbe sorpreso Trockij. Il ritratto del pianista bohémien Trockij che de Man dise­ gna tanti anni dopo è· dunque un prodotto dell’odio, pubbli­ cato soltanto nel 1953, ma inalteratamente vivo. Inalterato an­ che dopo la conoscenza della dolorosa morte di Trockij. Però la coincidenza del giudizio degli aristocratici del Ball­ hausplatz con quello del politico socialista belga dà da pensare. Che da tutti loro il fenotipo Trockij fosse assegnato piuttosto alla categoria della bohème che a quella della rivoluzione, è qualcosa di più di una semplice valutazione errata di un uomo insolito. Corrisponde in modo sorprendente a particolari aller­ gie di Trockij nei confronti della bohème e della letteratura da caffè. Si pensa ad un’au/odifferenziazi.one quasi coatta. Il capitolo XVI dell’autobiografia tratta di questo periodo dei caffè viennesi. Il tono è insolitamente irritato. Trockij ricorda il suo secondo esilio dopo il fallimento della rivoluzio­ ne russa del 1905. Nell’ottobre 1907 si stabilisce a Vienna; Rudolf Hilferding, che Troèkij — come riferisce egli stesso — aveva già incontrato nell’estate 1907 a casa di Kautsky, a Ber412

lino, a Vienna si interessa di lui, e propone al compagno russo il « tu », che Trockij accetta. « Ne veniva una forma di inti­ mità esteriore senza che vi fossero delle premesse morali e po­ litiche. » Ora Hilferding porta Trockij a quel Café Central, come racconta egli stesso. L’emigrato vi si incontra con Otto Bauer, Karl Renner, Max Adler, esponenti del cosiddetto austromarxisino. Non gli piacciono affatto. Naturalmente quando Troc­ kij descrive quegli episodi è condizionato dalle esperienze che il bolscevico avrebbe fatto, in seguito, con il Partito Sociali­ sta austriaco: proietta nel 1907 costellazioni della prima guer­ ra mondiale e del dopoguerra. Però già allora doveva regnare un senso di disagio. « Persone molto colte che in molti campi ne sapevano pili di me. Ascoltai con l'interessamento più vivo, e posso ben dire rispettoso, la loro prima conversazione nel caffè < Central >. Ma dopo un po’ la mia attenzione si mutò in meraviglia. Costoro non erano affatto dei rivoluzionari. Peg­ gio! rappresentavano un genere opposto al tipo della rivolu­ zione. Lo si vedeva in tutto: nel modo di esaminare un que­ sito, nelle loro conversazioni politiche e valutazioni psicologi­ che, nella loro soddisfazione di sé (non sicurezza, ma soddi­ sfazione di sé): talvolta mi pareva di sentir vibrare fin nella vo­ ce la loro piccineria. » Sono sentimenti insolitamente ostili: che siano proiettati soltanto ora in quel tempo lontano, o che fossero già provati allora. Sono anche ingiusti: cinque anni dopo la stesura di queste memorie, nel febbraio 1934, questi Bauer e Renner dimostravaqo a loro volta capacità di lottare, coraggio, capacità di affrontare l’esilio. Ma anche, nello stesso tempo — ciò che sembrava dare ragione a Trockij —, il carattere quasi acci­ dentale, non organico del loro rivoluzionarismo: per cui l’in­ surrezione della Lega Difensiva, politicamente impreparata e male organizzata, poteva venire repressa dai cristiano-sociali austriaci, con la corte marziale e il patibolo. Ma Trockij ha in mente ancora un’altra cosa. Tutti loro, gli Hilferding e i Bauer o Adler sono dottori, accademici austro-tedeschi. Talvolta si fanno chiamare « compagno Si­ gnor dottore », annota Trockij con scherno. Il ventisettenne Bronstein non può esibire nulla di simile. I titoli accademici non gli fanno impressione, però deve aver provato un senso, di amarezza, confrontando i propri studi troncati dallo zari4l3

smo con il « compiacimento di sé » di questi dottori del caffè. Probabilmente fraintendeva, quindi, l’accento apparentemen­ te leggero dei borghesi e degli aristocratici viennesi, che ten­ deva coscientemente all’esagerazione, considerandolo espres­ sione di filisteismo soggettivo. A un libro dove descrive la sua difficile giovinezza Maksim Gor’kij ha dato il melanco­ nico titolo: Le mie università. Anche Trockij al Café Central si sentiva incline a liquidare ogni frustrazione richiamandosi alle « università » siberiane dove aveva fatto il suo appren­ distato di rivoluzionario. Tuttavia restava un risentimento, che -— allora! — non era ancora politicamente giustificato. Dopo il 1945 Karl Renner era incaricato dal governo mili­ tare sovietico di formare un governo « antifascista e democra­ tico » in Austria. Otto Bauer moriva in esilio. Rudolf Hilferding era catturato mentre era in esilio, trasportato nel Terzo Reich e assassinato. Il disagio che si prova rileggendo· le de scrizioni di Trockij del 1929 ha a che fare anche con questo. Ma c’è anche dell’altro. Trockij cercava di squalificare Hilferding raccontando un aneddoto che egli riteneva particolar­ mente significativo. Durante le trattative di pace fra il gover­ no tedesco-imperiale e quello sovietico nel 1918 Trockij rice­ veva uno scritto di Rudolf Hilferding: « ... era la prima voce diretta dell’Occidente socialista dopo la rivoluzione d’Ottobre. Ebbene? Hilferding mi chiedeva la liberazione di un prigio­ niero di guerra della specie molto diffusa dei < dottori > vien­ nesi. Non una parola che accennasse alla rivoluzione. Ma nella lettera mi dava del tu. Io credevo di conoscere Hilferding e mi pareva di non essermi mai fatto delle illusioni sul suo conto: eppure non credevo a’ miei occhi. » Sopraggiunge Lenin: sapeva già che era arrivata una let tera dell’autore del Capitale finanziario, dunque di un libro che era importante per gli studi di Lenin (e di Bucharin) sul l’imperialismo. Anche Lenin era rimasto inorridito dal fatto che la lettera non parlasse dell’avvento dei bolscevichi al po­ tere. Se ne era andato imprecando, dice Trockij. Ma che cosa potevano aspettarsi da Hilferding e dalla sua lettera? Era una cosa così indegna, chiedere un favore per un parente, in quel momento, in nome di un rapporto di conoscenza? Non sembrava più opportuno separare la politica dal motivo che aveva indotto a scrivere questa lettera, invece di aggiungere en passant: Del resto, cordiali felicitazioni per 4'4

la vostra rivoluzione!, o anche: Del resto io credo che la vostra rivoluzione sia falsa! I dirigenti deH’austromarxismo erano ebrei. Gli Adler, Friedrich Austerlitz, Hilferding, Otto Bauer. Come Troikij e Bucharin, Zinov’ev e Kamenev. Trockij era loro rivale in due modi: come ebreo e come letterato. Quando racconta come poco dopo interrompesse il soggiorno viennese per trasferirsi a Berlino, le sue descrizioni del partito di August Bebel e della socialdemocrazia tedesca dell’anteguerra sono molto pili oggettive, talvolta quasi affettuose. A Berlino i letterati da caffè quasi non esistevano, e anche gli ebrei erano molto me­ no numerosi. Nel suo libro sulla Bohème Helmut Kreuzer 3 cita un passo di un saggio che Trockij aveva scritto a quel tempo (1910) e pubblicato sulla rivista teorica della spd, sulla « Neue Zeit ». Trockij vi riferisce di esperienze con intellettuali borghesi nel partito operaio russo. Il giudizio è molto aspro: « Entrando nel partito operaio, essa [l’intelligencija radicale] introduceva nel partito tutte le sue caratteristiche sociali : spirito settario, individualismo tipico dell’intellettuale, feticismo ideologico. » Il marxismo ne era stato « stravolto ». Queste parole hanno l’aspetto di una denuncia, inoltre han­ no lo scopo di sottolineare con una sottigliezza quasi eccessiva la differenza tra l’intellighenzia e la rivoluzione: del tutto im­ memori di quel passo del Manifesto dove si parla dell’auspi­ cabile passaggio degli intellettuali borghesi nel campo del pro­ letariato. Le tesi di Trockij, anche e in particolare il tono in cui sono formulate fanno continuamente l’effetto di un’auto­ denuncia. Ma questo atteggiamento, curiosamente, coincide con periodi della vita e dello scrivere di Trockij che sono carat­ terizzati da interna inquietudine. Il Trockij che guarda dal­ l’alto al basso i letterati, in particolare quelli di origine ebrai­ ca, appare per la prima volta in quel primo anteguerra a Ber­ lino o a Vienna, e una seconda volta nel terzo esilio, imposto da Stalin. Il Trockij vittorioso fra il 1918 e il 1924 è perfetta­ mente in grado di prendere sul serio anche la letteratura bor­ ghese, compresa la bohème dei caffè, e persino di interpretarla nella sua strutturazione sociologica e ideologica (nel suo « feti­ cismo ideologico »!). Trockij ha preso posizione, e come rivoluzionario e come letterato, rispetto a quel complesso rivoluzione-letteratura che 415

è decisivo per la sua vita, nel libro Letteratura e rivoluzione,* che era concluso nel 1924 e fa parte delle sue opere più impor­ tanti e istruttive. Di qui la strada porta ai surrealisti raccolti intorno ad André Breton (né potrebbe essere altrimenti). Quel Trockij che insieme a Breton redige il « Terzo » manifesto del surrealismo è prefigurato nel libro sui rapporti tra rivoluziona­ ri e letterati, e contro le devote speranze in una cultura e arte proletaria autoctona in grado di evitare — come vorrebbe — di ricorrere alla collaborazione degli artisti, della bohème, degli intellettuali borghesi. Già nella prefazione a Letteratura e rivoluzione, che è da­ tata il 29 luglio 1924, e dunque è stata composta sei mesi dopo la morte di Lenin, viene intrapresa una difesa altrettanto acu­ ta che leale della bohème letteraria e artistica. Il libro Lettera­ tura e rivoluzione è uno dei più sorprendenti lavori di Troc­ kij: del tutto contro le intenzioni dell’autore, dimostra quanto egli avesse a cuore l’argomento che è analizzato e contro cui si polemizza in esso. Si tratta di un confronto e contrasto lette­ rario. Occorre decidere fra Aleksandr Blok e Vladimir Majakovskij, fra i futuristi e i formalisti, tra i programmatori di un’arte proletaria (Prolet-Kult) e le ricette poetiche del grup­ po dei cosiddetti « fratelli di Serapione », che si richiamano a E.T.A. Hoffmann. Trockij tratta il tema col massimo interesse. Lo conosce bene, ha letto tutto. È degno di nota e singolare già in se stesso, questo lavoro condotto da un uomo che aveva allorà il compito di mettere in ordine lo sconvolto sistema delle comunicazioni dello stato sovietico, era coinvolto in pe­ ricolose lotte all’interno del partito, e tuttavia trovava il tem­ po di riflettere sui lavori di Slovskij e di Roman Jacobson, sui progetti architettonici di un Tatlin, sulla scultura di Jacob Lipschitz. Trockij polemizza in due direzioni. La prefazione, riassun­ tiva e formulata con grande nettezza, non lascia dubbi in pro­ posito. Da un lato contro la cultura letteraria tradizionale del­ la nobiltà zaristica e della borghesia che imita la nobiltà. Que­ ste correnti morranno e si estingueranno. Trockij pare ralle­ grarsene. Si era trattato di quella sovrastruttura che egli dove­ va venerare in quanto discepolo e combattere in quanto rivo­ luzionario, a causa delle tendenze politiche reazionarie che im­ plicava. Trockij distingue accuratamente fra i modelli e i loro epigoni, tra Puskin e i neoromantici. 416

La corrente opposta è attaccata più duramente. Il libro è stato scritto allo scopo di polemizzare contro di essa. L’organiz­ zatore dell’armata rossa non può soffrire il rumoroso radicali­ smo di quei profeti del Proletkult. Anche il gusto letterario di Trockij — come quello di Karl Marx — è segretamente riverenziale. Non gli piacciono i simpatizzanti della rivoluzio­ ne — vittoriosa — che ora, per lo più senza essere essi stessi proletari, vorrebbero intronizzare appunto la cultura nuovissi­ ma, proletaria, al posto dell’abbattuta cultura borghese. La polemica di Trockij contro di loro ha contribuito al fatto che quegli esponenti del Proletkult attaccassero Trockij, quando Stalin apriva la Jotta per la successione a Lenin: Trockij, che a loro dire proteggeva il tradizionalismo borghese. Gli scrit­ tori del rapp, dell’Unione degli scrittori proletario-rivoluzio­ nari, erano staliniani, esattamente come i loro col leghi tede­ schi raccolti intorno a Johannes R. Becher e a Ludwig Renn. Erano anche antitradizionalisti. Può testimoniarlo il fascicolo speciale della loro sezione tedesca, della « Linkskurve », dedi­ cato al giubileo di Goethe, nel 1932. Del resto la sorte degli scrittori del rapp non è stata diversa da quella di altri alleati di Stalin agli inizi della lotta contro il troikismo. Furono spin­ ti da parte, quando non si aveva più bisogno di loro; nel 1934 Stalin si alleava con Massimiliano Gor’kij, scioglieva le orga­ nizzazioni e fondava, sulla base della dottrina letteraria del « realismo socialista », strettamente conforme alla tradizione, quell’unione degli Scrittori Sovietici a cui in séguito Solzenicyn e Heinrich Boll avrebbero rimproverato di non difen­ dere i suoi membri dal potere statale, ma di consegnarli nelle mani dei persecutori. Il libro di Lev Trockij, scritto nel 1924, non poteva ancora registrare quest’ultima fase della cultura sovietica: imitazione della narrativa borghese-realistica del secolo xix; canonizzazio­ ne del teatro naturalistico di uno Stanislavskij e del Teatro dell’Arte di Mosca: imitazione della musica sinfonica di Cajkovskij che pretendeva di ispirarsi a Beethoven; pittura storica secondo il modello di II ja Repin, dove gli zar erano sempli­ cemente sostituiti da operai, contadini e bandiere rosse. Più tardi, in esilio, Trockij interpreterà questa svolta nel senso della sovrastruttura di una « rivoluzione tradita ». 11 compito di Letteratura e rivoluzïone è quello di sepa­ rare gli urloni e i teorici esagitati dai veri talenti letterari. Per 4*7

Majakovskij e contro il Proletkult. Per cui si dice, già nella prefazione: « Radicalmente sbagliata è la contrapposizione della cultura proletaria e dell’arte proletaria alla cultura bor­ ghese e all’arte borghese. Le prime non esisteranno mai poi­ ché il regime proletario è temporaneo e transitorio. Il signifi­ cato storico e la grandezza morale della rivoluzione proletaria stanno nel fatto che questa pone le fondamenta di una cultura che non sarà di classe, ma sarà la prima cultura veramente umana. » Seguono tesi veramente « umane » circa il problema della politica culturale durante questo periodo di transizione. « La nostra politica nell’arte del periodo di transizione può e deve essere diretta a facilitare ai vari gruppi e movimenti artistici, che si sono messi sul terreno della rivoluzione, l’apprendi­ mento autentico del significato storico di questa e posto al di sopra di tutti il criterio categorico : per la rivoluzione o contro la rivoluzione, offrire loro piena libertà nel campo dell’auto­ determinazione artistica. » Era un’alternativa possibile. 11 vittorioso Stalin ha respinto anche questo aspetto del trozkismo. La politica dell’arte veni­ va regolamentata, e il processo si concludeva con la repressio­ ne poliziesca, come accadeva in tutti gli altri campi della vita sovietica. Nel libro di Nadezda Mandel’stam 5 la vita quoti­ diana di un autore sovietico sotto il regime staliniano viene descritta sobriamente attraverso l’esempio di una delle sue vittime, il lirico Osip Mandel’stam. Assassinio, suicidio, silen­ zio. I suicidi Esenin e Majakovskij: Tretjakov e Pil’niak, as­ sassinati; i formalisti costretti al silenzio e non pubblicati; i fratelli di Serapione perseguitati dalla polizia, come la poetes­ sa lirica Anna Achmatova. Le scempiaggini di una scienza della letteratura staliniana che esegue zelantemente il suo in­ carico « smascherando » ancora nell’Enciclopedia sovietica, come reazionario aristocratico e salottiero, il primo maestro e modello dei fratelli di Serapione, l’autore di Mastro Pulce con la sua anticipazione di un regime poliziesco siffatto, insomma E.T.A. Hoffmann. Di tutto questo Trockij ha dovuto presentire molto. Il suo libro si legge come un presentimento. L’ottavo capitolo, su Arte rivoluzionaria e socialista, liquida piuttosto freddamente l’appello al « realismo ». Non è una categoria letteraria valida per il presente. Il termine può servire al massimo in senso ne­ 418

gativo, come esclusione del « misticismo ». La politica dell’arte di Trockij è curiosa, rispettosa di ogni manifestazione di crea­ tività, aperta dal punto di vista formale. Stalin installava una regolamentazione saccente, disprezzava l’impotenza degli arti­ sti, che come il papa non parlavano di proprie divisioni, impo­ neva un’estetica normativa. Soprattutto sbalorditiva è la difesa della bohème letteraria e del futurismo (nel iv capitolo del libro di Trockij). Il « let­ terato da caffè » del Cale Central che aveva respinto con tanto disprezzo la politica di quei caffè si sforza quasi con simpatia di dissociare l’autenticità dalla maniera, nell'atteggiamento antiborghese della bohème rivoluzionaria. L’analisi delle ori­ gini storiche del futurismo in paesi socialmente arretrati come l’Italia e la Russia è estremamente acuta. Un’esposizione com­ plessiva del futurismo russo e italiano insieme alle correnti laterali (Museo Guggenheim di New York, 1973) si è presen­ tata come una conferma a posteriori delle precoci analisi di Trockij. Quest’ultimo parla di anticipazione dello sviluppo da parte di pensatori e artisti che vivono in paesi arretrati: in antitesi all’ideologia degli ordinamenti sociali più progrediti. Il paragone è audace, e lusinghiero per i futuristi. « Così il pensiero tedesco del xvm e xix secolo riflesse le conquiste eco­ nomiche degli inglesi e quelle politiche dei francesi. Così il fu­ turismo trovò la sua più chiara espressione non in America, non in Germania, bensì in Italia e in Russia. » Ma che cosa anticipava, il futurismo? Non precorreva certa­ mente l’alternativa alla società borghese — nonostante tutto il suo apparente antiborghesismo. Trockij conosce bene la sto­ ria della letteratura, come conosce la bohème. Cita l'avversio­ ne per i filistei dei romantici tedeschi e francesi, e la scanda­ losa giacca rossa di Théophile Gauthier. I futuristi russi pre­ ferivano una blusa gialla: « Di questo panciotto romantico, che suscitava l’orrore dei papà e delle mamme, la blusa gialla dei futuristi è indubbiamente una pronipote. Com’è noto, alle turbolente proteste, ai capelli lunghi e al panciotto rosso del romanticismo non seguì nulla di sconvolgente, e l’opinio­ ne pubblica borghese alla fine adottò felicemente i signori ro­ mantici e li canonizzò nei manuali scolastici. » La bohème non è la rivoluzione. Quando Trockij scrive il suo libro, Mussolini ha già fatto la marcia su Roma e si è già impossessato del potere. Futuristi come Marinetti si dichiara­ 419

no fascisti. Trockij cita il fatto che conferma l’analisi. Però lo sviluppo bolscevico in Russia, senza il quale non era pensabile la reazione fascista in Italia, offre ai futuristi russi un’altra possibilità artistica e sociale. Colui che scrive vuole l’approva­ zione di Majakovskij. Certo, la bohème non è rivoluzionaria. I.a protesta di Majakovskij contro Puskin deve essere inter­ pretata nel modo giusto: non come rifiuto dell’autore delVEugenio Oneghin, ma come ribellione alla canonizzazione dello scrittore da parte degli epigoni. Scrive Trockij: « Nell’e­ sagerato rifiuto formalistico del passato c’è il nichilismo della bohème, non lo spirito rivoluzionario del proletariato. Noi, marxisti, siamo sempre vissuti nella tradizione e non abbiamo per questo smesso di essere dei rivoluzionari. » E più avanti: « Ecco perché non coincidono il tipo del comunista, rivoluzio­ nario politico, e del futurista, innovatore formalmente rivolu­ zionario: » Ma questa è nuovamente un’anticipazione. In un’impor­ tante scena di un’opera teatrale sfortunata, nel Trotzki im Exil [Trockij in esilio] di Peter Weiss, al Café Voltaire di ZurigoNiederdorf i rivoluzionari politici Lenin e Trockij sono messi a confronto con i dadaisti raccolti intorno a Hugo Ball, a Tri­ stan Tzara e a Emmy Hennings. Lenin è disgustato dal com­ portamento bohémien; Trockij è spiacevolmente colpito, però è anche segretamente attratto. I dadaisti ubriachi postulano la parità davanti ai posteri. Entreranno insieme nel mondo di do­ mani e insieme influiranno su di esso: i rivoluzionari e i bohé­ miens. Con le parole di Trockij: i « rivoluzionari politici » e gli « innovatori formalmente rivoluzionari ». In Trockij il bohémien non si lasciava rimuovere. Nel periodo in cui era al potere, e anche più tardi, ancora dopo che era stato rovesciato e proscritto, poteva così conservare il contatto con le realtà spirituali. Il regime staliniano stabiliva sistematicamente un rigido confine: di qua progresso — di là decadenza. Progressi­ sti erano i pittori che dipingevano Stalin e i musicisti che com­ ponevano sinfonie rivoluzionarie con molte battaglie rumo­ rose, ispirate al modello deWOuverl lire 1X12 di Cajkovskij: semplicemente sostituendo l’inno allo zar. Invece erano deca­ denti Picasso e Schönberg, Kafka e Joyce, gli espressionisti e i surrealisti. L’avvicinamento di Trockij al surrealismo è stato spesso li­ quidato come tattica opportunistica: allo scopo di trovare 420

aùeati, non importa dove. Ciò è smentito da una lettura atten­ ta, non soltanto del libro Letteratura e rivoluzione, ma anche e soprattutto dell’insieme di tutti gli scritti di argomento lette­ rario che Trockij ha composto durante l’esilio. I.a maggior parte delle edizioni di Letteratura e rivoluzione rinuncia a stampare queste analisi tarde, e spesso magistrali: degradando quello scritto sugli scrittori e la rivoluzione alla funzione di un interessante documento storico. Poiché pare che un rivolu­ zionario letterariamente dotato per una volta — ancorché co­ me politico della cultura — si sia pronunciato anche intorno a problemi fondamentali di una teoria marxista della lettera­ tura, per non tornare mai più su tali questioni. Era vero il contrario. Il Trockij appassionato per l’attività dello scrivere, affascinato dagli scrittori poteva liberamente, veramente realizzarsi come scrittore soltanto nell’esilio. Le grandi opere storiche, l'autobiografia: vicino ad esse le innu­ merevoli polemiche del giorno e analisi della situazione ap­ paiono di un livello inferiore — anche se spesso, troppo spesso dicevano la verità. Invece le analisi letterarie del tardo Trockij —- all’incirca fra il 1930 e l’anno della morte — rivelano in lui un maestro dell’analisi e critica letteraria. Leggere e scrivere: a Prinkipo, in Francia, in Norvegia e in Messico. L’estensione delle sue letture nel campo specifico della letteratura amena sbalordi­ sce. Subito dopo la pubblicazione del Voyage au bout de la nuit di Céline6 Trockij scrive una sua interpretazione del ro­ manzo in francese. Il vecchio rivoluzionario è stato profonda­ mente impressionato dalla forza plastica di questo romanziere francese dallo sguardo cattivo. Verso la fine del saggio Trockij sembra presentire il corso successivo della vita dell’autore, che diventerà un collaborazionista. « Nella musica di questo libro ci sono notevoli dissonanze. Rifiutando sia il reale che tutti i suoi possibili surrogati, l’artista appoggia l’ordine esistente. Da questo punto di vista Céline — che lo voglia o meno — è un alleato di Poincaré. Ma in quanto svela la menzogna, fa intuire la necessità di un futuro più armonico. »’ Trockij è dunque favorevole a Céline; però è contro Mal­ raux. Ciò non dipende solo dal temporaneo stalinismo di Mal­ raux, ma anche e assai più dall’immagine della rivoluzione cinese « strangolata » (il termine è di Trockij) che Malraux disegna nei Conquérants — immagine fantastica, secondo 421

quello che Trockij crede, e, anche, sa. Soprattutto il secondo articolo, che contiene la risposta a una replica di Malraux, non anticipa soltanto una possibile critica della Condition Humaine, che allora non era ancora uscita, ma anche — para­ gonabile, in questo senso, alle osservazioni su Celine — l'ul­ teriore sviluppo ideologico di André Malraux. « Come scrit­ tore politico Malraux è lontano dal proletariato e dalla rivolu­ zione ancora più di quanto ne sia lontano come artista. »8 Malraux difende la politica cinese di Stalin, che porta alla catastrofe della rivolta di Canton. « Per protestare contro que­ sta politica nel 1925, occorreva lungimiranza. Ma volerla di­ fendere nel 1931, è prova di inguaribile cecità. » Il più importante tra gli ultimi lavori di Trockij sull'arte e la letteratura è uno studio in forma epistolare su L’arte e la rivoluzione che Trockij concludeva il 17 giugno 1938 a Coyoacan e metteva a disposizione della rivista americana « Partisan Review ».’ Nasceva così la continuazione, dopo quattordici anni, del libro su letteratura e rivoluzione. Allora, nella gio­ vane Unione Sovietica, si doveva tentare una cernita dei con­ cetti e delle correnti estetiche. Contemporaneamente un po­ tente uomo politico del partito bolscevico aveva sviluppato il suo pensiero sulla politica del partito nei confronti dell’arte e degli artisti. Ora, nel 1938, Stalin amministra l’arte e la lette­ ratura con l’aiutQ di spie, di poliziotti del servizio segreto e di un’apposita dottrina su cui è stato incollato l'epiteto di « rea­ lismo socialista ». Trockij risponde con irritazione e sarcasmo. Che i fatti gli abbiano dato ragione, oggi, una generazione do­ po, non c’è più bisogno di dimostrarlo. Le opere e i libri nati in queste circostanze, che volevano essere apologetici, parlano per sé, o contro di sé. « Lo stile dell’attuale pittura sovietica ufficiale si chiama < realismo socialista >. Evidentemente le ha dato questo nome qualche direttore di qualche sezione artistica. Il realismo con­ siste nel fatto che si copiano gli stereotipi provinciali del terzo quarto del secolo scorso; il < socialismo > è insito in ciò che si riproduce: con l’aiuto di fotografie adidterate e di eventi che non hanno mai avuto luogo. » Sono all’opera scrittori, pittori e disegnatori che non possiedono altro che i loro arnesi. Glo­ rificano, « sorvegliati da funzionari muniti di fucili Mauser, i capi grandi e geniali che non hanno neanche una scintilla di grandezza e di genialità ».'“ 422

Trockij crede anche di conoscere esempi di un’arte autenti­ camente rivoluzionaria. Certo non si trovano più nell’impero di Stalin, ma nel Messico. « Guardi gli affreschi di Rivera! Vuol sapere che cos’è arte rivoluzionaria? Guardi gli affreschi di Rivera! » Questo scritto ha la data del 17 giugno 1938. Il 25 luglio di quest’anno nella città del Messico appunto questo pittore, Diego Rivera, e André Breton firmano un manifesto « Per un’arte rivoluzionaria indipendente ». È il terzo manifesto surrealista, e tuttavia è anche qualcosa di diverso. Quindici anni dopo (1953) Breton ha fatto sapere che il manifesto era stato composto insieme da lui e da Trockij. La firma di Rivera al posto di quella di Trockij era dovuta a ragioni tattiche. Trockismo e surrealismo·, dopo che Aragon e Eluard hanno rotto l’alleanza con Breton e si sono messi « al servizio della rivoluzione » di marca staliniana, il surrealismo integrale si incontra con la teoria della Rivoluzione Permanente. Il mani­ festo è sbalorditivo, e dice la verità. Non solo perché compren­ de nella sua analisi la guerra che si avvicina, trattandola come una certezza; e neanche soltanto perché descrive esattamente gli-intellettuali « che in un crepuscolo di sangue e di fango del servilismo si sono fatti una professione, dell’autorinnegamento spirituale un gioco perverso, della falsa testimonianza venale un’abitudine, e dell’apologià del delitto un piacere ».” Con una decisione che Trockij non aveva mai mostrato pri­ ma si decreta l’assoluta libertà della produzione artistica: « La libera scelta del tema e l’assoluta non-limitazione del suo cam­ po di ricerca rappresentano per l’artista un diritto inaliena­ bile. » La conseguenza è sorprendente: « Se la rivoluzione è costretta a erigere un sistema socialista centralizzato, nell’in­ teresse dello sviluppo della produzione materiale, tuttavia deve contemporaneamente, e fin dall’inizio, stabilire e assicurare un regime anarchico di libertà intellettuale. »’2 Per André Breton tutto questo è logico. E per Trockij? Chi vorrebbe pensare a un opportunismo tattico, sottovaluta la profondità della sostanza letteraria di questo scrittore che ap­ partiene insieme alla letteratura e alla rivoluzione. Che solo l’esilio e la privazione di ogni potere materiale abbiano nuovamente trasformato lo scrittore Trockij portan­ dolo alla « riconoscibìlità », il suddetto Trockij lo avrebbe negato con veemenza. Gli scrittori che si sono occupati dell’ar­ 423

da capo. Neanche Auschwitz, dove tanti erano stati « liqui­ dati », aveva risolto questo conflitto. Il libro di Sartre Réflexions sur la Question Juive è nato dall’osservazione e dalla preoccupazione; è stato ideato anco­ ra nell’ultima fase della guerra, mentre le camere a gas lavo­ ravano, e poi pubblicato a Parigi nel 1946. L’analisi giunge alla conclusione: « Ma bisognerà dimostrare a ciascuno che il destino degli ebrei è il suo destino. Non ci sarà un francese libero, finché gli ebrei non godranno la pienezza dei loro di­ ritti; non un francese vivrà in sicurezza, finché un ebreo in Francia e nel mondo intero potrà temere per la propria esi­ stenza. »3 Stranamente, o meglio: con estrema coerenza logica, sei anni dopo (1952) Sartre concludeva il suo libro sul ladro e omosessuale Jean Genet con l’affermazione che anche questo Genet era « nostro prossimo e nostro fratello ». Era un eroe del nostro tempo. « Inchiodato sotto i nostri occhi alla gogna, come noi "lo siamo sotto lo sguardo dei secoli, i Giusti non ces­ seranno di dargli torto, né la Storia cesserà di dar torto alla no­ stra epoca. Genet, siamo noi; ecco perché dobbiamo leggerlo. »’ Nessuna di queste raccomandazioni è stata seguita. È vero che nel 1946 Sartre aveva sostenuto che la piena uguaglianza degli ebrei che non vogliono assimilarsi, ma affermare la loro integralità umana e innata, può essere raggiunta solo in una rivoluzione socialista. Il giovane Marx aveva esattamente la stessa convinzione; sebbene con la riserva che la liberazione dell’ebreo significa la liberazione del mondo dall’ebreo in quanto ebreo: ciò che nonostante tutto finiva necessariamen­ te per comportare una spersonalizzazione, e dunque un impo­ verimento umano. Però per il periodo di transizione anche Sar­ tre aveva visto un’unica possibilità: indurre gli ebrei a essere autentici, e quindi a rinunciare a ogni atteggiamento sfug­ gente e sornione, e combattere gli antisemiti in nome di un « liberalismo concreto »,5 poiché l’antisemita difende una men­ talità di odio e di risentimento piccolo-borghese contro una società moderna, pluralistica e fondata sulla divisione del la­ voro, e di conseguenza non può cercare altro che l’assassinio di massa degli ebrei. Nel frattempo i palliativi di Sartre venivano confutati. La sua analisi si è confermata valida. La fondazione dello stato di Israele può essere bensì intesa come conferma della tesi sar426

triana della differenza tra l’ebreo inautentico e quello auten­ tico, che si accetta. Però se si considera il suo risultato erano semplicemente allargate a livello della politica mondiale le antitesi della « questione ebraica » di un tempo. Dall’outsider ebreo isolato in mezzo a una popolazione non ebrea si era pas­ sati a uno stato ebraico outsider in mezzo a una comunità di stati non ebraici. « Distruttore per funzione, sadico dal cuore puro, l’antisemita è nel più profondo del suo cuore un crimi­ nale. Ciò che desidera, ciò che prepara è la morte dell’ebreo. »Λ Naturalmente Sartre intende l’antisemita appassionato,7 non lo snob borghese. Ma il fatto che ogni decisione relativa alla po­ litica del vicino Oriente deve essere anche indirizzata dagli amici e alleati politici dello stato di Israele nel senso che vi si deve trovare una clausola a favore dell’esistenza di questo stato, dunque una dichiarazione a favore della non-distruzione, conferma come quelle tesi e « riflessioni sulla questione ebraica » del 1944 siano tuttora valide. Naturalmente Sartre aveva preso i suoi esempi dalla realtà francese. I suoi antisemiti erano francesi. Sartre discuteva i lo­ ro argomenti specifici. Vi aveva la sua parte e doveva essere preso in considerazione il fondo rurale della vita provinciale francese. L’affare Dreyfus non era stato dimenticato. Tuttavia gli argomenti e le conseguenze andavano oltre l’orizzonte fran­ cese. Anche se non si poteva ignorare la presenza di una co­ stante specificamente francese all’interno dell’antisemitismo e di quello che più tardi sarebbe stato chiamato antisionismo. Le considerazioni sull’antisemitismo svolte da Max Hork­ heimer e Teodor Wiesengrund Adorno nel libro La dialettica deU’illuminismo sono nate negli Stati Uniti circa nello stesso tempo delle riflessioni francesi di Sartre. Anche in America quindi dovevano essere analizzati substrati sociali, mentali ed emozionali che corrispondevano ai fatti scoperti da Sartre, e che a loro volta confutavano il magnanimo ottimismo secon­ do cui dopo Auschwitz la questione dell’odio per gli ebrei poteva venire « mozzata ».8 Più tardi, dopo il ritorno, Adorno aveva enunciato con ap­ passionato impeto il postulato che dopo Auschwitz la poesia non era più possibile. Era una liquidazione estetica di uno stato di cose esistenziale. Si cercava di confutarlo, in una ma­ niera non meno estetizzante, citando ad esempio la Fuga della morte di Paul Celan. L’autore di quella poesia non parteci427

pava alla discussione. Viceversa vedeva una possibilità per la propria poesia, proprio per quella poesia che era ancora pos­ sibile, precisamente nel fatto che Auschwitz era rimasto uno stato di cose virtuale. Se Adorno rifletteva su Auschwitz e sui poeti, non poteva evitare di considerare le analisi di quella Dialettica deH'illuminismo. Vi si diceva: « L’etichetta viene appiccicata: cia­ scuno è amico o nemico. La mancanza di riguardi per il sog­ getto facilita il gioco dell’amministrazione. Si trasferiscono gruppi etnici ad altre latitudine, si spediscono individui con la stampigliatura < ebreo > nelle camere a gas. [.’indifferenza verso l’individuo, che si esprime nella logica, trae le conse­ guenze del processo economico. »’ Ciò che significa: il fenomeno Auschwitz aveva a che fare con l’odio per gli ebrei solo in superfìcie. Molto al di là dell’e­ sistenza degli ebrei, significava un pensiero distruttivo globa­ le, che vuole ammettere soltanto le maggioranze, e cerca di identificare la minoranza con una « vita indegna di essere vis­ suta ». Qui possono essere indegni di vivere gli ebrei, là i negri, altrove (e ovunque) gli omosessuali, le donne del tipo di Giuditta e di Dalila: e anche e non da ultimo gli intellet­ tuali tuttora incapricciati dell’individuazione e dello sforzo razionale del concetto. Si dice nella seconda tesi sull’antise­ mitismo di Horkheimer e Adorno: « La leggenda della cospi­ razione bolscevica di banchieri ebrei dissoluti che finanzia­ vano il bolscevismo, è il simbolo dell’impotenza congenita, la dolce vita il simbolo della felicità. A ciò si associa l’immagine dell'intellettuale, che sembra pensare (ciò che gli altri non possono concedersi), e non versa il sudore della fatica fisica. »,0 Se, più tardi, riflettendo sull’antagonismo fra lirica e camera a gas, Adorno vuole rispettare l’evidenza di questa precedente analisi, e analogamente quella frase con cui comincia la set­ tima tesi sull’antisemitismo (« Ma non ci sono più antisemi­ ti »), per cui l’odio per gli ebrei del passato, che era stato pic­ colo-borghese e irrazionale, e anche potenzialmente omicida, tuttavia celava ancora in sé le tracce di un soggettivismo che si ribella contro la reificazione totale, mentre al suo posto è sempre più subentrato il pensiero della distruzione globale, che si riferisce indistintamente a tutte le minoranze: deve allo­ ra trarre la conseguenza che il lirico, per non parlare addirit­ tura del poeta, rappresenta quell’eccesso di soggettività che 428

per il « pensiero per ticket. » totalitario (Horkheimer-Adorno) appare predestinato all’annientamento. Il poeta lirico Josif Brodski, che non voleva essere altro che questo, nell'Unione Sovietica era citato in giudizio come parassita e scioperato. Si levavano proteste che potevano salvarlo. Se la poesia oggi è in pericolo, non è perché « la penna si rifiuta » pensando a Auschwitz, ma perché la camera a gas può significare solo la distruzione delle minoranze, dunque anche del poeta. « Bisognerebbe gasarli tutti»: l’espressione è entrata nel linguaggio quotidiano, dove non si riferisce più agli ebrei, ma ai personaggi di volta in volta avversati da un pensiero totali­ tario che vorrebbe fare la festa a tutti i diversi. « Il furore si sfoga su chi spicca indifeso. E come le vittime sono interscambiabili fra loro, secondo la costellazione storica (vagabondi, ebrei: protestanti, cattolici), ciascuna di esse può prendere il posto degli assassini, nella stessa cieca voluttà di uccidere, ap­ pena si senta potente come la norma. »" Queste parole erano scritte verso la fine della seconda guer­ ra mondiale. (Ili avvenimenti che sono accaduti nel mondo nei trent anni successivi hanno reso evidente questa tesi. È degno di nota il fatto che gli autori della Dialettica deH’illuminismo non si proponevano affatto fin dallinizio di trarre tutte que­ ste conseguenze. Ancora nello studio di Max Horkheimer su Gli ebrei e l'Europa,12 del 1939, la persecuzione degli ebrei vie­ ne interpretata come un fenomeno particolare, anche se cer­ tamente vi si possono già riscontrare gli elementi di una legge universale: della liquidazione del capitalismo liberale. « Do­ po il fallimento dell'economia di mercato gli uomini sono stati posti una volta per tutte davanti alla scelta fra libertà e ditta­ tura fascista. In quanto agenti della circolazione gli ebrei non hanno più nessuna possibilità. » E in un altro passo: « Con­ tro il fascismo fare appello alla mentalità liberale del secolo XIX oggi significa richiamarsi all’istanza mediante la quale esso ha vinto. »'-’ Questo pensiero appartiene ancora alla vigilia di Auschwitz. I.a questione ebraica da un lato è sintomo del fallimento del­ l'illuminismo borghese, dall’altro è indizio di tendenze nuove dell'economia capitalistica, nel senso del monopolismo di sta­ to, dove l’apparentemente equiparato « ebreo protetto » non viene più usato economicamente. « I.a sfera della circolazione perde il suo significato economico. Il famoso potere del de­ 429

naro sta scomparendo. »'4 Si tratta di un’istantanea del 1939. Lo sviluppo avvenuto a partire dal 1945 ha confutato impo­ stazione e conseguenze. Già nell’impostazione era stata assolutizzata la separazione della sfera della produzione dalla sfera della circolazione. Ancora nella terza delle successive tesi sugli elementi dell’antisemitismo si ripete che « in contrasto con i colleghi ariani, agli ebrei l’accesso alle fonti del plusvalore era in larga misura precluso ».’5 Ma il capitale finanziario aveva superato da tempo questa scissione, con la fusione del capi­ tale industriale e bancario, con l’economia d’investimento del­ le banche. La sfera della circolazione — che fosse occupata da ebrei o da ariani o da arabi — restava potente. Non era questa la causa dell’impotenza degli ebrei e dell’inalterato furore del­ l’odio per essi. L’impostazione analitica nella Dialettica dell’illuminismo è più puntuale. Che Sartre e Horkheimer-Adorno pressappoco contemporaneamente affrontassero gli stessi problemi e arrivas­ sero anche a risultati in larga misura analoghi, è un fatto che conferma anzitutto come Auschwitz fosse stato un fenomeno « tedesco » sul piano della realtà, ma non su quello della ri­ flessione. La contemporaneità è degna di nota: Sartre a Parigi e Horkheimer-Adorno in California enunciano le loro cono­ scenze essenzialmente nel 1944, quindi in un momento in cui la sconfitta del Terzo Reich può già essere inserita nell’analisi. Entrambi i modi di considerare il fenomeno partono dalla pre­ messa che dopo la fine della guerra ci sarà una questione ebrai­ ca. Entrambe le interpretazioni ritengono che la questione del­ l’odio per gli ebrei, tuttora virulento, significhi fallimento del­ l’illuminismo borghese, dove Sartre, con scarsa precisione ter­ minologica, chiama « democratico » l’esponente di questa con­ cezione umanistico-borghese, mentre gli emigrati tedeschi di Los Angeles sogliono parlare di liberalismo borghese. Comune alle due interpretazioni è anche l’affermazione del­ la profonda connessione psichica, quasi erotica, tra l’antisemi­ ta e la sua vittima ebrea. Che l’antisemitismo rappresenti una forma di pensiero in fondo manicheo, dove il bene è continuamente in lotta con il principio satanico, incarnato dall’ebreo, Sartre lo dimostra con precisione. Anche nella Dialettica del­ l’illuminismo si dice, a proposito degli ebrei: « Essi vengono bollati dal male assoluto come il male assoluto. »'6 In entrambe le analisi non si tratta di retorica, ma del l’interpretazione di 430

testi antisemitici. Durante la guerra (1940) Ludwig Klages pubblicava le 120 pagine della sua introduzione agli scritti postumi di Alfred Schuler: introduzione che serve evidente­ mente come pretesto per liquidare gli amici ebrei di un tempo, dove nei confronti dell’amico di gioventù Theodor Lessing vale il tabìi del silenzio, mentre tutto l'odio si scarica su Kart. Wolfskehl, che l’odio di Klages e dei suoi aveva allora scac­ ciato fino agli antipodi, nella Nuova Zelanda. Klages è imper­ turbabile: « La stessa tribù di Giuda è il Golem, è la potenza di Geova, e cioè il satanismo, con la maschera dell’uomo, in grado di imitare senza eccezione tutto ciò che è umano, di su­ perarlo e in questo modo distruggerlo. »” Sono analoghe le interpretazioni e anche le prospettive, in Sartre e, rispettivamente, negli autori degli Elementi dell’anti­ semitismo. Limili dell'illuminismo. Sartre spera che la sop­ pressione socialista della società di classe risolverà definitiva­ mente la questione ebraica; nel frattempo si possono soltanto consigliare certe forme di comportamento: agli ebrei e agli avversari degli ebrei in cui l’antisemitismo non ha ancora ^as­ sunto la forma stabile dell’odio. Anche Horkheimer e Adorno distinguono fra la prospettiva a lunga scadenza e quella a me­ dia scadenza. Nei tempi lunghi la questione ebraica potrebbe effettivamente rivelarsi « come svolta della storia ». E infatti: « Solo nella liberazione del pensiero dal dominip, nell’aboli­ zione della violenza, potrebbe compiersi l’idea che è rimasta, finora, non vera: essere l’ebreo un uomo. Sarebbe il passo dal­ la società antisemitica, che spinge l’ebreo come gli altri nella malattia, alla società uipana. »I8 Queste parole erano scritte nel 1944, nella sesta e ultima tesi sull’antisemitismo. Si trovavano nell’ultima pagina dell’analisi, e quindi parevano indicare la prospettiva per il futuro. Ma quando il testo — concluso nel 1944, la cui prefazione è datata nel maggio 1944 — usciva sotto forma di libro, nel 1947, gli autori dovevano ancora comunicare, in tre righe di una nuova prefazione scritta nel giugno 1947: « 11 libro non contiene modifiche di rilievo al testo, condotto a termine già durante la guerra. È stata aggiunta in seguito solo l’ultima tesi degli Elementi dell’antisemitismo. »*’ Perché quest’ultima tesi? Evidentemente perché la conoscen­ za degli avvenimenti accaduti alla fine della guerra e dei mec­ canismi di annientamento di Auschwitz e di Maidanek rende­ 431

va problematica la troppo magnanima interpretazione del testo originario. Soltanto con la nuova tesi, la settima, l’analisi dell’antisemitismo e dei suoi elementi giustifica il suo inserimento nella Dialettica deH’illuminismo. Ma nello stesso tempo si svin­ cola dalla problematica specificamente ebraica, per intendere l’odio per gli ebrei e gli ebrei come esemplificazione del feno­ meno della diversità sociale. Vengono ora comprese nell’ana­ lisi anche le altre possibili minoranze: donne, negri, intellet­ tuali, anche i protestanti in ambiente cattolico e i cattolici in un ambiente protestante militante. « Così si è visto che l’anti­ semitismo può attecchire altrettanto bene in zone dove non c’è neanche un ebreo come ad Hollywood stessa, »æ Il libro sulla Dialettica dell’illuminismo era concepito e formulato durante la guerra, quando l’Unione Sovietica era alleata degli Stati Uniti, della resistenza francese, delle mag­ gioranze nazionali nei paesi occupati dalla Wehrmacht.. Ma quando il libro usciva e si doveva introdurre una nuova e ul­ tima tesi sulla questione dell’odio antisemitico, il mondo dei vincitori era caratterizzato da un antagonismo reale e ideolo­ gico fra l’Qccidente e l’Oriente, fra gli imperialisti e i comu­ nisti. Ciò che Adorno e Horkheimer indicano come «pen­ siero per ticket » : l'ideologia del pensiero totalitario, della ne­ gazione di ogni differenziazione, del contrasto « manicheo » fra la parte del mondo che è assolutamente cattiva e quella assolutamente buona, divideva un mondo che si concepiva e rappresentava in un modo che conosceva soltanto la posizione ; la negazione. Che variavano a seconda dell’appartenenza aluno o all'altro blocco. Ora nell’ultima tesi sull’antisemitismo : enunciata una prognosi nuova, più scettica e più realistica: ! La libertà che appare sul ticket progressista è altrettanto :strinseca alle strutture di potere a cui tendono necessarianente le decisioni progressiste, come l’antisemitismo al trust himico. »21 In altri termini: il capitalismo monopolistico non la nulla contro gli ebrei, però è assolutamente avverso a quele forze sociali che possono minacciare le posizioni di domilio. In questi casi è opportuno il dirottamento sulle minoranze mpotenti. Viceversa, una potenza mondiale originariamente progresista è facilmente incline, in quanto tale, a sacrificare la libertà la protezione dei diversi agli interessi della Realpolitik. « Anisemita non è solo il ticket antisemita, ma la mentalità dei 432

tickets in generale. » Ma se questa tesi viene pensata coerente­ mente fino in fondo, ogni mentalità totalitaria, che non rap­ presenta più l’illuminismo, ma in caso di emergenza deve com­ prendere nei suoi calcoli anche la sua liquidazione, in deter­ minati momenti cercherà di servirsi e si servirà effettivamente dell’odio per l’ebreo allo stesso modo di quelli che rappresen­ tano il ticket opposto. È questa la nostra verità qui e ora. Chi attacca il « sioni­ smo », ma pretende di non avere nulla contro gli « ebrei », per amor del cielo, inganna se stesso o gli altri. Lo stato di Israele è uno stato ebraico. Chi vorrebbe distruggerlo, dichiaratamen­ te o mediante una politica che non può avere altro effetto che questa distruzione, pratica l’odio antisemitico di un tempo e di sempre. Lo conferma ampiamente l’interrelazione della po­ litica estera e interna: se si osserva la politica interna degli stati decisamente antisionistici, si vede come i cittadini ebrei che vivono in quesfi paesi vi siano considerati potenzialmente come « sionisti », e siano trattati in conseguenza. Jean-Paul Sartre concludeva le sue considerazioni del 1946 constatando che finché c'i sarà nel mondo un ebreo che deve sentirsi minacciato come ebreo neanche il francese sarà sicuro della sua vita: poiché il pensiero globale dell’annientamento può prendere come bersaglio anche lui, come francese o come bianco o con qualunque altro pretesto. Quando, nel novembre 1974, il congresso dell’LInesco a Parigi decretava che lo stato d’Israele non aveva territorio, e quindi non poteva restare membro dell’organizzazione, Sartre protestava con grande vee­ menza. In questa disposizione vedeva una conferma della sua diagnosi, a distanza di trent’anni. Horkheimer e Adorno concludono così : « L’illuminismo stesso, divenuto padrone di sé e forza materiale, potrebbe spez­ zare i limiti deH’illuminismo. »2 Dove viene parafrasata la tesi di Marx, che anche l’idea può diventare una potenza mate­ riale, quàlora se ne impadroniscano le masse. È vero che a questo punto della Dialettica dell’illuminismo non si parla più di masse. L’illuminismo, così com’è inteso dagli autori di questo libro, si oppone aH’illuminismo borghese, limitato e soffocato da tali limitazioni. In nome di che cosa? In nome del­ l’impotenza, non del potere, in nome di un’idea che non è ac­ compagnata da un interesse. Quando Shylock insisteva sulla sua ricevuta, confidava nel 433

diritto come sua unica protezione. Si metteva nelle mani del giudice istruito e giusto. (« Most learned judge! - Most right­ ful judge! ») La crudele ironia del « bond » con la clausola della libbra di carne sta nel fatto che Shylock era inizialmente disposto a conciliarsi con Antonio, ed era anche convinto che il suo debitore avrebbe potuto pagare tempestivamente, per cui aveva escogitato una clausola assurda al fine di dissimulare pudicamente la rinuncia agli interessi usurai nel caso che il pagamento non potesse avvenire. Allora Jessica non era ancora stata rapita, non c’era ancora stato il furto nella casa di Shylock. La generosità che ci si proponeva non ha fruttato nulla, ora il diritto deve seguire il suo corso. Ma nei casi di emer­ genza, come questo, per l'ebreo non c’è più diritto. La « sen­ tenza » che Porzia pronuncia tra le risate scroscianti dei vene­ ziani, nel caso opposto sarebbe stata infallibilmente denigrata dirgli antisemiti, come manifestazione di talmudismo ebraico. Essa agisce contro Shylock alla maniera di Shylock — a quan­ to si pretende. Si condanna l’ebreo, ed egli deve esplicitamente dichiarare di essere soddisfatto. (« I am content. ») Ma Shy­ lock non deve essere sempre, ovunque e necessariamente un ebreo.

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Conclusione aperta

« Il lamento per la reificazione passa al di sopra di ciò che fa soffrire gli uomini, piuttosto che denunciarlo. Il male sta nei rapporti che con­ dannano gli uomini all’impotenza e all’apatia, e che questi dovrebbero tuttavia cambiare: i rapporti — non gli uomini e il modo in cui essi appaiono loro — sono la prima radice del male. » Theodor IV. Adorno, « Dialettica Negativa »

Questo libro parte dalla cognizione che l’illuminismo bor­ ghese è fallito. La fenomenologia dei diversi intenzionali ed esistenziali di cui si compone non sembra portare a un risul­ tato migliore e diverso. Manipolazione delle immagini della donna, per cui le stesse outsider di quelle outsider che sono le donne vengono degradate al livello della bella storia del tipo che è particolarmente apprezzato negli uffici dei fabbri­ catori di sogni. Bonnie and Clyde, o l’Alta Coppia armata. Apoteosi di Marylin Monroe. E infine quella sorta di superproduzione sintetica che è la vamp armata. Con un disperato sforzo di realizzare un’autentica esperien­ za esistenziale e letteraria Jean Genet aveva cercato di creare una contromorale e un’antiestetica. La morale corrente dei normali non ne è stata mutata affatto, mentre la controestetica è stata oggetto di consumo letterario. L’antisemitismo della grande borghesia, inteso al declassa­ mento sociale degli ebrei, è rimasto, come è rimasto l’odio antisemitico della piccola borghesia, che vuole lo sterminio. È comparsa una terminologia un po’ diversa da quella con­ sueta, che non parla più di ebrei ma di sionisti, e pretende di non voler eliminare l’outsider ebreo, ma lo stato d’Israele e il suo preteso imperialismo. In verità essa non rappresenta nien­ te di nuovo: le tesi ci sono familiari: i protagonisti di questo 435

nuovo antisionismo si limitano a operare nel senso di una ben nota tradizione in una forma un po’ camuffata. Non sono pro­ letari, anche se l’antisemitismo è rimasto un fenomeno diffuso tra i ceti operai, come ben sappiamo: Stalin e i suoi successori e proconsoli hanno saputo utilizzarlo. La tradizione classica francese pretende che tutte le specie di deduzioni sfocino in una conclusione ultima e finale. Ma in questo caso ciò non è possibile. Ci sono numerose soluzioni per i diversi del tipo di Giuditta e Dalila, pei gli uomini di So­ doma, per la cosiddetta questione ebraica. Le conosciamo, e possiamo ridurle sostanzialmente a Ire modelli. Con una ter minologia di cui si è abusato al punto da renderla quasi repel­ lènte, dovremmo parlare di modello liberale, fascista, marxista. La soluzione liberale del problema del futuro dei diversi esistenziali può dare, apparentemente, buone notizie. Ci sono donne che dirigono parlamenti, governi e partiti, in seguito a elezione e nomina. Noti pederasti sono giunti ad alte cari­ che: sono diventati segretari generali delle Nazioni Unite, ministri degli esteri, ambasciatori, sono stati insigniti del Pre­ mio Nobel, eletti come membri deH’Académie Française, han­ no ricevuto un titolo nobiliare. Dopo Auschwitz ci sono stati, in Germania, borgomastri ebrei, la patria del Führer ha avuto un cancelliere ebreo, ci sono stati diplomatici e uomini poli­ tici ebrei in Oriente e in Occidente. Tuttavia·, tutte queste sono eccezioni, che non smentiscono affatto la sopravvivenza di una vecchia teoria e prassi oscurantistica, ma piuttosto la denunciano ancora una volta. I,'ecci­ tata propaganda che proclama un anno della donna presup­ pone segretamente che tutti gli altri siano anni dell’uomo. Le disparità sociali, economiche e politiche (neH’ambito del prin­ cipio della parità giuridica) di cui riferisce continuamente la letteratura femminista sono incontestabili. Il liberalismo della vita quotidiana e provinciale americana ha sviluppato con maestria il tema della divisione del lavoro fra l'uomo che gua­ dagna e sua moglie che spende i soldi e gli sopravvive. La ricerca di Pascal Lainé sulle immagini femminili constata la permanenza, e nella Francia dei nostri anni, della tradizionale diffidenza che incontra « une femme qui travaille ». Un ministro degli esteri di cui si comunica che non è spo­ sato (e la cosa dice molto) e di cui si elogia, dopo la sua morte, la discrezione con cui si è comportato, non fa dimenticare che 436

in tutti i paesi gli omosessuali provati sono trattati come un « rischio per la sicurezza » della collettività, e che la semplice confessione della loro tendenza è sufficiente per esonerarli dal servizio militare, come ai tempi del cavaliere d’industria Fe­ lix Krull; che vengono allontanati con disgusto dal loro posto di lavoro e costretti a esercitare professioni speciali che sareb­ bero adatte a loro, come quelle dello scenografo o del parruc­ chiere. L’assassino omosessuale e l’assassina lesbica: sono mo­ stri di un genere particolare, non paragonabili ai delinquenti consueti. Dovunque si può avvertire la formula « sebbene... tutta­ via ». Un uomo politico ebreo che fallisce è doppiamente fal­ lito: nella sua carica e nella vita. Ai casi di Georges Mandel e di Léon Blum seguiva, dopo la seconda guerra mondiale, il segreto disprezzo per Pierre Mendès-France. Agli intellettuali ebrei di cui si era circondato John F. Kennedy tale protezione non ha recato giovamento. Intanto sono caduti gli ostacoli che dopo Auschwitz avevano impedito all’odio antisemitico di dispiegarsi liberamente, nel senso che lo stato d’Israele viene identificato con Shylock. Ri­ sulta allora che al posto dell’outsider individuale di un tempo è subentrato uno stato outsider, che non può fare a meno di accorgersene. La diffidenza che lo circonda può significare, vir­ tualmente, un nuovo genocidio. Che cosa si può dire della variante fascista, circa il tratta­ mento dei diversi esistenziali? Si è abusato di questo termine, che in tal modo è stato minimizzato, tuttavia il fascismo esi­ ste, nella teoria e nella prassi. Decisamente avverso all’illuminismo, il fascismo proclama l’esistenza di disuguaglianze, in contrasto col postulato ugualitario dell’illuminismo borghese e dei suoi eredi. La donna è diversa dall’uomo. L’uomo è un uomo maschile, comunque possa essere intesa questa formula: l’uomo femminile è un degenerato, e quindi è indegno di vivere. Shylock deve essere distrutto: sono ammesse soltanto soluzioni definitive (fuoco, gas). La conclusione marxista dovrà scegliere fra il pensiero dei classici marxisti e le realtà dell’Unione Sovietica. La parità dei sessi era un irrinunciabile postulato del movimento ope­ raio e della dottrina marxista. Friedrich Engels e August Bebel, e molti altri dopo di loro, avevano sviluppato le rela­ tive tesi. Potevano richiamarsi alla ribellione delle lavoratrici, 437

emarginate del mondo del lavoro e come tali sfruttate in modo particolare, come si potèva provare a usura. Del resto nella stessa misura in cui il diverso trattamento e retribuzione delle lavoratrici e anche dei loro bambini poteva essere sostituito dal diverso trattamento dei lavoratori forzati, e più tardi anche di quelli immigrati, la sproporzione esistente all’interno del ca­ pitalismo europeo si modificava. L’economia americana conti­ nuava ad avere il serbatoio dei lavoratori di colore, e quindi anche delle lavoratrici di colore. Per cui in tutti i movimenti di emancipazione della classe operaia e delle nazionalità op­ presse la partecipazione femminile è stata rilevante. La doppia emarginazione di Rosa Luxemburg è diventata esemplare. Colpisce il piccolo numero e la scarsa influenza delle donne nella direzione degli stati socialisti dopo la rivoluzione d’otto­ bre del 1917. La Krupskaja e la Kollontai — e poche altre, inoltre non nelle commissioni decisive degli uffici politici. Sta­ lin non credeva nella parità dei sessi. Esigeva che la compa­ gna Dzuga’svili vivesse nell’ombra, ignorava un caso di suici­ dio, dava al politburo il carattere di un collegio maschile. La situazione non è cambiata affatto. L’effimera egemonia di una comunista rumena era presto cancellata. Le molto citate e di­ pinte trattoriste non fanno che sottolineare il contrasto. Sul piano teorico domina la parità, ma nella pratica essa è limitata alle sfere basse e semibasse. Persino il caso della donna-mini­ stro era sentito come un’eccezione; ma la politica dell’Unione Sovietica e degli stati da essa formati e dominati è fatta dagli uomini. I diversi sessuali sono rimasti tali. Non appena potè essere sicuro del suo potere, Stalin si affrettò a reintrodurre e persino a inasprire la pena per le pratiche omosessuali. Quando, intor­ no al 1948, veniva avviata la propaganda comunista contro Jean-Paul Sartre, autore delle Mani sporche, tra le espressioni di disgusto si poteva udire e leggere che il suddetto Sartre non aveva arretrato di fronte all’idea di introdurre nella letteratura un ladro e pederasta. Un certo Jean Genet. È nota la legisla­ zione e propaganda di Fidel Castro contro gli omosessuali, con­ siderati come agenti dell’imperialismo americano. L’antisemitismo cambiava nome e funzione, e si richiamava all’antisöcialismo. Nel xix congresso del partito bolscevico, l’ultimo a cui partecipava, proprio Stalin affermava, nel di­ scorso conclusivo, l’esigenza che il proletariato internazionale 438

adottasse e realizzasse i postulati della rivoluzione borghese. L’istanza del diritto di residenza per i palestinesi suonava vuo­ ta, se venivano disprezzati i diritti di residenza di tante nazio­ nalità, non da ultimo dei polacchi e dei tedeschi, per motivi esclusivamente strategici. Dopo Stalin l’antisemitismo di vec­ chia o nuova terminologia è diventato una massima politica. L’origine israelita è una ragione di sospetto politico; non sol­ tanto nei processi di Budapest e di Praga del periodo stalinia­ no il cognome ebraico era un argomento negativo. Negli ultimi anni di guerra Heinrich Mann ha scritto, a Les Angeles, il libro Un periodo viene esaminato, dove è po­ stulata la connessione storico-politica fra il giacobinismo e il bolscevismo, fra la rivoluzione del 1789 e quella del 1917: « Colpisce veramente — come processo umano, anche se non fosse un processo politico: questo collegamento per cui attra­ verso un secolo una nazione si unisce a un’altra, ai più alti momenti di un’altra. »* E più avanti: « Dopo tutto si può affermare che l’Unione Sovietica ha smentito praticamente il vecchio pregiudizio contro la parificazione. »2 In questo passo si parlava dell’uguaglianza economica. Ora, comunque si vo­ glia valutare l’egualitarismo economico, questa realtà sociale non ha affatto generato una nuova forma di coscienza. L’U­ nione Sovietica non ha tradotto in pratica le idee del movi­ mento borghese per i diritti umani, a un più alto livello so­ ciale, come si potrebbe pensare. Il modo in cui vi sono trattati i diversi lo dimostra. Per cui ogni considerazione del problema degli esclusi, dei diversi della storia e del presente, dell’arte e della letteratura, porta alla conclusione (se possiamo chiamarla così) che ogni legislazione illuministica intesa alla parità deve poter essere applicata al caso normale come all’eccezione. Ma in tal modo viola, e inevitabilmente, la particolarità esistenziale del di­ verso. Si aggiunga il fatto che Giuditta e gli uomini di Sodoma e gli eredi di Shylock possono essere nominati insieme soltanto nella loro negatività. Non ci sono strade che portino dall'uno all’altro. Non c’è una comunità dei diversi. Heine sta contro Platen, Shylock contro Antonio, I.ulu contro la contessa Geschwitz. Rosa Luxemburg contro l’ufficiale ebreo che fa parte del gruppo dei suoi assassini. Insieme all’illuminismo borghese è fallita anche la continuazione deU’illuminismo da parte degli stati che realizzano una pianificazione economica non 439

borghese, cosa che Heinrich Mann non voleva riconoscere. Dobbiamo accettare l’amara obiezione di Theodor W. Ador­ no: la denuncia legittima, spesso ripetuta, spesso anche pura­ mente stereotipata della reificazione e autoestraniazione socia­ le resta a sua volta un’espressione di reificazione, finché le sof­ ferenze concrete dei singoli uomini vengono liquidate con l’ar­ gomento del riscatto generale di tutta l’umanità.3 Un orienta­ mento di pensiero che disprezza ogni cosiddetta « personaliz­ zazione » per riconoscere soltanto le collettività, i casi normali e quantitativamente rilevanti, invece dei casi singoli e qualita­ tivi, promuove il pensiero feticistico, e quindi una prassi inu­ mana. Per cui lo scandalo dei diversi qui doveva essere discus­ so attraverso l’analisi di casi singoli. Non s’incomodava la psi­ cologia, ma si cercava di presentare costellazioni storicamente reali : sia nell’immediatezza di processi storici, sia nella media­ zione da parte di opere dello spirito. Erano così analizzati fe­ nomeni e processi, senza che si potesse trarre una conclusione. Dovremmo fare tesoro di quella massima che Goethe affida dapprima all’archivio della Makarie del Wilhelm Meister, e poi enuncia nelle Massime e riflessioni ·. « Non è bene tratte­ nersi troppo a lungo nel mondo delle astrazioni. La dottrina esoterica non fa che nuocere, quando diventa exoterica. Per insegnare a vivere non c’è nulla di meglio che la vita stessa. »4

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premesse: diversi e illuminismo

1 Ernst Bloch, Naturrecht und menschliche Würde (in Gesamtausgabe, voi. i), Frankfurt a.M. 1961, pp. 232, 237. 2 Ernst Bloch. Das Prinzip Hoffnung (in Gesamtausgabe cit., voi. v), Frankfürt a.M. 1959, cap. 47, p. 1103. 3 Max Horkheimer, Montaigne und die Funktion der Skepsis. Pubbl. dapprima in « Zeitschrift für Sozialforschung », 1938, pp. 1 sgg., e succes­ sivamente in Kritische Theorie. Eine Dokumentation, a cura di Alfred Schmidt, vol. Il, Frankfurt a.M. 1968, pp. 201 sgg. [tr. it. Montaigne e la funzione dello scetticismo, in Teoria critica, Einaudi, Torino 1974, li. pp. 197 sgg.]. Qui soprattutto pp. 217, 228 sgg. [pp. 212, 215 sgg.]. 4 Montaigne, Oeuvres Complètes (Bibliothèque de la Pléiade), Paris 1962, pp. 690 sg. [tr. it. Saggi, Adelphi, Milano 1966, n, pp. 945 sg.]. 5 Ibid., p. 691 [p. 946]. 6 A questo proposito v. Hans Mayer, Karl Marx und die Literatur, in Marxismus und Literatur. Eine Dokumentation in drei Bänden, a cura di Fritz Raddatz, Reinbek 1969, voi. in, pp. 330 sg. 7 Euripide, Les Troyennes. Adaptation de Jean-Paul Sartre, Paris 1965, PP· 7 sg. 8 Walter Jens, Der Fall Judas, Stuttgart 1975. 9 Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung cit., pp. 1174 sgg., 1219. 10 Harry Lavin, The Overreacher. A Study of Christopher Marlowe, Harvard University Press 1952. 11 George Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik. Die konkrete Entwicklung der dramatischen Poesie und ihrer Arten (Theorie Werkausgabe), Frankfurt a.M. 1970, voi. xv, pp. 560 sgg. [tr. it. Estetica, Einaudi, Torino 1972, Lo sviluppo concreto della poesia dram­ matica e dei suoi generi, pp. 1350 sgg.]. 12 Leslie A. Fiedler, The Stranger in Shakespeare, New York 1972. 13 Ibid., p. 43. 14 « Non c’è dunque modo per gli / uomini di nascere senza che le / donne facciano metà dell’opera? / Siamo tutti bastardi! » Cimbelino, il V, Shakespeare, Tutte le opere, Sansoni, Firenze, 1964, pag. 1126. 15 H.W. Auden. The Dyer’s Hand and other Essays, New York 1948 (ed. tedesca Des Färbers Hand and andere Essays, Gütersloh s.d., p. 279). 16 Herman Meyer, Der Sonderling in der deutschen Dichtung, Mün­ chen 1963, p. 22. 17 Wolf Lepenies, Melancholie und Gesellschaft, Frankfurt 1969, pp. 94 sg.

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18 Rudolf e Margot Wittkower, Born under Saturn, London 1933; ed. tedesca Künstler-Aussenseiter der Gesellschaft, Stuttgart 1965, pp. 99 sg., 289 [tr. it. Nati sotto Saturno, Einaudi, Torino 1968, pp. 117 sg.]. 19 Timon von Athen, Trauerspiel in fünf Aufzügen von Shakespeare. Secondo la traduzione di Dorothea Tieck, rielaborata e linguisticamente rinnovata da Karl Kraus, per la radio e il palcoscenico, Wien 1930, p. 57. [La traduzione italiana di C.V. Lodovici — in Sh., Il teatro, cit., in, p. 585 — è la seguente: « Sei diventato tutto affettazione; d’una isterica squallida malinconia: frutto, in te, del mutamento di fortuna. E che è quella vanga lì? E questo luogo? E codesto vestito da schiavo? E cotesta faccia d’agrore? I tuoi sgrassatori portano ancora seta, bevono vino, si stendono sul morbido, si stringono al petto le loro belle tutte pro­ fumate (e contagiate), e han già dimenticato che sia mai esistito un certo Timone. »] 20 Adolph Freiherr von Knigge, Über den Umgang mit Menschen, Bremen 1964, soprattutto pp. 425 sgg.

GIUDITTA E DALILA

I ■ IL SECONDO SESSO E LE SUE DIVERSE

1 Intraducibile gioco di parole con il doppio senso del tedesco « be­ sprechen ». (n.d.t.) 2 Simone de Beauvoir, Le Deuxième Sexe. i. Les Faits et les Mythes, Paris 1949, p. 236 [tr. it. Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1962, i, p. 190], 3 Goethe scrive nei « Tages- und Jahresheften » (gennaio 1923), ritor­ nando col pensiero al lavoro Pandorens Wiederkunft [Il ritorno di Pan­ dora] del 1807 : < ... e poiché il punto mitologico in cui compare Prometeo mi era sempre presente, ed era diventato per me una viva idea fissa, così intervenivo... » Più avanti si legge, a proposito della connessione della Pandora con le Affinità elettive·. «Sia Pandora che le Affinità elettive esprimono il doloroso sentimento della privazione, e così potevano cre­ scere benissimo l’una accanto alle altre... » Viene determinato il rapporto con il titanismo (disilluso) del tempo di Prometeo come con la tradizione di Pandora, concepita come femminilità distruttiva. Goethe ha sempre rispettato questa connessione. Nella Marienbader Elegie del 1823 stanno i versi: « Mir ist das All, ich bin mir selbst verloren / Der ich noch erst den Göttern Liebling war; / Sie prüften mich, verliehen mir Pandoren, / so reich an Gütern, reicher an Gefahr. » [Ho perso il tutto, ho perso me stesso, io che in passato ero il beniamino degli dei; mi misero alla prova, mi diedero Pandore, così ricche di beni, ancora più ricche di pericolo.] 4 Simone de Beauvoir, Le Deuxième Sexe cit., pp. 16 sg. [pp. 22 sg.]. 5 Leslie A. Fiedler, The Stranger in Shakespeare cit., pp. 43 sgg. 6 Frank Wedekind. Simson oder Scham und Eifersucht, in Prosa Dra­ men Verse, voi. n, München-Wien 1964, pp. 529 sgg.

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7 Ibid., p. 595. 8 Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, in Werke in drei Bänden (Karl Schlechta), München 1966, p. 703 [tr. it. Al di là del bene e del male - Genealogia della morale (Opere v), Adelphi, Milano 1968, p. 148]. 9 Otto Weininger, Geschlecht und Charakter, Wien 1903, p. 241 [tr. it. Sesso e carattere. Bocca, Milano 1943, p. 167]. 10 Simone de Beauvoir, Le Deuxième Sexe cit., p. 393 [p. 312].

Il · LO SCANDALO DI GIOVANNA D’ARCO

1 Bernard Shaw, Saint Joan. A Chronicle Play in Six Scenes and an Epilogue (Penguin Books). Preface. Joan a Galtonic Visualizer [tr. it. San­ ta Giovanna, Mondadori, Milano s.d. Prefazione. Giovanna « visualizzatrice », pp. 33 sg.]. 2 Johan Huizinga, Herbst des Mittelalters, ed. tedesca, Berlin 1924 [tr. it. Autunno del Medio Evo, Sansoni, Firenze 1966]. 3 Shaw, Saint Joan cit. Preface. The Maid in Literature [Santa Gio­ vanna cit. Prefazione. La Pulzella nella letteratura, p. 43]. 4 Blaise Pascal, Pensées, in Oeuvres Complètes. Texte établi et annoté par Jacques Chevalier, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1954 [tr. it. Pen­ sieri, Einaudi, Torino 1962]. 5 Ibid., pp. 1091 sg. « Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell'uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza : basta avere buona vista, ma buona davvero... » [p. 5], 6 Ibid., p. 1221 [p. 64]·. « Il cuore ha.le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama natural­ mente l’essere universale, e naturalmente se mèdesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione» (pensiero 477). O il pensiero 479 [p. 63]: « Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ra­ gionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnare la certezza. » Nel processo di Giovanna d’Arco questo conflitto può essere rintracciato ovun­ que. Sia pure nella forma di un contrasto tra convinzioni soggettive, men­ tre qui Pascal postula dei dati obiettivi. 7 L’analisi si basa sui materiali del nono volume della Schiller-Natio­ nalausgabe. A cura di Benno von Wiese e Lieselotte Blumenthal, Weimar 1948. Per la genesi dell'opera v. pp. 401 sgg. Per le sue influenze pp. 438 sgg. [tr. it. Teatro, Einaudi 1969]. 8 « Per deridere la nobile immagine delFumanità, nella più profonda polvere ti trascinò lo scherno, lo spirito combatte eternamente contro il bello, non crede nell’angelo e in Dio, vuol rubare al cuore i suoi tesori, combatte la follia e offende la fede. / Ma, come te di progenie infantile, essa stessa una pia pastorella come te, l’arte poetica ti porge i suoi diritti divini, con te si leva fino alle stelle eterne, ti ha circondata di un’aureola, ti creò il cuore, vivrai immortale. / Il mondo ama offuscare ciò che splende, e trascinare nella polvere il sublime, ma non temerei Ci sono

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ancora anime belle che ardono per ciò che è alto, splendido; Momo può tenere il suo rumoroso mercato, un nobile senso ama più nobili figure. » 9 L’espressione tedesca « das Leben schenken » significa insieme « fare grazia della vita » e « metter al mondo ». (n.d.i.) 10 Shaw. Saini Joan cit., scena iv. 11 Bertolt Brecht, Ovation für Shaw (25 luglio 1926), in Gesammelte Werke in acht Bänden, vol. vu, Frankfurt a.M. 1967. pp. 96 sgg. [trad, parziale Ovazione per Shaia, in Scritti Teatrali, Einaudi 1975. I. pp. 45 sgg·]. 12 Ibid., p. 101. 13 V. in proposito i frammenti e le varianti della Santa Giovanna dei macelli nel volume 427 dell’edition suhrkamp. 14 « Perché ai prezzi era dato / ormai di cader giù da quotazione a quotazione / come acqua di roccia in roccia precipita / profondamente, nell'infinito. » Tr. in Santa Giovanna dei macelli, in Teatro, Einaudi 1963, I, p. 710. (n.d../.) 15 Brecht, Die Heilige Johanna der Schlachthöfe, in Gesammelte Werke cit., vol. I, p. 785 [tr. it. Santa Giovanna dei macelli cit.. p. 727]. 16 » Sempre l’uomo nel suo moto / sprezza la terra breve, / e la sua forza audace / via dai luoghi consueti / e dai morti divieti / verso la sconosciuta / sublime infinità / oltre la meta lo spinge. » Trail.· in Santa Giovanna cit., p. 722. 17 « La grandezza a sé m’attira, / senza macchia, onesta e pura; / ma un’inconscia forza oscura / agli affari anche m’ispira. » Tr. in Santa Gio­ vanna cit., p. 728. 18 « Basta, non questo imparate, / non così fredde parole! / Confu­ sione e disordine. / non serve la violenza per combatterli. » Tr. in Santa Giovanna cit., p. 696. 19 « Una cosa ho imparata, una cosa per voi, / ora che muoio. / Come mai c’è qualcosa in voi che non / riesce a venir fuori? Che cosa sapete, sapendo / cose che nulla mutano? / Io, per esempio, non ho fatto nulla. / Di questo il mondo ha bisogno: che nulla sia / considerato un bene, anche se appaia / davvero utile, e nulla sia degno di lode, / se una volta per tutte non cambia questo mondo: / ché esso ha bisogno di essere cambiato. Com’ero ben accetta agli oppressori! / Oh bontà senza conse­ guenze! O mente ottusa! / Non ho mutato nulla. / Mentre velocemente scompaio da questo mondo, senza paura / io vi dico: / pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, / non solo a essere stati buoni, ma a lasciare / un mondo buono! » Tr. in Santa Giovanna cit., pp. 722 sg. 20 Bertolt Brecht, Die Geschichte der Simone Machard, in Gesammelte Werke cit., vol. il, pp. 1841 sgg. [tr. it. Le visioni di Simone Machard, in Teatro, cit., voi. in, pp. 355 sgg.]. 21 « Giovanna, figlia di Francia, qualcosa deve avvenire, / o in pochi giorni la grande Francia dovrà perire. / Perciò Iddio Signore va cercando chi lo aiuta / e la sua scelta su te, la sua piccola serva, è caduta. » Tr. in Le visioni di Simone Machard cit., p. 372. 22 « Figlia di Francia, non aver paura. / Chi ti combatte, a lungo non dura. / La mano che ti ha colpita / cadrà presto inaridita. / Ricorda, quando sei laggiù. / la Francia è dove sei tu. / E là tua stella, dopo breve

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attesa, / vedrai nel cielo ancora accesa. » Tr. in Le visioni di Simone Machard cit., p. 423. 23 Bertolt Brecht, Der Prozess der Jeanne d’Arc zu Rouen 1431 nach dem Hörspiel von Anna Seghers, in Gesammelte Werke cit.. vol. ii. pp. 2499 sgg. [tr. it. Il processo di Giovanna d’Arco a Rouen nel 1431 (da Anna Seghers), in Teatro cit., voi. iv, pp. 125 sgg.]. 24 L’analisi si basa sulla redazione della Tragedia ottimistica tradotta e curata da Friedrich Wolf (Optimistischen Tragödie, Berlin 1948). 25 Qui l’autore si riferisce a un colloquio con Vsevolov Visnevskij, durante il Congresso degli Scrittori Tedeschi di Berlino nell’ottobre 1947. 26 Bertolt Brecht, Sozialistischer Realismus auf dem Theater, in Ge­ sammelte Werke cit., vol. vu, p. 935 [tr. it. Realismo socialista in teatro, in Scritti teatrali cit., voi. n. p. 289]. Ili · GIUDITTA COME EROINA BORGHESE

1 Le osservazioni sulla storia dell’argomento e motivo di Giuditta nel­ la storia della letteratura tedesca si basano su Otto Baltzer, Judith in der deutschen Literatur, in Paul Merker e Gerhard Lüdtle (a cura di), Stoffund Motivgeschichte der deutschen Literatur, vol. vu, Berlin und Leipzig 1930. La citazione di Lutero ibid., p. 42. 2 Ibid. (Hans Sachs), p. 3. 3 Anton Mayer, Quelle und Entstehung von Opitzens Judith, in « Euphorion », voi. xx (1913), pp. 41 sgg. 4 Baltzer, Judith cit., p. 19.· 5 « Gran Dio, e allora questa era una novità, un messaggio, una verità stupefacente. Ci sono paradossi rimasti tanto tempo a testa in giù, che è ormai tempo di rimetterli ritti se se ne vuol fare qualcosa di passabilmente ardito. E, un uomo... è più di questo, ciò è senz’altro più ardito, più bello; è persino più vero... Il contrario è semplicemente umanità. » Tho­ mas Mann, Königliche Hoheit, capitolo Doktor Überbein [tr. it. Altezza reale, in Novelle e racconti, Mondadori, Milano 1956. cap. Il dottor Überbein, p. 851]. Il passo può essere interpretato come un’anticipazione di tesi che saranno sostenute più tardi dal dottor Naphta nella Montagna incantata. Che esso corrisponda in larga misura alle convinzioni dell’auto­ re all’inizio del secolo, lo possono testimoniare i Pensieri di guerra (1914) e le Considerazioni di un apolitico. 6 Helmut Kreuzer, Die Jungfrau in Waffen. Hebbels * Judith » und ihre Geschwister von Schiller bis Sartre, in Untersuchungen zur Literatur als Geschichte. In onore di Benno von Wiese, Berlin 1973, p. 363. Qui Kreuzer analizza anche il primo lavoro teatrale di Brecht, l’atto unico Die Bibel [Δα Bibbia], che era ancora firmato da « Berthold Eugen ». A que­ sto proposito V. Bertolt Brecht, Gesammelte Werke cit., voi. in, pp. 3029 sgg. Brecht sposta l’azione di Giuditta nel secolo xvii. « Il dramma si svol­ ge in Olanda, in una città protestante assediata dai cattolici. » L’avo, che crede nella Bibbia, proibisce alla nipote il sacrificio preteso dal capitano cattolico. Tutti sono rovinati dall’inazione di una presuntiva Giuditta. Evidentemente il liceale Brecht mette a confronto esperienze scolastiche hebbeliane con forme di comportamento della vita quotidiana borghese.

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Jn questa primo lavoro appare già la· diffidenza di uno scrittore di teatro in fieri nei confronti di una drammaturgia dei « grandi caratteri ». Sul­ l'argomento V. anche Herbert Kraft, Poesie der Idee. Die tragische Dicht­ ung Friedrich Hebbels, Tübingen 1971, e la recensione di Ludwig W. Kahn dove è affrontato il problema del rapporto di Brecht con la Giu­ ditta, in «The German Quarterly», March 1974, p. 330. 7 Cfr. a questo proposito Siegfried Streller, Das dramatische Werk Heinrich von Kleists, Berlin 1967, pp. 99 sgg. 8 Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik cit., in Werke xv cit., Suhr­ kamp, Frankfurt a.M. 1970, p. 546 [tr. it. Estetica cit., parte in, sez. in, cap. in, pp. 1357 sg.]. 9 Hebbel si è pronunciato intorno ai principi della sua drammaturgia soprattutto in Mein Worth über das Drama del 1843 e nella prefazione alla Maria Magdalena del 1844, Degno di nota è il suo rifiuto critico della Käthchen von Heilbronn espresso in una recensione malinconico-ironica del 1848 (in: Friedrich Hebbels Sämtliche Werke, a cura di Kuh-Krumm. Hesse und Becker, Leipzig s.d., voi. xn, pp. 270 sg.). 10 Cit. da fda Gräfin Hahn-Hahn, Gräfin Faustine. Un romanzo del periodo del biedermeier. Nuova edizione a cura di Arthur Schurig, con una biografia della scrittrice, Berlin 1919. 11 Hans G. Helms, Die Ideologie der anonymen Gesellschaft, Köln 1966, p. 3. 12 Hahn-Hahn, Faustine cit., p. 51. 13 Ibid., p. 54. 14 Ibid., p. 339. 15 Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Frankfurt a.M. 1969, p. 97 [tr. it. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1974, p. 99], 16 Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum. Cit. secondo l’edizione originale (Lipsia 1845), p. 490 [tr. it. L’unico e la sua proprietà, antologia, in La sinistra hegeliana, Laterza, Bari 1960, p. 63]. Accanto all’ampia analisi sociologica di Stirner e dello stirnerismo compiuta da Helms c’è un lavoro assai acuto di Martin Kessel, che cerca di far capire le contraddi­ zioni che esistono fra il pensiero e la vita di Stirner: Martin Kessel, Der Einzige und die Milchwirtschaft, in Ehrfurcht und Gelächter. Literarische Essays, Mainz 1974, pp. 11 sgg. 17 Richard Wagner, Die Musikdramen. Con una prefazione di Joachim Kaiser, Hamburg 1971, pp. 265 sgg. [tr. it. Lohengrin, Sansoni, Firenze 1922, p. Il], 18 « Tedesca spada per terra tedesca! / Cosi sia provata la forza del­ l’impero! » Tr. in Lohengrin cit., p. 147. 19 « Pure, o gran Re, lascia che io ti predica: / a te, uomo puro, una gran vittoria è accordata! / Contro la Germania giammai nei più lontani giorni a venire / le orde d’oriente trarranno vittoriose. » Tr. in Lohengrin cit., pp. 161/3. 20 Richard Wagner, Briefwechsel mit Franz Liszt, Leipzig 1887 [tr. it. Wagner-Liszt, Epistolario, Bocca, Milano 1896], Lettera del 30/1/1852. 21 George. Bernard Shaw, The Quintessence of Ibsenism. Essay, Lon­ don 1891 [tr. it. La quintessenza dell’ibsenismo, Mondadori, Milano

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1928]: The Perfect Wagnerite. Essay, London 1898. [tr. it. Il wagneriano perfetto, Sonzogno, Milano s.d.]. 22 Thomas Mann, Die Kunst des Romans. Conferenza tenuta davanti agli studenti di Princeton (1939), in Altes und Neues. Kleine Prosa aus fünf Jahrzehnten, Frankfurt a.M. 1961, p. 376 [tr. it. L’arte del romanzo. in Scritti minori, Mondadori, Milano 1958, p. 558]. 23 Georg Lukàcs, Die Seele und die Formen. Essays, Berlin 1911 [tr. it. L’anima e le forme. Sugar, Milano 1963]. 24 Georg Lukàcs, Lebensdaten, a cura di Peter Ludz, in: Georg Lu­ kàcs, Goethepreis .'70, Neuwied 1970, pp. 154 sgg. 25 Georg Lukàcs, Auf der Suche nach dem Bürger, in Deutsche Lite­ ratur in zwei Jahrzehnten, Gesamtausgabe, vol. vu, p. 505 [tr. it. Alla ricerca del borghese, in Thomas Mann e la tragedia moderna, Feltrinelli, Milano Ì956, p. 17]. 26 Jean-Paul Sartre, L’idiot de la famille, voll. I, π Paris 1971, vol. ni Paris 1973. 27 Henrik Ibsen, Hedda Gabier. Dramma in 4 atti, in Ibsens Sämtliche Werke in deutscher Sprache, a cura e con introduzione di Georg Brandes, Julius Elias e Paul Schlenther, autor, dall’autore, S. Fischer Verlag, Berlin s.d. Nel testo è citata questa edizione [tr. it. I drammi, Einaudi, Torino 1959, voi. 11]. IV ■ FORME DI VITA BORGHESI COME ALTERNATIVE

1 Matthew Arnold, Culture and Anarchy, London 1931. Nuova edi­ zione a cura di J. Dover Wilson. 2 Ibid., p. 107. 3 Edward Bond, Early Morning, London 1968. 4 Cit. da David Thomson, England in the Nineteenth Century (The Pelican Historv of England, vm, 1950, pp. 102 sg.). . 5 Si ricordi il disperato sforzo con cui Karl Marx cerca di nascondere 1’esistenza di un figlio illegittimo nato da un rapporto con la governante Helene Demuth, nell’Inghilterra vittoriana: per timore di reazioni poli­ tiche negative da parte degli operai. 6 David Thomson, England cit., p. 107. 7 L’interpretazione si basa su The George Eliot Letters, ed. by Gordon S. Haight cit., voi. il, pp. 262 sg. [p. 504|. 18 Lettera del 25 giugno 1876. Flaubert, Correspondance vu, p. 311. 19 Simone de Beauvoir, Tout compte fait [tr. il. A conti fatti, Einaudi. Torino 1973, p. 147]. Un libro come George Sand et les Hommes de ISIS di Marie-Louise Pailleron, Paris 14)53, conferma questa analisi. 20 Lettera del 19 giugno 1848. Citata da Pailleron. George Sand cit., p. 139. 21 Diario del primo giugno 1871. Manoscritto inedito, citato da Mau­ rois, Lélia cit., il. p. 245 [p. 487], V · EXCURSUS : OTTO WEININGER, < SESSO E CARATTERE »

1 Otto Weininger, Geschlecht und Charakter. Eine prinzipielle Unter­ suchung, Wien und Leipzig 1926, p. iv [tr. it. Sesso e carattere cit.. p. vii], 2 Ibid., p. 301 [p. 330], 3 Oswald Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, i voi.: Gestalt und Wirklichkeit, Mün­ chen 1919, p. 397 [tr. it. Il tramonto dell’Occidente. Longanesi, Milano 1957, p. 463], 4 Weininger, Geschlecht cit., p. 264 [p. 290], 5 Ibid., p. 276 [pp. 302 sg.]. 6 Ibid., p. 276 [p. 303], 7 Ibid., p. 264 [p. 289].

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8 Ibid., p. 248 [p. 272]. 9 Ibid., p. 266 [p. 291].

VI ·

DALILA COME VAMP BORGHESE

1 Paul Ernst, Brunhild, dramma in tre atti, Liepzig 1909. 2 Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung cit., cap. 21, pp. 381 sgg. 3 Ibid., p. 381. 4 Frank Wedekind, Prosa Dramen l'erse, Albert Langen, Georg Mül­ ler, München s.d., pp. 377 sgg. [tr. it. Lulu, Adelphi, Milano 1972]. 5 Ibid., p. 383. « Creata per diffondere sventura, / per sedurre, ade­ scare, avvelenare... / per uccidere senza dar nell’occhio! » [tr. it. in Lulu cit., p. 29]. 6 Martin Kessel, Frank Wedekinds romantisches Erbteil, in Ehrfurcht und Gelächter. Literarische Essays, Mainz 1974, pp. 56 sgg. 7 Ibid., p. 69. 8 Karl Kraus, Die Büchse von Pandora. Gesprochen als Einleitung zur ersten, von mir veranstalteten Aufführung am 29. Mai 1905. in Karl Kraus, Literatur und Lüge, Wien-Leipzig 1929, pp. 7 sgg. Ristamp. in Hans Mayer, Deutsche Literaturkritik im zwanzigsten Jahrhundert, Stutt­ gart 1965, pp. 135 sgg. Le citazioni si riferiscono a questa ristampa [tr. it. Il vaso di Pandora, in Wedekind, Lulu cit., pp. 9-24]. 9 « Oh quale alta dimora posseggono quei vizi / che t’hanno eletto per " loro abitazione.» [Tr. in Lulu cit., p. 15.| 10 Kraus, Büchse cit., p. 140 [pp. 15 sg.]. 11 Ibid., p. 147 [p. 23]. 12 Walter Benjamin. Karl Kraus, in Illuminationen. Ausgewählte Schriften, Frankfurt a.Μ. 1961. pp. 374 sgg. [tr. it. in Avanguardia e rivo­ luzione, Einaudi, Torino 1973. pp. 100 sgg.]. 13 Ibid., p. 394 [p. 118]. 14 Ibid., p. 393 [p. 118]. 15 Karl Schönherr, Der Weibsteufel. Dramma in cinque atti. München 1956. 16 Cit. in Schönherr, Weibsleufel cit., p. 84. 17 Ibid., p. 78. 18 Friedrich Dürrenmatt, Die Ehe des Herrn Mississippi. Eine Komö­ die. Zweite Fassung, in Dürrenmatt, Komödien i, Zürich 1957, pp. 87 sgg. [tr. it. Il matrimonio del signor Mississippi, in Teatro, Einaudi. Torino 1975, pp. 79 sgg.j. 19 Gottfried Benn, Die Ehe des Herrn Mississippi, in Autobiogra­ phische und Vermischte Schriften, Wiesbaden 1961, pp. 298 sgg. 20 Friedrich Dürrenmatt. Bekenntnisse eines Plagiators, in Theater­ schriften und Reden, Zürich 1966, pp. 239 sgg. 21 Id., 27 Pünkte zu den Physikern, in T heat ersehrif len cit., pp. 193 sg. 22 Harold Pinter, The Homecoming, London 1965 (tr. it. Il ritorno a casa, in Teatro. Einaudi, Torino 1972|. 23 Ibid., p. 80 [p. 399]. 24 Ibid., p. 73 [p. 393].

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25 Martin Esslin, Harold Pinter. Velber bei Hannover 1967, p. 86. 26 Norman Mailer, Marylin, New York 1973 [tr. it. Marylin, Mondadori, Milano 1974]. VII · LA WOMEN’S LIBERATION E NORMAN MAILER

1 « La pretesa maschile che la femmina si realizzi / attraverso la ma­ ternità e la sensualità / riflette quel che il maschio riterrebbe / realizza­ zione se fosse femmina. In altre parole, / le donne non provano invidia del pene; / sono gli uomini a invidiare la topina » - « In Dio confidiamo. — Ella provvederà. » 2 Norman Mailer, The Prisoner of Sex. Boston, Toronto 1971 [tr. it. Il prigioniero del sesso, Mondadori, Milano 1971]. 3 Linda Phelps, What is the difference? a pamphlet (3800 McGee Kansas City, s.d.). 4 Kate Millet. Sexual Polities, Garden City, N.A., Doublehay 1970 [tr. it. La politica del sesso, Rizzoli, Milano 1971]. 5 Otto Weininger. Geschlecht cit.. p. 288 [p. 316]. 6 Mailer. Prisoner cit.. p. 111 [p. 92]. 7 J bid., pp. 219-221 [pp. 174 sgg.]. 8 Ibid., p. 181 [p. 146], *9 Ibid., pp. 102 sg. [pp. 85 sg.l. 10 Ibid., p. 185 [p. 149J. 11 Ti-Grace Atkinson, The Institution of Sexual Intercourse, in Wo­ men's Liberation: Notes from the Second Year, 1970, p. 45. 12 Platone. Simposio. Trad. it. in Tutto Platone, Laterza, Bari 1966, vol. I. p. 683. 13 Mailer. Prisoner cit., p. 182 [pp. 146 sg.]. 14 Ibid., p. 229 [pp. 181 sg.]. Vili · LA DONNA E LE SUE IMMAGINI

1 Pascal Lainé, La femme et ses images, Paris 1974. 2 Le descrizioni dei quadri di Lindner si basano sul catalogo dell’esposizione « Richard Lindner » nella Städtische Kunsthalle di Düsseldorf (13 giugno-28 luglio 1974). il quadro The Meeting vi è riprodotto col numero di catalogo 5. 3 Richard Lindner in un’intervista con Wolfgang Georg Fischer, in Richard Lindner cit., p. 6. 4 Ibid., p. 25. 5 Werner Spies, Die Maschinerie des Unbehagens. Richard Lindners Suche nach Marcel Proust / Zu zwei Porträts des Malers. Pubblic. dap­ prima sulla « Frankfurter Allgemeine Zeitung » del 3 gennaio 1973, poi in Richard Lindner cit., pp. 24 sgg. Su questo punto v. anche Peter Corseti nel saggio Der Sexualfetisch als Ikone der Versagung, dove si dice: « lin pittore come Lindner... considera se stesso come un outsider e un indivi­ dualista. un < unreliable character>... Il genere della sua pittura è la su­ periorità della donna rispetto all'nomo. » In Richard Lindner cit., p. 31.

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6 Richard Lindner cit., numero di catalogo SO. 7 Pascal Lainé, La femme cit., pp. 35 sg. 8 Ibid., p. 37. 9 Frank Wedekind, « Hidalla » oder Karl Hetmann, der Zwergriese, dramma in 5 atti (1903 1904), in Prosa Dramen Verse, voi. il. MünchenWien 1964, p. 177. 10 Pascal Lainé, La femme cit., pp. 253 sgg. 11 Ibid., p. 238. 12 Ibid., p.· 243. 13 Pascal Lainé, L’irrévolution. Roman. Paris 1971. 14 Pascal Lainé, La dentellière. Roman. Paris 1974. 15 Ibid., p. 250. 16 Ibid., p. 251.

SODOMA

I · CRONACA DEGLI ASSASSINI E DEGLI SCANDALI

1 Hans Kelsen, Die platonische Liebe, in Aufsätze zur Ideologiekritik, Neuwied 1964 (Soziologische Texte 16),' pp. 114 sgg. La maggior parte dei Testi greci citati nelle pagine seguenti è anche citata da Kelsen. 2 Platone, Leggi i, 8. 3 Aristotele, Etica Nicomachea vii, 6. A questo proposito v. Kelsen, Platonische Liebe cit., p. 149. 4 Kelsen, Die platonische Liebe cit., p. 138. 5 Ibid., p. 142. 6 Erich Bethe, Thebanische Heldenlieder, Leipzig 1891, pp. 12 sg. 7 Gli esempi seguenti si trovano in Rudolf e Margot Wittkower, Born under Saturn, London 1963 (cit.), ed. tedesca Künstler - Aussenseiter der Gesellschaft cit. L’autore fa riferimento a quest’ultima edizione. 11 passo del Savonarola citato qui vi si trova alla p. 162 [tr. it. Nati sotto Saturno cit., p. 186]. 8 Wittkower, Künstler cit., p. 162 [p. 186]. 9 Ibid., p. 163 [p. 187]. 10 Ibid., pp. 166 sg. [p. 191}. 11 Marcel Proust, A la recherche du temps perdu, in Bibliothèque de la Pléiade, vol. ni, Paris 1954, pp. 302 sg. [tr. it. La prigioniera, Einaudi, Torino 1963, p. 319]. 12 Norman Douglas, South Wind, Bonibooks Series. 1931 [tr. it. Vento del Sud, Longanesi, Milano 1955]. 13 Norman Douglas, Looking Back. An Autobiographical Excursion, New York 1933, pp. 152 sgg. 14 Karl Kraus, Maximilian Harden. Eine Erledigung, in Die chine­ sische Mauer (xn volume delle opere di Karl Kraus). München-Wien 1964, pp. 53 sgg.; soprattutto pp. 56, 80. 453

Il · CHRISTOPHER MARLOWE E RE EDOARDO li D’INGHILTERRA

1 Le citazioni si riferiscono ai drammi di Marlowe nell’edizione dei Complete Plays of Christopher Marlowe. Edited, with an Introduction and Notes by Irving Ribner, The Odyssey Press, New York 1963 [tr. it. Teatro completo, Adelphi. Milano 1966, Edoardo II, p. 381: « Mostro fra gli uomini / cite come la puttana greca hai spinto / a sanguinosa guerra tra tanti prodi... »]. 2 I fatti biografici sono tratti dall’ampia biografia di Frederick S.. Boas, prima ed. London 1940. seguita da molte edizioni sostanzialmente in­ variate. 3 Christopher Marlowe. The Complete Poems-and Translations. Edited by Stephen Orgel. Penguin Book 1973. p. 19 [tr. it. Ero e Leandro. Guanda, Parma 1952, i. pp. 71-78: « ... basti / che la mia sorda musa canti gli occhi di Leandro, / le gote e le labbra che superano, in splendore, quelle di colui / che nell’acqua si tuffò per un bacio / della sua propria ombra e, molti sprezzando. / morì innanzi che potesse godere l’amore di alcu­ no. / Se il selvaggio Ippolito avesse veduto Leandro. / sarebbe rimasto innamorato della sua bellezza... » 4 «Egli andava dicendo che San Giovanni era stato l’< Alessi > / del nostro Salvatore Cristo. Riferisco con reverenza e tremore che / questo significa che Cristo lo amò di straordinario amore. » 5 « Roma e tutti i suoi preti papisti / piangano il giorno in cui di­ venni re... » Marlowe. La strage di Parigi, op. cit.. p. 399. 6 « Ah. Maugiron! A lui. ho dato il cuore! / Guisa l’usurpa perché sono sua moglie. » La strage di Parigi, op. cit., p. 320. 7 « Vengo, sì! A queste, queste righe amorose, / sarei accorso a nuoto dalla Francia. / come Leandro a spirare stdla sabbia / pur di vederti sor­ ridere, abbracciarmi. » Edoardo II, op. cit., p. 345. 8 Boas, p. 235. 9 « ... perché mi vuole bene, / anzi voleva raccojnandarmi al re » Edoardo IL op. cit.. p. 366. 10 « Signori, grazie a tutti, perché a\ verto / che una cosa è la corda, e un’altra il ceppo / ma tutto è morto. » Edoardo II, op. cit., p. 381. 11 « Lui si diletta di musica e poesia: / gli offrirò maschere italiane, la sera, / dolci versi, commedie, begli spettacoli... » Edoardo IL op. cit., p. 346. 12 Jan Kott. Shakespeare heule, edizione ampliata. München 1970, PP 361 sgg 13 Bertolt Brecht. Leben Eduards des Zweiten von England. Historie (nach Marlowe), in Gesammelte Werke cit. i, Stücke i, Werkausgabe edition suhrkamp, Frankfurt a.M. 1967 [tr. it. Cita di Edoardo Secondo d’Inghilterra, in Teatro 1, pp. 201 sgg.]. 14 Brecht, Leben Eduards cit., p. 296. < E così nessuno che ha veduto / nell’abbazia di Westminster incoronare quest’uomo / oggi vedrà le sue esequie. / Di questo secondo Edoardo che. / a quanto sembra, ignorando quale / dei suoi nemici lo ricordasse ancora. / e quale stirpe vivesse nella luce / sopra il suo capo, ignorando il colore delle foglie, / ignorando stagioni e congiunzioni degli astri. / di se stesso dimentico, misero perì. » [Tr. in Cita di Edoardo cit., p. .305.]

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15 Harry Levin. The Overreacher. A Study of Christopher Marlowe, Harvard University Press 1952. 16 Ibid., pp. 156 sg. Il( · I.A MORIE DI WINCKELMANN E LA SCOPERTA DELLA DOPPIA VITA

1 «Arti del processo all’assassinio di Winckelmann ». a cura di C. Bagnini e Elio Bartolini, Longanesi, Milano 1971. 2 J.G. Herder. Gesammelte Werke, Suphan. Neuausgabe 1967. vol. vin, pp. 445 sgg. 3 Goethes Werke, Hamburger Ausgabe, vol. xii. pp. 96 sgg. 4 Lettera del 10 febbraio 1761. in J.J. Winckelmann. Briefe in 4 Bänden, Berlin 1952-57. 5 Gustav Bychowski, Das Drama Winckelmann, in Neurose und, Ge­ nialität, Psychoanalytische Biographien, a cura di Johannes Cremerius, Frankfurt 1971. pp. 215 sgg. 6 Bychowski. Das Drama cit.. p. 223. 7 Io ti apprezzo come uomo e come donna. Poiché un perfetto amore significa Amore in ogni sua facoltà. 8 Su questo argomento v. Ingrid Kreuzer, Studien zu Winckelmanns Ästhetik. Normativität und historisches Bewusstsein, Berlin 1959. 9 Richard Hamann. Winckelmann und die kanonische Auffassung der Kunst, in « Internationale Monatsschrift für Wissenschaft. Kunst und Technik ». 7. 1912/13. Git. in Kreuzer. Studien cit.. p. 6. 10 Wolfgang Leppmann, Winckelmann. New York 1970, p. 11. IV · LA LITE IRA HEINE E PLATEN

1 Heinrich Heine. Sämtliche Schriften, a cura di Klaus Briegleb, il voi., a cura di Günter Häntzschel, München 1969. pp. 830 sgg. 2 Thomas Mann, August von Platen, in Adel des Geistes. Sechzehn Versuche zum Problem der Humanität, Frankfurt a.M. 1967, pp. 434 sgg. [tr. it. in Nobiltà dello spirito, Mondadori. Milano 1953. pp. 363 sgg.]. 3 Mann. August von Platen cit.. p. 436 [p. 368). 4 Warmer brüderlichen Freundschaft. Ma Warmer Bruder significa anche « omosessuale ». (n.d.Z.) 5 Heinrich Heine, Schriften II cit.. p. 443 [tr. it. Reisebilder, utet, Torino 1968, p. 429]. 6 Ibid., p. 452 4p. 442]. 7 Ibid., p. 462 [p. 455]. 8 Karl Immermann, Glänzendes Elend, in Karl Immermann. Werke in fünf Bänden, a cura di Benno von Wiese, voi. i. Frankfurt a.M. 1971, p. 645. « Ma poi nei versi, grigi, lisci, senile melodia del contatto imitato, e i pensieri copiati, fiacchi, ahimè! / Io penso: il mendicante resta la frazione di un soldo, anche se mangia il suo magro cibo accattato, acciden­ talmente, da un piatto d’oro preso a prestito. » 9 Heinrich Heine. Schriften II cit., pp. 830 sg.

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10 Heinrich Heine, Schriften cit., iv voi., a cura di Klaus Briegleb, München 1971, pp. Γ49 sgg. 11 Karl Immermann, Werke I cit., p. 94. 12 Heinrich Heine, Schriften cit., ii cit., p. 832. 13 Karl Immermann, Der im Irrgarten der Metrik umhertaumelnde Kavalier. Eine literarische Tragödie, in Immermann, Werke I cit., pp. 632 sgg. « Non ti credo, quando dici di essere ebbro del vino di Schira, quando desideri i bei fanciulli, e gli aurei doni di Afrodite, e fai come se fossi scaldato dai raggi del sole... Ma quando canti: allora ti credo! Canti ciò che hai sentito'. » 14 « Le ragazze sciocche, ho pensato, le sciocche non valgono nulla; ma quando mi sono avvicinato a quelle intelligenti mi è andata ancora peg­ gio. Le ragazze intelligenti lo erano troppo, per me, le loro domande mi spazientivano, e quando chiedevo io stesso la cosa più importante esse ridevano, senza rispondere. » 15 Günter Osterie, Integration und Konflikt. Die Prosa Heinrich Hei­ nes im Kontext oppositioneller Literatur der Restaurationseporhe, Stutt­ gart 1972. V · ALTERNATIVE NEL SECOLO XIX

1 L'epistolario di Andersen rivela con chiarezza sbalorditiva non solo la vanità derisa dai contemporanei, ma anche un servilismo che adula tutti gli interlocutori e cerca di entrare nelle grazie dei principi, per esempio del granduca di Sassonia-Weimar-Eisenach, senza nessuna convin­ zione, con l’idea fissa dell’assimilazione. V. Hans Christian Andersen's Correspondence, a cura di Frederick Crawford, London 1891. 2 Hans Christian Andersen, The Story of My Life. Author’s Edition, Boston 1871, pp. 136 sg. S Af en endnu Levendes Papirer udgivet mod hans Pillie af Sören Kierkegaard. Om Andersen som Romandigter med stadigt hensyn til hans sidsle Vörk Kun en Spillemand. Samlede Parken I, Kopenhagen 1962, pp. 11 sgg.. Ed. tedesca Sören Kierkegaard, Erstlingsschriften, Düsseldorf/ Köln 1960, pp. 41 sgg., note pp. 176 sgg. Su questo argomento v. Emanuel Hirsch, Kierkegaard-Studien, Gütersloh 1933, pp. 13 sgg. 4 Correspondence cit., p. 155. 5 Signe Toksvig, The Life of Hans Christian Andersen, New York 1934, p. 185. 6 H.C. Andersen, In Spain and a visit to Portugal, Author's Edition, New York 1870, p. 199. 7 The Andersen-Scudder Letters. Edited by Jean Hershold and Wal­ demar Westergaard, University of California Press 1949, pp. 59, 74. 8 Elith Reumert, Hans Andersen the Man. Translated from the Danish by Jessie Bröchner, London 1927, pp. 47 sg. 9 Toksvig, The Life cit., p. 186. 10 A questo proposito v. le spiegazioni di Reumert, Hans Andersen cit., PP· 15 sgg. 11 Sören Kierkegaard, Erstlingsschriften cit., p. 62.

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12 Ibid., p. 61. IS Ibid., p. 55. 14 Jean Giraudoux, Les cijiq tentations de Lafontaine, Paris 1938 [tr. it. Le cinque tentazioni di La Fontaine, Bompiani, Milano 1949]. 15 Una precisa analisi del romanzo — in connessione con lo scritto giovanile di Kierkegaard — è data da Emanuel Hirsch nei suoi Kierke­ gaard-Studien cit., pp. 26 sgg., e nei chiarimenti intorno a questo lavoro giovanile contenuti in Kierkegaard, Erstlingsschriften cit., pp. 177 sgg. 16 Kierkegaard, Erstlingsschriften cit.. pp. 77 sg. 17 L'interpretazione di Rimbaud si basa sullediziotie, nuova e riveduta a fondo, della Bibliothèque de la Pléiade (Rimbaud. Oeuvres Complètes. Edition établie, présentée et annotée par Antoine Adam, Paris 1972), che contiene anche la cronologia degli avvenimenti (pp. xxxix-lii). Per con­ trollo è stata anche consultata la cronologia di Verlaine contenuta nella corrispondente edizione di Verlaine della Bibliothèque de la Pléiade [tr. it. Rimbaud. Oeuvres-Opere, Feltrinelli, Milano 1964']. 18 Lettres de la vie littéraire d’Arthur Rimbaud (1810-1875). Réunies et annotées par Jean-Marie Carré, Paris 1931. p. 17. 19 Rimbaud. Oeuvres cit., p. 282 [p. 349 sg.]. 20 Ibid., p. 296. 21 Antoine Adam, in Rimbaud, Oeuvres cit., p. χχι. 22 Rimbaud, Oeuvres cit.. p. 744. 23 Ibid., p. 816. 24 Yves Bonnefoy, Rimbaud par lui-même, Edition du Seuil, 1961, p. 90. 25 Rimbaud, Oeuvres cit., pp. 127, 985. 26 Ibid., pp. 136 sg. [pp. 278 sg]. 27 Ibid., pp. 102-106 [tr. it. pp. 216-223]. 28 Antoine Adam, in Rimbaud, Oeuvres cit., pp. 962-965. 29 L’interpretazionç dei testi di Verlaine si basa sull’edizione della Bibliothèque de la Pléiade (Verlaine, Oeuvres Poétiques Complètes. Texte établi et annoté par Y.-G. Le Dantec. Edition Révisée, complétée et présentée par Jacques Borei, Paris 1962). 30 Verlaine, in Oeuvres cit., pp., 522-525. 31 Vi si dice morto, voi. / Che se la porti il Diavolo, / insieme a chi la diffonde / la notizia irreparabile / che bussa alla mia porta! (Paul Verlaine, Poesie, trad. L. Frezza, Rizzoli 1974, p. 219) 32 il romanzo di vivere in due / uomini con più arte / che se fossimo due sposi, / versando in comune le somme / d'un sentire leale e forte. (Paul Verlaine, op. cit., p. 217) 33 Avete mai perdonato / alle femmine? Io non ho quasi / rivisto quelle compagne. / Abbastanza però per soffrire. / Che debole cuore il mio cuore! / Ma sempre meglio soffrire / che morire, specialmente / morire di languore. (Paul Verlaine, op. cit., p. 219) 34 Ibid., pp. 510-512. 35 Ti piacciono i nasi, graziosi / O semplicemente maliziosi, / Es­ sendo la forza dei visi, / Ed anche, secondo la gente, / Degli indici, degli avvisi. (Paul Verlaine) 36 Paul Verlaine, A Louis II de Bavière, in Oeuvres cit., pp. 426 sg., 1182.

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37 A I.UICI II DI BAVIERA Re. solo vero re di questo secolo, salve / o Sire che voleste morire vendicando / dalle cose politiche e dall’invadente / delirio della Scienza la vostra ragione. / di questa Scienza che uccide l’Orazione. / assassina del Canto e dell’Arte e della Lira, / e uccideste morendo, del vostro orgoglio in fiore / ricolmo, nettamente, salve, Re! bravo. Sire! / Un poeta, un soldato, il solo re d uri secolo / nel quale i re sono figure così smorte, / martire di Ragione secondo la Fede. / Salve alla vostra unica apoteosi, e l’anima / un corteo fiero, d’oro e di ferro, vi scorti / al gioioso e ma­ gnifico suono d'un'aria di Wagner. (Paul Verlaine, op. eil., p. 179. La poesia è inserita, come nell’edizione francese, nella raccolta intitolata « Amour ».) 38 Tutti gli studi su Cajkovskij hanno dovuto partire dall’edizione russa in tre volumi di Cajkovskij, Fila e lettere, pubblicata a Mosca fra il 1900 e il 1902 dal fratello minore Modesto Ilic. Il compositore Paul Juon la traduceva in tedesco col titolo Das Leben Peter lljitsch Tschaikowsky’s (due volumi, Leipzig). P.I. Jurgenson, editore russo del compo­ sitore, pubblicava anche l’edizione tedesca. In questo stesso periodo Rosa Newmarch aveva pubblicato, a Londra (1900). un libro intitolato Tchaikowsky, his Life and Works: con estratti dagli scritti e dal diario ameri­ cano. Dopo l’ampia pubblicazione di Modesto C. Rosa Newmarch intra­ prendeva il tentativo di fondere i propri studi con il lavoro del fratello di Cajkovskij, per un’edizione inglese. Essa era pubblicata col titolo The Life and Letters of Peter /lieh Tchaikovsky. By Modeste Tchaikovsky. Edited from the Russian with an Introduction by Rosa Newmarch, nel 1905 (nuova ed. New York 1970). Come è stato accertato, Modesto si sforzava — già -a causa della propria predisposizione — di cancellare quanto più possibile tutti i cenni alla sessualità del fratello. Di qui parte anche il libro di Lawrence and Elisabeth Hanson, Tchaikovsky. The Man behind the Music, New York 1965. Gli autori danno anche un’ampia bi­ bliografia di tutta la letteratura russa: si valgono della conoscenza di quei passi delle lettere originali che l’edizione ufficiale russa delle lettere aveva omesso (pp. ix-x). Interessante il lavoro di Catherine Drinker Bowen e Barbara von Meck, anche se ha spesso la forma di una biografia romanzata; vi è rico­ struita la storia di Nadezda von Meck, con l’aiuto di materiale tratto dal­ l’archivio della famiglia von Meck (< Beloved Friend ». The Story of Tchaikoivsky and Nadejda von Meck, New York 1937). Tra gli ultimi episodi della ricerca intorno a Cajkovskij il più impor­ tante è rappresentato dall’edizione dei diari, curata aricora dal fratello Ippolito. Ippolito moriva solo nel 1927; dopo la rivoluzione del 1917 aveva diretto il Museo Cajkovskij di Klin. L’edizione russa dei diari a cura di Gregorio Bernand era seguita da quella americana, nel 1945 (The Diaries of Tchaikovsky. Translated from the Russian, with notes, by Wladimir Lakond. New York 1945). Si tratta di un lavoro sobrio e one­ sto, che nelle note tratta, in particolare, degli aspetti erotici senza nes­ suna tabuizzazione. 39 M. T.schaikowsky/Rosa Newmarch, Life cit., p. 721. 40 The Diaries cit., pp. 41-44. 41 Bowen/Meck, « Beloved Friend » cit., p. 39.

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42 Ibid., pp. 68 sg. 43 Klaus Mann, il figlio maggiore di Thomas Mann, si toglieva la vita a Cannes nel 1949. Anch’egli ha conosciuto l’ebbrezza della morte, per impulsi analoghi a quelli delle figure da lui evocate di Cajkovskij e di Ludovico, e in un grande saggio l’ha dilatata fino alla concezione di un suicidio di massa organizzato, per protesta, dagli intellettuali {Heimsu­ chung des europäischen Intellektuellen, in particolare cap. vu).

VI · PER LA TIPOLOGIA DELLA LETTERATURA OMOSESSUALE

1 Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, with an introduction and bibliography by Jerry Allen, New York 1965 [tr. it. Il ritratto di Dorian Gray, Garzanti, Milano 1976]. 2 < L’artista è il creatore di cose belle. / Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte » [Oscar Wilde, ibid., p. 1]. 3 « Ebbi paura che gli altri potessero vedere la mia idolatria. Sentivo, Dorian, di aver detto troppo, di aver messo nel quadro troppo di me stesso. Fu allora che decisi che non avrei mai esposto il quadro. » [Ibid.. p. 157]. 4 « Spesso mi pare che l’arte nasconda l’artista molto più di quanto non lo riveli. » [Ibid., p. 157]. 5 André Gide, Les Faux-Monnayeurs, in A.G., Romans, Récits et So­ ties. Oeuvres Lyriques, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1958, pp. 931 sgg. [tr· À· 1 falsari, in I falsari - Diario dei « Falsari », Bompiani, Milano 1947]. 6 Dopo la pubblicazione dei Faux-Monnayeurs nel 1925, un anno dopo (1926) Gide pubblicava il Journal des Faux-Monnayeurs, dove cercava di ricostruire il processo genetico del suo primo e unico romanzo. Thomas Mann si è ispirato a questo dichiarato modello circa vent’anni dopo, con il Diario del « Dottor Faustus · [tr. it. Diario dei « Falsari ·, in / falsari cit.]. 7 André Gide, Les Faux-Monnayeurs cit., p. 1589 [tr. it. Diario dei « Falsari », in op. cit., p. 406]. 8 André Gide, Journal 1889-1919, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1948, p. 640 [tr. it. Diario, Bompiani 1949, p. 282]. 9 Ibid., p. 651 [tr. it. Diario cit., p. 294], 10 Ibid., p. 754 [tr. it. Diario cit., p. 411]. 11 Maurice Sachs, Le Sabbat, Paris 1960, pp. Ili, 139 sgg., 244 sgg. Queste connessioni sono trattate più ampiamente nel cap. vii. 12 Quest’analisi si basa su una decina di prodotti che sono comparsi sul mercato americano per lo più nel 1973, e potevano essere liberamente acquistati in qualsiasi Adult Bookstore. 13 Der « Reigen *-Prozess, Berlin 1922. 14 Perspectives on Pornography, Edited by Douglas A. Hughes, New York 1970. 15 Susan Sontag, The Pornographic Imagination, in Perspectives cit., PP· 131 sgg. 16 Ibid., p. 135.

459

17 Felix Poliak, Pornography; Around the Halfworld, in Perspectives cit., pp. 170 sgg. 18 Ibid., p. 193. 19 Le seguenti caratteristiche e tecniche sono state riscontrate nei pro­ dotti pornografici menzionati alla nota 12. Si possono incontrare ovunque, con una monotonia quasi faticosa. vii

·

alternative: klaus mann e

Maurice sachs

1 Gli scritti di Maurice Sachs sono citati secondo le seguenti edizioni: Le Sabbat, Paris 1960 (nuova edizione); La Chasse à courre, Paris 1948 (contiene la continuazione del Sabbat)·, Derrière cinq barreaux. Paris 1952. 2 Klaus Mann, Die Heimsuchung des europäischen Geistes. Aufsätze. Deutscher Taschenbuchverlag 885, München 1973 (antologia dai libri di saggi Prüfungen, 1968, e Heute und Morgen, 1969, a cura di Martin Gregor-Dellin), pp. 14 sgg. 3 Joseph Gabel, Bedeutung des McCarthismus. in Formen der Ent­ fremdung. Aufsätze zum falschen Bewusstsein, ed. tedesca Frankfurt a.M. 1964, ed. orig, in « La Revue Socialiste », Paris 1954. 4 Klaus Mann, Heimsuchung cit., p. 130. 5 Ibid., p. 132. 6 Klaus Mann, Der Streit um André Gide, in Heimsuchung cit., p. 47. 7 André Gide, Les Nourritures Terrestres, Bibliothèque de la Pléiade (A.G., Romans), Paris 1958, p. 153 [tr. it. 1 nutrimenti terrestri, Garzanti, Milano 1975, p. 5]. 8 Maurice Sachs, Le Sabbat cit., p. 277. 9 Ibid., p. 124. 10 Maurice Sachs, Derrière cinq barreaux cit., p. 219. 11 Friedrich Sieburg, Der Freiheit überdrüssig, in < Die Zeit», n. 25, 1925; ora in: Friedrich Sieburg, Nur für Leser. Jahre und Bücher. Stutt­ gart 1955, pp. 211 sgg. 12 Louis-Ferdinand Céline, D’un château à l’autre, Paris 1957 13 Sieburg, Der Freiheit cit. Vili · SVOLTA JEAN GENET

1 II libro di Sartre su Jean Genet era pubblicato come primo volume delle Opere Complete di Genet, con lo scopo di sottolineare il fatto che Genet riconosceva l’autenticità degli episodi biografici ivi contenuti. JeanPaul Sartre, Saint Genet. Comédien et Martyr, in Oeuvres Complètes de lean Genet, vol. I, Paris 1952 [Ir. it. Santo Genet, commediante e martire, Il Saggiatore, Milano 1972]. 2 Jean Genet, Nolre-Dame-des-Fleurs, in Oeuvres Complètes cit., voi. I, Paris 1951, pp. 7 sgg. [tr. it. Nostra Signora dei Fiori, in 4 Romanzi, 11 iaggiatore, Milano 1975, pp. 7 sgg.]. 3 Jean Genet. Miracle de la Rose, in Oeuvres Complètes cit., vol. Il, >p. 221 sgg. [tr. it. Miracolo della rosa, in 4 Romanzi cit., pp. 75 sgg.].

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4 Jean Genet, Journal du Voleur, Paris 1949 [tr. it. in 4 Romanzi cit., pp. 139 sgg.]. 5 Walter Heist, Genet und andere. Exkurse über eine faschistische Literatur von Rang, Hamburg 1965. 6 Jean Genet, Pompes Funèbres, in Oeuvres Complètes cit., voi. in, Paris 1953, pp. 7 sgg. [tr. it. Pompe funebri, in 4 Romanzi cit., pp. 393 sggfl· 7 Sartre, Saint Genet cit., p. 215 [p. 224]. 8 Ibid., p. 212 [p. 222]. 9 Ibid., p. 537 [p. 564]. 10 Jean-Paul Sartre, Réflexions sur la Question Juive, Paris 1946 [tr. it. L’antisemitismo - Riflessioni sulla questione ebraica. Comunità, Milano 1964]. 11 Nel XXVII capitolo del suo libro II secolo dei lupi, dal titolo Bu­ charin, Nadezda Mandel’stam ha dato uno psicogramma e un’analisi della situazione politica. Leggiamo: « Bucharin vedeva chiaramente che il nuo­ vo mondo alla cui costruzione egli aveva partecipato attivamente non significava affatto la realizzazione dell’idea... Se gli alti sacerdoti forma­ vano un blocco così compatto, i deviazionisti non potevano aspettarsi nessuna misericordia. Bucharin non era affatto un deviazionista, tuttavia intuiva come i suoi dubbi lo trascinassero inevitabilmente alla tomba. » (Nadeshda Mandelstam, Das Jahrhundert der Wölfe. Eine Autobio­ graphie, Frankfurt 1970, p. 135.) 12 Sartre, Question Juive cit., pp. 543 sg. [p. 571]. 13 Ibid., p. 545 [p. 573]. 14 Maurice Merleau-Ponty, Humanisme et Terreur, Paris 1957 (xv edizione). 15 Nella sua introduzione all’edizione tedesca del Journal du Foleur Max Bense analizza questa costellazione da un punto di vista filosofico: « Genet... fa il tentativo di dare a se stesso la determinazione dell’indeterminazione etica del soggetto, assegnando a se stesso la posizione di un soggetto esteticamente indeterminato che può essere determinato solo da un soggetto già determinato, e poi supera a sua volta l’indeterminazione etica del soggetto originario. Se si pensa in termini processuali ed esisten­ ziali, si vede che nel rapporto fra l’etico e l’estetico è inevitabile una riflessione infinita, che rende impossibile qualsiasi decisione > (in Jean Genet, Tagebuch eines Diebes, Deutscher Taschenbuch Verlag, Sondei reihe dtv 93, 1971, pp. 19 sg.).

SHYLOCK

I · DA AASVERO A SHYLOCK

1 Siegfried Kracauer, Schriften 4, Frankluit a.M specialmente pp. 148 sg. 2 Encyclopaedia Britannica ι, 437. 461

1971, pp

133 sgg

Review », maggio 1969. Versione tedesca ampliata in « Jahrbuch der deutschen Schillergeschellschaft », Stuttgart 1973, pp. 273 sgg. 29 A questo proposito v. soprattutto Heinrich Graetz, Frank und die Frankisten, Breslau 1868. 30 Lessing Sämtliche Schriften, a cura di von Lachmann e Muncker, Leipzig 1904, voi. xix, p. 320.

IV · LO SHYLOCK BORGHESE

1 V. nota 4. 2 Saul Ascher, Germanomanie, Liepzig 1815. 3 Tribunale segreto nel Medioevo, (n.d.t.) 4 Padre della ginnastica. Soprannome di F.L. Jahn, che promuoveva lo sviluppo di un'educazione fisica popolare, fuori delle scuole. 5 Ibid., p. 68. . 6 Die Wartburgs-Feier. Mit Hinsicht auf Deutschlands religiöse und politische Stimmung. Von Dr. Saul Ascher. Leipzig 1818. Per la cessione dei due rari scritti di Ascher l’autore è particolarmente grato al collega Wolfgang Promies. 7 Ascher, Wartburgs-Feier cit., p. 27. 8 Ibid., pp. 25 sg. 9 Che Massmann fosse perseguitato e imprigionato a causa delle sue convinzioni politiche Heine lo sapeva, però non ne ha mai tenuto conto. Come Heine anche Massmann era nato nel 1797; moriva nel 1874. Una delle sue poesie — « Ich hab mich ergeben » — diventava ed era per tutto un secolo un canto popolare di cui si è dimenticato l’autore, come la Lorelei. 10 Questo argomento è stato trattato in modo più analitico in Hans Mayer, Heine und die Deutsche Ideplogie (Heinrich Heine, Beiträge zur deutschen Ideologie, Ullstein Buch 2822, pp. xn sgg.). 11 Ludwig Börne, Sämtliche Schriften, vol. I, Düsseldorf 1964. 12 Heinrich Heine, Shakespeares Mädchen und Frauen. Porzia, in Sämtliche Schriften cit., iv voi., a cura di Klaus Briegleb, München 1971, p. 264 [tr. it. Donne e fanciulle di Shakespeare, Sónzogno, Milano 1912]. 13 All’inizio del quarto libro dello scritto contro Ludwig Börne anche Heine mette a confronto le due feste della Wartburg e di Hambach, però ne trae conseguenze meno liberali-piccoloborghesi di Börne, che usava richiamarsi a Hambach come punto culminante della sua azione politica in Germania. Sämtliche Schriften, voi. iv cit., pp. 88 sgg. 14 Su questo argomento v. Leo Kreutzer, Heine und der Kommu­ nismus, Göttingen 1970, dove è sviluppato il tema dell’affinità di Heine col socialismo di Babeuf e Buonarroti. 15 Egon Caesar Conte Corti, Aufstieg des Hauses Rothschild, Leipzig 1928. 16 Egon Caesar Conte Corti, Das Haus Rothschild in der Zeit seiner Blüte, 1836-1871, Leipzig 1928, pp. 230 sgg. Gioco di parole con i termini Arm, che significa « braccio » (quindi: « Arm in Arm » = « a braccetto »), ma anche « povero », e reich, cioè « ricco ». (n.d.t.f

464

17 Tuttavia anche Delacroix era ospite del banchiere e barone. In una nuova pubblicazione sui Rothschild non è solo riprodotto il quadro « Auf dem Wege nach Smala » di Horace Vernet, che ritrae James Rothschild con l’aspetto di un ebreo fuggiasco, ma è anche riferita una storia particolarmente cinica, che si basa evidentemente sulla conoscenza della tradizione familiare. James Rothschild avrebbe posato per Dela­ croix nelle vesti di un mendicante affamato, cosicché un allievo del pit­ tore, impietosito di tanta miseria, gli avrebbe dato un franco. Il giorno dopo si sarebbe presentato un domestico con la livrea dei Rothschild e con la seguente lettera: « Stimatissimo Signore, allego il capitale che mi ha dato sulla porta dello studio del Sig. Delacroix, con gli interessi com­ posti. Assieme alla somma di 10 000 franchi. Può incassare l’assegno presso qualsiasi banca. James de Rothschild. » (Virginia Cowles, The Rothschilds. A Family of Fortune, New York 1973, pp. 97 sg. Anche qui si parla delle relazioni tra Rothschild e Heine.) 18 Heine, Ludwig Börne cit., p. 29. 19 Heinrich Schnee, Rothschild. Geschichte einer Finanzdynastie, Göt­ tingen 1961, p. 26. 20 Ibid., p. 29. 21 Honoré de Balzac, La Comédie Humaine -VI, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1950, pp. 804 sgg. e 822 sgg. 22 Ibid., p. 822. « A Heine. Mio caro Heine, dedico a voi questo Studio, a voi che rappresentate a Parigi lo spirito e la poesia della Ger­ mania così come in Germania rappresentate la viva e arguta critica fran- cese, a voi che meglio di chiunque sapete quanto si può qui trovare di critica, di umorismo, di amore e di verità. » De Balzac. 23 Ibid., p. 852. 24 Nella sua ricostruzione del borghesismo antiborghese di Flaubert Sartre risale fino all’incontro del bambino con la duchessa di Berry e fino allo scherno per la figura del « re dei borghesi » Luigi Filippo. Jean-Paul Sartre, L’idiot de la famille. Gustav Flaubert de 1821 à 1857, Paris 1971, π, pp. 1337 sgg. 25 I fatti biografici e le citazioni retoriche di Disraeli sono tratti dalla biografia di Robert Blake, Disraeli, London 1969. 26 Ibid., p. 646. 27 Shlomo Na’aman, Lassalle, Hannover 1970. 28 Hermann Oncken, Lassalle, eine politische Biographie, München 1920. 29 Ibid., p. 872. 30 Ibid., p. 707. 31 Ibid., p. 76. 32 Ibid., p. 672. 33 Ibid., p. 642. 34 Ebreo, in senso spregiativo. Anche le due espressioni che seguono hanno lo stesso significato, (n.d.t.) 35 Ibid., p. 664. 36 Ibid., pp. 664 sg.

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V · PERSONAGGI EBREI NEL ROMANZO BORGHESE

1 George L. Mosse, The Image of the Jew in German Popular Culture, in Germans if Jews, New York 1970, pp. 61 sgg. 2 Stranamente, nella sua analisi del « liberalismo antiliberale » e della sua posizione rispetto agli ebrei Eleonore Sterling trascura gli aspetti let­ terari. Questo aspetto è ignorato anche nel capitolo sulla secolarizzazione dei concetti teologici tradizionali dell’ebreo. V. Eleonore Sterling, Die Anfänge des politischen Antisemitismus in Deutschland (1815-1850), Frankfurt a.M. 1969, pp. 48 sgg. e 77 sgg. 3 George L. Mosse, The Image cit., p. 71. 4 Charles Dickens. Our Mutual Friend [tr. it. Il nostro comune amico. Garzanti. Milano 1976|. 5 Ibid., π, cap. 15 [voi. i. p. 470J. 6 Ibid., ih, cap. 1 [voi. il. p. 49(1], 7 Ciò è connesso con la particolare prospettiva sociale dei romanzi di Dickens. T.W. Adorno l’ha chiamata « preborghese», ha persino parlato di « barocco disperso nel secolo xix » (Rede über den « Raritdtenladen » von Charles Dickens, in T.W. Adorno, Noten zur Literatur IV. Frankfurt a.M. 1974. pp. 34 sgg.). Ma le posizioni di Dickens sono perfettamente borghesi. Restano fedeli aH’illuminismo borghese del secolo xvm. si aprono persino al mondo della lotta di classe tra i borghesi e i proletari. Si spiega così il tratto fiabcsco-utopico di questa narrativa: come con­ trasto fra l’illuminismo e la situazione di classe, che dal punto di vista borghese spinge sempre più alla ritrattazione di questo illuminismo che è diventato letale. Per cui gli ebrei descritti da Dickens hanno un carat­ tere spiccatamente fiabesco: sono diabolicamente cattivi come Fagin, op­ pure angelicamente mansueti come Riah. Rothschild compare in Balzac, non in Dickens. 8 [« Un Ebreo! esclamò Gwendolen, in tono di sommesso stupore, esprimendo nell’atteggiamento'un'assoluta impotenza, come se un qual­ che filtro annebbiarne si diffondesse nel suo corpo »]. Poiché la narra­ trice Mary Ann (Marian) Evans, che si serviva dello pseudonimo ma­ schile « George Eliot ». dà essa stessa l’esempio, con la sua vita, di un’emarginazione non risolta, come è stato mostrato altrove (qui, H, 4), qui ci riferiamo soltanto al romanzo Damel Deronda. Il libro è citato secondo un’edizione della casa editrice William L. Allison Gompany Publisher, New York s.d. 9 Riproduzioni in Marghanita Laski, Georg Eliot cit., pp. 60 sg. 10 Ibid., p. 103. 11 G. Eliot, Daniel Deronda cit., li, p. 395. « L’idea che mi possiede è quella di ridare un’esistenza politica al mio popolo, facendo nuovamente di loro una nazione, dando loro un centro nazionale, come quello che hanno gli Inglesi, benché anch’essi siano sparsi su tutta la superficie del globo. » 12 Marcel Proust, A la Recherche du Temps Perdu cit., ni, p. 966 [tr. it. Il tempo ritrovato, Einaudi, Torino 1963, pp. 311 sg.[. 13 Ibid., i, p. 90 [tr. it. Ln strada di Swann, Einaudi, Torino 1963, pp. 97 sg.].

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14 Ibid., p. 93 [p. 100]. 15 Ibid., h, p. 288 [tr. it. I Guermantes, Einaudi, Torino 1963, p. 312] 16 Ibid., i, pp. 97, 146 [tr. it. La strada di Swann cit., p. 105] 17 Ibid., ni, pp. 952 sg. [tr. it. Il tempo ritrovato cit., p. 297]. 18 L'Ulysses di James Joyce è citato secondo l’edizione approvata dal­ l’autore del Random House, Inc., New York. Vintage Books. New York 1961 [tr. it. Ulisse, Mondadori, Milano I960]. 19 James Joyce's Ulysses. A Study by Staurt Gilbert. Vintage Books, Random House, New York 1955. Soprattutto le pp. 78 sgg. trattano delle idee di Bérard circa le origini fenicie dell’Odiwea. 20 Joyce, Ulysses cit., pp. 430 sgg. [pp. 582 sgg.]. 21 « L’estremo Oriente. Bel posticino dev’essere: giardino del mondo, grandi foglie pigre da galleggiarci sopra... Fiori dell’ozio... Ninfee. » [Ibid., p. 100], 22 Ibid., p. 331 [p. 446]. < Qual è la sua nazione, se è lecito? dice il cittadino. — L’Irlanda, dice Bloom. Sono nato qui. L’Irlanda. Il citta­ dino non disse nulla, si schiarì appena in gola e, perdiana, fece volare una patacca di scaracchio fino nell’angolo » [Ibid., p. 446]. 23 « Anch’io appartengo a una razza che è odiata e perseguitata, dice Bloom. Anche adesso. Proprio in questo momento. Proprio in questo istante. Perdiana, per poco non si bruciava le dita con la cicca di quel sigarone. — Derubati, dice. Spogliati. Insultati. Perseguitati. Ci vien tolto quel che ci appartiene di diritto. In questo stesso momento, dice, alzando il pugno, ci vendono all’asta nel Marocco come schiavi o bestie. — Sta parlando della nuova Gerusalemme? dice il cittadino. — Sto parlando dell’ingiustizia, dice Bloom. » [Ibid., p. 448]. 24 « Glendalough, i deliziosi laghi di Killarney, le ruine di Clonmacnois, l’abbazia di Cong, Glen Inagh e i Dodici Birilli, l’Occhio di Irlanda... la distilleria della ditta Arthur Guinnes Figlio e Soci (Società Anonima)... la torre d’Isolda, l’obelisco di Mapas... » [Ibid., p. 447]. 25 « È un ebreo rinnegato venuto da qualche parte dell’Ungheria ed è stato lui a far tutti i piani secondo il sistema ungherese. Lo sappiamo bene, al castello. » [Ibid., p. 454]. 26 « Mendelssohn era ebreo e anche Carlo Marx e Mercadante e Spi­ noza. E il Redentore era ebreo e suo padre era ebreo. Il vostro Dio. » [Ibid., p. 460]. 27 Ibid., p. 619 [p. 799]. « ... ma perché ha lasciato la casa di suo padre? — Per cercare sfortuna, fu la risposta di Stephen. » [Ibid., p. 799]. 28 « È un irlandese, affermò il prode uomo di mare, sempre con lo stesso sguardo negli occhi e annuendo. Tutto irlandese. — Troppo irlan­ dese, ribattè Stephen. » [Zfeid., pp. 803-804.] 29 Ibid., p. 682 [p. 950]. 30 Un’analisi precisa di Bloom e della sua struttura ebraico-irlandese si trova in Morton P. Levitt, The Family of Bloom. New Light on Joyce, From the Dublin Symposium, Edited by Fritz Senn, Indiana University Press 1972, pp. 141 sgg.

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vi · l’odio di sé dell’ebreo

1 Theodor Lessing, Der jüdische Selbslhass, Berlin 1930. Il libro non ha avuto edizioni più recenti. 2 Alfred Schuler, Fragmente und Tor I rage aus detti Nachlass, con un’introduzione di Ludwig Klages, Leipzig 1940. Dalle 120 pagine dell’in­ troduzione di Klages possiamo citare per es. questo passo: « Grazie all’ope­ ra di numerosi ricercatori oggi non è più necessario un Disraeli, perché sappiamo che gli < ispiratori occulti > della guerra mondiale e i finanzia­ tori della rivoluzione russa erano ebrei. Che cosa significano < umanità >. < cosmopolitismo >, < liberalismo >, < americanismo >, < marxismo >, < in­ ternazionalismo >, < comuniSmo >, < bolscevismo >. ecc., oggi non lo vede soltanto chi non lo vuole vedere. » Queste parole furono scritte nel 1940, nell’anno in cui Auschwitz inco­ minciava a funzionare (p. 46). T ra gli scritti di Schuler (morto nel 1923) pubblicati da Klage, si poteva già leggere, dopo una poesia alla « Swasti­ ka »: « Nel cuore della vita si insinuò la martora Giudea. Per due mil­ lenni cancella il caldo, pulsante, spumeggiante, sognante cuore materno » (Fragmente cit.. p. 151). 3 Una nuova presentazione del caso è data ila Hans VVysIing, in « Fin Elender ». Zu einem Novellenplan Thomas Manns, in Paul Scherrer/Hans Wysling, Quellenkritische Studien zum Werk Thomas Mann, Bein 1967, PP· 106 sgg· 4 Theodor Lessing, Der jüdische Selbslhass cit.. p. 249. « Ali i miei allievi già poetano insieme, e io non diventerò maturo come loro in tutta la mia vita, il poeta Speier e il poeta Colin, i poeti Meier, Frank e Mendelssohn. » 5 Ibid., p. 47. 6 Ibid., p. 50. 7 Ibid., pp. 132 sgg. 8 Ibid., p. 140. 9 Karl Kraus, Er ist doch e Jud. in « Die Fackel », ottobre 1913, ora in K.K., Untergang der Well durch die schwarze Magie. München I960, PP· 331 sgg. 10 Ibid., p. 335. VII · COMPAGNO SHYLOCK

1 Leo Trotzki, Mein Leben, Berlin 1930. L’edizione americana (Leon Trotsky, My Life. Gloucester, Massachusetts 1970) contiene in più un ab­ bondante materiale che era raccolto nel 1960 dalla vedova di Trockij Natalia Sedova Trockij, e veniva completato, per l’edizione del 1970, dal nipote di Trockij Esteban Volkov. E quindi citiamo in larga misura da questa edizione americana, soprattutto quando la nostra esposizione si riferisce alla parte della vita di Trockij che è posteriore alla conclusione del libro La mia vita [tr. it. La mia vita. Mondadori. Milano 19611. 2 Hendrik de Man, Gegen den Strom. Memoiren eines europäischen Sozialisten, Stuttgart 1953, p. 130. 3 Helmut Kreuzer, Die Roherne. Beiträge zu ihrer Beschreibung. Stutt­

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gart 1968. L’artìcolo di Trockij vi è citato a p. 292, da Oskar Anweiler, Die Rätebewegung in Russland 1905-1921, Leiden 1948, p. 33. L’articolo di Trockij si trova in « Neue Zeit », xxviii, voi. li. p. 860. 4 Leon Trotsky, Literatur and Revolution, New York 1957. L’edizione contiene soltanto il testo completo del libro di Trockij del 1924. Anche l’edizione tedesca si limita ad esso. Invece l’edizione francese presenta tutti gli scritti di Trockij sulla letteratura e l’arte: compresi gli ultimi lavori, composti a Coyoacan. La presente analisi si basa soprattutto su quest’ultima edizione: Léon Trotsky, Littérature et revolution. Preface de Maurice Nadeau. Union Générale d’Editions, Paris 1971 [Il libro del 1924 è stato tradotto dal russo in italiano da V. Strada: Lev Trockij, Let­ teratura e rivoluzione, Einaudi, Torino* 1973]. 5 Nadeshda Mandelstam, Das Jahrhundert der Wölfe. Eine Autobio­ graphie, Frankfurt a.M. 1971. 6 Trockij, Céline et Poincaré, in Littérature' et Révolution cit., pp. 425 sgg. 7 Ibid., p. 440. 8 Trockij, De la Révolution étranglée et de ses étrangleurs. Réponse à M. André Malraux, in Littérature et Révolution cit., pp. 401 sgg. 9 Trockij, L’art et la révolution (lettre à « Partisan-Review »), in Lit­ térature et Révolution cit., pp. 457 sgg. 10 Ibid., p. 464. 11 Trockij, Pour un art révolutionnaire indépendant, in Littérature et Révolution cit., pp. 501 sgg. 12 75Ò7., p. 506. 13 Joseph Roth, Der stumme Prophet, Romanzo, Köln 1965. Vili · ODIO PER GLI EBREI DOPO AUSCHWITZ

1 Le Réflexions sur la Question Juive furono pubblicate dapprima a Parigi da una casa editrice nuova, successivamente scomparsa, nel 1946. Le nostre citazioni si riferiscono a questa prima edizione. Nel 1954 Galli­ mard pubblicava nuovamente il libro nella « Collection Idées » [tr. it. L’antisemitismo cit.]. 2 Ibid., p. 91 [p. 51]. 3 Ibid., p. 198 [p. 107]. 4 Jean-Paul Sartre, Saint Genet cit., p. 549 [p. 577J. 5 Sartre, Réflexions cit., pp. 185 sgg. [pp. 103 sgg.]. 6 75Ò/., p. 62 [p. 35]. 7 Nel precedente racconto L’enfance d’un chef Sartre aveva narrato la vicenda di un giovane dell’alta borghesia, Lucien Létilloi, come esempio di un antisemitismo « inautentico » che si identifica con la parte di un nemico degli ebrei semplicemente perché in questo modo può acquistare a buon mercato la parvenza di un’individualità determinata. 8 II libro Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente di Max Horkheimer c Theodor W. Adorno è citato secondo la nuova edizione del 1969 (cit.). 9 Horkheimer/Adorno, Dialektik cit., p. 212 [p. 216]. 10 Ibid., p. 181 [pp. 185 sg.].

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11 Ibid., p. 180 [p. 184], 12 Max Horkheimer, Die Juden und Europa, in «Studies in Philosophy and Social Science », vol. vili 1939, New York City 1939-1940, pp. 115 sgg. 13 Ibid., pp. 132 sg. 14 Horkheimer/Adorno, Dialektik cit., pp. 182 sgg. [pp. 186 sgg.]. 15 Ibid., p. 183 [manca nella trad, italiana, n.d.t.]. 16 Ibid., p. 177 [p. 181], 17 Ludwig Klages, Introduzione a Alfred Schuler, Fragmente und Vor­ träge cit., p. 82. 18 Horkheimer/Adorno, Dialektik cit., p. 209 [p. 213]. 19 Ibid., p. 7 [p. 9]. 20 Ibid., pp. 210 sg. [p. 214]. 21 Ibid., p. 217 [p. 221], 22 Ibid. CONCLUSIONE APERTA

1 Heinrich Mann, Ein Zeitalter wird besichtigt, Düsseldorf 1974. p. 37. 2 Ibid., p. 39. 3 Theodor W. Adorno. Negative Dialektik, in Gesammelte Schriften, voi. vi, Frankfurt a.M. 1973, p. 191 [tr. it. Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 192]. 4 Goethes Werke, Hamburger Ausgabe cit., vol. vin, Hamburg 1961, p. 477 [tr. it. in Massime e riflessioni, De Silva, Torino 1943, p. 147].

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Ringraziamenti

Un libro che oscilla fra diverse discipline specialistiche, che vorrebbe unire passato e presente, che vuol essere contemporaneamente un’opera narrativa e un’analisi scientifica, ha bisogno di molti consulenti e critici. Per i consigli e gli avvertimenti l’autore ringrazia di cuore: Elisabeth Borchers, Elisabeth Freundlich, Inge Jens, Elfriede Zimmermann e Jean Améry, Pierre Bertàux, Elmar Buck, Christian Gneuss, Reinhold Grimm, Ihab Hassan, Jost Hermand, Walter Jens, Robert A. Jones, Leo Kreutzer. Robert Minder, Jürgen Peters, Wolfgang Promies, Gert Ueding, HansDieter Zimmermann e Jack Zipes. L'autore ha potuto procurarsi materiali difficilmente accessibili grazie all’aiuto di Roland Aeschlimann, Patricia Gounsell. Erika Greifelt, An­ dreas Huyssen, Amadou B. Sadji, Gerd Schienstock, Gottfried Wagner. Gerhard Wilke, Larry Williams. L’autore esprime la sua grande riconoscenza all’University of Wiscon­ sin-Milwaukee, in particolare al suo decano del College of Arts and Sciences, William Halloran, e al Center for Twentieth Century Studies. HANS MAYER

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Indice analitico

Achmatova, Anna, 60, 418 Adam, Antoine, 224, 227, 457 Adam, Juliette, 108 Adelaide (moglie di Ottone i), 163 Adler, Max, 413, 415 Adler, Victor? 406, 410, 415 Adorno, Theodor Wiesengrund, 113, 146, 261-262, 427-433, 435, 440, 448, 466, 469, 470 Adriano, Publio Elio, imperatore romano, 162 Aeschlimann, Roland, 471 Agostino, Aurelio, 40 Agoult, Marie Catherine Sophie, contessa d’, 77, 99, 108, 207 Albee, Edward, 151, 250 Albert, Alexandre, 70 Alberto, principe di Sassonia-Coburgo-Gotha (cugino e sposo del­ la regina Vittoria), 87, 89 Alberto Edoardo, principe di Gal­ les (padre di Edoardo vii, re del­ la Gran Bretagna), 347 Alessandro, il Grande, 159, 267 Alessandro n, zar della Russia, 240 Alewyn, Richard, 191 Alighieri, Dante, 17 Allégret, Marc, 256-257 Allen, Jerry, 459 Altenberg, Peter, 398 Améry, Jean, 471 Andersen, Hans Christian, 165, 167, 210-219, 226, 240, 244, 273, 283, 284-285, 291, 410, 456 Andreas-Salomé, Lou. 99, 122, 150, 396 Annunzio, Gabriele d’, 247 Anouilh, Jean, 44, 58 Antinoo, 162 Anweiler, Oskar, 469

Apollinaire, Guillaume, 262 Aragon, Louis, 262, 423 Arcangeli, Francesco, 185, 186, 188 Aristofane, 10, 160, 191, 200, 201, 203, 205 Aristotele, 18, 160, 453 Arnim, Achim von, 299, 462 Arnold, Matthew, 87, 91, 449 Ascher, Saul, 333-337, 464 Auden, Wystan Hugh, 16-17, 269, 307, 443, 462 Auerbach, Berthold, 358 Augusto, Gaio Ottaviano, 162 Augusto il di Sassonia, re di Polo­ nia, 100 Austerlitz, Friedrich, 415

Babeuf, François Noel, 5, 464 Bachofen, Johann Jakob, 118 Baden, Ludovico, principe di, 165 Badt, Bertha, 462 Bahr, Hermann, 398 Baines, Richard, 176 Bakunin, Michail A., 70, 78 Balakirev, Mill A., 240 Baldock, scienziato inglese sotto Edoardo il, 180 Baldwin, James, 284 Ball, Hugo, 420 Baltzer, Otto, 447 Balzac, Honoré de, 90. 98, 99, 104, 207, 245, 246, 251, 342-345, 363, 374-375, 465 Bang, Herman, 269 Barbés, Armand, 107 Bartók, Béla, 111 Bartsch, Jürgen, 169 Baruch (finanzieri di Bonn), 4 IO Baruch, Löb, 368 Basevi, Maria (madie di Iteli,amili

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Disraeli), 348 Bizèt, Jacques (figlio di Georges Bataille, Georges, 261, 262 Bizet), 271 Baudelaire, Charles, 91, 104-105, Blackwood, William (editore di 106, 450 George Eliot), 93 Bauer, Leo, 287 Blake, Robert, 348, 465 Blanc, Louis, 70, 378 Bauer, Otto, 410, 413, 415 Bleichröder, Gerson, barone di, 347 Bayreuth, marchesa di, 34 Bazzi, Giovanantonio (soprannomi- Bloch, Ernst, 5-6, 9, 12, 118-119, 359, 410, 443, 451 nato « Sodoma »), 164 Beaconsfield, Benjamin, conte di, v. Bloch, Jochanan, 321, 462 Blok, Aleksandr, 416 Disraeli, Benjamin Bloom, Leopold (l’Ulisse ebreo-ir­ Beauharnais, Joséphine, 65 landese di James Joyce), 380, 386Beauvoir, Simone de, 29-31, 33, 97, 391 106, 286, 445, 450 Blither, Hans, 112 Bebel, August, 415, 437-438 Blum, Léon, 437 Becher, Johannes Robert, 417 Beer, Michael, 201, 204 Blumenthal, Lieselotte, 445 Beethoven, Ludwig van, 42, 67, 79, Boas, Frederick S., 175, 179, 454 109, 112, 122, 236, 417 Bögh, Erik, 216 Behrens (finanzieri di Hannover), Boll, Heinrich, 417 340 Bond, Edward, 88, 97, 449 Belinskij, Vissarion G., 240 Bonnefoy, Yves, 226, 457 Benda, Julien, 268 Borchers, Elisabeth, 471 Bengel, Johann Albrecht, 328 Borei, Jacques, 457 Benjamin, Walter, 124, 451 Borgia, Cesare, 301, 328 Benn, Gottfried, 110, 128-129, 451 Borgia, Lucrezia, 36 Bense, Max, 461 Börne, Ludwig, 102, 208, 336-337, Bérard, Victor, 386, 390, 467 340, 342, 355, 338, 368, 464 ' Berchtold, Leopold, conte, 410 Berendis, Hieronymus Dietrich, Borodin, Alexander, 240 Boufflers, Louis François, 165 185, 186, 188 Bowen, Catherine Drinker, 457-458 Berg, Alban, 28, 111 Berg, Friedrich Reinhold von, 186- Brabant, R.H., 94 Brandes, Georg, 359, 449 187, 188, 191 Braumüller, Wilhelm, 110 Bergner, Elisabeth, 135 Bernstein, Aaron (zio di Eduard Brecht, Bertolt, 36, 44, 47-60, 63, 65, 83; 116, 147, 171, 178, 182Bernstein), 357 183, 279-280, 317, 379, 446, 447, Bernstein, Eduard, 352, 357, 406 454 Berrichon, Isabelle (sorella di Jean Nicolas Arthur Rimbaud), 222, Breton, André, 224, 282, 416, 423 Breznev, Leonid I., 407 223, 231 Berrichon, Paterne (cognato di Briegleb, Klaus, 455 Jean Nicolas Arthur Rimbaud), Bright, John, 90 222, 223, 226 Brissac, Jean-Paul-Timoléon de Bertaux, Pierre, 471 Cossé, duca di, 165 Bethe, Erich, 453 Bröchner, Jessie, 456 Bismarck, Otto, principe di, 38, Brodski, Josif, 429 104, 168, 348, 350, 353, 356, 396 Bronstein, Anna (madre di TroB’zet. Georges, 122, 271 ékij), 404

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Bronstein, David L. (padre di Tro­ ckij), 404 Bronstein, Lev, v. Trockij, Lev Davidovic Browning, Robert, 93 Bruckner, Ferdinand, 285 Bucharin, Nikolai, 285-286, 291, 402. 406, 408, 410, 414, 415, 461 Büchner, Georg, 27, 210, 355 Büchner, Ludwig, o Louis (fratello di Georg Büchner), 355 Buck, Elmar, 471 Buderus, Carl Friedrich, 341 Buenau, Heinrich, conte, 187, 191 Bullett, Gerald, 449 Bülow, Cosima von, v. Wagner, Cosi ma Bulwer, Edward George, lord Lyt­ ton, 215 Buonarroti, Filippo Michele, 464 Buonarroti, Michelangelo. 112 Burgess, Anthony, 260 Busch, Wilhelm, 374 Bychowski, Gustav, 187, 189, 455 .Byron, George Gordon, lord, 71, 90. 201. 348 Cajkovskij, Antonina, nata Miljukova (moglie di P.I. Cajkovskij), 236, 237 Cajkovskij, Ippolito (fratello di P.I. Cajkovskij), 458 Cajkovskij, Modest I. (fratello di P.I. Cajkovskij), 236, 238, 239 Cajkovskij, Pëtr Il’ic, 165, 167, 213, 232, 236-244, 247, 267. 269, 283, 291, 417. 420, 458 Calé, Walter, 396, 397 Calvino, Giovanni, 47 Capretti (ragazzo-ifiodello di Leo­ nardo da Vinci), 164 Carlo vii, re di Francia, 36 Carlyle, Thomas, 116 Carré, Jean-Marie, 220, 226, 457 Carrington, Norman T„ 462 Cases, Cesare, 462 Castro, Fidel, 283, 438 Caterina i, di Russia, 23 Caterina ii, di Russia, 34, 78

Catilina, Lucio Sergio, 328 Cavaceppi, Bartolomeo, 185 Celan, Paul, 427-428 Céline, Louis-Ferdinand, 276, 422, 460, 469 Cernyiievskij, Nikolai G., 240 Cervantes Saavedra, Miguel de, 1213 Cézanne, Paul, 111 Chamberlain, Houston Steward, 109, 111, 397 Chapman, John, 93, 94, 449 Charlus, barone di, 164, 165 Chevalier, Jacques, 445 Chézy, Helmine von, 76 Choderlos de Laclos, Pierre Am­ broise François, 75, 121 Chopin, Frédéric. 98-99, 207, 340, 450 Cicerone, Marco Tullio, 8 Claudel, Paul, 58-59 Cocteau, Jean, 170, 257-258, 262, 269, 270, 272, 274, 278, 283 Cohn, Emil, v. Ludwig, Emil Coleridge, Samuel Taylor, 246 Collin, Edvard, 212, 214 Colonna, Vittoria, 36 Comte, Auguste, 376 Condé, Louis, principe di (detto « Gran Condé »), 165, 172 Condillac, Etienne Bonnot de, 22 Connaught, Arthur W. Albert, duca di (terzo figlio della regina Vit­ toria di Gran Bretagna), 347 Cooper, Gary, 136 Corbould, Edward Henry, 377 Corinth, Lovis, 29 Corradino di Svevia, 163 Corti, Egon Caesar Conte, 339, 464 Cotta von Cottendorf, Johann Frie­ drich, editore, 202 Counsell, Patricia, 471 Cowles, Virginia, 464 Cowley, Abraham, 188 Cranach, Lucas, il Vecchio, 29. 30, 31 Crawford, Frederick, 456 Cremerius, Johannes, 455 Crisippo, 162

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Cromwell, Oliver, 20, 89, 172, 309 Cross, John Walter (marito di George Eliot), 95 Cross, Mary Ann, nata Evans, v. Eliot, George Curie, Marie, 285 Czernin, Ottokar, conte, 410 D'Agoult, Marie, v. Agoult Marie Catherine Sophie, contessa d’ Dahn, Felix, 370-371 Daladier, Edouard, 402 Darrieux, Danielle, 136 Darwin, Charles Robert, 397 Davidov, Alexandra (sorella di P. I. Cajkovskij, madre di Vladimir L.vovié Davidov), 238 Davidov, Vladimir Lvovic (detto Bob, l'amato di P.I. Cajkovskij), 238, 239 Davis, Bette, 135-136 Debussy, Claude, 28, 241 Delaborde, Sophie, v. Dupin, So­ phie Delacroix, Eugène, 98, 99, 104, 340, 464 Delahaye, Ernest, 222, 223, 230 Demuth, Frederick (figlio illegitti­ mo di Karl Marx e di Helene Demuth), 449 Demuth, Helene (governante di Karl Marx), 449 Deronda. Daniel, 466 Deutsch, Emanuel, 379 Dickens, Charles, 279, 363, 371-375, 376, 377, 466 Diderot, Denis, 22 Dietrich, Marlene, 135, 136 Disraeli, Benjamin (lord Beacon­ sfield), 88, 90, 213, 342, 347-352, 358, 359, 369, 465, 468 Disraeli (D’Israeli), Isaac (padre di Benjamin Disraeli), 348, 349 Disraeli, Mary Anne (lady Bea­ consfield; moglie di Benjamin Disraeli), 350 Dobroljubov, Nikolai A., 240 Döblin, Alfred, 270 Dünniges, Helene von, 357

Dorval, Marie-Amélie-Thomas, na­ ta Delaunay, 97-98 Dostoevskij, Fedor Μ., 47, 363 Douglas, Alfred Bruce, lord, 88, 167-168, 245, 257 Douglas, Norman, 166-167, 263, 453 Doyle, Peter, 187 Dreyfus, Alfred, 380, 382, 427 Dsersinskij, Felix E., 409 Dudevant, Amadine-Lucie-Aurore baronessa, nata Dupin, v. Sand, George Dudevant, Casimir, barone (marito di George Sand), 100-102 Dudevant, Maurice (figlio di Geor­ ge Sand), v. Sand, Maurice Dudevant, Solange (figlia di Geor­ ge Sand), 101, 107-108 Dujardin, Edouard, 232 Dumas, Alexandre, figlio, 99 Dupin, Amadine-Lucie-Aurore, v. Sand, George Dupin, Maurice (padre di George Sand), 101, 450 Dupin, Sophie, nata Delaborde (madre di George Sand), 101-102 Dürer, Albrecht, 37 , Dürrenmatt, Friedrich, 127-130, 131-132, 451 Dzuga’svili, Genossin (compagna di Josef Stalin), 438 Dzuga’svili, Iosif W., v. Stalin, Josif W.

Edoardo II, re d’Inghilterra (detto anche Edward von Caernarvon), storico, 163, 165, 170, 178, 179, 180, 203 Edoardo II, re d'Inghilterra (poe­ ta), 171-184 Edwards, Samuel, 103, 450 Ehrenburg, Ilja G., 134, 268 Eisler, Hanns, 261 Elias, Julius, 449 Eliot, George (pseud, di Mary Ann, Marian, Evans Cross), 34, 69, 72, 88, 90, 91-97, 100, 101, 103, 239, 375-380, 449, 466

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Eliot, Thomas Stearns, 270 Elisabetta, Amalia Eugenia, impe­ ratrice d’Austria, regina d’Unghe­ ria, 346 Elisabetta, regina d'Inghilterra, 78, 171, 304 Eluard, Paul (pseud, di Eugène Grindel), 423 Engels, Friedrich, 48, 153, 353, 354, 355-356, 437 Enrico tu, re di Francia, 165-166, 174, 177-178, 203 Enrico tv, re di Francia e Navarra, 165, 176-177, 178 Ephraim (finanzieri di Prussia), 340 Ephraim, Nathan V.H., 22 Eraclito di Efeso, 353, 355 Erasmo da Rotterdam, 28, 173. 299 Ernst, Paul, 117, 451 Eschilo, 9-10, 12 Esiodo, 34 Esslin, Martin, 132-133, 452 Ettinghausen, Maurice, v. Sachs, » Maurice Eugenia, imperatrice dei Francesi (moglie di Napoleone ih), 370 Eugenio, principe di Savoia-Carignano, 164, 172, 352 Eulenburg, Philipp, principe, 17, 167-168, 214, 396 Euripide, 10, 12, 191, 200, 205 Evans, Isaak (fratello di George Eliot), 95 Evans, Mary Ann, Marian Cross, v. Eliot, George Evans, Robert (padre di George Eliot), 92

Faber du Faur, Curt von, 463 Fadeev, Aleksandr A., 268 Federico n, re della Prussia, 22-23, 165, 172, 185 Ferdinando hi, imperatore tedesco, 191 Fersen d'Adelsward, Jacques, 166 Feuchtwanger, Lion, 54, 182, 270 Feuerbach, Ludwig, 78, 79, 92, 116, 378

Feuillère, Edwige, 136 Fichte, Johann Gottlieb, 116 Ficino, Marsilio, 1.8 Fiedler, Leslie A., 15-16, 31, 33, 308, 443, 444, 462 Fielding, Henry, 23, 362, 372 Filippo π, re di Macedonia (padre di Alessandro il Grande), 159 Fischer, Wolfgang Georg, 452 Flaubert, Gustav, 69, 81, 83, 99, 106, 118, 243, 248, 280, 282, 345, 450, 465 Flory (pseud, di Fiorio, Giovanni), 7 Fontane, Theodor, 69 Forain, Jean Louis, 224 Ford, John (contemporaneo di Sha­ kespeare), 173 Forster, Edward Morgan, 169, 253 Forster, Johann Georg Adam, 318 France, Anatole (pseud, di JacquesAnatole Thibault), 39, 271 Francesco Angelis, v. Arcangeli, Francesco Francesco d’Assisi (soprannome di Giovanni Bernardone), 37 Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re d’Ungheria, 140 Francke (comandante di Gade­ land), 266 Frank, Bruno, 395 Frank, Jakob, 329 Frank, Jakob Ben Jehuda Löb, 463 Freud, Sigmund, 140, 161 Freundlich, Elisabeth, 471 Freytag, Gustav, 312, 361, 363, 364, 366-371, 374, 375 Friedländer, Ferdinand (poi Ferdi­ nand von Friedland), 357 Frisch, Max, 317 Fugger, Jakob, 340-341 Gabel, Joseph, 268, 460 Galton, Francis, 37 Gans, Eduard, 204, 355 Garbo, Greta (pseud, di Greta Gu­ stafsson), 135 Garcia Lorca, Federico, 283 Garrick, David, 310

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Gautier, Théophile, 419 Gaveston, principe di Cornovaglia, 179-180 Gay, John, 372 Geheeb, Paul, 394 Geliert, Christian Fürchtegott, 318 Genet, Jean, 116, 141, 151, 169, 170. 181, 227, 247, 274, 277-291, 426, 435, 438, 460-461 George, Stefan, 112, 192 Géricault, Théodore, 101 Gerolamo Bonaparte, re di Westfalia, 203 Ghirlandaio, Domenico (contempo­ raneo di Tomaso Bigordi), 47 Gide, André, 169-170, 188, 245, 248, 250, 251, 252-258, 262, 263, 265, 269-270, 271, 272, 274, 276, 281285, 396, 459, 460 Gilbert, Stuart, 386, 467 Ginsberg, Allen, 285 Giono, Jean, 425 Giotto, 37 Giraudoux, Jean, 12, 27, 64, 127128, 130, 136, 217, 457 Gish, Lilian, 134, 149 Giuseppe n, imperatore del Sacro Romano Impero, 23 Giustiniano i, imperatore (consorte di Teodora), 370 Gladstone, John Hall, 90 Gläser, Ernst, 367 Gleim, Johann Wilhelm Ludwig, 61 Gloucester, Gilbert de Clare, duca di, 180 Gneuss, Christian, 471 Gohineau, Joseph-Arthur, conte di, 24 Goebbels, Joseph, 134 Goekkingk, Leopold F„ baroné di, 397 Goethe, Johann Wolfgang von, 12, 21, 30, 44, 48, 50, 87, 90, 95, 166, 186, 188, 190-191, 200, 201, 203. 314, 336, 339, 346, 378, 397, 398, 440, 455, 470 Goeze, Johann Melchior, 318 Goldhammer, Bruno, 287

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Gompers (finanzieri di Prussia), 340 Gor’kij, Maxim, 169, 283, 287, 408, 414, 417 Görres, Joseph von, 201 Gorsen, Peter, 452 Göschen, Georg Joachim, 42 Grabbe, Christian Dietrich, 202 Gracco-Babeuf, v. Babeuf, François Noel Graetz, Heinrich, 463 Gregor-Dellin, Martin, 460 Greifelt, Erika, 471 Grillparzer, Franz, 202, 300, 338 Grimm, Hans, 364 Grimm, Reinhold, 471 Gründgens, Gustaf, 269 Gudden, Bernhard von, 232, 234 Guglielmo, principe d'Assia, 341 Guglielmo i, imperatore tedesco, re dei Prussiani, 349 Guglielmo n, imperatore tedesco, 168 Gumpertz, Aaron Samuel, 319 Günderode, Karoline von, 34 Gutzkow, Karl, 73, 90 Haarmann, Fritz, 169, 269 Hahn-Hahn, Ida, contessa, 69-75, 77, 99, 448 Haight, Gordon S., 449 Halloran, William, 471 Hamann, Richard, 190-191, 455 Hamsun, Knut (pseud, di Knut Pedersen), 364, 425 Hanska-Rzewuska, Eva,contessa (se­ conda moglie di Balzac), 207 Hanson, Elisabeth, 458 Hanson, Lawrence, 458 Häntzschel, Günther, 195, 455 Harden, Maximilian (pseud, di Maximilian Felix Ernest Wit­ kowski), 17, 168-169, 396, 453 Hardenberg, Friedrich Leopold, barone, v. Novalis Harich, Wolfgang, 287 Hassan, Ihab, 471 Hauff, Wilhelm, 202, 295 Hauptmann, Gerhart, 27, 55, 168, 190, 300

Hawthorne, Nathaniel, 69 Hebbel. Friedrich, 32, 33. 34, 44, 59, 64, 66-68, 75, 79, 80, 84, 117, 122, 210, 361, 448 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 6, 14, 59, 68, 336, 338, 353, 358, 368, 443, 448 Heiberg, Johann Ludwig, 211 Heine, Heinrich (Henri), 17, 98, 104, 114, 168, 188, 193, 194-209, 214, 286, 296, 331, 332-333, 335, 336-340, 342-346, 351-352, 354355, 357, 358, 359, 368-369, 382, 383, 396, 398, 439. 455, 456, 464 Heine, Karl (cugino di Heinrich Heine), 354 Heine, Peire (detta Betty), nata van Geldern (madre di Heinrich Heine), 206-207 Heine, Salomon (zio di Heinrich Heine), 208, 339, 342 Heist. Walter, 279, 461 Helms, Hans Georg, 69, 448 Helphand, Alexander Israel (detto - Parvus), 406 Hennings, Emmy (seconda moglie di Hugo Ball), 420 Hepburn, Katherine, 136 Herder, Johann Gottfried von, 185, 191. 455 Hermand. Jost, 471 Hershold, Jean, 456 Herwegh, Georg, 353 Herz, Henriette, 99, 296 Hess, Moses, 355, 359, 378 Hesse, Hermann, 113, 364 Heyne, Therese, 34 Hilferding, Rudolf, 406. 410, 413, 414-415 Hiller, Kurt, 397 Hindenburg, Paid von, 400 Hirsch. Emanuel, 456-457 Hitler. Adolf, 142, 145, 169, 275 Hobbes, Thomas, 74 Hoffmann, Ernst Theodor Ama­ deus, 81, 91, 416, 418 Hofmannsthal, Hugo von, 12, 27, 28. 126. 191, 352, 359 Hogarth, William, 23

Holbach, Dietrich, barone di, 22 Hölderlin, Johann Christian Frie­ drich, 49, 114, 398 Holinshed, Raphael, 176, 179 Horkheimer, Max, 7, 73-74, 145146, 427-434, 443, 448, 469-470 Hugenberg, Alfred, 135 Hughes, Douglas A., 260, 459 Hugo, Victor, 90, 201 Huizinga, Johan, 37, 445 Hunt, Thornton, 94 Huxley, Aldous Leonard, 146 Huxley, Thomas Henry, 90, 93 Huysmans, Joris-Karl (pseud, di Charles Marie Georges), 247 Huyssen, Andreas, 471

Ibsen, Henrik, 80-86, 116, 118, 449 Ignazio di Loyola, 37 Immermann, Karl Leberecht, 194195, 198, 199, 201-202, 204, 207, 211, 455-456 Inge, William, 151 Isaak (finanzieri di Prussia), 340 Itzig (finanzieri di Prussia). 340

Jacobshon, Siegfried, 393 Jacobson, Roman, 416 Jahnn, Hans Henry, 250 James, Henry, 69 Jaurès, Jean, 271 Jens, Inge. 471 Jens, Walter, 443, 471 Joachim, Joseph, 93 Jones, Robert A., 471 Jonson, Ben. 173 Jouhandeau, Marcel, 284 Joyce, James, 282, 379, 386-391, 420, 467 Juon, Paul, 458 Jurgenson, P.I. (editore moscovita di P. T. Cajkovskij), 238, 458 Kafka, Franz, 281, 420 Kaganovic, Lasar M., 408 Kahn, Ludwig W., 448 Kainz, Josef, 243 Kaiser. Georg, 450 Kaiser, Joachim. 448

Kamenev, Lev B. (pseud, di L.B. Rosenfeld), 287, 402, 406, 408, 415 Kandinsky, Vasilij, 111 Kant, Emmanuel, 34, 41-43, 51-52, 58, 65, 114-115, 120, 122, 338, 366 Karl, Alexander, granduca di Sassonia-Weimar-Eisenach, 456 Kaskin, Nikolaj D„ 239 Katte, Hans Hermann von, 172 Kaulbach, Wilhelm von, 241 Kaulla (finanzieri di Stoccarda), 340 Kautsky, Karl, 412 Kelly, Grace, 149 Kelsen, Hans von, 159-161, 453 Kennedy, John Fitzgerald, 437 Kessel, Martin, 121, 448, 451 Ketteler, Wilhelm Emanuel, barone von, 70 Kierkegaard, Soren, 210-213, 216219. 456-457 Kisch, Egon Erwin, 270 Klages, Ludwig, 109-111, 392, 395, 397, 431. 468, 470 Klee. Paul, 111 Kleist, Heinrich von, 39, 66-68, 75, 122. 235. 239. 276, 333-334, 448 Klotz, Christian Adolf, 318 Knigge, Adolf Franz Friedrich, ba­ rone yon, 23, 444 Kollontai, Alexandra M., 438 Königsmarck, Maria Aurora, con­ tessa von. 100 Köstler, Aithur, 270 Kott, Jan, 181. 182, 454 Kotzebue. August von, 201, 203 Kracauer, Siegfried, 295, 461 Kraft, Herbert. 448 Kraus, Karl. 19, 113, 115-116, 122123. 125. 127, 129, 131, 153, 168169, 339, 380, 397, 399, 444, 451, 453, 468 Kreutzer, Leo, 464, 471 Kreuzer. Helmut, 67, 415, 447, 468 Kreuzer. Ingrid. 455 Krupp, Friedrich Alfred, 167 Krupskaja. Nadeshda K. (moglie di W.l. Lenin), 438

482

Kruscev, Nikita S., 407 Kugelmann, Friedrich, 356 Kühn, Sophie von (fidanzata di Novalis), 82 Kyd, Thomas, 173, 175-176

Lachmann, Karl, 185, 463 Laclos, Pierre Ambroise, v. Choder­ los de Laclos La Fontaine, Jean de, 217, 457 Lainé, Pascal. 147, 152-156, 436, 453 Lakond, Wladimir, 457 Lamartine, Alphonse-Marie-Louis de, 70 La Moussaye, Marquis de, 165 Landauer, Gustav, 409 Lasker-Schüler, Else, 398 Laski, Marghanita, 449, 466 Lassalle, Ferdinand, 338, 342, 347. 352-360, 465 Lassalle, Heyman (padre di Ferdi­ nand Lassalle), 357 Lassò, Signe, 215 Lavin, Harry, 443 Lawrence, David Herbert, 116, 141 Leconte de Lisle, Charles Marie-Re­ né, 232 Le Dantec, Y. G., 457 Ledru-Rollin, Alexandre Auguste, 107 Lehâr. Franz, 261 Lehmann (finanzieri di Halber­ stadt), 340 Leibi, Wilhelm, 111 Leibniz, Gottfried Wilhelm, baro­ ne von, 34 Leigh, Vivian, 136 Lenin, Vladimir I. (pseud, di V.I. Uljanov), 289, 400, 404, 405, 407, 409-410, 414, 416, 417, 420 Lenz, Jakob Michael Reinhold, 22. 23, 50-51 Leone x, papa, 164 Leonardo da Vinci, 164 Leonida, re di Sparta, 159 Leopoldo, principe d'Albania (fi­ glio della regina Vittoria), 347 Lepenies, Wolf, 18. 20, 443

Leppmann, Wolfgang, 191, 455 Lermontov. Michail j., 73, 357 Leroux, Pierre. 98, 104 Lessing, Gotthold Ephraim, 23. 75. 121, 185. 301, 311, 314-326. 329, 331, 335-336, 367, 369. 375, 376, 378, 463 Lessing, Theodor, III. 208, 314. 392-397, 399, 431, 463, 468 Létinois, Lucien, 230. 232, 231 Levi, Paul, 406 Levin, Harry, 13, 183, 260. 454 Levin, Rahel, v. Varnhagen von Ense. Rahel Levitt, Morton P., 467 Lewald, Fanny, 99 Lewes, Agnes (moglie di George Henry Lewes). 94-95 Lewes, George Henry (compagno di vita di George Eliot), 94-96, 103, 378 Lichtenberg, Georg Christoph. 310311, 314, 318, 332, 359. 366, 462 Liebmann (finanzieri di Prussia). 340 Lietz. Hermann. 394-395 Lindner, Richard, 35, 148, 149-152, 452 Linton, Eliza Lynn, 93 Lipschitz, Jacob. 416 Liselotte del Palatinato, 172 Liszt, Franz. 77-78. 99. 104, 108. 207, 448 Litvinov, Maxim M. (pseud, di Fin­ kelstein), 289 Livingstone. David. 90 Lobe, Gustave. 401 Lombroso, Cesare, 110 London, Artur. 287 Longfellow, Henry Wadsworth, 227 Lope de Vega. n. Vega Carpio, Lo­ pe Félix de Lopez, Roderigo, 304, 462 Lorca, Federico Garcia, v. Garcia Lorca. Federico Lu bin. Georges, 450 Lublin ski. Samuel, 393 Ludendorft. Erich, 403

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Ludovico I, di Baviera, 200 Ludovico it, di Baviera, 150, 151152, 167, 232-236, 240-244, 267, 283, 458 Ludwig, Emil (pseud, di Emil Cohn), 394 Ludz, Peter, 449 Liidtle, Gerhard, 447 Lueger, Karl, 119 Luigi XIV, re di Francia, 164-165, 242* Luigi Filippo, re di Francia (detto « re dei borghesi »), 102, 340, 465 Luise, regina di Prussia, 65 Lukacs, Georg. 82-83, 117, 359, 449, 463 Luther, Martin, 45, 47, 59, 61, 62, 63. 171-172, 299, 336, 367. 447 Liitzow, Elisa, contessa von, nata Ahlefeldt (compagna di Karl Im­ mermann), 207 Luxemburg, Rosa, 99, 406, 438, 439 Lytton, Edward Robert Bulwer(pseud, di Owen Meredith, figlio di Edward George Bulwer, lord Lytton). 215 Machiavelli, Niccolò, 74, 174, 301, 302, 304, 307. 368 Macklin, Charles, 310 Maeterlinck, Maurice, 28 Mailer, Norman, 136, 138-146, 452 Majakovskij. Vladimir V., 416, 418, 420 Malraux, André (pseud, di André Berger), 410, 421-422, 469 Man, Hendrik de, 412, 468 Manasseh ben Israel, 309 Mandel, Georges, 437 Mandel’stam, Nadezda, 60, 418, 461 Mandel’stam, Osip E., 418 Mandeville, Bernard de, 74 Manet, Edouard, 111 Mann, Erika (figlia di Thomas Mann), 272 Mann, Heinrich. 116, 165-166, 178, 272. 439. 440, 470 Mann, Klaus (figlio di Thomas

Mann). 238, 243-244, 266-276, 458, 460 Mann, Thomas, 12, 64-65, 80, 82, 114. 118-119, 189, 195-196, 198, 240, 266, 267, 271-272. 275, 359. 363. 364, 393-394, 395, 398, 447, 449, 455, 458-459, 468 Marcuse, Herbert, 324, 463 Maria Teresa, imperatrice d’Au­ stria, 22. 62, 352 Marinetti, Filippo Tommaso, 419420 Maritain, Jacques, 272 Marlowe, Christopher, 7. 12, 13-17. 125, 166. 170, 171-184, 298-303. 307-308, 322, 454, 462 Martin du Gard, Roger. 252 Marx, Heinrich (padre di Karl Marx). 342 Marx, Karl, 6, 9. 48, 52, 116, 146, 208, 311, 333. 342, 353, 354, 355, 358, 378, 389-390, 417, 426, 433, 437, 443, 449 Massmann, Hans Ferdinand, 336, 464 Mata Hari (pseud, di Margareta G. Zelle). 285 Mathilde (pseud, di Créscence Eu­ genie Mirât; seconda moglie di Heinrich Heine), 207 Maugham, William Somerset. 253 Mauriac, François, 277 Maurois, André, 102, 106, 450 Mayer, Anton, 447 Mayer, Hans, 443, 451, 464 McCarthy, Joseph Raymond, 268, 270, 460 ' Meck, Barbara von, 458-459 Meck, Ludmilla von (figlia di Na­ deshda von Meck), 241 Meck, Nadeshda von, 237, 240-242, 458 Mehring. Franz, 356 Meisling, Simon, 215 Melsheimer, Ernst (procuratore ge­ nerale nella ddr), 288 Melville, Herman, 15, 363 Mendelssohn, Dorothea, v. Schle­ gel, Dorothea von

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Mendelssohn, Moses, 23, 72, 315, 319, 321. 332, 335-336, 341, 359, 378, 398 Mendelssohn-Bartholdy, Felix. 89. 341, 358, 389-390 Mendès-France, Pierre, 437 Ménelik, re di Etiopia, 225 Menzel, Adolph von, 111 Menzel, Wolfgang, 199 Mercadante, Saverio, 390 Mercader, Ramon del Rio, alias Jacques Mornard, alias Frank Jacson (assassino di Trockii), 402-403 Méricourt, Théroigne de, 65 Merimée, Prosper, 98, 99, 122 Merker, Paul, 447 Merle, Jean-Toussaint, 97 Merleau-Ponty, Maurice, 290, 461 Metternich, Klemens W.N.L., prin­ cipe von, 114, 200 Meyer, Herman, 17, 443 Michaelis, Johann David (padre di Karoline Schlegel), 318-320, 376-377 Miljukova, Antonina, v. Cajkovskij, Antonina Miller, Henry. 16, 143, 282 Miller, Jonathan, 351 Millet, Kate, 140, 142, 143, 146. 452 Milton, John, 328 Minder, Robert, 471 Molière (pseud, di Jean Baptiste Poquelin), 19-20. 21, 165, 198, 315 Molotov. V.M., 142 Moltke, Kuno, conte von, 167-168 Mommsen, Theodor, 111 Monroe, Marilyn, 132, 136, 148, 150, 151-152, 285, 435, 452 Monsieur (Filippo i, principe d’Or­ léans), 165, 172 Montaigne, Michel Eyquem, signo­ re di, 6, 7-8. 173, 443 Montesquieu, Charles-Louis de Se­ condât, 22, 23 Montherlant. Henry de, 116. 169

Moravia, Alberto, 260 Morgan, Michèle, 136 Mörike, Eduard. 90 Moritz, conte von Sachsen (detto Marschall von Sachsen), 100, 101 Morlay, Gaby. 136 Mortimer, Roger de. conte von March, 179 Morus, Thomas (pseud, di sir Thomas More), 173 Moscherosch, Johann Michael. 313, 463 Mosse. George L., 371. 466 Mozart, Wolfgang Amadeus, 12, 23, 303 Müller (detto Müller-Franken), Hermann, 401 Müller von Schaffhausen, Johannes, 165, 187, 203 Müller, Wilhelm (traduttore del « Dottor Faust » di Marlowe), 299, 462 Muncker, Franz, 463 Musil, Robert, 114 Musset, Alfred de 73, 98, 207, 381, 385, 450 Mussolini, Benito, 419 Mussorgskij, Modest P., 240

Na’aman, Shlomo, 352, 357, 465 Nadeau, Maurice, 469 Napoleone Bonaparte, 65, 72, 101, 331, 333-334, 341, 343 Napoleone in, 22, 370 Necker, Anne Louise Germaine, v. Staël, Anne Louise Germaine Negri. Pola, 134 Nestory, Johann Nepomuk, 397 Newmarch, Rosa, 458 Nicholas, Edward, 309 Nicola il, zar di Russia, 407 Niebuhr. Garsten, 318 Nietzsche, Friedrich, 33-34, 110. 112, 114, 118, 120, 123. 269, 270, 282, 346, 395. 396, 398, 445 Nightingale, Florence, 88, 97 Nordau, Max, 109 Nouveau, Germain Marie Bernard, 222. 224

Novalis (pseud, di Friedrich Leo­ pold, barone von Hardenberg), 82

Offenbach, Jacques, 239, 342, 359, 397 Olivier, sir Laurence, 351 Oncken, Hermann, 352, 465 Opitz, Martin, 62, 447 Oppenheim (finanzieri di Bonn), 340 Oppenheimer (finanzieri di Vien­ na), 340 Oppenheimer, Joseph, v. Siiss-Oppenheimer, Joseph Orgel, Stephen, 454 Orwell, George, 146 Osterie, Günter, 456 Ostrovskij, Nikolaj A., 58 Ottone ni, imperatore tedesco, 163 Owen, Robert, 116 Pagnini, Cesare, 455 Pailleron, Marie-Louise, 450 Paolo, apostolo, 89, 162 Parvus, v. Helphand. Alexander Israel Pascal, Blaise, 40-42, 46, 59, 445 Pater, Walter Horatio, 247 Pelopida, 159 Peters, Jürgen, 471 Petronio Arbitro, 162 Peyrefitte, Roger, 166 Pfefferkorn, Johannes, 313 Phelps, Linda, 139-140, 452 Phil Andros, 159 Picasso, Pablo, 111, 278, 420 Pickford, Mary. 134 Pinter, Harold, 130-133, 148, 451 Platen-Hallermünde, August, conte von, 17, 165, 167, 168, 187, 188, 192-193, 194-209, 213-214, 240, 286, 351, 382-383, 396, 398, 439, 455 Platone, 6, 18, 144-145, 160-161, 191, 453 Plechanov, Georgi V., 409 Plutarco, 159, 328 Poe. Edgar Allan, 91. 252

485

Senofonte, 160 Shaftesbury, Anthony Ashley Coo­ per, conte di, 90 Shakespeare, William, 7, 12-20, 23, 28, 31, 33, 38-39, 112, 123, 161, 173-174, 176, 179, 180-181, 249, 298-301, 304-308, 309-312, 346, 351-352, 362, 443, 444, 462, 464 Shaw, George Bernard, 36-38, 4448, 51, 53. 55-56, 59, 74, 80, 116, 445, 448 Shelley, Percy Bysshe, 90, 112, 201. 450 Sieburg, Friedrich, 275-276. 460 Simmel, Georg, 397 Simon, Heinrich, 69-70 Slansky. Rudolf, 287 Slovskij, Victor B., 416 Smollett, Tobias George, 372 Socrate, 10. 161, 191, 200, 205 Söderbaum, Kristina, 135 Sodoma, v. Bazzi, Giovanantonio Sofocle, 10, 257 Solanis, Valery, 138, 140, 146 Solzenicyn. Alexander I., 267. 417 Sontag, Susan, 260-261, 459 Sophie, di Hannover, principessa. 34 Sorel, Julien, 90 Spencer, Herbert, 93, 376 Spender, Stephen, 269 Splengler, Oswald, 111, 113, 450 Spenser, il Giovane, 180 Spenser, il Vecchio, 180 Speyer, Wilhelm, 395 Spies, Werner, 151, 452 Spinoza. Baruch de. 92, 113, 144, 389 Staël, Anne Louise, nata Necker (detta Madame de Staël), 34, 65, 72 Stahl, Friedrich Julius, 358 Stalin, Josef V. (pseud, di J.V. Dzuga’svili), 142. 169, 267, 268, 283, 286-287. 289, 291. 401-403, 407-409, 417-418, 420-421. 422. 424, 436, 438-439 Steiner, Max, 396-397 Stendhal (pseud, di Marie-Henri

Beyle), 343 Sterling, Eleonore, 466 Stern, Daniel, v. Agoult, Marie Ca­ therine Sophie, contessa d’ Sterne, Laurence, 185 Stevenson, Robert Louis, 96, 249 Stieler, Caspar, 17 Stirner, Max (pseud, di Caspar Schmidt), 69, 72, 74-75. 448 Stöcker, Adolf, 119 Storm, Theodor, 364 Storz, Gerhard, 327, 463 Strauss, David Friedrich, 72, 92-94. 378 Strauss, Richard. 28 Stravinskij, Igor, 111 Streller, Siegfried, 448 Stresemann, Gustav, 400-401 Strindberg. August, 116, 269-270 Süss-Oppenheimer, Joseph (detto Jud Süss), 23, 329 Sverdlov, Iacov M., 407 Svetonio, Gaio Trantjuillo, 162 Swanson, Gloria, 136 Szöni, Fibor. 287 Tallien, Thérésa, 65 Tatlin, Vladimir J., 416 Teodora, imperatrice dei Bizantini (moglie di Giustiniano), 370 Teofano, imperatrice tedesca (mo­ glie di Ottone n), 163 Tessmann, comandante. 266 T hackeray, William Makepeace. 91. 362, 363. 365, 377 Thalheimer, August, 406 Thomson, David, 90, 449 Thoreau, Henry David, 363 Thorvaldsen, Bertel, 165 Tiberio, Claudio Nerone, impera­ tore romano, 162 Tieck, Dorothea, 19, 444 Tieck, Ludwig, 336 Tirso de Molina, 12-13 Tiziano, 30 Toksvig, Signe, 212, 215. 456 T oller, Ernst, 409 Tolstoj, Lev N.. 34. 37. 69, 239, 363, 409

488

Tomskij, Michail P. (pseud, di Mi­ chail Pavloviè Yefremov), 287, 408 Trebitsch, Arthur, 397 Trebitsch, Siegfried, 45 Trockij, Lev Davidovié (pseud, di L.D. Bronstein), 6, 274, 288-291, 377, 400-424, 468-469 Trockij, Lev Sedov (primo figlio di Lev D. Trockij), 400 Trockij, Natalia Sedova (seconda moglie di Lev D. Trockij), 400, 468 Trockij, Sergej (secondo figlio di Lev D. Troèkij), 400 Turenne, Henri de la Tour d’Au­ vergne, visconte di, 164, 172 Turgenev, Ivan S„ 106 Tynan, Kenneth, 260 Tzara, Tristan. 420 Ueding, Gert, 471 Ul’janov, Aleksandr (fratello di Le­ nin), 404 'Unruh, Fritz von. 410

Valéry, Paul Ambroise, 12 Vandervelde, Émile, 412 Van Gogh, Vincent, 270 Varnhagen von Ense, Rahel, nata Levin, 99. 207. 295 Vasari, Giorgio, 164 Vega Garpio, Lope Félix de, 300 Veit, Dorothea, v. Schlegel, Doro­ thea von Veit. Philipp F„ 328-329, 463 Verlaine, Georges (figlio di Paul Verlaine), 219 Verlaine, Mathilde, nata Mauté (moglie di Paul Verlaine), 219, 221 Verlaine, Paul, 151, 183, 193, 219235, 236, 240. 243-244, 247, 269, 283, 284. 457 Verlaine, Stéphanie, nata Dehée -(madre di Paul Verlaine). 221, 222 Vermatidois. Ludwig von Bourbon,

duca (figlio naturale del re Luigi xiv), 165 Vermeer, Johannes (detto Vermeer van Delft), 155 Vernet, Horace, 464 Verrocchio, Andrea del (pseud, di Andrea di Cione), 164 Vidal, Gore. 261-262 Vigny, Alfred, conte di, 97, 104, 345, 450 Visinskij, Andrej J„ 142, 287 Visnevskij, Vsevold, 36, 56-59, 285, 447 Vittoria, regina di Gran Bretagna, 88-91, 97, 347, 348, 376 Volkov, Esteban (zio di Lev D. Trockij), 468 Voltaire (pseud, di François-Marie Arouet), 22-23, 34, 36, 38-39. 42. 205 Vouth (ss fiammingo), 266 Wacker, Elisabeth, 466 Wagner, Cosima (moglie di Ri­ chard Wagner), -91, 108, 243 Wagner, Gottfried, 471 Wagner, Richard, 33, 70, 75-81, 111, 115, 116, 117-118, 130, 210, 2322,35, 242, 243, 251, 296, 448 Wales, principe di, v. Albert Eduard, principe di Wales Warhol, Andy, 138, 140, 242 Weber, Carl Maria von, 75-76 Wedekind, Frank, 27-28, 31. 90. 115-116, 119-121, 122-125, 129, 130-131. 133, 148, 152-153. 264. 444, 451, 453 Wedekind, Tilly, 129 Weininger. Otto, 33, 86, 109-116, 120. 140-142, 235-236. 396, 397. 399, 445. 450, 452 Weiss, Peter, 420 Welser, Bartholomäus, 341 Werner, Zacharias, 336 Wertheimer (finanzieri a Vienna), 340 West, Mae, 135 Westergaard, Waldemar, 456 Whitman. Walt, 165, 187, 192, 269

489

Wickram, Jörg, 361, 363 Wiechert, Ernst, 364 Wieland, Christoph Martin, 23, 335-336 Wiese, Benno von, 445, 447, 455, 463 Wilde, Oscar, 28, 88, 96-97, 167-168, 191-192, 193, 214, 245-253, 256, 257, 262-263, 269, 272, 276, 281, 344, 350-351, 459 Wilke, Gerhard, 471 Williams, Larry, 471 Williams, Tennessee, 116, 151, 250 Wilson, J. Dover, 87, 449 Winckelmann, Johann Joachim, 23, 165-166, 185-193, 203, 213, 455 Wittkower, Margot, 163-164, 443, 453 Wittkower, Rudolf, 163-164, 443, 453

Wittkowski, Max, v. Harden, Ma­ ximilian Wolf, Friedrich, 447 Wölfel, Kurt, 463 Wolfskehl, Karl, 431 Woolf, Virginia, 93, 97, 449 Wyneken, Gustav, 112, 394 Wysling, Hans, 468

Zdanov, Andrej, 268 Zelter. Karl Friedrich, 21 Zenge, Wilhelmine von, 67 Zewi, Sabbatai, v. Sabbatai Zewi Zimmermann, Elfriede, 471 Zimmermann, Hans-Dieter, 471 Zinov’ev, Grigori (pseud, di Hirsch Apfelbaum), 287, 289. 402. 406, 408, 415 Zipes, Jack D„ 471 Zola. Emile. 239, 363

Indice generale

Premesse: Diversi e illuminismo 1 · Il mostro come caso di emergenza dell’umanità 2 · Diversi internazionali ed esistenziali 3 · Marlowe e Shakespeare 4 · Melanconia e misantropia 5 · Il principio uguaglianza come sfida

5 5 9 13 17 22

GIUDITTA E DALILA

I

II secondo sesso e le sue diverse

27

II

I λ scandalo di Giovanna D’Arco (Schiller-Shaw-Brecht-Visnevskij)

36

III · Giuditta come eroina borghese 1 · La donna armata 2 · L’unico e la sua proprietà: la contessaFaustine 3 · La donna politica: Ortrude e Lohengrin 4 · La bella morte di Hedda Gabler

IV · Forme di vita borghesi come alternative 1 · Morale vittoriana 2 · George Eliot o l’assimilazione 3 · George Sand e lo scandalo

61 61 69 75 80 87 87 91 97

V · Excursus: Otto Weininger, « Sesso e carattere »

109

VI · Dalila come vamp borghese 1 · Lulu e altre femmine diaboliche 2 · Friedrich Dürrenmatt: giovani e vecchie signore 3 · Harold Pinter: « Il ritorno a casa » 4 · Fabbrica di sogni

117 117 127 130 134

VII · La Women’s Liberation e Norman Mailer Vili · La donna e le sue immagini 1 · Excursus: le immagini di Richard Lindner 2 · Pascal Lainé, « La femme et ses images»

138 147 149 152

SODOM \

I · Cronaca degli assassini e degli scandali

159

Christopher Marlowe e re Edoardo π d’Inghilterra

171

IH · La morte di Winckelmann e la scoperta della doppia vita

185

IV · La lite tra Heine e Platen

194

II

V · Alternative nel secolo xix 1 · L’assimilazione: Hans Christian Andersen 2 · Lo scandalo: Verlaine e Rimbaud all’inferno 3 · Ludovico di Baviera e Pëtr Il’ic Cajkovskij VI · Per la tipologia della letteratura omosessuale 1 · Oscar WiÌde, « Il ritratto di Dorian Gray » 2 · André Gide, « I falsari » 3 · Pornografia

VII · Alternative: KlausMann’e Maurice Sachs Vili · Svolta Jean Genet 1 · Sartre e Genet 2 · Genet e Bucharin

210 210 219 232

245 245 252 258 266 277 277 285

SHYLOCK

I · Da Aasvero a Shylock

295

II · L’ebreo di Malta e l’ebreo di Venezia (Marlowe e Shakespeare)

289

III · Nathan il Saggio e il masnadiero Spiegelberg Antinomie dell’emancipazione ebraica in Germania

309 309

IV · Lo Shylock borghese 1 · Rothschild e Heine 2 · Benjamin Disraeli e Ferdinand Lassalle

331 331 347

V · Personaggi ebrei nel romanzo borghese 1 · Parallelismo delle biografie ebree e tedesche 2 · Del buono e del cattivo ebreo 3 · Nel negozio di antiquariato di Charles Dickens 4 · Deronda o la variante sionistica (il romanzo « Daniel Deronda » di George Eliot) 5 · Bloch e Bloom

VI · L’odio di sé dell’ebreo

361 361 366 371 375 380 392

VII · Compagno Shylock Lev Trockij. o rivoluzione e letteratura

400 400

Vili · Odio per gli ebrei dopo Auschwitz

425

Conclusione aperta

435

Note Ringraziamenti Indice analitico

441 471 475

Finito di stampare il 22 maggio 1992 dalla Garzanti Editore s.p.a Milano 67495