I diritti umani e il «proprio» dell’uomo nell’età globale. Diritto etica politica 9788885716223, 9788885716278

Che cosa sono “oggi” – nell’età globale – i diritti umani? Quali le loro implicazioni etico-giuridico-politiche? In che

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I diritti umani e il «proprio» dell’uomo nell’età globale. Diritto etica politica
 9788885716223, 9788885716278

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Introduzione

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1 I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale

Diritto Etica Politica a cura di

Carmine Di Martino

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Anthropos

Collana diretta da: Carmine Di Martino

Comitato scientifico: Étienne Bimbenet, Petar Bojanić, Eugenio Mazzarella, Dominique Pradelle, Caterina Resta, Giusi Strummiello, Davide Tarizzo.

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Anthropos | 1

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G. Bensussan, P. Bojanić, C. Di Martino, R. Fulco, A. Marchente, S. Papparella, F. Polidori, C. Resta, G. Strummiello

I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale Diritto Etica Politica a cura di Carmine Di Martino

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© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Anthropos ISSN: 2533-0985 n. 1 - dicembre 2017 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-22-3 ISBN – E-book: 978-88-85716-27-8 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Hands of a missing kidnapped, abused, hostage, victim © aradaphotography - Fotolia.com

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Introduzione

Che cosa sono “oggi” – nell’età globale – i diritti umani? Quali le loro implicazioni etico-giuridico-politiche? In che senso ad essi si applica l’attributo di “umani”? Si può ancora parlare, in proposito, di un “proprio” dell’uomo, al di là di essenzialismi o naturalismi metafisici? I diritti umani sono universali o particolari? Rappresentano, come taluni sostengono, una lingua franca dello spazio politico internazionale o costituiscono la via obliqua della riaffermazione di vecchie e nuove asimmetrie o esclusioni (individuali, sociali, culturali)? Possiamo rinunciare ai diritti umani o essi possiedono ancora la valenza di un indispensabile strumento critico ed emancipativo? Il volume I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica si propone di affrontare, in una prospettiva filosofica, i problemi sottesi agli interrogativi sollevati, secondo i punti di vista frequentati dagli autori e sviluppati nei diversi saggi. In partenza, l’occasione di riflessione e di dialogo comune è stata fornita dal Convegno svoltosi all’Università Statale di Milano il 25 e 26 marzo del 2015, dal titolo I diritti umani e il “proprio dell’uomo”, il cui obbiettivo era quello di misurarsi con l’urgenza che la questione porta con sé, ma da una particolare angolatura. La discussione in proposito è in-

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fatti assai ampia, sfaccettata e a tratti anche incandescente. Essa si documenta in una mole di ricerche e di studi ormai sterminata e difficilmente dominabile. Inoltre, poiché la complessità del problema esige una attenzione orientata secondo una molteplicità di registri – giuridico, politico, etico, filosofico, per accennare ai più ovvi – non è possibile trovare una trattazione che li comprenda tutti. Ogni tentativo sarà prevalentemente inclinato nell’una o nell’altra direzione, a meno che non si decida di mescolare le prospettive, al prezzo di una minore compattezza e coerenza interna. Quello che il presente volume mette in gioco è un registro schiettamente filosofico. Gli articoli che lo compongono, come è annunciato dal titolo, prendono in considerazione la questione dei diritti umani come ingiunzione a ripensare l’umano. Si tratta, come è chiaro, di una interrogazione difficile, delicata, per molti versi inattuale, che la presenza massiccia dei diritti umani e del lessico umanitario nella attuale scena globalizzata – con tutte le contraddizioni visibili e nascoste che la attraversano – hanno reso però anche necessaria. In che modo poi una tale interrogazione filosofica, che si confronti con una vicenda così pervasiva e in ogni senso decisiva come quella dei diritti umani, possa rovesciarsi in una più chiara consapevolezza di ciò che si gioca nel nostro presente è quello che, a sua volta, dovrà apparire dal concreto percorso dei saggi qui proposti. I diritti umani e il “proprio” dell’uomo nell’età globale. Diritto Etica Politica inaugura inoltre una nuova Collana di testi filosofici, intitolata Anthropos, a testimonianza della specifica urgenza di una domanda. Carmine Di Martino

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Il diritto di essere umani Caterina Resta

Nessun essere umano è illegale1.

1. Vittimismo umanitario Vorrei prendere le mosse da quello che mi sembra il paradosso più eclatante del nostro tempo: a fronte del dominio pervasivo sulla scena pubblica del lessico umanitario (diritti umani, diritto di accoglienza, diritto di ingerenza o intervento umanitario, forme, queste ultime, più politicamente corrette per dire “guerra”), mai come in questi ultimi anni la civilissima Europa sembra così poco incline a rispettare quei diritti che pure costituiscono il patrimonio più prezioso della sua cultura giuridica. L’imponente flusso migratorio che, a causa dell’instabilità politica del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente, si sta riversando sul continente europeo mette a dura prova il diritto dei migranti di cercare altrove scampo alla guerra e a condizioni di vita disumane. Nuove barriere vengono alzate e i confini nazionali risorgono dalle loro ceneri, costringendo questo fiume umano in piena ad aprirsi sempre 1. Slogan della Immigrant Workers’ Freedom Ride.

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diverse vie di fuga, per mare o per terra. Nuovi campi di concentramento improvvisati, nuove indecenti tendopoli sorgono un po’ ovunque, ma soprattutto nei pressi dei nuovi fili spinati, precario riparo per lunghe attese e stazionamenti, in assenza di un chiaro quadro giuridico di riferimento. Piccoli nazionalismi e sciovinismi recitano la loro storica e nefasta parte, soffiando sul fuoco, aizzando le popolazioni locali contro l’invasione dello straniero, innalzando muri della vergogna, nel tentativo di recintare, di arginare, di respingere questi “disperati della terra”, la cui marcia è comunque inarrestabile. Non avendo più nulla da perdere, i migranti osano rischiare l’unica cosa di cui ancora dispongono, la loro vita di animali braccati, nella speranza di una vita migliore, di una vita che sia degna di potersi chiamare umana. Per questo, oggi, i diritti umani, in primo luogo quello dell’ospitalità (già peraltro introdotto da Kant, seppure in forma limitata, nel terzo articolo definitivo di Per la pace perpetua2, nel quadro del suo progetto di diritto cosmopolitico), insieme alla pervicace resistenza che contro di esso oppone il principio di sovranità assoluta degli Stati, nel quale persino gli stati membri dell’Unione europea sembrano trincerarsi, costituiscono il vero banco di prova su cui si decideranno, insieme alle sorti del nostro Continente, anche quelle dell’umanità dell’umano. Ma, prima di affrontare lo scontro epocale in corso tra il principio di sovranità degli Stati e il principio extra-statale dei diritti umani3, è opportuno prendere atto che gli stessi diritti uma2. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant (1795), tr. it. di F. Gonnelli, in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1995. 3. A fronte della sterminata bibliografia disponibile, mi limiterò a rinviare ad alcuni testi utili per ricostruire le tappe fondamentali che hanno segnato la travagliata storia dei diritti umani e dei presupposti filosofici che ne sono

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ni, anche a causa del loro abusato impiego ideologico e della loro frequente strumentalizzazione, oltre che a causa della loro proverbiale inefficacia, sono oggi più che mai l’obiettivo polemico di quanti vedono in essi un pericoloso strumento di de-politicizzazione e di eticizzazione, in grado di neutralizzare qualunque tentativo di soggettivizzazione e di lotta politica. Tra questi, Alain Badiou, anche per il prestigio di cui gode il suo pensiero nel dibattito internazionale, è colui che, forse con maggiore radicalità, ha avanzato le sue critiche nei confronti dell’umanitarismo. Limiterò la mia analisi ad alcuni passaggi di un testo, L’étique. Essai sur la coscience du Mal4, che riflette bene, nella sua violenza verbale, teoretica, etica e politica, quanto incandescente sia divenuto lo scontro su questa materia. Le critiche mosse da Badiou nel suo agile libello, apparso per la prima volta nel 1993, e che nel frattempo hanno fatto scuola – con il sostegno di divulgatori alla moda, non privi di qualche talento pop-filosofico e mediatico, come Slavoj Žižek – sono molto radicali, e per questo vanno prese assolutamente sul serio: esse individuano con esattezza l’obiettivo da colpire e non esitano a centrare il bersaglio. Questa, in sintesi, la tesi: dopo la fine e il fallimento delle grandi ideologie novecentesche (comunismo e nazismo), straordinari laboratori politici della costruzione di una nuova umanità, l’affermarsi incontrastato su scala planetaria dei valori individualistici neoliberali trionfanti comporta fatalmente una progressiva spoliticizzazione ed una conseguente massiccia eticizzazione, veicolata proprio dall’ialla base: A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna 2007; M. Flores, Storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna 2008. Fondamentale, per una generale disamina dei temi e delle questioni che affronteremo, rimane N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1989. 4. A. Badiou, L’etica. Saggio sulla coscienza del Male, tr. it. e cura di C. Pozzana, Cronopio, Napoli 2006.

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deologia “umanitaria” dei diritti umani. Essa disinnesca ogni possibile conflittualità, spostandola dal piano politico a quello etico, e così impedisce ogni possibile processo di soggettivazione politica, in grado di contrastare e rovesciare il predominio dell’ideologia neoliberale tardo-capitalistica e degli attuali rapporti di forza. Non solo, l’eticizzazione della politica, promossa dai diritti umani, comporterebbe, come sua disastrosa conseguenza, il dilagare di un “vittimismo umanitario”, che ratificherebbe, anziché combattere, quell’animalizzazione dell’uomo ridotto dalle biopolitiche neoliberali a “nuda vita”5 e a mero ente biologico, portando così a compimento un processo di assoluta de-soggettivazione, che impedisce alla vittima di divenire soggetto politico di un radicale cambiamento, così come neutralizza sul nascere ogni possibile alternativa. Secondo la sintesi divulgativa offertane da Žižek: «La mera politica antipolitica umanitaria di prevenire semplicemente la sofferenza equivale all’implicita proibizione di elaborare un positivo progetto collettivo di trasformazione socio-politica»6. 5. Questo termine, di uso ormai corrente nel dibattito contemporaneo sulla biopolitica ed assunto in modo particolare da Giorgio Agamben come una delle parole chiavi del suo pensiero, ha un suo preciso riferimento nel saggio del 1921 di W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus novus. Saggi e frammenti, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 26 [das bloße Leben]. 6. S. Žižek, Diritti umani per Odradek?, tr. it. di M. Agostini, in Politica della vergogna, a cura di E. Acotto, Nottetempo, Roma 2009, p. 92 (cfr. anche Id., Contro i diritti umani, tr. it. di D. Cantone, il Saggiatore, Milano 2005, che ne è quasi la riproduzione in forma abbreviata). Più interessante e articolata sembra invece la posizione di Rancière, secondo il quale, benché l’attuale barbarie sia prevalentemente interpretata in senso vittimistico‑umanitario, attraverso la lente del soccorso o, peggio, dell’ingerenza (umanitaria), producendo inevitabili effetti di eticizzazione e di spoliticizzazione, tuttavia «l’opposizione fra la “vita nuda” e l’esistenza politica può diventare essa stessa un fatto politico» (J. Rancière, L’odio per la democrazia, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, p. 73). Si tratterebbe allora di tentare una ripoliticizzazione dell’umanitario, poiché lo scontro avviene

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Il linguaggio pre-politico dei diritti umani servirebbe dunque a veicolare un gigantesco processo di depoliticizzazione e di eticizzazione, che finisce con l’affidarsi alle categorie del Bene e del Male. Questi diritti afferirebbero ad un uomo che, ridotto a “nuda vita”, corrisponderebbe alla figura dell’homo sacer7, insacrificabile e uccidibile, senza che ciò dia seguito a condanna o punizione, di un uomo che, non appartenendo a nessuna comunità ed essendo perciò privo di quella cittadinanza che dovrebbe tutelarlo, è ridotto a non-uomo, dimostrando quanto questi diritti siano inutili. La conclusione è quella della classica critica, già avanzata da Carl Schmitt8 con ben diverso acume: «i “diritti umani” sono, in quanto tali, una falsa universalità ideologica, che nasconde e legittima la reale politica dell’imperialismo occidentale, gli interventi militari e il neocolonialismo»9. Ma torniamo a L’etica di Badiou. Dopo aver denunciato la complicità, e anzi la compatibilità del ricorso ai diritti umani «con l’egoismo compiaciuto dei benestanti occidentali, con il ormai su questo terreno a-topico. Cfr. Id., Il disaccordo. Politica e filosofia, tr. it. di B. Magni, Meltemi, Roma 2007 e Id., Ai bordi del politico, tr. it. di A. Inzerillo, Cronopio, Napoli 2011. Per una ricognizione delle riserve espresse nei confronti dei diritti umani da Žižek e Rancière si rinvia alle puntuali analisi di G. Strummiello, (Pre-)politiche dell’umano. La riduzione all’elementare tra diritti e violenza, “Spaziofilosofico”, 3, 2011. Sul tema cfr. anche Id., Diritti e violenza tra universalizzazione e globalizzazione, “Annuario filosofico”, 28, 2012. 7. Cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. 8. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’ (1932), in Le categorie del ‘politico’, tr. it. di P. Schiera, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972. Per una puntuale messa in questione degli argomenti schmittiani contro la sfera dell’umanitario, l’ipotesi cosmopolitica e il pacifismo giuridico si veda almeno J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, tr. it. e cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 206-215. 9. S. Žižek, Contro i diritti umani, cit., p. 63.

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servizio delle potenze e con la pubblicità»10, Badiou riconduce – riduce – l’attuale enfasi posta sui diritti umani ad un massiccio ritorno delle teorie del diritto naturale, in primis di Kant, le quali consentirebbero di identificare il Male e di utilizzarlo come criterio a contrario del giudizio politico in vista del Bene. Ciò presupporrebbe qualcosa come un Soggetto umano generale, capace di identificare il Male da cui viene colpito, e a partire dal quale si identifica come vittima, mediante una subordinazione della politica all’etica. Da questo punto di vista, i “diritti dell’uomo” sono dei diritti al non-Male; al non essere offesi o maltrattati né nella propria vita (orrore dell’assassinio e dell’esecuzione), né nel proprio corpo (orrore della tortura, delle sevizie e delle carestie), né nella propria identità culturale (orrore dell’umiliazione delle donne, delle minoranze, ecc.). La forza di questa dottrina sta anzitutto nella sua evidenza. Si sa in effetti per esperienza che la sofferenza si vede11.

Tuttavia, nonostante questa plateale evidenza, secondo Badiou, c’è un’evidenza assolutamente più lampante e decisiva, di carattere politico, non meramente etico, rispetto alla quale questi aspetti sarebbero del tutto trascurabili: «Eppure, bisogna sostenere che questo non è niente, che questa “etica” è inconsistente e che la realtà, perfettamente visibile, è lo scatenamento di egoismi, la scomparsa o l’estrema precarietà delle politiche di emancipazione, la moltiplicazione delle violenze “etniche” e l’universalità della concorrenza selvaggia»12. Come d’altra parte negarlo? La questione dirimente, tuttavia, è che, secondo Badiou, l’ottica umanitaria dei diritti umani, con il suo approccio esclusivamente etico, sarebbe costituti-

10. A. Badiou, L’etica, cit., p. 14. 11. Ivi, p. 16. 12. Ivi, pp. 16-17.

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vamente incapace di rispondere politicamente a questa disastrosa situazione, dal momento che quello che Badiou chiama il presupposto ‘etico’ dei diritti umani – non volendo riconoscere ad essi neppure l’ombra di uno statuto giuridico13 – consisterebbe in una certa definizione, che ha pretesa universale, dell’uomo in quanto «è ciò che è capace di riconoscere se stesso come vittima»14. Proprio questo concetto universale dell’uomo-vittima è quanto Badiou trova inaccettabile, soprattutto perché «lo stato di vittima, di bestia sofferente, di scheletrico morente, assimila l’uomo alla sua struttura animale, alla sua pura e semplice identità di vivente»15; insomma, per il suo carattere, che potremmo definire “biopolitico”, lo statuto di vittima inchioderebbe l’uomo alla sua nuda vita biologica, impedendogli ogni possibile soggettivazione. Ma sarà necessario citare per intero alcuni significativi passaggi del testo di Badiou, per cogliere sino in fondo non solo le sue sconcertanti argomentazioni, ma soprattutto l’esito cui esse danno luogo: In quanto carnefice, l’uomo è un’abiezione animale, ma bisogna avere il coraggio di dire che, anche in quanto vittima, non vale in generale niente di più. […] Se i carnefici e i burocrati delle galere e dei campi di concentramento […] possono trattare le loro vittime come animali destinati al macello, è perché le vittime sono realmente diventate animali di tal fatta. È stato fatto quel che si doveva per questo scopo. Eppure, che

13. Se va senz’altro riconosciuta una tendenza all’eticizzazione dei diritti umani, promossa soprattutto dall’ideologia neo-liberale, è tuttavia fuorviante non tener in nessun conto la loro valenza giuridica. Tenta di dissipare questa ricorrente confusione tra aspetto morale e giuridico o, peggio, la cancellazione dell’uno a esclusivo vantaggio dell’altro, Habermas: «I diritti dell’uomo hanno il volto ancipite di Giano, simultaneamente rivolto alla morale e al diritto. A prescindere dal loro contenuto morale essi hanno la forma di diritti giuridici» (J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., p. 221). 14. A. Badiou, L’etica, cit., p. 17. 15. Ibidem.

18 alcuni siano ancora degli uomini, e ne testimonino, è un fatto accertato. Ma appunto, ciò avviene sempre per uno sforzo inaudito […] che rompe con l’identità della vittima. Qui sta l’Uomo, se ci si tiene a pensarlo […]. Ciò che fa di lui una bestia ben più resistente dei cavalli non è il suo corpo fragile, ma la sua ostinazione a restare ciò che egli è, cioè, precisamente, qualcos’altro che una vittima, qualcos’altro che un essere-per-la morte, e dunque: qualcos’altro che un mortale. Un immortale: ecco ciò che è l’Uomo. […] Per pensare qualsiasi cosa riguardante l’Uomo, è da qui che bisogna partire. In modo che se esistono dei “diritti dell’uomo”, questi non sono certamente dei diritti della vita contro la morte, o dei diritti di sopravvivenza contro la miseria. Sono i diritti dell’Immortale, che si affermano da soli, o i diritti dell’Infinito che esercitano la loro sovranità sulla contingenza della sofferenza e della morte16.

Ogni uomo, secondo Badiou, sarebbe dunque chiamato a testimoniare non della sua ‘vulnerabilità’, che attiene alla sua capacità di patire, di soffrire, e dunque alla sua costitutiva esposizione alla morte; non di questa assoluta fragilità, che lo fa in ogni momento “tremare”, sbrigativamente e con spregio ricondotta alla sua mera “animalità”, l’uomo dovrebbe testimoniare, ma precisamente di ciò di cui, fino a prova contraria, davvero non può testimoniare, di un’immortalità conquistata mediante l’eroismo di una soggettivazione, che gli consente di superare i limiti della sua finitezza, purché si affidi all’evento di una verità di cui farsi strenuo e fedele promotore. Solo rispondendo alla sua vocazione all’Immortale e all’Infinito di una verità, l’uomo può sfuggire a quell’animalità di semplice vivente che assegna alla vittima il suo meritato disprezzo. Solo «nell’istante in cui egli afferma ciò che egli è all’inverso di quel voler-essere-un-animale al quale la circostanza lo espone»17, 16. Ivi, pp. 17-18. 17. Ivi, p. 19.

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l’Uomo perviene alla sua identità come Immortale: «la soggettivazione è immortale, e fa l’Uomo. All’infuori di ciò non esiste che una specie biologica, un “bipede senza piume” il cui fascino non è evidente»18. I diritti dell’Immortale e dell’Infinito, i diritti dell’Ideale e di una verità per cui battersi con sprezzo della morte sono gli unici diritti di colui che soltanto può fregiarsi del nome di Uomo. Invece di condannare i processi di violenta desoggettivazione e disumanizzazione che inchiodano19 e costringono senza scampo l’uomo, nella figura della vittima, alla sua mera falda biologica, Badiou parla di un “voler-essere-un-animale”, presupponendo che, essendovi sempre una possibilità di scelta, si tratterebbe quasi di una volontà di porsi nella posizione della vittima, cioè di quell’uomo non più uomo, che, ormai privo di alcun fascino, con un certo sarcasmo, definisce «bipede implume». Se dunque le vittime sono vittime è a causa innanzitutto del loro “vittimismo”, della loro mancanza di coraggio e dell’incapacità di trasformare il loro subire in un progetto politico di soggettivazione e di riscatto, dell’incapacità di diventare militanti fedeli di una verità. Perciò hanno, in fondo, quello che si meritano… Di che cosa si lamentano, dunque?

2. Se questo è un uomo: il Musulmano Prendendo le mosse dal Muselmann, la figura-limite dei campi di sterminio nazisti, che rappresenta «la mobile soglia in cui

18. Ibidem. 19. È stato Lévinas a parlare di un être rivé a proposito di quel biologismo nazista, nella cui prospettiva l’uomo è fatalmente “inchiodato”, assegnato alla propria datità corporea (cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, tr. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1996).

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l’uomo trapassava in non-uomo»20, Giorgio Agamben ha mostrato come l’umano contempli anche «l’inumana capacità di sopravvivere all’uomo»21 e come solo a partire dal non-uomo sia possibile comprendere pienamente la sua umanità: «il luogo dell’umano è scisso, perché l’uomo ha luogo nella frattura fra il vivente e il parlante, fra il non-umano e l’umano»22. Per questo non si può parlare di un ‘proprio’ dell’uomo: «non vi è un’essenza umana […]. L’uomo è, cioè, sempre al di qua o al di là dell’umano, è la soglia centrale attraverso la quale transitano incessantemente le correnti dell’umano e dell’inumano, della soggettivazione e della desoggettivazione»23. L’umanità dell’umano si rivela dunque, in ultima istanza, “impropria” e perciò anche inappropriabile; ma dobbiamo chiederci: come pensare il rapporto tra uomo e non-uomo che costituisce l’umano? Sembra quasi, dalle parole di Agamben, che quel non‑uomo, quella nuda vita biologica in cui l’uomo può sprofondare, oltre ad essere una possibilità negativa sempre incombente, possa anche rappresentare una possibilità positiva dell’umano, anzi la sola possibilità dell’“autenticamente” umano (il ‘proprio’ inappropriabile dell’uomo?), attraverso un’inversione che ne rovescia il segno e la prospettiva, come emerge, ad esempio, in un passaggio conclusivo di Homo sacer, particolarmente illuminante (pur nella sua oscurità): Occorrerà, piuttosto, fare dello stesso corpo biopolitico, della nuda vita stessa il luogo in cui si costituisce e s’insedia una forma di vita tutta versata nella nuda vita, un bios che è solo la sua zoé. […] Ma in che modo un bios può essere solo la sua zoé, come può una forma di vita afferrare quell’haplos

20. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 42. 21. Ivi, p. 124. 22. Ivi, p. 125. 23. Ivi, p.126.

21 che costituisce insieme il compito e l’enigma della metafisica occidentale? Se chiamiamo forma-di-vita questo essere che è solo la sua nuda esistenza, questa vita che è la sua forma e resta inseparabile da essa, allora vedremo aprirsi un campo di ricerca che giace al di là di quello definito dall’intersezione di politica e filosofia, scienze medico-biologiche e giurisprudenza24.

La nuda vita, ossia la semplice vita zoologica dell’uomo, quando riesca a sottrarsi alle maglie del potere sovrano, sempre thanatopolitico, potrebbe allora rivelarsi come di per sé già dotata di forma, un bios che non è nient’altro che zoé, al di là della scissione, della separazione e dell’opposizione tra vita e forma. Questa vita perfettamente aderente alla sua propria forma sarebbe anzi la forma di vita la più confacente all’umanità dell’umano, in grado di aprire ad una biopolitica “positiva”, che Agamben preferisce chiamare, deleuzianamente, “minore”. Si tratterà allora di pensare ad una paradossale forma di “soggettività”, che, proprio a partire dalla figura del Musulmano, Agamben individua nel superstite, nel Testimone, chiamato a testimoniare l’intestimoniabile. Egli sarebbe il paradossale soggetto della propria desoggettivazione. In un’intervista, ritornando sulla figura del testimone, così centrale in Quel che resta di Auschwitz, Agamben ha osservato: Ho cercato in parte nel libro su Auschwitz, a proposito della testimonianza, di vedere il testimone come il modello di una soggettività che non sarebbe altro che il soggetto della propria desoggettivazione. Il testimone non testimonia nient’altro se non la sua stessa desoggettivazione. Lo scampato testimonia soltanto per i Musulmani. Ciò che mi interessava nell’ultima parte di questo libro, era identificare un modello di soggetto come ciò che resta tra una soggettivazione e una desoggettivazione, una parola e un mutismo. […] La desog-

24. G. Agamben, Homo sacer, cit., pp. 210-211.

22 gettivazione non ha soltanto un aspetto cupo, oscuro. Non è semplicemente la distruzione di qualsiasi soggettività. C’è anche quest’altro polo, più fecondo e poetico, dove il soggetto non è che il soggetto della sua propria desoggettivazione25.

Oltre a quella della testimonianza (dell’intestimoniabile), Agamben menziona anche altre «zone di desoggettivazione», caratterizzate da un non sapere, da una non conoscenza, come la vita sessuale o qualunque aspetto della vita del corpo: «lì ci sono sempre immagini dove un soggetto assiste al suo sfacelo, costeggia la sua desoggettivazione»26. È tuttavia soprattutto in un’opera dalla chiara impronta rilkiana, annunciata già nel suo titolo, L’aperto, che, in una prospettiva messianica di “redenzione”, e soprattutto in dialogo con Kojève, Heidegger e Benjamin, Agamben individua il suo preciso bersaglio nella «macchina antropologica» che lavora a dividere, nell’uomo, umanità e animalità: «il conflitto politico decisivo, che governa ogni altro conflitto, è, nella nostra cultura, quello fra l’animalità e l’umanità dell’uomo. La politica occidentale è, cioè, cooriginariamente biopolitica»27. In questo caso l’immagine più pregnante di una vita riconciliata con la sua forma è data, cogliendo una suggestione di Benjamin, dall’appagamento sessuale e dal godimento che si sprigiona nell’abbandono dei corpi degli amanti. Essi, paghi di voluttà, transitano in «una vita nuova e più beata, né animale né umana. […] Nell’appagamento, gli amanti, che hanno perduto il loro mistero, contemplano una 25. G. Agamben, Una biopolitica minore, intervista di S. Grelet e M. PotteBonneville, in AA. VV., Biopolitica minore, a cura di P. Perticari, manifesto libri, Roma 2003, pp. 194 e 203-204. 26. Ivi, p. 195. 27. G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 82. Su questo testo, con particolare riferimento a Heidegger e Rilke, si veda S. Gorgone, La nuda vita. Dall’ermeneutica heideggeriana della vita alla biopolitica, in AA. VV., La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, a cura di P. Amato, Mimesis, Milano 2004.

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natura umana resa perfettamente inoperosa – l’inoperosità e il desœuvrement dell’umano e dell’animale come figura suprema e insalvabile della vita»28. Si tratterà allora di disattivare questa macchina antropologica, di renderla “inoperosa” e di arrischiarsi in quel vuoto che, nell’uomo, separa uomo e animale: «sospensione della sospensione, shabbat tanto dell’animale che dell’uomo»29. Sorge allora il dubbio che questo «soggetto della propria desoggettivazione», il quale, in una prospettiva estetico-erotica, si limita a contemplare, pago del suo non-sapere, il proprio disfacimento, più che “rispondere” al disastro del presente, vi corrisponda e aderisca interamente, accentuandone, se possibile, un’irresponsabile piega narcisistica e nichilistica. Il fatto che questa “beatitudine” rasenti lo stordimento dell’animale [Benommenheit]30, più che preludere ad un “regno messianico” nel quale animalità e umanità potranno perfettamente riconciliarsi, rivela la desolante distanza che ci separa da esso e lascia inspiegato perché coloro che siederanno al banchetto messianico nell’ultimo giorno sono chiamati “giusti”. È dunque necessario intendersi su quel non‑uomo che è anche l’uomo, ossia sul dis‑umano come estrema e disastrosa possibilità dell’umano – una possibilità che attiene ancora all’umano, ma che lo spinge fino al limite della sua rovina, senza, a nostro avviso, che da essa si possa trarre alcuna risorsa “positiva”. Che questa dimensione disumana dell’umano sia solitamente negata e rimossa nel concetto di un “soggetto” dei

28. G. Agamben, L’aperto, cit., pp. 89-90. 29. Ivi, p. 94. 30. Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della meta­fi­si­ca. Mondo - finitezza - solitudine, tr. it. di P. Co­riando, a cura di C. Angelino, il melan­go­lo, Genova 1992.

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diritti e persino in quello di ‘persona’31, pesantemente tributari del razionalismo moderno, tuttavia non è motivo sufficiente per stigmatizzare il ricorso alla sfera dei diritti umani. È nel segno, invece, di un drastico rifiuto nei confronti di ogni forma giuridica che Agamben conduce la sua ricostruzione genealogica del concetto etico-giuridico di ‘dignità’, così centrale nel pensiero di Kant32 e così decisivo nella genesi dei diritti dell’uomo. Se nei campi di sterminio si è potuto sperimentare «che si possono perdere dignità e decenza al di là di ogni immaginazione, che ci sia vita nella degradazione più estrema»33, questa “perdita”, tuttavia, è tale solo, forse, per chi la subisce e certamente per chi infligge le peggiori e più degradanti violenze alla sua vittima, considerandola, appunto, non‑uomo, fino a negarle la stessa appartenenza al genere umano. Proprio perché, a partire da un certo momento della storia dell’umanità, si è cominciato a ritenere che l’umanità dell’umano abbia 31. Il concetto di ‘persona’, oggi sottoposto, non senza ragione, ad una radicale decostruzione (cfr. soprattutto R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007 e Id., Le persone e le cose, Einaudi, Torino 2014), più che essere abbandonato, a favore di un “impersonale” e pre-individuale dagli inquietanti esiti vitalistici, andrebbe piuttosto ripensato nella prospettiva di una decostruzione – più che di una “distruzione” – del soggetto, al fine di comprendere in esso anche quegli aspetti dell’umanità dell’umano che appaiono più in-umani, ma non per questo non‑umani, in quanto non corrispondenti al profilo di una soggettività intesa ancora, secondo il paradigma teologico-politico, abbastanza costante in tutta la modernità, della sovranità, come autodeterminazione di una volontà libera e cosciente, autonoma e padrona di sé, a partire dall’autoposizione di sé. 32. Cfr. in particolare I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. e cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1994, pp. 157-159 e Id., Metafisica dei costumi, tr. it. e cura di N. Merker, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 333-334. A fronte della vastissima bibliografia in proposito, per una prima ricognizione si rinvia a F. Viola, Dignità umana, in Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano 2006, vol. III, pp. 2863-2865. 33. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 63.

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un valore intrinseco assoluto, inestimabile e incommensurabile, al di là di ogni calcolo o prezzo, la “dignità” è stata assunta come una veste etico-giuridica che attiene a ogni uomo, considerato nella sua umanità come “persona”, e per questo essa è inalienabile. Se, come esemplarmente l’esperienza dei campi di sterminio ha mostrato, l’umanità dell’umano include anche l’estrema possibilità del non‑umano e del disumano, la “dignità” riconosciuta ad ogni uomo comporta l’idea che la sua “nuda vita” non sia mai a tal punto “nuda” da poter essere trattata come mera vita zoologica, non è mai così disumana da diventare non‑umana, fino a spogliare interamente l’uomo-nonuomo di qualunque umanità. Piuttosto che pensarla dall’alto («dignitas – ricorda Agamben – indica fin dall’inizio anche l’aspetto fisico adeguato a una condizione elevata»34), la dignità andrebbe pensata a partire dalla soglia più bassa dell’umano, a partire dalle vittime, ossia a partire da coloro che sembrano averla irrimediabilmente perduta: a partire dal “musulmano”, il morto vivente dei campi di sterminio. È dal basso, non dall’alto, che la dignità rivela come l’umanità dell’umano vada riconosciuta e rispettata anche e soprattutto là dove essa sembra totalmente assente35. La dignità è indisponibile e intangibile, e perciò sfugge costitutivamente a qualunque potere, anche il più violento, crudele e totalitario. Anche a quel potere biopolitico, come il nazismo, che programmaticamente si era dato l’obiettivo di distruggerla e che intorno ad esso aveva costruito la propria ideologia razzista. Se non pensassimo questo, se così non fosse, saremmo costretti ad affermare che 34. Ivi, p. 61. 35. È quanto sostiene, ad esempio, Gabriel Marcel, secondo il quale potremo giungere a pensare il carattere misterioso della dignità umana solo «quando faremo riferimento all’essere umano considerato nella sua nudità e nella sua debolezza, all’essere umano disarmato, così come lo incontriamo nel bambino, nell’anziano, o nel povero» (G. Marcel, La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier-Montaigne, Paris 1964, p. 168).

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ad Auschwitz non sono morti “uomini”, ma solo non‑uomini, bestie da macello. Se davvero la dignità intrinseca all’essere uomo potesse non solo essere calpestata, ma anche strappata via di dosso, allora l’esperimento nazista sarebbe perfettamente riuscito. Ciò che lì è accaduto rivela piuttosto quello che Derrida ha chiamato «il limite abissale dell’umano: l’inumano o l’anumano»36 e la sconcertante scoperta del «proprio dell’uomo, il cui proprio è proprio quello di non avere un proprio»37. Riconoscere questo limite abissale, impossibile da tracciare con una linea netta di demarcazione, è necessario per comprendere lo statuto indefinibile dell’umano e i rischi cui è costitutivamente esposto, così come i precipizi da cui può, ad ogni passo, essere inghiottito; varcarlo significa sprofondare in un baratro senza fine, senza fondo e senza scampo, che in alcun modo può essere rovesciato in una risorsa o preludere ad una possibile apertura ad un’altra umanità, “beata” nella e della propria mera vita biologica. Come ha scritto Maurice Blanchot, commentando la sconvolgente testimonianza di Robert Antelme, consegnata nelle pagine di L’espèce humaine, «l’uomo è l’indistruttibile che può essere distrutto […]. L’uomo è l’indistruttibile, e ciò significa che non c’è limite alla distruzione dell’uomo»38. Lungi dall’essere Immortale, l’umanità dell’umano è vulnerabilità esposta, corpo offerto alla ferita, insostenibile capacità di patire, di soffrire oltre ogni umana, eppure ancora sempre umana, misura. Infinita non è la soggettivazione che caratterizzerebbe l’uma-

36. J. Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 49. 37. Ivi, p. 58. 38. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, tr. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 183.

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nità dell’umano, ma la passività inassumibile, senza limite e misura, della sua possibilità di resa, del suo poter soccombere, del toccare il fondo. È da qui, da questo baratro in cui giacciono ‘i sommersi’, come li ha chiamati Primo Levi, che bisogna partire per comprendere l’estremo limite dell’umanità dell’umano, il disastro cui può andare incontro, per riaffermare l’inalienabile dignità di ogni esistenza, anche la più soccombente, e la necessità dei diritti umani, il senso della loro invenzione giuridica, il ruolo politico, e non soltanto etico, che essi sono chiamati a svolgere.

3. I diritti umani e il tramonto dello Stato-nazione Ne Le origini del totalitarismo, il cui manoscritto fu terminato nel 1949, un anno dopo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel celebre capitolo su Il tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani, Hannah Arendt denunciava l’assoluta inutilità dei Diritti umani, fino a condannarli come inservibili e inutili, svolgendo la sua penetrante analisi del periodo tra le due guerre, caratterizzato dall’affollarsi e rimescolarsi di profughi, apatridi e apolidi di vario genere, a causa delle riconfigurazioni territoriali assunte dai nuovi Stati nazionali, dopo il crollo della Russia zarista, dell’Impero austro-ungarico e, successivamente, di quello Ottomano, a seguito della Prima guerra mondiale. Con straordinaria acutezza Arendt descrive la singolare posizione di quegli uomini rimasti come sospesi e imprigionati in un limbo, che si trasformò in un vero e proprio inferno: privati di qualunque cittadinanza, avendo smarrito quella precedente, e non trovando alcuno stato disposto a concederne un’altra, questa massa di apolidi si ritrovò «ad essere senza alcun

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diritto, la schiuma della terra»39. Ridotti all’«astratta nudità dell’essere-nient’altro-che-uomo»40, i profughi furono costretti a vivere privati non solo di ogni diritto civile e politico, ma anche di quei diritti umani fondamentali che proprio in casi come questo sarebbero dovuti giungere in loro soccorso, perché nessuno Stato era disposto a garantirli. Osserva Arendt – e le sue parole sorprendono per la loro straordinaria attualità: D’improvviso non c’è più stato nessun luogo della terra dove gli emigranti potessero andare senza le restrizioni più severe, nessun paese dove potessero essere assimilati, nessun territorio dove potessero fondare una propria comunità. […] Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si trovava altresì escluso dall’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità41.

Quei diritti, predicati come inalienabili e inviolabili, come non derivanti da altre norme se non dalla stessa dignità di ciascun essere umano, alla prova dei fatti bastò solo lo spostamento di alcuni confini a cancellarli. Ciò rivela, agli occhi di Arendt, la loro inguaribile astrattezza42. In realtà, gli «eterni diritti umani, di per sé indipendenti dalla cittadinanza e dalla nazionalità […] si sono rivelati inapplicabili, persino nei paesi che basavano su di essi la loro costituzione, ogni qual volta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di nessuno stato sovrano»43. Risulta allora evidente, agli occhi di Arendt, come 39. H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Le origini del totalitarismo (1951), tr. it. di A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1996, p. 372. 40. Ivi, p. 415. 41. Ivi, pp. 406-407. 42. Ivi, pp. 403-404. 43. Ivi, p. 406.

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la loro validità e la loro tutela riguardi solo il cittadino, ossia chi già risiede nel territorio di uno Stato-nazione, perché nulla riescono a garantire all’uomo in quanto tale – colui che ne dovrebbe essere il portatore e per il quale erano stati pensati. Colui che viene escluso dalla cittadinanza, che si ritrova ad essere solo uomo e non anche cittadino, è destinato così a rimanere “nuda vita”, condannato ad una condizione in‑umana perché in-civile, privato di ogni diritto, in primo luogo quello di avere diritti: «Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti […] solo quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso e non potevano riacquistarlo a causa della nuova organizzazione globale del mondo»44. Ridotto ad una condizione di vita puramente biologica, ad animale randagio, intrappolato ben presto nei primi campi profughi che, allora come adesso, cominciavano a sorgere nel cuore dell’Europa, con la perdita della cittadinanza l’apolide perdeva anche il diritto di essere umano: per lui «la perdita della patria e dello status politico poteva identificarsi con l’espulsione dall’umanità stessa»45. Ciò significa che «soltanto la perdita di una comunità politica lo esclude dalla umanità»46. Di qui la sconfortata constatazione di Arendt: «Il termine “diritti umani” divenne per tutti, nei paesi totalitari e democratici, per le vittime, i persecutori e gli spettatori indifferentemente, sinonimo d’idealismo ipocrita o ingenuo»47. La cittadinanza si rivela dunque un’arma micidiale nelle mani del potere sovrano statale-nazionale-territoriale, perché esso è in grado non solo di determinare e delimitare i propri confini spaziali rispetto all’esterno, ma anche di stabilire, all’interno

44. Ivi, pp. 410-411. 45. Ivi, p. 411. 46. Ivi, p. 412. 47. Ivi, p. 375.

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di essi, nuovi spazi di esclusione, di confinamento e di reclusione, oltre che – ed è la cosa più importante – diverse gradazioni di umanità a partire da diverse forme di protezione. Dalle analisi di Arendt risulta allora evidente come proprio la logica di quella congiunzione, celebrata nella Dichiarazione francese dell’’89, dell’uomo e del cittadino, ancorando di fatto la cittadinanza alla sovranità territoriale di uno Stato e identificando l’uomo nel cittadino di uno Stato sovrano, così come è in grado di assicurargli protezione e tutela, al tempo stesso – e per le più svariate ragioni – è anche in grado, con la revoca della cittadinanza, di sottrargli anche l’umanità che, a questo punto, non riesce più trovare da nessuna parte protezione e tutela. Il processo di vittimizzazione tocca qui il suo limite: da cittadino a uomo, da uomo a non uomo, da non uomo ad animale, da animale a cosa. Come ricorda Arendt, le Leggi di Norimberga istituirono una differenza netta, all’interno della cittadinanza, tra due diverse classi, lasciando già intravedere il futuro. Arendt giustamente sottolinea il fatto che, prima di inviarli alle camere a gas, il regime nazista fu molto scrupoloso nel togliere progressivamente agli ebrei ogni forma di diritto civile. Sicché, alla fine, coloro che venivano trasportati nei campi di sterminio erano già diventati – dal punto di vista giuridico – qualcosa di simile ad animali infetti da macellare. Infine, dopo averli, da vivi, ridotti a nuda vita zoologica da sterminare, da morti gli Ebrei, per i loro aguzzini, erano ormai solo “pupazzi”, Figuren. La congiunzione tra l’uomo e il cittadino manifesta così il suo fatale paradosso, a causa del quale, agli occhi non solo di Arendt, l’inalienabilità dei diritti umani si è rivelata una favola: totalmente in balia della decisione sovrana, gli uomini non sopravvivono alla perdita della cittadinanza, poiché non trovano alcuna garanzia al di fuori di essa, rivelando che questi diritti non hanno nessuna forza normativa cogente di per se stessi. Piuttosto che radicarli in una presunta “natura uma-

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na” e nella “dignità”, che dovrebbe inerire con immediatezza a ogni uomo, è preferibile, dunque, secondo Arendt, radicare l’uomo in una salda comunità politica, in grado di assicurare il solo diritto fondamentale che conti, il «diritto ad avere diritti», quello della cittadinanza48, unica garanzia di poter far parte dell’umanità. Questa comunità politica, tuttavia, non può identificarsi con l’intera umanità, come vagheggiato dalle prospettive cosmopolitiche di ispirazione kantiana, rispetto alle quali Arendt esprime tutte le proprie riserve, allarmata dalla «creazione di un “governo mondiale”, che rientra sì nel novero delle possibi48. È questo, a nostro avviso, anche il limite della posizione di Balibar (É. Balibar, Cittadinanza, tr. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2012 e Id., Is a Philosophy of Human Civic Rights Possible? New Reflections on Equaliberty, “South Atlantic Quarterly”, 103, 2004). Si sofferma sulla posizione di Balibar rispetto ai diritti umani G. Strummiello, (Pre-)politiche dell’umano. La riduzione all’elementare tra diritti e violenza, cit. Decisamente più critica la posizione di Agamben, il quale, prendendo le mosse dalle pagine arendtiane de Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, ha evidenziato come l’autrice, pur mettendo a tema il nesso tra i diritti dell’uomo e lo Stato-nazione, lasci poi “impregiudicata” questa relazione. La reale funzione storica dei diritti umani sarebbe stata quella di inaugurare la biopolitica moderna attraverso «l’iscrizione della vita naturale nell’ordine giuridico-politico dello Stato-nazione» (G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 140). Nella crescente divaricazione tra diritti dell’uomo e diritti del cittadino, occorrerebbe, secondo Agamben, riconoscere nella figura del rifugiato colui che scardina definitivamente questo nesso, «in vista di una politica in cui la nuda vita non sia più separata ed eccepita nell’ordinamento statuale, nemmeno attraverso la figura dei diritti umani» (ivi, pp. 148-149). Se è vero che «solo in una terra in cui gli spazi degli Stati saranno stati in questo modo traforati e topologicamente deformati e in cui il cittadino avrà saputo riconoscere il rifugiato che egli stesso è, è pensabile oggi la sopravvivenza politica degli uomini» (G. Agamben, Al di là dei diritti dell’uomo, in Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 29), ci chiediamo, tuttavia, come ciò possa accadere al di fuori di una cornice giuridica cosmopolitica, incentrata proprio sul rispetto di quei diritti umani fondamentali dei quali Agamben ritiene, invece, ci si debba sbarazzare.

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lità, ma potrebbe in realtà differire notevolmente dalla versione patrocinata dalle associazioni idealistiche»49, concludendo che comunque «una sfera al di sopra delle nazioni per il momento non esiste»50. La diffidenza di Arendt nei confronti delle istituzioni internazionali che, proprio in quegli anni, stavano sorgendo, mostra tutta la sua riluttanza ad abbandonare il principio cardine della “topolitica”51 e della sovranità moderne, la «vecchia trinità stato-popolo-territorio»52. Lungi dal riconoscere in questa nuova configurazione giuridica di impronta cosmopolitica – preludio, anche, di possibili futuri assetti di un nuovo ordine mondiale – l’unico inedito principio da cui soltanto può scaturire protezione e garanzia per i diritti umani fondamentali, in Arendt prevale piuttosto il timore – già, peraltro, manifestato da Kant53 e del tutto condivisibile – che esso possa accrescere 49. H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 413. 50. Ibidem. 51. Con il termine “topolitica” Derrida intende sottolineare il nesso inscindibile che lega, nella forma della statualità moderna, spazio e politica, nel senso di una «sovranità legata al dominio di un territorio» (J. Derrida - B. Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it. di L. Chiesa e G. Piana, Cortina, Milano 1997, p. 87). Per lo sviluppo delle questioni legate a questo aspetto mi permetto di rinviare a C. Resta, Una cosmopolitica a-venire, in La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. Cfr. anche C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Angeli, Milano 2001 (cap. V: La politica e l’indecostruibile). 52. H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 391. 53. Particolarmente significativa, per le analisi che stiamo svolgendo, è la ripresa del cosmopolitismo kantiano da parte di Habermas, anche in rapporto alla tematica dei diritti umani: J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit.; Id., La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, tr. it. e cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano 1999 e Id., L’Occidente diviso, tr. it. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005. Rispetto ai rischi di un Weltstaat

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a dismisura la minaccia totalitaria. Di qui l’amara conclusione: «Il mondo non ha trovato nulla di sacro nell’astratta nudità dell’essere-uomo»54, che suona inquietantemente assolutoria: «un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile»55. Fuori dalla sfera politica, gli uomini sono consegnati alla loro mera condizione naturale, in base alla quale «appartengono alla razza umana allo stesso modo che degli animali a una determinata specie animale»56. Proprio questa condizione, che lo estranea dal mondo, costituisce quasi «un invito all’omicidio»57; senza più alcuna protezione, egli è come messo al bando, fuori-legge e la sua uccisione non potrà incorrere in alcuna punizione: homo sacer. Anche Arendt, come Badiou, seppure a partire da diversi presupposti, ritiene evidentemente che, fuori dalla sfera politica propriamente detta, per l’uomo non vi sia altro che una vita zoologica, la quale lo espone al macello, anzi, in un certo senso, lo “provoca” e lo autorizza. Ma come scongiurare che proprio il potere politico possa revocare del tutto legittimamente e legalmente, in qualunque

accentratore, omologante e dispotico, secondo Habermas bisognerebbe piuttosto declinare il cosmopolitismo nei termini di una democrazia postnazionale: «I progetti di una ‘democrazia cosmopolitica’ devono orientarsi a un modello diverso» (J. Habermas, La costellazione postnazionale, cit., p. 96) rispetto a quello dello “Stato mondiale” cosmopolitico, in direzione di una «‘politica interna mondiale’ anche senza un governo del mondo» (ivi, p. 98). Si veda, su questi temi, F. Cattaneo, L’idea di repubblica da Kant a Habermas, Giappichelli, Torino 2013. 54. H. Arendt, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, cit., p. 415. 55. Ivi, p. 416. 56. Ivi, p. 418. 57. Ibidem.

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momento, quel diritto di cittadinanza posto a garanzia anche di tutti gli altri diritti fondamentali? Non accadde precisamente questo ai cittadini ebrei della Repubblica di Weimar – tra cui anche Hannah Arendt – trasformatasi in Terzo Reich senza neppure il bisogno di promulgare una nuova Costituzione?58.

4. Il diritto dei più deboli La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 segna un punto di svolta, anzi una rottura epocale nella storia dei diritti umani. Essa reca impressa, in maniera indelebile, quasi inscritta nel suo corpus di articoli, la ferita arrecata alla dignità dell’uomo nei campi di sterminio. Rappresenta il primo coraggioso tentativo di provare a dare una risposta non solo morale, ma giuridica, alla domanda posta da Auschwitz circa il ‘proprio’ dell’uomo, una risposta che tenta di restituire alle vittime quella dignità che nel campo, con inaudita ferocia, era stata strappata loro, nell’errato convincimento che essa potesse davvero mai andare perduta. Affinché nessuno osi più dire che nei campi sono stati uccisi milioni di bestie da macello, ma uomini ridotti dalla furia bestiale di altri uomini a non-uomini. Affinché mai più ciò possa accadere, senza che 58. Come ha osservato Benhabib, «uno degli aspetti più controversi del pensiero politico arendtiano risiede nel fatto che, pur criticando la debolezza del sistema degli stati nazionali, Arendt si mostrava egualmente scettica nei confronti di qualunque idea di un governo mondiale» (S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, tr. it. di S. De Petris, Cortina, Milano 2006, p. 48), il che l’ha portata a ripiegare sulla proposta, alquanto deludente, di «un ideale ‘civico’, opposto a uno ‘etnico’, di comunità politica» (ivi, p. 47). Secondo Benhabib: «Se per Arendt, in ultima analisi, la cittadinanza costituiva la garanzia fondamentale della tutela dei diritti umani, la sfida per il futuro consiste nello sviluppare un regime internazionale che sganci il diritto di avere diritti dalla nazionalità» (ivi, p. 53).

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sia riconosciuto come un «crimine contro l’umanità». Il fatto che questi diritti vengano per lo più misconosciuti, sistematicamente violati, persino irrisi, non può che indurre a rivendicarli con sempre maggiore forza, richiedendo che ovunque e in ogni caso siano garantiti59. Per questo un abisso separa la Dichiarazione del 1948 da quelle precedenti – e questo abisso, in cui è sprofondata l’umanità dell’umano, porta il nome di Auschwitz – dal momento che essa, senza più alcuna esitazione, taglia il nodo gordiano del binomio uomo e cittadino, volendo riconoscere all’uomo in quanto tale una inalienabile veste giuridica; se l’uomo, infatti, divenisse tale solo in virtù della sua acquisita cittadinanza, nel momento in cui qualunque potere politico sovrano (nazionale o internazionale) la revocasse, si troverebbe ridotto a nuda vita senza più alcuna difesa o riparo. Per questo è necessario – al contrario di quanto riteneva Arendt – dotare direttamente l’uomo di un diritto fondamentale di umanità60 e lottare strenuamente perché esso venga garantito e rispettato, piuttosto che continuare a confidare nella cittadinanza come diritto politico fondamentale, quale porta stretta attraverso la quale accedere 59. Ferrajoli sostiene la necessità di operare una netta distinzione tra la sfera dei diritti e quella delle garanzie: «L’assenza di garanzie dev’essere considerata come un’indebita lacuna che è obbligo dei pubblici poteri, interni e internazionali, riempire» (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 31). 60. I diritti umani non coincidono, dunque, con il concetto di cittadinanza. Ciò comporta, come precisa Ferrajoli, che, «se sul piano teorico i diritti umani sono i diritti di tutte le persone e non dei soli cittadini, sul piano del diritto positivo sono (e non già ‘devono essere’ o diventare) ‘diritti umani’, ossia di tutti gli esseri umani in quanto persone e non dei soli cittadini, la quasi totalità dei diritti fondamentali: il cui ‘universalismo’ quali diritti ‘ascrivibili all’uomo in quanto uomo’ non è perciò un’‘utopia’ […] bensì il diritto vigente, pur se misconosciuto dalle odierne teorie della cittadinanza e clamorosamente violato dalle nostre legislazioni in tema di stranieri e immigrati» (ivi, p. 315).

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anche a tutti gli altri diritti. Ecco perché la Dichiarazione del 1948 parla solo e semplicemente di uomini, non di cittadini, proclamando che a tutti, nessuno escluso – e per questo ha carattere davvero universale61 – vada riconosciuto il diritto di avere cittadinanza nel mondo. L’altra assoluta novità di questa Dichiarazione, rispetto a quelle del passato, consiste proprio nella sua dis-locazione: solo in virtù della extraterritorialità da cui parla, essa trae la sua inedita autorità giuridica. Questa Dichiarazione, infatti, non viene pronunciata, come le altre, all’interno di uno Stato-nazione, ma nell’ambito di una istituzione sovranazionale ed extra‑territoriale come l’ONU, una specie di nuova zona franca, in cui un altro Diritto sta per sorgere, sovra-ordinato rispetto al vecchio diritto internazionale, di cui essa costituisce come l’Atto costituente, annunciando il seme di un nuovo ordinamento cosmopolitico. Il nodo e l’ambiguità racchiusi nel binomio uomo e cittadino viene dunque doppiamente sciolto dalla Dichiarazione del 1948, sia dal punto di vista del soggetto giuridico (uomo e/o cittadino), sia dal punto di vista territoriale, entro il quale le due figure sinora erano state pensate e rimanevano reciprocamente incatenate ad un unico destino. Articolando per la prima volta l’universale – il “tutti gli uomini in quanto tali”, nessuno escluso – con il sovra-nazionale, e non con la statualità di una specifica delimitazione territoriale, ossia facendo dell’uomo immediatamente il fruitore di diritti inalienabili, viene riconosciuto, per la prima volta, che solo in una prospettiva cosmopolitica, che abbracci il mondo intero in quanto globo terrestre, i diritti umani fondamentali possono trovare lo spazio adeguato per la loro universalità, che solo collocandosi al di fuori dei confini degli Stati possono trovare la loro 61. Cfr. F. Viola, L’universalità dei diritti umani: un’analisi concettuale, in AA. VV., Universalismo ed etica pubblica, a cura di F. Botturi e F. Totaro, Vita e Pensiero, Milano 2006.

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indispensabile garanzia, a fronte del clamoroso fallimento della tutela dei diritti umani da parte degli Stati. Una prospettiva che continua a sembrare a molti, in nome della Realpolitik, solo un’idealistica e perfino ingenua fuga in avanti, ma che invece è la sola veramente realistica, in grado di rispondere adeguatamente ai rapidissimi processi di globalizzazione in corso, che hanno certamente unificato il mondo, ma nella più assoluta e selvaggia anomia, incrementando ovunque le disuguaglianze e obbedendo all’unica spietata legge del mercato62. In modo certo più rappresentativo e articolato di quanto non fosse stata la Società delle Nazioni, l’Organizzazione delle Nazioni Unite63, quale luogo illocalizzabile nella sua extraterritorialità e sovra-nazionalità, apre l’inedito spazio di accoglienza per tutti i profughi, i perseguitati e gli oppressi del mondo. Non solo: l’istituzione di Corti di giustizia internazionali consente per la prima volta di esercitare un contro-potere, non soltanto di ammonimento o di critica, nei confronti delle sovranità statali, ma anche di perseguire l’operato di singoli individui che abusino del loro potere e della loro autorità, costituendo il primo nucleo di una giustizia globale64. L’esistenza e il moltiplicarsi di istanze sovranazionali ed extra‑territoriali, anche non governative, decreta la definitiva

62. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 136. 63. Sulla necessità di una profonda revisione dell’ONU ha insistito in modo particolare anche J. Habermas, L’Occidente diviso, cit., pp. 173-180. È entrato ancor più nei dettagli di una nuova architettura giuridica D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009. 64. Sul tema, ampiamente dibattuto, si veda almeno: A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2009; Id., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 200410; I. Trujillo, Giustizia globale. Le nuove frontiere dell’eguaglianza, il Mulino, Bologna 2007; F. Viola, Diritti umani e globalizzazione del diritto, Editoriale scientifica, Napoli 2009.

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messa a morte del principio indivisibile e incondizionato di sovranità statale scaturito dalla Pace di Westfalia e annuncia l’aprirsi di uno spazio sovranazionale, che, di fatto, supera e abolisce, al tempo stesso, il carattere inter-nazionale del Diritto, dominante per tutta l’Età moderna. Lungi dall’essere fonte di spoliticizzazione, i diritti umani annunciano la possibilità di un’altra politica, oltre e al di là della Machtpolitik che ha caratterizzato la politica internazionale degli stati sovrani fino ai giorni nostri, secondo il modello hobbesiano della guerra di tutti contro tutti e della lotta di pura potenza, ove trionfa la legge naturale della forza. I diritti umani, anche per questo aspetto, non sono affatto diritti “naturali”: al contrario, sono diritti che gli uomini hanno faticosamente conquistato nel corso di memorabili battaglie, che non si vincono mai una volta per tutte, al fine di includere nell’umano sempre nuove “categorie” di esseri umani che ingiustamente ne sono state escluse. Se la loro ispirazione è morale, la loro istituzione è tuttavia giuridica e i due piani non possono essere confusi. I diritti umani rappresentano la possibilità di inscrivere, nel corpo stesso del Diritto, che traduce rapporti di forza, un contro-potere, come uno scarto interno e uno spazio di indisponibilità, di limite nei confronti del potere politico, in nome di istanze che esso non può dominare e che anzi lo mettono costantemente in questione. In questo spazio sono accolte e ospitate le istanze del più debole, del senza forza e senza difesa65. Si crea così una caratteristica tensione 65. Il riferimento obbligato è a San Paolo, “padre” dell’universalismo e del cosmopolitismo di matrice cristiana, ricordato, non a caso, anche da J. Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, tr. it. di B. Moroncini, Cronopio, Napoli 1997. Per la prospettiva cosmopolitica derridiana, pensata attraverso il rilancio di una “nuova Internazionale” e di quella che Derrida ha chiamato “democrazia a venire”, mi permetto di rinviare a C. Resta, Una cosmopolitica a-venire, cit., ove si evidenzia anche l’importanza attribuita da Derrida alla sfera dei diritti umani.

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tra queste istanze radicalmente differenti che attraversano il diritto. Come sostiene giustamente Ferrajoli, i diritti fondamentali si affermano come le leggi del più debole contro la legge del più forte che è propria dello stato di natura, ossia dell’assenza di diritto e di diritti. […] Se vogliamo che i soggetti più deboli fisicamente, o politicamente, o socialmente o economicamente siano tutelati dalle leggi dei più forti, occorre sottrarne la vita, la libertà e la sopravvivenza sia alla disponibilità privata che a quella dei pubblici poteri, formulandoli come diritti in forma rigida e universale66.

Sarebbe sciocco e ipocrita negarlo, per paura di etnocentrismo: non solo i diritti umani vengono alla storia, ma provengono da una storia, la cui particolarità, che riflette i connotati di una specifica cultura, non inficia, tuttavia, l’aspirazione universale del messaggio, che è tale – universale – proprio perché capace di includere tutti, fino all’ultimo degli ultimi67. I diritti umani sono storici, hanno una storia e questa storia ancora in corso – attraverso la quale gli uomini cercano di comprendere se stessi, la loro comune umanità, al di là di quanto, nella storia, li ha resi differenti, così come il senso della loro convivenza sul pianeta Terra68, di cui sono ospiti – è un cammino lento, faticoso, spesso contraddittorio, dall’esito incerto. Non esclude – come è accaduto con il nazismo – regressi e imbarbarimenti spaventosi. Non esclude neppure la catastrofe definitiva di un mondo in preda alla più totale anomia. Mancando a se stessa e non essendo mai data o assicurata una volta per

66. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 338-339. 67. Sull’universalismo dei diritti e per una critica del relativismo etico e culturale, come pure delle frequenti accuse di etnocentrismo, si rimanda alle acute argomentazioni di Ferrajoli (ivi, soprattutto pp. 309-317). 68. Cfr. E. Morin - A.B. Kern, Terra-Patria, tr. it. di S. Lazzari, Cortina, Milano 1994.

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tutte, non costituendo un’essenza, l’umanità dell’umano si rivela piuttosto come un compito la cui valenza universale deve potersi incarnare in ogni singolarità che è chiamata a svolgerlo secondo il proprio talento e la propria “vocazione”, secondo la sua irrinunciabile differenza. Questa umanità universale-singolare-plurale, in se stessa infinitamente differente, non è un dato naturale (la “natura dell’uomo”), ma è stata conquistata lentamente, seguendo un percorso di progressivo distacco dalla natura, che richiede di andare persino contro-natura, lungo l’intero arco del divenire umano dell’uomo, che conosce solo tappe e stazioni e non un sicuro prefissato progresso, come, in modo rassicurante, pensava ancora Kant. Proprio perché l’uomo è un animale non stabilmente fissato – secondo la celebre formula di Nietzsche – e imprevedibile, privo di un sicuro istinto, persino di quello di autoconservazione, è difficile dire quale sarà l’esito del suo cammino evolutivo ed ogni ingenuo ottimismo è certamente malriposto. Quello che per adesso possiamo, certo un po’ sconfortati, limitarci a constatare è che, per quanto sorprendente e sconcertante ciò possa sembrarci, al processo di ominizzazione è stato necessario arrivare fino ai giorni nostri per giungere, almeno una volta nella storia dell’umanità, a proclamare questa lampante verità – che ci ostiniamo, nonostante tutto, a non voler riconoscere: che spetta a tutti gli uomini il diritto di appartenere all’umanità, che tutti gli uomini sono ugualmente umani. Che questa evidente verità, quasi tautologica, la si sia dovuta codificare in una serie di “diritti” inalienabili è la prova tangibile dell’immane resistenza che essa incontra – e continua a incontrare – nel corso delle umane vicende, chiamata ad opporsi e a scontrarsi con la soverchiante legge naturale della forza, della sopraffazione e del potere politico di turno che si rifiuta di riconoscerla, cui quotidianamente soccombono singoli e comunità.

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L’esistenza plurale dell’umano Giusi Strummiello

1. I drammatici eventi del nostro tempo – i flussi inarrestabili di migranti e di profughi, i naufragi lungo le rotte del Mediterraneo, gli attacchi terroristici, la costruzione di nuovi muri e barriere, l’inasprimento dei conflitti armati – impongono in maniera urgente l’esigenza di prendersi cura dell’umano e dei suoi destini. E con la loro solida e disturbante presenza nel nostro quotidiano sembrano richiedere una riflessione che riesca a ricostruire il senso di un’appartenenza e di un accomunamento tra gli uomini in grado di prendere finalmente le misure dell’estrema fragilità e degli evanescenti confini di ciò che al fondo ci costituisce come esseri umani, ovvero la nostra più profonda essenza, sospesa tragicamente tra umano e inumano, dignità e orrore. Ora, nel caso specifico di noi filosofi, questo dovrebbe significare essere in grado di vedere l’umano nel suo delicato e precario equilibrio, di accudirne l’evidente complessità, per tentare di riconfigurarne l’ambito e le soglie possibili di attraversamento. In sostanza, la riflessione filosofica sul destino dell’umanità sembra essere chiamata a rilanciare, in una prospettiva del tutto inedita, la questione dello statuto dell’umano e della ricostruzione di un’idea di comunità umana, di un Noi

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che tenga conto dei diversi e concreti noi, delle differenti voci e dei plurali sguardi che compongono l’umano. Il problema che le questioni umanitarie e quelle relative ai diritti umani universali e alle loro sistematiche violazioni pongono è proprio quello di come intendere l’umanità: questa, che dovrebbe estensivamente accomunarci tutti, in pratica si definisce come un ambito che determina esclusioni. Come intendere infatti l’universale umano, e la conseguente partecipazione ad esso dei singoli individui, al di là di ogni chiusura identitaria e dell’illanguidimento, nell’astratto, delle singolarità, delle determinazioni e delle particolarità di ciascuno? È possibile pensare un’appartenenza, una comunione, un essere insieme che dia sostanza e spessore e quindi senso concreto a un’oggettività e un’uguaglianza formali valide indistintamente per tutti? Si dà cioè per l’uomo la possibilità di sostenere e per certi versi superare la tensione tra universale e particolare, tra l’essere allo stesso tempo membro del genere comune e singolarità unica e irriducibile1?

1. Sul carattere escludente di ogni universalità asettica, presuntamente naturale e non qualificata, ha scritto pagine lucidissime e illuminanti Hannah Arendt. Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, in modo particolare pp. 372-419 (Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani) e H. Arendt, L’umanità i tempi bui. Riflessioni su Lessing, a cura di L. Boella, Raffaello Cortina, Milano 2006. Alle riflessioni arendtiane si rifanno alcune tra le più importanti revisioni critiche dell’univeralismo dei diritti umani che hanno segnato il dibattito filosofico e politico degli ultimi anni: si vedano, in modo particolare, É. Balibar, Is a Philosophy of Human Civic Rights Possible? New Reflections on Equaliberty, «South Atlantic Quarterly», 103 (2004), pp. 311-322; É. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringieri, Torino 2012; J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici, in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 93-143; J. Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo!, Cronopio, Napoli 2005; R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007, in part. pp. 80 ss.; J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?,

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Un tentativo di soluzione a questa serie di problemi può venire dalla proposta di pensare differentemente – altrimenti – l’essenza umana, la partecipazione dell’uomo all’essere che non risulti seriale e omologante. Quella che in queste pagine vorrei tentare di discutere e verificare è la proposta teorica di un pensiero dell’umano che pensi quest’ultimo al plurale. Secondo questa prospettiva, l’universalità dell’umano non esaurirebbe le singole identità nell’unica e totale Identità, non si concepirebbe come associazione astratta e comune dell’“umanità”, ma esprimerebbe il per altro delle relazioni, il costitutivo essere per sé e per gli altri nelle e attraverso le relazioni. L’universalità non sarebbe propriamente ciò che è a monte o a valle dei processi di costituzione delle soggettività, bensì si configurerebbe come il tra delle relazioni tra gli individui, il tessuto connettivo dei legami tra i soggetti2. L’umano così non sarebbe più pensato come principio unico, impersonale, il principio comune separato dalla materia degli individui: la sua natura sarebbe invece comune perché attraverserebbe la carne di ogni singolarità e di ogni suo legame, e per questo il suo ambito non risulterebbe chiuso e identitario, totale e totalizzante, ma plurale e di conseguenza mai

«South Atlantic Quarterly», 103 (2004), pp. 297-310; S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano 2011, in part. pp. 185 ss.; S. Žižek, Diritti umani per Odradek?, Nottetempo, Roma 2005. Su tale questione, infine, mi permetto di rinviare a G. Strummiello, (Pre-)politiche dell’umano. La riduzione all’elementare tra diritti e violenza, «spaziofilosofico» 3 (2011), pp. 247-256 e G. Strummiello, Diritti e violenza tra universalizzazione e globalizzazione, «Annuario filosofico», XXVIII (2012), pp. 241-257. 2. Fondamentale a questo proposito resta la lezione di Lévinas: cfr. in modo particolare E. Lévinas, Fuori dal soggetto, Marietti, Genova 1992, pp. 121131 (I diritti umani e i diritti altrui); E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensareall’altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 245-249 (Diritti dell’uomo e buona volontà); E. Lévinas, Alterità e trascendenza, il melangolo, Genova 2006, in part. pp. 125-128 (I diritti dell’altro uomo).

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pacificato, continuamente e irrimediabilmente attraversato da conflitti. In questo modo, l’umano pensato al plurale non accomunerebbe in totalità il reale, non dissolverebbe nell’astrazione di un nome la ricchezza, la molteplicità e il flusso del reale, con tutti i suoi movimenti, scarti, residui, eccedenze. L’essenza universale dell’uomo declinata al plurale non si scollerebbe pertanto dall’immanenza e non agirebbe secondo la tradizionale logica binaria del proprio e dell’improprio, del mio e del tuo; non aprirebbe infine spazi tra il qui e l’altrove e non abolirebbe così ogni costitutivo tra(noi). Ma quello che in questa proposta occorre tuttavia verificare (oltre che discutere) è se la logica del noi, dell’umano declinato appunto al plurale non corra anch’essa il rischio di replicare quella insidiosa del proprio, dell’identitario, sostituendo al nome singolare dell’unico (dell’io, dell’uomo, del soggetto) quello dell’insieme (del noi, degli uomini, dei soggetti), nella misura in cui sostituisce semplicemente all’assolutizzazione dell’universale singolare l’assolutizzazione dell’universale plurale. Il percorso di questo contributo intende verificare la pensabilità di un’esistenza plurale dell’umano che eviti appunto tale rischio, che è il rischio, in definitiva, di ogni umanismo soggettivistico. Che tipo di pluralità infatti dobbiamo prefigurare, affinché, nella rivendicazione di un’appartenenza, essa sia in grado di mantenere insieme la singolarità, l’unicità di ognuno, degli altri e, soprattutto, di tutti gli altri (di ciò che, escluso, resta come residuo, scarto)? Affinché essa cioè possa aprire alla possibilità di un’umanità non soggettiva, o meglio, post-soggettiva: in questo senso, l’umanità non sarebbe più tanto un concetto estensivo, omologante, quanto un operatore intensivo, plurale, molteplice, in cui le differenze, le irriducibili eccedenze

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e singolarità non si perdono nell’Unico astratto, e non sono né incluse né escluse dal nome3. La rivendicazione dell’appartenenza ad un umano plurale avverrebbe nel nome di una autentica inclusione: in questo caso, il comune non risulterebbe dalla mera somma dei singoli individui o non avrebbe un valore totalizzante, tale da influenzare e determinare gli individui. L’appartenenza all’umanità costituirebbe al contrario un modo di essere dello stesso singolo individuo, inseparabile dagli altri, incluso e coinvolto nel movimento degli altri e nelle relazioni che li tengono insieme. Tutto questo rimanda ad un’estrema ricchezza della condizione di esistenza dell’individuo all’interno di un gruppo. L’esistenza plurale dell’umano è quella di un essere sostanzialmente multiverso, ricco, pieno, in continuo movimento e divenire, non intrappolato in schemi fatti di generi prossimi e differenze specifiche. All’interno di questo orizzonte, l’essere dei singoli soggetti non è pensato senza la relazione. Essi sono anzi consegnati al divenire, alle metamorfosi continue delle reti di relazioni. E i soggetti e le relazioni sono poi processi aperti e non teleologicamente indirizzati. La declinazione al plurale dell’umanità dell’uomo, della sua essenza permetterebbe quindi di sperimentare un nuovo modo di stare al mondo, meno autocentrato e più inclusivo; di formulare un’antropologia non-umanistica, addirittura antiumanistica e di affrontare un discorso sull’universalismo che sia in grado finalmente di aprirsi alla possibilità effettiva di includere – anche le eccedenze, gli scarti, le contraddizioni e i conflitti.

3. Sull’universale non più concepito come una «totalità positiva e satura», ma come «l’esigenza specifica del negativo di riaprire qualsiasi universalità chiusa e soddisfatta» si veda F. Jullien, L’universale e il comune. Il dialogo tra le culture, Laterza, Roma-Bari 2010.

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2. È Étienne Balibar, tra gli altri, con la riproposizione di una discussione della sesta Tesi su Feuerbach di Karl Marx, ad affiancare, se non addirittura a sostituire alla disputa sull’umanesimo la disputa sull’universalismo4. Ha senso infatti sottoporre a critica ogni umanesimo e antropologia senza mettere in discussione allo stesso tempo la prospettiva universalistica che ad essa sembra sempre accompagnarsi? Senza cioè tentare di decostruire l’uomo e l’idea di uomo? Da questo punto di vista, la posizione di Balibar mira a tenere separate le nozioni di antropologia e di umanesimo, al fine di mostrare come sia non solo possibile ma addirittura necessaria, come già si diceva, una antropologia non-umanistica o perfino anti-umanistica. L’oggetto delle analisi di Balibar è appunto l’operazione “filosoficamente sovversiva” della ridefinizione/de-costruzione marxiana dell’essenza umana attuata a partire dalla Tesi 6: Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali [Feuerbach löst das religiöse Wesen in das menschliche Wesen auf. Aber das menschliche Wesen ist kein dem einzelnen Individuum inwohnendes Abstraktum. In seiner Wirklichkeit ist es das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse]5.

Innanzitutto, nella sua rilettura Balibar prende in considerazione la pars destruens della Tesi, quella in cui Marx afferma che l’essenza umana non è un’astrazione inerente/immanente agli individui isolati. Ora, in virtù soprattutto dell’influen4. Cfr. É. Balibar, Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?, in Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, a cura di É. Balibar-V. Morfino, Mimesis, Milano 2014, pp. 147-177. 5. K. Marx, Tesi su Feuerbach, in K. Marx-F. Engels, Opere, vol. V, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 4.

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za hegeliana, qui Marx, accanto alla considerazione, in senso nominalista, che fa di una nozione generale o di un’idea un’astrazione, rifiuta, perché altrettanto astratta, la nozione di individui isolati. Sia l’essenza che il singolo individuo a se stante risultano essere astrazioni perché sono isolati dalla realtà effettiva, che invece si fa, si produce. L’essenza umana, nella parte immediatamente seguente della Tesi, si definisce infatti proprio nella sua realtà – Wirchlichkeit, ovvero nella sua effettività, processualità. Il meccanismo critico che, secondo Balibar, opererebbe nella Tesi sarebbe quello che sottopone a negazione/realizzazione (nel senso dell’Aufhebung hegeliana) la nozione di essenza umana come astrazione: tale operazione dialettica avverrebbe proprio grazie all’insieme delle relazioni sociali. Soffermandosi in maniera articolata sul concetto di “relazioni sociali” (tenendo conto anche dell’importante svolta epistemologica del XIX secolo rappresentata appunto dall’invenzione del concetto di società), Balibar punta la sua attenzione fondamentalmente su due aspetti presenti nella formulazione marxiana: l’articolazione, da una parte, di umano e sociale e il ricorso, dall’altra, al termine francese ensemble. Ciò che costituisce l’umano sono le relazioni sociali: queste ultime costituiscono così insieme la condizione di possibilità per ogni vita individuale e la realizzazione ideale delle aspirazioni etiche dell’uomo. Ciò emerge proprio dal ricorso niente affatto neutrale e ingenuo del termine ensemble che è usato in alternativa a termini speculativi propri del lessico hegeliano quali Ganze, Ganzheit, Totalität. L’insieme delle relazioni sociali indicherebbe per Marx un insieme che non costituisce affatto una totalità completa e chiusa. Questa scelta lessicale assume agli occhi di Balibar i connotati di una precisa strategia teorica che fa dell’essenza una totalità detotalizzata: l’insieme al posto del tutto rinvia in primo luogo

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a relazioni sociali che si situano su un piano orizzontale e non verticale quale quello delle gerarchie (non si dà pertanto un livello superiore, un insieme cioè dell’insieme, un predominio di una relazione sovraordinata); in secondo luogo al connettersi in senso indefinito e seriale delle relazioni sociali tra loro, le quali costituiscono così una rete che resta sempre aperta e che dunque non perviene ad una chiusura concettuale o storica tale da determinare esclusioni o interruzioni di sviluppo; infine, al connotarsi delle relazioni nel senso della molteplicità e della eterogeneità. Alla luce dunque della considerazione materialista dell’essenza umana, viene capovolto in maniera radicale il senso stesso dell’essenza: quest’ultima non unifica o totalizza una molteplicità di attributi, ma apre e si apre ad una serie indefinita di trasformazioni, in quanto gli individui risultano appunto essere essenzialmente modi delle relazioni sociali, in cui essi stessi sono implicati o perché le producono direttamente o perché se ne servono strumentalmente per connettersi agli altri individui o all’ambiente circostante. Quali sono i guadagni di questa rilettura? Innanzitutto, il necessario inserimento della discussione sull’umano e le sue relazioni ad un ideale umanesimo in un orizzonte ontologico, e precisamente nell’orizzonte di un’ontologia della relazione. Ma qui, per Balibar, occorre essere molto vigili, perché quantunque Marx sostituisca le astrazioni borghesi e metafisiche con le determinazioni storico-sociali, non si dà nulla nel suo lavoro come un’invenzione di un’ontologia sociale. In questo caso, saremmo infatti di fronte ad una formulazione pericolosamente ambigua, che può avere sia il senso di una ontologizzazione del sociale, per cui la società è un tutto che si trova al posto dell’essere o che l’emergere del sociale appartiene ad una istanza quasi trascendentale che ha una qualità socializzante; sia il senso di una socializzazione dell’ontologia, per cui

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si traduce ogni domanda ontologica in una domanda sociale e l’impronta dell’umano sarebbe data dal relazionarsi e dall’essere in relazione a. Ma a rendere qui ancora più problematica la questione è il fatto, come osserva in aggiunta Balibar, che nel momento in cui si mira ad escludere dai nostri discorsi l’umanesimo, cioè la possibilità di identificare e definire l’umano prima della scoperta della molteplicità dei modi di relazione, si ricorra sempre inevitabilmente al termine ‘umano’. L’eliminazione di questa difficoltà risiederebbe, ed è questo secondo me l’aspetto teorico interessante della lettura di Balibar, nel riconoscimento, in un senso nuovo, diverso e del tutto particolare, dell’esistenza plurale dell’umano: Io vedo una sola possibilità di superare questa difficoltà: trarre le conclusioni in modo radicale dal fatto che l’‘umano’ (o ‘uomini’ nella lingua classica) esiste solo al plurale. Questo non solo per dire che una pluralità fatta di singolarità irriducibili (o ‘persone’) è una condizione originaria dell’essere umano (tesi della Arendt), forse nemmeno solo che la ‘moltitudine’ è la figura originaria dell’esistenza nella società e nella storia (tesi di Negri), ma che le relazioni sociali in senso forte sono quelle che, tenendo insieme gli esseri umani o impedendo il loro ‘isolamento’, fanno anche la loro irriducibile differenza, in particolare distribuendoli tra le varie ‘classi’ – che non significa dire che queste distribuzioni sono stabili o eterne o coerenti tra loro6.

Le relazioni sociali, così, connettono tra loro gli uomini nel modo del loro intrinseco differire: il comune da esse creato è sostanzialmente l’eterogeneità e non la fusione in un unico tutto. È solo nell’eterogeneità e attraverso di essa che gli individui possono sfuggire al loro isolamento e individualismo

6. É. Balibar, Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?, cit., p. 169.

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ontologico; e il comune ad ognuno (l’essenza umana) non subordina e annulla al suo interno le differenze e le opposizioni: In altri termini ‘le relazioni sociali’ sono sempre internamente determinate come differenze, trasformazioni, contraddizioni e conflitti, che sono sufficientemente radicali per lasciare solo l’eterogeneità che essi creano come ‘il comune’ [...] senza cui gli individui ‘relazionandosi’ l’un l’altro ritornerebbero all’isolamento essenziale, o all’individualismo ontologico7.

Quello a cui tutto ciò mette capo è una totalità senza chiusura, una infinità aperta, in cui le relazioni sociali sono vere e proprie pratiche, ovvero elementi di trasformazione continua non solo degli individui, ma anche di se stesse: nel momento in cui tengono insieme, compattano e uniscono si differenziano e differenziano, articolano una differente configurazione del tutto e dei singoli elementi in esse implicate. Ma come intendere propriamente la categoria di relazione sociale: essa è una struttura oggettiva o una pura intersoggettività? Di essa occorre fornire una lettura esternalista o una internalista? In Marx, osserva Balibar, registriamo una continua oscillazione tra queste due possibilità di lettura dell’insieme delle relazioni sociali, per cui, secondo la considerazione esternalista, il rapporto delle relazioni ai singoli soggetti viene visto come quello di una struttura astratta e formale che influenza e domina dall’alto le azioni dei soggetti storici; mentre, nel caso della lettura più internalista, che riprende il modello hegeliano dell’intersoggettività o del riconoscimento conflittuale, l’ambito delle relazioni sociali risulta essere il prodotto e l’esito della cristallizzazione e materializzazione della differenza che influenza la percezione che i soggetti hanno l’uno dell’altro.

7. Ibidem, p. 170.

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Il limite tuttavia di tutta questa grandiosa operazione di decostruzione e ridefinizione dell’umano starebbe nella successiva riduzione operata da Marx della eterogeneità e molteplicità delle relazioni sociali a relazioni di lavoro. Il prezzo antropologico pagato per tale riduzione, che è in definitiva una riduzione della complessità, consiste, a detta di Balibar, nell’attenuazione se non addirittura nella neutralizzazione della carica potentemente rivoluzionaria della lettura marxiana: Ma conferma anche la tendenza marxiana ad eliminare alcune delle potenzialità della sua ‘tesi’, al fine di non ‘aprire’ l’‘ensemble’ delle relazioni sociali nella direzione di una illimitata variazione di modi eterogenei di socializzazione (dunque modi di soggettivazione), ma di reinstaurare una quasi trascendentale equivalenza del ‘sociale’ (e del ‘pratico’) con l’attributo specificamente (essenzialmente) umano del ‘lavoro’ (e opera). È attraverso una rivoluzione nella divisione del lavoro che gli agenti umani potrebbero trasformare le loro proprie relazioni costitutive (che li rendono umani), non attraverso una ‘rivoluzione’ in una qualsiasi delle relazioni subordinate e accidentali che formano così tanti campi di applicazione per la stessa generale divisione del lavoro. E, in questo modo, i poteri dell’Uno (unità, uniformità, totalità) sono imposti con maggior forza, poiché essi divengono i poteri stessi del novum, dell’emancipazione a venire8.

Al di là di queste ultime annotazioni critiche di Balibar, ciò che risulta importante in questa sua rilettura è la messa in evidenza, nel Marx delle Tesi su Feuerbach, della determinazione plurale dell’essenza umana in un senso del tutto impensato. La struttura molteplice, aperta, indefinita ed eterogenea delle relazioni è ciò che di volta in volta realizza insieme l’universale dell’uomo, la sua essenza, e lo scarto, la differenza tra gli uomini. Per Balibar cioè non si darebbe da una parte l’univer-

8. Ibidem, p. 177.

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salità riferita all’idealità della specie o della comunità umana e dall’altra la differenza riferita alla concreta realtà degli individui. La differenza, da questo punto di vista, non si aggiungerebbe all’universale in maniera contingente. È invece la trama delle relazioni a produrre effettivamente e a posizionare insieme l’universalità e la differenza. La relazione non è dunque vista come un’attività generica che in maniera indifferenziata e statica o addirittura astratta connette senza nessun attrito gli individui tra loro. La differenza è il modo stesso di darsi della relazione, e pertanto essa è la sola e autentica potenza che, contraddicendola, ne realizza l’universalità9. Sono le differenze delle e nelle relazioni a garantire la piena ed effettiva realizzazione dell’essenza umana. Le differenze invece di alienare l’uomo, separandolo dalla sua essenza, sono ciò che propriamente lo definiscono. Ed è questo, agli occhi di Balibar, il significato che occorre attribuire al darsi insieme, in modo aporetico, nella definizione della Tesi 6, di ‘umano’ e ‘sociale’: l’uomo realizza la sua umanità non riconoscendo e recuperando la sua determinazione sociale al di là e oltre le lacerazioni che caratterizzano la vita degli individui nella moderna società borghese, bensì è già nella dissimmetria della dimensione sociale che lo costituisce che l’uomo afferma effettivamente e praticamente la sua umanità. Da questo punto di vista, le affermazioni marxiane presenti in scritti dello stesso periodo e relative alla questione dell’emancipazione umana da conseguire attraverso la dialettica del rovesciamento dell’alienazione quale separazione dell’uomo dalla sua più propria determinazione sociale finiscono per ridurre tutta la potenzialità teoretica racchiusa nell’aporia marxiana. Non c’è bisogno, come del resto viene riconosciuto anche da

9. Cfr. É. Balibar, Citoyen Sujet et autre essais d’anthropologie philosophique, Puf, Paris 2011, in part. pp. 506-515.

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Engels, di avviare un processo di socializzazione perché l’uomo recuperi quelle condizioni in cui è possibile riappropriarsi della propria essenza. È infatti già racchiusa nella definizione stessa della nostra essenza la possibilità dell’affermazione piena dell’umano: Laddove Marx stava di fatto suggerendo che una autentica relazione dei soggetti al proprio essere/essenza (Wesen) avrebbe inevitabilmente trasformato la nostra interpretazione di ciò che significa essere (un) ‘uomo’, perché rivelerebbe che l’umano è essenzialmente ‘sociale’, ed il ‘sociale’ è allo stesso tempo una condizione di possibilità per ogni vita individuale (o ‘l’uomo è un animale sociale’ come è stato ratificato dalla tradizione post-aristotelica) ed una realizzazione ideale delle aspirazioni etiche dell’uomo (in altri termini una forma di vita ‘comunista’), Engels suggerisce ora che un processo di socializzazione sta avendo luogo nella storia in modo che emergano le condizioni in cui è possibile trasformare la ‘natura umana’ in un modo rivoluzionario10.

È soprattutto alle considerazioni elaborate da Marx nel saggio Sulla questione ebraica che Balibar fa riferimento a questo proposito. E tuttavia, al di là dei pericoli di riduzione e semplificazione che tali analisi comporterebbero delle tensioni filosofiche racchiuse nella coppia ‘umano’ e ‘sociale’, resta il fatto che anche in questo testo viene ribadita la necessità di pensare il proprio dell’umano secondo una prospettiva plurale. E non è del resto un caso che tale riconoscimento faccia seguito alla celebre critica della distinzione astratta di diritti dell’uomo e diritti del cittadino, in quanto espressione della riduzione borghese dell’uomo alla proprietà privata.

10. É. Balibar, Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?, cit., pp. 164-165. Cfr. anche Citoyen Sujet et autre essais d’anthropologie philosophique, cit., in part. pp. 510-512.

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3. Come si ricorderà, in Sulla questione ebraica, Marx dichiara che l’emancipazione politica è illusoria e incompleta. L’universalità dello Stato, infatti, non supera e risolve le contraddizioni della società civile: anche se realizza l’essenza comunitaria dell’uomo, esso lascia comunque sussistere accanto a sé la società civile in cui gli individui conducono un’esistenza isolata, egoistica e in cui non si riconosce l’uguaglianza dei diritti: Il limite dell’emancipazione politica emerge immediatamente nel fatto che lo Stato può affrancarsi da un limite senza che l’uomo sia realmente libero da esso, che lo Stato può essere uno Stato libero senza che l’uomo sia un uomo libero11.

Lo Stato quindi affranca politicamente l’uomo dal limite solo in maniera astratta e parziale: esso proclama che le differenze tra i membri del popolo (di nascita, di condizione, cultura e lavoro) non sono affatto differenze politiche. Dal punto di vista statale, ognuno partecipa allo stesso modo e in ugual misura alla sovranità popolare. Ma di fatto, lo Stato non rimuove tali differenze, anzi finisce addirittura con il presupporle, facendo valere la propria universalità proprio in opposizione a queste sue componenti. La formazione dello Stato come universalità è così guadagnata attraverso l’elevazione al di sopra delle sue componenti particolari. Nella perfezione dello Stato, l’uomo realizza la sua vita di genere opposta alla vita materiale, reale. Ma in questo modo occorre prendere atto della duplice esistenza che l’uomo finisce con il condurre: [...] una duplice esistenza, una celeste e una terrena, l’esistenza nella comunità politica in cui egli si ritiene un ente comunitario e l’esistenza nella società civile, nella quale opera come uomo privato, il quale intende gli altri uomini come

11. K. Marx, Sulla questione ebraica, a cura di D. Fusaro, Bompiani [Testi a fronte], Milano 2007, p. 105.

55 strumenti, degrada se stesso a mezzo e diventa un giocattolo in mano a forze estranee12.

Nella realtà più immediata dell’uomo non c’è così nulla di sacro ed egli appare come un fenomeno non vero; in quella dello Stato, in cui l’uomo vale come ente di genere (Gattungswesen), questi appare come l’elemento fantastico di una sovranità fasulla, fittizia, spogliato della sua stessa realtà e ammantato di una irreale universalità. Paradossale, ossimorica quasi, questa configurazione del vivere umano: infatti, nel momento in cui l’uomo, nella società civile, è l’individuo reale, propriamente non è, non è cioè nella sua verità essenziale; nel momento in cui, invece, nella dimensione dello Stato, può pervenire a tale sua profonda verità d’essere (quella di un ente di genere), egli è ridotto o meglio sublimato in un essere immaginario e astratto. È questo il conflitto tra l’uomo in quanto cittadino, citoyen, ente comunitario di uno Stato, e l’uomo in quanto bourgeois, uomo privato che agisce in vista dei suoi interessi egoistici e particolari e considera gli altri individui come mezzi: il conflitto tra una finzione, un travestimento, e una vita vera, reale, tra Stato politico e società civile. Per questo, allora, l’emancipazione politica rappresenta certamente un innegabile progresso, ma non coincide con la formula ultima dell’emancipazione propriamente umana, che dovrebbe appunto coincidere con il ritrovamento da parte dell’uomo della sua più autentica, concreta e reale verità d’essere. Ed è a questo punto che Marx affronta la questione dei diritti umani universali. Esaminati nella configurazione che essi hanno assunto presso i Francesi e gli Americani del nord, si sco-

12. Ibidem, p. 111.

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pre che i diritti dell’uomo sono, da una parte, i diritti politici e dunque del cittadino, i diritti cioè di cui ci si avvale in quanto appartenenti ad una comunità politica; dall’altra, sono i diritti dell’uomo distinti dai diritti del cittadino. Ora, questo uomo non è altri che il membro della società civile, l’uomo egoista e scisso da sé (dalla sua essenza) e dalla comunità. Basti, ad esempio, prendere in esame l’enunciazione dell’articolo relativo alla libertà: esso stabilisce per legge che la libertà consiste nel diritto di agire senza danneggiare gli altri, nel diritto quindi che può essere esercitato da un individuo isolato e ripiegato su se stesso. Il diritto dell’uomo alla libertà non si fonda pertanto, come osserva Marx, sul legame comunitario tra gli uomini, quanto sulla loro separatezza. Anzi, il diritto umano universale alla libertà è paradossalmente il diritto a questa stessa separatezza, un diritto riservato all’uomo limitato anche a se stesso. Da questo punto di vista, i diritti dell’uomo non vanno al di là dell’uomo egoista, membro della società civile e separato dalla comunità (Gemeinwesen). L’uomo dei diritti umani è allora solo l’uomo individuale: L’uomo, ben lungi dall’essere in essi concepito come ente di genere, la stessa vita di genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione alla loro originaria indipendenza13.

Questo porta al misterioso e paradossale risultato per cui non è l’uomo comunitario, il cittadino (citoyen), bensì l’uomo come bourgeois a innalzarsi a vero e autentico uomo14. La politica è così messa al servizio della vita della società civile. È questo l’esito di quella “illusione ottica”, che l’analisi marxiana

13. Ibidem, p. 145. 14. Cfr. ibidem: «[...] l’ambito in cui l’uomo si comporta da ente comunitario viene abbassato al di sotto dell’ambito in cui si comporta a ente parziale (Teilwesen)».

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della rivoluzione francese mette in evidenza dell’emancipazione politica rivoluzionaria dalla società feudale: la separazione dello spirito politico dalla vita civile e la sua costituzione quale ambito della comunità, dell’interesse universale del popolo svincolato dalle componenti particolari della società civile. In questo modo, il compimento dell’idealismo dello stato è allo stesso tempo il compimento del materialismo della società civile. Ora è l’uomo egoista, membro della società civile, il presupposto dello Stato politico ed è da questo riconosciuto, nelle sue componenti spirituali e materiali, nei diritti dell’uomo. I diritti umani non sono pertanto diritti neutrali, ma diritti borghesi, innalzati a difesa degli interessi egoistici e di parte dei membri della società civile. La rivoluzione ha infatti portato, attraverso un unico e medesimo atto, alla costituzione da una parte dello Stato politico e dall’altra alla dissoluzione della società civile in individui indipendenti, e il rapporto tra queste due sfere è garantito adesso appunto dal diritto. Ma, osserva Marx, l’uomo non politico, membro della società civile appare come l’uomo naturale, i cui diritti vengono considerati pertanto naturali. La rivoluzione politica dissolve la società nei suoi elementi, visti come presupposti, fondamenti, base naturale del suo stesso sussistere, parte effettivamente reale, concreta, contrapposta all’uomo astratto, artificiale della politica: Da ultimo, l’uomo, in quanto membro della società civile, vale come uomo in senso autentico, come l’homme distinto dal citoyen, giacché egli è l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale, mentre l’uomo politico è solamente l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale. L’uomo reale (der wirkliche Mensch) è riconosciuto

58 soltanto nella figura dell’individuo egoista, l’uomo vero (der wahre Mensch) soltanto nella figura dell’astratto citoyen15.

Se ogni emancipazione non è altro che un ricondurre il mondo e i rapporti umani all’uomo stesso, e se l’emancipazione politica si risolve solo nella riduzione dell’uomo da un lato a membro individuale ed egoista della società civile e dall’altro a cittadino, a soggetto morale, allora l’autentica, compiuta, completa e non più parziale emancipazione umana si realizzerà solo attraverso la congiunzione di forze sociali e forza politica, solo quando l’uomo individuale e reale si riapproprierà del cittadino astratto, quando cioè egli diventerà ente di genere (Gattungswesen): Soltanto quando l’uomo reale, individuale, compendia in sé il cittadino astratto, e come individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è diventato ente di genere, soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue “forces propres” come forze sociali, e per ciò stesso non disgiunge più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è realizzata16.

L’emancipazione umana si avrà quindi con il superamento della «tensione tra l’esistenza individuale sensibile e l’esistenza di genere dell’uomo»17, attraverso l’accostamento cioè delle due sfere del sociale e del politico in nome del sociale e non dell’individuale, cioè della riassunzione della naturale essenza di genere propria dell’ente comunitario che è l’uomo. L’autentica emancipazione umana deve passare, dopo quella politica, attraverso quella sociale, con un movimento in grado di scalfire le rigidità e gli isolamenti egoistici di quest’ultima. 15. Ibidem, p. 155. 16. Ibidem, p. 157. 17. Ibidem, p. 179.

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E questo mi sembra andare nel senso della constatazione di Balibar, formulata a proposito della portata di novità radicale rappresentata dalla Tesi 6, che l’umano esiste al plurale, ovvero che l’uomo è tale sono nell’insieme delle relazioni sociali: l’uomo, quale essenza suprema per l’uomo18, è l’uomo individuale, reale, che si dà nell’ambito comune del politico e che articola in maniera del tutto differente la distinzione tra uomo e cittadino, non più tenendo in eterna tensione forze egoistiche e forze politiche, forze che tendono ad accomunare e forze che aprono nuovi ed eterogenei spazi di soggettivazione. Come Balibar significativamente commenta: Scrivere che “nella sua realtà (Wirklichkeit) l’essere/essenza umana (Wesen) non è un’astrazione che abita l’individuo singolo/singolare/isolato, ma l’ensemble (aperto, indeterminato) delle relazioni sociali” è un atto performativo che simultaneamente trasforma il significato di tutti i termini chiave che usa. Nella misura in cui il termine ‘essenza’ viene applicato in modo ‘materialistico’ al problema antropologico, acquista un paradossale significato (anti)ontologico per mezzo di cui i suoi effetti riconosciuti sono capovolti: invece di ‘unificare’ e ‘totalizzare’ una molteplicità di attributi, apre ora una indefinita gamma di metamorfosi (trasformazioni) nella misura in cui gli individui sono essenzialmente ‘modi’ (come direbbe Spinoza) delle relazioni sociali che essi producono attivamente, o attraverso cui interagiscono collettivamente con altri e con le ‘condizioni’ naturali. Questa critica rivela che può esservi una singola alternativa alle apparentemente antitetiche nozioni di individualità e soggettività ereditate dalla metafisica Occidentale – una alternativa che, per quanto provvisoria, evita di creare una nuova figura dell’‘essere supremo’19. 18. Cfr. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx-F. Engels, Opere, vol. III, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 197. 19. É. Balibar, Dall’antropologia filosofica all’ontologia sociale e ritorno: che fare con la sesta tesi di Marx su Feuerbach?, cit., p. 167.

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Il mondo del noi, dell’esistenza plurale, comunitaria non è hegelianamente il mondo del soggetto assoluto, della soggettività dello spirito che assorbe in sé le individualità della società civile: esso è la soggettività che vive per e tramite queste stesse individualità, le quali impediscono alla soggettività di imporsi fissamente in una posizione superiore. Nell’ottica di Balibar, attraverso il filtro della lettura marxiana, non si dà un’alternativa secca tra individualità e soggettività, ma quest’ultima come universale concreto si nutre delle individualità per mai sentirsi soddisfatta e appagata nel suo essere. 4. Ora, in questo spazio che mette in discussione la distinzione astratta tra uomo e cittadino su cui è stata fondata la politica dei diritti umani, come si riconfigura quest’ultima? Come tutta questa prospettiva teorica può essere riferita alla questione della rivendicazione alla nostra comune umanità al cuore della politica dei diritti umani ora più che mai sulla scena? Se, come abbiamo visto, il politico, il comunitario, il plurale, si configura come l’ambito proprio dell’umano, solo al suo interno allora sarebbe plausibile e possibile una politica dei diritti umani. Balibar, come è noto, insiste più volte sul fatto che i diritti umani non vadano distinti dai diritti del cittadino20. La loro sfera di implementazione è rappresentata dalla politica, o meglio, dal sistema politico delle istituzioni (secondo la lezione arendtiana): la loro nozione non è sovraordinata al modo di un assoluto al di sopra del politico. E tuttavia Balibar da tale constatazione non ricava la conseguenza che si debba semplicemente sostituire alla fondazione dei diritti secondo l’ideale umanistico-naturalistico-idealistico una fondazione positiva, 20. Sono molti i luoghi in cui Balibar argomenta intorno a tale identificazione. Qui mi limito a seguire le analisi condotte nell’articolo On the Politics of Human Rights, «Constellation», vol. 20, 1 (2013), pp. 18-26.

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storico-politico-istituzionale: occorre invece abbandonare l’idea stessa di fondazione senza per questo abbandonare la questione stessa dei diritti umani. Da questa prospettiva, se ne ricava allora non solo l’idea di una politica dei diritti senza fondamenti, ma anche l’idea di diritti senza fondamento alcuno, né ontologico né trascendentale: l’idea dei diritti deriverebbe da una storia conflittuale di conquiste e resistenze. Quali le conseguenze e le difficoltà connesse a questa prospettiva teorico-pratica? Innanzitutto, i dibatti contemporanei, scaturiti da una riflessione sugli ultimi eventi della nostra storia, hanno messo capo, per Balibar, ad una nozione antinomica, ambigua della politica dei diritti umani. Tale politica infatti contempla movimenti di insurrezione legati all’invenzione della democrazia, ma anche un uso strumentale dell’idea di diritti umani per legittimare lo status quo e le strategie di dominazione. Ora, dove va collocata, si chiede Balibar, tale contraddizione, in quale realtà antropologica, nella condizione umana, nella vita sociale o nella forma tradizionale, storica delle istituzioni politiche? Ma poi, una tale distinzione ha veramente senso se appunto noi qui non ragioniamo più nei termini di una definizione astratta della condizione umana, ma nei termini invece di agenti da una parte e di trasformazioni nelle istituzioni dall’altra? E poi, come va risolta tale contraddizione, che non è una contraddizione tra universale e particolare o diverse particolarità, ma tra universalità conflittuali? Attraverso una gerarchia di diritti, considerandone alcuni più fondamentali di altri? E secondo una visione di un progresso lineare della storia? Ma, ancora una volta, la nostra esperienza ci mette di fronte a permanenti conflitti tra differenti forme e aspetti delle rivendicazioni e dei loro attori. Si tratta in definitiva dell’antinomia della politica stessa, che si situa nella identificazione dei suoi agenti e dei loro non negoziabili interessi. Tutto allora ci indica che la questione di una politica dei diritti umani deve abbandonare l’ideale rappresentazione di essere

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o una rivelazione di un’eterna legge di giustizia o una lineare evoluzione della razionalità. A tale idea di politica va connesso invece, per Balibar, il senso di invenzione, di una lotta contro le forme di oppressione e discriminazione che prima non erano riconosciute, ma anche di una lotta contro le loro stesse intime antinomie. Poste le cose in questi termini, si capisce allora su cosa si basi il riconoscimento del carattere politico dei diritti, l’equivalenza di diritti dell’uomo e diritti del cittadino, o dei diritti dell’uomo come condizione per un illimitato accesso alla responsabilità civile e alla partecipazione. Come mettere tutto ciò in collegamento con l’affermazione di una nozione totalmente antifondazionalista sia dei diritti umani sia della loro politica? Si potrebbe assumere la questione all’interno di un orizzonte di radicale finitudine, quale quello del modello di comunità così come elaborato ad esempio in Kant e in Arendt. Ma occorre vedere quanto di questa posizione non porti ad una sacralizzazione della esistente forma politica di comunità, all’assolutizzazione della nazione. Ora, osserva Balibar, una comunità politica va comunque sempre istituita, quantunque le sue forme possano venire considerate flessibili e non restare affatto ideali: ma per non essere assolutizzata, essa deve restare conflittuale, il che costituisce la base per la rivendicazione o l’invenzione politica dei diritti fondamentali, attraverso il diritto di resistenza (il diritto ad avere i diritti). La comunità politica è così storicamente finita e non morale (come in Kant) e non si identifica con lo stato nazione per sé. Non si darebbe dunque qui nessuna assolutizzazione del comune, nessuna idealizzazione della comunità politica: la comunità va continuamente costituita, istituita, e per questo motivo essa deve restare sempre conflittuale, condizione questa perché i diritti possano essere rivendicati o inventati politi-

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camente. In questo senso, la comunità dei cittadini non è la comunità che esiste, ma – derridianamente – la comunità a venire, una comunità senza modello ideale, che si delinea innanzitutto come propriamente non comunità che tuttavia virtualmente è già comunità proprio nella lotta stessa. Per questo i diritti umani per Balibar non sono morali o giuridici, bensì sostanzialmente insurrezionali e quindi politici. 5. Ma, giunti a questo punto, occorre chiedersi se Balibar, sebbene riconosca il carattere conflittuale e a venire della comunità, il suo carattere plurale e aperto, riesca effettivamente a sfuggire al rischio di un’assolutizzazione e sacralizzazione della comunità, di quell’unica e ineludibile comunità politica al cui interno soltanto può darsi una politica dei diritti umani. La mossa di schiacciare l’uomo sul cittadino non sottrae proprio tutta la ricchezza dell’eccedenza e dello scarto nella e della comunità a cui il riconoscimento plurale dell’esistenza umana, attraverso il filtro marxiano, ci aveva condotti? È infatti lo stesso Marx ad alludere alla necessità che la tensione tra uomo e cittadino vada superata non assorbendo, assimilando l’uno nell’altro, bensì cercando di mantenere insieme nella relazione i due elementi, quando, più o meno negli stessi anni degli altri scritti precedentemente presi in considerazione, nella Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, afferma che la possibilità positiva dell’emancipazione tedesca consiste proprio [...] nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che per i suoi patimenti universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitata non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, la quale non può più appellarsi ad un titolo storico, ma al titolo umano, che non

64 si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, [...], la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo e può dunque guadagnare nuovamente se stessa attraverso il completo recupero dell’uomo21.

Cosa dicono queste parole, se non che il legame di comunità, l’essere insieme della comunità è sempre, come fatto rilevare ad esempio da Rancière, un in-between, un tra-due, sospeso tra due identità, sull’abisso che separa l’umano dall’inumano? Cosa dicono se non che l’appartenenza ad uno stesso mondo si può affermare solo polemicamente, solo come «politica di un proprio improprio»? L’attore dell’emancipazione è in questo caso un gruppo, un ceto, una classe, che allo stesso tempo si identifica e si disentifica, è un proprio nella misura in cui non lo è. La prospettiva aperta da Rancière, pur presentando una certa forma di rigidità unilaterale nella critica rivolta a Marx, colpevole ai suoi occhi di essere insofferente nei confronti di ogni frattura e intervallo, e di aver pertanto annullato la distinzione tra uomo e cittadino, consente di pensare senza rischi l’esistenza plurale dell’umano nel senso che abbiamo cercato di delineare di un’assolutizzazione e/o ontologizzazione del sociale. Il punto di partenza di Rancière è dato innanzitutto dal riconoscimento dell’attuale impasse dell’azione politica causata dall’identificazione della politica con la manifestazione del proprio della comunità. Occorre invece tenere nettamente separati il processo del governo (la polizia), processo che si presenta come l’attualizzazione del proprio della comunità, l’organizzazione cioè dell’insieme degli uomini in comunità sulla base di una distribuzione gerarchica dei posti e delle 21. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., pp. 202-203.

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funzioni, che finisce con l’imporre le regole del governo quali leggi naturali della società, e il processo della politica/emancipazione, processo di verifica del presupposto dell’uguaglianza. Si tratta di due processi profondamenti eterogenei e solo dal loro incontro qualcosa come il politico può darsi. Per Rancière, infatti, la politica dell’emancipazione è la politica di un proprio improprio: si tratta di una questione di ordine meramente logico e niente affatto morale. E questa logica è, nella definizione di Rancière, un’eterologia. Nell’azione emancipatrice infatti si mira a verificare il principio dell’uguaglianza, verifica che si attua in nome di una determinata categoria (lavoratori, donne) a cui però è stato o viene negato proprio quel principio e le sue conseguenze. D’altra parte, l’attuazione dell’uguaglianza, per essere tale, cioè uguaglianza in senso autentico, non può essere la manifestazione di un proprio o degli attributi di una determinata categoria: la voce che la invoca è quella di un soggetto anonimo, e la categoria che si fa promotrice della sua rivendicazione è solo il nome di chiunque. Solo in questa prospettiva per Rancière è possibile sottrarsi al dibattito tra universalità e identità, ovvero superare il dilemma della contrapposizione tra uomo e cittadino: L’unico universale politico è l’uguaglianza. Ma l’uguaglianza non è un valore inscritto nell’essenza umana o nella ragione. L’uguaglianza esiste e ha effetti di universalità solo nella misura in cui è messa in atto. Non è un valore da invocare, ma un universale che deve essere presupposto, verificato e dimostrato volta per volta. L’universalità non è il principio della comunità cui si oppongono i casi particolari. È un operatore di dimostrazioni22.

22. J. Rancière, Politica, identificazione, soggettivazione, in Ai bordi del politico, a cura di A. Inzerillo, Cronopio, Napoli 2011, p. 92.

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L’universalità dell’umano e dei suoi diritti, a cui gruppi, vittime di ingiustizie ed esclusioni fanno appello non risiede in questi stessi concetti chiamati in causa, come un fondamento o un ideale: essa piuttosto, potremmo dire, è solo in quanto si universalizza, è dinamica, è, come sostiene Rancière, quel processo argomentativo che possa vagliare e verificare le sue conseguenze: ...l’universalità [...] risiede piuttosto nel processo argomentativo che ne dimostra le conseguenze, che afferma ciò che consegue dal fatto che l’operaio è un cittadino, il nero un essere umano, e così via. Da un punto di vista generale, lo schema logico della protesta sociale si può riassumere nella seguente domanda: apparteniamo o meno a una certa categoria – cittadini, uomini, e così via –, e che ne consegue? L’universalità politica non risiede in uomo o cittadino, ma nel “che ne consegue?”, nella sua attuazione discorsiva e pratica23.

L’universalità allora si produce e si sviluppa proprio attraverso la mediazione di determinate categorie: l’assurdità o il paradosso di questa considerazione è ciò che per Rancière sta propriamente al fondo del processo dinamico di produzione dell’universalità, in un movimento che trasforma un non-luogo logico (la semplice affermazione per cui ad esempio si dice che l’operaio è un operaio e le donne sono donne) nel luogo di una dimostrazione polemica in cui il difetto di uguaglianza viene articolato al modo di una relazione: Nella Francia del diciannovesimo secolo, per esempio, alcuni operai possono costruire il loro sciopero in forma di domanda: gli operai francesi appartengono o meno all’insieme dei francesi, che la costituzione dichiara uguali davanti alla legge? La domanda può diventare ancora più paradossale. Le

23. Ibidem, p. 92.

67 prime militanti femministe ad esempio possono formularla così: una francese è un francese?24.

La messa alla prova e la costruzione dell’universale dell’uguaglianza risultano così non coincidere con l’impegno di un’identità in atto o con la rivendicazione di valori specifici di un gruppo: esse coincidono, invece, con quello che Rancière chiama «processo di soggettivazione», intendendo con questa espressione alludere alla «formazione di un uno che non è un sé, ma la relazione tra un sé e un altro»25: Un processo di soggettivazione è dunque un processo di disidentificazione o di de-classificazione. In altri termini, un soggetto è un in-between, un tra due. Proletari è stato il nome “proprio” di quelli che erano insieme nella misura in cui erano tra: tra diversi nomi, condizioni e identità; tra l’umanità e l’inumanità, la cittadinanza e il suo rifiuto; tra la condizione di uomo come strumento e quella di essere parlante e pensante. La soggettivazione politica è la messa in atto dell’uguaglianza – o il trattamento di un torto – da parte di persone che sono insieme nella misura in cui sono tra. È un incrocio tra identità che si basa su un incrocio tra nomi: nomi che legano il nome di un gruppo o di una classe al nome di chi non è contato, che legano un essere a un non-essere o a un essere a venire26.

La logica della soggettivazione politica è dunque essenzialmente un’eterologia, in quanto alla logica alternativa oppositiva (siamo o no cittadini, esseri umani, ecc.) preferisce quella paratattica (lo siamo e non lo siamo). Per questo, allora, come si diceva, la politica riguarda il proprio di un improprio, che non mette capo ad una identificazione bensì ad una differenza, anzi, meglio, ad una differenziazione: perché il luogo di manifestazione della differenza non è il proprio di un gruppo 24. Ibidem, p. 92-93. 25. Ibidem, p. 93. 26. Ibidem, p. 94.

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contrapposto al proprio di un altro gruppo, ma un intervallo, “un essere insieme come essere-tra”. Da questo punto di vista, si comprende allora la radicale presa di distanza di Rancière da quelle soluzioni metapolitiche delle fratture, degli intervalli, tra cui egli annovera quella marxista della distinzione tra uomo e cittadino della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Il discorso metapolitico è quel discorso che interpreta la politica in base alla polizia, ovvero come attualizzazione di un proprio ed è pertanto insofferente nei confronti degli intervalli, che vengono interpretati di conseguenza come segni di non-verità. E per Marx la distinzione tra uomo e cittadino è il segno stesso di un inganno, di un’illusione: l’identità del cittadino è la maschera celestiale della vera identità terrena dell’uomo/proprietario. Ma va in questo senso metapolitico anche la visione contemporanea che mette insieme uomo e cittadino nella figura dell’individuo liberale, affermando che in quanto cittadino l’uomo gode dei diritti universali (e qui in controluce si intravede la figura di Balibar). Per Rancière, all’opposto, la politica dell’emancipazione rifiuta entrambe queste forme di assimilazione, perché per essa appunto l’universalità delle dichiarazioni dei diritti è quella delle argomentazioni che esse autorizzano. Ora, queste sono rese possibili proprio dalla separazione, nel caso francese, da quel tra che separa uomo e cittadino e ne consente il transito insieme dall’uno all’altro, includendo anche la messa in scena della dimostrazione di diritti di quegli individui che non sono contati, contemplati né come uomini, né come cittadini. Questa prospettiva, ribadisce ancora una volta Rancière, consente di sfuggire all’alternativa tra universalismo e identitarismo, contrapponendole quella tra soggettivazione e identificazione: quest’ultima alternativa, infatti, non oppone, come nel primo caso, universalismo e particolarismo, ma, ed è questo il punto interessante che vorrei in conclusione sottolineare

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e che ritengo estremamente importante, due idee di molteplicità. Anche il discorso universalista, per Rancière, è infatti altrettanto tribale, identitario quanto quello comunitario: la politica rifiuta invece proprio questa prospettiva a tutto vantaggio di una comunità degli intervalli, quale luogo vero e proprio dell’universale. In questo senso, allora, una politica eterologa, una autentica cultura politica del conflitto, quale messa in scena politica dell’altro, rappresenterebbe forse quella possibilità, intravista lungo tutto questo percorso, di pensare altrimenti l’umano, al di là di ogni mossa teoretica umanistica, soggettivistica e pericolosamente identitaria.

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I diritti, l’uomo e l’Altro. Quattro figure etico-politiche dell’alterità Sabino Paparella

Accade frequentemente di constatare come il discorso dei diritti umani si configuri oggi come un “discorso indiretto”. Non si parla di diritti umani in prima persona, o meglio: a parlare dei diritti umani non è mai la persona cui essi appartengono o sono riferiti (l’espressione è già di per sé ambigua e andrebbe problematizzata). I diritti umani sono i diritti degli altri, di terzi, degli assenti. Sono i diritti dei diseredati, dei profughi, dei reietti, dei clandestini, degli abitanti del Terzo Mondo. Sono i diritti dell’essenzialità dell’essere umano spogliato di ogni altra qualifica, dunque i diritti che dovrebbero circoscrivere al massimo grado il “proprio” dell’essere uomo, eppure sembra che quest’essenzialità si addica sempre a uomini altri. Questo slittamento euristico, per cui l’uomo dei diritti dell’uomo sembra trovarsi sempre altrove rispetto a dove lo si cercava, potrebbe avere molteplici spiegazioni. Si potrebbe riassumere in un principio di critica culturale post-coloniale, che rifletta su come “i diritti umani” – lungi dalla pretesa universalistica di cui l’Illuminismo avrebbe voluto ammantarli – abbiano sempre costituito un’elaborazione giuridica occidentale, eurocentrica, da applicare agli “altri”, a coloro che non avevano ancora raggiunto gli standard di soggettività giuridica occidentale, con il relativo corredo di diritti civili e politici.

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Si potrebbe, ancora, obiettare che questa mancata presa di parola diretta degli interessati, questo trasferimento dei diritti umani ad un amministratore terzo che li gestisca in loro vece, non sia che un dispositivo ideologico di copertura di un diritto di ingerenza, di ciò che la geopolitica recente ha conosciuto sempre meglio con il nome di “interventi umanitari”, e degli interessi economici e politici di cui sono epifenomeno. Tuttavia, non ci sembra così di aver ancora raggiunto il punto cruciale della questione. La presa di parola vicaria in merito ai diritti umani non è che una parte del problema, quella superficiale. Il meccanismo di sostituzione operante nel discorso pubblico mette capo ad un più profondo dispositivo di differimento per cui – ricercata – è la stessa essenza di uomo, tutelata dal diritto umano, a rimandare ad altro, a richiedere l’intervento di altro (e di altri) perché possa assumere concretamente significato. Pertanto i profili appena citati di critica – culturale, ideologica, politica – non mettono ancora in questione le ragioni profonde per cui un tale paradosso alla scaturigine dei diritti umani possa darsi: come sia possibile che, esattamente là dove dovrebbero disvelare la nudità e la solitudine dell’essere nient’altro che uomini, essi rinviino sempre all’essere altro che uomini. Si tratta, come è noto, di un punto su cui già Hannah Arendt aveva posto la sua attenzione riflettendo sul tramonto dello stato nazionale, all’interno del suo Le origini del totalitarismo (1951): «la situazione reale degli uomini messi al bando della legge nel XX secolo mostra che quelli enunciati sono diritti spettanti ai cittadini, la cui perdita non comporta l’assoluta mancanza di diritti»1. La tutela minima dell’essere uomo è nella possibilità di essere altro dal mero uomo, nella fattispecie un cittadino, cui sia possibile, al di là della nuda innocen-

1. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. 409.

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za che lo espone all’arbitrio dei persecutori, rivendicare «un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto»2. La mera identità dell’essere uomo, come fonte di riconoscimento giuridico, viene così a convertirsi nella massima esposizione alla sua alterità di cittadino, tanto da far sospettare che essa si risolva in una mera illusione o – che è lo stesso – in un riflesso di questa sua alterità3. Al di là dell’evocata figura del cittadino come altro dell’uomo – che, a partire da Arendt (e risalendo fino a Marx) avrà una lunga tradizione di discussione nel Novecento – interessa qui riflettere sulla riconfigurazione che l’espressione “diritti dell’uomo” può assumere sotto l’influsso di questa figura dell’altro. “Diritti dell’uomo”: occorrerà innanzitutto chiedersi se qui la specificazione abbia il valore di un genitivo oggettivo o soggettivo: si tratta in fondo del problema fondamentale attorno a cui ruota questo contributo. Nel primo caso, come si vedrà, il rischio è quello di svuotare il soggetto della sua libertà, intesa innanzitutto come possibilità di iniziativa rispetto al mondo e rispetto a sé stesso: di depoliticizzarlo. Nel secondo caso, ad andare perduta nella deriva liberale e umanistica del soggetto forte sarebbe l’insopprimibile ruolo dell’incontro con il Reale, quell’alterità di relazione e di espropriazione senza la quale risulta difficile poter definire l’umano in sé. Come tenere assieme queste due esigenze?

2. Ibidem, p. 410. 3. È la critica che Jacques Rancière ha mosso ai diritti umani concepiti secondo lo schema politico arendtiano, quella di essere «O i diritti di chi non ha diritti o i diritti di chi ha diritti. O un vuoto o una tautologia e, in entrambi i casi, un trucco ingannevole» (J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man, «South Atlantic Quarterly», 103 (2004), pp. 297-310, in part. p. 298).

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In secondo luogo, verrà chiamato in causa un piano di analisi che prevede la risemantizzazione degli stessi concetti di “diritto” e di “uomo”. Se l’uomo dei diritti umani rinvia continuamente ad altro da se stesso, il diritto stesso subirà un continuo lavoro di espropriazione: non più questione di titolarità da parte di un soggetto forte e presente, esso si svilupperà qui piuttosto come esigenza di relazione e di esposizione ad altri, in un regime in cui si fa più labile il confine tra il giuridico e l’etico. E, da qui, questo sfaldamento della soggettività giuridica autocentrata conduce infine alla più fondamentale messa in questione dei confini tra etica e politica. L’umano dell’uomo, dal canto suo, evaderà dalla rassicurante iconografia delle apollinee rappresentazioni umaniste, per aprirsi – complice l’utilizzo del linguaggio e della postura psicanalitica – alla figura del suo altro per eccellenza, l’inumano. Il breve itinerario che qui tentiamo di percorrere si prefigge di seguire gli sviluppi di questa installazione dell’altro al centro della soggettività dei diritti umani, attraverso gli scritti e la riflessione di Jean-François Lyotard, esaminando i possibili esiti della sua radicalizzazione nell’Altro e nella sua Legge (Lévinas, Žižek), fino a valutare se non sia possibile un’inclusione differente dell’alterità in seno al discorso dei diritti umani, nell’accezione squisitamente politica che Jacques Rancière ha riservato a questa espressione.

1. Lyotard: i “diritti dell’Altro” e l’Inumano È proprio a partire dalla lezione arendtiana delle Origini del totalitarismo che muove la riflessione di Lyotard sui diritti umani. Rispondendo nel 1993 alla domanda posta da Amnesty International su cosa fossero diventati i diritti umani nell’epoca degli interventi militari umanitari, il filosofo francese cita

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testualmente Arendt per mostrare come la nudità dell’umano in quanto tale, portatore ideale dei diritti umani universali, sia legata ineluttabilmente al richiamo implicito all’alterità: Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l’opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile4.

L’uomo sembra poter avere il diritto di essere riconosciuto come tale solo nella misura in cui dimostri di essere altro rispetto a sé, solo nella misura in cui l’umanità che lo accomuna ai suoi simili, letta in filigrana, riveli un rimando alle differenze che lo separano da loro. La categoria su cui Lyotard poggia il suo discorso sui diritti umani è quella di “distinzione”: è necessario distinguersi, separarsi dal proprio sé originario, qualificarsi in un modo specifico e ulteriore per poter essere distinti nella propria presenza. L’umanità non è qui una sorta di comune dotazione di base degli individui, cui si aggiungerebbero le differenze particolari; trasparente, essa funziona piuttosto come una soglia per le differenze stesse, le introduce gratuitamente, rivelandosi solo nel momento in cui viene varcata. Non si è mai, perciò, umani, se non già subito come altri, il che significa al contempo: come altro rispetto all’umano che si è da sempre, ma anche come differenti rispetto ai molteplici singoli individui che in diverse direzioni hanno varcato quella stessa soglia di umanità. Si può, dunque, essere cointestatari di un’identità – sembra suggerire Lyotard – solo al prezzo di rispettare una “distanza di sicurezza”, solo assicurando un intervallo di differenza tra gli individui che compongono il “noi” umano.

4. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 415-416. Corsivo nostro.

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È il linguaggio il fenomeno antropologico in cui questa struttura di differimento continuo si manifesta in modo evidente; in particolare, la funzione pragmatica del linguaggio, per mezzo della quale le parole assumono, al di là del loro significato proprio, una “significazione” per i parlanti coinvolti nella situazione linguistica attuale. Nella dimensione pragmatica del linguaggio diviene difatti evidente che il discorso umano è sempre addressed (rivolto-a) e in quanto tale consiste in uno scambio verbale tra due interlocutori dissimmetrici, un parlante ed un ascoltatore, un emittente ed un ricevente, un io ed un tu5. A differenza della comunicazione animale, omogenea perché basata sull’immediatezza di segnali corporei o comunque sensibili, quella umana, richiedendo come indispensabile il lavoro ermeneutico sui segni, determina inevitabilmente uno scarto di eterogeneità tra le figure che concorrono alla sua realizzazione. Non esiste dialogo tra due io. Io è colui che sta parlando adesso; tu è colui cui questa comunicazione attualmente è rivolta. Tu sei in silenzio quando io parlo, ma tu sai parlare, hai parlato e parlerai6.

È importante che la struttura dialogica evocata mantenga un carattere di reciprocità (sia l’io che il tu sanno parlare, e possono parlarsi), ma nell’assoluta dissimmetria, palesata qui dallo sfasamento temporale (quando io parlo, tu taci, e viceversa). In tal modo infatti i ruoli dell’interlocuzione restano netta-

5. «Esplicitamente o implicitamente, ogni affermazione umana è destinata a qualcuno o qualcosa» (J.-F. Lyotard, The Other’s Rights, in S. Shute and S. Hurley (ed.), On Human Rights. The Oxford Amnesty Lectures 1993, Basic Books, New York 1993, pp. 135-147, in part. p. 137, trad. nostra; pubblicato anche in O. Savić (ed.), The Politics of Human Rights, Verso, London 1999, pp. 181-188). 6. Ibidem, p. 137, trad. nostra.

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mente distinti, ma convertibili: «Le persone capaci di discorso occupano alternamente la posizione io e la posizione tu»7. Il comune non risiede nell’analogia di possibilità: non per il fatto di essere tutti animali parlanti gli uomini si riconoscono tali, dunque appartenenti ad un genere comune. Il comune si concretizza invece nella sua propria performatività, nella comunicazione, il che significa nella forma della condivisione – e non della mera titolarità – della parola. Pertanto esso interviene già fra altri, fra individui che sono più che umani e più che se stessi, organizzati secondo uno schema che in base alle categorie classiche del diritto è più-che-naturale, artificiale, già politico: In teoria, il noi umano non precede ma segue l’interlocuzione. In questo noi, la figura dell’altro rimane chiaramente presente a ciascuno, nella misura in cui l’altro è suo possibile interlocutore8.

Il regime civile e politico della società – dalla politeia greca alla moderna repubblica – si fonda secondo Lyotard sul riconoscimento fondamentale di questa struttura di interlocuzione e del diritto primario che ciascuno ha di rivolgersi ad un altro, di poterlo considerare un tu per l’interlocuzione; di non essere, dunque, un io irrelato, ma di avere propriamente diritto ad un altro: da qui la definzione lyotardiana dei diritti umani come – essenzialmente – “diritti dell’altro”. Anzi: la questione fondamentale del politico è nel grado di riconoscimento ed implementazione di questo diritto, attraverso misure e dispositivi di inclusione dell’altro in seno alla comunità costituita. La funzione universalizzatrice della cittadinanza si concretizza in questo lavoro di interiorizzazione dell’altro, che, da essere un mero alieno, senza né esercizio né comprensione della pa7. Ibidem, p. 138, trad. nostra. 8. Ibidem, trad. nostra.

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rola, diviene il possibile tu dell’interlocuzione: in questo senso si tratta eminentemente di un compito di traduzione. L’insistenza di Lyotard sul ruolo della mediazione civile e culturale nel riconoscimento e nell’emancipazione della figura dell’altro è qui di fondamentale importanza. Sottolinea, infatti, come il diritto dell’uomo – in quanto fondamentalmente diritto dell’altro – non possa in nessun caso essere considerato un diritto naturale. L’interlocuzione basata sulla struttura dialogica fra un io e un tu è infatti una conquista, il prodotto di un lungo lavoro di affinamento della capacità di riconoscimento dell’altro. L’essere umano in quanto tale non è altro che un membro della specie Homo: un animale in grado di parlare. È vero che il suo linguaggio è fatto in modo tale da contenere effettivamente la promessa dell’interlocuzione. Ma se è la messa in evidenza ed il rispetto della figura dell’altro che questa promessa custodisce, egli deve allora liberarsi di ciò che in lui non riconoscerà la figura dell’altro, vale a dire, la sua natura animale9.

Come si impara questo diritto dell’altro? Il che sta a dire: come si impara ad affinare la propria animale capacità di parola nell’umana (già più-che-umana) capacità di interlocuzione? O ancora: come ci si riconosce in quanto uomini che sono piùche-meri-uomini? Occorre apprendere le regole che fanno dell’interlocuzione quella forma di comunicazione essenziale dissimmetrica, che si è vista sopra. In particolare, la conquista fondamentale che segna lo scarto dalla comunicazione omogenea (animale) all’eterogeneità interlocutoria è data dal silenzio. È il silenzio di chi, pur avendo capacità di parola, decide di tacere, a sancire i turni e le posizioni dell’interlocuzione; è attraverso il silenzio, dunque, che un parlante si

9. Ibidem, p. 141, trad. nostra.

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rende disponibile ad essere il tu di un altro, e che innanzitutto il tu cui egli stesso si rivolge in atteggiamento di tacito ascolto diviene il suo altro. Non si tratta, però – ed è su questo punto che occorrerà soffermarsi – della mera scansione “democratica” dei turni di parola. Il gioco orizzontale di rinvii tra io e tu potrebbe tutt’al più fornire il principio per un’etica della tolleranza, ma non potrebbe fondare alcun diritto. Invece il silenzio con cui si attende la parola dell’altro è rivelativo, secondo Lyotard, di una dissimmetria più profonda che connota la relazione, in base a cui l’altro assume sempre più la caratterizzazione di Altro. Il rimando non è più immanente ed orizzontale, ma si richiama adesso ad un punto esterno di autorità che, solo, può legittimare il diritto. La coppia esemplificativa di questa dissimmetria è costituita in Lyotard dallo scambio fra maestro e allievo: il silenzio del secondo dinanzi al primo non è il frutto del riconoscimento di una reciprocità, o del mutuo interesse, ma è richiesto dall’eterogeneità dei ruoli, imposto dal rispetto che si deve alla radicale alterità dell’altro-maestro, vale a dire dalla sua separatezza ed estraneità. L’allievo tace di fronte al maestro perché riconosce la possibilità di imparare da lui: egli sa che dal tu che egli riconosce non verrà una parola qualsiasi, ma una parola che egli non possiede ancora e di cui sente il bisogno. Il diritto dell’altro non è allora più solo il diritto dell’io di avere un tu, ma la possibilità concreta di imparare da quel Tu; il “diritto dell’altro” veste qui la forma del genitivo soggettivo: è l’Altro ad avere in pugno la relazione, a concedere la parola, a funzionare da trascendentale giuridico. Il mio diritto ad avere un altro rivela la sua vera natura – anche autoritaria e violenta, se si vuole – di diritto in capo all’Altro, che ne decide e ne sancisce l’esistenza. Dalla dimensione orizzontale della mera

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comunicazione si passa alla dissimmetria della dipendenza: il tu è l’Altro da cui dipendo, il maestro da cui imparo: Il maestro non è la figura dell’altro in generale, del tu, ma la figura dell’Altro in tutta la sua separatezza. Egli è lo sconosciuto, lo straniero. Come si fa a dialogare con lo straniero? Si dovrebbe imparare la sua lingua. […] Il silenzio che il processo apprenditivo di civilizzazione impone è l’atto di un lavoro di straniamento10.

Su questa dissimmetria originaria e sul lavoro di straniamento dell’io si basa tutta la costruzione lyotardiana dei diritti umani, di una legittimazione al discorso che impone che all’altro, incluso come cittadino, non sia impedito di rivolgersi ad un altro cittadino11. Essa richiede, come si è detto, un punto esterno di trascendenza cui appellarsi: l’interlocuzione in quanto mera circolazione orizzontale della parola non garantisce da sola alcun diritto dell’altro, se dietro ogni tu del discorso non interviene la figura di un Altro, portatore di una parola altra, esterna al discorso di prima. Non ci può essere vero riconoscimento dell’altro, e della sua umanità – sembra suggerire Lyotard – se non presupponendo l’opacità di questa relazione, il fondo abissale di estraneità cui espone, ed il compito infinito e irrisolvibile di traduzione che richiede: L’interlocuzione non è un fine in sé. È legittimata solo se, attraverso gli altri, l’Altro mi annuncia qualcosa che sento ma non comprendo12.

10. Ibidem, p. 142, trad. nostra. 11. A ben vedere Lyotard distingue tre distinti livelli del “diritto di parola”: «Primo, la facoltà di interlocuzione, un principio fattualmente inerente ai linguaggi umani; secondo, la legittimazione del discorso, dovuta al fatto che esso annuncia qualcos’altro, che si sforza di farci capire; e infine, la legittimità del discorso, il diritto positivo di parlare, che riconosce al cittadino il diritto di rivolgersi al cittadino» (Ibidem, p. 143, trad. nostra). 12. Ibidem, p. 143, trad. nostra.

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Per quanto possa esporre al rischio della frustrazione, solo l’inquietante rivelazione dell’Altro nell’altro sembra poter garantire un autentico diritto all’umanità, altrimenti ridotta a mero funtore della comunicazione piatta e trasparente del comune scambio sociale. Non sfugge tuttavia a Lyotard la dinamica potenzialmente violenta che questa struttura di relazione manifesta. Egli è ben consapevole, soprattutto, dello statuto quantomeno ambiguo e rischioso della riduzione al silenzio, specie quando amministrata all’interno di un ordine civile. Dall’essere il presupposto del riconoscimento di un diritto umano fondamentale, essa può capovolgersi nel suo esatto opposto, privando qualcuno della possibilità di interlocuzione e dunque riducendolo al rango di una mera “terza persona”, di cui si parla, ma a cui non si parla mai. Figura esemplare di costoro, che Lyotard chiama gli “abietti”, sono i deportati nei campi di concentramento. A quelli di loro che sono sopravvissuti allo sterminio, in particolare, è toccata in sorte una duplice abiezione: la privazione del diritto umano fondamentale ad essere destinatari di parola, prima, e l’impossibilità di dire, di tradurre in parole l’orrore della strage, poi. Riconosce infatti Lyotard che «l’abiezione non è semplicemente il nostro venir meno al discorso, ma il nostro mancare di linguaggio per eccesso»13. In questo eccesso di parole indicibili, specularmente al silenzio, sembra attivarsi una sospensione dei “diritti dell’altro” che lascia interdetti circa il carattere di umanità di cui ancora questi soggetti si considerano portatori. Tuttavia, proprio in questa manifestazione esorbitante, eccedente, della sospensione del diritto si rivela il carattere am-

13. Ibidem, p. 145, trad. nostra.

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biguo dell’abiezione: se da un lato essa priva della parola, dall’altro mostra precisamente di portare su di sé il “marchio” dell’Altro. Gli abietti – o i sacri, come dice antecorrendo il paradigma di Agamben – sono coloro che, proprio in quanto esclusi dall’interlocuzione, manifestano nel modo più traumatico la propria dipendenza dall’Altro, e con la loro condizione rendono evidente l’orrore cui la forclusione del debito contratto verso l’Altro può condurre. Con ciò viene a caratterizzarsi in maniera sempre più precisa cosa debba intendersi con questo Altro, su cui Lyotard sembra fare affidamento per dare una qualche consistenza attuale ai diritti umani. Per quanto esterno e trascendente per definizione, esso non si risolve semplicemente in una o più alterità particolari della sfera intersoggettiva. Assume piuttosto i caratteri dell’ineffabile, dell’“Intrattabile” – concetto limite che Lyotard utilizza in molti dei suoi scritti: Il potere che eccede la capacità di interlocuzione somiglia alla notte. Sebbene tentiamo di ammansirlo attraverso il dialogo, esso non ha la figura del tu. Potrebbe essere ben o mal disposto. Lo sentiamo. Non riusciamo a comprenderlo. Potrebbe essere Dio, Animale, Satana. In silenzio ci sforziamo per tradurre la sua voce al fine di annunciarlo alla comunità dei parlanti. In tal modo tentiamo di rendere dialettica la nostra relazione con l’Altro. Ma l’estraneità dell’altro sembra sfuggire ad ogni totalizzazione14.

In secondo luogo, proprio in quanto (e non benché) trascendente, questo Altro assume tutta la sua performatività di “garante giuridico” dell’umanità in quanto si installa al centro del soggetto, ne costituisce una paradossale intimità: è a partire da questo che è possibile definirlo come quell’inumano che funge da principio dell’umanità dell’uomo. Lyotard lo fa in-

14. J.-F. Lyotard, The Other’s Rights, cit., pp. 145-146, trad. nostra.

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troducendo un suo testo omonimo del 1988, in cui si mette a tema un sostanziale oltrepassamento dell’umanismo e, nello specifico, dell’illusione da esso veicolata che l’uomo sia in sé un valore certo, che non necessita di spiegazioni15. Apre quel testo una critica senza appello agli umanismi insiti in tutte le filosofie dell’intersoggettività e della condivisione, da Habermas a Rawls, da Apel a Searle e a Rorty: «La prescrizione è: siate comunicabili»16, scrive Lyotard, rimproverando a tali teorie un tentativo di restaurazione rispetto alla “condizione postmoderna”, il gesto filosofico dell’interdizione di ogni messa in questione dell’umano e del passaggio alla mera circolazione del dato di fatto. Rispetto a questa anodina accettazione del dato umanista, la domanda che egli si pone è: «e se gli umani, come li intende l’umanismo, stessero diventando (benché costretti) inumani? E se, d’altra parte, il “proprio” dell’uomo fosse di essere abitato dall’inumano?»17. Se questo inumano debba intendersi come un sinonimo di quell’Altro che in The Other’s Rights garantiva l’umanità dell’io espropriandolo sistematicamente nella dipendenza silenziosa dal tu, è qui l’ipotesi da verificare. L’inumano cui Lyotard fa riferimento non coincide certamente con una generica degradazione disumana del “mondo” o dei “tempi”. Soprattutto, esso non si realizza nella figura di una perdita di umanità, una mancanza o una degenerazione che interverrebbe in un secondo momento ad intaccare l’umanità sana delle origini. Al contrario, il luogo di questo inumano è in una condizione

15. J.-F. Lyotard, L’inumano. Divagazioni sul tempo, tr. it. di E. Raimondi e F. Ferrari, Lanfranchi, Milano 2015. L’edizione originale francese, pubblicata da Galilée, è appunto del 1988. 16. Ibidem, p. 18. 17. Ibidem.

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anteriore all’umano stesso, l’interno della sua stessa verità. Si è scritto giustamente: L’inumano, che annuncia l’evento, non è il contrario dell’umano, ma il fulcro della sua continua reinvenzione, rigenerazione: è l’indeterminatezza di un evento in cui si gioca qualcosa di diverso dall’umanità di individui dell’ideologia della libera circolazione delle merci e dei lavoratori e della Convenzione dei Diritti dell’Uomo; in cui è in gioco la creazione di un altro uomo, di altro nell’uomo, di altro dall’uomo18.

Ha ragione allora Jacques Rancière, quando nota come Lyotard affermi l’esistenza di un “secondo” inumano, un inumano “buono” contrapposto a – o meglio, contrappunto salvifico di – quello della dilagante negazione dell’umanità. Seguendo la sua indicazione, proporremo di chiamarlo l’Inumano19. Il caso esemplare di cui Lyotard si serve – già in The Other’s Rights e poi nuovamente ne L’inumano – per mostrare l’ambiguità di statuto del “proprio” dell’uomo è dato dalla figura dell’infante. Visto nella sostanziale inettitudine rispetto alle prestazioni sociali condivise dagli umani adulti, in cosa egli – si chiede Lyotard – è “umano”? Cosa si chiamerà umano nell’uomo? La miseria iniziale della sua infanzia o la sua capacità di acquisire una “seconda” natu-

18. F. Ferrari, Lyotard, oggi, in Lyotard, L’inumano, cit., p. 12. 19. «Lyotard nei fatti sdoppia l’idea di inumano. Nella sua ottica, le forme di repressione e crudeltà, o le situazioni di angoscia che noi definiamo “inumane” sono conseguenza del nostro tradimento di un altro Inumano, quel che potremmo chiamare un Inumano “buono”. Questo Inumano è l’Alterità in quanto tale. È la parte di noi che non controlliamo. Potrebbe essere la nascita e l’infanzia. Potrebbe essere la Legge. Potrebbe essere Dio. L’Inumano è l’alterità irriducibile, parte di quell’Intrattabile di cui l’essere umano è, come dice Lyotard, ostaggio o schiavo» (J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man, cit., pp. 307-308. Trad. nostra).

85 ra che, grazie al linguaggio, lo rende adatto alla condivisione della vita comune alla coscienza e alla ragione adulte?20.

La risposta consisterebbe appunto nell’affrancarsi dallo schema che assegna all’umanità il ruolo di un pieno, di una presenza forte e completa – e inversamente all’inumano la funzione di corruzione, svuotamento o evasione della precedente presenza. Umana è l’originaria manchevolezza dell’individuo, la sua esposizione ad un’alterità in fieri, in definitiva l’Inumano “buono” che lo innerva e ne consente la rigenerazione: Senza parola, incapace di posizione eretta, esitante sugli oggetti di suo interesse, inadatto al calcolo del proprio vantaggio, insensibile alla ragione comune, il bambino è in modo eminente l’umano poiché la sua destrezza annuncia e promette i possibili. Il suo ritardo iniziale sull’umanità, che lo rende ostaggio della comunità adulta, è anche ciò che manifesta a quest’ultima la mancanza di umanità di cui essa soffre e che la spinge a divenire più umana. […] Il fatto che gli resti sempre da affrancarsi dall’oscura selvatichezza della sua infanzia effettuandone così la promessa, è precisamente la condizione dell’uomo21.

L’Inumano, come vertigine fondamentale su cui si innesta la ricerca di sé di ogni individuo, funge così da ressort, innesca un meccanismo di rilancio per cui l’umanità prodotta, a valle, è sempre ulteriore ed eccedente rispetto a quella inizialmente messa in conto. È la contrazione generatrice, lo stadio di accumulazione primaria, la mancanza sofferta che spinge a divenire più umani, appunto. Si può essere umani senza questo ricorso all’Inumano, all’Altro, all’Intrattabile, all’Infanzia? È questo l’interrogativo che la speculazione lyotardiana lascia aperto, quando afferma con inelut-

20. J.-F. Lyotard, L’inumano, cit., p. 19. 21. Ibidem, p. 20.

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tabile durezza che «di questo debito verso l’infanzia, non ci si libera»22. Il punto di trascendenza e di relazione che nell’Altro Inumano si è riposto, nei fatti sembra sguarnire l’uomo non solo del suo diritto fondamentale, ma della sua stessa identità, del suo “proprio”, come Lyotard ammette apertamente: In definitiva, è sufficiente ricordare a noi contemporanei che il proprio dell’uomo è la sua assenza di proprio, il suo niente o la sua trascendenza, per poter affiggere il cartello “completo”23.

Negato ogni presupposto autonomo alla soggettività, la prospettiva residuale che rimane all’uomo non è se non quella di riconoscere il proprio debito irremissibile, abbandonandosi – homo sacer – all’esposizione vittimaria dinanzi agli altri: è così che ogni diritto umano viene svuotato di senso performativo, divenendo solo un possibile argomento di recriminazione da parte della vittima assoluta, la cui condizione ontologica è quella della passività originaria rispetto ad un destino di annichilimento dal quale solo un dio potrebbe salvarci. L’alternativa consiste unicamente, senza mediazione alcuna, nel rifiuto assoluto del debito e dell’Altro, ossia in quella vertigine dell’umano, forte della presenza a sé, che ha avuto nel progetto nazista (lo sterminio del popolo che considera suo marchio ontologico la sottomissione alla Legge di un Altro) il suo paradigma novecentesco, e che oggi verrebbe riproposto, in maniera meno cruenta, ma non meno alienante, nel mito della società della trasparenza e della comunicazione, ultimo feticcio di eredità illuminista24. Si giunge così ad un paradosso, che Rancière ha ben sottolineato: 22. Ibidem, p. 24. 23. Ibidem, pp. 20-21. 24. Scrive Rancière, citando Giorgio Agamben (Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 23-24), che «Il vero orrore dei campi […] più ancora che la camera a gas è la partita di calcio che opponeva, nei

87 I “crimini contro l’umanità” appaiono a questo punto come crimini dell’umanità, i crimini che seguono all’affermazione di una libertà umana che nega la propria dipendenza dall’Intrattabile25.

O vittime o carnefici: l’universo lyotardiano sembra non concedere spazio ad una posizione altra rispetto a queste figure, né ad un qualsiasi gesto di effrazione della logica secondo cui l’unica forma di “resistenza” possibile consisterebbe nella rinuncia ad ogni libertà e nell’affido completo alla Legge.

2. Trascendenza e Legge: da Lévinas a Žižek Il debito di Lyotard e della sua caratterizzazione dell’Inumano nei confronti della tradizione giudaica è espressamente riconosciuto nella chiusa del saggio sui diritti umani del ’93: La legge dice: Non ucciderai. Il che significa: non negherai agli altri il ruolo di interlocutori. Ma la legge che proibisce il crimine di abiezione nondimeno evoca la sua costante minaccia o tentazione. L’interlocuzione è autorizzata solo dal rispetto per l’Altro, nelle mie parole e nelle tue26.

Compare qui esplicitamente il tema della Legge, che è una delle tante figure che il carattere di ingiunzione della parola dell’Altro può assumere, nel momento in cui riconosce un tu all’io. Il riferimento classico relativo all’introduzione di questa tematizzazione nel dibattito filosofico è qui Emmanuel Lévi-

momenti di pausa, le SS e gli Ebrei dei Sonderkommandos. Ora, questa partita viene rigiocata in ogni partita che vediamo in televisione»: J. Rancière, Il disagio dell’estetica, a cura di P. Godani, ETS, Pisa 2009, pp. 115-116. 25. J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man, cit., p. 308. Trad. nostra. 26. J.-F. Lyotard, The Other’s Rights, cit., p. 147. Trad. nostra.

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nas. In un breve scritto dedicato ai diritti umani, egli si rifà apertamente alla trascendenza teologica come punto di scaturigine di un diritto che altrimenti non si potrebbe spiegare nell’economia orizzontale delle convenzioni umane27: Qui, senza chiamare in causa la famosa “prova dell’esistenza di Dio”, i diritti dell’uomo sanciscono una giuntura in cui Dio viene alla mente, in cui la nozione di trascendenza cessa di essere puramente negativa e l’abusivo “al di là” della nostra conversazione è pensato positivamente nei termini del volto dell’altra persona28.

Tuttavia, per quanto sia sempre il richiamo dell’Altro che si percepisce attraverso il volto dell’altro che incontro, vi è in Lévinas – anche in questo fedele alla tradizione giudaica – una connotazione fortemente ortopratica e mondana della Legge. Il piano su cui misurare l’obbedienza all’Altro è quello squisitamente etico e orizzontale delle relazioni tra gli uomini, e in esso la bontà, come impeto naturale che conferma l’essereper-l’altro come la vera natura dell’umanità, acquisisce un primato nella regolazione della socialità umana. I diritti dell’uo-

27. Lo scritto in questione è The Rights of Man and Good Will, in Savić (ed.), The Politics of Human Rights cit., pp. 46-49. Il testo era contenuto originariamente in Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991; tr. it., Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, Jaca Book, Milano 1998. Lévinas inizia la sua argomentazione domandandosi: «In virtù di cosa, e in che modo, la volontà libera o autonoma sostenuta dal diritto dell’uomo potrebbe imporsi su un altro libero arbitrio senza che questa imposizione implichi un effetto, una violenza accusata da questo arbitrio?» (p. 47, trad. nostra). Trovata una prima risposta nello statuto kantiano di universalità della ragione pratica, constata però l’insufficienza della struttura dell’imperativo categorico per spiegare quella spontanea quanto apparentemente irrazionale precedenza dell’altro sull’io. Ecco che interviene nel suo discorso il richiamo alla “buona volontà”, quale natura più autentica della “volontà libera”, che è il guadagno essenziale dei diritti umani. 28. E. Lévinas, The Rights of Man and Good Will, cit., p. 48. Trad. nostra.

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mo sono qui – a differenza che in Lyotard – innanzitutto un “diritto dell’altro uomo”: Bontà, una virtù infantile; ma già carità e misericordia e responsabilità per l’altro, e già la possibilità di sacrificio in cui l’umanità dell’uomo fa irruzione, disturbando l’economia generale del reale e ponendosi in netto contrasto con la perseveranza di enti che persistono nel proprio essere; per la condizione che l’altro viene prima di se stesso. Dis-inter-essatezza della bontà: l’altro nel suo appello che è un comando, l’altro in quanto volto, l’altro che “mi riguarda” anche quando non ha niente a che fare con me, l’altro in quanto prossimo e sempre straniero – bontà come trascendenza; e io, colui che è tenuto a rispondere, l’insostituibile, e perciò, eletto e quindi veramente unico. Bontà per il primo che si trova a venire avanti, un diritto dell’uomo. Un diritto dell’altro uomo soprattutto29.

Sembra evidenziarsi così un’insistenza maggiore, in Lévinas, sulla frontalità della relazione etica, che mette decisamente ai margini il ricorso introspettivo e vagamente psicanalitico ad un Intrattabile installato al centro del soggetto, della sua relazione con sé e con il proprio vissuto d’infanzia. Ciò si può vedere anche nella struttura levinasiana della chiamata, che rivela il carattere primo e sempre anteriore del rispetto per l’Altro. Nel “racconto” dello sviluppo dell’etica, in Totalità e infinito, dopo i primi due stadi del lavoro-proprietà e dell’incontro con l’alterità femminile nella casa, il vero riconoscimento dell’io avviene mediante la separazione radicale dal familiare, che si produce nell’avvertimento dell’appello dell’Altro assoluto, un appello radicalmente eteronomo e dissimmetrico, che mi precede da sempre e che come tale non dipende da me, né tanto meno dalla mia risposta, è un a priori etico, eppure è ciò che mi rende un io in quanto da esso io mi sento scelto. Questo

29. Ibidem, p. 48, trad. nostra.

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Altro ha indubitabilmente il carattere dell’ingiunzione e del comando, della Legge. Eppure, per quanto asimmetrico ed eteronomo, questo assoluto levinasiano ci incontra sempre nel modo dell’epifania di un volto umano. Slavoj Žižek ha tematizzato questa sorta di “umanismo” di ritorno in Lévinas. L’etica del volto ne avrebbe costituito il momento chiave, addomesticando l’Altro Intrattabile affinché fosse possibile quella dialettizzazione del rapporto che, come si è visto, Lyotard aveva espressamente escluso: «il volto umano “ingentilisce” la Cosa terribile che è la realtà ultima del prossimo»30. La spiegazione di questo “limite” dell’analisi levinasiana è espressamente identificata da Žižek: «Quello che Lévinas tralascia di includere nell’ambito dell’umano è piuttosto l’inumano in sé, la dimensione che elude il rapporto diretto fra gli uomini»31. I due – Lévinas e Žižek – si richiamano in effetti ad una stessa tradizione giudaica, dandone però due letture sensibilmente discordanti nell’atto di qualificare il volto dell’Altro. Certamente entrambi riconoscono nell’archetipo della Legge il legame tra libertà e responsabilità del soggetto32, ma Žižek

30. S. Žižek, Il prossimo e altri mostri: appello alla violenza etica, in S. Žižek-E. L. Santner, Odia il prossimo tuo. Il movente teologico dello scacchiere politico, Transeuropa, Massa 2009, p. 105. 31. Ibidem, p. 121. L’Inumano – anch’egli usa l’iniziale maiuscola – rimane sempre per Lévinas ciò che di inestirpabile nell’essere «per via dell’invalicabile fermezza della cucitura che consolida la sua stoffa – materiale, fisiologica, psicologica e sociale – sempre contrasta e limita il libero arbitrio dell’uomo» (Lévinas, The Rights of Man and Good Will, cit., p. 47; trad. nostra). 32. «E questa vulnerabilità originale dovuta alla mia esposizione costitutiva all’Altro, lungi dal limitare la mia autonomia la fonda: quello che fa di un individuo un uomo e quindi qualcosa di cui siamo responsabili, verso cui abbiamo un dovere di solidarietà, sono proprio la sua finitezza e la sua vulnerabilità» (Ibidem, p. 93).

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– in questo più vicino a Lyotard – riconosce all’Altro lo statuto psicanalitico di un fenomeno riflesso all’interno del soggetto, come suo limite intrinseco e deformante di conoscibilità: Riconoscere l’altro, allora, non significa in primis e in ultima analisi riconoscerlo per delle sue caratteristiche ben definite (“ti riconosco in quanto […] razionale, buono, carino”), ma significa riconoscere se stessi e l’abisso della propria impenetrabilità e opacità33.

L’Altro-inumano, installato nella coscienza dell’io, è primariamente, per Žižek, un trauma. Non più coincidente con esso, ma differita in un’ulteriore figura di alterità, quella del Grande Altro simbolico di lacaniana memoria, la Legge mosaica funziona verso di esso come un argine isolante, che impedisce che possa collassare su ogni figura di altro, su ogni volto levinasiano che si incontra nella socialità quotidiana. La Legge mantiene perciò qui il suo carattere autoritario e violento, ma per porre rimedio ad una violenza più originaria, quella dell’incontro traumatico con il prossimo/Altro-inumano: Contrariamente alla filosofia New Age che in ultima analisi riduce il mio prossimo/Altro al riflesso della mia immagine o allo strumento attraverso il quale posso realizzare chi sono veramente […], il giudaismo inaugura una tradizione per la quale persiste nel prossimo un nucleo traumatico estraneo. Il prossimo resta una presenza inerte, impenetrabile ed enigmatica che mi istericizza. L’essenza di questa presenza è, ovviamente, il desiderio dell’Altro, un enigma non solo per noi, ma anche per l’Altro34.

Žižek, per il mezzo di Hegel, mostra come l’Altro, che fissa un punto di trascendenza per il soggetto, sia al contempo interno ed esterno, l’abisso di negatività inconoscibile al fondo

33. Ibidem, p. 94. 34. Ibidem, pp. 96-97.

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della stessa soggettività (che Žižek esemplifica nella sartriana trascendenza dell’ego) e il volto ignoto dello straniero (qui il riferimento è evidentemente Lévinas). Il suo merito è di mettere a tema l’identità di queste due figure di trascendenza, connettendole con l’immagine kafkiana del mostro inumano, che egli traduce, lacanianamente, nella Cosa, il Reale. La sintonia con Lyotard sembra essere qui massima: l’Inumano “buono” di cui egli parlava, infatti, si caratterizzava proprio per la dinamica di rinvio dall’alterità esterna asimmetrica (il “maestro” lyotardiano, che impone il silenzio) al vuoto ineffabile che il soggetto rinveniva nel cuore della propria intimità, e che si può descrivere nei termini della dipendenza, del bisogno, dell’Intrattabile: Il prossimo (Nebenmensch) in quanto la Cosa implica che, sotto l’immagine del prossimo come mio semblant, mia immagine riflessa, sta sempre in agguato l’abisso impenetrabile dell’assoluta Alterità, di una Cosa mostruosa che non può essere “ingentilita”35.

L’inumano, proprio come voleva Lyotard, non è più la patologia dell’umano, la sua degenerazione, quanto piuttosto la sua verità più prossima, per quanto inconfessabile perché paradossale: determinare normativamente l’“umano” è possibile solo contro lo sfondo impenetrabile dell’“inumano”, di qualcosa che rimane opaco e resiste alla sua inclusione in qualsiasi ricostruzione narrativa di quel che vale come “umano”36.

Il che vale, se si vuole, come una ricollocazione del concetto di limite in relazione all’umanità: non è più l’inumano il limite, la soglia inferiore dell’umanità piena e presente a se stessa, ma è piuttosto quest’ultima un limite in sé, la dimensione liminare 35. Ibidem, p. 100. 36. Ibidem, p. 121.

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per eccellenza, sempre sul punto di trapassarsi nell’inumano di cui è – da capo a piedi – costituita. Il superamento radicale di Lévinas si consuma esattamente in questo punto: esibendo la contaminazione che l’altro ha subìto da parte dell’Altro nella mostruosità traumatica di un inumano impresentabile. Anche per Žižek, come per Lyotard, figura esemplare del portatore ideale di questa traccia indicibile dell’Altro è il deportato nel campo di concentramento, o – come egli dice citando Giorgio Agamben37 – il Muselmann: Davanti al Muselmann, non riusciamo ad individuare sul suo volto le tracce dell’abisso dell’Altro e della sua vulnerabilità, che incessantemente ci richiama alla responsabilità. Ci troviamo invece davanti un muro cieco, la mancanza di profondità. Forse il Muselmann è allora il prossimo al livello zero, il vicino con cui non è possibile alcuna relazione di empatia. Tuttavia, a questo punto, ci troviamo di nuovo a confrontarci con il nostro dilemma chiave: e se fosse proprio sotto le spoglie della presenza senza volto del Muselmann che facciamo l’incontro con l’appello dell’Altro al suo stato più puro e radicale? E se, davanti al Muselmann, ci troviamo ognuno di fronte alla responsabilità che abbiamo verso l’Altro nel suo punto più traumatico?38

Vi è tuttavia in Žižek un’insistenza, assente in Lyotard, sul carattere di mostruosità del prossimo-Cosa – in ragione del quale la stessa ingiunzione della Legge, come si è visto, ha cambiato significato: non si tratta più di avvicinare l’altro, ma di tenerne a debita distanza il trauma – che difficilmente potrebbe avallare l’immagine di un Inumano “buono”, o perlo-

37. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit. 38. S. Žižek, Il prossimo e altri mostri, cit., p. 126.

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meno eticamente neutro, come quello di Lyotard in ultima analisi si rivela39. Il carattere di eccesso indeterminato e indeterminabile – lyotardianamente “l’Intrattabile”, lacanianamente la “jouissance” – dell’inumano, se in Žižek conserva una connotazione profondamente disturbante – unheimliche – tale da richiedere il taglio della Legge e dell’ordine simbolico, in Lyotard sembra invece non costituire una minaccia, e sortire anzi un certo fascino: è direttamente il riconoscimento di questo stesso inumano a comportare l’insorgenza del “diritto dell’Altro” e l’istituzione della legge. Tuttavia qual è – se c’è – l’agency politica di un soggetto titolare di un simile diritto? L’interrogativo, che si è posto già sopra, attraverso la critica di Rancière a Lyotard, è riproposto da Žižek nei confronti del taglio etico assunto dall’analisi levinasiana:

39. A onor del vero occorre riconoscere che anche l’esito della riflessione di Žižek muove verso una riconsiderazione eticamente neutra dell’alterità, che faccia spazio ad una considerazione politica della giustizia. Questo passaggio costituisce il superamento completo, anzi il rovesciamento, della posizione di Lévinas: «gli altri sono in origine una moltitudine (eticamente) indifferente e amare è un atto violento con cui si interrompe questa moltitudine indistinta privilegiando un Uno come Il prossimo, introducendo uno squilibrio radicale nel tutto»: Žižek, Il prossimo e altri mostri, cit., p. 155. Contro questa presa di posizione, la realizzazione della vera giustizia, che Žižek definisce «il vero passo etico», ma che in realtà si può facilmente considerare già come il trapasso nel politico, è quel gesto che «va al di là del volto dell’altro, quello che non rimane più attaccato al suo volto, quello di scegliere a favore del terzo contro quel volto. […] il gesto di vera giustizia non è rispettare il volto che mi sta di fronte, apririmi alla sua profondità, ma astrarre da esso e rimettere a fuoco il Terzo senza volto che sta sullo sfondo» (ibidem, p. 157). Al contrario di quanto sostenuto da Lévinas, per Žižek il Terzo non può essere ritenuto secondario rispetto alla frontalità del dialogo etico; esso è sempre già presente: «Il Terzo è un fatto formale trascendentale» (ibidem, p. 158).

95 Lungi dal predicare semplicemente il fondamento della politica nell’etica del rispetto e della responsabilità verso l’Altro, Lévinas insiste invece sulla loro assoluta incompatibilità, sul vuoto incolmabile che le separa: eticamente è sempre implicita una relazione asimmetrica che sempre già presume la mia responsabilità verso l’Altro, mentre la politica è il luogo dell’uguaglianza simmetrica e della giustizia distributiva. Tuttavia, non è questa soluzione fin troppo chiara e pulita? Cioè, questa concezione della politica non è già post-politica, escludendo la dimensione propriamente politica (a causa della quale Hannah Arendt affermava che la tirannia è politica allo stato puro), in breve, escludendo proprio la dimensione che Carl Schmitt definiva “della teologia politica”?40

Il recupero, da parte di Žižek, di un’intenzionalità più-che-etica – se non contro-etica, letteralmente immorale – del Grande Altro simbolico della Legge nei confronti dell’inumano latente in ogni soggetto titolare dei diritti umani universali, sembra dischiudere la possibilità di un nuovo discorso politico. La nozione stessa di politica, come si è appena letto, promette di uscirne ridisegnata. Si tratta, in fondo, di non rassegnarsi alla passività del racconto vittimario cui la constatazione della pervasività dell’inumano sembra dover condurre. Si tratta di organizzare una strategia della resistenza e dell’azione contro il disarmo di libertà cui il sovraccarico di responsabilità per l’altro, lungo questo itinerario di pensiero, ha dato l’impressione di portare. In primo luogo, dunque, con Lyotard si dovrà dire: la questione che io pongo è semplicemente questa: che cosa resta, come “politica”, oltre alla resistenza a questo inumano? E che altro resta, per resistere, oltre al debito che ogni anima ha contratto con la miserabile e ammirevole indeterminazione da cui è nata e non finisce di nascere? Che è come dire, con l’altro inumano?41 40. S. Žižek, Il prossimo e altri mostri, cit., p. 108. 41. J.-F. Lyotard, L’inumano, cit., p. 24.

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In secondo luogo occorrerà anche chiedersi se un tale recupero di agency sia possibile alla luce delle riflessioni maturate e delle conquiste teoriche raggiunte in questo itinerario; senza, cioè, ricadere sostanzialmente nell’oblìo di quell’alterità che abbiamo visto riscrivere il concetto di diritti umani. C’è, in breve, una possibilità di dare dignità politica ai diritti umani come “diritto dell’altro”?

3. La causa politica dell’altro in Jacques Rancière La posta in gioco considerata sembra costituire l’asse principale della riflessione sull’argomento da parte di Jacques Rancière, che lo stesso Žižek d’altronde cita come riferimento fondamentale per l’intersezione teorica tra diritti e inumanità dell’uomo42. Si è già visto come Rancière eviti – e anzi, critichi apertamente – il ricorso all’argomento dell’Inumano, persino nella versione “buona” di Lyotard. Ciò non comporta automaticamente, però – è l’ipotesi che si tenta di verificare qui – il rigetto sic et simpliciter della figura dell’altro nella discussione sull’agency del soggetto titolare di diritti umani. Ad essere rifiutata è la curvatura morale del discorso dell’altro, che Rancière imputa a quella «svolta etica contemporanea» che è «la congiunzione singolare di due fenomeni: da una parte, l’istanza del giudizio che giudica e sceglie si trova sminuita di fronte alla potenza della legge che s’impone; dall’altra la radicalità di questa legge che non lascia scelta si riporta alla semplice costrizione di uno stato di cose. La crescente indistinzione del fatto e della legge

42. Cfr. S. Žižek, Diritti umani per Odradek?, Nottetempo, Roma 2005.

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dà luogo allora a un’inedita drammaturgia del male, della giustizia e della riparazione infinita»43. Di questo scantonamento nella cieca indistinzione di fatti e valori è esplicitamente imputabile la filosofia lyotardiana dell’inumano (ma si potrebbe aggiungere, a maggior ragione, l’etica del volto levinasiana). Riducendo l’umano, come si è visto, all’alternativa tra vittima e carnefice, essa inibisce l’esercizio della scelta e della riconfigurazione antropologica del reale, che è per Rancière l’essenza ultima della politica: non, «come si dice spesso, l’opposto della morale», ma «semmai la sua divisione»44. Esporci al trauma di un male assoluto, che ci confonde e ci spiazza perché è l’Altro, ma ci abita e inquieta dal di dentro, non lascia per Rancière alcuna speranza alla politica e svuota di performatività i diritti umani universali, prestandosi piuttosto alla deformazione (e spesso alla strumentalizzazione: militare, geopolitica, capitalistica…) dell’“umanitarismo”. E così, parimenti, l’ambiguità fra l’umano e l’Inumano che dovrebbe qualificarne, espropriandola, la natura: si tratta di paradossi verso i quali Rancière non nutre alcuna simpatia. Se si asseconda questa svolta etica, di cui Lyotard sarebbe il paradigma, si toglie qualsiasi argomento alla politica, esponendo l’umano alla più completa vulnerabilità, imprigionato nella datità del reale: immagine plastica di quest’uomo è – ancora una volta – l’Homo sacer di Agamben, abbandonato al destino ontologico di un campo di concentramento, che è ormai il paradigma della modernità democratica. In questo contesto «l’Olocausto appare come la verità nascosta dei diritti dell’uomo – vale a dire lo stato di vita nuda, indifferenziata, che è il

43. J. Rancière, Il disagio dell’estetica, cit., pp. 107-108. 44. Ibidem, p. 108. Corsivo nostro.

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correlato del biopotere»45. Infatti gli stessi diritti umani si riducono a diritti della vittima assoluta, i diritti di chi non ha diritti. Rancière lo dimostra ricordando il loro “scadimento” storico recente, nel passaggio che dai dissidenti politici nell’Europa dell’Est degli anni Settanta e Ottanta li ha portati nelle mani dei migranti, dei disperati del Terzo Mondo, dei profughi in fuga dalle guerre religiose dei giorni nostri: lungo questi pochi decenni i diritti umani si sono sempre più allontanati dalla loro messa in pratica politica, sono stati sempre più relegati a quell’astrazione perbenista che definiamo “umanitaria”: In ultima analisi, quei diritti appaiono effettivamente vuoti. Sembra che non siano di alcuna utilità. E quando non sono di alcuna utilità, si fa la stessa cosa che le persone caritatevoli fanno con i loro vecchi vestiti. Li si dà ai poveri. Quei diritti che sembrano essere inutili nel loro posto vengono inviati altrove, assieme a medicine e vestiti, alla gente priva di medicine, vestiti e diritti. È così che, come esito di questo processo, i diritti dell’uomo diventano i diritti di chi non ha diritti, i diritti dei meri esseri umani soggetti alla repressione inumana e ad inumane condizioni di vita. Diventano diritti umanitari, i diritti di chi non può esercitarli, le vittime dell’assoluta negazione del diritto46.

Non solo: se sono i diritti di chi, per definizione, non ha diritti, allora i diritti umani-umanitari dovranno essere esercitati – in loro vece e per il loro interesse, naturalmente – da terzi, precisamente da coloro che glieli avevano ceduti non sapendo più cosa farsene:

45. J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, cit., p. 301, trad. nostra. 46. Ibidem, p. 307, trad. nostra.

99 Il “diritto di ingerenza umanitaria” potrebbe essere descritto come una sorta di “ritorno al mittente”: i diritti inutilizzati che erano stati inviati ai senza diritto sono restituiti ai mittenti47.

Ecco come Rancière chiarisce in che senso la posizione di Lyotard e la svolta etica che asseconda sarebbero «l’affermazione di un diritto dell’Altro che fonda filosoficamente il diritto degli eserciti interventisti»48. Nondimeno, la stessa provocazione paradossale žižekiana, che proponeva il taglio violento della relazione con il prossimo traumatico attraverso l’intervento della Legge, non sembra poter soddisfare Rancière, il quale – pur senza riferimenti diretti – fa notare come l’esorcizzazione del trauma dell’alterità sia in definitiva proprio l’argomento “umanitario” a sostegno dell’interventismo militare all’epoca del terrore e del terrorismo (il nome politico odierno del trauma): La giustizia infinita prende allora il volto “umanista” della violenza necessaria a mantenere l’ordine della comunità attraverso l’esorcizzazione del trauma49.

Non è questo, per il filosofo francese, il passo da muovere in direzione della politica. In realtà sembra essere radicalmente differente la grammatica concettuale stessa con cui, rispetto agli autori presi in esame,

47. Ibidem, pp. 308-309, trad. nostra. 48. J. Rancière, Il disagio dell’estetica, cit., p. 114. 49. Ibidem, p. 110. Rancière fa notare come “giustizia infinita” fosse esattamente il nome dell’operazione militare globale scatenata da George W. Bush contro “l’asse del male” all’indomani dell’11 Settembre 2001. Tale è lo schema securitario che si riproporrebbe ancora oggi in occasione di ogni “guerra umanitaria”: «La guerra umanitaria diventa la guerra senza fine contro il terrore: una guerra che non è affatto una guerra, bensì un dispositivo di protezione infinita, una maniera di gestire un trauma elevato al rango di un fenomeno di civiltà» (ibidem, p. 114).

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egli articola il suo discorso. Ciò che viene fondamentalmente espunto dal suo orizzonte di analisi è l’elemento di trascendenza traumatica che, in modi talvolta sensibilmente differenti, abbiamo comunque visto all’opera sia in Lyotard e Lévinas sia in Žižek. Il piano, politico, su cui opera Rancière è assolutamente immanente ed orizzontale e il trauma originario dell’Altro è riassorbito e interiorizzato nel soggetto. Ciò non significa – beninteso – che Rancière ri-essenzializzi l’uomo dei diritti umani, restituendogli quel “proprio” che gli abbiamo visto negato dal costante rinvio all’Altro, anzi: “uomo” è per lui già un soggetto politico, il che significa un «predicato aperto», nel quale ad essere in questione è chi debba includersi nel suo conto. “Uomo” non definisce nessuna specifica identità, è semmai la promessa di un’identità da costruire attraverso la sua verificazione pratica; l’uomo è una praxis: Sembra allora che uomo non sia il termine vuoto opposto ai diritti effettivi del cittadino. Ha un contenuto positivo che è la destituzione di ogni differenza tra coloro che “vivono” in questa o quella sfera di esistenza, tra coloro che sono o non sono qualificati per la vita politica50.

Non è opportuno, a rigore, chiedersi chi sia l’uomo dei diritti umani, quanto piuttosto verificare attraverso quali pratiche egli possa fare l’uomo che è. Non c’è un uomo dei diritti dell’uomo, ma non c’è alcun bisogno di un tale uomo. La forza di quei diritti risiede nel movimento avanti-e-indietro tra la prima inscrizione del diritto e la scena dissensuale su cui esso è messo alla prova51.

Dissenso è il nome che Rancière conferisce alle pratiche di soggettivazione e di riconfigurazione del reale, attraverso le

50. J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, cit., p. 304, trad. nostra. 51. Ibidem, p. 305, trad. nostra.

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quali può avvenire la verifica della promessa di un’identità che i diritti umani contengono. Tale processo è l’anima della politica e del diritto, e si oppone all’irenistica coincidenza di fatto e legge, tipica della logica consensuale della svolta etica. Esso suppone, al contrario, una costante tensione: i diritti umani non possono mai essere ridotti a diritti “reali”, appartenenti a titolari “reali”, devono rimanere diritti contesi, sospesi tra la loro affermazione e la loro verificazione, attribuibili solo a soggetti spettrali, litigiosi. La «causa dell’altro» gioca un ruolo fondamentale nel mantenere alta la tensione di questo dissenso politico; una «causa dell’altro» – specifica subito Rancière in un’omonima conferenza del 1995 – «non intesa come preoccupazione morale che limiti i diritti della politica, ma come elemento di un dispositivo politico di soggettivazione»52. Cosa significa assegnare una funzione politica alla figura dell’altro? Innanzitutto considerarla a partire dall’io, dal soggetto, “interiorizzandola”, per così dire, senza che perda il suo carattere di alterità. L’esempio di “altro” cui a tal proposito fa riferimento Rancière è quello degli algerini (a rigore, dei franco-algerini – il che è di fondamentale importanza nel discorso di Rancière, come si vedrà) contrapposti ai francesi nella drammatica guerra di liberazione dal dominio coloniale. Ora, c’è un modo di assolutizzare l’alterità di quegli algerini in lotta per distinguersi dai francesi, che è il modo in cui Sartre, agli occhi di Rancière, ha dipinto quella guerra: si tratta del gesto di chi esclude la possibilità di una “causa dell’altro”

52. J. Rancière, La causa dell’altro, in Id., Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2011, pp. 159-173, in part. p. 163. Il testo della conferenza, tenuta nel corso degli incontri “Francia-Algeria. Sguardi incrociati”, organizzati nel maggio del ’95 presso la Maison des écrivains, fu inizialmente pubblicato nel febbraio 1997 sul numero 30 della rivista «Lignes».

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– perché, come Sartre fa notare nella prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon, gli algerini «non sanno che farsene di noi e delle nostre proteste umaniste da anime belle, ultima forma della menzogna coloniale che la guerra manda in frantumi, e a cui la violenza oppone la sua verità»53 – eppure si appropria del valore universale di quella guerra in nome di una morale della responsabilità assoluta, in nome del valore universale di libertà che la guerra in quanto tale, negando la logica della dominazione, dovrebbe assicurare. Adottando la logica ed il linguaggio della guerra, tale prospettiva rinuncia implicitamente alla politica: Il paradosso di questa affermazione anti-morale sta nel fatto che, escludendo una causa dell’altro, essa definiva di fatto un rapporto puramente morale e puramente individuale con la guerra in quanto tale54.

Non cedere alla svolta etica implicita in tale atteggiamento significa per Rancière riconsiderare quella guerra alla luce dei suoi effetti non tanto sugli algerini, sugli altri, quanto sugli io, sul noi dei francesi. Ecco perché diviene essenziale risalire al momento in cui quel noi aveva potuto assumere una “causa dell’altro”, venendo a diretto contatto con quell’alterità: la manifestazione parigina di protesta degli algerini del 17 Ottobre 1961, in cui “gli altri” erano intervenuti politicamente sul suolo francese, come altri e come cittadini francesi, come altri cittadini francesi. In tal modo si ponevano inevitabilmente in relazione con i cittadini francesi comuni, divenivano i loro “altri”, ma secondo un rapporto di analogia, come nel riflesso di uno specchio deformato: gli algerini erano francesi? E se lo erano, se era possibile essere francesi altri rispetto ai cittadini francesi, che ne era di quest’ultima identità, cosa veniva a significare l’essere cittadino francese?

53. Ibidem, pp. 163-164. 54. Ibidem, p. 164.

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È in ultima analisi in una dinamica di rispecchiamento che si pone per Rancière l’uso politico dell’altro. La causa degli algerini mette in moto la soggettivazione politica dei francesi. La differenza con l’altro esterno, interiorizzata, riflessa, riporta alla differenza intrinseca all’essere-francese in quanto tale, la differenza tra il soggetto francese e il cittadino francese. Il rapporto tra incluso ed escluso che descrive il processo di soggettivazione politica chiede di essere applicato non tanto e non più agli algerini in lotta, ma precisamente a quei francesi «presi tra due definizioni della cittadinanza: la definizione nazionale dell’appartenenza francese e la definizione politica della cittadinanza come conteggio di coloro che non sono contati»55. Qui soggettivazione vale innanzitutto come dis-identificazione rispetto al proprio sé: Se non potevamo identificarci con quegli algerini comparsi come manifestanti nello spazio pubblico francese e poi subito scomparsi, potevamo però dis-identificarci da quello Stato che li aveva uccisi e sottratti a ogni conteggio. La causa dell’altro come figura politica è innanzitutto questo: una disidentificazione rispetto a un certo sé56.

Questo è per Rancière il vero senso dell’inclusione politica dell’altro: la riscoperta dell’agency del soggetto politico, che può manifestare – nella forma che egli chiama del “torto” – una identità, una forma di visibilità che era considerata invisibile e inammissibile. Che ne è a questo punto dei diritti umani? Anch’essi per Rancière vanno recuperati dal punto di vista dei soggetti politici, anziché delle vittime; dell’umano, anziché dell’inumano; dell’io, anziché dell’altro. Tali diritti ma55. Ibidem, p. 168. 56. Ibidem, p. 167.

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terializzano l’istituzione contingente di una “causa dell’altro” ricondotta alle sue ragioni politiche. Sono i diritti dell’io che rivendica di poter essere altro rispetto a sé. Sono il diritto a rimanere sospesi nella dimensione paratattica tra l’identità e l’alterità, a poter contare sempre un’identità supplementare rispetto a quella assegnata. Nel segno del paradosso, così come, sfidando la chiosa di Sartre a Fanon, Rancière scrive che la guerra di liberazione degli algerini «è la nostra guerra e non è la nostra guerra»57, allo stesso modo «i diritti umani sono i diritti di chi non ha i diritti che ha e ha i diritti che non ha»58. Essi, cioè, funzionano in quanto inscrizioni verificabili da parte di un soggetto sempre eccedente, già dislocato rispetto al posto assegnatogli dal sistema, mai coincidente con la realtà che esso dovrebbe mostrare. In maniera più precisa, si potrebbe affermare che tali diritti non conseguono dalla dimostrazione di un’identità, ma la producono, in forma sempre paradossale. Detto altrimenti, il problema dei diritti dell’uomo non è tanto, per Rancière, un problema di titolarità e di appartenenza, quanto di verificazione, implementazione e mise-en-scène di quei titoli. In ogni caso, i diritti umani rimangono sempre i diritti di una prima persona: l’alterità è stata già metabolizzata in essi come scarto di dis-identificazione ed eccedenza, perciò non possono essere delegati alla tutela di una seconda o terza persona. Devono essere affermati e verificati direttamente da coloro che possono farsene qualcosa. Nessuno può sostituirsi nell’esigerli. Nessuno può essere umano al posto di qualcun altro.

57. Ibidem, p. 164. Corsivo nostro. 58. J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, cit., p. 302, trad. nostra.

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I diritti dell’altro uomo e gli obblighi verso l’essere umano: Emmanuel Lévinas e Simone Weil Rita Fulco

1. I diritti dei senza diritti Perché difendere i diritti umani, ma soprattutto difenderli a partire da quali presupposti? Dal momento della proclamazione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948, i diritti umani e il loro linguaggio sono entrati a far parte massicciamente di quello ufficiale dell’Occidente, e lo hanno permeato a tal punto che il riferimento ad essi sembra costituire una vera e propria linea di demarcazione tra l’emisfero morale dei giusti e quello degli ingiusti. Tuttavia, già l’assemblea dell’ONU che li approvò era formata anche da Paesi che palesemente li violavano. Questo vulnus segna, purtroppo, l’evento storico in cui vide la luce la Dichiarazione del 1948 e mostra tutta la fragilità, se non addirittura l’intrinseca contraddizione, tra la sfera della proclamazione e quella dell’effettiva attuazione di tali diritti. Come ogni nozione che faccia parte della sfera del diritto o della politica, i diritti umani sono stati soggetti ad essere assimilati ai loro fautori, dunque a una “parte”, sia essa una ideologia politica o una parte geografica del mondo: prodotti dall’Occidente, come tali vengono assunti e, spesso, criticati

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nella loro pretesa di valere universalmente. Già da Marx – e da tutta la sinistra che ne ha utilizzato le argomentazioni – erano stati stigmatizzati in quanto baluardo dell’individuo moderno, frutto dell’ideologia borghese1; oppure, in modo acutamente preveggente, indicati da Carl Schmitt come maschera umanitaria di nuove forme di imperialismo2; o, in tempi più recenti, radicalmente contestati come complici dello “statuto di vittima”, impedendo forme di soggettivazione delle vittime stesse3. D’altra parte, se si valutasse l’efficacia dei diritti umani a partire dal grado attuale di loro giustiziabilità, essa apparirebbe decisamente messa in scacco. A mio avviso, in realtà, è innegabile che i diritti umani, in particolare proprio con la Dichiarazione del 1948, che li ha sganciati dal possesso di una “cittadinanza” territoriale-statuale, introducono davvero nella storia un’idea universale: ogni essere umano, per il solo fatto di essere tale, ha dei diritti inalienabili, che corrispondono, dunque, a degli obblighi da parte di tutti gli altri esseri umani. Grazie ad essi, al di là dell’appartenenza territoriale ad uno stato, ad una cultura, ad una religione, a ciascun essere umano vengono ri-

1. K. Marx, Zur Judenfrage, Reichmann, Berlin 1982; tr. it. di D. Fusaro, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007. 2. C. Schmitt, Der Begriff des Politischen. Text von 1932 mit einem Vorwort und drei Corollarien, Duncker & Humblot, Berlin 1963; tr. it. di P. Schiera, Il concetto di ‘politico’, in C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1972, in particolare le pp. 137-143 in cui il bersaglio polemico di Schmitt è il concetto stesso di “umanità”. 3. Si vedano, tra gli altri, A. Badiou, L’éthique. Essai sur la conscience du mal, Nous, Caen 2003; tr. it. di C. Pozzana, L’etica. Saggio sulla coscienza del male, Cronopio, Napoli 2006; S. Žižek, Against human rights, “New Left Review”, 34, 2005; tr. it. di D. Cantone, Contro i diritti umani, il Saggiatore, Milano 2005 (un’ulteriore traduzione italiana, dello stesso anno, si intitola Diritti umani per Odradek?, tr. it. di M. Agostini, Nottetempo, Roma 2005). Queste posizioni si possono certamente annoverare tra quelle criticamente più virulente nei confronti dei diritti umani.

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conosciuti dei diritti fondamentali che ne tutelano l’intrinseca dignità. Sono dunque proprio i più deboli e i più vulnerabili, coloro che spesso non hanno neppure voce, che, grazie a tale riconoscimento di diritti umani fondamentali, possono sperare di trovare le forme di un’esistenza meno oppressiva, più libera e giusta. È tuttavia innegabile che, nella loro lunga storia, i diritti umani rappresentino dei valori fondanti dell’Occidente, tanto da essere considerati, come sottolinea Emmanuel Lévinas, «misura di ogni diritto e, indubbiamente, dell’etica di ognuno di essi»4. Come anche Simone Weil aveva riconosciuto, ben prima della Dichiarazione del 1948, a proposito della “Lega per i diritti dell’uomo” nella Parigi degli anni Venti: «La Lega non può rendere possibile l’impossibile, ma può realizzare tutto ciò che i governi, ingannandosi o ingannandoci, hanno dichiarato a torto essere impossibile»5, rimarcando la loro vocazione 4. E. Lévinas, Les droits de l’homme et les droits d’autrui, in Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987; tr. it. di F.P. Ciglia, I diritti umani e i diritti altrui, in Fuori dal Soggetto, a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Genova 1992, p. 123. 5. S. Weil, Pour la Ligue, in Œuvres complètes, t. II, Écrits historiques et politiques, vol. 1, L’engagement syndical (1927-juillet 1934), textes rassemblés, introduits et annotés par G. Leroy, Gallimard, Paris 1988, p. 55. Simone Weil ed Emmanuel Lévinas sono due pensatori che non possono essere annoverati tra i difensori dei diritti umani tout court. Anzi, ciascuno a suo modo, avendo mosso notevoli critiche nei confronti del Diritto in generale, non manca di far riverberare questa critica anche nei confronti di quel diritto soggettivo implicato nella concezione dei diritti umani. Seppure con esiti diversi, la loro convergenza si colloca nel gesto di un necessario capovolgimento di prospettiva, da quella del diritto a quella del dovere. Simone Weil muore nel 1943 – scrive, dunque, prima di Lévinas sulle questioni inerenti al diritto e agli obblighi – ma il suo rapporto con Lévinas è, in genere, legato esclusivamente alle critiche che quest’ultimo ha sferrato nei suoi confronti a causa delle durissime posizioni weiliane sull’ebraismo; in realtà, a mio avviso, gli scritti di Weil sono fonte di ispirazione per alcuni dei pensieri più acuti e innovativi di Lévinas. Sul loro rapporto mi sono soffermata in R.

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essenzialmente extra-territoriale, in virtù della quale è possibile interrompere la collusione tra diritto e politica, in particolare nei momenti in cui in gioco ci siano interessi nazionali e statali. Ciò comporta, necessariamente, una fondamentale scissura tra due ambiti non di rado considerati inscindibili, cioè quello del potere politico dello Stato e quello della sfera di diritti ritenuti intangibili e indisponibili, che si sottraggono alla presa di questo potere e che anzi possono essere rivendicati persino contro di esso. Un’ulteriore scissura è quella tra la sfera del Diritto e quella della Giustizia. I diritti umani prefigurano, infatti, una relazione in cui l’obbligo quasi costitutivamente prevale sulla rivendicazione del diritto: proprio perché riguardano diritti fondamentali, i soggetti che dovrebbero rivendicarli sono a tal punto “assoggettati” da non poterli richiedere in prima persona, il che li trasforma necessariamente in diritti per l’altro. Quando, per dirlo con le parole di Weil, sotto il peso schiacciante del malheur6, della sventura, gli uomini

Fulco, Emmanuel Lévinas e Simone Weil: in divergente accordo, “Quaderni di Inschibboleth”, 3, 2014, pp. 25-48. 6. Nozione fondamentale del pensiero di Simone Weil, il malheur, molto più del mero dolore fisico, dell’indigenza o dell’umiliazione, è solitamente tradotto in italiano con il termine sventura; tutte le opere weiliane fanno costante riferimento ad esso, come condizione intrinseca all’essere nel mondo. Si veda, ad esempio, per notarne la ricorrenza nei Quaderni, l’indice tematico curato da Maria Concetta Sala in S. Weil, Quaderni IV, a cura e con un saggio di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993. Tuttavia, lo scritto più importante sulla questione del malhuer è S. Weil, L’amour de Dieu et le malheur, in Œuvres Complètes, t. IV, Écrits de Marseille, vol. 1, Philosophie, science, religion, questions politiques et sociales (1940-1942), textes établis, présentés et annotés par R. Chenavier avec la collaboration de M. Broc-Lapeyre, M.A. Furneyron, P. Kaplan, F. de Lussy et J. Riaud, Gallimard, Paris 2008; tr. it. di M.C. Sala, L’amore di Dio e la sventura, in S. Weil, Attesa di Dio, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 2008. Uno degli scritti weiliani in cui il malheur è preso in considerazione come esito della forza bruta che domina

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sembrano quasi essere ridotti a cose, è solo a partire da un altro che si impone il dovere di porre riparo alle offese di questa esistenza, la quale richiama ciascuno ad una responsabilità etica, prima ancora che giuridica. In questa significativa torsione, che preferisce guardare il diritto non dal punto di vista del Soggetto, di un individuo s-legato dalla sua co‑esistenza con altri, ma dal punto di vista dell’altro, di chi è obbligato a rispondere e a risponderne, si registra la singolare convergenza tra Emmanuel Lévinas e Simone Weil sulla quale intendo soffermarmi.

2. Rivendicazioni Ogni qual volta si utilizza il concetto di diritto occorre essere consapevoli che il punto di partenza è sempre una rivendicazione: la percezione soggettiva di un’ingiustizia fa sì che il soggetto – cioè qualcuno in grado di esprimersi, esercitare la propria volontà, usufruire delle proprie capacità fisiche e mentali –, qualora venga leso, possa rivendicare il diritto di essere trattato con equità, nome a cui spesso è “ridotta” la Giustizia – per quanto in modo del tutto condivisibile e funzionale alla pratica del diritto – nell’ambito del diritto positivo. L’intervento di una forza esterna affinché tale equità sia rispettata è inevitabile, visto che senza una forza, senza la sanzione imposta dalle norme e attuata, senza polizia e tribunali, il diritto e le sue rivendicazioni non avrebbero alcuna reale

la natura è S. Weil, L’Iliade ou le poème de la force, in Œuvres Complètes, t. II, Écrits historiques et politiques, vol. 3, Vers la guerre (1937-1940), textes établis, présentés et annotés par S. Fraisse, Gallimard, Paris 1989; tr. it di M.C. Sala, L’Iliade o il poema della forza, in S. Weil, La rivelazione greca, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 2014.

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effettività7. Lo scopo del diritto positivo è quello di mantenere o realizzare, dunque, una situazione di equità; pur evidenziandone i limiti, Lévinas riconosce al diritto – non di rado da lui chiamato ‘giustizia’, cosa che ha generato spesso una pesante confusione teorica, poiché con tale termine si riferisce anche, in certi casi, all’etica del faccia-a-faccia – un valore irrinunciabile, proprio rispetto a quella istanza che, attraverso la figura del Terzo, definisce lo spazio e la possibilità della convivenza civile: «È necessaria la giustizia, vale a dire la comparazione, la coesistenza, la contemporaneità, il raccoglimento, l’ordine, la tematizzazione, la visibilità dei volti […], una compresenza su una base di uguaglianza come davanti a una corte di giustizia. L’essenza, come sincronia: insieme-in-un-luogo»8. 7. Il legame del diritto con la forza è stato oggetto di una critica densa e puntuale che ha attraversato il pensiero occidentale da Spinoza a Pascal, da Kant a Marx, da Benjamin a Arendt, a Derrida. Al di là dell’esito anarconichilista benjaminiano, risulta interessante porre l’accento sul nodo problematico che lega il diritto alla forza, sia nel momento della sua istituzione (la violenza fondatrice), sia nello sforzo del suo perdurare (la violenza conservatrice). Ad argomentare magistralmente le questioni che stanno alla base della tensione tra diritto e giustizia è Jacques Derrida che descrive il loro chiasmo come costantemente inquietato da una violenza, dei mezzi e/o dei fini, che rende sempre im-possibile la “realizzazione” della giustizia, la quale, proprio per questo, non può prescindere dal Diritto, pur non esaurendosi – e compiendosi – mai in esso (cfr. J. Derrida, Force de loi. Le «fondement mystique de l’autorité», Galilée, Paris 1994; tr. it. A. Di Natale, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, a cura di F. Garritano, Bollati Boringhieri, Torino 2003). 8. E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 197. Gérard Bensussan, a tal proposito, afferma: «Il comune, la comunità, la politica, la Giustizia – supponendo che tali termini siano equivalenti, cosa che strettamente non sono – vengono richiesti in virtù dell’esser “insieme-in-un-luogo”. Sono “necessari”, ma vengono richiesti dopo il “non-luogo della soggettività”, dopo quel fuori-daogni-luogo che è la responsabilità. Qui sta tutto il problema» (G. Bensussan, Éthique et expérience. Lévinas politique, La Phocide, Strasbourg 2008; tr. it.

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Weil, invece, intraprende una critica molto più radicale del diritto, che riguarda anche la ‘violenza’ intrinseca all’atto di rivendicazione soggettiva, implicita e implicata in ogni diritto, e la risposta, per lei necessariamente violenta, del diritto: il diritto può essere garantito esclusivamente dalla forza, per questo tutti i suoi apparati sono intrinsecamente violenti9. Tale legame con la forza non è dunque puramente strumentale, ma intacca la stessa natura del diritto, risospingendo il diritto entro un orizzonte non ancora pienamente ‘umano’, ma condizionato, piuttosto, dalle leggi di natura. L’umanità dell’umano, per usare la terminologia levinassiana, è da ricercarsi su di un altro livello, cioè quello della Giustizia, che risponde a una diversa istanza, che, riguardando ogni essere umano, potremmo quasi definire ontologica (a patto di intenderla nel senso levinassiano dell’etica come filosofia prima). Essa si afferma attraverso un grido, un appello profondo che prende corpo in ogni essere umano, dalla nascita alla morte, qualsiasi sia stata la sua condotta durante la vita. Tale appello – che Lévinas vede espresso nel comandamento biblico “tu non ucciderai” inscritto nel volto di ciascun altro – è, secondo Weil, presente in modo costante, anche se spesso muto, in ogni essere umano, che chiede: «perché mi viene fatto del male?»10. Attraverso questo grido, parla la parte più profonda di un’umanità ferita; essa è la domanda originaria della vulnerabilità stessa. Simone di S. Geraci, Etica ed esperienza. Lévinas politico, Mimesis, Milano 2010, p. 29). Sulla necessità del diritto e delle istituzioni Lévinas ci ha lasciato pagine altrettanto interessanti di quelle relative alla loro critica. Mi sono soffermata su tali questioni in R. Fulco, L’ordinamento giuridico-politico, in R. Fulco, Essere insieme in un luogo. Etica, politica, diritto nel pensiero di Emmanuel Lévinas, Mimesis, Milano 2013. 9. Cfr. S. Weil, La personne et le sacré, in S. Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957; tr. it. a cura di M.C. Sala, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012. 10. S. Weil, La persona e il sacro, cit., pp. 13-15, 37, 47, 50.

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Weil individua, infatti, nell’esistenza di tale appello al fondo di ogni essere umano – dovremmo forse dire, radicalizzando la sua posizione, di ogni essere vivente – la prova dell’intangibilità della singolarità di ciascuno, ancor più che della vita in sé e per sé. Si tratta di un’indicazione importante, poiché attraverso di essa Weil sembra voler cogliere proprio il nucleo più profondo dell’umanità dell’umano: la vulnerabilità, in tutte le sue forme, è il tratto comune ad ogni singolo essere umano ed è ciò che consente di parlare dell’umanità come di un genere11. Simone Weil fa della vulnerabilità il centro della sua proposta teorica di ripensamento – e contestazione – della soggettività e, insieme ad essa, anche di ripensamento – e contestazione – del diritto12. Nell’orizzonte della necessità naturale, come Tucidide ha intuito una volta per tutte, si è inevitabilmente spinti all’espansione del proprio io: «sempre, per una necessità di natura, ciascuno comanda ovunque ne abbia il potere»13. In questa risposta pronunciata dagli ateniesi che si accingono impietosi a sterminare i Melii, nonostante la richiesta di 11. Un’analisi particolarmente feconda della questione della vulnerabilità in relazione alle forme più estreme di violenza sui soggetti più indifesi è quella di A. Cavarero, Orrorismo, ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007. 12. La sua critica, come quella di Lévinas, è rivolta al Soggetto così com’è stato concepito nel pensiero occidentale da Descartes in poi – secondo la nota analisi heideggeriana – e che Hobbes ha introdotto nel pensiero politico, nelle vesti dell’individuo-lupo dello stato di natura. Ciò che lo caratterizza non è tanto la vulnerabilità, quanto il conatus essendi, la volontà di potenza. Tale Soggetto è imprigionato ancora in un orizzonte “naturale” di necessità, dominato dalla legge del più forte. Su queste questioni mi sono soffermata anche in R. Fulco, L’obbligo oltre il diritto: Simone Weil e la responsabilità per altri, in AA. VV., Pensiero e giustizia in Simone Weil, a cura di S. Tarantino, Aracne, Roma 2009, pp. 19-41, a cui mi permetto di rimandare per l’analisi di alcuni passaggi – relativi, ad esempio, ai primi scritti weiliani – che qui vengono solo accennati. 13. Tucidide, La guerra del Peloponneso, V, 89, 105.

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grazia di questi ultimi, Weil trova sintetizzata l’essenza della soggettività di “diritto”: di fronte a una soggettività di tal fatta, la vulnerabilità non può rivendicare alcun diritto, non è anzi neppure contemplata nell’orizzonte della relazione naturale, in base alla quale chi non ha abbastanza forza è condannato a soccombere: la natura è dalla parte del più forte e del suo diritto. Per la difesa di chi non ha forza, per il debole e il vulnerabile è necessario un altro orizzonte, un altro linguaggio, quello non del diritto, ma dell’obbligo.

3. Obblighi La centralità della nozione di obbligo è legata in Weil, ancor più che alla sua proposta im(politica), proprio alla decostruzione della soggettività di diritto14: se un essere umano fosse solo nell’universo non avrebbe, a rigore, nessun diritto, ma certamente avrebbe degli obblighi, in primis degli obblighi verso se stesso15. Ciò è conseguenza del fatto che è sempre l’essere umano in quanto tale ad essere oggetto di obbligo: «C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia ad intervenire; e persino quando egli stesso non ne riconoscesse

14. Il legame tra l’impoliticità della proposta weiliana e la decostruzione della soggettività è stata acutamente messa in luce da R. Esposito, Politica dell’ascesi, in Categorie dell’impolitico, il Mulino, Bologna 1999. 15. S. Weil, L’Enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, in S. Weil, Œuvres Complètes, t. V, Écrits de New York et de Londres, vol. 2, textes établis, présentés et annotés par R. Chenavier et P. Rolland, collaboration de M.-N. Chenavier-Jullien, Gallimard, Paris 2013; tr. it. di F. Fortini, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, con uno scritto di G. Gaeta, SE, Milano 19902, p. 13.

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alcuno»16. Esserci dell’uomo e darsi dell’obbligo sono simultanei: l’uomo sarebbe, cioè, già da sempre un essere in obbligo. Questo può ritenersi vero, tuttavia, soltanto se ciò che caratterizza la singolarità non venga considerata l’autonomia del soggetto, il suo conatus essendi, ma la vulnerabilità. Attraverso il darsi dell’obbligo Simone Weil intuisce un quid che concerne la stessa umanità dell’umano: l’oggetto dell’obbligo è, infatti, l’essere umano in quanto tale, dunque l’obbligo svela qualcosa della stessa ontologia dell’umano. Tuttavia, non è affatto scontato che da ciò derivi un comportamento conseguente, ossia che la consapevolezza di essere vulnerabili, e dunque in obbligo verso l’altro, comporti anche l’assunzione etica della responsabilità reciproca tra tutti i membri del genere umano; fatto che, anzi, con tutta evidenza, viene smentito in ogni momento. Proprio da tale secca smentita deriva l’inoppugnabile necessità dei vari apparati giuridici, che tuttavia reintroducono la violenza e la forza che intendono combattere. Weil sembra credere piuttosto, in modo forse ingenuo, alla potenza dell’educazione e dell’istruzione, al fine di plasmare esseri umani disposti a riconoscere la loro condizione di esseri in obbligo, preferendo puntare, quindi, ad una consensuale assunzione di responsabilità etica; ciò eviterebbe che il rispetto per l’altro abbia bisogno di essere imposto con la forza, poiché sarebbe, alla fine, assunto volontariamente da ciascuno, con una sorta di resa senza condizioni al Bene e alla giustizia. D’altro canto, però, Simone Weil sa perfettamente che a dominare i rapporti tra gli esseri umani è piuttosto la pesanteur, la forza di gravità che, sul piano politico, si traduce in cieco e violento esercizio del potere. Dunque, se la definizione weiliana dell’essere umano capovolge quella che lo presenta metafisicamente come soggetto libero e autonomo e giuridicamente come soggetto di diritto, offrendo invece quella di una singolarità 16. S. Weil, La prima radice, cit., p. 14.

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vulnerabile e in obbligo, dal punto di vista politico e giuridico Weil non riesce a presentare un’alternativa valida a quel Diritto che così causticamente critica e che, di fatto, finirà con l’assumere come orizzonte imprescindibile per la costruzione di una società equa, arrivando addirittura a ritenere necessaria, in certi frangenti, la pena di morte17. Un percorso che appare, per certi versi, vicino a quello di Lévinas e alla sua nota critica al soggetto libero e autonomo. Per Lévinas, tuttavia, di fronte al volto di autrui, che, con la sua semplice esistenza, comanda di non uccidere, l’io è investito da una responsabilità che non ha assunto volontariamente, ma che lo obbliga prima di ogni decisione e di ogni assenso: «la responsabilità non è qui una fredda esigenza giuridica. È

17. La posizione di Simone Weil sul sistema penale e, in particolare, sulla pena di morte, ha un tono, si direbbe, misticheggiante e, contemporaneamente, brillantemente illuministico, in una mescolanza che lascia piuttosto perplessi; ad esempio quando afferma che l’operazione del castigo può essere conclusa allorché «il colpevole è reintegrato nel bene, e deve essere pubblicamente e solennemente reintegrato nella città. Il castigo non è altro che questo. Anche la pena capitale, benché escluda, a rigore di termini, la reintegrazione nella città, non deve essere altro. Il castigo è unicamente un procedimento atto a fornire del bene puro a uomini che non lo desiderano; l’arte di punire è l’arte di destare nei criminali il desiderio del bene puro tramite il dolore o persino tramite la morte» (S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 50). Se è vero che Simone Weil mette sempre l’accento sulla necessità che la pena e il dolore ad essa conseguente siano il più possibile condivisi e accettati da chi ha commesso il crimine, è vero anche che soltanto in rarissimi casi può esserci un qualche consenso rispetto al subire la pena capitale. Nella traduzione che del medesimo scritto weiliano hanno offerto Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, non a caso viene dedicata una lunga nota al sentimento di perplessità da cui, immancabilmente, si viene colti rispetto a questa posizione weiliana: cfr. S. Weil, La persona è sacra?, in S. Weil, Una costituente per l’Europa, a cura di D. Canciani e M.A. Vito, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 360-361.

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tutta la gravità dell’amore del prossimo»18. Per Lévinas la vulnerabilità che si espone nel volto dell’altro rivela il carattere proprio dell’umanità dell’umano ed obbliga a una risposta, a una responsabilità che non possono attendere. Non a partire dall’affermazione o dalla rivendicazione di un Soggetto, ma 18. E. Lévinas, Détermination philosophique de l’Idée de culture, in Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset & Fasquelle, Paris 1991; tr. it. di E. Baccarini, Determinazione filosofica dell’idea di cultura, in Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 221. Agata Zielinski si sofferma sulla differenza tra responsabilità etica e responsabilità giuridica notando che, in realtà, i maggiori presupposti della responsabilità giuridica vengono sostituiti da Lévinas con altri concetti, come accade, ad esempio, per la causalità, che lega il passato al presente dell’agente; tale legame viene sostituito con quello di subordinazione, per cui l’agente risponderebbe già da sempre delle sue azioni nei confronti dell’altro, mutando così, conseguentemente, anche il concetto di responsabilità giuridica: «L’appello viene prima, precede la risposta […]. La passività si sostituisce all’imputabilità classica» (A. Zielinski, Lévinas. La responsabilité est sans pourquoi, Puf, Paris 2004, p. 122). Considerando come infinita la responsabilità verso altri, anche il concetto di obbligo giuridico subirebbe una profonda mutazione: «Obbligo senza imputazione, la responsabilità avrà a che vedere con il dovere nella sua dismisura radicale: dismisura della gratuità, poiché l’altro mi obbliga senza che io possa attendermi nulla in cambio» (ivi, p. 128). A proposito di tali questioni cfr. B. Waldenfels, La responsabilité, in AA. VV., Emmanuel Lévinas. Positivité et transcendance, PUF, Paris 2000; J.-F. Rey, Identité et responsabilité, in Le passeur de justice, Michalon, Paris 1997, pp. 34-43; L. Sesta, “Per tutti e per tutto, e io più degli altri”. Orizzonte e limiti della responsabilità in Lévinas, in AA. VV., Responsabilità di fronte alla storia, La filosofia di Emmanuel Lévinas tra alterità e terzietà, a cura di M. Durante, il Melangolo, Genova 2008, pp. 33-52. Quest’ultimo ritiene, come affermato da Derrida (cfr. J. Derrida, Violence et métaphysique, in L’écriture et la différence, Éditions du Seuil, Paris, 1967; tr. it. di G. Pozzi, Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971), che vi sia la necessità di prevedere un “Dio” come fondamento ultimo del comandamento “non uccidere”; posizione che Derrida, tuttavia, elaborerà in modo differente nelle opere successive, come sottolinea Caterina Resta, che pensa del tutto possibile prescindere da ogni diretto riferimento teologico (C. Resta, Libertà, responsabilità, ospitalità: Emmanuel Lévinas, in L’estraneo: ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il Melangolo, Genova 2008).

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solo dalla risposta data all’altro è possibile pensare a qualcosa come un “diritto”, cioè solo nel suo rovescio di obbligo, di dovere, di responsabilità per l’altro. Vulnerabilità ed esposizione chiamano in gioco quella responsabilità prima di ogni libertà che Lévinas pensa essere l’a priori di ogni diritto. Tutti siamo responsabili di ciascun volto, prossimo o lontano che sia. Una responsabilità preoriginaria, dunque, che comporta un’asimmetria e una diacronia dell’altro rispetto all’io: l’altro è sempre più in alto ed è sempre prima di me, viene prima delle mie, anche giuste, rivendicazioni e prima di ogni mio diritto. Tanto che, nel passaggio – indispensabile – dal piano dell’etica a quello della politica e del Diritto occorre la figura del Terzo per fare anche dell’io un volto tra gli altri volti, verso cui essere responsabili, riconoscendo così i suoi diritti19. La responsabilità levinassiana si può accostare, dunque, all’essere obbligati di cui parla Simone Weil. La prospettiva della responsabilità per ciascun altro e quella degli obblighi verso ciascuna singolarità segnano, anzi, il punto di maggior prossimità tra il pensiero di

19. Sulla figura del Terzo in Lévinas si veda M. Durante, La fenomenologia della legge: la questione del terzo nella filosofia di Emmanuel Lévinas, Thélème, Torino 2002. Derrida è stato tra i primi a sottolineare il fatto che, a partire dalla figura del Terzo, si rivela il double bind da cui l’etica levinassiana è lacerata: «È vero che il terzo protettore o mediatore, nel suo divenire giuridico politico, fa violenza a sua volta, almeno virtualmente, alla purezza del desiderio etico votato all’unico. Donde la spaventosa fatalità di una doppia costrizione. Questo double bind non è mai designato come tale da Lévinas» (J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Addio a Emmanuel Lévinas, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1998, p. 95). Su questo aspetto si è acutamente soffermata C. Resta, Un contatto nel cuore di un chiasmo: Derrida e Lévinas, in L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 135. Sull’istanza del Terzo ho ampiamente riflettuto in R. Fulco, «Il Terzo, misura per la giustizia», in Essere insieme in un luogo. Etica, politica, diritto in Emmanuel Lévinas, cit., a cui mi permetto di rinviare per ulteriori approfondimenti.

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Simone Weil e quello di Emmanuel Lévinas, per quanto sviluppino una prospettiva differente rispetto ai diritti umani20. Se, come abbiamo visto, per Weil l’essere obbligato caratterizza in modo fondamentale l’essere umano, mentre i diritti sono legati alle contingenze, in particolare storiche, l’obbligo invece non può subire alcun genere di condizionamento: «I diritti appaiono sempre legati a date condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato»21. La relazione originaria di obbligazione così concepita ha una ricaduta diretta proprio sull’ambito dei diritti dell’uomo: si può, infatti, concordare con Simone Weil nel notare come vi sia uno scarto tra l’uso del concetto di diritto nell’ambito penale e civile, all’interno di uno Stato, e l’utilizzo di esso nell’ambito dei diritti dell’uomo22; tuttavia 20. Per una panoramica sulle questioni più pressanti inerenti ai diritti umani, tra cui quella della giustiziabilità, cfr. A. Cassese, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2008; per un’esaustiva ricognizione storica, invece, cfr. M. Flores, Storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna 2008, nonché A. Facchi, Breve storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna 2007. Sulle questioni etiche inerenti ai diritti umani e alla giustizia, soprattutto nelle odierne società globali e pluralistiche, cfr. F. Viola, Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000; I. Trujillo, Giustizia globale. Le nuove frontiere dell’eguaglianza, il Mulino, Bologna 2007; B. Celano, Ragione pubblica e ideologia, in AA. VV., Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, a cura di I. Trujillo e F. Viola, il Mulino, Bologna 2007, pp. 355-388. 21. S. Weil, La prima radice, cit., p. 13. 22. A partire dal primo scritto weiliano sul diritto (S. Weil, D’une antinomie du droit, in Œuvres Complètes. t. I, Premiers écrits philosophiques, textes établis, présentés et annotés par G. Kahn et R. Kühn, Gallimard, Paris 1988; tr. it. di M. Azzalini, Un’antinomia del diritto, in S. Weil, Primi scritti filosofici, a cura di M. Azzalini, Marietti, Genova 1999) si comprende come l’antinomia del diritto sottolineata in quel testo abbia una ricaduta sulla concezione dei diritti umani: questi, pur avanzando un’istanza di altissimo valore morale, necessitano, tuttavia, di essere garantiti da una forza esterna. Su questa questione si veda M.A. Cattaneo, Simone Weil e la critica dell’idolatria sociale, ESI, Napoli 2002, p. 20, ma anche T. Greco, La bilancia e la croce. Diritto e giustizia in Simone Weil, Giappichelli, Torino 2006.

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il fatto che ad essere in gioco sia il medesimo termine, cioè diritto, tende ad occultare tale scarto, sia a livello teorico che simbolico. Il linguaggio utilizzato sembra, dunque, teoreticamente inadatto a esprimere quanto i diritti dell’uomo contengano di rivoluzionario, e cioè, innanzitutto, la prospettiva che essi offrono sulla vulnerabilità dell’essere umano. Ciò di cui sono realmente portatori non appartiene, infatti, soltanto alla sfera del Diritto, ma a quella del Dovere: essi hanno bisogno, per essere applicati e rispettati, di un radicale cambiamento di prospettiva che conduca dalla centralità dell’io a quella dell’altro. L’essere attenta alla possibilità del giusto, che Weil riconosceva già tra le due guerre come compito precipuo della “Lega per i diritti umani”, rivestiva tali diritti di una funzione simbolica e politica molto elevata, decisamente al di sopra di ogni altro ordine giuridico, compreso lo Stato sovrano23. Il ruolo giocato dalla Lega in occasione dell’Affaire Dreyfus – la cui portata simbolica, etica e politica per la Francia non è forse mai abbastanza sottolineata dai non francesi – è stata determinante nel giudizio che Simone Weil darà di essa e nel ruolo che attribuirà in seguito alla difesa dei diritti umani:

23. Cfr. S. Weil, Pour la Ligue, cit., pp. 54-55. Anche Roberto Esposito nota a margine questo diverso orientamento di Simone Weil alla fine degli anni Venti, ma sembra considerarlo un capitolo chiuso rispetto alle posizioni che assumerà a Londra. Nella sua acuta analisi delle posizioni weiliane rispetto al diritto – secondo le quali la critica weiliana ad esso è, sostanzialmente, sintetizzabile nella collusione con le logiche del proprio, del possesso e, quindi, del mercato – trascura, infatti, lo scarto tra la critica al diritto tout court e quella ai diritti umani che, invece, si tramuta, in ultima istanza, in una loro convinta difesa (cfr. R. Esposito, Politica dell’ascesi, cit., p. 238, nota 156). In effetti la giovane allieva di Alain, non ancora toccata dall’esperienza religiosa e attivamente impegnata nell’esaltazione della razionalità, ha certamente argomentazioni differenti dalla Weil del periodo londinese. Tuttavia, a mio avviso, l’importanza attribuita ai diritti umani non è mutata e, a ben riflettere, non sono mutate neppure le ragioni per l’attribuzione di una tale importanza.

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«All’inizio dell’affaire Dreyfus, i governanti e tutti coloro che all’epoca venivano considerate persone ragionevoli avevano dichiarato la revisione e l’assoluzione impossibili; ma la Lega, attenta nient’affatto al possibile, ma al giusto, attraverso una sistematica lotta contro i differenti poteri, ha reso il giusto possibile»24. Contro i diversi poteri25, che spesso si alleano per soffocarli, i diritti umani – lo si evince anche dalla loro storia – hanno sfidato spesso ciò che era per molti ritenuto impossibile, in nome di una giustizia che vuole sempre essere più giusta. Una prospettiva simile, incentrata sull’importanza dei diritti umani, la si incontra anche in opere scritte da Weil negli ultimi anni di vita26, nelle quali immagina persino – non senza destare in noi un certo sconcerto per la palese contraddizione con la critica alla violenza del diritto precedentemente svolta – un profilo “penale” per chi si allontanasse dallo spirito di una nuova Dichiarazione dei Diritti, che avrebbe dovuto essere proclamata dopo la sconfitta della Germania. Ciò conferma, dunque, in modo persino iperbolico, un’ammissione implicita, da parte di Simone Weil, dell’impotenza dell’obbligo in ambi-

24. S. Weil, Pour la Ligue, cit., p. 55. 25. Anche nelle sue lezioni di filosofia alle allieve di Roanne, negli anni Trenta, Weil non si stanca di evidenziare tutti i gangli del potere economico che limitano drasticamente l’esercizio dei diritti fondamentali; si veda, ad esempio, S. Weil, «La contrainte – Les “Droits de l’Homme” foulés aux pieds», in Leçons de Philosophie de Simone Weil (Roanne 1933-1934), présentées par A. Reynaud-Guérithault, Plon, Paris 1989; tr. it. di L. Nocentini, «La costrizione: i “diritti dell’uomo” calpestati», in S. Weil, Lezioni di filosofia. 1933-1934, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1999, pp. 170-171. 26. Cfr. S. Weil, Légitimité du gouvernement provisoire, in Écrits de Londres et dernières lettres, cit.; tr. it. di D. Canciani e M.A. Vito, Legittimità del governo provvisorio, in S. Weil, Una costituente per l’Europa, cit.; S. Weil, Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain, in Écrits de Londres et dernières lettres, cit.; tr. it. D. Canciani e M.A. Vito, Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, in S. Weil, Una costituente per l’Europa, cit.

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to giuridico-politico in assenza di un apparato che ne imponga il rispetto27. L’obbligo è ciò che deve ispirare, in particolar modo, i diritti umani, e a cui l’intero sistema giuridico-politico deve tendere, ma resta ineffettuale se non inserito all’interno di un apparato giuridico che lo difenda, potremmo dire, rovesciandolo in diritto.

4. I diritti dell’altro uomo Per Lévinas, invece, essendo inscritti entro la storia dell’Occidente, i diritti umani rappresentano certamente un momento decisivo e fondamentale di tale storia28, e in particolare proprio della storia politica e giuridica occidentale. Il manifestarsi di un pensiero che riesca a formulare qualcosa come un diritto inerente all’essere umano in quanto tale ha costituito una conquista eccezionale dell’Occidente che, a detta di Lévinas, può essere descritta molto più come un salto verso l’origine, piuttosto che verso l’avvenire, dato che nella tradizione biblica il richiamo al rispetto dei diritti dei più deboli era già ben presente nella predicazione, ad esempio, dei profeti d’Israe-

27. La Corte penale internazionale, ad esempio, è stata creata con lo “Statuto di Roma della Corte penale internazionale”, adottato a Roma il 17 luglio 1998, che, però, è entrato in vigore nel luglio del 2002. La Corte è stata pensata essenzialmente per dare risposta ai casi più gravi concernenti la giustiziabilità dei Diritti Umani. 28. E. Lévinas, Droits de l’Homme et bonne volonté, in Entre nous, cit.; tr. it. di E. Baccarini, Diritti dell’uomo e buona volontà, in Tra noi, cit., p. 245. Tra gli studi recenti sui diritti umani, una prospettiva più filosofico-giuridica viene offerta dal testo di S. Benhabib, The rights of others: aliens, residents and citizens, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2004; tr. it. di S. De Pretis, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini, Raffaello Cortina, Milano 2006; ma anche L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2008.

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le, allorché essi invocavano giustizia per lo straniero, l’orfano e la vedova, chiamando in giudizio chiunque non rispettasse i più vulnerabili: «Tutto l’umanesimo occidentale non passa forse per una laicizzazione del giudeo-cristianesimo? I diritti dell’uomo e del cittadino e lo spirito di novità che ha vinto nel XVIII secolo non hanno forse compiuto nel nostro spirito le promesse dei profeti?»29. Secolarizzazione delle voci bibliche che comandavano l’ospitalità per lo straniero e il divieto dell’omicidio, i diritti umani formulati durante le rivoluzioni americana e francese sembrano aver dato finalmente una risposta a quelle istanze che da millenni attendevano nel deserto della separazione tra etica e politica e che, impazienti – come voci profetiche –, auspicavano «l’ingresso dei diritti, legati all’umanità dell’uomo, nel discorso giuridico primordiale della nostra civiltà. L’uomo in quanto uomo avrebbe diritto a un posto eccezionale nell’essere […]; sarebbe il diritto a un’indipendenza o alla libertà di ciascuno riconosciuta da ciascuno»30. Forza e debolezza dei diritti dell’uomo è, infatti, il loro trovarsi sulla soglia tra la necessità di proteggere ogni singolarità e la necessità di un’uguaglianza formale degli individui all’interno del genere umano: tutti devono poter essere sottoposti a giudizio mediante comparazione, con l’oggettività necessaria a formulare norme valide per tutti: universalismo e particolarismo si scontrano nella riflessione levinassiana sui diritti umani, perché la considerazione del “genere” umano, per se stessa, non può dar conto delle singolarità da cui esso è costituito. È certamente utile e necessario considerare gli individui come membri di un genere, per poter anche solo pensare a leggi 29. E. Lévinas, Antihumanisme et éducation, in Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1963, 1976; tr. it. di S. Facioni, Antiumanesimo ed educazione, in Difficile libertà. Saggio sul giudaismo, a cura di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, p. 346. 30. E. Lévinas, Diritti dell’uomo e buona volontà, cit., p. 245.

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che siano atte a difendere determinate categorie, ma anche che possano proteggerle, appunto, in quanto composte da esseri umani. Il rischio, tuttavia, è quello di smarrire la consapevolezza dell’irriducibile differenza del singolo: «Alterità dell’unico e dell’incomparabile, a causa dell’appartenenza di ognuno al genere umano, la quale, ipso facto e paradossalmente, si annullerebbe proprio per lasciare ogni uomo unico nel suo genere»31. I diritti umani, dunque, mettono in crisi il concetto stesso di “genere umano”, nel quale occorre leggere un rapporto tra singolare e universale in cui l’uno non cancelli l’altro, ma lo custodisca nel chiasmo che i diritti umani necessariamente creano tra questi due ambiti: «Diritti umani che manifestano l’unicità o il carattere assoluto della persona nonostante la sua appartenenza al genere umano o a causa di questa appartenenza. Paradosso o mistero o novità dell’umano all’interno dell’essere»32. Siamo di fronte a una novità teoretica che potremmo chiamare altrimenti che genere: non si può più, infatti, nominarlo semplicemente come ‘genere’, dato che esso è formato da singolarità incomparabili, ma non si può neppure prescindere dal riferirsi a un ‘genere’, poiché gli incomparabili sono, tuttavia, pur sempre riconoscibili per delle caratteristiche comuni, che li rendono, di fatto, anche comparabili. L’eccezionalità dell’‘altrimenti che genere’ umano sarebbe resa manifesta proprio dai diritti umani, che con esso si misurano nella prassi giuridico-politica: l’originarietà dei diritti umani conferisce loro il titolo per misurare fino a che punto, all’interno dei singoli ordinamenti giuridici, venga mantenuta una tensione tra etica e diritto; essi possono diven-

31. E. Lévinas, I diritti umani e i diritti altrui, cit., p. 124. 32. Ibidem. Rey pensa ad una vera e propria “esplosione” della nozione di genere: «La posizione originale di Lévinas, senza ovviamente annullare né l’esperienza del simile, né la dignità formale di una persona, fa esplodere la stessa nozione di genere» (J.-F. Rey, Lévinas. Le passeur de justice, cit., p. 38).

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tare, cioè, una chiave per valutare gli ordinamenti giuridici dei singoli Stati: la loro qualità etica sarà tanto maggiore quanto più riuscirà a mantenere la tensione – facendo sì che non si trasformi in iato – tra l’universale della Legge e la singolarità del Volto, poiché essi «esprimono l’alterità o il carattere assoluto di ogni uomo, la sospensione di qualsiasi riferimento: un sottrarsi all’ordine determinante della natura e del corpo sociale»33. Si può, allora, parlare anche in Lévinas di un carattere anarchico dei diritti umani: refrattari ad ogni arché, si sottraggono spontaneamente a qualsiasi collusione con i poteri costituiti; pur essendo possibile e, anzi, necessario, proteggerli attraverso il potere politico, esso non potrà e dovrà mai avere l’ultima parola rispetto a tali diritti che ineriscono alle singolarità, a prescindere dal potere al quale esse sono ordinariamente sottomesse. Possibilità estrema di appello contro ogni potere, i diritti umani aprono nel diritto lo spazio della responsabilità per ciascun altro ed è proprio l’originaria relazione con altri ad assumere, per Lévinas, il ruolo di fondamento dei diritti umani. Ciò che conta non è innanzitutto l’accordo razionale delle volontà che decidono di proteggersi mutualmente, come soggetti autonomi e liberi che acconsentono volontariamente a cedere parte della propria sovranità in cambio della sicurezza; non si può parlare di una precedenza dell’autonomia della volontà, ma, anzi, di una profonda messa in questione del posto centrale che essa ha assunto nel pensiero occidentale. Lévinas pensa, cioè, la precedenza del volto dell’altro, dei suoi diritti e, dunque, dei miei obblighi verso di lui: «Che i Diritti dell’uomo siano originariamente i diritti dell’altro uomo e che esprimano al di là dell’esaurimento delle identità nella loro identità stessa e nel loro istinto di libera conservazione, il per-l’altro del so-

33. E. Lévinas, I diritti umani e i diritti altrui, cit., p. 124.

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ciale, del per-lo-straniero – questo mi sembra essere il senso della loro novità»34. Nel faccia-a-faccia con il Volto dell’altro si manifesta la sua nudità e, in essa, è espresso il comando originario di non uccidere: «Evento di socialità anteriore a qualsiasi associazione in nome di una “umanità” astratta e comune. Il diritto dell’uomo, assolutamente e originariamente, non prende senso che in altri, come diritto dell’altro uomo»35. La responsabilità priva il conatus essendi della possibilità di un egoistico ritorno a sé, della conferma egocentrica e autoreferenziale del Soggetto. Sguardo sull’altro e per l’altro, nel suo essere sempre eccedente, la responsabilità consente di anteporre il diritto dell’altro al proprio, facendosene carico eticamente, ma anche giuridicamente: «i diritti umani si manifestano nella coscienza come diritti altrui»36. Assumono, dunque, il ruolo di obblighi che si impongono come imperativi etici e poi giuridici, la cui potenza non è dovuta in primo luogo al consenso razionale, ma alla precedenza della responsabilità sulla libertà: «manifestarsi originariamente come diritti dell’altro uomo e come dovere per un io, come miei doveri, nella fraternità: è questa la fenomenologia dei diritti umani»37. I diritti dell’altro uomo sono, dunque, miei obblighi nei suoi confronti: si giunge così alle medesime conclusioni di Weil.

34. E. Lévinas, Les droits de l’autre homme, in Altérité et transcendance, sous la direction de P. Hayat, Fata Morgana, Montpellier 1995; tr. it. di S. Regazzoni, I diritti dell’altro uomo, in Alterità e trascendenza, il Melangolo, Genova 2006, p. 128. 35. E. Lévinas, Interdit de la représentation et “droits de l’homme”, in Altérité et transcendance, cit.; tr. it., Divieto di rappresentazione e “diritti dell’uomo”, in Alterità e trascendenza, cit., pp. 109-110. 36. E. Lévinas, I diritti umani e i diritti altrui, cit., p. 130. 37. Ibidem, p. 130.

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Lévinas, tuttavia, sa bene che l’affermazione del diritto dell’altro, proveniente dalla relazione etica del faccia-a-faccia, non può realizzarsi senza un ordine giuridico positivo che sia in grado di garantirla: i diritti dell’altro sono quanto mai fragili e sono necessarie istituzioni giuridiche – nazionali e internazionali – che li tutelino. La storia testimonia, però, come proprio lo Stato possa rappresentare per essi una pericolosa minaccia: «nell’eventualità di uno Stato totalitario, ecco che l’uomo è represso e i diritti umani beffati e la promessa di un ritorno finale ai diritti umani rinviata a tempo indeterminato»38. Ritorna, perciò, lo spettro dello scontro, forse originario e inevitabile, tra diritti umani e statualità a causa dell’aspirazione intrinsecamente totalizzante della sovranità statale e del loro presupposto extra-giuridico (etico) che stride con la territorialità giuridica della statualità. Essi si collocano infatti in essa, ma anche al di là di essa, in uno spazio sovranazionale o extraterritoriale: «la difesa dei diritti umani corrisponde a una vocazione esterna allo Stato, una vocazione che, all’interno di una società politica, gode di una specie di extra-territorialità, come quella della profezia nei confronti dei poteri politici nell’Antico Testamento»39. Quasi nuove voci profetiche, i diritti umani vegliano come sentinelle sul potere politico per controllarne l’operato e rimetterlo in questione tutte le volte che esso tenderà a chiudersi su se stesso chiedendogli, invece, un’attenzione iperbolica all’unicità dell’unico e la contemporanea assunzione dell’altrimenti che genere umano: «vigilanza totalmente diversa dall’intelligenza politica, lucidità che non si limita ad inchinarsi davanti al formalismo dell’universalità, ma sostiene la stessa giustizia nelle sue limitazioni»40. Soltanto Stati che acconsentano ad essere messi in questione e ad es38. Ibidem, p. 129. 39. Ibidem. 40. Ibidem.

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sere profondamente abitati dalla tensione tra le istanze etiche e la cogenza giuridica della sovranazionalità dei diritti umani, potranno sfuggire alla quasi naturale tendenza a degenerare in istituzioni tiranniche e oppressive: «La possibilità di garantire questa extraterritorialità e questa indipendenza […] descrive la modalità secondo cui è, di per sé, possibile la congiunzione della politica e dell’etica»41.

41. Ibidem. Scrive Tsongo Luutu: «Godendo di una certa extra-territorialità rispetto al politico, l’etica ne costituisce un giudizio, una correzione permanente e un risveglio all’umano: “la difesa dei diritti umani risponde a una vocazione esteriore allo Stato […]”. È il regime liberale che può garantire questa felice coesistenza di politica ed etica» (V. Tsongo Luutu, Vers une conception des droits de l’homme revisitée, in Penser le socio-politique avec Emmanuel Lévinas, Profac, Lyon 1993, p. 91). Anche Ponton sottolinea la radice “etica” dei diritti umani: «Se l’etica dei diritti dell’uomo si arresta alla soglia di ciò che Lévinas nomina come la giustizia propriamente detta, non è soltanto perché si vuole etica “fondatrice” […] ma anche perché essa vuole dissociarsi risolutamente da tutte le costruzioni politiche che hanno reso prioritaria una giustizia puramente apparente e inumana proprio in nome dell’uomo» (L. Ponton, Emmanuel Lévinas: une approche “éthique” des droits de l’homme, in Philosophie et droit de l’homme de Kant à Lévinas, Vrin, Paris 1990, p. 207).

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I diritti, l’uomo, i diritti dell’altro uomo Gérard Bensussan

Per un’intera generazione, quella del 1968, come si usa dire in modo informale, quella che studiava filosofia mentre la “morte dell’uomo” ne orientava il corso e i problemi, il titolo di questo testo delinea qualcosa come un itinerario improbabile. Questo perché il contenuto teorico che esso indica, e le sue successive e articolate scansioni, sposano, ma a ritroso, quella che fu una traiettoria politica. Come è possibile, infatti, passare da un anti-umanesimo filosofico radicale – quello di Althusser per esempio, almeno per me –, da una posizione teorica, in altre parole da una tesi filosofica strutturale, a una difesa pratica dei diritti dell’uomo, o più precisamente dei diritti politici, delle libertà di agire e di esprimersi degli oppositori che intendevamo allora sostenere integralmente nella loro lotta contro l’una o l’altra dittatura, URSS o Cina incluse, proprio quando, ripeto, ci riconoscevamo come “marxisti” nell’“anti-umanesimo teorico”? L’interrogativo fu allora: come pensare questo divario fra la teoria e la pratica, fra una tesi filosofica e una lotta politica? Credo di poter dire che fu, almeno in parte, questa perplessità insoddisfatta a guidare degli spostamenti fecondi, delle riprese e delle deviazioni a partire dal marxismo althusseriano, allontanandosene. La tripartizione che propongo – i

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diritti/l’uomo/l’altro uomo – traccia un modo di entrare nel nostro tema, i diritti dell’uomo, a partire da questa esperienza teorica e politica di ampio respiro, e a partire da nozioni, pensieri e pensatori che l’hanno nutrita. Essa poggia, d’altra parte, su di un’ipotesi di lettura della asimmetria lévinassiana, come triplicemente sedimentata, che è al centro del nostro problema. L’antropologia, il diritto, l’etica sembrano quindi poter essere convocati come tali, a titolo dei loro rispettivi oggetti: l’Uomo, i diritti, l’altro uomo. Questo percorso, permeato di problemi connessi all’etica (una morale?) e all’altro uomo (gli altri uomini?), passando dalla questione dei diritti dell’uomo, andrebbe così dall’uomo all’altro uomo. Il vettore di tale passaggio, l’ho appena accennato, fu in gran parte Lévinas. Dico “il vettore” per evitare di lasciar intendere che Lévinas avrebbe permesso di rimuovere puramente e semplicemente la difficoltà che segnalavo all’inizio, quella attestata dal cammino che va dall’“anti-umanesimo teorico” alla difesa dei “diritti dell’uomo”. Grazie al tempo trascorso e alla distanza intercorsa, col tempo e nel tempo, si può pensare che Lévinas avrebbe piuttosto amplificato le difficoltà, facendole meglio vedere e strappando certe “verità” al loro statuto di evidenza. Una osservazione preliminare, di ordine storico. La “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789, da non confondere, lo ricordo en passant, con la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, è stata oggetto di un acceso dibattito nei mesi di luglio-agosto 1789 tra coloro stessi che la stavano redigendo. L’oggetto di tale dibattito è altamente istruttivo. Non intendo entrare qui nel dettaglio del confronto e delle opposizioni, ma semplicemente osservare che i promotori della Dichiarazione non furono concordi sul posto che essa doveva avere, nella Costituzione o accanto a essa. Gli avversari tradizionalisti della Dichiarazione si oppongono al

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suo stesso principio, poiché temono che formule troppo ambiziose, ossia troppo universali, possano creare confusione fra i francesi, non ancora “maturi” per accoglierne lo spirito e comprenderne il senso. Vi sono poi quelli che non vogliono saperne di un testo separato, per ragioni non molto distanti da quelle degli oppositori tradizionalisti alla Dichiarazione nel suo principio stesso; sostenitori di quella che si chiamerebbe oggi la destra parlamentare, essi preferiscono un testo che non ecceda la forma di una legge costituzionale. Altri infine, la sinistra patriottica potremmo dire, sono a favore di uno statuto separato della Dichiarazione, ossia di una distinzione formale fra una legge e una dichiarazione di principio, che verrebbe così a segnare l’inaugurazione rivoluzionaria di un mondo nuovo, che offrirebbe al popolo dei diritti andando immediatamente al di là del diritto. Tutti i dibattiti svoltisi durante quei due mesi estivi si snodano a partire da queste opposizioni riguardo allo statuto, separato o no, legislativo o no, della Dichiarazione, ovvero sulla sua funzione politica e civilizzatrice. Deve implicare o no un’organizzazione particolare dei poteri? Ha semplicemente valore di legge oppure obbedisce già all’eccesso su ogni politica di cui Lévinas ha trovato la massima nella formula «politica in subordine»? I dibattiti terminano in maniera improvvisa: su proposta dei deputati Bouche e Mougins de Roquefort, l’assemblea decide di sospendere provvisoriamente i dibattiti fino al completamento della Costituzione. È proprio questa “provvisorietà” che ha, dunque, preso la forma di un testo scolpito nel marmo di una quasi-eternità, sebbene sospeso alla sua propria prosecuzione e in attesa della sua vera forma. Le prime righe della Dichiarazione fanno dell’Uomo il principio stesso di cui occorre ricordare ai «membri del corpo sociale», agli uomini dunque, la dignità, contro «l’ignoranza, la dimenticanza e il disprezzo». È questo principio dell’Uomo, questo umanesimo, colto dal 1789 in poi come antropologia

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dei diritti, che è immediatamente preso di mira da ogni sorta di critica, di diversa natura ontologica e ideologica, e tuttavia tutte ordinate secondo una stessa ottica e uno stesso angolo di tiro. L’empirismo di Burke argomenta che l’esperienza che possiamo trarre da una consapevolezza storica destituisce d’un sol colpo l’astrazione umanista. Per il provvidenzialismo di de Maistre, l’ordine universale è retto da una mano invisibile e divina. De Maistre riprende qui dei temi agostiniani, che si ritrovano anche in Bossuet. Si inscrivono poi in questa medesima storia di contrasti lo storicismo razionalista di Constant o di Comte, lo storicismo organicista di Savigny o anche di Hegel, lo straordinario ribaltamento rivoluzionario della critica contro-rivoluzionaria dei diritti dell’uomo nel giovane Marx, cui si dovrebbe decisamente associare Nietzsche, per il quale il movimento democratico, da cui provengono i diritti dell’uomo, erede a sua volta del giudaismo, poi del cristianesimo, promuovendo come «conseguenza della Rivoluzione» la «produzione di uguali diritti, la superstizione degli ‘uomini uguali’»1, ridicolizza la vita stessa e il gioco di forze che la costituisce. Come si vede in questa successione di sequenze post-rivoluzionarie appena accennata, è dunque sempre un anti-umanesimo teorico e/o pratico, esso stesso doppione di un anti-universalismo di principio, che organizza questa critica, e questo fino ad oggi. Vi sono dunque qui una posta in gioco notevole e degli interrogativi incrociati e forse ingarbugliati, se si pensa ad esempio che il rifiuto dell’antropologia e la “morte dell’uomo” delle scienze strutturali, paradossalmente dette “umane”, degli anni ’60 sembrano coincidere con la critica dell’astrazione umanista che animano e la critica reazionaria dei diritti dell’uomo e 1. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VIII, t. III, ed. critica a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974, 14 [182], p. 156.

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il suo ribaltamento da parte di Marx, in La questione ebraica in particolare, secondo un’operazione davvero epocale, poiché chiamata a generare una fiorente posterità. Il mio proposito non è di esporre queste posizioni come tali, né di impegnarmi in una critica filosofica approfondita, ammesso che sia ancora necessaria. Le menziono in quanto costituiscono un primo elemento fondamentale nella topologia generale della questione per come vorrei trattarla, poiché dicono al tempo stesso l’Uomo della dichiarazione del 1789 e il suo rifiuto quasi immediatamente contemporaneo, un’affermazione politica e ideologica e la sua negazione storica. L’altro elemento di questa topologia, se ci si sposta dall’Uomo e dalla sua morte annunciata verso la questione del diritto (qui rimando alle tre inflessioni del trittico proposto all’inizio), è certamente Kant. Esso non è d’ordine storico in senso stretto, e lo si può d’altronde convocare al di fuori di qualsiasi cronologia; in un certo senso, esso viene dopo la critica marxiana, per esempio, dei diritti dell’uomo. Che cos’è un uomo, secondo Kant? O più precisamente, che cos’è una persona nella prospettiva da lui aperta? È un essere che ha dei diritti. E questo perché la natura dell’uomo lo designa come un fine in sé, un fine oggettivo che ha un valore intrinseco, che Kant chiama dignità. Se conviene, per essere giusti, rispettare questa dignità delle persone, è perché, contrariamente alle cose che hanno un valore solo relativamente, come mezzi, le persone sono libere, cioè sono dei soggetti che, in quanto indipendenti e anteriori alle determinazioni del mondo sensibile, sfuggono all’eteronomia. Il soggetto trascendentale è dunque al tempo stesso un presupposto della libertà e la condizione di possibilità del soggetto di diritto. Essere giusto è rispettare la persona, e rispettarla è riconoscerne l’eminente dignità. Ogni riflessione tanto morale quanto giuridico-politica gravita così, dopo Kant, attorno all’idea di persona.

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Si dovrebbe piuttosto dire: di persona ragionevole. La persona ragionevole è il soggetto di diritto. Essa porta ugualmente in sé una ragione personale: il primo soggetto di diritto sono io. Se, come dicevo, una persona è un essere che ha dei diritti, si comprende benissimo che quando sono ostile nei confronti di un’altra persona, per esempio, è perché mi ritengo leso da questa nei diritti che mi sono propri e che affermo non possano essere violati, poiché sono «naturali, inalienabili e sacri», come dice la dichiarazione del 1789. Per dire le cose in altro modo, o considerarle da un’altra prospettiva: i rapporti di diritto, la struttura giuridica del rapporto tra le persone hanno necessariamente e legittimamente vocazione a sostituirsi alle fonti complesse in cui si originano i rapporti di forza, le passioni violente, i conflitti inter-egoici. È il motivo per cui è molto importante riferirsi in questo caso, ossia quando ne va dei fondamenti, a Kant. L’assunto kantiano del contrattualismo è esattamente questo. La pace deve essere stabilita mediante l’appartenenza comune alla cittadinanza, la quale è garante della comune sicurezza. Nello stato di natura sono privato di questa sicurezza per via dell’esistenza stessa dell’altro «semplicemente perché mi sta accanto e mi minaccia costantemente», per via dell’assenza di leggi che caratterizza lo stato di natura. Blanchot, commentando Totalità e Infinito, diceva ne L’infinito intrattenimento che l’uomo di fronte all’uomo non ha altra scelta che parlare o uccidere. Parafrasandolo, si potrebbe dire che anche con Kant non avrei che due possibilità, non più l’uccisione o la parola, ma l’uccisione o il diritto. O costringo l’altro a entrare con me in una comunità di diritto, oppure lo nego nella sua prossimità di prossimo ed egli farà lo stesso: «Ma l’uomo (o il popolo), che vive nel puro stato di natura, mi toglie questa sicurezza e mi lede per il solo fatto di vivere in questo stato in mia vicinanza, anche se non mi lede effettivamente (facto), ma solo per la mancanza di leggi di questo suo stato (statu iniusto), per cui io mi sento continua-

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mente da lui minacciato e posso costringerlo o ad entrare con me in uno stato di convivenza legale o ad allontanarsi da me»2. In qualche modo, tutto il pensiero di Lévinas consiste in un singolare e persistente impegno per portarsi a monte di questa stringente alternativa posta da Kant, ma che è, con tutta evidenza, più ampiamente articolata da tutta la tradizione della filosofia politica e morale e che tinge, per così dire, le più diverse correnti di pensiero sui diritti dell’uomo. Lévinas rappresenta una sorta di punto d’arresto, poiché non può essere associato a ciò che viene chiamato, comunemente e molto volgarmente, il «“droit-de-l’hommisme”» né alla critica pura e semplice dei diritti dell’uomo come ideologia, dove si ritrovano e si riconoscono reciprocamente le opposte tradizioni della reazione conservatrice e tradizionalista e della rivoluzione sociale. Vorrei, per illustrarlo, insistere su di un punto particolare, ma che è anche un tratto centrale dell’etica lévinassiana, ossia l’asimmetria, la dissimmetria che caratterizza il faccia-a-faccia e attraverso cui, a partire da Lévinas, si apre la possibilità, molto strana a dire il vero, che sia dato di pensare un diritto che non è il mio, un diritto che non ho da rivendicare o da affermare, il che sarebbe il segno caratteristico e indelebile dell’Ultimo Uomo nietzscheano, il democratico, il socialista, l’anarchico. Questo “diritto” che proviene dall’asimmetria, e che non è tale, è un diritto che non fa che obbligarmi.

2. I. Kant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, tr. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, UTET, Torino 19953, Sez. seconda, p. 291 (nota). [«Der Mensch aber im bloßen Naturstande benimmt mir diese Sicherheit und lädirt mich schon durch eben diesen Zustand, indem er neben mir ist, obgleich nicht thätig, doch durch die Gesetzlosigkeit seines Zustandes, wodurch ich beständig von ihm bedroht werde, und ich kann ihn nöthigen, entweder mit mir in einen gemeinschaftlich-gesetzlichen Zustand zu treten, oder aus meiner Nachbarschaft zu weichen»].

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L’asimmetria, dunque. Cominciamo col sottolineare, negativamente, che essa indica di per sé a che punto la prossimità e il duo etico lévinassiani sono profondamente differenti da ciò che si usa chiamare intersoggettività o inter-personalità. Non vi è inter- nell’asimmetria, poiché si sarebbe allora già nel diritto che è anzitutto un inter-, nel senso in cui Kant ne determina l’emergenza. Dire del faccia-a-faccia che la sua curvatura asimmetrica, e questa soltanto, porti con sé la dimensione rigorosamente etica, è evidentemente pensare questo faccia-a-faccia come pre-giuridico, pre-politico, pre-sociale, e direi anche pre-personale. Ciò che l’asimmetria designa è il nucleo etico di una differenza, di una inuguaglianza a due, dove io sono ad un tempo comandato dall’altro e ricondotto, da questo stesso comando, alla mia insospettabile unicità di uno. Il faccia-a-faccia asimmetrico, secondo la sua struttura stessa, si distingue da ogni collettività di simili, in cui l’altro e io saremmo giustapposti attorno a una comune condivisione, una comune dimora. È quindi refrattario a qualsiasi estensione “naturale” verso la politica, a ogni transizione di un soggetto, la cui libertà condizionerebbe la sottomissione alla legge razionale, verso una morale universale. A questo duo etico non corrisponde alcuna massima universalizzabile. Per rendere ragione, per quanto possibile, di questa difficoltà assai notevole, Lévinas convoca il terzo o, per meglio dire, i terzi, ossia l’“a posteriori” della relazione etica, quella istanza in cui la pluralità degli altri dell’altro, la condivisione, la reciprocità, obiettano e si appellano, e facendo appello implicano la domanda sui diritti dell’uomo, poiché questi ultimi sono l’espressione adeguata della Giustizia e poiché giungono, come domanda, dopo la risposta data all’appello del volto. Permettendo la produzione dell’uguaglianza, la reciprocità dei diritti e dei doveri, la reversibilità dei posti e delle funzioni, la simmetrizzazione politica, o politico-sociale, il terzo corregge a posteriori l’asimmetria etica, ne previene forse la possibile violenza. Inscritto

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a mia volta nella popolata sfera della Giustizia, potrò infatti permettermi di diventare anche per me stesso l’altro dell’altro, il differente, soggetto di diritto, al pari, anonimamente, di tutti gli altri soggetti – insomma di diventare persona, come tutte le persone3. Il francese lascia chiaramente risuonare l’impersonalità della persona, appunto – là dove il volto non è mai nessuno [personne], ma sempre “qualcuno”, e là dove, all’inverso, l’interpersonalità non connette tra loro che figure extra-sensibili, nobody, nobodies. Le maschere indispensabili a (s-)figurare [devisagér] i volti nell’uguaglianza e nel diritto non dovranno mai prendere in considerazione delle persone, affinché nessuno [personne], o niente, venga a turbarne l’esercizio universale. La fine dell’inquietudine della politica consisterebbe, nelle sue forme più felici, nell’inventare uno spazio omogeneo, un medesimo tempo per tutti e per nessuno, dei diritti per tutti, per tutti gli uomini, per l’Uomo, e nel garantire la mia possibile iscrizione personale in un ordine universale – e questo permette già di intuire che l’Uomo dei diritti dell’uomo è già da sempre una categoria politica, comunitaria, post-etica, la categoria che permette di passare al politico. E tuttavia, lo permette per il fatto di esserlo già. Ma questo Uomo dei diritti che è la condizione di possibilità dei diritti dell’Uomo non è, per Lévinas, una figura originaria; essa non è che derivata, fondamentalmente nonoriginaria. Derivata da che cosa? Dall’Altro, o dal Volto, i quali sono fondamentalmente originari – nonché, per dirlo con le parole più precise di Lévinas, an-archici, pre-originari. A questa condizione, il diritto può, sì, essere originario, nel senso che costituisce un inizio, ma un inizio che non inizia in sé: «il

3. Mi permetto di rimandare, per tutti questi punti, a G. Bensussan, Etica ed esperienza. Lévinas politico, tr. it. di S. Geraci, Mimesis, Milano 2010.

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diritto dell’uomo, assolutamente e originalmente, non prende senso che in altri, come diritto dell’altro uomo»4. Vi è in questo vocabolo la possibilità e il rischio di una grande confusione. Per andare dritto al punto, direi che questo diritto dell’altro uomo non è evidentemente un diritto. Aggiungo che coloro che, tra i lettori e gli interpreti di Lévinas, trovano che Lévinas non sia chiaro né rigoroso su questo punto, non rispettano una regola elementare di buona lettura di questo pensatore così esigente. Questo “diritto” non è un diritto, e sia. Ma così come il mio “rapporto” all’altro non è un rapporto, e Lévinas non smette di spiegarlo, tanto che arriva perfino a parlare di un «rapporto/non-rapporto». Lévinas evoca, tuttavia, un diritto dell’altro uomo che andrebbe inteso, in prima istanza, come un “diritto/non-diritto”. Come comprendere questa espressione, e come sciogliere questa apparente difficoltà? Non perdendo mai di vista il fatto che, per Lévinas, il diritto non è mai primo. Costituito da e nella “Giustizia”, esso è preceduto da un «comando inaudito»5, quello di dover amare il prossimo senza sosta né tregua, fino alla sostituzione, fino al dis-interessamento, fino all’assunzione di una persecuzione, fino all’ossessione di questo altro che mi tiene dall’interno di me stesso, secondo il registro proprio di Altrimenti che essere. Resta, però, da sapere o da comprendere come ciò che viene dopo (il diritto) si articola, o non si articola, con ciò che sta prima (il volto dell’altro uomo). Il problema è complesso e gli elementi che Lévinas offre non bastano certo per risolverlo. Mi sembra si possano distinguere in Lévinas due tipi di “secondarietà”. Io vengo sempre dopo, l’Io viene sempre dopo:

4. E. Lévinas, Divieto di rappresentazione e diritti dell’uomo, in Alterità e trascendenza, tr. it. di S. Regazzoni, il melangolo, Genova 2006, pp. 109-110 (cfr., nello stesso volume, I diritti dell’altro uomo, pp. 125-128). 5. Ibidem, p. 110.

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questo è acquisito. Questo venir-dopo si lascia descrivere, e forse pensare, o nel modo della filialità oppure nel modo della fraternità. Secondo il primo tipo di derivazione, io sono il figlio di Dio padre, se si vuole, cioè sono il figlio di una parola che mi comanda così radicalmente che sarà sempre più antica di me. Nel secondo modello della derivazione (e ammesso che questo termine, “derivazione”, sia qui adeguato, cosa che non credo affatto), Io passo dopo, certo, ma secondo quel «dopo di voi signore!», di cui Lévinas ha fatto una sorta di emblema. Se io passo dopo (che “il signore” è passato) non è più grazie a una parola che mi comanda an-archicamente, ma in funzione di un diritto dell’altro uomo che viene prima del mio diritto, e per il quale la Giustizia può ancora permanere nell’ispirazione etica di ciò che già da sempre la precede. Questi due “modelli” di articolazione sono distinti molto chiaramente in Lévinas, anche se questa differenza non è esplicitata fino in fondo. Fra il comando (del padre) e il diritto (del fratello) si stabilisce una non-omogeneità in cui si gioca, tuttavia, una inter-implicazione, poiché il primo fattore, il diritto, presuppone il secondo, il comando: «La fraternità umana […] implica […] la comunità del padre […] Il monoteismo significa questa parentela umana»6. Occorre a questo punto tentare di differenziare quanto meglio possibile fra tre strati o tre usi distinti di uomo e di diritto(i) in Lévinas o, piuttosto, a partire dal suo pensiero. 1. L’Uomo dei diritti dell’uomo è un’astrazione necessaria (un’illusione vitale, direbbe Nietzsche) poiché costituisce la condizione di possibilità dei diritti effettivi, giuridici se così si può dire. Il suo statuto (necessario, vitale) è altamente ambi6. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 2012, p. 219.

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valente. Ho ricordato all’inizio che non era considerato in maniera unanime o uniforme dai promotori della Dichiarazione del 1789, i quali esitano, senza riuscire a dirimere la questione. I diritti dell’Uomo, di questo Uomo dei diritti, devono essere integrati nella legge costituzionale o essere separati dal regime abituale del diritto? Questo interrogativo si incrocia con l’interrogativo di Lévinas che si enuncia, con le sue stesse parole, «diritto o comandamento». Nell’articolo 16, la Dichiarazione afferma che «ogni Società in cui la garanzia dei Diritti non è assicurata, né la separazione dei Poteri determinata, non ha alcuna Costituzione». La Costituzione non è dunque possibile, nel suo senso più forte, che a partire dai diritti dell’uomo, i quali daranno luogo, affinché siano garantiti, a testi di legge. Questo rapporto (non-rapporto) circolare è pensato, dal 1789 ai giorni nostri, in una tensione e con una estrema difficoltà di cui Lévinas, più di chiunque altro, restituisce la dinamica instabile e forse minacciosa. 2. Il fatto è che la non-omogeneità del “diritto” e del “comandamento” costituisce un problema che non si lascia mai risolvere in maniera transitiva e semplice. L’uomo del volto forma l’altro polo dell’Uomo dei diritti, il suo “antipode”. La qualifica di “uomo” non è adatta, la adopero per comodità. Il volto primeggia infatti sull’uomo, è ben più antico di questo, ossia di Me. Come per Burke, de Maistre o Marx, “l’uomo” non può detenere alcuna originarietà metafisica fondativa di un umanesimo. Ma Lévinas non lo abbandona per la via, lo sposta, lo espelle dal luogo dell’origine per ritrovarlo altrove, trasfigurato. Più vecchio di questa categoria “ontologica” di uomo, il volto mi comanda e mi assoggetta, senza mai poter essere un’istanza o una fonte di diritto/i, poiché il suo carattere etico è appeso al filo dell’asimmetria. Non può esserci diritto inscritto nella “Giustizia” se non a condizione che vi sia

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simmetria, uguaglianza, interscambiabilità. Se l’etica è assolutamente prima, occorrono, dopo, la giustizia e i diritti – con il che Lévinas si smarca dalle critiche reazionarie e rivoluzionarie dei diritti dell’uomo, le quali ignorano palesemente la costrizione di questo occorre lévinassiano. 3. Distinto dall’Uomo dei diritti, astrazione ontologizzante, e determinato da Lévinas come una modulazione o una singolare torsione del volto, a partire dalla sua concretezza sensibile verso l’emergenza di una dirittura, l’altro uomo fa appello alla mia responsabilità affermando l’inalienabilità preverbale di un diritto: «Volto come mortalità, mortalità dell’altro al di là del suo apparire; nudità più nuda, se così si può dire, che quella che scopre il disvelamento della verità: al di là della visibilità del fenomeno, abbandono di vittima. Ma, in questa stessa precarietà il ‘tu non ucciderai’, che è anche il senso del volto; in questa dirittura dell’esposizione la proclamazione – prima di ogni segno verbale – di un diritto che da subito fa appello alla mia responsabilità per l’altro uomo»7. Questo testo, di difficile interpretazione, traccia la possibilità di un passaggio da 2 a 3 e altrettanto da 3 a 2 – poiché ne va ogni volta del volto. Ma come per il “rapporto” o ancora il “diritto”, questo “passaggio” non è tale. Perché? Perché ciò che era una mitzva, come dice la tradizione ebraica, ossia un comandamento che mi era rivolto, mi assegnava e mi costringeva, prima di qualsiasi assunzione, a riconoscermi come creatura, come figlio del padre, questo “sensato” biblico, «il senso del volto», come dice qui Lévinas, si converte in diritto dell’altro inaugurato dal «tu non ucciderai» (tuo fratello).

7. E. Lévinas, Divieto di rappresentazione e diritti dell’uomo, cit., p. 109.

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Se la nostra ipotesi dei tre strati ha un qualche senso, essa obbliga a complicare la struttura, abituale in Lévinas, delle due sfere eterogenee, Giustizia e prossimità, Volto e Terzo, Etica e Politica. E questo a causa della costrizione di dover pensare che cosa può essere il diritto dell’altro uomo, che non è un “diritto”, poiché non può affermarsi, rivendicarsi, legittimarsi, a partire da sé. Osservo che questa pretesa di avere dei diritti per sé, di cui Lévinas espone il limite, è esattamente ciò che fa orrore a Nietzsche. Egli vi scorge infatti il risultato del risentimento di un soggetto che reclama qualcosa per se stesso, che sia a partire dalla «superstizione» dell’uguaglianza che sfocia nella rivendicazione politica o sindacale di diritti identici per tutti o che sia a partire dal diritto naturale proclamato a loro vantaggio esclusivo dagli pseudo-forti come il Callicle o il Trasimaco di Platone. Il diritto dell’altro uomo, secondo Lévinas, sfugge evidentemente a questa lettura genealogica – che vale per il soggetto di diritto – poiché non ha alcun contenuto che derivi dal risentimento o dalla rivendicazione per sé. È esattamente in tal senso che esso non è, o non è del tutto, un “diritto”. Non solamente non afferma il soggetto nella sua richiesta di ciò che gli spetta, ma lo dis-afferma o lo invalida in qualche modo (da qui la differenza fondamentale che si ritrova rispetto a Nietzsche). Inoltre il dispositivo lévinassiano (è il suo immenso merito, e lo dico avendo in mente tutta una serie di posizioni e di proposizioni esposte riguardo all’affare dei Quaderni Neri di Heidegger!) – questo dispositivo non si accontenta, come in Nietzsche, di cortocircuitare la questione dell’uguaglianza, e dunque del diritto, dei diritti dell’uomo, o semplicemente di delegittimarli. Esso ne sposta interamente, e stranamente, i contenuti e le motivazioni. Un gesto analogo, ossia il sospetto rivolto a una rivendicazione dei diritti per se stessa, sfocia in due conseguenze del tutto dissimili: in Nietzsche una intensificazione della questione del Sé, come eccesso su di sé della volontà di potenza – con

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l’apertura di una prospettiva “etica”; in Lévinas una intensificazione della questione del diritto, come eccesso sulla legge radicato nell’etica del due – con l’apertura di una prospettiva “politica”. Il paradosso non è tale che agli occhi di coloro che non sanno leggere né Nietzsche né Lévinas. Per quest’ultimo, ed è il motivo per cui il suo pensiero ci sembra centrale in ogni meditazione sui diritti dell’uomo, la questione deve essere ri-posta in merito al rapporto fra il dopo della politica e il suo prima etico, fra «l’essere-insieme-in-un-luogo»8, la comunità topica dove verrebbero a inscriversi l’uomo e i suoi diritti, e “ciò che non potrebbe stare in nessun luogo”, l’utopia dell’umano9. Ho ricordato all’inizio che la dichiarazione del 1789, per venire anche solo alla luce, ha dovuto essere sospesa, posta nel provvisorio, per non derogarvi più, poiché permane una certa indeterminazione quanto al suo statuto, legislativo o extra-legislativo, integrato o separato. Vi si può vedere l’emblema del rapporto/non-rapporto dell’etica rispetto alla politica. Tra l’irriducibile prossimità del duo e la Giustizia per tutti, tra il comando e il diritto, prevale una articolazione impossibile. Impossibile, ma sempre effettiva, come il reale stesso, in altre parole facendo ogni volta evento secondo lo scarto puramente temporale di un “più-vecchio-di” della realtà (del volto) rispetto alla possibilità (della ragione). Questo scarto temporale significa uno scarto fra una pre-origine, che mi assegna asimmetricamente nell’ineguaglianza, e un diritto che mi ossessiona, come fanno i terzi, ossia “gli uomini”, tutti coloro che esigono da me una uguaglianza, nel momento stesso in cui io sono soggiogato dal volto di un solo altro. È ancora questo scarto temporale che autorizza una ispirazione della politica da parte dell’etica, per usare la bella espressione 8. E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, tr. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, p. 197. 9. Ibidem, pp. 228-229.

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che Lévinas oppone, di fatto, a ogni tentazione dialettica tra due istanze tanto distinte quanto due lingue straniere. Il rapporto impossibile tra etica e politica, tra utopia dell’umano e comunità, può lasciarsi descrivere tanto come una deriva, un disancoraggio, una differenza interminabile, quanto come una traduzione, come la realizzazione stessa dei diritti. Che cosa significa qui questo impossibile (il contro-esempio di Heidegger illustra il possibile, troppo possibile di una disastrosa transizione dalla metafisica alla metapolitica)? In primo luogo che il rapporto emerge da questa impossibilità stessa, impossibilità che si fa in un certo qual modo rapporto. Poi, e soprattutto, che questo cosiddetto “rapporto” non si regola sull’ordine di una rappresentazione. L’“ispirazione” lo fa sfuggire tanto all’essere messo in presenza di un oggetto attraverso un atto della mente quanto alla sua delega o al suo transfert da una scena, il duo etico e il faccia-a-faccia, all’altra scena, la politica dei diritti, la molteplicità innumerevole degli altri uomini. Né transito, né dialettica, né passaggio. Sospensione definitiva nel provvisorio. (traduzione di Matteo Scarabelli)

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L’improprietà dell’uomo e la questione dei diritti umani Carmine Di Martino

1. Abbiamo bisogno dei diritti umani? «Come vede i diritti umani?»1. Verso la fine del suo lungo “dialogo” – così recita il sottotitolo del libro Filosofia del terrore – con Jacques Derrida a ridosso dell’“11 settembre 2001”, nel solco di una messa a fuoco dei temi della tolleranza, dell’ospitalità e del cosmopolitismo, Giovanna Borradori pone tale domanda, molto diretta, al filosofo francese. La questione è contestualizzata da un duplice riferimento: alla nozione di ospitalità (che rapporto vi sarebbe tra il diritto e una ospitalità incondizionata?) e al concetto di Stato, giacché il cosmopolitismo preconizzato da Derrida è caratterizzato dal superamento della “topolitica”, cioè del politico incentrato sulla sovranità territoriale-statale (e se si mette in discussione la forma di comunità giuridicamente organizzata rappresentata dallo Stato è l’idea stessa di diritto e di diritti che si apre ad un ripensamen1. J. Derrida, Auto-immunités, suicides réels et symboliques. Un dialogue avec Jacques Derrida, in J. Derrida, J. Habermas, Le “concept” du 11 septembre. Dialouges a New York (octobre-décembre 2001), avec G. Borradori, Galilée, Paris 2003; tr. it. di G. Bianco, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con J. Habermas e J. Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 140.

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to). La risposta di Derrida alla domanda rivoltagli dalla sua interlocutrice si articola su più livelli e contiene una sorta di indice dei temi che vorremmo cercare di affrontare in questa sede. Oggi, e sempre più spesso, è in nome dei diritti umani e della loro universalità che si rimette in questione l’autorità sovrana dello Stato, che si istituiscono tribunali penali internazionali, che ci si prepara a giudicare dei capi di Stato o d’esercito sottraendoli alla giustizia del loro Stato. I concetti di crimine contro l’umanità o di crimine di guerra non sono più di competenza delle giustizie nazionali e degli Stati sovrani. Almeno in via di principio. Lei sa degli enormi problemi in corso riguardo a questo tema2.

Nell’affermazione sono implicati due lati della medaglia. Da una parte, i diritti umani rappresenterebbero un fattore o un’occasione di quel movimento di decostruzione della forma-Stato che è in corso da tempo – a prescindere da qualsivoglia riflessione pro o contro – e che, per certi versi, Derrida auspica. In più luoghi, infatti, egli si sofferma criticamente sulla chiusura autarchica dello Stato-nazione, il quale in nome di interessi particolari si oppone per esempio a un diritto internazionale che dovrebbe attraversarlo (con conseguenze che tutti possiamo constatare: si pensi al tragico destino di tanti immigrati respinti ai confini di questo o quello Stato anche a dispetto di accordi internazionali sottoscritti). Dall’altra parte, però, nell’ultima frase, si fa anche cenno «agli enormi problemi» relativi all’uso selettivo e strumentale del discorso sui diritti umani e di concetti come quello di «crimine contro l’umanità», che possono sempre essere piegati agli interessi di questa o quella grande potenza. Derrida, come si sa, è molto diffidente nei confronti della logica “umanitaria” nel momento in cui essa risponde al controllo e ai progetti di alcuni Stati

2. Ibidem, p. 142.

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– che esercitano un ruolo egemonico nell’ONU e nelle varie istituzioni internazionali – e si mette al servizio di tornaconti politici ed economici, in nome dei quali, sotto il paravento dei diritti dell’uomo, si realizzano mediante l’uso di forze internazionali interventi militari che prendono il nome di “ingerenze umanitarie”. Dopo aver alluso a questi due lati, Derrida prende una posizione che può lasciare sorpresi per la sua perentorietà: «Bisogna più che mai tenersi dalla parte dei diritti umani. Abbiamo bisogno dei diritti umani»3. In contrasto con una nutrita riflessione che, con registri e argomentazioni differenti, pone radicalmente in questione sia la politica umanitaria, intesa come ideologia dell’interventismo militare al servizio di specifici scopi economico-politici, sia il discorso sui diritti umani che la sostiene, in quanto esso provocherebbe esiziali effetti di depoliticizzazione, di indebolimento dei soggetti, e di riduzione degli uomini all’inumano4, Derrida esorta («bisogna più che mai») a tenersi dalla parte dei diritti umani. Ne abbiamo bisogno, egli dice. Come intendere questa esigenza? «Abbiamo bi-

3. Ibidem. 4. Richiamiamo al riguardo le posizioni più significative: H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, in particolare Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani (pp. 372-419); É. Balibar, Is a Philosophy of Human Civic Rights Possible? New Reflections on Equaliberty, «South Atlantic Quarterly», 103 (2004), pp. 311-322; É. Balibar, Cittadinanza, Bollati Boringieri, Torino 2012; R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007, segnatamente pp. 80 ss.; J. Rancière, Who Is the Subject of the Rights of Man?, «South Atlantic Quarterly», 103 (2004), pp. 297-310; S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano 2011; S. Žižek, Diritti umani per Odradek?, Nottetempo, Roma 2005. Per una analisi critica dell’universalismo e dei suoi effetti “inumanizzanti”, rinviamo a G. Strummiello, (Pre-)politiche dell’umano. La riduzione all’elementare tra diritti e violenza, «spaziofilosofico» 3 (2011), pp. 247-256 e G. Strummiello, Diritti e violenza tra universalizzazione e globalizzazione, «Annuario filosofico», XXVIII (2012), pp. 241-257.

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sogno: ciò significa che c’è sempre una mancanza, un difetto, e che i diritti umani non sono mai sufficienti»5. I diritti umani mancano sempre, mancano in un certo senso strutturalmente. O meglio, sono affetti da una doppia insufficienza: una attuale e una strutturale. La prima è una insufficienza contingente, a cui si può provvedere con questa o quella iniziativa; la seconda è una insufficienza che ha a che vedere con lo iato incolmabile e necessario tra diritto e giustizia (ci torneremo alla fine). Il diritto, anche o forse soprattutto nella veste dei diritti umani, è inquietato dalla giustizia, è perciò preso in una inemendabile incompiutezza, che è anche il suo a-venire, lo spazio della sua perfettibilità e della sua finitezza. Ora, secondo Derrida, il bisogno di diritti umani, vale a dire la loro insufficienza, è sufficiente a ricordarci che essi non sono naturali, ma hanno una storia – recente, complessa, non ancora giunta a termine. A partire dalla Rivoluzione francese e dalle prime Dichiarazioni, fino a quella che fece seguito alla seconda guerra mondiale, i diritti umani non hanno cessato di arricchirsi, di specificarsi, di determinarsi (diritti della donna, diritti dell’infanzia, diritto al lavoro, diritti all’educazione, diritti umani al di là dei “diritti dell’uomo e del cittadino”)6.

Relativamente ai diritti umani, perfettibilità e storicità sono dunque implicate l’una nell’altra: è in quanto non sono naturali, ma storici, che i diritti umani sono anche suscettibili di un arricchimento continuo, sono costitutivamente in cammino. Allo sviluppo di queste due caratteristiche intrecciate fra loro la filosofia può e forse anche deve concorrere. Come? La risposta di Derrida è significativa: Per dare voce, in maniera affermativa, a questa storicità e perfettibilità non bisogna mai vietarsi di interrogare, nella

5. J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, cit., p. 142. 6. Ibidem.

149 maniera più radicale possibile, tutti i concetti in gioco: l’umanità dell’uomo (il “proprio dell’uomo” o dell’umano, che solleva il problema dei viventi non umani, ma anche il problema della storia recente di concetti o performativi giuridici come quello di “crimine contro l’umanità”), e poi il concetto stesso di diritto e di storia7.

Il proprio dell’uomo, il diritto, la storia: sarebbero questi i concetti da interrogare. Cerchiamo allora di procedere.

2. Universalismo e particolarismo I diritti umani, come tutti i “diritti”, le formulazioni giuridiche, sono una costruzione culturale, cioè l’esisto di concezioni antropologiche, di pratiche sociali, di attività normative, di rivendicazioni, di lotte, un prodotto apparso in un determinato momento della traiettoria storica occidentale. Essi sono pertanto l’indice di una storia e camminano con essa, in essa, rappresentano a loro modo un culmine – in senso anche temporale – della parabola filosofica, religiosa, politica dell’Occidente (a partire dalle sue matrici greco-romana ed ebraico-cristiana). Nella forma che conosciamo, essi entrano in scena con il processo di Norimberga (e di Tokyo) e con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“diritti dell’uomo” e non “diritti dell’uomo e del cittadino”). Le nozioni di crimine contro l’umanità (Norimberga) e di diritti umani (Dichiarazione) costituiscono una risposta morale e insieme giuridica alle tragedie che hanno attraversato la prima parte del secolo scorso, a cominciare dagli orrori consumatisi nei campi di sterminio. Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si esprime perciò «il riconoscimento della dignità inerente a tutti membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili», 7. Ibidem.

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come «fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» (Preambolo). «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (Articolo 1). Il concetto di “umanità” acquista qui anche un valore giuridico (sicché la violazione dei diritti umani può essere qualificata come un crimine contro l’umanità) e aspira a porsi come matrice dell’ordine interno e internazionale. Se la Dichiarazione del 1948 è inseparabile dal trauma della guerra, dall’esperienza dei totalitarismi, dal timore che simili abissali efferatezze possano ripetersi, bisogna allo stesso tempo sottolineare, in una ulteriore e necessaria messa a fuoco, che il discorso sui diritti umani condensa e riflette nella sua specifica forma quel percorso che va dall’emergenza dei diritti soggettivi, caratterizzante la svolta individualistica moderna, fino alle “lotte per i diritti” dell’Ottocento, in cui viene rivendicato l’abbattimento delle discriminazioni in nome dell’eguaglianza. Ciò serve a ribadire di nuovo che i diritti umani sono da parte a parte storici, frutto di un cammino determinato, situato, e almeno fino a un certo punto riconoscibile, ricostruibile. D’altra parte essi si propongono secondo una valenza e un pathos decisamente universali, in quanto diritti dell’uomo, di ogni uomo, di ogni vivente umano, membro della specie homo sapiens o della famiglia umana, come recita il testo della Dichiarazione. Il problema in ogni senso decisivo è come intendere tale universalità e, una volta articolata nei suoi significati, se essa sia da mantenere o da respingere. Cerchiamo di concentrare qui la nostra attenzione. Non ci sarebbe bisogno di dirlo: i diritti umani, gli enunciati giuridici in cui essi si offrono, appartengono alla classe degli “oggetti culturali”, non sono caduti dal cielo già fatti. Bisogna però intendersi. Vi appartengono quanto la teoria della gravitazione newtoniana o della relatività einsteiniana – tenuto

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conto delle essenziali differenze tra essi – e allo stesso modo di quei “diritti naturali” che, pur da lontano, li precedono e li annunciano. Occorre cioè riconoscere la medesima “storicità” a questi diversi “oggetti”, se non si vuole fraintendere la storicità dei diritti umani come un caso speciale o specioso. Vi è una natura situata, storica, tanto del sapere filosofico e giuridico quanto di quello scientifico e dei rispettivi “oggetti”. Da questo punto di vista non vi è nessuna peculiarità dei diritti umani rispetto a qualsivoglia formazione di senso. Il che non dice tuttavia né che, in quanto storici, i diritti umani – così come la teoria della relatività – siano arbitrati o immotivati, né che il loro carattere storico, culturalmente connotato, sia sinonimo di totale idiomatismo, di perfetta intraducibilità e incomunicabilità. Ogni formazione di senso (si tratti dei diritti, di una teoria fisica o del concetto di umanità dell’uomo) è caratterizzata dalla sua dipendenza da una specifica cultura, da un determinato orizzonte manifestativo, con la sua strutturale parzialità. E tale dipendenza è una condizione di emergenza, prima di essere un limite. Non abbiamo altro sguardo né altre rivelazioni di senso se non quelle che si schiudono nella cultura che ci attraversa e ci abita, la quale è essa stessa in continuo movimento, insieme ai suoi “oggetti” e alle correlative figure di “soggetti”. Ciò vale per noi – uomini occidentali – come vale per gli altri, sebbene questa stessa affermazione, che qualifica uno sguardo storico, rappresenti a rigore uno specifico prodotto della nostra cultura filosofica. Nessuno – diciamo noi, almeno a partire da Nietzsche e da Heidegger – dispone di “realtà in sé”, di formazioni di senso assolute, sciolte da un concreto contesto storico-culturale. Con questo, ripetiamo, non si è ancora detto nulla sulla loro fondatezza e sulla loro traducibilità.

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3. L’improprietà delle culture Non di rado, nella riflessione intorno a questi temi, la sottolineatura della “storicità” è presa nella contrapposizione tra universalismo e particolarismo, assolutismo e relativismo. Da una parte abbiamo la tesi secondo cui i diritti umani, pur necessariamente provenendo da una cultura determinata, avrebbero tuttavia una validità universale, fondandosi su una area valoriale di consenso ottenuta «per intersezione»: essi rappresenterebbero, cioè, per usare le parole di Veca, il punto di convergenza dei differenti «commenti su che cosa si prova a vivere vite umane»8. Nella varietà dei «commenti» e dei «commentatori» si disegnerebbe un’area di intersezione. In questa direzione si muove anzitutto la posizione di Habermas9, per il quale è possibile individuare un nucleo comune di principi e valori condiviso da tutte le religioni universalistiche del mondo. Sullo stesso versante universalistico troviamo anche la nota versione minimalista di Ignatieff10. Dall’altra parte vi è la tesi opposta11: poiché i diritti umani riflettono significati e valori di una cultura specifica, quella occidentale, non possono essere accolti, nella loro formulazione etnocentrica, da culture diverse da quella in cui sono sorti: essi, che pure si propongono come universali, in quanto espressio8. S. Veca, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Feltrinelli, Milano 2006, p. 374. 9. Cfr. J. Habermas, Vergangenheit als Zikunft: Das alte Deutschland in neuen Europa?, Pendo-Verlag, Zürich 1990; tr. it. Dopo l’utopia. Il pensiero critico e il mondo di oggi, Marsilio, Venezia 1992. 10. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton 2001; tr. it. Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 2003. 11. Significativa in proposito è la posizione di Danilo Zolo. Cfr. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino 2000; Id., Fondamentalismo umanitario, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., pp. 135 ss.

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ne di una cultura particolare sono necessariamente particolari. Vi si troverebbero all’opera infatti una immagine antropologica individualistica e una concezione liberale della vita (cui è sotteso il nesso capitalismo/diritti soggettivi), che vengono più o meno espressamente contestate non solo all’esterno dell’Occidente, ma anche al suo interno. Quando il discorso sui diritti umani si appella all’uomo in quanto tale, non fa che imporre allora come universale e normativa una immagine di uomo del tutto particolare: platonico-cristiana e individualistico-liberale. L’insistenza sulla universalità dei diritti non sarebbe, in questa prospettiva, altro che una variante dell’occidentalismo. Lungi dal produrre dialogo e integrazione tra i popoli, l’universalismo dei diritti dell’uomo rafforzerebbe semplicemente il dominio culturale, politico, economico e militare dell’Occidente (quindi della o delle potenze in esso egemoni). Al di là di un ecumenismo di facciata, ci troveremmo in definitiva di fronte a un particolarismo imperialista su scala globale. Lasciamo provvisoriamente in sospeso il problema di un uso neocolonialistico – possibile o prevalente che sia – dei diritti umani, tanto come fattore di omologazione culturale quanto come strumento di un interventismo umanitario che, sotto l’egida di istituzioni internazionali (il Consiglio di sicurezza dell’ONU o il Tribunale penale internazionale) e sotto la pressione delle grandi potenze occidentali, perseguirebbe fini di conquista in aree economicamente e politicamente strategiche del pianeta. Consideriamo ora il problema dell’universalità dei diritti umani da un punto di vista più strettamente filosofico. Alla radice della contrapposizione tra universalismo e particolarismo si annida il problema del “proprio dell’uomo”, cui abbiamo accennato sopra. Il punto sensibile nella questione dei diritti umani e in concetti come quello di crimine contro l’umanità è il riferimento all’uomo, la implicazione – per quanto residuale e attenuata – di un “proprio” dell’uomo, di una essenza o di natura umana, anche nella accezione più cau-

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ta e teoreticamente meno impegnata di un “fondo comune” o di un “comune denominatore”, di cui i diritti vorrebbero essere espressione e tutela. È in nome di ciò che essi reclamerebbero di essere riconosciuti e internazionalmente sottoscritti. Semplificando drasticamente i termini, nelle critiche di marca relativistica alla universalità dei diritti umani si uniscono di norma due elementi. In primo luogo, vi è la riconduzione dell’uomo sotteso ai diritti umani alla sua area storico-culturale di provenienza: il presunto “uomo in quanto tale” non sarebbe nient’altro che il soggetto individuale, autonomo, isolato, presente a se stesso e proiettato nella pura affermazione di sé, partorito dalla modernità (venuto alla luce con Descartes e con Hobbes, per intenderci). A ciò si contrapporrebbe, per esempio, una predilezione per le dimensioni della comunità e dell’armonia – quali condizioni di esistenza dell’individuo – di marca “orientale”. In secondo luogo, e conseguentemente, una volta riconsegnati alla loro storicità, i diritti umani vengono dichiarati un oggetto culturale non comprensibile e non condivisibile da altre culture, quindi universalizzabile solo con la forza: per via della loro costitutiva mancanza di universalità, l’universalizzazione dei diritti umani può allora essere esclusivamente il risultato di una imposizione del modello di vita occidentale, della sua antropologia, della sua ideologia. «Tenersi dalla parte dei diritti umani», come diceva Derrida, coinciderebbe dunque con il tenersi dalla parte della forza, dell’imperialismo. Proviamo a esplicitare il presupposto della conclusione contenuta nel secondo dei due punti evidenziati, per ricavarne alcune indicazioni relative al problema del “proprio” dell’uomo e dell’universalità. Al di là delle ragioni politiche accennate, il motivo sotteso alla tesi relativistica della perfetta idiomaticità dei diritti umani è una interpretazione delle culture come degli insiemi omogenei e compatti, condannati a una sorta di reclusione identitaria e alla reciproca esteriorità. Una tale

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interpretazione porta con sé esattamente quell’essanzialismo che vorrebbe contestare e risente, a nostro avviso, di un’insufficiente presa in carico dell’effetto ontologizzante delle parole e dei concetti. Il carattere di “proprietà” che viene negato all’uomo e ai diritti umani viene infatti implicitamente e più o meno consapevolmente trasferito sulle culture: esse appaiono come delle identità definite, chiuse, autonome, autosufficienti, impermeabili, come se esistessero “cose” come “le” culture, “le” etnie, “le” lingue madri. L’essenzialismo contestato su un lato viene riammesso sull’altro. Il fantasma identitario, la presupposizione del “proprio” si trova ora all’opera rispetto alle culture. E se queste ultime vengono pensate come delle realtà in sé, delle sostanze metafisiche, con un dentro e un fuori assolutamente definiti e riconoscibili, gli oggetti interni a ciascuna di esse saranno affetti da una altrettanto assoluta idiomaticità: verranno concepiti come incomunicabili, incomprensibili, incondivisibili all’esterno di esse. Occorrerebbe pertanto essere più radicali nella decostruzione del proprio e non lasciar sussistere, più o meno inavvertitamente, un fondamentalismo delle culture. Non per abbandonarsi ad una prospettiva relativistica, ma per far emergere, sotto un profilo genetico, che ogni “proprio” è già da sempre espropriato, cioè contaminato e attraversato dal suo fuori, dall’altro da sé, come direbbe Derrida: non vi sono, in nessun luogo, momenti di assoluta proprietà, autarchia, autonomia. Niente è mai semplicemente se stesso, identico a sé12. Si tratti dei diritti umani o delle culture. Ovunque qualcosa accade o si manifesta, vi è differenza, relazione all’altro da sè, co-implicazione. Come osserva Ricoeur, «l’identità di un gruppo, una 12. Cfr. per esempio J. Derrida, Positions, Minuit, Paris 1972; tr. it. di M. Chiappini e G. Sertoli, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, Ombre Corte, Verona 2002. Sulla decostruzione del proprio nel pensiero di Jacques Derrida, rinviamo a C. Resta, La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016, in particolare il capitolo IV.

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cultura, un popolo, una nazione non è quella di una sostanza immobile, né di una struttura fissa, bensì quella di una storia narrata»13. Le culture non sono affatto delle monadi senza porte né finestre, murate nella specificità delle loro prospettive e abbandonate alla singolarità del loro destino: esse hanno, come tutto del resto, dei confini porosi, che possono venire attraversati, e sono sempre – come dice Derrida – in decostruzione14, affette da una costitutiva improprietà. Gli universi culturali sono cioè in continua trasformazione, vivono di contaminazioni e di prestiti, vengono percorsi da linee di faglia interne e da differenze, esse stesse in movimento, sono costitutivamente aperti all’altro.

4. La soglia dell’umano Se non si procede a una radicale genealogia del “proprio”, si rischia un essenzialismo delle culture incapace di tenere conto di ciò che avviene. Occorre riconoscere, infatti, su un piano duplice e intrecciato, sia che le culture dialogano fra loro, valicando i confini dei rispettivi prospettivismi, sia che i soggetti non sono deterministicamente legati a esse, alle epistemi di partenza, bensì possono partecipare ad appartenenze plurali. Se la cultura – o, si potrebbe anche dire, la lingua – è ciò attraverso cui il soggetto esiste, è la dimensione in cui esso si dispiega e diventa effettivo, il rapporto che il soggetto culturale intrattiene con la propria cultura è ad un tempo di

13. P. Ricoeur, La traduzione: una sfida etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 82. 14. Ci permettiamo di rinviare al riguardo a C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Franco Angeli, Milano 2001, capitolo V.

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coincidenza e di differenza. Per un verso, la cultura non è un rivestimento supplementare, che si aggiunga al soggetto in un secondo momento e dall’esterno, ma è come la pelle del nostro corpo; per altro verso, il soggetto può accorgersi della “sua” cultura, diventarne consapevole, prendere una certa distanza da essa, quando è posto di fronte a un’altra cultura, incarnata in altri soggetti: in quel momento, riflettendosi nella cultura dell’altro, si avvede non solo di “avere” una cultura, ma anche di averne “una” tra le altre. Nello stesso momento scopre che, pur in tutta la lontananza che lo separa dalla cultura dell’altro, egli può comprenderlo. È l’esperienza del rapporto con lo straniero, il non familiare, l’appartenente a un differente universo di senso: per quanto gran parte del suo modo di far presa sul mondo, dei principi e dei valori in base ai quali si muove mi siano estranei, io posso comunque intenderlo, posso comunicare con lui, dispormi a una traduzione reciproca, in cui ciascuno tradurrà l’altro, i suoi significati, i suoi segni, nella piega della sua lingua, e dunque in qualche modo anche lo altererà, lo trasformerà e, viceversa, ne verrà trasformato. Interroghiamoci: a quale condizione può esservi comprensione dell’altro, comunicazione tra culture e tra soggetti estranei? In virtù di che le culture possono dialogare, quindi possono realizzarsi incontri e traduzioni tra individui ad esse appartenenti? Nella misura in cui gli incontri accadono, vi deve essere qualcosa che li rende possibili, un elemento che consente la comunicazione, la mutua comprensione, la reciproca traduzione (che non è mai totale e non è mai nulla, è sempre possibile e al tempo stesso impossibile nella sua purezza). Ogni volta che avviene l’incontro tra mondo familiare e mondo estraneo, tra soggetti di diverse culture, vi è una nuova emergenza, sempre a posteriori, di qualcosa che dovrebbe in teoria occupare il posto di un apriori: esso si rivela “dopo” come ciò che era “già là”, all’opera, come un piano comune, una condizione attiva di traduzione.

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Potremmo prendere le mosse da qui per pensare la dimensione di universalità rispettivamente difesa e negata, e in definitiva fraintesa, nella disputa tra universalismo e particolarismo. Proponiamo cioè di intendere l’umano come un “operatore” di incontri, di traduzioni, di riconoscimenti transculturali, che non è smentito dalle differenze, ma anzi si attesta attraverso di esse. L’umano – nella accezione che suggeriamo – si rivela infatti proprio grazie all’esperienza della differenza, dello scarto, della alterità, emerge nell’incontro tra i diversi soggetti incarnati e storicamente determinati, come sua condizione operante: si tratta di un universale di cui nessuno possiede la formulazione esauriente, la definizione, di cui non vi è un “proprio” da qualche parte, disponibile nella sua purezza. Vale a dire: se per un verso lo sorprendiamo all’opera nella comunicazione “tra” individui appartenenti a diverse culture, come la soglia che consente, attraverso le differenze e gli scarti, il riconoscimento reciproco e la traduzione, per l’altro, non appena lo diciamo, con l’intento di esibirlo “come tale”, “propriamente”, assegnandovi dei contenuti e dei confini, esso diviene necessariamente un particolare, che si confronta o si mette in tensione con i particolari di tutti gli altri. Ognuno infatti non può che dire l’umano nella piega della sua lingua, nella rifrazione della sua cultura. Conseguentemente, bisogna osservare allora che universale non è l’una o l’altra definizione, appartenente a questa o a quella cultura, bensì l’umano: attenzione, non l’umano “come tale”, cioè il concetto dell’umano, che è precisamente ciò che si colloca sul piano della definizione, ma l’umano come dimensione trasversale fungente, che possiede cioè una universalità che chiameremmo “operativa” e – in un senso da chiarire – “negativa”. Ciò non significa inibirsi le definizioni che incessantemente elaboriamo dell’“umano” – bisogna pur parlare, e lo facciamo di continuo –, ma significa non cedere alla tentazione di ontologizzarne i contenuti, non frequentare in modo

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inconsapevole l’obbiettivazione insita nell’azione del linguaggio (di ogni linguaggio) e della nostra grammatica15. Cerchiamo di chiarire meglio. Nella misura in cui produciamo delle definizioni dell’umano, mirando al “come tale”, al “proprio” dell’uomo, ci troviamo alle prese con l’azione universalizzante e particolarizzante del linguaggio. In quanto significata linguisticamente, l’esperienza dell’umano si universalizza e si particolarizza al tempo stesso. Dal momento che è detta, ogni esperienza è infatti necessariamente “tradotta” nell’“universale”, cioè in identità ideali di significato, strutturalmente pubbliche e intersoggettive, trasmissibili e comprensibili da tutti i membri di una determinata comunità linguistica (le parole non possono che dire l’“universale”, l’“in generale”, il significato ideale). Al tempo stesso, però, l’universalizzazione insita nel funzionamento del linguaggio è sempre particolare: essa si produce in questa o quella lingua, in questa o quella cultura, con la sua necessaria prospettiva e parzialità. Inoltre, il rapporto tra l’esperienza e la sua “traduzione” linguistica non è paragonabile a quello tra un testo originale e la sua traduzione in un’altra lingua. Qui non vi è alcun testo originale a nostra disposizione, poiché l’al di qua del linguaggio non ha il carattere di un “dato” che si offra separatamente, nella sua purezza, al nostro sguardo comprendente e con il quale sia possibile confrontare la traduzione. L’esperienza si dà già sempre in traduzione: vale a dire, una volta entrati nel linguaggio, la comprensione dell’umano come di qualunque altro fenomeno è già linguisticamente determinata, non importa se in questo o quel caso specifico si proceda alla formulazione di enunciati oppure no. Nel momento in cui parliamo di un livello preverbale dell’esperienza e proviamo a dire lo scarto tra esso e 15. A riguardo della azione ontologizzante o obbiettivante del linguaggio, rimandiamo a C. Di Martino, Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Cortina, Milano 2017, capitolo 4.

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la sua significazione linguistica siamo comunque sempre dal lato del linguaggio, della traduzione, non da quello dell’esperienza pura. Attenzione, non si tratta in nessun modo di dolersi di tale situazione, ma di assumerla, di metterla in linea di conto: quando noi “diciamo” l’esperienza, ovvero quando la comprendiamo, la descriviamo o la definiamo, ci troviamo sul piano della universalizzazione-particolarizzazione caratteristica del linguaggio. Nel prendere atto della particolarità (o storicità) di ogni rivelazione-comprensione dell’esperienza, l’errore sarebbe, come abbiamo sottolineato, quello di intendere tale “particolarità” come un sinonimo di perfetto “idiomatismo”, in una visione metafisico-essenzialistica delle lingue e delle culture. Di fatto, i diversi individui, con le molteplici comprensioni dell’umano che li caratterizzano, si incontrano e si traducono reciprocamente (pur entro certi limiti) e ciò ci impegna ad ammettere una dimensione trasversale fungente, un “operatore” in forza del quale essi possono intendersi, attraversare le rispettive particolarità, riconoscendosi diversi, ma non eterogenei: si tratta di una universalità di tipo operativo, che non appartiene al piano delle definizioni, ma allude a una istanza strutturale il cui statuto resta ancora da mostrare. Per accennarvi, sia pure rapidamente, riferiamoci a quella peculiare esperienza di riconoscimento che si realizza tra gli adulti e i bambini attraverso gesti espressivi prelinguistici e che costituisce un elemento essenziale della genealogia del sé. Come hanno bene illustrato le ricerche empiriche di Daniel Stern16, riprese da Axel Honneth nel contesto della sua teoria, il bambino sviluppa la sua identità e diviene un essere sociale grazie a un processo di mutua regolazione di affetti e

16. Cfr. D. Stern, Le prime relazioni sociali. Il bambino e la madre, Armando, Roma 1979, in particolare cap. II.

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attenzioni che si compie prevalentemente mediante una comunicazione gestuale con le figure di riferimento. La madre utilizza un ampio catalogo di gesti, in particolare un’assai ricca mimica facciale, per trasmettere al bambino che «può contare sull’amore, la partecipazione emotiva e l’empatia della figura di riferimento»17. Un ruolo eminente è svolto dal «sorriso semi-involontario», accompagnato da molti altri atteggiamenti e posture. Abbiamo così un variegato repertorio di espressioni mimiche, di gesti di riconoscimento, di approvazione, di incoraggiamento, di accudimento, di cura, di disponibilità all’aiuto – che vengono poi utilizzati, in forma abbreviata, anche dagli individui adulti che intendono segnalarsi la reciproca stima e partecipazione emotiva –. È rispondendo a tali gesti (sorridendo di rimando all’adulto, e così via) che si dispiega il processo di soggettivazione e che emerge nel bambino una disposizione sociale all’interazione col mondo. Com’è immaginabile, le forme mimico-espressive variano a seconda delle culture – come quelle linguistiche –, ma al di là di tutte le possibili differenze la loro funzione resta quella di comunicare all’altro, in questo caso al neonato, che la sua presenza è riconosciuta, considerata, approvata, benvoluta, accolta. Esse corrispondono, nel momento stesso in cui la evocano, a una istanza di riconoscimento e di accoglienza che appartiene a ciò che potremmo chiamare, con tutti i rischi del caso, una struttura universale dell’esperienza. Il loro mancato prodursi interferisce infatti con il cammino di umanizzazione – che deve compiersi ogni volta di nuovo per ogni membro della specie homo sapiens – e dà luogo a varie forme di sofferenza e di patologia, fino a condurre all’auto-distruzione (come hanno documentato le pionieristiche ricerche di René Spitz18). Senza manifestazioni di 17. A. Honneth, La libertà negli altri. Saggi di filosofia sociale, il Mulino, Bologna 2017, p. 128. 18. René A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti, Firenze 2009.

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riconoscimento e di cura all’interno di una relazione con altri (con le figure di riferimento, a cominciare dalla madre), non può svilupparsi il cammino dell’identità umana. Attraverso la molteplicità dei dizionari espressivi in uso nelle diverse culture (senza trascurare le costanti e i punti di contatto), nella relazione “generativa” tra adulti e infanti si annuncia, dunque, nella forma di una istanza, una universalità dell’umano che non si colloca al livello della definizione. Pur constatando l’esistenza di diversi repertori di «gesti a connotazione benevola», attraverso la loro multiformità ravvisiamo all’opera la corrispondenza a una istanza che faticheremmo a confinare in questa o quella cultura e che si attesta piuttosto come trasversale. Certo, definendola come esigenza di “riconoscimento” e di “accoglienza” riflettiamo significati e comprensioni della nostra cultura, ma sarebbe difficile negare che con essi viene a galla qualcosa che ha costitutivamente e universalmente a che fare con l’umanizzazione della vita. Interessanti in proposito – sebbene caratterizzate da una certa disinvoltura nell’uso dei concetti – sono le considerazioni di François Jullien, nel suo L’universale e il comune. Il dialogo tra le culture. Nell’ambito di una discussione sui diritti dell’uomo, egli invita a pensare una dimensione universale dell’umano in una certa separazione dal piano della rappresentazione. Si tratterebbe cioè di rinunciare a cercare nell’universale «una estensione nozionale che potrà sempre essere messa in discussione nelle altre culture», riferendosi invece a «quell’incondizionato che la sua negazione fa immediatamente apparire»19. L’idea di ripensare l’universale in quest’ottica egli la riconduce alla lettura di Mencio, di cui riporta un esempio. È il caso di

19. F. Jullien, De l’universal, de l’uniforme, du commun et du dialogue entre les cultures, Fayard, Paris 2008; tr. it. di B. Piccioli Fioroni e A. De Michele, L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 130.

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una persona che, vedendo un bambino sul punto di cadere in un pozzo, interviene per trattenerlo, non perché sia legato ai genitori, né perché desideri essere ringraziato o per timore di essere incolpato di un eventuale incidente. È un gesto che sfugge al calcolo, «che non poteva non essere compiuto». La conclusione di Mencio è che chi in una simile situazione non tenda la mano «non è uomo». Jullien commenta: Invece di partire da una definizione dell’uomo necessariamente determinata sotto il profilo ideologico e, con ciò stesso, specifica, Mencio fa emergere – anche qui negativamente, a partire da una mancanza inammissibile – quello che, in sé, come reazione incontrollata di “umanità”, possiede una vocazione universale.

Il ruolo universalizzante è svolto nell’esempio dal «rifiuto irreprimibile di lasciare che il bambino cada nel pozzo»20. Con ciò Mencio riesce, secondo Jullien, a portare allo scoperto una «dimensione incondizionata dell’umano che ha funzione universalizzante, una dimensione che, lo possiamo affermare a priori, è condivisa dalle diverse culture». Insomma, il grido lanciato alla vista del bambino dondolante, con il braccio teso nel tentativo di afferrarlo, è «il grido “fondamentale” [foncier] del senso comune dell’umano»21. Ma perché parlare di “umano” e non di “uomo”? Qual è il senso di un simile evitamento? «L’enunciato “l’uomo è…” – scrive Jullien – è seguito ineluttabilmente dalla determinazione di una essenza che impone il proprio partito preso come (falsa) universalità»22. Rinunciare a una prospettiva essenzialista e definitoria significa allora operare uno spostamento significativo e strategico. Mentre l’“uomo”, inteso come nozione, esige in quanto sua prerogativa una definizione posta come principio, l’“umano” 20. Ibidem. 21. Ibidem, p. 131. 22. Ibidem, p. 183.

164 è un concetto palesemente esplorativo perché non ci porta più a presupporre ciò che è l’uomo, bensì a rintracciare – esplorare – ciò che fa l’umano. Ne consegue che è proprio l’umano – i suoi tratti distintivi e di valore – che può fare l’uomo23.

L’umano si annuncia dunque come un universale aperto e operante, sempre al di là degli universalismi, che si dispiega secondo una pluralità che non conosce arresto, «quella delle molteplici culture viste come tratti distintivi di umanità»24: assegnato a una emergenza molteplice e sempre a venire, l’umano si nutre delle differenze e degli scarti, dell’osservarsi paziente e reciproco tra le diverse esperienze e culture, in una tensione continua e tenace a tradursi.

5. Per una universalità operativa dei diritti Le affermazioni di Jullien meritano un’ulteriore attenzione: in particolare il riferimento all’emergenza “negativa” dell’universale è posto dall’autore in una diretta connessione con la questione che stiamo affrontando. Interrogandosi sulla valenza universale dei diritti umani, Jullien mette in chiaro che «qualsiasi giustificazione ideologica dell’universalità dei diritti umani è destinata a fallire»25. Sappiamo bene, egli osserva, quanto sia discutibile il loro contenuto positivo (legato a una antropologia determinata) e quanto essi non possano avanzare la pretesa di dettare a tutti gli altri come sia giusto vivere (questo vale anche rispetto all’uso omologante di certi “nuovi diritti” all’interno dell’Occidente stesso). E tuttavia essi portano

23. Ibidem, p. 184. 24. Ibidem, p. 185. 25. Ibidem, p. 123.

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con sé un tipo di universalità che deve essere pensato e messo al lavoro (è qualcosa di simile ciò che faceva dire a Derrida: «Bisogna più che mai tenersi dalla parte dei diritti umani»). Innanzitutto, il potenziale di radicalità concettuale dei diritti umani risiede nel fatto che essi «si appropriano dell’umano al suo stadio più elementare, agli albori dell’esistenza»26, si rifanno cioè a quella originaria condizione dell’uomo determinata semplicemente dal fatto di essere nato. Sotto questo profilo, essi non prendono in esame l’“individuo” (come costruzione ideologica della modernità occidentale), ma chiunque – «prima di qualsiasi altra determinazione metafisica del “chiunque” come soggetto, persona umana, coscienza, prima di qualsiasi determinazione giuridica»27 – per usare le parole di Derrida. Questa osservazione prelude alla messa a fuoco della vera radice del «potenziale universalizzante dei “diritti umani”»: essa consiste, secondo Jullien, nel fatto che «la loro portata negativa (ciò contro cui insorgono) è infinitamente più ampia della loro estensione positiva (ciò a cui aderiscono)»28. Vale a dire, essi rappresentano uno strumento per «dire no», per resistere a ciò che è inaccettabile. Nel loro «aspetto negativo e insurrezionale» i diritti umani costituiscono uno strumento riconfigurabile infinite volte, in contesti diversi e mutevoli, mostrando la loro vocazione a «riaprire una breccia in ogni totalità chiusa e sufficiente a se stessa»29. Jullien sottolinea come non tutti coloro che nel mondo si appellano ai diritti umani aderiscano all’ideologia occidentale, ammesso che la conoscano, e tuttavia trovino in essi lo strumento necessario a «esprimere un ri-

26. Ibidem, p. 124. 27. J. Derrida, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003; tr. it. di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, pp. 130-131. 28. F. Jullien, L’universale e il comune, cit., pp. 124-125. 29. Ibidem, p. 125. Corsivo nostro.

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fiuto portando allo scoperto una trascendenza operativa, non integrata e non alienata nell’immanenza di ogni situazione». Il rifiuto, a differenza dell’opposizione, che è sempre contestualizzata da ciò cui si oppone, «apre di colpo all’incondizionato e svela senza esitazione (…) il senso comune dell’umano». Questa sarebbe dunque l’universalità operativa dei diritti umani, ciò che «li rende a tutt’oggi uno strumento ineguagliabile e insostituibile»30. Bisogna parlare allora, secondo Jullien, di una «capacità “universalizzante” dei diritti umani», lasciando risuonare il termine «universalisant» nel doppio valore che esso ha in francese, di participio presente e di gerundio, ovverosia con il senso di ciò che universalizza e di ciò che si sta universalizzando. Invece di presupporre una universalità ispirata a una qualche forma di trascendentalismo, si tratta, mediante la «capacità universalizzante dei diritti umani», di affermare che essi «mettono in atto o fanno emergere l’universale: attraverso il loro specifico spazio di apertura, i cui contorni sono storicamente e ideologicamente definiti, essi rivelano e mettono in azione il principio “regolatore” dell’universale, il solo e unico trascendentale che io riconosco». Ciò significa che, osserva Jullien, «il loro venir meno o la loro negazione» – vale a dire, in una battuta, il prodursi dell’ingiustizia e del misconoscimento a qualunque livello – «fa emergere drammaticamente una dimensione universale dell’umano (transculturale e trans-storica)», che altrimenti non «sarebbe possibile denominare». Tale dimensione universale dell’umano è, nel lessico di Jullien, «l’incondizionato che la sua negazione fa immediatamente apparire» o «il principio regolatore dell’universale», cui egli attribuisce un senso «strettamente funzionale e non nozionale»31. È in nome di questo «incondizionato» che «io posso dire “no”» alle forme 30. Ibidem, p. 126. 31. Ibidem, p. 127.

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dell’ingiustizia e dell’oppressione, della violenza e della privazione di libertà, in qualunque contesto (e a prescindere dai risultati che riesco a ottenere). I diritti umani sono allora dotati di una capacità universalizzante in quanto fanno emergere «per negazione e in maniera operativa» questo incondizionato, questo universale: essi non avanzano pretese “veritative” universali legate alle loro formulazioni; il loro carattere universalizzante «non appartiene all’ordine del sapere teorico, bensì a quello dell’operatività e della pratica»32. La questione non sarà più, allora, se essi sono universalizzabili in quanto enunciati di verità, ma se essi producono effetti emancipativi, anzitutto in termini di rifiuto dell’ingiustizia, della minaccia alla vita, alla libertà e alla dignità di ogni essere umano. A una conclusione simile, da tutt’altro punto di vista e per tutt’altra via, perviene Luca Baccelli. Dopo aver espresso in modo deciso i suoi dubbi su un certo universalismo dei diritti umani e sul ritorno in scena, in suo nome, anche ad opera di John Ralws, Michael Walzer e Michael Ignatieff, della teoria della guerra giusta, si domanda: Tutto questo significa che il linguaggio dei diritti deve essere abbandonato, che i diritti umani sono nient’altro che un inganno, un’ideologia che copre e legittima l’oppressione delle donne, la sottomissione dei più deboli, l’imperialismo? Significa che sono il veicolo per imporre la presunta superiorità della cultura occidentale?33.

La risposta è «no», poiché essi sono o possono diventare uno strumento di emancipazione entro e anche oltre i confini dell’Occidente. Quello dei diritti umani è un linguaggio che «permette di formulare la rivendicazione, un linguaggio, in 32. Ibidem, p. 128. 33. L. Baccelli, Diritti umani, universalismo e differenze culturali, in Th. Casadei (a cura di), Diritti umani e soggetti vulnerabili. Violazioni, trasformazioni, aporie, Giappichelli, Torino 2012, p. 38.

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senso letterale, emancipativo (ex-mancipum: liberazione dalla schiavitù)», che può rivelarsi attraente ed efficace anche «per chi è sottomesso, persino se lo ha imparato dai suoi padroni e se i suoi padroni lo hanno usato per sottometterlo»34. Baccelli propone insomma di distinguere «l’universalità del contenuto normativo espresso nel linguaggio dei diritti soggettivi e l’universalità della forma del diritto soggettivo, in definitiva dello stesso linguaggio dei diritti»35. Il linguaggio dei diritti umani potrebbe infatti essere utilizzato anche per realizzare una presa di distanza dall’orizzonte culturale e giuridico in cui i diritti umani sono sorti e in ogni caso per contrastare le molteplici forme di violazione della vita, della libertà e della dignità, ovunque si verifichino (in Occidente come in Oriente). Analoga la posizione di Francescomaria Tedesco, nel suo Diritti umani e relativismo. Egli avanza l’idea di una «transculturazione “cannibale”»36 dei diritti umani, per indicare la possibilità – al di là del pericolo sempre presente di un assoggettamento concettuale perpetrato dalla cultura europea nei confronti di chiunque accetti di parlare la sua lingua – che i soggetti “non occidentali” utilizzino, declinandolo in modo proprio, ovvero transculturandolo, lo strumentario messo a disposizione dal discorso sui diritti umani, smarcandosi «dalle tensioni essenzializzanti e dalle generalizzazioni sia del relativismo sia dell’universalismo»37. I diritti umani sarebbero una cassetta degli attrezzi utile ad arginare forme di oppressione e a mettere in luce le ipocrisie e le chiusure dei vari contesti, incluse quelle della comunità internazionale che di quei diritti si fa paladina.

34. Ibidem, p. 43. 35. Ibidem, p. 42. 36. F. Tedesco, Diritti umani e relativismo, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 89. 37. Ibidem.

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Anche se, aggiungiamo noi, non bisogna mai perdere di vista ciò che è stato lucidamente mostrato da Hannah Arendt a proposito degli apolidi “prodotti” dalla nuova delineazione dei confini geo-politici seguita alla prima guerra mondiale: il fatto cioè che il linguaggio dei diritti “umani” rischi di scontare la sua massima debolezza, inefficacia, o perfino una specifica eterogenesi dei fini, proprio nel momento in cui deve tutelare coloro che sono “nient’altro che uomini”. Arendt costringe a prendere atto che gli apolidi tra le due guerre, nel momento in cui si sono trovati ad essere “nient’altro che uomini”, puri membri della famiglia umana, privati della vecchia cittadinanza e quindi dei diritti civili e politici, hanno contestualmente perso anche tutti quei diritti umani fondamentali che avrebbero dovuto proteggerli in quella situazione. Nessuno Stato era disposto a riconoscere e garantire loro alcun diritto, o meglio, quell’unico diritto realmente fondamentale che è «il diritto ad avere diritti»38, secondo la nota formula arendtiana. L’esclusione dalla comunità politica coincise perciò con l’esclusione dall’umanità stessa, con la riduzione all’inumano. Il mero uomo, colui che, spogliato di ogni concreta appartenenza politica, risulta solamente un uomo, se in teoria si presenta come il soggetto per eccellenza dei diritti umani, nella realtà si trasforma in “nuda vita”, viene misconosciuto e confinato in una condizione inumana. I migranti sono l’emblematica e attualissima incarnazione di coloro che, trovandosi a essere nient’altro-che-uomini, in alcun modo protetti dalla loro cittadinanza d’origine, semmai in fuga da essa, perdono il «diritto ad avere diritti». Essi restano sospesi in non-luoghi (come i campi profughi) nei quali “stazionano”, dipendono dalla intermittente disponibilità e dalla precarietà della cooperazione fra gli Stati e dall’azione di organismi non governativi che non possono arrivare a coprire tutte le situazioni, né sostituire l’i-

38. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 410-411.

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niziativa politica statale e internazionale. Tutto ciò per sottolineare che gli attori appropriati della politica dei “diritti umani” sono quegli individui e quei gruppi vulnerabili che hanno raggiunto un certo status giuridico-politico e perciò sono nelle condizioni di sfruttare delle opportunità di emancipazione. I migranti, per ora, non figurano tra questi, nonostante gli sforzi – che pure ci sono – dei preposti organismi dell’ONU, di alcuni stati nazionali e di molte organizzazioni non governative.

6. Diritti dell’uomo e giustizia incondizionale Anche a motivo di ciò, la questione dei diritti umani non è mai separabile, come sottolinea Derrida, da «una critica attiva e interminabile»39. Come egli scrive, i discorsi sui diritti dell’uomo e sulla democrazia restano degli alibi osceni quando essi accettano tranquillamente la raccapricciante miseria di miliardi di mortali abbandonati alla malnutrizione, alla malattia e all’umiliazione, privati in blocco non solo di acqua e di pane, ma anche di uguaglianza o di libertà, spossessati dei diritti di ognuno, di chiunque40.

Dieci anni prima di Stati canaglia, da cui è tratta questa citazione, quando non si era ancora compiutamente realizzata l’imponente esplosione del fenomeno migratorio, con tutte le sue conseguenze, Derrida aveva insistentemente denunciato, in Spettri di Marx, «i limiti» di un certo discorso sui diritti dell’uomo41: sino a quando la legge del mercato, il “debito 39. J. Derrida, Stati canaglia, cit., p. 131. 40. Ibidem, p. 130. 41. Cfr. Id., Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993; tr. it. di G. Chiurazzi, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Cortina, Milano 1994, p. 110.

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estero”, il divario dello sviluppo tecnologico, scientifico, militare ed economico «faranno sussistere quell’effettiva e mostruosa ineguaglianza che, oggi più che mai, prevale nella storia dell’umanità», quel discorso resterà «inadeguato, talvolta ipocrita, in ogni caso formale e inconseguente con se stesso»42. Queste parole, di ormai più di due decenni or sono, hanno accresciuto nel tempo la loro sinistra pertinenza. Nel pieno dispiegamento della globalizzazione, oggi più ancora di ieri, bisogna «gridare che mai, nella storia della terra e dell’umanità, la violenza, l’ineguaglianza, la miseria, e dunque l’oppressione economica, hanno coinvolto tanti esseri umani»43. Per quanti risultati si siano raggiunti nei vari campi prima menzionati, nessun progresso «consente di ignorare che mai, in cifra assoluta, mai così tanti uomini, donne e bambini sono stati asserviti, affamati o sterminati sulla terra»44. In quella che è stata definita “età dei diritti” assistiamo alla loro «più massiccia violazione» e alla «più profonda e intollerabile disuguaglianza»45, con il più alto numero di schiavi della storia46. E, come scrive Roberto Esposito, «basta una rapida occhiata al panorama mondiale e si è costretti ad ammettere che oggi nessun diritto è meno garantito di quello alla vita»47. Accanto al problema della massiccia violazione dei diritti umani proclamati dalle varie Dichiarazioni e del bisogno di più efficaci garanzie e tutele, reso urgente dalla loro larga ineffettività (resta, com’è noto, aperta la discussione sul rapporto tra validità ed effettività dei diritti), vi è anche quello della 42. Ibidem. 43. Ibidem. 44. Ibidem, p. 111. 45. L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 2007, vol. II, p. 54, p. 543. 46. Cfr. K. Bales, I nuovi schiavi, Feltrinelli, Milano 2002. 47. R. Esposito, Terza persona, cit., p. 7.

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proliferazione e del bilanciamento dei diritti nell’attuale contesto occidentale. I diritti umani sono infatti intrinsecamente caratterizzati da una logica espansiva, legata sia alla loro natura rivendicativa sia al fatto di essere storici e non “naturali”, dunque di principio suscettibili di modificazioni ed evoluzioni in rapporto al mutamento delle condizioni sociali e tecnicoscientifiche e quindi delle aspettative. Se dunque i diritti umani crescono e in un certo senso non possono non crescere, non bisogna ignorare l’«ambiguità», di cui parla Zagrebelsky, che accompagna l’esercizio dei diritti soggettivi: essi possono essere strumenti di resistenza al predominio e al contempo strumenti di dominio. «Nella società di disuguali, i discorsi sui diritti sono ambigui poiché possono giustificare tanto le pretese oligarchiche quanto le aspirazioni democratiche, cioè la concentrazione o la diffusione del potere sociale e politico»48, possono sia proteggere contro le ingiustizie sia legittimarle. Nello «spazio stretto» in cui viviamo, «non c’è diritto che non collida con altrui diritti»49; «l’espansione dei diritti a favore degli uni è al prezzo della riduzione a carico degli altri»50, «crea onde che investono, a partire dalla scelta individuale, interessi e sentimenti altrui»51 (come si può constatare a proposito di molte delle questioni eticamente sensibili). È a questo punto che, seguendo l’indice abbozzato all’inizio sulla scorta delle affermazioni derridiane, occorrerebbe interrogare «il concetto stesso di diritto e di storia», con riguardo alla fondazione del diritto e alla sua costitutiva iscrizione in una storia; ma soprattutto occorrerebbe interrogare il rapporto che il diritto intrattiene con la giustizia. Il diritto non è la

48. G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino 2017, p. 19. 49. Ibidem, p. 45. 50. Ibidem, p. 46. 51. Ibidem, p. 69.

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giustizia; quest’ultima è in eccesso rispetto al diritto. I due ordini, però, sono al tempo stesso irriducibili e indissociabili, di principio e di fatto. Da una parte, come scrive Derrida, vi è «la giustizia (infinita, incalcolabile, ribelle alla regola, estranea alla simmetria, eterogenea ed eterotropica)», dall’altra «l’esercizio della giustizia come diritto, legittimità o legalità, dispositivo stabilizzabile, statuario e calcolabile, sistema di prescrizioni regolate e codificate»52. La giustizia è oltre il diritto, non è mai al presente, appartiene all’ordine di ciò che resta strutturalmente a venire, al di là di ogni sistema di norme e di ogni esercizio della “giustizia” calcolabile. Ma ciò non vuol dire respingere la giustizia in un puro al di là: il suo eccesso rispetto al diritto deve inscriversi nel diritto, fare pressione in modo urgente su ciò che è calcolabile, per modificarlo. «Questo eccesso della giustizia rispetto al diritto e al calcolo, questo straripamento dell’impresentabile sul determinabile non può e non deve servire da alibi per astenersi dalle lotte giuridico-politiche, all’interno di una istituzione o di uno Stato, fra istituzioni o fra Stati»53. Al contrario, il rapporto tra l’incalcolabile della giustizia e il calcolabile del diritto deve essere il terreno di una negoziazione continua, che si deve spingere il più lontano possibile, oltre il punto in cui ci troviamo. Questa è la responsabilità della ragione: attendere senza posa alla «transazione» tra il calcolo e l’incalcolabile, per esempio alla transazione tra i diritti dell’uomo, così come la storia di vari performativi giuridici, attraverso successive dichiarazioni, li ha determinati e arricchiti da più di due secoli, e l’esigenza di giustizia incondizionale alla quale questi performativi non saranno 52. J. Derrida, Force de loi. Le «Fondament mystique de l’autorité», Galilée, Paris 1994; tr. it. di A. Di Natale, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 73. 53. Ibidem, p. 83.

174 mai adeguati, esposti come sono alla loro perfettibilità (che è qualcosa di più, e d’altro, rispetto a una Idea regolatrice) e a una decostruzione razionale che interrogherà all’infinito i loro limiti54.

Si tratta insomma di raccordare i diritti umani così come si sono determinati all’esigenza di giustizia incondizionale: instancabilmente, senza mai abbassare la guardia. È tale esigenza di giustizia che muove una critica attiva e interminabile e attraversa la decostruzione, anche – nella fattispecie – la decostruzione dei diritti umani, dei loro limiti, dell’apparato concettuale che li sorregge, della loro storia, per aprirli a un al di là: in nome della giustizia. E l’impegno decostruttivo, critico, appartiene a quel «tenersi dalla parte dei diritti umani» già più volte citato, sottraendolo definitivamente a ogni tranquilla adesione. «Ciò spinge a denunciare non solo dei limiti teorici, ma delle ingiustizie concrete, dagli effetti più evidenti»55. Da qui, un’ultima osservazione, che meriterebbe ben altro spazio. Anche l’esigenza di giustizia incondizionale evocata da Derrida si collocherebbe sul piano di quella dimensione trasversale dell’umano che possiede una universalità “fungente” e, in certo modo, “negativa”, di cui abbiamo discusso. Essa – diversamente attivata da gesti ed esperienze umanizzanti che rispondono ai codici delle diverse culture – innesca le nostre reazioni, ispira le nostre azioni, la sua negazione la fa immediatamente apparire, funge da principio critico-decostruttivo delle diverse situazioni di ingiustizia in cui ci troviamo. L’esigenza di giustizia, «la sensibilità a una specie di sproporzione essenziale»56, si presenta insomma come un altro indice dell’“operatore” messo in luce a suo tempo. Essa si dice in

54. Id., Stati canaglia, cit., p. 215. 55. Id., Forza di legge, cit., p. 71. 56. Ibidem.

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molti modi, tanti quanti sono gli idiomi in cui si universalizza particolarizzandosi, senza che nessuna lingua ne detenga il senso definitivo. Ma, nel mentre si annuncia-ritirandosi in ogni lingua, tale esigenza – come indice dell’umano – continua senza sosta a operare.

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E se l’umano rispondesse? Fabio Polidori

Ogni discussione intorno a un ambito contraddistinto in quanto «proprio» rimanda necessariamente a un certo uso e a una certa concezione della differenza. L’ovvietà e genericità di questa affermazione non implica però che termini quali «proprio» e «differenza» siano altrettanto ovvi e generici, anzi. E non sembra esserlo nemmeno il rapporto che tra essi intercorre, qualora ci si interroghi sulle implicazioni dell’uno rispetto all’altro, su quale per esempio preceda (ontologicamente, logicamente, giuridicamente ecc.) l’altro. Mi prenderò dunque il rischio di assumere questi due termini con tutte le rispettive ambiguità all’interno di un discorso volto a indagare sino a che punto una nozione certamente non inequivoca come quella di «proprio» possa, attraverso la portata della sua esclusività (e di tutte le esclusioni derivanti), indicare e costituire ciò che contraddistingue e distingue, identifica, appropria, insomma differenzia l’umano. In questo caso, anzitutto dall’animale: non perché la differenza tra umano e animale sia di per sé più delicata o significativa di altre, ma perché la vastità e complessità delle articolazioni in cui si declina questa differenza rende impossibile uno sguardo onninglobante e obbliga pertanto a una prospettiva necessariamente parziale. Prenderò perciò

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spunto da alcuni passi, relativamente noti, di Martin Heidegger e di Jacques Derrida sul tema, per poi procedere sul versante lungo il quale si declina la questione della risposta, della responsabilità. Testi alla mano, è forse possibile sostenere che mai come nel caso della lettura, interpretazione e decostruzione, da parte di Derrida, di quanto Heidegger abbia affermato, direttamente o indirettamente, circa l’«animale» o la giunzione/disgiunzione uomo-animale, ci si può trovare di fronte a una serie di considerazioni che suscitano perplessità. Più ancora che per la tesi di fondo – tentando di riassumerla: secondo Derrida il pensiero di Heidegger sarebbe in linea con quella discriminazione dell’animale rispetto all’uomo che percorre l’intera storia della metafisica occidentale –, per una serie di sorprendenti omissioni o fraintendimenti nei confronti di alcune affermazioni di Heidegger a mio parere inequivoche. Ma non è l’accordo o il disaccordo tra varie letture e a più livelli a costituire, qui, oggetto di interesse, bensì il contrasto profondo, la distanza non colmabile tra una concezione e un’altra dell’umano in riferimento all’animale. Tra una considerazione che, come in Heidegger (semplificando e solo per dare le prime coordinate), si articola attraverso una assoluta distinzione tra animale e uomo, e una posizione – va detto, senz’altro meno lineare e netta – come quella di Derrida dove una sorta di volontà di tutela (soprattutto dai presunti attacchi di Heidegger) della dignità animale conduce a formulazioni e a esiti non sempre convincenti1.

1. Sotto questo aspetto, e nel merito della questione dell’animale in Derrida e Heidegger, va senz’altro segnalato l’ultimo capitolo di Carmine Di Martino, Figure dell’evento. A partire da Jacques Derrida, Guerini e Associati, Milano 2009, p. 133 ss.

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Non si può non partire dalla seconda parte del corso di Heidegger dal titolo Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine (semestre invernale 1929-1930), in cui viene discussa una svariata quantità di tratti per i quali tracciare una distinzione tra uomo e animale. Tratti molteplici che rendono, in partenza, quella distinzione assai problematica. È noto che il discorso di Heidegger prende avvio dalla necessità di rispondere alla domanda «che cos’è mondo?»2, da cui la messa in campo di tre «tesi» oramai abbastanza famose: «1. la pietra (l’ente-materiale) è senza mondo; 2. l’animale è povero di mondo; 3. l’uomo è formatore di mondo»3. Per saltare subito alla fine: la «povertà di mondo» dell’animale coinciderebbe con la «sottrazione della possibilità della manifestatività dell’ente»4 e sarebbe dovuta al fatto che «l’animale ha sì un accesso a…, e a qualcosa che realmente è – ma che soltanto noi siamo in grado di sperimentare e di manifestare in quanto ente»5. Tale «caratterizzazione dell’animalità per mezzo della povertà di mondo», osserva tuttavia Heidegger, «non è genuina, non è tratta dall’animalità stessa e non resta nei limiti dell’animalità, bensì la povertà di mondo è un carattere desunto dal confronto con l’uomo. Infatti solo visto a partire dall’uomo l’animale è povero quanto al mondo»6 e «la nostra tesi “l’animale è povero di mondo” resta dunque ben lontana dall’essere una – o addirittura la proposizione fondamentale metafisica sull’essenza dell’animalità»7. 2. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine (1983), a cura di F.-W. von Hermann, edizione italiana a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1992, p. 230. 3. Ibidem, p. 232. 4. Ibidem, p. 348. 5. Ibidem, p. 343. 6. Ibidem, p. 345. 7. Ibidem, p. 346.

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La linea che distinguerebbe animale e uomo è dunque, già sulla base di queste osservazioni, niente affatto stabile. Il che dipende soprattutto da due ragioni: 1) il fine di Heidegger non è affatto quello di raggiungere una determinazione essenziale dell’animale o dell’animalità, ma acquisire un concetto di «mondo» e le distinzioni proposte dalle tesi non sono l’obiettivo finale: «la tesi “l’animale è povero di mondo” deve […] continuare a sussistere come problema, come problema al quale adesso non poniamo mano, ma che guiderà i passi ulteriori dell’osservazione comparativa, cioè l’autentica esposizione del problema del mondo»8. La tesi sulla «povertà di mondo» ha costantemente mantenuto una funzione comparativa e dunque strumentale, senza mai essere l’obiettivo dell’indagine di Heidegger. 2) Il quale, poi, non si è mai posto il fine di tracciare una unica linea differenziale tra animale e uomo né di collocarli entro una gerarchia. Se per la prima ragione ci si può limitare alla eventualità di un fraintendimento, per la seconda invece la questione è meno scontata, ed è su questa che adesso vorrei soffermarmi. È fuori discussione che si possa e debba distinguere l’uomo dall’animale, attraverso la posizione di una o più differenze, e che non solo in questo corso, ma anche in altri testi di Heidegger si possano rintracciare più elementi differenziali. Anche l’eventuale attribuzione all’animale di un «mondo» (se è povero di mondo implica che ce l’ha) dipende da un «punto di vista», da cui è comunque escluso ogni relativismo: a confronto della pietra priva di mondo l’animale risulta certo avere mondo, ma se paragonato all’uomo può anche risultare che l’animale non abbia mondo: «nell’animale è insito un avere-mondo e un non-avere-mondo»9, afferma Heidegger, sottolineando

8. Ibidem, p. 349. 9. Ibidem, p. 343.

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come la contraddizione non stia sul versante dell’animale, ma nella indeterminatezza del concetto di mondo. Sebbene dunque quanto viene argomentato intorno alle «tesi» potrebbe implicare una differenza di carattere oppositivo e, per così dire, non negoziabile, tale differenza – che continua a oscillare, tanto da indurre Heidegger a «sospenderla» – non va intesa come una differenza di grado. Il che trova oltretutto conferma nel modo in cui Heidegger aveva in precedenza10 indicato cosa significa «povertà», che non comporta un avere di meno di contro a un avere di più: «bensì essere povero significa fare a meno»11, non è sicuramente cioè una qualità derivante dalla quantità del posseduto. La differenza tra uomo e animale non è qui posta in termini quantitativi ed è perciò in linea di principio da escludersi che la presunta contrapposizione si fondi sul possedere qualcosa, su un possesso ontico: del linguaggio, dell’«in quanto», della mano rispetto alla zampa, della capacità di morire, come alcuni esempi disseminati nei testi heideggeriani sembrerebbero indicare12. E se non è questione di quantità o di grado, non 10. Cfr. ibidem, pp. 250-254. 11. Ibidem, p. 253. 12. Cfr. ad esempio Id., Che cosa significa pensare? (1954), tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1978-1979, 2 voll., 1, p. 108: «La mano è qualcosa di particolare. La mano appartiene secondo la rappresentazione abituale al nostro organismo corporeo. Ma l’essenza della mano non si lascia mai determinare come un organo prensile del corpo, né spiegare sulla base di tale determinazione. Anche la scimmia ad esempio possiede organi prensili, ma non per questo ha le mani. La mano si distingue da ogni altro organo prensile, come zampe, artigli, zanne, infinitamente, ossia tramite un’abissalità essenziale. Solo un essere parlante, ossia pensante, può avere le mani e compiere così, attraverso la manipolazione, opere della mano»; e, in relazione alla capacità di morire e al linguaggio cfr. Id., In cammino verso il Linguaggio (1959), a cura di A. Caracciolo, tr. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973-1979, p. 169: «I mortali sono coloro che possono esperire la morte in quanto [als] morte. L’animale non lo può.

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può nemmeno trattarsi di questione di gerarchia; oltretutto l’analisi di Heidegger elude ogni continuismo biologistico, proprio al fine di mantenersi rigorosamente sul piano di un’interrogazione essenziale13. Inoltre, tra uomo e animale non si può nemmeno stabilire una differenza basata sull’avere o non avere mondo: se infatti l’uomo «ha» mondo solo in quanto ne è «formatore», l’avere dell’animale rispetto al mondo è indecidibile proprio perché con il mondo l’animale non ha a che fare nella modalità della «formazione» e non può di conseguenza essere commisurato all’uomo. Heidegger stesso, del resto, conclude che circa la tesi «l’animale è povero di mondo» bisognerebbe «addirittura rinunciarvi, perché essa – proprio a riguardo dell’essenza dell’animalità stessa – trae in inganno, cioè fa sorgere l’assurda opinione che l’essere dell’animale sia in sé e per sé un fare-a-meno e un essere-povero»14. Nel discorso di Heidegger insomma non trova posto alcuna antropomorfizzazione dell’animale né gerarchia tra animale e uomo, né in fondo alcuna differenza, nel senso di una differenza di grado, fondata su un contesto di qualità omogenee e da esso ricavabile. Come è noto, Derrida riprende queste analisi e queste affermazioni di Heidegger considerandole l’esempio di un grande gesto di esclusione, nonché di contrapposizione e discriminazione, nei confronti dell’animale. Credo si tratti di un non lieMa anche il parlare è precluso all’animale. Come per un lampo improvviso balza qui allo sguardo il rapporto costitutivo [Wesensverhältnis] tra morte e linguaggio, che rimane però ancora impensato [ungedacht]». 13. Cfr. Id., Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 234: «dobbiamo poter dare ragguagli non su come animali e uomini si differenzino tra loro riguardo ad un qualche aspetto, bensì su cosa costituisce l’essenza dell’animalità dell’animale e l’essenza dell’esser-uomo dell’uomo». 14. Ibidem, pp. 346-347.

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ve fraintendimento, relativamente alla questione dell’animale e, più ancora, alla lettura che Derrida conduce delle effettive posizioni di Heidegger, soprattutto nel tratto complessivo che queste ultime presenterebbero. Sulla base delle sue argomentazioni egli ritiene infatti di poter attribuire a Heidegger una lettura precisa e univoca della dimensione animale e dell’animalità persino sul piano assiologico e se la sua ricostruzione delle posizioni di Heidegger a riguardo, ricavabile da svariati testi15, potrebbe risultare convincente e persino condivisibile, la contestualizzazione che Derrida ne fa – e che gli consente di sottolineare «negativamente» il gesto heideggeriano, il quale sarebbe in linea con la tradizione cartesiana, costituirebbe una discriminazione, una condanna, una indicazione di inferiorità dell’animale rispetto all’uomo – crea, a mio avviso, non pochi problemi. Se per un verso è possibile in prima battuta affermare che è lo stesso Heidegger a porre tratti differenziali in termini comparativi proprio attraverso le tre tesi su minerale, animale e uomo, si può senz’altro obiettare che se c’è una comparazione questa non sussiste tra gli enti convocati nelle tesi (pietra, animale, uomo), bensì fra tre diverse modalità in cui è possibile un darsi (o non darsi) di qualcosa come il «mondo». Aspetto che va messo perentoriamente in chiaro proprio per evitare una distorsione fondamentale del discorso di Heidegger; questi infatti non procede al preliminare reperimento di una serie di elementi onticamente differenziati per poi allestire una graduatoria di differenti mondità (e, di rimando, di entità) ma si prefigge «semplicemente» di procurarsi un concetto di mondo. Quindi, non una graduatoria di «mondi» a partire dai 15. È lo stesso Derrida, in una nota di Jacques Derrida, Élisabeth Roudinesco, Quale domani? (2001), tr. it. di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 94, a indicare i riferimenti ai suoi testi («quasi tutti i miei libri») in cui è affrontata la questione del confine tra animale e uomo.

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rispettivi «referenti» (e, di rimando, dei referenti medesimi) ma solo la possibilità di dire, quanto più univocamente possibile, cosa è il mondo, concetto comunque destinato a restare imprecisato16. Se allora la meta del percorso di Heidegger è una certa comprensione del mondo, e magari nient’altro, nel momento in cui essa non viene raggiunta risulta impossibile – data la indisponibilità di un concetto di mondo – differenziare analiticamente gli ambiti cui si riferiscono le tre tesi e di conseguenza procedere a una «classifica» tra pietra, animale e uomo, come lo stesso Derrida riconosce: «queste tre tesi sono tesi sul mondo. Non sono tesi sulla pietra, sull’animale e sull’uomo, sono tesi sul mondo: si tratta di sapere cos’è il mondo per poter dire queste cose»17. Se le tre tesi «metafisiche» sono innanzitutto tesi sul mondo, e come tali vengono discusse, è sorprendente che Derrida formuli poi conclusioni che, anche sul piano formale, si rivelano in conflitto con quanto si trova nei testi di Heidegger, prima fra tutte l’allineamento di Heidegger a Descartes: «il discorso heideggeriano è ancora cartesiano […]; il gesto di Heidegger resta, malgrado tutto, per quanto riguarda l’animale, profondamente cartesiano»18. A proposito della questione dell’animale, infatti, il discorso di Heidegger e quello di Descartes19 sono decisamente diversi, già a livello di impianto

16. Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono (2006), edizione stabilita da M.-L. Mallet, introduzione all’edizione italiana di G. Dalmasso, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 211: «i momenti per me più interessanti, e nello stesso tempo più discreti, in questo cammino, sono quelli in cui Heidegger dice, in qualche modo: alla fine non si sa cos’è il mondo! In fondo, è un concetto molto oscuro!» 17. Ibidem. 18. Ibidem, pp. 205-206. 19. In uno dei passi più famosi che introducono le sue osservazioni circa la differenza tra «gli uomini e le bestie», si vede come Descartes proceda

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argomentativo, giacché Descartes procede alla individuazione di differenze specifiche entro un continuum empirico, secondo cioè un metodo «scientifico» assai distante da quella «asserzione essenziale» rivendicata da Heidegger20. L’allineamento delle considerazioni di Heidegger con quelle di Descartes non può dunque che essere apparente ed estrinseco. Derrida, nel caso per esempio di alcuni brani di Dello spirito, pur riconoscendo al corso sui Concetti fondamentali della metafisica di avere chiuso «davvero con l’antropomorfismo e con il biologismo e i suoi effetti politici»21, rileva un irriducibile effetto di discriminazione sia nell’impianto delle considerazioni heideggeriane sia nella loro stessa terminologia: parlando di teleologia, certo non attribuisco a Heidegger una concettualità del progresso, inteso alla maniera evoluzionistica; e neanche l’idea di una lunga salita che, sulla scala degli esseri, condurrebbe dalla vita animale verso il mondo umano. Ma i concetti di povertà e di privazione implicano, lo si voglia evitare o no, quelli di gerarchia e di valutazione. Le espres-

privo di ogni preoccupazione o interesse relativamente a una «asserzione essenziale» sull’animale. Nel Discorso sul metodo, quinta parte, egli riepiloga il suo passaggio «dalla descrizione dei corpi inanimati e delle piante […] a quella degli animali, e in particolare a quella degli uomini» (Cartesio, Discorso sul metodo, tr. it. di M. Garin, in Opere filosofiche, edizione a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1986, 4 voll., 1, p. 320); qui vengono affrontate le questioni circa il funzionamento dei fenomeni corporei secondo una prospettiva continuistica e biomeccanicistica mai messa in discussione; lo conferma il fatto che si potrebbe certo scambiare una macchina, un «automa», per un animale, ma mai una macchina o un animale per un uomo, in ragione della loro incapacità di «rispondere» e di «conoscere» (pp. 327-328). 20. Sulla radicale differenza tra il procedere scientifico e quello «circolare» della filosofia in relazione alla tesi sull’animale e ai rapporti con la zoologia, cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 242-244. 21. J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione (1987), tr. it. di G. Zaccaria, Feltrinelli, Milano 1989, p. 60.

186 sioni «povero di mondo» o «senza mondo», al pari della fenomenologia che le sostiene, implicano un’assiologia ordinata.22

Vi sarebbe dunque una assiologia a ordinare le analisi di Heidegger in relazione a quanto egli mostra dell’animale. L’obiezione che si potrebbe però sollevare a Derrida si porrebbe nei termini seguenti: se si dà qualcosa come una «gerarchia», quindi anche una «valutazione», necessariamente comparativa, ciò non può avvenire se non entro un ambito continuistico e omogeneo; nel quale, per esempio, «povertà» – diversamente da quanto Heidegger esplicitamente afferma nel corso del 1929-30 – significherebbe necessariamente un «di meno» rispetto a un «di più», e ciò in contrasto con quanto lo stesso Derrida non manca di recepire. È come se, insomma, Derrida restituisse al piano del senso e dell’intelletto comuni quanto Heidegger aveva cercato, anche con fatica, di collocare su un registro diverso, sul registro della «asserzione essenziale» e della concettualità metafisica. Un ulteriore e ancora più diretto esempio di questa lettura schematica di Derrida si trova in una intervista, in una replica a una osservazione di Jean-Luc Nancy, nella quale si afferma che «il discorso heideggeriano sull’animale è violento e imbarazzante, a volte contraddittorio»; Derrida poi prosegue sostenendo che in Heidegger «non c’è categoria esistenziale originale per l’animale: non è evidentemente Dasein […]. La sua semplice esistenza introduce un principio di disordine o di limitazione nella concettualità di Sein und Zeit»23. Anche in questo caso, viene ricondotta a una dimensione assiologica e a una serie di giudizi di valore quella dimensione animale di cui Heidegger ha – più volte ed esplicitamente – riconosciu-

22. Ibidem. 23. Id., «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto (1989), a cura di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 35.

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to il «valore» intrinseco; anzi, se proprio si vuole metterla su un piano strettamente assiologico, Heidegger ha anche cercato costantemente, con modalità in tal senso «moralmente» significative, di non ricondurre a eventuali comparazioni con l’umano aspetti o caratteristiche animali, di alcun animale, se non a vantaggio di quest’ultimo, come nel caso della vista del falcone e dell’olfatto del cane, come si vedrà tra poco. Questo però sembra sfuggire a Derrida: «Heidegger non dice semplicemente “l’animale è povero di mondo (weltarm)”, perché a differenza della pietra ha un mondo. Dice piuttosto: l’animale ha un mondo nel modo del non avere. Ma questo non-avere non è più, ai suoi occhi, una povertà: la mancanza di un mondo che sarebbe umano. Allora, perché questa determinazione negativa? Da dove viene?»24. Sulla «negatività» della determinazione si può convenire; non si tratta però di una valutazione – della attribuzione cioè di un valore, oltretutto «esistenziale» – che procede da una comparazione, ma della definizione di un ambito, quello appunto animale, che risulta essere – come afferma lo stesso Derrida nel medesimo paragrafo – assolutamente distinto dal «mondo che sarebbe umano» e perciò non riconducibile ad alcuna similitudine (soprattutto se assiologica) con l’uomo. È forse una dimensione di radicale alterità quella con cui Heidegger ha qui a che fare, e che deve maneggiare non già perché voglia tematizzarla o analizzarla, ma perché la via verso il significato di «mondo» lo ha reso in qualche modo necessario. Possiamo forse considerarlo un inciampo, e Heidegger non sempre si avvede di quanta delicatezza richiederebbero le sue osservazioni e affermazioni sull’animale (soprattutto alla luce della a lui allora ignota sensibilità odierna a riguardo). Ed è magari la necessità stessa di venire in chiaro con quelle «determinazioni

24. Ibidem.

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negative» (non però dell’animale, piuttosto del «mondo»), a indurre Heidegger verso alcune «scorciatoie» e alla rinuncia a qualche cautela. Alla fine, l’impressione di trovarsi di fronte, in molte pagine del corso del 1929-30, a comparazioni, graduatorie e classifiche può anche prodursi, ma il discorso di Heidegger non va certo in questa direzione, nella direzione cioè di una «superiorità» dell’umano: È risultato sussistere un rapporto di differenza di grado nell’accessibilità dell’ente – più, meno, minore, maggiore, un rapporto di gradi di perfezione. Tuttavia già una riflessione sommaria rende dubbio il fatto che la povertà sia in sé necessariamente quanto vi è di meno nei confronti della ricchezza. Potrebbe essere proprio il contrario. In ogni caso, questo confronto tra animale e uomo nella caratterizzazione della povertà di mondo e della formazione di mondo, non ammette alcuna stima e valutazione quanto a perfezione e imperfezione – a prescindere dal fatto che una tale stima è altresì affrettata e inadeguata. Infatti cadiamo subito in un grande imbarazzo, in merito alla questione intorno alla maggiore o minore perfezione dell’accessibilità dell’ente, se, ad esempio, paragoniamo la facoltà visiva dell’occhio del falcone con quella dell’occhio umano, oppure l’olfatto del cane con quello dell’uomo. Tanto noi siamo veloci nell’aver sempre pronta la valutazione secondo cui l’uomo è un essere superiore nei confronti dell’animale, tanto dubbio è questo modo di giudicare, ancor più se consideriamo che l’uomo può cadere più in basso dell’animale; quest’ultimo non può cadere in rovina come un uomo. Certo, in definitiva da ciò risulta proprio la necessità di un «più alto». Da questo vediamo che non è chiaro ciò in riferimento a cui parliamo di altezza e profondità. C’è, in generale, in quanto è essenziale, un «più alto» e un «più basso»? L’essenza dell’uomo è più alta dell’essenza dell’animale? Tutto ciò è dubbio già come domanda.25

25. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 252-253.

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È certo innegabile che «povertà di mondo» e «formazione di mondo» possano far venire in mente giudizi secondo il meno e il più; ma lo sa bene anche Heidegger, che probabilmente per questo non lo nasconde ai suoi studenti: «è vero che in tali formulazioni si esprimono un rapporto e una differenza, ma sotto un altro aspetto. Quale? È proprio questo che cerchiamo»26, rilanciando la domanda su cosa si debba intendere con «mondo». Simili dichiarazioni, e altre ancora27, rendono assai impervio attribuire a Heidegger l’idea di una superiorità dell’umano; in esse però si trova qualcosa di ancora più rilevante, che la lettura di Derrida manca in maniera alquanto clamorosa: ben più di un generico «rispetto» dell’animale, si tratta di una attenzione costante a quella che è una radicale distinzione e separazione tra la dimensione animale e la dimensione umana. È una distinzione, una soglia, non già ricavata da analisi relative a prestazioni, somiglianze o analogie, ossia comparativamente, ma di volta in volta affermata da una irriducibilità assoluta che esclude, già in linea di principio, ogni grado di affinità o

26. Ibidem, p. 253; un ulteriore brano, nella medesima pagina, dovrebbe togliere ogni ambiguità alla posizione di Heidegger circa una gerarchia tra animale e uomo: «È vero che siamo abituati anche qui a parlare di animali superiori e inferiori, eppure è un errore fondamentale ritenere che amebe e infusori siano animali meno perfetti di elefanti e scimmie. Ogni animale e ogni specie animale è in quanto tale esattamente perfetta come le altre». 27. Come per esempio M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana (1971), a cura di H. Feick, edizione italiana a cura di E. Mazzarella e C. Tatasciore, tr. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1994, pp. 241-242: «l’animale non può mai uscire dalla unità del grado determinato della natura che è il suo. Anche quando un animale è “malizioso”, questa malizia rimane limitata entro un’orbita ben delimitata, all’interno di circostanze totalmente determinate […] L’uomo è invece quell’essere che può rovesciare gli elementi costitutivi della propria essenza, la commessura ontologica del suo essere e scompaginarla […] Per questa ragione all’uomo resta riservato il dubbio privilegio di poter decadere al di sotto dell’animale, mentre l’animale non è capace di un pervertimento dei principi».

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assimilazione. E sebbene possa apparire che in tal modo si affermi una completa e indiscutibile «superiorità» dell’umano, non solo quest’ultima non è mai pronunciata, ma, data la insussistenza di un terreno comune, non è neppure concepibile. Ciò che insomma in Heidegger distingue l’umano dall’animale è una differenza che pone l’animale su un piano di radicale e assoluta alterità rispetto all’umano: una differenza irriducibile e forse impensabile, comunque sino a ora non pensata. Si tratterebbe, al di là delle osservazioni critiche di Derrida, dell’affermazione di una alterità affatto sottratta al discorso del «medesimo» e perciò non traducibile, non formulabile entro le coordinate di quel «carno-fallogocentrismo»28 in virtù del quale l’alterità del vivente, di un certo vivente, del vivente nella sua alterità dall’umano, in funzione di quest’ultimo viene a collocarsi. All’interno della implicita e non tematizzata linea interpretativa del vivente da parte di Heidegger, si tratterebbe insomma della affermazione di una «differenza» che non si riconduce al discorso del «medesimo» e del logos: una differenza che istituisce l’alterità stessa prima di (o comunque al riparo da) ogni identità. Una alterità cui molti testi di Derrida si rivolgono – non senza un esplicito riferimento alla lezione di Lévinas, che tuttavia si limiterebbe all’alterità dell’altro uomo – tentando di tematizzarla non tematizzandola, per evitare il rischio di una assimilazione, di una colonizzazione, di una addomesticazione di ciò che è appunto «altro» da parte del (discorso del) medesimo29. Esclusivamente entro l’ambito del medesimo risulterebbe infatti plausibile una discriminazione dell’animale derivante da giudizi quantitativi e qualitativi rispetto a prestazioni o so-

28. Cfr. J. Derrida, «Il faut bien manger», cit., p. 39. 29. Potrebbe bastare qui il rimando a Id., Addio a Emmanuel Lévinas (1997), a cura di S. Petrosino, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca Book, Milano 1998.

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miglianze organiche o al raggiungimento di tappe evolutive ordinate sulla base di una scala teleologicamente orientata. Lo stesso Derrida, del resto, indica nei limiti e nelle soglie tracciate da Heidegger questa possibilità: la loro strategia e la loro assiomatica non saranno mai abbandonate. Si tratta sempre di indicare un limite assoluto tra il vivente e il Dasein umano; e poi anche di prendere le distanze non solo da ogni biologismo e da ogni filosofia della vita (e quindi da ogni ideologia politica che direttamente o meno vi si ispiri) ma anche […] da una certa tematica rilkiana, che lega l’aperto all’animalità […] Senza dubbio bisogna riconoscere, fin nel dettaglio, la forza e l’originaria necessarietà di queste analisi – analisi che, proprio rimanendo fedeli alla struttura fenomenica, sottile ma decisiva, dell’«in quanto», chiudono davvero con l’antropomorfismo e con il biologismo e i suoi effetti politici.30

All’interno del discorso heideggeriano, la salvaguardia dell’alterità animale non può prescindere da un «limite assoluto» che la tenga al riparo dalla assimilazione (e discriminazione) da parte dell’uomo; e questo limite Heidegger lo ha senz’altro tracciato, pur servendosi di un lessico comparatistico (povertà di mondo, mancanza dell’«in quanto») ma pur sempre al di fuori di ogni volontà di comparazione o collocazione gerarchica. L’animale ha mondo e non ha mondo, continuerà a ripetere Heidegger fino alla fine, tentando però di procurarsi un concetto di mondo che non riuscirà a raggiungere. Attraverso la peculiarità dell’«in quanto» che esclude l’animale, quest’ultimo sarà infine escluso anche dalla possibilità dell’avere mondo e dal mondo di cui l’uomo è formatore; con ciò, però, sarà anche salvaguardato nella sua alterità, radicale e garantita – secondo la stessa espressione derridiana – da quel limite assoluto che Heidegger avrebbe più o meno implicitamente fornito.

30. Id., Dello spirito, cit., pp. 59-60.

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La affermazione di un limite assoluto e invalicabile si delinea, ancorché non tematizzata, in maniera inequivocabile in un altro corso universitario, quello del semestre invernale 1942-1943 dedicato a Parmenide, nel quale a un certo punto Heidegger prende le distanze dalla metafisica dell’«aperto» di Rilke in quanto estremo oblio di ogni traccia dell’essere: «L’aperto del processo non ostacolato dell’ente non perviene mai nel libero dell’essere, un libero che proprio la “creatura” giammai potrà vedere, dal momento che poterlo scorgere costituisce il contrassegno essenziale dell’uomo, dunque il confine essenziale e invalicabile tra uomo e animale»31. L’aperto di Rilke, secondo Heidegger, nella sua coerenza con la storia della metafisica, indicherebbe quella dimensione «del biologismo del diciannovesimo secolo e della psicoanalisi» dalla quale deriverebbe «proprio quel disconoscimento di tutte le leggi dell’essere la cui conseguenza ultima è una mostruosa antropomorfizzazione della “creatura”, in questo caso dell’animale, e una corrispondente animalizzazione dell’uomo»32. In queste righe, al di là della conferma di alcuni tratti già visti, va sottolineato il richiamo a quanto possa risultare ingannevole e persino pericoloso, per il pensiero, collocare ciò che Heidegger chiama il «vivente» all’interno di una dimensione unica. Pericoloso per il pensiero nonché per quella che possiamo definire la sua intrinseca dignità: nella metafisica e nelle sue ripercussioni su ogni scienza l’enigma del vivente passa inosservato, giacché gli esseri viventi o vengono sottoposti all’assalto della chimica, oppure vengono trasferiti nel campo della «psicologia». In entrambi i casi si fa mostra di andare alla scoperta dell’enigma della vita, tuttavia non lo si troverà mai. E non solo perché ogni scienza

31. M. Heidegger, Parmenide (1982), a cura di M. S. Frings, edizione italiana a cura di F. Volpi, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 270. 32. Ibidem, pp. 270-271.

193 rimane incatenata sempre unicamente a ciò che è penultimo, dovendo pre-supporre quanto è ultimo come primo, ma anche perché l’enigma del vivente è stato abbandonato già dapprima.33

Sebbene l’intenzione di Heidegger non sia mai direttamente volta a difendere l’animale dalla omologazione e riduzione all’umano – e sebbene il suo lessico sia piuttosto distante da istanze che pongano in primo piano la dimensione della alterità, la irriducibilità dell’altro al medesimo – non va trascurata una certa sensibilità nei confronti di quella che potremmo definire una salvaguardia dell’animale, forse addirittura un riconoscimento della dignità dell’animale. Se infatti c’è per il pensiero la possibilità di accogliere la dimensione animale nella sua pienezza e autonomia da ogni antropomorfizzazione, se si dà la possibilità che l’enigma del vivente non passi (più) inosservato e il pensiero si rivolga all’enigma del vivente nella sua enigmaticità e alterità assolute, ciò è possibile solo a condizione che venga mantenuto «il confine essenziale e invalicabile tra uomo e animale». È dunque problematico constatare come, a fronte di questi testi, Derrida attribuisca a Heidegger e al suo collocarsi rispetto all’animale e agli animali una sorta di volontà di attri-

33. Ibidem, p. 284. L’enigma del vivente indica che il vivente, anzitutto, andrebbe lasciato essere; il che non significa non toccarlo, non sfiorarlo, non ucciderlo, non nutrirsene eccetera, ma significa lasciarlo essere in quanto vivente, lasciarlo essere nel suo «in quanto», in ciò che ne afferma la assoluta differenza e la assoluta sottrazione a ogni assimilazione concettuale, categoriale eccetera; pratica, come è ovvio, empiricamente impossibile, la cui possibilità e necessità si proietta nella dimensione del logos, nella dimensione propriamente filosofica quale compito inintermesso di riconoscimento dell’«in quanto» presente in tutto ciò che si dà «in quanto tale», dell’«in quanto» dell’«in quanto tale», dell’«in quanto tale in quanto tale», ossia della sua alterità, della sua inviolabilità e, soprattutto, della sua istanza di una risposta, di una responsabilità.

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buire valori e di costruire gerarchie. Secondo Derrida, la presenza di questa tonalità heideggeriana sarebbe costante, quasi si trattasse di una sorta di fondo dogmatico a sostegno di una (inconsapevole?) assiomatica discriminatoria: Tutti i tentativi di decostruzione che ho cercato di compiere su testi filosofici, su quelli di Heidegger in particolare, consistono nella messa in discussione di quell’atteggiamento di consapevole negligenza nei confronti di ciò che si chiama genericamente l’Animale e del modo in cui questi testi interpretano il confine tra Uomo e Animale.34

Va riconosciuto che il giudizio di «negligenza» è in certa misura condivisibile, in quanto fa riferimento a quella configurazione per la quale la distinzione tra uomo e animale comporterebbe un limite unico e fondato su un concetto univoco di animale; quando invece, nel vivente, soglie e confini si moltiplicano indefinitamente35. Ma la molteplicità dei limiti non abolisce affatto la «discontinuità radicale fra quelli che chiamiamo gli animali […] e l’uomo»36. Potrebbe anzi confermare che se si dà la possibilità – una possibilità «unica», ossia fondamentale – di collocare l’agire, gli atteggiamenti, i discorsi ecc. nei confronti dell’animale al di fuori di una prospettiva omologante, continuistica, antropomorfizzante, questa possibilità non può certo prescindere proprio da un limite a sua volta unico, assoluto. Questo limite costituirebbe perciò, necessariamente, la fonte di quella che si potrebbe indicare come una radicale respon-

34. J. Derrida, É. Roudinesco, Quale domani?, cit., pp. 93-94. 35. Giustamente infatti Derrida ritiene «che esista invece più di un limite, che esistano molti limiti. Non c’è una opposizione fra l’umano e il non-umano. Esistono invece numerose fratture, eterogeneità e meccanismi differenziali fra diverse strutture di organizzazione della vita», ibidem, pp. 97-98. 36. Ibidem, p. 106.

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sabilità37. Se, in altri termini, si dà una possibilità di rivolgersi all’altro in quanto altro (sarebbe anche interessante capire sino a che punto un’espressione come «l’altro in quanto altro» possa passare inosservata nella sua paradossalità), all’animale in quanto quell’altro nella sua irriducibile alterità, o addirittura al vivente nelle sue infinite articolazioni, tale possibilità non può che essere colta come una responsabilità (e, insieme, una risposta) proprio nei confronti di quel limite assoluto, di quel «confine essenziale e invalicabile», certo più «radicale» di qualsiasi «discontinuità» (che, se individuata entro un continuum, potrebbe darsi solo nei termini di una differenza di grado). Un limite la cui funzione non risulti esclusivamente negativa, volta solo a impedire «astrattamente» il continuismo tra uomo e animale, ma che, proprio in virtù del suo tratto «essenziale» – se vogliamo, nelle intenzioni di Heidegger, prescientifico e pretecnico – si ponga, quale tratto fondativo di una responsabilità assoluta, a salvaguardia di ciò che, essenzialmente appunto, è radicalmente altro. Nei termini del discorso heideggeriano, proprio questa disarticolazione tra uomo e animale, questa distanza assoluta, sem37. Sulle prime, il sintagma affacciatosi alla scrittura era stato «assunzione di responsabilità»; credo tuttavia che il termine «assunzione» vada decisamente evitato, in quanto indicherebbe in maniera troppo determinata lo spazio di una volontà individuale, soggettiva, e dunque l’ambito di una morale o di un’etica. In tal senso, la dissociazione di ciò che qui si intende con responsabilità da un qualsiasi contesto etico o morale è quanto andrà affrontato in successivi lavori; per il momento, e per quanto riguarda Heidegger, credo sia sufficiente rimandare all’analisi condotta da Jean-Luc Nancy, L’«etica originaria» di Heidegger, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996, in cui è approfondita la dimensione originaria della responsabilità come ciò che senz’altro precede il soggetto, l’etica e persino l’ontologia, secondo alcune indicazioni che Nancy riprende soprattutto dalla Lettera sull’«umanismo» di Heidegger. Più che a una responsabilità assunta o da assumere, è qui intesa una sorta di responsabilità costituente all’interno della dimensione del «vivente».

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bra anche una sorta di condizione o precondizione indispensabile per collocarli in un corrispondersi adeguato, attraverso appunto una distanza che, non essendo colmabile, istituisce un tratto di alterità non pre-giudicata e con ciò la possibilità di una altrettanto assoluta responsabilità. L’animale, in altri termini, sottratto a ogni linea di contiguità con l’«umano» e situato sul piano di una alterità assoluta, acquisirebbe proprio quella dimensione di alterità che Derrida ha con insistenza indicato – per esempio nelle sue riflessioni sull’ospitalità – quale fonte di ogni responsabilità. Se dunque i testi in cui Heidegger si sofferma sull’animale – nei termini in cui sia possibile riconoscere una omogeneità negli esempi appena visti – non prescindono mai dalla consapevolezza di una alterità assoluta dell’animale rispetto all’uomo, possono altresì costituire, in maniera altrettanto implicita e altrettanto univoca, l’indicazione del fondamento di ogni rapporto, di ogni atteggiamento, di ogni azione, di ogni ulteriore discorso da parte dell’uomo nei confronti dell’animale. Saremmo in tale caso di fronte alla possibilità di individuare l’umano – al di fuori di continuismi, evoluzionismi, somiglianze o fratellanze creaturali – proprio in quanto investimento di quella responsabilità unica e univoca nei confronti del vivente. E ciò sulla base della constatazione – preontologicamente e preeticamente rilevante – che proprio all’umano, forse esclusivamente all’umano, il vivente è dato «in quanto vivente», «in quanto tale», all’interno di un «mondo». Se si può parlare di un «proprio» dell’umano, in questo caso non si tratterà tanto della proprietà dell’«in quanto», dell’esclusività di una facoltà, ossia di una potenza e di un potere, quanto del darsi all’uomo del vivente in quanto vivente, di una determinata accessibilità al vivente da parte dell’uomo. Come se, in altri termini, l’umano si manifestasse come una sorta di autoaffezione del vivente, la possibilità di autoaffezione del vivente stesso. L’umano, in tal senso, sarebbe «più propriamente» il proprio di una passività, di una affezione o di

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una autoaffezione, e «disporrebbe» dell’«in quanto» non più di quanto il vivente, attraverso l’autoaffezione umana, non disponga dell’uomo. La responsabilità, la risposta, il logos stesso sarebbe, in tal senso, il fenomeno di questa autoaffezione, il darsi del vivente all’uomo o all’umano, il sorgere del domandare, del rispondere, al e del «vivente». Da ciò ovviamente non deriva affatto che le modalità tramite cui l’umano si riferisce e si rapporta all’animale (a tutto il vivente) siano (o debbano necessariamente essere) improntate a sentimenti alti, buoni, degni, pii, misericordiosi, anche posto che si sappia cosa questo possa voler dire. Non è infatti questo il punto: si tratta piuttosto di individuare e affermare il luogo di un necessario investimento dell’umano proprio «in quanto umano», investimento che si fonda su una prerogativa forse unica, quella di una responsabilità che investe quell’unico «animale» (o vivente) che, per stare al discorso cartesiano circa la possibilità, riservata all’uomo, di «rispondere», è anzitutto interpellato dal vivente, e forse interpellato univocamente, è quell’ente per cui ne va, oltre che del suo essere, di una risposta al vivente (che, oltretutto, esso stesso è), quell’ente che è nella posizione di dover rispondere al vivente e del vivente38. L’alterità non solo non consente classificazioni e gerarchie, ma soprattutto non consente alcun apparato giustificativo o legittimativo delle gerarchie medesime e di tutte le operazioni che queste consentono nei confronti di quanto – bene o male, a buon diritto o meno – si ritrova su un piano di inferiorità, anche solo presunta. La sospensione, l’interruzione di ogni continuismo elimina necessariamente ogni inferiorità (o 38. In tal senso, l’«andarne di» sta a indicare come l’essere stesso non possa, se non astrattamente, venire separato dal vivente: ne è, certo, l’alterità assoluta, ma vi è saldamente connesso. Il vivente in tal senso non è privo di essere, sebbene il suo esistere si dia soltanto in una sorta di «fuori di sé», nell’«esserci», nell’autoaffezione dell’umano.

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superiorità), sospende ogni possibile giustificazione al punto che l’agire stesso, l’insieme di tutto ciò che viene compiuto nei confronti di quella alterità che il «vivente» è, non risulta più passibile di legittimazione o delegittimazione, di giustificazione o addirittura spiegazione, ma è anzitutto ed essenzialmente una responsabilità immediata, diretta, nei confronti di ciò di cui e a cui non può non rispondere.

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Il diritto e i diritti. A partire da Jacques Derrida Arianna Marchente

1. Introduzione Può sembrare strano che si scelga di trattare un tema come quello del diritto e dei diritti proprio a partire da Jacques Derrida. Accade perché, soprattutto in passato, una lettura troppo frettolosa e poco attenta ha portato ad assimilare la decostruzione a un semplice esercizio esegetico e all’affermazione della sua estraneità da tutto ciò che riguarda il contesto pratico, sociale, politico e giuridico in cui determinati discorsi vengono a formarsi. È una visione che si è tramandata negli anni e le cui radici devono essere ricercate nella critica che Foucault muove a Derrida nella seconda edizione della Storia della follia1 – critica che si inscrive all’interno della famosa querelle tra i due autori: Sono d’accordo con Derrida almeno su una cosa: non è per disattenzione che i commentatori classici hanno glissato, come lui e prima di lui, sul passaggio cartesiano riguardante la follia. Non è per disattenzione. È per sistema. Sistema di cui oggi Derrida è un rappresentante decisivo, nel suo estremo bagliore: riduzione di pratiche discorsive a tracce testuali; eli1. M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano 2011.

200 sione degli eventi che si producono per non conservarne altro che delle tracce per una lettura; invenzione di voci dietro i testi per non dover analizzare i modi di implicazione del soggetto nel discorso; assegnazione dell’originario come detto e non-detto, nel testo, per non dover ricollocare le pratiche discorsive nel campo delle trasformazioni [socio-politiche] in cui si effettuano.2

A ben vedere però si tratta di una lettura fuorviante. Una lettura più attenta e complessiva rende evidente che politica e diritto non solo sono al centro di quella che è stata considerata la riflessione del secondo Derrida3, ma sono in realtà la posta in gioco della decostruzione nel suo complesso anche quando essa sembra riferirsi apparentemente a tutt’altro. Per questa ragione, in Forza di legge4, Derrida lavora sulla legge, proprio a partire da questo pregiudizio diffuso, per dimostrare e affermare che la decostruzione in fondo si è sempre occupata della 2. Ibidem, p. 799. 3. Si è spesso tentato di distinguere due fasi all’interno della riflessione derridiana: una prima fase dedicata a tematiche strettamente teoretico-filosofiche, e una seconda fase, più tarda, dedicata a tematiche etico-politiche. In realtà una tale distinzione non è attendibile: nel pensiero di Derrida non si possono rintracciare rotture, ma solo una continuità in via di sviluppo. «La predilezione per le tematiche etico-politiche non solo non segna una rottura o un cambiamento di rotta che configurerebbe un ‘secondo Derrida’ da contrapporre al primo, ma rappresenta una radicalizzazione destinata della pratica decostruttiva» (C. Di Martino, Oltre il segno. Derrida e l’esperienza dell’impossibile, Franco Angeli, Milano 2001, p. 164). Lo stesso Derrida scrive: «Non c’è mai stato, negli anni Ottanta e Novanta, come talvolta si sostiene, un political turn o un ethical turn della decostruzione, almeno così come io ne ho esperienza. Il pensiero del politico è sempre stato un pensiero della différance e il pensiero della différance è sempre stato un pensiero politico, del contorno e dei limiti del politico, in particolare intorno all’enigma o al double bind autoimmunitario» (J. Derrida, Stati Canaglia. Due saggi sulla ragione, tr. it. L. Odello, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 66). 4. J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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giustizia. «È ciò che vorrei provare a fare qui: mostrare perché e come ciò che si chiama correntemente la decostruzione, pur non sembrando to adress il problema della giustizia, non ha fatto invece altro senza poterlo fare direttamente, ma soltanto in modo obliquo»5. Non si tratta qui di limitarsi a sfatare un mito qualsiasi. Nel pregiudizio su una decostruzione estranea alla giustizia ne va della decostruzione stessa, cioè di una pratica filosofica che – scrive Derrida – «per essere coerente con se stessa, vorrebbe non restare rinchiusa in discorsi puramente speculativi, teorici e accademici, ma vorrebbe […] cambiare alcune cose e intervenire in modo efficace e responsabile (per quanto sempre mediatizzato, naturalmente) non soltanto nella professione ma anche in ciò che chiamiamo la città, la polis e più in generale il mondo»6. Ma affrontare il tema del diritto a partire da Derrida non è solo un modo per rilanciare l’impegno della decostruzione, rendendovi – appunto – giustizia. La decostruzione può dare un apporto importante al dibattito su il diritto e il proprio dell’uomo. Nonostante infatti sia stato poco letto e considerato dai teorici del diritto contemporanei, Derrida affronta la questione della Legge, della giustizia e dei diritti in modo chiaro e originale, mettendo in luce da una parte il doppio legame che intercorre tra la decostruzione del proprio dell’uomo e il diritto e, dall’altra, spiegando la struttura che genera i diritti e il modo in cui questi funzionano. Certo, la visione derridiana non ha una portata programmatica: leggendo Derrida non si trova mai la prescrizione di un programma o di una serie di norme che, se seguite, garan-

5. Ibidem, p. 57. 6. Ibidem, p. 56.

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tiscono una riuscita giuridico-politica. Al contrario Derrida ha sempre posto l’attenzione sull’irriducibilità della giustizia al diritto: «voglio subito insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto quanto escluderlo»7. Si apre così uno spazio dove nulla è prescritto, ma tutto deve essere deciso di volta in volta, uno spazio in cui a un tempo convivono libertà, responsabilità e decisione; in una parola: la giustizia. Eppure Derrida ha sempre cercato di stabilire un dialogo fecondo con la teoria del diritto del suo tempo ed è proprio per questo che i giuristi dovrebbero leggere di più Derrida. Allora: perché un giurista dovrebbe leggere Derrida? Domanda semplice, quasi innocente. Così come semplice, anche se forse solo apparentemente innocente, è la risposta: un giurista dovrebbe leggere Derrida perché – per quanto possa sembrare strano, e forse anche provocatorio, visto il modo in cui solitamente Derrida viene letto – è davvero difficile trovare nel panorama della filosofia contemporanea un autore che illustri con altrettanta lucidità e chiarezza cos’è il diritto qual è la sua origine e come (non) funziona la sua struttura. Ma soprattutto: perché è giusto che il diritto ci sia.8

Seguiremo dunque un percorso suddiviso in tre tappe, a ognuna delle quali corrisponderà un testo in particolare (più o meno noto), con un significato preciso ai fini dell’obiettivo

7. Ibidem, p. 52. 8. A. Andronico, Come i giuristi (non) hanno letto Derrida, in Spettri di Derrida, Annali della Fondazione Europea del Disegno, Il melangolo, Genova 2010, p. 75.

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che ci siamo posti. In primo luogo prenderemo le mosse da Addio a Emmanuel Lévinas9, in cui la decostruzione del proprio dell’uomo conduce direttamente alla questione dell’etica e della Legge, mettendo già in luce lo iato che separa Legge e diritto. Poi ci concentreremo su alcune parti di Forza di legge per spiegare in che modo, proprio a partire da questo iato, può essere compreso il funzionamento delle leggi. Infine, come a voler chiudere una sorta di cerchio immaginario, utilizzeremo uno degli ultimi testi di Derrida, i seminari su La pena di morte10, per dimostrare che la decostruzione del diritto conduce a sua volta direttamente alla decostruzione del proprio dell’uomo.

2. Dalla costituzione della soggettività alla Legge Addio a Emmanuel Lévinas, terza e ultima tappa del controverso rapporto tra i due pensatori, nasce dall’unione di due contributi: il discorso di addio che Derrida pronunciò alla morte di Lévinas e un seminario che gli dedicò l’anno seguente, nel 1996, al Collége International de Philosophie. Nell’arco di questo seminario, intitolato La parola d’accoglienza, Derrida compie un’operazione importante: sulla scorta di Lévinas tratteggia le linee di una costituzione della soggettività concepita come accoglienza o ospitalità. L’ospitalità, tema noto e assai caro a Derrida, rappresenta a un tempo il compimento della decostruzione del proprio dell’uomo e l’origine del problema del diritto e della Legge.

9. J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaka Book, Milano 1998. 10. Id., La pena di morte. Volume I, Jaka Book, Milano 2014.

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Derrida, nell’intento di scrivere delle vere e proprie glosse a Totalità e Infinito11, prende le mosse da una proposizione in particolare in cui Lévinas afferma che «essa (l’intenzionalità, la coscienza-di) è attenzione alla parola o accoglienza del volto, ospitalità e non tematizzazione»12. L’accento viene chiaramente posto sul termine ospitalità, che in realtà nell’opera levinassiana ricorre pochissime volte. Secondo Lévinas dunque il soggetto si costituisce solo grazie all’accoglienza dell’altro, accoglienza che Derrida rilegge come ospitalità. «Qui» afferma Derrida «la parola ospitalità traduce, porta avanti, ri-produce, le due parole che l’hanno preceduta, “attenzione” e “accoglienza”»13. È solo nel momento in cui l’altro gli rivolge il proprio sguardo, lo accoglie in se stesso come infinito nel finito, attraverso un sì originario, che il soggetto riceve dall’altro le facoltà del proprio Io. Il soggetto si costituisce quindi all’interno di una dinamica di assoggettamento che lo definisce in quanto subiectum e che Derrida descrive nei termini di una disimmetria originaria, di una sproporzione smisurata che precede e fonda qualsiasi legge di socialità. Questa passività del resto non rappresenta la totalità della dinamica costitutiva del soggetto. La costituzione è ospitalità e quindi relazione, ma una relazione non può svilupparsi solo sulla passività di una delle due parti in gioco: richiede sempre una risposta e dunque una certa attività. “Ospitalità dell’altro” deve essere intesa nel duplice senso del genitivo soggettivo e del genitivo oggettivo. Il soggetto si rivela essere a un tempo due cose ben diverse: da una parte è guest – cioè è ospitato, 11. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano 1990. 12. Ibidem, p. 308. 13. J. Derrida, Addio a Emmnuel Lévinas, cit., p. 84.

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assoggettato – e dall’altra è host – cioè è colui che ospita, perché nel momento stesso in cui riceve l’ospitalità è già chiamato a ricambiarla. Bisogna prestare però attenzione al fatto che il legame che si stabilisce tra i due lati del soggetto-ospite che abbiamo analizzato, cioè tra guest e host, non è libero e spontaneo, bensì è un legame di obbligazione; il soggetto risponde all’ospitalità che gli è stata offerta non perché vuole, ma perché deve farlo. Nello spazio di questa obbligazione, di questa risposta forzata (che rende il soggetto non più solo guest e host ma anche ostaggio) si apre il luogo di una responsabilità infinita e priva di libertà e si inaugura un nuovo pensiero politico, una nuova concezione del diritto e delle leggi, che sottostà all’implacabile Legge dell’ospitalità. Scrive Derrida: «si annuncia così una politica dell’ospitalità, una politica del potere nei confronti dell’ospite, che sia accogliente (host) o accolto (guest)»14. E aggiunge più avanti: D’altra parte saremo così chiamati a questa implacabile legge dell’ospitalità: l’ospite che riceve (host), colui che accoglie l’ospite invitato o ricevuto (guest), l’ospite che accoglie e che si crede proprietario di luoghi, è in verità un ospite ricevuto nella propria casa. Egli riceve l’ospitalità che offre nella propria casa, la riceve dalla propria casa – che in fondo non gli appartiene. L’ospite come host è un guest. La dimora si apre a se stessa, alla sua «essenza» senza essenza come «terra d’asilo».15

L’ospitalità, questo destino necessario e inevitabile, ha una natura ontologicamente pre-originaria; questo è l’elemento rivoluzionario della posizione derridiano-levinassiana che pone

14. Ibidem, p. 79. 15. Ibidem, p. 103.

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i due autori in contrasto esplicito con altre posizioni, come quella di Heidegger e di Kant16.

16. La posta in gioco nel confronto con Heidegger è relativa al rapporto tra accoglienza/ospitalità e apertura. Secondo Heidegger infatti la struttura esistenziale del Dasein come esser-ci, cioè come essere-nel-mondo, risiede nel “ci”, ossia nell’apertura, un’apertura al mondo originaria, che solo in un secondo momento si declina in accoglienza e ospitalità. Lévinas, come osserva Derrida, compie invece un vero e proprio capovolgimento dei due termini in quanto propone di pensare l’apertura a partire dall’accoglienza e quindi dall’ospitalità, e non invece il contrario. Secondo Lévinas e Derrida vi sarebbe prima di tutto l’accoglienza come condizione costitutiva della soggettività sulla quale poi si fonda l’apertura: l’ospitalità non si pone quindi come l’atto di un soggetto pre-aperto al mondo, ma è la condizione di possibilità stessa dell’apertura, di qualsiasi atto. Questo capovolgimento porta con sé una critica alla visione solipsistica dell’apertura che Heidegger aveva proposto: per quanto in Essere e tempo (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005) venga infatti riconosciuto anche al Mitsein il ruolo di struttura originaria, rimane il fatto che il Dasein non raggiunge mai il massimo della propria autenticità nel rapporto con l’altro – neanche nel rapporto con Dio, che è l’Altro per eccellenza –, ma in una situazione di radicale solitudine, cioè nel rapporto con la propria morte. Ora, attribuire un ruolo originario all’ospitalità significa per forza di cose attribuirlo anche alla pace. Osserva infatti Derrida che tradizionalmente la pace è sempre stata pensata in coppia con l’ospitalità e la guerra con l’ostilità. Tra queste due coppie di concetti si è dunque stabilita una relazione opposizionale simmetrica tale per cui la pace/ospitalità viene concepita come opposta in maniera equilibrata alla guerra/ostilità. In realtà l’idea che vi sia questa simmetria è una pura illusione: tra pace e guerra non vi è mai un equilibrio poiché una delle questioni principali davanti a cui ci si trova quando si affrontano questi temi è quella di stabilire di che tipo sia lo stato originario; bisogna cioè attribuire per forza di cose a una delle due una originarietà e quindi un predominio sull’altra che rompe l’equilibrio. È proprio all’interno di questa rottura dell’equilibrio nel rapporto pace-guerra che si colloca lo spazio del confronto con il pensiero kantiano. In Per la pace perpetua (I. Kant, Per la pace perpetua, Editori Riuniti, Roma 2005) Kant pensa a uno stato di guerra originario e quindi naturale, a partire dal quale sarebbe poi stata istituita la pace, perpetua, perché senza questa promessa eterna essa sarebbe costantemente minacciata dal ritorno della guerra e sarebbe quindi una pace limitata. Su questa base si sarebbe poi costituito

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Ma se l’ospitalità è ciò a partire da cui ha inizio la costituzione del soggetto, ciò che viene prima del soggetto stesso e di tutti i campi che lo riguardano, etica compresa, va da sé che l’unica etica (dovremmo forse dire l’unica “pre-etica”) possibile diviene quella dell’ospitalità: se si vuole promuovere l’etica allora bisogna coltivare l’ospitalità, che è la Legge, la giustizia. L’equazione che si stabilisce tra etica e ospitalità, come già visto, non ha nulla a che vedere con il politico o con il giuridico in senso stretto: si pone al di là di esso. La Legge è trascendente, afferma Derrida in Forza di legge. Eppure la sua riflessione sull’ospitalità – come quella di Lévinas – nasce dall’esigenza di trovare risposte a nuove questioni politico-giuridiche e di pensare un nuovo diritto internazionale: «i milioni di uomini “senza documenti” e “senza fissa dimora” esigono infatti un altro diritto internazionale, un’altra politica delle frontiere, un’altra politica umanitaria»17. È questo un punto apparentemente marginale all’interno del testo, ma in realtà fondamentale. Si pone infatti qui il problema – ampiamente esposto in Addio a Emmanuel Lévinas – del rapporto tra un’etica dell’ospitalità e una politica, un diritto

un diritto all’ospitalità concepito come diritto cosmopolitico. D’altra parte Lévinas pensa a un’ospitalità e a una pace che sono originarie e da cui poi, solo in un secondo momento, potrebbe derivare la violenza. Qualsiasi forma di ostilità, di allergia, di violenza, di guerra ha come condizione di possibilità la pace, l’accoglienza del volto. Qualsiasi tentativo di uccidere qualcuno attesta che ciò che si vuole distruggere è già stato accolto. Su questa pace si basa poi un diritto all’ospitalità che non è cosmopolitico, ma universale e che non conosce limiti politici. Nel caso di Kant dunque la pace è eterna, ma nasce macchiata e corrotta da una guerra che è più originaria. Nel caso di Lévinas invece la guerra porta e porterà sempre le tracce di una pace ancestrale. Due posizioni all’apparenza opposte, insomma, in cui però è possibile ritrovare un punto comune relativamente al fatto che entrambi mostrano di avere un pensiero della pace che eccede il politico. 17. Ibidem, p. 169.

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basato su di essa: può un’etica così concepita fondare una politica corrispondente? Sullo sfondo di queste riflessioni preliminari, sarò guidato a una questione che lascerò alla fine sospesa, accontentandomi di individuarne alcune premesse e qualche punto di riferimento. In prima approssimazione, essa riguarderebbe i rapporti tra un’etica dell’ospitalità (un’etica come ospitalità) e un diritto o una politica dell’ospitalità (…) Ci si domanderebbe allora, per esempio, se l’etica dell’ospitalità – che qui tenteremo di analizzare nel pensiero di Lévinas – può o non può fondare, al di là della dimora familiare, in uno spazio sociale, nazionale, statale o stato-nazionale, un diritto e una politica.18

Molti studiosi si sono dedicati all’analisi del rapporto tra etica e politica nell’opera di Lévinas e proprio in questo aspetto hanno trovato l’elemento più insoddisfacente di tutto il suo percorso. Il problema qui risiede, secondo la critica, nella mancanza di un rapporto chiaro tra questi due ambiti. Non si riesce infatti a individuare tra etica e diritto un rapporto di fondazione tale per cui dal primo è possibile dedurre il secondo e quindi pensare a un’azione politica concreta e fondata che possa avere una portata sul reale. Insomma, l’etica non prescrive un percorso determinato che la politica dovrebbe seguire perché vi è un salto, poco chiaro, che le separa. La peculiarità dell’analisi derridiana non risiede dunque nel fatto di avere affrontato questo problema, ma nella modalità in cui lo ripropone. A differenza degli altri lettori di Lévinas, infatti, Derrida non vede nella mancanza di fondamento, nel salto tra i due ambiti, il punto debole dell’analisi levinassiana, ma vi ritrova il punto di forza. La mancanza di un percorso determinato, che dall’etica conduce alla politica, costituisce per Derrida il riferimento obbligato al terreno della responsa-

18. Ibidem, p. 81.

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bilità: vi è, da questo punto di vista, un vero e proprio elogio di questo iato che obbliga a pensare la politica e il diritto in modo responsabile, attraverso una decisione che non si riduce alla semplice esecuzione di un programma prestabilito. «Si imporrebbe un ritorno alle condizioni della responsabilità e della decisione, tra etica, diritto e politica»19. Eppure, se è vero che tra etica e politica/diritto non è possibile rintracciare un percorso fondante, è altrettanto vero che tra questi due ambiti vi è già da sempre relazione, contaminazione e co-implicazione nella misura in cui l’una nasce sul terreno dell’altra, l’una rende a un tempo possibile e impossibile l’altra, e nascono insieme, nello stesso momento. L’etica infatti è l’ospitalità, vale a dire il rapporto originario e immediato all’altro e alla sua singolarità. Ma una relazione di pura immediatezza tra due singolarità assolute non si dà mai: non vi è mai un “faccia a faccia” diretto perché l’immediatezza è interrotta fin dall’inizio – e non in un secondo momento – da un terzo mediatore che è prima di tutto il linguaggio, la giustizia. La giustizia, il diritto, la politica hanno un carattere terziale che interrompe il rapporto all’altro senza interromperlo, cioè stabilisce quel terreno dell’inter-umano che, se da una parte blocca la purezza dell’incontro, d’altra parte lo rende possibile perché garantisce il rispetto di entrambe le singolarità che altrimenti sarebbero a rischio. Quello di un’etica pura è un sogno che non può realizzarsi perché altrimenti produrrebbe la minaccia della violenza dell’unico, cioè la tendenza di una delle due singolarità a “schiacciare” l’altra. Per questa ragione il terzo che sopraggiunge a limitare questo rischio deve essere originario tanto quanto l’etica: l’interruzione del rapporto è co-originaria alla nascita del rapporto stesso. Ci si trova qui davanti a una situazione paradossale: il terzo infatti 19. Ibidem, p. 82.

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giunge per scongiurare la minaccia della violenza etica, ma lo fa esercitando a sua volta violenza sull’etica stessa, perché lacera il sogno della sua purezza. Questa violenza del terzo, questa perversione che esso impone all’etica si manifesta come uno “spergiuro originario” perché è l’infrazione di quel giuramento ante litteram che avviene nell’incontro tra due singolarità assolute. Tale spergiuro è originario, pre-ontologico: quasi trascendentale. Se il faccia-a-faccia con l’unico impegna l’etica infinita della mia responsabilità verso l’altro in una specie di giuramento ante litteram, di rispetto o di fedeltà incondizionata, allora il sorgere ineluttabile del terzo, e con lui della giustizia, costituisce un primo spergiuro. Silenzioso, passivo, doloroso, ma immancabile un tale spergiuro non è accidentale e secondo; esso è altrettanto originario quanto l’esperienza del volto.20

Detto in altri termini: originariamente si ha l’etica, cioè il rapporto tra due singolarità uniche nel “faccia a faccia” del volto, rapporto asimmetrico, di assoggettamento di uno dei due nei confronti dell’altro. Co-originario a questo rapporto, cioè non secondo e che non si lascia attendere, si ha il terzo che interrompe, che media il rapporto tra due singolarità introducendo il terreno dell’inter-umano e quindi delle leggi e della politica. In questo spazio, alla relazione con l’altro nella sua unicità si sostituisce quella con gli altri, cioè una relazione di paragone che tende all’equità. Si giunge così alla struttura politicogiuridica della società in cui si ha un soggetto civico, che deve essere distinto dal soggetto etico: il soggetto etico è singolarità assoluta, mentre quello civico è soggetto tra gli altri e deve essere trattato al pari degli altri, soprattutto davanti alla legge. Che dunque vi sia un rapporto tra l’etica, cioè la Legge trascendente, e il diritto, cioè le singole leggi che sono a fonda20. Ibidem, pp. 94-95.

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mento della politica e regolano l’andamento della società, è un dato di fatto originario. Il problema che si pone però è quello di capire la natura di questo rapporto: che relazione c’è tra la Legge dell’ospitalità e le leggi e, soprattutto, che rapporto intercorre tra giustizia e decostruzione? In Forza di legge Derrida osserva che all’apparenza la giustizia sembra essere un tema estraneo alla decostruzione. Niente di più sbagliato: infatti la giustizia attraversa la decostruzione fin dall’inizio. La stessa decostruzione del fonologocentrismo, l’abbattimento dei confini netti e determinati su cui si basa la logica binaria della metafisica, è in realtà un’operazione di giustizia, un modo per rendere giustizia ai concetti e ai loro nomi, per lasciar loro lo spazio necessario. Più precisamente la giustizia è ciò che non può essere decostruito, l’indecostruibile, come la decostruzione stessa: «la decostruzione è la giustizia»21. O meglio, dovremmo dire che la giustizia è il rapporto decostruttivo che si stabilisce nello spazio, nella differenza che intercorre tra la Legge e le leggi. Tra questi due ordini infatti vi è al tempo stesso uno iato e una contaminazione o co-implicazione tale per cui l’uno prescrive l’altro e ha bisogno dell’altro per esistere. La Legge dell’ospitalità incondizionata ha necessariamente bisogno della politica, del diritto, delle leggi determinate: le richiede. Se infatti non si concretizzasse in esse rischierebbe di rimanere una mera utopia. Allo stesso tempo le leggi hanno sempre bisogno di essere guidate dalla Legge, cioè devono sempre tendere verso questo impossibile che è l’ospitalità incondizionata, perché, come osservano Derrida e Lévinas, una politica che non si riferisce all’impossibile si accompagna sempre al rischio di una chiusura tirannica, perché non è responsabile, non rimane aperta al proprio a-venire, al proprio futuro: a quella per21. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 64.

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fettibilità costante che viene segnata proprio da questo riferimento all’impossibile. La relazione che intercorre tra etica e politica è allora un rapporto di trascendenza nell’immanenza che emerge bene nell’espressione derridiano-levinassiana «al di là nel». La Legge è impossibile e quindi trascendente, ma nel suo essere trascendente si inscrive nell’immanenza delle leggi che per poter essere giuste devono a loro volta riferirsi sempre al trascendente: devono fare l’impossibile. In questo titolo il politico sembra sfidare una semplicità topologica: «Al di là dello Stato nello Stato». Al di là nel: trascendenza nell’immanenza, al di là del politico, ma nel politico. Inclusione aperta sulla trascendenza ch’essa porta, incorporazione di una porta che porta e apre sull’al di là dei muri o delle muraglie che la circondano. Col rischio di fare implodere l’identità del luogo e la stabilità del concetto.22

3. Le leggi non sono giuste L’analisi derridiana del diritto non si conclude qui. Se così fosse allora avrebbero effettivamente ragione quei lettori che l’hanno trovata in qualche modo inconcludente o priva di sostanza. Alcuni dei temi accennati in Addio a Emmanuel Lévinas trovano ampio spazio in Forza di legge. Nelle dense pagine iniziali del testo Derrida descrive la struttura su cui si fonda il diritto e lo fa a partire da una precisa espressione idiomatica inglese: to enforce the law. To enforce the law o enforceability of the law sono due espressioni oneste e trasparenti perché contengono un chiaro riferimento a quel-

22. Id., Addio a Emmanul Lévinas, cit., p. 144.

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la forza che è alla base del funzionamento della legge. Queste espressioni ricordano che «il diritto è sempre una forza autorizzata, una forza che si giustifica», o ancora che «non c’è diritto senza forza»23. Che la forza sia connaturata al diritto è un’evidenza indubitabile. Come vuole Hobbes24 l’uscita dallo Stato di Natura avviene solo nel momento in cui il “diritto di tutti su tutto” – ossia il potere di possedere tutto e di dare la morte per poterlo fare – viene limitato a una sola persona, il sovrano appunto, che con un atto di forza pone la legge e al tempo stesso si esclude da essa. Se all’atto di forza fondatore con cui si stabilisce la legge non seguisse anche un atto di forza conservatore chiunque potrebbe, in qualsiasi momento, mettere in discussione il potere sovrano e riappropriarsi di quel diritto originario sulle cose e sulla vita altrui. All’inizio della legge c’è quindi sempre un atto di forza; eppure, questa forza che pone la legge e il diritto ha bisogno a sua volta di essere regolamentata su un altro piano – che non è quello del diritto, rispetto al quale è esclusa, ma è quello della giustizia. In sintesi: la forza su cui si fonda la legge deve essere una forza giusta. Questo significa che – come abbiamo già visto in precedenza – la giustizia è eterogenea al diritto. Attraverso questo assunto Derrida intende muovere una critica precisa all’ideologia giuridica, sostenendo che dove c’è diritto, dove ci sono le leggi non c’è giustizia, poiché le leggi sono un prodotto di forze economiche, politiche e sociali. Più precisamente il diritto nasce dalla forza, dalla necessità di regolamentare attraverso un atto di forza fondatore quel surplus di forza presente nello stato di natura: la sua origine è quindi la forza, ma si occulta all’interno della sua stessa struttura, si nasconde, si dissimula sotto le spoglie dell’autorità che

23. Id., Forza di legge, cit., p. 52. 24. Cfr. T. Hobbes, Leviatano, BUR, Milano 2011.

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continua a conservare lo stato di diritto con altrettanta forza. Ecco in che senso – da un certo punto di vista – si può dire che il fondamento dell’autorità è mistico. Ed ecco anche che si confondono, si sfumano i confini tra stato di natura e stato di diritto, contrassegnati entrambi da una stessa forza che si manifesta in modi differenti. Scrive a tale proposito Derrida: Una interrogazione decostruttiva che cominci, come in questo caso, con il destabilizzare o complicare, l’opposizione tra nomos e physis – cioè l’opposizione fra la legge, la convenzione, l’istituzione da una parte, e la natura dall’altra, con tutte le opposizioni che ne derivano, come, per fare un esempio, quella fra diritto positivo e diritto naturale (la différance è lo spostamento di questa logica oppositiva) (…) una tale interrogazione decostruttiva è totalmente una interrogazione sul diritto e sulla giustizia. Una interrogazione sui fondamenti del diritto, della morale e della politica.25

La nascita dello Stato moderno dunque è segnata dall’esclusione della forza individuale a favore di una forza universale – sovraindividuale – che garantisca attraverso l’autorità sovrana i rapporti intersoggettivi. Questa particolare sostituzione di forze (che si presenta a livello pre-ontologico nella dinamica di costituzione della soggettività come spergiuro del giuramento ante litteram) si occulta, ma non rimane nascosta costantemente. Nel saggio Pre-giudicati davanti alla legge26, facendo riferimento alla parabola contenuta ne Il Processo27 di Kafka, Derrida spiega che le leggi divengono storiche, cioè si attualizzano, solo nel momento in cui qualcuno le trasgredisce. In questo caso si crea un gioco differenziale tra la forza di chi non si attiene alle leggi e la forza attraverso cui queste agiscono sul trasgressore punendolo: si genera così un movimento che por25. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 55. 26. Id., Pre-giudicati davanti alla legge, Abramo Editore, Catanzaro 1996. 27. F. Kafka, Il Processo, Einaudi, Torino 2005.

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ta allo scoperto l’atto di forza fondatore e quello conservatore nella loro dialettica. Nella parabola di Kafka abbiamo infatti un uomo che si trova davanti alle porte della legge, vorrebbe varcarle ma non trova il coraggio di farlo e chiede alcune informazioni al custode, il quale lo invita a essere paziente. Dopo molti anni di attesa, stanco e sfinito, l’uomo è ancora lì in postazione e il custode gli dice: «Qui non poteva avere accesso nessun altro, perché questo ingresso era destinato solo a te. Adesso vado a chiuderlo». Le parole del custode rendono chiaro che quelle porte esistono, rimangono aperte solo per l’uomo che potrebbe varcarle. Detto in altri termini il diritto esiste solo in virtù di una sua possibile trasgressione. Questo significa che la legge è viva solo nella misura in cui è costitutivamente esposta alla propria morte o, ancora, che deve morire per poter vivere: la legge – usando un altro termine caro alla riflessione derridiana – ha una struttura autoimmunitaria. E la forza che marca la legge si inscrive all’interno di questa struttura. D’altra parte però, una volta stabilito questo legame originario tra forza e diritto, urge capire che tipo di forza sia quella di cui stiamo parlando. «Che cos’è una forza giusta?»28, si chiede Derrida. Gewalt è il termine che egli sceglie per iniziare a rispondere a questo interrogativo. Gewalt in tedesco significa forza, violenza, ma anche potere legittimo, autorità, forza pubblica. Gewalt è di fatto il diritto perché contiene in sé sia la violenza senza fondamento dell’atto fondatore, sia la forza conservatrice dell’autorità legittima. A prima vista la descrizione derridiana del funzionamento del diritto sembra paradossale e, soprattutto, sembra richiamare per certi versi la visione heideggeriana di una giustizia, dike, che trae origine da eris, ossia dalla discordia, dallo scontro vio28. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 52.

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lento, e che per questo, nella sua forma di pena o di castigo, appare allo stesso tempo come aidikia, cioè ingiustizia. Non è così: non c’è ingiustizia nel diritto, c’è iato, distanza, eterogeneità da una giustizia, da una Legge che è trascendente e ha una natura teologica. Se dunque è vero che le leggi non sono ingiuste, rimane il fatto che non sono giuste, e allora potrebbe risultare assurdo il modo in cui noi ci affidiamo al diritto. Derrida cita a tale proposito Montaigne. Ora, le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il fondamento mistico della loro autorità; non ne hanno altri. Sono fatte spesso da gente sciocca, più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità, in ogni caso sempre da uomini, autori vani e incerti. Non c’è nulla così gravemente e così largamente né così frequentemente fallace come le leggi. Chiunque obbedisca loro perché sono giuste non obbedisce loro giustamente come deve.29

Montaigne lo spiega molto bene: le leggi vengono rispettate e quindi sono applicabili non perché sono giuste (la giustizia è, come abbiamo visto, l’impossibile trascendente che non si realizza mai completamente; detto con le parole di Montaigne: le leggi non possono realizzare la giustizia perché sono un affare umano e l’uomo è sempre incerto e fallibile), ma perché si nutre verso di esse una fiducia incondizionata: si “crede” che siano giuste. L’accento deve essere qui posto sul termine credito che, come osserva Derrida, rimanda chiaramente alla credenza come atto di fede. Ciò che garantisce il funzionamento della legge dunque è questo atto di fede che altro non è se non una forza performativa, né giusta né ingiusta, che non ha un proprio fondamento

29. M. de Montaigne, Saggi, Adelphi, Milano 1996 (volume II), pp. 14331434.

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perché non ha nemmeno bisogno di averlo. La legge cioè ha un fondamento mistico, come scrive Montaigne, rispetto al quale nulla può essere detto, ma bisogna mantenersi in un wittgensteiniano silenzio. È ciò che propongo di chiamare qui, spostandone un po’ e generalizzandone la struttura, il mistico. Vi è qui un silenzio murato nella struttura violenta dell’atto fondatore. (…) spiegherò dunque l’uso del termine «mistico» in un senso che mi arrischio a definire piuttosto wittgensteiniano. (…) Dato che l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge, per definizione, in definitiva possono basarsi solo su se stesse, esse sono a loro volta una violenza senza fondamento.30

4. La pena di morte tra teologico e politico Noi dunque crediamo nelle leggi, ma questa fiducia sembra in un certo senso sgretolarsi davanti a un caso particolare: il caso della pena di morte, a cui Derrida ha dedicato uno dei suoi ultimi seminari, quello dell’anno 1999-2000. Il seminario si apre con una domanda: «Che dire» si chiede Derrida «a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: “Sapete se la pena di morte è il proprio dell’uomo”, io sarei tentato di rispondergli – forse troppo velocemente: sì, lei ha ragione. La pena di morte è il proprio dell’uomo, a meno che non sia il proprio di Dio – o che non sia la stessa cosa»31. Compare quindi già nelle prime righe il duplice riferimento fondamentale a Dio e al proprio dell’uomo. Ma per comprendere in che modo questi due elementi si intrecciano all’interno del discorso der30. J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 63. 31. Id., La pena di morte, cit., p. 19.

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ridiano sulla pena di morte bisogna partire dalla forma che Derrida decide di dare al suo ciclo di lezioni. Undici lezioni distinte (dodici, se si conta che la prima è suddivisa in due parti) compongono questo primo importante volume, che, come spesso accade con Derrida, e al di là della scansione “in giornate”, ha ben poco a che vedere con la forma della tradizionali lezioni accademiche: si tratta più che altro di una sorta di rappresentazione teatrale. Dobbiamo quindi immaginarci un palcoscenico – il patibolo appunto – su cui si muovono quattro personaggi, quattro grandi condannati a morte, appartenenti a culture e a epoche diversissime tra loro: Socrate, Gesù, Hallâj e Giovanna d’Arco. Quale elemento lega e associa la storia di questi quattro personaggi, di questi uomini e di questa donna, al di là delle eclatanti differenze? Prima di tutto, osserva Derrida, in tutti questi casi abbiamo a che fare con un’accusa religiosa che viene però presa in carico – così come la decisione e l’esecuzione della pena – dallo Stato, cioè da un potere politico. Da Socrate a Giovanna d’Arco, quello che emerge è il significato a un tempo teologico e politico della pena di morte. Lungi dall’essere “unicamente” politica, la pena di morte rivela il suo carattere teologico nel primo e irripetibile momento in cui viene stabilita: siamo infatti nell’Esodo e Dio, subito dopo aver prescritto il sesto comandamento “tu non ucciderai”, ordina a Mosè di mettere a morte tutti coloro che non rispetteranno i Dieci Comandamenti, con particolare riferimento al sesto. Come può Dio dire “tu non ucciderai” e al tempo stesso chiedere che vengano uccisi coloro che non rispettano la prescrizione? Non c’è qui una contraddizione di termini? No, nessuna contraddizione; siamo solo davanti a due modi differenti di dare la morte, ed è in questa differenza che si stabilisce l’essenza della pena capitale. Nel primo caso infatti, ciò che

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Dio vieta è l’assassinio al di là della legge; nel secondo caso, invece, prescrive e ammette la possibilità di un modo legale di dare la morte. La pena di morte è appunto questo assassinio legalizzato, stabilito in origine da Dio per punire l’imperdonabile, la trasgressione di una prescrizione, e quindi per ristabilire un ordine che altrimenti resterebbe infranto. Non si può uccidere, ma c’è un caso eccezionale che lo consente: un terzo, la legge, lo Stato, detiene cioè il diritto di vita e di morte, unicamente divino. Ecco dunque che la pena di morte nasce come alleanza tra teologico e politico, Religione e Stato – sempre ammesso che lo stato non abbia di per sé una natura religiosa e sacra. Bisogna prestare attenzione: non è questa alleanza a produrre la pena di morte, ma il contrario. Vale a dire che il teologicopolitico non esisterebbe senza quel trait d’union, quell’anello saldo che è la pena capitale. Inoltre la condanna a morte non suggella solo l’alleanza tra due termini, bensì stabilisce una relazione a tre: quella tra il discorso religioso, quello politico e quello filosofico-ontologico. Questa particolare forma del diritto penale è infatti un altro nome del proprio dell’uomo che detiene, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, la capacità di eccedere il limite naturale, di sacrificarsi in nome di una dignità che non teme la morte perché vale più della vita stessa. È un discorso chiaramente filosofico, che ha le sue radici nella platonica visione della filosofia e della vita come esercizio di morte, e prosegue attraverso la concezione kantiana della dignità umana, dell’uomo come unico essere vivente che, in quanto persona, deve essere considerato come un fine e mai come un mezzo, ragione per cui diviene necessario inscrivere la pena di morte nel suo diritto; ritroviamo poi questo discorso nell’hegeliana lotta per il riconoscimento, che presuppone il rischio della propria vita nello scontro, e nella filosofia heideggeriana, che fa della mor-

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te il discrimine più forte tra Dasein e animale: solo l’uomo può morire, l’animale cessa semplicemente di vivere. Osservando queste posizioni si capisce perché, commenta astutamente Derrida, non sono mai esistiti, nella storia della filosofia, discorsi abolizionisti: il discorso filosofico tradizionale infatti o riconosce la legittimità della pena di morte – come nel caso di Platone, di Kant e di Hegel – oppure si limita a tacere la questione – come fanno Heidegger e Sartre –, laddove tacere è un altro modo di non opporsi e quindi di legittimare lo stato giuridico delle cose. I discorsi abolizionisti vengono condotti per lo più da giuristi – come nel caso di Cesare Beccaria – e quasi mai da filosofi. Ma cosa significa tutto ciò? Ha ancora senso ragionare in termini di “a favore o contro” la pena di morte? Punto nodale del seminario derridiano è infatti dimostrare che le tesi abolizioniste si servono di argomenti identici a quelle degli antiabolizionisti, pur volendo sostenere posizioni opposte. Derrida analizza in modo rigoroso i due grandi filoni tematici che hanno attraversato tanto la storia dell’abolizionismo quanto quella dell’antiabolizionismo. Da una parte si ha infatti l’argomento della crudeltà, che con la sua logica “anestesiale” e subdola non condanna il principio della pena di morte in sé, ma semplicemente la sua scorza esteriore, vale a dire la modalità attraverso cui si dà l’esecuzione. Legale dare la morte, basta che non lo si faccia in modo eccessivamente crudele: è questa la logica emblematica degli USA, che negli anni ’70 hanno sospeso temporaneamente le esecuzioni capitali perché considerate troppo crudeli; furono poi riattivate un decennio dopo – quando invece tutti gli altri paesi stavano iniziando a percorrere la via dell’abolizione – perché nuovi metodi, meno crudeli, erano stati escogitati.

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Dall’altra si ha l’argomento dell’eccezione, che si connette alla logica del perdono, della grazia, e quindi dello Stato – come voleva anche Schmitt. Eccezione significa ammettere la legittimità della pena di morte perché ad essa si accompagna sempre la possibilità che lo Stato faccia un’eccezione, che conceda cioè il diritto di grazia; si crea così un gioco di rimandi: le istituzioni giuridiche condannano l’imputato, non assumendosi però la responsabilità ultima della condanna, che è rimessa nelle mani del capo dello Stato, il quale a sua volta può privarsi di qualsiasi responsabilità affermando che la decisione originaria è stata presa dagli organi giuridici competenti. Etimologicamente “eccezione” significa ciò che trascende la regola e la legge ed è quindi a un tempo l’imperdonabile che viene punito con la morte, e lo Stato, quel terzo che, come abbiamo visto fin dall’inizio, detiene il diritto di vita e di morte. Bisogna quindi superare le logiche della crudeltà e dell’eccezione; bisogna imparare a parlare della pena di morte in modo non patetico e non statale. Bisogna cioè rispondere a gran voce alla denuncia derridiana circa la mancanza di un discorso filosoficamente fondato sulla pena di morte, e per fare ciò, suggerisce il filosofo francese, è necessario partire non dalla decostruzione della morte, ma dalla decostruzione radicale del concetto filosofico, religioso e politico di uomo.

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“Togliere l’umano dai diritti umani” Diritti umani o di gruppo? Petar Bojanić

Al momento non saprei dire con certezza se un testo che assegni un valore a termini come “diritti umani”, “umano”, “proprio dell’uomo” possa essere portato a termine in modo soddisfacente, né se possa essere propedeutico alla creazione di una teoria dell’istituzione o della «contro-istituzione», che è ciò di cui mi occupo in questo periodo1. 1. Quest’ultima espressione venne usata da Saint-Simon: «Si deve convenire in base al passato che gli Inglesi si sono sottomessi a due distinte organizzazioni sociali, le quali hanno, in tutte le direzioni, doppie istituzioni, o piuttosto esse hanno stabilito, in tutte le direzioni, le contro-istituzioni di tutte le istituzioni che erano in vigore presso di loro prima della rivoluzione, e che hanno in gran parte conservato (Il en est résulté [du passé historique] que les Anglais se sont en même temps soumis à deux organisations sociales bien distinctes, qu’ils ont, dans toutes les directions, doubles institutions, ou plutôt qu’ils ont établi, dans toutes les directions, les contre-institutions de toutes les institutions qui étaient en vigueur chez eux avant leur révolution et qu’ils ont conservées en très grande partie)» (Cfr. S. Simon, Œuvres choisies, t. 3, p. 131). In uno dei suoi ultimi testi, Il modello filosofico di una contro-istituzione, Derrida fornisce sette caratteristiche di una controistituzione, avendo bene in testa l’idea del Collège e Cerisy (l’esperienza contro-istituzionale di Cerisy): la contro-istituzione è non-governamentale per principio (d’origine non governementale); non ha come missione la Guerra o la resistenza di fronte ad altre istituzioni; la filosofia, sebbene onnipresente, non domina sulle altre discipline; è internazionale; non con-

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Dopo aver dedicato diversi mesi alla lettura di svariate dichiarazioni, protocolli, convenzioni, carte sui diritti umani, di svariati testi sui diritti umani, in svariate lingue, provenienti dalle tradizioni più disparate, tutto ciò che sono in grado di fare oggi è spiegare questo titolo preso in prestito (si tratta infatti di una citazione2) e il sottotitolo, nel tentativo di pro-

ferisce titoli onorifici, accademici, professionali; concede spazio a ricerca e sperimentazione; non sappiamo mai cosa ci attende in uno spazio controistituzionale, perché contiene in sé uno spazio pre-istituzionale, uno spazio che precede la norma (il che è incalcolabile, parola ripetuta diverse volte nel testo): J. Derrida, Le modèle philosophique d’une ‘contre-institution’, SIECLE. Colloque de Cerisy, IMEC, Paris 2005, p. 248, pp. 253-255. I “diritti umani” dovrebbero appartenere al registro di ciò che è superiore alla norma, l’“incalcolabile”. Che nella circostanza di questo colloquio, nei nostri interessi e opzioni teoretiche in generale ci sia una presenza tangibile di Jacques Derrida, a partire dal suo testo del 1976 Déclaration d’indépendance (“Dichiarazione d’indipendenza”), non conta davvero in questo momento. In quel testo Derrida menziona qualcosa che non ha problematizzato mai successivamente: «una teoria della scrittura performativa (une théorie de l’écriture “performative”)», e più avanti «l’atto dichiarativo che fonda una istituzione (l’acte déclaratif qui fonde une institution)», e «l’atto fondatore d’una istituzione (l’acte fondateur d’une institution)», J. Derrida, Otobiographies, Galilee, Paris 1984, pp. 15-17. Paradossalmente, il suo oppositore a partire dagli anni Ottanta, John Searle, ha sviluppato una teoria della dichiarazione e degli «atti dichiarativi» (declaration acts), e nel suo ultimo libro ha provato a tematizzare la connessione fra i diritti umani e l’istituzione e i fatti istituzionali (J. Searle, Making the Social World, Oxford University Press, Oxford 2010, pp. 174-199, in part. cap. 8 “Diritti Umani”). Trattandosi di una parte della sua teoria sullo “status”, Searle offre una soluzione interessante, cioè che «noi dobbiamo trattare l’essere umano come uno status, così come l’essere una proprietà privata, l’essere un segretario di stato o l’essere sposato (we must treat being human as a status, like being private property, being a secretary of state or being married)» (p. 181). 2. Il titolo è una ripresa del testo del 2006 di Allen Buchanan, Taking the Human out of Human Rights (ri-edito in A. Buchanan, Human Rights, Legitimacy, and the Use of Force, Oxford University Press, New York 2010, pp. 31-49), che è stato più tardi invertito da J. Tasioulas, Taking Rights out of Human Rights (Togliere i diritti dai Diritti Umani), Ethics, n. 120, 2010, pp. 647-678. Il mio intento non è certamente quello di contrastare gli sforzi

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blematizzare l’“imperialismo concettuale” presente in diverse interpretazioni dei diritti umani. Ciò potrebbe condurre verso un possibile ragionamento sull’importanza dell’attributo “umano” o del “diritto all’umano” nella costituzione di un gruppo e dell’operato collettivo (cooperazione) all’interno di un’istituzione. Innanzitutto, ciò che mi interessa sono le ragioni che renderebbero “l’umano” o “i diritti umani” importanti – o addirittura la cosa più importante – nella costituzione di un gruppo (per questo ho inserito il complesso termine “gruppo” e “diritto/i di gruppo” nel sottotitolo). Quel che in questo momento lascerei da parte, ma che è tacitamente sempre presente in qualsiasi tematizzazione dei diritti umani, è la lunga tradizione di rappresentazione di un certo nonsense e di finzione o invenzione (fiction), che si protrae da qualcosa come due secoli e mezzo3. di Tasioulas di radicare i diritti umani nella moralità, né quello di riproporre la critica di Buchanan a Rawls (anzi, il tentativo di Rawls di radicare i diritti umani nell’idea di cooperazione mi sembra costruttivo, con una particolare enfasi sul diritto all’associazione e all’emigrazione). Piuttosto, il mio intento è di rilevare il problema della relazione o della tensione tra i termini “umano” e “diritto/i”. 3. Esistono differenti letture della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” da parte di Joseph de Maistre, Edmund Burke, Jeremy Bentham (Bentham definisce la dichiarazione “manifesto”), Marx, fino ad arrivare ad Alasdair McIntyre o Bernard Williams. (Nel suo testo del 1987 “The Standard of Living: Interests and Capabilities”, in The Standard of Living, ed. G. Hawthorn, Cambridge University Press, Cambridge 1987, Williams scrive: «La nozione di diritti umani fondamentali mi sembra abbastanza oscura, e preferirei giungervi a partire dalla prospettiva delle capacità umane fondamentali (The notion of a basic human right seems to me obscure enough, and I would rather come at it from the perspectives of basic human capabilities)» (p. 100). Tutte queste letture si interrogano soprattutto sull’esistenza di diritti personali (subjektive Rechts), sull’“uomo” in quanto tale, in quanto soggetto legale e sulla legittimità di ciò che oggi, dalla prospettiva della biopolitica, potremmo definire “la nuda vita” o “il mero o nudo uomo”. Al fondo di tutte queste espressioni c’è una formulazione di Hegel: egli menziona il diritto alla vita o un diritto a vivere (Das Recht des Lebens) nel § 118 delle sue lezioni

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Se dovessi motivare l’esistenza dei recenti dibattiti sulla natura, la giustificazione e l’universalità dei diritti umani, sulla loro differenza dagli altri riferimenti normativi, sulla filosofia e la fondazione (legale) dei diritti umani, sui “Diritti Umani senza (o con) fondazione” (Raz, Tasioulas) (usciranno a breve A Philosophy of Human Rights, di John Tasioulas, e A Legal Theory of Human Rights, di Samantha Besson), allora dovrei senz’altro concludere che questo “processo di grandiosa concretizzazione” dell’opera è tutt’altro che portato a termine. A dispetto di innumerevoli accordi e convenzioni internazionali stabiliti dopo la Seconda Guerra Mondiale (la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani fu adottata nel 1948, mentre la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia nell’’89), della moltitudine di vincoli a cui gli Stati hanno aderito nelle ultime decadi, dell’istituzione di diritti alla secessione o all’intervento umanitario (oggi è possibile intervenire con la forza al fine di difendere i diritti umani di determinati gruppi etnici; paradossalmente, è possibile uccidere persone in nome della vita libera di altre persone, in perfetto accordo con i vari protocolli e le intese siglate dai “firmatari”), a dispetto di tutto ciò, è come se la classificazione di diritti umani fondamentali e la loro universalità fossero ben lungi dall’essere stabilite.

sulla Filosofia del Diritto, tenute a Heidelberg nel semestre invernale 18171818 (Vorlesungen uber Naturrecht und Staatswissenschaft, pp. 221-222). Il diritto a vivere (il comandamento “Non ucciderai” implica un’esistenza di un simile diritto) o il diritto a vivere liberamente è tutelato dalla legge in quanto «i diritti di libertà poggiano semplicemente sulla supremazia della legge – essi sono legge, non diritti personali» (G. Jellinek, Die Erklärung der Menschen und Bürgerrechte: Ein Beitrag zur modernen Verfassungsgeschichte, 1901, p. 53). Jellinek spiega che prima della dichiarazione, nel 1765, «a dispetto della sua concezione radicale del diritto naturale, l’individuo dotato di diritti era per Blackstone non il mero uomo, ma il soggetto inglese (in spite of his fundamental conception of a natural right, the individual with rights was for Blackstone not man simply, but the English subject)» (p. 56).

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Perché? Ci sono due motivazioni. La risposta alla domanda “perché le persone hanno diritti umani e cosa sono i diritti umani”, o perlomeno una delle risposte possibili potrebbe essere che le persone dispongono effettivamente dei loro diritti o di diritti umani in quanto una moltitudine di Stati ha aderito alla Dichiarazione Universale. Ma, ad ogni modo, non tutti gli Stati hanno siglato e aderito alle convenzioni internazionali (viene così immediatamente meno l’universalità della Dichiarazione e degli stessi diritti umani, che diventano perciò tutto a un tratto espressioni normative soggettive, che non costituiscono alcun obbligo universale). Non solo, ma la Dichiarazione ha prodotto uno spazio di distinzione tra Stati che sono democratici e Stati che non lo sono (Rawls, Christiano), o tra Stati più o meno democratici. E, quel che più conta, la Dichiarazione in quanto tale (cioè in quanto documento) non stabilisce procedure, né enti o istituzioni deputati alla tutela dei diritti umani. Questa tutela è rimessa direttamente a politici e giuristi (non a filosofi) e comporta un’attenzione insufficiente rispetto a quelli che Buchanan chiama “diritti umani legali internazionali” (international legal human rights)4.

4. In The Heart of Human Rights (Oxford University Press, New York 2013), Buchanan insiste sulla costruzione di un sistema di diritti umani legali internazionali molto specifico (un atto che dovrebbe certamente supporre la fondazione di istituzioni e un contenimento ancor maggiore della sovranità statale), indagando nel dettaglio tutte le teorie esistenti dei diritti umani. Una di queste è un libro di James Nickel, Making Sense of Human Rights (nel 2007 ne è stata pubblicata una versione aggiornata). Buchanan nell’introduzione del suo libro scrive: «James Nickel sostiene che i diritti umani di oggi sono “i diritti dei giuristi, non dei filosofi”, e anch’egli riconosce come i diritti umani legali internazionali non debbano rispecchiare preesistenti diritti umani morali. Ad ogni modo, a mio avviso, egli non mette a fuoco sufficientemente la questione di cosa ci vorrebbe per legittimare l’istituzione di un sistema di diritti umani legali universali, là dove questo comprende la considerazione del perché ci sia bisogno di diritti individuali a livello internazionale, in aggiunta a quelli di livello costituzionale nazionale, nonché l’esame della legittimità di istituzioni di diritti umani legali internazionali

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La seconda motivazione si riferisce – per dirla ancora con Buchanan – all’“imperialismo concettuale” (conceptual imperialism) dei filosofi, i quali fermamente asseriscono, specialmente in materia di diritti umani, senza alcuna spiegazione, che c’è “un solo concetto di diritti umani (ovviamente, il loro)5”. Senza ombra di dubbio, i filosofi sono estremamente esclusivi quando si tratta della comprensione dei diritti umani6. «I filosofi usano abitualmente l’espressione “diritti umani” senza chiarire se si riferiscano a diritti umani morali o ai diritti umani legali internazionali. Ciò non è d’aiuto, specie se uno degli obiettivi della concettualizzazione filosofica è spiegare la relazione tra diritti umani morali e legali internazionali (Philosophers routinely use the phrase “human rights” without making it clear weather they are talking about moral human rights or international legal human rights. This is unhelpful, especially if one of the goals of a philosophical theorizing is to

(James Nickel states that the human rights of today are “the rights of the lawyers, not the philosophers”, and he too recognizes that international legal human rights need not mirror preexisting moral human rights. However, in my judgment he does not focus sufficiently on the question of what it would take to justify having an international legal human rights system, where this includes an account of why there is a need for individual rights at the international in addition to the domestic constitutional level and an examination of the legitimacy of international legal human rights institutions)», p. 4. 5. A. Buchanan, The Heart of Human Rights, cit., p. 10. 6. Certamente questa esclusività da parte dei filosofi non ha niente a che vedere con il commento cinico di Edmund Burke riguardo l’inutile contributo al dibattito da parte di un professore di metafisica a proposito degli astratti diritti al cibo o alle medicine. Burke dice che in questi casi sarebbe meglio cercare la collaborazione del contadino o del medico. Onora O’Neill analizza questo frammento appena all’inizio di “The Dark Side of Human Rights”, International Affairs, n. 81, 2005, pp. 427-428.

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explain the relationship between moral and international legal human rights)»7. Rispetto a questa distinzione tra il discorso filosofico sui diritti umani morali ed i diritti umani legali internazionali, vorrei aggiungere un ulteriore avvertimento, che possa essere d’aiuto per la comprensione del valore del termine “umano” per l’armonia stessa tra un individuo e un gruppo, e in generale, per la costruzione di un gruppo in quanto tale. In altre parole, vorrei qui sostenere che i diritti dell’individuo potrebbero avere un potenziale e un’efficacia significativamente maggiori solo se fossero dichiarati pubblicamente e manifestati in un gruppo (a voce, con chiarezza, pubblicamente o collettivamente), e non a dispetto del gruppo o in opposizione al gruppo. In questo senso, i diritti morali dell’individuo non devono necessariamente essere indipendenti dalla legge (o dai “diritti umani legali internazionali”), fornire una sorta di presupposto per una critica della stessa legge, e dunque essere in disarmonia con le regole del gruppo od opporsi alle istituzioni. La legge non richiede affatto di essere il mezzo che un individuo usa contro la repressione da parte di altre entità (Nozick, Dworkin), ma esattamente il contrario, un mezzo per il raggiungimento dell’armonia con gli altri (Raz). Mi sembra che il fatto di introdurre un’istanza riferita ad altri individui e ai pari diritti degli altri, e dunque ai diritti collettivi o di gruppo, possa incrementare il potenziale normativo di legge detenuto da ciascun individuo nel momento in cui cerca di affermare e preservare la

7. A. Buchanan, The Heart of Human Rights, cit., p. 12. In una famosa lezione del 2002, probabilmente il testo più complesso sui diritti umani mai scritto, “Why Invent Human Rights”, pubblicato nel 2004 con il titolo di “Elements of a Theory of Human Rights” (Philosophy and Public Affairs, vol. 32, n. 4, 2004, pp. 315-356), Amartya Sen nella conclusione parla della necessità che il dibattito pubblico e la ricerca critica sui diritti umani travalichino i confini tra gli Stati.

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propria umanità (e viceversa: il potenziale umano che ciascun individuo possiede nel momento in cui cerca di affermare e preservare il proprio diritto ad essere parte di un gruppo). Vorrei ora sostenere che il discorso sui diritti umani o sulle dichiarazioni (che sono pubbliche e sempre collettive, di un gruppo: “Noi, il popolo…” [We the people...]), in quanto riguarda il diritto di ciascun individuo di un gruppo, implica alcuni modelli che tengano insieme il gruppo, unito, e diano anche legittimità ad un gruppo. Più che di modello, potrei qui parlare di condizioni incondizionate per l’esistenza di un gruppo in quanto tale. Inoltre, vorrei tentare di sostenere che la Dichiarazione in quanto tale (o i vari atti dichiarativi o le dichiarazioni in quanto atti documentari) è la reale fondazione della protezione dell’individuo e ne garantisce la libertà. Il primo modello o condizione per l’esistenza di un gruppo riguarda le garanzie per la tutela della vita o il diritto alla vita e alla libertà di tutti i suoi membri o parti. Un gruppo è un gruppo solo se tutela, sempre per un tempo limitato, i diritti fondamentali degli individui che vi appartengono. D’altronde, questa tutela è prodotta dagli stessi membri del gruppo. La tutela dei diritti umani come condizione fondamentale o minimale per la collaborazione e la convivenza sarebbe implementata sostenendo i diritti degli individui a collaborare e proteggere i legami che tengono insieme il gruppo. I diritti umani esistono se e solo se hanno la funzione di proteggere i legami che noi stabiliamo con altri individui (responsabilità e dedizione reciproca)8.

8. Il discorso sui diritti umani è de facto un discorso sul minimo, un minimo di diritti e un minimo di umanità. Una teoria dei diritti umani è una «teoria minimalista (minimalistic theory)» (Cohen), alcune volte descritta come «minimalismo dei diritti umani (the minimalism of human rights)»

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Il modello successivo – e la ragione per la quale i diritti umani non dovrebbero mai perdere questo registro legale eminente o il protocollo legale che è loro proprio9 – si riferisce alla natura della legge di connettere e vincolare tra loro tutti coloro che partecipano e cooperano in un gruppo, che siano o non siano presenti10. Il mio diritto rappresenta anche una responsabilità verso un altro o per altri, e viceversa. «I diritti comportano i doveri di una controparte: io ho un diritto di X se qualcun altro ha un dovere nei miei confronti rispetto a X» (Tasioulas, Raz). Il dovere di essere umani, perciò, si riferisce sempre al diritto di un altro. Infine, l’ultimo e per noi il più importante modello, come anche la parte più importante di questa breve esposizione, si riferisce alla Dichiarazione in quanto documento11, vale a dire in quanto documento scritto. I diritti umani sono soprattutto costituiti

(Buchanan), altre volte come dotata di un «carattere minimale (minimalistic character)» (Griffin). Nickel scrive: «I diritti umani non sono ideali di vita buona per gli umani; hanno piuttosto a che fare col fatto di assicurare le condizioni, negative e positive, per una vita minimamente buona (Human rights are not ideals of the good life for humans; they are rather concerned with ensuring the conditions, negative and positive, of a minimally good life)» (J. Nickel, Making Sense of Human Rights, p. 138). 9. I diritti umani non sono princìpi, né sono «il principio di una politica altra (das Prinzip einer anderen Politik)» (Ch. Menke), né una pratica o «die Bewegung einer Praxis entbildet» (Die Revolution der Menschenrechte. Grundlegende Texte zu einem neuen Begriff des Politischen, Hrs. Ch. Menke & F. Raimondi, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2011, p. 9, p. 18). 10. Sto qui suggerendo una versione o riproposizione di una famosa massima dei Fisiocrati: «Chi afferma un diritto, afferma una prerogativa basata su un dovere; nessun diritto senza dovere e nessun dovere senza diritto». 11. In un testo del 1996 dedicato ai diritti umani, Cornelia Vismann spiega la genesi del termine dichiarazione e il suo uso nel corso del diciottesimo secolo. Questo termine ingloba interpretazione, un’interpretazione continua di certi atti legali da parte del ministro della giustizia (C. Vismann, “Menschenrechte: Instanz des Sprechens – Instrument der Politik”, in Das

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come una dichiarazione, come un testo che vincola chi lo firma e lo pubblica. Questo riconoscimento da parte di tutti determina il potere deontologico di questo documento e, al contempo, il potere del gruppo in quanto tale. La Dichiarazione è possibile esclusivamente nella forma del “Noi”, in quanto la dichiarazione istituisce i diritti di tutti nello stesso momento in cui costituisce il gruppo o la comunità di tutti. Quando tutti si pronunciano (proclamano) individualmente riguardo ai diritti di tutti, riguardo ai diritti umani, quello è il momento in cui essi risultano costituiti come un “noi”, un gruppo. D’altronde, dal momento che i diritti umani sono resi pubblici nella forma di una dichiarazione, questi diritti sono anche una volta per tutte dichiarati e interpretati. Pertanto i diritti umani esistono nella forma di una spiegazione della propria stessa essenza e sono la somma di vari atti dichiaratori. Un’illustrazione continua della parola “Umano” (“proprio dell’uomo”) è nei fatti parte costitutiva del grande ed eterno progetto dei diritti umani12. (Traduzione di Sabino Paparella)

Recht und seine Mittel. Ausgewählte Schriften, S. Fischer, Frankfurt am Main 2012, p. 231). 12. Questa frase è una ripresa di un passo di Vismann che suona così: «Proprio come i diritti umani non sono diritti, ma la messa in moto di una pratica retorica, così anche l’uomo non è soggetto di diritto. L’uomo, una lacuna della legge, si spiega parlando. La spiegazione del concetto di “uomo” – a dirla tutta un concetto nemmeno vagamente giuridico – è perciò parte del progetto di un discorso generatore dei diritti umani (So wie die Menschenrechte keine Rechte sind, sondern eine rhetorische Praxis in Gang setzen, ist auch der Mensch kein Rechtssubjekt. Der Mensch, die Lücke im Gesetz, erklärt sich, indem er spricht. Die Erklärung des Begriffs “Mensch” – wohlweislich kein, nicht einmal ein unbestimmter Rechtsbegriff – ist darum Teil des diskursgenerierenden Projekts der Menschenrechte)» (C. Vismann, Das Recht und seine Mittel. Ausgewählte Schriften, p. 238).

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Gli Autori

Gérard Bensussan è professore emerito di Filosofia (Università Marc-Bloch, Strasburgo) e membro del «Centre de recherches en philosophie allemande et contemporaine». Ha lavorato sui classici tedeschi e sulla filosofia ebraica, in particolare su Schelling, Rosenzweig, Lévinas, ma anche su Hess, Cohen, Benjamin. Tra le sue pubblicazioni tradotte in italiano, Etica ed esperienza. Lévinas politico, tr. it. di S. Geraci, Mimesis, Milano 2010; tra le sue monografie Le temps messianique: Temps historique et temps vécu, Vrin, Paris 2002; Les “âges du monde” de Schelling: une traduction de l’absolu, Vrin, Paris 2015. Pagina web: http://philo.unistra.fr/personnes/emerites/gerard-bensussan/ Petar Bojanić è direttore dell’Institute of Philosophy and Social Theory (Belgrado) e del Centre for Advances Studies (Fiume). I suoi interessi di ricerca spaziano dalla filosofia del diritto alla filosofia ebraica e alla filosofia della guerra. Ha insegnato e svolto attività di ricerca presso le Università di Cornell (USA), Aberdeen (UK), Bologna, Essen, Bonn (DE)

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e Belgrado (SR). In italiano ha pubblicato Violenza e messianismo, Mimesis, Milano-Udine 2014 (tr. it. a cura di G. Petrarca, prefazione di M. Ferraris). Carmine Di Martino insegna Gnoseologia all’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi si sono rivolti alla fenomenologia husserliana, all’ermeneutica heideggeriana e ai rispettivi sviluppi in area francese, con particolare riferimento ai problemi del linguaggio, della scrittura e della genesi del senso, presi di mira anche nei loro risvolti antropologici. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Esperienza e intenzionalità. Tre saggi sulla fenomenologia di Husserl, Guerini, Milano 2013; Signe, geste, parole. De Heidegger à Mead et MerleauPonty, Hermann, Paris 2015; Viventi umani e non umani. Tecnica, linguaggio, memoria, Cortina, Milano 2017. Rita Fulco è Assegnista di ricerca (Filosofia teoretica) presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Dottore di ricerca in «Diritti umani: evoluzione, tutela e limiti» (Università di Palermo) e in «Metodologie della Filosofia» (Università di Messina). Lavora sulla filosofia del Novecento, in particolare su Simone Weil, Emmanuel Lévinas, Sergio Quinzio, Manlio Sgalambro. Tra le sue monografie, Il tempo della fine. L’apocalittica messianica di Sergio Quinzio, Diabasis, Reggio Emilia 2007; Essere insieme in un luogo. Etica, Politica, Diritto nel pensiero di Emmanuel Lévinas, Mimesis, Milano 2013; tra gli articoli recenti, Le rapport entre politique et religions, “Cahiers Simone Weil”, 3, 2017. Pagina web: https://scuola.academia.edu/RitaFulco Arianna Marchente si è laureata in Scienze Filosofiche all’Università di Milano nel 2012, con una tesi sulla globalizzazione e la democrazia nel pensiero di Jacques Derrida. Nel 2016

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ha ottenuto il dottorato in Scienze Umane all’Università di Trieste, concentrandosi sulle implicazioni teoretiche, etiche e politiche del concetto di autoimmunità, tra biopolitica e decostruzione. Ha pubblicato, oltre alla tesi di dottorato (Verso una biologia politica: “vita morte” e autoimmunità nel pensiero di Jacques Derrida), vari articoli dedicati al pensiero derridiano. Scrive di cultura, femminismo e fenomeni pop per il progetto editoriale Freeda. Sabino Paparella è dottorando di ricerca in filosofia presso l’Università degli Studi di Bari, dove collabora come cultore della materia con la cattedra di Filosofia Teoretica. Si occupa e ha scritto prevalentemente della questione politica del conflitto nel pensiero contemporaneo, con particolare riferimento alle posizioni di Jacques Rancière. Recentemente ha pubblicato Strategie del negativo a confronto, in (a cura di) E. Lisciani Petrini e G. Strummiello, Effetto Italian Thought, Quodlibet, Macerata 2017. Fabio Polidori insegna Filosofia teoretica e Filosofie del Novecento presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste. I suoi studi sono rivolti alla filosofia contemporanea continentale, alle questioni legate alla soggettività attraverso autori quali Nietzsche, Bergson, Heidegger, Deleuze, Foucault, Derrida, Sloterdijk. È redattore di «aut aut» e di «Etica & Politica» e collabora con varie altre riviste filosofiche («Parɔl», «estetica. studi e ricerche», «Lo sguardo»). Tra le sue pubblicazioni: L’ultima parola. Heidegger/ Nietzsche, La Nuova Italia, Firenze 1998; Necessità di una illusione. Lettura di Nietzsche, Bulzoni, Roma 2007 (seconda edizione); Passi indietro. Su verità, soggetto, altro, Bulzoni, Roma 2012.

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Caterina Resta è professore ordinario di Filosofia teoretica (Università di Messina). Tra le sue pubblicazioni: Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, FrancoAngeli, Milano 1996; Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000; L’evento dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003; L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, il melangolo, Genova 2008; Nichilismo Tecnica Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis, Milano 2013; La passione dell’impossibile. Saggi su Jacques Derrida, il melangolo, Genova 2016. Giusi Strummiello insegna Filosofia teoretica all’Università di Bari «Aldo Moro». I suoi studi riguardano principalmente il pensiero di Heidegger e Schelling, i problemi relativi allo statuto della filosofia in rapporto alla violenza e la questione della ridefinizione dell’umano alla luce dell’attuale dibattito sui diritti umani universali. Tra le sue pubblicazioni si segnalano, oltre alla curatela dell’edizione italiana de L’evento di Martin Heidegger e delle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di F.W.J. Schelling, i volumi L’altro inizio del pensiero. I «Beiträge zur Philosophie» di Martin Heidegger, Levante, Bari 1995; Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001; L’idea rovesciata. Schelling e l’ontoteologia, Pagina, Bari 2007.

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Indice

Introduzione

p. 9

Il diritto di essere umani di Caterina Resta

p. 11

L’esistenza plurale dell’umano di Giusi Strummiello

p. 41

I diritti, l’uomo e l’Altro. Quattro figure etico-politiche dell’alterità di Sabino Paparella

p. 71

I diritti dell’altro uomo e gli obblighi verso l’essere umano: Emmanuel Lévinas e Simone Weil di Rita Fulco

p. 105

I diritti, l’uomo, i diritti dell’altro uomo di Gérard Bensussan

p. 129

L’improprietà dell’uomo e la questione dei diritti umani di Carmine Di Martino

p. 145

E se l’umano rispondesse? di Fabio Polidori

p. 177

Il diritto e i diritti. A partire da Jacques Derrida di Arianna Marchente

p. 199

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“Togliere l’umano dai diritti umani” Diritti umani o di gruppo? di Petar Bojanić

p. 223

Gli Autori

p. 233

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 presso Mediagraf SpA - Noventa Padovana - printbee.it

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Anthropos | 1 Collana diretta da Carmine Di Martino

Che cosa sono “oggi” – nell’età globale – i diritti umani? Quali le loro implicazioni etico-giuridico-politiche? In che senso ad essi si applica l’attributo di “umani”? Si può ancora parlare, in proposito, di un “proprio” dell’uomo, al di là di essenzialismi o naturalismi metafisici? I diritti umani sono universali o particolari? Rappresentano, come taluni sostengono, una lingua franca dello spazio politico internazionale o costituiscono la via obliqua della riaffermazione di vecchie e nuove asimmetrie o esclusioni (individuali, sociali, culturali)? Possiamo rinunciare ai diritti umani o essi possiedono ancora la valenza di un indispensabile strumento critico? Il volume si propone di affrontare, in una prospettiva filosofica, i problemi sottesi a tali interrogativi, secondo i diversi punti di vista che si intrecciano nella discussione attuale e nei saggi degli autori. Con saggi di Gérard Bensussan, Petar Bojanić, Carmine Di Martino, Rita Fulco, Arianna Marchente, Sabino Paparella, Fabio Polidori, Caterina Resta, Giuseppina Strummiello.

ISBN E-Book: 978-88-85716-27-8

€ 11,00