I diritti dei più fragili. Storie per curare e riparare i danni esistenziali 9788858692493

Grazie alle storie vere ricavate dalla sua esperienza, Paolo Cendon ci dimostra che la fragilità è parte integrante dell

465 83 925KB

Italian Pages 135 Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

I diritti dei più fragili. Storie per curare e riparare i danni esistenziali
 9788858692493

Table of contents :
Indice......Page 133
Frontespizio......Page 4
Il Libro......Page 2
L'autore......Page 3
Introduzione......Page 7
La cesta......Page 9
Sabina......Page 10
Il Centro......Page 11
Danni......Page 12
Basaglia......Page 13
Augusta......Page 14
Una storiella americana......Page 15
Storture......Page 16
Pragmatismo......Page 17
Il diritto......Page 18
Fragilità emergenti......Page 19
Oltre l’infermità di mente......Page 20
Ombre e luci......Page 21
Acqua, gas, telefono......Page 22
Famiglia......Page 23
Chi ha meno risorse fa più fatica......Page 24
I racconti di Giuseppe......Page 25
Chi esce ritorna......Page 26
Impraticabilità, abusi......Page 27
Gli altri esseri vulnerabili......Page 28
Impugnazioni......Page 29
Procure, abusi......Page 30
Un vuoto da riempire......Page 31
Fare il male coscientemente......Page 33
La psiche ha le sue ragioni…......Page 34
Due film......Page 35
Trame segrete......Page 36
Persone malintenzionate......Page 37
Negligenze, imprudenze......Page 38
Doppi legami......Page 39
Prime obiezioni......Page 41
Suicidio assistito......Page 42
Intenzionalità......Page 43
Casistica minuta......Page 44
Area della negligenza......Page 45
Nella stanzetta......Page 46
Impatti......Page 47
Congiunti (resi) inabili......Page 49
La via maestra dell’amore......Page 50
Jean Gabin non parla più......Page 51
La sentenza dei bigliettini......Page 52
Infedeltà all’italiana......Page 53
Seduzione con promessa di matrimonio......Page 54
Dire, fare, baciare......Page 56
Il cosiddetto terzo complice......Page 58
Se non mi foraggi ti farò interdire......Page 59
Chi ha ragione?......Page 61
In mezzo......Page 62
Sanzioni penali......Page 63
Non ti amo più......Page 64
Oltre la sfera sentimentale......Page 65
Il grande vischio......Page 66
Italiani gente fragile......Page 68
Coazioni benigne......Page 69
Dietro i bei modi......Page 70
Progetto di vita......Page 72
Strigliate dal continente......Page 73
Rilievi inascoltati......Page 74
Giustizia, salute, migranti......Page 75
Disabilità e responsabilità......Page 76
Disturbi mentali......Page 77
Assistenza, mantenimento......Page 78
Niente più soldi......Page 79
Incontri a Venezia......Page 80
Il giudice che non abbandona......Page 82
Stazione Marittima......Page 84
Psichiatri e giuristi......Page 85
Mentre scrivevo......Page 86
Non fra le zucchine......Page 87
Julia......Page 89
In cima ai pensieri......Page 91
Parole d’ordine......Page 92
Visite a Nicoletta......Page 93
Sorprese dall’ospedale......Page 96
Mattinata di maggio......Page 97
Meglio di no......Page 99
Pro e contro......Page 100
Case di riposo......Page 101
Honda Jazz......Page 102
Una coppia (quasi) come le altre......Page 103
La badante dell’Est......Page 104
Sclerosi laterale amiotrofica......Page 105
No a Maramaldo......Page 106
Scheda base......Page 108
Appunti......Page 109
All’aria aperta......Page 110
Bambinologia......Page 111
Penale......Page 112
Capacità......Page 113
Disperare mai......Page 114
Università......Page 115
Diritti soggettivi......Page 117
Storia d’Italia......Page 118
Il grande cielo......Page 119
Non troppo in fretta......Page 120
Nuovi interpreti......Page 121
L’assistente sociale......Page 123
Danni in arrivo......Page 125
Morte del samurai......Page 127
Tre deposizioni......Page 128
Al bivio......Page 129
Il neonato......Page 130
Epilogo......Page 131

Citation preview

Come possiamo proteggere gli esseri deboli che non sono in grado di difendersi da soli e che sono minacciati non da un destino crudele ma da persone vicine che vogliono approfittare della loro fragilità? Come possiamo mettere in sicurezza i nostri diritti in vista di un futuro in cui potremmo non essere più in grado di esprimere le nostre volontà o di badare a noi stessi? Fin dagli anni Settanta, quando ha collaborato con il team di Franco Basaglia per giungere a una profonda riforma della psichiatria e dei suoi istituti, Paolo Cendon è stato un giurista che ha ascoltato le esistenze dei più vulnerabili, dei meno fortunati, di chi ha bisogno di assistenza, e si è assunto la responsabilità di cercare nuove vie per la salvaguardia di nuovi diritti. Alla sua azione si devono iniziative di legge che hanno portato al riconoscimento dell’idea di “danno esistenziale” e all’introduzione di figure come l’amministratore di sostegno. Oggi, grazie al caleidoscopio di storie vere ricavate da un’esperienza più che quarantennale, Cendon dimostra in questo libro che la fragilità è parte integrante della nostra umanità e, direttamente o indirettamente, ci riguarda tutti. Solo una visione globale che abbracci diritti, doveri e responsabilità, dal testamento biologico all’adozione e all’affido, dalla riparazione del danno esistenziale alla fine di un istituto crudele come l’interdizione all’alleviamento di tante forme di disagio, offre davvero alla nostra società la possibilità di una trasformazione profondamente benefica: una trasformazione che, anche grazie all’opera di Cendon, è già cominciata. Basta ricordare che “non esistono soggetti deboli, a questo mondo, ci sono soltanto persone indebolite” e le loro storie sono un aiuto per tutti a riconoscere anche i chiaroscuri di ogni vita.

PAOLO CENDON (Venezia 1940) è professore di Diritto privato all’università di Trieste. Grazie alla sua opera sono entrati nella cultura giuridica e nella vita del diritto italiano la figura dell’amministratore di sostegno e la nozione di danno esistenziale. Ha pubblicato numerosi saggi giuridici e il romanzo L’orco in canonica (Marsilio 2016). Collabora con il “Corriere della Sera”.

Paolo Cendon

I diritti dei più fragili Storie per curare e riparare i danni esistenziali

Pubblicato per da Mondadori Libri S.p.A. Proprietà letteraria riservata © 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-58-69249-3 Prima edizione: marzo 2018 Realizzazione editoriale: Studio Dispari, Milano In copertina: illustrazione © Francesco Ciccolella Art Director: Francesca Leoneschi Graphic Designer: Luigi Altomare / theWorldofDOT www.rizzoli.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

I diritti dei più fragili

Introduzione

Da tanti anni mi occupo di diritti delle persone; e la ricerca mi ha spesso portato a incontrare il grande corso d’acqua della fragilità umana, con i suoi immissari e le sue diramazioni. A partire dall’affluente del disagio psichico: nelle varie occasioni in cui si è prodotto, nella storia di questi decenni, un intreccio con i luoghi e le figure del diritto civile. La 180, per cominciare: la legge che, nel 1978, ha cancellato in Italia i manicomi e suggellato un nuovo modo di guardare ai portatori di sofferenza mentale. Franco Basaglia: lo psichiatra veneziano che, negli anni Sessanta a Gorizia e Settanta a Trieste, con le sue coraggiose aperture lungo il territorio, ha reso possibile il varo di quella riforma. L’interdizione: l’anticaglia disciplinare che si traduce in un annichilimento delle istanze del paziente psichiatrico, e che non si è riusciti ancora a eliminare dal codice. L’amministrazione di sostegno: la misura, in vigore dal 2004, che protegge le creature vulnerabili in termini miti, delicati, rispettando la loro dignità e il loro bisogno di ascolto, indipendenza. Non meno ricco appare, sull’altro fianco, l’affluente dei danni non patrimoniali: nelle molte sfaccettature che sono destinate a interessare, negativamente, la vittima delle cattiverie o delle leggerezze altrui. Il danno biologico anzitutto: subire un’aggressione alla propria salute, corporea o mentale, e non riuscire più a condurre da allora, su questo o quel versante, la vita di prima. Il danno morale: qualcuno ci ha arrecato un torto ed ecco iniziare per noi, da quel momento, una fase di dolori fisici o psichici, di patemi d’animo, di piccole o grandi tristezze. Il danno esistenziale: venir colpiti ingiustamente in qualche nostra prerogativa (libertà, serenità familiare, lavoro, giustizia, onore, riservatezza, ambiente) e accorgerci come, da allora, i normali ritmi quotidiani siano compromessi, come esistano attività realizzatrici che non riusciremo più a svolgere. Gli esempi potrebbero

moltiplicarsi: abbandono, paure, disabilità, solitudine, prepotenze, tradimenti, sfortuna. Le ferite in grado di arrecare del male, le insidie potenziali alla felicità terrena, considerate nell’insieme, dal giorno della nascita, non sono meno numerose – ecco il filo conduttore della materia – dei puntini che compongono la Via Lattea; riusciranno gli strumenti umani, quelli del diritto in particolare, a fornirci ogni tanto qualche aiuto? Le storie raccolte in questo libro, un centinaio, spero dimostrino di sì.

1 Dopo il manicomio

Ogni azione, anche la più piccola, apre e chiude una porta. MARGUERITE YOURCENAR

Venezia Dei «matti» non ho mai avuto paura seriamente, nemmeno da piccolo. Persone abbandonate a se stesse, questa l’idea che di loro mi ero fatta – intorno ai dieci anni, dopo i primi incontri occasionali; a Venezia, nell’isola di San Servolo, sulle scale di casa mia anche. Mio padre dirigeva allora l’Economato della Provincia, a Ca’ Corner, sul Canal Grande: tra i suoi compiti quello di approvvigionare gli istituti che dipendevano dall’Ente locale, a cominciare dai manicomi. Due ce n’erano nella Serenissima, uno all’isola di San Clemente (donne), verso Pellestrina, l’altro all’isola di San Servolo (uomini), in direzione del Lido. Ogni anno le suore organizzavano qui un frugale rinfresco, in una saletta dell’ospedale; verso Pasqua, papà era sempre invitato, qualche volta mi portava con sé. Ero un bambino, ricordo però l’approdo del vaporetto, all’imbarcadero, l’ingresso in quei tetri edifici con le sbarre, l’attraversamento di enormi corridoi zeppi di porte chiuse, sempre vuoti; un odore di brodo nell’aria, l’arrivo nella stanza in cui la madre superiora ci serviva dei biscotti fatti in casa, con una crosta di glassa sopra. Gli ospiti veri e propri non li incrociavo da vicino; arrivavano qua e là rumori sordi, l’eco di qualche grido, dal fondo, porte sbattute, che rompevano il silenzio.

La cesta Chi abitasse in quei posti, lo scoprivo il sabato pomeriggio. Le suore, forse per ingraziarsi chi era preposto a soddisfare le necessità dell’istituto, organizzavano quel giorno una distribuzione in città di prodotti

agricoli, delle due isole. Partiva una «caorlina» a remi, da lì, colma di grosse ceste di vimini, in ciascuna delle quali erano stipati carciofi, piselli, melanzane, zucchine e mazzi di asparagi. E il barcone arrivava nel centro storico, girava lungo i canali, recapitando a ognuno dei destinatari, casa per casa, l’omaggio preparato dalle monache. A fare tutto ciò, sotto lo sguardo di un sorvegliante, erano alcuni ospiti del manicomio; scelti non so in che modo, suppongo tra i più affidabili. Suonava il campanello verso la metà del pomeriggio, ero io ad aprire, mi affacciavo sul pianerottolo, restavo a guardare quelle persone che salivano gli 89 scalini (nove rampe, niente ascensore), portando sulle spalle la nostra cesta, a due coperchi emisferici: di solito uomini non più giovani, vestiti con una tuta blu, i capelli corti e brizzolati; rammento dei visi gentili, la pelle di chi è abituato a stare all’aria aperta, il colorito mezzo grigio però, una mancanza di espressione, movimenti legati e un po’ tristi. Mi porgevano con un borbottio la cesta pesante alcuni chili, l’accoglievo con scarso interesse, non alzavo mai i coperchi per guardare dentro. Da piccolo odiavo la verdura.

Letture Durante l’adolescenza, più tardi al liceo, fra i sestieri di San Marco e Dorsoduro, avrei conosciuto voci più diffuse, poco ospedaliere, dell’umana fragilità; quelle mie personali, di ragazzetto, quelle esterne dell’ambiente lagunare. Papà era morto, nessun motivo per tornare più a San Servolo. Avevo i capelli rossi, che poco erano di moda allora: una seria malattia in terza media, ai polmoni, l’erre moscia; fino a quindici anni ero basso di statura. Venezia poi, la città dov’ero nato: acqua alta d’autunno, palazzi sbilenchi, nebbia fra un ponte e l’altro… quanta precarietà nella bellezza! Le cose che leggevo, nei libri di casa, senza un gran metodo: troiani sconfitti in guerra, fanciulli incompresi, detenuti nella casa dei morti («Spostate quel mucchio di sabbia lì; bene, rimettetelo adesso dov’era», raccontava Dostoevskij). Un uomo che si svegliava, fra le ombre della sua stanza, trasformato in un grosso insetto; inglesi derelitti lungo i mari del Sud, che sembravano i più infelici, fra tutti, nelle novelle di Somerset Maugham.

Sabina Nel mondo della sofferenza mi sarei di nuovo imbattuto qualche tempo

dopo. Le questioni del disagio mentale mi apparvero, allorché conobbi Sabina F., a Trieste, verso i primi anni Ottanta, diverse da come avevo immaginato. Avevo da poco ottenuto la cattedra universitaria, diritto privato: il che significava libertà di studiare, per il resto dell’esistenza, gli argomenti che davvero mi piacevano; nei modi che potevo prediligere. La «follia» era uno di questi, per fedeltà ai ricordi, per scoprire chi ero io. Sabina, bruna, lieve nei gesti, era un’operatrice di un Centro di salute mentale, quello di Sant’Ignazio: iscritta a medicina, di famiglia modesta, aveva lasciato temporaneamente la facoltà per mettere da parte un po’ di soldi: avrebbe ripreso gli studi più tardi. Frequentava un borsista dell’Istituto giuridico, le mie idee sul diritto non le dispiacevano: diventammo amici. Venni presentato ai suoi colleghi; la cronaca delle attività svolte al Centro avrebbe rovesciato, in breve, ciò che immaginavo fosse e facesse la psichiatria. Mi ero figurato, quando ci pensavo, dottori spettinati che esaminavano vetrini, misurando crani e mandibole, un compasso fra le mani. La prima volta che andai a prendere Sabina, dove lavorava, non vidi nulla del genere. Giorno per giorno, ascoltando lei, sbirciando e origliando fra i paraventi, cominciai a capire.

Il Centro Era un edificio anonimo il Centro, del primo dopoguerra; il portone sulla strada mancava di catenacci, nessun odore di disinfettante, niente rivoli di sangue. Una volta entrati si aprivano piani e corridoi, da cui si accedeva a varie stanze. Pochi tra i frequentatori trascorrevano lì la notte, la maggior parte andava e veniva, fra le otto e le otto. Molti facevano cose tipo parlottare, intorno a un lungo tavolo, scrivere, pulire, cucinare; altri stavano zitti, leggevano, fumavano, mangiucchiavano. Una mattina era arrivato in visita, sul prato della direzione, un destriero blu di cartapesta, montato su ruote, lunghe zampe, alto tre metri, «Marco» lo chiamavano (era il cavallo che un tempo trascinava il carretto con la biancheria da lavare, per tutti il simbolo della libertà conquistata). Nella sala grande al primo piano, settimanalmente, si svolgevano assemblee, riunioni plenarie; uomini e donne, di varie età, provenienze: nessuno indossava divise, arduo decifrare – medici, pazienti? – chi facesse che cosa nella vita. I discorsi vertevano al 90 per cento su aspetti

organizzativi: spazzatura, giardinaggio, oggetti da acquistare o da aggiustare, pitturazioni; bisticci, neo-pazienti in arrivo, rapporti esterni con le caseappartamento. C’erano anche colloqui riservati, fra operatori e utenti singoli, in qualche angolo; familiari di passaggio, spaesati alcuni, più o meno fiduciosi. Venivano distribuite medicine, si programmavano feste, piccole spese, gite in barca terapeutiche; era sul mare Trieste, lo è ancora.

Primi interrogativi Passò del tempo, cambiavano i pensieri. C’era qualche contributo, riflettevo, che avrei potuto fornire, in veste di civilista, alla «causa» di Basaglia, al San Giovanni, come era chiamato l’ex reclusorio psichiatrico? La rivoluzione antimanicomiale che avanzava, di cui già si occupavano i penalisti, dopo la cancellazione formale degli «ospedali per i matti», era destinata a influenzare anche discipline come la mia? Un lato comune a queste domande stava nel fatto, mi rendevo conto, che nessuno eccetto me se le poneva; Sabina mi era vicina, le sue inclinazioni professionali la rendevano poco assetata, tuttavia, di risposte giuridiche: con tutti gli altri, psichiatri e infermieri che avevo iniziato a frequentare, le diversità d’impianto erano ancor più marcate. Sentivo che sarebbe durata ancora un po’, a quel modo: e poiché i colleghi in facoltà, da me, erano attratti dalla psichiatria perfino meno di quanto gli psichiatri si interessassero al diritto, era plausibile che sarei rimasto, entro quell’ambito, per qualche tempo in solitudine. Meglio così, ero io a immaginarmi, chissà, vuoti di assistenza e approssimazioni tecniche che non esistevano.

Danni Iniziai a riflettere; e due mi apparvero, dopo un po’, i crinali lungo i quali un uomo di legge poteva orientare i suoi quesiti. Il primo era quello della responsabilità civile; mi limito ad accennarvi qui, sarà l’argomento di un prossimo capitolo. Complesse le istanze al riguardo. Gli ospiti del Centro in cui Sabina mi conduceva erano, tutti quanti, diventati «folli» per conto loro, spontaneamente? Oppure esisteva qualcosa, o qualcuno, entrato a gamba tesa nelle loro giornate, dieci o vent’anni prima, il cui intervento aveva spezzato un meccanismo gracile, precario? Un equilibrio personale capace di durare parecchio altrimenti, tutta la vita

magari? Aveva senso in tal caso, ecco il diritto, interrogarsi sulla possibilità per la vittima di chiedere all’autore di quelle sventatezze o soperchierie – inflitte a scuola, in fabbrica, a casa, per strada, in qualche clinica – un risarcimento del danno?

Orientarsi Il secondo versante atteneva alla vita ordinaria – senza che ricorressero torti veri e propri, a monte – di quanti vedevo aggirarsi per le stanze del Centro. Rispetto a un fronte del genere c’era, tuttavia, qualche esigenza da soddisfare; un tratto morale e culturale insieme, che aveva iniziato a emergere: capire come valutassi io, nella mia testa, quale «cultore delle Pandette», ciò che ero venuto apprendendo da Sabina, che ogni giorno continuavo a imparare. Sofferenti de-manicomializzati, luoghi terapeutici, nuove comunità, sanitari apprensivi e indaffarati: si trattava di un universo di vaste dimensioni, implicazioni; alcune di esse, intuivo, potevano appassionarmi di meno, certe altre apparivano spinose, controverse, qualcuna la recepivo fino a un certo punto. Dopo un po’ il grigio, in quei bilanci, avrebbe preso a diradarsi. L’estraneo leguleio di Venezia cominciava a «lievitare», entrava in sintonia con l’ambiente: accorgendosi di quanto non funzionava, o sembrava carente, sui punti che attraversavano le sue competenze.

Basaglia Sentivo di condividere anzitutto, fra i vari «dogmi basagliani», il no al manicomio. Le vecchie cartoline di San Servolo, al di là di ogni nostalgia, sembravano poco confortanti: mi intristiva sfogliarle a lungo. Quello che si vedeva a Trieste o a Gorizia (oppure negli altri ex «frenocomi» che iniziavo ad attraversare, come conferenziere: Roma, Verona, Cernusco sul Naviglio, Imola, Volterra, Castiglione delle Stiviere) poteva essere meno plumbeo; non tanto però, al di là delle apparenze. Ovunque un senso di immobilità, creature omologate, difficoltà di respiro; sigle e numeri dappertutto, biografie grattate sulla calce, chissà quando, inferriate ai primi piani. Si era trattato di soggetti a rischio, antichi mostri? Il rimedio ottocentesco

aveva, in ogni caso, assunto cupezze oltre misura, totalizzanti.

Bene e male Più d’una le linee che approvavo, dal Nordest. No anzitutto alla prospettazione della «pericolosità», per sé e per gli altri, quale tratto connaturato all’infermità psichica: bastava offrire congrui appigli esistenziali, al sofferente, ed ecco scemare il tasso di ingestibilità; nei conflitti sul pianerottolo, anche in personalità per niente docili. No a ravvisare nella biologia, nella genetica, le branche in grado di svelare da sole, «scientificamente», l’origine delle insufficienze mentali; talvolta era così, potevo constatarlo coi miei occhi: ben altri i fuochi del malessere invece, dall’emigrazione al lutto, dal lavoro alla scuola o agli affetti, in tante carriere di individui fragili di nervi, senza patria, a un passo dallo sfaldamento. Mai rassegnarsi al «vezzo ostinato» degli elettroshock, delle lobotomie, dei coma insulinici: anche nella miglior ipotesi i benefici di stagione per l’utente, ammesso che ci fossero, a livello clinico, erano fin troppo sopravanzati dalla minaccia di controeffetti pesanti, a lunga incubazione. Sì invece, con prudenza, a un ricorso ai farmaci messi a punto ultimamente – sapienti neo-molecole, con nomi vari, dagli effetti potenti – contro ogni forma di psicosi vecchia o inedita: promettevano di contenere fenomenologie poco ordinate, nei pazienti, autorizzando scommesse impensabili altrimenti, al di fuori delle mura ospedaliere; bastava non trasformarli nell’ennesima camicia di forza, a lacci duri, senza possibilità di ritorno. Sì, in generale, al presentare la follia e i suoi correlati come grande laboratorio per riflessioni sulla devianza, nel suo insieme; in vista di strumenti contagiosi, a livello sia teorico che pratico, di nuovi tramiti ispettivi, non solo di tipo medico. Attenti alla quotidianità delle persone, alle loro relazioni con il prossimo, estensibili a ulteriori categorie di svantaggiati: detenuti, fuorusciti del terzo mondo, senzatetto, adolescenti sfortunati, morenti, portatori di dipendenze, disabili fisici o sensoriali, anziani della quinta età, analfabeti cronici. Magari agli stessi cittadini forti, colti nei momenti di pausa.

Augusta Mai permissività o cedevolezze dinanzi a pratiche, nel privato o nel

pubblico, di contenzione cieca, automatizzata: stringhe, fibbie, ceppi, legacci, ferraglie. Una donna di temperamento, chiamiamola Augusta (quasi il nome vero), aveva avuto un giorno la sfortuna di insultare, in una città del Sud Italia, un pubblico ufficiale: si era ritrovata dapprima in guardina, poi chissà come in un manicomio giudiziario. Non era d’accordo con questa soluzione, nessuno l’ascoltava però; il suo disappunto assumeva a volte toni esuberanti. Si avvicinava il periodo natalizio, molti fra i sanitari avevano deciso di non trascorrere dentro l’ospedale il 25 dicembre. Anche Augusta sentiva il Natale, rivoleva la sua libertà: di qui la decisione del direttore dell’Istituto, nell’andarsene a casa, di firmare in anticipo (prassi illegale) gli «statini» che permettevano agli operatori di assoggettare i pazienti, in caso di necessità, a un trattamento sanitario obbligatorio. Poche ore più tardi, Augusta aveva in effetti «dato in escandescenze», era stata legata subito al pagliericcio, bella stretta. Dopo tre giorni che era lì, forse per protestare, o per colpa magari di una sigaretta, addormentandosi, l’infelice aveva finito per appiccare fuoco al letto; l’incendio si era diffuso, Augusta era morta soffocata. Si era aperto un processo, concluso con la condanna penale del direttore; l’uomo, che di suo non era proprio un aguzzino, preso da rimorsi per l’accaduto, era stato trovato alfine impiccato. Ero d’accordo con chi proponeva, dieci anni dopo, di vedere in «Augusta martire» il simbolo permanente di errori da non ripetere.

Una storiella americana Attenzione al linguaggio poi, ancor più ai moduli corporei: quando tali da favorire muraglie a priori, qualche stigma o automatismo, più o meno confessato. Sabina mi aveva fatto un giorno – sui temi transnazionali del labelism (circa i pericoli dei marchi di fabbrica, delle etichette) – leggere questa storiella, che girava nei libri di psichiatria. Un’emittente televisiva di New York vara un ciclo di interviste dedicate a «grandi uomini» che si sono fatti da soli; arriva il turno di un personaggio di colore, al centro di varie banche e società di Wall Street. «Illustri ai nostri telespettatori» chiede la giornalista «la sua giornata tipo.» «Be’, la mattina alle sette» risponde l’uomo, settant’anni, nerissimo, vestito di cachemire leggero, scarpe da duemila dollari, «un’ora alla palestra Best Wonder Fitness sulla Quinta Strada.»

«E poi?» «Colloqui con dirigenti di Wall Street, lezioni alla Columbia University: spesso conferenze via cavo con lo staff del Presidente, a Washington.» «Pomeriggio?» «Consigli di amministrazione, un libro sui nuovi mercati, che sto finendo.» «La sera, dopo cena?» «In famiglia. Wendy, mia moglie, mi parla dei suoi problemi, l’Unesco, gli accordi sulla cooperazione; la regina Elisabetta che le chiede consigli. Adam, il primogenito, sta ottenendo la cattedra a Yale, analisi economica del diritto. Edith, la piccola, presiede la Blended, ha tre figli – dirigono già associazioni studentesche.» «E più tardi, col buio?» «Be’, tutti insieme prendiamo la scala, saliamo in cima, sulla terrazza, ci sediamo vicini… e guardare banorama di giddà.» Certi ridevano, sentivo al Centro, qualcuno apprezzava meno; ero d’accordo comunque sul significato della storiella. «Più importante di ciò che le cose sono» insisteva Sabina «è il modo in cui le battezzi, il loro involucro; come nella Lettera scarlatta di Hawthorne. Se non vuoi incoraggiare i preconcetti rinuncia ai timbri, agli stereotipi; guarda al cuore e al cervello di una persona, non al suo colore, alla cartella clinica. Studia pure le opere di Kraepelin (il grande psichiatra tedesco, a cavallo fra Ottocento e Novecento), non scrivere però da qualche parte “schizofrenico”, “depresso”, “bipolare”: utilizza vocaboli poco accademici, presi dalla vita ordinaria, insignificanti. Nessuno potrà farsi delle idee, su quel certo individuo, prima di averlo conosciuto.»

Storture No infine ai giochi del disconoscere in via di principio, per semplice gusto della provocazione, la sussistenza delle malattie mentali. No a cercare di spiegare tutto in termini alti politicamente, non psichiatrici. No a costruzioni orientate a vedere, dappertutto, un Moloch (lo Stato autoritario, conformista, poliziesco) dapprima accanito nel fiaccare l’anima dei suoi contestatori, implacabile nel seppellirli poi sotto pietre e macigni, dietro uno stampone (matto, isterico, pericoloso, ribelle). No a forme di antipsicoterapia preconcette, ideologiche, alimentate da null’altro che dalla diffidenza verso impegni diversi dal militare, dieci ore al giorno, sudando e imprecando, con interventi mirati più sulla fisicità che sulla psiche,

in qualche Centro di salute mentale, sparpagliato nel territorio. Male altresì le tesi – al di là di ogni somiglianza, quanto al rumore delle chiavi o al colore delle sbarre – volte a scorgere nel diritto penale l’unica fonte, sul piano dei modelli giuridici, atta a ispirare gli eredi di Pinel (il grande psichiatra francese che, nel 1793, aveva tolto dalle catene gli alienati dell’asilo parigino di Bicêtre). Esisteva certo chi, infermo dentro, non padrone di sé spiritualmente, incapace di controllarsi, si era macchiato in passato di un crimine: ma fra i luoghi di cura non c’erano stati, in psichiatria, solamente i manicomi giudiziari. E anche oltre quei recinti, all’aria aperta, erano assai più numerosi gli «spostati» che i reati li subivano, piuttosto che quelli che li commettevano; per non dire di coloro cui nulla accadeva mai di cruento (al di là delle loro insufficienze mentali), e che si trovavano anch’essi con una carretta da spingere, banalmente, dentro e fuori la famiglia, giorno per giorno.

Pragmatismo Sacrosanti invece, e tanto bastava per sapere come schierarmi, all’occorrenza, gli appelli a non idoleggiare le classificazioni teoriche, di scuola; fossero pure le caselle del Dsm americano (il manuale di psichiatria, minuzioso all’estremo, messo a punto oltreoceano in quegli anni; se ne cominciava a parlare allora, in Italia). Occorreva sempre sforzarsi di comprendere, in un lavoro sul campo, chi fosse concretamente la persona da assistere, da quali lombi era discesa; sapere da che parte del globo arrivava, quando, perché, con quali bagagli, con che progetti e aspettative. «Qui al Centro» spiegava Sabina «il problema non è mai stabilire a quale archetipo corrispondano, nel dizionario, i sintomi e le mancanze che accusa un individuo.» Né c’era l’idea che o si riusciva a «guarire» l’interessato, sino in fondo, oppure tutto diventava un fallimento: «Delle malattie di mente poco sappiamo in effetti, sulla carta» proseguiva la mia amica «salvo il fatto che i finali rosei, alla Walt Disney, quando una “presa in carico” è avviata, da parte dell’autorità sanitaria, non esistono». Accontentarsi di volare bassi, attrezzando fondali ragionevoli di cura, di supporto: dialogare con chi stava male, sentirlo in più occasioni; organizzargli buone agende di servizio, per il giorno e per la notte. «Il che potrà significare rimettere in sesto la famiglia; far tornare la persona a scuola, dal dentista, al biliardo, evitarle sfratti e pignoramenti: ecco il non miracolo – cioè l’autentico miracolo.» Meno interesse, in definitiva, per le diagnosi ufficiali, rubacchiate da un

prontuario scolastico; poca attenzione alle consulenze, ai paroloni, alle ostentazioni di cultura: soprattutto quando ridotte a meri compitini, simili a una lectio magistralis, chiusi in cifre o locuzioni di facciata.

Il diritto Decorose sopravvivenze, per l’infermo, la miglior routine di giornata: senza cadute di tono, né capriole all’indietro, tipo Sacks. Né attacchi del male, crisi improvvise o bouffées deliranti. Una cittadinanza non tarpata, mai a una sola dimensione, sistemazioni dignitose hic et nunc dei sofferenti: era già tanto immaginarle, per un Centro del ventesimo secolo, fornirle con garbo, a tu per tu nel territorio. Borse di lavoro, una pratica pensionistica da far ripartire, iscrizione alla banda musicale; controlli col dietologo, abbonamenti, piccole vacanze in collina, assistenza domiciliare. L’orgoglio di uno psichiatra vero, non venale, dal cuore semplice. Scenari ricchi di spazio, veniva da pensare; anche per interventi come quelli del diritto, noiosi o catastali a prima vista. Erano appropriati però gli strumenti convenzionali, del codice civile, immaginarne di nuovi e più freschi era plausibile, in salsa veneziana-triestina?

2 Non farcela da soli

Non camminare dietro a me, potrei non condurti. Non camminarmi davanti, potrei non seguirti. ALBERT CAMUS

Questioni Avrei iniziato dopo un po’ a sentirmi meno incerto, a intravedere i problemi dove stessero. Cosa mi aspettasse alla fine del cammino, non sapevo ancora; coglievo i limiti delle risposte vigenti, ormai, dopo l’avvento della legge 180, del 1978. Fossero gli studenti ad ascoltarmi, in ateneo, si trattasse di convegni di avvocati o di medici, il racconto non variava di molto. Due gli interrogativi da cui partire – sottolineavo un mattino, in aula 390, al pianoterra della facoltà – per orientarsi in materia. A quali lemmi del codice, dopo il no al manicomio, ricondurre le figure svantaggiate? I riferimenti alla «malattia di mente», alla «incapacità di intendere e di volere», erano adeguati? C’era sintonia fra istanze della debolezza, sul piano antropologico, e tutele d’ordine privatistico? Era in grado un individuo «a rischio», al di fuori dalle mura ospedaliere, di riprendere il gusto (e il timone) della sua esistenza?

Fragilità emergenti Invitavo gli studenti, circa il primo interrogativo, a guardarsi intorno; nei parchi, in chiesa, sulle piazze, e a riferire più tardi. Sagome trotterellanti sui marciapiedi, riportavano a lezione, ragazze di trent’anni con meno di trentacinque chili; giovanotti con la pelle tra il verde e il marrone, arrivati da chissà dove. Ombre a frugare tra i cassonetti, anziani della quinta età che si trascinavano; giganti a pontificare camminando, lo sguardo fisso. Creature avviticchiate alla carrozzella, sul lungomare, altra gente qualsiasi, che mostrava di non farcela.

Sicuro trattarsi di «devianti», domandavo in aula, secondo i classici modelli? Quali supporti, legali e comunicativi, occorrevano qui giorno per giorno? Era in grado l’ordinamento italiano, nella sua veste più canonica, di accorgersi di loro?

Un gioco Facevamo ogni tanto il «gioco delle mescolanze», io e Sabina. Accostare gli ospiti reali del Centro a personaggi di fantasia, presi dai libri, da un film. Per lei, che formava le coppie o i terzetti, stanza per stanza, il criterio base erano gli sbalzi d’umore, la fatica quotidiana nel campare: per me si trattava piuttosto delle indicazioni da mettere a punto, sul terreno statutario: esseri umani non abbastanza malandati da giustificare una pronuncia d’interdizione – vedremo fra un attimo cosa significhi – e non in grado di destreggiarsi, di cavarsela da soli, nelle pieghe della «giungla metropolitana». La piccola Egle G. allora, di Grado, espansiva, pronta al sorriso, al punto da far dimenticare trattarsi di una ragazza down; accanto a lei in corridoio Norman Bates, coi suoi tic perenni, lo sguardo teso, la fida parrucca grigia in tasca. Don Chisciotte si era appena tolto l’armatura, impolverata di farina, la lancia contro un angolo della biblioteca; eccolo confidarsi con due fratelli siamesi, oligofrenici, Marco e Luca L., di Treviso, mai d’accordo tra loro sul da farsi. David in tinello, coi suoi eterni timori d’essere toccato, polpastrelli in fiamme, guardava Lisa, murata in se stessa, che si esprimeva solo in versi rimati; a due metri Trelkowski, vestito da donna, il braccio rotto, dopo il salto dal terzo piano. Sulla scala Quasimodo, uno sgorbio dalla schiena curva, innamorato, confidava le sue pene a Elsa F., forte dei suoi centosettanta chili, scatola di cioccolatini sempre in mano; nonché a Virginia, bambole di pezza nella tasca e il terrore per la fossa dei serpenti.

Oltre l’infermità di mente Invecchiate rispetto a costoro – sembrava anche alla mia amica – le «nomenclature psichiatriche» di fine Ottocento. Difficoltà a muoversi, constatavamo insieme, vischiosità relazionali, attacchi di panico; identificarsi con persone morte, una mancanza di nerbo, eccessi di nostalgia o di gelosia. Nuove chiavi aggiungeva Sabina, qua e là, distribuite fra i locali del

Centro. In cucina i vizi segreti, le dipendenze: la signora G., alcolista di Verona, in perenne conflitto con la famiglia, confabulava con Dongho, un pigmeo dell’Africa centrale, gli immancabili dadi d’avorio fra le dita. Sul patio le immobilità più estenuate, ossessive; Humbert Humbert, l’occhio trasognato, mesto al ricordo della sua Lolita, con il truce Borletti, un carcerato di Muggia, ai domiciliari, che sapeva fare di tutto. In cantina le violenze più occulte, incombenti: Lennie, il gigante buono di Steinbeck, amico dei topi di campagna, con l’Osvaldo degli Spettri di Ibsen, due dosi di morfina sempre in tasca. In giardino le bizzarrie più colorite: Orlando accanto all’altalena, seminudo e un po’ furioso, a due metri da Pippo, l’amico fraterno di Topolino, alle loro spalle l’intera corte di Alice nel paese delle meraviglie.

Fuori dal San Giovanni Le «questioni legali» allora: possibilità di andare avanti, alla bell’e meglio, per chi mancava di scaltrezza, al di là del vecchio manicomio. I fuorusciti avevano, pressoché tutti, scelto di vivere in casa: «È in famiglia che li incontreremo, di norma, accanto ai genitori»; avrei ritrovato queste parole in un mio album di lezioni, dell’epoca. A volte il domicilio era con i fratelli, qualche infermo viveva col coniuge o coi figli. «Molti abitano per conto proprio, non sono sposati, contano sulle proprie forze.» Certi avevano optato per una comunità o per una casaappartamento: dividere gli spazi coi loro simili, gruppi di tre o quattro inquilini. Neanche il più strambo dei pazienti aveva, ecco il punto, scelto di dormire in una grotta o su un albero; parlavano chiaro le statistiche. L’esempio di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del Barone rampante di Calvino, quello che giorno e notte balzava di ramo in ramo, era rimasto senza imitazioni. Tutti avevano preferito, o qualcuno aveva deciso per loro, una residenza di tipo normale, «borghese».

Ombre e luci In aula cominciavo dalle luci. Sotto un tetto, di muratura, non di rami o di foglie, il soggetto sarà al riparo dai fulmini, dalle intemperie; ecco perché era rimasta vuota ogni

forcella sulle querce, sugli ippocastani. Non patirà il freddo d’inverno – sottolineavo agli studenti – grazie a una stufa; potrà anche lui rinfrescarsi col ventilatore, d’estate; comprare dei surgelati, preparare una torta. Meno romantica come sistemazione, poco verde? Avrà senso l’acquisto di una lavapiatti, però; sarà possibile curare l’igiene: bere un tè profumato, come gli altri, conservare il pesce, il burro, farsi una doccia calda. Recitavo talora la scena dei neon. Mi alzavo dalla cattedra, andando verso l’interruttore elettrico: con un clic spegnevo i sei grandi tubi, brillanti sul soffitto. In aula calava un mezzo scuro. Ci sono delle regole – dicevo guardando i visi tra i banchi, indefiniti – una volta che il sentiero della civiltà venga imboccato. Anche per chi «non ci stia con l’intelletto»; tanto più quando sia andato a vivere da solo. Tre secondi e rischiacciavo l’interruttore: la luce, bianca e lattiginosa, tornava uguale a prima. Prodigio, come mai? Varie le mani studentesche ad alzarsi: la struttura dell’energia elettrica, la sua provenienza, la velocità della corrente nei fili. La realtà è più banale, prosaica, continuavo, la luce c’è, e se non c’è ritorna, qualora l’interessato abbia concluso una formale voltura con l’Enel, a tempo debito. E sempre che non sia mancato in seguito il pagamento delle bollette. Altrimenti no, fili tagliati, buio pesto in ogni stanza.

Acqua, gas, telefono Esiste al mondo un gesto più festoso, quando si muore di sete, che aprire il rubinetto in cucina? Lasciar scorrere il getto, un minuto, lunghe sorsate fresche in gola… Cosa di più buono che farsi due uova all’occhio, al tegamino, avendo fame? Appena cotte, liquido il tuorlo ancora, pepe un pizzico, inzupparci a fondo il pane caldo… Cosa di più dolce della tua mamma che ti chiama, drin drin? Che annuncia di essere guarita, dopo quel suo infortunio uscendo di casa, che non ti aveva fatto dormire la notte… Condizioni imprescindibili? Un contratto di «somministrazione», per beni di consumo, stipulato con chi di dovere; nonché pagamenti delle bollette, tempestivi, ogni due mesi. Acqua, gas, telefono. Finirebbe male altrimenti… comandi ruotati con la mano, a occhi chiusi alzandosi, rubinetti o dispositivi che girano, all’ora di pranzo: e in casa nessun effetto tangibile!

Vita quotidiana Tanti altri i contratti indispensabili, una volta rientrati in città, dall’istituto psichiatrico. Le intese con la banca: mutui, cassette di sicurezza, conto corrente. Quadri e gioielli di famiglia da vendere, società finanziarie dietro l’angolo; i rapporti assicurativi, sull’abitazione, sulla vita, sull’automobile, sulle malattie. Appalti, riparazioni di media entità: il tetto malconcio, la facciata con l’intonaco logoro, le finestre da insonorizzare. Danni da risarcire all’inquilino del piano di sotto, una servitù di passaggio. La badante da licenziare o da assumere, una comunione da sciogliere; pendenze con l’ufficio tasse, questioni con l’Inps. Cessioni della nuda proprietà, trust, permute tra fratelli; un box da affittare, grane col Comune, un’eredità con debiti.

Complessità negoziali Burocrazia allora, istruzioni da leggere; vocaboli tecnici da decifrare, espressioni straniere. Classi di consumo, sopravvenienze nel tempo, costi e benefici da soppesare; soglie volumetriche, contatori da noleggiare. Scelte fra i vari fornitori di servizi: quale il più solido, il più a buon mercato. Rischi processuali da misurare, esoneri da responsabilità, contributi pensionistici. Scorrendo il quarto libro del codice: clausole vessatorie, da approvare o meno, penali da rifiutare, condizioni pattizie da addolcire o da respingere. Possibilità di recesso, caparre da ridurre. Garanzie, marche da bollo, anticipi; modalità di pagamento, costo degli avvocati.

Famiglia Gli incerti in ambito domestico, per il fatto che uno esca dal manicomio, non scompaiono di solito; né diverranno più lievi. Capita di dover prendere decisioni che, senza quel cambiamento, potrebbero aspettare; momenti scabrosi, ben più di quelli attinenti al patrimonio. Da tre settimane Elisabetta F. (ecco l’episodio illustrato in aula, una mattina) era tornata a casa. Si accorgerà che le cose erano diverse da quanto immaginava. Era rimasta in ospedale venti mesi; disagi continui, ruggini fra pazienti. Aveva avuto altro da fare laggiù, coi suoi cinquant’anni, che domandarsi chi, dove e sino a che punto le fosse realmente affezionato. Chiara appariva la verità adesso: il marito non era andato a trovarla che due volte, in tutto quel tempo, nessuna telefonata, mai un regalo; dei figli solo la

maggiore si era ricordata di lei, ogni tanto. Che fare adesso, separarsi, divorziare? Andare in cerca di un legale il giorno dopo? Fingere di nulla, come al solito in passato; tornare a sopportare i vuoti, le piccole angherie, che avevano contribuito a dissestarla? Rinviare le decisioni, trasferirsi intanto dalla figlia che più le era rimasta accanto?

Salute, malattia Non meno ardue le opzioni in campo sanitario. Puntare – riassumeva Sabina, dalle cronache di tante donne, incontrate al Centro – sul medico che consigliava di operarsi subito, oppure su quello favorevole ad aspettare, che suggeriva intanto una terapia farmacologica? Affidarsi alle pomate rosa di Naranbaatar, il guaritore tibetano? Tentare un consulto col famoso luminare parigino, domandargli come superare le incertezze sulla diagnosi? E se la scelta era per l’intervento, subito, su quale chirurgo puntare (città, reparto) dei quattro che le erano stati proposti? Una volta decisa la soluzione Bologna, per ipotesi, meglio procedere attraverso il Servizio Sanitario Nazionale, non pagando nulla ed entrando in lista d’attesa, lunga anche mesi? O farsi invece operare in via privata, con una data più vicina, con la probabilità di andare incontro a forti spese allora, sostenibili solo vendendo la casetta di Sappada, piena di ricordi d’infanzia?

Chi ha meno risorse fa più fatica Sabina mi confermava quanti (più) scogli incontrassero i pazienti, dal punto di vista del diritto. «Anche a me è capitato» cominciava «di dover fare ultimamente delle scelte; impegnative anche, basta pensare all’abbandono della facoltà, due anni, per lavorare.» Nessun paragone con l’arrovellarsi, però, con i tormenti di certi ospiti del Centro. «C’è chi cambia parere venti volte alla settimana. Qualcuno avverte che si farà consigliare da gente che ben sappiamo, noi operatori, essere dei manigoldi; e occorrono salti mortali per riuscire a dissuaderlo. Alle volte, se l’interessato è d’accordo, mettiamo la sua vicenda al centro delle discussioni, in assemblea di reparto; ed è incredibile quanti siano i suggerimenti, da ogni lato.» «Un caso frequente è quello di chi, conscio di volere sempre tutto e l’opposto di tutto, rinvia sempre la decisione; e quel modo di comportarsi si

cronicizza a volte. Tanti sbagliano, si pentono, vorrebbero fare marcia indietro; si rammaricano poi del pentimento, e noi a cercare di aiutarli. Altri preferiscono fingere che il problema non esista; li assecondiamo magari, vedendo quanto si accendano altrimenti, al ricordo degli episodi che hanno condotto a quel groviglio.» Entrava in gioco a volte il denaro: «Chi è segnato oltre una certa soglia può non riuscire a pagare i conti, anche somme modeste». Pesava non di rado la memoria: «Uno in grado di arrangiarsi con la cooperativa scorda magari due scadenze su tre, perde gli avvisi, le lettere». Ostilità di principio perfino: «Ce la farei a negoziare, se volessi; nemmeno tento, odio il vostro progresso, niente luce elettrica».

Il manicomio come casa Cambiavo discorso a volte, con gli studenti, invitavo a tener conto della storia. Il capitolo del «manicomio come casa». «Non ho parlato, fin qui, tanto per farvi un discorsetto»; quelle illustrate sopra rappresentavano «incognite frequenti nel popolo di Basaglia, dopo il 1978». Alcuni infermi esitavano, ecco il punto, a rinunciare alle comodità dell’ospedale, ai suoi ritmi – specie chi stava lì da decenni, dimentico di quand’era entrato. Storie di vita vissuta, era Giuseppe a riferirmele: un infermiere di mezz’età, grosso come un orso, me l’aveva presentato Sabina all’inizio. Era stato appresso alle pratiche di dimissioni, per decine di pazienti, dopo la legge 180; qualcuna anche prima, lavorava già ai tempi in cui Basaglia dirigeva il manicomio di Gorizia, negli anni Sessanta. Mi accennava ai dubbi e alle titubanze di quegli anni.

I racconti di Giuseppe «Di tutto facevamo noi, in veste di operatori» spiegava «per tranquillizzare chi stava uscendo.» «Se c’erano faville nella persona, calde ancora, meglio non continuare a trascinarsi, all’interno dei recinti: così ripetevamo ogni giorno.» «Apri la porta, di cos’hai paura, coraggio… non mancheremo di seguirti da lontano.» Triste che una creatura non annientata accettasse di farsi piallare, spegnere in volto, per settimane ancora, «dentro i soliti edifici, su quei vialetti abbandonati, con poche speranze».

«La libertà è terapeutica» c’era scritto sul muro verso il Posto delle Fragole, il bar dell’ex manicomio. «Qualche paziente era poco convinto, però, assentiva astrattamente; aveva detto sì alla riunione, una settimana prima, senza pensarci, per timidezza: ora che era arrivato il momento temporeggiava, si tirava indietro.» «Autonomia» diceva uno «senza sciamare via di colpo, però, come tante formiche.» «Non manca mai la luce elettrica, al San Giovanni, neanche l’acqua dai rubinetti.» «Dottore grazie, non si sta tanto male in queste stanze, d’inverno; fuori il gelo e la bora.» «Non granché il vitto qui, mi sono abituato comunque; pure il dolce alla domenica, lo spumantino.»

Chi esce ritorna Cambiare non volevano, specie se non c’era un parente fuori, ad aspettarli. Alcuni ritornavano, scusandosi magari, soltanto questione di tempo. La sera, poco mancava fossero quelli di dentro a serrare il lucchetto, al cancello sud, quando il custode tardava a farlo. «Poveri ex colleghi» guardavano fuori «a tribolare coi moduli, su per le scale; ufficiali giudiziari alla porta, raccomandate con fatture, creditori addosso.» «Sto esagerando, non di molto però», scuoteva la testa Giuseppe. «“Lascio oggi pomeriggio il reparto, valigia grande, ho messo dentro tutto: per farvi un favore, visto che insistete”, sorrideva un anziano di Duino l’altro giorno, occhi bassi. Era di quelli che avrebbero preferito non spostarsi: “Meglio al vecchio padiglione, coi suoi odori, ve l’ho detto”. Lo aspetto indietro per domani, Guglielmo si chiama, aria di scusa, neanche aperto il valigione, scommettiamo?»

3 Il grande vuoto

Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. SENECA

L’interdizione Eravamo al dunque. Affrontare i nodi della fragilità con gli strumenti, quelli in auge allora (metà anni Ottanta), del diritto privato? Sempre più mi convincevo quanto irrealistico fosse, come orizzonte. Impensabile far capo a un regime come l’interdizione. Si trattava di una misura messa a punto dai giureconsulti di Napoleone, all’inizio dell’Ottocento. Prospettata, allora, quale rimedio per difendere il malcapitato da sé medesimo. Utile in realtà, già all’inizio, a «tagliarlo fuori dal traffico giuridico»; destinata a proteggere i terzi da incontri inopinati con un cittadino diverso, poco affidabile. Preziosa per tutelare le famiglie; chi era interdetto si vedeva posto, dal tribunale, nell’impossibilità di compiere operazioni rischiose, fuori posto: tali da mettere in forse il patrimonio domestico, contro le aspettative dei futuri eredi.

Impraticabilità, abusi Molti pazienti in realtà non versavano – come avrebbero dovuto, per rientrare nello standard codicistico – in condizione di abituale infermità di mente: tanto da risultare del tutto «incapaci di provvedere ai propri interessi» (art. 414 c.c.). Stavano male, non però fino a quel punto. Niente da fare in queste ipotesi, a meno di non voler calpestare il codice civile. Non pochi individui erano stati incapacitati grazie alla legge manicomiale del primo Novecento, cioè ai suoi automatismi; una volta dentro si finiva spesso così, poco importava il motivo, questione di tempo unicamente: quello

il destino. Certi neppur avrebbero dovuto essere manicomializzati, fin dall’inizio; erano soltanto persone in miseria, un po’ sfasate, con la doccia rotta, senza istruzione, brutte di aspetto. Neanche dopo il 1978 percorsi del genere erano impossibili a realizzarsi, quantomeno per gli anziani: con le case di riposo a fungere da pedana, burocraticamente, verso il passaggio successivo. Dal disturbo sociale all’etichettatura diagnostica; più tardi il trattamento farmacologico, poi l’istituto di cura, sino alla sentenza civile di interdizione. Rimbalzi spesso in automatico, uno dopo l’altro; carriere per nulla eccezionali, sempre verso il basso.

Strumento cattivo Anche per chi soffriva in modo grave, l’interdizione era comunque destinata a produrre danni: cristallizzava le magagne, spesso le amplificava. Seppelliva l’interessato dentro una specie di niente, chiuso a doppia mandata: la persona si trovava privata, quasi irrevocabilmente, di ogni fremito di sovranità. Chi era interdetto non poteva, secondo il codice, compiere nulla di valido; né acquisti, né pagamenti, né donazioni. Operava il tutore al suo posto; all’incapace tutto era precluso, non gli era permesso sposarsi, fidanzarsi, fare testamento, riconoscere i suoi figli. Neppur gli era consentito, secondo certi manuali, comprarsi un gelato, salire su un autobus, prestare gli sci a un amico. Ancor nel terzo millennio più di un giurista continuava a pensarla così: niente acquisti su internet in teoria, neppure un panettone, due calzini. Difficile immaginare, con premesse del genere, seri programmi di risocializzazione: in che modo risollevare – ripetevano gli psichiatri, gli assistenti sociali – creature non in grado di alzare neanche un dito, da sole? Come invogliarle a uscire dal bozzolo, a ritrovare fiducia, in vista di contesti più sereni?

Gli altri esseri vulnerabili Per alcuni versi i «disturbati non interdetti» stavano ancora peggio. Non era infrequente che individui del genere – privi di un rappresentante in grado di agire, al loro posto, di alzare scudi «contro il mondo dei furbi» – finissero per imbarcarsi in iniziative sconsiderate; buttandosi da soli in

qualche trappola. Comprare una costosa bicicletta, esemplificavo, non avendo magari l’uso delle gambe. Ordinare al Postal Market, o ai più moderni epigoni, ventisei vestaglie di raso azzurro, tutte eguali. Scambiare monili di pregio con chincaglierie luccicanti; farlo serialmente, ogni mese. Come nella famosa novella di Andersen, in cui il buon padre di famiglia, diretto in città col cavallo, cede alla prima curva il destriero in cambio di una mucca; barattando quest’ultima poi con una capra, la capra con un’oca, l’oca con una gallina, la gallina con un mucchio di mele marce: riuscendo infine (grazie alla fortuna di aver sposato una donna di buon carattere) a vincere con due inglesi di passaggio, ricchi giocatori, una lauta scommessa circa il fatto che la moglie l’avrebbe comunque, al ritorno a casa, lodato e abbracciato.

Imbrogli, passività Capitava al soggetto fragile poi, neanche tanto raramente, di rimanere vittima di truffe. Da nessuna parte (in Comune, in tribunale) figurava sancito, per tabulas, trattarsi di un individuo con scarse doti di comprendonio; e il cielo ne aveva fatto, magari, un attore allenato a mascherare le sue difficoltà, almeno con gli interlocutori meno perspicaci. Mancava, in ogni caso, un vicario/sentinella in condizione di proteggerlo contro i raggiri. Frequente che il «cane perduto senza collare» si orientasse poi a non tentare, di suo, assolutamente nulla; a non mettersi più in gioco, per nessuna ragione al mondo. Di tutti era questo lo scenario peggiore. «Hai il fegato malmesso, dovresti curarti alle terme, ti serve del denaro; meglio vendere quella motocicletta d’epoca»: si voltava dall’altra parte Livio, non andava in nessun posto. «Il terrazzino sta cadendo, andrebbe aggiustato, i soldi sul conto ci sarebbero»; guardava altrove Pietro, era infastidito al solo pensiero, dopo un mese la ringhiera cascava sulla testa di un passante. «Devi metterti d’accordo con l’Agenzia delle Entrate, dire la tua all’assemblea di condominio»: sbadigliava Zeno, lo Stato finiva per portargli via gli elettrodomestici, il condominio gli scaricava addosso oneri ingiustificati. «Tuo marito vive con un’altra, ti perseguita da anni, vuoi deciderti per il divorzio?»: nessun gesto Miriam, rimaneva con la fede al dito, continuava a subire vessazioni.

Impugnazioni

Difficile far capo, volendo aggirare l’ostacolo, a qualche espediente codicistico. Non bastava certo, per l’ipotesi di errori o di inganni, la risorsa costituita della possibilità di impugnare il contratto. In quell’ottica restavano infatti sguarniti – era la prima, grande, obiezione – tutti gli esseri fragili le cui tenebre non assurgessero, formalmente, a «incapacità di intendere e volere» vera e propria. I grandi anziani, ad esempio, gli svampiti ma non troppo, i sospettosi al limite della paranoia, quelli che non masticavano le lingue; tanti disabili fisici, le persone candide, i creduloni, gli analfabeti di ritorno, i migranti da un deserto lontano. Ma anche per i deboli di mente in senso stretto: non risultando quel deficit «formalizzato», in registri ufficiali, l’interessato si trovava, così la legge, tenuto a dimostrare lui, ai fini dell’annullamento, la «malafede» della controparte (art. 428 c.c.); il dato cioè dell’essersi accorta, costei, di avere a che fare con un essere menomato psichicamente. Prova comunque ardua, diabolica addirittura nelle ipotesi di contratti conclusi per posta, alla tivù, per telefono. Era quello oltretutto un rimedio successivo al misfatto, con i vari inconvenienti del caso: problemi tanto maggiori all’atto pratico – i soldi indietro chi li ridava? – ogniqualvolta il soggetto debole avesse già provveduto a pagare la fattura, in contanti; o a eseguire comunque la propria prestazione.

Procure, abusi Poco sensata d’altro canto, in presenza di carenze mentali, l’idea di invitare l’interessato a far luogo a una «delega», nei confronti di un parente o di un amico. Anche se non tale da giustificare il ricorso a un’interdizione, quella fragilità (ecco il punto) era pur sempre abbastanza marcata, nella maggioranza dei casi, da far dubitare che la persona fosse in grado di sapere a chi affidarsi, per l’incarico; di capire come modularlo. Troppi gli avvoltoi accanto a lei, sul ramo, travestiti da passerotti. Unica eccezione l’ipotesi di atti strutturati «in modo rigido», tali di per sé da non poter nuocere, a nessuno: pagamento di una multa, ritiro di un pacco postale, saldo del conto del droghiere. Altrimenti ogni mandato esterno, ecco il punto, entrava in odore di sospetto; tanto più quanto più estesa figurasse, intrinsecamente, la portata dell’investitura. «Nelle situazioni che seguiamo al Centro è il procuratore» rimarcava Sabina «a guadagnarci di regola.» Poche numericamente, a fine partita, le vittime pronte a lamentarsi?

Niente più che una conferma: essere annebbiati significava non accorgersi del male di solito; mancava la forza, economica e psicologica, per sostenere una lite.

Gestioni di fatto Non meno illusorio l’approdo a un istituto come la «gestione di affari altrui» (art. 2028 c.c.): A che prende, giorno per giorno, micro-iniziative negoziali a favore di B, per sopperire al vuoto o all’impotenza di quest’ultimo. Era il caso della coinquilina che pensava lei, durante l’assenza dell’amica di ringhiera, momentaneamente in ospedale, a dar da mangiare al gatto, a firmare l’avviso per le raccomandate, a innaffiare le piante. Si trattava dell’ombrello da sempre utilizzato per conferire legittimità alle operazioni compiute, a favore degli ex manicomializzati, da tanti operatori dei Centri, e dagli stessi congiunti. Facile cogliere però i limiti di vie d’uscita simili: nessun controllo sul merito degli interventi, un tran tran tanto opaco quanto arbitrario; riluttanza del gestore a impegnarsi, di suo, nelle situazioni meno ovvie, stante il timore di andare incontro a noie. Impossibilità di fronteggiare, a quella stregua, le emergenze più gravi; quelle segnate dalla necessità di una forma solenne, ossia di una sottoscrizione (a meno di non voler compiere dei falsi). Che fare quando risultasse indifferibile modificare qualcosa, sul serio, in profondità, trasformando o rivoltando quell’agenda?

Un vuoto da riempire In conclusione: necessità, per un ordinamento ispirato a principi di solidarietà, non tartufesco, di introdurre nuove modalità di salvaguardia, a beneficio dei più fragili. Risposte scevre di risvolti infamanti, «stigmatizzanti»; una linea tagliata secondo le caratteristiche, anagrafiche e spirituali, di quella certa persona. Col tribunale chiamato a far luogo, in caso di necessità, per il tempo strettamente indispensabile, a qualche sospensione di sovranità; secondo le minacce gravanti su di lei. Soltanto «quelle» limitazioni di diritti e libertà, nessun’altra: vestiti fatti su misura, come già allora si diceva. Svariati paesi europei, senza poter vantare una legge (anti)manicomiale come la nostra 180, avevano già provveduto in quel senso. La Francia, ad

esempio, ove sin dalla fine degli anni Sessanta era stata introdotta nel code civil la «Sauvegarde de justice». L’Austria che, all’inizio degli anni Ottanta, aveva modificato il suo codice civile, abrogando l’interdizione e introducendo la cosiddetta Sachwalterschaft. Si trattava di vedere quali combinazioni disciplinari, miscele di assetti eventualmente, fossero le migliori per l’Italia. L’impegno era di pensarci allora, questo il criterio di lavoro per me, non appena possibile. Per il momento avrei tentato, visto che apparivano più familiari, approfondimenti intorno alle questioni della responsabilità civile: chi era «diventato matto per colpa di un altro» poteva, in certe ipotesi, ottenere il risarcimento del danno? Così la mia carriera di «debolologo» era incominciata.

4 Esistono al mondo persone cattive

In cielo fanno economie: le candele sono tutte spente. WILLIAM SHAKESPEARE

Chiavi di lettura È tempo di allargare ora il discorso; penso agli incontri che più hanno segnato il corso delle mie ricerche – viaggi in biblioteca, confronti con non giuristi – durante gli ultimi decenni. Molte le tematiche che rivelavano affinità significative, fin dall’inizio, col mondo della vulnerabilità: e che appaiono in grado oggi di offrire, sulle varie questioni, spunti preziosi. Forme dell’umana cattiveria, per cominciare: non è raro scoprire odio e protervia, a monte delle pesantezze che qualcuno accusa, nella sua quotidianità. «Ha agito di proposito, in cuor suo è un malvagio, nessuna svista casuale!»; spontaneo chiedersi se non si tratti, allorché la vittima parla così, a ragion veduta, di elementi in grado di fare la differenza. Spesso il pensiero correrà, per il danno sofferto, a un «ristoro pecuniario»: misura la cui applicabilità a quel comparto – famiglia, tenerezze, scuola, social, tempo libero – potrebbe incontrare però qualche ostacolo, sulla carta. Grazie al dolo, all’intenzionalità del gesto lesivo, una salvaguardia tornerà a essere plausibile, effettiva?

Fare il male coscientemente Ricordo gli utenti del Centro Sant’Ignazio, alcuni si esprimevano già in quei termini, spontaneamente: «È stata Carla, quello che di brutto ha combinato in Sardegna, apposta, verso la rottura del fidanzamento, ad avermi ridotto così». «Ero meno strambo, più stabile d’umore, prima che il direttore e i colleghi iniziassero a perseguitarmi, in ufficio, coi clienti; mettendomi al bando su tutto.»

«Sento da allora queste fitte, alle tempie» si rivolgeva un altro a un padre immaginario. «Sei tu babbo che mi hai fatto stare male, scivolare verso il basso; giorno per giorno, sempre di più, coi tuoi metodi.» Ero d’accordo anch’io, nella mia veste di studioso dei danni; rispetto ai «materiali forensi» in cui m’imbattevo, periodicamente: vite vissute e filtrate in tribunale, scorrendo le riviste di diritto. Silvia F., ad esempio, una ragazza emiliana concepita, in tempi in cui farmaci adatti non esistevano, da genitori consapevoli di essere, entrambi, malati di sifilide: e che l’avevano fatta nascere così, nove mesi più tardi, già segnata dal morbo. Marco T., un giovanotto piemontese: aveva ricevuto, cinque anni prima del processo, un colpo secco alla testa, durante una rapina in banca; svenuto a lungo, curato in ospedale poi, alla meglio, la mente e lo spirito non erano più stati in lui, da allora, i medesimi. Gioia L., una siciliana adulta, età indefinibile: in perfetta salute, dentro il grembo della sua mamma, sino a poco prima di venire alla luce, quella volta; coi piedini girati verso il basso però, brutta posizione per nascere: malformata per sempre, poco più tardi, a causa di errori commessi dai medici in sala parto (cordone ombelicale intorno al collo, attorcigliato strettamente, due minuti di seguito). Varie, ero convinto già quella volta, le direttrici da seguire.

La psiche ha le sue ragioni… Ciò che rende il sofferente «psichico» tanto più esposto alle insidie circostanti, rispetto a chi subisca lesioni soltanto «fisiche», è l’intreccio, a 360°, lungo cui la sua condizione appare smorta, infelice. Sotto ogni angolo della responsabilità, ben più che nell’altra ipotesi. Spese di cura. Solo in parte neutralizzabili qui i guasti di partenza, quasi per definizione. Gli psicofarmaci si presentano costosi, zeppi di effetti collaterali, a volte imprescindibili, neppur sempre riconosciuti dal Servizio Sanitario; l’assistenza privata è tra le più onerose, azzardate; le psicoterapie, quand’anche fondate, corrette a livello tecnico, si annunciano ardue, interminabili. Gestione dei beni personali. Chi accusi difficoltà di quel tipo non brillerà, di regola, per conoscenza del mercato, astuzie finanziarie. Giocherà a carte scoperte quando non dovrebbe, sarà smemorato nelle trattative; poco sensibile ai risvolti fiscali, amministrativi, impacciato nei rapporti con banche, indiscreto circa i propri segreti. Lavoro. Vicine allo zero le occasioni d’inserimento, per un fragile

psichico: alti i rischi di essere demansionato, messo fuori, posto in cassa integrazione; il collocamento obbligatorio come se non esistesse. Il binomio follia-genio destinato a confermarsi, ancora una volta, poco più che una fiaba, buona per il giorno di Natale; come provano le biografie di artisti e scienziati i quali mostrano, dopo lo sprofondamento nel «buio mentale» (van Gogh, Poe, Schumann, Ezra Pound, Dino Campana, John Nash, Sylvia Plath), di aver realizzato poco o nulla. Utilità del risarcimento. Pur inidoneo a restituire la salute mentale, perduta o mai sbocciata abbastanza, il denaro varrà a innalzare di solito, nelle giornate dell’offeso, non pochi standard. Accesso a cure sofisticate, case nuove in cui abitare, porte aperte con i medici; rimborsi agli amici che verranno a fare visita, attività culturali di supporto, fiori freschi ogni mattina. E alla pronuncia che ammetta tutto ciò non mancheranno, d’altronde, risvolti di consolazione, di empatia; come se i giudici affermassero: «Non sei a posto con l’intelletto, Manlio F., lo riconosciamo; la somma che incasserai è anche per dirti come l’ordinamento sia dalla tua parte, faccia il tifo per te». «Proclama questo tribunale come tu abbia ragione, vediamo bene che hai sofferto, si avverte quanto ti maceri dentro; non sarai più solo coi tuoi spettri, a far tempo da oggi: che l’appoggio espresso in questa sentenza civile sia una “targa argentea”, che potrai incorniciare, un lenimento.»

Due film Prima di entrare nei dettagli dell’illecito – produttivo di follia – possiamo ricordare qualche film. Angoscia, anzitutto, una pellicola americana degli anni Quaranta, di George Cukor, che valse l’Oscar a Ingrid Bergman. In una grigia Londra di fine Ottocento un uomo, tombeur de femmes, losco e bugiardo, cerca di avere mano libera nella ricerca di alcune pietre preziose, che sono nascoste fra le cianfrusaglie di un sottotetto: sopra l’appartamento in cui l’uomo vive, da un po’, con la moglie. Deve sviare e ingannare quest’ultima, allora, circa il senso dei rumori che lui stesso produce, ogni sera, quando va segretamente alla caccia dei gioielli; comincia a farle credere, così, che quei colpi e fruscii in soffitta non esistono, che nessuno sta accendendo sopra una luce a gas; che è lei a essere una visionaria, fuori dal mondo, colpita da allucinazioni uditive. Cosa che gli riuscirà pian piano, drammaticamente, quasi del tutto. Oppure I diabolici, un film francese del 1954, di Henri-Georges Clouzot. Due amanti, un direttore scolastico e una professoressa, nella grigia campagna francese del secondo dopoguerra, inscenano un finto uxoricidio

per terrorizzare la moglie di lui, proprietaria della scuola. Vogliono farla ammattire, sapendola malata di cuore, contano sul fatto che creperà presto di infarto; a tal fine l’amante professoressa convince la proprietaria vittima predestinata, di cui è apparentemente amica, ad annegare in una vasca da bagno il marito (suo amante e complice). Il che avverrà in effetti, solo che l’omicidio è finto, un mero trucco, è la moglie cardiopatica l’unica a crederlo vero. Le cose andranno di male in peggio poi, dentro il vecchio istituto: fra inganni e sotterfugi di ogni genere, escogitati per spingere sempre più la poveretta verso il baratro; contando sul colpo apoplettico, che ci sarà in effetti, anche se soltanto a metà.

Trame segrete Pescando ora fra le decisioni giudiziarie, ecco qualche figura ricorrente, indicativa del trend qui in esame. Frustrato dalla fine di una relazione amorosa con una donna, Linda, che l’ha lasciato per stanchezza, un uomo decide di vendicarsi. Vuol punire lei facendola «andare fuori di testa»: inizia quindi ad aspettare giornalmente l’ex compagna, sotto casa, a pedinarla da lontano, ogni tanto ad affrontarla in posti deserti; camminandole un metro dietro e sibilando insulti, minacce, magari di rapimento dei bambini. Adotta travestimenti utili a impaurirla, infila biglietti morbosi sotto il tergicristallo, invia pacchi postali con dentro cose nauseabonde. Crea occasioni continue di incontri nei posti più impensati, con smorfie e gesti di morte. Una moglie separata,Velia, affidataria dei due figlioletti, piena d’astio verso l’ex marito, sapendolo ansioso di carattere, decide di colpirlo nel suo equilibrio mentale, come padre; confida che, non appena i giudici constateranno nell’uomo i segni del disturbo, le sarà facile ottenere la custodia definitiva dei bambini; spera di riuscire anche a mandarlo in carcere. Organizza a tal fine accuse di pedofilia incestuosa, induce i figlioletti ad appoggiarla nella messinscena, allestisce con l’aiuto di un hacker finti archivi pedopornografici. Dissemina tracce e falsi segnali, favorisce il radicarsi di un processo penale. Una cosca mafiosa della Sicilia, che esige da un commerciante il pagamento del pizzo, decide di atterrire con ogni mezzo la vittima, Ugo, riluttante a obbedire, sino a farle perdere il senno. Picciotti vari si dedicano a seminare, giorno e notte, annunci e presagi funesti; lasciano messaggi ambigui, con sangue di animale, nei posti più impensati, spargono segni del proprio passaggio in giardino: incendiano automobili, moltiplicano le

telefonate notturne, mute, con sussurri. Effettuano piantonamenti indicativi, inviano qua e là crisantemi e corone da morto; sparano colpi di pistola, contro i muri, uccidono animali domestici.

Dolo generico Diversi i casi in cui l’agente – senza voler propriamente infierire sull’altrui integrità – non si preoccupi dell’eventualità che qualcuno possa, in seguito all’evento arrecato, riportare delle turbe mentali. La responsabilità sarà sempre ammissibile, ecco il criterio da seguire, in ipotesi contrassegnate da tassi di offensività maggiori del consueto, rispetto a vittime non in grado di difendersi, dinanzi a condotte dal cinismo esasperato. Indicativa come figura il mobbing, in materia di lavoro. Quando accade che un dipendente venga fatto oggetto, mese per mese, di gesti volti a privarlo di qualcosa: prima la stanza riservata, poi il ficus Beniamino, un mese dopo certe pratiche importanti, qualche provvigione, alcuni poteri rappresentativi; sino allo spostamento a un ramo minore dell’impresa, al trasferimento di sede, magari in posti lontani, pur senza formale licenziamento. Con tutto che va sempre più in cenere, attorno alla vittima, tra i sorrisetti dei colleghi più giovani. Altro esempio lo stress, misto a vergogna, che riporterà una moglie oppressa giorno e notte, dal marito, non autorizzata a uscire di casa, coartata nelle sue convinzioni religiose, impossibilitata a vedere i suoi genitori, indotta a pratiche abnormi con altri uomini. Oppure (ecco più tardi gli squilibri) una figlia adolescente cui venga impedito di uscire, che si veda obbligata a vestirsi in un certo modo, a essere gentile con persone che non le piacciono, conculcata anche nella vita sentimentale. O ancora (ecco vent’anni dopo le malinconie) un tredicenne strattonato quotidianamente dal padre, costretto ad assistere alle liti incessanti dei genitori, sorvegliato oltre misura nei giochi, nelle letture, canzonato nelle sue prime pulsioni sessuali, non strettamente ortodosse.

Persone malintenzionate Vengono poi le iniziative di chi effettui, a danno di un gruppo, di una persona in particolare, comunicazioni distorte, patologiche; seguite o meno da violenze. Qualcuno che scelga, ad esempio, di alimentare assurde illusioni in campo medico, di vendere patacche curative, applicazioni strane, polverine,

facendo soldi con l’altrui disperazione. O un «potente» il quale diffonda notizie false, magari di sapore politico o economico, sapendo in partenza che la fake news, benché destinata ad avere vita breve, entrerà in circolo con sufficiente velocità; finendo per essere creduta da un numero abbastanza alto di persone: il che basterà a demolire l’immagine del bersaglio prescelto, contingentemente, tagliandolo fuori da quella competizione. Oppure un «intrattenitore» o uno showman che, profittando delle risorse dell’odierna tecnologia, scelga di agire come Orson Welles nella famosa trasmissione radio del 1938; quando il grande regista, allora esordiente, riuscì a far credere a migliaia di americani, con conseguenze tragiche per non pochi di essi, che fosse in corso un’invasione di marziani. In generale un «furfante» o un vizioso che, sotto questa o quella maschera rassicurante, si dedichi a forme di sopraffazione; che allestisca o gestisca campi di filo spinato, che rimetta in auge vecchi metodi di contenzione («strozzine», asciugamani bagnati sul viso, che non fanno respirare, torture psichiatriche a buon fine, in teoria), che molesti sessualmente disabili. Chiunque coltivi pratiche di oppressione, puntando magari sul vetriolo per vendicarsi, ossessionando il suo vicino, contagiando serialmente le sue amanti con brutte malattie; passando il tempo a perfezionare nuovi metodi di bullismo, di dileggio antiuomo.

Negligenze, imprudenze Quando il fatto coinvolga beni di primaria importanza, nella scala del diritto, potranno assumere rilievo anche condotte semplicemente «colpose», negligenti o imprudenti. Così, abbiamo visto, per una vittima la quale risulti ferita alla testa, magari con fratture del cranio e lesioni al cervello; o nell’ipotesi di concepimento di un feto malformato, allorché l’ecografista commetta sbagli di diagnosi, con la madre impossibilitata a esercitare poi il diritto di «autodeterminazione procreativa». Spicca ancora, in medicina, il caso di un «trattamento sanitario obbligatorio» attuato senza giustificazione; quello di errori commessi nell’esecuzione di un elettroshock; quello di scorrette prescrizioni farmacologiche a un tossicomane. Ampio il settore dei malesseri destinati a svilupparsi, nella psiche della vittima, sulla base di un «trauma violento»; che provenga dal contatto con un reato sanguinoso, per strada, da un incidente drammatico cui si è assistito, in montagna, da scene di un incendio improvviso, nella casa di fronte (l’autore

del fatto iniziale sarà tenuto per l’intera catena?); o derivante dall’essere la persona rimasta, a lungo, accanto a fonti o sostanze cancerogene (il disturbo psichico sarà risarcibile anche se non si è generato, poi, alcun tumore?). Oppure le alterazioni che si debbano a un tentativo di omicidio, visto o sentito per caso, allo spavento per un’esplosione, a un naufragio in cui la vittima ha perduto un amico. Lo stesso nel caso di un bambino il quale venga a subire gravi lesioni, anche estetiche, a seguito di una caduta nel vuoto, per il crollo di una scuola, come effetto della morsicatura di un cane feroce, al volto magari. Particolarmente importante il settore delle aggressioni compiute, rispetto a soggetti di spiccata esilità o gracilità, nell’ambito di qualche «istituzione totale»: prigione, casa di cura, manicomio giudiziario, seminario, hospice, caserma, riformatorio, comunità e luogo di accoglienza chiuso. E si può andare dall’ipotesi di un errore giudiziario, alle figure del sovraffollamento carcerario, al caso dell’ingiusta contenzione, all’eventualità dei torti patiti nell’ambiente di lavoro: ritmi eccessivi, vicinanza all’amianto, demansionamenti ottusi.

Doppi legami Criteri analoghi, per non dimenticare una sezione classica nei manuali di psichiatria, varranno nei casi di double bind. «Caro, esci pure a distrarti anche stasera con gli amici, e non preoccuparti se me ne resto qui sola a casa a piangere.» Comunicazioni sghembe allora, tortuose, fondate su un paradosso. «Ignorate questo messaggio»: un ordine che contiene indicazioni distinte, inconciliabili fra loro, nessuna delle quali osservabile dal ricevente senza calpestare l’altra. «Sii spontaneo»: qualora il destinatario disobbedisca, sarà un palese trasgressore, ma tale resta anche se obbedisce, visto che fa così qualcosa di non spontaneo. Negli esempi in letteratura – creature segnate da piccole maledizioni, inconsapevoli del nodo che le attanaglia, allorché aprono bocca – manca di solito il requisito idoneo a giustificare, tecnicamente, una responsabilità. Nessun dubbio sulla necessità di una condanna riparatoria, tuttavia, laddove emergesse da un lato che l’offuscamento dissociativo non era completo, in chi parlava, dall’altro che i messaggi erano dettati da malevolenza, rancorosità. Basta immaginare un mix di scarsa innocenza e di compiacimenti affabulatori in esempi come quello famoso della «sorpresa al lago». Una

madre va a trovare il figlioletto in colonia, Nino, dieci anni, arriva inaspettata, il figlio la vede da lontano, resta immobile per lo stupore. Lei incoraggiante: «Sono qua carino, sorpresa! Cosa fai lì impalato?». Il bambino spicca una corsa, le getta le braccia al collo, comincia a stringerla felice, e lei irrigidendosi: «Attento piccolo, mi stropicci il colletto, è di seta, mi stai sciogliendo il nodo». Il bambino blocca ogni trasporto, imbarazzato, e lei: «Ah, ma ha ragione allora la tua mamma a pensare che non le vuoi più bene!». Non è difficile convincersi che i danni indotti da torsioni e labirinti del genere, per lunghi periodi, dietro una porta chiusa, non sarebbero affatto irrisarcibili.

5 Estreme sofferenze

Se l’infelicità ama essere in compagnia, certo essa ne trova a sufficienza. HENRY DAVID THOREAU

Un uomo si uccide «Mi uccido perché non mi avete amato, perché non vi ho amato… perché i rapporti tra noi erano allentati, per rinsaldarli. Lascerò su di voi una macchia indelebile.» Dal disagio mentale al suicidio, quale esito finale del torto; non si è trattato, se ripenso al mio percorso di studi, di un passo strano o innaturale da compiere. Le parole di Drieu La Rochelle, quelle con cui si conclude Fuoco fatuo (seguirà l’addio di Alain, prima di schiacciare il grilletto: «So bene che si vive più da morti che da vivi nel ricordo degli altri. Voi non pensate a me, ebbene, non potrete dimenticarmi mai più!»), aiutano a introdurre l’argomento.

Prime obiezioni Mi ero subito accorto di come alcuni tratti, tra quelli emersi studiando l’induzione alla follia, valessero anche rispetto a chi si «autoelimini»: indiscutibilità di punizioni in caso di malizia, tendenziale incidenza di un animus generico, ammissibilità del risarcimento in certi casi di colpa, sia pur grave. Scogli rispetto a una possibile condanna non mancano, tecnicamente, sul piano civile, allorché si parli di suicido; nessuno tale però da risultare determinante. Non la circostanza che ci si trovi, a livello antropologico, di fronte a una precisa «coscienza e volontà» della vittima; elemento idoneo a spezzare, in teoria, il «nesso eziologico» rispetto all’illecito iniziale.

Una responsabilità non potrà non esserci, per principio, allorché l’offesa a monte risulti greve, insidiosa più del consueto: e il suicidio riguardi individui di spiccata labilità psicofisica, non in grado di sottrarsi a voci arcane, sottili; a richiami suggestivi dall’esterno. Neppur lo è il fatto, aggiungiamo, che l’interessato sia ormai defunto al momento del processo. Non sempre un morto, prima di tutto, ci sarà davvero; il progetto autodistruttivo può non andare in porto (quanti vogliono uccidersi davvero?), toccherà allora all’interessato sopravvissuto domandare, in merito a quanto sia venuto riportando di negativo, un risarcimento. Nei casi di «suicidio riuscito» spetterà invece agli eredi agire in giudizio, per i riflessi che quella scomparsa cagioni loro; voci lesive che la circostanza di una morte tragica, unitamente al dato di un’addebitabilità «a titolo di dolo», varrà a rendere particolarmente intense di norma, per qualità e quantità.

Suicidio assistito Andranno escluse in linea di massima sanzioni, civili e penali, nei casi di assistenza – al suicidio – prestata a favore di un parente o di un amico il quale accusi spasmi insopportabili; e che abbia scelto l’approdo alla morte quale via per sottrarsi a quell’incubo. La materia è come si sa in forte evoluzione nei paesi europei; dove permane comunque, con diversi gradi di severità, la punibilità dell’aiuto al suicidio dettato da motivi di filantropia. Filo prescrittivo dovrebbe essere, qui, il tendenziale scagionamento per chi abbia scelto di non voltare le spalle a una persona che soffra in modo grave; nei confronti della quale la scienza medica appaia disarmata, sostanzialmente, pure a livello di terapia del dolore; che non abbia alcuna possibilità di guarigione o miglioramento; la cui permanenza in vita prescinda da un trattamento di sostegno, prestato meccanicamente; che non desideri, avendolo scritto o detto in modo espresso, continuare più a vivere; che non sia in grado, per ragioni fisiche o d’altro genere, di uccidersi da solo. Come non vedere in effetti, anche se differenze possono non mancare, la crudeltà di un assetto nel quale l’aiuto a porre fine all’esistenza – dinanzi a sofferenze devastanti, di pari grado – venisse concesso oppure negato a seconda della dipendenza o meno, per il malato, da qualche «aggeggio ingegneristico»? Un paziente non vincolato cioè ad alcun macchinario ospedaliero per la sua sopravvivenza, e che continuando a rimanere al mondo

soffra però terribilmente, senza che i farmaci riescano a lenire le sue fitte, in termini apprezzabili, non potrà venire aiutato in nessun modo?

Intenzionalità Varie le situazioni destinate ad assumere rilievo, nell’ottica di un proposito di nuocere. Così nell’ipotesi di chi si veda istigato a uccidersi da un altro, il quale lo domina dall’esterno, lo soggioga in varia maniera. Due i riferimenti in particolare evidenza qui: il tasso di vulnerabilità psicologica di chi si tolga la vita; la misura in cui l’azione della «controparte» abbia, in concreto, facilitato quell’esito. Spiccano le figure del suicidio religioso/militare, allora, sullo sfondo magari di un lavaggio del cervello; comunque i casi di morti collegate a gesti di terrorismo, di agguato o guerriglia cittadina, in qualche scenario caldo del terzo mondo. Oppure, per citare esempi recenti, le guide web volte a irretire e asservire l’utente, con un copione di ordini successivi: tipo il rituale della «balena blu», vero o immaginario che sia, in cui qualcuno agganciato su Facebook decide di far suo il modello proposto dal conduttore, impegnandosi a compiere giornalmente gesti contro se stesso («tagliuzzati le braccia», «svegliati all’alba», «guarda un film horror», «tatuati un cetaceo azzurro sul polso»), fino a quando non sopravverrà l’ordine di sopprimersi. O anche i messaggi, sempre su internet, in cui il tutor occulto del «gioco senza ritorno» chiede al destinatario di accordarsi con lui, onde definire la data in cui quest’ultimo provvederà ad ammazzarsi, meglio se in cucina, accanto al frigorifero, così da consentire al primo di mangiarlo, in salse varie, nei giorni successivi, pezzetto per pezzetto. Oppure le autodistruzioni di massa, sovente col mezzo del veleno, misticamente attuate, in tante dosi singole, all’interno di una setta religiosa: con localizzazioni esotiche, spesso del Centro America, originali inni al demonio, simbologie truculente, guru prorompenti e logorroici. In generale, il campionario dell’induzione alla morte avente a che fare con minori e adolescenti: specie i casi che si svolgano nell’ambito di un branco, dominati da giuramenti di sangue, messe nere, sacrifici di animali; con eventuali pratiche di bullismo, letture collettive di profeti del male, di ogni tempo e luogo, sfide sessuali, incitamenti alla tossicodipendenza, assalti a barboni innocui e ubriachi.

Tre lapidi Angelo F. «Amavo i miei studenti e ho sempre cercato, come professore di filosofia, di fare del bene: li ho accolti a casa, sono andato in viaggio con loro, abbiamo scritto poesie insieme. Un collega invidioso e bigotto, che mi odiava perché avevo respinto le sue profferte, ha costruito a un certo punto un castello di false prove, accusandomi di invadenze emotive, sconcezze archiviate nelle pennette digitali, segrete intimità coi ragazzi; nessuna calunnia è mai stata più falsa e tuttavia, per colpa di un giudice prevenuto, indovinavo già che sarei stato indagato, condannato alla fine. Temevo il processo, così sono fatto, poco somiglio a un leone della savana, le mie qualità personali sono altre: ho concluso che non mi restava altro che uccidermi.» Loris D. «Ero stato picchiato dai secondini cinque giorni di seguito; volevano facessi i nomi, non sapevo neanche di che parlassero, avevo deciso comunque di non dire nulla: sin lì c’ero riuscito. Abili a picchiare e a torturare, non erano neanche degli sconosciuti per me, sapevo già come non restasse mai il segno sulla pelle. L’ultimo giorno hanno annunciato che avrei beneficiato di un giorno di pausa, poi avrebbero ricominciato, più duramente; questa volta non ero sicuro di resistere, mi era riuscito di sottrarre un piccolo tagliacarte seghettato dalla stanza degli interrogatori; l’avrei fatta finita una volta tornato in cella, tagliandomi le vene.» Dorina L. «Sono nata con un ritardo mentale, nemmeno terribile, ero un po’ storta di corpo; mi mancava anche il naso – in senso anatomico, di protuberanza – avevo soltanto i due buchi per respirare: dall’età di dieci anni la mia famiglia mi ha chiuso in casa, non mi ha più fatto uscire. Vivevo di sopra nella mia stanzetta, si vergognavano di me, con quelli del paese; a un certo punto hanno raccontato in giro che ero partita, di notte, per raggiungere dei parenti in Australia. È una casa isolata, a mezza costa, una vera strada non c’è dal basso, nessuno passa per caso; avevano sigillato le finestre, internamente, con delle assi, quando scendevano all’emporio mi legavano con una catena, tipo barca da pesca. Avevo capito che sarebbe continuato per sempre così, ho deciso di togliere il disturbo; sapevo dove tenevano il veleno per topi, un giorno che mi avevano portato giù ero riuscita a prenderne una dose, abbondante, di nascosto.»

Casistica minuta Ecco sopra, in stile Lee Masters, estrapolate da raccolte di giurisprudenza di vari paesi europei, tre storie in cui appare riscontrabile, a monte del

suicidio di qualcuno, il fatto doloso di un altro soggetto. Si potrebbe continuare con gli esempi «crudeli»: molestie avvilenti del datore sul luogo di lavoro, licenziamenti ingiuriosi che macchiano l’immagine del dipendente; lesioni fisiche arrecate appositamente, per strada, in un locale; oppure maltrattamenti ripetuti nel focolare domestico, imposizioni irragionevoli nel quadro di un «diritto-dovere di educazione». Ancora, beffe e irrisioni alla confessione del figlio di essere un diverso, un «amante dei languori sconosciuti»; minacce arroganti da parte della pubblica amministrazione; figure di «nonnismo» e vessazioni sadiche, al centro addestramento, all’istituto femminile, in convento. Scopo primario dell’autore non era, in queste ipotesi, l’indurre qualcuno a uccidersi? La responsabilità scatterà egualmente ove i fatti che hanno innescato la serie oppressiva figurino, ecco la conclusione, essere stati compiuti «ad arte», con «modalità odiose e arroganti».

Area della negligenza Nonostante i segni di forte abbattimento, tali da far pensare al peggio, un medico si disinteressa della sua giovane paziente, Ines, la quale ha da poco partorito un bambino. Un mese dopo la neo-mamma porrà fine ai propri giorni gettandosi dalla finestra, al sesto piano. A uno psicoterapeuta accade, durante una festa al Comando, di fare conoscenza con una signora; si tratta della moglie del colonnello dell’Esercito, Ombrini, che egli ha in cura da qualche mese: un militare di carriera che soffre, anche a causa di lei, di problemi psichici. Di nascosto il professionista inizierà una relazione intima, appassionata, con la donna, vogliosa di novità erotiche, mondane; il colonnello viene a saperlo, a un certo punto, la scoperta avrà l’effetto di schiantarlo del tutto, psichicamente, inducendolo una domenica a spararsi un colpo alla tempia. Un detenuto solo in cella, Serse B., è vittima di attacchi di tristezza e pessimismo, la cosa è sempre più evidente: da tempo va così, si alternano in lui fasi di grave scompenso; sa che sarà presto processato, teme di non venire assolto, l’imputazione è seria. In più gli hanno comunicato che la moglie ha deciso di lasciarlo. Una mattina, il secondino incaricato di sorvegliarlo dimentica sul letto una prolunga elettrica: al pomeriggio l’uomo sarà trovato impiccato. Sicuro di avere un tumore al cervello, a uno stadio avanzato, una domenica a mezzogiorno un pensionato, Lucio G., si butta sotto il treno (piccola linea regionale): emergerà presto che la diagnosi – «poco tempo da

vivere», «gravi sofferenze in vista» – improvvisata dal vecchio medico di famiglia, una settimana prima, al di là di oggettive risultanze, era priva di fondamento; non esistendo in realtà nell’uomo alcun male così estremo, disperato. All’operaio di una fonderia, Renzo D., vengono affidate per la durata di qualche mese lavorazioni di inusitata tossicità, pericolosità; l’interessato ne uscirà con gravi stress psicofisici, crisi di panico, ritorni epilettici, fino al suicidio conclusivo, avvenuto con una pesante dose di psicofarmaci. In nessuna di queste situazioni, che sono state tratte dalla giurisprudenza del secondo dopoguerra, non soltanto italiana, l’azione o l’omissione si accompagnava a sadismi particolari, a vera premeditazione. Ragioni di cura o sorveglianza, fattori collegati a violenze pendenti, elementi suggeriti dal riscontro di stati di vulnerabilità: svariati i motivi per cui gravava sul convenuto, il «dovere professionale» di immaginare il peggio, minuto per minuto, di evitare distrazioni. Nella misura in cui la violazione sia apparsa contrassegnata da facilonerie o disinvolture, più o meno clamorose, una responsabilità sarà inevitabile.

Pedofilia Le «attenzioni non platoniche» verso un bambino; ecco un settore in cui i fantasmi, sin qui incontrati, verranno tutti a ingigantirsi. Siamo di fronte a un danneggiante pieno di risorse, uno che sa come gestire le sue prede. Non gli sfugge che lo condannerebbero, senza remissione, qualora sapessero; appartiene a un altro zodiaco però, cognitivamente, sensualmente: se punito capirà fino a un certo punto. «Non mi ero resa conto all’inizio» così una delle vittime, Mara, «è sempre apparso sicuro di sé; gentile nei modi, una parte di me era sola, errabonda, lui mai lontano o indisponibile: come dirgli di no?» Ha una moralità tutta propria, l’«amico dei bimbi», codici diversi di condotta; se qualche soprassalto c’è, non dura a lungo, è poco influente. Si rende conto di ciò che fa, ne trae diletto, pur con vaghi scoramenti; non lo vede come un vizio, segue comunque i suoi impulsi. Maestro di vita, «schietto educatore», così si definisce: non comprende di che l’altra possa lamentarsi; è avvezzo a porgere bene, a rassicurare, sdrammatizza sempre.

Nella stanzetta «Pressoché sepolti eravamo là dentro» ecco il minore, Omar, «a nessun

altro era concesso entrare; c’era una parte di me come sospesa, sotto anestetico, duravano poco i frammenti di lucidità.» Delitto facile, un gioco da bambini. Rare le situazioni di comunanza allargata, di promiscuità con estranei: talora è uno di casa il «mostro», del campo giochi, del giro più stretto; ecco allentarsi nel bersaglio ogni anticorpo. I fanciulli si sa quanto ingenui siano, per natura: spesso in cerca di un presidio, di nascondigli, lusingati dalle attenzioni; chi sappia maneggiare tasti simili ha vita facile. La fase di seduzione può durare a lungo: lenti inganni, uno scivolamento progressivo; talvolta cala subito l’artiglio invece, già alla prima occasione; al predatore basta tendere una mano, mellifluamente, porgere una guancia, un dolcetto innocente. Il frutto casca. «Quel pomeriggio è incominciato», così Emma, «davanti alla tivù; ero infreddolita, fuori avevo preso la pioggia. Ha iniziato togliendomi le calze, una dopo l’altra, strofinandomi i piedi: aveva dita energiche e morbide insieme.» Quasi mai i genitori si accorgono di qualcosa; presto il minore si abitua a recitare, a mascherarsi. Deve gestire quella doppia vita: inserirà a metà fra i due estremi, tra orrore e normalità, una stanza di «decompressione», cinque minuti; con travestimenti se occorre, rituali appositi. Usa le proprie scontrosità, da piccola vittima, per confondere la pista; copre i sintomi peggiori, banalizza gli altri: tutto funziona poi perfettamente. A tavola scuse di tipo medico, sportivo: «È un periodo così, casco per terra, ho poche forze», così Nello; un insieme di smorfie, disorienta gli interlocutori; gran polverone, il vecchio medico di famiglia scuote la testa, «Ragazzi!». «Prendere in giro il mondo, niente di più semplice»; convinti come sono, gli adulti, di non dover assillare troppo i giovani con le domande. Dopo un po’ smettono: «Sarà l’età, ricordi anche tu come eravamo; pazienza occorre, oggi poi…».

Impatti Proficue le terapie, quando il momento arriva, dure però da affrontare; per denunciare bisogna conoscere, ma i ricordi sanguinano. Via via che le immagini escono dal buio, scomparirà il veleno? Quasi mai, è vero il contrario; bisogna cercare di «ricategorizzare» i vissuti, trasformarli: da qualcosa che si è subìto, indegnamente, a realtà che la vittima possa governare, battezzare di nuovo.

Tanti i segnali che il corpo emette, le amnesie sono ostinate tuttavia; e rischiano senza una buona cura di calcificarsi. «C’era come un muro», ecco Vivian, «spesso quattro metri, dentro di me. Qualcosa ribolliva sul fondo, emetteva ondate strane, vapori allo zolfo; l’istinto era di non volerci entrare. Eppure era la cosa da farsi, secondo la psicologa.» A lungo era durata la fase del torto; anni interi, una volta la settimana, venti minuti ciascun incontro: le offese arrivavano al grembo, ogni volta, al cuore, hanno colpito gangli delicati. Lembi nati per un certo traguardo, di requie e di gioia, piegati verso opposte direzioni; non se n’era accorta, la vittima, fiduciosa di gestire ogni rivolo: «Faccio di me quello che voglio, sarò forte». Non è andata così, tutto era più insinuante, il fiele è entrato in circolo. «Il mio avvocato» a fini di liquidazione, per decidere se andavano chiesti centomila euro o quattrocentomila o ancor più, così Rosa, «mi aveva chiesto di aiutarlo a disporre ogni vissuto, in moviola, lungo due sequenze; articolate nel tempo e nello spazio, l’una di fronte all’altra. Ciò che “mi era capitato” giorno dopo giorno, per come arrivavo a ricostruirlo; quello che “avrebbe potuto succedermi”, corpo e anima, se non fossero intervenute le violenze. Insonnie allora, rinunce, giri in città, esami persi, nausee; l’impossibilità di confidarsi, certi riverberi, le crisi, il chiudersi dentro casa, i rapporti coi ragazzi che mi cercavano, il vomito… Quello, il saldo fra gli episodi brutti successi e le cose possibili negli anni qualora fossi stata meno sfortunata, era il danno da risarcire.»

6 Buio in famiglia

I cuori sono fatti per essere infranti. OSCAR WILDE

Perdere la mamma, il papà Muore uno dei genitori, in seguito a un incidente stradale; oppure a causa di un infortunio sul lavoro, di un suicidio, di un delitto di mafia. I riflessi sulla prole allora: chiamata a vivere senza quel tocco protettivo, di lì in avanti; destinata a un affido provvisorio, avviata forse all’orfanotrofio, senza più i baci della buonanotte. Un bimbo che perda la madre, giovane e bella. Rivangherà ogni tanto il passato, singhiozzerà, paventerà il futuro; ingurgiterà cibi meno buoni, balbetterà, si vestirà disordinatamente. Non saprà sempre di sapone di bucato, cadrà malato più spesso, non saprà con chi confidarsi. Un figlio senza i «sì» e i «no» del padre ad accompagnarlo, dietro l’angolo di casa. Niente più gesti di sostegno virile, finiti i lanci in aria per gioco; basta con le spiegazioni da uomo a uomo, nessun conforto dopo gli insuccessi. Un’agenda diversa sotto tanti aspetti, ronzii circostanti d’altro genere: il dover farcela o cavarsela da soli.

Congiunti (resi) inabili Un passaggio fra i più indicativi, anche per definire il concetto di danno esistenziale, mi è parso fin dal principio quello della responsabilità per grave invalidazione – imputabile a un terzo, ad esempio un chirurgo distratto, un automobilista frettoloso – in danno a un componente del nucleo domestico. La macro-lesione di un figlio, poniamo, del consorte, della madre, di un fratello, soprattutto nelle eventualità peggiori: coma profondo e irreversibile, alienazioni psichiche, disabilità estreme. Rovesciate le abitudini quotidiane, allora, per i membri restanti; le mille

nuove incombenze burocratiche, dentro e fuori casa: rinunce forzate alla normalità, ai progetti giovanili, alle opportunità del tempo libero. Frequentare sistematicamente ospedali, ambulatori; code agli sportelli, di continuo sugli autobus, un giorno sì e un giorno no in farmacia; troncare relazioni, persino amori insostenibili ormai. Inseguire illusioni sapendo che sono tali e che si tradurranno, verosimilmente, nell’ennesima beffa. Scoprirsi esasperati qua e là, vergognarsene magari; abbandonare questo o quell’hobby, accantonare studi, speranze di carriera, vacanze, impegni sociali. Andare solo alle conferenze sulla riabilitazione, in sanità, dover vendere qualche gioiello; invecchiare anzitempo, sentirsi accerchiati, infilati dal destino entro qualcosa – come un personaggio di Beckett.

La via maestra dell’amore Un’importante sentenza sui torti eso-familiari. Singolare come vicenda, innovativa come poche la soluzione. Una donna sulla trentina, Nives, soffre di disturbi all’apparato urinario: si risolve perciò ad affrontare un’operazione chirurgica. Ne uscirà malconcia, il medico ha compiuto qualche errore col bisturi; il risultato è che la vittima non può fare o ricevere niente, in quelle zone del corpo, senza provare gran dolore. Rimediare con dei contro-interventi è impossibile. Il magistrato dà lettura della decisione, ricostruiamo così la scena, in un’aula affollata; vengono riconosciute le ragioni della paziente, le si attribuisce una somma a titolo di «danno biologico». La sala si svuota, salvo che per un uomo ancor giovane, Alvise, il quale resta seduto al suo posto. Lo guarda il giudice: «È finito il processo, lei chi è, scusi?». L’uomo accigliato: «Il marito della signora cui lei ha appena reso giustizia». Il giudice: «E allora?». L’altro: «Si metta un po’ nei miei panni. Ha appena riconosciuto come mia moglie non possa compiere nulla, là in basso, senza soffrire…». Il magistrato fa i conti, rapidamente, possiamo immaginare i suoi pensieri: anche il marito è una vittima, sì, dell’episodio di malpractice. A due creature legate tra loro la natura umana offre, beninteso, vaste rose di gesti, dolcezze, più combinazioni. C’è una via fisiologica tuttavia, per la passione amorosa, immaginata sin dagli albori dell’umanità; una strada che ogni coppia può aver desiderio di percorrere ogni tanto. Dovervi rinunciare rappresenta una deminutio, anche per il marito; un compenso legale in denaro, rispetto a quel «fare» perduto, non potrà mancare. Mai il principio era stato proclamato con tanta chiarezza. In sostanza; chi è unito a una persona non può che seguirne, anche nel male, la sorte; quanto

più forte il vincolo affettivo, tanto maggiori i contraccolpi per entrambi. Non si tratta solo di ombre interne. Ogni giornata consta di infiniti momenti, ciascuno fatto per essere attraversato insieme, da una coppia, fuori casa e dentro; lemmi dell’intimità, sul piano tattile anche, più epidermico: danni che andranno tutti computati, ove le cose volgano al peggio, nel bilancio finale.

Jean Gabin non parla più Per decenni si è negato che il «tradimento» potesse dar luogo, fra marito e moglie, a un risarcimento pecuniario. «Ci sono all’uopo i rimedi familiari» si diceva «tipo separazione e divorzio: quello lo sbocco tecnico per le violazioni del dovere di fedeltà; una responsabilità in senso stretto non trova posto, qui.» La svolta si è avuta, dopo qualche precedente, con una sentenza che un tribunale italiano del Nord ha emesso, all’inizio di questo secolo. Credo proprio che i nostri giudici avessero visto un film francese, in bianco e nero, di trent’anni prima, tratto da un noto libro di Georges Simenon, Le chat. Film che bisogna adesso raccontare. Dunque: Parigi, anni Cinquanta, grigia casetta monofamiliare a SaintGermain-des-Prés, prossima alla demolizione. Ad abitarci è una coppia di coniugi anziani, lui (Julien, Jean Gabin) tipografo in pensione, con un archivio di quotidiani ingialliti in cantina; lei (Clémence, Simone Signoret) un’ex trapezista cui è toccata a suo tempo una brutta caduta nel circo, zoppica. Logoro ormai fra i due il rapporto, si erano amati in passato, oggi soprattutto noia e stanchezza; lui in particolare. Fuori le ruspe si avvicinano sempre più; i vecchi edifici del quartiere, ancora in piedi, condannati alla demolizione tutti quanti. Una mattina Julien trova fuori della porta, in strada, un gattino randagio e lo porta dentro; nasce un grande amore tra i due. Clémence all’inizio è d’accordo, dà anche lei il latte alla bestiola, poi comincia a ingelosirsi. Appena l’ex tipografo ritorna da fuori ecco il micio accorrere, gli si strofina contro le caviglie, ogni cosa viene divisa; un idillio, non si staccano mezzo secondo l’uno dall’altro. Così per un po’ di tempo. Un brutto giorno l’uomo entra in casa, chiama il gatto, nessuna risposta; lo cerca in giro per le stanze, niente: scende in cantina, guarda ovunque, il felino non c’è. Mai era successo un fatto del genere, da sola la bestiola usciva raramente. Quando Clémence arriva con la spesa, la fissa aggrondato: «Dov’è il gatto?». Lei nega dapprima, poi finisce per ammettere: «Basta, ero stufa, ti occupavi solo di lui. Non ne potevo più: stamattina l’ho afferrato, sono salita

sul metrò, l’ho portato dalla parte opposta di Parigi, lasciato per strada. Non lo rivedrai». Julien: «Vado a cercarlo; se non lo trovo sappi che non ti parlerò più». È quanto accadrà in effetti; il gatto non ricompare, Julien mantiene fede alla parola. I vecchi sposi iniziano a vivere come separati in casa: ognuno cucinando le proprie cose, a distanza di un metro in cucina, seduti poi uno di fronte all’altra, su due poltrone in tinello, senza dirsi niente. Se lei fa una domanda lui non risponde: hanno messo a punto un codice tutto loro, per comunicare, si passano quando occorre dei bigliettini; la casa è piena di piccoli fogli bianchi, a mucchietti, quando devono dirsi qualcosa ne prendono uno, ci scrivono sopra, se lo porgono o lo buttano al volo, piegato in quattro. L’altro apre, scorre, risponde magari; suoni con la bocca mai, al massimo sguardi. Lei sembra pentita oscuramente, verga ogni tanto qualcosa, confidando nel riavvio di un dialogo; Julien riceve, legge corrucciato, afferra un altro quadratino bianco, ci scrive sopra un rigo, lo richiude, lo lancia alla moglie; lei apre speranzosa, la risposta è sempre: «Il gatto». Passa del tempo, i due invecchiano di stagione in stagione; niente verrà più a cambiare. Quando un giorno Clémence muore di infarto, lui va a sedersi accanto alla finestra, verso la strada, guardando le ruspe a pochi metri ormai; un’ora dopo un colpo al cuore, improvviso, anche per lui.

La sentenza dei bigliettini Ed ecco il caso pilota in tema di infedeltà coniugale. In una città del Nord Italia un ragazzo e una ragazza si incontrano, si fidanzano; alcuni anni insieme, poi le nozze: la sposa, Flora, rimane subito incinta. Come lavoro lui fa il rappresentante di commercio, lei è casalinga; durante le prime settimane di gravidanza tutto bene, poi cambia qualcosa. L’uomo, Diego, comincia a restare fuori la sera, torna tardi, è sempre meno affettuoso; non si preoccupa di sapere come sta la moglie, sembra infischiarsene del fatto di diventare padre. Facile indovinare che c’è un’altra donna di mezzo: di qui litigate crescenti, scontri via via più aspri, finché tra i due scende il silenzio. Musi dalla mattina alla sera. Ma siccome le emergenze sono continue in una casa, e occorre in qualche modo gestirle, ecco il marito avviare una «prassi comunicativa» fatta di bigliettini. Ce n’è per tutti i gusti: pacchi in arrivo, l’idraulico per il lavello intasato, la verifica dei contatori, l’assemblea di condominio; bigliettini sempre bigliettini.

Dopo il parto le cose non cambiano, è chiaro come lui sia ormai, col cuore e con la testa, da un’altra parte. Anche del figlio appena nato poco si interessa, quasi non fosse suo; alla moglie non rimane che chiedere la separazione. E i giudici del tribunale, donne tutte e tre nella fattispecie, mostreranno scarsa comprensione verso il «maschio». Uno che si comporti così non merita indulgenza; non soltanto gli viene addebitata la separazione, con quanto ne consegue, ma dovrà risarcire pure il danno non patrimoniale (le umiliazioni, la peggior vita): ogni riflesso che quell’infedeltà/indifferenza abbia provocato, nella moglie. Una scappatella occasionale pazienza, ecco il succo del ragionamento, micro-irregolarità coniugali… cose che si possono capire forse, cercare di perdonare. Trattare però la propria giovane consorte, nonché futura madre, a colpi di bigliettini di carta; mai una frase dal vivo, di partecipazione, tenerle il broncio per settimane di fila: questo no, è un linguaggio matrimoniale che non può essere tollerato.

Stile, discrezione, altrimenti… La sentenza dei bigliettini farà scuola, vari altri tribunali l’hanno seguita. Si tratta di un indirizzo sulla cui bontà, osserviamo, bisogna concordare. Affinché scatti una responsabilità civile per adulterio serve «qualcosa in più», legalmente, che non la mera, obiettiva violazione del dovere di fedeltà. Certo a uno sposo non farà piacere venir «cornificato», quando lo scopra; neanche il bisogno dell’altro di realizzarsi – attingendo qualche lembo di felicità, nuovo calore, là dove il fato indica – può venir sacrificato però del tutto. È complicato l’essere umano, la vita è una sola, non dura tanto; la passione è rara, quella vera, dirle di no quando sboccia fuori dell’uscio di casa può risultare difficile; le rinunce amorose sono lancinanti, deleterie a volte. La linea di equilibrio sarà che non bisogna comportarsi, allora, in modo da ferire la dignità del consorte; «tradire» amen, se proprio è inevitabile, farlo almeno con eleganza, però, sommessamente; lungi da ogni crudeltà e ostentazione.

Infedeltà all’italiana No al risarcimento quindi, pescando tra le pronunce degli ultimi decenni, laddove la storia in questione rimanga occulta, invisibile. Responsabilità sì per un marito il quale, oltre a coltivare relazioni affettive all’esterno, non

perda occasione per dileggiare la sua «metà», imputandole davanti agli amici di essere brutta, repellente, canzonandola perché si è tinta i capelli di rosso. Nessun obbligo risarcitorio invece per la donna che, pur avendo un amante segreto, da qualche parte, riservi comunque al marito quote significative di ascolto, di confidenza; facendo l’amore con lui, magari, incoraggiandolo nel lavoro, non negandogli pressoché nulla. Responsabilità civile, di nuovo, nel caso di un uomo, arrogante capobastone del Sud, che pretenda di portarsi in casa la giovane neo-amante polacca (succede anche questo al mondo), imponendo alla moglie di andare a vivere nella stalla. Irresponsabilità invece per un marito il quale si sia abbandonato – una sera d’autunno, in una città di provincia, al termine di una passeggiata solitaria – a un fuggevole e trepido scambio d’amore omosessuale, al buio. Sì al risarcimento, ancora, nel caso di una donna la quale, scesa dall’autobus, alla fermata sotto casa, dopo essersi accorta che dentro la macchina di famiglia, parcheggiata sotto un albero, c’è il marito abbracciato a un’altra donna, dopo essersi accostata all’automobile per rendersi conto della situazione, venga addirittura aggredita e picchiata da lui, nonché trascinata alcuni metri per i capelli, brutalmente, sull’asfalto. Soluzione analoga nel caso di una sposina che, già a poche settimane dal matrimonio, si veda indotta dal marito a rimanere sempre a casa, facendo da infermiera all’anziana suocera, invalida da anni, ventiquattro ore al giorno di fila: accanto al letto, vigile sotto la flebo, sette giorni su sette. Mentre lui passa il tempo in giro per valli e colline, a divertirsi e a folleggiare, con la giovane amante.

Seduzione con promessa di matrimonio Altro caso da considerare – «fragilità il tuo nome è donna» mormorerebbe chi sappiamo. In un paesetto del Sud Italia vive un’onesta ragazza sui vent’anni, bella e sensuale; Assuntina di nome, giustamente ha a cuore il suo futuro. Sa che al mondo esistono i giovanotti, alcuni non le dispiacerebbero; conosce a fondo la mentalità circostante tuttavia, ha deciso di conservarsi «casta e pura» sino al giorno, cioè alla notte, delle nozze. Un pomeriggio incontra un ragazzo di bell’aspetto, ben piazzato socialmente, Gianfocoso: inizia a uscire con lui. Presto la conoscenza si trasforma in qualcos’altro, le occasioni per stare insieme si moltiplicano, cominciano i primi baci. Non la disturbano quelle tenerezze, il sabato che lui

arriva però a chiederle la «grande prova d’amore» eccola tirarsi indietro: «Mi piacerebbe, non lo nascondo, mi attrai tu; meglio di no comunque, sono povera oltretutto, lo sai bene; chi mi vorrebbe più se accettassi di fare l’amore con te, e tu poi mi lasciassi?». Torna a premere lui, niente; insiste ancora, sempre no. Finché arriva la sera in cui Gianfocoso le scrive: «Ti voglio bene Assuntina, sento di amarti, sei la mia vita; prometto che ti sposerò appena possibile, dopo la laurea, puoi fidarti. Intanto vieni fra le mie braccia e sii mia sino in fondo». «Parli sul serio, circa il matrimonio?» chiede lei il giorno dopo. «Certamente, presto ordinerò le fedi dal gioielliere.» «E non cambierai idea?» «Te lo giuro sulla testa di mia nonna.» A quel punto Assuntina cede; era stata sua maestra alle elementari quella nonna, la sospirata traditio corporis ha luogo. Splendore tra i due per qualche settimana, nuovi abbracci, altre emozioni; poco dopo però le cose precipitano. Gianfocoso cambia sede universitaria, da un giorno all’altro scompare. Assuntina costernata: oltre al resto qualcuno del paese li aveva visti insieme, malgrado le precauzioni, lungo scenari compromettenti (un bosco di sera, un alberghetto sul mare); amiche invidiose, sparlare è facile, la liaison è in un attimo di pubblico dominio. Gianfocoso poi, quanto torna al villaggio nulla fa per smentire: la bella Assuntina, il sogno di tutti i suoi coetanei! Quale trofeo per un rubacuori… intanto si è già messo con un’altra. Alla nostra fanciulla – pazienza per lo scandalo – non resta che citare giudizialmente il fedifrago, in vista di un risarcimento. Il tribunale, oggi come oggi, cosa deciderà? Lo stesso che avrebbe deciso ottant’anni fa? Risarcire la poveretta, cioè, per il fatto che i benpensanti del paese la disprezzano? Che nessuno, salvo qualche scarto di maschio, vorrà più sposarla? Risposta: ottant’anni fa sì forse, oggi no di sicuro; i tempi sono cambiati. È un imbroglione il giovanotto, voleva solo spassarsela? Fin dall’inizio era intenzionato a non adempiere? Niente risarcimento lo stesso; a meno di non immaginare, ma non è il nostro caso, che Assuntina soffrisse di qualche tara psichica. Altrimenti no, pazienza per il raggiro sulle nozze; non c’è un danno effettivo, in quest’affare, pregiudizi e debolezze non risultano più, ecco il punto, quelli di un secolo fa: chi oggigiorno, anche nel profondo Sud, lapiderebbe una ragazza che abbia seguito il proprio estro romantico, sino in fondo? Chi, amandola e desiderandola, esiterebbe a sposarla sol per questo? E se un individuo del genere esiste, meglio perderlo che trovarlo, giusto?

Qualche figura arriva, qualcuna va Per ogni ipotesi esclusa dal recinto dell’illecito, o che scompaia dal ruolino dei tribunali, altre sono quelle che si affermano. Se scorriamo i repertori degli ultimi decenni è facile accorgersi con quale vigore, sul fronte «eso» non meno che su quello «endo», sia continuato il cammino della tutela risarcitoria, all’interno della famiglia. E un tratto è sempre più evidente. Ciò che minaccia il focolare nel suo insieme (sfratti, rumori forti, esalazioni insopportabili, procedure esecutive infondate) è destinato a tradursi in noie e fastidi per ognuno dei congiunti; ciò che tocca e colpisce un membro specifico del gruppo (ingiuste carcerazioni, stalking da parte di un ex coniuge, licenziamenti illegittimi) si riverbererà, di norma, sul benessere del nucleo intero.

Dire, fare, baciare Vari i motivi applicativi che s’incontrano. Fra moglie e marito sempre lealtà, franchezza. Tenere per sé notizie importanti non va bene, quando si è in coppia: ogniqualvolta risulti che il partner si sarebbe, almeno, orientato diversamente qualora avesse saputo la verità. Il fidanzato cela alla fidanzata, mentre ancora non sono sposati, di avere serie ragioni per temere di essere impotente? Quando emergerà post nuptias che le cose stanno proprio così, lui sarà tendenzialmente responsabile, per i danni che lei si ritrovi a subire: sotto il profilo chimico-affettivo, nonché al pensiero dei figli, biologici, che non potranno esserci. No alle bugie. Una donna sa che il pargolo appena messo alla luce non è del marito, o del compagno che le sta accanto, e lascia credere il contrario? Lui potrà ben lamentarsi, anche dopo anni, per gli investimenti morali e materiali compiuti sin lì, credendo che la realtà fosse un’altra; e qualche spazio risarcitorio potrà essere riconosciuto, se del caso, sia al figlio «sballottato» fra bugie e verità, sia al padre biologico vero. I patti fra coniugi vanno rispettati. È in torto il marito il quale, a dispetto di quanto concordato in precedenza con la moglie, rifiuti ostinatamente di programmare la nascita di un bambino; oppure procrastini i tempi di attuazione del «progettofiglio», sino al momento in cui la moglie non sarà più feconda. Versa in colpa parimenti colui che violi, senza giustificazione, una delle intese che erano intercorse originariamente, circa l’istruzione e l’educazione della prole, con il partner. Ancora, è fonte di responsabilità l’avvenuto disconoscimento, ad opera del padre, del minore frutto di fecondazione assistita eterologa, rispetto alla quale fosse stato prestato

inizialmente, dall’uomo, un pieno consenso (così più volte in passato, sino alla L 40/2004). Vietate le prepotenze. Non c’è posto fra due sposi – soprattutto quanto agli scambi sessuali, o alla messa in cantiere di un figlio – per castighi o imposizioni di sorta; non dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975. Un marito non può, in particolare, obbligare la moglie ad affrontare in amore esperienze «insolite», di qualsiasi genere, che lei disdegni vivamente, rispetto al coniuge stesso o ad altri. Né un boss siciliano sarà ammesso a punire la moglie – la quale abbia approvato certe iniziative antimafiose, di un parente – escludendola dal talamo nuziale per anni di seguito, negandole abbracci e dimostrazioni d’affetto. Né potrà costringerla all’infinito a sottoporsi, con serie ripercussioni fisiche e psichiche, per la donna, a defatiganti terapie antiinfertilità; mosse dalla pur comprensibile, ma vana e ossessiva in questo caso, finalità di avere un bambino. Vite in corso di fioritura. Le aspettative, che girano intorno a un essere in attesa di venire alla luce, hanno anch’esse valore per il diritto. Se viene ucciso il padre di un bimbo già concepito, ancora dentro al grembo della sua mamma, una tutela risarcitoria per il quasi-piccolino sarà ben possibile; i danni collegati al fatto di nascere orfano non mancheranno di farsi sentire, non appena quel parto abbia avuto luogo (secondo alcuni, già prima di quella data). Esistenze spezzate in anticipo. La madre e il padre che speravano in un figlio, anche se non sarà facile stabilire, al solito, quale cifra sia congrua per il risarcimento, non si troveranno sguarniti di difese, nel caso in cui la gravidanza sia finita nel nulla: a causa di un aborto traumatico, dovuto all’imprudenza di un automobilista di passaggio. E sarà questa una conclusione ancor più fondata, aggiungiamo, in presenza di incidenti risoltisi nella sterilità, irreversibile, per lei o per lui. Il preteso diritto di non nascere non esiste. Qualora un bimbo nasca malformato per effetto di errori commessi in sala parto, dai sanitari, un risarcimento alla piccola vittima sarà, abbiamo visto, certamente possibile; con misure in denaro sempre alquanto estese (si può giungere fino a un milione e mezzo di euro). Ove si tratti però di malformazioni congenite, risalenti al momento del concepimento, o ancor prima, l’eventuale sbaglio del medico che non abbia riscontrato quel deficit a livello di ecografia, o test analoghi, rileverà ai fini indennitari solo a beneficio della madre, lesa nel proprio «diritto di autodeterminazione procreativa» (non sapeva, non ha potuto scegliere di abortire); il bambino invece, posto che l’unica strada per non farlo «vivere da malformato» era di «evitare di farlo nascere», opzione

ancora peggiore, non potrà ambire a risarcimenti in senso tecnico.

Il cosiddetto terzo complice Altre questioni che fanno discutere – anche questa è fragilità – sono quelle legate a una possibile «responsabilità civile dell’amante». Un uomo, vicenda accaduta qualche decennio fa, gestisce con la moglie un negozio di elettrodomestici, sulla riva del Tevere. Gli affari prosperano; sicché il nostro, Amedeo, decide dopo un po’ di allargarsi, cercando nuovi clienti, non solo nel circondario immediato. Deve restare fuori la notte a volte: la decisione è perciò di assumere un commesso, di bella presenza, Ettore. Passano tre anni, la moglie Lina rimane incinta; esaminando i conti dell’azienda il marito si accorge di ammanchi vari, accumulatisi nel tempo: dopo un po’ il bambino nasce. Dalle carte emergeranno nuovi dettagli: la moglie e il commesso hanno una tresca amorosa, consolidata, il figlio è di quest’ultimo; i soldi spariti sono finiti in un libretto di deposito bancario, intestato ai due amanti. Ecco Amedeo disconoscere il figlio, a quel punto, e chiedere la separazione; aggiungendo però una «strana» domanda in giudizio, volta al risarcimento del danno. Nessun riferimento, è un gentiluomo il nostro, all’ex moglie; destinatario della richiesta è unicamente l’ex commesso: «Me l’hai portata via» ecco il rimprovero «sei tu alla radice di quel tradimento, hai incitato Lina in modo subdolo, mentre non c’ero: dovrai rendermi conto adesso, i danni non patrimoniali soprattutto». Ebbene ecco un’altra situazione, osserviamo, in cui difficilmente la richiesta verrà accolta. Del proprio cuore uno è libero, al mondo, di fare ciò che vuole; è quell’organo a dettare gli impulsi profondi, dal centro del petto, a dirigere le azioni che compiamo. Né il legame lavorativo era tale da creare, nel caso in esame, vincoli di sorta fra i due uomini. Nessuna tutela al merito dunque. Così anche altri tribunali, successivamente. Giusto così, direi. Per arrivare a soluzioni diverse bisognerebbe, chissà, immaginare motivi oscuri o diabolici sullo sfondo; un rancore antico fra le parti, congiure minuziose, «ti porterò via la moglie per vendicarmi»: quest’ultima come figura inerme, senza difese… e forse ancora non basterebbe.

Madre e padre ai ferri corti I figli adesso, uno o due, piccoli ancora; non in tenerissima età, fra i tre e i quindici anni. Genitori da poco separati o divorziati: due ex coniugi che si odiano, con tutte le forze; o almeno con una delle parti, la moglie di solito, che detesta l’altra fieramente. Una decisione giudiziale, poi, in seguito alla quale i figli, congiunto o meno che sia l’affidamento, sulla carta, si trovano a vivere in prevalenza con un solo genitore: di solito la madre. Quest’ultima allora che ai bambini in casa, da un certo momento, inizia a parlare sempre più velenosamente dell’ex marito: commenti sarcastici, alzate di spalle, risatine. Un ronzio crescente, demolitorio. I figli che, dentro di sé, cominciano a prendere le distanze dal padre: premiati dalla genitrice quando assecondano lei, puniti silenziosamente se nominano con affetto «l’altro». Così mese dopo mese, sinché arriva il giorno in cui il padre chiede di portarli con sé, qualche giorno di vacanza: e loro rifiutano di seguirlo. La manovra ha raggiunto l’estremo limite, il disamore casalingo ha trionfato; e sarà difficile che le cose cambino, se non si fa presto qualcosa. Proverà il diritto civile a raddrizzare le storture: esistono norme apposite oggi, in Italia, di taglio indennitario, pensate per difendere il genitore vittima della «sindrome di alienazione parentale»; volte a presidiare soprattutto i figli, resi orfani dalle scorrettezze del coniuge vendicativo. Mai come in questo caso è palese quanto il risarcimento, pur in sé benemerito, anche come afflizione, manchi tuttavia di «onnipotenza restauratrice»; e quali compiti dovrebbero attendere, sul terreno preventivo, dei giudici di famiglia scrupolosi e dei servizi socio-sanitari né ciechi, né rassegnati.

Se non mi foraggi ti farò interdire Sono responsabili i figli, dopo una certa età almeno, per i danni arrecati ai loro genitori? Può sembrare impossibile, ma la risposta è che di sentenze orientate in tal senso – ipotesi di reato a parte – poche se ne rinvengono in Italia. Esistono limiti comunque al cinismo di una progenie ingrata, parassitaria. E la vicenda che segue può offrire spunti a linee giurisprudenziali imperniate sul momento riparatorio; bene la solidarietà familiare a senso unico (uno che dà, l’altro che riceve), può funzionare sino a determinate soglie nel tempo, tuttavia, non oltre. Città italiana del Centro Nord, allora: un padre in pensione, un figlio sui

trent’anni; questi i protagonisti del nostro racconto, ispirato a un episodio vero. Il primo dei due, Leone: vedovo sui settant’anni, prestante fisicamente, ottima liquidazione; faceva il direttore di banca, ad alti livelli, non se l’è troppo goduta per decenni. Ultimamente ha cambiato abitudini. Il secondo, Furio: belloccio, mai combinato niente di buono; neanche finite le medie superiori, nessun lavoro, di alcun tipo. Grazie al padre non gli sono mancati mai bei vestiti, macchine veloci. Valido organizzatore di party, foto sui giornali; lo si vede sopra qualche yacht ogni tanto, con attricette, personaggi dello spettacolo. Da un anno tutto è venuto precipitando; il padre si è stufato di un playboy così, ha tagliato i fondi. E l’altro per parare il colpo cosa si è inventato? Una causa di interdizione: asserendo che il padre è diventato l’esatto contrario di prima. In passato puntiglioso funzionario, gusto per l’ordine, buon conservatore. Da qualche tempo stramberie nella dieta, progressista, vuoti di memoria; una baita in alta montagna dove passa le giornate – tutto documentato – scrivendo poemetti in versi, cantando alle nuvole, componendo musica; una nuova compagna anche, per il giorno e per la notte, pittrice e vagabonda, giovane, sempre scalza. È durato un anno il processo, si è concluso di recente. Netto è stato il giudice, categorico. Interdire il padre? Perché cerca di realizzare questa e quella parte di sé, nei meandri più riposti? Tutti in verità hanno parlato – nuovi amici, negozianti, medici – di un signore radioso, tonificato: qualche sbalzo nei ricordi sì, mini-sviste burocratiche; pienezze di estro tuttavia, buone vibrazioni. Unica spina quel rampollo viziato che, immemore di quanto ricevuto, fin dalla nascita, ha cercato di incapacitarlo e mortificarlo. Perciò non solo niente interdizione. Il figlio piuttosto, andrà lui biasimato, con fermezza, condannato al risarcimento del danno. Non si utilizzano gli strumenti del diritto per schiacciare il «vecchio padre»: felice della sua seconda vita, a duemila metri, artista fra le aquile, rinato ormai dentro di sé.

7 Non lasciarmi

Ciò che rende bello il deserto, disse il piccolo principe, è che da qualche parte nasconde un pozzo. ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY

Solidarietà, libertà «Stai pensando di andartene?» «Non vorrei ma è necessario.» «Da solo non posso farcela» «Devo badare a me stesso.» «Vai per la tua strada.» «Ti resterò accanto comunque.» Fragilità e abbandono, voci che girano spesso in coppia, affiancate. La prima che dà luogo al secondo: un individuo, senza più forze, che smette di occuparsi del suo vicino. Più spesso il contrario: un soggetto (oggi) vulnerabile che si vede, lui, messo a latere da qualcun altro. Due le tipologie di base, essenzialmente. Persone alle quali vengono, con o senza motivo, voltate le spalle da chi prima le accudiva: dovranno iniziare a cavarsela coi loro mezzi, da allora, fanno fatica. Combinazione «intensa», più agevole da amministrare sul piano legale; buone chances di vittoria, di ripristino, per chi è abbandonato. Persone senza nessuno accanto, fin lì, che ambirebbero a formali «prese in carico»; da parte di qualcuno che, o perché così vuole, o perché le circostanze glielo impongono, sceglie invece diversamente: si tira indietro, salta quel giro. Combinazione «labile», equilibri meno semplici da gestire; sconfitta frequente per la vittima.

Chi ha ragione? Non è scontato che, nell’ordinamento, la posizione di chi teme l’addio dal compagno conti più dell’interesse dell’altro a «mollare», a svincolarsi; le visioni buoniste, color rosa, non trovano posto più di tanto in quest’area. Bella cosa l’altruismo, il prodigarsi spontaneo per la gente, verso il

prossimo. L’indipendenza del partner ha anch’essa il suo valore, però; il bisogno di ossigeno, i frutti che la libertà promette sulla carta. Le energie che A sta profondendo a favore di B non sarebbero meglio impiegate altrove, con creature diverse; magari a scrivere racconti, a svagarsi? C’è l’eventualità che sia un commiato – un distacco più o meno definitivo – l’esito che a entrambi converrebbe, al di là delle apparenze; e non è detto se ne rendano conto, gli interessati. «Non crucciarti, starò bene.» «Proseguo da solo, meglio anche per te.» «Tempo che vi sganciate, voi due, vi fate solo del male.»

Il quadro d’insieme Mi era già capitato di illustrare il mio pensiero, sui risvolti del breakdown domestico, in alcuni scritti; torno a fare il punto ogni anno, in generale, con gli studenti. «Due ali ci sono fondamentalmente nell’abbandono, una a est, l’altra a ovest» così inizio il discorso «e un vasto territorio di mezzo!» Alle due estremità, zona orientale a sinistra, zona occidentale a destra, le cose funzionano abbastanza. Direttrici opposte fra di loro: da un lato il massimo dell’obbligatorietà, dall’altro il minimo della soggezione; in armonia coi principi generali del diritto, sia qui che lì. Nella zona est viene sanzionato il «cattivo»: inteso come colui che ha abbandonato il campo, che è partito per suo conto. Non aveva licenza di farlo, disinteressarsi dell’altro è proibito in quest’area; chi abbia trascurato le creature affidategli potrà andare incontro a un castigo, anche di tipo penale. Nella zona ovest viene scagionato il «buono»: che è sempre il fuggitivo, però, colui che si alza dal tavolo e se ne va via. Soggetto portatore questa volta – ecco la differenza – di valori di sovranità e leggerezza: i quali meritano ascolto, piena comprensione intorno. Sceglierà lui come indirizzarsi, è al comando di sé tecnicamente, non ha obblighi di sorta; pieno rispetto verso le sue scelte, nessun castigo previsto dal diritto.

In mezzo Meno facili e uniformi, vedremo subito, le indicazioni nei contesti mediani. L’ambito transnazionale ad esempio. I principi etici, e in qualche modo giuridici, tesi all’armonia, alla lievità, continuano a esistere qui; una serie di contro-fattori premono anch’essi tuttavia, alla base. Economici, psicologici,

ideologici, militari: più o meno latenti, entrano all’improvviso in circolo; ecco i soffi del bene indebolirsi allora, l’incuria che riprende, divide, si protrae nel tempo. Così anche lo scenario italiano, in tante ipotesi: ci sono passaggi della Costituzione, di qualche legge quadro, che spingerebbero all’«accoglienza del fratello», alle mani tese; entrano in gioco però contro-aspetti, a un certo punto, riserve sul piano finanziario, organizzativo. Ecco il Vangelo scolorire, la lotta al gelo e all’emarginazione attenuarsi. Qualche volta pensa l’Europa a bacchettarci, noi italiani: con richiami che arrivano a influire sui giudici, a orientare il legislatore. Si illuminano i momenti preventivi, a quel punto, prendono vita condanne restitutorie; alcuni doveri di famiglia o di servizio acquistano smalto; la repressione della malizia aiuta, come sempre.

Sanzioni penali Indicative, nella prima delle aree menzionate, le fattispecie previste dal codice penale. Facile capire perché «colui che non c’è», «che si sottrae», andrà biasimato qui. Sono di natura privata, stretti comunque, i rapporti fra gli interessati: si tratta di relazioni elementari, vive e presenti nel sistema. Esigui i numeri dei soggetti convolti, astrattamente; quel che si richiede al «master» è, in termini di fatica, abbastanza poco. Cruciale, nei confronti del fragile, la posta in gioco; per evitare di scordarsene non occorre essere degli eroi. Fra i casi più noti: abbandonare il domicilio domestico, sottraendosi agli obblighi che ineriscono alla potestà dei genitori, o alla qualità di coniuge (art. 570 c.p.); essere la madre di un bimbo appena nato e, quando il fatto sia determinato da condizioni di disagio, materiale e morale, cagionarne la morte dopo il parto (art. 578 c.p.); lasciare al suo destino, avendone la custodia o dovendo averne la cura, una persona minore degli anni quattordici, oppure un soggetto incapace, di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stesso (art. 591 c.p.). Ancora: voltare le spalle a un bambino subito dopo la nascita, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto (art. 592 c.p.); trovare abbandonato o smarrito un minore degli anni dieci, o un’altra persona incapace di provvedere a se stessa, e omettere di darne avviso all’autorità: trascurare di prestare l’assistenza occorrente, dopo aver trovato un corpo umano inanimato, oppure una persona ferita o altrimenti in pericolo (art. 593 c.p.); in caso di incidente stradale, ricollegabile al proprio comportamento,

non fermarsi a prestare il soccorso necessario a chi abbia subito danni (art. 189 Codice della Strada).

Navigando, volando Significative anche le previsioni «anti-abbandoniche» nel campo del volo e della navigazione in mare aperto (c.nav., dall’art. 1097 in avanti). Fra le situazioni contemplate: essere il comandante di una nave o di un aeromobile in pericolo, e non scendere da bordo per ultimo, in caso di disastro; lasciare senza necessità la direzione del mezzo, in condizioni tali che questa venga assunta da persona priva dei requisiti; non darsi da fare, con gli elementi dei quali si dispone, per il miglior soccorso di una nave, di un galleggiante, di persone che risultino in pericolo. Ancora: evitare di prodigarsi per un tentativo di salvataggio, non collaborare all’estinzione di un incendio; sbarcare arbitrariamente, al di fuori del territorio nazionale, un componente dell’equipaggio o un passeggero: dimenticare l’uno o l’altro, impedire loro il ritorno, con l’anticipare la partenza; lasciare a terra soggetti del genere, quando ammalati o feriti, senza provvederli dei mezzi necessari alla cura e al rimpatrio; trovare smarrito in paese estero un marittimo italiano, e non offrire di dargli ricovero a bordo o di rimpatriarlo; far mancare i viveri alle persone imbarcate.

Non ti amo più L’estremo opposto adesso: il terreno delle facoltà e delle pulsioni che non possono, di regola, venir conculcate. Addii sentimentali in primo luogo: «Ho conosciuto un’altra persona»; «Vorrei cercare di trovare me stesso». Una metà annuncia all’altra che la relazione amorosa è agli sgoccioli: «Serve a entrambi un momento di riflessione». Niente sanzioni questa volta: accettazione del rischio, conoscenza del pericolo, le grandi «cause di giustificazione» per l’ordinamento. Essere messi in disparte, in qualche angolo, faceva parte del gioco; una possibilità da scontare fin dal primo giorno. Imposizioni a «non recedere dal rapporto»? Non sono mai esistite legalmente, qui, per nessuno dei due. Impegni morali semmai, religiosi, convenienze sul piano sociale; «polvere di stelle». Occorre anzi domandarsi: A sta «mollando» B, oggi, ma sarebbe stato B a lasciare A, quasi di certo, il mese prossimo; visto quanto mestamente e

fiaccamente le cose andavano, fra di loro. Oppure: sembra che sia C ad allontanarsi da D, ma è D che ha preso le distanze, in realtà, da C, pian piano, quando questi si è involuto; smettendo di sognare, di avere slanci. Comunque sia niente reazioni formali del sistema, nessun obbligo di ricucitura. In ipotesi limite, forse; trame segrete, distrazioni imperdonabili: sequenze lesive pensate dall’autore per fare del male, per schiacciare. Sapendo, poniamo, che lei o lui era già «fuori»; mezzo saltato con la mente, privo di difese adeguate. Soltanto allora concepibile una restitutio, qualche riscontro penale. «Aveva già annunciato gesti violenti, Barbara, era più che reale il pericolo per lei; non bisognava lasciarla sola.» Casomai un torto si potrà immaginare, in quest’ambito, per colui che tenga l’altro avvinghiato, che pretenda di farlo. Medea, Didone, manovre oscure di chi ama troppo, di chi sragiona ormai; la moglie che nell’Uomo dal braccio d’oro si finge paralitica, per evitare che il marito la lasci. L’abbandono di coppia che premia uno soltanto, fra i due; l’altro a contorcersi, a inscenare melodrammi: ricattando più o meno tacitamente, pensando a volte di uccidere.

Oltre la sfera sentimentale Ciò che è vero per gli affetti, per le emozioni romantiche, varrà anche altrove di frequente. Cambiare significa quasi per definizione che «non si sta più» con qualcuno, con qualcosa. Dal lavoro al partito politico, allora, dalle città alla religione; il confronto degli interessi vedrà spesso prevalere, in zone simili, chi imbocca la direzione dell’uscita. Linfe che vengono dirottate altrove; dove potranno fruttare al meglio, o forse no, ognuno ha il diritto di «chiudere la danza» comunque, di annoiarsi: di accendere altrimenti se stesso, recidendo i legami anteriori, sradicandosi. Le medicine, gli amici; anche la dieta, l’abitazione, la pettinatura. Ci si evolve, trasformazioni spesso invisibili, cambi di rotta antichi come il mondo; i giocattoli, quanti non ne alternano i fanciulli… non si contano le bambole dismesse, negli armadi delle bambine! E se si ha il potere di cambiare si avrà, di nuovo, quello di voltare le spalle, di uscire di scena. Per chi rimane e subisce le difese sono poche. Con l’andare via materialmente, da un luogo, da uno stallo abituale, si cambia a volte in

peggio; Pascal sembra pensarlo («Tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos, dans une chambre», «Tutta l’infelicità degli uomini nasce da una sola cosa: non saper stare a riposo in una stanza»). Chi rinnega il passato potrà pentirsi, a un certo punto, cercare di essere ripreso; perdonato alla fine. Qua e là gli riesce; ciò non toglie che il primo distacco non potrà, non avrebbe potuto, essere contrastato in tribunale. Una partenza poco meditata non diverrà, solo per questo, «antigiuridica»: come non sarà sempre improvvido, per il corpo o per lo spirito, un allontanamento «fuori legge». Livelli prescrittivi distinti.

Contrasti È in mezzo, dicevamo, nelle zone più sfumate, che la realtà si complica. I diritti non appaiono così pregnanti, qui, i doveri di cura e custodia restano informi; norme spesso imperfette, non accompagnate da clausole repressive. Mancano organismi chiamati a difendere i primi e a far rispettare i secondi; nessuno tenuto, ente o persona singola, a pagare per i contraccolpi esterni, gli inconvenienti. È l’area degli inceppi nel sistema, delle frustrazioni per chi è debole; per chi abbia a cuore, comunque, il bene dei diseredati. Particolarmente forti le discordie nel campo transnazionale. Da un lato, a livello di «Indicazioni Onu», di «Convenzioni interstatuali», le frasi di principio; elenchi di impegni e di obiettivi, declamazioni che proliferano. Dignità, libertà, cura dalle malattie, onore, assistenza; prerogative di gran rilievo, si evidenzia, specie quelle relative ai cittadini meno provvisti. Momenti da coltivare e inverare al più presto, con biasimi inediti: per non lasciare i derelitti alla loro sorte. Dall’altro lato i drammi che la cronaca non smette di documentare, i continenti sempre più in affanno. Sotto il profilo generale: oasi che scompaiono, mancanza di ospedali, colpi di Stato militari, persecuzioni religiose. Dal punto di vista delle persone: civili bombardati, bambini che non mangiano abbastanza, adulteri lapidati, dissidenti in prigione. L’abbandono che trionfa.

Il grande vischio Ogni tanto sussulti che fanno sperare, accordi, conferenze di pace: tiranni abbattuti, programmi di aiuti, scuole che riaprono. Poi di nuovo la falce che

torna, le barbarie di sempre: attentati, torture che ricominciano, fame, desertificazioni, ondate di arresti. Prevale qua e là il disincanto. Qualcuno parla di un «grande vischio», rammenta eccidi come quello di Srebrenica: le grandi potenze e i caschi blu, da un canto, incaricati di mantenere l’ordine, di impedire crudeltà; la fuga dalle responsabilità, dall’altro canto, i soldati garanti che si voltano dall’altra parte quando una milizia agguerrita passa la popolazione per le armi. L’opportunismo di chi li comandava, nei Balcani, in quell’estate del 1995. Altri fanno il caso degli animali selvatici. I dati sulle uccisioni allora, in Africa ma non solo, per lucro o per capriccio. Il riscontro degli stanziamenti in danaro: i negoziati coi governi locali, i bracconieri imprigionati, l’avorio messo fuori mercato, l’incremento dei parchi. Poi di nuovo minacce di estinzione per la tigre, brutte notizie per il rinoceronte, per l’orso polare: l’elenco delle specie scomparse nell’ultimo secolo, dal dodo al quagga, dal rospo dorato alla gazzella dammah. Erano migliori le cose cent’anni fa, duecento? Per il futuro c’è chi ricorda la frase pronunciata da William Faulkner, ritirando il premio Nobel nel 1949, «Man will not merely endure: he will prevail». Altri pensano che le cose, per chi è vulnerabile, andranno di male in peggio con la globalizzazione; il grande vischio bloccherà sempre più i gesti, gli afflati di speranza. Fanatismi religiosi a dilagare, corruzione nei governi, cecità ambientali e climatiche, bambine mutilate; sete di petrolio, volontà di potenza, ghiacci che si sciolgono. Il mare a inghiottire sempre più i migranti in fuga.

8 L’Italia che arranca

Fa più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che cresce. LAO TZE

Italiani gente fragile Il nostro paese, gli abbandoni, il legislatore? Il rinoceronte non c’era in passato lungo il Po; e tuttavia gli indici di frustrazione, benché diversi, meno tragici, non sono bassi in Italia. Abbiamo un «vischio» tutto nostro; sacche varie dell’umana neghittosità, vuoti a perdere, diffuse solitudini: con i principi della Costituzione, delle leggi quadro, passati spesso sotto silenzio, disapplicati. Basta chiedere a una qualsiasi fra le corporazioni dei deboli: dai nani ai disoccupati, dai ciechi ai senzatetto; ognuna avrà la sua da raccontare. Un esempio eloquente? Il caso dell’aborto. La legge italiana esiste dal 1978: ciò che in concreto occorrerebbe però, ammonisce il debolologo, sarebbe che ogni luogo di cura, nel territorio, risultasse attrezzato in modo da consentire alla donna, orientata a interrompere la gravidanza, di farlo in buone condizioni di igiene, di sicurezza; per mano di un esperto, senza traumi. Nel (segreto) pensiero di alcuni amministratori, cosa si indovina invece? L’idea che l’aborto rappresenta una forma di omicidio; che è sbagliata la legge che lo autorizza, che non sarà male se i medici si rifiutano di procedere. Così il bimbo in questione potrebbe farcela a nascere, alla fine, il Signore provvederà in qualche modo; come con gli uccellini. Risultato? In quel certo ospedale, senza reazioni significative dell’autorità, i medici sono tutti obiettori; così pure nell’ospedale vicino, lo stesso negli altri istituti del circondario; sicché «quella» donna, neppur ventenne magari, dovrà lei cercare di informarsi, in concreto, prenotare a destra o a manca, in marasmi continui, a distanza di chilometri. Con tempi

che scadono, affanni crescenti, riservatezze in pericolo: talora ripiegamenti sulle mammane di sempre, in cucina; a volte un ricorso al fai-da-te casalingo.

Caregiver Altro esempio i caregiver familiari: le persone che passano il tempo a occuparsi di un congiunto ammalato, gravemente ferito. Ogni giorno si dedicano a imboccarlo, in casa, a lavarlo, a portarlo all’ambulatorio. Avrebbero, segnala il debolologo, bisogno di vedersi riconoscere, secondo quanto accade in vari Stati europei, una serie di provvidenze; a livello legislativo o amministrativo. Come tutti al mondo vantano anch’essi – cioè avevano, potrebbero avere – una vita personale; fatta di lavoro, di studi, con reti affettive per conto proprio, altre incombenze. E quell’impegno di assistenza pesa invece, anche burocraticamente. Servirebbero autorizzazioni ad assentarsi, ogni tanto, indennità di rimborso, facoltà di riposo, benefici previdenziali. Nel pensiero occulto di molti allora, politici, giudici, amministrativi? Potrà non mancare, a volte, la coscienza che qualora il caregiver si tirasse indietro prestazioni del genere dovrebbe assicurarle il settore pubblico: convenienza a sostenerlo, quindi, con qualche elargizione, affinché «non molli». L’idea è comunque che i disabili o i malati non vantano, al di là delle parole, tassi apprezzabili di priorità; con gli stessi Lea (Livelli essenziali di assistenza) va a finire sovente così: lo Stato deve risparmiare, specie sulle spese «improduttive». «Non chiedere, aspetta un po’, non è questo il momento.» «La colpa è delle famiglie, chi mette al mondo un figlio ha doveri suoi»… risultato? Rinvio degli interventi di protezione, di anno in anno; qualcuno ammesso magari col contagocce. Intanto il parente da accudire peggiora; col tempo il caregiver si dà da fare sempre di più, rinuncia ad altre possibilità di vita: la qualità del soccorso si «ingrippa», qualcosa si logora. Nessuno è un santo, nascono ombre inconfessabili in famiglia, risentimenti.

Coazioni benigne Altra ipotesi l’introduzione, per certe evenienze, di misure coercitive sulla salute. L’esigenza in particolare – nei confronti di soggetti portatori di gravi dipendenze, contrari per il loro disordine a curarsi – sarebbe quella

dell’approdo a nuovi strumenti legislativi. Con vincoli tali da permettere agli interessati di non morire: utili a scongiurare azzardi, in ogni caso, minacce per i terzi, innocenti. Strumenti articolati, rimarca il debolologo, in seri passaggi di garanzia: dialogo con chi sta male, anzitutto, e poi la regia del giudice tutelare, il coinvolgimento di esperti, la messa a punto di un piano di cura. Margini di impositività tarati sullo stretto necessario; un guardiano che vigili. Sotto sotto, allora, nel pensiero di chi dovrebbe decidere? Quasi tutti evitano il discorso; imbarazzi, lunghi silenzi. Ciò che s’indovina in tanti, mentre voltano la testa dall’altra parte, è la riluttanza a toccare il testo della 180 (la legge Basaglia); inteso come sacro monumento. Per altri il timore è piuttosto quello di abusi applicativi; ci si augura che un cireneo saprà provvedere, inventando all’occorrenza sotterfugi, qualche espediente. In tutti la «speranza di un basso numero di incidenti», nei futuri sbandati, quando sarà il momento: «Che Dio ci aiuti». Risultato? Essendo inapplicabile a quei disagiati, non propriamente infermi di mente, il regime di Tso (il trattamento sanitario obbligatorio previsto nella l. 180), né i medici né i giudici, allorché le emergenze si presentano, possono fare granché. Sicché la gestante alcolista andrà avanti coi suoi liquori dolci, pomeriggio e sera, a go-go, tutti i giorni. Il giovane tossicodipendente ribadirà, con testardaggine, il suo rifiuto nei confronti della comunità terapeutica, comportandosi male pure a casa. La ragazza anoressica non verrà alimentata né dissetata, ben che vada, prima del suo ingresso sotto l’egida dello «stato di necessità»; quando sarà scesa sotto i 34 chili, impossibilitata ormai a uscirne bene.

Dietro i bei modi Quali i motivi delle sordità nazionali, così dense e ramificate, in chi comanda? Tante ragioni sono state più volte analizzate; alcune le abbiamo già viste in trasparenza. Difficile dire quali siano le più diffuse. Ricorrenti, negli esperti di ombre paesane, le indicazioni circa il ruolo svolto da «questo o quel potentato» della penisola; dalle varie «lobby italiane di notabili»: «Chi conta abbastanza riesce a infilarsi, quasi sempre, nei gangli del cammino formativo di una legge; inserendo varianti idonee a rendere il prodotto “più moderno”, “meno ostico”: funzionale al raggiungimento di certi traguardi».

Pochi altri campi offrono in effetti – a chi sappia come «muoversi», dove «attingere» – occasioni remuneratorie tanto propizie: fragilità umana può significare appalti, elargizioni, incarichi speciali, affidamenti; «montagne di quattrini», pubblici e privati (fa il conto il debolologo). Miliardi di euro ogni anno, le statistiche parlano. Deputati e senatori cosa fanno? Prevalgono le ostentazioni ideologiche, sui temi dell’abbandono, gli apriorismi di bandiera: sono in molti a concepire il loro ufficio come tribuna per difendere certi spalti, qualche dogma convenzionale; più che come mezzo per fare il bene, il minor male possibile, dei cittadini. Associazioni di categoria? Spirito di bottega, in larga parte, equamente distribuito fra avvocati, medici, notai, commercialisti, assistenti sociali; calcoli sapienti, autoprotezioni, previsioni al millimetro circa le ricadute di settore: ogni proposta che non vada in «certe» direzioni verrà osteggiata; resa meno spigolosa, idonea a favorire al meglio «quegli» scopi. Vizi del nostro sistema di approvazione delle leggi? Farragine, propensione agli ingolfamenti: la pignoleria e i bizantinismi hanno spesso il sopravvento sulle ragioni che dovrebbero spingere a fare presto, a non respingere quel «grido di dolore». Volontariato, associazioni di familiari, terzo settore? Scarsa organizzazione, poca coesione, sovente vista corta; qua e là comprensibile sfiducia nei trafficanti ufficiali dell’aiuto. Il sistema penale, dal punto di vista delle vittime del reato? Indifferenza – malgrado qualche cambiamento – disinteresse verso quelle sofferenze: conta poco la voce dell’offeso, già in fase di minaccia del crimine; sempre meno a livello istruttorio poi, in sede di computo della pena: nelle decisioni relative ai permessi, alla sorveglianza, alla libertà vigilata. I giuristi, i professori universitari? Per metà, salvo eccezioni, fedeltà alla nomenclatura, alle prassi accademiche di sempre; disinteresse verso i temi di frontiera, le commistioni. Per l’altra metà progressismi di maniera, allineamenti alle mode, specie se d’oltre confine: solo di recente ci si è accorti, ad esempio, come al danno morale ed esistenziale, al loro risarcimento, siano affidate a volte funzioni afflittive, «punitive» dell’autore. I partiti? Calcoli elettoralistici, ossessione del consenso: per quanto nobili, i progetti rispondenti alle necessità di pochi, non abbastanza fruttuosi in termini di voti, verranno accantonati; a beneficio di filamenti più estesi, redditizi. Nei ministeri noncuranza, distrazioni, si obbedisce sempre, si resiste al nuovo: niente rassicura circa il fatto che verrà consultato, per le decisioni, chi conosce il merito effettivo delle questioni; pochi gli esperti in grado di redigere in italiano, non troppo cifrato, un buon testo di legge.

Esperienze sul campo Difficile che i motivi di cui sopra, in uno scambio coi politici, vengano confessati apertamente; il che avrà spesso l’effetto, aggiungiamo, di rendere le fatiche dell’interprete, nella lotta contro certe disfunzioni, ancor più dense, più severe. Due esempi allora, entrambi significativi, circa gli scogli che s’incontrano a «contrastare l’abbandono». Immaginiamo che a qualcuno – una volta avvenuta l’approvazione dell’amministrazione di sostegno (evento del 2004, ce ne occuperemo fra breve) – appaia opportuno suggerire, a completamento delle regole, l’adozione di una serie di provvedimenti. L’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, per cominciare. Ben pochi fra i parlamentari interpellati ammetteranno, ecco il punto, la realtà; riconoscendo di avversare una simile innovazione per ragioni sostanziali, «di pancia»: perché ritengono, in particolare, che la follia sia una minaccia in se stessa; perché pensano non sia male che permanga, entro il codice, una gabbia entro cui l’interessato figuri ben isolato («Tanto chi è “suonato” non si renderà conto, intimamente, di nulla»). Ascolteranno gentilmente il debolologo: che accennerà, è verosimile, a sopravvivenze codicistiche poco civili (legate a un mondo come quello dell’ex manicomio); che discetterà di «manette» incompatibili, costituzionalmente, con le prerogative dell’interessato; che parlerà di «scogli» rispetto a ogni scommessa di rilancio esistenziale, per quell’essere, di nuove socializzazioni. Si scuseranno infine, pur «d’accordo su molti punti», per il fatto di non poter provvedere: sottolineando come «all’ordine del giorno della Camera vi siano tante altre questioni, in quel periodo»; ricordando che «la presentazione di un testo è solo l’inizio»; ammonendo che «i tempi di lavoro del Parlamento sono stabiliti da più autorità, in particolare dalla Conferenza dei capigruppo» – organo non raggiungibile, in quel momento, un giorno certo disponibile a prestare ascolto (magari nella prossima legislatura).

Progetto di vita Stesso discorso sui temi del «dopo di noi»: per le questioni dei genitori intenzionati cioè, finché ancora in vita, ad apprestare un paracadute gestionale ai propri figli disabili; utile il giorno in cui gli stessi saranno rimasti orfani. Di nuovo. Lo studioso non ignora come le persone in difficoltà

(paradossale ma è così) siano spesso le uniche con «risparmi» e «gruzzoletti» da qualche parte; e si accorge, ben presto, quanto il passaggio di quei cespiti sotto il controllo di alcuni «fortilizi» – banche, professionisti, finanziarie, assicurazioni – sia un elemento capace di «fare gola»; dato non secondario, a sua volta, per la strategia di chi sta seguendo, al Governo e in Parlamento, «il disegno di legge in questione». Porrà quindi una serie di domande. Quel disabile, ecco il primo punto, avrà già di suo, o dovrebbe presto avere, un amministratore di sostegno. Com’è possibile che il progetto di legge al riguardo, in via di approvazione, non offra indicazioni sull’argomento? Che non specifichi il ruolo spettante, qui e lì, al giudice tutelare? Si parla in quel testo di «contratti di affidamento», di «trust»; sono i risvolti personali tuttavia (sul piano affettivo, logistico, scolastico, del tempo libero) a contare, nelle giornate e per gli assilli di chi è fragile, in misura primaria. Non occorrerebbe scandire meglio, allora, come nessuna decisione sarà consentita, a livello patrimoniale, senza essersi prima accertato «chi» sia l’interessato? Chiarendo cosa paventi o auspicherebbe lui, per se stesso, quali sogni effettivi coltivi? Ancora una volta il politico di turno, nel prendere le distanze da tutto ciò, sarà di rado sincero. Non dirà apertamente che un «progetto di vita», confezionato con troppi garantismi, potrebbe essere d’impaccio alle «fondazioni di settore», a chi ogni giorno modella beni e patrimoni vincolati; tacerà che un magistrato con gli occhi sempre al codice diverrebbe un intralcio, qua e là, lungo alvei professionali del genere; non confesserà di sperare che, evitando di menzionarlo, il tribunale rimanga ai margini del dopo di noi. Ringrazierà per le questioni segnalate: aggiungendo come quel suo ufficio non sia però «il luogo più adatto per discutere»; suggerendo, per eventuali emendamenti, di accostare semmai «i membri di un’altra Commissione», «alla quale è pensabile che i ritocchi legislativi verranno affidati» («dopo l’esaurimento delle pratiche per la ratifica di una certa intesa europea», «fors’anche di altre normative, in attesa di firma a Bruxelles»).

Strigliate dal continente Più efficace talvolta lo sprone dell’Europa. Da un po’ di tempo, è sempre meno raro che l’Italia, ad opera di qualche organo del continente, a livello politico o giurisdizionale, si veda fatta

oggetto di rabbuffi, per il fatto di non avere provveduto a rendere meno solitaria la condizione di questo o quel gruppo, fra gli esseri svantaggiati. E alcuni dei richiami vanno a segno, concretamente. Spesso, fino a pochi anni fa, veniva imputato al nostro paese, per citare campi in cui i cambiamenti sono poi avvenuti, di non proteggere sufficientemente la categoria degli «omosessuali»; o di non reprimere in modo adeguato gli episodi di «tortura». E non v’è dubbio, in entrambi i casi, sul peso d’opinione che hanno svolto concretamente, per le riforme italiane, quei richiami centrali. Altro esempio l’«interruzione di gravidanza»: abbiamo già accennato sopra ai nodi dell’obiezione di coscienza; e, se ha ragione chi ritiene ancor migliorabili quelle linee, è innegabile il ruolo di spinta che figura rimesso oggigiorno, sul piano amministrativo, a bacchettate quali quelle inferte – è solo un esempio – dal Consiglio d’Europa (Comitato dei diritti sociali, 10 marzo 2012, ricorso n. 87/2012). Oppure la materia della «fecondazione assistita». Per quale ragione una coppia portatrice sana di una malattia genetica, interessata come tale ai temi della procreazione, non dovrebbe poter sottoporre alla diagnosi preimpianto i propri embrioni, creati in vitro? Nessun dubbio anche qui – ricordando quanto già hanno fatto alcuni giudici, la Corte costituzionale in particolare, per migliorare la disciplina in Italia – circa il peso esercitato dai richiami continentali, su quei nostri organismi, nell’ultimo quindicennio.

Rilievi inascoltati Non mancano i rabbuffi, significativi sotto il profilo dell’abbandono, rimasti da noi senza seguito. Tra i più frequenti quelli che l’Europa effettua, periodicamente, nel campo della famiglia. Difettiamo, ci si ricorda, di un «arsenale giuridico adeguato»; non comprendiamo la necessità di far capo, per il focolare domestico, a un «giudice unico specializzato». Non si fa abbastanza per garantire, legislativamente, che non venga turbata la «relazione tra minore e genitore non affidatario»; né per proteggere «la moglie e i figli vittime della violenza maschile»; né per reagire tempestivamente contro le «false accuse di abuso sessuale, a danno dei figli, elevate da una moglie all’ex marito». Non poniamo in essere misure, efficaci e tempestive, al fine di tutelare il «diritto di visita di un padre separato». Le forze dell’ordine non agiscono con sufficiente rapidità, a volte, per proteggere una donna e il figlio dagli atti di violenza del marito/padre; ciò che ha portato troppo spesso all’assassinio

dell’una, dell’altro, o di entrambi.

Giustizia, salute, migranti Negli ultimi anni sono venuti moltiplicandosi gli appunti, all’Italia, in tema di amministrazione della giustizia: siamo indifferenti al fatto che la privazione della libertà possa avvenire, sulla carta, per effetto di decisioni assunte senza l’assistenza di un avvocato; dovremmo dotarci, entro un anno dal momento in cui la sentenza diverrà definitiva, «di un insieme di ricorsi interni, idonei ad offrire ristoro adeguato alla vittima, nei casi di sovraffollamento carcerario». Significative, in generale, critiche come quelle per non avere tutelato la salute dei cittadini di Taranto, dagli effetti delle emissioni dell’Ilva; per non aver risarcito i cittadini, infettati da alcuni virus, attraverso le trasfusioni di sangue che erano state effettuate durante le cure. Ultimamente mostrano di susseguirsi le lamentele circa i migranti. Condanna dell’Italia, ad esempio, per «trattenimento arbitrario» nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa, e sulle navi-prigione nel porto di Palermo; o per aver collocato dei minori stranieri, altro caso, in un Centro di soccorso per adulti, oltretutto caratterizzato da «insufficienza di servizi igienici e da mancanza di adeguato riscaldamento».

9 I danni da abbandono

Dobbiamo abituarci all’idea che, ai più importanti bivi della nostra vita, non c’è segnaletica. ERNEST HEMINGWAY

Disabilità e responsabilità Resta, quale via per reagire all’abbandono, l’approdo al risarcimento del danno. Arriva tardi, dopo che l’evento lesivo è ormai compiuto; svolge tuttavia funzioni deterrenti, a tutto campo: «Se ti comporti scorrettamente pagherai, non ti conviene». In ambiti come il nostro non è poco. A macchie ad esempio la provincia della disabilità, fisica e psichica: domina spesso una cultura dall’alto qui; con scarse inclinazioni, in chi decide, ad ascoltare le ragioni del soggetto fragile, a concedere soluzioni personalizzate. Emblematica una recente vicenda, relativa alle facilitazioni per un concorrente tetraplegico, impegnato in una prova pubblica. Vicenda in cui quest’ultimo si è visto rifiutare, nel nome dei principi sull’anonimato (il tema non sarebbe apparso scritto a mano), la risorsa di un software particolare, che era pur stato dimostrato essergli indispensabile: con l’imposizione invece, ad opera della Commissione esaminatrice, della soluzione materiale dell’«amanuense»; benché fosse emerso trattarsi di una modalità di scarsa utilità, nei suoi confronti. In generale la battaglia resta aperta; non è da escludere in futuro, anche «nel solco della storia», un ampliarsi dei raggi di tutela. È quanto è avvenuto, ultimamente, nei settori delle «barriere architettoniche» (come farà la sedia a rotelle a raggiungere la sala interna, fin che resta intatta la rampa di scalini, sul marciapiede? E come riuscirà l’interessato, fermo giù in strada, ad ascoltare la conferenza o il concerto?); del «trasporto pubblico» (in che modo salire sul Frecciarossa, seconda carrozza, posto 7A, qualora manchi in stazione il carrello elevatore? E cosa

avverrà quando la controparte del disabile, in attesa per la firma del contratto, al capolinea, non vedrà arrivare nessuno?); della «scuola» (cosa accadrà se al giovane allievo, con ritardi cognitivi o sensoriali, non viene assicurato l’insegnante di sostegno, per le ore necessarie? E come farà il ragazzo, se smette di frequentare utilmente, a conseguire il diploma?). Episodi, tutti, che hanno visto la frequente concessione del «danno esistenziale», alle vittime dirette e ai loro congiunti; tappe preziose, a loro volta, nel complesso tragitto di affermazione di questa categoria.

Errori professionali, psichiatrici Per quanto concerne l’area dei contratti – responsabilità da inadempimento – dipenderà dalla posta in gioco. Quel partner era stato assunto proprio per evitare che un certo soggetto, a rischio, venisse abbandonato? Il riscontro di difetti di attenzione, o la mancata controprova dell’essersi fatto il possibile, onde evitare il danno, opererà come elemento base in merito a un’eventuale condanna. Risponde così, classico esempio, la balia la quale si lasci trascinare dal tenentino di cavalleria alla festa danzante, dimenticando a casa il neonato piangente e affamato. Così pure il guardiano del museo che una sera tracanni troppi bicchieri, e si addormenti sul bancone, permettendo ai ladri di rubare i quadri. Dovrà pagare l’avvocato il quale rinunci al precedente mandato, senza giustificazioni, e si metta a difendere inopinatamente l’avversario. Stessa soluzione per l’insegnante elementare che si ritrovi, per ragioni sue personali, fuori dell’aula mentre uno scolaretto, da un po’ turbolento, infila una matita nell’occhio del suo compagno di banco; o mentre una bambina, inquieta di suo da mezz’ora, cade giù dalla finestra mentre sedeva, con le gambe per aria, sul davanzale. Quanto alle forze dell’ordine riluttanti a intervenire, in situazioni di rischio, o che nulla facciano per aiutare soggetti in stato confusionale, saranno decisive le circostanze di fatto. Mentre per i sanitari neghittosi o abbandonici, la responsabilità non potrà mancare, in generale, allorché la condizione del malato fosse tale da sconsigliare, palesemente, un rinvio nell’apprestamento di cure, o dilazioni di sorta nel ricovero.

Disturbi mentali Particolarmente sofferte le decisioni nel caso in cui il paziente

dimenticato, o messo da un canto, fosse persona affetta da turbe psichiche. Un ricorso a misure troppo severe, nella contenzione o nella sorveglianza, minaccerebbe di frustrare, sulla carta, i risvolti di terapie ispirate a valori di libertà; l’opposto indirizzo, a livello materiale come farmacologico, potrebbe comportare serie insidie, quando attuato imprudentemente, rispetto alla vita e alla sicurezza dell’interessato o dei terzi. Casi concreti, negli ultimi anni? Un depresso grave, Alfio, bussa nottetempo alle porte di un Centro di salute mentale, domanda aiuto; una psichiatra inesperta non prende sul serio la richiesta dell’uomo, non gli apre l’uscio, l’uomo finirà per uccidersi: condanna. Un’anziana malata di Alzheimer, Greta, dopo una festa in un Centro esce nascosta fra i partecipanti, a notte fonda; sarà ritrovata tre giorni più tardi, assiderata sul prato davanti alla sua ex casa: condanna dell’infermiera, disattenta. Un ventenne portatore di turbe dissociative, Duilio, tranquillo al momento, ma con seri precedenti, viene lasciato libero di circolare, senza controlli, in una cittadina accanto al Po; una notte rapisce una bambina di tre anni, da una villa, finisce per annegarla nel fiume: assoluzione dei servizi sociosanitari del Comune. Uno schizofrenico assai malandato, Tito, ultracinquantenne, già autore di un paio di omicidi, prosciolto ogni volta nei processi, accoltella mortalmente, una volta tornato nel capoluogo d’origine, la figlia con cui intratteneva un rapporto incestuoso: condanna in primo e assoluzione in secondo grado, per i servizi di salute mentale. A un altro infermo di mente, Mirko, in via di miglioramento, lo psichiatra decide di abbassare, contando sul valore terapeutico di una scelta di «minore dipendenza farmacologica», la quota giornaliera di neurolettici; il giorno dopo il paziente accoltellerà a morte un infermiere: il sanitario verrà condannato.

Assistenza, mantenimento È il campo della famiglia quello in cui i giudici, ancora una volta, mostrano di sanzionare con maggior fermezza le condotte abbandoniche. Delle trasgressioni al dovere di fedeltà s’è già detto (sopra, cap. 6); resta da accennare adesso, pensando al testo degli artt. 143 e 147 c.c., alle violazioni degli obblighi di «assistenza», di «contribuzione economica», di «istruzione e educazione». Dal primo punto di vista, spicca una vicenda che ha avuto luogo, qualche anno fa, in una città del Centro Italia; e che ha influenzato come poche altre gli sviluppi della responsabilità «endofamiliare», nei tribunali.

Una donna non più giovane, Irma, sposata da tempo, entra a un certo punto nella spirale della depressione; causa non secondaria è il fatto di ritrovarsi per marito un perdigiorno, Oscar, fatuo e disoccupato, il quale a tutto pensa al mondo meno che a lei. L’uomo è sempre fuori casa, ama il divertimento, si occupa solo di auto sportive, Porsche e Ferrari soprattutto, ogni tanto beve: ci sono anche momenti di gioco d’azzardo, ha storie varie con ragazze in regione. Fatto sta che la moglie decide, un brutto giorno, di asserragliarsi nel salotto di casa, e di non uscirne più; per nessuna ragione al mondo. Passano alcuni anni, le cose non cambiano; finché un giorno si presentano gli addetti di una ditta di traslochi: occorre procedere allo sgombero, c’è uno sfratto esecutivo cui dare corso. È il marito ad accogliere gli operai, dice loro in sostanza: «Entrate, disfate tutto; troverete in salotto un po’ di confusione, odori terribili, voi prendete ogni oggetto e non lasciate niente: può darsi che ci sia una cosa che si muove, là dentro, un essere vivo, almeno credo, portate via anche quello». Così gli incaricati entrano, si accorgono di una presenza che respira, è una creatura umana; avvertono i servizi sociosanitari, i quali provvederanno a far ricoverare la donna in ospedale e a curarla. Si apre poco dopo il processo; il marito finirà condannato per violazione del dovere di assistenza, sul piano sia penale che civile. Sapeva e nulla ha fatto per aiutare quella poveretta. Fra i due era stata pronunciata la separazione coniugale, intanto; sembra però che alla fine – sono esseri «strani» le donne… – Irma volesse ritornare a vivere col marito, che ne fosse sempre innamorata: era Oscar a continuare a non volerla. Di vicende del genere molte se ne sono ripetute, anche se meno estreme, negli ultimi decenni.

Niente più soldi È tempo di passare al secondo punto, ossia all’abbandono di tipo economico; il tema è quello, in particolare, delle violazioni al dovere di mantenimento, nei confronti del coniuge e dei figli. Si tratta di un filone di grande rilievo pratico; tanto più importante, agli effetti risarcitori, in tempi di crisi quali quelli che stiamo vivendo. E, di nuovo, va rimarcato come nella reazione a simili condotte – quasi sempre il marito/padre, con altrove un nuovo focolare, che smette di corrispondere quanto dovuto ai familiari di prima – tendano a evidenziarsi, anche nelle risposte delle corti, momenti di tipo esistenziale. Affronteremo più in là questi aspetti; è già evidente tuttavia quanto spesso

il venir meno di un sostegno avrà l’effetto, nella prima casa, di determinare sconvolgimenti: si pagano con difficoltà le bollette, si mangia peggio (offerte speciali soprattutto), il riscaldamento autonomo è contingentato, addio lezioni di violino («Più in là magari»), l’insegnante privato di ripetizioni diventa un lusso («Mi dispiace»). E non di rado accade che l’ex moglie, nonché madre dei figli a lei affidati, debba, per far quadrare il bilancio, mettersi a lavorare. Così i bambini, ancora piccoli, si ritrovano più soli: devono badare a se stessi, risultano più indifesi, meno accuditi. La sorella maggiore, bambina anche lei o quasi, diventa babysitter a tempo pieno dei fratellini. L’atmosfera di casa peggiora, ogni scambio si fa pesante; i rapporti con l’ex «capofamiglia», che non passa più un centesimo, si arroventano. Infelicità moltiplicate, a tutto campo; e un risarcimento esteso, se mai verrà il tempo, all’insieme complessivo delle voci.

Incontri a Venezia Ecco poi, circa il rapporto fra padri (inadempienti) e figli (abbandonati), una vicenda che finirà per influire sensibilmente, all’inizio di questo secolo, sulle linee applicative in materia. Siamo a Venezia, un ragazzo e una ragazza intorno ai vent’anni fanno conoscenza tra loro; si innamorano, dopo un po’ lei si ritrova incinta. Lui è subito dell’idea che lei debba rinunciare alla maternità: «Non sarei in grado di mantenere il bambino, tu sei povera; io devo studiare, un giorno semmai…». Lei è di contrario avviso, i due si lasciano. Dopo nove mesi nasce una bambina, Margherita. La madre si mette a lavorare, fa la commessa, tirerà su la piccola come può; dopo un po’ incontra un altro uomo, più tardi lo sposa, avranno figli loro. Il nuovo uomo fa anche da padre a Margherita. Intanto il padre vero è pressoché scomparso; si sa solo che studia. A un certo punto si laurea in economia, poi farà l’esame di Stato, diventa commercialista; pian piano si sistema. Poco dopo incontra lui pure un’altra donna; si sposa, nascono dei figli. In tutti questi anni è successo a Margherita di incontrare occasionalmente, girando per Venezia, in Mercerie, verso Rialto, quel signore che le somiglia; capelli castano scuri, occhi verdi, stretti. Lui, di solito, la guarda da lontano per un attimo; prima quand’era a mano della sua mamma, adesso anche da sola. Arriva il momento in cui la madre si decide a dirle la verità («È lui il tuo vero padre, è andata così e così…»); e poco dopo, siccome le cose non vanno

tanto bene, economicamente, col marito, e poiché la vita è fatta in questo modo, ecco la donna promuovere in tribunale un’azione di dichiarazione di paternità. L’iniziativa ha successo, dopo un po’ giunge la sentenza: quello, sì, è il padre biologico. Per Margherita cambia poco tuttavia; nessun quattrino da quella parte, né un cenno di attenzione. Intanto la ragazza cresce ancora, è diventata bella, armoniosa; solo che nella vita non sono tutte rose e fiori: studi con alti e bassi, lavoretti precari, insicurezze varie. Ogni tanto per le calli di San Marco continua a incontrare quel signore (simile anche il modo di camminare, adesso): la guarda di sottecchi lui, gira subito la testa, fa finta di non conoscerla. Lei non ha il coraggio di affrontarlo. Passano un paio d’anni ancora, succede che Margherita versi a un certo punto in difficoltà. Si sente sola, sua madre ha gli altri figli da seguire. Prende la decisione così di telefonare a quel padre-commercialista, ormai più che quarantenne: quello che vive in una bella casa, che fa una vita tanto più agiata della sua. Lui accetta per la prima volta di parlarle; e dopo un po’ ci sarà l’incontro in studio. Margherita emozionata, fiduciosa, è pomeriggio; non mancherà una specie di abbraccio: si mette a raccontare un po’ dei suoi problemi; non chiede troppo, solo qualche aiuto. Non soldi, non necessariamente; magari la possibilità di parlargli ogni tanto. È il turno delle spiegazioni di lui; il tono è accorato e risoluto allo stesso tempo. «È vero, non mi sono comportato bene con te; non ti ho dato niente, nemmeno dopo la sentenza. È andata così, è stata comunque una scelta di tua madre, allora: io più di tanto non potevo fare. Poi ho incontrato un’altra donna, ho ormai una mia famiglia; io di qua, tua madre da un’altra parte, vite separate; così il destino ha voluto. Sei qui adesso, sono contento di averti conosciuta, oggi abbiamo parlato; è la prima e, direi fin d’ora, anche l’ultima volta però che ci incontriamo. Mi dispiace, mia moglie, è lei che desidera soprattutto così. Abbiamo dei bambini piccoli; preferiamo non sappiano, meglio che nessuno ci veda insieme, padre e figlia ventenne: non voglio facciano domande. Per metà sono anche tuoi fratelli, pazienza. Spero tu possa capire; dovrei scusarmi forse, comunque la sostanza non cambia, almeno per me. Addio Margherita.» Il giudice ravviserà in parole del genere un eccesso di disinvoltura, di glacialità. Chi, anche se a meno di vent’anni, fa l’amore con una donna, senza prendere precauzioni, non può non subire gli effetti di quell’azione; sino in fondo. Il bambino che nascerà, perché è così che arrivano i bambini, sarà anche suo: e avrà bisogno, come tutti i bambini, di essere mantenuto, allevato, guidato; accompagnato per anni e anni. Pure amato e abbracciato possibilmente. Un padre che trascuri di comportarsi così, giudizi morali a

parte, non può evitare seri obblighi risarcitori; sotto i profili sia del danno morale sia di quello esistenziale, oltre che per l’aspetto economico.

Il giudice che non abbandona Conta più al mondo l’attenzione verso i legami originari, di sangue; che fanno sì che una certa coppia risulti alquanto «strana», sul piano istituzionale? O deve pesare maggiormente il riguardo per la circostanza che, insoliti o meno per l’anagrafe, quei due si vogliono davvero bene, che hanno fatto dei figli insieme; che abitano nello stesso appartamento, dormono nel medesimo letto, vivono in concreto come marito e moglie? Muore un uomo, Bruno, in un incidente stradale, la colpa è interamente dell’altra parte; la moglie, Viola, e i figli del defunto chiedono in tribunale il risarcimento del danno. Si può fare, pensa in prima battuta il giudice. Solo, indagando meglio, emerge che quei due non si erano mai sposati: né in chiesa, né in municipio. Pazienza, ragiona il magistrato, è una cosa che succede, anzi è frequente oggigiorno; e la responsabilità civile, da sempre, non guarda troppo per il sottile in queste cose: è un istituto comprensivo, «poco inibito». Se una coppia vivente more uxorio è solida, stabilizzata nel tempo, con buone prospettive di durata: ebbene, il risarcimento, anche a discreti livelli come quantum, non incontrerà grandi scogli. Nel caso in questione emerge tuttavia un «dettaglio», che non si sarebbe immaginato, fatto per spiazzare seriamente: quella che domanda il risarcimento è bensì la compagna del defunto, ma è al tempo stesso sua sorella, di poco più giovane. Sorella sì, stessa madre e stesso padre; il prospetto all’Ufficio di stato civile non lascia dubbi in proposito. Una vicenda, a pensarci bene, non tanto frequente; di quelle che possono comunque succedere, anche in Italia (in certi paesi dell’Europa del Nord è più facile). Due fratelli vicini come età, orfani abbastanza presto, che sin dalla più tenera età, in questo caso, sono stati portati, per temperamento, a volersi un gran bene, a dividere ogni novità; a giocare, a sostenersi, sempre attaccati fra loro. Durante l’adolescenza, complici alcune occasioni, è stato naturale per Bruno e Viola scivolare verso una certa intimità: timidezza, riserbo, il tempo è continuato a passare, la confidenza si è vieppiù stabilizzata; un altro po’ di anni e sono arrivati dei bambini, prima una femminuccia, poi un maschietto. Ora sono la prima all’asilo, il piccolo al nido. Fragilità duplice, vien da osservare: perché è triste che il capofamiglia sia, adesso, morto in un incidente; e perché il padre dei bimbi (fratello della

madre) è in certo qual modo lo zio, al tempo stesso: e loro sono contemporaneamente i figli e, da un certo punto di vista, anche i nipoti del defunto. Il giudice chiamato a decidere come si orienterà? Per quanto concerne i figli, calcola il nostro magistrato, nessun problema; la posizione dei genitori è destinata a incidere ben poco (una volta sì, oggi non più, sostanzialmente) sul «rango» delle loro difficoltà, patrimoniali e non patrimoniali, come orfani: pieno risarcimento dunque. E la sorella, Viola, compagna di vita? Il giudice prende le sue informazioni: il quadro che emerge dai racconti è a senso unico: sorella sì, ma legata al compagno-fratello Bruno da sentimenti freschi, autentici. Vissuti sempre in quel posto di campagna; i figli, è confermato, sono venuti da soli, per caso, e dopo un po’, passato il primo smarrimento, nessuno nel rione, fra i servizi anche, ci ha più fatto caso; coppia serena, quartetto esemplare. Tutti abbastanza simili, come lineamenti del viso; gentili, affettuosi. Una famigliola che, sempre più vien fuori scavando, la comunità circostante ha accolto con naturalezza, semplicità: in ogni circostanza, pubblica e privata: feste del patrono, piccoli cortei, concerti della banda municipale, inaugurazioni. Anche il parroco, don S., all’inizio perplesso, da tempo si è messo l’animo in pace; ogni anno verso Pasqua va a impartire la benedizione in casa, con l’incenso e i chierichetti. E si ferma a bere un bicchierino. Ce n’è abbastanza, concluderà il nostro giudice, per affermare che non sussistono ostacoli di sorta; e per disporre in definitiva un risarcimento non già da «sorella» (quattro soldi), ma da «quasi moglie» (parecchie decine di migliaia di euro).

10 Un progetto, due incontri

Eravamo insieme, tutto il resto del tempo l’ho scordato. WALT WHITMAN

Estate 1986 Fu tra il luglio e l’agosto del 1986, servendomi di un aggeggio come quelli in uso allora (un misto fra una macchina da scrivere elettronica e un computer di prima generazione), che mi cimentai nella stesura del progetto. Un istituto per il codice civile, di tipo nuovo, l’amministrazione di sostegno: qualcuno chiamato dal giudice – un familiare, un esperto, un volontario – ad assistere in via più o meno stabile, a livello economico e spirituale, persone non in grado di gestire accortamente la propria vita, sotto il profilo del diritto. Varie durante gli anni precedenti, con gli psichiatri dell’ex manicomio, le occasioni di incontro; erano state gettate le basi per un dialogo, a più livelli. Poteva un neo-supporto civilistico agevolare il lavoro di cura, quali pazienti ne avevano bisogno, chi più degli altri? L’incapacità legale era una categoria che aveva ancora senso, al presente? Come orientare i passi per la scelta del protettore/curatore, volta per volta, in tribunale? Che peso riconoscere alle istanze proprie dell’interessato, alle sue inclinazioni, quali espressioni utilizzare in prospettiva? Che tipo di verbi, sostantivi, aggettivi?

Stazione Marittima La stesura del testo avrebbe fatto seguito a un convegno, «Un altro diritto per il malato di mente», svoltosi fra il 12 e il 14 giugno 1986 alla Stazione Marittima di Trieste: tre giorni di dibattito, sessioni anche dopocena, un migliaio di partecipanti. Un paio di settimane dopo avrei iniziato in ateneo, con l’aiuto di amici e assistenti, il lavoro «tecnico» sulla bozza di legge. Una cinquantina di articoli, più la relazione di accompagnamento.

A spingermi era anche la gratitudine verso quei colleghi, insigni maestri del diritto privato: avevano accettato di venire a Trieste, da tutt’Italia, in nome della scienza, per misurarsi con argomenti strani, un po’ «sporchi» antropologicamente; inediti per gran parte di loro. Comunicazioni acute dalla tribuna poi, talune classiche, qualcuna più incisiva, aperta al futuro: non poteva non lasciare delle tracce tutto ciò, anche all’esterno, non generare un frutto legislativo, buono per tante «creature svantaggiate». Spettava a me provvedere.

Psichiatri e giuristi Man mano ero venuto segnandomi – di quell’evento culturale (un diario dal vivo) – i più importanti passaggi alla tribuna; anche su un piano di colore, di ambiente. Mai i due mondi, rileggo adesso, si sono incrociati con tanto impegno, al microfono; studiati così intensamente. Per i giuristi si tratta di capire quanto variegata sia la realtà dei disturbi; quanto profondo il nesso che potrà instaurarsi fra supporti introdotti, a livello formale, e affidabilità complessiva degli individui. Per gli psichiatri è un po’ la scoperta del tratto legale nascosto dietro frangenti affrontati sin lì, istintivamente: l’occasione per accorgersi, magari, delle semplificazioni insite in certi approcci ideologici; per rendersi conto come i cattedratici di giurisprudenza non siano tutti antiquati, insensibili; per scoprire come la legge non rappresenti necessariamente una trappola, per vedere come la disciplina della «follia» non sia cosa da potersi affidare, interamente, ai tecnici del diritto. Certo i linguaggi sono diversi; in ognuno c’è una diffusa umiltà, comunque, rispetto massimo. Più titubanti gli psichiatri, almeno nelle prime battute: li impaccia il dover far riferimento, chissà, a istituti e vocaboli che appena conoscono. Parlare davanti a tanti professori universitari non è facile. Vero che la legge non è il loro mestiere: anche così però – sembrano accorgersi – certe mancanze di informazioni sul codice non si giustificano, sino in fondo; che sia questa, fra le altre, una spiegazione delle difficoltà talvolta avvertite, in passato, nel contatto con i giudici? Possibile aver gestito in precedenza tante vertenze, per conto dei pazienti, senza aver mai saputo cosa fosse, esattamente, l’azione di annullamento, l’inabilitazione, il lucro cessante, la disciplina sui danni? Insieme anche il resto, tuttavia. Sono proprio i sanitari, per vari aspetti, i protagonisti nell’assise, nonché i primi destinatari delle relazioni;

quantomeno gli operatori che agiscono sul campo, quelli che seguono l’esistenza di decine di persone, giorno dopo giorno. Si avverte tutto questo; aver lavorato in quel modo significa poter dire al microfono: «Ecco le storie, qualche errore forse, ma ecco i problemi della gente, le esigenze che affiorano; ecco quanto succede a chi sta “male di testa” – in famiglia, nel lavoro, in mezzo agli altri. E quello che si fa per aiutarlo».

Mentre scrivevo Continuavo quell’estate a domandarmi, distillando la sequenza dei (possibili) articoli di legge, che linee di principio seguire. Scegli anzitutto, mi dicevo, locuzioni che scongiurino la possibilità di «stigmi» personali. Di avvilimento sociale, per gli scambi di rete, lungo il quartiere. «Amministrazione di sostegno» è un po’ burocratica, forse, prolissa come etichetta; proprio quello che occorre psicologicamente, pronunciandola non verrà da pensare a qualcosa di «tarato» sul piano medico: di infausto diagnosticamente, di lombrosiano. L’interdizione meglio conservarla, sulla carta; così sono fatti gli italiani, spaventati dalla follia in cuor loro; se tenti delle fughe in avanti, cercando di abrogarla, bloccherai tutto in Parlamento. L’architettura dei rimedi dovrà scandire, quella sì, come la prima opzione spetti al nuovo modello, entro il codice, ogni volta che capita. Insisti sul fatto che il target, per l’istituto nascente, andrà cercato anche oltre il recinto psichiatrico, puro e semplice. Né è scontato che chi soffre mentalmente necessiterà, sempre e dappertutto, di un presidio legale. È sicuro che potrebbero non farcela invece, qua e là, civilisticamente, figure non strettamente biologiche della «devianza»: carcerati, eremiti, migranti di fresca data, semianalfabeti, monache di clausura. Magari un ribelle accanito, un malinconico notturno, un burlone, un maniaco delle slot machine, un cavernicolo. Andranno protetti pure loro, se occorre. Si potrebbe semmai, già che c’è l’occasione, pensare a modifiche delle norme sulla responsabilità dell’«incapace». Troppo comodo, per un ciclotimico poniamo, con diagnosi conclamata, lasciar cadere un vaso da fiori su un passante, e fare poi marameo dal balcone, contando che la legge chiuderà un occhio nei suoi confronti: quel vaso addosso non arrecherà più o meno male, ecco il punto, a seconda di cosa frullasse nel cervello di chi l’ha buttato. Chi rompe paga, deve valere per tutti, basta privilegi. Eviteranno di snobbare quel soggetto così, anche i cittadini all’intorno: cesseranno di vederlo come un alieno, padrone di fare ciò che vuole, immune a priori da

castighi, da ogni strascico.

Neo-evenienze, altri criteri Chiaro il linguaggio nel descrivere, in alto, i compiti del giudice tutelare. Tenue lo stile di quest’ultimo, nel parlare e nello scrivere: fermo il polso se occorre, negli interventi. Netto l’elenco dei doveri gravanti, in basso, sul gestore; delicate le parole – il più possibile colloquiali, fatte di silenzi, ove occorra, più che di rumore – che si dovranno rivolgere al beneficiario. Meglio prevedere in capo ai servizi sociali, dopo ogni incontro con persone in difficoltà, precisi obblighi di segnalazione al magistrato. Meno probabile si verifichino abbandoni, così, sparizioni lungo il territorio; gente persa magari, in quel vecchio edificio, a fine strada, finestre e balconi sempre chiusi. Fare in modo che non sia indispensabile – salvo casi particolari (quand’è in gioco la compressione di diritti fondamentali) – la presenza di un avvocato, accanto all’individuo da proteggere. Assicurare a ogni interdetto, che lo voglia, la possibilità di «disinterdirsi» lui in via diretta, presso il tribunale; permettergli di chiedere da solo, sostitutivamente, l’amministrazione di sostegno. Rimarcare come, a differenza del tutore, l’amministratore è qualcuno che prende decisioni, nella vita dell’assistito; che sa farsi sentire all’occorrenza: sposterà investimenti, se del caso, cambierà banca, affitterà un box, non risparmierà sulle spese voluttuarie, non penserà tutto il tempo agli eredi in attesa, calcolatrice alla mano, dietro l’angolo. Sancire come cuore dell’apparato rimanga, in ogni caso, la figura del beneficiario; è a lui che bisognerà guardare, ai suoi cangianti bisogni. Andrà sempre informato, consultato; ammonito se sbaglia, eventualmente richiamato ai suoi doveri di bravo genitore. Potrà effettuare designazioni, sarà libero di lamentarsi, di esprimere il suo pensiero; di istare per sostituzioni, di chiedere che la misura venga meno: «Sto meglio, basta con le stampelle, ce la faccio da solo».

Non fra le zucchine La bozza viene presentata alla Camera, nei primi anni Novanta. Segue un ampio periodo di discussioni, fra gli «addetti ai lavori»: confronti a più riprese, a Roma e in altre città, con familiari, assistenti sociali, giudici; col volontariato, coi medici legali. Non mancano sorprese, in quegli

anni, critiche varie, da destra o da sinistra; affiorano incertezze di percorso. Rammento ad esempio una riunione a Cernusco sul Naviglio, nel 1992. Sta languendo il nostro progetto, a Montecitorio, c’è alla base chi si lamenta. Per cercare di sveltire il cammino viene invitato un esperto di alchimie legislative, un funzionario del ministero della Sanità. «Meriti individuali a parte» spiegano gli organizzatori «trattasi di persona che sa, come poche altre, in che modo pianificare oggigiorno l’itinerario per una riforma. Proprio quello che a noi serve.» Dopo il dibattito eccoci tutti in una stanzetta accanto alla sala principale. Come accelerare i tempi, su quali interlocutori puntare? Sotto che veste, soprattutto, il progetto dovrà muovere i suoi passi di lì in avanti? Esordisce con pacatezza il funzionario: «Insistere nel presentarlo come modifica al codice civile non conviene; altrimenti va automaticamente, o rimane per sempre, in Commissione Giustizia: dove è facile s’impantani un’altra volta». Qualche istante di riflessione, poi: «Meglio puntare sulla Commissione Sanità, spostarlo là se possibile: più semplice il tragitto parlamentare in questo modo, nonché tendenzialmente più veloce». Momento di sconcerto fra gli astanti. «Più semplice, perché?» obietta qualcuno. «La Sanità coi patrimoni da amministrare, sul terreno civile, cosa c’entra?» L’uomo non perde la sua espressione benevola. «Innanzitutto perché nella Commissione Sanità» spiega «c’è un gran numero di medici; tutto scorre lì abbastanza fluido. Sapete, in Commissione Giustizia abbiamo tante componenti; personaggi che, per motivi vari, passano il tempo a litigare.» Con aria complice: «Senza contare che la Commissione Giustizia è decisamente più prestigiosa; i suoi membri avranno un’agenda dieci volte più folta di impegni ufficiali: sempre assenti, in giro per l’Italia a far politica. E i lavori collegiali ne soffrono». Uno sguardo intorno al tavolo, ecco l’affondo poi: «Occorrerà non lasciar capire, beninteso, che è in gioco una modifica del codice civile. Avremmo gli occhi puntati addosso, subito. Si potrebbe dire che stiamo cambiando, non so, qualche legge sanitaria, zootecnica; magari la disciplina sui prodotti alimentari, frutta o verdura proporrei: e farlo davvero magari, almeno a parole». Mormorii di perplessità fra gli astanti. Non si scompone più di tanto il nostro: «Ovvio che, se ci si orienta in tal senso, il progetto non può restare com’è adesso. Quelle norme di riforma sull’interdizione, per esempio: non si potrebbe toglierne qualcuna?». È lanciato oramai: «Anche il resto degli articoli: formulati in tono così astruso. Un giorno magari, quando sarà

cambiato il clima nel paese! Momentaneamente invece…». Così per qualche minuto; alla fine, dell’impianto iniziale non è restato granché. Qualcuno dei presenti commenta che in quel modo potranno esserci, chissà, maggiori chances di approvazione; e che esiste però un limite al travestitismo, anche nei passaggi delle Commissioni romane. L’uomo del ministero non batte ciglio: «Facendo come dico io la proposta passa in sei mesi. Altrimenti…».

Julia Strano il destino. Due incontri, accaduti a breve distanza di tempo, qualche anno più tardi, mi avrebbero segnato particolarmente. Episodi diversi fra loro. Il primo una relazione «virtuale»; si trattava di un film australiano, che avevo visto per caso una sera. Il secondo un rapporto stabilito con una persona «reale», in comunità. In gioco la vita di una ragazza, sui trent’anni, affetta in entrambi i casi da una grave forma di disabilità, ossea e neurologica. Si assomigliavano fisicamente per certi versi le «due cugine» (così le avrei archiviate in me stesso): una di Adelaide, laggiù, una di Trieste, quassù. Simili i loro guai sanitari, gli imbarazzi; diversi gli insegnamenti che avrei tratto da ciascuna. Julia il nome della protagonista del film Balla la mia canzone, di Rolf de Heer: occhi azzurri, capelli biondo rossi, colore non naturale, pelle chiara. Definirla spastica è dir poco: paralisi cerebrale, schiena storta, volto sottile, corpo deforme, 43 chili. Lingua sempre fuori, penzoloni, occhi ghignanti verso l’alto: dipende dagli altri anche per i bisogni primari, come una neonata; la regia è alquanto disinibita e la mostra in varie situazioni, spesso senza vestiti. Non riesce a parlare, comunica attraverso un sintetizzatore vocale, a tasti, sempre a portata di mano. Non ne poteva più di vivere in comunità, è riuscita a un certo punto ad andare a stare da sola, in una villetta che le ha procurato il servizio sociale. Le hanno assegnato un’assistente che si dedica a lei varie ore al giorno, Madeleine. Il problema è che questa Madeleine, ancora giovane, carina fisicamente, è una vera «sballata»: ossessionata dalla ricerca di qualche uomo, destinata però a cascare sempre su tipacci che la cercano solo per il sesso e la trattano brutalmente. Con Julia è un po’ brusca, spesso distratta, qualche volta aggressiva; talora affettuosa, allegra, un momento dopo di nuovo aspra. Insomma una non tanto regolare, una persona con cui Julia, si vede, è spesso in difficoltà. Ci sarebbero altre assistenti, però, disposte a prendersi cura di

lei? Il rischio, se va male, è di dover tornare in comunità; Julia è costretta a pazientare. Per fortuna ha due amiche la ragazza, grandi e grosse, una è maori; si direbbero lesbiche, estroverse, un po’ strambe, a tratti depresse, che le vogliono bene sul serio: la portano fuori ogni tanto, a fare giri in Land Rover, a bere birra, a ridere, a scherzare. Anche loro non potrebbero prendersi cura di Julia, comunque, non in maniera regolare. Julia batte un giorno «Ti amo» a una delle due, la quale fa capire che sì, pure lei vuol bene a Julia, è troppo disordinata però nella vita, non se la sentirebbe di assisterla tutto il tempo… Entra in scena a questo punto un uomo, Eddie, tipo alto, fisico atletico, quarantenne; operaio nel quartiere, faccia malinconica, capelli lisci, occhi azzurri, acquosi. Conosciuta Julia (per caso, non abita distante), accortosi che è sola, si avvicina pian piano alla ragazza; nasce qualcosa. Eddie la prende un giorno fra le braccia, cammina con lei su e giù per la casa. Julia non può parlare, sospesa in quella stretta, non riesce a fare granché; i movimenti del viso sono quelli che sono, sbuffi, linguate, si capisce però che è felice. Madeleine si accorge della relazione, diventa gelosa, si mette in mezzo. Un giorno che Eddie è venuto a trovarle, fa in modo di eccitarlo, di sedurlo; ha un bel corpo Madeleine: finiscono in vasca da bagno, poi di là a fare sesso. Julia non può fare niente per impedirlo, resta nell’altra camera, sola e apparentemente sconsolata. Non è finita però. Si capisce nei giorni successivi che di Madeleine, a Eddie, più di tanto non importa. Un giorno che in casa c’è solo Julia, Eddie arriva e la solleva con cura, di nuovo, passeggiano, ballano al centro della stanza; lui tenendola per aria, contro il suo corpo. Julia sembra contenta, si vede che lo perdona, riesce con grande sforzo a tirarsi su un lembo della maglietta bianca, in modo da mostrargli il seno; lui la cinge allora delicatamente, la porta di là, la depone sul letto: la spoglia piano, si sveste anche lui, l’abbraccia. Si indovina che qualcosa succede. Madeleine entra in casa in quel momento, li scopre nudi o quasi, intrecciati, si avventa su di loro; picchia Eddie, il quale si riveste e scappa, poi comincia a inveire su Julia, le grida di tutto, si vede che è furiosa, all’ultimo stadio. Il giorno dopo le due fanno pace; tutto, incredibile, sembra tornare normale. Un giorno Madeleine entra in casa, fa i mestieri, imbocca Julia, malaccortamente, sbrodolandola più del solito, e andandosene dice che quella mattina era arrivata una lettera di Eddie indirizzata a Julia: «Sì, però l’ho buttata via senza aprirla. Tanto» aggiunge «non andava bene né per me, né per te.» E se ne va. Julia si avventa a quel punto sulla tastiera, batte in fretta il numero del servizio; vengono a trovarla, spiega l’accaduto, fa capire che

vuole liberarsi subito di Madeleine. Anche se il rischio è di dover tornare all’istituto? Anche. Così il giorno dopo arriverà una nuova assistente. La notte seguente Madeleine, che ha conservato una chiave del portone, sotto un cespuglio, piomba in casa furtiva, si avventa su Julia che sta dormendo, le grida in faccia sconvolta: «Mi hanno licenziata! Sei stata tu vero? Perché? Cosa ti avevo fatto?». Corre di là, afferra la tastiera, la ficca in braccio a Julia, la sfida a rispondere. E Julia batte: «Perché ti ho soffiato il boyfriend!». A leggere questo Madeleine si avventa su di lei, la scaraventa per terra, comincia a picchiarla, la prende a calci. Julia sibila, grugnisce, perde sangue dalla bocca, non può fare niente, però, se non prenderle. Per fortuna arrivano in quel momento le due amiche energumene, che a sberle e spintoni fanno volare Madeleine fuori dalla porta, e poi sollevano, curano e baciano Julia amorevolmente. In una delle giornate successive si vede Julia in cucina con la nuova assistente. Suona a un certo punto il campanello; l’assistente fa per alzarsi, ecco Julia lanciarsi però con la carrozzina verso l’uscio, aprirlo con un tasto. Eddie sulla soglia, incerto, sorriso timido, che farfuglia qualcosa del tipo «Ero passato a vedere come stavi…», e comincia a questo punto una specie di balletto di Julia con la carrozzina, intorno all’uomo, sul patio; un giro, due giri, tre giri, in piena follia, nessuna ragazza al mondo è felice in quel momento come Julia.

In cima ai pensieri Un amministratore di sostegno vero e proprio non l’aveva avuto, Julia. Due o tre spunti erano riscontrabili però nella sua storia; già mi avevano ispirato, nella redazione del progetto, dieci anni prima. È un aspetto su cui avrei insistito, da allora, ancor più decisamente. Mi riferisco al passaggio da un approccio di tipo «commiserevole», plasmato sulle disgrazie naturali, a una visione di taglio «promozionale», con al centro l’attenzione per la persona; e l’inventario minuzioso dei suoi aneliti, obiettivi. Mai con un disabile battute di tipo consolatorio, occhi levati al Cielo: «Vedrai che la prossima volta ti andrà meglio»; «Offri al Signore queste sofferenze». Se farete così vi odierà il nostro, in cuor suo, arriverà a detestare se stesso; vi darà uno schiaffo potendo. Non si vede in quel modo lui, dall’interno. Sin dai primi pensieri, la mattina, eccolo mettere in fila dei propositi; elencando voci sgradevoli, da fronteggiare, e cose belle, invitanti, sulla rampa di lancio: «Oggi passano a

leggere i contatori»; «Debito con la pescheria, saldarlo»; «Le nuove medicine, devi prenderle». Sull’altro verso del tabellario: la cena con la bella cuginetta, a fine settimana, l’iscrizione al corso di «disegno onda» giapponese. Più in là, nelle settimane a venire: «Riprendere il flauto dolce»; «Le farò una sorpresa arrivando all’improvviso»; «Alzerò il mutuo, prendo lo studio d’angolo, al terzo piano».

Parole d’ordine Alcuni bersagli non sono alla sua portata; passa il tempo ad accarezzarli, con la fantasia: raggiungerli è complicato però. Inutile ricordare a se stesso come mai: sa bene in che modo quegli ostacoli potrebbero venir aggirati, ammorbiditi. Ostacoli sì, quella la parola. Non è dentro di lui lo scoglio: gli impulsi e i contatti per l’avvenire, ecco al centro di sé che cosa pone; le scommesse dei tredici anni, le passioni e gli incanti dei sedici. Esistono degli incagli, è vero, qualche saracinesca: intorno a lui però, subito fuori; lungo i bordi della carrozzina, rasoterra all’apparecchio. Cavalli di frisia, impedimenti; la questione è come farcela a organizzarsi, a rimuoverli un po’ nella giornata, quando occorre. Rimuoverli… ha già sentito quel verbo, da qualche parte esiste; una sede nobile anzi, l’art. 3 della Costituzione, secondo comma. «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…» Anche i suoi, di vicoli ciechi, ridimensionarli sì: se accadrà tutto questo ecco che «diverranno realtà quei sogni», poco a poco, non c’è da ridere. Rimozione, felicità; gli impegni e le tensioni verso la prima, il diritto alla seconda. La spinta a cercarla c’è anche nella Dichiarazione d’Indipendenza americana. Fertilità, si può dire anche così, fecondità; «florealità, fruttuosità nell’albero», concretizzare ciò che era stato immaginato, da sempre. Fare a se stessi «quello che la primavera fa con i ciliegi»: espandersi, mettere germogli, trasformarsi in quello che ci si riprometteva. Parliamo se volete di «realizzazione»: far diventare effettiva la propria combinazione esistenziale, giorno per giorno. Quella che ci distingue, rispetto a ogni altro essere: «Tu giallo chiaro? Io verde scuro». «Tu i cani piccoli? Io gatti grossi e pigri.» Realizzazione, il punto luce da mettere nella molecola «fragilità»; in alto, fin dall’alba, mezzi svegli. C’è chi come nocciolo preferisce un altro termine, «inclusione». «Includere, inclusivo, mi hanno incluso.» Non male come frontiere, risponderei, un po’ esaltano anch’esse; hanno però quella radice del

«chiudere», non bella, non canta abbastanza; fa pensare che esista un modello uniforme di vita, in partenza, una vetrina buona per tutti, verso cui tendere. Si replicherà che non è così, il senso ultimo è un altro; d’accordo ma allora… possiamo tenerli comunque i due vocaboli, continuare a impiegarli: nel significato di accessibilità, ecco, di schiodatura «relazionale»; cardini ben oliati, da far scorrere, battenti che si spalancano, per chi era fuori. Una coppia di parole regine, da spendere unite. Una doppia elica, anche nel diritto civile: inclusione, fatemi entrare con gli altri, partecipo al gioco; realizzazione, vorrei calare sulla terra quei miei fili, di nessun altro, da sempre li inseguo, pazienza se a voi non piacciono. Non esistono in definitiva soggetti deboli, a questo mondo, ci sono soltanto creature «indebolite»; per colpa della mancata fornitura, ad opera di chi dovrebbe, delle rimozioni indispensabili. Aspettiamo di sapere cosa insegue, la persona; il nostro occhio resti fisso poi, là sull’intralcio, sui movimenti dell’autorità tenuta «a far cadere i muri», «a smussare quei gradini». Non si sposti di lì fino allo sblocco.

Visite a Nicoletta Da Julia cosa avevo appreso? L’importanza della tenerezza, nella vita di una disabile. Ciascun giudice, in futuro, qualsiasi amministratore di sostegno, avrebbe dovuto ricordarsene. Da Nicoletta? La forza d’animo, la dolcezza nascosta nei posti, e dietro i volti, più strani; l’ordine folto dei pensieri che guidano le scelte di un essere umano, che conducono in porto i bastimenti. Quando la vidi la prima volta, ricordo che rimasi senza fiato. La voce impastata, dai toni bassi, piena di soffi, che avevo sentito nella telefonata di qualche giorno prima: già mi aveva avvertito di qualcosa. Nel guardarla oltrepassare la soglia della biblioteca, alla Comunità Belcovich, su in Carso, dov’ero arrivato in macchina cinque minuti prima: rammento che il problema maggiore era stato quello di far finta di niente. «Chissà se si rende conto» sussurravo intanto una frase cordiale «di ciò che si prova a incontrarla.» Era lei stessa a manovrare la sedia a rotelle, non so come vi riuscisse, con quelle dita: un essere rattrappito, poche decine di chili, braccia e gambe filiformi; la schiena un ramo curvo, che la obbligava in posizione ripiegata, di disfatta: il viso magro e bianco, mezzo storto, una specie di sorriso sofferente, di cortesia, che mai l’abbandonava. Anche la dentatura era infelice, gengive scoperte e denti a chiostra; quella voce poi, la stessa del telefono, un rumore fioco al punto che occorreva guardare fissamente le labbra, per capire:

avvicinando l’orecchio, concentrati al massimo. Dopo una stretta di mano, per modo di dire, prese il via la conversazione. Ero seduto accanto a lei, proposi di darci del tu; accettò sorridendo, come se la onorassi. Difficile darle un’età, avrei saputo più tardi che aveva trentadue anni. Nel locale dove stavamo non c’era nessuno; dalla porta giungevano le voci di chi stava nel salone d’ingresso, ampio e luminoso: avevo visto circa una decina di ospiti della comunità, uomini e donne, in condizioni varie, qualche inserviente. Raccontai, dietro sua richiesta, di questa nuova figura per la protezione dei deboli, da far approvare; studiammo in quali occasioni avrebbe, un giorno, potuto fare comodo anche a lei. Poste, ufficio pensioni, banca, agenzia delle tasse, pratiche ereditarie; per il momento c’era la sua famiglia che pensava a tutto, cose legali e burocratiche; un giorno chissà. Parlò della sua vita, un accenno all’infermità; al computer poteva lavorare, sia pur con fatica, gliel’avevano adattato al meglio. Non le mancavano gli amici. Vedeva con fatica, leggeva comunque, i film li guardava soprattutto in tivù. Cambiò argomento. «Credo che qualunque persona, con o senza problemi, abbia diritto a vivere la sua esistenza.» Aveva scritto un manifesto, tutto suo, fondato una specie di movimento. Ogni tanto pubblicava delle note, in qualche foglio; passaggi in radio private, interviste. Ero meno impacciato al saluto finale, stringendole quelle falangi sottili, irregolari. Non sapevo cosa portarle la volta successiva; avevo trovato alla fine, in una specie di boutique antiquaria, un mazzetto di fiori di garza, grigi e rosa, con al centro perle di fiume. Al mio arrivo Nicoletta era già in biblioteca, con delle carte davanti; non si aspettava il regalino, pareva felice, lo teneva stretto in mano. Raccontai degli sviluppi di un mio seminario, degli «Atti» che avevamo cominciato a raccogliere. Prese lei a riferirmi dei suoi progetti: «Mi aiuterebbero in Comune, pare abbiano una casa a pianoterra, in via Volta; non c’è neanche un gradino, basterebbe adattare il bagno, per la carrozzina. Il problema sarà trovare una badante, riuscire a pagarla, per tante ore…». Aveva un profumo che mi era sfuggito la volta precedente: «Patchouli e mandarino indiano» spiegò «lo distillano delle amiche, in un laboratorio a Nancy, ci sono stata due anni fa». Alle orecchie due cestini dell’Ottocento, onice e argento, «sono di mia nonna, si era sposata con questi». Cominciò a spiegare di sé. Alla Belcovich erano gentili, certe cose però non funzionavano, per lei almeno; troppa promiscuità, sempre musica, un punto non sopportava soprattutto: «Quando mi lavano, e non è sempre una donna a

provvedere, non chiudono mai la porta, tutti vanno e vengono; non è perché è un uomo alle volte, con Sandro c’è confidenza, però lo chiamano al telefono, lui va, non chiude la porta, è solo un esempio, tutto così in questo posto: io lì nella vaschetta speciale, ad aspettare che torni, protestare non serve, anche il cibo, dicono che siamo in famiglia, non c’è un momento di privacy…». Dopo un attimo: «Da sola, ecco come vorrei vivere; so che è difficile, posso farcela però». Tre quarti d’ora, a parlare, facevo sempre meno sforzo a capirla: quel mezzo sorriso non scompariva, c’erano piccole vanità, si era instaurata una speciale confidenza, nella penombra. Non avevo mai parlato così con nessuno. Quei suoi occhi grigio blu, percepivo la femminilità, anche i segni di civetteria, nel girare la testa, quando la interrompevo, nel chinare il collo; delle «mancanze» sue più non mi accorgevo: andandomene non mi limitai a stringerle la mano, le passai due secondi la destra fra i capelli.

11 Il Parlamento approva

Non si piange sulla propria storia, si cambia rotta. RALPH WALDO EMERSON

Sorprese dall’ospedale All’approvazione della legge si giungerà nel dicembre 2003; l’amministrazione di sostegno è entrata in vigore nella primavera del 2004. Ricordo quanto complesse, già nei primi mesi, fossero le questioni con cui i giudici erano chiamati a misurarsi: interrogativi che mai avrei immaginato, diciassette anni prima, potessero sorgere. L’applicabilità o meno, per esempio, del neo-strumento al campo sanitario. Redigendo la bozza nell’estate del 1986, avevo preso in considerazione, dentro di me, soprattutto aspetti di natura economica. Constatavo ora quanti medici, dovendo intervenire su creature «appannate», si orientassero a non procedere subito: esigendo in via preventiva la nomina di un fiduciario, incaricato di prestare il consenso informato. Rispondere sul punto era apparso lì per lì impegnativo. Dalle cancellerie si obiettava: «Malattie, non siamo competenti». Presso altri uffici, Asl, Comune, Provincia, l’accoglienza era identica: «Non c’entriamo coi permessi civilistici». Quel chirurgo rimaneva sulle sue intanto, bisturi in mano, «Appena è tutto in regola procedo»; temeva di commettere abusi, di andare incontro a noie. «Così prescrive il nostro codice deontologico.» L’infermo aspettava. Dopo un po’ era emerso come la porta giusta, cui bussare, fosse proprio quella del giudice tutelare: corretto per i medici, salvo che per «banalità terapeutiche», rivolgersi lì. Ecco il primo decreto in tribunale allora, con quell’oggetto: sì oppure no al consenso informato, a favore del malato, attraverso l’amministrazione di sostegno. Ospedale soddisfatto, vicario consenziente (per iscritto): il sanitario aveva proceduto, il paziente non era morto.

Appendiciti, bypass, cisti alla nuca, ernie al disco, cataratte; ormai il ghiaccio era rotto per sempre: i medici si sarebbero comportati tutti allo stesso modo.

Opzioni familiari Parabola analoga quella delle scelte personali; legami familiari soprattutto. Oltre alle varie magagne che l’assillano, sul terreno psichiatrico, una donna non più giovane, Diana, si ritrova con un marito scadente: sfaccendato, con strane pretese sessuali a volte, traditore. «Meglio lasciarlo al suo destino», consigliano le amiche. La separazione coniugale è qualcosa che non va in automatico però, occorre chiederla in modo esplicito. La nostra paziente alterna momenti validi ad altri meno buoni: d’accordo nella sostanza, disamorata ormai del marito, non è in grado comunque di prendere iniziative, non da sola; chiaro che, se non si vuole abbandonarla, occorrerà nominarle un protettore. Possibile una cosa del genere? Qualche studioso risponderà di no: «Non si può, settore troppo intimo quello del matrimonio». Discussioni varie, perplessità al Palazzo di Giustizia; finché non prevarrà il buon senso, di nuovo. Delicata la sfera domestica, certamente, quel che conta è però il best interest della persona: la soluzione più conveniente, cioè, sotto il profilo pratico; anche nelle vertenze tra marito e moglie. Perché perpetuare i disagi nel focolare, inutilmente? Un giudice accoglierà la richiesta a un certo punto: via libera alla separazione coniugale, per Diana, tramite amministratore di sostegno. Dopo un po’ anche la domanda di divorzio (un altro giudice): l’annullamento del matrimonio poi, la divisione dei beni, atti consimili; le risoluzioni circa i figli minori. Un nuovo capitolo si è aperto in materia.

Mattinata di maggio Fin dalle prime applicazioni in tribunale, post 2004, erano i nodi della sovranità gestionale, delle eventuali limitazioni in proposito, a prospettare le sfide maggiori. Due gli scenari che si affacciavano periodicamente; opposti come tipo di problemi. Illustrerò il primo con le parole che avevo usato, al riguardo, in uno scritto di quegli anni. Un’anziana vedova, Wilma Persichetti, ex insegnante di musica alle

elementari, in pensione, soffre di problemi alle gambe; accusa anche piccole amnesie ogni tanto: manca soprattutto di dimestichezza con gli istituti di credito, con gli intrighi della burocrazia. Per queste ragioni ha chiesto in tribunale, da quando vive in una casa di riposo, che le venga assegnato un amministratore di sostegno; decisione che ha presto avuto luogo: al nipote Gualtiero, di trent’anni, è stato conferito l’incarico di ritirare mensilmente la pensione della zia, milleseicento euro, e di versarla sul libretto di deposito. Così per otto mesi; finché arrivano con maggio i primi tepori, in città. Alzandosi una mattina, la nostra Wilma sente il profumo delle acacie, dei glicini in fiore; le tornano in mente alcuni episodi, di quand’era ragazza: decide così, visto che quello è il giorno in cui si ritira la pensione (contanti), di provvedere lei direttamente. Possiamo vederla che si avvia con fatica, appoggiata al bastone, alle volte del palazzo dell’Inps; vi giungerà dopo quaranta minuti; per strada ricordi vari di quand’era bambina, adolescente: soprattutto la scena del primo incontro, in piazza, con Giovanni suo marito, morto da anni. Ed è con un sorriso luminoso che la signora Wilma si presenta allo sportello, infine, al quarto piano dell’edificio; porgendo la carta d’identità. Stanca, orgogliosa di sé. Possiamo immaginare l’impiegato, suo antico allievo di musica, che esclama alzando la testa: «Ah, la maestra Persichetti, ben felice di ritrovarla»; aggiungendo poi: «Viene un signore abitualmente, per l’incasso, con un documento del giudice, il ragionier Gualtiero». C’è da chiedersi come debba finire, allora, nel momento in cui Wilma aggiungerà che è passata lei, quel mese, a riscuotere. L’impiegato, due sono le ipotesi, potrebbe rispondere: «Certo, cara maestra, ecco i soldi, se così oggi desidera», o potrebbe dire invece: «Mi spiace, non posso accontentarla; incaricato ufficiale è il ragionier Gualtiero, così dice il decreto». Ai convegni, quando pongo il problema, non mancano risposte nel secondo senso, «Non si può». Prevalgono tuttavia i voti favorevoli all’altra conclusione: la signora Wilma potrà pretendere, sì, che la pensione le venga consegnata in mano, direttamente, «Quella volta e tutte le altre che vorrà». Si tratta in effetti della soluzione giusta; la legge è chiara in proposito. Qualche rischio di confusione esisterà, astrattamente: con l’ammettere che una stessa operazione sia effettuabile, in maniera autonoma, da due diverse persone. Si tratta però di inconvenienti assai meno seri, ecco il punto, rispetto all’umiliazione dell’impedire a una persona, ancora compos sui, di fare ciò che preferisce.

Meglio di no Il secondo gruppo di questioni era quello arieggiante agli stemmi dell’«antipsichiatria»: fautori e detrattori, gli uni contro gli altri. Fin dall’inizio bracci di ferro ai convegni, negli incontri fra studiosi, operatori. Erano cominciati già prima del 2004: gente che si richiamava alle posizioni di Laing, di Szasz, di Arieti, di Cooper. «Ciascuno vada dove gli pare, a questo mondo!» «Chi è strambo è lui che può insegnare agli altri.» «C’è più verità in una rivolta, anche piccola, che in cento sottomissioni.» Mi colpiva l’accalorarsi nelle discussioni; tendevo a pensare a fantasmi personali, inconfessati, degli interlocutori. Libertà a tutti costi, altro non c’era sul tappeto? Come lasciare in vita poteri minacciosi, «eccessi ripetuti ogni giorno», distruttivi per il soggetto anzitutto? Dopo un po’ mi ero orientato, con fermezza: niente lassismi o titubanze questa volta. «È il dieci del mese, non hai più un quattrino, giovanotto.» «Lasciatemi in pace, so io cosa mi occorre.» «Bevi tre litri al giorno, di vino, lo sfratto è ormai esecutivo.» «Pensate ai fatti vostri.» «Devi venir salvaguardato da te stesso.» Il contrario del «caso Persichetti»; poco esperta di sportelli, la nostra pensionata, disattenzioni: niente di preoccupante però. Un tossicodipendente invece: «Per qualche dose daresti via anche i mobili, l’appartamento». «Roba mia, faccio quello che voglio.» «Andrai messo in sicurezza per un po’.» «Nessuno può dirmi come vivere.» Non si è vittime della cocaina per sempre, occorreva rispondergli. «Potresti smettere un giorno, e ringraziarci per averti fatto sopravvivere.» Conclusione: «Dall’amministratore di sostegno non riceverai, per il momento, più di cinque euro al giorno; dieci la domenica.» «Continui a “farti” ogni mattina? Potrai prelevare solo fino a un certo punto.» «Il conto aperto ce l’avrai in pizzeria, birre eccettuate; in latteria poi e dal pasticciere.» Ferite all’amor proprio, invadenze? Forse, ma in casi simili le «zone d’ombra», per i vincoli gestionali da introdurre, si profilavano meno preoccupanti di quelle «spire» viziose, autolesionistiche. Stesso discorso per chi accusasse, mi venivo convincendo, qualche schiavitù al gioco, dipendenze dai cavalli, dalle donne. Per chi soffriva di certi tipi di malattie mentali; per chi risultasse un gran prodigo, scialacquatore, ingenuo all’ultimo stadio. Per chi era un dandy irriducibile, un filantropo ossessivo; essendo sposato magari, con la casa ipotecata, due

bambini piccoli.

Pro e contro Ero uscito da quelle riflessioni avendo compreso vari punti. Il problema del «chi incapacitare», nel decreto giudiziale, del «fino a che punto spingersi» coi lucchetti: si trattava di uno soltanto fra gli esempi: i dubbi che la pratica poneva erano complessi, non meno delle istanze sulla sovranità. L’uomo è spesso «sfrangiato», dicevo ormai agli studenti. Una persona debole è fatta a chiaroscuri, ancor più delle altre: c’è la parte segreta che non si conosce, che nessuno vede; la risposta del diritto verrà di conserva, storia per storia. Eravamo al Dna dell’amministrazione di sostegno; e la via d’uscita, già si era visto, consisteva nel puntare sui «vestiti su misura», da cucire attentamente in tribunale. Col metro, col gesso, con le forbici; con l’ago in mano, il filo nella cruna. Risposte «dal basso», dopo sapienti istruttorie; questa la «rivoluzione» che era scoppiata, rispetto ai vecchi impianti. Per l’interdizione, sottolineavo, c’è un telaio rigido; che prende il via a certe condizioni, delineate una volta per sempre. Il contrario nell’amministrazione di sostegno: l’ordinamento indica una stella polare, qui, degli aquiloni in volo: rigoglio, valorizzazione delle attitudini, tenuta quotidiana, benessere fisico, per quanto possibile. Infinite le variabili legalmente, numerose quanto i possibili destinatari: ciascuna immaginata per adattarsi alle peculiarità singole. E tutte insieme comporranno l’affresco della corte dei miracoli, lungo l’intera nazione. Per il giudice si trattava – ascoltando l’interessato, «respirando con lui» un’ora di fila, guardandolo negli occhi – di cogliere le note distintive, più nascoste; nelle ritrosie quotidiane, nei tentennamenti, negli schizzi grandi e piccoli. Distillando infine la ricetta più adatta alle circostanze. Da allora sempre quel modello di giudizio, per il magistrato: ogni volta scegliere, fra il «non abbandonare» e il «non mortificare», il punto migliore di equilibrio.

12 Caso per caso

Non è grave se gli uomini non ti conoscono. È grave se tu non li conosci. CONFUCIO

Chi decide dal medico Così mi sono abituato a presentare la materia, agli studenti: la maggior parte degli interrogativi non trova soluzioni prefabbricate, nel codice; spetta a noi usare la testa. Sensibilità ai dettagli, ai microcosmi; il bravo sarto appunto. Ad esempio: potrà un infermo di mente, al pronto soccorso, dire lui ai dottori cosa va fatto del suo piede sanguinante, del suo naso? Entro spesso in argomento con questa domanda; dall’aula si levano indicazioni contrastanti, prevalgono i no di solito: se è «matto» non può essere lui a decidere. Di regola sì invece, riprendo, sarà la sua, sempre che non sia «saltato» del tutto, l’indicazione operativa che vale. Così dobbiamo abituarci a ragionare: anche nelle creature con una diagnosi psichiatrica, non proprio estrema, le parti «colpite» sono alcune soltanto. Occorrerà vedere, ogni volta, se il problema inerisca a una delle zone guaste, malandate internamente; a seconda dell’esito, verrà rimessa o no la facoltà di scelta all’interessato. Già la legge prevede – ma è soltanto un esempio – che la decisione se abortire o meno la prenda la donna, pur se interdetta (art. 12, l. 194/78); e sarà sempre il paziente, schizofrenico o meno, a decidere lui il colore della nuova dentiera, a rifiutare eventualmente l’anestesia per l’otturazione di una carie. All’opposto, un malato che accusi ossessioni patologiche, in merito al proprio stomaco, con deliri e allucinazioni, difficilmente verrà lasciato a decidere se e come operarsi a quell’organo, in ospedale.

Case di riposo

Altre questioni con le case di riposo. Qualora un’anziana signora non sia in grado, per ragioni mentali, di firmare il contratto con una casa di riposo, è vero che occorrerà interdirla, e chiedere al tutore di firmare in sua vece? Certo che no, occorre rispondere: sarà più che sufficiente nominarle un amministratore di sostegno, e far sottoscrivere l’accordo da quest’ultimo. Come uscirne, tra l’altro, qualora l’interessata stesse male psichicamente, segnata da malinconie, non tanto però da poter essere interdetta? Ancora: possono le case di riposo pretendere, come molte fanno nei moduli di ammissione, che l’anziano in arrivo abbia un suo amministratore di sostegno, già in carica? Sicuramente no, è la risposta: il fatto di essere in là con gli anni, magari non autosufficienti con le gambe, non significa risultare debilitati ai sensi del codice civile. Quella prassi per l’ingresso, diffusa in certe zone d’Italia, corrisponde a un mero arbitrio; tale da esporre l’istituto stesso, va sottolineato, a sanzioni di vario genere, non escluso il risarcimento del danno. Lecito, a una casa di riposo, fissare «norme interne di condotta» per i suoi assistiti? Certamente sì, ma non fino al punto – ecco il criterio – da soffocare spazi vitali, magari «eccentrici» in qualcuno degli ospiti. Sarebbe abusivo, ad esempio, un regolamento che imponesse a tutti di non ascoltare la radio, la sera, neanche con la cuffia; che vietasse di leggere, la mattina, di bere un goccio di Porto come digestivo, che obbligasse ognuno a seguire certi canali alla televisione, a indossare dei grembiuli neri, a cantare in coro, a battere le mani. Che proibisse variazioni al menu, che imponesse di salutare in modo cerimonioso, di usare determinati profumi, che vietasse di ricevere fuori orario visitatori giunti da lontano.

Honda Jazz Passiamo ora a un caso di conflitto fra istanze d’ordine patrimoniale e non patrimoniale. Un uomo con seri disturbi mentali, Marcello, ancora giovane, vede un giorno per strada una Honda Jazz, blu: ne resta colpito. Scopre un altro esemplare parcheggiato una settimana dopo, in centro, verde questa volta: il suo amore cresce. Gliela fanno vedere poi su Google, cruscotto, freni, optional, rimane affascinato. Quell’auto diverrà per lui la cosa più bella che esista. Non sa guidare, Marcello; non ha la patente, mai potrà prenderla. Gli regalano dei modellini di Jazz, di vari colori, ci gioca. Il suo sogno è diverso però: avere una macchina vera, tutta per sé, posteggiata sotto casa.

L’amministratore di sostegno è incerto, al riguardo, anche il giudice; i parenti sono divisi. Nuova, modello base, verrebbe più di diecimila euro; sul conto corrente i soldi ci sarebbero. Sprecati? Mi fermo un attimo qui, allorché racconto a lezione l’episodio, indìco in aula una votazione; per alzata di mano, la maggior parte degli studenti risponde che va bene. Concordo: e in questo caso è davvero finita così; il giudice ha dato via libera all’acquisto. Un usato d’occasione. Aggiungo che il neo-proprietario faceva poi, ogni mattina, quello che aveva annunciato. La Jazz in giardino, argentea; lui che scende giù e ci passa un’ora dentro, prima di mezzogiorno. Ogni tanto lo portano a fare un giretto, vero, per la campagna; Marcello preferisce però la soluzione da fermo; lui da solo, alla guida. La chiave dell’accensione non c’è, allora, ha imparato comunque a simulare: mani sullo sterzo, fa il rumore del motore, accelera con la voce, wrumm wrumm, cambia anche le marce. Felice, per il momento, così… Se cambierà gusti la Jazz verrà rivenduta, non avrà fatto tanti chilometri.

Responsabilità verso l’assistito Immancabili, nei corsi di formazione, le domande sul risarcimento: «Se commettiamo errori, una volta nominati amministratori di sostegno, dovremo risarcire il danno al beneficiario?». Tranquilli, rispondo subito: sentenze del genere, a parte i casi di furto o appropriazione indebita, sono pressoché inesistenti in Italia. L’amministratore di sostegno svolge un’attività benemerita, nella società; non proprio gratuita ma quasi. Il principio sarà allora quello di una sostanziale impunità, per gli sbagli commessi, ove non siano gravi, imperdonabili; risarcirà soltanto il gestore il quale abbia agito ai limiti della malafede, infischiandosene. Il rimedio, dinanzi a comportamenti scorretti, sarà casomai una sostituzione. Più di quanto fatto male dal vicario, comunque, conterà ciò che «non è stato per niente realizzato»: rinvii ingiustificati, frustrazione continua di desideri. Le sofferenze patite sì, ma soprattutto i viaggi mancati, dall’assistito, perché nessuno li ha mai organizzati, anche se erano stati richiesti; le relazioni compromesse, poi, le porte lasciate chiuse, per mera abulia, indifferenza – le energie disperse in direzioni spente, noiose.

Una coppia (quasi) come le altre

Adesso un caso che tende a presentarsi, ultimamente, più spesso di quanto non sembri, e che riguarda persone un po’ speciali. Scelgo per gli studenti, fra le varie possibili, la storia di Alessio: un down di trent’anni, artigiano, con due seri problemi da risolvere. In primo luogo. Al Centro Incontri provinciale ha conosciuto un anno e mezzo fa, Manuela, affettuosa: anche lei down, venticinque anni. È iniziato un rapporto di amicizia fra di loro, trasformatosi dopo un po’ in qualcos’altro; più romantico, intenso, penserebbero ora a un matrimonio, abbastanza presto. In secondo luogo. È proprietario di due immobili, Alessio, regalatigli dai suoi. Ha poi la sua pensioncina di invalidità; svolge inoltre piccoli lavori retribuiti, come aiuto-finestraio. Intorno a lui ci sono dei cugini, che non gli piacciono (eredi possibili, sulla carta); avverte ora l’esigenza di far ordine tra le sue cose, vorrebbe fare testamento: «Sono giovane» ripete «tante cose della mia vita ancora agli inizi; vorrei cercare di sistemare tutto, quanto prima». Mi fermo col racconto a questo punto, chiedo agli studenti cosa pensino. Un down voglioso di sposarsi: e se non funzionasse… delusioni profonde, bracci di ferro, già per le persone normali; per chi ha già limiti di suo poi! Meglio aspettare no? Idem per il testamento: scelte delicate, chi vuole compierle deve intendersene parecchio; non può esserci posto per la fretta. Votazione in aula, risultati a larga maggioranza per il sì: tanto per la voce «nozze» che per quella «testamento». E quando chiedo mi spieghino il perché, le risposte si assomigliano: vada dove vuole Alessio, per il mondo, con la sua dolce Manuela (che sogna anche lei di maritarsi, vestito bianco, acconciatura, come le amiche d’infanzia). Hanno la testa a posto i down, ben più della media; nessuna aggressività, tanta pazienza. Il testamento poi, basta sapere e ricordare, nel farlo, «chi ci è davvero caro», «chi ci ha fatto del bene spontaneamente, in passato». Qualche azzardo potrà esserci, è la vita comunque; meglio che uno stop, per principio, no a uno sbarramento cartaceo, rispetto a quelle forme di espressione.

La badante dell’Est Avrei continuato, in quegli anni, a imparare dai miei studenti più che da tante monografie: bastava fossi chiaro, nei miei quesiti, dovevo solo far intendere qual era la posta in gioco. Un caso complesso allora, non raro nella realtà, vagamente boccaccesco. Un arzillo vedovo, l’ex ammiraglio Battenti, parecchio anziano ormai, con qualche soldo da parte, vorrebbe ammogliarsi con una giovane badante

dei paesi dell’Est, Jovanka: bionda, sensuale, occhi azzurri (figlioletto lasciato nel paese d’origine, coi nonni). L’ha conosciuta su internet, due anni fa; i parenti dell’uomo sono preoccupati, adesso, hanno coinvolto il giudice tutelare. Sì o no alle nozze? «Sì» votano in aula i ragazzi, a grande maggioranza «qualora lei figuri almeno un minimo affidabile, con un bel carattere: non troppo avida, affezionata quel tanto che basta; disposta ad accettare dei controlli periodici, accanto a lui, dal commercialista, dalla banca, magari dallo psicologo.» «No al matrimonio invece – una convivenza di fatto basta e avanza, per i due “colombi” – se è evidente che Jovanka comincerebbe a spolpare il “marito”, fin dal secondo giorno; se è una pessima cuoca che gli preparerebbe piatti pesanti, indigeribili (fatti apposta così magari); se è già chiaro che porterebbe in casa qualche amante, ogni tanto. Se è scontato che quelle micro-tenerezze, ragione non secondaria per cui l’ammiraglio vuole impalmarla, lei smetterebbe, tre settimane dopo la cerimonia, di prodigargliele.»

Sclerosi laterale amiotrofica Altro caso, non insolito purtroppo; poco da commedia. Una donna in là negli anni, Clara, con una forma di grave Sla, attualmente lucida, non vuole che le venga applicata la ventilazione artificiale, quando sarà l’ora. «Una strada senza ritorno, dice, non sarebbe vita autentica; trattandosi di uno stadio avanzato come il mio, zero speranze di ripresa: meglio farla finita quanto prima.» Chiede quindi che dal giudice tutelare le venga subito nominato l’amministratore di sostegno; nel suo caso il marito, Stefano: con l’esplicita attribuzione (a quest’ultimo) della facoltà di negare ai medici il consenso, circa quel trattamento, al momento giusto: quello del ricovero ospedaliero, quando lei sarà prevedibilmente obnubilata. Hanno ragione, domando, i magistrati i quali, osservando come il codice parli di «attualità» dello stato di oscurità, negano possa farsi luogo a tale nomina? In astratto sì, votano gli studenti: davanti a richieste immotivate, senza base. C’è un caso comunque, proseguiamo all’unisono, in cui sarà possibile esigere che l’amministratore di sostegno, con quella delega specifica, venga nominato «senza indugi» (nella fase in cui la paziente è ancora padrona di sé). Quando esista, ed è l’ipotesi in esame, il fondato pericolo di un’impennata repentina della malattia; con un rabbuiarsi fulmineo nella consapevolezza, a non lontana scadenza: questione di poche settimane.

Troppo alto è il rischio, ecco la spiegazione, che la crisi respiratoria e di coscienza possa aver luogo in frangenti – di notte, nel weekend, durante le feste – in cui il giudice tutelare sarà, di fatto, irraggiungibile. Col risultato di una paziente, allora, non in sé fisicamente e mentalmente; priva di un vicario in grado di rappresentarla: destinata a finire proprio dove lei diceva sempre di temere, ossia dentro il polmone artificiale.

No a Maramaldo Gli stati vegetativi permanenti infine. Varie le questioni rispetto a cui – per il caso di malati in coma irreversibile, al limite della vegetalità – già in quegli anni gli studenti mostravano di orientarsi verso risposte di tipo «laico». Oggi la situazione non è diversa. Non mi riferisco solo alle classiche questioni bioetiche, in particolare: possibilità che la spina, nei casi più estremi, venga a essere staccata; decisività di fattori come il dolore, il degrado, l’inguaribilità; opportunità che un testamento biologico non manchi, rilevanza però anche di disposizioni non formalizzate; revocabilità delle stesse; importanza di ogni scoperta scientifica intermedia; tutela contro l’accanimento per chi, pur soffrendo, mai abbia espresso opinioni in proposito. Penso anche ai nodi più strettamente «privatistici». Ammettere che certe decisioni, nel fine vita, possano essere prese dal rappresentante legale, nominato dal giudice (di solito un familiare)? Tendenzialmente sì, i voti favorevoli sfiorano l’80 per cento, in aula; visto che l’interessato è, per definizione, persona non in grado di esprimersi. Immaginare che il paziente in coma verrà interdetto, e che a esprimersi coi medici sarà un vero e proprio tutore? Certamente no, afferma quasi il 100 per cento degli interpellati. Qualora l’interessato non sia minorenne, occorrerà subito nominargli un amministratore di sostegno: ove fosse già stato interdetto, andrà subito «disinterdetto», e trasformato in un semplice beneficiario; col decreto del giudice, allora, che attribuisce all’amministratore le facoltà rappresentative. Prevedere una responsabilità a carico della pubblica amministrazione che mostrasse, sul piano esecutivo, di ostacolare il cammino stabilito dal giudice? Sicuramente sì, è la risposta quasi unanime: in particolare nel caso di una Regione la quale rifiutasse, come è accaduto nel caso Englaro, di indicare in quale dei suoi ospedali potrà trovare attuazione il provvedimento sospensivo delle cure: con la conseguenza di costringere la famiglia, lungo l’Italia, a

defatiganti ricerche della sede in cui giungere a quel «risultato di civiltà».

13 Il quadernetto dei no

Se un ragazzo non è in grado di imparare qualcosa dalla strada, non è in grado di imparare nulla. ROBERT LOUIS STEVENSON

Scheda base Era stata del Comitato genitori l’idea: un incontro sui problemi del disagio, cui invitare soprattutto le famiglie. Si erano verificati episodi strani in città, durante le ultime settimane: «spacciatori in erba» colti sul fatto, micro-vicende di bullismo; un quindicenne che aveva tentato di uccidersi. Gli organizzatori volevano approfondire, capire meglio; c’era chi temeva coinvolgimenti a casa sua, nella scuola dei figli. A me veniva chiesto di parlare di diritti: meglio se in chiave preventiva, ammonitrice verso i «giovani». Avevano pensato con l’occasione a un sondaggio, fra i ragazzi delle superiori; tracce mirate su una giornata tipo, più o meno hard, come spunto di base: «Vedremo le reazioni, potranno orientare gli interventi alla tribuna». Ecco il testo proposto per la votazione, «Quindici ore nell’esistenza di un minore». «Alle undici, appena alzati, tutti dietro lo scoglietto a fare sexting col cellulare: Valeria non voleva, l’abbiamo convinta, ridacchiava anche lei alla fine; si è tolta tutto, per premio le ho preparato una canna speciale, roba del Dahomey. Poi la gara a chi dalla spiaggia riusciva a colpire il nido dei becchettini, sulla roccia, ha vinto Fabrix; il nido si è rotto a metà, coi sassi i piccoli implumi sono cascati, non credo si siano fatti male. Più tardi a mangiare un super burghy-angus-nutella in viale. Pomeriggio noioso, sotto le colonne: nuovo videogioco comunque, il Kill Brand, grafica iperrealista, ogni pigmeo che uccidi gli puoi staccare le gambe, le braccia, nella versione “viso” puoi far uscire il sangue dalle orecchie, dagli occhi. Con la Blue

Whale avrei il turno domani, vediamo: scelgo forse la modalità in cui il “tutor” appena morto ti cucina, ti mangia… Dopocena il gioco coi barboni alla Stazione vecchia: per cinque euro accettano di farsi fare cose strane, non so, per me puzzano troppo. Il rave è alle undici, ci saremo tutti, le arancioni balcaniche sono scese a sette euro, fantastico.»

L’altra scheda Sconcertanti quei passi, alcuni specialmente; aspro sino a quel punto l’universo giovanile… cosa fare in concreto? Avevo suggerito, un po’ in tono provocatorio, una scheda alternativa. La decisione degli organizzatori era stata di accoglierla, di presentarle ambedue per il sondaggio; in parallelo, come un gioco di opposti: «Quale vi corrisponde di più?», scelta libera. Ecco qui la (mia) «contro-agenda di un diciassettenne». «Sveglia alle otto, due ore di volontariato coi bambini dell’oncologia, io vestito da Peter Pan. A casa ultime pagine di La luna è tramontata, di Steinbeck, più tardi scritto qualche verso del mio “poemetto”, preferisco non parlarne. Pranzo in casa, sogliole e verdura fresca; in stanza poi, dei vecchi vinili, chi è più alla moda di me? Shine On You Crazy Diamond, Battisti, il terzo movimento della Trota. Un’occhiata alla prima pagina del quotidiano paterno: non mi è chiaro se l’Europa va a destra o a sinistra. Finito il mio algoritmo, domani spedisco per il concorso. Bagno in vasca alle sei, caprifoglio, poi l’appuntamento con Grazia: era ancora più carina del solito, passeggiata nel bosco, sta mettendo su un club di dialogo con delle sedicenni della Somalia, maltrattate. Non ho ancora capito se le piaccio, oggi si è lasciata prendere la mano, mezzo minuto; ridiamo per ogni scemenza. A cena in quattro, trattoriola, con noi Marcello e Jole, si baciavano un po’ loro, chissà se anche con Grazia un giorno… Poi da me: il dvd di M, Fritz Lang, siamo rimasti tutti e quattro folgorati.» Dopo qualche giorno erano arrivati i risultati, dal Comitato genitori. Votanti all’incirca quattrocento: dodici like degli studenti per la scheda A, trecentosettantotto alla scheda B. Quattro risposte nulle, sei avevano chiesto: «Una via di mezzo non si potrebbe?». La conferenza ammonitrice, questa la decisione finale, era stata rinviata.

Appunti È allora che ho acquistato il quadernetto, a spirale.

L’ho riaperto in questi giorni, sfogliando a caso le pagine; risale al giorno dopo il sondaggio, la prima annotazione. Un po’ di mesi fa, fine settembre. L’avevo trovato in una cartoleria antiquaria: formato medio, carta ungherese, copertina di stoffa a fiori gialli. Un diario di lavoro sui minori, sul diritto, così me l’ero pensato; parole in libertà. Anche per il corso universitario; stava per iniziare l’anno accademico: non male l’idea di affrontare il tema «gioventù» in aula 390, con gli studenti del primo anno, a tutto campo. L’ho utilizzato per tre stagioni e mezza, irregolarmente.

Tipologie Novembre. Vasta la categoria dei «non adulti», 0-18, dopo un po’ occorre distinguere. Esistono i bambini e le bambine; ci sono i bimbi magri e i grassottelli; quelli bassi e quelli alti, quelli allegri e quelli tristi. Ognuno coi suoi problemi specifici. Abbiamo i «non maggiorenni infanti», fra uno e sei anni; i mediani fra i sette e i dodici, i grandi fra i tredici e i diciotto. Adolescenti di città e di campagna; europei, extracomunitari. Esistono i poveri, i ricchi, quelli a metà strada. Ci sono i bambini belli e quelli meno; i tranquilli e gli irrequieti, quelli che amano le fiabe di paura, quelli portati alle storie a lieto fine; i bambini bruni, quelli biondi e quelli rossi (pochi). Non sono tutti infelici i piccoli. C’è chi vive in famiglia, genitori biologici, fratelli; zie, nonni, cugini. Coccolato, imboccato. In condizioni economiche agiate, o comunque serene, decorose. Tanti fanciulli che non sono malati, né con obesità, contorsioni; e che, proprio perché stanno bene, per il fatto che non intendono rinunciare ad alcuna piacevolezza, al mondo, incontrano vari scogli «borghesi». «Secolarizzati, consumisti», vedremo più in là come se la cavano; tante le cose che succedono.

All’aria aperta Primi di dicembre; la vita oltre i libri, lungo le strade metropolitane. Episodi dal vivo, altezza sotto il metro e quaranta: passeggiando avevo cominciato a seguire qualche incontro; prima ci facevo meno caso. Bambini che cercano di imparare a camminare, un anno di vita; quando cascano, senza farsi male. Non se l’aspettavano, ginocchia neanche sbucciate, si voltano intorno, guardando se il papà sta osservandoli: intanto decidono se è il caso di

rialzarsi o rimanere lì a piangere. Oppure dopo la scuola, certi crocchi, quando le madri s’incontrano: le trentenni-quarantenni in piedi a chiacchierare, due o tre sul marciapiede; le figlie a manina appesa, sette-otto anni; dondolanti sulle gambe, gomma americana, si squadrano l’una con l’altra: se si piacciono, come sono vestite, pettinate, cosa avrebbero da dirsi. Scene sopra il metro e cinquanta? Le neo-coppiette di quindicenni, allorché passeggiano nella loro «campana di vetro». Quattordici anni e mezzo lei, odore di spighe, quasi sedici lui, ciglia lunghe, pomeriggio ancora presto: scarpe da ginnastica, vetrine di negozi; parlano a bassa voce, mano nella mano, occhi festosi. Chiedendosi qualcosa, dentro di sé, ognuno sul conto dell’altro; s’infilano a centro strada poi, lunghe falcate, scompaiono dietro l’angolo.

Scuola Gennaio, ripresa delle lezioni. Qualche genitore trucido, è Claudio a raccontarmi, insegna al Nautico: «Meglio se i ragazzi fanno quello che preferiscono» ecco la parola d’ordine, per tanti padri. «Mio figlio è portatore di valori nuovi, creativi.» Piena libertà a scuola, niente costrizioni; pazienza quel vetro rotto alla finestra, i tatuaggi viola, «Così l’ho educato, ho letto Freud anch’io: energia pura, basta con i freni». Mi ha riferito Anita, fa la psicologa, quanto solidarismo ci sia all’ora di ricevimento. «Si minimizza sulle trasgressioni: glutei in fuori, villanie coi professori, pistole finte; fumo in classe, cellulari accesi.» Sempre a cantare le lodi della prole: «Bravo ragazzo, è la scuola che gli va stretta; non come certi secchioni, assomiglia più a noi: bisogno di sfogo, ormoni, era anche lei così?». «C’è il padre che non ha studiato, pontifica in dialetto; grassoccio, un po’ stridulo, ha rischiato il fallimento più volte. La moglie abbronzata, ingioiellata, fiera di sé. C’è il commerciante ricco, cappotto di cammello: si sa che ha la villa a Cortina: spiega che il futuro della figlia è già tracciato, seguirà la strada paterna, factoring.» Crediti a rischio, «già d’accordo i politici, è la banca del futuro», insiste, occhi sottili da gatto.

Bambinologia Fine gennaio.

Salta agli occhi quanto i bambini infelici «rendano» alle reti di comunicazione, di spettacolo. Esperti più o meno improvvisati, commentatori fissi; un boom da qualche anno; storie vere o inventate, processi, telenovelas, iniziative per la gloria di chi le conduce. Il pubblico in studio applaude. Occorrerà che lo spettatore si commuova; non deve poter credere alle proprie orecchie. Pathos, qualche brivido: disegnetti strani della vittima, un peluche insanguinato. I luoghi dell’orrore. Il meglio è quando un figlio conteso viene rapito – dal padre, scappato in Libano, in Colombia – e lo si sta cercando: se ci sono state infamie la madre sarà ripresa di spalle. Parla piano, dietro un paravento, funziona di solito. Un mio amico aveva scritto un libro, su una vicenda di pedofilia; ragazzino violentato da un maestro alle elementari, trent’anni prima. Era girata la notizia, gli avevano telefonato delle emittenti tivù, volevano i protagonisti in diretta: non appena sentito che era difficile, che la vittima preferiva non mostrarsi in pubblico – «Lei insista comunque…» – avevano mollato. Il libro da solo non bastava.

Penale Febbraio, argomenti delicati. Diritto minorile: furti, droga, truffe ad anziani, piccole rapine, vandalismi. Gianni, il mio amico psicologo; sempre occupato a stendere rapporti per gli uffici. Pessimista: «Regole basate sull’idea che fra i quattordici e i diciott’anni finisca sempre bene. Tutti pentiti, redenti (al di là delle apparenze); chiunque violi il codice recuperabile, gentile nell’anima, tenero dentro. Demagogia». «Mai negare il perdono, qualsiasi cosa uno combini; nemmeno sgridarlo a voce alta. Qualche passaggio in comunità basterà, finirà al meglio comunque. Illusioni.» «Metà dei “piccoli rei” vive il diritto con serenità, rientrerà nei ranghi.» Per metà segni di debolezza invece; la conferma che l’ordinamento difetta di un vero onore. «Non meritate rispetto: assolvete tutti, peccati sempre rimessi.» «Adeguarsi a valori simili, uno speciale come me…!» Gli operatori vedono, poco sentono di poter fare; compilano moduli, si assuefanno. «Di quella metà, il 50 per cento» commenta Gianni «finirebbe allo stesso modo qualsiasi cosa si decidesse»; l’altra metà no, apprezzerebbe linee di maggiore fermezza. «Il fatto che non sia possibile, neanche un aut-aut, sguardo nello sguardo, getta sul meccanismo più di un’ombra. Ipocrisie.»

Frasi celebri Durante Pasqua aforismi raccolti a caso, nei libri o su Google: un po’ melensi, scontati alla fine; mi aspettavo di più. Quelli sull’intelligenza: «Ogni bimbo che nasce è in qualche misura un genio, così come un genio resta in qualche modo un bambino» (Schopenhauer); «I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta» (Saint-Exupéry). Le espressioni roboanti: «Il bambino non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere» (Rabelais); le frasi apocalittiche: «Quando non si è più bambini si è già morti» (Brâncuşi). Così il resto: «Precoce: dicesi di chi a quattro anni fugge con la bambola della sorellina» (Bierce); «I bambini hanno già una loro personalità; li guardavo l’altro giorno sulla giostra: alcuni saltavano sui cavalli, altri erano spaventati, altri ancora scommettevano sui cavalli» (Rudner). Frecciatine: «Mai lasciare un bambino attore vivere più del necessario» (Fields); «Adoro i bambini, specialmente quando piangono, perché a quel punto qualcuno li porta via» (Mitford). Forzati i cinismi: «Non tutti i bambini hanno la fortuna di essere orfani» (Renard). Oppure i passi autobiografici: «Da piccolo ero il tipo di bambino con il quale mia madre mi diceva di non giocare mai» (Fechtner). Meglio il taglio profetico? «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio» (Borges).

Capacità Metà maggio, sfoglio il codice civile: leggi recenti, novità continue. Sedici anni: un soggetto può essere ammesso a sposarsi, a riconoscere un figlio. Dirà la sua circa l’inserimento di un fratello in famiglia, su un procedimento per la dichiarazione di paternità. Esprimerà il suo assenso al riconoscimento compiuto dal genitore. Ha poteri decisionali sulle opere dell’ingegno. Quattordici anni: l’interessato va sentito per contrasti tra i genitori, circa la potestà; è chiamato a dire la sua in merito all’adozione; può proporre querela, essere imputato, manifestare un valido consenso ai rapporti sessuali. Dodici anni: tutta una serie di sì e di no, che si possono già pronunciare. Dieci anni: l’orfano sotto tutela può dire la propria «sul luogo dove essere allevato e sul suo avviamento agli studi». Il futuro allora: ogni essere camminerà col proprio statuto personale, in tasca; diverso da quello di altri coetanei. «In grado», «non in grado», chi può

dirlo a priori? Dipende anche da come si vive dentro l’interessato; tutto più mosso, sfarinato di un tempo. Ci sono certi tredicenni che girano in città… arduo pronunciarsi a monte: finito il tempo delle paratie stagne, dei cento automatismi; basta con la capacità contro l’incapacità, bianco o nero. Ogni minore – continuiamo con il codice? – può presentare domanda per il ricongiungimento familiare; chiedere il risarcimento all’assicuratore del danneggiante. È idoneo, «tenuto conto delle sue capacità di discernimento», alla conclusione degli atti «necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana». Dopo i sei anni risponderà dei danni arrecati a terzi; dirà la sua al medico curante, deve comportarsi bene coi genitori, adempiere ai propri impegni di studente. Non fare del male ai compagni, rispettare il prossimo; col passaggio degli anni contribuire alle necessità della famiglia.

Disperare mai Anche un sì ogni tanto, nel quadernetto; un’amministrazione di sostegno un po’ speciale, celeste. Buñuel insegna. C’è un convento delle Asturie, ho raccontato l’altro giorno in aula (fine maggio), dove le suore trascorrono le loro giornate in letizia. Una giovane novizia, Teresa, arrivata lì da piccola, è la beniamina. Occhi azzurri, naso minuto, le sono affidati i lavori più umili; li svolge tutti con zelo, mai un lamento. Accendere il fuoco, ogni santa mattina d’inverno, raccogliere e spostare le braci, lavare la biancheria, pulire le finestre, lucidare i calici. Il segreto di quel calore? La devozione che la ragazza porta alla figura della Madonna. È la madre di Gesù a ispirare Teresa, a darle serenità: e la nostra (quasi) suorina non smette un secondo di alimentare il colloquio con la Vergine. Un giorno fa la sua apparizione al convento un giovanotto; è stato assunto per lavori in giardino. Ricciolino, occhi ardenti, una volta che i due sono chini al pozzo lei scivola sopra una zolla, cade in avanti; lui la sostiene, le loro guance si sfiorano. Scappano insieme dopo una settimana, in un paese a cento chilometri. Non durerà più di sei mesi però. Salta fuori che lui era sposato: sporco di natura, trasandato, ubriaco spesso. Una mattina presto Teresa fugge, torna al convento di nascosto. Sopra ogni altro pensiero la preoccupazione per gli incontri che l’attendono. Cosa diranno le monache… e vorranno accoglierla poi? Tanto tempo via, sarà disposta la superiora a riprenderla? Invece non succede niente di brutto; nulla di diverso dal solito. Una prima

compagna le accenna al freddo di fuori, brontolando che ha i geloni; la seconda ha in mano un bricco che scotta e borbotta di certe tovaglie, da smacchiare nel pomeriggio: un’altra prega Teresa se potrà aiutarla in un rammendo, più tardi. Che cos’è, un sogno, una commedia, si erano messe d’accordo? Poco dopo l’incontro con la badessa. Di nuovo il cuore a martellarle, invece niente: risponde all’inchino di Teresa con un sorriso indaffarato, l’aria di chi le aveva dato la buona notte la sera prima. «Perché un’accoglienza del genere?» dico agli studenti. «Chi ce la fa, sforzatevi…» Facce attonite, nessuno che respiri. Perché la Madonna aveva fatto il miracolo. Nel momento stesso in cui Teresa aveva varcato il cancello, sei mesi prima, la Vergine aveva deciso di prenderne il posto, le sembianze. E durante tutto il tempo aveva sbrigato, una dopo l’altra, le mansioni che Teresa avrebbe svolto se fosse rimasta: accendere il fuoco all’alba, preparare la tavola per la colazione, dare il pastone alle galline, l’orto, il turno in lavanderia alle otto, i tappeti, tutto il resto. Nessuno aveva potuto accorgersi della sua assenza.

Università Metà giugno, ultime pagine del quaderno. Si chiudono i conti, in aula 390, prossimo appuntamento gli esami; serpeggia un po’ di timore già. Torno alla scheda da cui eravamo partiti, la seconda; mi domando cosa significhi insegnare. Storie degli allievi, personali, tante ormai le conosco. Sandra al terzo banco, pallida, sguardo fiero: arriva da un paesino, sempre in bicicletta alla stazione; poca memoria diceva, battagliera adesso, non le manca l’umorismo. Aldo frequenta quando può, animo carbonaro, fatiche iniziali nel ragionamento; ha in pugno frecce varie ora, argomenta, sua la battuta finale ogni volta. Cosa mi aspettavo io alla loro età; puntavo a non imparare solo il diritto, un mestiere. Avranno scoperto quel che cercavano, sapere come sono fatti internamente… un po’ meglio; i loro talenti dove stiano. Essersi oggi ritrovati, su livelli più alti, «universali»; metà professionisti, metà filosofi: bussola in mano, qualche fosso saltato nella corsa, senza perdersi. Qua e là avrò seminato dubbi; sarà rimasto che alcune certezze sono davvero tali, a questo mondo, altre meno: per il resto itinerari contingenti, da scegliere via via. Un sestante a propria misura, ripartendo ogni tanto.

Non ho bluffato, non di proposito comunque; se è accaduto se ne saranno accorti. Un po’ di teatro al massimo: quando arrivi e sali sulla cattedra, dopo avere chiuso la porta; gesti studiati, calma nell’estrarre gli oggetti dalla borsa. Meglio quando il microfono cordless non funzionava: quello col filo ti permetteva di destreggiarti, per non calpestarlo, mentre spiegavi o improvvisavi camminando, sotto la pedana. La prima parte della famosa scheda, sul disagio: quella cattiva, pessimista. Ne abbiamo parlato in aula come se non ci riguardasse; è stato uno sbaglio, quasi fossero bizzarrie di una galassia lontana. Errore, un po’ perché non si fa così col prossimo, un po’ perché mai chiamarsi fuori. Per chi suona la campana? L’anno prossimo occorrerà muoversi altrimenti. Sempre l’augurio, insegnando in classe, di trovare ciò che sai, in cui credi, nel momento in cui i vocaboli ti escono dalle labbra. Quel cinque per cento, un po’ vago, sfilacciato, che aleggiava già nei tuoi pensieri: che si siano accorti gli studenti di averti ispirato, coi loro sguardi, alla fine, la sfumatura giusta? Il senso di incompiutezza con cui eri entrato in aula, quel martedì, sapere in partenza che stavi cercando qualcosa… Devi aver annuito in quelle occasioni, più volte; sorridendo verso il soffitto, nel congedarti, salutando loro fra i banchi.

14 Verso dove

La vera tragedia della vita è quando gli uomini hanno paura della luce. PLATONE

Fragilità domani Cerco di immaginare come sarà l’avvenire, non è semplice. Il mondo del «non farcela» esiste da poco nel diritto, la maggior parte delle persone lo conosce appena. Rari gli addetti ai lavori, nessun confronto con l’universo dei forti. Non mancano indizi a ogni modo su quanto potrà accadere, prossimamente. Problemi di minori, rapporti di coppia, gruppi di altre nazioni; alcuni cambiamenti già si stagliano all’orizzonte. Questioni di metodo, forme nuove di tutela. Vicende spicciole, storie di vita. Capitano ogni tanto episodi insoliti, inducono a porre domande: dove gli equilibri sono destinati a reggere meno, prossimamente; quali innovazioni saranno più rapide, a livello disciplinare, nella pratica dei servizi. Ripenso a Nicoletta ogni tanto. Era riuscita a lasciare la Comunità Belcovich, dopo qualche mese, andando ad abitare in un appartamento tutto suo; non mancava lì chi si occupasse di lei. Così per tre anni, poi era morta, complicazioni ai polmoni; ci scrivevamo ogni mese, tanti i problemi, riusciva però a fare alcune cose: non era pentita, né sembrava malinconica. Qualche passaggio felice c’era stato nella sua vita. Ho cominciato da un po’, altro bloc notes, a prendere appunti: pensieri sparsi, ritagli di giornali. Lettere di conoscenti, richieste di pareri, giuridici, bioetici; potranno tornare utili per un corso di lezioni, in ateneo, fra un paio d’anni.

Diritti soggettivi

Fra i più delicati si segnala, in tema di «precarietà umana», il rapporto corrente fra branche diverse del sistema. Penso soprattutto alla relazione fra piano amministrativo e piano civile. Direi che è in corso un sistema di travasi, oggigiorno, dal primo al secondo: una serie di cessioni gestionali, fra l’uno e l’altro. Scambi di competenze, fenomeni destinati ad accrescersi, col trascorrere degli anni. Sempre meno un Parlamento che si limita a dire: «Ci addolora la vostra condizione, brava gente: le ginocchia in quello stato, le schiene sbilenche che vi ritrovate. La Costituzione vuole che ci occupiamo di voi, le Carte internazionali lo pretendono. Introdurremo neo-modalità organizzative, dal nostro ufficio, altre provvidenze, assegni di accompagnamento…». Sempre più invece, anche o soltanto, riscontri a misura d’uomo: «Questo il diritto soggettivo, da normale cittadino, che hai scelto di esercitare; che viene sancito ufficialmente, che oggi noi ti riconosciamo. Chiunque vanti uno status come il tuo potrà, in avvenire, difendersi; vietato agli estranei minacciarlo. Dentro casa sei tu il re, nessun affronto sfuggirà alle tue rimostranze».

Storia d’Italia Esempi nel recente passato? L’interesse pubblico a contrastare gli aborti clandestini; trasformatosi, a un certo momento, in diritto della donna a ottenere, «lei proprio», precisi adempimenti sanitari. La rinuncia dello Stato a ospitare certi malati in istituzioni chiuse; diritto per ogni «utente psichiatrico», da allora, a venir curato lui individualmente, come essere che soffre, senza abusi o mortificazioni. Eravamo nel 1978. Si può retrocedere con le date. 1974, inizio primavera, nascita del danno biologico: diritto di chi è colpito nella sua integrità fisica a essere reintegrato, dalla controparte, non solamente per le perdite in denaro. 1974, metà primavera, conferma del divorzio: diritto di chi non crede più a una certa relazione coniugale a vedersi restituita, anche formalmente, la libertà. L’Italia che prende atto dei cambiamenti sociali, economici; che effettua un giro di boa nel suo impianto. Lo scolorirsi dei presepi di un tempo, quelli sonnacchiosi, successivi alla proclamazione dell’unità; città piccole, senza traffico, rogge fresche e azzurrine; cinema di famiglia, commedie edificanti alla radio. Codice civile dell’Ottocento, ciascuno in grado di difendersi da solo: mali visibili da fuori, pellagra, istanze non patrimoniali fuori legge.

L’Italia che riprende fiato a metà anni Cinquanta, secolo scorso. Boom economico, l’allentarsi dei costumi, architravi secolari che cedono. Vigore incipiente della Costituzione, patemi grandi e piccoli allo scoperto; competizione, cittadini senza più miti da guerriero. Benzodiazepine, solitudini inedite, bisogno di altre salvaguardie.

Il grande cielo Diritto al sostegno, allora, diritto a non soffrire, all’oblio, a serene convivenze. Negli ultimi tempi, diritto all’ascolto, all’autodeterminazione procreativa, alla sessualità del disabile, a respirare in carcere, a non essere discriminato. Accanimenti terapeutici da evitare, un figlio da far nascere col proprio utero, seme; dignità nel lavoro, famiglia per i diversi o per i «trovatelli». Tendenze del prossimo futuro? L’accostamento fra i vari lemmi. Messa a raffronto tra l’uno e l’altro, spinte a una piena ricomposizione: a livello legislativo, fra pratiche del territorio, nel linguaggio ufficiale. Siamo in fase oggi di «rifinitura del crogiuolo»; le prerogative emergenti in una stanza, a pianoterra, che si studiano a vicenda. Ognuna che avverte di poter diventare qualcosa di più ampio, vigoroso; conscia che, in un contesto d’insieme, finirà per irrobustirsi. Un dialogo tra diverse partiture, quelle affermatesi in Italia sin dagli anni Sessanta: legge sulla giusta causa, maggiore età a diciott’anni, uguaglianza tra moglie e marito, diritti dei carcerati, trapianti, adozioni, volontariato, donazione di organi, transessuali. Il «grande cielo della fragilità», dentro e fuori il codice civile; brandelli dell’umano malstare, trepidare, accostati fra di loro. Il campionario degli individui imperfetti, meno dotati, a 360 gradi. Pericolo che escano sbiadite le peculiarità dei gruppi, che si ghettizzino gli umili? Forse, ma le attese giustificano l’impegno: affiancare fra loro i tasselli potrà aiutare a scoprire le ricchezze nascoste, esaltando i fili conduttori; così da rendere le singole controversie meglio fronteggiabili. La chiave è sempre un essere umano che non riesce a gestirsi, non abbastanza, non ogni giorno; che starà meglio trovando appoggi attorno. I consumatori a rinvigorire le battaglie contro la malasanità, dunque; il mondo dei bambini che stinge sull’handicap, sulle violenze agli anziani. Gli animali e i morenti che s’intendono, vicendevolmente, lo stalking che insegna qualcosa alla famiglia, la sofferenza che rinsangua il biodiritto. «Sognatori poco fortunati di tutto il mondo, unitevi.» Un po’ come in certi cartoni animati degli anni Trenta; con al centro una

cucina a tarda sera, dove tutto appare immobile. Poi i fatidici colpi di mezzanotte, l’interno che si accende: e gli oggetti che prendono vita, iniziano a muoversi, con delle specie di occhi e di gambe, agitandosi e ballando fra loro. La grattugia del formaggio che fa i salti col cetriolo, disneyanamente, la tazzina del bebè con uno strofinaccio (valzer), le forchette in tutù nel quartetto del Lago dei cigni, un tiro alla fune tra saliera e paglietta di ferro… fin che non spunta l’alba.

Non troppo in fretta Porre attenzione, ogniqualvolta siano in gioco strumenti nuovi, al modo in cui i destinatari li percepiranno. Nulla di più eloquente – circa i rischi che altrimenti si corrono – del racconto che segue. Autore un mio ex compagno di scuola, Roberto, professore oggi di matematica; la mail è di poche settimane fa. «Come altre volte» ecco il suo scritto «il motivo per cui l’uomo del quale sto per parlarti (Neri, chiamiamolo così) ha chiesto di vedermi è che sono un tuo amico. Tanti sanno che ti occupi di fragilità. È cominciata qualche giorno fa la cosa, con la visita di Neri a casa mia, verso le sei. Sui cinquant’anni l’uomo: un biondino cupo, stempiato, occhi azzurri; ci eravamo incontrati qualche volta al supermercato, era stato supplente un tempo al mio liceo. È arrivato accompagnato da una giovane donna asiatica, sua compagna; mi ha spiegato quale fosse il problema. «Neri ha un figlio di venticinque anni, Carlo, rimasto a vivere con la madre dopo la separazione fra i genitori; quattro anni fa. Il padre ce l’aveva fatta, in quel periodo, a comprargli un appartamento, con risparmi vari; soffre di una grave forma di autismo il ragazzo, mista a depressione: Neri voleva assicurargli un piccolo reddito a vita. È un essere ipersensibile, Carlo, tutto al mondo lo ferisce, lo agita; sono rimasti legati profondamente, padre e figlio. Abitano ancora nella vecchia casa Carlo e la madre, in affitto. Ultimamente si era messo a fare strani discorsi il ragazzo: “C’è sulla terra chi sta peggio di me, i bambini eritrei ad esempio”; voleva dare via quel suo appartamento in beneficenza. Ha cominciato a preoccuparsi il padre, ecco perché era passato da me; non ha altri cespiti economici da parte. È la sua vita Carlo, voleva sapere cosa si poteva fare. «Era teso parlandomi, Neri, imbarazzato; non un sorriso. Gli ho detto dell’amministrazione di sostegno, parlandone come di un buon supporto. “Si farà un decreto, in tribunale, che limita nel figlio la capacità di disporre; suppongo che lei stesso sarà nominato curatore o rappresentante.” Gli ho

consigliato di discuterne col giudice tutelare. So che ha fatto così il giorno dopo; e che la mattina successiva è andato dal figlio a informarlo. «Due giorni dopo è uscita sul quotidiano locale la notizia, tre colonne, che Carlo si era buttato giù dal quarto piano ed era morto sul colpo: senza lasciare un biglietto. «Lì per lì non ho stabilito collegamenti; tre giorni ancora ho iniziato a fare due più due; era stato per quei motivi – probabile – la paura dell’“ignoto legale”, il timore di “vincoli in agguato”. Già ieri sera avevo pensato di consultarti. «Stamattina è arrivata però una raccomandata, scritta a mano. Calligrafia nervosa, di Neri: dice che il suicidio del figlio è colpa mia, perché ho dato quel consiglio, dovrò pagarla adesso; colpa anche tua, aggiunge, ti scriverà presto, sei tu che hai contribuito all’affermazione della legge (“assassina”). Parla altresì del giudice tutelare, l’aveva incontrato in tribunale, ne era stato rassicurato; avevano fissato un appuntamento. Conclude che ci denuncerà tutti quanti, penalmente: secondo te c’è da preoccuparsi?» Gli ho risposto di stare tranquillo; non ci sono estremi per responsabilità di sorta. Non mi soffermo sui sensi di colpa di quel padre: tormentato, magari, per avere lasciato Carlo da solo con la madre, a suo tempo, nella vecchia casa coniugale. Né sui possibili errori di quest’ultima: troppo assillante nel paventare intrusioni, chissà, scenari processuali minacciosi. Mi limito a indicare due binari che andrebbero seguiti, per il futuro, in sede di comunicazione delle idee. Migliorare alla base, nella società, l’immagine dell’amministrazione di sostegno: guardate che si tratta di un meccanismo lieve, discreto; non espropria necessariamente l’assistito, sarà questi a conservare le briglie, nella sua mano, tanti poteri e controlli su se stesso. Invitare alla prudenza, poi, i magistrati e gli amministratori giudiziali: misurate il vocabolario con chi si dimostra ansioso, insicuro: dileguate i fantasmi inutili, sorvolate sui risvolti sgradevoli della prassi; nei casi limite rimandate l’intervento.

Nuovi interpreti Verso che tipo di studioso, «esperto in ristagni, in crepuscoli», stiamo andando culturalmente? Qualche traccia orientativa non manca. Il nostro debolologo sa che le cose accadono, abitualmente, in casa, sul posto di lavoro, nei dintorni; mette al primo posto perciò i fili della quotidianità, per quanto umili. Segue l’assistito, con gli occhi o con la mente,

dal fisioterapista, al parco giochi coi figli, nei mercatini in piazza. Lo vede arrabattarsi con le diete, con gli orari del bus, con la piscina terapeutica; lo accompagna dal veterinario, in osteria, all’assemblea di condominio. Rifiuta i modelli pan-medicalistici, non pensa che tutto si riduca al corpo. Ha sempre in tasca la treccia dello «scoobidoo» (persona, beni, corporeità), quando affronta problemi che attengono a un certo spicchio. Quello del patrimonio mettiamo; dopo un attimo eccolo interrogarsi sui riflessi collaterali, all’intorno: l’impatto sulla salute, sulla serenità interiore. Coglie al volo le insofferenze umane, quelle che la realtà, accanto ai virgulti forti, alimenta in noi ogni giorno. Dipendenze più o meno serie, nuovi presidi; deficit negli scambi, non soltanto sbalzi corporei, emotivi. Tontonerie anche, analfabetismi nascosti, sospettosità insensate; sensi di inadeguatezza, riluttanze estreme. Non teme di procedere a casaccio, ama i sentieri selvaggi; pensa che un ramo alto, verso est, oppure a nord, resti sempre misterioso negli alberi. Non ignora di influenzare più che altrove, operando in ambiti come quelli della vulnerabilità, pensieri e movimenti di chi gli sta vicino. Mite nell’approccio, ammette di non conoscere qualsiasi rivolo, dell’esperienza umana, se occorre si abbandona alle congetture; sa come tutti al mondo abbiano paura di qualcosa. Ama i suoni e le provocazioni di altri linguaggi, quando ispirati, fecondi: parole come «inclinazioni», ad esempio, «richieste», «partecipazione», «attività realizzatrici», «animale d’affezione», oppure «condizione emotiva», «inesperienza», «attenzione», «legami di coppia». Ogni creatura gli sembra tesa a conquistare, per se stessa, gli astri della «fragilità quale insieme»: l’unità interna, l’armonia complessiva dello spirito. Viversi come «qualcuno», in senso buono, sapere chi e che cosa si è, grossomodo, chi si vorrebbe diventare, un giorno; ricondurre i fili personali a un centro unico, rinascimentalmente, non decidere se non stando lì, nel proprio nido, sul ponte di comando. Il verbo «sentire» spesso in bocca: «Senti questo, mi sento in un certo modo, sentiamoci; non sento più, provo questi sentimenti per voi». Meglio ancora il verbo «fare», le sue voci, trasporre all’esterno le più adatte: «Cos’hai fatto ieri; non farlo più, è meglio; fallo pure se credi; facciamolo insieme se vuoi; lo farai con lei magari». Vede il confronto come base per ogni lievito, fermento umano. Invita a non tessere patti mefistofelici, tipo quelli dell’interdizione («Sarai salvaguardato al 100 per cento, perderai qualunque sovranità»); ripete che l’anima umana è incedibile. Scambi metropolitani, quelli sì: i diritti dei singoli che camminano con le gambe dei servizi, funzionalmente. Non

gravare troppo sul giudice, far sì che il lavoro di sportello venga svolto dall’assessorato per il welfare del Comune. Che non ci si scordi mai di domandare, incontrando l’assistito, anche solo telefonandogli: «Come hai dormito stanotte, di cos’hai bisogno?».

L’assistente sociale Altro punto: meno pessimismo verso i portatori di «scontento umano», di «tetraggine». La soluzione può arrivare grazie alle combinazioni più impensate, chi l’avrebbe previsto? Ecco il mondo alla rovescia, per una volta. Di nuovo non dirò chi mi ha raccontato l’episodio che segue: basti sapere che si tratta di una collega della protagonista, Clelia (nome di fantasia), e che il fatto si è svolto in una città medio-grande del Nord. Piccolo gruppo di famiglia, allora, madre non più giovane, tre figli maschi, quasi adulti. Barricati in casa i quattro, così vivono da tempo, persi in una specie di preistoria. Palazzo elegante, quartiere alto-borghese, ultimo piano d’angolo: cassetta delle lettere zeppa di avvisi, pieghevoli dei supermercati. Dentro l’appartamento? Pavimenti, lo apprenderemo presto, ingombri di stracci, immondizie; crepe sulle pareti, niente luce elettrica, né il gas, rubinetto che sgocciola. Sedie traballanti, un violino del Settecento, ragnatele in alto; gobelins scuriti, vetri sporchi alle finestre. Fuori dell’uscio un’assistente del Comune, Clelia, seduta sulle scale: trentadue anni, sposata, due bimbi piccoli; aspetta il terzo, già si nota. Viso luminoso, grandi occhi castani, riccioluta; appare triste, piange silenziosa. Si era informata col postino, riuscendo a sapere poco tuttavia. Quel gruppo familiare? I figli mai visti da nessuno; la madre incontri rari, col vicino di pianerottolo. Sei mesi fa ha bussato, l’assistente, nessun esito: uno strusciare all’interno, respiri lenti poi, di più persone. Ultimamente arriva nel primo pomeriggio, Clelia: esce dall’ascensore, si accomoda sui gradini, estrae un libro, un giornale; dieci minuti dura ogni «visita», canticchia alle volte: intuisce che dallo spioncino seguono le sue mosse. Spiega a voce alta che è lì per aiutare: perché non riparare il campanello? Sceglie argomenti di buon senso; quegli odori di muffa che escono dal sottoporta; freddo fuori, c’è un giro d’influenza, cattiva quest’anno: «Conviene vaccinarsi». La grondaia d’angolo, sembra che perda, quei fili che penzolano al vento: «Pericolosi, sono della tivù, ma ce l’avete voi?». È passata ugualmente «quel» giorno; come se soltanto lì potessero

capirla. Le hanno rubato il portafogli, ecco cos’è successo; sull’autobus, non se n’era al momento accorta: settecento euro, il conguaglio di fine anno, appena ritirato alla posta. Dio sa per quante voci servivano: il debito dal droghiere, le medicine, il doposcuola del primo figlio, tre regalini, «Li avevo già scelti». Triste, e come se no! Rabbiosa anzi: molte le cose che non vanno nella sua vita. La capufficio ostile, il marito con problemi di salute («Mai che si curi»), quel dirigente che le sta dietro («Un metro e quaranta, non si lava»); la suocera con cui non va d’accordo. Il furto adesso. Tanti i derubati che dicono «A me importa solo dei documenti»; per lei no, anche i soldi contano. Col nuovo arrivo in vista poi… una bambina, ha appena saputo. Contentissima, un regalo di lassù, dopo i due maschi! Un pizzico di fortuna in più magari: «Studiare piccolina, sarebbe importante; non come me». Guarda giù, si sussurra in grembo: «Pediatra, chirurgo forse, ti piacerebbe un giorno?». È allora che vediamo schiudersi la porta, alle sue spalle; Clelia nemmeno se ne accorge. Dalla fessura è la madre a sporgersi; i figli un metro dietro, l’uno sull’altro, che sbirciano. Si apre ancor più l’uscio, esce per intero la figura sul pianerottolo. La vediamo finalmente: una donna alta, lineamenti nobili, foulard giallo-arancione. Si capisce che in gioventù era bella; avanza leggera, si avvicina a Clelia, accento slavo: «Ho sentito signora, anche le altre volte; è diverso oggi però, abbiamo deciso di aprire». Con voce ferma: «A noi i soldi non mancano: so che può sembrare incredibile, è così però». Cerca le parole: «Per noi è ben poco quella somma… Se permette, quello che le hanno rubato vorremmo darglielo, io e i miei figli, adesso». Una busta chiara, la porge alla ragazza. «Non dica di no, lei è una persona…» esita «“mignonne”, com’è che dite voi?» Con aria saggia: «Deve pensare ai suoi bambini, a tutti e tre». Una pausa: «So che non vorrebbe, etica professionale; resterà un nostro segreto. E quando ritrova quei soldi ce li restituirà». Dopo un momento: «Se le va saremmo d’accordo che entri subito, a fare conoscenza». Sorride: «Ritenteremo sì, non è la prima volta; solo se adesso accetta la busta però». Guardando indietro: «Un po’ di disordine, questo però lo sa già lei». Bisbiglia ancora: «Un secret entre nous», mentre le fa strada con la mano. Si ferma qua il dossier 15/d, della mia conoscente; mancano i particolari. Da altre fonti qualcosa è emerso però. È sicuro che l’assistente, passato un attimo di esitazione, si è alzata; ha seguito i quattro dentro casa, dopo un’ora ne è uscita. Il debito col droghiere è stato pagato tre giorni più tardi; risolti anche i problemi del doposcuola. La

suocera incombe, meno arpia però. La gravidanza è arrivata al mese giusto: entrata ormai in permesso di maternità; alla ripresa è deciso che avrà il «comando» al Reparto minori del Comune. In veste privata, col pancione, Clelia va ancora a trovare i quattro: vivono sempre lì, seguiti da servizi vari. Alzando gli occhi, si vede che gli scuri di casa sono aperti; aggiustato il campanello, pure il citofono: la grondaia all’angolo non perde più, nessun filo che svolazza. Sembra che anche l’allacciamento telefonico sia imminente.

Danni in arrivo Poco sappiamo intorno al dolore, su ciò che innerva il danno «morale»: se si tratti di qualcosa legato al corpo, alla mente, quanto denaro serva per risarcirlo. Anche il danno «psichico» galleggia in parte: evento, conseguenza, sono i giuristi o i medici legali a doversene occupare? Per quello «esistenziale» manca una griglia tecnica, ancora, circa i riflessi: lavoro, affetti, politica, vacanze, creatività… È probabile che alcuni vuoti diminuiranno, col passare degli anni, già si intravede il profilo delle figure emergenti di illecito. Il mondo della scuola, per cominciare: durezze eccessive di una maestra, sordità dell’insieme, razzismi mal dissimulati, micro-crudeltà dei compagni. Lo sboccio impedito, ali troncate da una bocciatura ingiusta, perdita di fiducia in se stessi: l’imbarbarirsi dei codici di comunicazione, per i dileggi, le irrisioni. L’ambiente poi, i beni naturali. Le colpe di costruttori spregiudicati, la sospensione delle regole; sanzioni amministrative rinviate, disarmo degli enti pubblici. Respirare veleni, il bosco con gli alberi che muoiono, l’acqua dove è pericoloso fare il bagno. E poi discariche dietro l’angolo, fiumi imputriditi, Tir lungo la strada a pochi metri; solai che vibrano, vetri tremanti. Vivere sotto il tallone della camorra, della ‘ndrangheta. La paura incessante, dover sempre chinare la testa: la pervasività delle minacce, assumere un nome falso, traslocare di continuo. Fingere di non vedere, tenere in casa i bambini, uscire solo a certe ore; temere ogni stridio di freni, evitare metà delle strade, mentire alla polizia, per amore o per forza. Trovarsi in una condizione di prostituzione coatta, non vedersi risparmiato alcun oltraggio. Spezzato ogni sogno adolescenziale, incistarsi una pseudo-indifferenza. Ma anche dopo l’uscita dal giro: rassegnarsi alla penombra, perdere il gusto della tenerezza; temere sempre la curiosità dei figli, sviare i discorsi.

Un furto in casa, una rapina: la serratura scassata, la porta trovata semiaperta, mani altrui che hanno rovistato nei cassetti: l’argenteria scomparsa, il vuoto dei quadri sul muro, il parquet intonso dove c’erano i tappeti. Ogni indumento alla rinfusa, tappezzerie squarciate; una presenza estranea che continua ad aleggiare. Gli animali domestici (morti o feriti in un incidente stradale). Quelli speciali: il volpino del sordomuto che si agita al suono del campanello, il porcellino d’India prezioso per la pet therapy, il gatto capace di avvertire un disabile circa le fughe di gas. Ma anche bestiole qualsiasi; un pappagallo con poca fantasia, un cardellino uguale a tutti gli altri: non per la sua padrona però.

15 Chi terrà il bambino

Confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce. HENRY MILLER

Saggezza Non scompariranno tanto presto, nella ricerca del meglio, della verità, gli «insuccessi debolologici». Aspettative di cura che diventano irraggiungibili, tradimenti, orchi in veste di agnelli che imperano: continuerà a succedere. Il cielo che pare sfaldarsi nella sua essenza. Meglio imparare, ecco l’auspicio, a non avvilirsi troppo: guardare avanti, magari ai bordi delle cose, incoraggiare le sorprese, accontentarsi di «soluzioni di ripiego»; le quali potranno rivelarsi migliori, talora, delle stesse vie d’uscita di default. Un po’ come in Rashomon, il celebre film di Akira Kurosawa, ricordate?

Morte del samurai Giappone, novecento anni fa: un samurai viene trovato morto nel bosco; nel processo che ha luogo, un mese dopo, emergerà più di un’ipotesi circa lo svolgersi degli avvenimenti. L’antefatto non è in discussione. Estate, primo pomeriggio, Tajomaru il famoso brigante sonnecchia, riverso sotto un albero: lungo il sentiero avanza un cavallo, tirato da un samurai (Takehiro); sulla sella la moglie del guerriero (Masako). Un venticello scosta il velo dal viso della donna: svegliato dalla brezza Tajomaru apre gli occhi; contemplare i tratti di lei e sentirsi rapito nei sensi è un tutt’uno. In un attimo la trappola è tesa: il bandito raggiunge di corsa la coppia. All’inizio il samurai lo scruta diffidente, Tajomaru gli mostra però la propria spada, lucente, spiegando di averla trovata nella foresta; dove sono nascosti, dice, altri tesori. L’avidità ha presto il sopravvento: non appena il bandito si

avventa su per l’erta, il samurai gli si infila appresso. Poco dopo i due uomini giungono a una radura; ecco Tajomaru scagliarsi qui su Takehiro, repentinamente, il samurai finirà presto sopraffatto. Di nuovo il bandito sul sentiero, concitato annuncia che il samurai è stato morso da un serpente; Masako reagisce con un moto di panico. Corsa tra gli alberi, urlando: all’arrivo, appena il tempo di scoprire il marito in ginocchio, polsi dietro la schiena; era una bugia, Tajomaru le è già addosso, sotto gli occhi del marito si compie la violenza.

Tre deposizioni Da quell’istante le versioni circa il prosieguo dei fatti differiscono tra loro. Versione di Tajomaru – La polizia ha acciuffato Tajomaru poche ore dopo; ecco quanto il brigante racconta al processo. All’amplesso la donna aveva finito per partecipare, eccome! Dopodiché il bandito era pronto ad andarsene; era stata Masako però a trattenerlo: «O muori tu o muore mio marito; apparterrò a chi dei due farà vivere me». Inevitabile a quel punto il duello; ecco le spade incrociarsi fieramente: il brigante sicuro della propria forza, il samurai che resiste come può. Sarà il primo alla fine a infilzare l’avversario, caduto a terra. Versione di Masako – Di tutt’altro segno la confessione che la moglie, ritrovata in un tempio, dove si era rifugiata, rende al processo. Vediamo Tajomaru dopo la violenza qui, allontanarsi sghignazzando; Masako in lacrime, sinché a un certo momento si accosta a Takehiro e lo abbraccia. Solo allora si accorge dell’espressione del marito: «Quel terribile sguardo» la sentiamo deporre «il sangue mi si gela: nei suoi occhi non lacrime di dolore, solo un grande disprezzo». Ecco la moglie trasformarsi, a quel punto, l’autocommiserazione cede il passo alla rabbia, poi all’odio: «Non ne posso più, basta, basta». Infine il braccio armato di lei che si alza, il colpo che affonda nel petto del marito: «Ditemi, cosa può fare una povera donna come me?». Versione di Takehiro – Diverso il resoconto fornito dal samurai, cioè dal suo fantasma, cui una veggente darà voce nel processo. Il Tajomaru che vediamo levarsi è, questa volta, un uomo innamorato: ha scoperto cosa sia la passione. Masako non è da meno, eccola pregare Tajomaru: «Portami dove vuoi». E il crescendo si fa poi drammatico: «Mio marito, dovrai ucciderlo». Sconcertato il brigante a quelle parole: troppa slealtà, subentra l’indignazione, scosta da sé la donna; Masako fugge, anche Tajomaru la

seguirà dopo un attimo. Nella radura rimane il samurai, cupo, a fissare il vuoto; poi ecco il bandito che ritorna, si avvicina al prigioniero, lo scioglie dai lacci, avverte: «È scappata. Anch’io me ne vado». Di nuovo solo, singhiozza a lungo Takehiro: a che pro vivere oramai? Eccolo raccogliere il coltello, immergerselo nel corpo fino all’elsa; un istante prima di morire sentirà una mano, furtiva, che gli estrae la lama dal petto.

Il racconto del taglialegna C’è poi, quarta e ultima, la testimonianza del boscaiolo. È una ricostruzione, questa, che ascolteremo non già al processo, bensì più tardi: fra i ruderi di un tempio. Un acquazzone ha costretto qui tre uomini: un prete, un ladro, e il taglialegna appunto; lo stesso che aveva scoperto il cadavere del samurai, e che confessa ora di aver assistito, dietro un cespuglio, al finale. Qual è stavolta la veste di Tajomaru? Quella, racconta il legnaiuolo, di un uomo pentito. Implora Masako di sposarlo: «Potrei anche lavorare». Lei esita, «Sono soltanto una donna»; i due uomini, lascia intendere, devono battersi fra loro, vinca il migliore. Ecco l’imprevisto però. Comincia il samurai a tirarsi indietro: rischiare la vita per una che non è niente ormai per lui… che sia la moglie a uccidersi piuttosto! Il brigante? In pochi secondi è diventato un altro: rifiuta la tenzone, non gli importa nulla di Masako. Sarà lei a quel punto a erompere: «Uno che fosse un vero uomo…». Capiscono di non aver scelta i due, quel che segue è però la parodia di un duello: basta che l’uno faccia una mossa, perché l’altro balzi all’indietro scalciando, impaurito. Pochi secondi ed ecco il samurai incespicare, arretrare mani a terra, goffamente; sinché Tajomaru non riuscirà, quasi per caso, a trafiggerlo.

Al bivio Il finale del film non svela quale sia la verità. Tajomaru, è chiaro, non sfuggirà alla condanna; per stupro, per sequestro, anche per omicidio? Così dovrebbe essere… chissà mai però; il legnaiolo deve aver taciuto qualcosa: il prezioso pugnale non è più stato ritrovato, è plausibile sia stato lui a prenderlo. Non l’ha ammesso con nessuno tuttavia: e, se ha taciuto al riguardo, non potrebbe aver mentito anche sul resto? Un po’ è così, va osservato, anche nel mondo delle regole giuridiche. Due strade ha a disposizione l’uomo di legge, davanti a sé, per cercare di

non soccombere: quando si accorga che la strada maestra è sbarrata, o troppo in salita, in un processo. Può tentare di arrivare alla verità scegliendo percorsi meno diretti: di risulta, di aggiramento tecnico. Ad esempio si tratta di stabilire quale, fra le due parti, debba offrire la dimostrazione circa un passaggio della vicenda, rimasto misterioso: chi abbia fatto o non fatto che cosa, a quell’ora, in quel certo posto. Sarà il tribunale a fissare il cammino, via via, chiamando in gioco qualche principio generale: difesa della libertà, della famiglia, puntelli all’economia, lotta contro i raggiri, appigli per gli svantaggiati. L’onere della prova coinciderà, in istruttoria, con il riparto più attento ai «grandi equilibri del sistema»: il contendente che non riesca ad accontentare il giudice, chiarendo quel particolare, è destinato a perdere il processo. Oppure lo studioso può rinunciare all’inseguimento stesso di quell’obiettivo; cambiare strategia, scegliere un metodo diverso. Pensare a ricomporre la giustizia in termini meno canonici. Un colpo di scena narrativo, «familiare» all’occorrenza: dolce o amaro resta da vedere; che scenderà dall’alto, sugli eroi presenti, a cinque minuti dalla fine. Qualcosa di irriferibile allo strictum ius, se non in modi larvati, allusivi.

Il neonato Vediamo cosa succede in Rashomon. Il samurai è morto per la quarta volta. Il temporale imperversa sopra il tempio, i tre uomini giacciono a breve distanza. A parlare è il ladro anzitutto: «E questa sarebbe la verità?». Il taglialegna: «L’ho visto coi miei occhi». Tocca al prete intervenire: «È orribile; se non potessimo aver fede in nessuno, che sarebbe di noi?». Sghignazza il ladro: «E così è, mai cedere ai sogni». Il prete con forza: «No, io credo nell’uomo, non può essere un inferno l’esistenza!». Qualche attimo di silenzio, ed ecco che dall’altra parte delle rovine si avverte il pianto di un neonato. A reagire per primo è il ladro: lo vediamo correre verso il fagottino, abbandonato, inizia a frugare tra i panni; si capisce che cerca qualcosa da rubare. E quando, dopo un momento, il taglialegna gli si scaglia contro, lo sentiamo prorompere: «Cosa vuoi da me? Qualcuno prima o poi se le sarebbe prese queste monete; meglio io allora». Cambia tono, fissa il boscaiolo: «Sei riuscito a darla a intendere ai gendarmi, a me no però. Il pugnale della donna, era un oggetto di grande valore: dov’è finito?». Ride sguaiatamente: «Un ladro che offende un ladro, questo sì che è il colmo». Eccolo indietreggiare,

di schiena, scompare presto oltre gli scalini; in scena restano il prete e il legnaiolo. Dopo un po’ cessa la pioggia; il bimbo piange, il prete inizia a cullarlo. È a questo punto che si nota il taglialegna avvicinarglisi, lentamente: sporge le braccia senza dire una parola. Il prete subito all’indietro: «Vattene! Ora gli vuoi portare via anche la camicia?». Scuote la testa il boscaiolo, aggiunge compunto: «Ho già sei figli. Allevarne uno in più non sarà una fatica tanto maggiore per mia moglie». Esita il prete, guarda meglio l’altro; capisce di potersi fidare: «Perdonami, mi vergogno di ciò che ho detto». Il legnaiolo imbarazzato: «Naturale, di questi tempi, non si può credere». Il prete gli si accosta, sorride: «Tu mi hai restituito la speranza nella vita». Gli fa scivolare fra le braccia il piccolo, addormentato, il boscaiolo lo accoglie con delicatezza; si guardano, un ultimo gesto del capo. Il taglialegna prende la strada verso il bosco, il prete rimane solo sotto il tempio.

Epilogo Tradotto in termini «debolologici»? Le vie da imboccare sono più d’una. Talora si riesce a combinare poco o nulla, con chi soffre o resiste, in un processo; le opportunità di serie B appaiono anch’esse compromesse. Il ragazzo confuso non c’è più, suicidio; chi avrebbe potuto non ce l’ha fatta a fermarlo. Il cattivo ministro ha avuto mano libera, di fatto: nessuna salvezza intervenuta per la bambina, dopo anni di brutture. La trentenne anoressica caparbia sino in fondo: la vita in quanto tale è stata salvata, quelle ossa femminili però – dopo che il peso è sceso sotto il minimo, tre mesi di fila – sbriciolate per sempre. Qualche volta le cose vanno meglio. Il bambino era stato lasciato a se stesso, dai genitori; si è riusciti a impostare però un buon affido: le premesse d’atmosfera esistono, non dovrebbero esserci sorprese. I due fratelli hanno un «ménage» tutto loro, a casa, non è proprio come il Signore vorrebbe; almeno il risarcimento potrà non venir meno, tuttavia. Quei down potevano nascere come tutti (occhi non a mandorla), è andata diversamente; fatto sta che si sono conosciuti, parlati col cuore: è un matrimonio che s’ha da fare. Non c’è come si vede, rispetto ai nodi dell’incertezza, per gli smacchi accusati dall’ordinamento, gran differenza con Rashomon. Il filo attraverso cui ricucire le varie storie, una dopo l’altra, appare simile. Solo perché non è possibile trovare il bandolo, far sì che «splenda la

luce annunciata», non è detto si debba parlare di sconfitta. L’importante è che residui un valore, un bene aggiuntivo all’orizzonte, non troppo disomogeneo rispetto a quello di partenza: attraverso cui compensare il peso dei segreti irrisolti. Lo scopo ultimo è approdare a modelli che riescano, comunque, a «tenere insieme» le cose. L’ortodossia, la verità, la loro ricerca mondana o filosofica: sono soltanto una fra le variabili da bilanciare, da intonare al meglio; decisiva è l’importanza dei traguardi sui quali investire, man mano, le risorse che assicura la rinuncia a un accanimento «puristico», di bandiera. Il diritto non è diverso dalle discipline – astronomia, fisica, biologia eccetera – che vedono nella caducità terrena, nelle improvvisazioni dell’uomo, una compagna di lavoro e una ragion d’essere della loro esistenza. Il giurista non è diverso dallo spettatore il quale, al di là di ogni arcano sopravvissuto, ha essenzialmente bisogno che la storia funzioni.

.

Frontespizio Il Libro L'autore Introduzione 1. Dopo il manicomio Venezia La cesta Letture Sabina Il Centro Primi interrogativi Danni Orientarsi Basaglia Bene e male Augusta Una storiella americana Storture Pragmatismo Il diritto 2. Non farcela da soli Questioni Fragilità emergenti Un gioco Oltre l’infermità di mente Fuori dal San Giovanni Ombre e luci Acqua, gas, telefono Vita quotidiana Complessità negoziali Famiglia Salute, malattia Chi ha meno risorse fa più fatica Il manicomio come casa I racconti di Giuseppe Chi esce ritorna 3. Il grande vuoto L’interdizione Impraticabilità, abusi Strumento cattivo Gli altri esseri vulnerabili Imbrogli, passività Impugnazioni Procure, abusi Gestioni di fatto Un vuoto da riempire 4. Esistono al mondo persone cattive Chiavi di lettura Fare il male coscientemente La psiche ha le sue ragioni… Due film Trame segrete Dolo generico Persone malintenzionate Negligenze, imprudenze Doppi legami 5. Estreme sofferenze Un uomo si uccide Prime obiezioni Suicidio assistito Intenzionalità Tre lapidi Casistica minuta Area della negligenza Pedofilia Nella stanzetta

3 1 2 6 8 8 8 9 9 10 11 11 12 12 13 13 14 15 16 17 18 18 18 19 19 20 20 21 22 22 22 23 23 24 24 25 26 26 26 27 27 28 28 29 30 30 32 32 32 33 34 35 36 36 37 38 40 40 40 41 42 43 43 44 45 45

Impatti 6. Buio in famiglia Perdere la mamma, il papà Congiunti (resi) inabili La via maestra dell’amore Jean Gabin non parla più La sentenza dei bigliettini Stile, discrezione, altrimenti… Infedeltà all’italiana Seduzione con promessa di matrimonio Qualche figura arriva, qualcuna va Dire, fare, baciare Il cosiddetto terzo complice Madre e padre ai ferri corti Se non mi foraggi ti farò interdire 7. Non lasciarmi Solidarietà, libertà Chi ha ragione? Il quadro d’insieme In mezzo Sanzioni penali Navigando, volando Non ti amo più Oltre la sfera sentimentale Contrasti Il grande vischio 8. L’Italia che arranca Italiani gente fragile Caregiver Coazioni benigne Dietro i bei modi Esperienze sul campo Progetto di vita Strigliate dal continente Rilievi inascoltati Giustizia, salute, migranti 9. I danni da abbandono Disabilità e responsabilità Errori professionali, psichiatrici Disturbi mentali Assistenza, mantenimento Niente più soldi Incontri a Venezia Il giudice che non abbandona 10. Un progetto, due incontri Estate 1986 Stazione Marittima Psichiatri e giuristi Mentre scrivevo Neo-evenienze, altri criteri Non fra le zucchine Julia In cima ai pensieri Parole d’ordine Visite a Nicoletta 11. Il Parlamento approva Sorprese dall’ospedale Opzioni familiari Mattinata di maggio Meglio di no Pro e contro 12. Caso per caso Chi decide dal medico Case di riposo Honda Jazz Responsabilità verso l’assistito

46 48 48 48 49 50 51 52 52 53 55 55 57 58 58 60 60 60 61 61 62 63 63 64 65 65 67 67 68 68 69 71 71 72 73 74 75 75 76 76 77 78 79 81 83 83 83 84 85 86 86 88 90 91 92 95 95 96 96 98 99 100 100 100 101 102

Una coppia (quasi) come le altre La badante dell’Est Sclerosi laterale amiotrofica No a Maramaldo 13. Il quadernetto dei no Scheda base L’altra scheda Appunti Tipologie All’aria aperta Scuola Bambinologia Penale Frasi celebri Capacità Disperare mai Università 14. Verso dove Fragilità domani Diritti soggettivi Storia d’Italia Il grande cielo Non troppo in fretta Nuovi interpreti L’assistente sociale Danni in arrivo 15. Chi terrà ilbambino Saggezza Morte del samurai Tre deposizioni Il racconto del taglialegna Al bivio Il neonato Epilogo

102 103 104 105 107 107 108 108 109 109 110 110 111 112 112 113 114 116 116 116 117 118 119 120 122 124 126 126 126 127 128 128 129 130