I Dialoghi, La fortuna, La conversazione 8858784057, 9788858784051

In questo volume si raccolgono, per la prima volta, i testi più rappresentativi della straordinaria produzione letterari

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I Dialoghi, La fortuna, La conversazione
 8858784057,  9788858784051

Table of contents :
Introduzione di Francesco Tateo..............vii
Nota bibliografica..............lxxxi
I Dialoghi..............3
La fortuna..............751
La conversazione..............989
Appendice Lettere di Giovanni Pontano..............1345
Lettere Nota introduttiva testo e note a cura di Anna Gioia Cantore..............1347

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CLASSICI DELLA LETTERATURA EUROPEA Collana diretta da

NUCCIO ORDINE

Pontano.indb I

16/07/2019 13:05:50

I DIALOGHI LA FORTUNA LA CONVERSAZIONE di Giovanni Pontano Traduzioni, note introduttive e note ai testi di Francesco Tateo

Appendice LETTERE DI GIOVANNI PONTANO A cura di Anna Gioia Cantore

BOMPIANI

Pontano.indb III

16/07/2019 13:05:51

ISBN 978-88-587-8405-1 Redazione: Luca Mazzardis Realizzazione editoriale a cura di Netphilo Publishing, Milano In copertina: Ritratto di Giovanni Pontano (part.), tratto da Cristoforo Maiorana, Giovanni Pontano, De obedientia, De principe, ms 52, v. 1475, fol. 26r. © Biblioteca Historíca de la Universitat de València. Cover design: Polystudio Copertina: Zungdesign

www.giunti.it www.bompiani.it © 2019 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano - Italia Prima edizione digitale: agosto 2019

Pontano.indb IV

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SOMMARIO Introduzione di Francesco Tateo Nota bibliografica

VII LXXXI

I Dialoghi La fortuna La conversazione Note introduttive, traduzioni e note di Francesco Tateo

I Dialoghi Charon / Caronte

5

Antonius / Antonio

117

Asinus / L’ asino

305

Actius / Azio

367

Aegidius / Egidio

641

La fortuna De fortuna / La fortuna

Pontano.indb V

753

16/07/2019 13:05:51

La conversazione De sermone / La conversazione

991

Appendice Nota introduttiva, testo e note a cura di Anna Gioia Cantore Lettere di Giovanni Pontano

1347

Note

1455

Indice dei nomi citati nelle introduzioni e nelle note

1605

Indice dei nomi citati nei testi

1625

Profili biografici dei curatori

1639

Indice del volume

1643

Pontano.indb VI

16/07/2019 13:05:51

Introduzione di Francesco Tateo La rinascita del latino e le forme nuove del ragionamento (nell’umanesimo pontaniano)

1. La cultura aragonese d’Italia e il suo protagonista Nella seconda metà del secolo XV la capitale del Regno di Napoli divenne uno fra i centri più importanti della cultura umanistica, partecipando con una propria fisionomia all’evoluzione che i centri culturali delle principali città italiane, e in particolare di Firenze, Ferrara, Milano, Venezia e Roma, avevano conosciuto sin dalla metà del secolo precedente in direzione della riscoperta dei classici. Il fenomeno coincise con l’avvento al trono della famiglia aragonese di Spagna, che per opera del suo primo regnante, Alfonso V re d’Aragona e I di Napoli, detto il Magnanimo per lo stile di vita e di governo che gli fu generalmente riconosciuto, cominciò ad accogliere presso di sé alcuni dei più insigni umanisti dell’epoca. Furono presso di lui, fra gli altri, Giannozzo Manetti, che si distinse per un famoso trattato sull’eccellenza e dignità dell’uomo (1451-1452), Poggio Bracciolini, che tradusse per il re la Ciropedia di Senofonte, che riguardava l’educazione del re persiano e diverrà un modello di formazione del principe, Lorenzo Valla, che scrisse a Napoli l’orazione De falso credita et ementita Constantini donatione (1440), che costituisce un singolare documento polemico, su basi storiche e fi lologiche, contro il regime temporale dei Papi, e una Historia del padre di Alfonso, re d’Aragona in Spagna, che, nonostante l’insoddisfazione del re per la sua scarsa valenza celebrativa, è il segno di un precipuo interesse storiografico dell’umanesimo nel Mezzogiorno d’Italia. La moderna riflessione sull’etica, sulla formazione del principe, sulla storiografia, quale emerge da queste prove esemplari, caratterizzeranno la cultura umanistica napoletana del sec. XV. Nell’ambito della narrativa VII

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INTRODUZIONE

aneddotica e storiografica si distinsero due altri umanisti che illustrarono più a lungo e stabilmente la corte di Alfonso, quali Antonio Beccadelli, detto il Panormita dalla sua origine siciliana, e Bartolomeo Facio, genovese, autori rispettivamente, oltre che di dispute filologiche, il primo di un’opera sulla vita e i costumi di Alfonso il Magnanimo (De vita et moribus Alfonsi regis) e di una storia di Ferdinando suo figlio, finalizzati alla legittimazione e celebrazione dei sovrani aragonesi, il secondo di una storia di Alfonso re di Napoli. Alfonso, infatti, designato dall’ultima erede del Regno angioino, Giovanna II, aveva dovuto superare l’opposizione del pretendente, Renato d’Angiò, e in seguito l’opposizione dei principi italiani, per insediarsi nel 1442 sul trono di Napoli e consolidare definitivamente il dominio aragonese, che durò fino all’avvento della dominazione spagnola, all’inizio del secolo XVI. Fu in una delle campagne militari condotte da Alfonso I, che nel 1447 si presentò a lui per entrare al suo seguito Giovanni Pontano (1429-1303), allora giovanissimo e deciso ad abbandonare Cerreto, la città umbra presso Spoleto dove era nato e aveva già intrapreso lo studio delle humanae litterae.1 La sua condizione sociale glielo permetteva, e la tradizione familiare lo destinava a dedicarsi alla carriera letteraria, ma la perdita del padre, ucciso in una di quelle turbolenze politiche che investivano la regione governata dai pontefici romani, lo indusse a cercare altrove fortuna. D’allora in poi l’umanista visse all’ombra della monarchia aragonese, compiendo fino ai livelli più alti il normale curriculum di un intellettuale d’ingegno all’epoca dei principati, impiegato come cancelliere, come precettore del figlio del re, Alfonso duca di Calabria, come scrittore di epistole per la famiglia reale e infine diplomatico e segretario di Stato. In realtà Pontano raggiunse il più alto grado della sua carriera politica sotto il figlio del Magnanimo, Ferdinando I, Ferrante, il quale nei primi anni del suo lungo regno (1458-1494) fu costretto ad affrontare a sua volta, contro il nuovo pretendente, Giovanni d’Angiò, una guerra che ebbe fine nel 1462, dovette difendersi dall’attacco dei Turchi ad Otranto (1480-1481), condusse una spedizione militare in difesa di Ercole d’Este a fianco del Duca di Milano contro lo schieramento di Venezia alleata con Sisto IV (la «guerra di Ferrara» conclusa nel 1484 con la pace di Bagnolo), ebbe a contrastare una congiura di Baroni sostenuti dal papa Innocenzo VIII (1486). A tutte queste azioni militari Pontano partecipò, ora più ora meno, lasciandone traccia nelle sue opere. La sua Storia della VIII

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LA RINASCITA DEL LATINO

guerra napoletana (De bello Neapolitano) ricorda infatti importanti mansioni svolte già durante il primo di questi conflitti, la lirica e gli scritti astrologici richiamano i rapporti da lui intrecciati con la cultura ferrarese, dove operava un poeta elegiaco come Tito Vespasiano Strozzi e fiorivano gli studi naturalistici, e in particolare astrologici, che dovettero avere un certo influsso sulla sua evoluzione poetica e scientifica. Infine l’apporto diplomatico dato da Pontano alla soluzione del conflitto con i Baroni si riflette in una delle sue memorie autobiografiche più letterariamente originali, come vedremo trattando dell’Asinus. Quest’ultima circostanza, che portò alla condanna e alla sostituzione del rinomato segretario di Ferdinando, Giannantonio de Petruciis, segnò anche l’inizio del periodo più felice della carriera politica di Pontano presso la corte aragonese. Sennonché le convulse vicende che si susseguirono dopo la morte di Ferdinando (1494), cioè il breve regno di Alfonso II che abdicò in seguito all’invasione del suolo napoletano da parte di Carlo VIII di Francia (1494), il rifugio in Sicilia e il ritorno di Ferdinando II, detto Ferrandino, l’ascesa al trono di Federico III, sovrano illuminato e solidale con i letterati, ma che preferì allontanarsi in esilio quando Francia e Spagna si scontrarono per la conquista del Regno, segnarono una svolta nella vita di Pontano. Egli abbandona l’impegno politico nonostante che, dopo la parentesi dell’occupazione francese, gli fosse offerta la possibilità di assumere nuovamente la sua carica prestigiosa, e fa una scelta di vita tutta dedita all’ozio letterario sulla scia di antichi modelli, come quello dell’amato Cicerone. Un intenso lavoro lo attende, infatti, nell’ultimo decennio del secolo, quando porta a termine l’opera storica, i poemi naturalistici e il trattato astrologico, la serie dei libri sull’etica, compone i due ultimi dialoghi, Actius ed Aegidius, il trattato sulla conversazione (De sermone) e il poema georgico sulla coltivazione degli agrumi. Fra i suoi ultimi atti, la lettera dedicatoria rivolta al vincitore spagnolo, Consalvo di Cordova, premessa al trattato sulla fortuna,2 dove pur l’umanista aveva meditato intorno alla casualità del successo privato e politico sullo sfondo della rovina del Regno, è un estremo elogio delle virtù politiche e sociali, soprattutto la fortezza, la prudenza e la magnanimità, che egli aveva sostenute in tutta la sua riflessione etica svolta nelle forme del trattato e del dialogo. Del resto il tema etico della virtù, nonostante la propensione a riconoscere il potere IX

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INTRODUZIONE

della fortuna e del fato astrale, era al fondo della sistemazione astrologica riguardante proprio il rapporto fra la volontà umana e la natura, e si era trasformato in arte di vita, fino a comprendere il ludico e la facezia, e in meditazione sull’esistenza umana e sugli affetti dell’amore, dell’amicizia e della sodalità accademica nella sovrabbondante lirica latina. La vasta e molteplice opera pontaniana occupa l’intero corso della dominazione aragonese nel Mezzogiorno d’Italia, che più di quella angioina si era radicata sul suolo italiano ed esprimeva le istanze della nuova cultura umanistica, sebbene all’epoca di Roberto d’Angiò fosse già fiorita una sorta di umanesimo, il cosiddetto protoumanesimo, con la presenza in corte di uomini di lettere nativi del Regno, e soprattutto di toscani quali Cino da Pistoia, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Niccolò Acciaiuoli. Dell’umanesimo aragonese l’opera di Pontano rappresenta la punta più alta, assieme a quella, per molti versi affine, del suo grande amico Iacopo Sannazaro (1457-1530), più giovane di lui e segnalatosi invece per l’apertura verso l’umanesimo volgare nella narrativa e nella lirica. L’opera letteraria di Pontano, tutta inscritta nel fenomeno della rinascita del latino, in certo qual modo perfino in competizione con il rilancio del volgare, rappresenta un momento decisivo e organico della Rinascita, se pensiamo alla gran varietà degli argomenti trattati e alla molteplicità delle forme derivate dalla tradizione classica e tuttavia rinnovate all’interno del programma di restaurazione dell’antico. All’opera letteraria si affianca, infatti, una vera e propria politica culturale, se pensiamo soprattutto all’Accademia pontaniana, dovuta all’iniziativa di Antonio Panormita, che raccolse una sodalità di letterati quasi in alternativa allo Studio tradizionale d’impostazione scolastica, e divenne un punto di riferimento per lo stesso regno di Ferrante, fiero sovrano e pur partecipe del mecenatismo umanistico, e una scuola formativa per l’aristocrazia cittadina e baronale e le successive generazioni d’intellettuali.3 L’iscrizione, cui Pontano volle affidare l’immagine della sua personalità, e che egli stesso nell’Aegidius fa leggere ai visitatori giunti a Napoli per incontrarlo, sulla torre fatta costruire vicino alla sua casa, diceva: «egli onorò le lettere, onorò le belle arti, onorò anche i re. Lo riverirono i giovani onesti, i vecchi onesti apprezzarono la integrità, la lealtà, la moralità d’animo del suo signore. E infatti Gioviano Pontano, sopravvissuto al tempo antico, fu tale. Egli visse per sé e per le Muse» (Aegidius, 1). X

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LA RINASCITA DEL LATINO

Analogamente nel De prudentia, in una pagina autobiografica che voleva offrire un modello di saggezza, dopo aver celebrato senza falsa modestia i suoi meriti di politico, di uomo prudente al servizio dei re in pace e in guerra, ottenuti senza rinunciare alla sua vocazione di scrittore, scriveva della scelta fatta negli ultimi anni: […] tutti condannano i tempi e accusano la fortuna, per il fatto che il successo di Carlo Ottavo, re dei Galli, che ha occupato questo regno di Napoli, per quanto l’abbia tenuto a stento un solo anno, mi abbia allontanato dalle faccende del regno. Questa situazione mi ha indotto invece a godere della tranquillità e dell’ozio dello spirito. Infatti sapete bene che pur avendo tentato per ben tre volte di abbandonare gli impegni politici sotto il re Ferdinando, concessione mai ottenuta, una forza nemica grazie alla divina intercessione mi ha procurato l’ozio e l’allontanamento dalle cariche pubbliche. Ed in questa condizione – ripeto – godo della mia vita trascorsa senza arricchirmi, ma occupandomi ora del mio spirito in modo da pervenire dopo quelle tempeste in un porto molto sereno e sicuro. E in questa condizione di ozio mi sembra di godere a pieno anche dei doni divini e di vivere in una tale tranquillità che ora soltanto mi sembra di vivere per me stesso, non per i re. Pertanto posso testimoniarvi in base alla mia personale esperienza di vita che per un uomo ben radicato nei suoi principi spirituali e morali, nessun momento è più desiderabile, più tranquillo e beato di quello in cui, allontanandosi con onestà dagli affari pubblici, perviene ad una condizione di ozio, dove poter godere del proprio spirito, vale a dire della familiarità con i superi.

D’altra parte l’interesse astrologico gli offrì l’occasione per evocare indirettamente il proprio carattere e il destino della propria esistenza in taciti squarci autobiografici del poema Urania a proposito dei segni zodiacali che avevano accompagnato la sua nascita, il Toro nel quale era sorto il sole il 7 maggio, l’Ariete che dovette intervenire col suo influsso e soprattutto il Capricorno espressamente citato come ascendente nel trattato De rebus coelestibus.4 La consapevolezza delle proprie attitudini, l’orgoglio della propria ascesa sociale, la memoria degli ostacoli si proiettano e si giustificano nella ragione universale del mondo. Non mancò, tuttavia, di usare un registro diverso facendo delineare la sua persona fisica, e il suo comportamento privato, con qualche accento comico e un po’ di sornioneria, in uno dei dialoghi qui pubblicati (Antonius, 69), identificandosi con un eroe d’altri tempi nel poemetto XI

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INTRODUZIONE

eroicomico annesso allo stesso dialogo (Sertorius, vv. 547-562), e soprattutto nella deformazione della beata vita solitaria, ai limiti della follia, testimoniata dall’Asinus. Ma la considerazione dell’umanista e del politico non può ovviamente prescindere da quella del poeta, non solo per la sua secolare rinomanza, ma perché l’interesse verso la poesia lo accompagnò fino all’ultimo, quando si preoccupò di rivedere, riordinare e scandire la produzione in versi in vista di una pubblicazione.5 Come l’epica mitologica, naturalistica, e didascalica, il corpus dei suoi versi latini, comprendente i Carmina (elegie, epigrammi, versi lirici e giambici), e le Eclogae, composto a più riprese (come possono testimoniare le occasioni liete e tristi che talora vi si riflettono) lungo tutto l’arco della vita, e stampato postumo pressappoco nell’ordine voluto dall’autore nei suoi ultimi anni, rispecchia integralmente la sua molteplice, perfino contraddittoria sensibilità e la straordinaria varietà dell’inventiva.6 La facilitas dell’affabulatore e dello sperimentatore di generi letterari e la pensosità del filosofo fra insegnamento etico e riflessione esistenziale percorrono del resto tutta la sua poesia. La bucolica comprende l’originalissima Lepidina, serie di ecloghe rustiche in forma di trionfi (Pompae), dedicate alla celebrazione di Napoli mediante il racconto fantasioso delle nozze del dio Sebeto con la ninfa Partenope, e altre cinque ecloghe di argomento familiare, fra cui una dove il poeta assunse, a imitazione di Virgilio, il nome pastorale di Meliseus, e fece descrivere agli amici travestiti da pastori il suo dolore per la morte della moglie. A lei, cantata col nome classicheggiante di Ariadna (Adriana), Pontano dedicò tre libri di elegie, De amore coniugali, cui fanno quasi da pendant altri due libri di elegie che narrano l’amore per Stella, l’Eridanus, dal nome del fiume (il Po), che bagnava la terra da dove ella proveniva. Egli colse, infatti, l’occasione di riferirsi, con vari toni autobiografici alla propria vita familiare e sentimentale. Congedandosi dal poema astrologico, l’Urania, ribadì i propri meriti ricordando alla maniera epica le sue opere, ma dopo aver espresso il suo dolore di padre per la figlia Lucia Marzia, morta prematuramente e alla quale riservava un posto fra le stelle come ai personaggi eroici che nel poema aveva celebrato. Alle occasioni della vita affettiva e cortigiana rimandano le classiche effusioni d’amore (Parthenopeus sive Amorum libri), gli epigrammi, di segno triste XII

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LA RINASCITA DEL LATINO

(De tumulis, due libri di iscrizioni sepolcrali) e faceto (Hendecasyllabi seu Baiae, due libri di carmi giocosi), gli inni sacri in forma elegiaca (De laudibus divinis), omaggio al nipote di Alfonso, Giovanni, di cui era stato precettore, quando intraprese la carriera ecclesiastica, i versi giambici e lirici (Iambici, Lyra). Nel celebrare l’amore coniugale l’inventiva pontaniana si era esercitata oltretutto in componimenti che rimangono fra i versi più pregevoli dettati dalla ricerca del linguaggio affettivo, anche per la loro influenza sulla sperimentazione moderna della poesia latina, le Neniae (De amore coniugali, II 8-19), ninne nanne scritte per il piccolo Lucio, quello stesso figliuolo che anima un quadretto familiare in una pagina scherzosa dei Dialoghi (Antonius, 69-71), e al quale sono dedicati parecchi componimenti e soprattutto l’ultima ecloga, il Quinquennius, una sorta di institutio del fanciullo ai suoi primi passi nella vita e un carme in versi giambici per piangere la sua morte (Iambici, IV). Di queste testimonianze di vita privata trasfigurate dal ricordo, dal sorriso, spesso dalla fantasia erotica o dalla mestizia, è piena la poesia pontaniana, che in realtà era nata con un’ispirazione priapea (il Pruritus era la prima raccolta giovanile, di cui rimangono solo alcune tracce nel Parthenopeus sive Amores), e se troverà un’espressione più composta sarà sempre tendenzialmente aperta alla voluptas e alla iocunditas. Questi due aspetti del «piacere» non gli verranno meno neppure nei tardi anni, quando seguendo il metodo della trattatistica ciceroniana e aristotelica Pontano comporrà il primo trattato sulla conversazione come forma del «ridere» (De sermone), che è anche una raccolta di facezie. Sul versante della poesia gli Hendecasyllabi sono la più esclusiva e ardita celebrazione del piacere, sollecitata da un luogo mitico del divertimento, la costa balneare di Baia, in un colloquio costante con gli amici invitati a godere insieme a lui le gioie della vita. Nella poesia, sia bucolica, sia elegiaca, sia lirica si affina, infatti, quella disposizione al colloquio umano, quel senso della cultura come convergenza e scambio di sentimenti e d’idee, che confluisce nei dialoghi, non solo in quelli che possiamo chiamare faceti, di prevalente ispirazione ludica, ma anche in quelli dove più si manifesta la motivazione dottrinale. Tutta la carriera letteraria di Pontano è attraversata inoltre dall’interesse astrologico, che coinvolge sia la sua vena poetica sia la sua vocazione di divulgatore scientifico. Tradusse e commentò le Cento sentenze di ToloXIII

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INTRODUZIONE

meo, che avevano avuto una traduzione da parte di Giorgio Trapezunzio, uno dei dotti greci passati dal centro napoletano, autore anche di un famoso trattato di retorica che influì sulla poetica pontaniana, sia per una più corretta traduzione latina, sia per favorire con l’esposizione latina retoricamente curata la conoscenza della difficile materia scientifica, che nel sec. XV otteneva particolare attenzione anche da parte dei poeti.7 Un contributo rilevante di Pontano a questa disciplina fu, infatti, il trattato astrologico in tredici libri (De rebus coelestibus), completato nei tardi anni (1495), ma anticipato da due grandi prove di poesia, sulle orme di Ovidio e di Lucrezio, in cui la materia astrologica di origine tolemaica si combina con la fantasia mitologica (Urania) e la materia meteorologica di origine aristotelica assume le forme del realismo descrittivo del poema naturalistico (Meteororum liber). Il poema sulla coltivazione degli agrumi (De hortis Hesperidum), una celebrazione della mitica origine della pianta profumata che allieta la costa napoletana, come simbolo dell’eterna poesia, sarà ancora, fra le ultime imprese letterarie, una combinazione d’insegnamento georgico e di fantasia poetica. La prosa di Pontano si caratterizza per due tendenze parallele, una verso l’analisi dell’etica e del comportamento politico, l’altra verso il piacere della parola come forma di comunicazione, di elegante esposizione di argomenti culturali, e verso l’osservazione degli aspetti risibili del mondo umano. Esse spesso s’intrecciano, come avviene in particolare nei Dialoghi, eppur toccano i limiti estremi, apparentemente contrari, della severità pedagogica e della satira e perfi no del gioco. I trattati morali nascono, infatti, da un grande impegno pedagogico, dopo un libro sul «principe» (1468) che corona l’opera educativa spesa nei confronti del futuro re, Alfonso II. Pontano si dedicò alla trattatistica intorno alle qualità della vita morale sulla scorta della sezione relativa dell’Etica aristotelica per circa quarant’anni, occupandosi prima dell’obbedienza e della fortezza quali fondamenti dell’ordine civile, da parte dei sudditi e del sovrano, poi delle virtù che si esercitano nell’uso pubblico e privato della ricchezza (liberalità, beneficenza, magnificenza, splendore, convivialità), nell’azione politica per il bene comune (De prudentia), nella vita morale per meritare l’onore (De magnanimitate).8 Frattanto il De sermone, attraverso l’analisi delle forme del riso nella conversazione e nel collaterale genere letterario della facezia, sviluppa la riflessione teorica sulla retorica in concomitanza con il recupero dell’insegnamento ciceroniano XIV

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LA RINASCITA DEL LATINO

(Orator e De oratore), ma con lo sguardo rivolto al metodo aristotelico della trattazione sistematica. Nell’ambito di tale tipica operazione umanistica si spiega la novità dei trattatelli di metrica (De numeris poeticis) e di storiografia (De lege historiae), che costituiscono il nucleo iniziale del più ampio e famoso dialogo, l’Actius, dove è affrontato il rapporto fra la poesia epica, la storiografia e l’oratoria forense, e del dialogo Aegidius, dove viene affrontato da ultimo il genere dell’oratoria sacra. L’occasione è offerta dalla presenza a Napoli del grande esponente degli agostiniani che negli anni successivi si segnalerà, a Roma, per l’epidittica che nell’istituzione ecclesiastica viveva il suo momento più fulgido. Pontano aveva concluso appena da qualche anno la stesura del poderoso trattato astrologico9 che raccoglieva le fi la di una lunga e varia esposizione della materia più controversa del secolo,10 aveva posto termine alla narrazione della guerra napoletana degli anni Sessanta, che rappresentava una sorta di addio al suo impegno di segretario del principe,11 componeva frattanto tre libri sulla fortuna, ultima e stravagante riflessione sulla questione morale, come il libro sulla disumanità,12 e concepiva un poema georgico sugli agrumi attribuendo alla coltivazione il simbolismo della poesia,13 quando all’età di settant’anni, tre anni prima di morire, offriva il suo ultimo dialogo al nuovo amico dell’ordine degli eremitani di sant’Agostino che a Napoli aveva conquistato l’attenzione degli accademici14 ed una grande popolarità. Il De fortuna e l’Aegidius, un trattato e un dialogo, costituiscono l’ultimo atto della prosa pontaniana, entrambi collegati con questo eccezionale confronto con un protagonista del Rinascimento cristiano. 2. Dinamica dei Dialoghi Nel loro complesso i Dialoghi di Giovanni Pontano potrebbero rappresentare l’evoluzione stessa dello scrittore, uno specchio degli interessi prevalenti che maturavano progressivamente in lui e che si manifestavano contemporaneamente anche nella lirica, nell’epigramma, nella bucolica, nel poema, e nella chiosa filologica ai testi classici. Il loro raggruppamento come esempio di un ben definito genere letterario e secondo l’ordine poi rimasto tradizionale, Charon, Antonius, Actius, Aegidius, Asinus, deriva dalla scelta editoriale di Aldo Manuzio,15 quando negli anni 1518-1519 raccolse le opere in prosa dell’umanista in un corpus.16 L’ordine rispecchiava quello cronologico della princeps dei primi due XV

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INTRODUZIONE

dialoghi e della princeps degli altri tre.17 In effetti la composizione di questi scritti, al di là della comune forma dialogica, risponde a modelli diversi e si distribuisce in un lungo arco di tempo, dagli anni sessanta del Quattrocento ai primissimi del Cinquecento,18 che sono anche gli ultimi anni di vita dell’autore, morto nel 1503, collegandosi alla sua riflessione teorica e operosità poetica che si esprimevano nel frattempo in altre forme. E se l’ordine, per quanto riguarda i primi quattro dialoghi, rispecchia la reale successione cronologica della loro composizione, nel caso del dialogo collocato per ultimo hanno probabilmente influito sulla scelta editoriale di Pietro Summonte, che ha raccolto l’eredità dell’autore in vista della pubblicazione, o la sua tipologia singolare che quasi avallava una collocazione separata, o il suo contenuto particolarmente faceto, satirico e apologetico, che ne faceva una sorta di culmine creativo. In realtà il susseguirsi dei dialoghi, così diversi nella struttura, dovrebbe confrontarsi con un percorso culturale complesso e in evoluzione, che vede accanto alla lirica maturare gli studi astrologici nella forma scolastica del commentario e del trattato, quindi nella forma immaginosa del poema, gli studi filosofici nello stile divulgativo della saggistica sistematica, gli studi filologici e retorici nella maniera del manuale, dello spicilegium e del trattato. La serie dei cinque Dialoghi, che rappresentano un genere in progress, comincia con l’edizione congiunta del Charon e dell’Antonius (1491), pur scritti a distanza di un decennio, che già, a parte il comune schema dialogico e l’apertura ad una performance che si accentuerà nell’Asinus, risponde a modelli diversi. Infatti all’apologo satireggiante, che prevale nel Charon, un apologo che si alterna all’imitazione, finanche parodica, del dialogo dotto pervenuto dalla tradizione antica alla letteratura umanistica,19 segue nell’Antonius la celebrazione dell’istituto accademico accompagnato da spiritose forme di dialogo socratico e di aneddotica faceta nel ricordo di Antonio Panormita e di monologo buffonesco nel racconto autobiografico di un certo Suppazio. Il primo dialogo in ordine di tempo, Charon, fu composto con ogni evidenza, dato anche il titolo, i personaggi e la scena, soprattutto quella del nocchiero infernale a colloquio con il dio Mercurio nell’Ade, sulla scia del fortunato dialogo di Luciano, che aveva avuto già un importante seguito nelle Intercoenales e nella sezione finale del Momus di Leon Battista Alberti,20 come nel diffuso genere degli apologhi, a mezzo fra la riflessione etica e l’impegno satirico. Eppure nella rielaborazione pontaniana XVI

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LA RINASCITA DEL LATINO

lo spunto lucianeo di far incontrare sulla terra Mercurio e Caronte che parlano intorno al genere umano si evolve già in una struttura più complessa, e certo non immune dal suggerimento dantesco della Commedia, perché situata questa volta proprio nell’Ade, non sulla terra come nel dialogo di Luciano. Nell’Ade dialogano Eaco e Minosse, giudici infernali, raggiunti da Mercurio che porta le nuove dalla superficie terrestre, e vi recitano una parte anche alcune anime che hanno compiuto il loro itinerario terreno e quindi possono rivelare tutto il bene e il male della loro vita o riproporre la loro figura terrena, in analogia con l’impianto del poema dantesco.21 Tuttavia, come nel modello greco, nel colloquio del nocchiero infernale col dio e con i mitici personaggi, si rivelano sia la sua dabbenaggine nel riflettere con spregiudicata semplicità su quanto egli ha imparato dalla sua esperienza, sia – con la stessa meraviglia e approvazione da parte dei saggi interlocutori – il livello di cultura da lui raggiunto. Il Charon risente anche dell’impatto politico e civile dell’umanista, il quale a quell’epoca, in altra sede, si occupa di etica e di politica.22 Non è un caso che fra le prime notizie, riferite a fatti evidentemente recenti che emergono dal discorso, e gli incontri che Caronte racconta di aver avuto con le anime arrivate nell’aldilà, vi siano una sciagura abbattutasi sul Regno, il terremoto preannunciato dalla Cometa di Halley del 1456, che fa riflettere sulla sorte umana e sulla fortuna, e la morte di uno spregevole tiranno frustrato nella ricerca di un regno, e probabilmente, se non si tratta dello stesso tiranno, di un altro trattenuto dai giudici dell’aldilà fuori dei confini infernali per evitare che continuasse a provocare zizzanie.23 Se questi indizi aiutano a datare genericamente la composizione del dialogo negli anni Sessanta,24 è ben più importante il fatto che ce ne facciano intendere il senso, consistente nell’additare la condizione degli uomini sottoposta all’influsso degli astri, i quali frustrano le illusioni umane, e il male che la violenza degli uomini aggiunge alla loro già precaria condizione naturale. Questo tema, che emerge già in questi anni con lo studio del Centiloquio di Tolomeo, accompagnerà lo scrittore fino alla tarda trattazione del De fortuna, dove, a parte la deriva bestiale cui talora giunge la vita umana (De immanitate), viene esaminata la condizione incerta e irrazionale in cui si trova ad operare l’uomo, teso con il desiderio e la speranza verso l’acquisto dei beni esterni e della felicità, spesso frustrato e spesso perfino inconsapevole e quindi immeritevole XVII

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del suo successo, come dirà il De fortuna trattando dell’uomo «fortunato» sulla base dell’Etica Eudemia dello Pseudo-Aristotele. Ma il doppio registro, colto e popolaresco, con cui si sviluppa il dialogo di Caronte, ha già qualcosa di teatrale nella serie di scenette comiche in cui domina la battuta ridicola, e di cui sono protagonisti grammatici e filosofastri. Pontano riprenderà nei successivi dialoghi l’impostazione scenica, che corrisponde anche al duplice modo di affrontare la trattazione dell’etica da parte dell’umanista, fra il realismo ridanciano e ironico e la colta articolazione del ragionamento. Oltretutto, con l’accumulo vario di temi e di esiti letterari, il primo dialogo è già un saggio di quella virtù che Pontano teorizzerà nel De sermone, finito di comporre intorno al 1499, dove la facezia è intesa sia come festosa rappresentazione del ridicolo, sia come ridicolizzazione di ciò che vuol essere serio, ma è soprattutto conversazione intorno agli aspetti vari dell’esistenza. Pontano trova anche l’occasione di riscrivere in termini realistici ed erotici, nel racconto sconsolato di un’anima, la novella boccacciana di frate Alberto, già piegata nel Novellino di Masuccio alla satira antimonastica con crudezza dei toni;25 e insiste anche lui sull’inganno del religioso più che sulla sprovveduta vanità della giovane. Lo scrittore costruisce vere e proprie scenette farsesche, dove spicca la stoltezza dei grammatici e dei dialettici e dominano il gioco verbale, la macchietta e la satira della superstizione intesa nel senso più largo;26 inserisce riflessioni sulla decadenza attuale della Grecia e dell’Italia avvertendo la débacle politica e il pericolo turco; introduce alla fine, fra ombre di personaggi rissosi e deprecabili, alcuni modelli vari ma in un certo senso positivi, che adombrano gli indirizzi filosofici dell’antichità esemplificando forme varie di sapienza, dalla disposizione alla vita solitaria e all’onestà alla propensione al riso, un’alternanza di stoicismo, cinismo, epicureismo sotto forma di monologhi autobiografici che ben si adattano alla teatralità della composizione. L’enigmatica presentazione finale, sulla scena ultraterrena, di un personaggio di origine toscana e di un personaggio di origine umbra che quasi si confessano, lasciando al lettore la curiosità di sapere se si tratti di allusioni specifiche o di tipizzazioni, prelude alla saggia conclusione messa sulla bocca di Caronte, il quale riconosce nelle due posizioni etiche due modi diversi o complementari di accedere alla felicità. Nella forma del monologo come una sorta di auto-rappresentazione di tipi umani, si risolve anche il dibattito intorno ad uno dei problemi etici XVIII

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più importanti della dialogistica del Quattrocento, la ricerca del vero bene e della vera virtù ereditata dalla trattatistica ciceroniana. Insomma, a parte la frammentazione delle scene, che risponde alla tecnica della rappresentazione profana come in quel dialogo giocoso che sarà ancora l’Asinus, il Charon ha un suo interno svolgimento, che richiama le celebri visite nel mondo dei morti e vi si può riconoscere un filo unitario. L’Aldilà paganeggiante, mescolandosi con qualche elemento cristiano, si configura anch’esso come un percorso dall’Averno ai Campi Elisi, dalla stoltezza alla sapienza, dalla vana speranza alla probabile felicità. Uno sviluppo del carattere dotto del dialogo, ma un evidente mutamento di modello dialogico, da Luciano a Platone – si direbbe – è proprio il dialogo composto successivamente, l’Antonius, qualche tempo dopo la morte del Panormita, scomparso nel 1471, il quale vi viene celebrato insieme con l’Accademia andata inizialmente sotto il suo nome e poi conosciuta come pontaniana. L’ostentata occasionalità dei discorsi, il passaggio dal registro faceto degli scambi verbali a quello serio della discussione di retorica e di poetica, l’attenzione rivolta alla «varietà», che debba necessariamente evitare gli eccessi istituzionali della disciplina culturale e quindi la noia, accompagnano e caratterizzano lo sviluppo in senso appunto «accademico» del genere dialogico. Di qui anche l’ironia e l’autoironia attribuite al Panormita e al Pontano stesso, il quale dichiara così il suo modello diretto, la famosa ironia socratica depositata nei dialoghi di Platone, anche se Platone, pur citato, non è un’autorità direttamente seguita. Si avviava anche l’innesto, nel genere dialogico, dell’altro modello antico rappresentato dalle Noctes Atticae di Aulo Gellio e dai Saturnales di Macrobio, come riscoperta della cornice leggera applicata alla discussione filologica, la quale diventerà un modulo della saggistica erudita e della trattatistica del Cinquecento, dopo aver contribuito già ai tempi di Boccaccio a formare, mediante la cornice, il pretesto letterario della novellistica. Nel successivo dialogo, che si apre con un esplicito riferimento cronologico, la pace del 1486 fra il re di Napoli Ferrante e il papa Innocenzo VIII alla quale il nostro umanista dovette dare un apporto diplomatico decisivo, e comunque se ne assunse il merito, c’è una vera e propria trama, quantunque semplicissima e costituita di scenette a sé stanti, perché tutte sono riferite a una presunta vicenda autobiografica. La scena iniziale della taverna, che pur presenta vari argomenti comici e satirici, XIX

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serve sostanzialmente ad ambientare storicamente, per dir così, la vicenda, e già prepara l’apparizione del protagonista, ossia dell’autore stesso, che avviene in un secondo tempo, secondo una certa consuetudine delle opere teatrali. Gli amici del poeta, introdotti dapprima a informare, con le loro confidenze, del nuovo e strano caso del loro amico impazzito, intervengono, se pur solo come spettatori e commentatori, nelle scene seguenti, e partecipano alla fine attivamente all’esito dell’azione. Nel Charon il demone barcaiolo era semplicemente il centro coordinatore di un vario discorso, nell’Antonius il compianto Panormita era l’ispiratore e il punto di riferimento ideale dei colloqui e dei ricordi; nell’Asinus Pontano è, invece, il protagonista di una vicenda, per quanto esile essa sia, mentre la natura tutta autobiografica del dialogo rappresenta un’assoluta novità, confrontabile tuttavia con gli elementi autobiografici presenti in tutti gli altri componimenti dialogici, perfino nel Charon, dove il personaggio dell’autore è appena indirettamente menzionato, quel tanto che basta a inserirci scherzosamente una sorta di firma (Charon, 46), ma forse si nasconde idealmente nella raffigurazione morale delle anime con cui si chiude l’operetta. Questo sviluppo in senso più scopertamente «teatrale» del dialogo avviene certo sotto la suggestione della rappresentazione in volgare e coincide con un gusto moderno più salace e un’apertura verso toni più popolareschi e borghesi. La riscoperta dei comici latini, e specialmente di Plauto, di cui Pontano possedette e postillò un manoscritto,27 favorirà oltretutto, fra poco, la nascita della commedia in volgare. Ma il merito maggiore dell’Asinus non consiste solo nello sviluppo del dialogo in forma più chiaramente performativa, nella trattazione di argomenti meno filosoficamente o culturalmente impegnati, quanto in una particolare unità di tono, che si afferma nonostante la molteplice trama degli interventi. Pontano vi ha sviluppato, accanto ai soliti motivi della satira politica antipapale, un aspetto interessante del suo particolare umorismo, già sperimentato nell’Antonius, quando ha presentato se stesso, in ambigue situazioni, quale oggetto e insieme autore di divertita ironia.28 Riguarda ancora l’umorismo e la struttura teatrale di questo dialogo il rilievo dato all’aspetto linguistico, a quell’inventiva lessicale, alla quale già si riferiva Remigio Sabbadini,29 che ha riscosso recentemente un interesse più adeguato alla riconosciuta originalità dell’opera, cui già Vittorio Rossi attribuiva il titolo di un capolavoro.30 XX

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Ma la varia sperimentazione del genere dialogico da parte di Pontano, se pensiamo al tema ricorrente della grammatica e della retorica, che talora sembra prevalere su quello etico della trattatistica ciceroniana, rivela un itinerario coerente riconoscibile nello stesso percorso didattico delle humanae litterae. Nel Charon la questione grammaticale è ancora trasferita nella comicità della scena scolastica (ombre di grammatici e dialettici che si scontrano o intendono far stupire il povero Caronte con i loro cavilli), e appartiene alla polemica umanistica contro la meschinità erudita, in questo caso il livello elementare della normativa e della caccia all’errore; nell’Antonius diventa una delle forme di stoltezza in cui uno spiritoso viaggiatore come Suppazio in giro per l’Italia può imbattersi, disgustato della rigida mentalità grammaticale, ma si solleva già a un’analisi sottile delle formule teoriche con cui si designa il mestiere del giurista e dell’oratore trattando dello status quaestionis nell’interpretazione di Cicerone e Quintiliano, e quindi dell’imitazione poetica, una sorta di critica stilistica sulla bocca degli accademici napoletani.31 L’ Asinus, cui si ricollegherà per il tono la scenetta iniziale dell’Actius, riflette il momento critico in cui Pontano, attraverso l’apertura verso la sperimentazione teatrale, vive l’impatto con la lingua viva che emerge nella struttura di un latino plautineggiante, attraverso la deformazione comica, il neologismo, l’arcaismo popolaresco e il calco volgare32. Nei dialoghi successivi questa esperienza linguistica diventa ragione di riflessione teorica, che investe l’etimologia, il lessico, la sintassi, i problemi di ordine letterario, filosofico e teologico connessi. Nel percorso dei dialoghi si applica quasi un progetto organico di educazione culturale, dagli argomenti più semplici, perfino favolosamente proposti, ai temi più complessi, un progetto che contrasta con la disinvoltura cui in effetti i dialoghi vogliono apparire atteggiati. Anche le Istituzioni di Quintiliano, tanto presenti nella cultura pontaniana, cominciano dal livello elementare dell’insegnamento per concludersi con l’immagine del letterato nutrito di arte letteraria e di fi losofia. I dialoghi pontaniani ne sono un’eco e forse una metamorfosi esplicativa: anche il punto di riferimento continuo soprattutto dell’Actius, il De oratore, l’Orator e il Brutus ciceroniani, vuol essere il superamento del livello elementare e scolastico, per una visione del letterato completo che si forma attraverso la poesia, la storia e la filosofia. Infatti, a distanza di circa un decennio, dopo aver curato la pubblicazione, nel 1491, dei primi due dialoghi, ma non dell’Asinus che nel fratXXI

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tempo aveva composto approfondendovi il carattere scenico, satirico e faceto, Pontano sviluppò nell’Actius, ancora in forma dialogica, gli argomenti attinenti alla grammatica, alla retorica e alla poetica con un più ampio, specifico e impegnativo discorso sullo stile della poesia e della storiografia. Egli aveva del resto coltivati a quel punto della sua carriera di scrittore i due generi mettendo in versi eroici la materia astrologica e in prosa una narrazione dei suoi tempi.33 Il più ampio dei suoi dialoghi nasceva come riflessione sulla metrica e sull’arte ritmica adoperate nella poesia attraverso l’analisi principalmente del verso virgiliano (De numeris poeticis) e come trattazione dello stile storiografico (De lege historiae).34 Alla base c’erano la distinzione e la gerarchizzazione dei generi letterari fondamentali, poesia, storiografia, oratoria. Erano gli anni in cui arrivava oltre tutto a compimento l’impegno storiografico del De bello Neapolitano con i modelli di Livio e Sallustio, e la varietà della vena elegiaca e lirica si avviava ad essere organizzata in un corpus significativo, mentre Ovidio, Lucrezio e soprattutto Virgilio trovavano un posto d’onore nella poesia naturalistica e didascalica. Si pensi che una fra le più grandi espressioni della poesia pontaniana, un amalgama della sua emulazione umanistica dell’antico, l’ecloga Lepidina, si colloca nel 1495, cioè nello stesso periodo in cui si colloca l’Actius, intitolato al Sannazaro, il poeta per eccellenza della cerchia pontaniana, divenuto famoso per la trasformazione del genere bucolico nella narrativa dell’Arcadia e per la trasposizione dell’epica virgiliana nell’epopea cristiana, debitamente ridotta alla squisita misura alessandrina sulle orme di Claudiano, e arricchita di sensi teologici. E tuttavia il più impegnativo dialogo si apre con una scena comica a tutti gli effetti, anzi con la prova più audace che Pontano abbia tentato sul piano dell’inventiva linguistica e della contraffazione artistica della rusticità contadinesca.35 Ma una sottile analogia vi è anche nel rapporto, che emerge nei dialoghi, fra il costume severo dell’Accademia e la volgarità popolaresca, perché come nell’Antonius, a parte la raffinata ambiguità del poemetto virgiliano sulla guerra di Sertiorio, l’accademico Errico Poderico lamenta il diffondersi degli spettacoli di piazza e dei saltimbanchi che narrano mirabolanti gesta di guerrieri, e come nell’Asinus l’umanista si cala in situazioni farsesche, Azio Sincero lamenta, ad apertura del dialogo a lui intitolato, l’ignoranza contadina e la connivenza volgare del notaio disposto a redigere un atto controlegge e perfino empio. XXII

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L’incipit dell’Actius (Actius, 1-3), pur così diverso nel suo svolgimento complessivo dall’Antonius e dall’Asinus, sembra evocarne qualche tono, quando coinvolge in una dura polemica la gerarchia ecclesiastica e la vendita delle indulgenze: l’assurda clausola di un atto notarile, mediante il quale si vendeva una casa di campagna compresa la parte di cielo che la sovrastava, sarebbe stato infatti inviso ai sacerdoti che hanno avocato a sé il diritto di esercitare simili vendite. La polemica contro i papi contemporanei colpevoli di simonia, Innocenzo VIII e Alessandro VI, il primo già colpito nell’Asinus, il secondo forse diretto obiettivo delle parole attribuite inizialmente a Sincero, ha anche la funzione di preparare con un contrasto il discorso pieno di sensibilità religiosa sui sogni, e presago dell’argomento di poetica ampiamente svolto all’inizio della seconda scena dello stesso Actius. Nello stravagante incipit del dialogo, tutto linguisticamente e folcloristicamente impegnato, arriva a compimento anche la lettura di Plauto testimoniata da un’attenzione di lunga durata rivolta alla filologia e soprattutto al lessico.36 Anzi la trattazione viene ripetutamente interrotta dall’inserimento di questioni erudite che riguardano propriamente il lessico, l’etimologia, la sintassi e l’uso di parti indeclinabili del discorso, un metodo per evitare la noia di un argomento monotono ed eccessivamente protratto. D’altra parte la soppressione, nel manoscritto andato poi alla stampa, di una parte più tecnica ed elementare della trattazione metrica è forse un segno della volontà di trovare un equilibrio ed evitare che il modello dialogico scivolasse verso quello della trattatistica, e soprattutto verso l’arida e scolastica materia grammaticale.37 Solo nell’ultimo dialogo, Aegidius, che pur si è potuto leggere come il più ideologicamente impostato verso la definizione di una tesi pacificatrice delle inquietudini filosofiche di Pontano, emergono il ragionamento e la dialettica delle opinioni con cui era stato rilanciato il genere dialogico in età umanistica. Negli altri dialoghi pontaniani non c’è la dialettica delle opinioni che questo genere letterario umanistico aveva ereditato da Cicerone. Nel Charon il confronto è limitato allo scambio di opinioni, sostanzialmente concordi, fra i giudici infernali e alla prosopopea delle due ombre apparse alla fine a difendere due diversi ideali di vita e di cultura, l’uno orientato in senso epicureo e l’altro stoico, mentre il dialogo si risolve nella brevità comica del diverbio o nella varietà dei personaggi che si alternano sulla scena. Nell’Antonius il metodo socratico è più XXIII

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evocato che attuato nel corso del dialogo, dove la varietà continua ad imperare come metodo di trattazione gradevole, più che di confronto. Nell’Actius i personaggi sono più attenti a passarsi la parola per variare il discorso che per costruire una discussione dialettica. Nell’Aegidius i monologhi che si susseguono rappresentano voci diverse, non necessariamente contrarie, ma animate da punti di vista diversi e dalla fisionomia diversa degli interlocutori, facendo ricordare più da vicino il metodo del classico dialogo umanistico consolidatosi nel Quattrocento. 3. La vita umana e il fato Homines sperato vivunt, gli uomini vivono di speranza, anzi si nutrono di vane illusioni: la massima pensosa e saggia con cui si presenta il Caronte pontaniano non è solo una scherzosa reminiscenza plautina che serve a presentare il personaggio con la sua amabile rozzezza, dal momento che evita la letteraria e religiosa spes, creando un insolito participio (sperato) e usando vivere nel senso di «nutrirsi» come «vivunt succo suo» di Plauto; né solo una pennellata per scoprire nelle crude parole del semplice barcaiolo infernale la verità del «buon senso», pari o superiore alla fi losofia. È il leit motiv di tutto il dialogo, dove quella riflessione s’intreccia con due problemi fondamentali dell’etica umanistica, quando riscrive in forma classica il pensiero cristiano della miseria umana e il mistero della provvidenza divina. I due temi, ovviamente e variamente collegati fra loro, perché la condizione umana induce alla speranza che può essere fallace, e trasformarsi in illusione e quindi in disperazione, sono paralleli nell’etica cristiana e nella sua riscrittura classicheggiante e talora paganeggiante dell’Umanesimo. Le illusioni diaboliche della tradizione cristiana, che torneranno ad essere considerate tali nella stagione controriformistica come larve fallaci, non cessano di tormentare l’anima umanistica, attribuite all’uomo stesso incapace di moderare i suoi desideri, o vittima dell’inconoscibile fato. L’illusione, intesa secondo la più diffusa fede cristiana che la include fra le tentazioni e le parvenze terrene da superare nella prospettiva dell’aldilà, o respinta dallo stoicismo elitario che considera la sola virtù dell’animo come difesa dal fallimento, è strettamente connessa con i problemi dell’universo astrologico che accompagneranno Pontano fino al trattato sulla fortuna, che è l’ultima sua opera. La frase di Caronte appartiene a quello stesso umanesimo critico e radicale, che rappresenta la linea miXXIV

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noritaria del Rinascimento, e che avrà scarsa fortuna nei secoli: Poggio, Alberti, Pontano, variamente interessati al problema del fato e della fortuna, sono tutti e tre per la verità esposti ad una contraddizione fra l’umore pessimistico e quello in varia forma e misura costruttivo. Aprendo la serie dei suoi dialoghi, dove il tema della fortuna e della responsabilità umana emergerà sotto vari aspetti, Pontano sceglie la tradizione critica della figura di Caronte per attaccare la stoltezza degli uomini, i quali non si accorgono che le loro speranze sono illusioni e che la loro fiducia nel futuro è destinata ad essere frustrata dal dominio assoluto della fortuna e del caso. Ma la verve comica con cui era concepito il dialogo capovolgeva la sostanziale serietà della riflessione morale con la forma letteraria del paradosso e della testimonianza ideologicamente ambigua fino all’ironia. Un tiranno si era illuso di raggiungere non si sa quale potenza, ed ora era lì a sperar di avere almeno un posto nell’aldilà, che gli viene negato, come agli ignavi della Commedia dantesca; paradossalmente, perché in questo caso, che presuppone l’illusione pagana delle anime di veder almeno sepolto il loro corpo, per riposare nell’Averno, triste che possa essere, l’illusione è quella di avere almeno una pena, l’unica certezza che il Caronte dantesco assicurava ai suoi clienti. La tragica situazione delle anime degli ignavi e degli insepolti diventa la loro certezza. Altrove la paganeggiante poesia pontaniana tocca perfino le corde del nichilismo. Illusione sono, in un frammento poetico dell’Antonius (§ 72), il simbolo antico delle Sirene: Negli umidi antri cantan le Sirene capovolgendo i poveri navigli, così la vita gli uomini accarezza, li illude e canta come una sirena, sin quando arriva grave la vecchiaia, o li assale la morte, e non rimane tranne una favola nient’altro, e il nulla.

Sembra, a parte la forma, una poesia modernissima, non meno di quell’altra che sceglie l’umile genere bucolico per avvicinarsi alla riflessione sepolcrale che dirà la speranza l’ultima dea a lasciare chi muore. L’Ecloga III di Pontano, nella quale due pastori riflettono sulla morte di XXV

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un magico pastore che pur aveva salvato tante vite, esprime la disillusione per il risultato di una vita spesa bene; perfino la fama è destinata ad estinguersi, come è ben noto che aveva voluto dimostrare Petrarca con la costruzione dei Triumphi e la riflessione sul «tempo», che consuma ogni cosa, nonostante la fede nell’eternità: Non rimarranno a lungo, Sincerio, né ombra, né fama, né ricordi, son poche le cose che sfuggono al rogo, perché nella caligine oscura una notte le involve; … e in terra l’osse ignude giaceranno sparse ed ignote: e dopo, di Meone né l’ossa né il nome saranno –. Questa è la vita, questo il culmine delle fatiche?38

Qualcosa di questa disillusione circola già nel registro faceto del Caronte, ma esso contiene già il nucleo di una riflessione che accompagnerà lo studioso e poeta dell’astrologia fino al De fortuna, opera sfortunata proprio perché gli uomini non vogliono sentir parlare della necessità della fortuna e della onnipotenza del caso; preferiscono condannare come illusioni le parvenze e rifugiarsi nel futuro, ossia in un’illusione che non ha la parvenza di esserlo. Toccando il più spinoso problema della teologia, e mettendosi qua e là al sicuro con qualche concessione al concetto di provvidenza divina, la quale avrebbe provveduto a dare all’uomo, per favorirlo, una condizione di assoluta ignoranza di quel che lo attende, Pontano attribuisce alla fortuna (che potrebbe pur essere una certezza dovuta agli astri ministri di Dio) e al caso, in cui la stessa fortuna in definitiva si risolve se essa è, come è, inconoscibile, perfino la riuscita di quel che costituisce la sua speranza e che è un’illusione anche quando, appunto per caso, si realizza. Il celebratore del giusto mezzo, ossia della capacità etica di crearsi la propria fortuna, si esprimeva contro la facoltà della ragione, impossibilitata a formulare un progetto, tanto meno a considerare probabile un’illusione: «se il caso e la fortuna procedono, come ho detto, del tutto separati dalla razionalità, nell’incertezza e nella instabilità, come potrebbe la ragione rendere certo quel che per sua natura è incerto e instabile? E ciò di cui non c’è certezza, il futuro, in qual modo un mortale potrebbe conseguirlo? Ciò che non si può né sapere né comprendere prima che avvenga, come si potrà mai evitare? Dove mai ci sarebbe l’utilità della XXVI

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conoscenza del futuro per il genere umano? Molto meno potrà evitarsi il fato, perché non è meno necessario un evento destinato dal fato, di quello che, una volta avvenuto, sia avvenuto necessariamente» (Charon, 26). Insomma l’arte per eccellenza elaborata dall’uomo per conoscere il futuro, l’astrologia, è essa stessa un’illusione. Pontano piega perfino il pensiero ortodosso, anzi biblico, che nega all’uomo la possibilità di conoscere il volere di Dio, al concetto tutto pagano della universalità del fato. Attribuisce all’astrologo la follia dell’illusione, e al fi losofo la ragione che elimina ogni possibile illusione. Alla fine di questo percorso, però, nell’ultima pagina del trattato sulla fortuna che sviscera tutta questa problematica, la posizione di fondo, pur non diversa, contiene una impennata diversa dell’umanista, che passa dalla riflessione cinica all’eroismo, secondo la contraddittoria alternanza di epicureismo sconsolato e di resistenza stoica (non per altro ereditata dal Leopardi paganeggiante che additerà come risvolto dell’illusione «la vita umana e il fato»): se non ci sarà concesso di vincere scontrandoci con la fortuna nel suo territorio e nel suo dominio, questo almeno otterremo, che non potendo uscire vittoriosi dalla battaglia, non ne usciamo vinti senza aver combattuto da eroi. Il trattato pontaniano sulla fortuna portava questa conclusione piuttosto sconsolata, come quella di un eroe vinto in un mondo dominato da una furia indomabile, dove è possibile solo tenersi i beni dell’animo ed evitare nella sconfitta la vergogna, nonostante l’orazione celebrativa iniziale sulla virtù vittoriosa, la dedica a Consalvo di Cordova, esempio di virtù e di moderazione nella vittoria, con cui si apre l’opera nella forma pervenuta alla stampa, è l’ultima pagina sicuramente scritta da Giovanni Pontano prima di morire, fra il 14 maggio e il 17 settembre del 1503.39 Il senso del trattato, pur con qualche andirivieni, era un altro e nella sua originaria prefazione evitava in effetti il solito topos della gloria.40 La conclusione interpretava ancora – come si vedrà – liricamente ma genuinamente, il senso del trattato, che per essere opera di riflessione e composta in uno stile fra scolastico e ciceroniano, rifuggiva da cadute patetiche e nascondeva sotto la scelta insolita dell’argomento e l’energia dimostrativa di una presenza inquietante dell’irrazionale, la denuncia della vicenda esistenziale, anzi di quella drammatica vicenda di fine secolo che solo l’esplodere dell’oratoria encomiastica di marca rinascimentale riusciva a mitigare. XXVII

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Come si vede, il principio stesso della inconoscibilità della provvidenza divina, che è al fondamento della nascita delle illusioni, finisce per condurre perfino alla loro disapprovazione. È lo stesso «sapere» al di là del dato storico, sicuro, che è un’illusione. Non è difficile scoprirvi il sottofondo scettico di ogni crisi del pensiero. Dante, che pur partiva da una assoluta fiducia nel libero arbitrio da una parte e nella provvidenza dall’altra, aveva dedicato tre canti paralleli al tema del futuro, trattando nel XX dell’Inferno dei falsi indovini che illudevano e s’illudevano, nel XX del Purgatorio della disillusione di Ugo Capeto che vede tralignare la sua stirpe e nel XX del Paradiso proprio dell’inconoscibilità della predestinazione divina che ammette perfino la deroga al suo stesso ordine, eludendo l’ordine dell’universo. Un anno dopo la pubblicazione del trattato pontaniano sulla fortuna la famosa citazione finale del Principe di Machiavelli, che potrebbe prendersi come la riscrittura di una grande illusione petrarchesca in un contesto realistico («vertù contra furore / prenderà l’arme, et fia il combatter corto: / che l’antiquo valore / ne l’italici cor non è anchor morto»), applica disperatamente alla politica l’interpretazione ottimistica della virtù stoica. Il fatto riguarda la stessa interpretazione del Principe, se al di là dell’illusione romantica di leggerlo come prefigurazione dell’Unità d’Italia, o dell’illusione storiografica di poterlo leggere come progetto al livello dei tempi, eppur effettivamente fallito, non possa leggersi invece come una grande illusione, perfino consapevole, al pari della canzone petrarchesca. La polemica del politico fiorentino contro coloro che credono all’universalità della Fortuna, e quindi alla fattibilità di un progetto sostenuto dall’esperienza della realtà effettuale, sembra voler confutare il trattato del Pontano appena stampato, ma sembra smentita dalla effettiva considerazione, presente nello stesso capitolo, della fortuna in quanto casualità, sia nell’esempio del Valentino, sia in quello di Giulio II. L’uno infatti dimostrerebbe come il caso possa far fallire alla fine un grande progetto, l’altro la riuscita positiva di un’azione compiuta senza un vero progetto; entrambi dimostrerebbero cioè che l’immaginazione progettuale sia soggetta al fallimento per via della casualità, e sia sempre, in definitiva, un’illusione.41 Un’illusione era finita per essere, nell’opera di Leon Battista Alberti, la figura dell’uomo creato su basi stoiche come un modello di perfezione e di felicità raggiunte attraverso la rinuncia agli eccessi e ai piaceri offerti XXVIII

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dalla fortuna. Nell’incipit del De iciarchia, l’invito a non illudersi che la piena dell’Arno porti ricchezza, quando invece prelude all’inondazione, illustra la medietas di chi ben governa perché non si illude. Già Petrarca nel De remediis utriusque fortunae aveva infatti osservato, pensando a chi raggiunge posizioni di potere, che è più difficile difendersi dalla fortuna (ossia da una condizione illusoria perché la fortuna non può essere duratura) che dalla sfortuna. Così nel Teogenio gli esempi di Genipatro, che si accontenta di una vita modesta, e quello di Tichipedo che si illude della stabilità della fortuna, ne gode e rischia il fallimento cadendo nella peggiore povertà, è la più didascalica delle illustrazioni di quello stoicismo difensivo, privato dell’ottimismo, che piacerà a Leopardi studioso di Epitteto. Tuttavia, quando l’Alberti trova lo spazio per descrivere questo esempio di felicità vera, del sapiente che aderisce alla natura, intrinsecamente buona, «disprezzando e rifiutando con risoluzione tutte le altre cose in quanto transitorie, mortali e fragili», non manca di relegare anche la sapienza in un angolo estremamente ridotto, elitario e quindi quasi illusorio del mondo. In una delle più ampie Intercenali, il Defunctus, la conclusione consiste addirittura nel banale augurio che le nefandezze umane vengano ripagate nell’Aldilà con altrettanta durezza, ma in effetti l’operetta è dominata dalla delusione di un uomo che si era illuso nella vita di avere amici cordiali, una famiglia affettuosa, un governo di gente onesta, e che da morto scopre l’ipocrisia, l’interesse sfacciato, il tradimento, la corruzione di tutti senza esclusione; che è il più vero pensiero dell’Alberti celebratore della virtù e della natura modello di sapienza, a tal punto da ritener fortunato chi non abbia subito l’impatto con la vita umana. Anche i dannati più consapevoli di quella proiezione del mondo che è l’Averno di Caronte vorrebbero non essere nati. La scienza albertiana dell’architettura, la «prospettiva» proposta nel trattato della pittura, sono in effetti un modello di perfezione raggiunto solo dall’arte quando si astrae dal contingente reale, spesso identificato col deforme. L’arte e la virtù, non la natura, ammettono l’ottimismo e la speranza della letteratura didattica ispirata al metodo aristotelico, anche se sono esposte anch’esse al fallimento. Pontano recuperava in realtà il concetto antico della fortuna come potenza autonoma, privandola della qualità divina, anzi sottraendola alla XXIX

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divinità antica e cristiana, e quasi opponendola alla provvidenza come segno di una natura irrazionale, che agisce nella sfera in cui non arriva la bontà e la razionalità della creazione. I beni esterni dell’uomo, ma anche quelli interni, se pensiamo non alla sfera morale, ma a quella psicologica delle doti naturali e delle disposizioni, sono soggetti alla fortuna, che agisce come causa (quindi come una forza reale, a dispetto di chi non vuole riconoscerle alcuna realtà), non finale, perché ciò implicherebbe razionalità e ordine, ma «efficiente», di cui è incerto e indifferente l’esito, se lo si considera – come lo si deve considerare – indipendentemente dalle nostre attese e dalla nostra utilità. Non è, infatti, la virtù a guidare l’esito delle azioni e degli eventi, ma la casualità. L’etimologia del vocabolo (fortuna da fero = «portare») è evocata, secondo il consueto metodo applicato da Pontano agli altri argomenti dell’etica, per sostenere il significato originario del concetto: nel concetto di «portare» attribuito alla forza che trascina, sarebbe implicito il senso della casualità con cui i beni esterni toccano o non toccano agli uomini. Nella prefazione originaria del trattato, indirizzata ad Antonio Guevara, conte di Potenza,42 Pontano rifletteva con spregiudicatezza su questa realtà dell’esistenza umana, anticipando l’analitica argomentazione dei tre libri e riducendo la fortuna a casualità. La prefazione rispecchiava, infatti, i momenti più lucidi e spietati della trattazione, quando rilevava l’accidentalità dei caratteri fisici (si veda l’esempio della cecità e della vista potente), e perfino di doti straordinarie come la disposizione artistica e la santità. In effetti la sostituzione di quella prefazione con l’attuale dedica indirizzata a Consalvo di Cordova, cioè il nuovo signore del Regno per conto dell’Imperatore di Spagna, si potrebbe dire che falsi il senso dell’opera, perché il motivo encomiastico non può che poggiare sui meriti del grande guerriero e politico e sul tema ben diverso della prudenza vincitrice. Ma si tratta di una caduta retorica del vecchio Pontano desideroso di ingraziarsi l’autorevole personaggio,43 laddove tutto il trattato, perfino con riprese e ripetizioni caratteristiche della prosa affabulativa dell’umanista, è proteso a ripristinare il concetto quasi pagano della fortuna irrazionale, che finisce con l’essere il contraltare della provvidenza. L’obiezione subito sollevata dai lettori di formazione religiosa consisteva appunto nella legittimità o meno di dedicare una trattazione specifica alla fortuna, dal momento che essa può considerarsi emanazione del fato o della provvidenza divina a seconda della prospettiva fi losofica o XXX

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teologica che s’intende far valere. In una breve pausa riflessiva, il capitolo 19 del libro primo, l’intenzione di aderire ad un criterio non specificamente cristiano, e quindi di parlare da fi losofo e non da teologo, si manifesta in tutta la sua chiarezza, con un argomento che sembrerebbe attinto al principio della doppia verità, e che in effetti dipende dal metodo del razionalismo scolastico e più semplicemente dall’esigenza di evitare lo scontro con l’ortodossia. Del resto non bisogna trascurare gli sforzi fatti dall’autore per ricondurre il discorso a posizioni accettabili nella prospettiva religiosa, sia quando riserva uno spazio al libero arbitrio nel sistema astrologico che rischia di indurre il determinismo astrale, sia quando riserva uno spazio alla prudenza e alla moderazione nella concezione della casualità assoluta degli eventi. Ma anche quando egli fa pesare, fra l’altro con moderna intelligenza e sfruttando perfino un accenno tomistico, l’esempio del gioco dei dadi per mostrare il modo in cui opera la fortuna,44 e di fatto mostra come molte cose avvengano senza alcuna ragione, a meno che non intervenga l’«arte» (nel caso dei dadi la frode), la stessa proposta di equiparare gli eventi umani ad un gioco della fortuna rasenta la trasgressione, perché pone l’interrogativo di quanto spazio occupi la casualità, e quanto ne conservi l’intervento di Dio e dell’uomo. Petrarca nel De remediis aveva negata esplicitamente l’esistenza della fortuna, allineandosi con la dottrina dei Padri nel respingere la credenza popolare nel fato senza potersi esimere dal tener conto dell’ormai diffuso concetto;45 ma aveva parlato di «rimedi», non di virtù vittoriosa sulla fortuna, anzi aveva considerato la buona fortuna come più pericolosa della cattiva.46 Lo stoicismo di Seneca, che celebrava la costanza del sapiente quale antidoto risolutivo della sventura, era superato in Petrarca da una considerazione essenzialmente cristiana della debolezza umana e degli ostacoli alla virtù presenti dentro di noi.47 Coluccio Salutati nel De fato et fortuna, ereditando il concetto stoico della fortuna in quanto fato, aveva relegato ai margini la fortuna in quanto «caso», fra gli eventi di nessun conto.48 Alberti non era potuto sfuggire, in qualche parte delle Intercenali,49 al tema dell’originario condizionamento della fortuna nonostante la fiducia nell’industria, mentre nel Theogenius aveva sottovalutato la fortuna nei confronti della virtù del saggio, padrone almeno di se stesso, se non dei beni esterni, rinunciando ai quali, cioè al loro inganno, il sapiente riesce vittorioso.50 XXXI

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Lo scandalo era proprio lì, non in una teoria nuova, ma nel fatto che l’ampiezza della trattazione, che rifletteva il raggio d’azione attribuito alla fortuna, il fatto che la si vedesse operare sia in negativo, sia in positivo nei nostri confronti, ma in effetti con assoluta indifferenza rispetto alle nostre attese, al nostro impegno, alla nostra capacità e soprattutto alla ragione morale e alla giustizia, toglieva spazio alla provvidenza, più di quanto gliene togliesse il fato, la cui certezza era pur sempre assimilabile alla volontà divina e la cui incertezza o ingiustizia poteva essere ricondotta all’imperscrutabilità della provvidenza, sebbene potesse suggerire l’assurda idea della possibile ingiustizia divina. La Fortuna tornava ad essere un mito, nel senso di una figura, di una entità reale come nella cultura pagana. Il confronto con le Historiae de varietate fortunae di Poggio Bracciolini, il dialogo che dovette essere un punto di riferimento, sia pur distante, della riflessione pontaniana su questo medesimo argomento, aiuta ad intendere la trasgressione celata sotto la forma di un ampio compendio dei topoi tradizionali, qual è per un certo verso il nostro De fortuna. All’autore delle Facetiae Pontano era ricorso nel costruire il proprio libro di facezie, cioè il trattato De sermone; inoltre, come le Facetiae, il trattato sulla varietà della fortuna di Poggio era un libro «diverso» nel panorama umanistico, attento com’era agli esempi storici e ai documenti di costume piuttosto che ai princìpi universali dell’etica. Oltre tutto la considerazione della fortuna in Poggio s’intrecciava con la riflessione politica sugli aspetti negativi dell’azione di governo, sugli svantaggi e sui vizi dei prìncipi.51 Poggio illustrava il favor instabilis della fortuna e la sua pervicacia in evertendis quae extulit, nel capovolgere quel che essa stessa aveva innalzato, con l’intento tipicamente storiografico di opporsi all’oblio dei vari e inattesi casi della fortuna e di evitare che gli uomini si affidino all’arbitrio dell’infida dea, che dopo averli sollevati come su un palco, vestendoli in modo sontuoso perché siano bene in vista, li fa sprofondare rendendoli ridicoli e spregevoli.52 L’exemplum di Poggio, pur implicando l’arbitraria variabilità e l’imprevisto, non mira tanto alla ricerca della causa, quanto a sollecitare il comportamento moderato e accorto dell’uomo, che può farcela se si attrezza bene.53 Il ben noto pensiero relativo all’incertezza della fortuna era rivolto al papa Niccolò V, dedicatario dei libri, il quale poteva esser propenso a trascurare, secondo la dottrina cristiana, l’incidenza pagana della fortuna, mentre essi XXXII

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lo invitavano a considerare quella sfera dell’azione politica nella quale domina la fortuna più che la ragione e il consiglio, e ad adoperare la prudenza e la moderazione. Di fronte ai pericoli della sorte Poggio accoglieva, insomma, se non il principio stoico del rifiuto e dell’arroccamento del saggio, quello della difesa mediante la prudenza, eppure avvertiva il richiamo realistico, che sarà anche di Pontano, secondo cui è praticamente impossibile sottrarsi al contatto con i beni esterni e quindi non essere in balia della fortuna, buona o cattiva che sia. L’accettazione, da parte di Poggio, del principio morale di Seneca, condiviso proprio perché non procedeva col metodo della definizione ma con quello etico del consiglio, non giungeva, infatti, al punto di fargli ammettere che il sapiente possa sottrarsi alla vicenda della fortuna, che è poi la posizione di Alberti nel Theogenius, poiché semmai solo la virtù e la ragione sfuggono alle frecce della fortuna, non l’uomo nella sua integra composizione di anima e di corpo, che non può non essere condizionato dalle forze che condizionano tutta la sua persona e la sua vita. È evidente il proposito di Poggio, attribuito oltre tutto al personaggio che lo rappresenta nel dialogo, di scivolare dal discorso speculativo in un discorso storiografico, ma anche l’intento di cogliere un particolare aspetto della fortuna, quello della sua, apparente o meno, iniquitas, la sua inevitabile «imprevedibilità», ma soprattutto quella di segno negativo, quella cioè che rispondeva alla tradizionale considerazione della fortuna come la ruota che capovolge la sorte felice degli uomini. Preliminarmente, infatti, Poggio aveva escluso che si potesse parlare propriamente di fortuna nei casi felici attribuibili, in maggiore o minore misura, alla volontà, alla virtù, dove comunque hanno parte l’attesa e l’aspirazione. Aveva addotto come esempio la fortuna di grandi uomini d’arme come Alessandro e Cesare, che avevano adoperato la loro virtù militare in vista della vittoria; che se la vittoria aveva avuto esiti per così dire insperati, la speranza e l’azione di quei prìncipi aveva avuto comunque di mira quel genere di esito. Per cui l’esito favorevole insperato equivarrebbe alla benevolenza del cielo, nulla di irrazionale. Perfi no il famoso esempio di chi trova casualmente, e insperatamente qualcosa che gli fa piacere, esempio introdotto da Aristotele per definire l’accidente, e da Tommaso per dimostrare che in quella fortuna non vi ha parte alcuna la virtù, era stato valutato da Poggio da un punto di XXXIII

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vista diverso da quello che sarà proprio di Pontano, che pur ricorre ad esempi analoghi.54 Poggio, insomma, non rinuncia a distinguere la fortuna che favorisce le azioni dell’uomo da quella che le ostacola e le stravolge, attribuendo l’una ad una forza non definibile, incerta, ma comunque identificabile con una sorta di provvidenza amica («si ritiene che vi sia una forza maggiore e più ordinata, una forza divina che fa muovere e scorrere le cose umane a suo piacimento, senza garantire nulla di stabile, nulla di sicuro»),55 trovandola accennata in Cicerone, l’altra ad una inspiegabile forza malefica dalla quale bisogna, finché è possibile, difendersi, ma che va comunque conosciuta attraverso la storia, la quale ci dimostra la varietà e la variabilità degli eventi quasi in una galleria di meraviglie. È questo il punto che allontanerà Pontano, pur letterariamente propenso come Poggio a soffermarsi sulla varietà degli accidenti e sullo stupore che essi possono infondere, dal dialogo umanistico che lo aveva preceduto nel mettere in primo piano la fortuna. Pontano riconduce il discorso su un binario speculativo più appropriato, eliminando la distinzione fra fortuna favorevole e sfavorevole e insistendo semmai sulla meraviglia di quell’inspiegabile successo, che dimostra l’irrazionalità, più che la varietà e la curiosità, di questo impulso della natura che agisce indipendentemente dai propositi umani. Se l’esito è positivo al di là delle attese della ragione e della virtù, non per questo ragione e virtù ne hanno qualche merito, data l’incertezza e l’irrazionalità con cui procede la distribuzione dei beni esterni non soggetti nemmeno all’originario ordine della natura, cioè della causalità astrologica, o alla provvidenza. Così Pontano insiste, scontrandosi con un’autorevole opinione, nel definire la fortuna, qualunque essa sia, come «causa», mera causa efficiente ed «eventizia»56 che si sottrae alla concatenazione remota delle cause; ed usa un termine scolastico, non attestato nell’antichità e raro anche nei testi medievali di filosofia, atto ad indicare il fortuitum, il casuale, quello che Cicerone definiva discutendo della divinazione.57 Nel libro sul fato il discorso ciceroniano si concentra sulla differenza fra ciò che è prevedibile e ciò che non lo è, includendo in questa seconda categoria anche la scelta dovuta al libero arbitrio e fornendo fra l’altro ragioni utili anche per l’ulteriore sviluppo in senso cristiano del principio fondante della morale; ma in effetti amplia il dominio della casualità, respingendo il determinismo attribuito agli stoici,58 a Democrito, a EraXXXIV

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clito, a Empedocle ed erroneamente anche ad Aristotele.59 Pontano sviluppa questo tendenziale ampliamento del dominio del caso confrontandolo con l’azione umana, giacché, fra l’altro, solo in relazione alle attese, ai desideri, ai propositi e alle previsioni degli uomini si può dire che le cause siano incerte negli esiti e gli eventi siano irrazionali. Suo principale obiettivo è quello di considerare l’uomo in rapporto con i beni esterni, cioè il suo successo o meno,60 che è quanto dire il capriccio della fortuna, la quale in realtà compie il suo proprio lavoro e non va giudicata in base alla positività o negatività dei suoi esiti rispetto alle attese, giuste o non giuste, dell’uomo. Così il caso, da essere confinato (si pensi al Salutati) in un angolo come residuo irrazionale della vicenda umana, viene ad occupare tutto il posto che tradizionalmente si attribuisce alla fortuna. Né dalla fortuna si distinguerebbe la natura, a meno che non si pensasse a quella natura ordinata che procede secondo le cause certe del sistema astrologico. La natura, come ogni bene esterno, si comporta infatti nei confronti dell’uomo con la stessa irrazionalità della fortuna, fornendogli favori e disfavori indipendentemente dalla razionalità o meno di com’egli agisce, perché l’esito è assolutamente estraneo alla volontà e ai modi dell’azione umana. Ciò non contrasta, per Pontano, con la fede nella certezza degli influssi celesti, perché questi sono stabili, ma anche molteplici e complessi, e possono offrire solo un quadro generico delle situazioni, sia che si guardi alle propensioni del soggetto, sia che si guardi agli esiti possibili.61 L’astrologia come scienza degli influssi celesti, e quindi provvista di una qualche certezza, era assolutamente fuori dalla prospettiva di Poggio, il quale parlava di fortuna in senso classico e generico, dubitando perfino che se ne potesse dare una definizione. E tuttavia la posizione di Poggio, prendendo anch’essa le distanze dallo stoicismo e non essendo propriamente interessata al problema morale del libero arbitrio, ma al suo esito esterno e all’analisi dell’esistente, era già sulla strada che in certo qual senso imbocca Pontano quando, a parte qualche concessione alle ragioni etiche e religiose del libero arbitrio, si occupa della volontà dell’uomo in quanto protesa alla conquista di beni esterni62 in un contesto estraneo e spesso ostile alla sua ragione, a tal punto che talora converrebbe piuttosto non ascoltare il consiglio di quest’ultima. Sconcertante osservazione che Pontano poteva far risalire perfino al De bona fortuna esposto da Tommaso,63 dove tuttavia era in definitiva XXXV

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coinvolta la provvidenza divina nella inspiegabilità di certo successo o insuccesso. Né è utile cercar di stabilire in quale direzione del secolo incipiente la riflessione pontaniana possa collocarsi (la considerazione del fato astrologico troverà un riscontro nella filosofia del Pomponazzi, nella diffusa pratica divinatoria del secolo XVI e perfino in certi percorsi del protestantesimo, mentre la considerazione del fortuito troverà spazio nel naturalismo empirico e nelle pratiche magiche), ma certo essa si collocava sulla linea dell’unico libro che nel secolo dell’Umanesimo aveva preso come argomento specifico un concetto di cui un cristiano, secondo l’ortodossia, non avrebbe dovuto più tener conto.64 4. L’usata compagnia: arte e virtù della facezia La trattazione pontaniana del sermo, ossia la lingua della conversazione, che include gli exempla in un discorso teorico, articolato in più libri, affine ai libri di etica percorsi dall’esemplificazione storica, supera l’aneddotica antica, medievale e umanistica culminata nel liber confabulationum di Poggio Bracciolini, ampiamente diffuso sotto il nome di Facetie. Questa struttura dell’opera e il modo in cui vi era selezionata l’esperienza antica e attuale della facezia in un discorso sul comportamento umano e socievole, espressione e insieme strumento di distensione dalle cure della vita, illumina il senso dei dialoghi del Pontano (e si direbbe perfino della sua poesia epigrammatica che potremmo intitolare all’amicizia affabile e civile, sia quella triste dei Tumuli, sia quella gioiosa dei Bagni di Baia), e contribuisce alla formazione di un vero genere letterario quale i trattati della conversazione e del comportamento del Rinascimento avanzato. Non è quindi possibile tener separato il De sermone dal genere dei dialoghi, nonostante la diversa impostazione stilistica che differenzia l’ostentata metodicità didattica della prosa fi losofica e la disinvoltura della prosa dialogica che insiste sulla variabilità del discorso volutamente asistematico e affidato invece ad un’apparente casualità e perfino alla libertà e inventiva linguistica. Il progetto di Pontano è fondamentalmente unitario, anche se i dialoghi perseguono un modo gaio e piacevole di far scienza, specialmente nel Charon, nell’Antonius, nell’Asinus, e in parte dell’Actius, e i trattati ricorrono, soprattutto nelle parti teoriche iniziali, alla tecnica raffinata e perfi no cavillosa delle distinzioni e delle definizioni. Un vincolo profondo collega il problema etico della socialità, quello artistico dell’espressione e dello stile, quello scientifico XXXVI

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del metodo e della classificazione dei generi. S’intende che il trattato sull’arte della conversazione, costruito col medesimo metodo aristotelico, ma rivolto quasi a completare la poetica sul versante della narrativa di livello comico, ossia medio, in cui figurano i generi del racconto breve e della novella propriamente detta, non potesse sfuggire a figurare anche come una serie di esempi narrativi, quasi un repertorio simile a quello che aveva lasciato Poggio, anche lui col fine di alimentare l’arte della conversazione. Discutendo propriamente dell’uso consapevole, artistico, della parola, Pontano fa emergere attraverso la discussione etimologica intorno alla terminologia che riguarda la forma narrativa breve una serie di osservazioni che pongono la facezia, quella che appare oggi come una specie minore del genere narrativo, al centro della trattazione complessiva dell’arte del narrare. Facetia sarebbe vocabolo affine a facundia e l’arte di usare facezie si fonda su quella virtù che con vocabolo nuovo si direbbe facetudo, e consisterebbe nella disposizione a usare la parola evitando la rozzezza agreste o il silenzio dei bruti e la satira pungente o la loquacità noiosa, con una sorta di umorismo innocuo e piacevole, acuto talora ma senza punta velenosa, con quel distacco proprio dell’arte che ha come fine il piacere di se stessa. L’arte del narrare è inclusa dunque nella trattazione della virtù, di una virtù particolare che concerne l’uso della parola e che in quanto virtù, ossia in quanto principio di comportamento sociale e in largo senso politico, risponde agli stessi requisiti delle tante virtù che pratichiamo, e che vanno definite sulla base delle materie su cui si esercitano (la liberalità si esercita nell’uso dei beni materiali, la fortezza nell’affrontare il pericolo, la facezia nell’uso della parola), delle diverse categorie di persone che esercitano la stessa virtù, delle varie circostanze in cui essa viene applicata. Ma il particolare interesse del trattato pontaniano sulla conversazione sta proprio nel fatto di essere il primo tentativo di concepire lo scherzo verbale, finanche quello più breve e immediato ed apparentemente più estraneo al sistema delle arti e al controllo dell’etica, come una parte integrante della vita culturale, mediante l’analisi retorica e le distinzioni tipiche della dottrina morale. Cicerone nel libro secondo del De oratore aveva fatto dello scherzo una parte necessaria dell’orazione in quanto diretta a persuadere, oppure a denigrare l’avversario o ad attirare la simpatia del giudice, in definitiva a rallentare la tensione del discorso oppure XXXVII

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ad introdurvi argomentazioni paradossali utili al raggiungimento dello scopo pratico della persuasione. La trattazione che ne farà Baldassarre Castiglione nel Cortegiano risente prima di tutto di questa funzione, data la stretta relazione fra l’oratore e il cortigiano, ambedue impegnati in primo luogo in un compito suasivo nei confronti del giudice e del pubblico in un caso, nei confronti del principe e della corte nell’altro. L’operazione del Pontano rappresenta un momento essenziale in questo recupero dell’antico, perché fa un salto rispetto alla raccolta di esempi che nel Medioevo fungeva solitamente da centone, da repertorio, o da catalogo, in cui lo scherzo verbale figura insieme ad altre forme di narrazione breve ad uso dei predicatori; si distingue da raccolte specifiche di facezie come quella di Poggio che nel Quattrocento umanistico costituisce ancora un repertorio sia pure ad uso del conversatore laico in ambiente spregiudicato; e diventa successivamente un corredo cui attingere per le nuove raccolte di storielle che o riprendono la tradizione classica di Valerio Massimo o fraintendono la complessa impostazione del De sermone che voleva essere cosa diversa da un repertorio: voleva dare cioè un esempio in atto di come anche lo scherzo verbale costituisca un uso consapevole della parola e vada impiegato con ponderatezza, e quindi analizzato con i presupposti dell’arte e della norma morale. Per far rientrare la facezia nei ranghi dell’arte, ossia delle operazioni di quell’animale sociale che è l’uomo, bisognava dunque dimostrarne la struttura retorica, bisognava dimostrare la sua equidistanza dagli estremi del vizio, definire la fascia media entro la quale può collocarsi con le sue molteplici varietà tipologiche. Il primo punto (ossia la considerazione della facezia come arte, al pari dell’oratoria) richiedeva la considerazione della topica, il sistema dei luoghi comuni, delle sedi – per così dire – dei campi semantici e delle categorie – per dirla più fi losoficamente – da cui i motti scherzosi si estraggono. È quello che fa l’arte; l’arte – dice espressamente Pontano – non ha poca importanza negli scherzi, così correggendo l’opinione secondo la quale il motto sarebbe solo opera di natura, di istinto, non tanto breve quanto immediato. Poiché l’immediatezza è una qualità retorica anch’essa, in funzione dell’efficacia, non semplicemente un derivato della natura, della disposizione scherzosa del motteggiatore: l’eterno problema se prevalga la natura o l’arte nell’operazione dell’uomo non può che risolversi nel metodo accademico ciceroniano dell’accordo fra due tesi contrarie. Pontano aveva due precedenti cui farà spesso XXXVIII

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riferimento, quali il secondo libro del De oratore di Cicerone e il terzo capitolo del sesto libro delle Istituzioni di Quintiliano. Sullo scambio di battute spiritose s’intrattiene Macrobio nel libro VII dei Saturnales, utilizzando Cicerone, dopo averlo utilizzato dichiaratamente, assieme ad altri autori, nel libro II dedicato proprio all’uso dei motti nella conversazione. Questi precedenti riguardavano il «riso», laddove Pontano include questa trattazione nel quadro più ampio dell’uso civile della parola, facendone una questione di ordine morale, oltre che artistico. Ma per trovare il precedente più profondo, e quasi nascosto, dell’operazione pontaniana bisogna ricordare i Rerum memorandarum libri di Francesco Petrarca, che già sono un tentativo (giacché l’opera non fu conclusa pur facendo della facezia proprio la sua parte più nuova) di organizzare la materia in modo scientifico, sia pur lontano dai modi aristotelici. Essa è l’opera per antonomasia più erudita di Petrarca, perché erede delle raccolte medievali di exempla e dei repertori aneddotici, pur accresciuta dalla selezione storiografica, ed è anche quella che mostra più evidente la ricerca di una struttura organica che superi il frammentarismo naturale da cui nasce questo genere di scritture. Sappiamo che perfino le opere in volgare hanno in Petrarca una genesi frammentaria prima di assumere la forma unitaria, definitiva o meno che sia. Se, infatti, i Trionfi, che non nascondono l’intenzione originaria di disporre una tematica di origine lirica in un percorso aneddotico e narrativo, perfezionano la loro forma unitaria e il loro senso complessivo nel corso della composizione, gli stessi Rerum vulgarium fragmenta, a prescindere dal giudizio critico sulla loro ispirazione unitaria, variamente riconosciuta sul piano estetico, assumono progressivamente la loro forma attuale. I Rerum memorandarum libri, a prescindere dai tempi di composizione, dalla dinamica dell’accumulazione erudita dei brani che ne giustificano il titolo, rivelano, in realtà come le liriche del Canzoniere, sia nella dichiarazione iniziale, sia in momenti programmatici successivi della raccolta, l’intenzione di una «struttura» che ne fa l’inizio di un genere, o meglio una fase decisiva del genere aneddotico, di cui è appena il caso di rammentare i precedenti classici. La brevità con cui è steso inizialmente da Petrarca il progetto tematico, sia pur ampliato successivamente, fa pensare ad un pretesto, come in Valerio Massimo, per raccogliere memorie disparate disponendole in un articolato catalogo. In Petrarca l’origine storica delle testimonianze, XXXIX

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romane, greche, moderne, costituisce il criterio della raccolta, la sua novità più evidente, di carattere ovviamente esterno. Anzi, proprio la ben nota derivazione del proemio dell’opera complessiva dal libro ciceroniano che richiamava inizialmente una circostanza autobiografica per poi delineare le virtù dell’oratore sembra ridurre l’impegno costruttivo di Petrarca all’imitazione di un modello perfino scontato.65 L’inizio del trattato petrarchesco, infatti, pare la continuazione e insieme la correzione del luogo ciceroniano dal quale prende le mosse. Inoltre il simultaneo ricordo dell’incipit del terzo libro del De officiis, un’opera dedicata all’esame delle virtù come il presente trattato che è in sostanza uno speculum virtutis, aiuta Petrarca ad attribuire all’ozio e alla solitudine un valore assoluto e positivo, come quell’unica condizione in cui nel passato egli abbia veramente vissuto.66 Il paradosso di Scipione («non ho mai vissuto meno solo di quando ero solo, e meno ozioso di quando ero ozioso», Off., 3, 1), che tanta importanza assumerà nel Petrarca del De vita solitaria e del De otio religioso, viene letto insomma quasi come una correzione semantica: l’ozio, come sarà nel Pontano, è una virtù se inteso in una prospettiva spirituale, non un vizio da redimere o un vuoto da riempire convenientemente; non un valore funzionale ad altri valori, ma valore in sé, corrispondente alla «vera» vita, da opporre sia al disvalore del vizio e allo spazio dedicato al gioco e al divertimento, sia al negotium stesso, come si ripete negli stessi Rerum memorandarum libri («nemo tam demens est qui otii dulcedinem negotiorum curis […] non praeferendam censeat», IV, 1, 2). Lo sforzo petrarchesco di costringere l’affollarsi delle memorie in luoghi distinti e correlati andrà letto anch’esso come un modo di recuperare e innovare, mediante la struttura, antichi modelli, e quasi di prevedere la trattatistica dell’Umanesimo maturo. Lo studio della presenza in Petrarca della tradizione classica e medievale della mnemotecnica ha messo però in luce più l’atteggiamento petrarchesco di fronte agli exempla antichi e la sua «conoscenza» dei meccanismi della memoria, che il metodo effettivo che egli ha prediletto nella riorganizzazione dei ricordi.67 Risulta bene, però, da questa indagine che il problema di Petrarca fosse quello di evitare l’accumulo indiscriminato e di promuovere l’ozio della meditazione, motivo agostiniano, come condizione necessaria in cui poter selezionare e ordinare: l’ozio sereno della lettura facilita l’imprimersi dei ricordi nella mente; lo aveva già detto XL

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Aristotele, che giudicava la passione e la commozione ostacoli all’incidersi delle memorie nella mente. La pur discreta correzione e integrazione dei topoi incipitari ciceroniani da parte del Petrarca prelude ad altre oscillazioni nel costruire il sistema delle virtù. Sono, esse, la spia dello sforzo petrarchesco da cui pur nasce qualche disuguaglianza e oscurità, e del tacito intento di dare al trattato, mediante la cornice dei proemi, un aspetto diverso dall’opera famosa di Valerio Massimo. In quest’ultima la serie dei libri è limitatamente motivata e talora casuale. Proprio dal coacervo del libro ottavo di Valerio il Petrarca coglie tre argomenti disposti di seguito, che possono considerarsi il nucleo originario del nuovo e particolare ordinamento dei libri Rerum memorandarum (De studio et industria, De otio, Vis eloquentiae); il valeriano otium, ristoro dalle fatiche e svago distinto dall’impegno attivo, si collega ora in un’endiadi con la «solitudine». «Ozio e solitudine», luogo ideale di «studio e dottrina», figurano quindi nel primo libro come premessa di una nuova etica, in cui assume un posto preminente quella stessa «prudenza» che Cicerone nel De inventione divide in memoria intelligentia providentia (2, 52, 160) assegnando loro le tre partizioni del tempo: passato, presente e futuro. Ma, appena accennata nel breve proemio relativo alla memoria, la medesima divisione adombra un’articolazione più complessa nel secondo dei Rerum memorandarum, quando si arriva a trattare dell’Intelligenza. Il disegno dell’opera, il sistema delle virtù, si carica di senso attraverso gli abbinamenti che caratterizzano i titoli e il rapporto o contrasto delle distinzioni binarie (il nostro Pontano potrebbe avervi già trovato materiale per la trattazione dei sogni e delle previsioni astrologiche che emergono nei suoi dialoghi). Ma gli ingeniosi a loro volta erano stati distinti dal Petrarca in ingeniosi et eloquentes, ossia quelli che esercitano l’ingegno nel bel parlare, e faceti, che lo esercitano nel conciliarsi il favore degli ascoltatori con lo scherzo verbale; così i sagaces cauti solertes erano stati distinti in callidi e sapientes.68 L’aggiunta della sapientia alla categoria dei sagaces cauti solertes accusa uno sforzo costruttivo nel senso che si è detto. Petrarca precisa che si tratta non della classica e sublime sapienza («licet non ignorem sapientie nomen quiddam maius ac sublimius importare», R. M. II, 15, 5), ma della sapienza comune, affine alla solertia, per non farne mancare il nome e perché non c’era modo più opportuno per inserirla («pretereunda huius mentio non fuerat nec alibi oportunius poteram»). L’inserimento della XLI

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«sapienza» nella seconda sezione dell’intelligenza, e della divinatio come seconda sezione della providentia è dunque una consapevole, quasi espressa, integrazione dello schema ciceroniano per seguire un criterio binario così affine alle coppie e alle antitesi della lirica dello stesso Petrarca. I casi più macroscopici sono la distinzione dell’Intelligentia in «eloquenza», il bel parlare, e «facezia», che diventa la parte più nuova e centrale del trattato, assolvendo al compito di addolcire le affaticate orecchie, di sollevare l’animo addolorato e di conciliare il favore, mediante le brevi risposte di cui consta tutta l’esemplificazione relativa alla facezia nei Rerum memorandarum libri, ma soprattutto la distinzione tra faceti e mordaces, ossia tra la iocunditas e la provocatio, lo scomma di cui parla Macrobio con una sorta di appendice che consiste nelle argute trovate dei poveracci per riuscire a difendersi. Se vogliamo fare un confronto con Boccaccio, che ovviamente fu il primo a tener presente questa articolata tematica, forse contemporaneamente all’impresa petrarchesca, sia pure con un diverso criterio nell’organizzare quel libro di memorie che è anche il Decameron, per divenirne in seguito un vero modello, ricorderemo come la sesta giornata, anch’essa al centro di tutta l’opera come lo è il petrarchesco De facetiis et salibus illustrium, prevedeva le risposte improvvise, mordaci e difensive, sebbene tradendo la brevitas con l’amplificazione della cornice narrativa. L’inserimento del capitolo De facetiis et salibus illustrium nella trama di un trattato sulle virtù, quali sono i Rerum memorandarum libri, come sviluppo del discorso sull’arte del dire va considerata nella storia del genere non tanto per quelle minime convergenze che si possono ritrovare negli exempla inseriti, quanto piuttosto per l’intenzione di far assumere ad un argomento lieve la dignità delle cose gravi nella più ampia categoria retorica del sermo. Facetiae e sales riguardano il sermo (sermonibus nostris) e ne sono il condimentum come gli apothemata, cioè gli απoφθεγματα di cui parla Cicerone nel De officiis, in un contesto differente, per illustrare il principio del giusto mezzo, mostrando come anche nel iocus vada osservata la ragione, che non permette né di abbandonarsi alle perturbazioni dell’animo, né di rinfrancarsi col gioco, senza tener conto che noi siamo nati per le cose serie, non per il gioco, che non dev’essere «profusum nec immodestum, sed ingenuum et facetum» (Off. 1, 29, 103). Per di più nel De officiis il iocus non è necessariamente connesso con la parola, mentre Petrarca si rivolge all’argomento ben noto del De oratore, XLII

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cui si rivolgeranno poi i trattati della facezia, ma sottraendolo alla funzione forense e correggendo espressamente il tiro: «nos autem hoc loco de vita communi e de quotidianis hominum sermunculis exempla decerpimus». La facezia è funzione della parola come l’eloquenza. Il De sermone pontaniano evocherà proprio il riferimento petrarchesco al sermo communis, come già nel repertorio di Poggio, suggerendo al Castiglione la trattazione della facezia come necessaria funzione del discorso comune, non forense, sia pure con un recupero classicistico del De oratore, di cui poi il Cortegiano sarà il più legittimo erede. E frattanto la sensibilità petrarchesca per le forme della facezia, e della loro articolazione, più che per la materia del riso e l’argomento dell’aneddoto, ne approfondiva l’allontanamento dal catalogo di Valerio Massimo. Pontano, che pur assume da Cicerone anzitutto il tema del giusto mezzo, arricchendolo della riflessione etimologica sul termine di facezia e della classificazione tipologica del riso, echeggia chiaramente Petrarca nel distinguere la sua trattazione del sermo da quella del De oratore: Sed nos hac in parte de ea, quae oratoria sive vis facultasque sive ars dicitur, nihil omnino loquimur, verum de oratione tantum ipsa communi, quaque homines adeundis amicis, communicandis negociis in quotidianis praecipue utuntur sermonibus, in conventibus, consessionibus, congressionibus familiaribusque ac civilibus consuetudinibus (De sermone, I III 1).

È un ampliamento della precisazione petrarchesca, da parte di chi definiva il sermo appunto come il luogo deputato alla facezia, dopo aver dedicato quarant’anni a classificare le virtù, illustrandole con memorie antiche e moderne, che era stato poi il progetto completo dei non finiti Rerum memorandarum. Quel lavoro di Pontano, ovviamente irrobustito nella parte teorica mediante il modello aristotelico, veniva portato a termine proprio con questa parte dell’etica dedicata all’uso faceto della parola, che in Petrarca aveva assunto tanto rilievo, da sollevare la pars eloquentie lenior al livello delle più dignitose virtù. Anche la distinzione fra le tipologie dei motti, le brevi risposte, i motti mordaci, le battute liberatorie, possono aver contribuito al concepimento dell’opera umanistica che fonda la trattazione moderna della facezia, ma continua sul tracciato petrarchesco della cornice etica e delle distinzioni. XLIII

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Dalla considerazione della leggerezza del genere letterario aveva preso le mosse Poggio, prevedendo l’obiezione dei dotti, che si attendono cose gravi, in quella prefazione alle facezie che non equivale ad una impalcatura ma, sviluppando il tema allora più attuale della gara con il volgare nell’esemplificazione del comico attraverso un livello sostenibile dal latino risorto, richiama per contrasto le prime parole della sezione petrarchesca dedicata ai motti di spirito. La provocazione poggiana sembra ovviamente capovolgere proprio il principio dell’urbanitas e della lepidezza tenuta entro i limiti dell’onesto, con cui Petrarca rilanciava la facezia nella cornice di un libro de virtutibus; e tuttavia la raccolta di Poggio, con le sue fasi di ampliamento mediante inserzioni mirate a creare e stabilizzare un organismo paragonabile, ma non identificabile con un centone, fa collocare il liber facetiarum non tanto nella serie delle raccolte medievali di cui certamente è un revival capovolto, ma nella serie umanistica iniziata da Petrarca che si distingue per la ricerca di un contesto teorico. Il contesto del libro di Poggio è la celebrazione della conversazione, delle confabulationes dove le facezie trovano una ragione di essere: la lettura continuata delle facezie è una lettura che tradisce lo spirito dell’opera, il quale in realtà sostituisce, come ben si può prevedere, il manuale ad uso dei predicatori, ma vuol essere in certo qual modo articolata in sezioni. Proprio la socievolezza, la civiltà, che risale ad un’antica istanza dell’etica aristotelica riscoperta, anche se non sempre praticata, nel costume umanistico, suggerisce a Pontano di distinguere due modi di adoperare la facezia pungente. La distinzione attinge alla classificazione sociale tramandata dall’antichità, ma il cui principio di fondo, legato ad un determinato assetto istituzionale, era stato abbondantemente superato da ripetute prese di posizione ideologiche sulla uguaglianza antropologica e sulla differenziazione dei livelli umani in base ai comportamenti morali. In effetti la simbologia della distinzione fra la condizione dell’uomo libero e la condizione del servo rimane a fondamento della concezione dell’arte. Laudabile et honestum, liberale prorsus ac concinnum, familiariter ac iucunde sono le formule di giudizio adoperate da Pontano per caratterizzare l’espressione dell’uomo faceto e il suo modo di comportarsi. Si potrebbe dire che Pontano, in un contesto prettamente umanistico, abbia tenuto presente, nel definire le tipologie della facezia escludendo la violenza del «morso», il sermone oraziano e la satira di Giovenale, e si potrebbe aggiungere che il titolo stesso del trattato sulla facezia riXLIV

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chiama la denominazione più corretta delle «satire» di Orazio: sermones vogliono dire appunto «conversazioni spiritose», rivolte a punzecchiare ma non a mordere, a far sorridere non a muovere il riso con lo scherno, a scoprire i difetti senza una vera pretesa di correggerli, e soprattutto a farlo con arte. Di qui l’ulteriore differenza fra il motteggiare «urbano» e il motteggiare «rustico», che si accosta a quello servile, e la ricerca di un livello di facezia che colleghi in un ideale di urbanitas, ma anche di humanitas, l’arte e la morale, ma in modo che quest’ultima sia interna alla facezia stessa, che diventa manifestazione ed esempio di insegnamento etico, anzi di riflessione etica, come le operette leopardiane distinte dalla riflessione antropologica. Il trattato pontaniano sulla conversazione sviluppa in maniera autonoma e con un’ampia articolazione (si è visto come Petrarca lo facesse all’interno di un sistema riguardante la memoria, e limitando la raccolta ad un genere specifico di aneddotica faceta) il tentativo di concepire lo scherzo verbale, finanche quello più breve e immediato ed apparentemente più estraneo al sistema delle arti e al controllo dell’etica, come una parte della scienza dell’uomo, mediante l’analisi retorica e le distinzioni tipiche della dottrina morale. Cicerone nel libro secondo del De oratore aveva fatto dello scherzo una parte necessaria dell’orazione in quanto diretta a persuadere, oppure a denigrare l’avversario o ad attirare la simpatia del giudice, in definitiva a rallentare la tensione del discorso oppure ad introdurvi argomentazioni paradossali utili al raggiungimento dello scopo pratico della persuasione. La trattazione che ne farà Baldassarre Castiglione nel Cortegiano risente prima di tutto di questa funzione, data la stretta relazione fra l’oratore e il cortigiano, ambedue impegnati in primo luogo in un compito suasivo nei confronti del giudice e del pubblico in un caso, nei confronti del principe e della corte nell’altro. L’operazione di Pontano rappresenta un momento essenziale in questo recupero dell’antico, perché fa un salto rispetto alla raccolta di esempi che nel Medioevo fungeva solitamente da centone, da repertorio, o da catalogo, in cui lo scherzo verbale figura insieme ad altre forme di narrazione breve ad uso dei predicatori; si distingue da raccolte specifiche di facezie come quella di Poggio che nel Quattrocento umanistico costituisce ancora un repertorio sia pure ad uso del conversatore laico in ambiente spregiudicato; e diventa successivamente un corredo cui attingere per le nuove raccolte di storielle che o riprendono la tradizione XLV

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classica di Valerio Massimo o fraintendono la complessa impostazione del De sermone che voleva essere cosa diversa da un repertorio: voleva ribadire, dando un’ampia e articolata esemplificazione, come anche lo scherzo verbale costituisca un uso consapevole della parola e vada impiegato con ponderatezza, e quindi analizzato con i presupposti dell’arte e della norma morale. Per far rientrare la facezia nei ranghi dell’arte, ossia delle operazioni di quell’animale sociale che è l’uomo, bisognava dunque dimostrarne la struttura retorica, bisognava dimostrare la sua equidistanza dagli estremi del vizio, definire la fascia media entro la quale può collocarsi con le sue molteplici varietà tipologiche. Il primo punto (ossia la considerazione della facezia come arte, al pari dell’oratoria) richiedeva la considerazione della topica, il sistema dei luoghi comuni, delle sedi – per così dire – dei campi semantici e delle categorie – per dirla più fi losoficamente – da cui i motti scherzosi si estraggono. È quello che fa l’arte; l’arte – dice espressamente Pontano – non ha poca importanza negli scherzi, così correggendo l’opinione secondo la quale il motto sarebbe solo opera di natura, di istinto, non tanto breve quanto immediato. Poiché l’immediatezza è una qualità retorica anch’essa, in funzione dell’efficacia, non semplicemente un derivato della natura, della disposizione scherzosa del motteggiatore: l’eterno problema se prevalga la natura o l’arte nell’operazione dell’uomo non può che risolversi nel metodo accademico ciceroniano dell’accordo fra due tesi contrarie. I due precedenti, cui farà spesso riferimento, quali il secondo libro del De oratore di Cicerone e il terzo capitolo del sesto libro delle Istituzioni di Quintiliano riguardavano specificamente l’arte del far ridere, laddove Pontano include questa trattazione nel quadro più ampio dell’uso civile della parola, facendone una questione di ordine morale, oltre che retorico. Proprio la socievolezza, la civiltà, che risale ad un’antica istanza dell’etica aristotelica riscoperta, anche se non sempre praticata, nel costume umanistico, suggerisce a Pontano di distinguere due modi di adoperare la facezia pungente. La distinzione attinge alla classificazione sociale tramandata dall’antichità, ma il cui principio di fondo, legato ad un determinato assetto istituzionale, era stato abbondantemente superato da ripetute prese di posizione ideologiche sulla uguaglianza antropologica e sulla differenziazione dei livelli umani in base ai comportamenti morali. In effetti è la simbologia della distinzione fra la condizione dell’uomo XLVI

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libero e la condizione del servo che rimane a fondamento della concezione dell’arte. Perciò nella lettura del De sermone va posta particolare attenzione al lessico, dove si manifesta la disinvoltura e talora spregiudicatezza di Pontano nel maneggiare la lingua latina come lingua viva e perfettibile, ovviamente ad un livello colto. Il segno più sottile di questo livello è infatti l’impegno posto nell’evitare la collusione col volgare, di cui il trattato sul bel parlare in funzione del riso vuol essere emulo autonomo, non trascrizione. Lo sforzo di trovare una terminologia adeguata, che possa dirsi puramente latina, nel caso di dover esprimere concetti che riflettano la sensibilità moderna della nuova società civile, nonostante l’affinità con l’antropologia classica, lo fa ricorrere al neologismo o allo slittamento di significato. Facetudo e facetitas non sono classici vocaboli latini anche se sono coniati con suffissi classici; la «cortesia» che circola per tutto il trattato e la «conversazione» che ne è l’argomento specifico si nascondono nei termini di comitas e di sermo, che possono adombrarle ma che originariamente designano concetti non necessariamente connessi con la giovialità della distensione o con la distensione della giovialità in ambiente spiccatamente urbano-signorile, come avverrà con l’invenzione del termine di «cortigiano» e di civile conversazione, che tanto devono alla spiegazione pontaniana, spesso verbosa e ripetitiva, di quei concetti. Così nel definire l’ospitalità e la convivialità moderne Pontano aveva scartato un vocabolo di uso monastico quale conversatio e introdotto il neologismo di conviventia, il cui corrispettivo volgare, assente al suo tempo, non avrebbe ereditato quel senso.69 In tutto questo, nel concetto della conversazione e del suo linguaggio come una virtù, il punto di riferimento era lo spirito dell’Accademia avviata dal Panormita, immagine della nuova società civile. 5. Umanesimo critico Dal prevalente spirito ironico dei primi tre dialoghi, che includono l’apologo, la farsa, la caricatura, l’aneddotica, si distingue, come si è visto, l’esposizione del sapere negli altri due, con una sostanziale adesione ai problemi della critica e della retorica. Ma anche i primi sono percorsi da un’intenzione critica che li rende partecipi delle più profonde e originarie motivazioni dell’Umanesimo filologico. Eppure tutti e cinque, a considerare l’indirizzo egemonico della cultura umanistica, collocaXLVII

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no il Pontano sulla linea «diversa» che fa capo a umanisti come Poggio Bracciolini e Leon Battista Alberti, anche loro duplici per aver coltivato accanto ai generi gravi della letteratura, anche quello comico al punto da sfiorare la contraddizione. D’altra parte la critica della società, delle convinzioni acquisite equiparabili alla superstizione, del linguaggio sciatto e tradizionalmente scolastico, di un rinnovato conformismo classicistico, dell’intransigenza etica ed erudita provenivano dal seno stesso dell’Umanesimo. Analogo era l’obiettivo del campione più indiscutibile dello svecchiamento culturale e della battaglia contro la tradizione quale Lorenzo Valla, sottoporre a una critica nutrita di filosofia le opinioni correnti. Eppure una certa distanza separava Pontano, a parte ragioni contingenti, da un filologo tutto d’un pezzo, cui mancavano il sorriso tollerante e la predilezione per la medietà. In realtà il metodo della critica pontaniana si fonda su quello aristotelico delle definizioni e delle distinzioni, anche se depurato di un eccessivo formalismo. Apparentemente egli riprende l’affermazione ciceroniana del De oratore: «Est enim finitimus oratori poeta, numeris astrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandis generibus socius ac paene par».70 In Cicerone questa affermazione era occasionale, introdotta per dimostrare con l’esempio più comune di un’opera poetica che l’oratore può trattare un argomento che esula dal suo campo specifico. Il retore romano teneva particolarmente ad indicare gli aspetti comuni delle due arti e lo faceva in termini che Pontano riprendeva da vicino. Questi rivolge lo sguardo, nella comparazione, proprio agli aspetti differenziali, che in Cicerone erano i meno importanti, approfondendoli e rendendoli qualitativi: «[…] verum alterius digna foro ac senatu quaeque gravitatem satis est uti sequantur retineantque dignitatem, alterius quae magnificentiam, attitudinem excellentiamque quasi quandam ostentent» (Actius, 196). Pontano insomma insiste sulla differenza delle due arti, che appare sempre più come una differenza degli stili: «Neque enim gravitas comparandae admirationi satis est sola, ni magnificentia accesserit excellentiaque et verborum et rerum […]» (Actius, 197). Sembra una distinzione di gradi, sembra che al poeta si chieda soltanto qualcosa di più; invece tra il «bene dicere atque apposite» e l’«excellenter dicere» esiste una differenza assoluta. Infatti anche l’oratore potrà toccare talvolta il grado dell’eccellenza, ma esso non sarà mai il suo compito specifico, il carattere XLVIII

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intrinseco della sua opera, che guarderà fondamentalmente alla opportunità, all’apposite, alla varietà come adeguamento alla varietà dei casi per il fine pratico della persuasione. La poesia ha invece la virtù singolare di imporre la propria intrinseca grandezza alle cose: «Ac tametsi oratoris quoque est aliquando et magnifice et excellenter, tamen id non ubique, neque semper, cum poetae hoc ipsum ubique suum sit ac peculiari, etiam cum in minutissimis atque humilibus versatur rebus». Subito dopo troviamo ripetuto quale sia l’ufficio dell’oratore, «movere et flectere auditorem», opportunamente distinto da quello del poeta, che consiste nel generare ammirazione. E ancora più chiara è l’indicazione del «fine», che accompagna quella dell’officium: «cum ille pro victoria nitatur, hic pro fama et gloria». Questo interesse alla determinazione, oltre che dell’ufficio, del fine, nasce in sostanza dal bisogno di interiorizzare la ricerca sulla rispettiva essenza delle due arti, e di sottrarla a quella confusione che proveniva dalla considerazione tradizionale della loro comune consistenza retorica. La ricerca del fine è la ricerca della causa finale, della essenza stessa di un fenomeno. Pontano ne aveva coscienza già all’altezza dell’Antonius, di cui la poetica dell’Actius può considerarsi uno sviluppo. Non per altro nell’Antonius aveva sollevato la questione sulla precisione o meno delle definizioni dell’oratoria, rispettivamente di Cicerone e di Quintiliano, trasformando quello che era un problema riguardante l’estensione del concetto di oratore e la perfezione della sua opera, in un problema di metodo. Cicerone aveva dato come fine dell’oratore il «dicere apposite ad persuasionem», mentre Quintiliano si era fermato al «bene dicere»; opinione, quest’ultima, condivisa secondo Pontano da coloro che non vedono che per aversi una definizione completa dell’oratore, come del dialettico, è necessario considerare un duplice fine, nel soggetto e nell’oggetto, nell’oratore e nel giudice, nel dialettico e nell’avversario. Il «dir bene» non avrebbe senso se non rapportato a un suo fine specifico, che nel caso dell’oratore è il persuadere. Non che Quintiliano non pensasse affatto al fine ulteriore della persuasione: la critica di Pontano è infatti molto guardinga e propensa a considerare nell’autore delle Institutiones piuttosto la mancanza pericolosa di una ulteriore chiarificazione. Il retore latino aveva considerato l’opportunità o meno di includere il fine del bene dicere nel compito dell’oratore, e aveva concluso per la eliminazione di esso, in quanto «erit rethorice XLIX

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in oratore etiam tacente», l’oratore è tale, cioè provvisto dell’arte, anche quando non esercita. Ma Quintiliano intendeva il fi ne come effetto, risultato: infatti aveva parlato di effectus nelle righe precedenti. In sostanza Quintiliano non aveva affrontato il problema di definire l’arte dell’oratore in base ad un impegno finale che ne individuasse e qualificasse il carattere. Egli esclude che sia necessario il risultato esterno della persuasione per giudicare la validità di un’opera oratoria, senza poi specificare che almeno l’intenzione del persuadere debba esser presente nelle parole dell’oratore. Perciò Pontano ritiene che il bene dicere di Quintiliano avrebbe potuto includere l’arte declamatoria, mentre la precisazione di Cicerone poteva risultare più valida ai fini di una definizione e quindi di una reale distinzione: «[…] mihi quidem videtur Cicero tum addendo apposite ad persuasionem tum dicendo persuadere dictione avertisse a se id quod Quintilianus, pace eius dixerim, non modo non avertit, sed ne quidem vidit».71 Anche Pontano considera la possibilità che eventi esterni impediscano la sperata riuscita di un’orazione, come avviene nell’arte del medico (e l’esempio era già nelle Institutiones), ma la constatazione gli serve per dare evidenza alla sua nuova impostazione del problema, cui le parole ciceroniane offrivano gli elementi e il sostegno. Il fine indicato da Cicerone viene assunto nelle sue possibilità polemiche, al di là delle intenzioni di Cicerone, il quale pur distingueva, in un passo dell’Orator, il «perturbare animos» e il «placare animos», il persuadere ed il delectare come compiti rispettivamente del sofista e del suo ideale di oratore, rilevando dell’oratoria sofistica gli elementi che l’avvicinano alla storia e quindi alla poesia (favole, immagini, descrizioni)72. Per Cicerone quella precisazione valeva a distinguere due generi diversi di oratoria, per circoscrivere il campo della sua ricerca al genere forense, mentre per Pontano la precisazione ciceroniana è la base per determinare l’essenza dell’arte oratoria nel suo specifico, dalla quale debbano poi distinguersi le arti della «poesia» e della «storia».73 È evidente in tutto questo il procedimento, affermatosi già nella tradizione degli studi retorici, di trasferire il discorso fatto dai retori nel campo specifico dell’oratoria su un piano più largo di discussione, dove le arti vengono esaminate non solo nel loro aspetto didattico, ma nella loro validità scientifica. Cicerone diventa l’auctor di Pontano, non certo per rispetto di un canone, che era cosa assolutamente aliena dal suo L

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temperamento, ma perché esso costituiva un sostegno alla critica di Quintiliano. Nell’autore delle Institutiones Pontano scorge più che altro il principio di una confusione troppo a lungo protrattasi: una tradizione di studi che, attribuendo genericamente alle belle lettere il fine di ornare il discorso, il bene dicere attribuibile anche alla declamazione oratoria, finiva col proporre il medesimo stile e le medesime leggi alla oratoria ed alla poesia, riducendo anche il diletto proprio di quest’ultima ad una esigenza pratica di insegnamento e persuasione.74 Ma un’altra problematica proposizione ciceroniana, destinata ad avere una rilevante fortuna, figurava quasi di sfuggita nelle pagine del De oratore: «poetas omnino quasi alia quadam lingua locutos».75 Il quesito, posto ad Altilio dal Poderico, circa la legittimità di questa affermazione, data la somiglianza, più volte asserita, tra storia e poesia, nasce appunto dall’attenzione che Pontano porta al problema della distinzione tra le arti sorelle della parola. La conclusione, anche questa volta, consiste nell’allontanare l’oratoria vera e propria, quella forense, dal linguaggio della poesia, isolandola rispetto ad un altro tipo di oratoria che a quel linguaggio invece si richiama, quella della storia: «Ne te igitur animi dubium Cicero aut minus tibi te in hoc constantem faciat, quod poetas alia lingua usos dicat, scrupulum excute omne atque ex animo eiice deque forensibus illum actionibus, haud de historiis locutum tibi persuadeas velim» (Actius, 138). Distinzione non nuova: Pontano trovava in Cicerone che il genere epidittico, «demonstrativum», di oratoria si distingue da quello tipicamente forense. Ma, nell’impostare il problema della determinazione dei rispettivi ultimi fini, dei «proposita», che abbiam visto particolarmente interessarlo, la sua indagine va oltre la distinzione ciceroniana, che guardava soprattutto alle caratteristiche dello stile, ai modi della dictio. Egli sa, come si è visto, che «dictio omnis et scriptio eo spectat, ut bene consummateque et dicatur et scribatur»; lo ripete ora che gli interessa precisare la distinzione tra oratoria e storia. Questa si risolve dapprima in una distinzione di generi oratori: «alibi tamen, hoc est forensibus in causis, ut consummate dicatur etiam ad persuasionem, alibi ad laudationem approbationemque, ut in eo genere quod demonstrativum dicitur» (Actius, 150). Subito però si rivela l’esigenza di trovare per la storia non un fine pratico diverso, ma anche una misura intima diversa, dalla quale perfino la laudatio e la approbatio debbano essere illuminate nel loro vaLI

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lore: «Atque in historia, cuius prima cum sit lex neque in gratiam loqui neque opticere odio vera aut ea dissimulare, efficitur ut laudentur quae sint commendatione digna, suo quidem et loco et tempore utque improbentur turpiter atque imprudenter facta». Quell’«atque» introduce vigorosamente una nuova parte, essenziale, del discorso. Si attribuisce allo storiografo una coscienza diversa nel costruire la sua dictio, una coscienza di ordine morale, che misura la parola in rapporto alla verità (si parla infatti di verità come giudizio morale, non come giudizio conoscitivo), non all’utilità, come avviene per l’oratoria. Posti così distintamente i compiti, i proposita, dell’oratore e dello storico, Pontano torna ad individuare lo stile particolare di cui debba servirsi lo storico, e lo commisura all’esigenza intima del suo compito: […] quod [genus] tale mihi quidem assumendum videtur quale est genus fusum, lene, aequabiliter incedens, neque ita compressum ut inops videatur et languens, neque adeo amplum ut intumescat oratio et verba ipsa quodammodo exsiliant, utque incedat oratio, non saliat aut titubet sitque incessus ipse non muliebris ac petulans, sed virilis et gravis (Actius, 151).

Nella delineazione di questo ideale di stile storiografico, dove non poche sono le indicazioni che riportano alla tradizionale descrizione dello stile medio, Pontano si è fatto guidare dalla sua idea dell’animus dello storico, quale prima ha indicato: equanime e sereno di fronte alla verità, pronto alla lode opportuna come all’avveduto rimprovero. Anche lo stile dell’oratore forense ubbidiva ad una misura, mirava ad una fusione, ad un contemperamento degli stili, ma lì si trattava di un criterio retorico di adattamento, qui di una vera misura morale. Perciò ogni tentativo di ravvicinare queste arti sorelle naufraga in una radicata convinzione, espressa da Pontano anche in forma più esplicita. Mentre si ripete che il fine della oratoria è il persuadere, si afferma che la storia tende «ad docendum, ad delectandum, ad movendum». Il delectare, che Cicerone poneva come il secondo ufficio dell’oratore, da ottenersi con lo stile medio, è taciuto da Pontano a proposito dell’oratore: oratore e poeta hanno infatti in comune il movere et flectere, l’uno in vista della persuasione, l’altro in vista di quel particolare obiettivo che è l’admiratio.76 Non risulta però altrettanto chiaro il proposito di distinguere i rispettivi compiti dello storico e del poeta, se consideriamo che in quell’«altro LII

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linguaggio» del poeta viene incluso praticamente anche quello dello storico, e che gran parte delle caratteristiche stilistiche della poesia vengono esaminate a proposito dell’opera di Livio e di Sallustio. La cosa si spiega quando pensiamo alla tradizione ciceroniana, che difendeva la storia come opera di poesia, al fatto che Pontano tenga presente spesso e soprattutto il poema epico come esempio di poesia, e che questa somiglianza venga spesso portata sul tradizionale piano dei colori retorici. Se vediamo invece che Pontano si vanta di essersi dedicato per primo all’indagine particolare della historia, tutte quelle indicazioni che intaccano, e talvolta in modo sensibilmente profondo, tale presupposta somiglianza, acquisteranno un altro valore. Quando si muove sul piano di una ricerca retorica, Pontano non può fare a meno di concordare con l’autorità degli antichi, per i quali la storia era quasi una poesia in prosa: Cicerone aveva ben mostrato di volere dallo storico più di quello che davano gli annalisti romani. Per convalidare quell’antica opinione e mostrare che poesia e storia hanno «pleraque inter se communia», snocciola tutto il corredo dell’insegnamento retorico tradizionale: nell’una e nell’altra rientrano le digressioni, le descrizioni, gli elogi, i discorsi, le amplificazioni. Anche nell’esame particolare del racconto degli storici, Pontano cerca di far notare quanta importanza assuma fin nella prosa storica la ricerca metrica propria dei poeti. Arriva perfino a chiedersi: «Nonne descriptio illa Africae mera est et soluta poetica?», a proposito di Sallustio. Più importante ancora, per il metodo che abbiamo visto adottare da Pontano, è che egli parli di una identità di proposito tra le due arti: «Itaque neutrius magis quam alterius aut propositum est aut studium ut doceat, delectet, moveat, ut etiam prosit, rem apparet eamque ante oculos ponat, ac nunc extollat aliud nunc aliud elevet» (Actius, 121). Sono questi ultimi quei caratteri che assolutamente non parevano comuni all’oratoria, e che erano attribuiti normalmente dalla tradizione alla narrazione storica o mitologica, al poema come all’opera propriamente storiografica. Eppure il critico, insoddisfatto, aggiunge subito delle precisazioni che sembrano mutare e perfino capovolgere il discorso. Comincia appunto dallo stile e ne rileva le diversità per quel che riguarda la scelta, la collocazione delle cose e delle parole: «historia tamen est castior, illa vero lascivior» (Actius, 122); e passando a considerare la cura dell’ornato aggiunge: «tametsi historia cultu tantum contenta esse potest suo, eoLIII

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que qui sit matrona dignus idoneusque continentiae, a fucoque abstineat ac purpurisso, quem quidem in altera illa theatra persaepe probant». E continua opponendo ancora «castigatior», attributo della prima, a «liberalior, affectatior», attributi dell’altra. Per comprendere la portata di queste distinzioni, anche questa volta dobbiamo riportarci al passo del De oratore, in cui si nota la libertà maggiore della prosa retorica rispetto alla poesia nell’uso dei metri, la libertà maggiore della poesia nell’uso delle parole. Cicerone poneva una gradazione di possibilità di natura tutta retorica, e si riferiva a quello che «è permesso» o meno al poeta rispetto all’oratore nei due campi diversi del metro e della metafora: nel primo il poeta è più legato (astrictior), nel secondo più libero (liberior). In Pontano la differenza tra una poetica soluta, quale la storiografia, e una soggetta al metro, quale la poesia, non comporta affatto una limitazione della seconda, perché, anzi, il metro offre la possibilità di effetti maggiori, di una «libertà» maggiore. Egli guardava ad una differenza più intrinseca, collegata all’effetto finale delle due rispettive arti. Gli attributi, nei quali parevano dapprima concordare, si rivelano differenti quando si ricorre alla determinazione dei proposita: […] proposito vero omnino pene aut maxime profecto differunt, cum altera veritati tantum explicandae, quamvis et exornandae quoque intenta esse debeat, poetica vero satis non habeat neque decorem suum servaverit nisi multa etiam aliunde comportaverit, nunc ex parte aut vera aut probabilia, nunc omnino ficta neque veri ullo modo similia, quo admirabiliora quae a se dicuntur appareant (ivi).

Si è visto anche come il ricorso alla veritas quale elemento fondamentale della storia, fosse stato introdotto da Pontano proprio al momento conclusivo del discorso sul rapporto fra storia e oratoria, e ne avesse fatto anche il fondamento per la determinazione dello stile proprio dello storico. L’ornamentazione, che è solo «concessa» allo storico («quamvis… quoque»), deve quindi commisurarsi alla veritas per ottenere il suo decoro, ossia il suo proprio equilibrio, mentre il poeta lo troverà solo quando avrà adattato all’esigenza di ammirazione ogni soggetto, superando i limiti e del vero e del probabile. Il rapporto con la verità costituisce, nello storico, il fondamento di uno stile casto e prudente, che richiama il «genus lene, aequabiliter incedens». Ma nel discorso finale sull’arte LIV

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poetica, cui tende tutto il dialogo, l’ammirazione, fine della poesia, si presenta già come congiunta intimamente con una particolare «libertà», non intesa come licenza, ma come fine, come l’essenza sua stessa. A questo principio vien riportata anche la facoltà di iniziare da un punto qualsiasi la narrazione, che era una norma della poetica oraziana. In questo modo la poesia, pur vista trapelare qua e là nelle varie attività letterarie, tende ad assumere tutt’altro valore e a distinguersi. È come un ideale che si crede poter cogliere ed invece sfugge e si ritira in una più alta dimora. Sembrava poterla trovare nell’opera degli storici, ma in essi è solo un tendere ad essa, un adattarne la specie ad un altro fine. Il fatto si è che la storia, pur tanto diversa dall’oratoria e tanto simile alla poesia, ha in comune con la prima il principio tipicamente retorico del «conveniente», ossia il compito di adattare lo stile ad una misura esterna, che nell’oratoria è il caso particolare, nella storia la verità. Mentre la poesia, pur congiungendosi ad esse per tanti aspetti, pur incontrandosi talvolta nei fini pratici, obbedisce ad una misura diversa e vive in una condizione di «libertà». Non è la prima volta che Pontano si trovi nell’impasse di doversi destreggiare fra la logica della definizione, e quindi della distinzione delle specie, e il criterio unificante del «genere». Nell’Antonius, dove non è potuto sfuggire il suo tentativo di fondare una poetica sul principio dell’eccellenza e della libertà del poeta, la questione non era isolata, ma cominciava da una discussione riguardante l’oratoria e la differenza fra la logica della distinzione ciceroniana e l’equivoco quintilianeo nel definire lo status della causa e il fine dell’oratore. L’intenzione pontaniana era di evitare l’approfondimento del conflitto fra i due massimi autori dell’eloquenza e di riportare il discorso sul piano del maggiore o minore acume nel formulare un pensiero analogo. Ma nel corso della discussione, che rasenta il cavillo, emerge l’esigenza principale della «definizione», che funziona anche successivamente nella critica virgiliana, apparentemente scollata dal tema precedente come ci farebbe credere l’alternanza richiesta dall’istituto dialogico e accademico.77 Ma più evidente ancora, e più vicina al problema dell’arte poetica, è la discussione dedicata nell’Antonius, come si è visto, alla definizione dell’oratoria come bene dicere finalizzato alla persuasione, laddove Quintiliano aveva generalizzato il bene dicere quasi che bastasse esprimersi perfettamente per esaurire le esigenze dell’oratoria. Pontano fa notare attraverso il personaggio di turno LV

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che il mero bene dicere potrebbe confondersi con la declamazione fine a se stessa, aprendo un capitolo interessante della poetica cinquecentesca, quando la poesia lirica verrà distinta da quella finalizzata all’utile della persuasione o al piacevole del racconto. Nell’Antonius la definizione della poesia oscillava fra la tacita reminiscenza aristotelica dell’imitazione della natura, che escludeva l’imitazione degli auctores (Virgilio non imitava Pindaro nella descrizione dell’eruzione vulcanica, ma se ne distingueva perché imitava la natura in maniera personale) e l’applicazione delle categorie retoriche di Ermogene e del sublime di Longino. Ma era appunto una «definizione» della poesia, cioè una distinzione di essa da altre arti della rappresentazione. In questo vario discorso, nel quale Pontano appare impegnato in una più intima distinzione delle facoltà e degli interessi letterari dell’uomo, possiamo certo individuare lo schema sul quale egli si fonda e che si impone alla sua mente in forza di una tradizione. L’approfondimento dei termini di questo schema tradizionale, il carattere di ricerca nuova che esso assume, non ci impediscono di avvertirne l’origine. La distinzione degli stili, rimasta viva nel pensiero medievale, per quanto intaccata nei suoi presupposti e nei suoi esiti, si rinnova certo agli occhi dell’umanista napoletano alla lettura diretta di Cicerone: dell’Orator, soprattutto, al quale queste pagine di Pontano spesso si richiamano e dal quale sembrano ricavati i termini stessi che gli servono per la descrizione dello stile poetico. Le fondamentali attività letterarie dell’uomo si dispongono in una scala al cui gradino più basso troviamo l’oratoria, rispetto alla quale si levano in alto la storia e la poesia. Quel ch’è rimato della teoria degli stili è appunto solo lo schema, poiché il criterio è mutato a tal punto, che non si potrebbe a rigore parlare più di una scala, se non tenendo presente l’entusiasmo mostrato dal critico per la poesia e il fatto ch’egli la veda sprigionarsi come l’ultima, la più bella scoperta della sua ricerca. In realtà i «compiti» sono diversi nell’oratore, nello storico e quindi nel poeta, e non sussiste tra essi una relazione di gradi, quale quella che vive al fondo della distinzione degli stili. Tuttavia sia l’oratoria che la storia partecipano, e lo fanno in grado diverso, alla vita della poesia, proprio come lo stile umile e il medio partecipano in misura diversa alla vita dello stile sommo, che raccoglie nel sommo grado tutti gli ornamenti del dire. Se pensiamo che il Pontano tiene presente, nel parlare dell’oratore, LVI

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la descrizione ciceroniana dell’oratore attico, che Cicerone introduce per qualificare lo stile tenue, e se riflettiamo all’esame che Pontano fa dell’opera di Sallustio e di Livio, nella quale egli vede a quando a quando, pur nella forma «soluta», riflettersi la poesia, sarà evidente l’intenzione di porre l’oratore al livello dello stile tenue, inteso anche come prosastico, e lo storico su quello dello stile medio. La disposizione mentale dell’autore in questa occasione si chiarisce anche con l’uso ch’egli fa dei termini usati da Cicerone per lo stile tenue e per quello sommo, che vengono applicati rispettivamente all’oratoria e alla poesia ed equilibrati a proposito della storia. Anche in questa occasione, però, il discorso pontaniano si rivolge ad una considerazione più sostanziale, non tanto quantitativa delle disparità. Ciò si verifica quando egli s’impegna nel delicato esame dei più autorevoli testi di storia, la cui vicinanza all’oratoria e alla poesia è dichiarata con elementi che ci illuminano sulla consistenza dell’una e dell’altra attività, più di quel che facciano le indicazioni teoriche. Sallustio è più vicino allo storico, Livio al poeta, non per la copia degli ornamenti, ma per la disposizione propria della loro anima che decide del carattere tipico del loro stile: «illi curae est proprie simpliciterque expressa res, huic arcessitum atque extrinsecus allatum aliquid tamquam excolendae formae» (Actius, 157). I caratteri del loro stile si configurano così secondo la disposizione rispettiva: «Et lenis et fluxu tantum suo incitus placet Sallustio decursus, at Livio altior paulo, nec tam aliquando sedatus quam plenus ac personans» (ivi). Gli attributi usati appartengono con ogni evidenza allo stile tenue e a quello sommo, gli unici chiaramente determinabili. Quel che importa soprattutto, però, è che la tenuità dell’uno e la pienezza dell’altro non rispecchiano una misura retorica, ma rispecchiano due fondamentali atteggiamenti dell’autore nei confronti dell’arte, ossia due modi diversi di porre il rapporto tra l’arte e l’opera dello scrittore, modi che corrispondono alle caratteristiche intrinseche rispettivamente dell’oratoria e della poesia. Mentre l’oratore si serve dell’arte per quel tanto che richiede la decorosa esposizione del suo pensiero, il poeta la usa liberamente, la profonde, la espone sin quasi a far sì ch’essa assorbisca tutto il suo discorso e ne divenga, per così dire, la ragione. Un passo che rivela la disparità tra Sallustio e Livio prende lo spunto dall’esempio della descrizione dei personaggi: «Utque alter ille virili et senatorio incessu graditur, ac pro loco et sistit interdum gradum et tanLVII

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quam prospectat longius metiturque loca singula, sic alter hic et gestit quandoque et viribus suis laetus exultat praefertque robur et artis et ingenii» (Actius, 157). La gravità, che pare caratterizzare lo stile sallustiano in questo passo, non ha nulla a che fare con quella che rientra fra gli attributi dello stile sommo. Qui si tratta soprattutto di prudenza e di misura, di riflessione, di moderazione, che si contrappongono al più libero sfogo dell’arte, quale risulterebbe nell’esempio liviano. Altra volta si era parlato di pudore a proposito di Sallustio e la parola andava legata al concetto di tener: «[…] pudenter tamen ac tenerrimo cum delectu» (Actius, 134). Qui si vuol alludere al medesimo fenomeno stilistico. Altrove tuttavia risulta più evidente e ricca di conseguenze la distinzione tra un Livio che profonde chiaramente le grazie della sua arte, e un Sallustio che le dosa prudentemente: «Nesciam tamen quonam modo minus haec extant in Sallustio nec tam apparent atque exposita sunt quam in Livio, ut alter quodammodo praeseferre velit artem poeticaeque imitationem, alter celare eam, ut tanquam in nubecula delitescat» (Actius, 137). Questo modo di usar l’arte senza farsene accorgere era stata già dal Pontano messa in relazione con l’arte dell’oratore, di chi parla per farsi ascoltare, e quindi perseguire il suo fine persuasivo, e a questo fine mantener desta l’attenzione, senza voler conquistare alla bellezza di magnifiche cose l’animo dell’ascoltatore. Ne aveva parlato, sì, a proposito della poesia, e per quei momenti di pausa in cui debba solo intrattenersi l’ascoltatore, ma si era espresso appunto in termini che fanno pensare al linguaggio «sedatus», «lenis», che è anche dell’oratore: «Fluunt itaque numeri ipsi, quibus nihil profecto lenius, ut nulla videatur ars adhibita, nulla ipsi appareant cura temperati» (Actius, 46). Ricordiamo che Cicerone aveva appunto indicata la «neglegentia diligens» come carattere specifico dell’oratore attico.78 Svelare e quasi ostentare la propria arte sembra invece a Pontano un carattere peculiare del poeta, se egli vi ritorna quando vuol distinguere l’oratoria dalla poesia, le cui parole sono «alterius digna foro ac senatu quaeque gravitatem satis est uti sequantur retineantque dignitatem, alterius quae magnificentiam, altitudinem excellentiamque quasi quandam ostentent» (Actius, 196). L’«ostentare», il «praeseferre» tornano con un preciso valore in questo discorso, perché il Pontano sente la poesia non solo nella excellentia, nella magnificentia ecc., come poi vedremo, ma in ciò che essa costituisce il punto terminale di un assoluto interesse d’arte, LVIII

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senza le guardinghe limitazioni, che possono derivare da altre esigenze o da altri condizionamenti. Così la teoria della distinzione degli stili, trasferita a quella dei generi, concorre a caratterizzare i tre livelli di arte della parola che Pontano intende distinguere e ai quali egli stesso si è applicato. Per Cicerone, come per Pontano, lo stile più alto è «amplus copiosus gravis» ma soprattutto del «sonitus» si ricorda Pontano nell’esaminare l’effetto di una particolare scelta, disposizione delle vocali e degli accenti nel ritmo dell’esametro, che genera l’ammirazione, e in cui consiste l’esito principe della poesia. I parametri formali della prosa sorreggono anche la poetica, come i parametri formali della poesia sorreggono la teoria della storia, che è soprattutto stile narrativo: epica e storia, poesia e prosa costituiranno ancora un binomio da distinguere e un’antitesi da colmare nella critica futura alimentata dalla cultura umanistica. Frattanto Pontano s’impegnava direttamente in un’opera storiografica come il De bello Neapolitano, non privo di influssi sulla grande storiografia del Cinquecento, quasi a completare la serie molteplice delle sue esperienze letterarie secondo l’orientamento universale della Rinascita. 6. La parola ornata e l’impulso poetico Per Cicerone lo stile sommo non può costituire che un momento del linguaggio ornato, in quanto grande è la difficoltà di reggersi su questo «eccesso» di stile, dal quale è facile scivolare nella follia.79 A Pontano non dispiace questo eccesso, quella follia, un nuovo genere di follia che qualcosa potrebbe avere a che fare con il vate della tradizione classica e biblica evocato nella riflessione di Boccaccio sulla mitologia; ma il suo sguardo è rivolto più allo stile che al contenuto mitico. La poesia può costituire un continuum, a differenza dello stile sommo, perché mentre quest’ultimo si reggeva sopra una misura quantitativa, che non poteva sempre rispondere alla varietà della materia, cui la retorica fondamentalmente deve badare, la poesia deve invece mantenere costante l’altezza del suo tono. Sicché, se Pontano sullo schema della teoria degli stili immagina che l’oratoria e la storia partecipino in gradi diversi a quella bellezza ch’è data in sommo grado dalla poesia, come gli stili tenue e medio partecipano di quell’ornato che nello stile sommo si sviluppa in tutta la sua ampiezza, proprio nel caso della poesia si libera da quello schema. Se mediocritas e variatio facevano preferire a Cicerone lo stile medio e un conLIX

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temperamento dei tre stili, la mediocritas non intaccherà, per Pontano, il carattere sublime della poesia che richiede l’eccezionalità del linguaggio e la variatio costituirà non un criterio di contemperamento stilistico, ma una inesausta garanzia di vivezza e novità espressiva. Un metodo essenzialmente retorico, che non gli ha tuttavia precluso la valorizzazione di elementi irrazionali. L’idea del divino a conclusione dell’Actius emerge nelle parole di Iacopo Sannazaro, il poeta per eccellenza. La tradizione degli studi retorici valorizzava l’elemento d’arte più che quello naturale, nonostante ingenium e ars formino un binomio inscindibile. Se Cicerone spiegava la «paucitas» dei buoni oratori con la difficoltà dell’arte, non con la mancanza di uomini dalla tempra superiore, e auspicava l’apprendimento di quel complesso di conoscenze che formano l’oratore, Quintiliano parlava dell’«arte» come del fondamento essenziale dell’oratore, e la risolveva in una dottrina perfezionatrice del naturale eloquio. Pontano trasferisce all’arte poetica questa opinione dell’eloquenza, riducendo a mera arte il lavoro poetico, fino al punto di trovare un limite in Cicerone e in Ovidio, per quel loro occultare l’arte, non farla pienamente brillare nei loro scritti: Has autem res [i vari risultati poetici] omnis praestabit ars ingenio coniuncta et eas perficiet, ac pertinax illa et diligens cura, quae optimo cuique inesse debet artifici quodque pace omnium dixerim […] et Cicero oratorum maximus et Ovidius poetarum maxime ingeniosus nolunt ipsi quidem artem apparere (Actius, 110).

Ma l’arte non è una tecnica da imparare, un esercizio che modifichi, perfezioni una scomposta natura; essa è l’operazione propria della natura umana, è la virtù in cui si realizza l’ingenium proprio dell’uomo. Soltanto nell’arte poetica si rivela in pieno il valore umanamente creativo dell’ars, perché lì soltanto essa è principio e fine dell’operazione umana, mentre nelle altre arti, che si richiamano piuttosto alla pratica, l’ars conserva un carattere strumentale nei confronti di una opposta, o comunque resistente natura. Continuando il discorso sulla cura estrema che dovrebbe risaltare nella poesia, il Pontano riconosce che questo non può approvarsi nelle arti che mirino solo alla persuasione. Nell’impegno poetico invece tutto lo sforzo è finalizzato a che il «carmen appareat etiam admirabile», «ut industria innotescat», «ut celebretur artificium, LX

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dici quoque de me ut possit: eris ab illo alter» («sei tutt’altra cosa», Actius, 111). Al fondo di questa perfino empirica determinazione dei modi per ottenere l’armonia poetica, opera un suggerimento platonico, quello stesso che presiederà ad un filone notevole della speculazione rinascimentale sull’arte, e che potrebbe confondersi con un obiettivo eminentemente formale, se non si affermasse in netto contrasto con lo spirito grammaticale. La regola d’arte è un ideale coltivato nell’anima, non una norma sempre uguale ed esterna. È conforme a quello che per Cicerone era l’immagine ideale della perfezione, cui l’oratoria può più o meno accostarsi, ma che non può realizzare del tutto, quello che era per Dante il volgare illustre e sarà per Bembo la misura lirica petrarchesca. Nelle discussioni riguardanti fatti particolarmente grammaticali e ortografici, l’atteggiamento di Pontano è quello di un umanista: anch’egli rimanda all’autorità degli autori preferiti, all’imitazione dei buoni autori, ma per sostenere il delectus contro la regola proposta dai grammatici, quella libertà di scelta garantita del resto anche dalla tradizione latina. Il discorso non è mai diretto alla definizione esclusiva, ma alla esemplificazione, spesso molteplice, e invoca sempre la sensibilità del lettore, al quale chiede di penetrare nelle ragioni estetiche dell’arte del poeta, delle sue scelte. Nel Charon in maniera burlesca, nell’Antonius in maniera più diretta ma comunque ironica, la polemica antigrammaticale fa parte della riflessione sulla stoltezza umana. Nell’Actius la polemica è rivolta contro i grammatici che difendono con rigidezza i modelli classici, oltre a non rendere gradevole la trattazione dottrinale: all’aridità scolastica del manuale manca la leggerezza e la persuasività che anche l’erudizione dovrebbe adottare. L’humanitas, infatti, coinvolge anche la forma del discorso, che nel caso di Pontano è il dialogo come nel caso di altri critici è l’epistola filologica, il colloquio a distanza. Il problema dell’imitazione accomuna altri eminenti critici contemporanei, come il Poliziano, quando sviluppano in sostanza l’antica teoria dell’arte poetica simile al lavoro dell’ape e quindi fondata su un corredo esistente, ma libera e varia nella scelta. Quel che conta è l’arbitrio del poeta nei confronti della tradizione, il diritto o meno che egli abbia di seguire un’intima ispirazione e di adattarvi le fonti letterarie che ad essa appaiano più appropriate. La discussione riguarda anche in questo caso il modo di applicare il principio d’imitazione, non risponde all’esigenza LXI

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di determinare in che cosa consista l’arte del poeta. Si dice piuttosto che l’arte del poeta ha un suo fine, che il bello è un’idea racchiusa nella sua anima, all’espressione del quale concorrono d’ogni parte i mezzi disponibili dell’arte. Anzi un platonismo di fondo colloca l’idea, il bello, nell’ingenium del poeta, più che al culmine di una estrema elaborazione d’arte. La polemica antigrammaticale di Pontano mette in crisi lo stesso principio d’imitazione. A lui non interessa se Virgilio abbia correttamente seguito le norme dell’imitazione. Nel rispondere al parere dei grammatici sulle scelte di Virgilio imitatore di Pindaro, egli respinge lo stesso metodo di volerne valutare la correttezza, piuttosto che gli esiti rispetto a un ideale risultato di «eccezione»: «Quid causae fuit, quid, inquam, causae cur exponere se Virgilius maledicentiae grammaticorum voluerit cum dicere fluviorum rex Eridanus maluit, quam Eridanus fluviorum rex, quod per versum licebat? An quod aurium pluris faceret voluptatem quam tetricum litteratorum iudicium?» (Actius, 41). Non si pone insomma il problema dell’unità o molteplicità dei modelli, che implica sempre l’esigenza di risolvere, a proposito della poesia, un problema eminentemente retorico, ma si mettono a fronte, assolutamente, la norma e l’eccezione come segni di due interessi diversi, dei quali il primo esclude la poesia, il secondo la realizza. Nell’Antonius la questione era già stata delibata, ma piuttosto sul piano «topico». Il test era già l’opera epica di Virgilio, confrontata con l’ode pindarica sullo spettacolo naturale dell’eruzione vulcanica,80 dove la critica di Gellio e Macrobio viene respinta con interessanti rilievi sulla diretta rappresentazione del fenomeno naturale svolta dal poeta latino al limite di una sorta di realismo, e il riconoscimento della libertà del poeta, sulle ragioni di certe sue apparenti dimenticanze e scelte. Sono le premesse del principio dell’inventività concessa al poeta, sciolto dall’imitazione di uno o più modelli autorevoli, ma sciolto anche dalla norma del cronista e dello storico, soggetti ad altri parametri. Modernissima, anche se espressa entro i limiti della retorica, è la considerazione di una sorta di «non finito» che risulterebbe efficace nella poesia, come lo è stato nel poema virgiliano, proposto ora come esempio di come debba comportarsi il poeta, più che come modello. Non va trascurato il fatto che lo stesso dialogo si concluda con una sorta di esempio di emulazione poetica con il poemetto del Sertorius, carico di reminiscenze virgiliane, ma il più delle volte ascrivibili alla riscrittura e alla pratica intertestuale, LXII

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a cominciare dal senso generale del componimento, esempio di evocazione ironica delle più mirabolanti situazioni epiche dell’Eneide. La forma normale, che i grammatici ritengono debba osservarsi, non viene rifiutata dunque perché risponda ad un deplorevole costume letterario del poeta, ma perché è poeticamente fiacca, priva com’è di quel senso dell’eccellente ch’è proprio della poesia. Il giudizio di Pontano si colora così dei termini più genuini della sua poetica: «Languet enim sic versus sordescitque in ore quodammodo, consideratis praesertim et quae statim praecedunt et quae post sequuntur dictionibus» (Actius, 41). Il giudizio si fonda sempre sulla considerazione unitaria di tutto il contesto stilistico, quello che riguarda la compositio, non su quella di una singola parola o di una singola espressione. Il languescere è proprio compagno di quella tenuitas, che appare tanto spesso il contrapposto della dignitas poetica. Nei termini che lodano la varietà di stile dell’Eneide si defi nisce l’ideale poetico pontaniano. Ma l’Eneide è un esempio persuasivo, non un modello, come non lo era Pindaro per Virgilio. Innanzi tutto la «pienezza» dell’espressione, che solo con l’artificium si può ottenere, in quanto, come si è visto, l’espressione grammaticale, normale, naturale è di per se stessa languida: «Quocirca implere illum maluit artificiosa verborum commutatione». Il risultato di questo artificio, di questa commutatio dell’ordine normale è appunto l’eccezionalità del verso, che non può passare inosservato, ma attira l’attenzione e l’ammirazione: «Hac igitur e commutatione versus ipse redditus est spectabilis, qui aliter ridiculus esset atque abiiciendus». Questo essere spectabilis («nobilis» dirà altrove) è una condizione continua della poesia, non un ornamento particolare, è, possiamo dire, una qualità intrinseca: dovunque essa non si verifichi, dovunque si allenti questa tensione, precipita il verso nel languore e la poesia si dissolve. E basta che si allenti quella tensione, quella «sonoritas» che è acume espressivo, perché la poesia precipiti: «Claudit saepenumero Virgilius plures versus sustinendo sonum illumque remoratur, ne ipsa aut deliqueat sonoritas aut praecipitetur» (Actius, 42). L’ideale della poesia si concretizza in una serie di annotazioni, di indicazioni qualitative, che trovano una loro unità nel senso dell’infallibile e mai deludente grandezza che tutte le assomma. Pontano ha scelto, nel novero delle qualità attribuite nel passato ai testi poetici, tutte quelle che potevano cooperare a stabilire nel verso una condizione di superioLXIII

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rità, e le ha fuse mediante un’altra qualità, che garantiva l’eterna funzione di quelle: la varietà. Infatti dalla numerositas, cui si collega strettamente la varietà, si generano le tre fondamentali qualità che reggono l’eccellenza della poesia, la dignitas, la gravitas, la magnitudo (Actius, 48). Nella numerositas, cui Pontano si riferisce continuamente come la vera bellezza del verso virgiliano, è racchiusa l’estrema cura del poeta: il suo «delectus», la sua opera di scelta della collocatio. E alla collocazione delle parole, la compositio e la dispositio sulla quale si soffermarono i primi teorici del rinnovato gusto umanistico (si pensi al De compositione di Gasparino Barzizza), Pontano dedicava una particolare attenzione, operando inversioni e trasposizione nel rivedere i suoi scritti, e avvertendo l’esigenza di denominare quell’accorgimento ben noto consistente nella ripetizione ravvicinata, incontro e/o scontro, delle lettere, l’alliteratio.81 Il procedimento analitico che permette di scoprire i pregi del poeta mostrando come una scelta diversa nella collocazione e nell’impiego delle parole, pur conservandone il significato, viene sancito in una quantità di esempi virgiliani e perfino in un discutibile esempio tratto delle proprie redazioni della Lepidina (Actius, 104), che non saranno dimenticati da Pietro Bembo critico del Petrarca. Quest’opera di scelta e di collocazione è quindi diretta al fine della admiratio, non tanto a quello della perfezione, che implica l’imitazione, specialmente se pensiamo al Bembo, per il quale la scelta e la collocazione si ispirano appunto ad un criterio di perfezione, pur inteso anch’esso come il termine di un estremo sforzo d’arte. Sicché la meta del Bembo, differente da quella di Pontano che risiede nell’excellentia e nella admiratio, trovava perfetto il tono più smorzato e piano, si direbbe di stile «medio», dominato dal piacevole più che dal sublime. Il bembismo si svilupperà, fino alle soglie del barocco, secondo un ideale di stile che inclina particolarmente alla moderazione, all’equilibrio, compatibile con la perfezione, quello che Pontano avrebbe piuttosto considerato fuori dell’orizzonte della più autentica poetica (altro discorso è che la scelta elegiaca, bucolica ed epigrammatica dello stesso Pontano collochi i suoi carmi, se si escludono alcune parti dei poemi, nel genere medio).82 Così, mentre il concetto di «perfezione», più propriamente platonico di quel che non fosse quello di excellentia pontaniano, sorto dalla stessa esigenza di sollevare la poesia su di un piano di estrema elaborazione, comporta necessariamente un modello, per quanto idealmente assunto, il LXIV

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concetto di excellentia (e quello di admiratio che ne costituisce il fine), nel senso particolare che gli dà il Pontano, richiama essenzialmente quello di libertà inventiva. Perché l’admiratio in tanto si genera dalla gravità, dignità e grandezza, in quanto queste ultime rappresentano una «novità» nell’ordine comune delle cose, e conservano il loro effetto solo se la «varietà» conserva fresche e vive le prerogative di ciascuna di quelle qualità. L’ admiratio, che Pontano pone al culmine della poesia, è in stretto rapporto con la novitas, la capacità contenuta nella composizione del verso, di colpire, quasi di sorprendere il lettore. E per ottener questo innanzi tutto l’arte deve essere scoperta: tanto più colpirà, quanto più essa risalterà nella pagina. Un esempio lo abbiamo nella dignitas, riportata una volta all’effetto che genera dopo uno iato, al quarto o al quinto piede, e così nel sesto, l’esplosione di una sillaba accentata (Actius, 60).83 Appunto questo effetto viene spiegato col fatto che «[…] novitas quasi repente edita delectat per se et assultus ille hinc versum inchoantis, illinc terminantis vocalis suam quoque vocalitatem accumulat […]». «Assurgit», «assultus» sono i modi di quella «novitas», cui è ordinata anche la «sonoritas». Quest’ultima è come l’aspetto più evidente e appariscente della gravitas, una qualità alla quale mai la poesia deve rinunciare e che si sprigiona dal tardo procedere dei versi. La celeritas, ottenuta con successioni di dattili, viene esclusa appunto perché genera il suono acuto, sottile, e il verso corre leggero e privo di interesse all’orecchio dell’ascoltatore. Tale verso è «ignobilis», aggettivo che va inteso, nel suo senso etimologico, come «privo di attrattiva», se il verso che invece genera ammirazione «innotescit» per l’industria del poeta, se vien lodata quella grazia che «orationem insignit», se le qualità proprie della poesia allora sono più poetiche, quando «extant», «apparent». Lo sviluppo particolare che trova in Pontano l’uso e l’interpretazione di queste qualità, appartenenti nella tradizione retorica al genus summum, si spiega col fine della admiratio proposto alla poesia (nemmeno esso, del resto, sconosciuto allo stile sommo, se pur inteso non come fine ultimo, sibbene immediato e secondario). Ma nella pontaniana admiratio (termine che volutamente emula quello volgare di «meraviglia» evitando il più consueto mirum, e riferendosi all’effetto più che al carattere dell’oggetto) è incluso un certo senso di impressione, di commozione, che riscatta quel che di troppo letterario poteva esserci nel concetto della estrema cura stilistica, se non metrica, del poeta. In effetti Pontano non conceLXV

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pisce quelle indicazioni, di cui abbiamo detto, come rivolte alla pura formalità metrica, quasi a ravvivare un qualsiasi verso. La grandezza e novità del verso procedono da una disposizione del poeta a rivolgere l’attenzione ai momenti drammatici della vita o, soprattutto, agli aspetti paurosi, potenti e in ogni modo eccezionali della natura. Se percorriamo gli esempi poetici inseriti e commentati nell’Actius, ci troviamo prevalentemente di fronte alla trepida svolta di una battaglia o all’immagine di una tempesta. Di lì a qualche anno avrebbe concepito il De hortis Hesperidum, un poema georgico sulla coltivazione degli agrumi, attribuendo all’opera umana di abbellimento e trasfigurazione della natura il simbolismo dell’arte poetica.84 Ma già nell’Antonius ritroviamo esempi significativi, che chiariscono l’exuperantia poetarum con l’elenco di espressioni particolarmente ricche di alta emozione, a proposito del passo in cui Virgilio parla della eruzione dell’Etna. Qui, anzi, la polemica antigrammaticale acquista un più evidente significato, perché le esuberanti espressioni virgiliane, censurate dai grammatici per la loro incongruenza linguistica, vengono esaltate appunto in virtù di quella esuberanza, in cui si incontrano lo stile sommo della poesia e la libertà inventiva del poeta. Avviandosi alla conclusione del dialogo, Pontano riprende il problema già toccato circa l’uso poetico di allontanarsi dalla realtà positiva. L’ admiratio era già parsa, allora, la giustificazione di quell’uso e perciò il vero era ovviamente scomparso come misura dell’invenzione: i poeti infatti assumono per le loro composizioni cose «nunc ex parte aut vera aut probabilia, nunc omnino ficta neque veri ullo modo similia, quo admirabiliora quae a se dicuntur appareant» (Actius, 122). Ora è la metafora che offre all’autore la possibilità di chiarire il rapporto intimo che si pone nell’opera del poeta tra il fine dell’admiratio e il vero: «videte, obsecro, quibus veritatem commentis concinnaverit, quo admirabiliora cuncta redderet». La natura, nella sua veritas, offrirà scene mirabili e forti, tali da attrarre l’occhio del poeta, ansioso di grandezza. Ma, quand’egli dovrà esprimere questa sua ansia di eccellenza, adoprerà la sua arte, non imitando la natura e cercando i termini che le convengano, ma rinnovandola nella sua arte e quasi distaccandosi da essa. L’arte si pone di fronte alla natura non come imitatrice, ma come emula, e nell’emulazione scopre la sua superiore qualità, la sua essenza spirituale ed umana, che si riflette nell’effetto di gran lunga più alto cui si possa giungere con la LXVI

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parola, il trasferimento di significato, la metafora. Questo genere di novitas riappare come il principio più tipico dell’arte, in quanto, opponendosi all’ordine naturale, che può essere ora il razionale e il positivo, ora il grammaticale, scioglie il poeta dai vincoli esterni e prepara l’admiratio: «Verba autem ipsa poetae quique vere dicuntur poetae non solum simul compangunt aut ea novant […] verum ea transferunt, nec verba tantum, sed orationem persaepe omnem» (Actius, 203). La poesia didascalica del De hortis Hesperidum, di qualche anno più tardi, sarà fondata sul frutto esotico come metafora di una eccezionale bellezza eterna e assoluta, con un risvolto mitico pari al simbolismo. Il poeta rimane fermo al suo più volte ribadito concetto della poesia, e gli piace descrivere la metafora e la favola soltanto come quelle che danno la misura dell’arte del poeta, della sua capacità di ricreare, e di colpire, assolvendo il solo compito di rendere mirabile il proprio lavoro: «Quin etiam et excessum et superlationem iis verbis persaepe adiiciunt a natura penitus recedentes» (Actius, 203). È naturale che Pontano guardasse sostanzialmente al genere epico e che l’esigenza di adattare ad un contenuto «tragico» uno stile adeguato lo abbia spinto a dare tanto rilievo a quei mezzi tecnici capaci di sollevare il livello stilistico. In effetti i Carmina obbedivano ad una poetica fondata prevalentemente sullo stile elegiaco e su quello familiare dell’ecloga; per ritrovare invece l’applicazione dell’admiratio dobbiamo rivolgerci all’Urania non per nulla citata nell’Actius assieme alla Lepidina, un’ecloga che assume eccezionalmente la misura dell’epica, o all’invenzione straordinaria del Sertorius, che fa rivivere il Virgilio più epico e tragico, sebbene in una gara con quel modello aulico e con la collaterale epica volgare, che genera la lieve e ambigua ironia dell’esagerazione. Sicché l’aver affidato ad Azio Sincero Sannazaro la sua trattazione della poetica, riconoscendo in lui chi aveva sollevato l’ecloga ai livelli più alti dell’espressione volgare e forse già chi avrebbe innovato l’epica mediante la più «grave» tematica religiosa moderna ed un’estrema elaborazione dell’esametro eroico, colloca decisamente l’autore dell’Actius nella storia dell’estetica rinascimentale del sublime. In effetti il discorso del personaggio di Sannazaro a conclusione dell’Actius è un elogio della poesia per la sua mirabile essenza, e se non intende discostarsi da tutta la parte precedente dedicata alla cura e all’arte che LXVII

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il poeta deve usare in funzione dell’ornato estremo richiesto dal genere poetico, è certo un modo di valorizzare il topos dell’ispirazione, dell’irrazionalità e perfino della follia. Questa inclinazione del discorso estetico era emersa appena nella critica virgiliana dell’Antonius a proposito delle irregolarità del poeta epico, cui bisogna permettere invenzioni, incongruenze e apparenti imperfezioni che diventano pregi ad una lettura più sottile, e negli squarci iniziali dedicati al sogno e alle visioni dell’aldilà nello stesso Actius,85 ma è interessante constatare che l’interesse scientifico per l’astrologia e il relativo tema della fortuna, che riguardano propriamente il naturalismo, e potrebbero sembrare il riflesso di un’altra anima dell’umanista, vi corrispondono. Nel riflettere sulle cause «eventizie», in cui consiste la forza della fortuna, è singolare l’indugio pontaniano sull’opportunità di usare termini come «primarie», «primigenie», «principali».86 La considerazione del movimento della natura, della sua causa immediata quale si esprime in un impulso naturale (si ricordi che impulsus o impetus è nomenclatura alternativa usata ripetutamente da Pontano), quello imprevedibile che porta l’uomo al successo, che lo fa nascere disponibile a farsi trascinare dagli eventi che lo favoriscono, e quello altrettanto imprevedibile che è all’origine delle sue propensioni, delle sue passioni, e che equivale ad una sorta di istinto, è il punto che distingue il trattato pontaniano dalla tradizione e spiega nel senso più profondo in che cosa consista, su un piano naturalistico, l’irrazionalità contenuta nella definizione iniziale della fortuna. Il carattere più stravagante di questo discorso di Pontano risiede nell’attribuire alla natura irrazionale, che agisce con impulso e furore, anche effetti eccellenti e originali, mentre sembrerebbe dover condurre alla degradazione, al vizio e alla confusione, dovrebbe essere cioè di ostacolo alla ragione, essendone esattamente il contrario. Concludendo la prefazione originaria al De fortuna con qualche durezza espressiva e ambiguità, Pontano aveva tirato le somme di un discorso paradossale che mostrava come i beni, le disposizioni psicologiche e le scelte artistiche e morali derivassero da fattori istintivi. La distinzione fra razionalità e irrazionalità, fra natura come perfezione e materia come imperfezione, secondo cui ci siano cose perfette che «non provengono dall’impeto, ma procedendo razionalmente e ordinatamente tendono ad un fine, anzi ad un fi ne assoluto, mentre il procedere dei beni di fortuna è irrazionale e i suoi esiti sono casuali, poiché non sinLXVIII

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gole cause, ma più cause insieme concorrono alla fortunatio»,87 sembra rispondere alla consueta distinzione fra due nature, se non ricalcare due modi d’intendere la natura nella prospettiva umanistica, come ordine e come disordine. Si direbbe che la fortunatio, l’opera della fortuna, corra parallela al «perfezionamento» che è opera della natura razionale. In effetti la perfezione di quest’ultima rimane un’ipotesi della scienza, della morale e della religione, diremmo che rimane sullo sfondo, più che costituire le premesse del discorso, il quale comincia vigorosamente, fin dal primo libro, compresa la prefazione originaria, rivalutando lo spazio dell’irrazionale e termina mettendo in serio dubbio la possibilità, da parte dell’uomo, di far vincere la sua ragione. Molto espressiva è, a questo riguardo, la conclusione del trattato con quella sorta di coinvolgimento autobiografico che abbiamo ricordato all’inizio. Più che un’attenuazione delle posizioni estreme, emerge nel corso del trattato il proposito di tenere insieme due posizioni apparentemente contraddittorie, ma entrambe destinate a deludere le attese dell’uomo, la considerazione del fato su cui si fonda la scienza astrologica e la considerazione del caso, cui viene sostanzialmente ricondotta l’azione della fortuna, e che avrebbe una sua identità come «causa», causa efficiente, dotata d’irrazionalità, imprevedibilità e mobilità indecifrabili. Un tentativo di risolvere la contraddizione con un metodo gerarchico, collocando la Fortuna al servizio del Fato, oppure considerando, sulla scorta di Tommaso, la persona umana soggetta alle stelle per quel che riguarda il corpo, agli angeli per quel che riguarda l’intelletto, a Dio per quel che riguarda la volontà, e facendo di Dio l’autorità – per così dire – più permissiva in quanto lascerebbe l’arbitrio della scelta e se ne riserverebbe solo la conoscenza,88 ha più che altro il fine di sostenere il più possibile autorevolmente la dipendenza dell’uomo da una potenza che sostanzialmente gli sfugge. Sembra che Pontano sia combattuto fra la necessità di non smarrire i parametri razionali e la ricerca di una definizione che collochi la fortuna al di fuori di tali parametri, come un modo d’interpretare l’irrazionale che domina nella vita umana, l’insuccesso della ragione e il successo dell’insipienza e della follia, il perché della distribuzione casuale dei beni e delle doti, come dei vizi e delle sventure, comunque del male e del bene, che toccano a chi non lo merita o che non ha fatto nulLXIX

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la per meritarlo. Tutto questo, accanto alla variabilità e all’incertezza, egli chiama «fortuna» e nel trattato si sforza, fra mille condizionamenti ideologici, di trovarle un posto suo proprio, che la tradizione le aveva generalmente negato, un posto attivo, efficiente, che corrisponde ad una causa, un «impulso». Delle due prefazioni che ci sono state tramandate, come si è accennato, la prima entrava in merito a questa interpretazione della fortuna, mentre quella successiva si attarda sul tema encomiastico della prudenza del Gran Capitano che sarebbe stata capace di arginare e superare i mali e le difficoltà della guerra, insomma obbedisce al topos della virtù vincitrice,89 che non è l’argomento proprio del trattato, inteso a scoprire l’irrazionalità del successo, di questa causa efficiente che agisce nella vita dell’uomo dominando sui beni esterni fino a rendere vano, o imprevedibile quanto all’esito, ogni progetto ed ogni proposito, ogni atto fondato sulla ragione, sopravanzando spesso perfino i risultati che sembrano ottenersi con l’arte e con la virtù. Il perché degli eventi, la loro prevedibilità, la stessa scelta dalla quale dovrebbe essere guidata la volontà, scompaiono di fronte ad un mero impulsus, che è contrario alla ragione anche quando conduce ad esiti felici, perfino nella sfera dell’arte e della prassi etica e politica, come si vede in particolare alla fine del primo libro nei capitoli dedicati alla figura stravagante del «fortunato». La prefazione cominciava infatti con un’osservazione quasi provocatoria: Io so benissimo che il desiderio di sapere è stato infuso per sorte dalla natura nel genere umano e così l’abilità e la facoltà della parola, e tuttavia non negherò, senza una dimostrazione, che avvenga o per impeto o per arbitrio della natura che fra tanta infinità di uomini essa abbia concesso a Cicerone una potenza e una ricchezza oratoria così grande da farlo considerare un dio, o identificare con l’eloquenza stessa; e abbia conferito a Platone e Aristotele tanta forza e robustezza d’ingegno, tanta efficacia, tanta capacità di comprendere nella scienza della natura e nella ricerca delle cause, da essere considerati indagatori e maestri unici delle cose oscure.

La questione della priorità dell’esercizio o dell’ingegno quali possibili fondamenti del sapere viene evocata e risolta in favore dell’ingegno,90 ma come fatto di natura, di una natura che si comporta arbitrariamente, e quindi senza ragione e casualmente nel dotare alcuni uomini di eccezionali capacità. LXX

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L’esempio viene esteso alla poesia: È il re dei poeti presso i Latini Virgilio, presso i Greci Omero. Dirai che questo dipende dall’arte, non dalla natura, come se potessi negare che l’arte è nata dall’imitazione di quelle cose che sono scaturite da coloro che la natura ha conformato in modo perfetto per compiere quelle cose in cui l’arte consiste. Come se non fossero stati loro i primi e i migliori maestri delle discipline, che la natura come per un capriccio ha generato e ha istruito insieme, e dopo averli generati li ha educati; li ha sollevati dove voleva, poiché essa in ogni cosa e dovunque è attenta e pronta a compiere quel che vuole.

Il carattere quasi eversivo di quel che Pontano ci dice, presentando il De fortuna in pagine proemiali che forse non per caso verranno sostituite con una dedica di tipo encomiastico più consueto e che non può avere il peso di una conversione, ma solo di una scelta opportunistica del momento, si misura dalla successiva, paradossale comparazione fra l’impulso della natura in quanto fortuna, e la follia che non va valutata con il metro della ragione, tanto che il folle non verrebbe sottoposto a giudizio, in tribunale, per quello che ha commesso.91 Il tema del furore proietta il discorso pontaniano verso sviluppi di notevole importanza della riflessione cinquecentesca. Esso è già implicito nella poetica dell’Antonius e dell’Actius pur sorretta da criteri eminentemente retorici, se pensiamo che la superiorità della poesia rispetto alla storia e all’oratoria è già sviluppata in termini che richiamano il concetto di «sublime» e comunque prevedono il fine della admiratio prossimo a quello di «meraviglia».92 Nel De fortuna quella stessa eccezionalità della poesia, attribuita ad un ingenium che fa parte degli inspiegabili e irrazionali doni della fortuna, è accostata all’impulso, un vero e proprio furore, al quale si affidano le sibille e dal quale vengono come trascinati al successo alcuni uomini senza e talora contro l’uso della ragione.93 7. Un metodo per la storiografia Il primato dello stile cui perviene la riflessione pontaniana sulla poetica va esteso anche alla sua riflessione sulla storiografia, che nell’Actius è rivendicata come una novità rispetto a precedenti solo abbozzati e non sviluppati in un discorso organico. Il vanto ha qualche buon fondamento, come avviene per la poetica, se consideriamo il metodo di offrire LXXI

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da una parte esempi concreti, non regole, di versificazione e di varietà di effetti espressivi, e dall’altra esempi concreti di prosa narrativa e di confronto fra risultati diversi nell’uso dei parametri storici. La profonda trasformazione dell’insegnamento umanistico verso il metodo della lettura diretta dei classici trovava in effetti un ulteriore momento di consapevolezza teorica e una esemplificazione pratica. La distinzione delle arti e dei generi, che sarà compito delle future generazioni del classicismo, si affermava in questo caso senza smarrire una profonda fede nella fondamentale unità delle humanae litterae. E il metodo che garantisce l’unità è implicito nell’impresa di dedicare un dialogo alla poesia e alla prosa narrativa insieme. Il pensiero aristotelico che distingueva la poetica dalla storia, ma su elementi che riguardano l’imitazione e la rappresentazione, ossia il rapporto fra l’uomo e la natura, viene rivisitato nel senso che la loro distinzione si attua all’interno dello stile, del significante. Alle spalle della sistemazione operata dal Pontano dei tre generi (poesia, storia, oratoria) su base prevalentemente stilistica, vi è l’operazione compiuta da Giorgio Trapezunzio di fondere la teoria della molteplicità degli stili trasmessa dalla Retorica di Ermogene di Tarso con la teoria dei tre stili fondamentali, gerarchizzati (alto, medio, inferiore).94 Essa va tenuta presente per intendere la distanza di questo criterio da quello poco prima proposto da Antonio Panormita, e fondato sulla differenza e gerarchia fra gli storici più rinomati dell’età classica, nonché dal criterio diverso affermato da Lorenzo Valla, risalente al 1445-1446, che collocava la storia all’apice delle attività culturali, ed era fondato sul rapporto della storiografia con la cosiddetta veritas.95 Ciascuno dei due interventi, come si è detto a proposito della cultura umanistica presso i re d’Aragona, prelude ad un’impresa storiografica e ne è praticamente la giustificazione, prendendo il posto di quel genere umanistico che possiamo chiamare celebrazione della storia, e sviluppandolo in forma raziocinativa e, quantunque non epidittica, effettivamente apologetica.96 Il fatto che in entrambi i casi si tratti di storie scritte per i regnanti, quella del Valla per narrare le origini spagnole della dinastia fondata in Italia da Alfonso il Magnanimo, sebbene non pervenuta alla sua naturale conclusione con le vicende del regno attuale, e quella del Panormita per narrare le gesta del figlio Ferdinando, interrotta al momento della sua successione che si profi lava travagliata, è una curiosa circostanza che le accomuna, ma che ha comunque lasciato alla storia liviana di BartoloLXXII

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meo Facio la prerogativa di aver celebrato per intero il regno del primo e più indiscusso principe aragonese di Napoli.97 Da una parte una scelta vicina al genere biografico dell’Historia Augusta, dall’altra una scelta di sapore cesariano rappresentano esempi non riconducibili alla linea del Trapezunzio con la sua tesi dell’ottimo Livio. Quel che sappiamo dei rapporti fra Pontano e Panormita ci autorizza a non escludere che il primo conoscesse l’opera mutila (o meglio giuntaci mutila, per quanto ne sappiamo) e conservata in un solo codice dimenticato, qual è il Liber gestarum Ferdinandi regis. Non insisterei sul fatto che per due volte vi si parli di un futuro De bello Neapolitano col quale lo stesso autore intendeva colmare il racconto dell’ascesa al trono di Ferrante, per poter dire che la storia scritta da Pontano con quel titolo si collochi volutamente nella serie delle opere celebrative della dinastia; e non tanto perché il De bello Neapolitano del secondo maestro dell’Accademia non sembra seguire la traccia della celebrazione e non appare il frutto di una commessa regia, quanto perché non si saprebbe come dovesse intitolarsi altrimenti la storia di una guerra che era scoppiata nel regno di Napoli per la successione al trono, se non Bellum Neapolitanum. Ma se si potesse affermare che Pontano si ricolleghi effettivamente alla storia del Panormita, dovremmo ribadire che il suo De bello Neapolitano sia stato concepito almeno dopo la morte del maestro e quindi non subito dopo la fine di quella guerra (1465).98 Egli ha invece presenti di certo le idee del Panormita sulla storia, e se non proprio il prologo della storia gli argomenti espressi nel prologo, che non era necessario per l’umanista vivente alla corte di Ferdinando leggere in quel libro, perché egli poteva ben sapere per altra via l’opinione del Panormita, così largo di esternazioni nel circolo accademico. Non tutte le idee si recepiscono attraverso la scrittura, e nell’Actius c’è un espresso riferimento a discussioni già avvenute fra gli umanisti napoletani. Orbene, l’opinione di Pontano sulla storiografia diverge completamente da quella del Panormita; sembra anzi una critica di fondo alle sue idee, pur ponendosi sulla medesima lunghezza d’onda del problema squisitamente stilistico da esse contemplato. Il Panormita, però, non si chiedeva quale fosse lo stile più conforme alla narrazione storiografica, ma quali fossero gli stili tramandati e quale si adattasse alla propria «mediocrità»: l’argomento aveva una sua sostanza topica di modestia e, dato il personaggio, anche di ironia. Considerata la diversità dei generi, la storia LXXIII

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degli eventi pubblici, la storia degli uomini illustri e la storia universale, e considerata la diversità e la classifica nell’ambito di ciascun genere, ne scaturiva un giudizio che non comportava preferenze o esclusioni: poiché ritengo che la storia – scriveva il Panormita in una cornice tutta cortigiana – «al di là degli altri suoi meriti immortali, sia una cosa umana gradita, amabile e benevola, e che accoglie tutti quelli che le si fanno incontro senza rifiutare nessuno […] sebbene grandi e assai illustri siano nel campo della storia i nomi di Livio, di Sallustio e di Cesare, che sono i sommi, non per questo Tacito, Curzio, Svetonio, di livello inferiore, sono privati dell’onore e del pregio che loro spetta; che anzi perfi no gli uomini umili e quasi di infima condizione riscuotono il riconoscimento e la simpatia che si meritano. Infatti leggiamo Orosio, Eutropio, Lampridio e cerchiamo di conservarli nelle biblioteche». Il criterio della triplice enumerazione, applicato sia ai generi che alle specie, indica un’intenzione tutt’altro che vaga e casuale di costituire un canone, e di segnalare la propria scelta, che in questa prefazione viene dichiarata con l’aria sorniona (in cui si riconosce il personaggio delineato dal Pontano nell’Antonius) di avere abbracciato il modello più modesto fra i sommi, dal momento che la storiografia è così generosa da legittimare tutte le specie, anche le più modeste. È evidente, per chi legge la narrazione del Panormita, che il modello scelto è quello di Cesare, che non era soltanto il terzo fra gli storici di grandi eventi pubblici, al confine con i minori, tutti e tre biografi, ma anche quello che Cicerone aveva escluso dal canone rigoroso degli storici per aver egli scritto con eleganza, ma con una semplicità non propriamente degna di un genere così retoricamente impegnativo, una serie di «commentari» e cioè di appunti su eventi contemporanei destinati ad un futuro storiografo propriamente detto.99 Cesare aveva trattato infatti una specie vicina alla biografia, cioè al secondo grado del canone segnalato, anzi quasi un’autobiografia, parlando oltre tutto di vicende contemporanee e perciò non ancora passate al vaglio, e sollevate dall’autorità, del «tempo». Che poi la scelta cesariana avesse un’altra faccia, perché richiamava per un umanista la dignità del monarca e il sistema principesco, tanto da essere il prediletto da parte di Guarino e del principe di Ferrara, è cosa che con sensibilità squisitamente politica riusciamo a inquadrare meglio dei contemporanei stessi, specie attraverso l’esemplarità della famosa disputa quattrocentesca, implicita già in Petrarca, sulla superiorità di Cesare o di Scipione.100 LXXIV

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Pontano prendeva le distanze dalla scelta cesariana di chi lo aveva preceduto a capo dell’Accademia e citava espressamente Tacito e Curzio come non adatti, per più ragioni, ad essere assunti a modello, nonostante ben riconoscesse i loro pregi, forse anche distratto, nella ricerca dell’ottimo e del perfetto, dal fatto di vederli come statue mutilate e quindi incompiute per un lettore alla ricerca di un modello esaustivo (Actius, 193-194). A maggior ragione prendeva le distanze dal Valla, dal quale lo dividevano anche altre ragioni. Tutto fa pensare anzi proprio ad una sua risposta polemica che incide sul criterio usato dal Valla autore delle gesta di Ferdinando d’Aragona, un criterio anch’esso tassonomico e ternario, ma non basato sulla supremazia dello stile. Questo scarto da parte del Valla rispetto al più comune criterio umanistico comportava un concetto di fi losofia come pensiero astratto e di poesia come favola, laddove la filosofia morale veniva recuperata da Pontano come parte integrante del giudizio storico e la poesia come dispensatrice di bellezze necessarie alla dignità anche della narrazione storica. Eppure il Valla, nel fare la comparazione fra le arti della scrittura («confronterò dapprima i poeti con i filosofi, poi con gli storici, infine questi con i filosofi»), dava senz’altro la palma alla storia perché «lo storico narra solo chi sia stato questo o quell’uomo, come Tucidide che raccontava le imprese di Pericle, di Lisandro e di parecchi altri del suo tempo», piuttosto che narrare favole o speculare astrattamente, ma non partiva da un ingenuo postulato. Egli valutava acutamente proprio la «difficoltà» della ricerca, e partiva da un fondo di salutare scetticismo che gli faceva vedere anzitutto gli ostacoli nei difetti in cui potevano incorrere gli storici: «Quanta onestà e quanto equilibrio sono necessari in questo impegno per evitare di cedere all’odio, all’invidia, al terrore, e d’altro canto alla gratitudine, alla speranza, alle preghiere, all’adulazione, all’autorità; soprattutto quando tratti dei ricordi tuoi personali, e di eventi accaduti di recente, di persone con le quali sei in relazione, o dei loro parenti o amici, cosa nella quale certamente gli storici debbono anteporsi a poeti e filosofi». Abbiamo la più evidente eredità del discorso di Luciano, che dimostrava la difficoltà di questo equilibrio e distacco dopo aver messo da parte, appunto come Valla, gli storici cialtroni che vanno per vie diverse lontano dalla verità positiva. La difficoltà della ricerca, che è il criterio con cui Valla distingue fra le arti, e comunque ne definisce la differenza (è più facile ragionare e inLXXV

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ventare che rispecchiare), nasconde quello che gli umanisti, derivando il problema dalla tradizione retorica, sottintendevano o consideravano un’ovvia precauzione, il fatto che la res non possa prescindere dalla veritas. Per Valla la veritas non è quella tramandata, ma quella da scoprire, che può essere perfi no inconoscibile, e comunque è resa incerta e oscura dagli idola, esterni e interni al ricercatore, se vogliamo usare una terminologia di là da venire. Preoccupazione, questa, non ignota a qualunque storico, ma se il fi ne principale della storia è la conoscenza al fi ne di imparare, commuoversi e dilettarsi, la sua essenza è nella narrazione e il suo equilibrio non è solo nell’evitare l’elogio e la denigrazione, nel giudicare serenamente, ma nel distinguersi dallo stile della persuasione, che è dell’oratoria, e dallo stile dell’eccellenza, che è della poesia. Anche Pontano procede per confronti fra i generi, ma nella scelta specifica di tre fra le qualità ermogeniane segnalate dal Trapezunzio come adatte sia pur non precipue della historia (brevitas, celeritas, claritas, dignitas, facilitas, lenitas, magnitudo, plenitudo, pulchritudo, varietas) dimostra, specie nel valorizzare la celeritas, un gusto particolare, una propensione a far emergere nel confronto e nell’esemplificazione lo stile storiografico per lui più tipico e forse a lui più caro, che è quello di Sallustio.101 Alla radice dell’Actius c’è una oscillazione fra il sistema di Ermogene della molteplicità delle forme e il sistema classico della tassonomia stilistica, perché mentre il ritmo poetico è un elemento proprio della poesia e del suo fine, che è la meraviglia, la storiografia nella comparazione con l’oratoria che appartiene ad un livello inferiore e con la poesia che appartiene ad un livello superiore, da una parte si distingue per le res e i verba propri della narrativa, dall’altra partecipa dell’uno e dell’altro livello, in quanto è anche ricerca di dignità e di eccellenza espressiva. Infatti viene recuperata a proposito di Livio la famosa opinione ciceroniana che vede la storia confinare con la poesia, e tuttavia si preferisce Sallustio per la sua maggiore identità di storico; viene recuperata per la storia la formula delle tre classiche finalità della poetica (docere, movere, delectare), viene generalmente distinta la storia dall’oratoria102 e allo stesso tempo riconosciuto all’oratoria un posto ragguardevole nella composizione di quelle parti che rappresentano il parere dei protagonisti, lo scontro delle opinioni e le intenzioni dei condottieri. Ma se Trapezunzio aveva stigmatizzato chi non riteneva che Cicerone avrebbe potuto essere uno storico perfetto per lo stesso fatto di essere perfetto nell’oratoria,103 Pontano, LXXVI

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pur riconoscendo la centralità, nella storiografia, di una tenzone oratoria come quella sallustiana fra Cesare e Catone (Actius, 169), è ben lontano dall’uniformare la figura di Cicerone a quella di uno storico. Sfruttando anche il sistema dialogico di distribuzione delle parti, Pontano evitava una trattazione pedissequa, ma il piano della discussione ha una sua logica dimostrativa che mette in evidenza proprio l’intenzione di distinguere e di accorpare, che è un ben noto metodo dialettico impiegato anche nel dialogo. Al centro figura l’esposizione delle qualità più tipiche della storia, la brevitas e la celeritas; nella parte precedente, anche perché collegata con la trattazione del ritmo poetico, figura il debito che la narrazione storica, specialmente nella cura dell’incipit, ha verso il poema epico; nella parte finale si esamina la collusione fra l’oratoria e la storiografia e infine, affidata al personaggio di Sannazaro, la celebrazione della poesia, originaria creatrice dell’arte e della lingua, depositaria delle bellezze alle quali ogni arte attinge secondo il suo fine. Un gioco di differenze e di sconfinamenti che ha alle origini la considerazione classica degli stili come finitimi e l’esaltazione ciceroniana della storia come poesia in prosa o dell’oratoria come fondamento di tutte le arti della parola, ma nel quale proprio la dimensione stilistica permette di introdurre elementi concreti d’identità. «Brevità»,104 e specialmente «celerità», che rispondono all’esigenza fondamentale e originaria della narrazione come quella capace di racchiudere nel breve spazio della parola la lunghezza dell’azione, distinguono la storiografia dall’amplificazione che accomuna, pur in comportamenti diversi, l’oratoria e la poesia, entrambe bisognose di arricchire il discorso per ottenere la persuasione e l’ammirazione.105 La medietas della storia, che col suo fluire limpido e gradevole equivale all’arte della narrazione modernamente intesa come informazione che commuove l’animo e lo allieta, scaturisce da un complesso di suggerimenti tradizionali, ma soprattutto da un’attenzione tutta pontaniana alla definizione dello stile che ne assicura la tipicità. Di qui anche quelle brevi, quasi sfuggevoli, ma puntuali osservazioni sullo stile di Sallustio, dove la celeritas viene distinta inequivocabilmente dall’amplificazione di Livio. Fermo restando che lo stesso criterio ermogeniano non permetteva di ridurre lo stile all’applicazione di una singola qualità e di escludere mescolanze, alternanze, collegamenti. Ecco perché sarebbe più fruttuoso vedere fino a qual punto Pontano nella sua opera storiografica abbia seguito questa traccia stilistica, che LXXVII

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osservare come egli abbia ottemperato in pratica alle tradizionali norme del racconto storico, alle quali non poteva sfuggire. La descrizione dei luoghi, infatti, le retrospettive sulle cause, gli indugi sulla storia delle città e su eventi trascorsi o concomitanti, su aspetti descrittivi o riflessivi, appartengono all’arte della narrazione, e trovavano già nel Trapezunzio un espresso favore, accompagnato da un invito alla moderazione, ma proprio in vista della gradevolezza del racconto, compito specifico dello storico. Lo stesso atteggiamento che è sembrato oscillante nella rappresentazione del re, non va ricondotto a ragioni ideologiche o all’adesione alla presunta realtà dei fatti, ma al modo di adeguare le notizie di cui l’autore dispone ad un racconto vario e interessante, con una sottile intenzione etica, che emerge efficacemente alla fine, quando si dice che Ferdinando fu grande nella guerra, ma a lui mancavano le doti per governare la pace. Una manifestazione di equilibrio, sostanzialmente, e di distanza narrativa nell’evocare un momento eroico e felice, e perfino nell’enunciare con pacatezza, senza amarezza satirica e quindi senza rischiare di contraddirsi, un esempio positivo di fortezza, accanto ad un esempio di governo discutibile. Il senso, si direbbe il succo del racconto, è proprio in quella problematica sentenza finale, che rende superflua la ricerca della collocazione cronologica dell’opera storica: Adunque in questa città Ferdinando, una volta ritrovata la pace e aggiustate le cose come voleva, regnò oltre trent’anni, avendo frattanto condotte con fermezza molte guerre intraprese a sostegno di alleati e amici, e avendo espulso dall’Italia mediante l’opera attiva del figlio Alfonso anche i Turchi che con assalto improvviso avevano occupato Otranto e buona parte del Salento. Che se con le arti con cui all’inizio si era procurato il regno, lo avesse tenuto in pace e tranquillità, come fu ritenuto sommamente felice, così sarebbe stato annoverato fra i principi migliori.106

Che l’autore del De bello Neapolitano fosse anche autore di una teoria storiografica impegnata sul piano della più moderna riflessione sulle forme della scrittura, e consapevole di lanciare una novità, comunque questa voglia giudicarsi fra un secolo che aveva visto la nascita della storiografia civile e un secolo che dà inizio alla storiografia moderna, ha fatto nascere ovviamente la curiosità di stabilire il loro rapporto cronologico. La notizia data dallo stesso Pontano che l’opera storica fosse in LXXVIII

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LA RINASCITA DEL LATINO

dirittura di arrivo, pronta per offrire qualche esempio della sua composizione, nel penultimo anno del secolo, non permette, a mio parere, di andare oltre la ragionevole constatazione che i modelli antichi di Livio e Sallustio, che Pontano invitava a leggere nell’Actius mediante e al di là dei suoi excerpta, fossero a lui presenti durante l’elaborazione della storia napoletana, e anzi costituissero un incentivo ad entrare con loro in gara. Nei primi anni Novanta Pontano tirava le somme del suo impegno naturalistico concludendo il «poema» astrologico; negli anni successivi tirava le somme di un’esperienza storiografica che confluisce nella storia di un evento drammatico ed esemplare del Regno, ora che quell’evento era passato e poteva affrontarsi, come insegnavano concordemente sia autorevoli riflessioni antiche, sia esempi come quelli della storia di Catilina, di Giugurta e delle guerre puniche nelle mani dei più grandi storiografi latini, ma come proprio il disimpegno dalla pratica politica ora permetteva o suggeriva di fare all’umanista. È interessante osservare, conclusivamente, che il lettore di Plutarco, quale si era manifestato pur nella rivisitazione ludica del Sertorius, certamente intento in quegli anni conclusivi a raccogliere nel De sermone, sia per una trattazione teorica che per una sperimentazione diretta, anche il materiale per l’illustrazione del racconto breve, trovasse il modo di teorizzare e di praticare la più classica forma narrativa, la storia, esaltandone le qualità più tipiche, la varietà, la brevità, la velocità.

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Nota bibliografica

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INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

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INTRODUZIONE

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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NOTA BIBLIOGRAFICA

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INTRODUZIONE

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Giovanni Gioviano Pontano I Dialoghi La fortuna La conversazione

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I Dialoghi

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Charon Caronte Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

L’antichità ha tramandato due figure sostanzialmente positive di Caronte, nonostante il suo profi lo di personaggio infernale e di burbero barcaiolo, l’una come esecutore della giustizia verso le anime dei morti che giungono nell’aldilà, nel libro sesto dell’Eneide virgiliana, l’altra come visitatore del mondo terreno con l’esperienza del regno dei morti, demistificatore delle vanità umane, nel famoso dialogo di Luciano, destinato ad una lunga fortuna umanistica fino almeno ad una riesumazione da parte di Erasmo, sollecitata proprio dal dialogo di Pontano. Dante nel libro terzo dell’Inferno aveva riprodotto la figura virgiliana insistendo sulla burbanza del suo comportamento, la coscienza del suo mestiere e perfino l’obbedienza al volere divino. Pontano accentua l’ironia lucianea e la saggezza comunque insita nella figura dantesca, facendogli pronunciare inizialmente una massima sull’inutile speranza degli uomini, e recitare la parte di un paziente e talora impaziente spettatore delle loro stravaganze. Il livello complessivamente comico di questo primo dialogo pontaniano, che si distingue nella letteratura umanistica per la varietà e ricchezza delle sue sfumature e per essere una testimonianza, si direbbe, completa della personalità culturale dell’autore, con la sua propensione ironica fino al riso, la sua cultura astrologica e fi losofica, la sua satira e disposizione pedagogica, si esprime anche nell’alternanza fra facezia e compunta riflessione morale. Erasmo, riprendendo la mitica figura infernale nel suo Caronte, ne scartò il registro comico (del resto non apprezzò nel pur molto stimato Pontano le forme di trasgressione), ma ne colse la polemica contro la guerra e la violenza che impediscono la realizzazione dell’ideale irenico. 7

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CARONTE

Mentre tutto il Caronte rivolge l’attenzione all’attuale mondo degli uomini riflesso nel contesto infernale, la prima scena ci presenta due personaggi di un mondo passato in un’atmosfera di immobile idealità. Minosse ed Eaco, approfittando del loro tempo libero (un breve periodo di pace sulla terra ha fatto giungere poche anime da giudicare nel regno dei morti), riflettono sulla loro privilegiata condizione, e, coscienti della propria saggezza, considerano il modo migliore di impiegarla e di realizzare così l’armonia di otium e negotium, di interessi speculativi e pratici, in cui veramente consiste la sapienza. Le parole di Minosse con cui si apre il dialogo hanno il sapore delle vetuste massime: «Qui magistratum, Aeace, gerunt, iis nunquam sine negocio ocium esse debet». La risposta compunta di Eaco sottolinea la prudenza di questa riflessione e fa l’elogio della vecchiezza, come l’età più opportuna all’esercizio delle arti dell’animo. La ripresa del concetto ciceroniano dell’otium, attribuito nel De officiis a Scipione («nunquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esse», «egli non si sentiva mai meno ozioso di quando era ozioso, né mai meno solo di quando era solo»), ha in questo colloquio una funzione particolare: Minosse ed Eaco rappresentano appunto l’antica saggezza, sicura delle proprie forze e fiduciosa nell’armonico incontro fra la vita contemplativa, la scienza del bene, la vita attiva, la realizzazione della giustizia. L’identificazione della sapienza con la vecchiezza (un motivo particolarmente caro al Pontano anche quando dovrà scherzarci sopra), e a sua volta l’identificazione della vecchiezza con la funzione «politica» («magistratum genere»), ci conducono al concetto di «sapienza» come «prudenza», all’attività pratica di chi riesce a moderare gli altri perché intimamente «moderato» egli stesso. L’argomento preferito dei due eletti personaggi, quando discutono fra loro, è sempre il motivo della saggia e prudente vecchiezza del De senectute ciceroniano. Nel loro secondo colloquio, prendendo lo spunto dalla prova di cultura data insperatamente da Caronte, Eaco cerca di scagionare la vecchiezza dal limite che generalmente le si attribuisce. A Minosse che si rammaricava del fatto che Caronte troppo tardi si fosse dedicato alla filosofia, egli risponde che nessuna età è abbastanza tarda per apprendere; che anzi gli anni pongono l’uomo in una condizione di privilegio (III 9). In realtà fra Minosse ed Eaco si rivela una divergenza di opinioni riguardo alla condizione privilegiata della vecchiezza; ma, come 8

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NOTA INTRODUTTIVA

accade nell’eletta conversazione umanistica, si tratta di due opinioni che concorrono armonicamente a costruire la verità, o una probabile verità, mediante l’eliminazione degli eccessi e dei possibili errori. Eaco è difensore ad oltranza della senilità, sospettoso verso l’impeto e l’irrazionalità dei giovani («Maior est in illis impetus, ratio imperfectior»), e si spinge perfino ad ammettere nell’uomo la potenzialità della sapienza infinita, proprio in base alla considerazione che la sapienza cresca in ragione diretta della vecchiaia. Solo il limite di tempo cui è soggetta la vita si oppone (ed in ciò sarebbe stata provvidenziale la natura) all’attuazione di quella potenzialità. Minosse, rivelandosi più cauto nel constatare la debolezza dei vecchi, ma d’accordo nell’identificare la sapienza con la vecchiezza, vede realizzarsi nella vita umana quel che avviene nella natura vegetale, dove i frutti provengono dai fiori. Sicché la sapienza, frutto di una giovinezza ben spesa, non ha nulla da rimproverare alla natura che le ha posto un limite: esiste un momento in cui le forze dell’uomo, sviluppate al massimo della loro potenzialità, non possono che interrompersi con la morte. Il regno dei morti è la testimonianza dei limiti dell’uomo e del suo destino. Ma è anche il luogo dove finalmente tutto ciò si rivela. Le opinioni divergenti dei due saggi si compongono nella comune fiducia e approvazione di fronte all’ordine dato dalla natura. L’inopportunità che l’uomo raggiunga la sapienza perfetta, come ritiene Eaco, e l’opportunità che l’uomo cessi di vivere quando tutte le sue energie abbiano ottenuto quello sviluppo che solo potevano ottenere, costituiscono due punti di vista differenti di una medesima concezione dell’uomo, morale l’uno (che preserva l’uomo dalla superbia), logico, o teologico, l’altro (che distingue il finito dell’uomo dall’infinito di Dio). La natura umana consiste proprio nel limite posto al suo perfezionamento, soggetta com’è alla fortuna e alla morte, per cui il suo destino non è la conoscenza infinita dell’universo, ossia la sapienza in senso assoluto, ma la prudenza, ossia la capacità di valersi dell’esperienza degli anni giovanili e della matura riflessione dell’età avanzata per l’acquisto della giustizia e della moderazione. Due uomini politici infatti, Solone e Catone, sono i simboli storici della virtù e della sapienza, che è nella maturità degli anni e nel loro uso opportuno. Perciò il secondo colloquio fra i due austeri personaggi si conclude con la condanna della vanità degli uomini che sprecano il tempo in vili preoccupazioni ed accusano la brevità della vita. Si riapre così la discussione sulla insipienza dei moderni, che non conoscono la 9

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ricchezza della vera vecchiaia: è il sogno, caro agli umanisti, dell’antichità perfetta, avvertita come ideale ed eterna perfezione. Ma Minosse ed Eaco, che rappresentano quel sogno, sembrano come estranei alla vita che incalza con le sue meschinità ed i suoi pericoli, e non sanno opporre che il ricordo di un mondo, il loro mondo, regolato e perfetto. È già impostata la problematica opposizione fra antichi e moderni in cui cova la crisi del Rinascimento. Tanto gravi sono le parole e seri gli argomenti di questo eletto colloquio, da sfiorare l’ironia. Il loro compunto sentenziare, il loro modo cortese di approvare come ben detto quel che l’altro dice, insomma la loro imitazione del dialogo dotto riceve un certo colore nel confrontarsi con la rozza espressione di Caronte, col «verace» e spregiudicato parlare di Mercurio, divinità divenuta esperta attraverso il suo continuo commercio con gli uomini. Il mondo rimasto nel ricordo di Minosse e di Eaco, vecchio e austero quanto loro, oltre ad esser dominato dalla «prudenza», riceve direttamente la cura della provvidenza divina, che avverte con i segni astrologici l’uomo, perché egli possa esser pronto a premunirsi dai mali. Nelle parole dei due si riflette un ottimismo che va dalla normale affermazione cristiana della misericordia divina, alla fiducia nella bontà della natura e nell’utilità dei celesti segni premonitori. È interessante che proprio in questo dialogo sia confutata da Mercurio la possibilità e l’utilità di prevedere il futuro e che proprio questa ultima soluzione costituisca un vivo motivo di riflessione per il Pontano maturo, mentre la prima, accolta come la più ortodossa, perché richiesta dalla provvidenzialità divina e dal principio della armonia fra Dio e la natura, rimanga spesso un postulato, un ideale punto di riferimento di fronte allo scomposto ed imprevedibile movimento delle cose. Pontano non mette a confronto le due soluzioni, né possiamo pretendere da lui una discussione fi losoficamente radicale: qui, come altrove, esse vivono ambedue, separatamente, ciascuna provvista di una sua teologica giustificazione, vere entrambe, l’una, appunto, nel mitico mondo perfetto dei due classici personaggi, l’altra nel mondo turbinoso attuale, dal quale giunge messaggero Mercurio (IV 11-VIII 34). E infatti i due personaggi sono avvolti da un’atmosfera idillica. In un momento di pausa essi appaiono su uno sfondo da egloga pastorale, soddisfatti del grato e dotto conversare, ma paghi soprattutto della serenità e del silenzio che offre loro la condizione di sopravvissuti. Il momento in cui si colloca nell’Ade questa conversazione è particolar10

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mente disastroso per l’umanità, una guerra cruenta e spietata, che ha sovvertito la naturale legge della ricerca del piacere e del rifiuto del dolore. La guerra è un assurdo sovvertimento di valori, ma più di ogni altra folle questa guerra suscitata dai sacerdoti, che dovrebbero attuare la volontà divina (VIII 23). Una guerra del genere è il simbolo della decadenza del genere umano, che ritorna alla barbarie dopo aver conosciuto una splendida civiltà, che è precipitato nella follia, dopo aver conosciuto la saggezza. La concezione della decadenza storica, forse particolarmente suggerita dalla lettura di Sallustio, (ampiamente documentata nell’Actius), anche lui stupito spettatore delle nefandezze di un mondo decrepito, rappresenta in Pontano il modo con cui si definisce in lui la coscienza della turbinosa scena del mondo, nella quale debba inserirsi l’uomo, con la sua aspirazione alla felicità e alla pace. Una concezione «umanistica» della vita, che ama trasferire in un mondo passato, non nell’aldilà, le sue più grandi aspirazioni, il suo difficile sogno di armonia e di virtù. La conquista di quel mondo perduto si prospetta come una riconquista, una difficile riconquista, che pare possa realizzarsi soltanto nella interiorità dello spirito, in quell’atteggiamento di accettazione e insieme di distacco di fronte al mondo esterno, e di dominio su se stessi, in cui consiste la sapienza. L’approfondimento dei temi della «fortuna» e della «prudenza», nei trattati ad esse dedicati, farà scivolare il discorso sull’arte politica, la quale consente l’uso proficuo della discrezione, pur senza assicurare il dominio del mondo esterno. I due temi, illusione e disperazione, ovviamente e variamente collegati fra loro, perché la sofferenza induce il desiderio e quindi la speranza che può essere fallace, e trasformarsi in illusione che può essa stessa a sua volta diventar sofferenza, quale disperazione in senso etimologico, sono paralleli nell’etica cristiana e nella sua riscrittura classicheggiante come quella del dialogo pontaniano. L’interrogativo circa la sorte umana, posto in modo così verace da Caronte, rimane il sottinteso dell’intero dialogo. Alla fine lo stesso Caronte, dopo aver fatto un’esperienza molteplice della desolata condizione umana, finalmente, per aver ascoltato le sagge e insolite parole di un’ombra, esclama con quel suo fare ingenuo ed impetuoso: «Ac, per Plutonem, oratio ista hominum expressit felicitatem» (XII 56). Sono le ultime parole del dialogo, prima che i versi conclusivi, ispirati ai canti funerari del rito religioso, ci riconducano all’immaginaria scena infernale. Il problema della felicità, 11

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impossibile ma comunque affidata a quel po’ di sapienza che l’uomo riesce a ritagliarsi, è strettamente connesso, come quello della speranza, con quello della fortuna. È l’incostanza ed imprevedibilità della fortuna a rendere inutile la speranza, a provocare la disillusione, il dolore, e a suggerire a Caronte la dotta riflessione che lo fa apparire in una luce del tutto nuova ai giudici infernali, meravigliati di trovarsi di fronte ad un barcaiolo istruito in filosofia. «Quaenam sunt ista, Charon?», esclama allora Minosse; dopo di che il dialogo pare allontanarsi dalla proposizione iniziale, e invece vi ritorna appunto con l’accenno alla fortuna signora delle cose. La considerazione di Caronte sembra essere marginale: così almeno il nocchiero fa capire ai giudici impressionati della novità. Egli aveva atteso invano, come loro, l’arrivo di qualche morto da trasportare, per aggiungere qualcosa all’erario di Plutone; si era ingannato nella sua speranza; come doveva essere infelice la condizione degli uomini che vivono sempre di speranza, se questa gli si è rivelata così fallace! (I 3). Questo modo d’introdurre una riflessione fondamentale quasi incidentalmente è in parte un modo tradizionale nella tecnica del dialogo, in parte è dovuto, come si vedrà, alla coerenza di questa curiosa figura di Caronte, che semina la sua «filosofia», in realtà un buon senso nutrito di esperienza spicciola, fra le pieghe del rozzo discorso (qui pare che tutto il suo interesse sia rivolto al guadagno), ma risponde soprattutto alla spigliatezza del dialogo pontaniano, che ama più collegare a distanza, attraverso allusioni e richiami, le idee, che collegarle in un discorso organico. Il problema della felicità e quello della speranza ad esso strettamente collegato vengono ripresi, oltre che nella conclusione del dialogo, in quello che potremmo chiamare il suo centro ideale, ossia il discorso fatto da Mercurio sulla inutilità della previsione del futuro e, sostanzialmente, sulla impossibilità di ogni previsione. Anche questa volta il discorso capita «per caso»: Mercurio, enumerando i casi di stoltezza umana sperimentati nel suo ultimo viaggio sulla terra, si lascia sfuggire che gli dei hanno fatto bene a togliere all’uomo la conoscenza del futuro, per non aggiungere ai mali presenti il timore di quelli che potrebbero avvenire, ed è indotto a spiegare perché mai gli dei lo abbiano fatto. La discussione, che sembrerebbe il frammento di una questione astrologica, esplica il pensiero formulato da Caronte nelle sue prime battute, guardato solo da un altro punto di vista. Il nocchiero infernale aveva parlato di infelicità causata 12

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dalla vana speranza di bene, aveva ribadito la «incertezza» della fortuna ed aveva concluso con la constatazione della stoltezza umana che si affida a quella incertezza. La «lezione» di Mercurio ha invece una pretesa teologica, ma in certo qual modo pagana, una risposta al tema dibattuto dall’etica sulla paura della morte e l’angoscia della vita, e intende spiegare la provvidenzialità del volere divino, che ha posto l’uomo nella incertezza, perché non si abbandonasse, conoscendo in anticipo il buon esito di una circostanza, né si scoraggiasse conoscendone l’esito disastroso. Ma la volontà divina appare, in questo discorso, un modesto rimedio ad una legge più potente della stessa divinità, che è l’inesorabilità del fato (VIII 25), equivalente all’incertezza dell’evento casuale nei riguardi della mente umana. Gli eventi, ancorché casuali, non possono che essere necessari, quando si siano verificati, cioè quando sono effettivamente conosciuti. Anche Mercurio, come Caronte, tocca con particolare riguardo l’incertezza della fortuna («ab omni procul ratione seiuncta, incerta, inconstans») e finisce col parlare della stoltezza degli uomini che si mettono ad indagare il futuro, trascurando i limiti della loro natura, il loro officium, che solo potrebbe dar loro soddisfazione. Il discorso verte insomma sui limiti dell’humanitas, più che sulla sua potenza, e si dispone fra la considerazione etica di uno stoicismo moderato, non vincente, al limite del pessimistico, e una considerazione antropologica e realistica. Ma l’identità della figura mitica di Mercurio non è estranea a quella di Ermete Trismegisto, rivelatore di verità superiori. Il suo discorso investe anche la questione astrologica ed ha, come abbiamo già detto, delle pretese teologiche, che Pontano riprenderà nella riflessione sulla fortuna, la quale affronta appunto il motivo della difficile condizione umana, abbandonata al buio dell’incertezza, ed indica la stoltezza dell’uomo nella mancata coscienza dei propri limiti, che è poi la radice della sua infelicità. Le beghe, i litigi, gli inganni, i mali che gli uomini procurano agli altri e a se stessi sono considerati quali segni di una barbarie che l’uomo porta dentro di sé, e che solo la cultura e la riflessione, la civiltà insomma, riescono a domare. La varia rappresentazione dei difetti degli uomini segue ovviamente il tradizionale criterio morale, con la conseguente indicazione dei «peccati» dell’anima secondo le categorie teologiche; ma, a guardar bene, il vero peccato è nella stultitia, nella amentia, nella immanitas, ossia nel rifiuto della norma umana, cui Pontano dedicherà uno degli ultimi trattati morali. All’incontinenza bestiale è pari l’uso volgare 13

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dell’intelligenza, della rudimentale ed imbarbarita scienza dei grammatici, della ottusa credenza popolare, per la quale non c’è in queste pagine alcuna commiserazione. Ma questo discorso, fatto di informazioni sulla condizione umana di cui l’uomo stesso ha colpa per le sue cattiverie e frivolezze, ha un momento di pausa nelle brevi scene VI e VII, che raccontano la passeggiata di Caronte e Mercurio in un paesaggio idillico, immaginato nell’Ade. Il tema della pausa fra occupazioni faticose è un altro motivo ricorrente nel Pontano, che concepisce anche la poesia, e lo stesso conversare del dialogo come un rilassamento dello spirito. Dopo questa pausa, dove allo scherzo della sofisticata nomenclatura floreale dell’aldilà si aggiunge l’altro, carico di sensi satirici, di contrapporre alla terra dei viventi la terra dei morti, il dialogo procede non più col racconto delle bestialità degli uomini ma con la rappresentazione dialogica di alcuni esemplari di stoltezza, filosofi e grammatici. Del resto già il racconto delle catastrofi naturali, che non hanno luogo nell’Ade, aveva un segno minaccioso per i viventi, ma un segno ironico per i lettori, che notano il capovolgimento comico dato da una sorta di utopia collocata in un aldilà che è un giardino, ma non propriamente paradisiaco. Le scene che seguono, dopo una ripresa del discorso sulla progressiva decadenza del mondo (Charon VIII), soprattutto per via della superstizione, paradossalmente, ma anche ambiguamente, nominata da Eaco già nella scena II come politicamente utile, contengono una serie di incontri diretti con figure simboliche della degenerazione morale (Charon, IX, XI). I cinici che hanno frainteso la norma del vivere secondo natura, comportandosi in modo stravagante e miserabile, e i grammatici che non capiscono i limiti dell’erudizione e della norma linguistica, fino a dare spettacolo col loro battibecco, e a picchiarsi. Il registro buffonesco delle scenette muove ovviamente, il più delle volte, dal gusto dell’eccesso risibile, più che dalla satira risentita. Ma un giusto dosaggio dei registri induce Pontano a interrompere questo spettacolo buffonesco con un altro di quegli squarci riflessivi (Charon, X), in cui il ragionamento fra i personaggi principali si fa disteso ma pensoso, facendo emergere alcuni dei temi più scottanti della scena politica contemporanea, e sensibili per l’animo di un umanista, come la perdita della libertà della Grecia e il pericolo turco. Offrendo con il suo dialogo dei morti uno specchio dell’umanità, e quindi dando organicità all’apologo, Pontano ha costruito la scena finale come 14

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una sorta di campionario di tre religiosi laidi, un cardinale, un frate e un prete che abusano rispettivamente di una prostituta, di più concubine e di una vergine, e di due laici, un toscano e un umbro, l’uno scherzoso e gioviale, ma prudente e attento a difendersi dalle noie della vita, l’altro tutto serioso e dedito alla virtù e a frenare le passioni per contrastare la fortuna. Vi domina, piuttosto che lo sketch dialogico, il genere narrativo, nonostante la perfomance delle comparse, come dimostrano specialmente l’exemplum del parroco che inganna la giovane frequentatrice della chiesa, dove è riscritta con insistenza sui particolari erotici la famosa novella boccacciana di frate Alberto ripresa da Masuccio, e la vera autobiografia del personaggio ridanciano, che oltre tutto presenta altri personaggi, variando la narrazione come avviene nella Commedia dantesca. Ma importa rilevare come in questo campionario di figure umane, e disumane, gli ultimi due esempi di vita riflettano i due diversi ideali che ricorrono nella tradizione dell’etica, l’epicureo e lo stoico, forse con un’allusione allo stereotipo della contrapposizione fra il riso e il pianto di Democrito ed Eraclito. Che cosa possa significare l’attribuzione esplicita dell’origine toscana e dell’origine umbra ai due personaggi, figure storiche o tipi umani, non è nemmeno ipotizzabile con una qualche probabilità; ma è pensabile che l’autore, comparso nel dialogo solo come oggetto di riprovazione, assieme al Panormita, da parte di un grammatico, vi abbia coinvolto una sua segreta intenzione, propenso com’era alla dissimulazione e all’autoironia, se fa dire a Caronte a proposito del primo che gli sembrava l’immagine del vero sapiente e se faceva concludere il dialogo con il medaglione rispettabile del secondo, un umbro come lui stesso.

NOTA AL TESTO Il Charon e l’Antonius furono pubblicati per la prima volta insieme nel 1491 presso Mattia Moravo: IOANNIS IOVIANI PONTANI Dialogus qui Charon inscribitur … dialogus qui Antonius inscribitur (Moravo, Editio princeps). È prevedibile che l’edizione fosse curata dallo stesso Pontano, ma non si conserva il manoscritto che dovette servire come esemplare di stampa. Due testimoni manoscritti, mutili all’inizio e alla fine, derivano probabilmente dalla stampa, perché ne conservano le anomalie, presentano varianti errate o improbabili normalizzazioni grafiche: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. VIII - G - 104 B (mutilo), Biblioteca Medicea 15

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Laurentiana, cod. Laur. Strozzi, 106 ff. 13-71. Del solo Charon esiste invece nella Società di Storia Patria di Napoli un manoscritto rilegato con altri testi (C = Fondo Cuomo 1. 6. 45, il Charon è alle cc. 259-297 di una vecchia numerazione), non autografo, e tuttavia pregevole perché ci conserva l’intero dialogo in una redazione anteriore, di cui è stato ritenuto copia, diretta o indiretta. Nonostante i sicuri fraintendimenti dovuti al copista, o risalenti al suo antigrafo, vi sono stati riconosciuti «gli esiti di un’attenta revisione» dell’autore quale sarebbe testimoniata dall’edizione a stampa (si veda L. MONTI SABIA, Un ignoto codice del Charon). I due dialoghi furono ristampati nel 1501 a Venezia presso Bernardino Vercellese assieme al De fortitudine e al De principe, nel 1514 a Lione presso Bartolomeo Troth assieme ai medesimi trattati morali. Delle edizioni moderne quella a cura di C. Previtera (GIOVANNI PONTANO, I dialoghi, edizione critica, Sansoni, Firenze, 1943) comprende tutti e cinque i dialoghi nell’ordine dato dall’Aldina, ha come testo base le prime edizioni di ciascun dialogo, ma le corregge talora seguendo le cinquecentine e registrando nell’apparato le varianti. Una ristampa anastatica di questa edizione accompagna la traduzione tedesca di H. Kiefer, München, 1984. L’edizione a cura di J. Haig Gaisser (The I Tatti Renaissance Library, Harvard University Press, 2012) è corredata da note critiche (pp. 348-349), quella di F. Tateo (Charon, Napoli, 2016, Antonius, Napoli, 2015) è corredata dalla Nota al testo; alla quale si rimanda per la presente edizione, che conserva, finché è sostenibile, il testo tramandato dall’edizione del 1491, che è il testimone più vicino all’ultima volontà dell’autore, vivente all’atto della pubblicazione. Si riprodurrà quindi la princeps anche in singolarità, anomalie e forme grafiche alternative, spesso corrette dalle cinquecentine secondo l’uso classico o più consueto (caera per cera; coepi da capio per cepi; haerba per herba; herebus per erebus; laenis per lenis; ferrugineae; quaercus; per il caso particolare di cabronibus, si veda la nota al § 53), e si conserverà l’accorpamento, e viceversa, di vocaboli, quando rispecchia un documentato uso pontaniano, o è più volte presente in Mo: aegreferentes, multominus, nequam, nimisquam, operaeprecium, praeseferre, quamaudacissime, quamfucatissimum, quamiucundissimum, quampostea, quamprimum, quibuscum, sanequam, ne dum, non dum, quod nam, quot annis, se se, ubi nam. Sono state conservate alcune singolarità, anche non costanti, dovute allo scambio fra ti e ci che la tradizione della latinità recenziore 16

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diffusamente conosce (internitio, speties, pernities, precium, spacio, supersticiosulus). Si propone limpidus in luogo di limpidum (§ 18), anomalia difficilmente attribuibile all’autore.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Questa Nota introduttiva riprende in parte, e integra, il discorso svolto in F. TATEO, Umanesimo etico, 1972, e l’Introduzione a PONTANO, Il dialogo di Caronte, 2016. Sul rapporto fra i primi due dialoghi, cfr. L. GERI, Lettura di un dittico pontaniano, 2011; per la presenza di Luciano nell’Umanesimo e anche in particolare in questo dialogo del Pontano, cfr. ID., A colloquio con Luciano, 2015, oltre che ID., Introduzione a Pontano, Dialoghi, 2014, pp. 22-23 per quel che riguarda il breve dialogo Charon di Erasmo e la bibliografia sulla fortuna di Erasmo in Italia. Cfr. il testo dell’operetta erasmiana in ERASMO DA ROTTERDAM, Colloquia, progetto editoriale e introduzione di Adriano Prosperi, edizione con testo a fronte a cura di Cecilia Asso, Torino, Einaudi, 2002, pp. 993-1015. La famosa massima di Scipione sulla opposizione, alternativa e scambio fra otium e negotium, che Cicerone ricorda all’inizio del libro III del De officiis, e con la parafrasi della quale comincia il Caronte è già presente nel Petrarca del Secretum e del De vita solitaria e alimenta i dialoghi quattrocenteschi che riciclano il binomio medievale della vita attiva e contemplativa, come le Disputationes Camaldulenses di CRISTOFORO LANDINO. Analogamente va confrontata col De senectute ciceroniano la disputa sulla vecchiaia. Gli spunti politici del dialogo vanno messi in relazione con l’interesse pontaniano espresso nel suo primo trattatello, scritto nello stesso decennio, per cui si veda l’Introduzione di G. Cappelli a PONTANO, De principe, dove già è espresso il proposito di non svolgere una trattazione esaustiva, come spesso si ripete nei dialoghi, e viene citato Alessandro sulla utilità politica della superstizione, che ha fatto pensare ad uno dei pensieri machiavelliani sulla religione instrumentum regni. La probabile allusione al Corpus hermeticum, qui adombrato nella figura del sapientissimo Mercurio (poi espressamente richiamato nell’esposizione fatta dal Cariteo nell’Aegidius), si mescola ad una variegata gamma di atteggiamenti critici che coinvolgono platonismo e aristotelismo, per i quali si rimanda a L. GERI, Introduzione a PONTANO, Dialoghi, 2014, pp. 14-31. Sulla rappresentazione dell’aldilà, cfr. SCIANCALEPORE, La realtà «infernale», 2012. 17

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Il confronto con la cultura di scuola nella Napoli aragonese può illuminare l’atteggiamento critico del Pontano accademico e il capovolgimento comico di cui egli si compiace nel Charon e poi nell’Antonius: M. MONTANILE, Le parole e la norma. Studi su lessico e grammatica a Napoli tra Quattro e Cinquecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996; G. A. PALUMBO, La biblioteca di un grammatico, Bari, Cacucci, 2012; e in particolare su un episodio della polemica del grammatico Giuniano Maio: R. R ICCIARDI, Angelo Poliziano, Giuniano Maio, Antonio Calcillo, «Rinascimento», s. II, 8 (1968), pp. 277-309. Per l’atteggiamento del Pontano di fronte alla tradizione della lingua latina cfr. J.-L. CHARLET, Les instruments de lexicographie latine de l’époque humaniste, in Il latino nell’età dell’Umanesimo, Atti del Convegno (Mantova, 26-27 ottobre 2001), a cura di Giorgio Bernardi Perini, Firenze, Olschki, 2004, pp. 167197, e F. TATEO, La nuova frontiera, 2006. Sulla formazione di una lingua comica latina cfr. il libro fondamentale di R. CAPPELLETTO, La «Lectura Plauti», 1988, anche per la conoscenza del Pontano filologo. FRANCESCO TATEO

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS QUI CHARON INSCRIBITUR

I MINOS, AEACUS INTERLOCUTORES. 1. MINOS. Qui magistratum, Aeace, gerunt, iis nunquam sine negocio ocium esse debet. AEACUS. Prudenter atque e re dictum a te est, Minos; nam et in ocio cogitare oportet de negocio et ubi liberior aliquanto factus est curis animus, quia tum longe maxime quid verum sit cernit, exercendus hic est, a sene praesertim, cui non ut ineunti aetati pila et trochulus, sed rerum optimarum cognitio atque scientia curae esse debeat. MINOS. Scilicet non dies noctesque aut dormienti tibi aut potanti optatum illud a diis optigit, nati ut sint Myrmidones, sed animum colenti et prudenter ac pari iure moderanti populos. AEACUS. Sunt haec, Minos, ut dicis, quae diis immortalibus tribuere solebam, quorum erat muneris ut boni prudentesque haberemur. Eorum ergo benivolentiam non thure et extis magis quam recte agendo, prudenter consulendo, iuste imperando conciliare studebam mihi. 2. MINOS. Deorum profecto, deorum est, ut dicis, ista benignitas; quos non hedorum sanguis aut frugum primitiae placatos faciunt, sed innocentia, veritas, castitas, fides, continentia, quae sunt illorum munera; quibus qui utantur, iis consilia ipsi sua aperiunt seque inspiciendos

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO DIALOGO CARONTE

I MINOSSE ED EACO, GIUDICI DELL’INFERNO.1 1. MINOSSE. Chi fa di professione il magistrato, Eaco, non dovrebbe mai nel tempo libero stare senza un’occupazione. EACO. Saggia e utile considerazione è la tua, Minosse. Nel tempo libero bisogna pensare agli impegni che ci aspettano; e siccome quando l’animo si è un po’ liberato dalle preoccupazioni è capace di vedere da lontano qual è la realtà, allora specialmente bisogna esercitarlo; soprattutto nel caso di un uomo anziano, al quale non sta a cuore, come ai giovani, il gioco della palla o del disco,2 ma la conoscenza del sommo bene e il sapere. MINOSSE. Certamente gli dei non avrebbero soddisfatto il tuo desiderio di veder nascere il popolo dei Mirmidoni,3 se tu avessi trascorso il tempo giorno e notte dormendo e bevendo, ma l’hanno fatto perché, educando lo spirito, governavi i tuoi popoli con saggezza e giustizia. EACO. Dici bene, è questo il tributo che offrivo agli dei immortali, per i quali l’offerta vera consisteva nel farmi stimare come persona onesta e saggia. Mi sforzavo, infatti, di guadagnarmi la loro benevolenza non con gli incensi e con i sacrifici,4 più che agendo rettamente, consigliandomi con prudenza, governando con giustizia. 2. MINOSSE. La benevolenza dei celesti, dici bene, certamente non si ottiene a questo modo; essi non si placano col sangue dei capretti o con le primizie dei frutti, ma con l’innocenza, con la sincerità, la lealtà, la castità, la temperanza, che sono doni loro; a chi esercita queste virtù essi 21

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CHARON, II

praebent; quin, quod deorum est proprium, non abstinentes modo et moderatos quos noverint in coelum ad se, ut scimus, evocant, verum incontinentius qui vixerunt, dum poeniteat, dum in viam redeant, in eos quoque clementes sunt atque benefici. Etenim Deus ille Optimus Maximus non tam peccata ulciscitur, quam miseratur et parcit. Amat hominum genus et, dum aut pestem illis aut tempestates immissurus est, in iram eorum sceleribus provocatus, nunc monstris praemonet, nunc per ostenta declarat, et eum maxime iratus est, per crinitas stellas, ut procurationem adhibeant, qua placatus ipse sententiam mutet. Et certe maximas fore in terris discordias et calamitates auguror. Meministi enim ut excussa est nuper terra, ut movit ab imis usque sedibus et quam saepe! Pessima quaedam videntur portendi mortalibus et animus mire avet. Quamobrem, si videtur (ferias enim agimus et collega Rhadamanthus hodierno satis est muneri), concedamus ad ripam et sub amoena cupressorum umbra consideamus tantisper, dum e terris aliquis ad nos eat; ad quod vel invitare laenis aquarum decursus potest, vel, quod nostra scire interest quid agant homines, ut ad illorum actiones iudicia comparemus. AEACUS. Recte, Minos, et commode; nam et mens ipsa praesagit triste nescio quid ac periculosum imminere mortalibus, et ipse meministi nuper, dum in sacerdotes illos sententiam diceres, queri eos et aegre ferre laborare Italiam seditionibus magnosque in ea legi exercitus. Quamobrem in pratum hoc descendamus, si placet. MINOS. Descendamus, et, si tibi videtur, Charontem ad nos vocemus; nam et ipse ociosus est. AEACUS. Et ocium agit et oratio eius erudita et gravis est.

II CHARON, MINOS, AEACUS. 3. CHARON. Equidem vel ex hoc conditionem hominum infelicem iudico, quod sperato omnes victitant; quid enim eorum est spe inanius?

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CARONTE, II

rivelano i loro pensieri e si manifestano. Perché gli dei chiamano in cielo, com’è ben noto, quelli che sanno essere stati moderati e giusti, e anche quelli che hanno vissuto da incontinenti, purché pentiti e purché tornati sulla retta via. Il supremo Iddio non tanto vendica i peccati, quanto usa la misericordia e il perdono. Ama il genere umano, e quando, mosso ad ira per la sua scelleratezza, si prepara a mandare agli uomini peste e sciagure, li ammonisce con presagi e lo fa capire con fenomeni miracolosi, e quando è sommamente irato mediante le comete, affinché essi facciano riti di espiazione per i quali si plachi e muti pensiero. Ho il presentimento che certamente in questi giorni succederanno sulla terra grandi calamità e sciagure. Ricordi come recentemente si è scossa la terra fin dalle viscere più profonde, e con quanta frequenza?5 Un mucchio di guai sembra che incombano sui mortali, e il mio animo è ansioso di sapere. Perciò (siamo in vacanza, e il collega Radamanto è sufficiente a svolgere le nostre mansioni), accostiamoci, se ti pare, alla sponda dell’Acheronte e accomodiamoci per un poco all’ombra gradevole di quei cipressi, finché venga da noi qualcuno dal suolo terrestre; c’invita a farlo o il leggero fluire delle acque, oppure l’interesse che abbiamo di sapere gli uomini che stanno facendo, per poter proporzionare i nostri giudizi alle loro azioni. EACO. È un’idea giusta e opportuna, Minosse: io, infatti, ho nell’animo il presagio che non so quale pericolo pende sul capo dei mortali e tu ricordi che, quando ultimamente hai pronunciato il verdetto su quei tali sacerdoti, loro si lagnavano e s’indignavano per il fatto che l’Italia fosse travagliata da ribellioni e che si stessero arruolando dei grandi eserciti. Perciò scendiamo su quel prato, se ti va. MINOSSE. Andiamo; e chiamiamo Caronte, giacché sta in ozio anche lui. EACO. Non solo sta senza far niente, ma parla, e lo fa in maniera dotta e profonda.

II CARONTE, MINOSSE, EACO. 3. CARONTE. Questa è veramente la ragione per cui considero infelice la condizione degli uomini: vivono6 tutti di speranza. E che c’è di più folle della speranza? 23

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CHARON, II

MINOS. Quaenam sunt ista, Charon? CHARON. Cuia ea est oratio? Quos ego procul video? O aequissimi animarum iudices, salvete multum, et, per Stygem, unde vobis tantum est otii a foro ac iudiciis? MINOS. Eadem nostri huius otii causa est quae et tui. Scis enim quam hoc triduum nihil ad nos animarum traieceris. CHARON. Istud ipsum mecum admirabar atque adeo indignabar, ita spe deceptum me mea, ut in Plutonis aerarium ne collybum quidem triduo hoc toto contulerim. Itaque quae vita esse potest mortalibus inter tot ac tam varias necessitudines, quos spes tam assidue frustretur ac ludat eorumque vel maximum hunc errorem esse duco, quod inter deas spem numerant, quae humanae fortunae ancilla est, varia, inconstans, fallax pellacissimaque et bonorum et malorum omnium? Quod modo tyrannus declaravit, qui, dum regnum animo concipit, spe sua lusus, vix tandem ad ripam huc pervenit, nudus, plorabundus, claudus, senili gressu, fallentibus vestigiis, ex tot tantisque male partis divitiis vix annulum secum ferens. AEACUS. Doctiorem te factum, portitor, gaudemus; et, per herebum, egregie philosopharis! 4. CHARON. Quid ni philosopher? qui tot annos doctissimos homines, qui trans ripam inhumati errant, disserentes audiam? Eorum ego disputationibus mirifice delector, et, ubi vacat, etiam auditor fio magnamque ex eorum dictis voluptatem huberemque fructum capio. Quosdam tamen ut ridiculos aegre fero et stomachor; sunt enim partim nimis captiosi et fallaces, partim inanes et lubrici; qualis parisius sophistes, qui nuper congressus est mecum, et, per Plutonem, quam audacissime «Morieris, Charon» vociferabatur! Ego me, qui de mortalium non essem numero, moriturum negabam; at ille: «Morieris» inclamabat. «Quinam hoc fiet?» inquam. Tum ille distortis superciliis: «Charo, inquit, es; omnis autem caro morti est obnoxia, morieris igitur; et cum diutius vixeris, brevi morieris». Tum ego, ut qui eius amentiam non ferrem, vix continui quin eum in fluvium deturbarim. Quid alter? quam pene risu me confecit! «Remus, inquit, Romuli frater fuit; plures istic remos habes, plures ergo fratres tecum sunt Romuli». Hoc audito, Aeace, ita sum risu com-

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CARONTE, II

MINOSSE. Che stai dicendo, Caronte? CARONTE. Chi è che parla? Chi vedo laggiù? Salute a voi, giustissimi giudici delle anime, e come mai, per lo Stige, vi rimane tanto tempo libero dalle cause in tribunale? MINOSSE. Per la stessa ragione, per cui ne rimane anche a te: sai bene che da tre giorni non ci hai trasportato nemmeno un’anima. CARONTE. Di ciò appunto mi stavo meravigliando, ed ero molto contrariato per essere rimasto così deluso nella mia la speranza, da non aver potuto depositare nella banca di Plutone, in questi tre giorni, nemmeno un soldo.7 Perciò mi chiedo che vita può essere mai quella dei mortali sempre frustrati e delusi nella speranza in mezzo a tante e così varie tribolazioni, e penso che sia il più grande dei loro errori quello di annoverare fra le dee la speranza, che è soltanto l’ancella dell’umana fortuna, variabile, incostante, fallace, grande apportatrice ingannevole di tutti i beni e di tutti i mali. Proprio questo ha dimostrato poco fa un tiranno,8 il quale, concependo dentro di sé il proposito di giungere al regno, deluso nella sua speranza, è riuscito a stento a giungere qua sulla riva, nudo, in lacrime, zoppicando, con passo senile, con i piedi vacillanti, portando con sé, di tante ricchezze male accumulate, soltanto un anello.9 EACO. È un piacere, nocchiero, vedere che sei diventato dotto; anzi, per tutti i diavoli,10 tu fai magnificamente il fi losofo. 4. CARONTE. Come faccio a non fare il filosofo con tanti anni che sento discorrere uomini dottissimi, i quali si aggirano sull’altra riva? Mi diverto molto a starli ad ascoltare; e quand’è vacanza, prendo lezione da loro e dalle loro parole ricevo un grande piacere e un bel vantaggio. Ce ne sono di quelli, tuttavia, che sono insopportabili e irritanti, perché ridicoli; in parte, infatti, sono capziosi e fallaci, in parte vanesi e viscidi; per esempio quel sofista parigino, che recentemente ha attaccato briga con me e, per Plutone, andava gridando senza ritegno: «Morirai, Caronte! Morirai!». Io gli dicevo che non era possibile che morissi, non appartenendo al genere dei mortali. Ma lui: «morirai» mi gridava. «Come potrà mai essere?» gli dico. Lui allora, corrugando le sopracciglia, mi disse: «Sei caro, cioè “carne”,11 ogni carne è soggetta alla morte, dunque morrai; e pur se vivrai troppo a lungo, in breve morrai». Allora io, non potendo sopportare la sua follia, mi trattenni a stento dal gettarlo12 nel fiume. E un altro, quanto poco ci mancò ch’io non morissi di risate? «Remo era fratello di Romolo; tu hai qui molti remi; dunque tu hai con te molti fratelli di Romolo». Ciò 25

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CHARON, II

motus, ut dirumpi timuerim. Sed et tertius, cum me solventem videret: «Audi – inquit – Charon, et disce». «Recte – inquam – hospes, admones, nunquam enim satis quisquam didicit». «Disce – inquit ille – novum est hoc: pa1us, inquam, est quam navigas, pa1us autem lignum est, lignum ergo, non aquam navigas». Vix hic finierat, cum quartus quoque, aegre ferens priorem illum argumentatum, «Et me – inquit – audi: tribus, portitor, manibus uteris; etenim palma manus cum sit et tribus ipse pa1mis remiges, tribus profecto manibus uteris». Atque ferenda haec fortasse videantur in pueris, dum ingenium acuunt; senes vero tam insigniter delirantes, et eos praesertim qui de natura ac Deo disserunt, quis ferat? Nuper supersticiosulus quidam, cum ex eo quaererem nunquid e terris novi afferret, plures qui diem obierant revixisse; quocirca scire e vobis vehementer cupio, qui animarum omnium tenetis numerum, an earum aliquae aut ipsae aufugerint aut furto subreptae vobis fuerint; ego certe scio neminem unam retro a me revectam. AEACUS. Et priora illa, Charon, omnino contemnenda non sunt (pertinent enim ad quaerendam veritatem), et posteriora haec nequaquam improbanda, quippe cum relligionem augeant. Quaedam etiam suapte natura nobis sunt incognita. 5. CHARON. Sint ista ut dicis, quando nihil ad nos attinent; quamobrem missa nunc faciamus. Sed, quod nunc mihi in mentem venit et admirari nunquam ipse satis possum, si per leges vestras licet nosse, id ex te velim: cur postquam de tyranni capite sententiam tulistis, non inter sontes eum et scelerosos, verum trans ripam illam, ubi solus agit, relegastis? AEACUS. Honestum sane est scire quod postulas; aequius tamen erit id te ex Minoe quaerere, cuius illud fuit iudicium. CHARON. Nimirum, ut alia Minois omnia, sic et hoc est cognitu dignissimum. Quamobrem, optime Minos, ut cuius iudicium admiramur, eius quoque teneamus consilium, ne gravere palam illud nobis facere. MINOS. Et facile est docere quod postulas et ego libenter hoc fecero; pertinet enim ad sapientiam, cuius te studiosum esse factum magnopere laetor ac laudo. Quamobrem, ut consilium illud de relegando tyranno

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CARONTE, II

udito, Eaco, fui così mosso a ridere, che temetti di scoppiare. Un terzo, vedendomi salpare, ebbe a dire anche lui: «Stammi a sentire, Caronte, una palude, in latino palus, è quella su cui navighi; “palo”13 è un legno, dunque tu navighi non sull’acqua ma sul legno». Non aveva finito di dire questo, quando anche un quarto, mal sopportando l’argomentazione precedente, disse: «Ascolta anche me: tu, barcaiolo, usi tre mani; perché, essendo una “palma” quella della mano, e quindi tre le palme con cui remi, non c’è dubbio che tu usi tre mani».14 Ma queste sono cose che si potrebbero sopportare nei bambini, finché aguzzano l’ingegno;15 chi potrebbe mai sopportare degli adulti che folleggiano in modo così vistoso, specialmente se discutono di scienza naturale e di teologia? Recentemente un tipetto superstizioso,16 poiché gli chiedevo se portasse dalla terra qualche nuova, mi disse che più di un morto era resuscitato;17 perciò desidero ardentemente sapere da voi, che tenete il conto di tutte le anime, se alcune di loro sono sfuggite, o vi sono state sottratte di nascosto; io so di certo di non averne mai riportata una indietro. EACO. Le cose che hai detto prima,18 Caronte, non sono del tutto spregevoli (riguardano infatti la ricerca della verità); queste ultime non vanno riprovate perché incrementano la religione. Ci sono cose inoltre che per loro natura ci rimangono sconosciute. 5. CARONTE. Sia pur così come dici, ché queste non sono cose che ci riguardano;19 per cui lasciamole stare.20 Ma mi viene in mente una cosa di cui mai io mi meraviglio abbastanza, se in base alle vostre leggi è consentito saperlo, ed io vorrei saperlo; come mai quel perfido tiranno, che poc’anzi avete condannato, lo avete relegato non fra i colpevoli e gli scellerati, sull’altra riva, dove se ne sta da solo? EACO. È corretto voler sapere quel che chiedi; ma è più giusto che lo chieda a Minosse, perché lo ha condannato lui. CARONTE. Non c’è da meravigliarsi se, come tutte le altre cose che riguardano Minosse, anche questa sia molto bene a sapersi. Sicché, grande Minosse, per fare in modo che conosciamo la motivazione che ti ha mosso a pronunciare il verdetto, che apprezziamo, non t’infastidisca chiarircela. MINOSSE. È facile spiegarti quel che chiedi ed io volentieri lo farò; riguarda, infatti, la sapienza, di cui sono molto lieto che sei diventato desideroso, e quindi ti lodo. Perciò, per farti sapere le motivazioni per cui ho ritenuto a mio parere21 di dover relegare il tiranno, 22 eccole; oltre 27

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CHARON, II

iuxta mecum teneas, sic habeto: praeterquam quod varius, perfidus, immanis et supra quam dici possit rapax fuerit, seditiosissimus omnium mortalium et fuit et ipse confessus est, nullis adhibitis tormentis. Itaque dies noctesque nihil unquam aut cogitavit aliud aut egit quam quomodo lites serere, tumultus excitare, bella movere aut augere mota posset, pacis ac quietis inimicus. Eum ego, cui aliena documento essent pericula, ne inter Manes seditionem aliquando faceret, e republica esse duxi eiectum urbe nostra omnique quod Lethe cingitur solo trans ripam illam inter errantes umbras exterminare; quin et legem statuere placuit, ne cui adire illum neve inspectare liceret a centesimo lapide. 6. CHARON. Et iuste et prudenter factum, Minos; sed quid quod septimo quoque die in rubetam versus, ubi diem totum concrepuit, vesperi ab hydro depastus interit maneque in umbram reviviscit? MINOS. Quod fecit patitur: vorare alios suetus, ipse nunc devoratur. CHARON. Quam iure, quam merito! Atque utinam mortalibus nota supplicia haec essent! moderantiores illos sperarem fore minusque ambitiosos, nec tam alieni appetentes. MINOS. An, obsecro, Pythagorae oblitus es? Et meminisse certe debes; venit enim ad nos torrida facie, ustilato capillo, adesis naribus. Nam dum inter mortales haec praedicat, dum suppliciorum eos horum ammonet, igne ab nefariis adolescentibus aedibus iniecto occiditur. CHARON. O bone Pluton, quaenam haec est tanta ingratitudo atque immanitas? hoccine docendi atque instituendi praemium? MINOS. Ingratissimum est genus hominum atque incontinentissimum. Omitto poetas, qui primi de inferis vera prodiderunt, quam nunc omnes contemnunt! Socratem veneno petierunt, virum sane optimum ac sapientissimum; et profecto quae in Christum egerint nosti. Nam et lateris et pedum eius vulnera, attrectavimus, vix credentes tantum homines facinus admittere ausos. CHARON. Et quidem ille veritatem docebat.

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CARONTE, II

al fatto di essere ingannatore, perfido, disumano e rapace aldilà di quel che si possa immaginare, è stato, e lui stesso l’ha confessato senza che si facesse ricorso alle torture, 23 uno dei più sediziosi di tutti i mortali. E così giorno e notte non pensava né faceva altro se non vedere come poter seminare litigi, provocare tumulti, far sorgere guerre, o incrementare quelle già sorte, nemico della pace e della quiete. Io, al quale erano d’insegnamento i pericoli passati dagli altri, per evitare che alla fi ne venisse a portare la discordia e la ribellione anche qui fra i morti, ho ritenuto che fosse nell’interesse pubblico relegarlo in esilio, fuori dalla nostra città e da tutto quanto il territorio circondato dal Lete24 e scacciarlo aldilà della riva e fra le ombre erranti. Anzi ho fatto un editto per proibire che alcuno si potesse accostare a lui, né guardarlo fi no a dieci miglia di distanza. 6. CARONTE. Hai agito giustamente, Minosse, e con prudenza. Ma perché avviene che ogni sette giorni, cambiandosi in rospo, dopo aver gracidato tutto il giorno, la sera muore mangiato da un’idra, e poi il mattino dopo risuscita in ombra? MINOSSE. Patisce la stessa cosa che ha fatto lui: di solito divorava gli altri, ora è lui ad essere divorato. CARONTE. Com’è giusto, quanto se lo merita! Magari fossero noti ai mortali questi supplizi. Potrei sperare che diventassero meno ambiziosi, e meno rapaci dei beni altrui. MINOSSE. O ti sei scordato (chiedo scusa) di Pitagora? Eppure dovresti ricordarlo, perché se n’è venuto quaggiù con la faccia ustionata, i capelli bruciati, il naso mezzo mangiucchiato. Ché mentre andava rivelando queste cose ai mortali, mentre li avvertiva di questi supplizi, gli viene incendiata la casa, e lui ucciso da alcuni giovani scellerati.25 CARONTE. Caro Plutone, da dove provengono mai tanta ingratitudine e crudeltà? È questo il premio di chi insegna e istruisce? MINOSSE. Sì, il genere umano è pieno d’ingratitudine e più che mai sfrenato. Non parlo dei poeti, i primi a far conoscere la verità sull’oltretomba, come tutti ora li disprezzano! Hanno avvelenato Socrate, l’uomo di gran lunga il più onesto e più saggio. E che cosa poi hanno fatto contro il Cristo, lo sai; tutti abbiamo voluto toccare le ferite del suo costato e dei piedi,26 quasi non credendo che gli uomini avessero osato commettere un così grande delitto! CARONTE. Eppure egli insegnava la verità. 29

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CHARON, II

MINOS. O Charon, Charon, ignorare videris veritatem semper odio fuisse mortalibus; eam ex hominum coetu eiectam atque in exilio agentem dum restituere Christus nititur, quae passus est nosti. CHARON. Unde haec hominibus improbitas, Minos? Nam et homo ipse fuisti et diu Cretensibus imperasti, res eorum moderatus. MINOS. Quam mox istud; nunc illud inspice et considera, quod unum tibi cum primis eorum declarare possit improbitatem. 7. CHARON. Expecto quod nam hoc sit. MINOS. Audi et detestare. Nam et ipsis nunc mortalibus detestabilissimum videri satis scio quod Christus ab iis hominibus quos docuisset, quibus cum tot annos innocentissime conflictatus esset, crudelissime occisus sit, a nobis vero et turbis his, quibus esset incognitus, ubi primum visus, statim cultusque et adoratus fuerit. CHARON. Quod quidem facinus imprimis abominor et causam nunquam admirari satis possum. MINOS. Admirari desinas, si mentem ad philosophiam revocaveris; etenim oportet memorem esse philosophantem. Et profecto dies ille memorabilis apud Manes fuit, quo vocatus est in iudicium Stagirites ille, qui se peripateticum agnominabat, quod de praeceptore suo partim perperam sensisset, partim ingratus in eum fuisset. Hunc itaque die dicta, cum rerum a se commentarum rationem redderet, quasi ab initio dictionis disserere ita memini: duplicem esse hominis naturam, alteram rationalem, alteram carentem ratione; atque hoc ipsum, quod ratione careret, duplex esse dicebat, alterum prorsus semotum a ratione, alterum vero solere ad rationem sese adiungere eique obtemperare. Cupiditates igitur appetitionesque vehementes atque incompositas, nullis adhibitis frenis, solere partem illam, quae rationis esset audiens, ita deiicere de statu suo, ut nullum ea ad medium illud retinendum adiumentum afferre posset: hinc ortum ducere vitia seditionesque cieri et bella, coeteraque oriri mortalium mala; hinc veritatem molestam illis esse, ob eamque causam nec audire nec pati eos velle, qui iusta honestaque praecipiant. Hoc itaque plane in ignem Pythagoram coniecit, hoc Socratem veneno extinxit, hoc ipsum item Christum cruci affixit.

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CARONTE, II

MINOSSE. Caronte, Caronte! sembra che tu non sappia come la verità sia sempre stata odiosa ai mortali, mentre sai bene quante pene ha patito Cristo, perché cercava di ricuperarla, bandita ed esiliata com’era dalla società umana. CARONTE. Donde proviene agli uomini tanta malvagità, Minosse? Tu sei stato uomo, infatti, e a lungo sei stato re di Creta, governando la sua gente. MINOSSE. Al più presto ne parleremo. Ora considera attentamente quella che potrebbe dirsi la prima dimostrazione della loro malvagità. 7. CARONTE. Rimango in attesa di sapere qual è. MINOSSE. Ascolta e inorridisci. So bene che anche agli uomini sembra ora una cosa da far inorridire, il fatto che Cristo sia stato ucciso con tanta crudeltà da quegli stessi uomini ai quali aveva impartito i suoi insegnamenti e con i quali per tanti anni aveva avuto a che fare in piena innocenza; mentre da noi e da queste turbe di anime cui era del tutto ignoto, non appena apparve27 subito fu venerato e adorato. CARONTE. Un misfatto come questo è per me la cosa più abominevole, e non posso sbalordirmi mai abbastanza del perché. MINOSSE. Non rimarresti più sbalordito, se ti richiamassi alla fi losofia; chi vuol fi losofare, infatti, bisogna che abbia buona memoria. Fu un giorno da non dimenticare nel regno dei morti, quello in cui fu chiamato in giudizio lo Stagirita, 28 autonominatosi «peripatetico», con l’accusa di aver pensato male del suo maestro, 29 in parte di avergli mostrato ingratitudine. E ricordo che lui, nel giorno stabilito, per dar conto dei suoi ragionamenti, cominciò a discorrere in questo modo. Diceva che la natura dell’uomo è duplice: l’una razionale, l’altra irrazionale; e che la parte irrazionale era duplice anch’essa: l’una del tutto separata dalla ragione, l’altra solita ad accostarsi alla ragione e a obbedirle. Che perciò le passioni e le voglie violente e scomposte, non adoperando alcun freno, scacciano di solito dalla sua posizione la parte obbediente alla ragione, a tal punto che quest’ultima non può apportare alcun aiuto all’osservanza della via di mezzo: e di qui nascono i vizi, le ribellioni, le guerre e gli altri guai dei mortali. Perciò anche la verità riesce loro molesta, e per questo motivo non vogliono né dare ascolto a quelli che insegnano il giusto e l’onesto, né sopportarli. Questa30 fu la causa che fece perire Pitagora nel fuoco, che fece morire di veleno Socrate. E analogamente fece crocifiggere Cristo. E il genere umano, 31

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CHARON, II

Caeca igitur mortalitas suisque victa libidinibus atque in furorem acta quem occidit nosse nec potuit nec voluit, nec, siqui bene illum norant, tutari potuere, quippe qui admodum essent pauci: rara est enim omnis bonitas. At Manes, quod corporibus non impedirentur, cognoverunt illum, et, qui corporis contagione mundi atque expurgati omnino erant, secuti etiam sunt. 8. CHARON. Et quanta cum frequentia et plausu! a corpore igitur omnis illa malorum origo et causa quam ab animo? MINOS. Origo quidem tota est a corpore, verum et animus accusandus est, qui vinci se, cum imperare debeat, sinit. Felicem te igitur, Charon, qui corporis vinculis solutus ac liber semper fuisti, nec te aut titillantes illae voluptates, corporum dominae, commoverunt unquam aut cupiditates egerunt praecipitem, quae in hominibus infinitae quidem sunt atque insatiabiles. Sed nos fortasse longiores sumus munerique isti tuo, quod vacationem vix ullam patitur, impedimentum dicendo attulimus. CHARON. An quod esse potest molestum tempus quod philosophiae impenditur? Atque utinam succisiva haec tempora saepius darentur! Sed tamen quantum munus hoc meum, cui deesse minimum, ut scitis, possum, patitur, id omne ad philosophiam confero; ea laborum meorum solatrix est et comes, ea solum esse me non sinit, atque a multitudine, quae me assidue circumsistit, longius etiam segregat. AEACUS. Aciem intende, Minos; nam cum Charonte sermonem istum dum habes, sub occidentem ipsum quasi nubem quandam eamque perquam tenuem videre visus sum, quae, ni me oculus fallit, cogi paulatim incipit. CHARON. Quanam e coeli regione? AEACUS. Ab occidente, paulum ab laeva tamen. CHARON. An tenuissimus quidam fulgor eam praecedit? AEACUS. Praecedit. MINOS. Bene habet. Mercurii agnosco talaria; quamobrem, portitor, illuc in ulteriorem ripam cymbam adige. Nos hic potius Mercurium maneamus.

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CARONTE, II

divenuto cieco, sopraffatto dalle sue passioni e quasi spinto alla follia, non volle né poté riconoscere chi mandò a morte; né quei pochi che lo riconobbero, poterono difenderlo essendo in pochi. Invece i Mani, ossia le anime dei morti, non essendo più impediti dal corpo, lo riconobbero subito; e quelli che erano liberi dal contagio del corpo e del tutto purificati, lo seguirono anzi in cielo.31 8. CARONTE. E con quanti applausi da parte della folla! Ordunque, tutti i mali hanno l’origine e la causa nel corpo, piuttosto che nell’animo? MINOSSE. L’origine è tutta dal corpo; ma anche l’animo è colpevole, perché, mentre dovrebbe comandare, si lascia vincere. Felice te, o Caronte, che sei stato sempre libero e sciolto dai vincoli del corpo, e non ti ha mai turbato lo stimolo dei piaceri, signori del corpo, né ti hanno portato alla rovina le cupidigie degli uomini che sono infinite e insaziabili. Ma noi forse siamo un po’ troppo prolissi, e con la ciarla abbiamo impedito il tuo ufficio, che non ammette sosta. CARONTE. Come può mai esser molesto il tempo impiegato a discorrere di fi losofia? Magari avessi più spesso dei ritagli di tempo per queste cose! Ma nella misura in cui me lo consente il mio compito, al quale, come sapete, non mi posso minimamente sottrarre, io dedico tutto il tempo libero alla fi losofia: essa è consolatrice e compagna delle mie fatiche! essa non mi lascia star solo, e mi segrega dalla vile folla che mi sta sempre attorno. EACO. Attenzione, Minosse, che mentre tieni questo colloquio con Caronte, là verso occidente mi è parso di vedere quasi una nube, molto tenue, che, se l’occhio non m’inganna, si addensa sempre più. CARONTE. Da quale parte del cielo? EACO. Da occidente, ma un po’ verso la sinistra. CARONTE. Non la precede un piccolissimo punto luminoso? EACO. PROPRIO COSÌ. MINOSSE. Benissimo. Riconosco i talari di Mercurio. Per cui, barcaiolo, spingi la tua barca sull’altra riva. Noi piuttosto aspettiamo qui l’arrivo di Mercurio.

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CHARON, III

III MINOS, AEACUS. 9. MINOS. En, Aeace, consideras quanta sit vis institutionis? Quem nunc philosophum videmus, qui principio remex erat! Quid ociosus ageret, quid si a primis annis audisset philosophos? AEACUS. Nec animo volenti quicquam potest esse difficile, nec aetas ad discendum tarda est ulla. Nam, quanquam adolescentiae flores magnam praeseferunt spetiem, omnis tamen fructus est ingravescentis aetatis. MINOS. Verissimum hoc quidem. Sed tamen, nescio quomodo, quod nobis pueris contingebat, vehementior quidam instinctus adolescentes impellit ad virtutem et laudem; in senibus tarda ac remissa sunt omnia. AEACUS. Maior est in illis impetus, ratio imperfectior. In his autem, quia ratio perfecta, vita etiam perfectior est. Adolescentulorum quoque studium omne cum sit propter laudem, senum gratuita virtus est. MINOS. Ita natura comparatum est, quae ab initio curam hominis ac rationem habens, uti e floribus fruges, sic ex adolescentulorum teneritate atque inscitia senum voluit provenire sapientiam. Meministi quod pueris nobis studium esset, dum, nisi inviti in ludum atque ad grammaticum non ibamus, animus omnis erat in nucibus. Delitiae nostrae catellus, coturnix, monedula. Ex his tamen initiis vide quos uterque progressus fecerimus. Nam et tunc ferocissimis gentibus bene vivendi leges tulimus, et nunc Deum voluntate animis praesumus iudicandis. Itaque cum aetate simul crescit sapientia; cuius puer studiosus esse non potest, in quo maturum nihil sit. Et cum aetas omnis ad sapientiam properet, longissime ab ea distat pueritia, quae, tenerrima eum sit, paulatim est assuefacienda. AEACUS. Prudentissima in hoc quoque artifex natura fuit et fabricam suam admirabili artificio composuit; nimis tamen arctos illi terminos statuisse visa est satisque brevem vitam dedisse homini, quem ad tam multa ac magna genuisset. Ipsi scimus quosdam, dum rerum nobis suarum rationem reddunt, quantopere admirati fuerimus, quibus ad perfectam sapientiam praeter tempus nihil aliud visum sit defuisse. 10. MINOS. Vide quae loquaris, Aeace, et altius rem intuere. Quaecunque natura fabricata est, intra certos terminos compescuit. Haberent

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CARONTE, III

III MINOSSE, EACO. 9. MINOSSE. Vedi quanta importanza ha l’educazione! Quello che vediamo come un filosofo, era un semplice barcaiolo. Che farebbe nel tempo libero, e che cosa se fosse andato a scuola di fi losofia fin da ragazzo?32 EACO. Nulla riesce difficile a un animo volenteroso, né è mai tardi per imparare. Che sebbene i fiori della giovinezza siano molto belli, i frutti appartengono all’età matura. MINOSSE. Verissimo. Eppure, non so come, un maggiore impeto spinge i giovani alla virtù e alla gloria, come accadeva a noi quando eravamo giovani; negli anziani tutti gli impulsi sono più fiacchi e più lenti. EACO. Nei primi è maggiore l’impeto, è meno matura la ragione. Nei secondi, però, essendo la ragione più matura, anche il modo di vivere è più maturo. C’è anche questo, che mentre ogni ardore giovanile tende alla gloria, la virtù negli anziani è disinteressata.33 MINOSSE. L’ha disposto la natura, che, preoccupandosi sin dall’inizio dell’uomo, come dai fiori fa nascere i frutti, così dalla temerità e sconsideratezza dei giovani ha voluto che si generasse la saggezza dei vecchi. Ricordi quando eravamo ragazzi, che non andavamo a scuola di grammatica se non di mala voglia,34 e tutto il nostro interesse era rivolto a giocare alle noci. Un cane, una coturnice, una gazza erano il nostro divertimento. Eppure, da questi inizi vedi che progressi abbiamo fatto: allora demmo le leggi del ben vivere a popoli ferocissimi, e ora per volontà degli dei presiediamo al giudizio delle anime. Perché la sapienza cresce insieme con l’età; un ragazzo, in cui non c’è maturità, non può amare la sapienza. E mentre ogni età si avvicina alla sapienza, quella dei ragazzi è la più lontana da essa, ed essendo la più tenera, vi si deve assuefare a poco a poco. EACO. Inoltre l’artefice natura è stata molto prudente ed ha fabbricato il suo edificio con arte meravigliosa; tuttavia c’è chi si lamenta che la natura abbia posto confini troppo brevi alla vita dell’uomo, che essa ha pur generato per tante egregie cose. E sappiamo che ci siamo tanto meravigliati di come ad alcuni, quando ci davano conto delle azioni compiute, non pareva che fosse mancato nulla per giungere alla perfetta sapienza, tranne che il tempo. 10. MINOSSE. Bada a quello che dici, Eaco; e osserva la cosa più in profondità. A qualunque cosa abbia creato, la natura ha imposto deter35

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CHARON, III

cupressus hae quo cacumen extenderent, sed et his suus est crescendi modus; habent terrae, habent maria fines suos; hominum quoque, uti corporibus, ita et cognitioni quidam fixus est limes; quin etiam naturae ipsius finita vis est. Atque ut octingentorum annorum hominis vita esset, nihilo tamen plus quam nunc saperet cum octogesimum agit annum; quod non dierum spatia, sed humani qualitas corporis efficit. Etenim octingenario illi in tanto longiore adolescentia non maior contigisset rerum cognitio, quam octogenario huic in longe breviore. Nam et stirpes et animalia quae diutius vivunt tardius fructus ac foetus proferunt; citius quibus brevior data est vivendi meta; quodque ipsi saepe vidimus, qui pueri nimis cito sapiunt aut non multo post diem obeunt, aut, ubi viri evasere, multum de illo amittunt acumine et studio. Sed cum sit genus hominum superbissimum, sua parum sorte contenti, vitae brevitatem accusant; nec intelligunt, qui plures aetates vixisse memorantur, eos nec Solonem nec Catonem superasse virtute ac sapientia; quos ipsi causas suas dicentes cum audissemus, aegre tulimus tale illud collegarum par nobis a Plutone non dari. Quod autem defuisse illis tempus putes cognoscendo vero qui etiam coelum dimensi sunt stadiis quique parilis ne an impar esset stellarum numerus scire tam laboraverunt? His et ocium et vita superabundasse mihi visa est. Nam quid de iis dicendum ducas qui, succis rerumque plurimarum temperamentis adhibitis et in unum coacervatis multoque igne conflatis, faciendo auro dies noctesque ac vitam totam conterunt? quod quidem abuti est et natura et tempore. Quid qui commenti sunt deos inter se bellum gerere, quorum cum vulnera tum casus alios describunt? Nonne qui nugis iis occupati fuere iure videntur de levitate sua, quam de vitae brevitate debuisse queri? AEACUS. Rerum simul naturam et hominum expressisti vanitatem, ut vere, ut aperte! Et profecto ita res habet, ut qui nimio plus sapere studeant, ii demum praeter coeteros desipere inveniantur. Sed cohibenda est

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CARONTE, III

minati confi ni. Questi cipressi qua avrebbero la possibilità di estendere più in alto la loro cima, ma anche loro hanno una determinata misura di crescita. Lo hanno le terre, lo hanno i mari il loro confi ne. E così come il corpo umano ha un limite, un limite c’è pure alla loro conoscenza. E perfi no la forza della natura è defi nita. E se la vita dell’uomo fosse di ottocento anni invece che di ottanta, tuttavia a ottocento anni egli non saprebbe più di quanto ne sa ora a ottant’anni; perché conta la qualità del corpo umano, non la durata. Anche le piante e gli animali che vivono più a lungo danno frutti più tardi, mentre li danno più presto le piante e gli animali che hanno un termine più breve di vita. E, infatti, a quell’uomo di ottocento anni, in una giovinezza di tanto più lunga, non sarebbe toccata una conoscenza maggiore che a un ottuagenario di ora, in una vita tanto più breve; e spesso vediamo che i ragazzi che diventano troppo precocemente sapienti o muoiono non molto dopo, o diventati grandi, perdono molto della loro intelligenza e della loro buona disposizione. Ma siccome l’uomo è molto superbo e non contento della propria sorte, si lagna della brevità della vita; senza capire che, se ricordano qualcuno vissuto più generazioni, egli non ha superato davvero, in virtù e saggezza, né Solone né Catone;35 li ricordiamo benissimo questi due, quando si sono presentati al nostro tribunale, che c’è dispiaciuto che Plutone non ce li avesse dati piuttosto come colleghi. E quale tempo credi che sia mancato per conoscere la verità a coloro i quali hanno preso le misure del cielo calcolandole in base allo stadio, e a quelli che si sono affaticati 36 per sapere se il numero delle stelle fosse pari o dispari? Mi pare che il tempo libero e la durata della vita siano stati loro anche di troppo. E che riterresti si debba dire di quelli che, adoperando succhi e miscele di moltissime sostanze e facendone un coacervo e una fusione mediante il fuoco, perdono i giorni e le notti della loro vita a mescere sughi di erbe e minerali diversi, per fabbricare l’oro?37 Che è proprio un abusare della natura e del tempo. E che dire di quelli che si sono immaginati gli dei a combattere fra loro e descrivono le loro ferite e le loro vicende? Non ti pare giusto che chi si è occupato di queste sciocchezze dovrebbe lagnarsi della sua scempiaggine e non della brevità della vita? EACO. Hai rappresentato benissimo la natura vanesia degli uomini; e con quale schiettezza ed evidenza! Così stanno le cose, che si scoprono alla fine essere i più sciocchi di tutti, coloro che si sforzano di sapere 37

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CHARON, IV

oratio considerandumque quid est quod Mercurius e tanta multitudine vix se se queat eximere. MINOS. Recte mones et quidem ille frequenti circumsaeptus est turba. An, quod ex omni sint hominum colluvione, secernere umbras nititur et earum frontes inurere, quo et genus illarum et artes et disciplina facilius cognosci a nobis valeant?

IV MERCURIUS, PYRICHALCUS. 11. MERCURIUS. Recede istinc tu cum venali hac plebecula. Pyrichalce, inure hos nota illa iudaica. PYRICHALCUS. Genus agnosco, artem scire cupio. MERCURIUS. Foeneratores hi omnes. At vos sinistram in ripam concedite; sequimini hunc. Laenones, properate; nosti qui sint et notis quibus inurendi. PYRICHALCUS. Artem novi, sed, ut video, gens non una est. Flandrius hic est, germanus ille; manus ista partim illyrica est, partim italica. Hui! quantus hispanorum numerus, quantus graecorum! Et profecto e cuivisque nationis populis plurimos cum hic laenones videam, rarissimas necesse est in terris pudicas inveniri mulieres. Heus, ministri, candentem illam laminam deproperate. MERCURIUS. Et hos statim ustilato: pyratae sunt sardi, siculi, celtiberi. PYRICHALCUS. Videlicet his omnibus urendae frontes naresque mutilandae? MERCURIUS. Ferrum expedi; dextrorsum huc vos. Hi galli sunt, fartores, caupones, coci, tibicines, aleones, ebriosi omnes ac stolidi. PYRICHALCUS. Si recte memini, guttur his compungendum, clavus cerebro figendus est. MERCURIUS. Atqui nullum est Gallis cerebrum, quocirca ventres potius figito. Coeteram illam multitudinem e cuiusque modi hominum genere secerni iubeto, faber, dum ego insignioris notae quosdam tanto in populo seligo. Ecquis hic est audacia tam perdita? Vultum agnosco. Et

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CARONTE, IV

troppo di più. Ma bisogna chiudere il nostro discorso e capire perché Mercurio abbia tanta difficoltà a liberarsi di questa folla. MERCURIO. Giusto consiglio; effettivamente è assiepato da una folla numerosa. Forse che si dà da fare per scegliere le ombre in tutto questo massiccio afflusso e imprimere a fuoco il marchio sulla fronte, in modo che si possa riconoscere più facilmente di che gente si tratta e qual è il loro mestiere e il loro carattere?

IV MERCURIO, PIRICALCO.38 11. MERCURIO. Via di qui, tu con quella plebaglia venale. Piricalco, a costoro imprimerai il marchio dei giudei. PIRICALCO. So di che gente si tratta; vorrei saperne il mestiere. MERCURIO. Tutti quanti usurai: voi ritiratevi sulla riva sinistra. Svelti, lenoni, andategli dietro! Tu sai chi sono, e anche che marchio usare. PIRICALCO. Conosco il loro mestiere, ma, a quanto vedo, non è una sola la loro provenienza: questo è fiammingo, quello germanico; e di questo gruppo in parte provengono dall’Illiria, in parte dall’Italia. Ohé! Che numero di spagnoli, e che numero di greci! E giacché vedo lenoni provenienti da ogni parte del mondo,39 devo pensare che di donne oneste sulla terra ce ne siano rimaste pochissime! Su, garzoni, preparatemi quella lamina incandescente. MERCURIO. E bruciacchia subito costoro: sono pirati sardi, siciliani, e oriundi dalla Celtiberia. PIRICALCO. A questi altri bisognerà bruciacchiare la fronte e troncare il naso, MERCURIO. Procurati il coltello. Voi qui a destra. Questi sono francesi, salumieri, osti, cuochi, trombetti, giocatori d’azzardo, tutti ubriaconi, e stupidi. PIRICALCO. Se ben ricordo, a questi mi pare che si debba bucare la gola, ficcare un chiodo nel cervello. M ERCURIO. Ma i Francesi non ce l’hanno il cervello, perciò ficcaglielo nel ventre. Fabbro, fa stare da parte tutta questa folla, gente di ogni genere, mentre io scelgo fra loro soltanto qualcuno che si distingua di più. E questo sfrontato chi è? Dal volto lo riconosco, è proprio quello 39

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CHARON, V

quidem sceleratissimus hic fuit, Petrus Bisuldunius celtiber. At duo illi, post hunc qui latitant, velati puniceo galericulo, et hi perditissimi fuere sacerdotum omnium: alter Ludovicus, Aquilegiensis patriarcha, samorensis cardinalis alter. Pyrichalce, aereum his galerum capiti imprimito, idque in primis videto, ut sit candens. Bisuldunio illi auriculas detondeto. Haec agito; Charon enim, ut video, hic me in portu manet manibusque et capite iam pridem innuit. Accedam ad eum, ut cur accersar ex eo cognitum habeam.

V CHARON, MERCURIUS. 12. CHARON. Salvum te ac sospitem venisse, Mercuri, gaudeo. MERCURIUS. Ubinam est, Charon, philosophia quam profiteris? deum sospitem venisse gaudes, ac si nocere quippiam possit deo. CHARON. Et deus male habitus ab hominibus fuit dum inter eos ageret, et coelum vereor ut securum sit, tot tam inter se dissentientibus diis; quorum alius sacrum immittere ignem dicitur, promittere sanitatem alius; hic bellis gaudet, pacem ille procurat; est qui caecitatem inferat, est qui lumen restituat. Multi feriunt, nonnulli medentur; quid hoc diversius? Iure igitur periculosam mihi deorum vitam arbitror, in tanta varietate ac discrepantia, praesertim cum e supremis coeli regionibus deiectus et quidem non unus, sed magnus etiam deorum numerus aliquando fuisse dicatur. Quamobrem non est quare salutationem hanc meam accuses; nam cum alia te pericula evasisse gaudeo, tam vel cum primis magnam mihi voluptatem affert quod mulierum evaseris veneficia, quae et Manes assidue vexant. MERCURIUS. Nihil horum timendum nunc diis est, postquam desierunt puellas rapere. CHARON. Consenuerunt ne coelestes, an spadones lex aliqua fieri eos iussit? MERCURIUS. Fuerunt illa prioribus seculis, dum Lacedaemonii nudas virgines luctari ad Eurotam una cum adolescentulis volebant, eorum

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CARONTE, V

scellerato di Pietro Bisuldunio, un celtibero.40 E quei due che vanno nascondendosi dietro, col capo coperto dallo zucchetto rosso, anche loro sono fra i sacerdoti più scellerati. Uno è Ludovico patriarca d’Aquileia,41 l’altro è il cardinale samorese.42 Piricalco, a costoro stampa a fuoco sul capo uno zucchetto di bronzo, ma che sia ben rovente. A Bisuldunio troncherai le orecchie. Questo è quello che devi fare tu, perché Caronte, come vedo, mi attende qui nel porto e mi fa segno con le mani e col capo. Vado da lui per sapere perché mi sta chiamando.

V CARONTE, MERCURIO.43 12. CARONTE. Salute, Mercurio; ho piacere che tu sia giunto qua sano e salvo. MERCURIO. E ora dove è andata a finire, Caronte, la fi losofia che professi? Hai piacere che un dio goda buona salute, come se un dio potesse subire dei guai.44 CARONTE. Veramente un dio fu maltrattato dagli uomini mentre viveva tra loro,45 e io temo che anche il cielo sia poco sicuro, essendoci fra gli dei tante discordie; si dice che uno scagli l’esecrato fulmine, un altro promette la salute; uno se la gode con le guerre, mentre un altro vuole la pace; uno acceca, l’altro restituisce la vista.46 Molti sono quelli che feriscono, parecchi operano guarigioni. Che c’è di più contraddittorio? Dunque è giusto che io ritenga rischiosa la vita degli dei fra tanta variabilità e discrepanza, specialmente che non ce n’è solo uno che sia stato fatto precipitare giù dalle superne regioni del cielo,47 anzi ce ne sono parecchi. Perciò non trovar da ridire su questo mio modo di salutare, ché, mentre ho piacere che tu scampi da altri pericoli, sono immensamente contento che tu sia scampato dagli avvelenamenti femminili, che continuamente tormentano anche il regno dei morti. MERCURIO. Ma da parte degli dei non c’è più da temere nessuna di queste cose, da quando non rapiscono più le ragazze. CARONTE. Sono invecchiati o qualche legge li ha condannati a essere eunuchi? MERCURIO. Quelle cose succedevano nei tempi antichi, quando gli Spartani volevano che le loro vergini lottassero nude con i giovani presso 41

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CHARON, V

ludorum coelites et ipsi spectatores cum adessent; ac nonnunquam ad coenas vocati merito exarsere in libidinem. Nunc vero mulieres, quod aut clausae tenentur aut multis circumsaeptae tunicis incedunt, deos non commovent. Lex quoque lata est, cui et dii omnes subscripsere, qua cautum est, nequam mortalem cuiquam liceat immortali cognoscere. 13. CHARON. Quaenam causa ferendae legis? MERCURIUS. Forte Iupiter in tarentinam virginem commotus cum esset, versus ipse in adolescentulum, dum illius os nimis efflictim suaviatur, quod erat quam fucatissimum, labem inde contrahit, dentisque haud multo post de contactu illo amisit. Tum dii, aegre ferentes regem suum esse edentulum, promulgandae legis auctores fuere. CHARON. An, quaeso, Iupiter nunc est sine dentibus? MERCURIUS. Minime. Nam cum renasci nequirent deo tam annoso, elephantinos sibi faciundos curavit. Mulcta vero haec statuta est mulieribus, ut venire amplius in deorum complexus non liceat; permissum tamen est sacerdotibus, quod eorum sint ministri, ut in eum succedant locum. CHARON. Hoc est, credo, quare delectat diu vivere, quod nova quotidie discantur. Verum ne congressus hi nostri utriusque simul munus impediant (etenim inter navigandum multa satis commode transigemus), scias et quid est quod ego te velim, et quid tibi facto sit opus. Ambo te iudices, Minos, dico, et Aeacus, illic in ripa expectant, mirifice cupientes tecum colloqui, quando triduum iam e terris advenit nemo; multa enim verentur. Itaque aequum censeo ut, illorum praevertens imperiis, quamprimum naviculam ascendas. Quod faciens, rem tum illis gratissimam, tam te ipso dignam feceris, et compungendis his tempus Pyrichalco dederis, quod te primum curare oportet; quis enim tantos greges noverit, ni notis quisque suis signati venerint? MERCURIUS. Recte suades; mos eis gerendus est. Tu, si tibi videtur, velum explica; nam a tergo laenis exortus est flatus. 14. CHARON. Perquam libenter. Hac enim ratione citius provehemur in portum et remigandi mihi diminuetur labor. MERCURIUS. Quam pleno velo ferimur!

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l’Eurota.48 Allora i Celesti correvano anch’essi a veder quello spettacolo; ed essendo invitati ai loro banchetti, naturalmente qualche volta si lasciavano prendere dalla libidine. Ma ora le donne, poiché rimangono chiuse in casa, o vanno tutte vestite per bene, non eccitano più gli dei. Inoltre è stata promulgata una legge, sottoscritta da tutti i Celesti, per cui è vietato agli immortali di congiungersi a donna mortale. 13. CARONTE. Per quale ragione s’è fatta una legge come questa? MERCURIO. Devi sapere che Giove, innamoratosi pazzamente di una giovane tarantina49 e trasformatosi in un bel giovane, mentre la bacia appassionatamente sulla bocca, che era carica di belletto, si prese un guaio, e a seguito di questo non molto dopo perdette i denti. E allora gli dei, addolorati di vedere così sdentato il loro re, promulgarono quella legge. CARONTE. Dimmi, per favore, forse Giove ora è sdentato? MERCURIO. Assolutamente no. Ma siccome al dio così carico di anni i denti non gli potevano rinascere, se li è fatti fare di avorio. Alle donne è stato a sua volta proibito per legge di abbracciarsi con gli dei, e tuttavia è stato loro concesso di abbracciarsi con i sacerdoti,50 perché sono loro ministri e li sostituiscono. CARONTE. Per questo, credo, è piacevole vivere a lungo, perché ogni giorno s’impara una cosa nuova. E a evitare che i nostri incontri c’impediscano di assolvere i nostri impegni (giacché durante la navigazione di molte cose potremo parlare comodamente) sappi che cosa vorrei che facessi e che cosa sarebbe necessario che faccia. Entrambi i giudici, Minosse – dico – ed Eaco, sono in attesa lì sulla riva, per sapere da te qual è la ragione per cui non sta arrivando nessuno nel regno dei morti, e sono già passati tre giorni. Pertanto ritengo giusto che, prevenendo il loro ordine, tu monti sulla barca al più presto. Facendo questo, non solo darai a loro un piacere grandissimo, ma anche a te quello che meriti, e a Piricalco il tempo di bollare tutta questa gente, che è quello di cui anzitutto ti devi preoccupare; chi potrebbe conoscere tanta gente, se non viene ciascuno bollato dal suo marchio? MERCURIO. Dici bene; bisogna accontentarli. Ma tu, se così ti pare, spiega la vela; perché si è levato un certo venticello alle spalle. 14. CARONTE. Molto volentieri! In questo modo entriamo in porto più in fretta e io durerò meno fatica a remare. MERCURIO. Come procediamo bene col vento in poppa!

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CHARON. Auras sol citavit, aestivis diebus suscitari hac eadem hora quae solent. MERCURIUS. Quinam venti diebus his vobis flavere? Nam in terris magnam vitibus, maiorem oleis citriisque Boreas vastitatem intulit. CHARON. Nobis Acherontius ac solito clementior. MERCURIUS. Charon, Charon, quid quod video? crudo pisce hominem vesci? CHARON. Ne mirare. Cynicus hic Diogenes est. MERCURIUS. Quid? quaeso, vivit ne in flumine? CHARON. Vivit. Nam ripae, ut vides, altissimae cum sint, nec ipse quicquam omnino habeat quo haurire aquam possit, maluit hic, ubi et pisces habeat et aquam paratissimam, quam in aliis herebi locis vitam agere. MERCURIUS. Valentissimo utitur stomacho. Quis, quaeso, fluvidus ille quem subinde videmus, perinde ac si mergus esset, nunc mergere nunc emergere, quod alias vidi nunquam? CHARON. Nihil minus ignoras: thebanus Crates est; aurum quaeritat quod olim proiecerat. MERCURIUS. Recte teneo. Equidem memini, cum Athenis aliquando Panathenaeorum die essem, irrisum eum vehementer a Peripatheticis; primum quod is rerum fines ignoraret, nec quarum rerum usus esset bonus, easdem quoque posse fieri bonas intelligeret (etenim pecunias usus comparari gratia, quae ut nec bonae per se sint nec malae, prudentem tamen atque honestum possessorem usu ipso bonas efficere), deinde quod male sensisset de philosophia; quem enim melius, honestius, sanctius quam philosophum pecunia uti posse? Denique si honeri haberet divitias, cur non aliis potius ferendas atque utendas dedisset, quas ipse imprudentissime in mare abiecisset, ubi nec hominibus nec piscibus usui esse possent? 15. CHARON. Et quidem iure irrisus. Sed, quaeso, Mercuri, quando in Athenarum mentionem incidimus, dicas cur non atheniensis populus quas Plato tulisset leges acceperit, cuius et eloquentiam et doctrinam (plures enim dies mecum habui disserentem) magnopere sum admiratus. MERCURIUS. Magna illos movit ratio. Nam cum de illius legibus Kalendis Graecis cum populo esset actum, ita plebs scivit: quando respublica

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CARONTE. Il sole ha mosso la brezza, che di solito si leva in queste stesse ore pomeridiane nei giorni estivi. MERCURIO. Ma quali venti hanno soffiato da voi in questi giorni? Perché sulla terra la bora51 ha devastato le viti, e maggiormente ulivi e agrumi. CARONTE. Qui soffiava l’Acheronzio,52 anzi più dolce del solito. MERCURIO. Caronte, Caronte, che vedo mai, là c’è uno che mangia pesci crudi? CARONTE. Non ti meravigliare: è Diogene53 cinico. MERCURIO. E come, vive dentro il fiume? CARONTE. Certo che sì. Perché essendo le sponde altissime, e non avendo alcun modo per attingere l’acqua, ha preferito vivere qui piuttosto che altrove, nell’Erebo, dove ha a disposizione acqua e pesci. MERCURIO. Bello stomaco resistente, il suo. E dimmi per favore, chi è quell’altro abitatore del fiume, che s’immerge sott’acqua e poi emerge,54 e poi si tuffa come se fosse uno smergo? Una cosa del genere non l’ho mai vista. CARONTE. Eppure conosci anche lui. È Cratete tebano;55 va in cerca dell’oro che un tempo aveva gettato via. MERCURIO. Lo ricordo bene. E ricordo anche che, trovandomi una volta in Atene alle Panatenee, fu molto preso in giro dai peripatetici,56 prima di tutto perché ignorava che le cose hanno un fine, e non riusciva a capire che sono buone soltanto quelle cose, che sono usate a fin di bene (ed è per usarlo a questo fine che si deve procacciare il denaro, non essendo di per sé il denaro né buono né cattivo, e comunque chi lo possiede e sia onesto lo rende buono con l’uso stesso), poi anche perché aveva una brutta opinione della filosofia: chi infatti se non un filosofo saprebbe usare meglio, più onestamente e degnamente, il denaro? E infine, se le ricchezze gli pesavano tanto, perché non le dava da portare e da usare ad altri, invece di gettarle in mare, dove non avrebbero potuto più essere utili né agli uomini né ai pesci? 15. CARONTE. E giustamente davvero viene deriso. Ma dimmi, Mercurio, giacché è capitato il discorso sugli Ateniesi e sulla fi losofia, perché il popolo ateniese non ha accettato le leggi proposte da Platone, di cui ho potuto ammirare molto l’eloquenza e la dottrina, avendolo avuto vicino e udito discutere per molti giorni. MERCURIO. È stata una ragione seria che li ha mossi. Perché, essendosi discusso di quelle leggi in assemblea alle Calende greche, il popolo emi45

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quam Plato institueret apud Germanos esset, accederet Plato ad barbaros. Esse apud illos Ubiorum civitatem, quae leges eas servaret; populum Atheniensem sineret his legibus vivere quas a maioribus, sapientissimis viris, latas accepisset. Senatus quoque consultum in haec scriptum est verba: Quando Graeci pro recipienda Helena viroque restituenda universi coniurassent, bellum Troianis intulissent, sumptus tantos fecissent, Graeciam omni pene nobilitate exhausissent, tot clades passi essent, non licere Platonis leges accipi, quae mulieres communes, uxorem nemini certam esse pudicitiamque, quae una aut certe maxima mulierum virtus esset, nullam in civitate esse vellent. Hoc ego senatus consultum et Athenis et in plerisque aliis Graeciae conventibus recitatum memini. Discipulus quoque eius Aristoteles multum de illius auctoritate detraxit. Fuit enim magistro argutior, nec tam recessit a civili consuetudine. CHARON. Et magnae et honestae causae fuerunt. Eius igitur libri a multis condemnantur, discipuli vero leguntur? MERCURIUS. Quidni? et magno in honore habentur, etiam apud barbaros. 16. CHARON. Eram ipse fortasse, ut quidem eram, de labore fessus, et mens aliis occupata; sed tamen visus est Aristoteles nimis obscurus et cautus cum hac eadem in cymba quaedam ex eo quaererem. Quin etiam licet, mecum dum loqueretur, corporis vinculis solutus viveret, nihil tamen certi adhuc de immortalitate animae respondebat. Post tot igitur saecula scriptor tam argutus et subtilis non usque adeo est, ut arbitror, intellectu facilis! MERCURIUS. Vix risum teneas, Charon, si tibi ipse retulero quam facete rhetor argutulum quendam philosophum nuper irriserit. Nam cum ille nimis intorquere Aristotelis sensa vellet: «Auditores, rhetor inquit, scitote non cum philosopho mihi, verum cum sutore contentionem esse: quod enim sutoris est proprium, dentibus alutam producere, hoc noster hic in Aristotelis dilatandis dictis facit. Quocirca videndum est tibi, philosophe, ne genuinos relinquas in corio». Hinc factum est, Charon, tritum illud iam, bene dentatum esse theologum oportere.

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se questo decreto: che Platone se ne andasse fra i barbari, visto che la Repubblica progettata da Platone esisteva già presso i Germani;57 infatti gli Ubii avevano una società che osservava quelle leggi; lasciasse vivere il popolo ateniese con le leggi che i loro antenati, uomini oltremodo sapienti, avevano proposte e loro avevano accettate. E fu anche emesso un decreto secondo il quale, considerando che i Greci, per riavere Elena e restituirla al marito, si erano tutti accordati con un giuramento per muover guerra ai Troiani, avevano fatto tante spese, avevano spopolato quasi tutta la Grecia della sua nobiltà, e avevano sopportato sconfitte e sciagure, non era possibile perciò accogliere le leggi di Platone, che prevedevano la comunione delle donne, che nessuno avesse più una moglie certa, e che nella città non vi fosse più la pudicizia femminile, che è la sola o certamente la più grande virtù delle donne. Io in persona ho udito proclamare questa deliberazione dello Stato in Atene e in altre assemblee di città greche. Inoltre Aristotele suo discepolo tolse molto alla sua autorità. Fu, infatti, più sottile del suo maestro, né si allontanò tanto dalla consuetudine civile.58 CARONTE. Ragioni non ne sono mancate, importanti e oneste pure. I suoi libri sono condannati da molti, mentre i suoi discepoli sono letti.59 MERCURIO. Perché no? sono tenuti anzi in grande onore, anche presso i barbari.60 16. CARONTE. Io quel giorno ero forse, e in realtà lo ero, stanco del lavoro e la mente era presa da altri pensieri. E tuttavia Aristotele mi sembrò troppo oscuro e cauto, quando in questa medesima barca gli facevo alcune domande. Che sebbene, mentre parlava con me, viveva sciolto dai vincoli del corpo, non mi dava ancora risposte sicure a proposito dell’immortalità dell’anima.61 E ancor oggi, dopo tanti secoli, uno scrittore così sagace e sottile, a mio parere, quanto non è affatto facile a capirsi! MERCURIO. Non ti tratterresti dal ridere, se ti riferirò come argutamente un valente retore mise in ridicolo, or non è molto, un fi losofo che faceva il sagace. Poiché quello voleva stravolgere troppo il senso di quel che diceva Aristotele, il retore disse: «Ascoltatori, sappiate che non è con un filosofo che ho questa polemica, ma con un calzolaio; e, infatti, com’è proprio del calzolaio allungare il cuoio con i denti, così fa costui quando amplia il discorso di Aristotele: perciò, filosofo, sta accorto a non lasciare nel cuoio i denti mascellari». E di qui nacque, Caronte, la battuta secondo la quale il teologo deve aver buoni denti. 47

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CHARON, V

CHARON. Festivissime rhetor is, sed obscuritas utrunque fortasse et philosophum excusaverit et theologum. MERCURIUS. Nequaquam in obscuritate omnia: verum, ut mihi videtur, duplex rei huius est causa: altera, quod qui nunc philosophantur ignorant bonas litteras, quarum Aristoteles gravis etiam auctor fuit; altera, quod dialectica corrupta fuerit a Germanis primum et Gallis, deinde et a nostris, in eaque maximam nunc quoque ruinam faciunt. 17. CHARON. His nuper artibus me adortus est sophistes. MERCURIUS. Videlicet ex horum erat numero et fortassis ex illorum ordine qui fratres dicuntur. CHARON. Recte. Nam praenomen ei frater erat. MERCURIUS. Cautissimum itaque oportet esse te ac versutissimum quotiens in eorum aliquem incideris. Nihil est enim quod argumentando non consequantur, immo quod non extorqueant, et scin quomodo? Ut, velis nolis, assentiendum sit eorum dictis, facileque hoc pacto efficiare e Charonte asinus. CHARON. Nimis ridiculus es qui id arbitrere; in asinum mene illos captiunculis suis versuros quasi Apuleium amatorio poculo, quem ego vix agnovi cum hac iter faceret? Nam auriculas ac supercilia adhuc retinebat asini. Egregie tamen philosophabatur et iucundus in disserendo erat. Eum ego cum in aliis multis ridebam, tum in hoc, quod hordeaceum panem siligineo praeferret. Etenim vestigia quaedam in eo reliqua erant asinini gustus et pene subrudebat. Verum, ut ad sophistas redeam, non est cur illos magnopere timeam, quippe qui, cognitis recte principiis, dum bene partiar, dum vere definiam, capi ab illis nullo modo possim. Sed dic, Mercuri, obsecro, quod nunc genus hominum in terris laetius ac liberius vivit? MERCURIUS. Sacordotes laetius, quos etiam in funeribus cantantis audias, liberius medici, ut quibus permissum sit hominem impune occidere. CHARON. An non capitale apud illos est parricidium? MERCURIUS. Etiam; medicos tamen lex non modo absolvit, verum mercedem quoque eis statuit. CHARON. Quam inique comparatum!

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CARONTE, V

CARONTE. Spiritosissimo il retore, ma l’oscurità della disciplina potrebbe scusare entrambi, tanto il fi losofo che il teologo. MERCURIO. Non è solo questione di oscurità. A me sembra, invece, che le cause siano due. Una, che quelli che al giorno d’oggi filosofeggiano non conoscono l’arte letteraria, di cui Aristotele è anche un valente cultore; l’altra, che la dialettica è stata corrotta prima da Germani e Francesi,62 poi anche dai nostri63, e quindi in quella disciplina c’è pericolo di cadere in un enorme precipizio. 17. CARONTE. Con questi arzigogoli poco fa mi ha assalito un sofista.64 MERCURIO. Evidentemente uno di questi qua, forse uno dell’ordine di quelli che si fanno chiamare fraticelli.65 CARONTE. Giusto. Difatti il nome era preceduto da fra’.66 MERCURIO. Devi essere molto cauto e abilissimo tutte le volte che t’imbatti in uno di loro. Non c’è conclusione che essi non riescano a raggiungere, anzi a estorcere a forza di argomentazioni;67 e non lo sai68 come? volere o non volere, bisogna dire di sì a quel che dicono, sicché facilmente in questo modo da Caronte che sei ti trovi ad essere un asino. CARONTE. Mi fai ridere assai se pensi questo. Che io mi faccia trasformare in asino dai suoi cavilli come Apuleio col filtro amatorio?69 Io appena lo riconobbi quando passò di qui, perché conservava le orecchie e le sopracciglia di un asino.70 Tuttavia filosofeggiava ed era gradevole nella conversazione. A me faceva ridere per molte altre ragioni, ma soprattutto per questo, che preferiva il pane d’orzo a quello di frumento.71 Gli era rimasta, si vede, una traccia del gusto di un asino, e quasi quasi ragliava.72 Orbene, per tornare ai sofisti, ti dico che non c’è motivo di temerli tanto, perché io, tenendo presente i fondamenti logici, purché faccia bene le distinzioni e le divisioni,73 non potrei in nessun modo farmi fregare da loro. E dimmi, Mercurio, ti prego, quale categoria di uomini vive ora sulla terra in maniera più allegra e spensierata? MERCURIO. I sacerdoti in maniera più allegra. Perché li senti cantare nei funerali, i medici in maniera più spensierata, perché a loro è permesso uccidere un uomo e farla franca. CARONTE. Non è punito l’omicidio con la pena capitale nel mondo degli uomini? MERCURIO. Certo; però la legge non ha previsto soltanto che i medici siano assolti, ma anche che siano pagati. CARONTE. Che legge iniqua hanno fatto! 49

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CHARON, V

MERCURIUS. Quinimo iure eos lex absolvit, siquidem medicus non occidit, verum qui medici utitur consilio et opera, quam quidem vel magno conducunt precio. 18. CHARON. Igitur civiles hoc leges considerant? MERCURIUS. Considerant; prudentissimi enim mortalium fuere qui primi eas tulere maximamque habuere rationem civilium actionum omnium et publicarum et privatarum, quippe qui nullam nec vitae nec artis, nec facultatis cuiuspiam partem contempsere; nulliusque unquam patrisfamilias tam exacta fuit domesticae rei diligentia et cura quam horum ipsorum humanae societatis. Verum qui eas nunc interpretantur, prudentiam in malitiam vertentes, iura venditant, leges contaminant, fas nefasque solo discernunt precio, ut nulla homini in vita maior sit pestis quam ubi eorum indiget patrocinio. Quocirca factum proverbium est litis comitem miseriam esse. CHARON. Hoc illud est, quod nuper praeco, dum eos ad praetores citaret, forensis Harpyas increpitabat! Sed iam, Mercuri, colligendorum rudentum tempus nos admonet horaque descensionis appetit. Itaque quanquam orationis nunquam me sacietas capere potest tuae, quippe cum idem ipse sis et eloquentissimus et humanarum divinarumque rerum prudentissimus, videndum tamen est ne nostrum hoc quaerendi studium ab agendis nos rebus avocet, neve summum magistratum, qui de adventu tam solicitus est tuo, spe ducamus longiore. MERCURIUS. Hoc est quod mecum adeo ipse laetor, tam secundo flatu cursum nos hunc confecisse. Et vero me ipsum expedio, ac, si tibi videtur, illic ubi minime coenosum est vadum descendamus. Inde pedibus ad praetores iter faciemus per amoenissima illa prata et secundum rivulum illum, qui tam laeniter immurmurat; atque hoc non tam mea causa (ipse enim talaribus ubi opus est utor, et in quotidiana fere sum tum itineribus tum deambulationibus), quam tua, cui quandonam toto anno contigit cymbam semel egredi et brevi saltem deambulatiuncula uti? CHARON. Ut recte dicis, ut rem mihi gratam facis! Illam ipsam igitur maxime virentem ripam teneamus; et, per Plutonem, quam fons ille limpidus scaturit! Ramum illum, Mercuri, quam raptim comprehende. MERCURIUS. Comprehendi, bene habet; continens iam nostra est. CHARON. Licet igitur descendas, tantisper me in haerba manens, dum paxillo illi naviculam illigo.

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CARONTE, V

MERCURIO. Anzi, la legge li assolve giustamente, perché non è il medico che uccide, ma chi si serve del consiglio e dell’opera del medico, che pagano perfino con somme alte. 18. CARONTE. E il codice civile segue questo criterio? MERCURIO. Il criterio è questo. Furono, infatti, i più saggi dei mortali coloro che per primi le promulgarono e tennero in massimo conto le azioni civili, pubbliche e private, perché non trascurarono alcun aspetto della vita, né dell’attività professionale, né dell’attitudine; e di nessun padre di famiglia fu così perfetta l’attenzione agli affari di famiglia quanto quella di costoro alla società umana. Invece quelli che ora interpretano il codice, trasformando la saggezza in malizia, mettono in vendita il diritto, contaminano le leggi, distinguono il lecito dall’illecito in base al prezzo, al punto che per un uomo nessuna peste nella vita è maggiore di quella che sta dove si ha bisogno del loro patrocinio. Di qui il proverbio secondo cui non c’è lite senza miseria.74 CARONTE. A questo proverbio alludeva poco tempo fa un banditore quando, citandoli in pretura, li riprovava gridando «Arpie del foro». Oramai, Mercurio, è il momento di raccogliere le vele e si avvicina l’ora di sbarcare. E quantunque non riesca mai a saziarmi della tua parola, giacché sei la persona più eloquente e più dotta di verità umane e divine che ci sia, bisogna però vedere che questo nostro amore della ricerca non ci distragga dall’agire, e non allunghiamo troppo l’attesa del sommo giudice che è così in ansia per il tuo arrivo. MERCURIO. Questo è il motivo per cui mi rallegro tanto che abbiamo fatto la traversata con un vento così favorevole. Io mi affretto, e se ti sembra opportuno, scendiamo là dove il guado è meno fangoso. Poi ci recheremo a piedi fin dove ci aspettano i giudici, attraverso questi magnifici prati, e lungo quel ruscelletto che mormora così dolcemente; e questo non per me (perché io uso i talari,75 e ogni giorno sono o in viaggio o a passeggio), ma per te, al quale in tutto un anno capita una sola volta di uscire dalla barca e poter fare almeno una passeggiatina. CARONTE. Perfetto; e che gran piacere mi fai! Accostiamoci dunque a questa verde riva; e, per Plutone, come scorre limpida quella fontana! Mercurio, acchiappati bene a quel ramo. MERCURIO. Mi ci sono acchiappato, tutto a posto. Eccoci sulla terraferma. CARONTE. Puoi scendere, aspettandomi un momento sull’erba, finché lego la barca a quel palo. 51

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CHARON, VI

VI CHARON, MERCURIUS AMBULANTES. 19. CHARON. Et inter graves occupationes cessatio grata est omnis et, si qua interim voluptas offertur, ea quam est suavis! Equidem ego ita semper duxi, voluptatem raram esse debere, ac tum maxime delectare cum sit quam honestissima. Ocium vero nunquam ipse probavi, nisi quod cum reficiendis corporibus tum levandis animis concedatur. Ne biennio toto maiorem hac cepi voluptatem: ut blande rivus hic sussilit! Vide quam perspicuus est, quam etiam nitido fluit alveo! MERCURIUS. Talis Clitumnus per Umbros fertur, et quanquam multarum ille est aquarum dives, hic tamen, quod gurgites nullos efficit, sed continuo et leni currit tractu, ripas habet amoeniores et magis delectat. Sed qualia tibi prata videntur haec, Charon? CHARON. Quam grata florum amoenitas et quanta copia! ut halatiles hae sunt ferrugineae! MERCURIUS. Violas eas mortales vocant, ex his sibi coronas faciunt multoque miscent ligustro. CHARON. Quod est, obsecro, ligustrum? MERCURIUS. Quod in margine illo tam candido et frequenti flore nitet. CHARON. Albicantium nostri vocant; quam me limes ille delectat! MERCURIUS. Et quanto in precio flos is habetur apud superos! rosam vocant. CHARON. Videlicet roratilem dicis. MERCURIUS. Eam ipsam roratilem. Verum age, illuc respice; an quicquam totis his pratis illo tibi videatur hiacyntho pulchrius? CHARON. Atqui, ut scias, Mercuri, flos ille lacrimulas mane mittit; hinc moerentiolum holitores nominant. MERCURIUS. Et apud mortales quasdam habere notas doloris dicitur. CHARON. Itineris laborem non sensimus in tanta hac florum varietate; cuius quod paulum admodum nescio quod reliquum videtur, eo magis properandum censeo. MERCURIUS. Hoc ipsum considerantis est viri, in ipsa quoque voluptate tempus non labi frustra sinere.

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CARONTE, VI

VI CARONTE E MERCURIO MENTRE PASSEGGIANO. 19. CARONTE. Com’è gradita una pausa in mezzo a occupazioni faticose, e se vi si aggiunge un godimento, come riesce piacevole! Io per me ho sempre pensato che il godimento debba essere raro, e che allora ti diverti di più, quando è il più onesto possibile. Non ho mai approvato poi l’ozio,76 se non quello che ci concediamo per ristorare le forze fisiche o per alleviare gli affanni dello spirito. In tutti questi due ultimi anni non ho avuto un godimento maggiore di quello di oggi: com’è blando il gorgoglio di questo ruscello! Vedi com’è trasparente e com’è nitido il flusso nel suo alveo. MERCURIO. Così scorre il Clitunno77 attraverso il paese degli Umbri; e sebbene quello lì sia più ricco di acque, questo, siccome non produce alcun gorgo, ma scorre sempre placidamente, ha le rive più amene e piace di più. Come ti sembrano questi prati, Caronte? CARONTE. Com’è ameno e pieno di fiori questo campo, e quanti ce ne sono! Come odorano questi di color ferrigno!78 MERCURIO. I mortali li chiamano viole, di essi si fanno le corone intrecciandoli con un bel po’ di ligustro. CARONTE. Qual è, per favore, il ligustro?79 MERCURIO. Quello che spicca sulla sponda, con tanti fiori candidi. CARONTE. Da noi si chiamano «albicanzi»;80 come mi piace quella sponda! MERCURIO. E com’è pregiato quel fiore presso i viventi: lo chiamano «rosa». CARONTE. Come dire «rugiadosa».81 MERCURIO. Sì, rugiadosa. Ora guarda da questa parte: ti sembra che ci sia in questi prati un fiore più bello del giacinto? CARONTE. Eppure, per farti sapere, quel fiore di mattina versa lacrimucce, per cui gli ortolani lo chiamano «il tristanzuolo».82 MERCURIO. C’è fra i mortali chi legge in esso anche i segni del dolore. CARONTE. In mezzo a tante varietà di fiori non abbiamo nemmeno avvertito la fatica: e poiché sembra che ne sia rimasta ben poca, a maggior ragione penso che bisogna affrettarsi. MERCURIO. È proprio dell’uomo assennato non lasciar correre inutilmente il tempo, anche in mezzo al godimento. 53

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CHARON, VII

CHARON. Atqui labor in voluptate non sentitur, et actio etiam omnis in ipso agendi cursu est periucunda. Sed pratis iam praeteritis, umbras subimus, ac, ni me oculus fallit, sub procera illa et annosa cupresso iudices praestolantur. Quocirca, in nemore ne oberremus, defixa in cupressum acie ad eos contendamus.

VII MINOS, AEACUS. 20. MINOS. Quam iuvit utrunque nostrum facilis ista deambulatio! et sessio haec quam postea suavis fuit, procul a iudiciis, procul a forensi solicitudine, ut dies hic (qui Cretensium ac meus maxime mos fuit) albo sit lapillo numerandus! Et tamen cessatio ipsa nec deses fuit nec languida. AEACUS. Imprimis me silentium beavit et concentus ille avium tam diversarum, qui coeteris ab rebus omnibus sic avertit animum, ut nulla interim de re alia aut soliciti fuerimus aut locuti. Quid umbrae amoenitas, quid arbuscularum tam ordinata dispositio rivulique interlabentes tam laeto, tam florido ac frondenti margine? Accessit Mercurii adventus, qui omnem expectationis nostrae solicitudinem levavit, ac navigatio tam secunda, et, ni me fallunt aures, utriusque pedum Charontis atque Mercurii strepitum subaudire inter virgulta visus sum, et, per Plutonem, eccos! Humilior eos excepit iuniper; iam apparent. MINOS. Ut libenter eos video, ut Mercurii adventum gaudeo! atque adeo nihil nostrae huic voluptati defuisse videtur, quin omni e parte numeros impleverit suos. Sed quid quod Mercurius solito incedit lentior? AEACUS. Ne vereare, expectandi Charontis it tardior gratia. Is enim tardiusculus est, quando qui exercentur in navi brachiis quam pedibus magis valent.

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CARONTE, VII

CARONTE. Eppure nel godimento la fatica non si avverte; anzi l’attività nel corso stesso dell’azione è un grande piacere. Ma, attraversato il prato, entriamo fra le ombre, e se non m’inganno, là sotto quel vecchio cipresso i due giudici sono in attesa. Perciò con gli occhi fissi al cipresso per non smarrirci nel bosco, cerchiamo di raggiungerli.

VII MINOSSE, EACO. 20. MINOSSE. Com’è stata bella la passeggiata che abbiamo fatto insieme! E com’è stato piacevole poi sederci, lontano dalle sentenze, lontani dalle noie del foro, tanto che questo giorno (secondo l’uso dei Cretesi e specialmente mio)83 deve essere segnato con una pietruzza bianca. E tuttavia perfino la sospensione dal lavoro ci ha visto tutt’altro che inoperosi e negligenti. EACO. Anzitutto mi ha reso felice quel concento di uccelli così vari, che ci ha distolto da ogni altra cosa a tal punto da non farci preoccupare né parlare di altro nel frattempo. E che dire dell’amenità dell’ombra, della disposizione così ordinata degli alberetti, dei rivoletti che scorrono così piacevolmente, della sponda così piena di fiori e di fronde? Aggiungi poi l’arrivo di Mercurio, che ci ha sollevato da ogni noia dell’attesa, aggiungi la navigazione così favorevole; se l’udito non m’inganna, mi è parso anche di udire appena84 tra i virgulti il passo di Caronte e di Mercurio; e, infatti, eccoli qui, per Plutone, Eccoli! Stanno dietro ad un ginepro più basso, si vedono già. MINOSSE. Come li vedo volentieri, che gioia la venuta di Mercurio! E a tal punto sembra che nulla manchi al nostro godimento, che non ci abbia soddisfatto completamente. Ma come mai Mercurio cammina più lento del solito? EACO. Non temere, lo fa per aspettare Caronte. Lui è piuttosto lento nel camminare,85 poiché fa il mestiere del barcaiolo è più forte di braccia che di gambe.

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CHARON, VIII

VIII MINOS, AEACUS, MERCURIUS, CHARON. 21. MINOS. Expectatus venis atque adeo desideratus, mihique et collegae huic deus sapientissimus, nuntius diligentissimus. AEACUS. Solidissimam nobis affers adveniens voluptatem, facturus eam oratione tua longe solidiorem. MERCURIUS. Quod adventus vobis voluptatem attulerit meus gaudeo; idque est mihi quamiucundissimum, et, si quid est quod ego ipse vel dicendo vel respondendo delectare possim amplius, id in voluntate situm est vestra. Dicam ubi iusseritis, aut, si interrogare malueritis, respondebo. Imperia enim vestra utpote aequissimorum praesidum fore quam aequissima satis scio. Quid enim uterque vestrum nisi honestissimum exigere, praesertim a Mercurio potest? Etenim, iudices, quod dicere hic liceat, nimis quam male de me est meritum humanum genus! Furtis me praeficiunt ac praestigiis, qui sim vel acerrimus furum ulctor praestigiasque usque adeo oderim ut quotidie insecter magis. Sed cum in plerisque aliis tum in hoc maxime peccant homines, quod scelerum suorum deos tum auctores faciunt tum magistros. Mihi et diis coeteris nulla maior est quam honesti cura, atque adeo turpitudinem omnem detestatam habemus, ut precibus hominum, quanquam honestis, tamen, si turpem aliquem finem respectent, aures praebeamus occlusas. Quod autem, Minos, deum me appellas ac sapientissimum dicis, facis pro tua illa veteri in me, dum inter homines ageres, observantia et cultu; tamen sic habeto, deum esse me et e coelestium numero, ubi in coelis aut terris vagor; hic vero apud inferos tum apparitoris, tum lictoris fungi, non dei officio. Sapientissimum vero nec me, nec deorum quenquam dixeris; neque enim tali dii indigent nomine, quippe qui labi, errare, decipi, ignorare nequeant. At apud mortales, qui tanta offusi sint caligine et nube, nomen ipsum sapientis inventum est, ut ab ignorante et stulto is qui saperet discerneretur; quanquam vere sapiens apud illos adhuc inventus est nemo. Lictor igitur atque apparitor ad vos venio, vestris imperiis pariturus.

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CARONTE, VIII

VIII MINOSSE, EACO, MERCURIO, CARONTE. 21. MINOSSE. Ben arrivato; sei tanto mancato a me e al mio collega che è qui, sapientissimo dio, il più zelante dei messaggeri. EACO. Profondo piacere ci arreca la tua venuta, ma più profondo sarà quando ti sentiremo parlare. MERCURIO. Sono contento che la mia venuta vi abbia arrecato tanto piacere; ed è anche questa per me una grandissima gioia, se io parlando o rispondendo posso darvi un piacere ancora maggiore, fate come vi pare. Parlerò se me lo ordinerete, oppure, se preferirete farmi delle domande, risponderò. So bene che i vostri comandi saranno più che giusti come quelli di comandanti giustissimi. Che cosa potete mai volere entrambi, specialmente da Mercurio, se non qualcosa di più che onesto? E, infatti, giudici miei, mi si consenta dire, come si è comportato male con me il genere umano! Mi fanno patrono di furti e d’inganni,86 io che sono perfino acerrimo punitore dei ladri e che odio gli inganni a tal punto che giornalmente piuttosto li perseguo. Eppure gli uomini fanno molti altri peccati e soprattutto quello di addossare agli dei le loro scelleratezze, facendone gli esecutori e i mandanti. Io e gli altri dei non abbiamo altra preoccupazione maggiore che dell’onesto, e a tal punto consideriamo detestabile la turpitudine, da tener chiuse le orecchie alle preghiere degli uomini, quantunque oneste, se riguardano tuttavia una turpe finalità. Il fatto poi che tu, Minosse, mi abbia chiamato dio salutandomi come sapientissimo, dimostra che anche qui ti comporti nei miei confronti con venerazione e rispetto, come quando vivevi sulla terra; però tieni ben fermo che io sono una divinità, ossia appartengo al novero dei celesti, quando sto in cielo o sulla terra, mentre quando sono qui nel mondo degli inferi, il mio compito è quello di araldo o di littore, e non quello di un dio. Sapientissimo poi non dovresti chiamare né me, né alcun altro degli dei, perché a un dio non è appropriato un attributo come questo, non potendo sbagliare, o ingannarsi, o non sapere qualcosa. Fra i mortali, poiché sono offuscati nella mente dalla caligine e dalla nube dell’ignoranza, è stato inventato l’appellativo di «sapiente» per distinguere dall’ignorante e dallo stolto chi pur qualcosa sapesse, quantunque veramente sapiente presso di loro non se n’è trovato nessuno. Io vengo dunque a voi, come littore e araldo;87 e come tale sono pronto ai vostri comandi. 57

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CHARON, VIII

22. MINOS. Et deum te, Mercuri, ut par est, veneramur et sapientissimum appellamus, quando quo te honestiori exornemus nomine non habemus, ac tametsi lictoris fungare muneribus, nonne ipse scis etiam inter mortales maximorum regum lictores in maximis quibusque magistratibus ius ditionemque exercere? Quamobrem et nobis ut imperes iusque fasque est. Nostra vero interest tibi ut obediamus studeamusque doctiores a te fieri, quando et doctrinae inventor fuisti et rerum occultissimarum interpres. AEACUS. Quod pace tua, Minos, dixerim, neque cum Mercurio contendendum est tibi, qui primus et prudentiae et eloquentiae praecepta tradiderit, neque expectatio nostra longiorem fert cunctationem; aequius igitur magisque ex usu fuerit quamprimum ei causas explicare, cur hic eum iam dudum praestolemur. MERCURIUS. Et dei est, cui cogitationes quoque hominum notae sunt, id non expectare dum explicetis, et Charon certiorem me solicitudinis fecit vestrae. Principio Italia, unde ipse nunc venio, magnis quassata est terrarum motibus permultaque oppida prostrata solo iacent. Fontes plurimi partim mutarunt iter, partim exaruere. Videas editissimos montes illic subsedisse, hic iuga maiore quadam vi suis avulsa radicibus longius perlata magnosque hiatus factos, maiores paludes. 23. MINOS. Patiare, quaeso, Mercuri (avidiores enim sumus), inter explicandum sciscitari quaedam nos et causas ex te quaerere. MERCURIUS. Oppidoquam libenter. MINOS. Dicas igitur numquod saltem remedium, ne cunctae domus corruant, inventum atque adhibitum in tanta hac calamitate sit ab hominibus. MERCURIUS. Non usquequaque firmum, sed tamen salubre pro tempore. Tignis procerioribus parietes vinciunt eaque concatenant, cum quibus quanto salubrius actum esset, si affectus suos vincirent ratione nec cogitationes tam evagari sinerent! Quod singulis vix saeculis semel accidit, in eo avertendo magnopere occupati sunt omnes; quae vero pericula ac mala singulis pene momentis suae ipsorum nefariae cupiditates afferunt, ad ea volentes laetique feruntur. Nocte una post aliquot etiam secula quod ad viginti hominum millia sub tectis oppressa sunt, omnes hoc horrent incusantque, ac damnant naturam, quae vix scio quamobrem amplius illos fe-

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CARONTE, VIII

22. MINOSSE. Noi ti veneriamo come dio e ti chiamiamo sapientissimo, perché non abbiamo un appellativo più onorevole da darti, e sebbene adempi al compito di luogotenente, non sai che su nel mondo i luogotenenti dei più grandi sovrani in tutte le maggiori cariche esercitano il sommo potere? Perciò tu hai tutto il diritto e la facoltà di darci degli ordini. E noi avremo tutto l’interesse di obbedirti e ascoltarti, e di sforzarci di divenire più dotti per opera tua, perché sei stato l’inventore della dottrina e l’interprete delle cose più segrete.88 EACO. Con tua buona pace vorrei dirti, Minosse, di non metterti in competizione con Mercurio, con lui che fu il primo a impartire precetti di saggezza e di eloquenza, né la nostra attesa ammette altro indugio; sarà più giusto e più utile spiegargli al più presto perché qui da tanto tempo lo aspettiamo. MERCURIO. È prerogativa di un dio, al quale sono noti tutti i pensieri degli uomini, non attendere che li esprimiate. D’altra parte Caronte mi ha già parlato della vostra preoccupazione. In primo luogo l’Italia, di dove ora sto venendo, è stata sconquassata da grandi terremoti,89 e molte città giacciono prostrate al suolo. Moltissime sorgenti o hanno cambiato strada, o si sono essiccate; potresti vedere lì altissime montagne sprofondate, qui cime divelte dalle radici con una violenza mai vista trasportate più lontano, e le grandi spaccature e le immense paludi che si sono formate. 23. MINOSSE. Abbi pazienza Mercurio, per favore, se durante il tuo racconto ti facciamo qualche domanda (siamo avidi di sapere). MERCURIO. Volentierissimo.90 MINOSSE. Dicci, dunque, se gli uomini hanno trovato e adoperato qualche rimedio per evitare che le case precipitino tutte quante in così grande disastro. MERCURIO. Un rimedio ci sarebbe, ma non in tutti i casi sicuro, e tuttavia valido per qualche tempo. Fermano insieme le pareti con travi piuttosto lunghe servendosi di catene: ma come sarebbe meglio che incatenassero le loro passioni e non lasciassero tanto i loro pensieri vagare. Tale accidente capita appena una volta al secolo, e tutti si danno da fare per allontanarlo, mentre incontro ai pericoli e ai disastri che procurano ogni momento le loro sfrenate cupidigie si lasciano andare, vogliosi e contenti. Se dopo qualche secolo, in una notte, circa ventimila persone rimangono schiacciate sotto i loro tetti, tutti ne hanno terrore e maledicono la natura, che non so come riesca a tollerarlo. Ed essi poi con 59

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rat. At bella, quae unius horae momento et fere quo tannis multa hominum millia exhauriunt, interdum regna tota populosissimasque extinguunt nationes, qua non arte quaerunt? In his sese exercent; hic illis ludus, hae delitiae sunt; summum habetur decus caput hostis affixum hastae referre. AEACUS. Nihil profecto video eos mutasse in melius ex quo ipsi homines esse desiimus. MERCURIUS. Vix unum. AEACUS. Quodnam illud? MERCURIUS. Imperitantibus vobis, viri uxores adulteras repudiabant, at nunc ferro enecant. MINOS. Quid Mercurium ea quaerendo fatigas, quae tute probe noveris? An non compertum satis habemus deteriores illos quotidie atque in dies fieri? 24. MERCURIUS. Exequamur igitur alia. Exortus est cometes, qui, cum gravissima bella tum regnorum portendere eversiones soleat, omnium mentes atque animos concussit etiam futurorum metu malorum; aequissimeque cum illis agit deorum omnium maximus, qui non praesentibus solum malis eos cruciat, sed futurorum metu solicitat atque hanc praecipue poenam illis statuit, qui quae futura sint scire nimis quam laborant. MINOS. Cur, oro, Mercuri, rerum eventa nescire hominem deus voluit, quorum cognoscendorum tam sunt studiosi omnes? MERCURIUS. Quod inutilem sciret futurorum scientiam mortalium generi. MINOS. Quonam pacto inutile esse potest quod eventurum sit nosse, siquidem mala vel evitari penitus, vel ex parte saltem aliqua minui cognita possent, bona vero ante quam evenirent ipsa etiam spe atque expectatione mirum immodum delectarent aninum? 25. MERCURIUS. Omnis quaestio quae de consiliis habetur ac decretis magni Dei profana est minimeque nobis diis permissum est ea in vulgum depromere. Tamen sic habetote: quaecumque eveniunt, ea aut fortuito contingere, aut fato evenire, idest divino consilio et ordine. Si fortuito, stultum est velle homines id assequi ratione cuius ratio nulla sit; sin fato, quanquam insita est homini scientiae cupiditas, parum tamen capacem eum natura fecit cognoscendi futuri, cuius cognitio captum hominis excedat. Etenim ut eius divinus sit animus, moles tamen corporis,

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quale mezzo non cercano di suscitare guerre, le quali quasi ogni anno spengono migliaia e migliaia di vite, talvolta distruggono interi regni e popolosissime nazioni? In queste cose si esercitano; per loro è uno scherzo, una delizia. Il vanto maggiore è considerato quello di portare la testa di un nemico conficcata sull’asta. EACO. Non vedo mutati in meglio gli uomini, da quando noi non lo siamo più. MERCURIO. Sì, invece, ma in una cosa sola. EACO. E qual è questa? MERCURIO. Quando eravate voi a regnare, i mariti ripudiavano le mogli adultere, ora le fanno fuori. MINOSSE. Perché scocci Mercurio, chiedendogli cose che tu sai bene. Non abbiamo forse la certezza che si va di male in peggio? 24. MERCURIO. Perciò andiamo avanti. È apparsa una cometa,91 e questa, essendo generalmente presagio di gravissime guerre e di sconvolgimenti di regni, ha colpito la mente e il cuore di tutti anche per il timore di mali futuri; e il maggiore di tutti gli dei si è comportato in modo giusto con loro, non solo tormentandoli con i mali presenti, ma facendoli agitare con la paura del futuro e specialmente questa è la pena che ha loro inflitta, di affaticarsi quanto mai per conoscere il futuro. MINOSSE. Ti prego di dirmi, Mercurio, perché il cielo ha voluto che l’uomo non conoscesse il futuro, quando tutti si affaticano fin troppo per conoscere quel che avverrà? MERCURIO. Perché sapeva che conoscere il futuro sarebbe stato inutile al genere umano. MINOSSE. Come mai può essere che sia inutile conoscere l’avvenire, se i mali, a conoscerli prima, si potrebbero evitare o almeno alcuni in parte ridurre, e i beni potrebbero far gioire il cuore in modo straordinario con la speranza e l’attesa, prima che arrivino? 25. MERCURIO. Ogni interrogativo che riguardi la volontà divina è una profanazione, e a noi non è concesso dalla divinità di diffonderlo. Tuttavia dovete sapere questo: gli eventi o sono dati dalla contingenza, o dal fato, cioè dalla volontà ordinatrice del cielo. Se sono fortuiti, è una cosa sciocca voler arrivare con la ragione a ciò di cui ragione non esiste; se invece sono opera del fato, sebbene sia insito nell’uomo il desiderio di sapere, tuttavia la natura lo ha fatto ben poco capace di conoscere il futuro, che eccede la capacità umana. E, infatti, l’animo, pur essendo 61

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cuius quasi vinculis et carcere tenetur compeditus, minus illum habilem atque idoneum reddit, cui ipsa sese divinitas pandat; cumque eventa ipsa bona sint aut mala, mala prius intellecta miseram afferunt solicitudinem, nonnunquam et desperationem. Deus autem non eo consilio hominem genuit, ut miserabiliorem quam suapte natura sit efficere illum velit futurorum cognitione malorum, quae sciat evitare illum minime posse. Bona vero, tametsi vitam iucundiorem expectando facerent, tamen qui scierit ea sibi necessario eventura, is deses ignavusque efficietur, quippe cum certum habeat eventura etiam dormienti. At Deus hominem ad agendum comparandamque agendo virtutem creavit, aegre patiens illum quiescere, nisi tantum quantum animorum levationi aut reficiendis corporibus necessario detur; qui ne desidiosus efficeretur atque ignavus, egestatem illi rerum omnium comitem dedit laborareque in incerto eum voluit, dum semper eius certus labor esset. Sed his parum ipsi fortasse contenti, media quaedam esse dixeritis, quae suapte natura ac simpliciter nec bona sint nec mala. Media quoque haec, sive ea casu ferantur sive fati contineantur necessitate, quod dubia appareant, satis fuerit, cum eveniunt, providere homines ut in suam quisque utilitatem, quoad possit, vel convertat ea, vel, si minus id assequi valet, saltem hoc assequatur, ne rebus damno sint familiaribus, et, si ne hoc quidem, ut, quam fieri possit, minimum incommodent. 26. Igitur casus atque fortuna, ut dixi, cum ab omni procul ratione seiuncta, incerta, inconstansque feratur, quonam modo quod natura sua incertum sit, certum id efficere, et quod inconstans firmum reddere ratio poterit? et cuius certitudo nulla est, qua id ratione futurum mortalis quispiam possit assequi? Quae si nec sciri nec comprehendi ratione antequam eveniunt possunt, evitari quonam pacto poterunt? ubi igitur ista utilitas futurorum cognitionis erit hominum generi? Fatum vero vitari multo minus poterit, quippe cum non secus necessarium sit quod fato eventurum est ut eveniat, ac illud idem, postquam evenit, necessarium est evenisse. At liberae sunt hominum voluntates: sint, dum volendi libertas ista vel cum primis efficiat nihil esse utile mortalibus futuras res nosse. Quarum cognitio quid habere potest utile, si ubi quid evenerit, velint nec ne id homines, aut prehendere aut labi sinere in sua ipsorum

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divino, impedito com’è e quasi incatenato dai limiti del corpo, riduce nell’uomo l’attitudine a cogliere la manifestazione della divinità. Inoltre, essendo gli eventi o positivi o negativi, quelli negativi, avvertiti in anticipo, arrecano all’uomo una preoccupazione che lo rende infelice, talora perfino disperato. Iddio poi non ha creato uomo con l’idea che fosse più infelice di quello che la sua stessa natura lo faccia per via della conoscenza di mali futuri, che sa non poter lui assolutamente evitare; ed è così anche nel caso dei beni, perché, quantunque la loro attesa renda più gaia la vita, tuttavia chi sapesse che arriverebbero anche se lui dormisse,92 diventerebbe inerte ed ignavo. Ma Iddio ha creato l’uomo per l’azione e per acquistare la virtù attraverso l’azione, mal sopportando che egli dorma, se non quel tanto che è necessario ad alleviare l’animo e a ristorare le forze del corpo: e per non farlo diventare pigro e ignavo gli ha dato per compagna nella vita la mancanza di ogni cosa, e ha voluto che egli faticasse nell’incertezza, purché avesse una sola certezza, la fatica.93 Voi però, forse poco contenti della mia risposta, obietterete che ci sono anche degli eventi, per così dire, «di mezzo», che semplicemente non sono di per sé né positivi, né negativi. E anche gli eventi di mezzo, sia che procedano dal caso, sia che dipendano dalla necessità del fato, e siano evidentemente incerti, basterà che, quando sopravvengono, l’uomo provveda a rivolgerli a proprio vantaggio, fino a che gli è possibile, o almeno, se non gli è possibile, cerchi di fare in modo che non nuocciano alla famiglia, e se nemmeno questo sarà capace di fare, finché può, che gli diano il minor fastidio possibile. 26. E d’altra parte se il caso e la fortuna procedono, come ho detto, del tutto separati da ogni razionalità, nell’incertezza e nella instabilità, come potrebbe la ragione rendere certo quel che per sua natura è incerto, e stabile ciò che è instabile? E ciò di cui non c’è certezza, il futuro, in qual modo un mortale potrebbe conseguirlo? Ciò che non si può né sapere né comprendere prima che avvenga, come si potrà mai evitare? Dove mai ci sarebbe l’utilità della conoscenza del futuro per il genere umano? Molto meno potrà evitarsi il fato, perché non è meno necessario un evento destinato dal fato, di quello che, una volta avvenuto, sia avvenuto necessariamente.94 Ma la volontà dell’uomo è libera: sia pure, purché si ammetta che questo libero arbitrio rende inutile per i mortali la conoscenza del futuro. Infatti, che utilità potrebbe esserci in questa conoscenza, se, quando una cosa è avvenuta, la voglia o no l’uomo, non è riposto nella sua volontà 63

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voluntate sit positum? Et profecto quae tam certa futuris de rebus longe prius secernendi voluntas esse potest homini, quem sat scimus in praesentibus haesitare adeo ut momento eodem nunc hanc nunc illam et quidem contrariam itentidem probet damnetque sententiam, persaepeque, ante quam quid constituat certum habeat, occasio ipsa praetereat? Verum de fato atque fortuna, Minos, hactenus. Utinam ne in scholas qui philosophi vocantur haec ipsa introduxissent magisque se se institutos vellent ad ea, ubi evenissent, ferenda, quam quaerendo illa tempus frustra terere supraque vires intendere! Quid enim aut stultius quam hominem officium hominis nolle curare, aut magis temerarium quam hunc eundem hominem suis neglectis muneribus velle futurorum scientiam, quae unius est Dei possessio, invadere? 27. Quamobrem redeamus ad crinitam. Hanc obstupefacti mortales utinam tam noscerent quam admirantur! quam cum omnes metuant, omnes tamen male ominantur regibus, quasi non privata quoque regum mala in publicam cedant pernitiem. Equidem olim Ludis Megalensibus Romae cum essem recitarenturque in theatro Graecorum ac Troianorum res, exclamare inter recitandum e doctioribus quendam memini nobileque hoc fudisse hexametrum: Quicquid delirant reges, plectuntur Achivi.

Et vero ita comparatum est ut regum peccata populi plerumque luant. AEACUS. Ipsi haec olim magis experti sumus quam nunc audita referimus, et causam requirentes inveniebamus reges idem in populis ius habere, quod in corpore animus. Atque ut animorum perturbationes corpus inficerent, ita et regum vitia subiectos populos. Quoniam autem in regum mentionem incidimus, dicas velim, prudentissime Mercuri: quae nunc eorum qui civitates moderantur vita est, qui mores, quae studia, quale imperium, quam quietus eorum status? Nam quos paucis ante diebus pro tribunali causam dicentes audivimus non satis dignam nobis spem dedere successorum suorum. 28. MERCURIUS. Praetereunda nunc haec arbitror; nam et illic apud mortales de iis loqui satis tutum non est, et hic apud vos parum nunc

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prenderla o lasciarla andare? E di fatto quale volontà può avere l’uomo di scegliere in anticipo fra le cose future, quando ben sappiamo che egli esita di fronte ai casi presenti a tal punto da approvare e disapprovare or questa or quella opinione, anzi allo stesso tempo quella contraria, e molto spesso assume per certa una cosa prima di accertarla, e gli sfugge l’opportunità? Ma basta a parlare di fato e di fortuna, Minosse; e così non avessero introdotto questi argomenti nelle scuole95 quelli che si chiamano filosofi, e volessero essere preparati un po’ di più al modo di sopportare gli eventi, piuttosto che perdere il tempo inutilmente in questa ricerca, e attendervi oltre le loro forze. Che c’è di più stolto del fatto che un uomo non abbia interesse per il suo ufficio, o di più temerario del fatto che questo stesso uomo, lasciate le sue occupazioni, voglia invadere la scienza del futuro, dominio della sola divinità? 27. Torniamo perciò alla nostra cometa. Magari la gente stupefatta cercasse di sapere che cosa sia, piuttosto che rimanere meravigliata! Ché, mentre tutti la temono, tutti poi dicono che porta male soltanto ai re; come se anche i malanni privati dei re non ricadessero sulla sventura dei popoli. Ricordo di aver udito a Roma, durante le feste Megalesi,96 mentre si recitavano in teatro le gesta dei Greci e dei Troiani, uno dei più dotti esclamare durante la recitazione questo esametro: Ogni follia dei re la scontano gli Achei.97

Ed è verità assodata che generalmente sono i popoli a espiare i peccati dei re. EACO. E noi lo abbiamo sperimentato da un bel po’ di tempo, più che parlare per sentito dire, e cercandone la ragione scoprivamo che i re hanno sui loro popoli lo stesso diritto che ha l’animo sul corpo e che come i turbamenti dell’animo fanno male al corpo, così anche i vizi dei re ai popoli. E a proposito di re, vorrei che ci dicessi, Mercurio, con la grande esperienza che hai: che vita menano coloro che attualmente governano le città, quali sono i loro costumi, le loro inclinazioni, il loro potere, e quanto è tranquilla la loro posizione? Quelli che abbiamo sentito pochi giorni fa trattare le cause presso il tribunale, non ci fanno sperare bene dei loro successori. 28. MERCURIO. È bene lasciar stare quest’argomento, ora. Fra i mortali parlare di loro è cosa poco sicura; qui non credo che sia proprio neces65

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quidem necessarium esse duco; satque hoc sit nosse, quod eorum alii partim male habent populos suos, partim ipsi male habentur a populis. Tertium quoque portentum nimis graviter eos vexat: complures enim dies sol radios nullos misit aerque omnis ceruleus visus est, quae res hominum animos ad superstitionem vertit. CHARON. Obsecro, aequissimi iudices, aequis animis patiamini quaedam et me e Mercurio quaerere. MINOS. Iusque fasque est, atque (ut pro collega etiam pollicear) operae precium fuerit te tantum philosophum audire quaerentem. CHARON. Et habetur nunc a me vobis et referetur olim gratia. Quamobrem, Mercuri, si placet, quando et his gratissimum fore ipse nosti, explices oro quam vobis diis grata sit ista superstitio. MERCURIUS. Nihil ea molestius. CHARON. Qui, quaeso? MERCURIUS. Quia ridicula cum sit superstitio, qui ea in deos utitur illos quoque ridiculos facit. CHARON. Mirum quod superstitionem ridiculam dicas! 29. MERCURIUS. Atqui ne dum ridicula, infelix etiam est; quae cuius animum occupavit, nihil est eo homine miserius; cuius quaenam vita esse potest, dum omnia pavet, cuncta formidat, quodque infelicissimum est, dies ac noctes terit deos obtundendo, quos non multus sermo trepidaeque mussitationes aut excitae frigidissimis persaepe causis lacrimae, sed honestae gravesque actiones ac rectae voluntates moveant? An, Charon, eos esse deos iudicas qui hominum gaudeant lacrimis? et bonos et iustos et continentes, non lacrimosos Deus diligit. Etenim quid inde aut utilitatis Deo aut honoris, ubi nudis quis pedibus templa adit? Medicis utile fortasse. At Deus cur gaudeat hominum morbis, qui tot haerbarum genera, quae salubres illis essent, genuerit? Atque ut verum noscatis, nullum gravius malum homines invasit superstitione et studio ac metu isto in deos tam inani et frigido, nec tam vera religio diis est grata quam molesta superstitio; quae quam sit detestabilis hinc tute iudicato, quod, tanquam caede saginemur ac sanguine, hominem homo nobis mactat, quin et proprium fundit sanguinem. CHARON. Facinus quam nefandissimum! An, obsecro, sceleribus his sacerdotes ac pontifices non eunt ipsi obviam? quanquam ex omni ho-

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sario. Basti sapere che di essi alcuni trattano male le loro popolazioni, altri ne vengono maltrattati. Vi è anche un terzo motivo, un prodigio, che li stravolge: per molti giorni il sole non ha emesso raggi, mentre l’aria tutt’intorno appariva cerulea, cosa che fa rivolgere l’animo dei mortali alla superstizione. CARONTE. Vi prego, voi che siete giudici tanto equanimi, concedete di buon grado che anch’io faccia una piccola domanda a Mercurio. MINOSSE. È cosa giusta e lecita, e (per promettere anche a nome del collega) vale la pena ascoltare la domanda di tanto filosofo. CARONTE. Per ora vi ringrazio e vi ringrazierò ancora. Ti chiedo di spiegarmi, Mercurio, se non ti dispiace, poiché tu sai che anche a costoro sarà ben gradito, quanto a voi dei riesca gradita codesta superstizione. MERCURIO. Niente di più molesto. CARONTE. Perché, se è lecito? MERCURIO. Perché, essendo cosa ridicola la superstizione, chi la usa nei confronti degli dei rende ridicoli anche loro. 29. CARONTE. Bellissimo il fatto che definisci ridicola la superstizione! MERCURIO. Non solamente è ridicola, ma anche miserabile, perché quando prende l’animo di qualcuno, non c’è uomo più misero di lui: che vita può essere la sua quando di tutto ha paura, ha terrore di tutto; e l’infelicità maggiore è questa, che consuma i giorni e le notti infastidendo gli dei, i quali si fanno commuovere non da tante parole, da tremuli borbottii e da lacrime spremute molto spesso per cause insipide, ma dalle nobili azioni e dalla buona volontà. O ti pare, Caronte, che la divinità possa godere delle lacrime umane? Dio ama i buoni, i giusti, i virtuosi, non i piagnoni. E che utilità o onore ne viene a Dio, se uno si accosta al tempio a piedi nudi? Ai medici forse ne verrà qualche utile. Ma perché poi Iddio dovrebbe gioire delle malattie degli uomini, lui che ha creato tante specie di erbe per la loro salute? La verità è questa, che nessun male invade gli uomini più grave della superstizione e di codesto timoroso zelo, vano ed insulso, rivolto alla divinità, né alla divinità è tanto gradita la vera religione, quanto molesta la superstizione. La quale giudica tu stesso quanto sia detestabile, da far sì che l’uomo non solo ci offra in sacrificio vittime umane, ma versi anche il proprio sangue per noi, come se noi numi ingrassassimo volentieri col sangue delle stragi. CARONTE. Nefandezze, scelleratezze! E, per favore, i sacerdoti e i pontefici non si oppongono a queste scelleratezze? Quantunque io veda 67

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minum numero atque ordine, quos ipse quotidie transveho, foedioribus compunctum notis video neminem. 30. MERCURIUS. Nulli de vera religione sunt minus soliciti, quippe quorum studium est ampliare rem familiarem, congerere pecuniam atque in saginandis corporibus occupari; et cum nimis improbe avari sint omnes, nemo coenat lautius, nemo vestit elegantius. Dudum sacerdos cardinalis obsonatorem suum, quod in emendo lupo pisce pecuniae pepercisset (erat autem precium aurei sexaginta), quibus non maledictis est insectatus? parumque abfuit quin illi domo interdixerit, ut vitae suae parum studioso. Ac ne erres, Charon, vitam nunc, quae olim gula dicebatur, vocant. Alter quoque sacerdos eiusdem collegii moriens exoleto legavit aureum triginta millia. CHARON. Utinam quibus haec audio carerem auribus! tantumne facinus impunitum abire coeteri mortales sustinent? MERCURIUS. Superstitione tenentur. CHARON. Iam assentior nihil esse infelicius superstitione. MERCURIUS. Quantula sunt haec! Sacrum quoque sanguinem veneno tingunt! CHARON. Utinam nescirem philosophiam dispudeatque talibus nunc Deum ministris uti! Quamobrem, sapientissime Mercuri, relictis sacerdotibus, perge de superstitione dicere, quae mortalis omnes tam infeliciter vinctos atque oppressos teneat. MERCURIUS. Primum ea in mulierculis invenitur quam maxima. Illae ut picturam nactae sunt aliquam, ibi eam consulunt, et, ut coeteras res taceam, si anserculum vel gallinulam pituita oceuparit, quibus tum precibus ac lacrimis illam obsecrant! pueros puellasque vix septennes nugis his imbuunt. Sed quid de aniculis et puellis loquor, qui sciam deos solicitari quotidie a principibus viris, ubi falco longius evolaverit, ubi equus pedem contorsit, quasi aucupes dii sint, qui accipitrum curam habeant, aut tanquam fabri ferrarii equorum contusa et morbos curent atque ex hoc quaestu rem familiarem augeant? Videas in templis affixos accipitres etiam argenteos et equos et aves loquaculas. 31. CHARON. Iam, ut praedicas, nihil est homine inanius.

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purtroppo che, fra quanta gente che traghetto ogni giorno, non vedo nessuno segnato da un marchio più brutto. 30. MERCURIO. Non c’è gente meno preoccupata della vera religione, poiché tutto il loro interesse è di ampliare il patrimonio, accumulare denaro e occuparsi d’ingrassare il ventre; e siccome sono malvagiamente avari, nessuno cena più lautamente, nessuno veste con più raffinatezza di loro. Di recente un cardinale, con quali imprecazioni non assalì il suo dispensiere, perché nell’acquisto di una spigola aveva risparmiato (il prezzo era di sessanta monete d’oro!) e non l’aveva comprata? E ci mancò poco che non lo cacciasse da casa. E per non confonderti, Caronte, chiamano vita quella che una volta si chiamava gola. Un altro sacerdote dello stesso collegio morendo ha lasciato trecento mila monete d’oro a un relitto umano. CARONTE. Vorrei non avere le orecchie per non sentire queste cose. E tutti gli altri uomini tollerano che una scelleratezza di questa portata rimanga impunita? MERCURIO. Sono dominati dalla superstizione. CARONTE. Ormai devo ammettere che nulla è più infausto della superstizione. MERCURIO. Questo non basta. Avvelenano anche il sangue consacrato. CARONTE. Magari non sapessi la filosofia, e Dio dovrebbe vergognarsi di aver tali ministri! Perciò, sapientissimo Mercurio, messi da parte i sacerdoti, continua a parlare della superstizione, che opprime tutti i mortali e li tiene infelicemente legati. MERCURIO. Prima di tutto essa alberga più che mai nelle donnicciole. Queste, come s’imbattono in un’icona dipinta, subito le chiedono consiglio, e per non dire altro, se un anatroccolo o una gallinella hanno la pipita,98 con quali preghiere e lacrime la supplicano, riempiendo di queste sciocchezze la mente di bambini e bambine di manco sette anni! Ma che dico, anatroccoli e bambine! Lo so io come ci siano principi che ogni giorno ricorrono alla divinità perché il falcone è volato troppo lontano, perché il cavallo ha preso una storta alla zampa,99 quasi che gli dei facessero i guardiani di uccelli o si occupassero come maniscalchi di contusioni e di malattie accrescendo il patrimonio familiare mediante questo mestiere. È uno spettacolo veder appesi sparvieri d’argento, o cavalli, o volatili nei templi. 31. CARONTE. A sentir te, l’uomo è l’essere più sciocco di tutti. 69

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MERCURIUS. Inaniora his audies: non pedes modo et manus e caera aut metallo suspendunt tholis, sed et oscenas corporis partes, et quod medico erubescunt ostendere, id ante deorum effigies collocare non pudet. Atque ut vana illorum ingenia magis ac magis rideas, rem supra quam dici possit inanem ac despicabilem accipe: Martinum Galli, Ispani, Germani, Itali sic colunt, ut turpe sit eius festo die ebrium ac madentem non esse. Itaque nihil est in terris eo die vinosius, nihil petulantius. In quodam Germaniae oppido, ubi Martini dies illuxit, statuam eius per publica oppidani loca efferunt; qui si clarus serenusque fuerit, operaeprecium est quis suaviori possit vino Martinum inspergere. Omnes viae plenae sunt vasculis, nullus est qui non Martinum comitetur lagenatus, atque hac ratione per vias, porticus, templa vino ille madens fertur. At si pluerit, nihil est Martino contemptius. Luto totus conspergitur viaeque et cloacae in eum eluuntur. Neapoli, Campanorum urbe celebri, Maio mense sacerdotes per urbem coronati incedunt, quasi amantes adolescentuli. Sed hoc quidem levius fuerit. Rem nosce dignam tamen quae a sapientibus viris clausis auribus audiatur. Ubi omnis populus in templo convenit, de trabibus summi tecti resti deligata porcella demittitur ac multo sapone circunlita. Adsunt agrestes ad ludum vocati. Ibi oritur magna contentio, agrestibus ut ea potiantur annitentibus, qui vero appensam illam tenent agrestium manus arte ludentibus ac nunc subtrahentibus funem, nunc in diversa laxantibus. Dum haec geruntur, turba ludo intenta et nunc his nunc illis plaudente, ibi quasi himber magna vis aquarum, maior iuris atque urinae e tecto compluribus simul locis diffunditur; agitur etiam humanis excrementis, nec prius cessatur quam agrestes porcella vi potiti sunt. Quid igitur tibi videtur, Charon? 32. CHARON. Quod pace dixerim tua, Mercuri, non video cur haec sint condemnanda. MERCURIUS. Iocaris fortasse. CHARON. Imo serio dico. Nam et illi officium suum adversus Martinum faciunt, utpote qui ebrii cum sint, a vini ac gentis natura minime

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MERCURIO. Se mi ascolti, udirai di stoltezze ancora maggiori: appendono alle nicchie non solo gambe e mani di cera o di metallo, ma anche quelle parti oscene del corpo, che si vergognano di mostrare al medico.100 E per farti ridere ancora di più della loro testa vuota, ti racconterò la cosa più sciocca e spregevole mai possibile. I Francesi, gli Spagnoli, i Germani, gli Italiani venerano san Martino in questo modo, che nel giorno della sua festa101 è reputata una cosa brutta non essere ebbri e avvinazzati. Perciò in quel giorno non c’è sulla terra maggiore ubriacatura e sfrontatezza. In un paese della Germania, non appena spunta il giorno di san Martino, i popolani portano la sua statua per i luoghi pubblici; e se il giorno è chiaro e sereno, vale la pena spruzzare Martino col vino più dolce che c’è. Tutte le strade sono piene di barilotti, non c’è nessuno che non accompagni Martino con i fiaschi in mano e in questo modo lui passa per le strade, i portici, i templi tutto bagnato di vino. Ma se piove, non c’è nulla di più spregevole che san Martino: viene cosparso tutto quanto di fango, le strade e le cloache sono ripulite per versargli tutto addosso. A Napoli, celebre città della Campania, nel mese di maggio i preti vanno in processione per la città con una corona in testa come ragazzi innamorati. E questo sarebbe niente. Invece devi sapere una cosa degna di non essere ascoltata dalle orecchie dei sapienti. Quando tutta la popolazione si raccoglie nel tempio, dalle travi del soffitto calano giù una porchetta legata con una fune e tutta spalmata di sapone. Assistono i contadini chiamati a fare il gioco. Allora sorge una grande contesa, con i contadini che cercano d’impadronirsi della porchetta, mentre coloro che la tengono appesa cercano di farla sfuggire alle mani dei contadini, ora tirando la fune, ora allentandola per farla andare di qua e di là. Mentre si svolge questa scena, e la folla è attenta al gioco applaudendo da una parte e dall’altra, ecco che una gran massa di acqua come una pioggia fatta di brodaglia e di urina si riversa da più parti del tetto; si usano anche gli escrementi umani, e tutto non finisce prima che i contadini si siano impadroniti della porchetta.102 Che te ne pare, Caronte? 32. CARONTE. Permetti, Mercurio, non vedo che c’è di tanto scandaloso in tutto questo. MERCURIO. Vuoi scherzare? CARONTE. Sto dicendo sul serio. Gli uni, infatti, rendono il dovuto onore a san Martino, giacché, ubriachi come sono, non fanno altro che adeguarsi al vino e alla razza loro, mentre gli altri che partecipano al 71

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CHARON, VIII

recedunt. Et hi, qui porcellam lusitant, palam faciunt aeque ac sues luto humanum omne genus superstitionis coeno sordibusque volutari. MERCURIUS. Fateor me rationibus istis victum. CHARON. Hoc est philosophari, sed nescis, Mercuri, paulo ante quam mihi animum pupugeris, ubi Campanos nominasti; nimis enim sum veritus ne de campanis dicturus esses aliquid, quarum non modo sonitum, verum etiam nomen ipsum odi. Nam qui pati eas homines possint sane quam miror, cum me interdum hic optundant, quarum fragor ad arborem illam usque, quae ad septem millia passuum a nobis hinc abest, perveniat. Noscis quam dicam arborem, Timonis fìcum; Timon enim, quod iudices hi recordantur, cum in se dicta esset sententia, petiit dari sibi fìcum eam et restim in loco illo solitario; habere enim odio frequentiam hominum ac velle ibi quaestum facere carnificinum; daturam eam fìcum quot annis magnum Plutoni portorium, lege dicta ne cui ante cognitam causam, nisi ex ea se arbore liceret, suspendere. MERCURIUS. Noli, obsecro, irridere homines, quod campanas tam saepe pulsitent. CHARON. Desipere me vis. MERCURIUS. Imo sapere magis quam sapis, quanquam multum ipse sapis; omnes homines, Charon, quanquam ventris multum, capitis certe minimum habent, atque hoc, quantuluncunque est, habere nollent. Quocirca diu quaeritantes quanam ratione facilius illud perderent, campanas adinvenerunt. 33. CHARON. Bellissime, par pari retulisti. Verum ego, dum quaerendi sum studiosior, vereor ne praetoribus, prudentissimis viris, quibus nullum frustra tempus praeterit, oratio mea, si non molestior, certe longior visa fuerit. Quamobrem dicendi fìnem faciam, si hoc a vobis impetravero, iudices, ut quod unum scire vehementer cupio, id ex Mercurio intelligam; non quod mea intersit aliquid (quid enim Charonti cum hominum levitate?), nisi quod sapientiores illos vellem. MINOS. Tuum hoc studium, sapientia nostra est, et, per Stygem, sermo hic, qui de superstitione est a deo habitus, rerum naturae maxime convenit. Sed tamen, nescio quomodo, dum homines ipsi essemus gentibusque imperaremus, gubernandis populis ea necessaria visa est; adeo videtur

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CARONTE, VIII

gioco della porchetta fanno chiaramente rivoltolare il genere umano nel fango e nelle sporcizie della superstizione, come i porci nel brago. MERCURIO. Mi dichiaro vinto; hai ragione. CARONTE. Questo significa filosofare, ma non sai, Mercurio, che quando poco fa hai nominato i Campani mi hai toccato il cuore? Ho temuto, infatti, che ti riferissi alle campane, di cui detesto non solo il suono, ma perfino il nome. Perché non so dirti quanto mi meraviglio del fatto che gli uomini riescano a sopportarle, quando qui certe volte mi assordano, perché il loro fragore arriva fino a quell’albero che dista da noi settemila passi. Sai di quale albero parlo, il fico di Timone; egli, infatti – e i giudici che sono qui lo ricordano – quando fu pronunciato il verdetto contro di lui, chiese che gli si desse quel fico e una fune in quel luogo solitario:103 aveva, infatti, in odio la folla e voleva far lì il mestiere del carnefice;104 quel fico avrebbe dato ogni anno a Plutone una gabella, in forza di una legge per la quale a nessuno fosse lecito impiccarsi se non a quell’albero prima che si celebrasse la causa. MERCURIO. Ti prego, non prendere in giro gli uomini perché tanto spesso fanno suonare le campane. CARONTE. Vuoi allora che sia scemo. MERCURIO. Anzi voglio che tu sia più saggio di quanto sei già, e lo sei già molto. Tutti gli uomini, Caronte, quantunque di pancia ne abbiano molta, di testa ne hanno certamente pochissima, e questa, per piccola che sia, non la vorrebbero avere. Perciò, dopo una lunga ricerca di come fare per perderla, hanno inventato105 le campane. 33. CARONTE. Benissimo, ora siamo pari. Ma, se mi faccio prendere troppo dal desiderio di farti domande, temo che ai giudici, persone piene di tanta sapienza, che per loro il tempo non scorre mai invano, le mie parole, se non moleste, senza dubbio sembreranno troppe. Perciò la finirò di parlare, se riuscirò ad ottenere da voi, giudici, che Mercurio mi faccia capire una sola cosa che ardentemente desidero sapere; non che m’interessi alcunché (che ha a che fare Caronte con la leggerezza umana?), ma vorrei che essi fossero più saggi. MINOSSE. Questo tuo desiderio corrisponde alla nostra sapienza, e, per lo Stige, questo discorso che è stato tenuto dal dio sulla superstizione è molto conforme alla natura. E tuttavia, non so come, quando eravamo uomini e comandavamo sui popoli, la superstizione pareva necessaria al governo politico; a tal punto pare che se la passino male quelle società 73

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CHARON, VIII

male agi cum iis civitatibus in quibus superstitio nulla est! Unde namque tantum boni in hominum vita, ut multitudini nota esse possit vera religio? Sed perge, Charon, nihil te impedimus. CHARON. Utar permisso, brevi tamen dicendi vobis possessionem restituturus. Ne te igitur pigeat, deus, et mihi et his declarare inter tot hominum genera, si te sors aliqua hominem fieri et inter mortales versari ut mortalem cogeret, quem te esse hominem malles? 34. MERCURIUS. Absit a deo quaecunque necessitas. Ex hoc enim ipso, quod deorum sum nuntius et hominum res disquiro, satis superque detestari possum humanam conditionem. Novi hominum labores, novi miserias; quibus quid esse potest erumnosius? Iure igitur, ne dum recusem hominis subire velle affectus, perturbationes, aegritudines, nec animi minus quam corporis, humanam vitam miseror, ut quam omni e parte infelicissimam iudicem; sicque habeto, Charon, quae bona huic generi natura tribuerit, ea omnino esse quam paucissima, atque ea, quantulacunque sunt (sunt autem minutissima) dum vincuntur homines cupiditatibus, dum perperam agunt atque eligunt, ita sane corrumpunt, ut quae natura sunt bona, nequiter illis utentes in pernitiem suam vertant. Verum inter tot ac tam varias hominum speties quosdam nimis quam odi atque execror. CHARON. Quinam sunt isti? MERCURIUS. Iudaeorum nomen quam infensissime insector. CHARON. Scilicet recutiri times ac foenerare. MERCURIUS. Nequaquam, siquidem commune est illud Turcis, Mauris, Syris, hoc omnibus; verum ne superstitio prorsus me miserrimum faceret. CHARON. Nihil habent ergo Iudaei quod ipse probes? MERCURIUS. Vix unum. CHARON. Quodnam est illud? MERCURIUS. Quod nihil de sepultura curant; in pratis ac sub divo humantur. At Christianus de sepulcro quam de domo solicitus magis est. Quid quod, perinde ae si cum mortuis bellum gerant, qui nunc vivunt quae mortui aut ipsi sibi dum viverent sepulcra posuerunt aut testamento faciunda caverunt, eiectis inde cadaveribus, ea sibi per vim occupant, ut nec vivis nec mortuis Christianis ulla sit requies aut locus ullus suus?

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CARONTE, VIII

dove non esiste la superstizione! Ci sarebbe, dunque, e come mai è possibile, tanta perfezione nella vita umana, che alla massa sia nota la vera religione? Ma va’ avanti, Caronte, nessun impedimento da parte nostra. CARONTE. Approfitterò del permesso, ma per restituirvi in breve la parola. Perciò non t’infastidisca, o dio, di dire chiaramente a me e a costoro, fra tanta specie di gente, se per caso ti costringessero a diventare uomo e vivere fra i mortali, che tipo di uomo preferiresti essere? 34. MERCURIO. Mai sia un dio dovesse obbedire a una qualche necessità. Per il fatto stesso che sono messaggero degli dei e mi occupo degli affari degli uomini, sono in grado di detestare abbastanza e anche di più la condizione umana. Conosco la fatica degli uomini, conosco le loro miserie; che cosa può esserci di più tormentoso? A giusta ragione dunque, non solo rifiuterei di voler subire le passioni dell’uomo, le sue perturbazioni, le sue malattie, dell’animo come del corpo, ma ho compassione della vita umana, tanto da considerarla infelicissima sotto ogni punto di vista; sappi questo, Caronte, che i beni dati dalla natura al genere umano sono ben pochi e, per quanto pochi siano (e sono cose assai minute), gli uomini stessi li guastano facendosi vincere dalle passioni, agendo e scegliendo male, tanto da trasformare in propria rovina i beni naturali usandoli in modo dissoluto. Ma tra tante e varie specie di uomini alcuni ne detesto e ne aborro. CARONTE. Chi sono costoro? MERCURIO. Non posso vedere soprattutto i Giudei. CARONTE. Forse perché hai paura della circoncisione106 o dell’usura? MERCURIO. Macché! Perché la circoncisione è comune anche fra i Turchi, i Mori, i Siriani; l’usura a tutti. Ma avrei timore che la loro superstizione mi rendesse più infelice che mai. CARONTE. Non hanno nulla, dunque, i Giudei che ti senta di approvare? MERCURIO. Appena una cosa. CARONTE. E che cos’è? MERCURIO. Che non si danno pena per la sepoltura, e seppelliscono sui prati e sotto il cielo, mentre un cristiano si preoccupa quasi più della tomba che della casa. Che dire di più? come se facessero guerra anche con i morti, i viventi occupano con la forza, disseppellendo i cadaveri, i sepolcri che quelli si sono fatti fare spesso ancora da vivi, o hanno disposto per testamento di farseli fare. Si direbbe che i Cristiani non trovino riposo o un posto conveniente, né da vivi, né da morti. 75

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CHARON, IX

CHARON. Satis cognitum habeo nihil nec Christianis nec coeteris hominibus diu suum esse. Itaque recte plane facere eos iudico qui mortuis invideant. Sed iam tempus est me hinc abire, tu vero his ut reddare. Utinam et me sermonibus adesse his liceret! Verum muneri concedendum est; plurimos enim expectare in portu video, nec committendum ut, dum sciendi voluptate capimur, ab agendis rebus, quae quidem necessitas est, avocemur.

IX CHARON, DIOGENES, CRATES. 35. CHARON. Salve, Diogenes, ut recte? DIOGENES. Heroice ac magis etiam quam heroice. Heroes enim quanquam male assa, bubula tamen vescebantur, ego vero pisce, et quidem crudo; quae res effecit ut magna me e parte in piscis naturam induerim. Nam quod hominis proprium est, ambulare, id omnino dedidici, tantum natito. CHARON. Rem igitur mihi gratissimam feceris, si dum illuc in portum revehor, natitans mecum serio aliquid loquere, quo laborem hunc meum dicendo leves. DIOGENES. Dum ne me canem appelles. CHARON. Quid si piscicanem? DIOGENES. Perplacet. CHARON. Dicas igitur, obsecro, piscicanis, an eorum quae in vita egeris alicuius te nunc delectet memoria. DIOGENES. Multorum atque unius maxime. CHARON. Nam cuius, obsecro? DIOGENES. Dicam: cum aliquando et esurirem et algerem una nec haberem unde commodius, e deo quodam ligneo igniculum mihi paravi et coenulam eo coxi. CHARON. Num non deus ille telum in te aliquod torsit seque est ulctus? DIOGENES. Fumulum statim in oculos immisit, quem ego buccis pilleoloque confestim pepuli. CHARON. Gladiatoris hoc fuit, magis quam philosophi.

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CARONTE, IX

CARONTE. Adesso so con certezza che né i Cristiani né gli altri uomini possiedono qualcosa che duri a lungo. Perciò penso che si abbia proprio ragione d’invidiare i morti. Ma per me è già ora di andarmene, per te di tornare da loro. Magari potessi stare anch’io presente a questi discorsi! Devo invece ritirarmi per adempiere al mio compito; vedo, infatti, che sono molti quelli che aspettano nel porto, e non bisogna commettere l’errore che, presi dal piacere di conoscere, veniamo distratti dal dovere, che è necessario osservare.

IX CARONTE, DIOGENE, CRATETE.107 35. CARONTE. Buon giorno, Diogene. Tutto bene? DIOGENE. Mi sento un eroe, anzi più che un eroe. Perché gli eroi mangiavano carne bovina, ma quasi cruda o male arrostita; io invece mangio pesce, e per giunta crudo. E per questo è successo che abbia assunto in parte la natura di un pesce; ho disimparato, infatti, a fare quel che è proprio degli uomini, passeggiare, e mi muovo soltanto a nuoto. CARONTE. Mi farai un grande piacere, se mentre ritorno lì, al porto, mi accompagnerai a nuoto parlando un poco con me, sul serio, per alleviare questa mia fatica. DIOGENE. Purché tu non mi chiami «cane».108 CARONTE. E se ti chiamassi «pescecane»? DIOGENE. Mi piacerebbe molto. CARONTE. E allora dimmi per favore, pescecane: se delle tante cose che hai fatto nella vita, te ne ricordi qualcuna con piacere? DIOGENE. Ce ne sono molte, ma una specialmente. CARONTE. Quale? Ti prego. DIOGENE. Questa. Avendo fame e freddo insieme, e non sapendo come meglio fare, mi sono preparato un bel fuocherello con un dio di legno, e me ne sono servito per cucinarmi la cena. CARONTE. E quel dio non ti ha lanciato un dardo per vendicarsi? DIOGENE. Mi ha lanciato contro gli occhi del fumo, che io subito ho scacciato sbuffando e scuotendo il berretto. CARONTE. Ti sei comportato da gladiatore, non da filosofo.

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CHARON, IX

DIOGENES. Quid mirum? Gladiatoriam didiceram. Nam cum Athenis olim agerem Platonique in schola docenti bipedem pennatam obtulissem, tum ille: «Amice Diogenes, inquit, qui tam robustos lacertos habeas, noli, obsecro, ante a nobis discedere, quam te gladiatorio in ludo dies aliquot exercueris». Tum ego didici gladium agere ac caesim ferire et punctim. CHARON. Qui adversus deum arte hac pugnaveris, leges quam statuunt poenam in eos, qui sacras res violant, arte qua declinasti? DIOGENES. Facile id quidem fuit. Nam cum frequenti populo contra me ageretur, tum ego: «Praetor, inquam, tu te scis me canem esse, quod et ipse confiteor; leges autem hominem, non canem puniunt; lege igitur mecum agere nihil tibi omnino licet». Quo dicto cum qui aderant assensissent, illico me praetor absolvit. CHARON. Quam bellissime! Cuiusnam alterius secundo tibi loco iucunda est recordatio? 36. DIOGENES. Huius, quae me beat. Cum venisset ad me Alexander egoque in dolio intus conquiescerem verererque ne discedente illo milites, quos secum comites adduxerat (erant autem quam importunissimi), per clivum me illum devolverent, consilium coepi hoc, quod eventus ipse comprobavit optimum: vesperi coenitaveram polentulam cauliculosque cum coepa et rapum tostulum. Vires igitur omnes ventris coegi et crepitum quantum potui ieci maximum, quo perculsi occlusis naribus statim versi sunt in fugam. CHARON. Igitur qui vires orientis fregere, eos tu commento isto vicisti tam facile? DIOGENES. Ne mirare, siquidem ex meo hoc invento commenti nunc sunt bombardas, quibus muros urbium et, quod maius est, arces diruant. CHARON. Igitur qui regem liberalissimum contempsisti, pauper, credo, decesseris. DIOGENES. Nemo philosophorum omnium amplius legavit testamento, ut qui aliquot ante quam morerer diebus arcessierim maximum ad me canum omnis generis numerum, eisque legaverim domos nobilitatis ac principum omnium, caverimque ut ne per ocium voluptatibus fruerentur, die illos venatibus exercerent, noctu ne quietos somnos agerent, latrando ululandoque interturbarent eos. Sed, obsecro, philosophe Cha-

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CARONTE, IX

DIOGENE. Non c’è da meravigliarsi; avevo appreso il mestiere dei gladiatori. Infatti, quando vivevo ad Atene, e a Platone, che insegnava nella sua scuola, mi presentai con una gallina, lui mi disse: «Amico Diogene, se hai braccia così robuste, ti prego, non lasciarci prima di esserti esercitato per qualche giorno alla scuola dei gladiatori»;109 così imparai a usare la spada e a ferire di taglio e di punta. CARONTE. E avendo combattuto contro un dio con l’arte che le leggi stabiliscono come pena contro chi oltraggia le cose sacre, con quale arte te la sei cavata? DIOGENE. È stato facilissimo. Poiché era piena di gente la sala dove mi processavano, dissi: «Pretore, tu lo sai che tutti mi chiamano “cane” ed io confesso di esserlo: orbene le leggi puniscono gli uomini, non i cani; dunque non ti è lecito procedere con me come con un uomo». Detto questo, i presenti furono d’accordo e il pretore lì per lì mi assolse. CARONTE. Magnifico! E qual è in secondo luogo una cosa che ti ricordi con piacere? 36. DIOGENE. Questa, che mi fa gioire. Venuto da me Alessandro Magno mentre io mi riposavo dentro la mia botte,110 temendo che quando se ne fosse andato i soldati del seguito (erano, infatti, dei bricconi) mi facessero rotolare giù dal pendio, presi questa decisione, e ciò che accadde mi dette ragione: avevo cenato la sera con polenta, cavoli, cipolla e rape abbrustolite. Allora raccolsi tutte le forze del ventre e feci un rumore quanto più forte potei, e loro, quando lo sentirono, si tapparono il naso e si volsero in fuga. CARONTE. E così, tu vincesti tanto facilmente con questa trovata chi aveva sconfitto le armate d’Oriente? DIOGENE. Non ti meravigliare, perché da questa mia trovata hanno oggi preso lo spunto per le bombarde, con cui abbattono le mura delle città e, quel che è peggio, le fortezze. CARONTE. Sicché, se hai rifiutato le liberalità di Alessandro, sei morto povero, credo. DIOGENE. Mai nessun filosofo ha lasciato di più per testamento, perché io alcuni giorni prima di morire feci venire intorno a me un infinito numero di cani, di ogni genere e ho lasciato loro in eredità i palazzi dei nobili e dei principi, e perché costoro non si abbandonassero ai piaceri nell’ozio, ho disposto che di giorno li facessero affannare in caccia, e di notte, abbaiando continuamente, non li lasciassero dormire in pace.111 79

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CHARON, X

ron, nolis mihi impedimento esse, mullum video quem expiscatum volo in coenam, et iam advesperascit. Vale igitur. CHARON. Homo hic et vivus et mortuus contemptui omnes habet. Sed bene habet; Craten video, eum congrediar. Et bene valeas, Crates, et fortuna meliore utare. 37. CRATES. Nec valere recte potest cui quotidie stultitia lugenda ac luenda sit sua, nec fortuna secunda uti qui per temeritatem illam sibi adversam facit. CHARON. Ecquae inveniendae pecuniae relicta est spes? CRATES. Nihil hucusque indicii habeo. CHARON. Cessa paulum a labore et mecum hos invise, qui maesti lamentantesque in portu manent. CRATES. Satis habeo de meo quod lugeam, ne quaeram aliunde. Sed parce, obsecro, Charon; loculos quosdam procul video super aquas ferri; magnum hoc indicium est. CHARON. Infelix hic miseria sua facile et alios miseros faceret. Quocirca et huius et infelicium omnium fugienda est consuetudo atque familiaritas, qui cum ipsi nec levationem ullam nec rationem accipiant, nescio quomodo aliorum infixam animis doloris notam quandam relinquunt. Abeat igitur sua cum miseria; me satius erit remo incumbere, quando ventus nihil iam velum promovet.

X MINOS, MERCURIUS, AEACUS. 38. MINOS. Quid autem portenta sibi ista volunt? MERCURIUS. Pestem significant et bellum. MINOS. Bellum ne? a quibus? MERCURIUS. A sacerdotibus. MINOS. Ab iis igitur inferetur bellum, quos maxime deceret pacis auctores esse? MERCURIUS. Verbis pacem, coeterum rebus bellum petunt. MINOS. Inferendi belli quaenam causa? MERCURIUS. Ampliandi regni cupiditas. MINOS. Horum igitur malorum causa est avaritia?

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CARONTE, X

Ma per favore, filosofo Caronte, non mi dare impaccio, non vedo un pesce che vorrei aver pescato112 per la cena. Ordunque, addio! CARONTE. Quest’uomo ha disprezzato tutti da vivo e lo fa anche da morto. Ma tutto è a posto! Ecco Cratete, m’incontrerò con lui. Stammi bene, Cratete, e in più buona fortuna. 37. CRATETE. Bene non può stare uno che quotidianamente deve piangere e scontare la sua scemenza, né aver buona fortuna chi se la rende avversa per la sua temerità. CARONTE. Non ti è rimasta dunque la speranza di ritrovare il tuo denaro?113 CRATETE. Finora non ho alcun segno positivo. CARONTE. Riposati un poco, e vieni con me a vedere quelli che rimangono sul porto a lamentarsi tristemente. CRATETE. Ho motivi a sufficienza per piangere su me stesso, per cercarne altrove. Ma, ti prego, Caronte, abbi pietà. Vedo laggiù delle cassette trascinate dall’acqua; è un bel segno. CARONTE. Questo infelice con la sua miseria sarebbe capace di rendere infelici anche gli altri. Perciò bisogna evitare la consuetudine e la familiarità con lui e con tutti gli infelici, i quali, non avendo essi stessi alcun motivo di sollievo, non so come, lasciano negli altri impresso nell’animo un segno di dolore. Se ne vada dunque con la sua miseria; è meglio che io mi pieghi sul remo, giacché il vento non accenna a spingere la vela.

X MINOSSE, MERCURIO, EACO. 38. MINOSSE. Che vogliono dire i portenti di cui parlavi? MERCURIO. Indicano peste e guerra. MINOSSE. Guerra? da parte di chi? MERCURIO. Dei religiosi. MINOSSE. Da parte di quelli dunque che dovrebbero promuovere la pace? MERCURIO. La pace a parole, ma è la guerra che cercano. MINOSSE. E che ragione c’è per portare la guerra? MERCURIO. La brama di ampliare il potere. MINOSSE. Dunque la causa di questi malanni è sempre l’avidità? 81

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CHARON, X

MERCURIUS. Ea ipsa; quae in hoc hominum genere quanta sit dici vix potest. MINOS. Videlicet obliti sunt iustitiae. MERCURIUS. Quae, obsecro, haberi potest iustitiae ratio ubi regnat avaritia? MINOS. Quid? quae in Italia urbes florent, eae nonne pro tuenda libertate conspirant? MERCURIUS. Earum nomine quidem libertas est, re autem tyrannis mera; quodque alius alio magis rapere de publico studet, cives quotidie proscribuntur, nec ratione in illis vivitur nec consilio, verum cupiditate ac partium studio. MINOS. O libertatem cito perituram! Quid reguli? MERCURIUS. Mirifice dissentiunt, et, quod praesentibus solum voluptatibus intenti sunt, nihil sunt de futuro soliciti, nec vident haud multo post seque suasque urbes in aliorum potestate futuras. Vana sunt eorum ingenia, corrupti mores animique, qui nihil principibus, nihil Italicis hominibus dignum concipiant. 39. MINOS. Interiit romana virtus! Et vero, Mercuri, quamvis graecus ipse fui, dum considero nullos populos, gentem nullam nec fortiores habuisse nec iustiores cives, qui etiam bene vivendi formulas nationibus tradiderunt, mirum immodum commoveor tantopere non Romam modo, verum Italiam omnem ingeniis destitutam esse ac viris. M ERCURIUS. Caret plerunque successoribus virtus, et cum bonis aliis caveri testamento possit, virtus in hereditatis appellationem minime concedit. Regnorum ut principium sic etiam fi nis est; perinde enim ut dies ortus atque occasus habent. Multum in hominum ingeniis tempus valet, plurimum institutio. Coeterum coelestis ordo mundique conversiones moventque et agunt cuncta. Quas, Aeace, Graecia illa tua olim tam clara et nobilis, quas, inquam, passa est calamitates et urbium et ingeniorum? Quid dixi ‘passam’, quae nulla iam est? Conversus sum ad te, Aeace, quem video iam dudum ingemiscere ac vix tenere posse lacrimas. Ubi genus illud tuum? ubi successio tam illustris? Sed vetera

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CARONTE, X

MERCURIO. Quella, sì; e quanto sia grande nel genere umano non si può nemmeno dire.114 MINOSSE. Della giustizia, evidentemente se ne sono dimenticati. MERCURIO. Quale considerazione si può avere della giustizia dove regna l’avidità? MINOSSE. E come? Le città che in Italia fioriscono non si alleano per difendere la libertà? MERCURIO. Una libertà di nome è quella loro, ma in realtà si tratta di mera tirannide; e poiché uno più dell’altro cerca di rubare allo stato, ogni giorno si fa una proscrizione di cittadini, e nelle città la vita non si fonda né sulla ragione, né sulla saggezza, ma sull’avidità e sullo spirito di parte. MINOSSE. O libertà destinata rapidamente a sparire! E i signori,115 che se ne fanno? MERCURIO. I signori sono straordinariamente in lite fra loro e poiché sono intenti solo ai piaceri del presente, del futuro non si preoccupano assolutamente, né si avvedono che non passerà molto tempo che loro stessi e le loro città cadranno sotto il potere altrui. Hanno la testa vuota, l’animo e i costumi corrotti, non sono capaci di concepir nulla che sia degno di principi e di Italiani. 39. MINOSSE. Ogni romana virtù è morta. E quantunque io sia nato greco, pure, se considero che nessun altro popolo, nessun’altra gente ha avuto cittadini più forti e più giusti dei Romani, che hanno trasmesso anche alle altre nazioni le norme morali, mi turbo straordinariamente al pensiero che non solo Roma, ma tutta l’Italia sia rimasta priva di ingegni e di veri uomini. MERCURIO. Viene meno generalmente nei discendenti la virtù; e mentre la conservazione degli altri beni si può garantire per testamento, la virtù non ammette l’applicazione del diritto ereditario; dei regni, come c’è un principio, così c’è anche una fine; lo stesso avviene dei giorni, che hanno un’alba e un tramonto; molto conta il tempo nelle menti umane, moltissimo nelle istituzioni. Per il resto, l’ordine delle cose celesti e le trasformazioni dell’universo muovono e determinano ogni cosa. Quali danni di città e d’ingegni, Eaco, dové sopportare quella tua Grecia una volta illustre e nobile? Che ho detto? dové sopportare? essa non è ormai più nulla. Mi sono rivolto a te, Eaco, che vedo già piangere e trattenere a stento le lacrime. Dov’è la tua stirpe famosa? Dov’è quell’illustre di83

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sint ista nimis; ubi Musae illae atticae? Quid Musas requiro, cum Athenae ipsae vix ullum teneant nunc vestigium, ut pene cum omni Graecia in somnos abierint? Victor barbarus omnia possidet atque utinam possideret tantum! Verum excisae urbes sunt, deleta nobilitas, artes disciplinaeque extinctae, et illa ipsa libertas triste nunc atque infelix est servitium. Quae causa est, ut arbitror, cur paulo ante Minos ferret tam graviter Italiam quassari bello, ne graecarum disciplinarum memoria, quae illic quasi reliquiae quaedam servatur, funditus sublata intereat. 40. AEACUS. Et internitione generis et patriae excidio si non movear, inique fecerim. Moveor certe. Nam quanquam nihil illa post mortem ad nos attinent, tamen, nescio quomodo, sicut recte actorum conscientia, ita naturalis illius amoris vis quaedam remanet generoso cuique post mortem, quae de rebus eorum quos amavimus, qui vivi sunt habeat nos solicitos. Sed consolatur me vel quod nihil coepit unquam quod non idem finiat, nec ortum prorsus quicquam est quod non idem occidat (omnia enim sub hac necessitate, quae naturae quidem lex, Dei vero voluntas est, laborant), vel quod haud multis post saeculis futurum auguror ut Italia, cuius intestina te odia male habent, Minos, in unius redacta ditionem resumat imperii maiestatem. MINOS. Haec ipsa me spes vehementer delectaret, ni deterrerent ea quae deus hic paulo ante de rebus Italicis nobis retulit. MERCURIUS. Et alia quoque multa deterrere te iure possunt; parum etenim considerare videris quam brevis sit e Macedonia Epiroque in Apuliam Calabriamque traiectus, quam etiam facilis in Venetiam e Dalmatia transitus, cum paucis ante diebus magnam in Liburniae finibus Turcae impressionem fecerint. AEACUS. Quanquam timenda haec sunt, tamen, si vetera respicimus, non ab Asia aut Graecia, verum a Gallis Germanisque timendum Italiae semper fuit. MERCURIUS. Multa fert dies, ac tametsi ubique sibi fatum constet, eius tamen explicatio decipere hominum mentes consuevit, dum rerum conversiones easdem censent. 41. AEACUS. Nos, o Minos, et Graeciae calamitates et Italiae casum satis diu flevimus, ac temperandum est nobis considerandumque quid

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CARONTE, X

scendenza? Ma lasciamo andare queste cose troppo antiche; dove sono le Muse dell’Attica? Il barbaro vincitore116 possiede ogni cosa, e magari possedesse soltanto! Sono state abbattute le città, è stata distrutta la nobiltà, arti e discipline sono estinte, e la stessa libertà si è trasformata ora in triste e misera servitù. È questa la causa, come penso, per cui poco fa Minosse si addolorava che l’Italia fosse sconquassata dalla guerra, col timore che la memoria delle scienze greche, ivi conservate quasi come reliquie, venisse completamente sovvertita e spenta. 40. EACO. Se non mi commovessi al pensiero della rovina toccata alla mia stirpe e alla mia patria, sarei ingiusto. Sebbene, infatti, dopo la morte non c’importa più di nulla, tuttavia, non so come, rimane dopo la morte in chi è stato magnanimo non solo la consapevolezza delle azioni giuste compiute, ma anche lo slancio naturale di quell’amore, che ci fa preoccupare di chi ancora vive e che abbiamo amato. Ma mi consolano ora il fatto che nulla s’inizia senza avere un termine, e che nulla sorge che anche non veda il tramonto (tutte le cose, infatti, sono soggette a questa necessità, che è legge di natura, ma anche volontà di Dio), ora l’augurio, che mi faccio, che dopo molti secoli l’Italia, i cui odi intestini, o Minosse, ti turbano, tornando sotto la giurisdizione di uno solo ritrovi la maestà del suo impero. MINOSSE. È una grande speranza che mi riempirebbe di gioia, se non me lo impedissero quelle notizie che il dio ci ha riferito poco fa sullo stato dell’Italia. MERCURIO. E molti altri avvenimenti potrebbero ancora impedirlo. Sembra che sottovaluti quanto sia breve il passaggio dalla Macedonia e dall’Epiro in Puglia e Calabria,117 quanto sia facile anche la traversata dalla Dalmazia a Venezia, dal momento che pochi giorni fa i Turchi hanno fatto una grande irruzione nel territorio della Liburnia.118 EACO. Sebbene questo sia un grave pericolo, tuttavia se richiamiamo alla mente il passato antico, non da parte dell’Asia o della Grecia, ma da quella dei Franchi e dei Germani l’Italia ha dovuto sempre aver paura. MERCURIO. Molte sono le cose che apporta il tempo, e quantunque il fato sia universalmente costante, il suo manifestarsi ha generalmente tratto in errore la mente umana nel calcolo dei medesimi rivolgimenti del cielo.119 41. EACO. Noi abbiamo pianto anche troppo, Minosse, delle sventure della Grecia e della caduta dell’Italia, e bisogna moderarsi e riflettere su 85

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CHARON, XI

est quod magistratum deceat; et cum sciamus dei prudentia mundum regi omnem, quid opus est de rebus humanis tam esse solicitos quas Deus ipse moderetur? MINOS. Sapientissime dicis; quamobrem, si tibi videtur, quando Charon iam e portu solvit, ad collegam properemus, cui, ut scimus, solitudo semper fuit molestissima. AEACUS. Est et alia causa quae properandum esse multo magis cogat. Nam si, ut deus iam docuit, pestis Italiae portenditur, nostra interest providere, ne imparati offendamur in tanta ac tam diversa morientium multitudine. MERCURIUS. Equidem et ego id vobis censeo faciendum, quando quae cupiebatis ex me iam intellexistis. Atque adeo ut haec certius sciatis, maximam hominum internitionem cum coeli inerrantiumque stellarum cursus futuram significant, tum multa partim ex aquis, partim e terra atque aere signa portendunt, quae hoc ipsum significare consuevere. MINOS. Nos igitur praeimus, te ipsum cum multitudine pro tribunali praestolaturi. MERCURIUS. Vos praecedite; ego hic interim Charontem moror.

XI MERCURIUS, PEDANUS ET THEANUS ET MENICELLUS, GRAMMATICI. 42. MERCURIUS. Phaselus ille nimis gravis est vectoribus remoque vix agi potest; hoc est quod mortales usurpant, qui nimis properet, sero eum pervenire. Sed quaenam haec est umbra, quae tam sola volitat? heus, tu, cuius istud est simulacrum? PEDANUS. Pedani grammatici. MERCURIUS. Quid tibi vis tam solus? PEDANUS. Te ipsum quaerebam, Maia genite. MERCURIUS. Quanam gratia? PEDANUS. Oratum venio, quaedam meo nomine ut discipulis referas; quod te vehementer confido facturum, cum litterarum auctor atque excultor fueris. MERCURIUS. Facile hoc fuerit; quamobrem explica quid est quod referam velis.

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CARONTE, XI

quel che conviene pensare a un magistrato; e poiché sappiamo che tutto l’universo è retto dalla saggezza divina, che bisogno c’è di preoccuparsi delle condizioni umane che Dio in persona governa? MINOSSE. Giustissimo. E per questo, giacché vedo là Caronte salpato dal porto, affrettiamoci anche noi verso il nostro collega, al quale, come sappiamo, la solitudine ha dato sempre noia. EACO. Vi è un altro motivo che ci costringe ancora di più a far presto. Perché se, come il dio ci ha informato, si avvicina in Italia la peste, a noi conviene pensare a non farci cogliere impreparati in tanta e diversissima folla di morti. MERCURIO. Lo penso certo anch’io che dobbiate far questo, avendo già saputo da me quello che desideravate sapere. E per averne una conferma, considera quel che fanno presagire sia il corso del cielo e delle stelle erranti, sia i numerosi segni provenienti in parte dall’acqua, in parte dalla terra e dall’atmosfera, che di solito danno proprio questo pronostico: ci sarà una grandissima strage di esseri umani. MINOSSE. Noi dunque ci avviamo, per essere pronti a ricevere te insieme alla folla davanti al tribunale. MERCURIO. Andate avanti; io resto qui ad aspettare Caronte.

XI MERCURIO, E I GRAMMATICI PEDANO, TEANO E MENICELLO.120 42. MERCURIO. Quella barca è troppo carica di passeggeri121 e con il remo a stento la si può far muovere. A questo proposito i mortali usano il proverbio «chi troppo si affretta tardi arriva». Ma che ombra è questa, che si aggira così sola? Ohé, a te dico! di chi sei l’ombra?122 PEDANO. Del grammatico Pedano. MERCURIO. Che vai cercando tutto solo? PEDANO. Cercavo proprio di te, figlio di Maia. MERCURIO. Per quale motivo? PEDANO. Vengo a pregarti123 di riferire da parte mia ai miei discepoli certe cose; io sono sicuro che tu lo farai, essendo fautore e cultore delle lettere. MERCURIO. Sarà facile; per cui esponi quel che vuoi che io riferisca.

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PEDANUS. Virgilium nuper a me conventum dicito, quaerentique ex eo mihi quot vini cados decedenti e Sicilia Aeneae Acestes dedisset, errasse se respondisse; neque enim cados fuisse, sed amphoras; ea enim tempestate cadorum usum in Sicilia nullum fuisse; partitum autem amphoras septem in singulas triremes accessisseque aceti sextariolum, idque se compertum habere ex Oenosio, Aeneae vinario. Ex Hipparcho autem mathematico intellexisse Acesten ipsum vixisse annos centum viginti quatuor, menses undecim, dies undetriginta, horas tris, momenta duo ac semiatomum. MERCURIUS. Idem ego memini me ex Aceste ipso audire. 43. PEDANUS. Errasse item se quod Caietam Aeneae nutricem dixisset, quae fuisset tubicinis Miseni mater, nec dedisse illam loco nomen quod ibi fuisset sepulta, sed quod cum in terram descendisset legendorum holerum gratia, fuisset illic a Silvano vim passa. Anchisae quoque nutricem fuisse a Palamede raptam, cum is agrum Troianum popularetur, excedereque tum illam annos centum et viginti fuisseque ei nomen Psi; quae quod notam haberet quandam in fronte, hinc Palamedem litteram ψ et formasse et nominasse. MERCURIUS. Magna sunt haee, litterator, cognituque dignissima. PEDANUS. Maiora ac multo digniora his audies. MERCURIUS. Solis videlicet litteratoribus tantum sciendi studium est post mortem? PEDANUS. His nimirum solis; equidem et illud percuntari volui, dextrone an sinistro priore pede e navi descendens Aeneas terram Italiam attigisset; ad quod poeta ipse respondit satis se compertum habere neutro priore pede terram attigisse, sed sublatum humeris a remige, cui nomen esset Naucis, atque in litore expositum iunctis simul pedibus in arenas insiliisse; idque ex ipso remige habere se cognitum. MERCURIUS. O diligentiam singularem! 44. PEDANUS. Illud quoque, Atlantiade, quod cum gratia fiat tua, vel cum primis auditores meos qui sunt in Campania doctos facito, Horatium fuisse abstemium, quod ex eo sum sciscitatus; vinum autem tantopere ab illo laudatum in praeconis patris honorem, qui cum voce non

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PEDANO. Di’ loro che ho trovato poco fa Virgilio, e che avendogli io domandato quanti orci124 di vino Aceste125 desse ad Enea quando si partiva di Sicilia, m’ha risposto d’aver errato, e che non erano «orci» ma «anfore»,126 perché allora in Sicilia non erano ancora in uso gli orci; poi che egli distribuì sette anfore per ogni singola trireme, e che vi aggiunse mezzo litro d’aceto;127 e che lo aveva saputo da Enosio128 cantiniere d’Enea. Di’ loro inoltre che dal matematico Ipparco129 aveva saputo che Aceste era vissuto centoventiquattro anni, undici mesi, ventinove giorni, tre ore, due minuti e mezzo secondo. MERCURIO. Ricordo di averlo udito dire anch’io dallo stesso Aceste. 43. PEDANO. E che Virgilio si era sbagliato allo stesso modo quando aveva detto che Caieta era stata la nutrice130 di Enea; era invece la madre del trombettiere Miseno; e che non aveva dato il suo nome a quella terra per esservi stata sepolta, ma perché, essendo scesa a terra per coglier legumi, era stata lì violentata da un Silvano; del resto anche la balia di Anchise era stata rapita da Palamede,131 quando questi metteva a ferro e a fuoco il paese dei Troiani, ed ella aveva centoventi anni, e si chiamava Psi. E che Palamede aveva inventato la lettera ψ,132 e le aveva dato quel nome per la cicatrice che aveva sulla fronte. MERCURIO. Cose importanti, o grammatico, e che ben meritano d’esser conosciute. PEDANO. Ma ne udirai altre che lo meritano ancora di più. MERCURIO. Sicché, anche dopo morti, a voi rimane, grammatici,133 tanto ardore di sapere. PEDANO. A noi soltanto. Gli volli fare anche questa domanda, se sbarcando Enea toccasse terra prima col piede destro oppure con quello sinistro. Ma il Poeta mi rispose di sapere con certezza che con nessuno dei due piedi per primo aveva toccato terra, perché, preso sulle spalle e deposto sulla spiaggia da un barcaiolo di nome Nauci,134 aveva fatto un salto con le due piante nello stesso tempo; e lui l’aveva saputo dal barcaiolo in persona.135 MERCURIO. Che precisione straordinaria! 44. PEDANO. Un’altra informazione, per cortesia, o nipote di Atlante,136 dovrai dare in primo luogo ai miei allievi della Campania, che Orazio era astemio, e io lo so, perché me lo sono fatto dire da lui. Da lui fu invece tanto celebrato il vino in onore di suo padre,137 che faceva il banditore, e non essendo abbastanza potente con la voce, certamente bevendo vino aveva 89

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posset, potando certe vino omnes sui temporis praecones superasset. Unum vero me ne ex ipso quidem Caesare scire potuisse, cum Galliam describeret in tris ne an tres partes divisam scriptum reliquisset. MERCURIUS. Demiror, cum tam ipse accuratus atque humanus fuerit. PEDANUS. Iram id effecisse arbitror, in quam ob accusationem exarserat Theani litteratoris, qui eum reprehendere esset ausus quod ‘carros’ non ‘currus’ dixerit. At a Tibullo Albio comiter fuisse exceptum, cumque Pedanum me vocari dicerem, gaudio eum exiliisse, arbitratum Pedo, in cuius agro rus habuisset, oriundum esse; atque huius rei gratia docuisse me nomen senex apud vetustissimos Latinos communis fuisse generis proptereaque dixisse se cum de anicula loqueretur «merito tot mala ferre senem». MERCURIUS. O rem nobili dignam grammatico! PEDANUS. Lucretium quoque nimis mihi familiariter deblanditum, quod diceret grammaticos debere a se amari propter morbi similitudinem; omnis enim dementia quadam agi; propterea docuisse me nomen illud ‘potis’ apud maiores suos etiam neutri generis vim habuisse, quorum exemplo dixisset: Nec potis est cerni quod cassum lumine fertur.

At Iuvenalem nimis me graviter obiurgasse, quod dicerem oleagina virga pueros a me verberari solitos; oportuisse enim ferula illos percuti. Quocirca, Arcas Deus, monitos facias verbis meis grammaticos omnes ferula ut utantur. MERCURIUS. Faciam libenter, o Arcadice magister. Sed quis est qui tam te irridet a tergo? illum respice. 45. THEANUS. Ego sum Theanus grammatista. PEDANUS. Errasti, grammaticum te, non grammatistam debuisti dicere. Addisce igitur. THEANUS. Peccasti, addisce enim nondum quisquam dixit. Itaque ‘disce’, non ‘addisce’ dixisse oportuit. PEDANUS. Rursum ‘peccasti’, dicere enim, non ‘dixisse’ oportebat dici. THEANUS. Et tu rursum item peccasti, nam non ‘oportebat’, sed ‘oportuit’ dicendum erat.

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CARONTE, XI

potuto superare tutti i banditori del suo tempo. Una sola cosa, neppure chiedendolo a Cesare stesso, son riuscito a sapere, cioè se nella descrizione della Gallia avesse lasciato scritto che era divisa in tris o in tres partes.138 MERCURIO. Mi meraviglio, essendo stato lui tanto preciso e dotto. PEDANO. Credo che lo abbia fatto perché era adirato per l’accusa ricevuta dal grammatico Teano, che aveva osato biasimarlo per avere scritto carros e non currus.139 Riferisci che sono stato invece ben accolto da Albio Tibullo, il quale, quando sentì che io mi chiamavo Pedano, fece un salto di gioia, pensando che io fossi originario di Pedo, nel cui territorio aveva un podere: e per questo mi fece sapere una cosa assai rara, che cioè senex anticamente era di genere comune, e perciò aveva egli scritto riferendosi a una vecchierella «merito tot mala ferre senem».140 MERCURIO. Che notizia importante, degna di un grammatico! PEDANO. Digli che anche Lucrezio mi ha trattato con molta cordialità, perché diceva di dover amare i grammatici per la malattia che hanno in comune con lui;141 tutti si comportano con una certa follia; e perciò m’insegnò che il sostantivo potis era neutro presso i suoi antenati, portando come esempio: Nec potis est cerni quod cassum lumine fertur.142

Digli che invece Giovenale mi ha rimproverato, quando gli ho detto della mia abitudine di picchiare a scuola i ragazzi con una «verga» d’olivo: avrei dovuto picchiarli con una ferula.143 Dunque, o dio d’Arcadia,144 ricorda a tutti i grammatici a nome mio che usino ferula. MERCURIO. Lo farò volentieri, maestro d’Arcadia. Ma chi c’è che ti canzona alle spalle; vedi un po’. 45. TEANO. Sono Teano, grammatista.145 PEDANO. Hai sbagliato; avresti dovuto dire «grammatico», e non «grammatista». Dunque appara. TEANO. Hai fatto un errore; perché «appara» non l’ha detto ancora nessuno: perciò sarebbe stato necessario aver detto «impara» e non «appara».146 PEDANO. Hai sbagliato a tua volta: infatti, era necessario che si dicesse «dire», e non “aver detto”.147 TEANO. E tu pure a tua volta hai sbagliato, perché si doveva dire, non «era necessario», ma «sarebbe stato necessario».148 91

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PEDANUS. Prisciano caput fregisti, neque enim ‘erat’, sed ‘fuit’ dicere debueras. THEANUS. Prisciano pedes fregisti; ‘debuisti’ enim, non ‘debueras’. PEDANUS. Immo ‘debueras’, non ‘debuisti’. THEANUS. Immo ‘debuisti’, non ‘debueras’. PEDANUS. Immo hoc. THEANUS. Immo illud. PEDANUS. Immo ego. THEANUS. Immo tu. PEDANUS. Immo bene. THEANUS. Immo male. PEDANUS. Hei mihi! THEANUS. Hei tibi! MERCURIUS. Reverentius, grammatici! verbis enim non manibus contendendum vobis est, deo praesertim arbitro. Quamobrem bonis et honestis posthac verbis de litteratura contendite. Sed bene habet, tertius, ut video, adest sive iudex sive litigator. MENICELLUS. Ego diutius, grammaticunculi, ineptiolas ferre vestras nequeo. THEANUS. At ego insolentiam tuam laturus hodie nullo sum modo. Quamobrem qui tibi tantum tribuas, Menicelle, dicas velim cur lapidem hunc, petram vero hanc dicimus. MENICELLUS. Videlicet quod ‘lapis’ agendi vim habeat (laedit enim pedem), at ‘petra’, quod pede teratur, ad patiendi genus transiit. 46. MERCURIUS. Nihil est grammatico insulsius; vide quam hi desipiant, cum ‘petra’ graeca sit dictio, lapis vero fuerit a labando dictus, tertia immutata littera, quod labent ex eo ambulantium vestigia. THEANUS. Qui de lapide petraque hoc sentias, de manu quid mihi respondes? MENICELLUS. An non manus faciendo operi occupata aliquid semper patitur? THEANUS. At nunc agit cum te verbero; hem tibi! MENICELLUS. Heu me miserum!

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CARONTE, XI

PEDANO. Hai rotto la testa a Prisciano:149 non dovevi dire «si doveva» ma «si sarebbe dovuto».150 TEANO. E tu hai pestato il piede a Prisciano: «avresti dovuto», non «dovevi». PEDANO. Anzi «dovevi», non «avresti dovuto». TEANO. Anzi «avresti dovuto», non «dovevi». PEDANO. Anzi è così. TEANO. Anzi è il contrario. PEDANO. Anzi è come dico io. TEANO. Anzi non è come dici tu. PEDANO. Invece io dico bene. TEANO. Invece tu sbagli. PEDANO. Ahimè. TEANO Ahitè.151 MERCURIO. Più rispetto, grammatici! La contesa va fatta con le parole, non con le mani, specialmente alla presenza di un dio. Perciò d’ora in poi disputate di letteratura con le buone maniere. Stiamo proprio bene! eccone un terzo, a quanto pare, un giudice o un litigante. MENICELLO. Non sono disposto a sopportare più a lungo le vostre bazzecole, grammaticonzoli che non siete altro! TEANO. Ed io oggi non sono disposto in alcun modo a sopportare la tua insolenza; perciò tu, Menicello, giacché ti vanti tanto, vorrei che dicessi perché chiamiamo questo lapis, e quest’altra petra? MENICELLO. Evidentemente perché lapis è attivo (infatti il macigno ti fa male al piede, «lede» il piede),152 mentre la «pietra», in quanto è calpestata dal piede, assume il genere passivo. 46. MERCURIO. Non c’è essere più insulso di un grammatico. Vedi come sono deliranti costoro; la ragione è invece questa, che «pietra» viene dal greco, mentre «lapis» deriva, con il mutamento della terza lettera, da labo -as,153 essendo la causa per cui il piede di chi cammina scivola. TEANO. E tu che la pensi così su lapis e petra, che mi rispondi circa la «mano»? MENICELLO. Non patisce sempre qualcosa, la mano, occupata a fare un lavoro? TEANO. Ma è attiva se ti picchio. Guai a te! MENICELLO. Ahimè, disgraziato!

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CHARON, XII

THEANUS. Quid te miserum? rationem afferas oportet cur manus cum in pugnum coit, cum verberat, dici hic non debuerit. MENICELLUS. Nihil mihi tecum erit amplius. Quamobrem oratum te, Mercuri, volo, ut cum primum Neapolim in Opicos perveneris, in eo conventu qui ociosis fieri diebus ad Arcum solet, Iovianum Pontanum convenias verbisque commonefacias meis, posthac ut sit cautior atque ut ‘curso’ a verbo quod est ‘curro’ deducat, non ‘cursito’. Panhormitam quoque Antonium acriter increpitato, quod epistolutiam in diminutione protulerit. MERCURIUS. At ego, Menicelle, pro Antonio hoc tibi respondeo: Italicam linguam non modo novas diminutiones fecisse, verum etiam augentium vocum formas quasdam invenisse detractionis ac ignominiae gratia. Quocirca Antonii nomine te tantum grammaticonem valere iubeo. Tu vero, Pedane, an quid habes praeter coetera eruditione dignum tua? PEDANUS. Unum hoc: Boetium non a Boetia, in qua ipse natus non fuerit, dictum, sed agnomentum hoc illi fuisse a vescenda boum carne, quod ipsius me Boetii cocus docuit. MERCURIUS. Per Iovem, mira agnominatio! tu quid ad haec, Theane? THEANUS. Eiiciendos haereditate Pedani liberos, eius bona publice vendenda redibendamque auditoribus quam Pedanus ab illis acceperit pecuniam. MERCURIUS. Atqui ego tuis vel maxime liberis cavendum praeiudicium hoc censeo.

XII CHARON, UMBRAE DIVERSAE. 47. CHARON. Ascendite, infelices umbrae; quid, miserae, ante diem fletis? quasi parum sit tum dolere, cum malum venerit. Tu vero, tam culta et procax umbra, quaenam es? UMBRA. Cipria meretrix. CHARON. Ubi gentium quaestum fecisti? UMBRA. Romae. CHARON. Quis iste comes?

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CARONTE, XII

TEANO. Perché disgraziato? Bisogna piuttosto che tu dica per qual ragione, quando la mano si chiude in un pugno, quando colpisce, non dovrebbe accordarsi al maschile (si dice, infatti, questo pugno). MENICELLO. Con te non voglio più avere a che fare. Perciò voglio pregarti, Mercurio, di farmi un piacere: non appena giunto a Napoli, nella patria degli Osci,154 in quella riunione che si suol tenere nei dì di festa presso l’Arco,155 cerca d’incontrare Giovanni Pontano e avvertirlo a nome mio che d’ora in poi sia più cauto, e dal verbo curro faccia derivare curso e non cursito.156 Rimprovera duramente poi Antonio Panormita, che per ottenere il diminutivo ha prolungato il vocabolo in «epistoluzza».157 MERCURIO. Ma io per parte di Antonio, o Menicello, ti rispondo così, che la lingua italiana non solo ha creato nuove forme di diminutivo, ma ha introdotto alcune forme di accrescitivo per dispregiare e offendere. Perciò, a nome di Antonio, ti saluto come grammaticone.158 E tu, Pedano, che hai da aggiungere di adeguato alla tua cultura? PEDANO. Solo questo, che Boezio159 non ha avuto il nome dalla Boezia,160 che non era il suo luogo di nascita, ma dalla carne «bovina» di cui si cibava, secondo l’informazione che mi ha dato il suo stesso cuoco. MERCURIO. Per Giove, che meraviglia questa etimologia! Tu che hai da obiettare, Teano? TEANO. Siano confiscati i beni ai figli di Pedano; siano messe all’asta le sue case, e si restituisca161 agli allievi il denaro che Pedano ha ricevuto da loro. MERCURIO. Ebbene io penso che i figli tuoi debbano guardarsi più che mai da un precedente come questo.

XII CARONTE, VARIE OMBRE. 47. CARONTE. Imbarcatevi, ombre infelici! Perché, disgraziate, piangete già prima del giudizio? Come se fosse poco dolersi quando il guaio avverrà? E tu, ombra così graziosa e procace, chi sei? OMBRA. La meretrice Cipria. CARONTE. E in che paese hai esercitato il mestiere? OMBRA. A Roma. CARONTE. Chi ti sta appresso? 95

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CHARON, XII

UMBRA. Sacerdos cardinalis, qui me amavit. CHARON. Miror quomodo senem puella, meretriculam sacerdos in delitiis habuerit. UMBRA. Mea illum forma, illius me aurum coepit. CHARON. Plus igitur apud eum forma quam religio, apud te precium quam aut senectus aut illius os valuit. UMBRA. Aurum mihi suavissimum fuit, quo ille et oris deformitatem et senectutem saepissime redemit suam. Ad haec, quanquam senex, salacissimus tamen, utinamque sola illi fuissem satis! CHARON. Mirum homo tam senex quod tam esset libidinosus! UMBRA. Ego ubi primum ad eum sum arcessita, putavi me cum adolescentulo coituram. At ubi aetatem vidi et os distortum, coepi queri meque deceptam esse ab laenone inclamitare. Tum ille: «Ne, inquit, querare, animula, nam cuius nunc tortum os fugis, haud multo post rectum nervum experiere». Quod fuit; nihil enim illo tentius passa sum unquam. 48. CHARON. Ite, infelices, in ignem coiturae aevumque illic miserrimum acturae. Quis tu cucullatus? UMBRA. Frater. CHARON. Ordo qui? UMBRA. Non semel ex ordine in ordinem transii. CHARON. Quae causa? UMBRA. Facilius ut deciperem. Die mulieres audiebam peccata confitentes, noctu graecabar in ganeis. CHARON. Unde tibi suppetebat ad id pecunia? UMBRA. E fraude et furto; decipiebam mulierculas, surripiebam sacra. CHARON. Et fraudem et sacrilegium flammis lues. At tu tam nitida cute atque anatino gressu, quemnam profiteris? UMBRA. Episcopum. CHARON. Mirum qui tam sis ventricosus! UMBRA. Minime mirum, quippe cum huic soli studuerim in eumque congesserim omnem ecclesiae censum meae. Quin etiam foeneravi. CHARON. Satis igitur tibi non erat quod ex ecclesia quot annis rediret?

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CARONTE, XII

OMBRA. Il cardinale che era il mio amante.162 CARONTE. Mi meraviglio di come una ragazza possa aver avuto una relazione amorosa con un vecchio, un prete con una sgualdrinella. OMBRA. Lui fu conquistato dalla mia avvenenza, io dal suo oro. CARONTE. Dunque lui tenne conto della tua avvenenza più che della religione, mentre tu del denaro più che della sua vecchiaia e della faccia che aveva. OMBRA. L’oro mi piaceva più d’ogni altra cosa, e con l’oro lui ha molto spesso rimediato alla bruttezza e alla vecchiaia. Di più, per quanto vecchio, era lussuriosissimo, e magari gli fossi bastata io sola! CARONTE. È straordinario che un uomo così vecchio fosse così lussurioso. OMBRA. Quando mi hanno fatto andare da lui la prima volta, credevo di dovermi unire con un giovinetto: sicché, quando mi accorsi dell’età e della faccia deforme, cominciai a lamentarmi e a gridare di essere stata ingannata dal ruffiano. Ma lui mi disse: «Non lagnarti, animuccia163 mia, che fra non molto proverai il nervo diritto di chi ora vorresti fuggire per la bocca storta». E fu così: non ho subito mai un affare più teso di così. 48. CARONTE. Andate, infelici; statevene insieme nel fuoco, per vivere nella peggiore miseria. E tu col cappuccio,164 chi sei? OMBRA. UN FRATE. CARONTE. Di quale ordine? OMBRA. Più di una volta sono passato da un ordine all’altro. CARONTE. Per quale motivo? OMBRA. Per ingannare più facilmente. Di giorno ascoltavo le donne che confessavano i peccati, di notte facevo baldoria165 nei bordelli. CARONTE. E da dove ti veniva il denaro sufficiente a far questo? OMBRA. Dalla frode e dal furto. Ingannavo le femminelle, trafugavo gli oggetti sacri. CARONTE. Espierai nel fuoco frode e sacrilegio. Ma tu che hai tutta lucida la pelle, e cammini come un’anatra, confessa chi sei? OMBRA. Un vescovo. CARONTE. Che pancia166 incredibile che hai? OMBRA. Per nulla incredibile, perché a questa sola pensavo, e vi ho accumulato tutte le rendite della mia chiesa. Anzi ho anche fatto l’usuraio. CARONTE. Dunque non ti bastavano le rendite annuali della chiesa? 97

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CHARON, XII

UMBRA. Illud ventri satis erat, at foenus serviebat peni; complures enim concubinas alebam et corrumpebam libenter auro maritas mulieres. CHARON. Infelix, cui tantus sit venter ferendus pedibus adeo imbecillis, infelicior, cui animus honeri, at venter penisque dii fuerint, infelicissimus, qui te ipsum cum minime noveris, Deum, cui ministrabas, multominus cognoscere potueris! Abi igitur, infelicissime; sera enim poenitentia est tua. Tu vero quaenam demissa facie atque ore tam pudenti? UMBRA. Infelix puella. CHARON. Quae tam acerbi luctus est causa? UMBRA. Utinam carerem memoria! CHARON. Noli, amabo, spem ponere; nam si coacta quippiam peccasti, leviore poena afficiere. UMBRA. Miseram me! decepta fui. CHARON. Quidnam per fraudem amisisti? UMBRA. Virginitatem, infelix! CHARON. Quis te decepit? UMBRA. Senex sacerdos. CHARON. Arte qua? 49. UMBRA. Adibam saepe templa Deum orans ut nuptiae faciles, vir mihi foret e sententia. Ibi tum antistes me collaudare, spem bonam polliceri seque mihi facilem offerre. Igitur ubi saepius me confitentem audit et simplicitatem agnoscit meam: «Desine, inquit, filiola, virum a Deo petere, qui te innuptam esse iubeat». Tum ego: «Quia et tu id, pater, mones et velle Deum dicis, Deo virginitatem meam do dedicoque». Tum ille me collaudata: «Quod Deo dedisti, filia, id alicui necesse est ecclesiae ut dices». Tum ego: «Cuinam, pater, ecclesiae prius eam dicem quam tuae?» – «Atqui, inquit ille, quoniam oblatiunculae istius ecclesiae meae nomine capi a me possessionem oportet, quo Deo sit acceptior, abi, filiola, mane ad me reditura. Etenim nocte hac Deum orabo, ut ratam istam rectamque velit esse dicationem. Tu postquam laveris, novo induta supparo ad me redi (nihil enim nisi mundum fas est nos attrectare) hocque in primis effice, sola ac sine teste ut venias. In iis enim, quae Deus manu

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CARONTE, XII

OMBRA. Quelle bastavano alla pancia, mentre l’usura serviva al pene. Mantenevo molte concubine, e con l’oro corrompevo volentieri anche le donne maritate. CARONTE. Miserabile, che devi portare una pancia così grossa con piedi così fiacchi, più miserabile ancora, che l’animo ti è stato di peso,167 mentre il ventre e il pene sono stati per te come un dio, miserabile senza pari, che non hai conosciuto minimamente te stesso, tanto meno hai potuto conoscere il dio che servivi! Va all’inferno, dunque, miserabile, perché il tuo pentimento arriva troppo tardi. Ma tu, chi sei con questa faccia così timida e vergognosa! OMBRA. Una ragazza sventurata. CARONTE. Qual è il motivo di una morte così acerba? OMBRA. Magari non ricordassi! CARONTE. Ti prego, non disperarti! Se hai peccato sotto costrizione, avrai una pena più lieve. OMBRA. Me sventurata, sono stata vittima di un inganno! CARONTE. Che cosa hai perduto con l’inganno? OMBRA. La verginità, sventurata che sono! CARONTE. Chi ti ha ingannata? OMBRA. Un vecchio prete. CARONTE. E con quale astuzia? 49. OMBRA. Andavo spesso in chiesa a pregare Iddio che mi facesse trovar marito, e che fosse come io lo volevo.168 Allora il parroco cominciò a dimostrarmi169 ammirazione, a darmi speranza, a essere disponibile nei miei confronti. Poi mi ascolta spesso in confessione e si accorge della mia ingenuità. Mi dice: «Figliola, non chiedere più a Dio che ti faccia trovar marito, perché Lui vuole che tu non vada sposa». Allora io: «Se me lo consigli tu, padre, e dici che Dio così vuole, a Dio offro e consacro la mia verginità». Allora lui mi disse «brava», aggiungendo: «L’offerta fatta a Dio, bisogna consacrarla a una chiesa». Allora io: «E a qual chiesa potrei io consacrarla, padre, se non alla tua?». «Bene – disse lui –; poiché bisogna che tenga io, in mio possesso, a nome di questa mia chiesa, la piccola oblazione, per renderla a Dio più accetta, va, figliola, e ritorna da me domattina. Io questa notte pregherò, affinché voglia che l’offerta sia valida e giusta. Tu, dopo esserti lavata, indossa una camicia nuova e ritorna da me (nulla, infatti, che non sia puro ci è lecito maneggiare), e sta attenta prima di tutto a questo, a venire sola e senza alcun testimone, 99

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CHARON, XII

capit, nulli adhibendi sunt testes». Mane itaque ad eum ubi veni, tum ille me in cellam induxit, in qua summi Dei posita esset statua, quam circa magna cereorum vis erat accensa. Ubi ambo oravimus: «Filiola, inquit, et tunicam et supparum exue; Deus enim, et coelestes omnes nudi cum sint, nuda sibi offerri volunt». Ubi ego nuda astitissem, tum ille papillas has pertractans: «Hae, inquit, ecclesiae meae sunt». Tum mentum manu demulcens: «Et hoc ecclesiae est meae». Hinc genas summis delibans digitis: «Filia, inquit, oris possessio non nisi ore capiunda est», meque ter osculatus cum fuisset, «et labia haec meae sunt ecclesiae». Sic pectus, sic ventrem ecclesiae suae esse cum dixisset, ut iacerem iussit. Iacui infelix; tum ille genu innixus foemoraque contrectans: «Deus, ait, qui tumidula haec foemora castigatulumque ventrem cum brachiolis his teretibus tam venuste molliterque formasti, aspice virgunculam tuam et ista possessione laetare». Ter haec cecinit; ibi, ut omnia transigeret, id respexit quo mulieres sumus. «Et illud, inquit, fi lia, manu capiendum est. Verum ut oris capta est ore possessio, sic tui quoque illius meo hoc est capienda». Utinamque tunc expirassem, misera! CHARON. Quomodo deceptam te postea sensisti? UMBRA. Dum ille studiosius fundum colit suum, gravida facta sum, tandemque e partu mortua. CHARON. Nunquid non ille te absolvit morientem? UMBRA. Absolvit. 50. CHARON. Laeta esto. Nam iudices et ipsi absolvent. Sed heus, tu, quid, miser, rides? crede mihi, non est nunc ridendi locus. UMBRA. Nulla mihi est quam tibi credam pecunia. CHARON. Talis ne tu es qui ludere Charontem velis? UMBRA. Atqui nec talis ipse unquam lusi nec tesseris. CHARON. Hic homo cavillatur et in moerore etiam iocari cupit. Dico ego tibi: alium paulo post sermonem seres, ubi ad forum veneris.

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CARONTE, XII

perché in quelle cose di cui Iddio s’impadronisce è necessario che non ci siano testimoni». Il mattino dopo quando andai, com’egli mi aveva ordinato, mi fece entrare in una cella, in cui era situata una statua del Signore e intorno un gran numero di ceri accesi. Dopo fatta, entrambi, una preghiera, lui disse: «Figliola, togliti la veste e il velo; perché Iddio e i celesti sono nudi, vogliono che le offerte che si fanno loro siano nude». Quando fui nuda, in piedi davanti a lui, palpandomi i seni, diceva: «Questi sono della mia chiesa»; poi accarezzandomi il mento: «pure questo è della mia chiesa». Poi, toccandomi le guance con la punta delle dita: «Figlia – disse – non si può prendere possesso170 della bocca se non con la bocca»; e dopo avermi baciato tre volte: «Ed anche queste labbra sono della mia chiesa». E dopo aver detto che il petto e pure il ventre erano della sua chiesa, mi ordinò di mettermi distesa. Mi distesi, sventurata; e lui, poggiandosi sulle ginocchia171 e palpandomi le cosce diceva: «Dio, tu che hai formato con tanta grazia e morbidezza queste cosce pienotte, e questo ventre immacolato con questi braccini tondi, guarda la tua verginella, e gioisci di farla tua».172 Tre volte pronunciò questa formula cantando; poi, trascurando ogni altra cosa, rivolse lo sguardo a quella parte per cui siamo donne, e disse: «Anche di questo, figlia, bisogna impadronirsi. Ma come il possesso della bocca è stato preso con la bocca, così anche il possesso di questa tua cosa deve esser preso con la mia». Magari fossi morta allora, infelice! CARONTE. Come poi ti accorgesti dell’inganno ricevuto? OMBRA. Mentre lui si dava da fare con sempre più calore a coltivare il suo podere,173 io mi ritrovai incinta, e finalmente morii di parto. CARONTE. E quando stavi per morire non ti ha dato l’assoluzione? OMBRA. Sì, me l’ha data. 50. CARONTE. E allora, tranquilla. Ti assolveranno perfino i giudici.174 Ma, ehi, tu, miserabile, di che ridi? Credimi, non c’è nulla da ridere in questo posto. OMBRA. Rido, perché non ho soldi da accreditarti. CARONTE. Ti credi tale da poterti permettere di prenderti gioco di Caronte? OMBRA. Io non giocato mai, né con tali, né con dadi.175 CARONTE. Quest’uomo va cercando cavilli, e anche nel dolore ha voglia di scherzare. Vedi che ti dico: agli altri asserirai cose diverse, quando verrai nel foro. 101

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CHARON, XII

UMBRA. Vendi in foro halium, non seri solet. CHARON. Suavissimus hic est, ut video. Dic, quaeso, quam artem exercuisti? UMBRA. Martem ipse non exercui, sed male me Mars habuit. CHARON. Tu me, facetissime homo, tuis istis dictis vel in risum rapis. UMBRA. Ego, amice, ‘rapis’ nunquam sum usus, magis me delectavit caepa et porrum. CHARON. Videlicet suae cuique sunt voluptates. UMBRA. Nullam ego e ‘sue’ voluptatem coepi unquam; ego ne bestiolam tam immundam in delitiis haberem? parce, oro, Charon, delicatior ego fui quam reris; principes viros in iocis habui, non bestiolas, illos mihi ludos faciebam. CHARON. Tum tu istrio fuisti? UMBRA. Etruria mihi patria fuit, non Istria, cui nihil aliud curae fuit unquam quam ut nunquam dolorem, nunquam irascerer. Ut quis uxorem ducebat, ridebam; efferebat quis filium, ridebam; insanibat amore alius, ridebam. Ridebam ubi quis nimis sumptuose vestiret, nimis magnifice aedificaret, ubi praedia nimis ampla emeret. Ridebam demum omnia. Semel autem in omni me flere vita memini, quod matre mortua, ubi illam sepellirem terra mihi emenda in sancto fuit; tum nimis graviter hominum conditionem flevi ac de religione sum questus. Sed tamen haud multo post dolorem hunc compressi atque ad naturam redii meque ipsum ridere coepi, qui non et id quoque risissem. 51. CHARON. Sub huius risu latet sapientia. UMBRA. Quid tu te tecum loqueris? audacter dic quod velis, non te ludo amplius. CHARON. Rem mihi gratissimam feceris, si vitae tuae genus ordine explicaveris. UMBRA. Quod ipsum vehementer iuvat; quid enim iuvare magis aut potest aut debet, quam ubi vitae suae cursum quis repetens nihil invenit, cuius poenitere iure debeat? Principio cum viderem nostram rempublicam ab improbis ac seditiosis civibus administrari, publicis muneribus abstinui meque ad privatam vitam contuli, nulli rei praeterquam agro colendo intentus; siquidem exercere mercaturam nolui, ne aut foeneran-

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CARONTE, XII

OMBRA. Nel foro gli agli si vendono, non si seminano.176 CARONTE. È divertentissimo costui! Dimmi, ti predo, qual mestiere hai trattato? OMBRA. Non ho io trattato Marte,177 è stato Marte a trattar male me. CARONTE. Tu, mattacchione, con queste tue facezie mi rapisci fino a farmi ridere. OMBRA. Io, amico, non ho mai usato rape;178 più mi sono piaciuti cipolla e porri. CARONTE. È ovvio, ognuno ha i gusti suoi. OMBRA. Non ho mai gustato carne di suino.179 Potevo mai aver caro un animaletto così immondo? Abbi pazienza, Caronte, ti prego: ero più raffinano di quello che pensi. Mi piaceva prendere in giro i principi, non gli animaletti: loro sì che mi piaceva prendere in giro. CARONTE. Dunque eri un istrione?180 OMBRA. Non l’Istria, ma l’Etruria era il mio paese di nascita; ma ho avuto sempre un principio: non addolorarmi di nulla, non arrabbiarmi mai. Quando uno prendeva moglie, io ridevo; quando portava alla sepoltura un figlio, ridevo; un altro diventava pazzo d’amore? ridevo. Ridevo quando c’era uno che vestiva con troppo lusso, quando uno fabbricava181 con troppa magnificenza, quando qualcuno comprava poderi troppo grandi. Ridevo insomma di tutto. Ricordo invece una sola volta che piangevo, quando mia madre morì e dovetti comprare un pezzo di terra al camposanto; allora piansi profondamente sulla condizione degli uomini e mi lamentai della religione. Ma dopo poco riuscii a soffocare questo dolore; ritornai alla mia natura, e cominciai a ridere di me stesso che non avevo riso anche di questo. 51. CARONTE. Sotto il riso di costui si nasconde la sapienza. OMBRA. Che vai borbottando fra te stesso: fammi pure le domande che vuoi, non scherzo più con te. CARONTE. Mi farai un piacere grandissimo, se mi esporrai in ordine che specie di vita è la tua. OMBRA. Questa è una cosa che mi piace; che cosa, infatti, può arrecare maggior piacere che, ripercorrendo il corso della vita, non trovare nessun motivo per cui doversi pentire? Anzitutto, vedendo il governo della cosa pubblica sempre in mano a gente cattiva e turbolenta, mi son tenuto lontano dalle cariche pubbliche, e mi sono ritirato a vita privata, senza occuparmi di altro se non di coltivare i campi. Perché non ho mai voluto 103

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dum esset aut fortuna continue timenda; nec servilem quaestum probavi aliquem. In suburbano mihi vita fuit. Raro in urbem accedebam atque, eo cum venissem, decretum erat mihi nemini molestiae esse, nocere nulli nihilque molesti ex aliorum aut dictis aut factis capere. Ridens ingrediebar urbem, ridens exibam; ubi quem amicum aut notum videbam, salutabam illum curabamque congressus nostri ut essent quam iucundissimi. Si quam vel de nostra vel de Italiae republica facere mentionem coepisset, statim valere eum iubebam. Templa castus mane adibam neque cum sacerdotibus arctiorem habere familiaritatem volui; ubi rem divinam fecissent, abibam illico. Doctos quosdam amabam, qui non tam acuto essent ingenio quam recto iudicio; eorum disputationes libenter audiebam. Si quis e notis aut familiaribus, quos habere haudquaquam multos volui, adversi aliquid accepisset, consolabar illum meique ut similis esset rogabam; nam et fortunae ludos ridendos esse et naturae necessitatem nullo pacto dolendam. His actis, referebam me in suburbanum; ibi partim legendo, partim deambulando aut aliquid in agro agendo dies conficiebam; noctu, nisi quantum quieti dandum esset, coeterum tempus lucubrando transigebam. Exibam interdum in quadrivia atque, ubi festi essent dies, ibi villicos de prognosticis temporum, de natura terrae, de insitione, de seminibus, de irrigatione deque aliis rusticae rei ministeriis disserentes audiebam fìerique studebam eorum sermone prudentior. Et quoniam cognoscerem res hominum tam diversis ac variis periculis esse expositas, si quid vel in agro vel in domo adversi accidisset, ubi conditionem risissem humanam, curabam arte id industriaque corrigere. Ab litibus semper abhorrui et foro, convivia fugiebam; tenuissimus mihi victus erat, non ut naturam defraudarem, sed ne multum indigerem medico; ac ne te multis morer, ita me semper gessi ut qui non humanis me rebus, sed illas mihi subiectas vellem. 52. CHARON. Igitur, qui omnia ridebas, de morte solicitus nunquam fuisti? UMBRA. Semel in omni vita de morte cogitavi, licet eam quotidie ante oculos haberem, reputansque et quid illa vellet sibi et quod ego adversus

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CARONTE, XII

fare il mercante, per evitare o di praticare l’usura, o di dover temere continuamente la fortuna; non ho mai accettato di stare al servizio di qualcuno. Sono vissuto nei sobborghi della città. In città andavo di rado, e quando vi andavo ero sempre ben risoluto a non arrecar fastidi o danni a qualcuno, ma neppure a infastidirmi per quel che gli altri dicevano o facevano. Entravo in città ridendo, ne uscivo ridendo; se incontravo qualche amico o conoscente, lo salutavo e mi adoperavo a che l’incontro fosse il più allegro possibile; ma se cominciava a toccare un argomento riguardante la politica della nostra città o dell’Italia, lo salutavo subito. Di mattina andavo in chiesa, innocente, ma non ho voluto mai intrattenermi familiarmente con i preti: finita la messa, me ne andavo immediatamente. Mi piaceva frequentare persone colte, che avessero non tanto acuto ingegno, quanto retto giudizio; e quando discutevano, le ascoltavo volentieri. Se uno dei miei conoscenti, o amici – pochi ne ho sempre voluti – avesse incontrato qualche avversità, lo consolavo esortandolo a fare come me. Bisogna ridere degli scherzi della fortuna, e non addolorarsi in alcun modo delle necessità di natura. Fatto ciò, me ne tornavo fuori città, e qui terminavo il giorno, ora leggendo, ora passeggiando, ora occupandomi di qualche lavoro campestre; la notte, tolto quel tempo che dovevo riservare al riposo, il resto la trascorrevo studiando. Talvolta uscivo per trattenermi nei crocicchi di campagna e, se il giorno era festivo, li ascoltavo, quando i contadini parlavano delle previsioni del tempo, della natura del terreno, della semina, dell’innesto, dell’irrigazione e delle altre faccende agricole, e mi sforzavo di diventare più esperto attraverso i loro discorsi. E poiché sapevo che la vita umana è esposta a tanti e diversi pericoli, se accadeva qualche disavventura in campagna o in casa, dopo aver riso della condizione umana, mi preoccupavo di porvi riparo con arte e diligenza. Mi sono tenuto sempre lontano dalle liti e dai tribunali, ed ho evitato anche i banchetti. Il mio vitto era molto parco, per non aver bisogno del medico; e per non trattenerti con un lungo discorso, mi sono sempre comportato in modo da dominare sempre le cose umane, non da esserne dominato. 52. CARONTE. Orbene tu, che ridevi di tutto, ti sei mai182 preoccupato della morte? OMBRA. Una sola volta in tutta la vita ho pensato alla morte, pur avendola sempre davanti agli occhi, riflettendo su quello che essa volesse da me e su quale difesa io le potessi opporre; alla fine questo rimedio sol105

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CHARON, XII

eam comparare possem praesidium; unum tandem hoc mihi in animo sedit, ut honeste tranquilleque aetatem ducendo viverem. CHARON. Quod adversus paupertatem invenisti remedium? UMBRA. Ut iudicarem pauperem esse nequaquam posse, qui secundum naturam viveret. CHARON. Quod adversus honores atque ambitionem? UMBRA. Quod gravissimi casus non nisi ex alto essent loco. CHARON. Quod adversus falsos rumores? UMBRA. Rectam conscientiam. CHARON. Unquam ne te movit superstitio? UMBRA. Deum ubi perspexissem, sacerdotum mendaciis aures occludebam. CHARON. Quomodo cum invidia? UMBRA. Qui doluerim nunquam, riderem omnia, quo pacto inviderem? CHARON. Ecquando ne iratus fuisti? UMBRA. Semel in omni vita, neque mea causa, sed quod viderem innocentem hominem iniuste plecti, maledixi concivibus, quod non de iniusto iudicio provocarent; quos ubi vidi mussitare ac tyrannorum vim timere, statim me repressi atque ad risum redii. CHARON. In militiam ne aliquando profectus? UMBRA. Semel lituum audii. CHARON. Quid? Reges ne aut regulum quempiam secutus? UMBRA. Minime, mihi enim ipsi me, non regulis natum esse volui. CHARON. Liberos ne suscepisti? UMBRA. Quos statim extuli et quod bene actum cum illis iudicarem, Deo gratias egi. CHARON. Igitur et uxorem duxisti? UMBRA. Non tam mea, quam parentum gratia; ea cum triennium mecum exegisset, morte diem obiit; ex eo celebs vixi. CHARON. Cur non alteram duxisti? UMBRA. Quia scirem temeritatem non semper felicem esse; et quod bene in illa successisset, veritus sum in secunda periculum facere, meque asserere in libertatem volui.

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CARONTE, XII

tanto mi si insediò nell’animo, di trascorrere la mia vita fra l’onestà e la tranquillità. CARONTE. E quale rimedio hai trovato contro la povertà? OMBRA. Quello di pensare che non possa mai essere povero chi vive secondo natura. CARONTE. E contro gli onori e l’ambizione? OMBRA. Quello di pensare che le cadute più gravi sono quando si cade dall’alto. CARONTE. E contro le calunnie? OMBRA. La retta coscienza. CARONTE. La superstizione non ti ha turbato mai? OMBRA. Una volta scoperto Iddio, chiudevo le orecchie alle bugie dei preti. CARONTE. Con l’invidia come ti sei regolato? OMBRA. Come poteva sentire invidia una persona come me, che non si addolorava mai e rideva di tutto? CARONTE. Ti sei adirato qualche volta? OMBRA. Una sola volta in tutta la vita, e non per qualcosa che mi riguardasse personalmente, ma per l’ingiusta punizione di un innocente; allora ho maledetto i concittadini perché non protestavano contro una sentenza ingiusta. Ma vedendo poi che mormoravano sottovoce e avevano paura della violenza dei tiranni, subito mi frenai tornando alle mie risate. CARONTE. Sei mai partito in guerra? OMBRA. Una sola volta ho udito suonare la tromba. CARONTE. Come? Non ti sei posto al seguito di re o di regoli? OMBRA. Mai. Ho ritenuto fermamente di esser nato per me, e non per le regole altrui.183 CARONTE. E figli ne hai avuti? OMBRA. Ringraziando Dio, li ho seppelliti e ho la coscienza di averli trattati bene. CARONTE. Dunque hai preso anche moglie? OMBRA. Più che per me, per i miei genitori; ed è morta dopo aver vissuto tre anni insieme; d’allora in poi ho vissuto da solo. CARONTE. Perché non ti sei risposato? OMBRA. Perché sapevo che l’audacia non sempre va a finire bene; e poiché con la prima era andata bene, ho temuto di rischiare con la seconda, e ho voluto dichiararmi un uomo libero. 107

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CHARON, XII

CHARON. Quam saepe cum illa litigabas? UMBRA. Nunquam; nam et illa virguncula ac suavis erat et ego ridere assueram domi, non minus quam foris. CHARON. Quid de hominum rebus sentiebas? UMBRA. Vanitatem ac stultitiam esse omnia. CHARON. Felicem te, qui ista noveris. 53. UMBRA. Nec felicem quenquam nec sapientem dixeris; nulli enim tot affuere unquam bona, ut non ei plura defuerint; nec quisquam tam sapiens habitus est usquam, ut non et illi ad veram perfectamque sapientiam defuerit multum. Nam cum humanae res imperfectae sint omnes, quid earum possit esse perfectum? cumque nihil sit in eis constans, felix quinam esse potest, cui momento interdum adversa plurima succedant? CHARON. Non dixi te felicem, hospes, sed felicem qui ista noveris. UMBRA. Non ex bonorum cognitione humana existit felicitas, verum ex eorum possessione et usu. CHARON. At ego te et felicem ex hoc iudicaverim, quod, cum intelligeres neminem esse posse felicem, ita tamen ipse vixeris et sapientem, quod in tanta hominum vanitate atque ignorantia sapientem te non minus videri nolueris quam posse esse iudicaveris. Sed quis hic est tam molestus et impudens? UMBRA. Noli, quaeso, ei irasci, amicissimus hic mihi fuit. CHARON. Miror qui inter duos tam dissimilibus moribus ulla potuerit esse familiaritas. UMBRA. Si amici proprium est prodesse amico, hic quam in amicum plura in me contulit. Nam tribulis meus cum esset et quotidie litigaret cum uxore, primum docuit cavendas esse secundas nuptias, deinde, cum nulla non in re et mihi et vicinis coeteris esset molestus, patientissimum me reddidit mortalium omnium. An quod maius in amicum conferri ab amico beneficium potest, quam ut recte ab illo instituatur? Iure igitur hunc amavi et mihi amicum esse duxi. CHARON. Ex omni parte sapientia se ostendit tua. Tu vero, molestissime homo, quid tibi volebas istis moribus? UMBRA. Quod ipse sum consecutus. CHARON. Quod nam illud? UMBRA. Quod, ut eram Musca, sic habebar ab omnibus.

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CARONTE, XII

CARONTE. Molte volte litigavi con lei? OMBRA. No, mai; perché lei era come una verginella e aveva un dolce carattere; ed io ero di solito allegro in casa non meno che fuori. CARONTE. E quale opinione avevi della vita umana? OMBRA. Tutta vanità e stoltezza. CARONTE. Felice te, che lo hai capito! 53. OMBRA. Non considerare nessuno felice, né sapiente: nessuno ha tanta abbondanza di beni, che non sian molti di più quelli che gli mancano; nessuno viene ritenuto così saggio, che non gli manchi molto per possedere la vera e perfetta sapienza. Poiché, infatti, la perfezione non è di questo mondo, che c’è che possa dirsi perfetto? E poiché di questo mondo non è nemmeno la costanza, chi potrebbe esser felice, se improvvisamente talora potrebbero succederti mille sventure?184 CARONTE. Non ti ho chiamato felice, straniero, ma felice di aver capito tutto questo. OMBRA. La felicità umana non proviene dalla cognizione, ma dal possesso e godimento dei beni. CARONTE. Ma io ti ho ritenuto felice per questo, che, avendo capito come nessuno possa esser felice (tuttavia tu hai vissuto così) e sapiente, in tanta vanità e ignoranza non hai voluto sembrare sapiente meno di quanto hai ritenuto di poterlo essere. Ma chi è quel prepotente sfacciato là? OMBRA. Per favore, non ti adirare con lui: è stato il più caro dei miei amici. CARONTE. Mi meraviglio come fra due tipi così diversi possa correre dell’amicizia. OMBRA. Se è proprio dell’amico giovare all’amico, questi ha dato a me più che a un amico. Essendo del mio quartiere, e litigando ogni giorno con sua moglie, fu lui che più mi convinse a non risposarmi. Poi, siccome faceva questione con me e con gli altri vicini per un nonnulla, mi fece diventare il più paziente dei mortali. E quale beneficio maggiore un amico può dare all’amico, che dargli insegnamenti? Quindi gli ho voluto bene e l’ho considerato mio amico. CARONTE. La tua sapienza si rivela dovunque. Ma tu, fastidioso come sei, che credevi di ottenere con questo modo di fare? OMBRA. Quello che ho ottenuto. CARONTE. E che cos’è? OMBRA. Di essere considerato da tutti per quel che ero, una mosca.185 109

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CHARON. Unum illud, puto, tibi vehementer doluit, aculeis quod careres. UMBRA. At verba mihi erant aculei, quibus ego vel vincebam culices. CHARON. Digna tibi pro factis istis et a culicibus et a cabronibus infligetur poena; verum age, hospes etrusce, quando percuntari singulos agendo remo nimis magno est impedimento et iudices iam abisse e ripa video, edoce in tanta multitudine si quos ipse noveris. 54. UMBRA. Geretur tibi mos: hic qui se primum offert mendacissimus fuit omnium quos unquam viderim. Illud autem maximum iudicat mendaciorum quibus usus est unquam, quod cum uxore (ut ex eo aliquando audivi) nunquam se litigasse asseveraverit. Is qui eum sequitur adolescens in maximis vixit divitiis, senex in summam inopiam redactus est, quippe cuius studium fuerit ex aere fumum, e fumo metallum facere. Nam dum aurum ex fornace quaerit, sua omnia in ignem coniecit. Tertius ille non modo libidinosissimus, verum etiam immanis fuit, qui nec brutis abstinuerit. Duo illi, alter perniciosissimus assentator fuit, laeno alter pellacissimus, quibus artibus primos sibi et ad Caesares et ad Pontifices aditus fecere. At ille alius accusando maximas comparavit divitias; cui cum praeter insimulationem ac maledicentiam nihil dulce esset, arte hac primum apud principes locum tenuit; quae ego magis scio quod mihi relata essent a tribulibus, quam quod nosse ea studerem. At illum tam severa et tristi fronte et novi et suspexi utpote omnium quos ipse viderim integerrimum et certe natum ad recte informandos animos; qui cum et verbis philosopharetur et moribus, quae ipse dissereret, ea re atque exemplo comprobabat; cuius operaeprecium fuerit audire orationem. CHARON. Nihil est quod magis cupiam; sed quaenam illi patria? UMBRA. Ab Umbris ducebat originem. CHARON. Hospes Umber, adventum ad Manes tuum gratulor, tum quod liberatus sis omnino curis iis quae mortales habeant tam male, tum quod audire te vehementer cupio. Novi enim quantus sis philosophus; quamobrem unde tibi maxime videtur exordiens, perge de virtute dicere, dum illuc in portum deferimur. 55. UMBRA. Nec ingratum est quod postulas nec diffìcile. Et quoniam de virtute ut dicam exigis, nescio quid audire ipse malis quam quae vis

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CARONTE, XII

CARONTE. Soltanto una cosa ti dispiaceva, penso, di non avere gli aculei. OMBRA. Li avevo gli aculei, le parole, e con quelle superavo perfino le vespe. CARONTE. Per quel che hai commesso ti sarà inflitta una pena adeguata da parte di zanzare e calabroni!186 Ma va avanti, forestiero toscano, dimmi se conosci altri, in mezzo a questa gran folla, poiché interrogare ad uno ad uno mi impedirebbe assai di maneggiare il remo, e vedo che i giudici frattanto si sono già allontanati dalla riva. 54. OMBRA. Ti terrò contento: quello che si presenta per primo fu il più bugiardo uomo che abbia mai conosciuto; ma ritiene che la bugia più grossa sia stata quella di non aver mai litigato con la moglie (gliel’ho sentito dire qualche volta). Quel giovinetto che lo segue ha vissuto fra grandi ricchezze e da vecchio si è ridotto in estrema povertà per aver posto ogni suo sforzo a trasformare il metallo in fumo, e il fumo in metallo.187 Infatti, mentre cercava di ricavare oro dalla fornace, ha finito col gettare nella fornace tutto il suo oro. Il terzo è stato tanto sfrenato e perfino disumano, da non astenersi nemmeno dai bruti. Di quei due, l’uno è stato fra i più rovinosi adulatori, l’altro il più infido dei ruffiani, riuscendo così ad accedere in modo privilegiato presso Cesari e Pontefici. L’uno divenne oltremodo ricco accusando gli innocenti, e non avendo a cuore se non la simulazione e la calunnia, con quest’arte si è procurato il posto più alto a corte; e io lo so, non perché io mi interessassi di queste chiacchiere, ma perché me l’hanno detto i suoi compaesani. L’altro, invece, che ha un aspetto così rigido e severo, l’ho conosciuto e ammirato come la persona più integerrima che avessi mai visto, destinata certamente ad essere un educatore di coscienze. Lui, parlando come un filosofo, attraverso il comportamento, nei fatti e con l’esempio, dimostrava la verità di quello che diceva. Varrà la pena sentirlo parlare. CARONTE. Non c’è cosa che desideri di più. Ma da che paese viene? OMBRA. Era umbra d’origine. CARONTE. Tu che provieni dall’Umbria, mi congratulo della tua venuta nel regno dei morti, sia perché ti sei liberato dalle noie che turbano la vita umana, sia perché desidero ascoltarti. So infatti che fi losofo sei. Perciò, da dove ti pare di dover cominciare, avvia un discorso sulla virtù, mentre andiamo lì nel porto. 55. OMBRA. Quel che mi chiedi non mi dispiace e non è difficile. E giacché vuoi che ti parli della virtù, non so che cosa tu preferisca ascol111

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CHARON, XII

sit eius et qui capiantur inde fructus. Etenim, cum inter deos atque homines tantum intersit quantum norunt omnes, nec solum spacio, sed natura, nonne admirabilis virtutis vis haec est, quod et deos hominibus conciliat in vita et post mortem illorum coetui eos adiungit? Nam cum virtus medium quoddam sit extrema quae videantur in agendo fugiens, quae maxima illius laus est, haec certe summa est vis eius, quod eadem haec ipsa virtus inter Deum et hominem medium tenet, quo quidem dempto medio, nullus est ad Deum accessus, nulla quae ad illum perducat via, quae et ipsa principio Deum cognoverit et qui secundum se vixissent inter divos retulerit. Coetera cum fluxa et fragilia sint, auferri temporis momento possunt, at virtus firmum et stabile bonum est. Quae cum nullius sit externae rei indigens, alia tamen omnia absque illa manca sunt, hucque atque illuc incerta feruntur. Felicem igitur qui bene agendo recteque intelligendo perfectam fuerit virtutem assecutus, qui cupiditates compescens et quasi extra pericula positus, liber ac securus vixerit, cumque sibi ipse lex esset, leges nequaquam timuerit et tanquam omnia sub pedibus subiecta haberet, tutus incesserit contra populi rumores, contra tyrannorum libidines, atque adversus fortunam ita steterit, ut ingruentem eam a se repulerit, neque manum porrexerit blandienti! 56. CHARON. Quam vere et supraquam dici potest magnifice de virtute locutus es! Ac, per Plutonem, oratio ista hominum expressit felicitatem; quam parum tamen animo cernentes caecitate sua in perniciem magis volentes eunt quam coacti trahuntur. Quotus enim ex his, quos innumerabiles quotidie transveho, non seipsum incusat? non stultitiam, quanquam sero, queritur suam? Quo magis, optimi hospites, vestrum utrique gratulor, qui et in agendo et in perspiciendo veritatem sic secuti atque adepti fueritis, ut quam a vulgi ignorantia longissime recessistis, tam ad felicitatem proxime accessisse videamini. Sed iam, ut videtis, cursum hunc confecimus, et me traiiciendis aliis opus est regredi, vos ut descendatis. Ite igitur felices, et quo animo vitam traduxistis mortem etiam feratis, per quam iam estis immortalitatis viam ingressi. Tu vero, sapientissime Mercuri, gregem hunc coge, et ubi videbitur, ad iudices propera.

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CARONTE, XII

tare se non della sua potenza e dell’utile che ne deriva. Dunque, poiché tanta è la differenza fra Dio e l’uomo quant’è quella che tutti conoscono, non solo di spazio ma anche di essenza, non è meravigliosa la forza della virtù, dal momento che essa nella vita avvicina gli spiriti divini agli umani, e dopo la morte aggiunge questi alla schiera di quelli? Infatti, siccome la virtù è la via di mezzo ed evita gli estremi, e il suo merito maggiore è proprio questo, così anche fra Dio e l’uomo la virtù è la via mezzo; sicché se si toglie questo intermediario non è possibile accostarsi a Dio, non c’è alcuna possibilità di accedervi, in quanto la virtù è quella che originariamente lo ha fatto conoscere e ha ricondotto a Lui chi è vissuto secondo i suoi principi. Essendo caduchi e fragili tutti gli altri beni, possono svanire in un istante, mentre la virtù sola è un bene stabile ed eterno; e mentre essa non ha bisogno di alcun sostegno esterno, ogni altra cosa è imperfetta e vacilla nell’incertezza. Felice dunque colui che operando bene e ragionando rettamente riesca ad attingere la perfetta virtù, colui che frenando gli impulsi della passione e ponendosi fuori pericolo, riesca a vivere libero e sicuro, ed essendo legge a se stesso, non abbia timore alcuno delle leggi e quasi mettendo sotto i piedi ogni cosa, possa camminare al sicuro dal mormorio della gente, dai capricci dei tiranni, e sappia ergersi contro la fortuna, in modo da respingere i suoi attacchi e non stendere la mano ai suoi allettamenti. 56. CARONTE. Com’è straordinariamente vero e bello quello che hai detto sulla virtù! E, per Plutone, questo discorso ha spiegato in che cosa consista la felicità umana; e tuttavia con quanta miopia costoro si lasciano trascinare alla rovina, e lo fanno volentieri più che costretti. Quante sono infatti, fra le anime che ogni giorno trasporto, innumerevoli, quelle che non accusano se stesse, non si lamentano della loro stoltezza, sebbene tardi? Tanto più, ospiti illustri, mi congratulo con voi due, che penetrando nella verità, l’avete seguita e raggiunta, da far pensare che vi siate avvicinati il più possibile alla felicità, allontanandovi il più possibile dall’ignoranza del volgo. Ma ormai, come potete vedere, abbiamo compiuto il cammino, e bisogna che io ritorni per traghettare altri, e che voi discendiate. Andate felici e sopportate la morte con lo stesso animo con cui avete trascorso la vita, perché attraverso la morte avete ormai imboccato la strada dell’immortalità. Tu, sapientissimo Mercurio, spingi questo gregge, e quando ti sembrerà opportuno, affrettati a recarti dai giudici. 113

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CHARON, XII

MERCURIUS. Ego vero propero, vos sequimini. GREX UMBRARUM NOCENTIUM.

57.

Pergamus miseros visere Manes, Flendo in lucis prodimus auras, Flendo transigimus tempora vitae, Tristem flendo navimus amnem. Et quod restat iter hoc quoque flendo Infelices conficiamus. Minois miseris ora ferenda Et formidata Aeacus umbra, Spectandusque truci cum Rhadamantho. Nos latranti Cerberus ore, Nos et multiplici gutture serpens Pascetque atro trux leo rictu. GREX UMBRARUM INNOCENTIUM.

Nos Favoni lenis aura Et virenti prata flore, Nos beatis rura campis Perpetuique manent tempora veris. Mella nobis sponte manent, Vina largo fonte sudent Ac liquenti lacte rivi, Grataque decutiant balsama rami.

IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS QVI INSCRIBITVR CHARON FINIT FELICITER.

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CARONTE, XII

MERCURIO. Sì, mi affretto; voi seguitemi. CORO DELLE ANIME DANNATE.188

57.

Andiamo a visitar l’ombre dolenti, piangendo entriamo nell’aerea luce, piangendo trascorriamo l’esistenza, il tristo fiume navighiam piangendo. E il viaggio che rimane ancor piangendo compiamo, quali siam ombre infelici; di Minosse la vista a patir miseri costretti, e ancor d’Eaco il truce aspetto. Veder dovremo il truce Radamanto, e Cerbero latrar con le sue fauci, ed il serpente dalle molte gole ci mangerà, e il leon con fiero pasto. CORO DELLE ANIME INNOCENTI.

Noi del Favonio l’aura leggera e i verdeggianti pratelli in fiore noi quel giardino beato attende, e la stagione della primavera. Pronto è quel miele che lì ci aspetta, sgorgano i vini da un ricco fonte, scorran di fluido latte le rive, scuotano i rami i balsami beati.

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Antonius Antonio Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

Questo dialogo, che più di ogni altro rivela la tendenza autobiografica, è una celebrazione dell’Accademia e del suo primo fondatore, dal quale Gioviano ereditava la disposizione al colloquio, a un nuovo stile di sapienza, fondato sull’ironia e sulla critica, nemico della pedanteria, degli eccessi in ogni senso e della noia. Si apre infatti con la memoria del Panormita e della sua scherzosa conversazione, e si chiude con la presentazione autoironica di Pontano, rifondatore. Il Panormita, scomparso nel 1471, era stato, come si è già detto, un umanista di primo piano sotto il regno di Alfonso il Magnanimo, di cui aveva esaltato il trionfo militare e le virtù civili e regali, e nel primo decennio del regno di Ferrante, di cui aveva intrapreso a narrare le gesta e la vicenda della controversa successione per legittimarne la corona. Ma era anche ricordato come uomo di spirito, quale si riflette nella sua nutrita corrispondenza e nelle stesse testimonianze del Pontano che lo ricorda come un modello di conversazione nel De sermone. Del resto anche lui aveva scritto un libro di aneddoti in onore di Alfonso il Magnanimo, dove non mancano esempi faceti. Non per caso nel De voluptate del giovane Valla aveva svolto il ruolo dell’epicureo trasgressore, e nel dialogo ora a lui intitolato viene considerato come un maestro dalla tempra socratica, dotato di una fondamentale vocazione critica, pronto a riversare la sua sapienza soprattutto nella conversazione, e, pur senza rinunciare talora ai toni accesi della polemica, a contenerla nei limiti della moderazione. I suoi amici lo ricordano quando scherzava sul gruppo accademico chiamandolo «senatus» e si rivolgeva giocosamente ai passanti («iocans cum praetereuntibus»), o canticchiava qualcosa che lo divertiva («secum 119

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aliquid succinens, quo animum oblectaret»). Nell’idealizzazione della sua figura è importante appunto la correzione – per così dire – apportata alla figura del saggio tradizionale. L’apostrofe scherzosa appare infatti il modo più felice per avvicinare una persona, come la pausa scherzosa, l’opportuna variazione del tema, costituiscono nei dialoghi il mezzo più idoneo ad allontanare la stucchevolezza e a mantener vivo il colloquio. L’eletta convivenza umana, il gusto del piacevole e del sorridente si fondono concordemente con la coscienza morale, che richiede nell’uomo il senso del proprio limite e delle proprie finalità. Del resto anche la propensione del Panormita alla facezia e alla memoria piccante («Quid enim erat laetis in rebus Antonio iucundius? Quid rursus in turbatis atque asperis gratius?», § 1), doveva essere un modello di moderazione, se l’accademico che nel nostro dialogo ne intesse inizialmente l’elogio raccontando le sue amenità, interrompe il forestiero che aveva equivocato commentando salacemente il rimedio dei pugliesi agli effetti erotici del morso della tarantola, dicendo: «alla licenziosità c’è un limite, anche nel paese degli Oschi, dove sembra che si possa dar corso alle “oscenità”» (§ 2). Vi era in lui una sorta di remora nei confronti del livello squisitamente satirico della critica qual è l’invettiva, per cui preferiva talora stemperare il giudizio negativo nell’evidenza e piacevolezza del racconto esemplare. Il dialogo stesso nel quale viene evocato è, infatti, costruito come un racconto dei suoi interventi seri e faceti, una rassegna di esempi umani evidentemente riprovevoli, ma anche ridicoli e divertenti. Ora gli accademici che lo hanno conosciuto raccontano le sue esternazioni, ma un rilievo egli lo avrà anche nel trattato pontaniano sulla conversazione, dove è pur decisivo il modello di Poggio; risalgono infatti a lui la ricerca, anche teoricamente motivata, della medietà fra lo sconcio e l’insipido, e il gusto dell’autoironia. Alla prima scena, infatti, nella quale il Compatre rievoca, per rispondere al forestiero, la figura del Panormita, seguono due macchiette, quella di un passante che si rivela un presuntuoso augure, e quella di un vecchio innamorato. Fra le due si apre una parentesi, che contiene il primo accenno alla persona dell’autore: il re ha mandato un banditore ad ammonire i graecissantes che danno noia al poeta. Si apre quindi una lunga discussione tra Andrea Contrario, il Compatre, il Poderico ed Elisio sui fini dell’oratoria e sui meriti della poesia virgiliana, dove si fa riferimento continuo all’opinione e talvolta alle parole del Beccadelli, difensore 120

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e di Cicerone e di Virgilio. S’inserisce quindi la stravagante figura di Suppazio, il quale racconta un suo viaggio ricco di tanti particolari ricordi. Segue la scenetta in cui Lucio, il figlio del Pontano, racconta le baruffe che avvengono in casa tra il padre e la madre, e da ultimo appare un musico, che ricorda agli accademici, con le sue soavi composizioni, l’ideale poetico formulato da Antonio, il maestro di tutti loro. Il dialogo si chiude con l’arrivo di un «poeta personatus», che narra in versi al popolo, per la strada, la guerra di Sertorio; lo accompagna un istrione, che prepara ed invita il pubblico all’ascolto. L’attenzione rivolta alla «varietà», che debba necessariamente evitare gli eccessi istituzionali della disciplina culturale e quindi la noia, accompagnano e caratterizzano lo sviluppo in senso «accademico» del genere dialogico. Di qui anche l’ironia e l’autoironia attribuite al Panormita e di conseguenza al Pontano stesso, il quale dichiara così il suo modello diretto, la famosa ironia socratica depositata nei dialoghi di Platone, anche se Platone, pur citato, non è un’autorità direttamente seguita. Di qui anche l’aspetto di un pastiche che prevede l’inserimento sia di facezie del Panormita, sia di un racconto di viaggio come cornice di tanti episodi ridicoli e perfino di un apologo risalente alla tradizione aneddotica (§ 68), sia di esempi poetici diversi mediante qualche pretesto narrativo. Esempi di epigrammatica, di lirica, di bucolica, infatti, occasionalmente inseriti come prove poetiche di un vecchio amante e di un cantore di strada, forse con allusione alla facilitas della vena poetica della stesso autore, quasi annunciano l’ambigua proposta finale di un poemetto epico (Sertorius), che assume un senso affabilmente polemico e di diversivo stravagante nell’ambito del dialogo faceto. Non si può dire fino a qual punto si possa pensare all’affinità, dovuta almeno ad una cognizione vaga e indiretta, con il Satyricon di Petronio, noto già a Poggio, dove non mancano la figura di uno stravagante viaggiatore e l’inserzione di versi fra cui proprio due poemetti epici. Il ricordo delle scherzose chiacchierate di Antonio richiamano insomma l’arte della conversazione esposta nel De sermone, ma ne richiamano soprattutto il significato etico, in occasione della viva enunciazione dell’ideale del sapiente, quale vuol essere il dialogo stesso. Il carattere precipuo dello «scherzo» del Panormita era nella sua «misura», nel suo particolare livello, che non permette di confonderlo col volgare piacere del riso. 121

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L’Antonius, dove la critica al rigore dei grammatici raggiunge il suo culmine nel racconto dell’esperienza romana del viaggiatore alla ricerca vana della sapienza (§§ 56-68), contiene anche le più impegnate prove filologiche di Pontano prima che nell’Actius e nell’Aegidius egli teorizzasse l’arte storica, l’arte poetica e l’oratoria sacra e profana. Gli ampi interventi di Andrea Contrario (§§ 13-25), di Elisio Calenzio (§ 26-50) e del Compatre (§ 51-55) affrontano argomenti polemici di grande attualità come la definizione dell’oratore e dello status della causa, in cui pareva che Cicerone e Quintiliano fossero in contraddizione, come anche l’imitazione poetica e la congruità delle informazioni mitiche e storiche del poema virgiliano. In entrambi i casi la discussione, affrontata perfino con qualche eccesso sofistico, avrà un peso nella retorica e nella poetica del Cinquecento, e rivela notevole acribia nell’interpretazione del testo. La controversia sul fine dell’oratore in Cicerone e Quintiliano è alla base di due differenti concetti della poetica del Cinquecento, quello di Pietro Bembo, che addita il decoro e la persuasione come fine del «bene scrivere», e quello di Girolamo Fracastoro, che afferma, nel teorizzare la poetica, il primato assoluto del dicere. Del resto lo stesso Pontano applicava nell’esposizione filosofica e astrologica lo stile e il metodo ciceroniani, difendeva Cicerone contro i sostenitori della superiorità di Quintiliano e l’originalità di Virgilio contro gli attacchi dei grammatici, seguendo l’insegnamento di Giorgio Trapezunzio, il dotto greco autore del famoso trattato di Retorica, fondato sulla teoria della perfezione di Cicerone e Virgilio e dell’analoga perfezione di Demostene e Omero. Più direttamente collegata con la poetica è l’analisi dei versi virgiliani che descrivono l’eruzione dell’Etna nel racconto di Enea nel secondo libro dell’Eneide, l’accenno alla storia romana nella profezia di Anchise nel libro sesto. Al di là del discorso filologico che confuta l’intenzione imitativa di Virgilio nei riguardi di Pindaro mostrando invece la diretta esperienza del fenomeno (§ 26), e dimostra la correttezza delle notizie storiche e mitologiche adombrate nel poema virgiliano (§ 49), la difesa di Virgilio da parte di Elisio Calenzio e del Compatre che riferisce il pensiero del Panormita sui detrattori del poeta latino, dimostra un piglio moderno quando giustifica la poesia sulla base di categorie della poetica, come il lessico e lo stile scelti in funzione della meraviglia. La meraviglia è intesa, infatti, come gara con la realtà e superamento delle impressioni comuni, l’invenzione è intesa come originalità rispetto all’i122

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mitazione, l’abbozzo delle immagini è inteso come una sorta di pregio del non finito. Considerazioni che ci conducono alla crisi del classicismo. Una più complessa interpretazione richiede il poemetto annesso al dialogo Antonius, che ci permette di sondare dell’umanista napoletano anche l’atteggiamento verso Roma nella rievocazione della storia antica. Il Sertorius, che Pontano introduce come travestimento in versi virgiliani del racconto di un cantastorie venuto dalla Gallia Cisalpina a intrattenere i popolani, ha un’ambigua identità. Pontano lo presenta come un esempio di decadenza, che disgusta gli accademici, ma lo tollera sorridendo, se rappresenta fra i guerrieri se stesso e i suoi amici accademici a compiere mirabolanti imprese militari. Ed è proprio il tono del racconto, che è virgiliano nella forma, ma iperbolico nella sostanza della vicenda narrata, analogamente ad un cantare cavalleresco, a mettere in luce l’ambiguità dell’esperimento epico. Ancora più delicata è l’interpretazione della scelta del tema. La Vita di Sertorio di Plutarco era stata tradotta da Leonardo Bruni, né il racconto dell’ultima battaglia sostenuta dal ribelle che aveva sognato di conquistare la Spagna dando un colpo all’Impero romano e alla sua classe dirigente, prima di essere colto dal fato, dipende dalla vita plutarchea, tranne che per la figura della cerva che in Pontano ha un suggestivo sviluppo mitico. Nella prefazione il Bruni aveva giustificato la sua scelta con l’indignazione verso chi con proterva ostinazione sosteneva che alle gesta degli antichi combattenti fossero da preferire di gran lunga quelle dei nostri tempi. Sertorio, celebrato come praestantissimus ac callidissimus dux, sfaterebbe questa pretesa. Pontano, non solo vede in Sertorio un grande eroe militare del passato, sventurato, e tuttavia degno di migliore destino, ma un rappresentate della «provincia» romana, non della capitale, anzi oriundo della propria terra umbra di Norcia, il quale aveva tenuto sotto scacco Pompeo, il console romano, legando il suo destino alla Spagna, da dove provenivano i Re aragonesi impegnati anche loro a contrastare la prepotenza romana. La Vita plutarchea suggeriva a Pontano, infatti, la celebrazione del ribelle di Norcia con la fine triste eppur gloriosa in terra di Spagna, piuttosto che la condanna della ribellione con il trionfo romano. La buffoneria dei canterini mascherati, nuovo e sgradito dono della Gallia Cisalpina, confinata nella cornice, si collega con gli aspetti degradati di umanità, di cui parla e da cui rifugge il dialogo stesso. Eppure, evo123

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cando la tradizione della narrativa cavalleresca che proprio in Spagna, dove si colloca la vicenda, aveva avuto il teatro preferito con lo scontro mitico fra Cristiani e Saraceni, il poemetto sembra volere far dimenticare il modello canterino e richiamare invece le lasse delle chansons, rivestendole di classico paludamento. Ciò lascia ugualmente un interrogativo sul senso di questa prova. Al di là del gioco dei nomi e della trovata per cui le sorti della guerra sono affidate all’antenato Pontius, controfigura dell’autore, e alla sua rudimentale arma da fuoco (vv. 547-663), non possiamo fare a meno di pensare ad un travestimento della narrativa epica medievale e popolare nelle forme di un poema classico-umanistico ispirato all’impresa sfortunata del ribelle. Nelle prime pagine spicca il motivo del «volgo» superstizioso ed osceno, e nelle ultime il disprezzo della poesia del «volgo»; tutta la discussione letteraria è rivolta contro il «volgo» dei grammatici, e la geografia umana d’Italia, nel racconto di Suppazio, non è che uno sguardo alle deplorevoli consuetudini diffuse del «volgo». Come già nel Caronte, i grammatici sono tacciati di stoltezza e di follia. I loro attributi sono «demenza», «furore», «cecità», «delirio»; di qui anche l’invenzione di un termine pseudo-medico, che designa una vera e propria sindrome, «labyrintiplexia». Con un certo compiacimento si ricorda il paragone fatto dal Panormita fra i grammatici ed i cani rabbiosi, contro i quali è necessario usare la formula dello scongiuro usato in Sicilia contro quelle bestie. Alla disumanità dei grammatici fa riscontro la volgarità della letteratura a livello popolare, declamatoria e chiassosa, che si oppone all’elegante e moderata poesia del lirico che intrattiene piacevolmente gli accademici. Il lirico cantore è, con ogni evidenza, contrapposto agli istrioni giunti alla fine e a quell’altro cantore estemporaneo, che aveva usato il metro elegiaco per cantare l’amore della sua Mariana. Il volgo ha una determinata fisionomia storica: l’arrivo di questi istrioni coincide con le cattive usanze venute dalla Francia, con l’antica barbarie deplorata dalla civiltà latina, con la poesia rozza ed immatura, che ha finito per rovinare il gusto e spingere i letterati a riparare nella casa del nuovo maestro dell’Accademia invocando la pungente satira di Antonio. Si definiscono in questo motivo che è, potremmo dire, il centro ideale di tutto il dialogo, la rinascita del buon gusto, il ritorno alla poesia classica come ritorno alla compostezza, alla sostenutezza espressiva, alla maturità letteraria. La menzione di Orazio, maestro di arte poetica e di 124

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comportamento ne è un segno. In effetti la rappresentazione dell’Accademia, quale appare nell’Antonius, nasce dalla coscienza aristocratica di realizzare la vita letteraria e culturale lì dove ormai solo può realizzarsi, non più nelle strade, all’aperto, nel vivo contatto con gli uomini, come era avvenuto nell’ideale stagione inaugurata da Antonio Panormita, ma nel privato ritiro dove si raccolgono i migliori. Se pensiamo a certi dialoghi cinquecenteschi, in cui acquisti importanza la cornice, come quello del Castiglione, avvertiremo il medesimo senso di distacco, la medesima malinconia nel richiamare in vita un passato divenuto ormai punto di riferimento ideale. Nell’Antonins ritroviamo, per così dire, la genesi di questo atteggiamento spirituale, perché vi cogliamo il momento in cui nel fervore di rinnovamento culturale l’Umanesimo avverte ed accetta coscientemente la sua funzione aristocratica. Ma, fra l’ideale rievocazione di Antonio, con le sue parole, i suoi pensieri, le sue garbate e spiritose abitudini, e l’invettiva contro l’attuale dissolvimento dei buoni costumi, possiamo riconoscere un nucleo di vera rappresentazione nella parte del dialogo dedicata ad uno strano personaggio, Suppazio, ed al colorito racconto della vita privata di Pontano. Le figure degli accademici non hanno vita drammatica: in loro la sapienza si fa dottrina; è affidata loro la impegnata discussione sulle questioni letterarie, il commento e l’illustrazione delle scenette e delle figure esemplificative che via via vengono introdotte, il ricordo della grande figura del maestro. Gli altri personaggi hanno una vita breve, servono piuttosto come spunto per ricollegarsi ad un aneddoto riguardante il Panormita, per formulare un giudizio sui temperamenti e i costumi degli uomini. Suppazio, che giunge a metà del dialogo e racconta il suo avventuroso viaggio, pur attraverso un monologo lunghissimo realizza un vero e proprio «personaggio». Così la scena del litigio in casa Pontano, anche se raccontata dal figlio Lucio, ha una sua motivazione drammatica: la figura del poeta, oltre quella di sua moglie, viene delineata come quella di un «personaggio»; a parte il fatto che lo stesso Lucio, che racconta, riceve il suo ritocco scenico. Dobbiamo pensare alla struttura della rappresentazione medioevale, per intendere nei giusti termini questi tentativi drammatici di Pontano: in essa, infatti, il racconto aveva una parte importante e costituiva un modo comune di poter rappresentare ciò che il tempo ed il luogo non permettevano di fare. Ma il Pontano proprio in questa parte del dialogo 125

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ha cercato, se pur attraverso risorse esterne e strutturali, una certa unità di racconto drammatico: Suppazio è venuto a cercare il Pontano, ma lo ha trovato in lite con la moglie, gelosa, che tra l’altro lo ha preso per un ruffiano e lo mette alla porta. Suppazio torna fra gli amici e tutti si fanno raccontare da Lucio cosa avvenga in casa. Quando la lite si è spenta, tutti si rifugiano in casa del poeta, per sfuggire al chiasso degli istrioni. La figura di Suppazio è espressamente collegata col motivo fondamentale della «sapienza», che circola per tutto il dialogo: «video ne ego antonianum sapientem [...] antonianum sapientem de sapientia disserentem placide audiatis» (§ 55), dice il Poderico al termine del lungo discorso nel quale il Compatre conclude l’illustrazione della polemica culturale condotta dal Panormita. Fra la rievocazione del Panormita, come sapiente socratico, e la figura «comica» che ora dovrebbe rappresentarlo si crea un contrasto ironico, anche se Suppazio non manca di quella cultura letteraria che poteva prevedersi nella entusiastica presentazione fatta da Poderico: egli fa riferimento a Cicerone e a Quintiliano, usa riferimenti biblici e conosce benissimo gli argomenti contro i grammatici. Ma nel suo facile linguaggio di fanfarone tutto ciò acquista un sapore di scherzo. La sua ricerca del sapiente è in lui il capovolgimento della quête della mitologia medievale, una ricerca senza fine e infruttuosa, dato il mondo di sciocchi, di villani, di mascalzoni, di sporcaccioni che incontra. La polemica antifratesca diventa, sulla bocca di Suppazio, un piccante racconto sull’abuso che fanno i frati delle donne dei pescatori, mentre questi ultimi vanno in mare per poi portare proprio ai frati il pesce migliore che pescano. Ma la sapienza è recuperata dal nuovo maestro dell’Accademia che raccoglie il dotto circolo degli amici che lo attendevano e si davano pensiero per lui, come avverrà, appunto, alla conclusione dell’Asinus. Il personaggio Pontano è il nuovo Antonio, il più sfortunato «Antonio» dei nuovi tempi. L’evocazione della figura di Antonio si conclude, come ogni biografia ideale, con l’accenno al modo con cui fu affrontata da lui la morte. Gioviano di fronte alle recriminazioni ed alle batoste della moglie ride anche lui, ed anche lui si diverte a ripetere superstiziosi scongiuri, un carmen evomium capace di far vomitare la bile e di mitigare la rabbia. Il più piccolo «Gioviano» che s’incontra in queste pagine dei dialoghi è il frutto di quella propensione all’autoironia, che è anch’essa segno di equilibrio, di sapiente misura e di civile «urbanità». Anzi Pontano 126

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NOTA INTRODUTTIVA

ha tentato di sviluppare questo motivo dell’autoironia nella scherzosa rappresentazione di tutta l’Accademia attraverso l’epica narrazione finale messa in bocca al poeta personatus e introdotta dall’aborrito «istrione». Infatti, se nella trama del dialogo la parte metrica conclusiva costituisce l’esempio delle cattive usanze letterarie introdotte ultimamente nella città, in pratica il nostro poeta si diletta in questo genere di composizioni e, seguendo anche un costume proprio dei circoli letterari, assegna ai personaggi dell’epico racconto il nome dei suoi amici.

NOTA AL TESTO Sui testimoni che hanno tramandato l’Antonius e sulle sue edizioni moderne si veda la nota testuale al Charon col quale l’Antonius è stato pubblicato nel 1491 presso l’editore Moravo. Per il testo terremo presente l’edizione a cura di F. TATEO, 2015, alla cui Nota al testo rimandiamo per i dettagli, riprendendo e ribadendo alcune osservazioni più rilevanti per quel che riguarda il dettato del Pontano e le lezioni discutibili. Fra le sviste o improprietà di Mo, già corrette dalle cinquecentine e quindi da Previtera, hanno un posto particolare exciperet per exciperent, 5; propie per propriae, 15, e habuisset per habuisse, 41, che non sono necessariamente degli errori. Non si è ripristinata la forma corretta in una serie di improprietà, che possono risalire all’autore perché ricorrenti. Ma la tradizione dipendente dalla princeps ha conservato, oltre una frequente svista quale frustra per frusta, 36, volutamente non corretta da Previtera, classicariorum per classiariorum, 39. In base alla princeps si è conservato l’anomalo ut qui, 18, in una citazione, e l’uso prevalente dell’enclitica -ne staccata dal corpo della parola. Non è sembrato opportuno uniformare l’ortografia di Mo all’uso classico quando il trattato De aspiratione documenta un’opinione che la convalida o l’uso è costante: Annibal, Ispania, Ispani, Ispanus, herebus per erebus, huber, hudus, istri. Viceversa si è normalizzato l’unico innitus di Mo (Sert., 168), contraddetto nel De asp., c. 21r (hinnitus). Non si sono eliminate, ricorrendo all’uso classico o più consueto, singolarità grafiche che ricorrono nella latinità recenziore e nello stesso Pontano consuete, come il dittongo improprio (laenissimi, laenito per lenissimi, lenito, 11, 69; coepit, coepisse per cepit, cepisse, 49; haerba, laenones, 58; quaercus, quaernus, 70; loeto per leto, Sert. 197), e l’omissione del dittongo (levus 127

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per laevus, Sert. 67, 695), oppure un’oscillazione diffusa (belua-bellua, laetitia-laeticia, Salustius-Sallustius). Considerando, inoltre, l’uso pontaniano di non traslitterare sempre scrupolosamente le voci greche, possono risalire a lui forme come Amarillis, Chimera, Corynthum, Cyanea, Erythrea, Esculapius, Harpyarum, hymeneus, Hyppoliti, Napeae, Pyreneus, Poliphemus, Polignanicum (in una fi lastrocca popolare), Sybilla, sylogismus, Zephiri.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Per la figura del Panormita si veda anzitutto G. R ESTA, Beccadelli Antonio, in DBI, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1965, vol. VII, pp. 400-406; sull’immagine che offre Pontano, cfr. F. TATEO, Memoria e oblio del Panormita, 2011. Sul contesto culturale napoletano in cui si definisce e si distingue l’Accademia pontaniana si veda, oltre S. FURSTENBERG-LEVI, The Accademia Pontaniana, 2016, e in particolare V. LAURENZA, Il Panormita e il Pontano, 1907, M. FUIANO, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Napoli, Libreria scientifica editrice, 1970; C. DE FREDE, I lettori di umanità dello Studio di Napoli durante il Rinascimento, Napoli, L’Arte tipografica, 1960, pp. 39-79; inoltre, i titoli riguardanti la scuola di grammatica citati a proposito del Charon, e in particolare sul confronto con la figura del Valla e la polemica con il Panormita e il Facio, Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica, Atti del Convegno internazionale, a cura di Marco Santoro, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2007. Il Panormita, assunto come interlocutore nel De voluptate del Valla, aveva in giovinezza pubblicato un libro di epigrammi salaci, l’Hermafroditus, di cui Pontano aveva seguito l’esempio nella raccolta del giovanile Pruritus (1450-1451), recuperando in seguito i carmi meno licenziosi. Lo scandalo che ne era seguito provocò una polemica nella quale l’autore si difese con la scusa maliziosa che anche i grandi scrittori gravi del passato avevano avuto esperienze trasgressive del genere, e che soprattutto i predicatori ricorressero per fini morali a esempi tutt’altro che casti: cfr. lo scambio di epistole con Poggio in F. TATEO, La «Letteratura umanistica», 19892, pp. 208-211. I luoghi del De sermone nei quali viene ricordato sono: I XVIII 3; III XVII 2; XVII 8; V II 15; VI I 2; per il suo libro di aneddoti si veda De dictis et factis Alfonsi regis Aragonum libri IV, Basilea, 1538, e per la 128

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celebrazione del trionfo di Alfonso: G. DISTASO, Scenografia Epica, Bari, Adriatica, 1999, pp. 11-35, 37-47. Sulla controversia fra Cicerone e Quintiliano cfr. J. MONFASANI, Episodes of Anti-Quintilianism, 1992. Per il Ciceronianismo, l’atteggiamento verso i graecissantes, la critica letteraria e filologica, e il concetto di exuperantia già presente in questo dialogo, cfr. qui l’Introduzione generale, 4 e 5, e la Nota introduttiva all’Actius. Alle scelte linguistiche si riferiscono le pp. 53-57 di F. TATEO, La nuova frontiera, 2006. Sul Sertorius, di cui si veda la prima traduzione in metrica barbara di AMICI, 1949, cfr. la diversa denominazione e interpretazione del poemetto di L. MONTI SABIA, Il Bellum sertoriacum, (1997); PLUTARCO, Vita di Sertorio, 11, dove in realtà il generale romano fa credere che la sua cerva abbia una provenienza divina, e M. PADE, The Reception of Plutarch’s Lives in Fifteenth-Century Italy, University of Copenhagen, Museum Tusculanum Press, 2007, 1, p. 148, per la fortuna del biografo greco nel Quattrocento latino. Accenni all’atteggiamento critico di Pontano nei confronti della Roma attuale, agli umori antiromani degli Aragonesi e alla simpatia verso la Spagna che aveva dato a Roma i più venerati fra gli imperatori e che attraverso Alfonso il Magnanimo aspirava all’egemonia imperiale si possono leggere in F. TATEO, “Roma antica ruina”, 2009, pp. 125-131. FRANCESCO TATEO

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS QUI ANTONIUS INSCRIBITUR

I HOSPES SICULUS, COMPATER NEAPOLITANUS. 1. HOSPES. Quaenam, quaeso, bone civis, antoniana est Porticus? COMPATER. Antonium ne, hospes, requiris, an eam quae ab illo Porticus Antoniana dicitur? HOSPES. Et Porticum ipsam nosse et Antonium videre cupio; audio enim pomeridianis horis illic conventum haberi litteratorum hominum; ipsum autem Antonium, quanquam multa dicit, plura tamen sciscitari quam docere solitum, nec tam probare quae dicantur quam socratico quodam more irridere disserentes; auditores vero ipsos magis voluptatis cuiusdam eorum quae a se dicantur plenos domum dimettere quam certos rerum earum quae in quaestione versentur. COMPATER. Haec illa est Porticus, sane dignus tali conventu locus, in qua desiderare nunc quidem Antonium possumus, videre amplius non possumus. Etenim solitudo ipsa meusque hic ornatus plane tibi declarare possunt amisisse nos Antonium; neque enim unquam dicam mortuum quem putem vivere, quod et ipsum paucos ante quam decederet dies acerrime disserentem audivimus, neque eius me mors angit, quae vita est bonis, sed quod iucundissima eius consuetudine sapientissimisque colloquiis est carendum. Quid enim erat laetis in rebus Antonio iucundius? Quid rursus in turbatis atque asperis gratius? In-

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO DIALOGO ANTONIO

I FORESTIERO1 SICILIANO, COMPATRE2 NAPOLETANO. 1. FORESTIERO. Per cortesia, caro cittadino, dov’è l’Accademia antoniana?3 COMPATRE. Stai cercando, forestiero, Antonio, o l’Accademia che da lui ha preso il nome di «antoniana»?4 FORESTIERO. È l’Accademia che desidero conoscere, ma anche incontrare Antonio, perché sento dire che nelle ore pomeridiane vi si radunano certi letterati, e che Antonio in persona, pur trattando molti argomenti, interroga di solito più che insegnare, e non tanto dà il suo giudizio in merito a ciò di cui si discute, quanto, secondo il metodo socratico, usa l’ironia nella discussione;5 e alla fine fa andare a casa gli ascoltatori più deliziati dalle sue parole, che informati sulle varie questioni. COMPATRE. Proprio questa è l’Accademia, luogo veramente degno di un tale raduno, dove possiamo avvertire, ora, la mancanza di Antonio, ma non ci è più possibile vederlo di persona.6 Il deserto che vedi e il vestiario che indosso possono farti chiaramente dedurre che, Antonio, non lo abbiamo più; non potrei dire mai, infatti, che sia morto chi credo ancora vivo, perché l’ho udito discutere con grande foga pochi giorni prima che se ne andasse; né sono afflitto per la sua morte, che per gli uomini onesti equivale alla vita, ma per il fatto di dover rinunciare al grande piacere di stare con lui e di scambiare le idee ad altissimo livello. Che c’era, infatti, di più piacevole della sua presenza nelle liete circostanze? Che c’era di più gradito, viceversa, nei momenti di agitazione e 131

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ANTONIUS, I

credibilis quaedam in eius oratione vis inerat res humanas contemnendi ferendique fortuitos casus aequo animo, quippe cum omnia referret ad Deum diceretque latere nos et bonorum et malorum causas. Pleraque autem videri quae non essent mala, ut quae obiecta nobis essent a Deo, quo humana in iis constantia fortitudoque enitesceret. Quotum enim fortem inveniri, si quieta et secura omnia nobis forent? natos esse homines ad comparandam virtutem, ad excolendos animos; neminem autem sine laboribus plurimis posse hoc assequi, sed decipi opinione nimisque demisse ac molliter nobiscum nos ipsos agere; quae fluant aquas salubriores esse magisque probari, quae vero restagnent noxias ac pestilentes esse. Nullum fortem agricolam cui non incalluerint manus, nec medicum bonum qui non plurimis ac maxime gravibus morbis curandis versatus sit ipse diutius; milites ab assuetudine perpetiendorum laborum exanclatisque periculis laudari; nullos denique artifices claros evadere, praeterquam quos assiduus labor longaque exercitatio docuisset. Optimo itaque et fortissimo cuique labores ac molestias offerri a Deo eamque veluti materiam praeberi in qua sese exerceat cum excellentia hominum coeterorum, tum imperatores ipsi, quos praecipue ament et quorum virtus est prospectior, iis gravissima et periculosissima quaeque demandent. Atque hanc quidem ipsam, non quae praedam quaeritaret, maxime illustrem militiam esse. Et vero ignavi esse, imbecilli, desidis odisse labores, fugitare molestias velleque in ocio ac sub umbra marcescere. Sed cum Antonio optime iam actum fuerit; ad te, hospes, potius revertar. Haec, inquam, illa est Porticus in qua sedere solebat ille senum omnium festivissimus. Conveniebant autem docti viri nobilesque item homines sane multi. Ipse, quod in proximo habitaret, primus hic conspici, interim dum Senatus, ut ipse usurpabat, cogeretur, aut iocans cum praetereuntibus aut secum aliquid succinens, quo animum oblectaret; ut nuper, paucos antequam morbo aggravaretur dies, recitare eum memini, cum ego adessem una et Herricus iste Pudericus, quem hic vides. Est autem carmen, quo uti oppidatim dicebat Apulos, ad sanandum rabidae canis morsum; insomnes enim novies sabbato lustrare oppidum, Vithum nescio quem e divorum numero implorantes; idque tribus sabbatis noctu cum peregissent, tolli rabiem omnem venenumque extingui. Quod carmen quia memoria teneo, referam illud, si placet.

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ANTONIO, I

difficoltà? Dalle sue parole emergevano con incredibile forza il disprezzo delle cose umane e la sopportazione serena dei casi della fortuna,7 poiché tutto egli riferiva a Dio, e diceva che a noi sono celate le cause dei beni e dei mali; che poi ci sembrano mali la maggior parte dei casi che non lo sono, e Dio ce li manda per far meglio risaltare la costanza e la fortezza umane. Infatti, quanti ce ne sarebbero di uomini forti, se la nostra vita fosse tutta serena e sicura? Gli uomini sono nati per conseguire la virtù, per perfezionare l’animo, e nessuno, senza moltissime pene, può raggiungere questo traguardo,8 ma noi ci inganniamo seguendo le false opinioni, e ci comportiamo con noi stessi con troppa indulgenza e leggerezza: le acque correnti sono più salubri e gradevoli, quelle che ristagnano sono nocive e pestilenti. Non v’è alcun agricoltore forte, cui non si siano incallite le mani: e nessun medico bravo, che non abbia lungamente praticato la cura di moltissime e gravissime malattie. Il merito dei soldati sta nell’abitudine che hanno di sopportar le fatiche e di superare i pericoli: nessuno, infine, eccelle nell’arte, senza che l’assiduo lavoro e il lungo esercizio lo abbiano reso esperto. Agli uomini migliori e più forti Iddio concede noie e travagli, quasi come una materia su cui esercitarsi e superare gli altri, ché gli stessi generali affidano le imprese più importanti e pericolose a quelli che più amano, e il cui valore è più in vista. Sì, è questa la milizia più illustre, non quella che cerca il bottino. E invero è proprio dell’ignavo, del debole, del pigro detestare la fatica, evitare le noie e lasciarsi marcire nell’ozio e nell’ombra. Ma di Antonio si è già parlato come meglio non si poteva; ritornerò piuttosto a te, forestiero. Questa, ripeto, è quell’Accademia in cui egli, il più allegro fra tutti gli anziani, soleva intrattenersi. Vi convenivano, poi, ed erano molti, letterati e nobili. Egli, abitando vicino, era il primo a farsi vedere qui, frattanto che il senato, così lo chiamava, si riuniva, e scherzava con i passanti, o canticchiava fra sé, per rinfrancarsi, come, non molto tempo fa, pochi giorni prima che la sua malattia si aggravasse, ricordo di averlo udito recitare qualcosa, presenti io ed Enrico Poderico, quello che sta qui. Si tratta di uno scongiuro che, diceva, recitavano i Pugliesi percorrendo le loro città, al fine di sanare il morso della cagna rabbiosa: senza dormire, infatti, percorrevano nel giorno di sabato nove volte la città, implorando non so quale san Vito; e, dopo aver fatto ciò per tre sabati di notte, la rabbia se ne andava tutta e il veleno si estingueva. E poiché so a memoria quello scongiuro, te lo ridirò, se vuoi. 133

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ANTONIUS, I

2. HOSPES. Atqui pergratum feceris. COMPATER. Alme Vithe pellicane, Oram qui tenes Apulam Litusque polignanicum, Qui morsus rabidos levas Irasque canum mitigas, Tu, sancte, rabiem asperam Rictusque canis luridos, Tu saevam prohibe luem. I procul hinc, rabies, procul hinc furor omnis abesto. HOSPES. Sane luculentum carmen et perquam facilem Apulis ipsis deum! COMPATER. Felicissimos omnium eos mortalium dictitare solebat Antonius. HOSPES. Qui regionem incolerent tam intemperatam? COMPATER. Etenim coeteros quidem homines, cum nulli non stulti essent, vix stultitiae suae ullam satis honestam afferre causam posse, Apulos vero solos paratissimam habere insaniae excusandae rationem: araneum illum scilicet, quam tarantulam nominant, e cuius ammorsu insaniant homines; idque esse quam felicissimum, quod, ubi quis vellet, insaniae quem suae fructum cuperet, etiam honeste caperet. Esse autem multiplicis veneni araneos atque in iis etiam qui ad libidinem commoverent, eosque concubitarios vocari; ab hoc araneo ammorderi quam saepissime solere mulieres licereque tum illas fasque esse libere atque impune viros petere, quod id venenum alia extingui ratione nequeat, ut quod aliis flagitium mulieribus, id Apulis remedium esset. An non summa haec tibi quaedam felicitas videatur? HOSPES. Per Priapum, summa! COMPATER. Parce, hospes, oscenis, obsecro. HOSPES. Atqui putabam mihi in osca regione uti oscenis licere, cum populariter audiam iurari per deorum ventres perque iecinora atque per eam partem cuius ipsos etiam Cynicos perpuderet. 3. COMPATER. An ignoras pessimum morum auctorem populum esse? quid enim habet quod maximo etiam iure non improbes? atque hanc

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ANTONIO, I

2. FORESTIERO. Anzi mi farai un grandissimo piacere. COMPATRE. O san Vito pellicano9 della Puglia protettore e della riva di Polignano, che dei morsi riduci il furore e la rabbia canina blandisci, santo, tu i furori insani, le luride fauci dei cani la peste crudele impedisci. Rabbia di qui va via – ogni furor di qui lontan si stia. FORESTIERO. È davvero bello, e la divinità è molto indulgente verso i Pugliesi. COMPATRE. Antonio andava dicendo che essi fossero i più fortunati del mondo. FORESTIERO. Loro, abitando una regione con un clima così poco mite?10 COMPATRE. Sì,11 perché gli altri uomini, pur non essendocene alcuno che non sia stolto,12 non possono addurre una ragione abbastanza decorosa per giustificare la loro stoltezza; mentre soltanto i Pugliesi hanno a portata di mano un motivo per giustificarla: quel ragno chiamato tarantola,13 per il cui morso gli uomini diventano folli; grandissima fortuna, questa, giacché uno, volendolo,14 potrebbe raggiungere anche senza alcun divieto il frutto agognato della propria follia. Vi sono, infatti, vari ragni velenosi, e alcuni anche capaci di eccitare la libidine, che si chiamano «concubinari».15 Da questo ragno molto spesso avviene che siano morsicate le donne; ed allora, non essendo possibile estinguere quel veleno in altro modo, è consentito loro unirsi, liberamente e impunemente, ai maschi, di modo che, ciò che per le altre sarebbe una disonestà, per le donne pugliesi costituisce un rimedio. Non ti parrebbe immensa questa fortuna? FORESTIERO. Minchia,16 immensa davvero! COMPATRE. Ti prego, forestiero, risparmiaci le oscenità. forestiero. Eppure credevo che nella regione degli Osci fosse lecito dire oscenità,17 poiché sento il popolo giurare sul ventre, sul fegato degli dei, e su quell’organo che farebbe provar vergogna anche ai cinici.18 3. COMPATRE. Non sai che il popolo è il peggior creatore di usanze? Quale usanza ha, infatti, che non si possa biasimare con assoluta ragione? 135

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ANTONIUS, II

quidem iurandi impuritatem mare attulit, utinamque hoc solum a Catalanis didicisset noster populus! Sicam ab iis accepimus, nec est quod Neapoli quam hominis vita minoris vendatur; quod nisi vester Blancas, Esculapius alter, curator accessisset, maiorem civium partem excisis auribus, labiis, aut naso mutilo videres. Scortari quoque sine pudore didicimus atque in propatulo habere pudicitiam. Iuventus nostra lustris dedita, quod locandis noctibus a meretricula quaeritur, ipsa die ligurit; ideoque innocentissimus olim populus, dum a Catalonia reliquaque Ispania comportandis gaudet mercibus, dum gentis eius mores ammiratur ac probat, factus est inquinatissimus. Sed, quando accusari haec possunt magis quam corrigi nec satis est tutum, dicere de populi moribus desinamus. Quod autem ad iusiurandum attinet, Scythas maxime laudare solebat Antonius, quibus non per deorum capita aut corda, ut his ipsis Ispanis, non per corpora, ut nostris, sed per convictum iurare mos esset; at Poenos maxime irridere, qui per triplex iurarent uxoris repudium, quippe quam ubi ter quis repudiasset, revocare amplius in domum fas non esset. Sed qui praeterit percunctandus est, ut Antonium iam agamus.

II COMPATER NEAPOLITANUS, PEREGRINUS, HOSPES SICULUS COLLOCUTORES. 4. COMPATER. Heus, viator. PEREGRINUS. Sessores, salvete. COMPATER. Tu, ut video, de sole aestuas. PEREGRINUS. At vos, ut sentio, de umbra frigetis. COMPATER. Hic homo sitit, ni fallor. PEREGRINUS. Hi madescunt, quod satis scio. COMPATER. Heus, hospes, dic, quaeso. PEREGRINUS. Heus, cives, tacete, obsecro. COMPATER. At nos scire ex te quaedam volumus. PEREGRINUS. At ego sciscitari pauca. COMPATER. Sciscitator; vacat, atque etiam, si placet, sedeto.

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ANTONIO, II

Anche questa sconcezza di fare giuramenti è stata importata dal mare; e magari soltanto questo il nostro popolo avesse imparato dai Catalani! Da costoro abbiamo importato il pugnale, e non v’è cosa, a Napoli, che costi meno della vita di un uomo. Che se non fosse venuto come medico il vostro Blanca, Esculapio secondo,19 vedresti la maggior parte dei cittadini con le orecchie o le labbra sfregiate, o col naso mozzo. Abbiamo appreso anche a frequentar le sgualdrine, senza ritegno, e a tenere scoperte in pubblico le vergogne. La nostra gioventù dedita ai bordelli assapora perfino di giorno quel che si chiede a una sgualdrina per trascorrere una notte a pagamento. E così un popolo, che un tempo aveva specchiati costumi, contento d’importar merci dalla Catalogna e dal resto della Spagna,20 a forza di ammirare ed accettare gli usi di quella gente, è diventato corrottissimo.21 Ma poiché queste usanze possono biasimarsi piuttosto che correggersi, ed è un po’ rischioso, finiamola di parlare dei costumi del popolo. Quanto al giuramento, poi, Antonio soleva lodare moltissimo gli Sciti, perché era loro costume giurare non sul capo o sul cuore degli dei, come questi spagnoli, non sul corpo, come i nostri, ma sulla comunione di vita.22 Viceversa, derideva moltissimo i Cartaginesi che giuravano sul ripudio della moglie fatto per tre volte, non essendo più lecito riaccogliere in casa colei che era stata ripudiata tre volte.23 Ma, per far come faceva Antonio, bisogna interrogare quel passante.

II COMPATRE NAPOLETANO, VIANDANTE, FORESTIERO SICILIANO. 4. COMPATRE. Ehi! Tu che vai girando! VIANDANTE. Buon giorno a voi, che ve ne state seduti.24 COMPATRE. Tu, a quanto mi pare, bruci dal sole. VIANDANTE. E voi, come penso, state freschi all’ombra.25 COMPATRE. Quest’uomo, se non mi sbaglio, ha bisogno di bere. VIANDANTE. Costoro hanno bevuto assai,26 lo so con certezza. COMPATRE. Ehi, forestiero, di’ qualcosa, per favore. VIANDANTE. Ehi, cittadini, state zitti, vi scongiuro. COMPATRE. Ma noi vogliamo da te qualche informazione. VIANDANTE. Ed io farvi poche domande. COMPATRE. Domanda pure, siamo liberi; e siedi anche, se vuoi. 137

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PEREGRINUS. Ad Regem propero; ad regiam utra ducit via? COMPATER. Utraque; sed quaenam salutandi Regis causa? hoc enim ipsum scire cupimus, itaque vicem redde. PEREGRINUS. Nimis quam timeo nostrae reipublicae, ne paucis post annis occisione occidant populi. COMPATER. Ab gladione, an a pestilentia, an a diluvione timendum est nobis? Equidem et te siderum progressiones observasse reor, quando astrologorum est has clades praedicere. PEREGRINUS. Certiora affero: maxima in singulis non modo oppidis, sed pene domibus vis est gallorum septennium; eos satis compertum est anno septimo parere enascique basiliscos serpentes, quorum obtutu homines infecti pereant. Quod nisi a rege probe prospectum fuerit, actum est de regni neapolitani populis; opus autem esse ut singulis in oppidis singuli deligantur cauti et solertes viri, qui haec mala gallorum caede procurent videantque ne quid respublica detrimenti capiat. Ego hac de causa atque ut reipublicae prosim meae, ad Regem eo, vos valete. 5. COMPATER. Abi, bone civis deque patria benemerite. Dii boni, quam multiplex est hominum stultitia! quam inanes cogitationes! quid vanitatis in vita! quanta inanissimarum etiam rerum solicitudo! An est, hospes, quod irridere hoc homine magis possis? si ridenda quam miseranda potius stultitia est nostra. HOSPES. Quid, obsecro, ad haec Antonius? COMPATER. Fabellam hic aliquam subtexuisset, qua declarare amplius posset hominum levitatem. Calletiam olim mulierculam victum quaeritasse Caietae; hanc coetera vitae munera obiisse satis laboriose atque industrie; cum autem Alfonsus rex Caietae diversaretur aliquando, videretque Calletia tum viros tum matronas, omnes denique id agere, quo maxime modo regem honorificentissime exciperet, eam, pannis supra pudenda convolutis, proficiscentem ad rem divinam regem et praecedere in pompa nudato femore et recedentem in regiam eodem habitu reducere solitam, nullisque abduci potuisse rationibus, quin hoc honoris

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VIANDANTE. Io vado di fretta dal re; qual è la via della reggia fra queste due? COMPATRE. Tutte e due. Ma qual motivo hai per andar a salutare il re? proprio questo vogliamo sapere; ti chiedo, dunque, di contraccambiare il favore.27 VIANDANTE. Ho grande timore che la gente di questo Stato, fra pochi anni, sia massacrata da un massacro.28 COMPATRE. Dobbiamo guardarci dalle armi, dalla pestilenza o dal diluvio? certamente anche tu hai – così penso – osservato il cammino delle stelle; giacché sono gli astrologi a predire disastri del genere. VIANDANTE. Ora v’informo. Non solo in ogni città, ma quasi in tutte le case, v’è una gran quantità di galli di sette anni:29 è ben noto che essi, nel settimo anno, partoriscono, nascono serpenti basilischi, e gli uomini periscono intossicati dal loro sguardo. Che se il re non starà attento, per le popolazioni del regno di Napoli è la fine;30 è necessario che in ogni città si scelgano uomini accorti e solerti che provvedano a questi mali uccidendo i galli, e vedano di non far soffrire danni alla collettività. Io vado a trovare il re per questo motivo, e per essere utile al mio paese. Vi saluto. 5. COMPATRE. Va, caro cittadino, la patria ti benedica per i tuoi meriti. Mio Dio! Com’è varia la stoltezza degli uomini! Che pensieri vacui, e quanta vanità nella vita! Quanta ansia anche per le cose più insignificanti! C’è al mondo, forestiero, un oggetto maggiore di derisione che non sia un uomo come questo? se la nostra stoltezza non andasse piuttosto commiserata che derisa. FORESTIERO. E Antonio, dimmi per cortesia, come avrebbe reagito di fronte a cose di questo genere? COMPATRE. Avrebbe introdotto una storiella, per meglio manifestare la fatuità umana: c’era una volta a Gaeta una donnetta, Callezia, che per mangiare chiedeva l’elemosina; veniva poi incontro alle altre necessità della vita dandosi da fare con fatica e intraprendenza; soggiornando il re Alfonso, di quando in quando, in quella città, e vedendo Callezia che sia i signori che le signore, tutti insomma, gli facevano onore, in modo da ricevere il re con il massimo onore possibile,31 lei camminava abitualmente avanti al re, quando si recava ai riti sacri, in gran pompa con le cosce di fuori e le vesti ravvolte fin sopra le parti intime, e lo riaccompagnava poi alla reggia alla stessa maniera, quando ritornava, e non poté esser distolta per nessuna ragione dal rendere questa specie di onore (così lo 139

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genere – sic enim dicebat – regem prosequeretur. Quocirca explicandis fabellis Antonius vel improbare quippiam solebat vel laudare. HOSPES. Bellissimum hominem! Sed praeconem hunc audiamus, qui tantam sibi facit in populo audientiam: regium videlicet edictum. Nunquam vidi turgidiores buccas: puto ego hominem fermento vesci. Quos clamores, dii boni! 6. PRAECO. Licere fasque esse Iovianum Pontanum, qui habitat in proximo, tuto egredi domo, habuisse tuto per urbem incedere, tuto etiam de rebus latinis latinum hominem disserere; istos vero graecissantis homines atque Italograecos nihil ei maledicere, nihil incessere; non oculis, non barba, non superciliis, non denique ulla graeca arte illudere. Hoc regem ipsum edicere. Si quis secus fecerit, barbam ei evellere impune licere, pilleum auferre, crepidulas eripere. Quod edictum sanctum esse omnes sciunto idque tuba hac testor. HOSPES. Quid, obsecro, Ioviano huic Graeci ne tam sunt infesti? COMPATER. Quin ipse Graecorum est studiosissimus eorumque veneratur disciplinas ac suspicit ingenia, nec est quod Graecos timeat. Esse autem nostratis quosdam adolescentes eosque nuper e Graecia rediisse, qui cum nec graece sciant nec latine, esse tamen gloriosissimos; quibus si barbam pilleolumque ademeris, nihil omnino graecum habeant. Eos, ait, et graecae et latinae orationis inculcatores esse; ubi cum Graecis fuerint, mussitare, cum Latinis autem mirum esse quam graece omnia; hinc illos irasci et pene furere, horum timeri audaciam cervicesque insolentissimas. HOSPES. Quid? ipse didicit ne graecas litteras? COMPATER. Eas adolescens attigit, sed in Italia; nam in Graecia magis nunc turcaicum discas quam Graecum; quicquid enim doctorum habent graecae disciplinae in Italia nobiscum victitat. 7. HOSPES. Satis haec novi; sed observemus pilleatulum hunc. COMPATER. Recte mones. HOSPES. Quidnam is succinit? at vide quam sibi placet, atque utinam praeteriens salutaret!

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ANTONIO, II

chiamava) al sovrano. In tal modo Antonio, raccontando storielle, era solito far vedere quel che andava o non andava bene. FORESTIERO. Persona davvero deliziosa! Ma ascoltiamo questo banditore che attira tanta gente: un editto del re, evidentemente. Non ho mai visto guance più gonfie: credo che quest’uomo si cibi di lievito. Dio santo, che chiasso! 6. BANDITORE. Si dà il permesso a Giovanni Gioviano Pontano, che abita in questi paraggi, di essere al sicuro quando esce di casa, camminare al sicuro per la città, discutere con la stessa sicurezza, essendo latino, di argomenti che riguardano la latinità, ed è proibito assolutamente a quelli che scimmiottano i greci32 o sono italo-greci parlar male di lui, provocarlo sia con gli occhi, sia con la barba, sia con le sopracciglia e, infine, prenderlo in giro con qualsiasi arte greca. È il re in persona che lo comanda. Se qualcuno farà diversamente, gli si può strappare la barba senza rischiare alcuna pena, togliergli il cappello, sottrargli le pianelle. Questo editto, devono tutti sapere che È stato ratificato, ed io con questo suono di tromba lo attesto. FORESTIERO. Come? Di grazia, non è possibile che i Greci siano così ostili verso questo Gioviano! COMPATRE. Anzi lui, ai Greci, è affezionato moltissimo, ne venera le scienze, e ne ammira l’indole, e nemmeno li teme; ma ci sono alcuni giovincelli del nostro paese,33 poc’anzi ritornati dalla Grecia, i quali, pur nulla sapendo di greco e di latino, sono assai presuntuosi; che se togli loro la barba o il berrettino, di greco non resta più nulla. Costoro, come dice lui, calpestano la parlata greca e latina; quando stanno con i Greci, farfugliano appena; con i Latini, invece, è sorprendente come non parlino che in greco: di qui deriva che si adirano e vanno quasi su tutte le furie, motivo per cui se ne teme l’audacia e l’insolenza. FORESTIERO. Come? Lui ha imparato il greco? COMPATRE. L’ha studiato un poco, da ragazzo, ma in Italia, giacché ora, in Grecia, impareresti piuttosto il turco che non il greco. Difatti, tutti quanti i maestri di greco abitano da noi, in Italia. 7. FORESTIERO. Questo lo so bene. Ma vediamo che dice costui col berrettino in testa. COMPATRE. Buono il tuo consiglio. FORESTIERO. Che cosa mai va recitando? Vedi un po’ come si compiace con se stesso, e magari passando salutasse! 141

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ANTONIUS, III

PEREGRINUS. “ἄριστον μὲν ὕδωρ”. HOSPES. Quid sibi haec volunt verba? COMPATER. Rem optimam ait esse aquam. HOSPES. An hic nos accusat ut parum sobrios? ego tam insignem iniuriam non feram. COMPATER. Parce, hospes, pindarica est sententia, etiam ab Aristotele laudata. PEREGRINUS. “ὁ δὲ χρυσὸς αἰθόμενον πῦρ ἅτε διαπρέπει νυκτὶ μεγάνορος ἔξοχα πλούτου”. HOSPES. An pergit maledicere? COMPATER. Desine commoveri, aurum laudat. HOSPES. Heus, tu, graecanice homo, quid malam in rem non te hinc proripis? Iudaeis aurum et foeneratoribus laudato. COMPATER. Iram ponito, abiit. Hos ventris crepitibus similes dicebat Antonius, nares tantum offendere, coetera ventum esse, siquidem ventosos esse ac putidos. Sed quando suffarcinatulus iste iam abiit, nos ab antoniana consuetudine aut quaerendi aliquid aut dicendi ne recedamus. Et iam dudum video Herricum hunc dicere aliquid velle; quamobrem dicentem audiamus.

III HERRICUS PUDERICUS, ADOLESCENS, SENEX, HOSPES. 8. HERRICUS. Ammonuere me qui nuper praeteriere adolescentuli neapolitanae nobilitatis, quae prope iam interiit. Etenim cum considero iuventutem nostram praeter maiorum instituta domi ac sub porticibus desidere, eos vero qui rempublicam amministrent publicorum oblitos morum nihil nisi suas tantum res agere atque in privatum consulere, non possum non deplorare nostrae nobilitatis interitum. Dii boni, Ladislao rege quae nostrorum civium domi forisque erat industria! quam honesta de omni virtute contentio! Certamen erat, domi ne senes aequitate atque consilio an foris iuventus fortitudine ac fide maiore rempublicam gererent. Itaque videres seniores praesidere provintiis, moderari populos,

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ANTONIO, III

VIANDANTE. «ἄριστον μὲν ὕδωρ».34 FORESTIERO. Che vogliono dire queste parole? COMPATRE. Dice che l’acqua È la miglior cosa. FORESTIERO. Ci accusa forse di esser poco sobri? un’offesa così palese non la sopporterò. COMPATRE. Scusa, forestiero, SI TRATTA DI una massima di Pindaro, lodata anche da Aristotele.35 VIANDANTE. «ὁ δὲ χρυσὸς αἰθόμενον πῦρ ἅτε διαπρέπει νυκτὶ μεγάνορος ἔξοχα πλούτου».36 FORESTIERO. Sta, per caso, continuando con le sue ingiurie? COMPATRE. Non ti agitare, fa le lodi dell’oro. FORESTIERO. Ehi, tu che fai il greco,37 perché non te ne vai subito di qui, alla malora? Se devi lodare l’oro, fallo con i Giudei e con gli usurai. COMPATRE. Non ti agitare più, se n’è andato. Antonio diceva che costoro somigliano ai rumori del ventre; urtano solo le narici, per il resto son come il vento, perché son vani e puzzolenti. Ma dal momento che quest’uomo costipato38 è sparito, non ci allontaniamo dalla consuetudine di Antonio, di far domande e di trattare qualche argomento. Ed è già un po’ che vedo Errico qui presente, che vuol dire qualcosa. E perciò ascoltiamo quel che ha da dirci.

III ERRICO PODERICO,39 UN GIOVANE, UN VECCHIO, IL FORESTIERO. 8. ERRICO. Questi giovanotti che or ora son passati40 hanno fatto venire in mente la nobiltà napoletana, ch’è già quasi tutta estinta. Quando considero, infatti, che la nostra gioventù se ne sta, trascurando l’usanza dei nostri antenati, senza far nulla a casa e sotto i portici, che i governanti, dimentichi dei doveri politici, non si occupano di altro se non dei propri interessi, e tengono la mente rivolta solo al privato, non posso non deplorare la rovina della nostra nobiltà. Mio Dio! Com’erano attivi i nostri compaesani, in patria e fuori, al tempo di re Ladislao!41 che dignitosa contesa nel campo di ogni virtù! Si faceva a gara per chi governasse meglio lo Stato, i più vecchi, all’interno, con l’equità e con il consiglio, o la gioventù fuori con il coraggio e la lealtà. Avresti visto, pertanto, i più vecchi a capo delle province e al governo delle popolazioni, i giovani nei 143

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ANTONIUS, III

iuvenes in maximis rebus ac periculis regi adesse, certare qui fortiorem navare posset operam; adolescentulos mirum immodum a primis annis meditari patrium decus equitando, iaculando, semper aliquid agendo, quo ipsorum apparere posset industria. Nunc placet ocium atque mollities: sequimur scorta, desidemus in ganeis, alea in manibus est atque fritillus, turpissima quaeque habentur in pretio. Contentio est cuius uxor, soror, filia, pluris veneat nullumque inter ignavos fortisque discrimen, nisi quod fortitudo odio est atque contemptui; ignavissimus quisque maxime carus acceptusque multitudini; iura, pietas, decus, demum omnia venalia. Sed me ipsum compescam revertarque ad Antonium atque hunc qui praeterit potius adolescentem percunctabor. Amabo, unde tantum hilaritudinis tecum affers, bone adolescens? ADOLESCENS. Meo ab antistite. 9. HERRICUS. Obsecro, nisi praeproperas, hilaritudinis tantae nobis rationem explica. ADOLESCENS. Laborabat ex intestini plenioris morbo meus antistes, de cuius salute medici cum desperassent, unus Panuntius, archiater, solam hanc salutis relictam spem docuit, si disploso intestino animam inclusam expederet. Eum igitur, cum diem totum deos orans contrivisset nec aliquid exploderet, reversus Panuntius monuit uti, corporis salute desperata, pro animae salute deos fatigaret. Tum ille in deos deasque conversus, integram fere noctem in gemitu lamentationibusque exegit, dum peccatorum condonationem ac vitae coelestis tranquillitatem coelites ipsos orat. Aderat familiaris ingenio non adeo superstitioso, qui antistitis questus precesque non satis aequo ferens animo: «Ecquae nam tandem – inquit – pater, dementia ista est, putare deos coeli tibi particulam donaturos, qui ne levissimi quidem pediti liberales esse voluerint?» Hac urbanitate captus antistes, cum in risum solveretur, intestinum exolvit, quo de risu in crepitum exoluto, statim morbo liberatus est. Haec laetitiae meae causa, haec voluptas est, qui herum salvum factum tantopere gaudeam. Is igitur

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momenti più importanti e nei pericoli al fianco del re gareggiare a chi fosse capace di compiere l’impresa più coraggiosa. I giovinetti, sin dai primi anni, pensavano in modo da non dirsi alla grandezza della patria, cavalcando, scagliando dardi, facendo sempre qualche azione che potesse far risaltare la loro operosità. Ora vanno di moda ozio e mollezza: andiamo dietro alle sgualdrine, poltriamo nelle bettole, si gioca d’azzardo e si maneggiano i dadi, e qualunque cosa, basta che sia turpe, vien tenuta in gran conto. Lo sforzo che si fa è quello di sapere la moglie di chi, la figlia, la sorella di chi si possa vendere a maggior prezzo; e non c’è alcuna differenza fra ignavi e coraggiosi, se non che il coraggio è oggetto di odio e dispregio, e il più ignavo è il più gradito ed accetto alla massa. Il diritto, la pietà, il decoro, tutto, insomma, ha un prezzo. Ma voglio contenermi e tornare a parlare di Antonio; interrogherò piuttosto questo giovanotto che sta passando. Ti prego, bel giovanotto, da che proviene mai che vai ridendo da solo? GIOVANE. Dal mio parroco. 9. ERRICO. Ti prego, se non vai tanto in fretta, facci sapere il motivo di tante risate. GIOVANE. Il mio parroco aveva l’intestino gonfio,42 e spasimava; ma mentre i medici avevano perduta ogni speranza di guarigione, solo Panunzio, il protomedico, era dell’opinione che fosse rimasta una sola speranza di salvezza, quella di riuscire ad espellere,43 con un’esplosione dell’intestino, l’aria che vi stava racchiusa. Intanto, avendo lui consumato tutto il giorno a pregare il cielo senza che alcun rumore venisse fuori, Panunzio, tornando, gli diede il consiglio di pregar senza sosta il cielo per la salute dell’anima, deponendo ogni speranza per quella del corpo. Allora lui, rivolgendosi a tutti i santi e a tutte le sante, ha trascorso la notte, quasi completamente, in gemiti e lamenti, a pregare il cielo di concedergli il perdono dei peccati e la pace della vita celeste. Era presente un amico intimo un po’ miscredente, il quale, non sopportando i lamenti e le preghiere del prete: «Insomma – disse – che demenza è questa qui,44 o padre, di credere che i santi siano disposti a regalarti una particella di cielo, quando non hanno voluto esser generosi neppure d’un lievissimo peto?» Il parroco, colpito da questa spiritosaggine, scoppiando in una risata, sciolse l’intestino, e con questa risata risolta in un rumore si liberò subito dal guaio. Ecco la causa della mia allegria, questo è il mio divertimento: gioisco che il mio padrone sia sano e salvo. Lui, intanto, dopo 145

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post aliquot dies confirmatis ac refectis viribus, cum ludere quantillum cupiat, Frontonillam arcessit, quam intellexit non multos ante dies facere quaestum coepisse; me, qui scortillum nossem, rogatum mittit, uti cum laverit leveritque, ad coenam eat. Dixi quae cupiebatis; abeo, vos valete. 10. HERRICUS. O secula, o mores! fuit, fuit olim in sacerdotibus christianis continentia et castitas, dum innocentia in honore, dum paupertas in precio fuit. Nunc, proh pudor! quae non sentina mundior sacerdotio est? Ecce autem qui levare dolorem hunc queas; senex praeterit, octogenarius, cantitans, amore insaniens; e media scilicet Valentia delatum hoc est. Audiamus si placet. SENEX. Ne rugas, Mariana, meas neu despice canos. De sene nam iuvenem, dia, referre potes. HERRICUS. Bellissimum senem! Videtis quam blande salutat fenestellas? quam larga etiam manu rosam spargit? quid hoc sene delirius? SENEX. Digna Iovis thalamis, o et Iove digna marito, Quid mirum si me, candida nympha, fugis? HERRICUS. Etiam lacrimatur. SENEX. Delitiae, Mariana, meae, si diggeris annos, Iuppiter hac fiet iam ratione senex. HERRICUS. Lepidissimam argumentationem! SENEX. Et cani flores, orientia sidera cana; Canaque quae torquet spicula blandus amor. HERRICUS. Canitiem sane iuvenilem! sed compellemus hominem. Amatissime adolescens, per eum quem colis amorem perque viridem atque florentem aetatem tuam eamque quam deperis virginem rogatus et nos de amoribus solicitos nostris adi atque alloquere. Equidem vel ex te uno iudicari plane potest, recte sensisse illos qui Venerem elegantiarum deam fecere; quid enim te, qui in Veneris contubernio vivis, elegantius? Age, amabo, quam tibi cum amoribus tuis blande? quam e sententia? 11. SENEX. Suavissime, quippe cum decreverim, quaecunque in amore hoc mihi accidant, iucundam in partem accipere; irascitur, aversatur, contemnit, fugit, ad voluptatem refero, gravissimeque obiurgandos cen-

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pochi giorni, riacquistate bene le forze, volendo distrarsi un pochino,45 si fa venire Frontonilla, che, come aveva appreso, da non molti giorni aveva iniziato a fare il mestiere; ha mandato proprio me, perché la conoscevo, a pregarla di andare, dopo di essersi lavata e strigliata.46 Ho detto quel che desideravate: statevi bene, io me ne vado. 10. ERRICO. Che tempi, che costumi! Vi furono, vi furono un tempo nei sacerdoti cristiani continenza e castità, finché l’innocenza è stata tenuta in onore e la povertà apprezzata. Ora (vergogna!) quale sentina non è più pulita del sacerdozio? Ma ecco, tu sei uno di quelli che potrebbero consolare la nostra amarezza; passa un vecchio ottuagenario che va canticchiando, folleggiando per amore. Questa usanza, ovviamente, proviene certo dal cuore della Valenza.47 Ascoltiamolo, se vi fa piacere. VECCHIO. Non sprezzar le mie rughe, Marianna, né i bianchi capelli, perché tu puoi, divina, ringiovanire un vecchio.48 ERRICO. Che vecchio simpatico! Vedete con quanta grazia saluta le finestrelle; come sparge a larga mano fiori di rosa! C’è follia maggiore che quella di un vecchio simile? VECCHIO. O del talamo degna di Giove, e di maritarsi con lui, che c’è di strano se sfuggi, candida ninfa, a me?49 ERRICO. Si lamenta fino alle lacrime. VECCHIO. Marianna, mia delizia, se gli anni ti metti a contare, perfino Giove, anche lui, vecchio sarà per te. ERRICO. Spiritosissima l’argomentazione! VECCHIO. Anche i fiori son bianchi, son bianche le stelle che spuntano, e bianche le saette che amor suadente lancia. ERRICO. È davvero piena di giovinezza la sua canizie! Ma rivolgiamoci a lui, direttamente. Amabilissimo giovincello, in nome di quell’amore che adori, della tua verde e fiorente età, della ragazza che ami perdutamente, dacci retta, vieni anche da noi che ci angustiamo dei nostri amori, parla con noi. Certo, a considerare solo il tuo caso appar chiaro che fu buona l’idea di far Venere dea dell’eleganza. Quale eleganza maggiore, infatti, della tua? tu coabiti con Venere. Ma di’, per cortesia, come te la passi con i tuoi amori? piacevolmente, come piace a te? 11. VECCHIO. Magnificamente, avendo deciso di prendere dal verso buono tutto quel che mi capita in questo rapporto d’amore. Lei si adira, volge le spalle, mostra disprezzo, se ne va? È per me una gioia. E son del parere che vadano rimproverati severamente quelli che accusano il 147

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seo qui regnum amoris accusant, bellissimi pueri, laenissimi heri, indulgentissimi dei. Hic munditias, nitorem, ornatum, leporem, comptum, ludos, iocum, carmen, elegantiam, delitias, omnem denique vitae suavitatem invenit; me, qui senex sum, aetatis huius molestiarum oblitum, non tantum non invitum, sed volentem quoque ad suavissima quaeque secum trahit. Sequor convivia, cantus, hymeneos, choreas, pompas, festos dies, theatra. Sed iam asserenascit: illam ego ad fenestram video, quae me immortalium vitam agere inter mortales facit. O fulgentissimum iubar ac rerum specimen! HERRICUS. O inane et lubricum caput! Ne autem delirantem hunc senem, hospes, mirere, civitas nostra tota delirium est, utinamque non tam vere urbem hanc solam liberam esse usurpasset Antonius, in qua una cuique quod libitum esset liceret! Sed comprimenda est oratio: Euphorbia transit. Assurgamus mulieri atque offam hanc Cerbero obiiciamus. Et iam praeteriit, abiit; bene habet, salva sunt omnia. Memor es, hospes, beluae illius quam dux Poenorum Annibal vidit in somnis, silvas, agros, villas, oppida quaque incederet cuncta vastantem? Haec illa est belua, nequaquam tamen ut illa somnium, sed historia et vera quidem belua. Cives quidem coeteri aut horologium aut galli cantum secuti e somno cubilibusque excitantur, at viciniam nostram Euphorbiae clamores ne videre quidem somnum noctibus patiuntur, quasi dies agere quietos valeamus. Clamat, inclamat, frendit, dentitonat, hinnifremit, rixatur, furit; veru, pelves, patinas iaculatur, titionatur, candelabratur: novis enim vocibus novus belluae huius furor exprimendus est, atque utinam exprimi plane posset! ancillas alias delumbat fustibus, alias mutilat gladio, has unguibus excaecat, illas pugnis exossat; quid multis opus est? pestis quidem ipsa Euphorbia pestilentior non est. Ferunt Germanos olim praedicare solitos se a Dite patre ortos, ego vel deierare ausim tris illas furias, herebum quoque ipsum Euphorbia prognatos esse. 12. HOSPES. Dii, talem pestem avertite! Quid, obsecro, de hac Antonius?

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regno dell’amore, di questo fanciullo graziosissimo, di questo signore dolcissimo, dio pieno d’indulgenza: fu lui a scoprire la leggiadria, lo splendore, l’abbellimento, la grazia, l’acconciatura, i divertimenti, il gioco, la poesia, l’eleganza, la gioia, infine ogni cosa soave della vita; quanto a me poi, che son vecchio, dimentico delle noie della mia età, è lui che mi trascina con sé non solo non contro mia voglia, ma per mia spontanea volontà, ai più soavi diletti. Frequento i conviti, i canti, i matrimoni, i balli, le processioni, le feste, i teatri. Ma già l’aria si rasserena:50 vedo alla finestra colei che, tra i mortali, mi fa vivere da immortale. O fulgidissimo raggio ed esemplare creatura! ERRICO. O zucca vuota e fallace! Ma non ti meravigliare, forestiero, del delirio di questo vecchio: la nostra città è tutta un delirio; e magari non fosse così vero quel che Antonio soleva ripetere, che è libera solo quella città, nella quale a ciascuno fosse consentito di fare ciò che gli piace. Ma è ora di stringere questo discorso. Passa Euforbia. Leviamoci in piedi, e gettiamo un boccone a questo Cerbero. È già passata, è andata via; va bene così, siamo salvi. Ti ricordi, forestiero, di quella bestia che devastava le selve, i campi, le ville, le città e tutto quanto, dovunque andasse, sognata da Annibale, condottiero dei Cartaginesi?51 Questa è quella bestia, e non si tratta di un sogno, come in quel caso, ma è storia52 e la bestia è vera. Gli altri cittadini, infatti, seguendo l’orologio o il canto del gallo, si svegliano e si levano dal letto, ma le grida di Euforbia non permettono nemmeno che il vicinato possa appena prender sonno la notte, come se fossimo in grado di passare tranquillamente le ore del giorno. Grida, schiamazza, ringhia, fa rumore con i denti, emette come dei nitriti,53 litiga, infuria: scaglia uno spiedo, scaglia vasi e piatti come dardi, tizzoneggia,54 candelabreggia, poiché lo straordinario furore di questa bestia ha bisogno di essere espresso con vocaboli eccezionali; e magari potesse essere espresso appieno! E le fantesche: ad alcune spezza le reni col bastone, ne sfregia altre con la spada, ne acceca altre con le unghie, ad altre rompe le ossa a forza di pugni.55 Che bisogno c’è di tante parole? La stessa peste non è più pestifera di Euforbia. Dicono che i Germani un tempo ripetevano abitualmente che essi traevano origine dal padre Dite, io oserei persino giurare56 che le tre Furie e lo stesso Erebo sono stati generati da Euforbia. 12. FORESTIERO. Dio, allontana da noi una peste simile. E Antonio, di grazia, che diceva di costei? 149

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HERRICUS. Optime consultum iri romano Pontifici, si Euphorbia haec in summo Alpium iugo constitueretur, cuius vociferationibus momento eodem Germaniae, Galliae, Britanniae ad concilium arcessiri possent: orbis enim terrarum campanam Euphorbiam esse. HOSPES. O salsum atque urbanum hominem! Sed qui nam hi sunt quos composito admodum gradu vultuque adeo gravi concedentes ad nos video? HERRICUS. Iunior ille Elisius Gallutius, suavi vir ingenio, Andreas alter Contrarius, facundus ac praestans rhetor, gravissimi uterque viri nostroque ex ordine, quibus advenientibus de more collegii huius assurgendum est. IV ANDREAS CONTRARIUS, COMPATER, HERRICUS, ELISIUS. 13. ANDREAS. Salutem vobis multam atque opulentam dicunt Elisii Camenae. COMPATER. At nos et Elisium havere et Andream opulenter salvum esse iubemus, neque enim grammaticos adeo veremur, ut opulentiam cum salute coniungere timeamus. ANDREAS. O minime superstitiosum hominem! Sed ut hoc facilius condonetur a nobis tibi, tamen ne in grammaticorum iram incidas etiam atque etiam vide. COMPATER. An oblitus es Antonii catellorum (hoc enim verbo utebatur) eos persimiles dicentis qui de ossibus deque frustillis ac miculis, si quae forte sub mensam decidant, rixentur? Odi ego cimicum genus stomachorque agrestem acerbitatem ac putidas insectationes; sed, amabo, quinam inter vos sermones erant? ANDREAS. Hoc ipsum agebamus, aut potius indignabamur, ab rabiosa eorum garrulitate tuti nihil esse, sive versiculum edideris sive epistolam scripseris; quorum ipsorum scriptis oculum si admoris nihil inertius, nihil inconcinnius, nihil oscitatius videas, quippe cum nihil supra grammaticum habeant. Et tamen operaeprecium est videre, neglecto aut potius abiecto Cicerone, quantam praeseferant dicendi artem atque

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ERRICO. Che il Pontefice Massimo avrebbe fatto bene a riflettere57 se non fosse il caso di porre Euforbia in cima alle Alpi, in modo che, con le sue grida, si potesse, in uno stesso momento, convocare la Gallia, la Germania, la Britannia per il concilio, perché Euforbia faceva da campana per il mondo intero. FORESTIERO. Oh che uomo arguto e spiritoso! Ma chi sono costoro? li vedo venirci incontro con passo così composto e con tanta serietà nel volto. ERRICO. Il più giovane è Elisio Galluccio,58 che ha un carattere amabile, l’altro Andrea Contrario,59 eloquente e squisito oratore, l’uno e l’altro uomini molto austeri e del nostro rango; al loro arrivo, secondo l’uso di questo collegio, ci si deve levare in piedi.

IV ANDREA CONTRARIO, COMPATRE, ERRICO, ELISIO. 13. ANDREA. La poesia di Elisio vi augura vita lunga e opulenta. COMPATRE. E noi salutiamo Elisio,60 e auguriamo ad Andrea di essere sano e opulento, giacché non abbiamo riguardo per i grammatici sino al punto da temere il collegamento di opulenza e salute.61 ANDREA. Che persona priva di falsi riguardi che sei!62 Ma, sebbene questa te la si possa perdonare piuttosto facilmente,63 vedi, tuttavia, di non imbatterti nell’ira dei grammatici. COMPATRE. Ti sei forse dimenticato di quando Antonio diceva che essi assomigliano assai ai cagnetti (usava proprio questa parola),64 i quali si litigano per le ossa e per i pezzettini di cibo e le briciole che, per caso, finiscono sotto la tavola? Io detesto quella razza di cimici, e mi stanno sullo stomaco la rozzezza villana e la noiosa petulanza. Ma, di grazia, di che stavate parlando? ANDREA. Parlavamo appunto, o piuttosto ci indignavamo, di questo, che niente è al sicuro dalle loro chiacchiere acrimoniose, sia che si pubblichi appena un verso, sia che si scriva un’epistola; ma, se metti gli occhi65 sui loro scritti, non ci troverai niente di più fiacco, di più maldestro, di più tedioso,66 perché non hanno nulla, oltre la grammatica. E tuttavia vale la pena di vedere quanta è l’arte e la scienza del dire che essi ostentano, una volta messo da parte o piuttosto scartato via Cicerone. Hanno 151

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scientiam. Invasere rhetorum materiam, quorum etiam agros depopulati quod videant acutiora quaedam, ut ipsi putant, a Quintiliano tradi, in Ciceronem sublatis signis agmineque instructo procedunt; nec intelligunt Ciceronem sic a Quintiliano laudari, ut hunc suspiciendum, hunc imitandum esse moneat, dono quodam providentiae genitum, in quem totas virtutes suas eloquentia experiretur, id denique non immerito consecutum, ut Cicero iam non hominis nomen, sed eloquentiae habeatur. 14. Quodsi loqui vera volumus, illa vel summa Quintiliani laus est, quod divinae Ciceronis eloquentiae diligentissimus observator atque inspector fuerit. Quid enim quamvis acute ab eo in dicendi arte praecipitur quod non e Ciceronis fonte haustum sit? quid tam rarum aut sepositum ostenditur, quod non Ciceronis orationum exemplis testimoniisque doceamur illum orantem egisse quae post a Quintiliano rhetoribusque aliis considerata atque animadversa scriptis observanda tradantur? Arguitur Ciceronis de oratoris fine sententia, quod non sit dicere apposite ad persuasionem, sed sit solum bene dicere oratoris finis; nec vident acutissimi homines duplicem in oratore finem considerandum esse, quod Boetius quidem vidit, si non tam acutus grammaticus, at certe rerum naturae peritissimus ac definiendi magnus artifex. Ait enim quod inter dialecticam atque rhetoricam interest, id in materia non cerni, quippe cum utraque thesim atque hypothesim subiectam habeat, sed in usu, cum altera interrogatione, altera perpetua oratione utatur, ac dialectica integris sylogismis, rhetorica enthymematibus gaudeat; item in fine, quod dialectica quae vult extorquere ab adversario conatur, rhetorica iudici persuadere; siquidem dialecticus dialecticum tantum habet adversum se constitutum, orator vero habet etiam iudicem, qui inter se atque adversarium sententiam ferat. Quocirca oratoris finem duplici ratione considerandum esse censet; alterum quidem in oratore ipso, in iudice vero alterum; in ipso quidem bene dicere (quod quid est aliud quam di-

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invaso il territorio dei retori e, quel che è peggio, ne hanno devastato i campi; e poiché vedono, o credono di vedere, che Quintiliano ci riferisce qualche insegnamento un po’ più sottile, levate le insegne e disposte le file, avanzano contro Cicerone; e non capiscono che Quintiliano loda tanto Cicerone da esortarci ad assumerlo come unico modello, e ad imitarlo come venuto al mondo quale dono della provvidenza, affinché in lui l’eloquenza sperimentasse tutte le sue risorse,67 e che infine non senza ragione ne è derivato che Cicerone non sia il nome di un uomo, ma della stessa eloquenza.68 14. Che se vogliamo dire il vero, il merito più grande di Quintiliano è proprio quello di essere stato attentissimo nell’esaminare e penetrare la divina eloquenza di Cicerone.69 Infatti, quale lezione, anche la più sottile, vi è nel suo insegnamento retorico, che non sia stata attinta da Cicerone? Quale rarità e preziosità viene messa in evidenza da lui, da non farci apprendere, sulla base di esempi e testimonianze dirette delle orazioni pronunciate, che sia stato proprio Cicerone ad attuare quello che poi Quintiliano e gli altri retori hanno trasmesso, in seguito a una riflessione e a una valutazione, come una serie di regole da osservare? Si ritiene erronea l’opinione di Cicerone sul fine dell’oratore, che non sarebbe quello di «esprimersi con la parola in modo adatto alla persuasione», ma solamente di «esprimersi bene con la parola»;70 e non capiscono questi, profondissimi studiosi, che nell’oratore si deve considerare un duplice fine, come certamente capì Boezio,71 il quale, se non fu un grammatico tanto profondo, fu senza dubbio esimio scienziato e grande maestro della «definizione». Dice, infatti, che non si può distinguere la dialettica dalla retorica considerando il loro argomento, poiché entrambe trattano la tesi e l’ipotesi, ma il loro metodo, in quanto, mentre l’una procede mediante l’interrogazione, l’altra mediante il discorso continuo, e la dialettica preferisce i sillogismi completi, la retorica gli entimemi.72 La stessa cosa avviene per quel che riguarda il fine; perché la dialettica si sforza di estorcere all’avversario le risposte che vuole, la retorica, di persuadere il giudice, se è vero che il dialettico ha di fronte solamente un dialettico, mentre l’oratore ha anche il giudice, che deve pronunciarsi su chi abbia ragione, lui o la parte avversa. Per la qual cosa egli ritiene che il fine dell’oratore vada considerato in due sensi, l’uno rispetto allo stesso oratore, l’altro rispetto al giudice: riguarda l’oratore «esprimersi bene con la parola», che altro non è se non «usare la parola» al fine di persuadere, mentre riguarda il giudice il fatto ch’egli 153

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cere apposite ad persuasionem?), in iudice vero persuadere. Neque enim, si qua impediant oratorem quominus persuadeat, dum officium suum fecerit, iccirco finem consecutus non est, siquidem, qui officio suo cognatus est finis, eum facto officio consequitur; ac tametsi eum qui extra positus est finem non semper attingit, fine tamen suo contentus esse potest, sentiens artem ipsam qui suus est fine non fraudari. Etenim medici opera cum in sanitatem intenta sit, imperatoris in victoriam, licet neuter finem, qui extra constitutus est, nonnunquam adipiscatur, uterque tamen suum assequitur si alter aegrotum recte curaverit, alter exercitum ac rem bellicam bene administraverit. 15. Duplex igitur oratoris finis est: bene dicere ac persuadere; quod utrunque Cicero complexus est, et cum ait oratoris officium esse dicere apposite ad persuasionem (nam qui apposite dicit bene quidem dicit, id quod Quintiliani sententiae convenit iudicantis rhetoricae finem ac summum esse bene dicere), et cum post subdit oratoris finem esse persuadere dictione, quia oratoris dictio apud iudicem est, complectitur qui sit pro suscepta causa bene dicendi finis. Quodsi orator dicendo persuadet (neque enim temere a Cicerone dictum est persuadere dictione), nec Quintiliano nec oblatratoribus his dicere opus est, quod pecunia etiam persuadet, quod forma, quod alia etiam multa; nam nec pecunia dicendo persuadet, nec forma; trahit enim animos hominum pecunia rerum utilium cupiditate ac gratia, forma voluptatis. Ostendere autem cicatrices inde susceptum est, quod insitus est homini naturaliter misericordiae affectus, qui tum videndo, tum audiendo movetur, idque consilii prudentiaeque est agere. Quo orator cum utitur, non quidem dicendo, sed agendo persuadere conatur, licet huiusmodi actiones oratoris proprie sint, unde agere dicitur, quibus etiam verba gestumque idoneum accommodat. Et cicatricum quidem ostentatio non multum habitura est virium, si oratio defuerit, quae lacrimas ac misericordiam excitet. Nam auctoritas, dignitas, aspectus, si mutus fuerit, quomodo persuadeat aut quid persuadeat?

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riesca a persuaderlo. Né si deve dire che, se per qualche impedimento l’oratore non riuscisse a persuadere, non avrebbe conseguito il suo fine, pur avendo adempiuto ai suoi compiti, giacché basta che egli lo abbia fatto per dire che ha conseguito il fine relativo alla sua professione; e, sebbene non sempre gli tocchi raggiungere il fine esterno, può tuttavia accontentarsi di aver raggiunto il fine che gli compete, sapendo che l’arte in sé non può esser privata del suo fine specifico. Lo dimostra il fatto che, essendo l’opera del medico tesa alla guarigione, quella del condottiero alla vittoria, sebbene né L’uno né l’altro conseguano qualche volta il fine esterno, tuttavia entrambi conseguono ciascuno il proprio fine, se l’uno avrà ben curato il paziente, l’altro avrà ben guidato l’esercito in guerra. 15. Dunque è duplice il fine dell’oratore, esprimersi bene con la parola e persuadere, e Cicerone ha contemplato tutte e due le cose, anche quando sostiene che il fine dell’oratore è quello di esprimersi con la parola in modo mirato a raggiungere la persuasione (si esprime bene, infatti, chi si esprime in modo mirato, in accordo con l’opinione di Quintiliano, quando designa il fine della retorica, anzi il suo fine sommo, come «esprimersi bene con la parola»),73 e quando poi soggiunge che il fine dell’oratore è di persuadere «con la parola»,74 essendo la parola dell’oratore rivolta al giudice, la sua intenzione è quella di considerare l’obiettivo dell’esprimersi bene con la parola in relazione alla causa assunta. Che se l’oratore persuade usando la parola (e non a caso la formula usata da Cicerone è appunto questa), né Quintiliano, né questi insolenti75 dovrebbero trovare improprio il riferimento alla «parola», obiettando che a persuadere riescono anche il danaro, anche l’avvenenza e molte altre cose,76 perché né il denaro né l’avvenenza persuadono con la parola; il denaro e il fascino, infatti, seducono l’animo col desiderio di soddisfare l’uno l’utilità, l’altro il piacere. Di qui la prassi di far vedere le cicatrici, perché nell’uomo è insito per natura il sentimento della pietà, il quale viene suscitato sia dalla vista sia dall’udito, e quella prassi è perciò dettata dalla saggezza e dall’esperienza. E quando l’oratore ricorre a questo strumento, si adopera a persuadere non mediante la parola ma mediante «atti» (donde la denominazione di actio), sebbene questo genere di atti sia specificamente dell’oratore, che vi adatta le parole e il gesto.77 Ma il mostrar le cicatrici non avrà certo grande effetto, in assenza del discorso che susciti lacrime e pietà. Difatti, come e di che potrebbero persuadere l’autorità, la dignità, la vista, se l’oratore restasse muto? 155

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16. Quod vero ad meritorum recordationem attinet, an parum tibi loqui merita ipsa videntur, quae beneficiorum in rempublicam, quae rerum fortiter gestarum memoriam revocent, quae gratitudinis ammoneant? Etenim eorum qui diem obiere, sive amici sive inimici fuerint, cum recordatio nos subit, quod ab iis recte aut male facta, quae in mentem veniunt, loquendi vim quandam habeant, vel excitatur in nobis desiderium vel odium renovatur. Quocirca loquuntur haec quodammodo per se, ac nihilominus, ut iudices, ut auditores moveant, dicente indigent, qui, quo fuerit eloquentior, eo magis commovebit. Ac mihi quidem videtur Cicero tum addendo “apposite ad persuasionem”, tum dicendo “persuadere dictione”, avertisse a se id quod Quintilianus, pace eius dixerim, non modo non avertit, sed ne quidem vidit. Si quis enim, quod declamatores faciunt, nullo dato iudice causam domi fingat et utriusque, id est suas et adversarii, partes agat, hinc accusando, illinc defendendo, huius nimirum erit finis tantum bene dicere. Quid enim aliud in causa domi composita, nullo vero adversario, nullo iudice, quaeretur nisi solum bene dicere? Quo fit ut in causa ficta idem sit finis qui est in vera, bene dicere, neque inter fingere et apud iudicem vere agere aliquid intererit. Quo quid magis absonum? quid magis absurdum? Hoc videns Cicero declamatorem sic ab oratore seiunxit, ut quod unum intererat, id officium ac finem oratoris ostendendo exciperet cavillamque averteret; inter officium autem et finem parum interesse Cicero ipse ostendit, cum docet in officio quid fieri, in fine quid officio conveniat considerari. Videtis quam plane per ‘officium’ expresserit finem qui in oratore consideratur, cum «quid fieri conveniat» ait? Porro, quid facere oratorem convenit, aut quae eius officii partes sunt, nisi bene dicere? quod quibus artibus et quae faciendo assequi possit ipse iam tenet; per ‘finem’ vero ostenderit id quod bene dicendo quaeritur, persuadere. 17. Nam cum ipsae hominum actiones ob finem aliquem suscipiantur ac finis alius alium respectare videatur, finis ille quem in oratore ipso

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16. Per quanto poi riguarda la consuetudine di richiamare alla memoria i meriti, ti sembra poco efficace citare i meriti capaci di far tornare alla mente i benefici resi allo Stato, le coraggiose imprese che inducono alla gratitudine? Ed è così, che quando si insinua in noi il ricordo di amici o anche nemici scomparsi, quel ripresentarsi alla mente di ciò che essi hanno fatto, di bene o di male, ha una sua certa eloquenza, e in noi viene suscitato il rimpianto, o si rinnovella l’odio. Perciò si può dire che questi argomenti, in certo qual modo, parlino da sé, e tuttavia, per poter commuovere il giudice e gli uditori hanno bisogno di chi li esponga, e costui sarà capace di commuovere quanto più sarà eloquente. E a me sembra veramente che Cicerone, sia aggiungendo «in maniera adatta a ottenere la persuasione», sia dicendo «persuadere con la parola», abbia evitato la difficoltà che Quintiliano – fatemelo dire – non solo non ha evitata, ma neppure ha percepita. Se qualcuno, infatti, come di solito fanno i declamatori, fingesse di difendere stando a casa sua, in assenza di un giudice, una causa, e facesse la parte di tutti e due, cioè, quella sua e quella dell’avversario, di qua movendo l’accusa, di là organizzando la difesa, il fine suo sarebbe, evidentemente, soltanto quello usar l’eloquenza. Che altro, infatti, si potrà richiedere in una causa costruita in casa propria, senza né avversario né giudice, se non soltanto l’uso dell’eloquenza? Di qui la deduzione che in una causa finta il fine sarebbe lo stesso che in una reale, cioè, l’esprimersi in modo eloquente, e non vi sia alcuna differenza tra il fingere di farlo e trattare realmente un processo dinanzi al giudice: una vera assurdità. Per questa considerazione Cicerone distinse il declamatore dall’oratore,78 in modo da isolare, mettendo in luce il compito e il fine dell’oratore, l’unica effettiva differenza, evitando ogni equivoco. Lo stesso Cicerone dimostra come tra compito e fine vi sia ben poca differenza, quando insegna che cosa convenga fare nell’eseguire un compito, e che cosa vada considerato da parte di chi esegue un compito per conseguire un fine.79 Vedete con quanta chiarezza, parlando di «ufficio», abbia rappresentato il fine che si considera nell’oratore, quando dice «che cosa convenga fare»? D’altra parte, che cosa conviene fare all’oratore, o qual è la sua funzione se non esprimersi bene con la parola? Con quale metodo, e facendo che cosa l’oratore possa eseguire questo compito, lo ha già assodato; ma poi, parlando di «fine», mostrerà ciò che si cerca di raggiungere «esprimendosi bene con la parola», la persuasione. 17. Poiché come le azioni umane s’intraprendono per qualche fine, e sembra ovvio che un fine sia in relazione con un altro, quel fine che 157

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constitutum diximus, hoc est bene dicere, in alium illum finem intendit, qui extra positus est; sicuti recte curandi finis aegroti sanitatem ac rei bellicae bene administrandae de hoste victoriam respicit; ab illis enim ad has est via. Etenim cum finis in rebus humanis sit, ut opinor, ad quem cuncta referantur et cuius gratia fiunt coetera omnia, nimirum ut sit finis oratoris bene dicere, bene dicendi ipsius finis est persuadere. Itaque si oratorem considerare volumus ut dicentem tantum, finis eius erit bene dicere; sin ut agentem in foro ac iudicis animum quibus potest artibus in sententiam suam atque in causam quam agendam suscepit trahere contendentem, Ciceronis de fine sententia erit absoluta, Quintiliani vero manca atque imperfecta. Non considerari autem forum forensisque actionis finem ab eo qui dicit oratoris finem esse bene dicere, quamvis paucis, manifesto tamen ostendemus. Quintiliani ipsius, cum de rhetoricae nomine latine interpretando loquitur, verba haec sunt: «Nam oratoria sic efferetur ut elocutoria, oratrix ut elocutrix; illa autem de qua loquimur rhetorice talis est qualis eloquentia». Igitur si rhetorica eloquentia est, et orator erit eloquens. Eloqui autem aliud non est quam bene dicere; qui enim eloquitur bene dicit, et eloquentia erit bene dicendi sive facultas sive ars sive scientia. 18. Quare dicere «oratoris finem esse bene dicere» eius est qui nec susceptae in foro dictionis finem considerat, ut si quis aratoris finem dixerit bene arare, cum bene arandi finis sit serere, nec clientem respicit, non secus ac si quis dixerit medici finem esse bene curare, quae definitio aegroti ipsius, qui medicum sibi adhibuit, nullam videtur habere rationem. At qui dicit «oratoris finem esse dicere apposite ad persuasionem» et eius qui dicit et eius pro quo dictio suscepta est rationem complectitur. Quae finitio perfecta quidem est, cum et officium eius qui dictio-

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abbiamo detto esser riposto nell’oratore, cioè l’esprimersi bene con la parola, tende verso quell’altro che è esterno: così come il fine del curare in modo perfetto tende alla guarigione dell’ammalato, e il fine di condurre la guerra in modo perfetto tende alla vittoria sul nemico, giacché da quei fini si parte per raggiungere la guarigione e la vittoria. E infatti, essendoci nelle cose umane, come credo, un fine cui riferire ogni cosa e per il quale si compiono tutte le altre azioni, non è strano che, se il fine dell’oratore sia quello di «esprimersi bene con la parola», a sua volta il fine di «esprimersi bene con la parola» sia il persuadere.80 E perciò, se vogliamo considerar l’oratore solamente per il suo esprimersi con la parola, il suo fine sarà quello di esprimersi bene con la parola; se poi lo consideriamo per il fatto che tratta nel foro e si sforza, con le arti che può, di guadagnare l’animo del giudice alla sua tesi e alla causa di cui ha affrontato la difesa, l’opinione di Cicerone intorno al fine sarà perfetta, quella di Quintiliano difettosa e imperfetta. Dimostreremo con evidenza, sebbene brevemente, che affermare che il fine dell’oratore sia quello di esprimersi bene con la parola, significa non considerare il foro e il fine dell’azione forense. Ecco le parole dello stesso Quintiliano, quando spiega, volgendolo in latino, il termine «retorica»: «In effetti il termine “oratoria” è formato come “elocutoria”, il termine “oratrice” come “elocutrice”. Perciò il termine “retorica” di cui parliamo, equivale a quello di “eloquenza”».81 Se, dunque, retorica equivale ad eloquenza, anche oratore equivarrà ad eloquente. Ma esprimersi con eloquenza altro non è che esprimersi bene con la parola; e l’eloquenza sarà la facoltà, l’arte o la scienza dell’espressione perfetta mediante la parola. 18. Per cui dire che «il fine dell’oratore è quello di esprimersi con la parola in modo perfetto»82 è proprio di chi non considera il fine di un’orazione tenuta nel foro, né tiene conto del cliente, come se uno dicesse che il fine dell’aratore è quello di arare in modo perfetto, mentre il fine dell’arare bene è il seminare, e non altrimenti che se uno dicesse che il fine del medico è di curare in modo perfetto, definizione che non sembra fare alcun conto dell’ammalato che si è rivolto al medico. Ma chi dice che «il fine dell’oratore è quello di esprimersi in modo mirato a conseguire la persuasione»,83 contempla la ragione sia di colui che parla, sia di colui per il quale si prende la parola dinanzi al giudice. E questa definizione è in verità perfetta, perché non solo mostra quale sia

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nem suscepit ostendat et causam, idest finem cur officium susceptum sit, declaret. Qua tamen in re pertinaciores non erimus, ut qui honus hoc defendendi Ciceronis adversus Quintilianum non susceperimus, quippe qui non oblatrando, sed quaerendo modestissime oratoris finem investigare nititur; quem quodam in loco dicentem audiamus: «Nam illud genus ostentationi compositum solam petit audientium voluptatem ideoque omnes dicendi artes aperit ornatumque orationis exponit, ut qui non insidietur nec ad victoriam, sed ad solum finem laudis et gloriae tendat. Quare quicquid erit sententiis populare, verbis nitidum, figuris iucundum, translationibus magnificum, compositione elaboratum, velut institor quidam eloquentiae, intuendum et pene pertractandum dabit; nam eventus ad ipsum, non ad causam refertur. At ubi res agitur et vera dimicatio est, ultimus sit famae locus». Videtis ut his verbis victoriam quaeri, non bene dicendi laudem et gloriam ostendit? Sentitis quid dicit, cum eventum non ad ipsum, sed ad causam referri dicit? Et quod hoc fortasse minus apertum esset, subdit: «ubi res agitur et dimicatio vera est, ultimus sit famae locus», docens in victoriam totis viribus incumbendum, quae quidem nisi persuaso iudice ac bene dicendi arte viribusque eloquentiae expugnato comparari nequeat. Verum adversus grammaticos, istos inquam grammaticos, haec dicenda suscepimus, quorum dentibus ut nihil mordacius sic morsibus venenosius nihil est, errasseque non parum videri potest Antonius, qui catellorum eos persimiles ac non canes, immo rabidas canes aut venenosas potius aspides diceret. Operaeprecium est etiam videre quibus latratibus quoque impetu in ciceronianam status definitionem ferantur. Sed nolo vobis, hospiti praesertim huic, esse molestior. 19. COMPATER. Et hospiti huic et coeteris qui assumus rem gratissimam feceris, quod declarare nostrum omnium tibi abunde perspectum in Ciceronem studium potest et hospitis tanta in te audiendo attentio. Sed de Antonio aliter tibi persuadeas velim; narrare enim solebat grammaticorum rationem nullam esse praetoribus, quippe qui furentium in numero haberentur; cumque furoris atque amentiae genera licet diversa,

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il compito di chi intraprende un discorso, ma ne spiega la causa, cioè il fine per cui il compito è stato intrapreso. In una questione come questa tuttavia non insisteremo troppo, perché non ci siamo assunti l’incarico di difendere Cicerone contro Quintiliano, per il fatto che costui si sforza di indagare il fine dell’oratore senza strillare, ma con una ricerca molto discreta. Ascoltiamo un suo passaggio: «In effetti quel genere di orazione composto al solo scopo di apparire, cerca solo il piacere degli ascoltatori, e perciò rivela, mettendoli in mostra, tutti gli accorgimenti e gli ornamenti del dire, perché non ha ostacoli dinanzi a sé, e non mira alla vittoria, ma al solo fine della lode e della gloria. E perciò l’oratore, come un bottegaio che vende eloquenza, offrirà quale oggetto di spettacolo e di interesse qualunque cosa sarà gradita ai più per i pensieri, limpida per la forma, piacevole per i colori, magnifica per i traslati, elaborata per la forma compositiva, poiché la riuscita riguarda sé, non la causa. Ma quando si tratta un processo ed il conflitto è reale, allora vada messa all’ultimo posto la fama».84 Vedete come dimostra, così dicendo, che quel che si cerca è la vittoria e non l’onore e la gloria dell’eloquenza perfetta? Sentite che dice quando afferma che il successo non deve riguardare la persona dell’oratore, ma la causa. E forse perché il concetto non era molto chiaro, aggiunge: «Quando si tratta una causa e v’è un conflitto reale, allora sia l’ultimo pensiero la gloria»; e così insegna come si debbano compiere tutti gli sforzi al fine della vittoria, la quale non si può certo conseguire se non quando il giudice sia stato persuaso, vinto dalla perfezione dell’arte oratoria e dalla forza dell’eloquenza. Ma si è affrontata una trattazione come questa per contrastare i grammatici, quel genere di grammatici, dico, i cui denti sono mordaci come nulla al mondo; e sembra che Antonio abbia fatto un grosso errore quando li ha giudicati molto simili a cagnetti, invece che a cani, anzi a cagne rabbiose, o piuttosto a serpenti velenosi. Vale la pena di vedere con quali latrati e con quale impeto si avventino contro la definizione ciceroniana dello status. Ma non voglio dar troppa noia a voi e specialmente al nostro forestiero. 19. COMPATRE. Tu farai un favore sia al nostre ospite, sia a tutti noi presenti: te lo possono ben dimostrare l’evidente passione ciceroniana che abbiamo e il grande interesse con il quale lui ti sta ascoltando. Ma vorrei che avessi una diversa opinione sul conto di Antonio. Infatti era solito osservare che i pretori non facevano alcun conto dei grammatici, annoverandoli fra i pazzi; e che, sebbene le forme di pazzia e di demen161

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comprehensa tamen a physicis essent, solam grammaticorum vesaniam non modo incomprehensam, verum etiam incomprehensibilem esse, quam novo quodam ficto nomine «labirynthiplexiam» vocabat. Referebat enim Sybillam, nutricem suam, quotiens grammatico cuidam, qui per id tempus Panhormi docebat, obviam fieret, carmine usam quo Siculi adversum canes rabidas uterentur; solas etiam grammaticorum animas post mortem non expurgari; quodque infernus eas expiandas non caperet, statim redire in corpora ac propterea contingere ut in dies atque in saecula grammatici dementiores essent; Platonemque hoc ipsum latuisse, item Virgilium Dantiumque, qui de rebus infernis ultimus scripsit. Haec habui quae pro Antonio excusando dicerem. Tu perge, Andrea, et ciceroniani ‘status’ defensionem adversus antonianos catellos vel tuas potius aspides aggredere. 20. ANDREAS. Faciam eo libentius quod Herricum nostrum video ex oratione hac, quae adversum grammaticos habita est, mirificam voluptatem coepisse. HERRICUS. Dici vix potest quam me sermo iste delectet, praesertim cum in memoriam veniat inter duos olim grammaticos gladiis actam rem esse, dum alter alteri vitio daret quod verbo ‘impleo’ generandi casum adiunxisset ac neuter memor esset Livii hoc ipso casu utentis libro quarto: «Ne ita omnia tribuni potestatis suae implerent ut nullum publicum consilium sinerent esse». Item quinto libro: «Ipse multitudinem quoque, quae semper ferme regenti est similis, religionis iustae implevit». Sexto etiam casu utitur, cum ait: «Carcerem impleveritis principibus». Adeo promiscue veteres verbum hoc et secundo et sexto casui iunxere, quod docti illi et acuti grammatici dum ignorant, dum alter alterius sinum atque os despuit, res ad gladios venit tandemque a grammaticis ad chirurgos. Sed quae mihi multa generis huius in mentem veniunt referre desinam, ne tibi sim impedimento; quare quod coepisti perge exequi ac voluptate hac nos exple. ANDREAS. Primo loco Ciceronem videamus: «Constitutio est prima conflictio causarum ex depulsione intentionis profecta, hoc modo: fe-

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za, per quanto numerose, fossero state comprese dai medici, solamente la follia dei grammatici, non solo era rimasta incompresa, ma anche incomprensibile, ed egli con un certo neologismo, da lui coniato, la chiamava «labirintiplessia».85 Raccontava, infatti, che la sua nutrice, Sibilla, ogni volta che incontrava un tale, a quel tempo insegnante di grammatica a Palermo, ripeteva lo scongiuro usato dai Siciliani contro i cani rabbiosi. Diceva inoltre che soltanto alle anime dei grammatici, dopo la morte, non era concesso purificarsi, e siccome l’inferno non le accoglieva per l’espiazione, esse tornavano subito nei loro corpi e accadeva perciò che di giorno in giorno, e di secolo in secolo, i grammatici divenissero ancora più folli; circostanza, questa, sfuggita a Platone, a Virgilio e a Dante, ultimo autore che abbia trattato dell’aldilà.86 Questo avevo da dire per giustificare Antonio. Tu, Andrea, prosegui nella difesa dello status87 com’è inteso da Cicerone, contro i cagnetti di Antonio, o, piuttosto, contro i serpenti, come li chiami tu. 20. ANDREA. Lo farò tanto più volentieri, quanto più mi accorgo che il nostro Errico è rimasto enormemente soddisfatto per ciò che abbiamo detto contro i grammatici. ERRICO. Non si può immaginare quanto piacere mi faccia sentir parlare di questo argomento, soprattutto perché mi ricordo che una volta si venne fra due grammatici a singolar tenzone con le spade, perché uno di loro accusava l’altro per la costruzione del verbo impleo col genitivo, mentre nessuno dei due si ricordava di Livio, che nel libro quarto lo costruisce con questo caso: «Perché i tribuni non riempissero tutto della loro autorità, e non concedessero che vi fosse alcuna pubblica adunanza».88 Similmente nel libro quinto: «Egli riempì di un giusto sentimento religioso anche la folla, che quasi sempre si adegua al potere».89 Usa anche l’ablativo quando dice: «Avete riempito il carcere con i prìncipi».90 A tal punto gli antichi usavano costruire indifferentemente questo verbo sia col genitivo, sia con l’ablativo; e poiché quei dotti ed acuti grammatici non lo sapevano,91 e si sputavano l’un l’altro addosso e in viso, si venne alle spade, e dai grammatici si andò a finire ai chirurgi. Ma non racconterò molti altri episodi del genere che mi vengono in mente; perciò va avanti e completa il discorso che stavi facendo riempiendoci di questo godimento. ANDREA. Consideriamo, in primo luogo, Cicerone: «Lo stato della causa è il primo conflitto che si produce, quando si respinge l’accusa: 163

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cisti, non feci, aut iure feci». Deinde Quintiliani status qui sit ex ipsius verbis intelligamus: «Statum quidam dixerunt primam causarum conflictionem; quos recte sensisse, parum elocutos puto. Non enim est status prima conflictio, “fecisti, non feci”; sed quod ex prima conflictione nascitur». Et paulo post: «Si enim dicat quis: “sonus est duorum inter se corporum conf1ictio”, erret, opinor; non enim sonus est conflictio, sed ex conflictione». 21. Haec uterque de status constitutionisque definitione. Nos quid definitio ipsa sit primum videamus; quae, ut doctissimis viris placet, «oratio est explicans quid sit id de quo est quaestio». Quocirca proprium definitionis esse videtur explicare, hoc est distincte atque expresse demonstrare rei quae definitur substantiam, seu quid illud ipsum de quo quaeritur sit. Hoc enim intellecto, ipsa res ut intelligatur oportet, siquidem id quod ante definitionem erat, ut ita dixerim, confusum et complicatum, ubi definitio accessit, distinctum atque explicatum cernitur. Etenim, cum hoc ipsum nomen ‘homo’ parum expresse quid homo ipse sit indicet, ubi dixeris hominem esse animal rationale mortale, quod erat involutum nec satis patebat fit expressum et clarum; ipsaque substantiae explicatio fit quotiens genus, quo quid continetur, et species illae, quae differentiae vocantur, definitionem ipsam abunde simul constituunt; qua hunc immodum constituta, quae confusa erant diffusius tractata cernuntur. Ex quibus efficitur ut, genere differentiisque monstratis, substantia ipsa appareat. 22. His sic explicatis, videamus harum utra definitionum rem quae definitur melius clariusque ostendat, cum videamus de re ipsa quaestionem non esse, siquidem Quintilianus ipse, qui hac definitione usi essent, recte quidem sensisse, parum tamen elocutos putat. Ciceroniana, ni fallor, definitio, quod genus et differentias explicat, substantiam profecto ipsam explicat. Nam ‘conflictio’ generis locum obtinet; omnis enim status conflictio est, non contra; siquidem non soli oratores confligunt, perinde ut non solum homo est animal, sed athletae, sed milites, sed exercitus etiam confligunt. ‘Prima’ vero cum dicitur, species ac differentia indicatur, siquidem plures quaestionum status esse eadem in causa possunt, quod ipse quoque Quintilianus ostendit. ‘Prima’ igi-

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“hai fatto ciò”, “non l’ho fatto”, oppure, “avevo il diritto di farlo”».92 Cerchiamo poi di capire che significa status per Quintiliano con le sue stesse parole: «Alcuni chiamarono status il primo scontro che avviene nelle cause, e credo che abbiano inteso correttamente, ma che si siano espressi male. Poiché lo status non è il primo scontro, “hai fatto”, “non ho fatto”, ma ciò che nasce dal primo scontro».93 E poco dopo: «Se qualcuno dicesse che il suono è lo scontro di due corpi fra loro, penso che errerebbe, poiché il suono non è uno scontro, ma l’effetto di uno scontro».94 21. Questo dicono l’uno e l’altro intorno alla definizione dello status e della constitutio. A noi tocca per prima cosa vedere che significa «definizione». Questa, secondo il parere di quelli che più sanno, è un’espressione che spiega che cosa sia ciò di cui si discute. Perciò sembra compito proprio della definizione spiegare, cioè dimostrare, distintamente ed esplicitamente, l’essenza della cosa che si definisce, oppure l’argomento di cui si discute. Inteso questo, bisogna che s’intenda l’oggetto in sé, se è vero che l’oggetto, confuso e complesso – per così dire – prima della definizione, si rivela distinto e chiaro una volta sopraggiunta la definizione. Difatti, poiché la stessa parola «uomo» poco chiaramente indica che cosa sia l’uomo, quando avrai detto che l’uomo è un animale mortale provvisto di ragione, quello che era oscuro e non abbastanza evidente diviene esplicito e chiaro; l’esplicazione dell’essenza avviene tutte le volte che il genere, di cui un qualcosa fa parte, e quelle specie che si chiamano «differenze»,95 sono sufficienti a farne una definizione; e quando questa è così formulata, ciò che era confuso risulta piano. Ne deriva che, solo quando il genere e le differenze siano stati messi in evidenza, emerge l’essenza. 22. Dopo tale spiegazione, vediamo quale delle due definizioni riveli meglio e con maggior chiarezza l’oggetto definito, giacché non è su questo la questione, se teniamo conto del fatto che per lo stesso Quintiliano chi ha fatto uso di questa definizione ha pensato correttamente, ma si è espresso male. La definizione ciceroniana, se non mi sbaglio, rendendo espliciti il genere e le differenze, spiega certamente qual è l’essenza. Difatti lo «scontro» funge da genere, essendo ogni «stato» uno «scontro», e non il contrario; perché, come non solo l’uomo è un essere animato, così non soltanto gli oratori «si scontrano» ma anche gli atleti, i soldati, gli eserciti. Ma quando aggiunge «il primo», viene ad indicare la differenza specifica; giacché, come anche Quintiliano dimostra, nella stessa causa vi possono essere vari «stati» processuali.96 Il «primo scontro», dunque, 165

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tur ‘conflictio’ species quaedam conflictionis est, sicuti rationale species quaedam animalis. Deinde additur «ex depulsione intentionis profecta». Quo addito plane declaratur conflictionem hinc ex intentione, illinc ex depulsione nasci, ut intelligatur, quemadmodum non omne rationale animal, ut Plato putat, mortale est, sic non omnem conflictionem ex telorum missiliumque iaculatione ac manuum consertione, cuiusmodi militaris conflictus est, existere. Videtis ut, his in definitione simul positis, res ipsa non implicata et in abdito posita, sed explicata atque in lucem cernatur exposita? Contra Quintiliani definitio non solum rem ipsam in lucem non educit, sed audientem statim turbat et cogitationem eius ad plura ac diversa trahit. In lucem autem non exponi rem ex Quintiliani definitione hinc probatur, quod genus ipsum nimis remoto e loco apparet, cum sit res, sive, ut hodie dicunt, ens; dicitur enim: «id quod ex prima conflictione nascitur», idest res quae inde nascitur; ac tametsi verum est quod conflictio causarum sit res, sit ens, tamen hoc ipsum ens maxime generale est, siquidem et lapis et lignum et lana et corpus et color et vox et forma et statura et coelum et animal et quodcunque in naturalibus est ens ac res est. 23. Itaque genus hoc confundit magis quam explicat, dum auditoris mentem in tam multa ac diversa rapit. Illud deinde «Quod ex prima conflictione nascitur» magis ac magis et turbat et confundit et quasdam quasi tenebras illorum qui audiunt mentibus offundit, ut cum dicimus: «homo est id quod ex corpore et anima constat»; quod ipsum non modo de bove, crocodilo, ape, serpente, pisce, accipitre, sed de arbore, haerba fruticeque dici potest, nec aliud est dicere quam «quod animans est», quod genus plurima diversaque complectitur, siquidem et arbores et herbae et frutices animantes sunt: anima enim constant et corpore. Quod si dicere malueris: «homo est id quod ex animali rationali mortali est», hominis substantiam non solum non explicabis neque in apertum proferes, sed rem ipsam magis ac magis implicabis. Neque enim homo solum est ex animali rationali mortali, sed coniugium, sed familia, sed civitas, sed humani generis societas. At dicere «homo est animal rationale morta1e» non solum mentem non confundit, sed rem ipsam plane ostendit, idque

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è una certa specie di scontro,97 come «razionale» è una certa specie di animale. Poi si aggiunge: «che sorge dalla contestazione dell’accusa».98 Da questa aggiunta risulta chiaro che il conflitto nasce,99 da una parte, dall’accusa, dall’altra dalla contestazione, in maniera da far capire che, come non è provvisto di ragione – secondo il pensiero platonico – ogni animale mortale, così non ogni scontro nasce dallo scagliar dardi e frecce e dal venire alle mani, in cui consiste lo scontro militare. Vedete come, comprendendo questi elementi nella definizione, si ottiene il risultato che l’oggetto appaia non confuso ed oscuro, ma esplicito, alla luce del sole? Al contrario, la definizione di Quintiliano non solo non mette in luce il concetto, ma subito confonde chi ascolta, e ne distrae la mente in direzioni molteplici e diverse. E che il concetto non sia messo in luce dalla definizione di Quintiliano, la prova è questa, che il genere vi è inteso in senso troppo lato, essendo espresso con res oppure, come oggi si direbbe, con ens.100 L’espressione «ciò che nasce dal primo scontro processuale» significa «la cosa» che da esso deriva; e sebbene sia vero che lo scontro processuale sia una res o un ens, tuttavia questo stesso ens ha un significato estremamente generico. La pietra, infatti, il legno, la lana, il corpo, il colore, la voce, la forza, la statura, il cielo, l’animale e qualunque altra cosa esista in natura è un ens e una res. 23. Pertanto un’indicazione di questa fatta disorienta, più che spiegare, trascinando la mente dell’uditore in numerose direzioni diverse. Dire quindi «ciò che nasce dal primo scontro» disorienta e confonde, e quasi ottenebra la mente del destinatario, come quando diciamo «l’uomo è ciò che consta di anima e di corpo», definizione, questa, che può adattarsi non solamente al bue, al coccodrillo, all’ape, al serpente, al pesce, all’avvoltoio, ma anche all’albero, all’erba, all’arbusto; né sarebbe diverso dal dire «ciò che è animato», perché si riferisce a un genere che abbraccia moltissime e diverse cose, essendo animati anche gli alberi, le erbe, gli arbusti, che sono formati di anima e di corpo. Che se preferirai dire «l’uomo è ciò che consiste in un animale mortale provvisto di ragione», non solo non espliciterai l’essenza dell’uomo, senza metterla in evidenza, ma farai un pasticcio sempre maggiore. Difatti, non l’uomo soltanto consiste in un animale mortale provvisto di ragione, ma anche l’unione coniugale, la famiglia, lo stato, l’umana società. Dire invece «l’uomo è un animale mortale provvisto di ragione», non solo non confonde la mente, ma esplicita chiaramente il concetto, e così anche ciò che è definito 167

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quod definitur et quod definit ita sibi invicem conveniunt, ut mutuam conversionem alternatim faciant, siquidem et animal rationale mortale est homo; id quod non usu venit cum dicitur: «homo est id quod ex corpore et anima est» et «quod ex corpore et anima est homo est», cum possit esse accipiter, piscis, equus, apes, ulmus, brasica, vitis, ligustrum, quae, quod animantes sunt, e corpore et anima sunt. Itaque cum dicimus «constitutio est prima conflictio causarum nata ex intentionis depulsione», ita sibi quod definit definiturque invicem consentit, ut convertere liceat pari maximeque conveniente consensu; recte enim explicateque dicetur: «prima causarum conflictio ex intentionis depulsione nata constitutio est». 24. Contra confusa nimis definitio erit, nec cum eo quod finitur pari modo consentiens si dixerimus, ut Quintiliano placet, «status est id quod ex prima conflictione causarum nascitur, idque quod ex prima conflictione causarum nascitur est status», cum e prima conflictione, in qua causa consistit, plura nascantur quae ad statum et causam faciunt, ut cum signa ex quibus coniectura capitur afferuntur, cum testes in medium adducuntur, cum leges recitantur, cum de legibus pugnatur, et huiusmodi alia, quae non modo conflictionem sequuntur, sed absque iis conflictio esse nequeat. Age, consideremus rem maxime similem, militarem conflictum, non sonum, ut Quintilianus. Si quis dixerit militarem conflictum esse id quod existit ex militum certamine manibusque consertis, primum nec rem ipsam distincte explicabit, nec convertere alterum in alterum tam aequa reciprocatione poterit, ut recte dicatur: «id quod ex militum certamine manibusque consertis existit conflictus militaris est»; neque enim ex militum certamine manuumque consertione solus conflictus existit, sed caedes, mutilationes, percussiones, vulnera, fuga, victoria. Itaque cum haec audiuntur, quod quid potissimum intelligere habeatur incertum sit, distrahetur huc atque illuc animus rapieturque in plura atque diversa. At si dixero «conf1ictum mi1itarem esse militum manum conserentium certamen», statim genus apparebit, idest certamen; omnis enim conflictus certamen est, at non contra certamen

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corrisponde all’espressione che lo definisce, sicché si equivalgono, in modo da potersi adoperare alternativamente, se è vero che anche l’animale mortale provvisto di ragione è l’uomo. L’equivalenza non si verifica quando si dice «l’uomo è “ciò” che è composto di anima e di corpo», e «“ciò” che è composto di anima e di corpo è l’uomo», potendo essere uno sparviere, un pesce, un cavallo, un’ape, un olmo, un cavolo, una vite, un ligustro, esseri che, essendo animati, sono composti di anima e di corpo. Pertanto, se diciamo che la «constitutio è il primo scontro processuale nato dalla contestazione dell’accusa», la definizione e il concetto definito si accordano fra loro così bene, che si possono scambiare con pari e perfetto accordo, giacché si dirà con altrettanta chiarezza: «il primo scontro processuale è la determinazione che nasce dalla contestazione dell’accusa». 24. Sarà viceversa troppo confusa la definizione, e non parimenti consona con l’oggetto definito, se diremo, come vuole Quintiliano, che lo «status è quello che nasce dal primo scontro processuale» e «ciò che nasce dal primo scontro processuale, è lo status», in quanto dal primo scontro, in cui consiste un processo, nascono più cose che riguardano lo status e il processo, come quando si adducono indizi da cui trarre congetture, quando si presentano testimoni, si citano leggi, sorgono contrasti sull’interpretazione delle leggi, e nascono altre cose del genere, che non solamente sono conseguenza dello scontro, ma senza le quali nemmeno lo scontro può esistere. Avanti, consideriamo una circostanza molto simile: lo scontro militare, non il suono, cioè l’esempio che fa Quintiliano. Se uno dicesse che lo scontro militare è ciò che deriva dalla contesa fra i soldati e dal venire alle mani, prima di tutto non spiegherebbe con chiarezza il concetto, né potrebbe scambiare l’uno con l’altro, con perfetta equivalenza, da potersi rettamente dire che ciò che deriva dalla contesa fra i soldati e dal venire alle mani è uno scontro militare, perché dalla contesa fra i soldati e dal venire alle mani non deriva solo lo scontro, ma derivano le stragi, le mutilazioni, le botte, le ferite, la fuga, la vittoria. Perciò, quando si sentono espressioni come queste, essendoci il dubbio circa gli elementi cui si debba attribuire maggiore importanza, l’animo sarà tirato ora da una parte, ora dall’altra, e si lascerà trarre a pensieri molteplici e diversi. Ma se dirò che lo scontro militare è una contesa fra i soldati venuti alle mani, sarà subito evidente il genere, cioè la contesa, essendo ogni scontro una contesa. Viceversa, non ogni contesa è uno scon169

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omne conflictus est; nam et puellae certant de forma et reges de magnificentia. Cum addo «manum conserentium», spetiem differentiamque sic exprimo, ut nihil dubium, nihil in confuso relinquatur licebitque magno utrinque consensu convertere: mi1itum manum conserentium certamen conflictum esse militarem ac militarem conflictum conserentium manum militum certamen esse. 25. Illud igitur inter Ciceronis Quintilianique definitionem interest, quod inter has quas modo posui militaris conflictus definitiones; ac si loqui vera volumus, altera, idest ciceroniana, est philosophi rem explicantis atque ante oculos ponentis, altera eius qui id potius quaerere videatur, ut qui audiunt caecutiant magis quam ut recte videant. Quoniam igitur Quintilianus ipse recte quidem sensisse, parum tamen elocutos putat qui sic statum definiere, videte, obsecro, uter ipsorum rem eloquatur. Mihi quidem Cicero eloqui rem et explicare, Quintilianus vero balbutire quodammodo (tanti viri pace dixerim) videtur. Poteram multa quae de ratione definiendi a doctis viris traduntur hunc in locum conferre, quae non duxi esse necessaria, contentus paucis his ostendisse Ciceronem bene, expresse, caute, plane statum definisse. Quam nostram defensionem tantum ab accusando Quintiliano abesse volumus, ut videri velimus non adversus Quintilianum causam suscepisse, sed ut qui potius Ciceronem a grammaticorum qui nunc vivunt rabidis morsibus liberare studeremus. Tu vero, Herrice, vicem redde et quam adversus grammaticos bilem paulo ante conceperas meo etiam rogatu evome, aut, si te capitis fortasse gravat abscessus, Elisio nostro provintiam hanc delega. HERRICUS. Quin potius, quando in Virgilium quoque dentes exacuere et me tussis male habet, maximi Poetae studiosissimus poeticae Elisius patrocinium suscipiat. Quod te, Elisi suavissime, per Antonii nostri Manes, quando qua te maiore obtestatione cogam non habeo, oro atque obtestor. 26. ELISIUS. Et poterat Andreas et sponte etiam debebat provintiam hanc pro Virgilio suo suscipere. Quis enim Andrea Virgilii studiosior ac dignitatis excellentiaeque carminis atque operis eius inspector acutior?

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tro: le fanciulle, infatti, contendono in bellezza ed i re in magnificenza. Quando aggiungo «venuti alle mani», esprimo la differenza specifica, in maniera che nulla resti di incerto o confuso, e lo scambio fra i termini potrà avvenire con grande accordo da entrambe le parti: «la contesa fra i soldati venuti alle mani è uno scontro militare» e «lo scontro militare è una contesa fra i soldati venuti alle mani». 25. Pertanto, tra la definizione di Cicerone e quella di Quintiliano vi è la stessa differenza che passa tra queste due definizioni dello scontro militare, che or ora ho formulate. E se vogliamo dire la verità, l’una, cioè quella di Cicerone, è del filosofo che esplicita il concetto e te lo pone sotto gli occhi, l’altra di uno che sembra cercare come oscurar la vista, piuttosto che schiarirla perfettamente a chi vuol vederci bene. E poiché Quintiliano stesso ritiene che quelli che così definirono lo status abbiano pensato correttamente, ma si siano espressi poco bene, vi prego di vedere quale dei due tratti bene l’argomento. A me, in verità, sembra che Cicerone lo tratti e lo spieghi bene, mentre Quintiliano – se lo faccia pur dire – in certo qual modo balbetti. Avrei potuto, a tal proposito, riportare molti pensieri ricavati dagli autori sul metodo della definizione, ma non l’ho ritenuto necessario, accontentandomi di aver dimostrato in breve che la definizione ciceroniana del termine status è perfetta, efficace, attenta e limpida. Ma vogliamo che questa nostra difesa sia ben altro da un’accusa nei confronti di Quintiliano; sia chiaro pertanto che non abbiamo intentato un processo a suo carico, ma abbiamo cercato piuttosto di liberar Cicerone dai morsi rabbiosi dei grammatici contemporanei. Tu però, Errico, in contraccambio, e anche perché te lo chiedo io, vomita la bile accumulata poco fa contro i grammatici, oppure se per caso ti opprime il dolor di testa, delega a questo compito l’amico Elisio. ERRICO. Anzi, poiché anche contro Virgilio hanno aguzzato i denti, tocca proprio ad Elisio assumere il suo patrocinio, essendo lui fra i massimi studiosi dell’arte del sommo Poeta, ed essendo io infastidito dalla tosse. E ti prego di farlo, carissimo Elisio, supplicandoti in memoria del nostro Antonio, non essendoci altra supplica maggiore per farti sentire obbligato. 26. ELISIO. Non solo avrebbe potuto, ma avrebbe dovuto assumersi Andrea questo compito, anche spontaneamente, a favore del suo Virgilio. Difatti, chi più di Andrea si è dedicato allo studio di Virgilio, e chi più di lui ha indagato la superiore bellezza della sua poesia e dell’opera 171

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Sed me vel obtestatio ad hoc impellit tua, vel quod abunde multa memini quae de Virgilii laudibus dicere solebat Antonius, cuius memoriam hospiti huic ut siculo, quem esse siculum ornatus ipse indicat, arbitror quamgratissimam. Coeterum Andreas et quae a me referentur locupletare rationibus poterit et tanquam iudex adversus virgiliocarpos sedere; qui magis enim dicere virgiliomastigas liceat? Atque hinc potissimum incipiam, de quo me paulo ante Claudianus ammonuit; cuius versus sunt de monte Aetna: Nunc movet indigenas nimbos piceaque gravatum Foedat nube diem, nunc montibus astra lacessit Terrificis damnisque suis incendia nutrit.

Virgilii sunt: Portus ab accessu ventorum immotus et ingens Ipse, sed horrificis iusta tonat Aetna ruinis; Interdumque atram prorumpit ad aethera nubem Turbine fumantem piceo et candente favilla Attollitque globos flammarum et sidera lambit. Interdum scopulos avulsaque viscera montis Erigit eructans liquefactaque saxa sub auras Cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo.

27. Hos Favorinum philosophum dixisse aliquando Gellius scribit a Virgilio inchoatos magis quam factos, quod absolvi, quando mors praeverterat, nequiissent. Et Favorinus quidem ea verecundia usus videtur, ut excusasse magis quam incusasse Virgilium videri possit, quem Antonius non poterat de moderatione hac non laudare. Coeterum non omnium esse de liniamentis, inumbrationibus artificioque poetarum iudicium ferre, quae praeterquam a poetis ipsis vix cognoscerentur; quod in pittura quoque contingit, in qua multa sunt quae nisi summi etiam artifices non videant. Aetnae montis naturam id consilii non fuisse sibi Virgilius ipse praesefert, ut vellet pro assumpta et quodammodo destinata materia

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sua? Ma a far ciò mi ha spinto sia la preghiera che mi hai rivolta, sia il fatto di aver io molti ricordi di quello che Antonio era solito dire in lode di Virgilio; e questo ricordo penso che riuscirà oltremodo gradito a questo forestiero, essendo lui siciliano, e che provenga dalla Sicilia lo dimostra il suo stesso abbigliamento. Del resto Andrea potrà arricchire di considerazioni la mia trattazione, e sedere come giudice contro i «Virgiliocarpi»;101 come meglio, infatti, si potrebbero chiamare i «Virgiliomastigi». E in primo luogo incomincerò da quel punto, al quale, poco fa, mi ha richiamato il testo di Claudiano.102 Sono questi i suoi versi sul monte Etna: Or dal suo seno muove i nembi e coprendo di nera nube la luce turba del giorno, ora gli astri ferisce con colpi immani e rinforza con i suoi danni gli incendi.

Ed ecco quelli di Virgilio: Il porto, dall’assalto dei venti protetto ed immenso, si sta; ma l’Etna accanto risuona di orrende ruine, all’etere lanciando talora una nuvola oscura di turbinosa pece fumante e di ardenti faville, pur sollevando globi di fiamme che sfioran le stelle; talora rocce e viscere al monte strappate proietta eruttando, ed addensa nell’aer liquefatti macigni con boati, e dal fondo più fondo li fa ribollire.103

27. Gellio scrive che il filosofo Favorino affermò, una volta, che Virgilio aveva abbozzato questi versi più che composti,104 non avendo potuto rifinirli perché sopraggiunta la morte. E sembra davvero che Favorino abbia tale riguardo, dando l’impressione di voler scusare il Poeta, più che accusarlo; per cui Antonio non poteva non approvarlo per la sua moderazione. Del resto, non è da tutti addurre un giudizio sugli abbozzi, sulle ombreggiature e sull’astuzia artistica dei poeti, cose queste che sarebbero appena riconoscibili da parte dello stesso poeta; come avviene anche nella pittura, in cui vi sono molte cose che non sono in grado di vedere se non solamente gli artisti, quelli sommi anzi. Virgilio stesso mostra di non essersi proposta la descrizione naturalistica dell’Etna, come 173

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describere, nec rei causas exquirit, ut Claudianus, nec spumantis materiae flumina ostendere vult, ut Pindarus; sed cum describere portum Aeneae ore coepisset dixissetque «ab accessu ventorum immotum et ingentem ipsum» quidem, subdidit rem maxime admirabilem adeoque monstrosam, cuius Aeneas ipse memor factus esset, ut a portus descriptione rei ipsius miraculo averteretur. «Ipse», inquit, «portus ingens» quidem, hoc est navium plurimarum capax, sed visu, sed auditu mirabile est Aetnam montem terrificis iusta ruinis tonare; qua commotus ammiratione atque a portu aversus, in illa explicanda primum ab auditu coepit. Videtis artificiosi poetae prudens consilium, quod in ammirabili re enarranda tractum se ammiratione ipsa ab initio statim ostendit? Audire est, inquit, cum nulli corporum videantur conflictus, e quibus soni fiunt, non sonitum modo, ac si parum esset sonitum dicere, sed tonitrum ex horrificis montis eius ruinis. Quae in aere maximo cum terrore fierent, ea dixit sub terris fieri; simul cum rei miraculo causam quoque leviter attingit; nam neque decebat Aeneam causas incendii atque fragoris illius exactius quaerere aut aperire. 28. Tantus autem fragor nisi e fractione esse non poterat, quam fractionem «ruinas» nominans ostendit. Cum etiam dicit «tonat», montem confragosum innuit; namque conflictus illi et tanti sub terris fragores nisi in concavo et cavernoso fieri nequeunt, easque conflictiones ventorum atque ignium in cavernis esse dicit, ut confligentium nubium tonitrua imitentur. Singulis verbis rem auditu mirabilem facit: quod «iusta», quod «tonat», quod «ruinis», et quidem «horrificis», cum horror absque membrorum concussione animique consternatione non contingat. Dehinc cum auditui satisfecisset, transit ad visum, aliquanto longius in parte hac immoratus, ut per hunc sensum rem admirabiliorem redderet, quod videndo quam audiendo apparere plura soleant. Utque audientium animos magis ac magis rei miraculo afficeret, non secernit ea quae noctu quaeve interdiu viderentur, ut Pindarus. Dicit: «interdum», idest nunc

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argomento in certo qual modo specifico; non ricerca infatti le cause del fenomeno, come fa Claudiano; né, al pari di Pindaro,105 intende far vedere il flusso spumeggiante della lava. Ma, avendo cominciato a descrivere, per bocca di Enea, il porto, dopo aver detto che esso era riparato dai venti ed enorme, aggiunse un particolare di gran meraviglia e così straordinario nella memoria di Enea, distolto per via dello spettacolo dalla descrizione che stava facendo. Il porto, egli dice, è grande davvero, capace, cioè, di contenere moltissime navi, eppure è un fatto straordinario, per la vista e per l’udito, che il monte Etna, lì vicino, rimbombi per la terrificante catastrofe; e che lui, preso da questa meraviglia e distoltosi dal porto, incominci nell’esposizione dall’udito. Vedete la scelta ponderata dell’ingegnoso poeta, il quale, volendo narrare un fenomeno meraviglioso, si rivela subito attratto, fin dal principio, dalla maraviglia stessa? «È possibile udire» egli dice, perché non si vede nessun urto di corpi che producano il suono; e non solamente il rumore, come se dire «rumore» fosse poco,106 ma il tuono, prodotto dai precipizi terrificanti di quel monte. E si espresse come se si verificassero sotterra quei fenomeni che con grandissimo terrore si verificano nel cielo. Accenna appena anche alla causa, insieme con la meraviglia del fenomeno, perché non era il caso che Enea indagasse e con troppa precisione, o scoprisse le cause di quell’incendio e di quel fragore. 28. Ma così gran fragore non poteva non essere scaturito se non da una frana, ed egli indica la frana quando parla del crollo. Quando aggiunge tonat accenna al fragore che fa il monte, poiché quegli urti e quei così grandi fragori sotto terra non possono verificarsi se non in luogo concavo e cavernoso; e dice che quello scontrarsi dei venti e del fuoco si verifica nelle caverne, a somiglianza del tuonar delle nubi quando cozzano tra loro. Con ciascuna parola egli rende il fenomeno meraviglioso a udirsi, dicendo iuxta, poi tonat, poi ruinis e, per giunta, horrificis, poiché se non ci sono scotimento fisico e intima costernazione non c’è orrore. Quindi, dopo aver soddisfatto l’udito, passa alla vista, soffermandosi un po’ più a lungo su questo tema, per rendere, mediante il senso visivo, più meraviglioso il fenomeno, giacché è maggiore il numero dei tratti fenomenici che generalmente si manifestano alla vista, che non all’udito. E per colmare sempre più di meraviglia l’animo degli ascoltatori, non fa alcuna distinzione fra le cose che si vedrebbero di notte e quelle che si vedrebbero di giorno, come invece fa Pindaro. Dice interdum, cioè «ora 175

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hoc nunc illud, dum non vult diem a nocte secernere, «atram prorumpit ad aethera nubem». Videtis ut a se non recedit: dixit «tonat», dicit «nubem»; tonare enim et nubescere in aere contingit. Cernitis ut rem effert, cum non «fumum», sed «nubem», et quidem «atram», et «prorumpit», quod violentum verbum est, et «aethera» potius quam «aerem», ut nimium impetum absolveret. «Fumantem» non ita quidem veritatem velat, ut non suis aliquando nominibus rem exprimat; fumi enim ex aspiratione ignea, non nubes exurgunt. «Turbine piceo» et impetum et colorem non sine quadam animi commotione designat; est enim turbo ventus et tortuosus et violentus, et fortasse respexit turbinis ipsius glomerationem; ad haec «piceus» color in nubibus terrificus est. Duo haec simul coniunxit, ut rei miraculum augeret. 29. Nec non flammas, fumos, lucem, tenebras, favillas simul miscet et «turbinem piceum» et «favillam candentem»; quid amplius? «globos» etiam «flammarum attollit»; et quod satis hoc non videretur, «lambit» etiam «sidera», ut quo ultra prodiret non haberet. Non possum primo loco non magnopere Gellium admirari, vel potius ridere, qui Virgilium arguat quod dixerit «fumantem turbine piceo» et «favilla candente», cum nec fumare soleant, ut ipse dicit, nec atra esse quae sunt candentia, nisi si pervulgate dixit et improprie «candente» pro «fervente», non pro «ignea» et «relucenti», quod «candens» est a «candore» dictum, non a «calore». O bone Gelli, cum Noctis istas Atticas scriberes, non potuisti non aliquando dormitare; ignorabas an parum animadvertebas antiquissimum et latinissimum hunc loquendi morem Virgilio etiam familiarissimum? Neque enim dixit «fumantem candente favilla», sed «nubem candente favilla», ut «puella forma adeo venusta» et «magno vir ingenio» et quod in loco maxime simili legitur: Ipse Quirinali lituo parvaque sedebat Succinctus trabea;

atque ut ibi non «succinctus Quirinali lituo», sed «succinctus parva trabea», quirinalemque tenens seu gestans lituum, sic neque hic «nubem

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questo, ora quello», senza distinguere giorno e notte, atram prorumpit ad aethera nubem, «proietta la nube fino all’alta volta del cielo». Osservate com’è coerente: prima ha detto tonat, poi dice nubem, poiché il tuono come il rannuvolamento avvengono nell’atmosfera. Guardate come espone il fenomeno: non dice, infatti, fumum, ma nubem, e, per dippiù, atram, e prorumpit, verbo che esprime la violenza, e aethera piuttosto che aerem, per rappresentare perfettamente un impeto eccezionale. Il fumantem non nasconde certo il fenomeno reale al punto da non esprimere la cosa con parole appropriate, perché dall’esalazione ignea si sollevano i fumi, non le nubi. Con l’espressione turbine piceo connota e l’impeto e il colore, non senza una certa emozione, perché il turbine è un vento vorticoso e violento, e, forse, egli ripensò proprio all’addensarsi107 del turbine. Inoltre il color della pece è, nelle nubi, quello che atterrisce. Egli collegò le due cose per far più grande la meraviglia. 29. E non mancò di mescolare insieme le fiamme, i fumi, la luce, le tenebre, le faville e il turbine di pece, e infi ne le scintille incandescenti. Che più? Fa andare su nel cielo «globi di fiamme» e non sembrandogli abbastanza aggiunge lambit sidera, per indicare il limite oltre il quale i globi di fuoco non potevano più andare. Non posso, anzitutto, non meravigliarmi molto di Gellio, o, piuttosto, non ridere dell’accusa ch’egli rivolge a Virgilio, per aver detto fumantem turbine piceo e favilla candente,108 perché, com’egli afferma, le cose incandescenti di solito né fumano né sono atre, a meno che Virgilio non abbia adoperato, con vezzo comune ed improprio, candente per fervente non per ignea e relucenti, giacché candens deriva da candor non da calor.109 Caro Gellio, scrivendo queste tue Notti Attiche, non potesti fare a meno di dormicchiare110 talvolta. Non sapevi che questa antichissima e purissima forma idiomatica era anche molto familiare111 a Virgilio? Infatti, egli non disse fumantem candente favilla ma nubem candente favilla, come «fanciulla dalla presenza così graziosa» e «uomo dal grande ingegno», e come si legge in un passo molto simile: Egli sedea del lituo sacro a Quirino, e d’un corto mantello vestito.112

E come lì non vuol dire «vestito della cetra sacra a Quirino» ma «vestito d’un corto mantello», così qui non vuol dire «una nube fumante 177

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fumantem favilla candente», sed «fumantem turbine piceo» et emittentem seu spargentem atque efflantem simul candentem favillam. Expressit autem quod fieri saepissime in aere videmus, ut e nigerrimis nubibus post tonitrum erumpant fulgura et coruscationes, videaturque interdum coelum dehiscere flammasque evomere. Dici non potest quam sibi undique in eorum quae fiunt in aere similitudine constet. 30. Solebat irridere Antonius qui Virgilium dicerent voluisse montis Aetnae flagrantiam ad Pindari imitationem exequi eosque censebat et caecutire et delirare, nec Favorinum sed Fabarinun naso suspendere, cum nemo tam aversi aut parvi esset ingenii, qui non palam videret Virgilium se totum a Pindarica enarratione avertisse, ut nec verbis nec translatione, qua ille utitur parte aliqua, similis esse vellet. Etenim Pindarus ad fontium, fluminum, fluctuum similitudinem rem omnem exequitur, amnes in incendii enarratione imitatus; at noster, nulla huiusmodi similitudine usus, rebus ipsis inhaerens et, quam potest et Aetnae narrantis dignitas patitur, verbis explicans, ab ipso igne et a nubibus et ab iis quae in aere fiunt non recedit. Et Pindarus quidem solum fluxum et scaturiginem habet, quam in aquis imitetur, Virgilius omnia pro materia proque suscepta explicatione a rebus ipsis, non aliunde, sibi dicenda atque ostendenda assumit. Viderique Virgilius potest parum hac in parte Pindarum probavisse, qui dum se totum ad amnes, ad fluctus, ad scaturiginem vertit, eructationem ipsam quaeque inter erumpendum eructandumque contingerent inexpresse leviterque attigerit, nec monstrum illud suum tum auditu tum visu mirabile plene absolverit. Referam Pindari verba a Gellio ipso conversa. Sane eructantur inaccessi ignis purissimi ex imis fontes; flumina vero interdiu quidem inundant fluctum ferventem fumi. At per noctes punicea proglomerata flamma ad profundum ponti fert solum, cum strepitu illa Vulcani fluenta serpentia emittit saevissima, monstrum profecto tum visu, tum auditu mirabile.

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di faville incandescenti» ma «fumante di negra pece», e che emetteva o spargeva e insieme emanava faville incandescenti. Descrisse insomma quel che, molto spesso, vediamo accadere nell’aria, quando, dopo il tuono, prorompono dalle nerissime nubi folgori e bagliori, e, talora, sembra che il cielo si squarci e vomiti fiamme. Non si può dire quanto egli per ogni verso sia coerente nella rappresentazione dei fenomeni atmosferici. 30. Era solito Antonio prendersi gioco di coloro per i quali Virgilio avrebbe inteso imitare Pindaro nel descrivere l’eruzione dell’Etna, e riteneva che essi fossero miopi e pazzi, e non lo chiamava Favorino quando lo sbeffeggiava, ma Fabarino,113 perché non v’era uomo d’ingegno così stravolto e maligno che non vedesse chiaramente come Virgilio si fosse discostato del tutto dalla descrizione di Pindaro, e non volesse assomigliargli in nessun modo, né nello stile, né nelle figure di cui Pindaro in parte si serve. E infatti Pindaro, rappresentando i fiumi nella sua narrazione dell’incendio, svolge tutto l’argomento ricorrendo alle similitudini delle fonti, dei fiumi, dei frutti; il nostro, invece, senza far uso di similitudini del genere, aderisce, nella misura in cui può farlo e glielo consente la personalità di Enea che sta raccontando, alla realtà, sviluppandola in un discorso, senza discostarsi dal fuoco, dalle nubi e dai fenomeni dell’atmosfera. E precisamente Pindaro nel rappresentare le acque tratta soltanto del loro «flusso» e della loro «scaturigine»; Virgilio si assume l’onere di dire e rappresentare tutto in relazione al soggetto e allo svolgimento che si è proposto di darne partendo dalla realtà, non da altro. Potrebbe sembrare anche che Virgilio in questo punto abbia poco apprezzato Pindaro, il quale, tutto rivolto ai fiumi, ai flutti, alle sorgenti, non aveva toccato espressamente e profondamente dell’eruzione114 in sé e di quei fenomeni che si verificano durante il dirompere dell’eruzione; e non aveva sviluppato appieno la descrizione di quel suo spettacolo prodigioso, oggetto di meraviglia sia all’udito, sia alla vista. Riporterò le parole di Pindaro, tradotte dallo stesso Gellio: Certo che fonti inaccessibili di purissimo fuoco vengono eruttate dalle profondità. Ma è anche vero che come fiumi talora inondano versando il flutto ribollente di fumo. Ma durante la notte la fiamma incandescente addensandosi trascina la terra nel profondo del mare, quando con fragore caccia fuori quei terribili rivi serpentini del Vulcano, cosa portentosa certamente a vedersi, meravigliosa a udirsi.115 179

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31. At Virgilius et aures et oculos et animum admiratione implet, cum montem ‘tonare’ ait et e terrae penetralibus «atras nubes prorumpere, fumare piceum turbinem, volitare candentem favillam, attolli globos flammarum»; quid amplius? «lambere» etiam «sidera», et tamen a rei natura non recedit, siquidem eructatio illa talis est, praeterquam quod sidera non lambit. Sed haec exuperantia poetarum est propria et haud scio an alibi magis quam hic deceat. Ac tanquam minora haec quae dicta sunt essent, quippe quae frequenter contingant, ea subdit quae ut maiora et rarius contingerent et longe monstrosiora essent. Itaque et «scopulos erigit» et «avulsa montis viscera eruptat», et «saxa sub auras glomerat» et quidem «liquefacta» et «cum gemitu». Ac ne quid quod movere admirationem posset praetermitteret, quid ultimo loco ponit? «fundoque exaestuat imo»; quod cum oculis exponere non posset, animis existimandum permisit. Quid hoc virgiliano monstro absolutius? et tamen docet glomeratus eos fieri non posse nisi vento igneque intus aestuante. Ac Pindaro quidem dare potest veniam lyricum carmen. At Virgilio implenda erat tuba illa heroica et magno personandum ore, neque ut illi succinendum qui a lyra sua non ita longe recessit. Quocirca noster Heros tubam sic implet ut monstrum pindaricum per tonitrum, ruinas, turbinem, picem, candentem favillam, erectos scopulos, avulsa viscera, saxa liquefacta sub auras ad sidera usque intonet et aures, oculos, animos admiratione simul atque horrore compleat. 32. «Tonat Aetna ruinis»: coepit Virgilius a tonitru, in quo Pindarus obmutescit; post etiam tempus nullum secernit, tum ut rem admirabiliorem faceret tum ut qualis res ipsa esset exprimeret; neque enim noctu solum flammarum illi globi cernuntur, sed etiam interdiu, quotiens et aer est nubilus et cacumen montis exanhelatis incendii fumigationibus caligat atque offunditur. An non die medio, cum coelum maxime nubilum est, videntur coruscationes et mediis e nubibus ignes emissi? quod Poeta noster sentiens, non ante dixit «candente favilla» quam praemisit «turbine piceo», ne a rerum natura recederet. Ad haec non nisi post mul-

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31. Virgilio invece riempie di meraviglia gli orecchi, gli occhi e l’anima, quando dice che il monte tuona e che atre nubi vengono proiettate dai penetrali della terra, che emana fumo il turbine di pece, che volteggiano faville incandescenti, che globi di fiamme s’innalzano; che più? che lambiscono anche le stelle. E tuttavia non si allontana dalla realtà, poiché quella eruzione è proprio così, tranne il fatto che non lambisce le stelle. Ma questa prevaricazione116 è propria dei poeti, e non so in quale occasione si convenga più che in questa. E, come se queste manifestazioni particolari fossero di minore importanza per il fatto che si presentano ordinariamente, ne aggiunge altre che, essendo di maggior rilievo, e presentandosi più di rado, sarebbero anche molto più straordinarie. Perciò «innalza scogli», «erutta, strappandole, le viscere del monte», «agglomera sassi nell’aria» e, per giunta, «liquefatti» «con un gemito». E, per non trascurar nulla che potesse destare ammirazione, che cosa inserisce per ultimo? «si riversa bollendo dall’estremo abisso», ma non potendo porre innanzi agli occhi un fatto come questo, lo affidò all’immaginazione. Che v’è di più completo di questo portentoso fenomeno, com’è descritto da Virgilio? e nondimeno aggiunge il particolare che quelle agglomerazioni117 non potrebbero verificarsi se non col vento e col fuoco che all’interno ribollisce. Certo che Pindaro può esser scusato, per essere i suoi dei versi lirici. Ma Virgilio doveva dar fiato alla sua tromba eroica e farla risuonare a gran voce, e non cantando come uno che non si discosti granché dalla lirica.118 Perciò il nostro Eroe119 dà fiato alla tromba, in modo che lo spettacolo portentoso concepito da Pindaro mediante scoppi, schianti, turbini, pece, faville incandescenti, rocce che volano, viscere divelte, pietre liquefatte nell’aria, raggiunga col suo fragore le stelle, e riempia gli orecchi, gli occhi e l’animo di meraviglia e di orrore insieme. 32. «L’Etna rimbomba con i suoi schianti». Virgilio comincia dal tuono, del quale Pindaro tace; poi non distingue per nulla le fasi, sia per rendere maggiore la meraviglia, sia per esprimere direttamente la realtà; e, difatti, quei globi di fiamme non spuntano solamente di notte, ma anche durante il giorno, ogni qual volta l’atmosfera è piena di nuvole e la cima del monte si offusca di caligine a causa dei fumi120 che emanano dall’incendio. Non si vedono forse spuntare dalle nubi lampi e fiamme in pieno mezzogiorno, quando il cielo è molto nuvoloso? Accorgendosi di questo fenomeno il nostro Poeta non disse prima «d’incandescente favilla», ma premise «d’un turbine nero di pece», per non discostarsi dalla realtà. Inol181

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tos annos contingit amnes illos pindaricos fluere, cum virgiliana tonitrua fragoresque et fumi picei et prorumpentes in coelum nubes favillaeque frequentiores contingant, praesertim flante aut impendente austro. Ac nihilominus post «liquescere saxa» et «avelli montis viscera ostendit», adeo nihil prorsus omittit, videturquc noster Maro rem ipsam et loci situm contemplatus, siquidem cacumen montis, qua tanta fumigatio emittitur, hiatum habet profundissimum ac late amplum, quem dixerunt craterem, hodie plerique os vocant, exesis undique atque exustis rupibus. 33. Quocirca non uti e fontibus fluere ignes possunt, sed materia ipsa vi ventorum incensa et diutius intra cavernas exagitata tandem evomitur magnoque in aerem impetu effertur, post in partem qua ventus inclinat decidens, igne liquefatta defluere incipit. Unde alibi ut rei huius peritus dixerat: Vidimus undantem ruptis fornacibus Aetnam Flammarumque globos liquefactaque volvere saxa.

Et hic vere ac naturaliter dicit: Interdum scopulos avulsaque viscera montis Erigit eructans liquefactaque saxa sub auras Cum gemitu glomerat.

Prudentissime omnia: nam «interdum», quia non semper; et «cum gemitu», quia tanta ebullitio et pugna illa intra cavernas ventorumque ac concepti ignis violentus ac praeceps exitus absque ingenti fragore fieri nequit; et «erigit eructans», quia ruptis caminis effractisque, ut ita dixerim, claustris, igne, vento, vaporibus, quaecunque obviam facta sunt in altum tolluntur; et cum dicit «glomerat», ostendit pugnam confligentium corporum; et cum dicit «viscera», et «liquefacta» et «avulsa», designat tum ingentissimam vim ventorum, tum quod ignis est excoquere ac liquefacere lapides, tum quod materia ipsa monte continetur atque illic generatur.

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tre, non accade se non passati molti anni che i fiumi di cui parla Pindaro scorrano, mentre il fenomeno dei tuoni di cui parla Virgilio, dei fragori, dei fumi color pece e delle nubi che si proiettano in cielo con faville si verifica con una certa frequenza, specie quando soffia o incombe l’austro. E nondimeno, ti fa vedere, dopo, la pietra liquefatta e le viscere del monte divelte, senza tralasciare proprio nulla. E sembra che il nostro Marone abbia assistito realmente al fenomeno ed esaminato la conformazione del luogo, poiché la cima del monte, dalla quale si sprigiona tutto quel fumo, ha una voragine profondissima e immensa, che chiamavano cratere,121 ed oggi si chiama bocca,122 tutt’intorno circondata da rocce corrose ed arse. 33. Per la qual cosa il magma infuocato non può scorrere come da fonte, ma la materia stessa, accesa dalla forza dei venti e troppo a lungo agitata nelle viscere, alla fine viene emessa, e impetuosamente si solleva in aria, piombando dove il vento la spinge, e incominciando a scorrere liquefatta dal fuoco. Per cui, in altro luogo, come uno che avesse sperimentato il fenomeno, aveva detto: Vedemmo l’Etna per le sue rotte fornaci ondeggiare ed i globi di fiamme rotolare coi liquidi sassi.123

E con vera naturalezza dice a questo punto: Alle volte le rocce e il ventre divelto del monte caccia eruttando e le pietre liquefatte avvolge nell’aria stridendo.124

Tutto con somma sagacia. Difatti dice «talora», perché non sempre ciò accade; «con uno stridore», perché una tale ebollizione125 e lotta all’interno delle caverne, e lo sprigionarsi precipitoso dei venti e del magma incandescente non possono verificarsi senza un gran fragore; dice ancora «solleva eruttando», quasi che, rotti i camini e infrante, per così dire, le chiusure, ogni cosa che si trova davanti viene sollevata dalla forza del fuoco, del vento, dei vapori. E quando dice «aggomitola», fa vedere il combattimento dei corpi che si scontrano; e quando dice «le viscere liquefatte e divelte» denota sia l’immane violenza dei venti, sia quel che fa il fuoco, che cuoce e liquefa le pietre, sia il fatto che la materia stessa sia contenuta nel monte e si generi lì dentro. 183

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34. Dicet aliquis: at fluere liquescentem illam materiam mare versus omisit. Primum nec mare versus semper fluit, nam et saepenumero in mediterranea elabitur; deinde quod cum dixisset «sub auras glomerat», visum est poetae tam defecati iudicii quodcunque adderetur minus esse; et profecto minus mirum est fluere decidentem illam liquefactamque materiam quam ex imis terrae visceribus ad auras maiore quam exprimi possit impetu ferri. Itaque hoc omisso, imo despecto ac repudiato, concludit «fundoque exaestuat imo», relinquens in audientium animis quae non cernerentur cum admiratione cogitanda atque qui intus aestus, quae ruinae, quanta etiam certamina ex iis quae oculis obiicerentur existimanda. Quin etiam ad fabulosum commentum ut mirificum, ut ad deos relatum transit; adeo nihil quod audientium animos admiratione impleat praetermittit: Fama est Enceladi semustum fulmine corpus Urgeri mole hac ingentemque insuper Aetnam Impositam ruptis flammam expirare caminis; Et fessum quotiens motet latus, intremere omnem Murmure Trinacriam et coelum suttexere fumo.

Quamobrem Pindarum non solum imitandum a se Virgilius non iudicavit, sed ab illo sic recessit ut non verba, non rei faciem, non ullam sit pindaricae descriptionis adumbrationem secutus. 35. Nunc ostendat nobis Favorinus iste tam enucleati iudicii tamque teneri auditus philosophus, ut opimam et pinguem Pindari (ut ipse cum Gellio fortasse non recte sentiebat) facundiam praetereamus, ostendat, inquam, ubinam virgiliana insolentia? ubi tumor? mihi quidem cum duobus maxime modis concipiatur tumor, re, idest sententiis, atque oratione, ubi sunt verba, ista tumentia, ubi res insolentiam parientes? At dixit «tonat Aetna» quia tonat aer et nubium conflictus tonitrum facit; «prorumpit ad aethera nubem atram»: nihil hic insolens, nihil tumidum; nam ‘prorumpo’ verbum sic violentum est, ut eo etiam historici utantur;

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34. Qualcuno avrà da dire: ma tralasciò il fatto che la materia liquefatta scorra verso il mare. Anzitutto, non sempre scorre verso il mare, perché, e avviene spesso, scivola nell’entroterra; in secondo luogo, perché, avendo detto «agglomera nell’aria», parve al poeta di gusto così raffinato126 che qualunque aggiunta fosse meno rilevante: e che certamente destasse minor meraviglia il fatto che la materia liquefatta, cadendo, scorra, anziché proiettarsi in aria dalle profonde viscere della terra con impeto maggiore di quanto si possa esprimere. Pertanto, tralasciato, anzi rifiutato e respinto questo particolare, conclude «dal fondo estremo ribollisce», lasciando alla mente degli ascoltatori immaginare, con meraviglia, quel che non si vedeva, e dedurre dalle immagini visive i bollori di dentro, gli schianti, l’enormità degli scontri. Che anzi trascorre all’invenzione favolosa, quasi ad uno scenario mirabile dovuto alla creazione divina; e così non tralascia nulla che sia capace di riempire d’ammirazione l’animo del pubblico: Fama vuol che di Encelado il corpo da fulmine colto sotto tal mole stia, semiarso, e che l’Etna maestoso pure l’opprima, e spiri la fiamma dai rotti camini; e se mai si rivolta, sfinito, sul fianco, si scuota Trinacria tutta e brontoli, il cielo coprendo di fumo.127

Per la qual cosa, Virgilio non solo non ritenne opportuno di dover imitare Pindaro, ma si discostò tanto da lui, da non tener dietro né ai suoi vocaboli, né alla sua rappresentazione del fenomeno, né ad alcun tratto della descrizione pindarica. 35. Ora, ci mostri questo Favorino, fi losofo di gusto tanto raffinato, e di così delicata sensibilità, a parte la magnifica e ricca facondia di Pindaro (come lui riteneva, forse a torto, d’accordo con Gellio), ci mostri, dico, dov’è l’astrusità di Virgilio, dove la sua gonfiezza. Essendo, a mio parere, l’eccesso concepibile in due modi soprattutto, nella sostanza, ossia nei concetti, e nell’espressione, dove sarebbero queste parole eccessive,128 dove i concetti che farebbero l’astrusità? Ma disse che «l’Etna rimbomba», giacché è l’aria che rimbomba ed è lo scontro delle nubi che produce il tuono; «proietta nell’aria una fosca nube»: niente è qui di astruso, niente di eccessivo. Difatti «proietta» è un verbo che esprime tanta violenza, da essere adoperato anche dagli storici;129 e la nube è 185

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et “nubes atra”, ut “nox atra”, “turbine piceo”: an quo verbo vel impetum vel colorem expressius potuisset efferre, cum e ‘pice’ densissimus, id est nigerrimus, halet fumus, et ‘turbo’ cum impetuosus tum etiam tortuosus atque glomerosus sit, et “favillae flammaeque” seu coruscationes e nigerrimis nubibus erumpere sic soleant, ut candere videantur? 36. Nihil a natura recedit et verba rebus accommodat; non dicet Poeta ‘globos’, cum idem verbum ab historicis non reformidetur? non dicet ‘lambere’ sidera? Atqui honestiori verbo uti non potuisset, ut levem ac fluitantem ignis, ut ita loquar, attactum significaret; nec cum dixit «candente favilla», Pindari verba «fluxum fumi calidi» significantia, nec cum «globos flammarum, ignis fluenta», crasse, duriter atque improprie interpretatus est, hoc est ῥόοον καπνοῦ αἴθωνα, et χρουνούς quippe qui ne interpretatus quidem sit, cum illum non modo imitari nollet, verum etiam hac in parte non probaret propter eas quas attulimus rationes, velletque rem ipsam ut admirabilem, ut horroris plenam verbis suis ante oculos ponere animisque infigere ac tubae suae canorem tenere. Nec, cum dixit «scopulos et viscera avulsa» et «liquefacta saxa» et «lambit sidera» et «exaestuat imo fundo», verba et strepitum verborum conquirit, rem inquam, ipsam inquam rem, suis atque heroicis verbis enarrat. Ad haec quod non semper ignis fluant amnes, «interdum» hoc fieri dixit, atque ubi fit, non diffluere e cratere illo perinde ac e fonte aut e fornace massae illius rivos, sed iactari in sublime materiam per frust[r] a, per saxa, per scopulos, quae post in terram decideret et in fecis ac liquescentis spumae modum coacta flueret. Quocirca, bone Favorine, ad philosophiam tuam redi, de sylogismo deque bonorum finibus tantum sententiam laturus, quando nec mihi satis magnus physicus videris, qui montis Aetnae naturam ignores ac poetarum figuras lineamentaque; et quid carmini conveniat, quid materiam susceptam deceat, qua ratione humilis res tollatur, qua elata prematur iudicandum pensitandumque poetis ipsis relinque.

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«fosca» come la notte è «fosca»; «d’un turbine nero di pece»: con quale vocabolo avrebbe potuto più efficacemente esprimere o l’impeto o il colore? Poiché dalla pece spira densissimo, cioè nerissimo, il fumo, e il turbine è non solo impetuoso, ma anche sinuoso e tendente a formare globi, mentre faville e fiamme, ossia bagliori, spuntano di solito da nuvoli molto neri, in modo da sembrare incandescenti. 36. Egli non si discosta in nulla dalla realtà naturale, e adatta le parole alle cose. Non potrà dire il Poeta «globi», quando gli storici non hanno ritegno ad usare lo stesso vocabolo? Non potrà dire «lambire le stelle»? Anzi non avrebbe potuto servirsi d’una parola più elegante per connotare il leggero e, per così dire, svolazzante appiccarsi130 del fuoco. E quando disse «con la favilla incandescente» non traduceva in maniera grossolana e imprecisa l’espressione di Pindaro che designava «il flusso del caldo fumo»; ma nemmeno quando disse «globi di fiamme, flussi di fuoco», cioè «flusso ardente di fumo» e «fonti»,131 dacché egli non lo traduceva neppure Pindaro, non solamente perché non voleva imitarlo, ma anche perché in questa parte, per le ragioni che abbiamo dette, non lo apprezzava, e voleva porre innanzi agli occhi e fissare nella mente il fenomeno, come meraviglioso e pieno di orrore con parole adeguate e attenersi al livello del suo canto epico. E quando dice «rocce e viscere svelte», e «pietre liquefatte», «lambisce le stelle» e «ribolle dal fondo estremo» non va a caccia di parole che abbiano uno strepito particolare, ma rappresenta il fenomeno, dico il fenomeno stesso, con parole corrispondenti al suo stile e al genere epico. Inoltre, poiché non sempre scorrono fiumi di fuoco, disse che «talora» questo avviene, e che quando avviene i rivi di quel magma non si riversano dal cratere come da una sorgente o da una fornace, ma la massa della materia viene scagliata in aria con ciottoli, pietre o macigni, per poi precipitare giù coagulandosi in forma di feccia e di schiuma. Perciò, caro Favorino. ritorna alla tua filosofia, per dare il tuo parere soltanto sul sillogismo e sui fondamenti dell’etica,132 poiché tu non mi sembri abbastanza gran fisico, non sapendo nulla sulla natura del monte Etna, sulle figure e le elementari norme della poesia; e lascia ai poeti il vaglio e la riflessione su quanto si addica ad una composizione poetica e corrisponda alla materia assunta, sul metodo da seguire per usare lo stile alto per un argomento umile e lo stile basso per un argomento elevato.

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37. Vidimus in Aenaria insula factum quod Virgilius de Aetna scribit, cum e quadam eius parte ignis erupisset centum ante annis aut paulo amplius. Nam et ad mare et sparsim per agros praeter fluxum illum magna mole lapides iacent, et in ipso litore et paulum etiam intra mare grandes eminent scopuli adeo excocti exustique ut hodie quoque appareat spumosa illa liquefactio; quin etiam pindarica fluenta lapidum sunt in spumam solutorum, non materiae continuae liquescentisque, quale liquefactum fluere aes solet. Cur autem praeter naturam cuiquam videatur ab incluso sub Aetna igne torqueri lapides, cum videamus aeneis e tormentis, quae bombardae dicuntur, tanto impetu pilas torqueri lapideas turbinesque illos piceos glomerari, tanto etiam fragore, ut ad sexaginta passuum millia exaudiantur? Hoc quod in Aenaria factum diximus legimus scriptum in monumentis Caroli Neapolitanorum regis, quo incendio etiam castellum haustum est. 38. ANDREAS. Quanquam Aenariae exemplo potes esse contentus, tamen et Vesuvii montis ruina et ager squalore obsitus ad sextum ab Neapoli lapidem hoc ipsum, quod de liquefactis igne saxis a Virgilio traditur, docere abunde potest. Est enim passim videre hic exustorum lapidum erectos cumulos, illic excussa summo e monte mirae magnitudinis saxa impune sparsa, alibi profluentis rivi lapidosos decursus, nec uno in loco saxorum strues simul congestas, ut facile appareat materiam illam omnem e lapide constare, eiectam vi vaporum atque ignium longiusque agglomeratam, quae videre cuivis in promptu est. Sed redeas ad quod, Elisi, coeperas et Macrobium adversus Aeneam a Latinis moti belli causas tanquam leves ac pueriles ridentem, ut rudem grammaticorum omnium importunissimum, ferula sua feri atque intra cancellos grammaticae redire coge audentem se quoque viris conferre. 39. ELISIUS. Recte mones. Hunc hominem Antonius cum nebulonem aliquando obiurgari sensisset: «Nimis parce, inquit, praesumptonem potius, quando nemo unquam plura sibi praesumpsit aut permisit». Quaeso, Macrobi, poetarum iudex tam sobrie, quaeso inquam, quae inter Latinos Troianosque belli causa excogitari accommodatior poterat?

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37. Abbiamo direttamente constatato che nell’isola d’Ischia accadde quel che Virgilio scrive dell’Etna, quando sgorgò la lava da un certo punto del suolo, cento anni fa o poco più.133 Difatti, sia dalla parte del mare, sia sparsi per i campi, a parte il flusso di cui si è detto, giacciono massi di gran mole, e sullo stesso lido e anche un po’ in seno al mare, spiccano grandiosi scogli,134 così arsi e bruciati, che a tutt’oggi si ha l’impressione di vedere la schiuma liquefatta:135 anzi, vi sono anche i rivi di pietre sciolte in schiuma di cui parla Pindaro, non di materia compatta e in forma liquida come scorre di solito il bronzo fuso. Perché, dunque, a qualcuno dovrebbe sembrare innaturale che dal fuoco rinchiuso sotto l’Etna vengano scagliate delle pietre, quando vediamo che dalle macchine di bronzo, dette bombarde,136 vengono scagliate con tanta veemenza palle di pietra, e che si addensano i ben noti vortici di pece con tal fragore, da essere uditi a circa sessanta miglia?137 Che sia accaduto questo nell’isola d’Ischia, è scritto nelle memorie di Carlo, re di Napoli,138 dove lo abbiamo letto; da quella eruzione fu ingoiato anche il castello. 38. ANDREA. Sebbene tu possa accontentarti dell’esempio di Ischia, tuttavia la rovina e lo squallore del territorio vesuviano, a sei miglia da Napoli, possono ben confermare il racconto che proprio a Virgilio risale, di pietre liquefatte dal fuoco. È possibile infatti vedere in forma sparsa, qui cumuli di pietre bruciate, lì massi di straordinaria grandezza staccatisi dalla cima del monte, sparsi senza arrecare più danno, altrove strisce pietrificate di lava, e non in un solo posto mucchi di sassi accumulati, tanto da far pensare che tutta quella massa consista di materiale pietroso, lanciato dalla violenza di vapori infuocati e addensatosi a una certa distanza, come ad ognuno è dato notare. Ma vorrei che ritornassi, Elisio, all’argomento di prima: bacchetta allo stesso modo Macrobio che deride139 come futili e puerili le cause della guerra ingaggiata dai Latini contro Enea, pur essendo lui rozzo e fra i grammatici il più noioso; obbligalo a tornare entro i limiti della grammatica, mentre osa mettersi alla pari dei grandi. 39. ELISIO. Giusto questo tuo invito. Antonio, visto che questo personaggio veniva qualche volta ripreso come scioperato, disse: «si direbbe piuttosto presuntuoso,140 se permetti, dal momento che nessuno è stato mai così arrogante da permettersi tante libertà». Di grazia, Macrobio, critico tanto assennato in fatto di poesia,141 di grazia, dico, fra Latini e Troiani quale più adatta causa di guerra poteva immaginarsi? Difatti, 189

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nam nec Latini per id tempus mercaturam navibus exercebant nec Aeneas piraticam, ut per causam praedocinii excitari bellum potuisset; nullae antecedebant inimicitiae et Aeneas eo consilio in latinum litus descensionem fecerat, ut in terra fato debita sedes profugis statueret. Itaque non belli, sed amicitiae potius causas quaerebat, ut qui conciliare sibi finitimorum animos studeret, missis etiam oratoribus cum muneribus. Vidit acutissimus auctor fortuitam causam, quam lippus caecutiensque grammaticus quomodo videret? Moris est classi[c]ariorum militum, ne piratarum tantum putes, saepius in continentem descendere, carnis, ut ipsi dicunt, faciendae gratia: nec solum ex hostico, sed ubi maior cogit inopia etiam ex pacato pecora abigere. Quam ob causam, ut quotidie videmus, inter socios amicosque indigne multa committuntur. Hanc occasionem, et quidem fortuitam, cum Aeneas nihil minus quam bellum quaereret, nactus Virgilius, non armentalem aut aratorium bovem, sed regii villici cervum atque in deliciis habitum et agrestibus notum vulnerat, quo facilius multitudo cogniti cicuris gratia ad tumultum concurreret Troianosque non tantum ut abactores, sed qui regias res violare ausi essent armis ulciscerentur atque e finibus pellerent quos aegerrime ferrent illic considere perindeque ut exteram atque ignotam gentem odio persequerentur. 40. Quae oportunior excogitari occasio potuit, muliere praesertim agrestes excitante, quae vim passa videri posset, cum etiam Iunonem belli causas quaerentem introduxisset? Atque haec quidem tanquam scintilla furtim elapsa, quae paulatim serpens, mox vento exorto illapsa stipulis agros, silvas, obvia simul cuncta deflagrat; quid aliud? tanquam duos e diverso mundi cardine spiritus, qui accensum ignem excitent, exuscitat: alteram e coelo delapsam, deam Iunonem scilicet, alteram Furiarum maximam, herebo excitam, cogentem buccina populos et duces vocantem in bella; proque stipula subiicitur Amata, mulier, mater, regina, importuna quidem mulier, mater indulgentissima, regina foeminarum choros solicitans; ad haec Latinus senio confectus ac vix sui iuris.

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in quel tempo, né i Latini mercanteggiavano con le navi, né Enea faceva il pirata, per cui si sarebbe potuto ingaggiare una guerra per motivi di bottino;142 non v’era alcuna inimicizia pregressa, ed Enea era sbarcato sul lido latino con l’intenzione di insediare i profughi sul territorio destinatogli dal fato. Pertanto, egli non andava cercando pretesti di guerra, ma piuttosto occasioni di amicizia, come chi, avendo anche inviati ambasciatori con doni, desiderava guadagnarsi il favore del popolo confinante. Lo scrittore vide col suo acume un motivo fortuito: avrebbe mai potuto vederla un grammatico cisposo e mezzo cieco? È costume dei marinai, e non soltanto dei pirati come potresti pensare, smontare in terraferma molto spesso per «far carne»,143 come essi dicono, e portar via il bestiame non solamente da paesi nemici, ma, quando più urge il bisogno, anche da quelli amici. Perciò, come vediamo quotidianamente, si commettono molte cose che non si dovrebbero fra alleati e amici. Cogliendo Virgilio questa opportunità, per giunta casuale, dal momento che Enea non desiderava nulla men che la guerra, fa ferire non un bove dell’armento o buono per l’aratura, ma il cervo di un fattore del re,144 prediletto e ben noto ai contadini, essendo più facile che la folla accorresse al tumulto per un animale domestico e caro, al fine di vendicarsi dei Troiani con le armi, non solo perché colpevoli di aver predato il bestiame,145 ma di aver violato con insolenza la proprietà regia, e scacciare dal proprio paese quelli che mal sopportavano vi si insediassero, pieni di odio com’erano verso quella gente sconosciuta e forestiera. 40. Quale occasione più opportuna si sarebbe potuta immaginare, specialmente che ad incitare i contadini era una donna, la quale in apparenza poteva aver subito un’offesa, dal momento che il poeta aveva introdotto anche Giunone146 a cercare pretesti di guerra? E questa occasione diventa come una scintilla furtivamente sfuggita, che a poco a poco serpeggiando, caduta nella paglia, col sopraggiungere del vento incendia i campi, i boschi e tutto ciò che trova davanti. Che altro poteva dire? Risveglia dai due opposti confini del mondo come due spiriti, che hanno il compito di ravvivare il fuoco acceso:147 l’uno, la dea Giunone discesa dal cielo, l’altro, la più grande delle Furie148 uscita dall’Erebo, che con la tromba raccoglie le popolazioni e chiama i capi alla guerra. E al posto della paglia è introdotta Amata,149 donna, madre e regina, come donna veramente funesta, come madre affettuosissima, come regina istigatrice di schiere femminili; si aggiunga a tutto questo Latino, 191

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Incensa igitur stipula, agri silvaeque exuruntur. Tela novat Atina, vomeres in enses excoquuntur, scribuntur exercitus, leguntur duces, primusque Mezentius bellum sic init ut ne mulieres quidem arma detractent. Videtis e parva fortuitaque favilla quantum incendium accenderit, ut subrigantur quidem legentium animi quotiens crines illi anguinei subriguntur! Quid hoc artificiosius, quid magis sepositum atque a vulgo abductum? Cognovit ammirabilissimam excogitatissimamque inventionem Iuvenalis cum dixit: […] caderent omnes a crinibus hydri, Surda nihil gemeret grave buccina […];

quam, si diis placet, cognoscet Macrobius, sordidae locutionis, ne dicam orationis grammaticus. 41. Quid tu, peregrine homo, de maximi poetae admirabili artificio nobilissimisque inventis te iudicem statuis, qui ne latine quidem loqui scias? «Maluissem, inquis, Maronem et in hac parte apud auctorem suum vel apud quemlibet Graecorum alium quod sequeretur habuisse[t]». Scilicet non vis fingere Virgilium, non vis optimum artificem arte sua uti artificiose. At ego maluissem te, cum latine loqui vis, Ciceronem aut quem alium e doctissimis in loquendo sequi. An tu apud Ciceronem, Salustium, Caesarem invenisti «in diggeriem concoquere», «in memoriam atque in ingenium ire», «in incrementum succrescere», «tale praesens hoc opus volo», «nativa Romani oris elegantia», «noscendorum congeriem polliceri» et mille his etiam absurdiora magisque barbara, quibus tu, ineptissime, cum sis ipse ineptissimus, uteris? Atqui, audacissime grammatice, cum fateris te sub alio ortum coelo a linguae latinae vena non adiuvari, cur de maximo deque alieno poeta tanquam praetor iudicas? Unum tamen dare tibi veniam potest, quod conviva, quod satur, quod inter rorantia pocula, quod in Saturnalibus haec proferebas. O bellissimum hominem, qui convivam iudicem, qui mensam praetorium statuas!

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sfatto dalla vecchiaia e appena padrone di sé. Accesa, dunque, la paglia, s’incendiano campi e boschi. Fa nuove armi Atina,150 i vomeri vengono sciolti per farne spade, si arruolano soldati, si scelgono i condottieri, e Mezenzio151 è il primo a dar inizio alla guerra in modo tale, che neppure le donne si rifiutano di abbracciare le armi. Vedete che grande incendio ha saputo appiccare da una piccola scintilla fortuita,152 per far davvero rabbrividire l’animo dei lettori ogni qual volta si rizzano quei capelli che sono come serpenti! C’è invenzione più artistica di questa? Che cosa c’è di più originale e straordinario? Si rese conto Giovenale153 della mirabile e squisitissima invenzione, quando disse: […] dalla chioma cadrebbero tutti i serpenti, e fatta sorda l’epica tromba non squillerebbe […];

Macrobio, grammatico dalla parlata, non dirò dalla prosa,154 squallida, se piaccia a Dio, dovrà imparare a riconoscerla come tale. 41. Perché tu, straniero, ti levi a giudicare l’arte meravigliosa e le superbe creazioni di un sommo poeta, tu che non sai neppure parlare in latino? «Avrei desiderato – dici – che anche in questo caso Marone si fosse posto come modello un autore della sua propria lingua o un altro qualunque fra i greci».155 Non vuoi, evidentemente, che Virgilio crei e che un ottimo artista si serva artisticamente dell’arte sua? Ed io avrei preferito che tu, volendo parlare latino, seguissi Cicerone o qualche altro fra i più colti scrittori. O forse hai trovato in Cicerone, Sallustio, Cesare «in digeriem concoquere», «in memoriam atque in ingenium ire», «in incrementum succrescere», «tale praesens hoc opus volo», «nativa Romani oris elegantia», «noscendorum congeriem polliceri»156 e mille espressioni più ancora sconclusionate e più barbare di queste, che tu, sconclusionato qual sei, usi in modo così sconclusionato? Eppure, sfacciatissimo grammatico, che per essere nato sotto altra latitudine non hai nelle vene, come confessi tu stesso, l’ausilio della lingua latina,157 perché, vestendo i panni di un pretore, ti metti a giudicare un grandissimo poeta, per giunta straniero? Una sola cosa, tuttavia, ti può scusare, il fatto che pronunciavi queste sciocchezze durante le feste Saturnali, stando a tavola, quando eri ben sazio, in mezzo a bicchieri di vino.158 Che uomo delizioso! far diventare giudice uno che banchetta e tribunale la mensa.

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42. Sed ad imitationem quam in Marone desideras redeamus. Ciceronem si legisses, non solum latine loqui, sed recte quoque de scriptorum ingeniis deque scriptis ipsis sententiam ferre didicisses. Ait et orator et philosophus eminentissimus nostros aut melius invertisse aut invenisse a Graecis fecisse meliora. Quod si poetae cuiusquam fuit inventa ab aliis meliora facere, haec mihi laus Virgilii propria videtur. Sed neque melius invenerint nostri, neque fecerint aliorum inventa meliora; non tamen caecutientis grammatici sententiae standum est. Quonam auctore usus est Homerus in fingendis tot monstris? quem imitatus est Orpheus in commentis adeo fabulosis quem secutus est qui primus finxit Castorem Pollucemque ortos ovo? qui primus commentus est Plutonem in inferno regnare, hydram septicipitem esse, natos e serpentum dentibus armis instructos homines? Denique ab quo accepit Homerus auctore arma a Vulcano Achilli fabricata, vulneratam a Diomede Venere, perlatum utribus Ulissem et mille talia? Atqui poetarum haec non modo licentia, sed pene ars est; quin etiam ab aliis enarratas fabulas in alium atque aliam formam convertere permittitur, ne dum fingere novas liceat. 43. Sed veniamus ad alium locum videamusque quam intempestivus canis huius latratus sit: Parva metu primo, mox sese attollit in auras, Ingrediturque solo et caput intra nubila condit.

«Homerus – inquit – contentionem a parvo dixit incipere, postea ad caelum usque succrescere». Hoc idem Maro de fama, sed incongrue; neque enim aequa sunt famae contentionisque argumenta, quod contentio, etiamsi ad mutuas usque vastationes ac bella processerit, adhuc contentio est et manet ipsa quae crevit; fama vero cum in immensum prodiit, fama esse iam desinit et fit notio rei iam cognitae. Quis enim iam famam vocet cum res aliqua a terra in caelum nota sit? Deinde neque ipsam hyperbolen potuit aequare: ille coelum dixit, hic «auras et nubila». Atque, ut ab ultimo incipiamus, nesciebas, puto, grammatice, versus fa-

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42. Ma torniamo a parlare dell’imitazione che in Marone ti sembra mancare. Se tu avessi letto Cicerone, non solo avresti imparato ad esprimerti in lingua latina, ma anche a dar giudizi sul carattere degli scrittori e sulle loro opere. Dice l’altissimo oratore e fi losofo che i Latini o crearono di meglio,159 o migliorarono quel che i Greci avevano creato. Che se è proprio di un poeta imitare riscrivendo in forma migliore le creazioni altrui, a me questo parrebbe il merito che spetta a Virgilio. Ma anche se i nostri non avessero creato di meglio, e non avessero scritto migliorando le creazioni altrui, non bisogna per questo stare all’opinione di un grammatico che ci vede male. Quale autorevole modello ha seguito Omero nel creare tante meraviglie? A chi si è rifatto Orfeo nel creare tanti miti?160 Quale esempio ha seguito colui che, per primo, immaginò Castore e Polluce nati da un uovo?161 Chi per primo s’immaginò Plutone re dell’inferno, l’idra dalle sette teste,162 gli uomini venuti fuori già forniti di armi dai denti di un drago?163 Da quale autore, infine, Omero poteva apprendere che Vulcano avesse fabbricato le armi per Achille?164 che Venere fosse ferita da Diomede?165 Che Ulisse fosse stato trasportato per via degli otri,166 e mille altre cose del genere? Tuttavia questa non solo è licenza poetica, ma quasi un’arte. Anzi, è concesso trasformare le favole in versioni sempre diverse, nonché inventarne di nuove. 43. Ma veniamo ad un’altra questione, e vediamo quanto sia fuori luogo il latrato di questo cane: Piccola prima e incerta, ben presto si leva su in alto e striscia al suolo, e il capo in mezzo alle nubi nasconde.167

«Omero – sostiene lui – disse che la contesa ha un inizio modesto, poi si spinge fino a toccare il cielo»; e continua: «Questa medesima cosa dice Marone della fama, ma a sproposito. Non esiste, infatti, equivalenza fra l’incremento della discordia e quello della fama, perché la discordia, perfino quando giunge alle devastazioni reciproche e alla guerra, è sempre discordia e resta tale ancora quando cresce, mentre la fama, quando non ha più limiti, cessa di essere, cessa di essere fama per divenire conoscenza di un fatto accertato. Chi mai la chiamerebbe fama, quella di un fatto noto dalla terra al cielo? Quindi Virgilio non è riuscito ad uguagliare neppure l’iperbole, avendo Omero detto “cielo”, Virgilio “aria e nubi”».168 Orbene, per cominciare dall’ultimo punto, a mio pare195

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cere, qui non videris tribus tantum syllabis potuisse hyperbolen aequare et «caput intra sidera condit» dicere, o crassum et supinum ingenium! Atqui noluit Virgilius «intra sidera» dicere; nam, cum intelligeret famam plura saepe quae certa non essent divulgare ac vera falsis miscere et facta atque infecta nuntiare, caput eius condit «intra nubila», cum coeterum corpus videri dicat. Itaque et magnitudinem eius ostendit, cum attollit eam in auras et versari inter homines docet, cum ingredi eam solo facit et, quod multa secum ferret quae non statim cernerentur vera ne an falsa essent, intra nubila caput abscondit; etenim cum oculis nostris offusa nubes est, veras cernere rerum species nequimus. Unde ipse alibi nubem, quae mortales hebetaret sensus caligaretque oculos circum, eripit. 44. Agnoscitis singularem Maronis prudentiam, grammaticis non modo non perspectam, sed ne quidem nisi maximis poetis perspectabilem: non sunt, inquit, aequa famae contentionisque argumenta. Detur ignorantiae hominis non esse paria; sed tu mihi videris, bone Macrobi, fama quid sit non intelligere, qui dicas eam, postquam in immensum prodiit, famam esse desinere ac rei cognitae notionem esse. Quod si sit, passim Livium, Salustium, Ciceronem et rerum scriptores alios errare inveniemus, nec permissum nobis erit dicere: «fama proelii ad Cannas facti adhuc manet», nec «rerum a populo Romano gestarum fama perpetua erit», nec «Atheniensium res gestae, minores aliquando fuere quam fama feruntur», nec «famae consulendum est». Atqui scriptores famae potissimum student, et Caesar Alexanderque plura famae gratia fecisse videntur, nec temere Alexander dicebat fama bella constare. Aliud est igitur fama quam quod tu, grammatice, putas, nec fama esse desinit cum in immensum crevit efficiturque rei cognitae notio, ut tu ipse garris. Nam et Ciceronem consulem plane fuisse scimus, tamen famam consulatus eius dicimus magnam adhuc esse; et Annibalem in Africa superatum fuisse a Scipione notissimum est, tamen famam victoriae eius extare dicimus. Caesarem maximas res gessisse etiam mulierculis

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re, o grammatico, tu non sapevi comporre versi, giacché non ti accorgevi che con tre sole sillabe avrebbe potuto uguagliare l’iperbole, dicendo «il capo intra sidera nasconde», o ingegno grossolano e volgare! Ma Virgilio non voleva dire «in mezzo alle stelle». Sapendo, infatti, che la fama diffonde molte notizie non certe, e che mescola le vere con le false, e fa girare la notizia di cose avvenute e non avvenute, nasconde il suo capo «in mezzo alle nubi», dicendo che il resto del corpo è invece visibile. Pertanto ne mette in evidenza anche la vasta portata, quando la fa sollevare nell’aria, e fa intendere che si muove fra la gente quando dice che striscia al suolo; e poiché reca con sé molte cose che non si può sapere se siano vere o false, le nascose il capo «fra le nubi»; giacché, quando una nube offusca la vista, non si può vedere il vero aspetto delle cose. Per cui egli altrove fa perfino togliere la nube che ottundeva i sensi mortali e annebbiava tutt’intorno la vista.169 44. Voi sapete bene che l’eccezionale sapienza di Marone non solo non è stata riconosciuta dai grammatici, ma non può esser compresa appieno se non dai poeti, quelli sommi per dire il vero. «Non equivalgono – dice lui – i soggetti della fama e della discordia». Concediamo all’ignoranza di quest’uomo che essi non siano pari. Ma mi sembra, caro Macrobio, che tu non abbia l’idea di che cosa sia la fama, se dici che essa, dopo che si è diffusa smisuratamente, cessa di esser fama e diventa conoscenza di una notizia ben nota. Se così fosse, noi troveremmo che si sbagliano qua e là Livio, Sallustio, Cicerone ed altri storiografi, e non ci sarebbe permesso dire: «la fama della battaglia combattuta a Canne dura ancora», né «la fama delle gesta del popolo romano sarà perpetua», né «le gesta degli Ateniesi furono talvolta minori di quanto le riporti la fama», né «bisogna provvedere alla fama». Ma gli scrittori s’impegnano, soprattutto, per raggiunger la fama, e sembra che Cesare e Alessandro abbiano compiuto il più delle imprese spinti dal desiderio della fama, né a torto Alessandro diceva che le guerre hanno come loro fondamentale obiettivo la fama.170 Dunque la fama, o grammatico, è una cosa diversa da quel che tu credi; né, quando essa cresce smisuratamente, cessa di esser tale e diventa conoscenza di notizia ben nota: tutte chiacchiere. Difatti, noi sappiamo di certo che Cicerone fu console, eppure diciamo che la fama del suo consolato è ancora grande; e per quanto sia noto che Annibale, in Africa, fu vinto da Scipione,171 tuttavia diciamo che la fama della vittoria di Scipione sopravvive. Che Cesare abbia compiuto grandissime imprese 197

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cognitum est; num propterea minus dicimus rerum a Pompeio quam a Caesare gestarum famam maiorem esse, aut Alexandri famam nulla posse vetustate obliterari, licet eius facta sint cognitissima? Et quod ab occasu solis ad ortum usque Herculis labores cogniti sint, famam propterea laborum Herculis dicere non licebit? Desine igitur oblatrare, catelle, et fama quid sit, quot etiam dicatur modis, disce; nam et vetustissimarum rerum celebritas fama dicitur et quae nunc a Turcarum geruntur rege fama per orbem terrarum feruntur. Et Theodorus graecus, qui diem nuper obiit, magnam ingenii sui famam posteris reliquit; et qui nunc scribundis annalibus dant operam famae suae illorumque de quibus scribunt consulunt; et fama est gentes quasdam vagantes atque incertis sedibus vitam agere; et nescio cur pecuniae magis quam famae serviendum sit, ac si quibus aliis modis fama inter loquendum scribendumque usu venit. 45. Damnatur etiam Virgilius ab oculatissimo hoc exploratore quod immodice sit usus exemplo illo homerico de Diomedis armis; nam et de Turno ait: […] tremunt in vertice cristae Sanguineae clypeoque micantia fulmina mittit;

et alibi de Aenea: Ardet apex capiti cristisque ac vertice flamma Funditur et vastos umbo vomit aureus ignes.

Hoc – inquit – importune positum est, quod neque tum pugnaret Aeneas, sed tantum in navi veniens apparebat. Imo magis oportune non potuisset, siquidem apex ille ardere visus et Troianis obsidione laborantibus ac tantum non expugnatis castris magnos addidit animos, unde viso clypeo clamorem tollunt ad sidera spesque addita iras suscitat iaciuntque manu tela et ausoniis ducibus nedum militibus is metus iniectus, ut soli Turno fiducia non cesserit. Quin etiam Aeneas ipse, ut qui sentiret quan-

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è noto anche alle donnette; forse per questo non diciamo che la fama delle gesta di Pompeo sia maggiore di quella delle gesta di Cesare? o che la fama di Alessandro non potrebbe essere in nessun modo cancellata dal tempo, per quanto siano notissime le sue gesta? Ed essendo le fatiche d’Ercole note da occidente ad oriente, non sarà lecito dire «la fama delle fatiche di Ercole»? Smettila dunque di latrare, cagnetto, e impara che cosa sia la fama ed anche in quanti modi si possa usare il vocabolo: non solo, infatti, si chiama fama la celebrità di fatti antichissimi, ma anche quella delle recenti gesta compiute dai re dei Turchi172 e diffuse per tutto il mondo dalla fama. Così il greco Teodoro, morto poco tempo fa,173 ha lasciato ai posteri gran fama del suo ingegno; quelli che oggi si dedicano alla storiografia pensano alla fama propria e a quella di coloro di cui narra la storia; è fama che alcuni popoli siano nomadi e che trascorrano la vita senza fissa dimora; non so perché si debba attendere più al denaro che alla fama; e quante altre espressioni vi sono, in cui il vocabolo «fama» è adoperato nella oralità e nella scrittura. 45. E ancora, Virgilio viene censurato da questo scrupoloso ricercatore, perché si sarebbe servito senza moderazione dell’esempio di Omero quando parla delle armi di Diomede.174 Difatti anche di Turno dice: […] Tremarono in cima le creste di sangue e dallo scudo diffonde baleni fulminei.175

Ed altrove dice di Enea: Brilla l’elmo sul capo ed emana lampi dal sommo del cimiero e lo scudo aurei bagliori riverbera.176

«Questo – dice lui – è fuori luogo, perché allora Enea non stava combattendo, ma solamente compariva durante l’imbarco».177 Tutt’altro, la sua espressione non avrebbe potuto essere più esatta, se è vero che l’elmo visto sfavillare diede molto coraggio ai Troiani, stanchi dell’assedio, e ai quali mancava soltanto che l’accampamento fosse espugnato; per cui, alla vista dello scudo, essi levano il loro grido di guerra fino alle stelle, e aggiungendosi la speranza, si risveglia il furore, e scagliano i dardi, ed è tanto il timore infuso nei capi e nei soldati italici, che solamente Turno

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tum armis illis opis, quantum opinionis atque expectationis inesset, celsa stans in puppi, sinistra clypeum extulisse inducitur, cum primum in suorum atque hostium conspectum venit. Itaque non potuit magis oportunum tempus servari, cum suorum res tam in augusto, hostium tantus esset successus; et profecto armis illis coelo missis nec tempore magis necessario se se instruere Aeneas potuit, cum de summa rerum contendendum esset, et primus illorum aspectus necesse erat ut vim divinitus insitam et Troianis et Rutulis cum spe, metu, horrore, fiducia atque admiratione praeseferret. 46. Damnatur etiam quod importune allatis recens armis Aeneas miratur Terribilem cristis galeam flammasque vomentem.

An non divinum illud opus mirabitur? et cum illa manu tractaret versaretque inter brachia, non conciperet magnam spem, praesertim in rebus tam asperis? non animos inde sumeret, videns quantum terrorem galea illa terribilis incussura esset hosti, quae tum ipsi quoque flammas vomere videretur? Quomodo igitur expleri laeticia non potuisset, nisi iam animadvertisset quantus illorum usus adversus hostem futurus esset in proeliis, quae etiam tum sub quercu posita (neque enim temere sub quercu posita dicit, cum corona quaerna civium liberatores donarentur) terribilia apparerent? Quocirca, ut dictum est, cum primum in hostium conspectum venit, illa statim extulit. Videtis quam sibi Virgilius constet, qui nihil inaniter dicat et singula exactissime pensitet? Parum hoc visum est, condemnatur etiam quod de Turno dixit: Cui triplici crinita iuba galea alta Chimeram Sustinet Aetneos efflantem faucibus ignes; Tam magis illa fremens et tristibus effera flammis, Quam magis effuso crudescunt sanguine pugnae.

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non perde la fiducia. Che anzi Enea stesso, pensando a quanto sostegno, a quanta considerazione e attesa fossero riposte in quelle armi, ergendosi sull’alto della poppa, si risolve a sollevar in alto lo scudo, non appena viene al cospetto dei suoi e dei nemici. Perciò non si sarebbe potuto cogliere momento più opportuno di quello in cui i suoi uomini versavano in tanta difficoltà, e così grande era il successo dei nemici; né certamente Enea poteva fornirsi di quelle armi mandate dal cielo in un momento di maggior bisogno, dovendosi combattere una battaglia decisiva; e la prima comparsa di quelle armi era necessaria per manifestare ai Troiani, come ai Rutuli, la virtù soprannaturale che esse possedevano con la speranza, col timore, con l’orrore, con la fiducia e con la meraviglia. 46. Gli si rimprovera anche178 il fatto che inopportunamente Enea ammira le armi appena ricevute: L’elmo col suo pennacchio tremendo che vomita fiamme.179

Non dovrà rimanere ammirato di quell’opera divina? E maneggiando quelle armi e facendole volteggiare fra le braccia, non dovrebbe nutrire una grande speranza, soprattutto in una situazione così critica? E non avrebbe dovuto trarne coraggio prevedendo il timore che avrebbe potuto incutere nei nemici quell’elmo che anche a lui stesso, in quel momento, sembrava vomitar fiamme? Come poteva essere, dunque, che non si riempisse di meraviglia, accorgendosi quanto gli avrebbero giovato contro il nemico quelle armi che apparivano terribili anche allora, pur poggiate sotto una quercia180 (né a caso dice «poggiate sotto la quercia», perché la corona di foglie di quercia si donava ai liberatori di una città)? Perciò subito, come si è detto, non appena venuto in cospetto dei nemici, le sollevò subito in alto. Vedete com’è coerente Virgilio, il quale non dice nulla di futile, e riflette perfettamente su ogni particolare. E come se fosse troppo poco, lo giudicano negativamente anche181 perché di Turno dice: L’elmo maestoso ornato con tre cimier la Chimera regge, che va spirando dalle fauci le fiamme dell’Etna, e tanto più fremendo, feroce di perfide fiamme, quanto più la battaglia s’inasprisce con rivi di sangue.182

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Turnum, hostium ducem, ad bellum missurus, sane illum qui tot malis Troianos sociosque affecturus esset, qui bellum tantis animis suscepisset, qui morte sua Aeneam esset nobilitaturus, non una e parte artificiosissimus poeta commendat: Ipse inter primos praestanti corpore Turnus Vertitur arma tenens et toto vertice supra est.

Facit enim versari inter primos, qua e re ad singulare animi robur corporis quoque vires adiungit; et cum dicit «Vertitur arma tenens», corporis dexteritatem sub armis atque animi vigorem significat; et cum adiungit «toto vertice supra est», corporis proceritate suis admirabilem, hostibus formidolosum apparere facit. 47. Ad has corporis atque animi dotes addit armorum horrorem, ex triplici iuba atque e monstro flammas efflante, quippe cum quae Chimera aspectu ipso ante pugnam terrifica esset, fictoris artificio, ubi ad manus ventum esset, tum ea maxime et voce fremeret et flammas evomeret, ut de gemitu deque afflatu campi sanguine caesorum natarent. Atque ut nihil desit, post levem atque extersum clypeum, siquidem qui de re militari scribunt ad praestringendos adversarii oculos armorum in primis fulgorem commendant, post altam galeam et ignes efflantem Chimeram addit nimbum peditum et totis castris agmina clypeata densat. An est quod aliud desiderari in extollendis adversarii sive ab insitis a natura corporis atque animi viribus sive ab externis possit rebus? Num igitur importune galea alta Chimeram sustinet, praesertim post tot enumeratos armisque decoratos duces? 48. Atque hoc quidem non tanti faciendum videatur, accusari aut potius damnari a grammatico eximium poetam, neque enim indus elephas curat culicem; illud me vehementer movet, quod video doctos quosdam viros, dum grammaticis nimis tribuunt, et ipsos delirio eodem vexari, tum in iis locis quos posuimus, tum quod existimant parum prudenter a

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Con arte mirabile il poeta, preparandosi a far scendere in campo Turno, condottiero dei nemici, proprio colui che tanti mali avrebbe arrecato ai Troiani e ai loro alleati, quegli che con tanto ardore aveva intrapresa la guerra, che morendo avrebbe reso famoso Enea, gli attribuisce più di un pregio: Lo stesso Turno tra i primi col corpo prestante, l’arma in pugno, s’aggira e col capo intero sovrasta.183

E infatti lo rappresenta mentre si agita fra i primi, con una nota che aggiunge alla singolare forza dell’animo anche quella del corpo. E quando dice: «si agita con l’arma in pugno» intende mettere in rilievo la destrezza del corpo tutto corazzato e il vigore dell’animo. E quando aggiunge «col capo intero sovrasta» lo fa apparire, per l’alta statura, mirabile ai suoi, terribile ai nemici. 47. A queste doti fisiche e morali aggiunge l’orrore che fanno le armi per la triplice cresta dell’elmo ed il mostro che spira fiamme, in quanto quella Chimera che era spaventosa solo a vederla prima della battaglia, grazie all’arte dello scultore, quando lo scontro era in atto allora più che mai faceva udire il fremito della sua voce e vomitava fiamme, sì che a causa delle sue urla e del suo fiato i campi erano sommersi nel sangue dei caduti. E per non far mancare nulla, dopo un accenno allo scudo ben rifinito e lucente – poiché i trattatisti di arte militare raccomandano lo scintillio delle armi quale mezzo per abbagliare gli occhi di chi è davanti – dopo un accenno alla cima dell’elmo e alla Chimera dal fiato di fuoco, aggiunge il nuvolo dei soldati, e fa addensare per tutto l’accampamento schiere di soldati armati di scudo. Vi è forse altro di cui possa sentirsi la mancanza nell’esaltazione di un avversario, sia per la forza fisica e morale infusa in lui dalla natura, sia per quella che gli deriva dall’armamento? Orbene, è forse assurdo che in cima all’elmo si erga una Chimera, soprattutto dopo l’enumerazione di tanti condottieri adorni di belle armature? 48. Ma in verità non deve attribuirsi tanta importanza al fatto che un esimio poeta sia criticato, o piuttosto condannato, da un grammatico; un elefante non si preoccupa di una zanzara. Mi irrita più di tutto il fatto di vedere che alcuni uomini colti, per l’eccessiva condiscendenza verso i grammatici, si lasciano agitare, a loro volta, dalla stessa follia, sia nei casi da noi già considerati, sia perché ritengono che nel primo, nel quarto 203

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Virgilio inductum Iovem in primo, quarto et nono volumine, qui loqueretur sine tnmultu et absque mundi obsequio, post vero [...] eo dicente deum domus alta quiescit, Et tremefacta solo tellus, silet arduus aether, Tum zephiri posuere, premit placida aequora pontus,

ac si non idem esset qui ante locutus fuerat. Imo idem erat, sed nec ante Venus Iunoque ad contentionem et iurgia Iove coram proruperant, qua e re vario assensu ob factionis studium coelicolae fremebant. Itaque ut ostenderetur concionantis Iovis ea maiestas fuisse ut mussitare ultra nullus auderet, oportunissime dicitur summaque cum prudentia, quod non solum eo dicente deum domus silentium tenuit, sed orbis totus summi dei supercilium veritus est. Etenim poeta ex verbis ipsis vult innuere Iovem supercilium obduxisse ob dearum iurgia et coelicolarum fremitum ac partium studia, ut qui speciem irati praeseferret. Unde quodam cum supercilio ait: «Rex Iupiter omnibus idem», iuratque «per pice torrentis ripas», atque, ut dictis pondus adderet, caput movet, «totumque nutu tremefacit Olympum». 49. Sed nec mihi Iulius Hyginus aequior videri potest, qui Virgilium accuset quod litus velinum ex ore Palinuri dixerit, cum Veliam Servio Tullio regnante conditam fuisse tradat, sescentesimo post Aeneae adventum in Italiam anno, aut etiam amplius, ac si poetis permissum non sit quaedam etiam ad sua tempora in carmine referre, ut locorum, ut fluminum nomina, ut armorum genera. Dicat mihi velim Hyginus: cur non etiam accusat Virgilium quod Aeneam, qui Troianus esset, latine loquentem inducat? Facessat igitur diligentia tam arcessita et huiusmodi multa permittantur poetis, in quae etiam volentes incidunt non rerum ignorantia decepti. Idem reprehendit quod, cum antea dixisset Virgilius Theseum superas evasisse ad auras, post dicat: «sedet aeternumque sedebit». Atqui Theseus vivens Herculem ad inferos secutus, inde Herculis ipsius praesidio evasit, ut est in fabulis. Post mortem vero, cum anima eius ad inferos delata esset, nunquam ad viventis rediit, sed propter

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e nel nono libro con poca avvedutezza Giove184 sia stato introdotto da Virgilio a parlare senza frastuono e senza rispetto da parte dell’universo mondo, e dopo invece: […] degli dei l’alta reggia s’acqueta, freme dal fondo la terra; e l’etere in alto si tace, si posarono i venti, calmato il mar placa le acque;185

come se non fosse lo stesso che aveva parlato prima. E invece sì, era lo stesso; ma prima non c’erano stati ancora il contrasto e l’alterco fra Venere e Giunone al cospetto di Giove, per cui ora i celesti fremevano dando ragione all’una o all’altra con spirito di parte. Pertanto, per far vedere come l’autorità di Giove, quando prendeva la parola in pubblico, era tale che nessuno più osava borbottare, si dice molto opportunamente e con grande sapienza che mentr’egli parlava non solo la dimora degli dei osservasse il silenzio, ma che il mondo intero avesse un certo riguardo di fronte al cipiglio del sommo dio. E infatti con le stesse parole il poeta vuol far intendere che Giove aggrottò le sopracciglia per l’alterco delle dee, il fremito dei celesti e la loro partigianeria, mostrando nel volto il suo sdegno. Per cui dice con un certo cipiglio: «Giove è un re uguale per tutti», e giura «per le rive bollenti di pece». E per dare maggior peso alle sue parole, le accompagna con un cenno del capo, che fece tremare tutto l’Olimpo.186 49. Ma più ragionevole non mi sembra neppure Giulio Igino,187 quando critica188 Virgilio per il fatto che abbia citato per bocca di Palinuro il lido velino, mentre Velia – racconta – fu fondata sotto il regno di Servio Tullio, seicento anni o più dopo l’arrivo di Enea in Italia189 o anche più, come se ai poeti, nei loro versi, non sia concesso dire anche alcune cose rapportandole all’epoca contemporanea, ad esempio nomi di luoghi, di fiumi e di armamenti. Vorrei che mi dicesse perché non critica Virgilio anche per il fatto che Enea parli in latino pur essendo troiano. Vada al diavolo dunque questa pedanteria, e si concedano pure ai poeti molte licenze di questo genere, in cui incorrono anche volutamente, non tratti in inganno da ignoranza. Lo stesso scrittore critica190 Virgilio perché, avendo prima detto che Teseo se n’era andato nelle aure celesti, dice poi: «siede e siederà in eterno». Orbene Teseo da vivo accompagnò Ercole negli inferi e, secondo la leggenda, se la scampò con l’aiuto dello stesso Ercole. Ma dopo la morte, una volta andata la sua anima nel regno dei 205

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filium iniuste occisum sedet illic atque aeternum sedebit, iniquissimam Hyppolyti mortem infeliciter deplorans. Recteque et ante vivum rediisse ab inferis ait, unde argumentandi locum Aeneas coepit, et post inter eos qui mortui essent enumerat; neque enim haec sibi adversantur. Errasse etiam dicit in his versibus: Eruet ille Argos Agamennoniasque Micenas Ipsumque Aeaciden, genus armipotentis Achilli, Ulctus avos Troiae, templa et temerata Minervae,

quod et personas confundat et tempora, cum neque eodem tempore neque per eosdem duces cum Acheis Pyrrhoque pugnatum sit, siquidem Pyrrhus, quem Aeacide dicit, ex Epiro in Italiam transgressus cum Romanis depugnavit adversus Curium, belli eius ducem; Argivum autem bellum, id est Achaicum, multos post annos a L. Mumio imperatore gestum est; itaque censet medium versum eximi posse, qui quidem de Pyrrho importune immissus esset, quem Virgilius procul dubio fuisset exempturus. 50. Non possum non admirari etiam ad risum usque tum Hyginum tum Gellium, qui studio quodam reprehendendi praecipites in maximos errores inciderint, primum quod de Pyrrho dictum, non de Persa rege putent; neque enim Pyrrhus a populo Romano victus est neque regnum Epirotarum Pyrrho vivente captum atque in provinciam redactum est, sed Perses, qui a Paulo ductus est ante triumphum, quo capto Macedoniaque spoliato, Aeacidarum imperium finivit; de quo etiam Propertius ait: Et Persen proavi stimulantem pectus Achilli Quique tuas proavus fregit, Achille, domos.

Hoc igitur superato regnoque Aeacidarum deleto, populus Romanus videri potuit Troiae ruinas ulctus fuisse. Deinde non animadvertere induci a Virgilio Anchisen nequaquam singulos referentem qui ab Aenea originem ducturi essent, sed quosdam tantum, neque tempus ordinemve servari, quippe cum de Caesare atque Pompeio antequam de Fabio, Marcello, Scipionibus mentionem faciat; satis enim habebat Anchises,

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morti, non ritornò mai più tra i vivi, sebbene a causa del figlio ingiustamente ucciso «siede e siederà in eterno» piangendo tristemente la tanto ingiusta morte di Ippolito.191 Bene fa il poeta a dir prima che Teseo, ancora in vita, ritornò dagli inferi, donde Enea colse l’occasione di dire quel che disse, e poi lo annovera tra i morti; non c’è contraddizione. Egli nota192 anche un errore di Virgilio in versi come questi: Egli Argo abbatterà e l’agamennonia Micene, l’Eacide perfino, il figlio di Achille guerriero, vendicando di Troia gli avi e i templi inviolati di Atena,193

per il fatto che confonderebbe persone e tempi, non essendo avvenute contemporaneamente, né guidate dagli stessi condottieri le guerre con gli Achei e con Pirro; giacché Pirro, che egli chiama Eacide,194 passato dall’Egeo in Italia, combatté con i Romani contro Curio, che conduceva quella guerra, mentre la guerra argiva, cioè di Acaia, fu condotta molti anni dopo dal generale supremo L. Mummio.195 Ritiene, pertanto, che del mezzo verso dedicato a Pirro, ed introdotto senza evidente ragione, si possa espungere, e che Virgilio lo avrebbe senza dubbio soppresso. 50. Non posso non meravigliarmi, sino a farmi delle risate, sia di Igino sia di Gellio,196 che per la smania di criticare siano incorsi in gravissimi errori; in primo luogo perché ritengono che sia riferito a Pirro quel che si dice del re Perseo – difatti né Pirro fu vinto dai Romani, né l’Epiro fu conquistato e ridotto a provincia durante la vita di Pirro, ma fu Perseo, su cui Paolo197 celebrò il trionfo, a porre fine all’impero degli Eacidi, una volta catturato e spogliato della Macedonia. Di lui anche Properzio dice: E Perseo, che il cuore emulava di Achille proavo, ed il proavo Achille, che le tue case distrusse.198

Vinto costui, pertanto, e annientato il regno degli Eacidi, poté sembrare che il popolo romano avesse vendicata la distruzione di Troia. In secondo luogo non ti accorgi che Anchise è introdotto da Virgilio a nominare singolarmente i discendenti di Enea,199 ma alcuni soltanto, senza osservare l’ordine cronologico, poiché fa menzione di Cesare e di Pompeo prima di Fabio, Marcello e degli Scipioni;200 ad Anchise bastava, nominandone alcuni e alludendo ad altri attraverso le loro imprese, 207

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quibusdam nominatis, quibusdam a rebus gerendis significatis, spe atque gaudio futurae stirpis Aeneam implere. Quare cum dicit Ille triumphata Capitolia ad alta Coryntho Victor aget currus, caesis insignis Achivis,

iure potest videri Mumium, qui Achaicus cognominatus est quique Corynthum sustulit, significare; post vero, cum addat Eruet ille Argos Agamennoniasque Micenas,

alium profecto significat, et hic quidem Paulus est, qui Persen vicit regnumque Aeacidarum subvertit; quanquam autem Paulus neque Argos evertit neque Micenas, hoc tamen ut Aeneam soletur ab Anchisa dicitur, cuius ipsius posteri eversuri essent Argos, sive Achaicum, quae arx videbatur Achaeorum, quorum principes adversus Troianos coniuraverant, sive Thessalicum, quando ducum Thessaliae virtus in eo bello plurimum enituerit, et Micenas, Agamemnonis patriam, qui fuit Graecorum ac belli dux. Quocirca, dum Virgilium non minus imprudenter quam impudenter accusant, uterque, et Hyginus sententiae huius adversus Maronem auctor et suffragator eius Aulus, in errorem maxima animadversione dignum incidere. 51. His tam iniquis calumniis cum indigne ferret Antonius eximium poetam affici ac venenosis grammaticorum morsibus laniari, quid mirum si catellorum persimiles dicebat, si doctos quosdam ut deliros ridebat? Poteram etiam multa addere, quibus Antonii adversus grammaticos iram iustissimis e causis conceptam ostenderem, sed me ipse continui, quod videbam in Virgilii laudes prorumpendum esse, quibus explicandis cum sentiam me imparem, temperare malui. ANDREAS. Eadem et me ratio te dicente cohibuit, ne quae a te praeteriri videbam consilio ea ipse subiicerem, quippe cum laudabilior sit Maro, quam ut a me praesertim laudari satis digne queat. COMPATER. Et apposite quidem atque accumulate adversus grammaticos ex Antonii sententia disputavit Elisius et Andreas pro moderatione

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riempire Enea di speranza e di gioia per la sua futura discendenza. Perciò, quando dice Sull’alto Campidoglio una volta prostrata Corinto debellati gli Achei, andrà vincitore sul carro,201

può ben sembrare che egli voglia alludere a Mummio, il quale fu soprannominato l’Acheo, e che espugnò Corinto. Ma quando poi aggiunge Egli Argo abbatterà e l’agamennonia Micene,

allude certamente a un altro, e questi è appunto Paolo, che vinse Perseo e rovesciò il regno degli Eacidi; e sebbene Paolo non abbattesse né Argo né Micene, Anchise lo dice tuttavia al fine di consolare Enea, i cui posteri 202 avrebbero abbattuta Argo, sia che appartenesse all’Acaia (che pareva la rocca degli Achei, i cui prìncipi si erano uniti contro i Troiani), sia alla Tessaglia (giacché il valore dei condottieri tessali si era segnalato in quella guerra), ed inoltre Micene, patria di Agamennone, che era il capo supremo dei Greci e della guerra. Per cui, mentre con un’imprudenza pari all’impudenza entrambi criticano Virgilio, Igino, autore di questo giudizio contro Marone, e Aulo, suo sostenitore, sono incorsi in un errore degno della maggiore disapprovazione. 51. Mal sopportando Antonio che l’insigne poeta venisse colpito da queste così ingiuste calunnie e dilaniato dal morso velenoso dei grammatici, che c’è di strano se li diceva molto simili ai cagnetti, e se rideva di alcuni eruditi come di pazzi? Avrei potuto anche aggiungere molte cose per mostrare come Antonio concepisse contro i grammatici un’ira più che mai giustificata, ma mi sono controllato, sapendo che verso Virgilio bisognava avere lo slancio necessario a intesserne un elogio, e questo non mi sentivo in grado di svilupparlo, per cui ho preferito controllarmi. ANDREA. Lo stesso motivo trattenne anche me, mentre parlavi, dall’aggiungere quel che vedevo da te deliberatamente trascurato, giacché l’elogio di Marone è cosa ben più impegnativa di quel che io specialmente possa affrontare. COMPATRE. Eppure la verità è che Elisio ha discusso con la dovuta ampiezza, in conformità con il pensiero di Antonio, contro i grammatici, e Andrea, da quell’uomo moderato che è, non ha voluto aggiungere ciò 209

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sua quae sedulo ab Elisio praeteriri videbat subiicere noluit, non tam, ut mihi persuadeo, viribus diffisus, si in Maronis laudes descendendum esset, quam quod locus hic explicandis summi poetae virtutibus satis idoneus non est. Verum, bone hospes, ut cupiditati tuae pro virili satisfacere et ipse studeam, referam quanto paucioribus quidem potero Antonii sermonem eum quem aliquando eodem hoc in loco habuit de recensendis ducibus qui aut Aeneam aut Turnum in expeditionem secuti sunt, sentiens condemnari Virgilium tum quod oppida urbesque non eo quo sitae sunt ordine referret, tum quod nonnulli pugnantes inducantur, qui non essent in belli apparatu numerati, cum Homerus eosdem illos quos retulisset in catalogo solos pugnantes dicat et Graeciae oppida locaque per ordinem referat. 52. Dicebat igitur similibus in rebus sive agendis sive scribendis non idem semper aut agenti aut scribenti consilium esse, nec eundem ad finem eadem in re ubique contendi. Homerum quidem voluisse in enumerandis auxiliis Graeciae urbes locaque describere ordineque Graeciae situs catalogum exequi, quippe cum universam Graeciam adversus Troianos coniurasse ostendat. At nostro Poetae consilium non fuisse Italiam describendi; neque enim omnes Italiae populi aut pro Aenea aut contra Aeneam stetere, quando Etruscorum etiam multi belli se medios praebuere. Quinimo maiore e parte vetustissima oppida et ea maxime quae e memoria exciderant conquirit, ut qui restituere illa in lucem velit. Quodque historici etiam latini servant in enumerandis auxiliis, regiones non describit ac satis habet duces ipsos et loca e quibus auxilia venerint nominare. Quo enim consilio aut Italiam aut Etruriam universam describeret, qui neque Italiae neque Etruriae totius populos sciret aut pro hac aut pro illa parte arma coepisse? Iure itaque contentum fuisse illis tantum populis ac ducibus qui in expeditionem profecti sunt nominatis. In quibus referendis necesse non fuit situs ordinem tenere, cum universae regionis populi non enumerentur, et Mantuam solam e tot trans Appenninum populis nominet, videlicet ut patriae assurgeret atque ut avis divitem laudaret caputque populis statueret. 53. Affirmabat praeterea Virgilium imaginem quandam secutum pugnarum atque oppugnationum quae in rebus in Gallia gestis a Caesare

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che di proposito vedeva trascurato dal pur così attento Elisio; non tanto, com’è mia convinzione, perché non fosse sicuro delle sue forze nel caso di una sfida per l’elogio di Marone, quanto perché non è questo il passo più adatto al fine di far risaltare i pregi del sommo poeta. Ma, caro forestiero, per soddisfare secondo le mie capacità il tuo desiderio, riferirò, quanto più brevemente sia possibile, il discorso che Antonio tenne una volta proprio in questo luogo sulla rassegna dei capi al seguito di Enea e di Turno, a proposito della critica mossa a Virgilio per il fatto di non aver nominato castelli e città secondo l’ordine topografico, e di aver introdotto come combattenti alcuni guerrieri non citati nei preparativi di guerra,203 mentre Omero fa combattere solamente gli stessi che aveva catalogati, e riferisce ordinatamente città e luoghi della Grecia.204 52. Proseguendo, diceva che nell’azione e nella scrittura, operazioni sostanzialmente analoghe, chi agisce o scrive non ha sempre la stessa intenzione, né quando l’argomento è analogo le finalità coincidono in tutto e per tutto.205 Omero, nell’elenco delle milizie ausiliarie aveva inteso, in realtà, descrivere le città ed i luoghi della Grecia, ed eseguire un ordinato catalogo topografico, perché intenzionato a far vedere come tutta la Grecia si fosse unita contro i Troiani. Ma l’intenzione del nostro poeta non era la descrizione dell’Italia, perché non tutti i popoli italici si schierarono a favore di Enea o contro di lui, essendosi tenuti neutrali nella guerra molti degli Etruschi. Egli anzi cerca prevalentemente le città più antiche, e specialmente quelle cadute dalla memoria, desiderando di farle riemergere. E, come fanno anche gli storici latini nel presentare l’elenco delle milizie ausiliarie, non fa una descrizione geografica, ritenendo sufficiente nominare capi e provenienza delle milizie ausiliarie. Era mai ragionevole, infatti, descrivere l’Italia e l’Etruria intere per uno che non conosceva i popoli di tutta l’Italia o di tutta l’Etruria, né sapeva se avessero preso le armi per l’una o per l’altra parte? Perciò si era accontentato giustamente di nominare popoli e capi partiti per la spedizione. E nell’elencarli non era stato necessario osservare l’ordine topografico, giacché non stava elencando i popoli di tutta quanta la regione, e aveva nominato, al di là degli Appennini, la sola Mantova,206 evidentemente allo scopo di onorare la sua patria e di esaltarla per i suoi numerosi antenati, e farne una capitale. 53. Affermava, inoltre, che Virgilio, seguendo il modello delle battaglie e degli assedi descritti da Cesare nella narrazione dell’impresa 211

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describuntur; fecisse etiam Ascanium nudato capite pugnare, quod de Caesare ipso legitur; deflexisse quoque in quibusdam ab Homero de industria, ut qui romanae militiae disciplinam potius sequi vellet eamque ob rem singulos duces pugnantes minime inducere, quos nisi cum necessitas vocaverit obiectare se se periculis aut manum conserere non deceat; quodque plures inter pugnandum nominaret, qui in enumeratione auxiliorum dicti prius non essent, in hoc quoque a romanae historiae consuetudine non recedere, siquidem romanarum scriptores rerum, nominatis consulibus praetoribusve, aut dictatore atque equitum magistro, alios in suscipiendis expeditionibus vix nominant; at cum pugnas describunt et qui in bello desiderati sunt recensent, tunc milites, centuriones praefectique nominatim dicuntur, quorum in apparando exercitu nulla mentio facta est. Referuntur fortia tum peditum, tum equitum facta et navatae ab infimi etiam ordinis militibus operae, de quibus nihil ante dictum est. Hanc igitur fuisse rationem censebat, cur Virgilius partim ad Homeri exemplum duces quosdam pugnantes induceret, ne ab illo, cuius maxime similis esse vellet, omnino recederet, partim ad Romanae militiae disciplinam non omnes pugnantes faceret, sed militum potius qui sub illis militarent virtutem referret, cum invidia quaedam videri possit suis milites laudibus defraudare. Ad haec, cum de Romanae militiae disciplina esset mitti supplementa, qui a Virgilio post nominantur perinde ac cum supplementis ad Aeneam Turnumve profectos intelligi vult; sic Oximum regem, sic alios quosdam ab eo post nominatos, ac si cum supplementis, postquam in expeditionem ab imperatoribus itum esset, in castra profecti sint. Plures quoque cognomines, idest eiusdem nominis, ab eo referri, quod Romanorum plurimi eodem nomine vocarentur indeque tot praenomina agnominaque inventa esse. Reges quoque sub imperatoribus militare et hoc quoque Romanum esse, cum reges multos socios haberent, quos sub imperatoribus consulibusque pugnasse satis compertum est, atque ad hoc ipsum, Homero nonnunquam relicto, voluisse Virgilium alludere.

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gallica, aveva fatto combattere anche Ascanio a capo nudo, come si legge proprio di Cesare;207 che si era inoltre discostato da Omero a bella posta, in alcuni punti, volendo tener presente piuttosto l’arte militare romana, per cui non faceva entrare in combattimento ad uno ad uno i capi, non essendo utile, se non in caso di necessità, esporli ai pericoli in uno scontro frontale. Quanto poi al fatto che, durante la battaglia, ne nominava più d’uno senza che fosse stato nominato prima nell’elenco delle milizie ausiliarie, 208 anche in ciò non si discostava dalla pratica tramandata dalla storia romana, se è vero, com’è vero, che gli storici romani, una volta nominati i consoli, i pretori o il dittatore e il comandante della cavalleria, accennano appena agli altri quando intraprendono le spedizioni; ma quando gli storici romani descrivono le battaglie e passano in rassegna i caduti in guerra, allora nominano anche i soldati, i centurioni e i prefetti, dei quali non c’è menzione alcuna nella ricognizione dell’apparato bellico. E sono menzionati gli atti di valore dei fanti e dei cavalieri, e le imprese compiute dai soldati delle ultime fi le, dei quali prima non si era accennato. Pensava, pertanto, che era stata questa la ragione per cui Virgilio, in parte sull’esempio di Omero, per non discostarsi del tutto da colui che voleva soprattutto imitare, facesse combattere solo alcuni capi, in parte secondo il modello dell’arte militare dei Romani non li introducesse tutti a combattere, ma raccontasse piuttosto il valore dei soldati che combattevano ai loro ordini, potendo sembrar dovuto a malanimo defraudare i soldati delle meritate lodi. Essendo, inoltre, un principio dell’arte militare romana inviare truppe supplementari, la sua interpretazione è questa, che coloro i quali sono nominati in seguito da Virgilio, siano partiti in aiuto di Enea e di Turno allo stesso modo delle truppe supplementari; così sarebbe avvenuto del re Osimo, così di alcuni altri da lui nominati dopo, come se fossero scesi in campo con le truppe supplementari, dopo che i generali erano partiti per la spedizione. Virgilio – aggiungeva – cita parecchi personaggi diversi con lo stesso nome, ma perché moltissimi romani portavano lo stesso nome, ragione per cui si erano escogitati tanti prenomi e soprannomi;209 e anche i re combattevano agli ordini dei generali – anche questo era costume romano – poiché consta con sufficiente certezza che i re avevano molti alleati che combattevano agli ordini di generali e di consoli; anche questo – diceva – era un costume al quale intendeva alludere Virgilio, discostandosi talora da Omero. 213

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54. Illud vero maxime nefandum esse et quovis animadvertendum supplicio praedicabat, quod essent nonnulli adeo improbi, ut non alia se magis ratione doctos atque in litteris claros haberi posse persuasum habeant, quam si Virgilio detrahant, si in poetarum nostrorum principem dentes acuant. Qui si quando pro rei locique natura variantior et, ut ita dixerim, festivior est, hic Homeri simplicitatem magis probant; ubi simplicior atque castigatior, tum copiam illius et ornatum requirunt maiorem; nunc quod Homeri ipsius nimius sectator fuerit, nunc quod ab illius imitatione longius recesserit accusant; alias non probant tantum antiquitatis studium, alias quaedam sine ullo exemplo protulisse damnant; interdum supercilium eius, interdum iucunditatem insectantur; denique esse inventos qui dicerent scripta eius mera furta esse, qui censerent Ennium quanquam rudem et inconditum ei anteponendum, qui nullo demum ingenio, nulla inventione fuisse nugarentur. Hoc loco rei indignitate commotum exclamare Antonium memini improbos, facinorosos, detestabiles eos dicentem Iovemque ausos regnis detrudere, quippe qui romanae poeticae principem et quasi deum quendam suo e regno, suo e solio pellere ac deturbare conarentur. Sed nec meliore usum fortuna patrem ipsum poeticae omnis Homerum querebatur, laceratum, vexatum, discerptum etiam ab ignorantissimis fuisse, hocque de posteris meritum, quibus lumen accendisset, retulisse, ut etiam grammaticorum caecutienti ignorantiae obnoxius fuerit. 55. Censebat igitur duos hos in duabus nobilissimis linguis graeca romanaque summum iure principatum tenere, et alterum graecae, alterum romanae poeticae regem esse; horum dicta inventaque locum, vim, auctoritatemque legum habere; hos venerandos, hos patres patriae publicis privatisque honoribus prosequendos, his ubique atque ab omnibus assurgendum. Qui contra sentirent rebellium atque hostium in numero habendos esse, atque uti subiectis populis popularibusque nullum ius, nulla iurisdictio esset in regibus, quorum praescriptis, imperiis decretisque ab illis pareretur, sic a litteratis omnibus quae duo hi reges decernant, iis ubique parendum esse. Qui aliter sentiret contrave auderet aqua et igni interdicendum atque in loca deserta exterminandum ferisve

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54. Considerava, poi, una gran vergogna, degna di qualunque punizione, quella di persone così maligne, da esser convinte di non poter aver fama di dotti e illustri studiosi, se non denigrando Virgilio e acuendo i denti contro il poeta principe dei latini. E se quest’ultimo talora è più colorito, e per così dire, brillante per il carattere dell’argomento e della situazione, allora quelli apprezzano di più la semplicità di Omero; dove, invece, Virgilio è più semplice e contenuto, allora richiedono la ricchezza espressiva e gli ornamenti dell’altro; ora lo accusano di aver imitato Omero troppo pedissequamente, ora di essersi troppo discostato da questa imitazione: una volta lo criticano per un eccessivo arcaismo, talaltra lo condannano per essersi espresso senza seguire nessun modello, un’altra volta gli rimproverano l’austerità, altra volta ancora la leggiadria; infine non è mancato chi affermasse che i suoi scritti non sono altro che plagi; chi pensasse doversi preferire a lui Ennio, sebbene rozzo e incolto; chi la prendesse a scherzo, dicendo che alla fin fine non possedeva alcuna genialità e originalità.210 A questo punto, mi ricordo che Antonio, adirato per l’indecenza di questa critica, chiamava, ad alta voce, canaglie, scellerati, odiosi, quelli che avevano osato scacciare Giove dal suo regno, perché cercavano di bandire brutalmente dal regno e dal trono, che a lui spettano, il principe della poesia romana e quasi una divinità. Ma lamentava che perfino il padre di tutta la poesia, Omero, non avesse avuto miglior fortuna, essendo stato lacerato, vessato, straziato anche dai più ignoranti, e che dai posteri, per i quali egli è stato un faro, aveva ricevuto questo come ricompensa, di finire persino sotto la cieca ignoranza dei grammatici. 55. Pensava, pertanto, che questi due personaggi detenessero, a buon diritto, il primato nelle due lingue più nobili, la greca e la latina, e che l’uno fosse il re nella poesia greca, l’altro in quella latina;211 che la loro forma espressiva e la loro fantasia costituissero una norma autorevole e stabile; che meritassero venerazione come padri della patria, onori in pubblico ed in privato, e riverenza da parte di tutti. Avrebbero dovuto considerarsi ribelli e nemici quelli che la pensavano diversamente, e come avviene nel caso dei popoli soggetti e del ceto popolare, che nessun diritto e nessuna autorità essi hanno sui sovrani, ai cui ordini, precetti e leggi essi debbono invece ottemperare, così da parte dei letterati tutti ci dovesse essere un’osservanza assoluta delle norme gradite a quei due re. Si sarebbe dovuto mandare in esilio, confinare in un deserto e lasciare 215

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obiiciendum statuebat. Haec, sicule hospes, dicere Antonium in Virgilii causa memini; quae tibi propterea referenda duxi, ut quod eius iudicium, quae etiam doctrina fuerit perspicere hinc possis, relaturus etiam quae aliquando in defendendo Cicerone copiose, acute magnificeque disseruit, ni Herricum hunc dicere nescio quid velle animadverterem. HERRICUS. Dii boni, video ne ego antonianum sapientem, estne ille Iuratius Suppatius? Certe ipse est. O diem iucundissimum, per ego Ciceronem, perque divinam Ciceronis eloquentiam oro obtestorque uti, valere aliquantulum iussis grammaticis, antonianum sapientem de sapientia disserentem placide audiatis; nihil est, mihi credite, homine hoc urbanius. Videbitis quod loqnendi principium adveniens dabit.

V SUPPATIUS, HERRICUS. 56. SUPPATIUS. Et sapere vos et corde uti quam cordatissime iubeo. HERRICUS. At nos valentissimi capitis hominem, oppido valentem advenisse gaudemus. SUPPATIUS. Estne hic Pudericus meus? O desideratissimum mihi amicum, ut cordate? HERRICUS. Satis quidem cum corde recte, cum capite tamen parum sane; de abscessu enim vix utor oculis, amicissimum tamen ac sapientissimum hominem libentissime et video et alloquor. SUPPATIUS. Cui cum corde bene est huic valitudo nisi secunda esse non potest. HERRICUS. Unde, bone? SUPPATIUS. A sapientibus quaeritandis. Fui Senae studiorum fama ductus; ibi mirificum hoc vidi, in maximo populo, in urbe quam ipsi veterem agnominant vix unum atque alterum senem esse; qui autem rempublicam administrarent plerosque adolescentulos esse; adeo vetus Sena vix quicquam habet quod senile dicas. Fui Pisis, urbe tum antiqua, tum Graeca, ut volunt; ibi senes plurimos, omnes quidem corio, cordi

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in preda alle fiere chi aveva un’opinione diversa o osava muoversi in senso contrario. Forestiero siciliano, ho creduto doverti riferire quel che si ricorda della difesa di Virgilio fatta da Antonio, per farti comprendere bene quale fosse il gusto e anche la dottrina ch’egli aveva; e ti riferirei ancora gli argomenti che egli, altra volta, con molto acume ed eloquenza, ha usato in difesa di Cicerone, se non mi accorgessi che il nostro Errico vuol intervenire. ERRICO. O santi dei! Non vedo io il sapiente delineato da Antonio? Non è lui, Giurazio Suppazio?212 Certo che è lui. O giorno pieno di gioia! Io vi prego e vi scongiuro in nome di Cicerone, in nome della divina eloquenza di Cicerone, che, dato l’addio ai grammatici, porgiate tranquillamente ascolto al sapiente ideale che Antonio aveva in mente. Non c’è spirito, credetemi, che superi quello di quest’uomo. Vedrete, quando arriva, che avvio darà al discorso.

V SUPPAZIO, ERRICO. 56. SUPPAZIO. Vi raccomando di essere saggi e di usare il senno nella maniera più assennata.213 ERRICO. E noi siamo contenti che sia arrivato un uomo come te, tu, sano di mente, in buonissima214 salute. SUPPAZIO. Non è questo qui il mio Poderico? mi sei tanto mancato, amico caro!215 Come stai di umore? ERRICO. Di umore abbastanza bene; ma poco bene di testa, perché a causa di uno sfogo ci vedo appena. Ma un grande amico, dottissimo come tu sei, lo vedo molto volentieri216 e son contento di parlargli SUPPAZIO. Chi sta bene di umore, non può stare che bene in salute. ERRICO. Da dove vieni, caro? SUPPAZIO. Da una ricerca di sapienti. Sono stato a Siena, indotto dalla fama degli studi; lì ho visto una cosa straordinaria: in una popolazione numerosissima, in una città che gli stessi abitanti chiamano «vecchia» («Sena») appena uno o due sono di età senile; quelli, poi, che governavano, erano per lo più giovincelli. Così, la vecchia Sena non ha quasi nulla che potresti dire «senile».217 Sono stato a Pisa, antica città greca, come asseriscono;218 ho visto219 moltissimi vecchi, tutti dediti al cuoio,220 217

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deditum esse neminem; quem enim cordatum apud eos invenies, qui domesticas ob seditiones civiliaque odia tantam tam brevi rempublicam amisere? Hinc Lucam concessi, quorum hominum deum cum tam crasso capite animadvertissem, coniecturam coepi nihil nisi crasse sapere lucensem populum posse. Pratum inde profectus, quo mortales multi convenerant (festus enim dies erat), cives, incolas, advenas ita in cingulum illud divae matris intentos vidi cunctos, uti confestim inde abierim; quae enim scabies superstitione scabiosior? Veni post Florentiam, in qua quod mulieres formae nimium studerent, quosdam ab iis aliquanto alieniores animadverti. Una mihi civitatis eius mirum in modum disciplina placuit, quod singulis in domibus singulas stateras videbam appensas; eos autem qui magistratus gererent duplici etiam statera uti, altera enim civitatis, altera Italiae res expendunt. 57. Hinc Bononiam cum venissem, vivum illic sapientem inveni neminem, mortuos vero multos eosque in catenis habitos. Galliae citerioris urbes vidi tantum; quae quod tyrannis servirent, quomodo sapientem in illis quaererem? Tamen animadverti pullulare aliquando apud eas sapientiam coepisse; consuesse enim tyrannos a popularibus occidi, libertatem vero retinere diutius cives nescire. Volui videre Genuam, quam ubi vidi, dii boni, beluam illam multorum capitum vidi; annus ipse neque tam varius, neque adeo mutabilis quam Genuensium civium sunt ingenia. Unde secunda navigatione usus atque in Telamonis portum delatus, animadverti tertium quoddam illic hominum genus esse physicis ipsis ignotum. Nam cum hominum alii vivi, alii mortui dicantur, qui Telamone agunt eos nec vivis nec mortuis annumerandos censeo. 58. Fugi statim larvarum gregem, ac zephiro spirante Romam devectus, ibi biduum egi, tum monumentis veterum cognoscendis, tum sacris perscrutandis. Tertio die, dum sapientem quaero, venio ad Floram; praeter popinones, laenones, ganeones, vix illic video alios. Venio ad Pontem; omnia invenio plena feneratorum. Eo Lateranum; soli ibi coqui, solae tabernae meritoriae. Perrecto diversa urbis loca, regiones an-

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nessuno al cuore: infatti, che uomo di cuore potresti trovare fra chi, in così breve tempo, attraverso discordie private e odi politici ha mandato alla rovina una repubblica di quella potenza?221 Di lì mi sono recato a Lucca, dove, quando mi sono accorto che il divino patrono di quella gente aveva una testa così grossolana, ho dedotto che i lucchesi non potessero essere se non grossi di mente.222 Passato di lì a Prato, dove si era radunata molta gente (era un giorno di festa), ho visto cittadini del luogo, abitanti, forestieri, tutti, così interessati a vedere quel famoso cingolo della Madonna,223 che subito me ne sono andato: quale scabbia, infatti, è più scabbiosa della superstizione? Sono giunto, poi, a Firenze, dove, poiché le donne curavano troppo la bellezza, mi sono accorto che alcuni preferiscono scansarle. Una sola consuetudine di quella città mi è piaciuta straordinariamente, che stava appesa in ogni casa una sola bilancia, a differenza di quelli che ricoprivano una carica pubblica, che ne usavano due di statere: con l’una pesano gli affari della città, con l’altra quelli dell’Italia. 57. Andato di lì a Bologna, non vi trovai vivo nemmeno un sapiente, ma molti morti o in catene. Ho visitato appena le città della Gallia Citeriore;224 ma come cercarvi un sapiente, se esse erano asservite ai tiranni? Mi sono accorto, tuttavia, che in qualche caso la sapienza vi sia cominciata a spuntare. I popolari, infatti, si erano avvezzati a sopprimere i tiranni,225 mentre la libertà, i cittadini non sapevano conservarla troppo a lungo. Ho voluto visitar Genova, ma come l’ho vista, santo Dio, mi è parso di vedere la bestia famosa dalle molte teste.226 Perfino il corso dell’anno non è così vario e mutevole come il carattere dei Genovesi. Di lì poi, approdato attraverso una favorevole navigazione nel porto di Telamone,227 vi vidi una terza specie umana, sconosciuta perfino ai naturalisti. Mentre, infatti, degli uomini si dice che alcuni sono vivi, altri morti, quelli che si trovano a Telamone penso che non debbano annoverarsi né tra i vivi, né tra i morti. 58. Sottrattomi subito a questa sorta di spettri, e, sospinto fino a Roma da uno zefiro favorevole, vi ho trascorso due giorni tra l’esplorazione di antichi monumenti e la visita attenta di luoghi di culto. Il terzo giorno, andando in cerca del sapiente, arrivo a Campo dei fiori,228 dove non trovo altri che bettolieri, ruffiani e crapuloni. Vado al Ponte,229 e trovo usurai dappertutto; vado al Laterano, e lì solo cuochi, solo osterie. Continuo a inoltrarmi 230 in diversi luoghi della città, quartieri, angiporti, piazzette, 219

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giportus, compita, greges; cuiusque modi generis hominum incompositi passim obviam fiunt, omnes, ut mihi videbantur, ventri dediti. Dum sic per urbem vagor, duo maxime periculosa contigere: nam et meretricum manus vix evasi, pallio etiam timens, et sacerdotum mulabus pene subtritus sum; quorum vitam, mores, instituta dum novisse curo, invenio ex his non paucos quos reliquis mortalibus ad omnem vitae partem optime agendam exemplum iure statuas, quosdam tamen quos vere dicas nihil nisi voluptatem quaerere eamque solam sequi. Captus itaque fama unius atque alterius sacerdotis, dum eos quaerito, factus est mihi obviam litterator, qui me pugnis male habuit, cum inter loquendum excidisset ut dicerem «ocio illic marcescere homines», quod huiusmodi verba «splendesco, tabesco, liquesco» casum illum respuant; ac dum Ciceronem testem adduco «nihil est quod non splendescat oratione», dum Virgilium: «cera liquescit / Uno eodemquc igni» et «Molli paulalim flavescet campus arista», dum Columellam «multa sunt, ut dixi, quem negligentia exolescant», dum etiam Plinium «Igne spissatur, humore fervescit», ille in iram ac iurgia prorumpens, miseris me modis habuit; ego satis habui incolumi pallio inde me proripere. Itaque dum Romae sapientem quaero, mercedem hanc accipio. Illud etiam quam incommodissime accidit, quod dum ab hoc litteratore vix me avello, in alterum incidi, cui percunctanti iniuriam ne aliquam accepissem, quod videret male me fuisse acceptum, cum responderem insignem me a grammatico iniuriam passum. «Quam rectissime, inquit grammaticus ille. Quid malum? non te pudet senem loqui latine nescire? ubi tu gentium reperisti “iniuriam patior”?» – «Atqui, inquam, apud Ciceronem in Philippica tertia: “aequo animo belli patitur iniuriam, dummodo repellat periculum servitutis”, et in Laelio: “is in culpa sit qui faciat, non qui patiatur iniuriam”». Hoc vix dicto, quod is iam pugnos stringeret, dedi me in pedes, ac Roma egressus, Velitras quam citatissimo gradu petii; ex eoque decretum est mihi valere sapientem sinere. 59. HERRICUS. Cur, obsecro, trans Alpes non profectus?

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luoghi di raduno; m’imbatto in genìe di uomini scomposti d’ogni sorta, tutti, a mio parere, votati a riempirsi la pancia. Così, attraversando la città, ho corso due gravissimi rischi: sono, infatti, sfuggito appena dalle mani di donne di malaffare, col pericolo di rimetterci il mantello, e sono stato sul punto di essere calpestato dalle mule dei preti; e mentre cercavo di saperne di più della loro vita, delle loro usanze, delle loro abitudini, ne trovo non pochi da poter proporre come modelli perfetti di vita al resto del mondo, altri, invece, che – si potrebbe dire – non cercano se non il piacere e a questo solo aspirano. Colpito da quel che si diceva dei preti, di un tipo e di un altro, mentre andavo alla loro ricerca, non mi t’incontro un grammatico,231 il quale, per essermi sfuggito di bocca, mentre parlavo, «gli uomini lì marciscono per l’ozio», mi prende a pugni, perché – diceva – i verbi 232 come splendesco, tabesco, liquesco, non richiedono quel caso?233 E mentre io citavo la testimonianza di Cicerone quando dice: «Non c’è nulla che non risplenda mediante la parola»,234 e di Virgilio, «La cera si liquefa per via di quel solo e medesimo fuoco»,235 «a poco a poco il campo diviene biondo per le pieghevoli spighe», 236 e di Columella, «molte sono le cose che, come ho detto, invecchiano per via della trascuratezza»,237 ma anche di Plinio, «Per il fuoco diviene più denso, per l’umido comincia a brulicare»,238 lui, prorompendo con uno scatto d’ira in male parole, ha cominciato a malmenarmi. E meno male che me la sono cavata con il mantello sano. Così a Roma, mentre cerco il sapiente, ricevo questa ricompensa. E ne ho avuta un’altra di disavventura, che mentre mi allontanavo da questo sedicente grammatico, ne ho incontrato un altro il quale, vedendomi male accolto, mi ha chiesto se avessi ricevuto qualche offesa, e quando gli ho risposto di aver patito da parte di un grammatico un’offesa straordinaria, «Molto ben fatto! – disse il grammatico – che male c’è? non ti vergogni, vecchio come sei, di non saper parlare correttamente? dove hai trovato “subire un’ingiuria”»? – «Ma – rispondo – in Cicerone, nella terza Filippica: “Di buon animo [la Gallia] subisce un’offesa di guerra, pur di respingere il pericolo della servitù”,239 e nel Lelio: “Colpevole è chi la fa, l’ingiuria, non chi la subisce”».240 Siccome, appena detto questo, lui già stringeva i pugni, me la son data a gambe, e, uscito di Roma, me ne sono andato di gran fretta a Velletri.241 E perciò, ho deciso di mandare al diavolo il sapiente. 59. ERRICO. E, chiedo scusa, perché non te ne sei andato oltralpe?

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SUPPATIUS. Quod scirem Gallos maxime stolidos esse corpusque curare magis quam animum colere, regemque eorum quamvis splendidissimum, tam brevi tamen vestitu incedere ut pudenda non velet, ac si cinicorum sectator sit institutorum. HERRICUS. Satis magna causa. Ispanias vero adire quae te ratio vetuit, ubi genus hominum acre atque ingeniosum? SUPPATIUS. Ne, dum sapientem quaero, in piratas inciderem remoque adiicerer; neque enim tam Sicilia tritici quam praedonum Ispania ferax est. HERRICUS. Venetias cur non visisti, quam sapientium urbem sunt qui dicere audeant? SUPPATIUS. Destinaveram animo ultimam hanc petere plusculumque illic temporis agere, dum mores civitatis, dum civium ingenia, leges, ritus, reipublicae temperationem noscerem, et fama quidem acceperam senes illic moderari. Nec me deterruit quod elatissimi mortalium dicuntur omnium, sed quod, ut dixi, decretum est mihi posthac meas tantum res agere nec me grammaticis credere, quos audio ibi regnare quosque malo meo fato genitos scio; neque enim Romae solum, sed Velitris, sed Terracinae pessime ab illis habitus atque acceptus sum. At videte, obsecro, quam ob causam. 60. Adieram medicum, sciscitaturus an distillationi frictio esset utilis. Aderat forte grammaticus audacia tam importuna ut respondere medicum non passus, obiurgare me statim coeperit quod ‘fricatio’ non ‘frictio’ diceretur; nomina enim quae a primae coniugationis verbis deducerentur supinum habentibus in ‘-itum’ vel in ‘-ctum’ praeter coeterorum verborum legem exire in ‘-atio’, non in ‘-itio’, nec in ‘-ctio’: itaque ‘fricatio’, non ‘frictio’ dicendum esse. O bone, inquam, verbalia in ‘-io’ aut a supinis ipsis aut a genitivis participiorum praeteriti temporis fiunt, quae ab ipsis ducuntur supinis, ut “oratus, orati, oratio”; “auditus, auditi, auditio”; “auctus, aucti, auctio”; “profectus, profecti, profectio”; “largitus, largiti, largitio”. Quocirca nomina deducta a verbis supini positionem habentibus in ‘-ctum’, cuiuscunque sint coniugationis, in ‘-ctio’ exeunt, non in ‘catio’, ut: “perfectum, perfectio”, non ‘perfecatio’; “distractum, distractio”; “lectum, lectio”; “actum, actio”; “sanctum, sanctio”, nec aliter; sic “frictum, frictio”, non ‘fricatio’; nam ex ‘internetio’, ut quidam

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SUPPAZIO. Perché sapevo che i Francesi sono tanto stupidi, e curano il corpo più che coltivare l’animo, e che il loro re, sebbene magnifico, va in giro con un vestito così corto, da non coprire le vergogne, come se fosse un affi liato della scuola cinica. ERRICO. Motivo molto valido. Ma per quale ragione non te ne sei andato in Spagna, dove il genere umano ha l’ingegno acuto? SUPPAZIO. Per non incontrare i pirati, mentre me ne vado in cerca del sapiente, e diventare uno schiavo; infatti, non produce tanto grano la Sicilia, quanti predoni la Spagna. ERRICO. Perché non hai visitato Venezia, che alcuni chiamano perfino la città dei sapienti? SUPPAZIO. Avevo stabilito di dirigermi, per ultimo, verso questa città, e di restarci un po’ più a lungo, finché riuscissi a conoscerne i costumi, l’indole, le usanze, la legislazione, le tradizioni, l’organizzazione politica, sapendo per sentito dire che lì erano al governo gli anziani.242 Né mi distolse la fama che vi hanno gli uomini di essere fra i più superbi, ma, come ho detto, il fatto di aver deciso di dedicarmi, d’ora innanzi, soltanto ai fatti miei, e di non consegnarmi nelle mani dei grammatici che, come sento dire, la fanno lì da padroni, e che sono nati, lo so bene, per mia disgrazia; infatti, non solo a Roma, ma anche a Velletri e a Terracina 243 sono stato considerato e accolto da loro nel peggiore dei modi. E vedete, vi prego, per qual motivo. 60. Ero andato a interpellare un medico per sapere se la frictio fosse utile al catarro. Era presente, per caso, un grammatico tanto sfacciato, da non permettere al medico di rispondermi, e da sgridarmi subito, dovendosi dire fricatio e non frictio, giacché i nomi derivanti dai verbi della prima coniugazione, che hanno il supino in -itum e in -ctum, escono in -atio e non in -itio né in -ctio. Si doveva dire, dunque, fricatio e non frictio.244 Brav’uomo, risposi, i deverbali in -io si formano o proprio dal supino, o dal genitivo dei participi perfetti, che derivano anch’essi dal supino, come «oratus, orati, oratio», «auditus, auditi, auditio», «auctus, aucti, auctio», «profectus, profecti, profectio», «largitus, largiti, largitio». Per la qual cosa i nomi formati da verbi che hanno il supino in -ctum, a qualunque coniugazione appartengano, escono in -ctio e non in -catio. Così abbiamo «perfectum-perfectio», non perfecatio, «distractum-distractio» «lectum-lectio», «actum-actio», «sanctum-sanctio», e non altrimenti: così pure «frictum-frictio, non fricatio»; da internetio, infatti, come al223

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volunt, ‘c’ littera dempta est suavioris soni gratia. Simili modo “sectum, sectio”, non ‘secatio’. Sic Caesar, sic Quintilianus ‘sectionem’, non ‘secationem’: et Plinius Celsusque ‘frictionem’ non ‘fricationem’ dixere; nec te moveat ‘explicatio’ et ‘vetatio’, quorum supina in ‘-ctum’ non ‘exeunt’; quare ne te librariorum imperitia decipiat vide. Dii boni! ac si non verba haec, sed verbera fuissent, ita in me irruit, ut nisi medicus quique cives aderant ab illius me unguibus eripuissent, actum de Suppatio tuo fuerit! Vide pallium conscissum et faciem dissectam vide: cum urso leoneve, non cum homine mihi esse rem putavi. Grammatico ab alio tumidum supercilium fero ac bene mecum actum puto, quod non ex eo pugno oculum amiserim. At quam ob causam? quod affirmarem post negandi adverbium licere etiam copulationem ponere quae negationem ipsam redderet, exemplo Caesaris Commentario septimo: «tanto accepto incommodo neque se in occultum abdiderat et conspectum multitudinis fugerat»; item: «quod in conspectu omnium res gerebatur neque tegi ac turpiter celari poterat». Licere item dicere “e contrario”, auctoritate eiusdem Caesaris eodem Commentario: «ut reliquorum imperatorum res adversae auctoritatem minuunt, sic huius e contrario dignitas incommodo accepto in dies augebatur». Nec non verbis ‘significo’, ‘addo’ et ‘peto’ accusandi casus loco casum auferendi cum praepositione apponere auctoritate Caesaris eiusdem Commentario eodem dicentis: «Conclamare et significare de fuga Romanis coeperunt»; et quinto Commentario: «addunt etiam de Sabini morte»; item: «de suis privatim rebus ab eo petere coeperunt». 61. Quin etiam nomen “unus una unum” plurali numero licere etiam adiungere nominibus quae singularem numerum haberent, quod Caesar etiam faceret Commentario primo: «animadvertit Caesar unos ex omnibus Sequanos nihil earum rerum facere quas coeteri facerent, sed tristes capite, demisso terram intueri»; Commentario quarto: «sese unis Suevis concedere, quibus ne dii quidem immortales pares esse possint»; Commentario sexto: «Erant Menapii propinqui Eburonum finibus, perpetuis paludibus silvisque muniti, qui uni e Gallia de pace ad Caesarem legatos

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cuni vogliono, 245 la lettera c è stata soppressa per ottenere un suono più dolce. Allo stesso modo sectum-sectio, non secatio.246 Così Cesare, così Quintiliano usarono sectio, non secatio; e Plinio e Celso usarono frictio, non fricatio. E non ti facciano dubitare forme come explicatio e vectatio, i cui supini non escono in -ctum; perciò vedi di non farti fuorviare dall’imperizia dei copisti. Santo Dio! Come se queste non fossero state verba («parole»), ma verbera («botte»), quel grammatico mi si scagliò addosso con tanta violenza, che se il medico ed alcuni altri cittadini presenti non mi avessero sottratto alle sue grinfie, il tuo Suppazio sarebbe spacciato! Guarda il mantello lacerato e la faccia ferita; mi sembrò di aver a che fare non con un uomo, ma con un orso o con un leone. Per colpa di un altro grammatico porto un sopracciglio gonfio, e m’è andata bene se non ho perduto un occhio per quel pugno. E il motivo qual era? affermavo che dopo l’avverbio di negazione si può mettere anche la congiunzione copulativa per ripetere la stessa negazione, secondo l’esempio del settimo Commentario di Cesare: «Ricevuto un danno così grande, né si era nascosto e sottratto alla vista della folla».247 Ed ancora: «Poiché le faccende si gestivano al cospetto di tutti, né si potevano coprire e con vergogna celare». Dicevo, inoltre, che si può dire e contrario con l’autorità dello stesso Cesare, negli stessi Commentari: «Come degli altri generali le avversità diminuiscono l’autorità, così di costui al contrario la dignità, ricevuto il danno, aumentava»;248 e che con i verbi significo, addo, peto, invece dell’accusativo, si può usare l’ablativo con la preposizione, sulla base autorevole dello stesso Cesare, il quale nello stesso settimo libro dei Commentari dice: «I Romani cominciarono a gridare e a dar segni di fuga»;249 e nel quinto libro dei Commentari: «Aggiungono anche qualcosa della morte di Sabino», 250 e ancora: «Cominciarono in privato a domandargli delle loro cose».251 61. Che anzi è consentito usare gli aggettivi unus, una, unum al plurale, anche con i nomi che avessero il singolare, come fa lo stesso Cesare nel libro primo del Commentari: «Si accorse Cesare che alcuni fra tutti i Sequani non facevano per nulla quel che gli altri facevano, ma col capo basso guardavano a terra».252 E nel quarto libro dei Commentari: «Piegarsi unicamente ai Suebi, ai quali non potrebbero esser pari nemmeno gli dei immortali».253 E nel sesto libro dei Commentari: «Erano i Messapi vicini ai territori degli Eburi, protetti da continue paludi e foreste, ed essi erano stati gli unici a non inviare mai a Cesare ambasciatori a trat225

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nunquam miserant». Cicero tertio Rhetoricorum: «Duplices igitur similitudines esse debent, unae rerum, alterae verborum». Latine etiam dici ‘quinam’ et ‘quisque’ de duobus, non aliter quam ‘uter’ et ‘uterque’, exemplo Caesaris, qui ait Commentario quinto: «erant in ea legione fortissimi viri centuriones, qui primis ordinibus appropinquarent, Titus Pullo et Lucius Vorenus; hi perpetuas controversias inter se habebant quinam anteferretur». Et Commentario septimo, cum de controversia Convictolitavis et Coti Heduorum mentionem faciens inquit: «suas cuiusque eorum clientelas». Quintilianus libro decimo: «nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est ut corpus eloquentiae faciant; elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter diffìcilis». 62. «Pristinum» quoque «diem» recte dici Commentario quarto docet Caesar: «milites nostri pristini diei perfìdia incitati in castra irruperunt». Quinetiam ‘utraeque’ et ‘utraque’ numero plurali exemplo maiorum romane dici de iis quae duo duae ve tantum essent aut singulari numero proferrentur; Sallustius in Catilinario: «agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et conscientia scelerum, quae utraque his artibus auxerat quas supra memoravi». Caesar Commentario primo: «duae fuerunt Ariovisti uxores, una sueva natione, quam domo secum duxerat, altera norica, regis Boctionis soror, quam in Galliam duxerat a fratre missam, utraeque in ea pugna perierunt». Inique etiam accusari Lactantium, qui dixerit: «maxime tamen Erythrea, quae celebrior et nobilior inter coeteras habetur», cum Caesar dicat Commentario quarto: «ad alteram partem succedunt Ubii, quorum fuit civitas ampla et florens, uti est captus Germanorum, qui paulo sunt eiusdem generis etiam coeteris humaniores propterea quod Rhenum attingunt»; et Plinius ad Gallum: «terra malignior coeteris, hac non deterior» et ad Caninium: «quo in certamine puer quidam audentior coeteris in ulteriora tendebat»; itaque permissum esse uti comparatione etiam ad eos qui sunt complures eiusdem generis.

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tare la pace».254 Cicerone scrive nel terzo libro della Retorica: «Duplici dunque devono essere le similitudini, le une di cose, le altre di parole».255 In latino quinam e quisque si usano anche in riferimento a «due», non diversamente che uter e uterque, sull’esempio di Cesare che scrive nel quinto libro dei Commentari: «Vi erano in quella regione fortissimi centurioni, che erano vicini ad esser promossi ai primi gradi, Tito Pullone e Lucio Voreno; costoro avevano fra loro continue contese su chi dovesse essere anteposto».256 E nel settimo libro dei Commentari, facendo menzione della controversia tra gli Edui Convittolitave e Coto, dice: «Le proprie clientele, di ciascuno di loro».257 Quintiliano scrive nel libro decimo: «Infatti Macro e Lucrezio vanno letti, ma non per formare lo stile, cioè il corpo dell’eloquenza; sono eleganti ciascuno nella sua materia, ma l’uno è umile, l’altro difficile».258 62. Ancora, che sia corretto dire pristinus dies lo insegna Cesare nel quarto libro dei Commentari: «I nostri soldati, provocati dalla perfidia del giorno prima, irruppero nell’accampamento».259 Anzi, i due plurali utraeque e utraque si possono, sul modello dei classici, adoperare in latino per soggetti che fossero soltanto «due» (neutro, maschile e femminile), o fossero usati al singolare. Sallustio, nella Guerra di Catilina: «Si agitava ogni giorno di più l’animo feroce per la mancanza di patrimonio e per il rimorso dei crimini. Cose che, entrambe (utraque), aveva aggiunte alle arti che sopra ho ricordate». Cesare, nel primo libro dei Commentari: «Due furono le mogli di Ariovisto, una di nazione sveva, che aveva condotto con sé dalla sua patria; l’altra del Norico, sorella del re Bostione, che aveva condotta in Gallia mandata dal fratello; entrambe (utraeque) perirono in quella battaglia».260 A torto, inoltre, si critica Lattanzio per aver detto: «Ma specialmente la sibilla Eritrea, che è considerata più celebre e più nobile fra tutte le altre».261 Cesare, infatti, nel libro quarto dei Commentari dice: «Dall’altra parte ci sono gli Ubii, la cui nazione è ampia e fiorente, come quella che è a capo dei Germani, i quali, pur della stessa stirpe, sono un poco più civili degli altri per il fatto che sono bagnati dal Reno».262 E Plinio nell’epistola a Gallo: «Una terra più malsana delle altre, non peggiore di questa»; e in quella a Caninio: «In questa gara un ragazzo, più audace degli altri tendeva a mete maggiori».263 Pertanto, è ammesso far uso del comparativo anche rispetto a un secondo termine consistente in un numero grandissimo dello stesso genere. 227

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63. Falso etiam tradi quod “instruo puerum” aut “instruit magister discipulum” latine non dicatur, cum libro primo Quintilianus dicat: «Quae non eorum modo scientia, quibus quidam nomen artis dederunt, studiosos instruat et, ut sic dixerim, ius ipsum rhetorices interpretetur, sed alere facundiam, vires augere eloquentiae possit». Item libro secundo: «ita ipse quoque historiae atque etiam magis orationum lectione susceptos a se discipulos instruxerit». Non minus falso etiam praecipi quod substantivis gerundivum tantum, non infinitivum addendum sit, cum Caesar dicat Commentario septimo: «priusquam munitiones ab Romanis perficiantur, consilium capit omnem a se equitatum noctu dimittere», Cicero tertio Rhetoricorum: «tempus est ad coeteras partes rhetoricae orationis proficisci», Sallustius in Catilinario: «non fuit mihi consilium secordia atque desidia bonum otium conterere». Quin etiam ineptissime sentire eos qui negent latine dici: «non habeo plus uno praedio», cum dicat Quintilianus libro tertio: «simplex autem causa, etiam si varie defenditur, non potest habere plus uno de quo pronuncietur; atque inde erit status causae». Item: «ideoque in eo statum esse iudicabo quod dicerem, si mihi plusquam unum dicere non liceret». 64. Quae quam moleste bonus hic grammaticus tulerit, meum hoc supercilium docet. An tibi videor grammaticorum furiis amplius obiectandus? Facessant posthac igitur sapientes, dum a grammaticis me in libertatem vendicem. Fundis Hytriisque fuere mihi res aliquanto quietiores, ubi ne dum litteratores, nullos quidem litteratos invenio, quippe cum oppidani non urbanam colant, sed villaticam Palladem; omnes enim oleo dediti sunt. Post Caietam ingressus, obviam habui mulierculam, quae me blande appellatum deque via fessum ad umbram invitavit frigidamque qua me perluerem vitreo quam conspicatissimo protulit. Delectavit me familiaritas coepique de patria deque re familiari percunctari, cum statim puella non inhonesta facie nigricantem gallinam ac novem simul ova detulit, quae die Veneris nata esse diceret. Nec multo post venit ancillula cum anaticulo et albo filo; abire ambas iussit, redituras

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63. È falso anche l’insegnamento che considera scorretta l’espressione «istruire un ragazzo» oppure «il maestro istruisce un ragazzo», 264 perché Quintiliano nel libro primo scrive: «questa scienza non si limita solo a istruire gli studiosi di quella materia che alcuni hanno onorato col nome di arte e, per così dire, interpreta il codice della retorica, ma nutre la facondia e incrementa l’eloquenza». Similmente, nel libro secondo: «Così egli con la lettura della storia, ed ancora più delle orazioni, istruirà i discepoli di cui si è assunto l’onere».265 Non meno falso è ancora l’insegnamento secondo cui i sostantivi debbano reggere solo il gerundivo e non l’infinito, poiché Cesare nel settimo libro dei Commentari dice: «Prima che i Romani portassero a termine le fortificazioni, prende la decisione di lasciar partire di notte la cavalleria». Cicerone, nel terzo libro della Retorica: «È tempo di passare alle altre parti della retorica». Sallustio nella Catilinaria: «Non era mia intenzione consumare nella pigrizia e nell’inoperosità il prezioso tempo libero».266 Che anzi sbagliano assai coloro che affermano non potersi dire correttamente «non ho più di un podere», poiché Quintiliano dice nel libro terzo: «La causa semplice, anche se viene difesa variamente, non può avere più di un solo argomento sul quale debba esprimersi la sentenza, e quello sarà lo stato della causa»; ed ancora: «E quindi riterrò che lo status risieda in quell’argomento, che enuncerei se non mi fosse lecito enunciarne più di uno». 64. Con quanto fastidio il buon grammatico abbia digerito queste osservazioni, te lo mostra il mio sopracciglio.267 Ti pare che mi debba esporre ancora alla furia dei grammatici? Al diavolo dunque, d’ora in poi, i sapienti, purché io riesca a liberarmi dai grammatici. A Fondi268 e ad Itri le cose sono andate per quel che mi riguarda un po’ più tranquillamente, perché non vi trovai, non dico grammatici, ma nessuno che sapesse di grammatica: gli abitanti della città, infatti, venerano non una Pallade269 cittadina, ma contadinesca, giacché si occupano tutti di olio. Entrato in Gaeta, mi è venuta incontro una donnina che mi chiamò cortesemente e m’invitò a riposare all’ombra, stanco com’ero dal cammino, versandomi un po’ d’acqua fresca da un vaso di vetro limpidissimo270 per farmi sciacquare. Mi piacque la sua familiarità; aveva cominciato a chiedermi notizie271 sulle mie origini e sulla famiglia, quando subito una ragazza dal volto non privo di grazia se ne venne portando una gallina quasi tutta nera272 con nove uova fatte, come diceva, il venerdì. Poco dopo arrivò una servetta con un’anatroccola ed un filo bianco. La donna ordinò a 229

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accensis facibus, tertium eum lunae diem esse admonens, atque ad me conversa: «Ex quo, inquit, virum amisi, cum mihi nihil moriens reliquisset, quaestum facere hunc coepi; et profecto caietanae mulieres cum sint superstitiosulae, satis commode hinc victitarem, ni fratres quidam proventum interciperent, dum somnia coniiciunt, dum iras deorum venditant, dum viros nubilibus, mares gravidis, prolem sterilibus promittunt; quodque scelestissimum duco, quia caietana plebecula piscatui pleraque dedita est, noctu ad plebeiorum uxores domum ventitant, quas interdiu per spetiem religionis in templo audiunt. Ac ne decipiare, hospes, quam vidisti ancillulam, ea herae iussu, quae gravida e fraterculo est, ad me consulendam venit; quae prior venerat puella sponsum habebat, cuius forma captus bonus nescio quis Deoque percarus fraterculus suis artibus seductum induere cucullum suasit ac nunc secum habet in cellula». «Improbe, inquam, factum, sed tu velim ne fratres in te commoveas, quos videam in Italiae urbibus regnare». Tum illa: «Desine timere, obsecro; nam ex quo iuvencula eram, conventus custodem cognovi, ac, ni fallor, is est quem huc venientem conspicaris»; confestimque hoc dicto domum ingrediens me valere iussit. 65. Abeo inde ad mare; gregem illic piscatorum invenio ac dum singulos contemplor, optimos quosque pisces seligi ab eis video. Quaero venales ne habeant; respondent asservari fraterculis seque Deo illos velle offerre. Tum ego mecum: «Macti, inquam, pietate, adulteros tam delicate qui pascitis!» Eo hinc ad meritoriam cumque inter prandendum repente in proximo muliercularum pugillatus exortus esset, Harpyarum vitare iras constitui meque propter Vitruvii sepulcrum Molam, quae in Formiano est litore, atque inde Suessam contuli. Ibi mane in foro spectantem me scitulas puellas cum biferarum quasillis mulier compellat eloquentia non vulgari, et quod palliatum videbat, postquam benigno salutavit, «Amabo, inquit, quam tibi mores nostri placent? Credo admiraris scitulas has, credo Platonis legisti rempublicam, quam si cives nostri non omnino probant, vitam certo aliquanto liberiorem non improbant.

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tutte e due di andarsene e di ritornare quando erano accese le luci, ricordando che eravamo al terzo giorno della luna; e a me rivolgendosi disse: «Da quando ho perduto mio marito, non avendomi lui lasciato niente morendo, ho cominciato a fare questo mestiere. Ed è certo che, essendo un po’ superstiziose le donne di Gaeta, potrei con questo campar la vita abbastanza agevolmente,273 se alcuni frati non mi strappassero il guadagno, a forza di interpretare sogni e mettere in vendita la punizione divina, promettendo mariti alle zitelle, figli maschi alle donne incinte e prole alle sterili; ma la loro maggiore empietà è che, essendo la popolazione di Gaeta per lo più dedita alla pesca, vengono frequentemente di notte a trovare le mogli dei popolani, con le quali di giorno s’incontrano in chiesa col pretesto delle funzioni religiose. E per non farti pensare, forestiero, di essere preso in giro, ti dirò che la servetta che hai vista è venuta a chiedermi un consiglio per conto della sua padrona, rimasta incinta di un fraticello. La ragazza venuta prima era maritata a un uomo, dalla cui avvenenza non so qual buon fraticello, molto caro a Dio, è stato conquistato, e con le sue arti lo ha sedotto e convinto a farsi frate, ed ora lo tiene con sé nella cella». «È una vergogna – le dico –; ma non vorrei che ti facessi nemici i frati, che vedo far da padroni nelle città d’Italia». Ed ella: «Nessun timore, ti prego, perché, fin da giovinetta conosco il guardiano del convento, e, se non mi sbaglio, è quello che vedi venire da queste parti». E appena finito di parlare, ritirandosi in casa, mi salutò. 65. Di là mi reco sul mare, dove trovo una folla di pescatori; e, osservandoli a uno a uno, mi accorgo che fanno una scelta dei pesci migliori. Domando se ne hanno da vendere; loro rispondono che li serbano per i frati, che è come volerli offrire a Dio. Allora tra me stesso: «Che devozione! – dico – nutrire con tanta delicatezza gli adulteri». Me ne vado in trattoria, e poiché durante il pranzo scoppiò d’improvviso, nelle vicinanze, una lite fra donnette, deciso ad evitare le ire delle Arpie, mi recai a Mola, sul lido di Formia, nei pressi del sepolcro di Vitruvio,274 e di là a Suessa. Lì, la mattina, mentre stavo guardando in piazza alcune donzellette che portavano canestri di frutta fresca, una donna mi rivolge la parola in lingua non dialettale e, vedendomi portare il mantello, dopo un garbato saluto mi disse: «Di grazia, ti piacciono, e quanto, i nostri costumi? Credo che tu vada ammirando queste due belle ragazze; credo che tu abbia letta la Repubblica di Platone, che se i nostri concittadini non approvano del tutto, certo non disapprovano il vivere talora con un 231

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Hae puellae partim nuptae, partim sponsae, quaedam etiam non dum viris collocatae sunt, licet tamen cum iis et iocari et liberius etiam ludere; ne te igitur delitiarum pudeat, blandulae sunt, virosque ad se holerum ac frugum gratia invitant, cupiunt vendere; sic se civitatis nostrae mores habent. Neque enim, vir bone, ignoras probum improbumque pro locis, populis, nationibus iudicari, neque tam naturam quam leges atque instituta sequi aliaque alibi laudari». 66. Quid multis? coepit etiam de virtutibus deque deo tandem disserere. Ego vix avellere me ab ea potui, tandemque digressus notumque mihi hominem percunctatus unde tantam mulier doctrinam hausisset, cum suspicerem tum rerum cognitionem tum dicendi copiam: «Neque, inquit, nostra haec fabulosum illum Musarum fontem hausit, sed theologi linguam compluribus annis ore suo versavit, neque ut priscus ille Ennius in Parnaso somniavit, sed vigilans in toro atque in theologi complexibus cubuit. Ex huius ipsius lingua manat eloquentia tam suavis, ex ore theologi orat tam copiose atque inundanter; spiritum huic illo inspiravit roremque instillavit unde oratio eius spirat stillatque tam suave». An igitur posthac, Herrice, habes quod adversus institutionem edisseras? Vides quantum ars, quantum disciplina, quantum domestica consuetudo valeat? Intelligis quantum doctorum familiaritas possit? Quanta in omni genere institutionis vis sit assuetudinis? mulierculam eloqui, femellam sapere? hoc est profecto cur, contempta grammaticorum importunitate, libeat sapientem adhuc quaerere. 67. HERRICUS. O gnave ac sapiens Suppati, scis quid de theologis his nostris sentiret Antonius, quando suessanam istam tuam hausisse a theologo eloquentiam cum scientia dicis, scis, inquam, quid de iis sentiret Antonius: optime cum ipsis agi quod in claustris atque in solitudine vivant, quod plebecula vanas eorum disputationes non intelligit; fore enim, si in publico vitam agerent, si eorum dissertiones notae vulgo essent, uti sutores formulis, ferrarii malleolis, indusiarii forficibus insectarentur,

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po’ più di libertà.275 Queste276 ragazze, in parte son maritate, in parte promesse spose, alcune non ancora stanno con un uomo; tuttavia, si può scherzare con loro e anche divertirsi con qualche po’ di libertà in più: non aver soggezione, dunque, di prenderti qualche distrazione: sono graziose e, con la scusa di vendere ortaggi e frutta, attirano gli uomini, ma il loro interesse è di vendere; così sono gli usi della nostra città. Difatti tu lo sai bene, buon uomo, che l’onestà e la disonestà sono giudicate secondo i luoghi, i popoli e le nazioni, e non si accordano tanto con la natura, quanto con le leggi e le consuetudini; e che alcune cose si apprezzano in un luogo, altre in un altro». 66. Che dire di più? Incominciò anche a discettare di virtù, e, infine, di Dio. A mala pena riuscii a sottrarmi a lei, e, andato via finalmente, domandai ad un conoscente da dove mai quella donna avesse attinta tanta dottrina, perché rimanevo interdetto non solo dinanzi a tanta cultura, ma a tanta eloquenza. «Questa donna – mi rispose – non si abbeverò al mitico fonte delle Muse, ma voltò e rivoltò, per parecchi anni, nella sua bocca la lingua di un teologo; né, come l’antico Ennio, sognò in Parnaso,277 ma stette a letto, vegliando, nelle braccia del teologo. È proprio dalla sua lingua che sgorga tanta suasiva eloquenza, è per bocca del teologo che lei discorre con tanto esuberante facondia:278 fu lui a infonderle lo spirito e a istillarle la rugiada, per cui il suo discorso ispirato stilla con tanta dolcezza». Adunque hai qualcosa da dire, Errico, contro la scuola? Vedi la potenza della scienza e dell’insegnamento, di un rapporto intimo? Ti rendi conto di quanta capacità sia riposta nella familiarità con i dotti? di quanta efficacia, in ogni genere d’insegnamento, dipenda da un rapporto continuo?279 Una donnicciuola usar l’eloquenza, una femminetta posseder la sapienza! Questo è certo un buon motivo per cui, facendo a meno dei grammatici, che sono noiosi, può fare ancora piacere la ricerca del sapiente. 67. ERRICO. O solerte e sapiente Suppazio, sai tu l’opinione che aveva Antonio di questi nostri teologi, giacché da un teologo la suessana di cui parli attinse – come dici – eloquenza e scienza insieme? Sai tu – ripeto – quale opinione ne avesse Antonio? che con loro si tratti benissimo, per il fatto che vivono nei monasteri e nella solitudine, e il popolino non comprende le loro vane discussioni; che se vivessero in pubblico, se le loro dissertazioni fossero note al volgo, i calzolai li assalirebbero con le forme, i ferrai con i martelli, i camiciai con le forbici, in primo luogo 233

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primum quod minime castam agant vitam, deinde quod inanissimis de rebus ad insaniam disserunt; ac si qui sunt qui veterem probatamque theologiam sequuntur, contemptui eos habent. Verum, si placet, optime Suppati, relictis his, peregrinationem perficias oro, ac si quid Capuae, si quid Aversae videris, noveris, compereris, explica. SUPPATIUS. Capuam ingressus obvium habui qui, quod physicum profiteri me crederet, consuluit quid oculis maxime conferre ducerem. Respondi: «Si causidicum advocatumque nunquam videris». – «Quid auribus?» – «Si nullam domi mulierem habueris». – «Quid stomacho?» – «Si nunquam in mensa cum sacerdote cardinale accubueris». Consuluit quid item rei familiari multum prodesset. – «A catalano mercatore mutuum non accipere». Quid ad vitae tranquillitatem: – «Aulas dominantium nunquam ingredi». Quod tempus minime esset utile: – «Quod audiendo fratri Francisco, cui Ispano cognomen est, impenderetur». Hunc ego ubi video plura quoque paratum quaerere: «Quando, inquam, faciendo itineri occupatus sum, quaeso, mutuum mihi redde et comitem, quo Neapolim usque commodiore uti possim, edoce». Tum ille: «Agrum, inquit, hunc nostrum peragranti, si bene tibi consultum velis, lupum comitem adhibebis; neque enim comite alio tot tantorumque molossorum rabiem evitaveris, atque utinam unus tibi satis sit lupus!» – «Atqui inquam, meus hic asellus uni lupo satis non est». 68. Egressus igitur Capua, puerum, quod aliquantulum de via fessus esset, asino impositum praecedere cum iussissem, ipse post sequebar; nec multum viae progressus, audio irrideri me a viatoribus ac fatuum dici, quod senex ipse ac pannis involutus pedibus iter facerem, puerum firmis pedibus atque expeditum asino ante ducerem. Itaque hand multo post cum iussissem puerum descendere, ipse asino vehi coepi; nec ita multum itineris confeceram, ecce qui me accusare coepit, quod validis viribus puerum aetate tenera atque imbecilla ire pedibus paterer, ipse asello veherer. E quo statim, crimen ut averterem, descendi bestiolamque ducere capistro coepi, nec multum ab Aversa aberam; ibi miris me modis ab iis, qui et ipsi oppidum petebant meque sequebantur,

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perché conducono una vita tutt’altro che casta, poi perché discutono di cose del tutto vacue, fino alla follia; e se ve ne sono alcuni che seguono la vecchia e collaudata teologia, li disprezzano. Ma se ti piace, carissimo Suppazio, lasciati da parte questi argomenti, ti prego di portare a termine il racconto del tuo viaggio, e di riferirci se a Capua, se ad Aversa, hai visto, hai saputo, hai scoperto qualcosa. SUPPAZIO. Entrato che fui in Capua, mi venne incontro uno il quale, credendo che facessi il medico, mi domandò quale rimedio, a mio parere, facesse più bene di tutti alla vista; risposi: «Non veder mai un causidico e un avvocato»; e all’udito?: «Non aver in casa nessuna donna»; e allo stomaco: «Non sedere mai a tavola con un cardinale». Mi chiese ancora che cosa giovasse di più al patrimonio domestico: «Non prendere denaro in prestito da un mercante catalano»;280 che cosa alla tranquillità della vita: «Non entrar mai nelle corti dei re»; quale fosse il tempo trascorso con minore utilità: «Quello speso ad ascoltare fra’ Francesco, soprannominato lo Spagnuolo».281 Quando mi accorsi che lui si preparava a farmi domande su domande, gli dissi: «Poiché sono occupato a fare un viaggio, ricambiami – ti prego – il favore e indicami una compagnia con cui possa raggiungere Napoli più agevolmente». Allora mi rispose: «Se vuoi un buon consiglio per attraversare la nostra terra, è questo, serviti della compagnia d’un lupo, giacché con nessun’altra compagnia potresti evitare la rabbia di così enormi molossi; e magari ti bastasse un lupo solo». «Ma – gli dico – questo mio asinello non basta nemmeno ad un solo lupo».282 68. Uscito, dunque, da Capua, feci sedere sull’asino un ragazzo ch’era un po’ stanco del cammino, e lo mandai avanti mentre io lo seguivo; sennonché, non avevo fatta ancora molta strada, che mi sento deridere dai passanti e darmi dello scemo per il fatto che camminavo a piedi, vecchio e appesantito dall’abbigliamento, mentre facevo andare avanti, sull’asino, un fanciullo con i piedi saldi e senza impacci.283 Non molto dopo, fatto smontare il ragazzo dall’asino, mi misi io a cavallo; e non avevo fatta così molta strada, che ecco uno comincia ad accusarmi di lasciar andare a piedi un ragazzo di tenera e debole età e di andare io, valido e forte, in groppa all’asino. Subito ne discendo per allontanare da me quest’accusa, e mi metto a tirare la bestia per il capestro, né ero molto lontano da Aversa; a quel punto mi sento criticare e diventare,284 per così dire, oggetto di crasse risate da parte di quelli che, come me, si recavano in città e mi 235

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condemnari atque, ut ita dixerim, excachinnari sentio, quod, cum puero una ferri asello commodissime possem, vacuum tamen illum atque expeditum reste ductarem. Quibus ut satisfacerem, ascendi cum puero asellum; vix autem oppidum intraram, cum sublatis primo cachinnis, post etiam clamoribus, intelligo me a popularibus incessi: «O senem delirum, o asellum miserrimum! Non corruit infelix sub tanta sarcina? non crepuit misellus? videtisne asinum asello vehi? sentitis quadrupedem beluam quam bipes belua est non adeo quidem beluam esse?» Denique pueri lapidibus me insectari coepere; quibus instigatus asinus currere cum coepisset, me cum puero una in lutum excussit; nec defuere qui pallio pedibus insultarent. Irrisus contemptusque, lutosam urbem luto collitus transeo, nec iam Suppatius ab iis quibus essem cognitus, sed Lutatius vocitabar. Atque hic quidem susceptae ob quaeritandum sapientem profectionis exitus ac finis fuit. Habes, Herrice, bone ac vetus amice, peregrinationis meae rationem, quae utinam Antonio nostro cognita esse posset. Verum cum illo melius actum est, quod solutus humanis curis inter beatos nunc agit, nec de sapientia ulterius solicitus est, cuius me studium, ut intellexisti, ad asinum redegit, tibique persuadeas velim multos divites, non paucos doctos recte dici et quidem esse, sapientem autem neminem. Qua de re post etiam plura; nunc Pontanum nostrum ut visam eo, quem Capuanam ingressus dextrum crus fregisse accepi atque e dolore vehementer laborare.

VI HOSPES, COMPATER, LUCIUS FILIUS. 69. HOSPES. Multa quidem a Siculis meis audio de Pontano hoc praedicari, eiusque in primis facilitatem atque mansuetudinem laudant cuperemque illum nosse atque alloqui ac per familiarem aliquem aditum ad eum habere, sed laenito dolore, qui dum crudior est, non tam facile visitationem admittit. Interim contentus ero qua facie sit novisse. COMPATER. Bona et recta statura, fronte lata, calvo capite, superciliis demissioribus, acuto naso, glaucis oculis, mento promissiori, macilentis malis, producta cervice, ore modico, colore rufo, adolescens tamen per-

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venivano dietro, perché, potendo io e il fanciullo esser portati dall’asino con tutta comodità, l’andavo tirando con la fune libero e spedito. Per accontentare costoro, montai sull’asino col fanciullo; ma ero appena entrato in città, quando mi rendo conto, prima dalle risate poi dalle grida che si erano levate, d’esser attaccato dai popolani: «Vecchio pazzo! Asinello disgraziato! Non è stramazzato il poveraccio sotto un carico di questa fatta? Non vedete? un asino si fa portare da un asino. Non vi accorgete che una bestia a quattro zampe non è tanto bestia quanto lo è una bestia a due?» Infine, i ragazzini incominciarono a scagliarmi le pietre, per cui l’asino, aizzato e presa la corsa, mi fece cadere col ragazzo nel fango; né mancò chi mi calpestasse il mantello. Deriso, disprezzato, tutto infangato, percorro la fangosa città, e chi mi conosceva non mi chiamava Suppazio, ma Lutazio.285 Sicché questo è stato l’esito finale del viaggio intrapreso alla ricerca del sapiente. Eccoti, mio caro Errico, vecchio amico, il resoconto del mio viaggio; e magari Antonio avesse potuto conoscerlo! Ma la sua sorte è migliore della nostra, perché, libero da ogni umana preoccupazione, sta ora fra i santi, e non si dà più cura della sapienza, il cui amore, come ti sei accorto, mi ha ridotto ad essere un asino.286 E vorrei che fossi persuaso del fatto che molti son definiti giustamente ricchi, non pochi, e lo sono veramente, dotti, ma sapiente nessuno.287 Sul quale argomento ci sarà in seguito ancora molto da dire. Ora, mi reco a far visita al nostro Pontano, che, come ho saputo entrando in Porta Capuana, si è fratturata la gamba destra e sta soffrendo molto per il dolore.

VI FORESTIERO, COMPATRE, IL FIGLIO LUCIO. 288 69. FORESTIERO. Veramente molti sono i pregi di Pontano che dai miei amici siciliani sento celebrare: lodano soprattutto la sua affabilità e la sua cordialità; e gradirei conoscerlo, parlargli, ed essere presentato a lui da qualche amico, ma dopo che si sia attutito il dolore, che non permette così facilmente una visita, finché rimane acuto. Frattanto, mi accontenterò di conoscerne la figura. COMPATRE. Grande e ritto di statura, la fronte spaziosa, calvo, sopracciglia piuttosto basse, naso affilato, occhi azzurri, mento un po’ sporgente, guance magre, collo lungo, bocca stretta, colorito rosso – ma molto 237

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palluit, reliquo corpore quadrato. Unum nunc illi male contigit, nobis amicis non incommode, quod pede altero debilior cum sit factus, in deambulationibus remissior futurus est. Sed bene habet, eius filiolus domo egreditur, quem compellasse non iniucundum fuerit, cum sit bona et laeta indole, atque, ut video, ad nos venit. Luciole, quid agit pater? 70. LUCIUS. Cum matre litigat. Accessit ad eum adolescentulus cum mandatis; putat illum mater missum a pellice; eam vociferantem quo magis ridet pater, eo vehementius irritat. Ego e cubiculo me proripui atque eo libentius, quod sacerdos ad eum ingressus est; vult enim mater sacerdoti se UT purget ac peccata nudet, rem sane importunam; sat enim scio matrem ET sua et patris peccata nudiustertius sacerdoti ordine aperuisse. Nam, cum ipse ad confitentis matris genua assedissem, maternam confessionem, aut rectius questum, attente aucupatus sum: «Bone sacerdos, maritus meus amat ancillulas, si quas facie liberali vidit, sectatur ingenuas puellas. Anno superiore Tarenti cum esset, cognovit non unam; anno ante in Etruria cum Gaditanula deprehensus fuit. Iocatur etiam domi cum Aethiopissis, nec pati possum eius intemperantiam. Ille ridet, ego dirumpor; perrectat urbem ac principum aulas, ego domi inter pedissequas partior pensa. Nam quid ego illum cum sodalibus, quibus quam familiarissime dies ac noctes utitur, nisi de amoribus deque voluptate loqui atque agere putem, cum interim misera IN cubiculo de re familiari solicita domesticis curis maceror? Dii me omnes aspexere quo die crus fregit; non licebit claudum totis diebus domo abesse, singulis horis prostibulas adire. Rideat nunc, urbem inambulet, frequentet sodalium domos, audiat via in media pellicum pueros; ego vel ex hoc deos aequissimos iudicaverim, quod tandem iusto eum supplicio affecere». 71. Quid igitur opus patrem errores iterato confiteri, quos mater tam aperte explicaverit? Nuper notus quidam et vetus, ut arbitror, familiaris patrem cum adiret, ubi eum vidit mater, ex... exclamare statim coepit: «Scilicet ab Etruria? ab scortillis? Quid agunt pisatiles meretriculae?»

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pallido nella giovinezza – ben squadrato nel resto del corpo. Questo solo guaio gli è capitato, non senza qualche vantaggio per noi amici, che avendo una debolezza al piede,289 dovrà essere più lento nelle sue passeggiate. Ma bene! Esce di casa il suo figliuolo, al quale non ci dispiacerà rivolgere la parola, perché il ragazzo ha un bel carattere ed è allegro, e come vedo sta venendo verso di noi. Lucietto, che sta facendo tuo padre? 70. LUCIO. Sta litigando con la mamma.290 È andato da lui un giovanotto con un’imbasciata; la mamma crede che sia stato mandato da un’amante; quanto più mio padre ride dei suoi schiamazzi, tanto più la fa irritare. Me la sono svignata dalla camera da letto, e tanto più volentieri in quanto vi è entrato un prete; la mamma vuole che lui si penta e riveli i suoi peccati, cosa del tutto fuori luogo, perché so bene che, l’altro giorno, ella riferì al prete, per filo e per segno, i peccati suoi con quelli di mio padre. Stando seduto sulle ginocchia di mia madre, ne ho, infatti, ascoltata attentamente la confessione, o meglio, la lagnanza: «Buon padre, mio marito corre dietro alle servette, se ne vede qualcuna graziosa, fa la corte alle ragazze oneste. L’anno scorso, quando stava a Taranto, ne ha conosciuta più d’una. L’anno precedente, in Toscana, fu scoperto insieme a una ragazza di Cadice. Anche in casa si sollazza con delle Etiopi, e io, questa smoderatezza, non posso tollerarla. Lui ride e io scoppio dalla bile: lui se ne va 291 per la città e per i salotti dei principi, ed io, a casa, in mezzo alle ancelle292 mi sottopongo alle fatiche domestiche. Di che cosa debbo pensare, infatti, che egli parli e si occupi con gli amici, con i quali in tanta familiarità trascorre i giorni e le notti, se non di amori e di licenziosità? Mentre io frattanto, poveretta, nella mia stanza, mi consumo col da fare domestico preoccupandomi della famiglia! Il cielo ha avuto pietà di me, quel giorno in cui si ruppe la gamba; diventato zoppo non potrà restar fuori casa intere giornate, e in ogni momento andare dalle prostitute. Rida ora, se ne vada passeggiando per la città, frequenti la casa dei compari, dia ascolto in mezzo alla strada ai ragazzi delle sue amanti: per questa ragione almeno dovrei ritenere giustissimi gli dei, che lo hanno colpito finalmente con una meritata punizione». 71. Che bisogno c’è, dunque, che il papà confessi di nuovo quei peccati che la mamma ha già spiattellati? Poco fa, recandosi da lui, come penso, un noto e vecchio amico di casa, penso io, mia madre, non appena lo ha visto, ha incominciato a gridare:293 «Naturalmente vieni dalla Toscana, dalle puttanelle; che se ne fanno le sgualdrinelle pisatili?294 (nell’ira, 239

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Prae ira non ‘pisanas’, sed ‘pisatiles’ dixit. «Ut valet Gaditana illa? ut memor est amorum hirquituli huius? detulisti ne ab ea litterulas, cum mandatis? ubi munuscula? ubi monumenta veterum deliciarum?» Ac tantum non manum iniiciebat; quod ille veritus retro ad ianuam mature concessit atque actutum abiit. Mihi pater, ut cederem innuit; ipso carmen decantare evomium coepit. HOSPES. Scitum puerum! Sed, obsecro, carmen evomium quod sit edoce. Lucius. Qui carmen dicit in mulierem furore percitam conversus ter despuit; illa statim bilem evomit ac rabie levatur. Ipsum autem carmen est: Triceps est Cerberus, ter te ego despuo Triplex est Eumenis, ter te ego despuo. Vomas, dico vomas, ter vome et improbam Pectore purgato rabiem ad Phlegethonta remitte.

HOSPES. Mirum huic carmini vim tantam inesse! Lucius. Ipsa res docet. Sed desine, obsecro, mater est in fenestra, cuius conspectum vereor. Valete bellissime.

VII [HERRICUS], SUPPATIUS, LYRICEN, HOSPES. 72. HERRICUS. Opinione citius redit ad nos Suppatius. Suppatius. Hoc deerat ad quaeritandam sapientiam, mulierem irritatam adire, ne id velit sapientiae ipsius pater Iupiter. Et disputant adhuc sapientes quidam de uxore ducenda! Non quidem si ipsa sapientia ducenda sit, uxor mihi ducenda videtur. Bonus tamen hic et constans Pontanus ridebat et vultu quidem quam maxime tranquillo; o confirmatissimi pectoris hominem! Mihi quidem, si haec vita est maritorum, ne ipsa quidem constantia videri virtus potest, quae vitae inquietudinem ac miseriam alat. Quid enim offirmatio tam constans ac perpetua, nisi

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disse «pisatili» invece di «pisane»). Come sta quella tale di Cadice? Si ricorda degli amori di questo caproncello?295 Hai portato una letterina da parte sua, con un’imbasciata? Dove sono i regalucci? Dove sono i ricordi dei piaceri d’un tempo?» E per poco non gli metteva le mani addosso; lui per timore, si ritrasse in gran fretta verso la porta, e sparì immediatamente. Il papà mi fece cenno di allontanarmi, e incominciò a recitare una cantilena vomitativa.296 FORESTIERO. Bravo ragazzo! Ma facci sapere, per cortesia, qual è questa cantilena vomitativa? LUCIO. Se uno pronuncia quella cantilena, rivolto verso la donna infuriata, e sputa tre volte, ella subito vomita la bile, e si libera dalla rabbia. Ecco i versetti: Tre teste ha Cerbero,297 tre volte sputo,298 son tre le Eumenidi, tre volte sputo. Vomita per tre volte e caccia l’empia rabbia, purgando il cor, nel Flegetonte.

FORESTIERO. Fa meraviglia che in questi versi ci sia tanto potere. LUCIO. I fatti lo dimostrano. Ma basta, fammi questa cortesia: mamma sta alla finestra, ed io ho paura di lei. Carissimo, addio.

VII ERRICO, SUPPAZIO, UN MUSICO, IL FORESTIERO. 72. ERRICO. Suppazio è di ritorno più presto di quel che potessimo pensare. SUPPAZIO. Ci mancava questo alla ricerca della sapienza, far visita a una donna infuriata! Che Giove, padre della stessa sapienza, ce ne scampi. E ancora certi sapienti disputano del prender moglie!299 A me non pare che si debba prender moglie, neanche se si dovesse sposare la sapienza in persona. Eppure il nostro Pontano, bonario e imperturbabile, rideva atteggiando il volto alla più grande tranquillità. Che animo forte, quest’uomo! Se questa è la vita dei mariti, io, a dire il vero, non posso considerare una virtù neppure questa imperturbabilità che alimenta l’inquietudine e la miseria della vita. Che cosa è, infatti, questa fermezza300 241

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continuae rixationis alimonia est? Valeat, valeat virtus ista coniugalis, litigiorum nutricula! Valeat maritalis vita! Ego me ad Herricum refero. HERRICUS. Quaeso, cur tam cito? SUPPATIUS. Dormiscere aiebant atque a dolore paulum modo requiesse. Interea dum edormiscat, Antoniano munere, si placet, fungamur. HERRICUS. Placet, ac perquam oportune lyricen et quidem non malus sese offert. Ades, lepide homuntio, lyram tange, amabo, sepositumque aliquid succine. LYRICEN. Perquam libenter: Ne faciem, Telesina, colas, neu finge capillum, Bella satis, soli si modo bella mihi. Munditiae, Telesina, iuvant, fuge candida luxum, Munditiis capitur deliciosus amor. Luxus obest formae, forma est contenta pudore, Ipse pudor veri iura decoris habet. Simplicitas nam culta sat est. Tu, lux mea, cultum Effuge, bella quidem simplicitate tua es.

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HERRICUS. Accipe mercedulam, et carmen ipsum itera. LYRICEN. Quin aliud potius? Sirenes madidis canunt in antris. Dum captas male subruunt carinas. Sic mortalibus ipsa vita blande Illudens canit ut dolosa Siren, Donec vel gravis ingruit senecta Aut mors occupat, estque nil quod ultra Iam restet nisi fabula atque inane.

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73. HERRICUS. Lepidissime, atque utinam non tam vere; quae autem facilitas est tua, etiam aliquid quod novum sit. LYRICEN. Quam libentissime, Suppatii praesertim gratia, senis tum iucundi, tum etiam musicae huius non imperiti:

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costante e perenne, se non alimento di un continuo litigio? Lungi da me, lungi da me questa virtù coniugale, madre di litigiosità.301 Vita coniugale, addio. Ora ritorno da Errico. ERRICO. Come mai così presto, per favore. SUPPAZIO. Dicevano che Pontano stava prendendo sonno,302 e che si era ripreso un po’ dal dolore. Frattanto, finché non si sveglia, se gradite, facciamo come faceva Antonio. ERRICO. Volentieri; e fa proprio al nostro caso un suonatore di lira, e, per giunta, non privo di pregio. Avvicinati, omino simpatico. Tocca, per piacere, la lira, e canta una composizione del tuo repertorio. MUSICO. Molto volentieri. Non ti curare il volto, Telesia, non tinger la chioma,303 sei già bella, se vuoi esserlo solo per me. È il lindore che amo, Telesia, da lusso rifuggi, dal lindore è rapito il voluttuoso amore. Il lusso avverso è al bello, cui solo basta il pudore, il pudore ha il dominio dell’avvenenza vera. Modestia è già eleganza. Da troppa finezza, mia luce, rifuggi, veramente bella per la modestia.

ERRICO. Prendi una monetina e recita questi versi da capo. MUSICO. E perché non altri, piuttosto? Negli umidi antri cantan le Sirene304 capovolgendo i poveri navigli. Così la vita gli uomini accarezza, li illude e canta come una Sirena, sin quando grave arriva la vecchiaia, o li assale la morte, e non rimane tranne una favola nient’altro, e il nulla.

73. ERRICO. Bellissimo, e magari non fosse così vero; ma giacché hai tanta versatilità, recita ancora qualche nuova composizione. MUSICO. Più volentieri non potrei. Specialmente per il piacere di Suppazio, un vecchio spiritoso, ma anche non poco esperto di questa musica.

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Dolce dum ludit Galatea in unda Et movet nudos agilis lacertos, Dum latus versat fluitantque nudae Aequore mamae, Surgit e vasto Poliphemus antro, Linquit et solas volucer capellas; Nec mora, et litus petit et sub altos Desilit aestus. Impiger latis secat aequor ulnis, Frangit attollens caput et per undas Labitur, qualis viridi sub umbra Lubricus anguis. Illa velocis movet acris artus Dum peti sentit; simul et sequentem Incitat labens, simul et deorum Numina clamat. Illicet divum chorus hinc et illinc Fert opem fessae. At Poliphemus ante Non abit, lassus licet et deorum Voce repulsus. Quam ferox nymphae tumidis papillis Iniicit dext[e]ram, roseoque ab ore Osculum victor rapit. Illa moesto Delitet amne.

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SUPPATIUS. Habetur a me tibi non parva gratia; habebitur et abunde quidem magna, si ut in Herrici gratiam sic in meam quoque adhuc aliquid dignum te, dignum hoc consessu, dignum etiam nova et rediviva ista disciplina. 74. LYRICEN. Geretur a me tibi mos. Utinam tamen is essem cuius ingenio musicae ipsi aliquid collatum esset! Ac ne ex eorum sim numero qui, ut ab Horatio iure irridentur, nunquam rogati cantare inducunt animum, etiam hoc accipe, in tuam atque Herrici ipsius, si tibi non displicet, gratiam:

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Mentre che Galatea gioca fra l’onde305 e svelta muove le nudate braccia, mentr’ella muove i fianchi e scorron nudi nel mare i seni, dall’antro vasto sorge Polifemo e, in corsa, lascia sole le caprette; presto, raggiunge il lito e nei profondi flutti s’immerge. Alacre solca a larghe braccia il mare, col capo in su lo fende e in mezzo all’onde scivola, come sotto l’ombra verde viscido serpe. Ella veloce fa guizzar le membra sentendosi rincorsa; e a quei che incalza sfugge, lo insulta e insieme dagli dei invoca aita; il divin coro allora d’ogni parte accorre a lei sfinita. Polifemo non molla, pur se stanco e da divina voce respinto. Con qual violenza della ninfa il seno turgido osò toccar, dal roseo labbro conquista un bacio, ella sparisce triste nella corrente.

SUPPAZIO. Non piccolo è il ringraziamento che ti rivolgo; e sarà ben più grande, se non solo per far un piacere ad Errico, ma anche per fare un piacere a me reciterai ancora qualche composizione degna di te, degna di questo consesso, degna anche di cotesta nuova arte rediviva.306 74. MUSICO. Ti accontenterò. Magari, tuttavia, fossi capace di dare qualche contributo alla musica col mio ingegno! E per non essere uno di quelli, giustamente presi in giro da Orazio, che non si prestano a cantare quando sono pregati,307 ascolta anche questo carme308 per far piacere a te e allo stesso Errico, se non ti dispiace:

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Ad quaercus, Amarilli, veni, dum retia servo, Aere dum timidas funda detrudo palumbes, Ipsa dolo errantem per devia falle sororem. Ipsa ades, o Amarilli, recens tibi caseus et lac Ad fontem pendetque gravis fiscella sub alno. Te cucumis viridisque pepon, hortensia dona, Te servata cavo iampridem subere mella Expectant; bini lento de vimine quali Servantur, quis labra niger flaventia claudit Iuncus et intexto dependent cornua cervo; Percurrit medius lacrimoso flore hyacinthus, Et niger auratas suspendit gracculus ansas, Gracculus, a dextra serpens latet et fugit ala. Quid cessas, Amarilli? duos tibi pascimus agnos, Hinnuleosque duos, quos matris ab hubere raptos Inter lactantes ipsi saturavimus hedos; Nec dominum ignorant catuli veniuntque vocati. Est mihi praeterea, thalami seposta supelex, Supparus; hunc nevit Lyrineia, texuit Alcon, Palladi dilectus Alcon, cui tortile collum Nectit ebur, laevi stringit nova fibula buxo; Brachia ceruleae decurrunt tenuia lanae, Lanae, quis medius pavo nitet intertextus, Filaque purpureus miscet variantia limbus. Haec tibi servatur festis, Amarilli, diebus Rara chlamys, rarum specimen, mirabile textum, Vel tibi ut invideat Lalage, rumpatur ut Olcas, Spectatum veniant ut munera ad ipsa Napeae, Maeonis ut tantum decus admiretur Aragne. Obvius ad corylos venio tibi, hic mihi primos Amplexus, Amarylli, dabis, dabis oscula prima. Lenta lego ad cerasum duo succina quae tibi servo; Altera celatum culicem stridentibus alis Includunt, tenui sub cortice murmurat ales, Altera nutantem sub iniquo pondere celant Formicam; illa honeri incumbens trahit horrida farra. Haec primo pro complexu tibi munera sunto.

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Sotto le querce, Amarilli, ti attendo guardando le reti,309 e con la fionda timide colombe nell’aria respingo. Tu con astuzia sfuggi, deviando, all’errante sorella, vieni, Amarilli,310 fresco il cacio ti attende col latte, ed appesa a un ontano, sul fonte una piena fiscella. Il cocomero e il verde pepone che donano gli orti, il miel, che ho conservato da tempo in un sughero cavo, T’aspettan; due panieri ancora di vimini molli serbo, cui cinge i bordi giallini, all’intorno uno scuro giunco, e sovresso appese le corna intrecciate d’un cervo; e vi corre nel mezzo il fiore del triste giacinto, i manici dorati una nera cornacchia sostiene, Una cornacchia, e ascoso aleggia da destra un serpente. Perché ristai, per te, Amarilli, due agnelli pasciamo, e due cerbiatti ancora, sottratti alle poppe materne che furon da me insieme ai capretti lattanti nutriti, mi conoscono i cuccioli, e vengono, quando li chiamo. Tengo inoltre uno scelto arredo da letto nuziale, un mantel che filò Lirineia ed Alcone ha tessuto (Alcone caro a Pallade):311 il collo un legame d’avorio ritorto annoda, e di bosso sottil rara fibbia lo chiude; scendon le maniche fatte di cerulea lana, squisite, lana, su cui a ricamo in mezzo risplende un pavone, purpureo lembo mesce nei fili i colori più vari; a te pei dì festivi, Amarilli, fu riservata, clamide rara, raro modello, mirabil tessuto, tal che l’invidii Lalage, ed Olca perfino si roda, sicché a mirar cotesti doni vengano pur le Napee,312 e Aragne313 di Meonia a tal grazia stupita rimanga. Ai nocciòli ti vengo incontro, tu qui mi darai i primi abbracci, Amarilli, e baci tu qui mi darai. Al ciliegio due solide ambre colgo e per te le conservo; l’una, nascosta dentro, una zanzara ronzante racchiude (sotto il guscio tenue l’ali van mormorando). L’altra nasconde, e oberata dal peso suo sembra oscillare, una formica; che l’irto farro al carico intenta trascina.314 Saranno questi i doni pel primo abbraccio a me dato. 247

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Quid moror? en coryli iam summa cacumina motant, Iam strepitant virgulta, Lycas latrat, eia, age, Thyrsi, (Ipsa venit) propera, miserum me, num strepit aura?

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HERRICUS. Plenos voluptatis nos relinquis ac bonae spei, suavissime homo; nam quanquam multum tibi aetas debet nostra, qui ex agresti illa musica sic emerseris, debituri tamen plura multo sunt posteri, si qui te volent imitari. Fore enim speramus, si quos tui similes reliqueris, uti pristinam in dignitatem excellentiamque restituatur; tametsi quantum ipse hac in re profeceris non ignoramus. 75. LYRICEN. Si quid profeci, gaudeo; quamvis quid profecisse potuit homo tantis tum suis tum alienis impeditus curis? Voluntas certe non defuit, defuere ocia, quodque paucos admodum novimus qui studiis his delectarentur; qua e re voluntas ipsa non parum pertepuit et, ut verius loquar, refrixit. In magnis tamen occupationibus et seculorum iniquitate, si quid aetati nostrae attulimus ornamenti, laetamur, nec laborum poenitet, quos gravissimos ab adolescentia ipsa suscepisse non diffitemur, qui minus quidem apparent propter castrenses molestias, quae optimam vitae partem studiis eripuere. Sed desinam de iis dicere, ne de me ea ipse praedicem quae ab aliis coram praedicari non paterer. Satis enim et olim habui, si perpaucis, et nunc habeo, si vobis gravissimis senibus Musa nostra non displicet. Nec est quod ullas a vobis expectem gratias, tantum oro ut abire me quamprimum, postquam aliqua ex parte vobis satisfeci, aequo animo feratis; invitatus enim ad amici nuptias propero, hymeneum decantaturus. HERRICUS. Et abire te quam aequissimo animo patimur, quamvis utinam nobiscum esse te et saepius et diutius liceret, et gratias etiam quantas possumus maximas agimus, qui animos nostros tam suaviter varieque delinieris. LYRICEN. Valete igitur, continentissimi senes. 76. HERRICUS. Et tu, lepidissime homo, abi quam auspicatissime. Admiraris, bone hospes, homuntionis huius canendi, ut video, suavitatem ac sub tam remisso incessu ingenii nobilitatem tantam. Scias velim usur-

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Perché tardo? di già i nocciòli, ecco, muovon315 le cime, già i virgulti risuonan, Lica316 abbaia, fa presto, mia Tirsi, (lei vien) devi affrettarti; ahimè, forse è il vento che echeggia?

ERRICO. Completamente appagati ci lasci e pieni di buona speranza, carissimo; che, sebbene molto ti debba la nostra età per esser venuto fuori da quella musica contadina, tuttavia molto ti saranno debitori i posteri, se ti vorranno imitare. Speriamo, infatti, che se lascerai eredi simili a te, il mondo ritorni alla dignità ed eccellenza antica, pur sapendo bene quanto tu già in questo campo hai fatto progressi. 75. MUSICO. Se ho fatto qualche progresso, son contento; sebbene come può aver fatto progressi un uomo impedito da tante preoccupazioni sue e altrui? Non mi è mancata certo la volontà, è mancato il tempo libero e il fatto che conosco molto pochi disposti a dedicarsi con piacere a quest’arte; perciò la stessa buona volontà non poco si è molto intiepidita, e per dire la verità, si è raffreddata. Tuttavia, se in mezzo a tante occupazioni e fra tanta avversità della storia abbiamo arrecato qualche onore alla nostra età, ci rallegriamo, e non mi pesa la fatica fatta, che non nego essermi accollata in tutta la sua gravità sin da quand’ero ragazzo e che è poco nota a causa delle noie militari, che hanno sottratto i migliori anni agli studi. Ma la finirò di parlare di questo argomento, per non andar dicendo di me stesso quello che io stesso non sopporterei che altri andassero dicendo in mia presenza. Fui soddisfatto un tempo se a pochissimi non dispiacque la nostra poesia, e sono soddisfatto ora, se piace a voi, signori tanto austeri. Né c’è qualche ringraziamento che io mi attenda da voi, vi prego soltanto che di buon grado mi lasciate andare al più presto, giacché in qualche modo vi ho soddisfatto, perché sono stato invitato alle nozze di un amico, e mi affretto ad andarci per cantare un inno matrimoniale. ERRICO. Ti lasciamo andar via assolutamente di buon grado, sebbene vorremmo che potessi stare con noi più spesso e più a lungo, e ti ringraziamo quanto più si può, per averci allietato l’animo con tanta dolcezza e varietà. MUSICO. Addio dunque, onoratissimi signori. 76. ERRICO. E tu simpaticone, va con i nostri migliori auguri. Ti meravigli, caro forestiero, della dolcezza con cui canta questo ometto e del fatto che sotto un portamento così modesto ci sia tanta nobiltà. Devi 249

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pare solitum Antonium coeteros fere omnes huiusce artis studiosos ingenii sui ostentatores esse, hunc autem dissimulatorem et, quod ipsi saepe audivimus, cum aliis plurimum tribueret, sibi ipsi vel acerrime detrahentem. Sed, quaeso, utorne ego recte oculis? quaenam haec pompa est? Dii boni, qui grex personatorum! Et hoc quoque recens Cisalpina e Gallia allatum est. Deerat unum hoc civitatis nostrae moribus tam concinnis! Praegreditur tubicen. Sequitur hedera coronatus, quasi populo recitaturus; quis novus hic vates, tantum secum adducens personatorum? o larvatorum urbem, o fanatica ingenia! Quid quod pulpitum ac subsellia extruunt? an sibi audientiam parant? O iucundissime Antoni, ubi nunc es? ubi risus ille tuus leposque tam salsus? Ascendit vates pulpitum, auditores consedere. Canit iam tubicen, audiant ocio qui abundant. Me satis quidem fuerit in adolescentia delirasse, aetati huic compositiores sunt mores induendi; atque, ut video, experrectus somno Iovianus nos per puerum ad se vocat. Licet et te, sicule hospes, nobiscum ad amicum et perhumanum hominem ingredi. HOSPES. An est quod magis cupiam? vos praecedite, ego sequor.

ISTRIO PERSONATUS. Tacete atque silete atque animum advortite, Novam afferimus vobis quae vetus est fabulam. Muti tacete, mutos tam diu volo Silentium dum rumpat plausus, editus Lingua, manu, pedibus quam clarissimus. Hoc qui faciet plausum post editum bibet. Tacent: nimirum sitiunt omnes maxime. Atqui licet potare plausum ante editum; Adest cadus, caupo, guttum atque urceus. Caveat tamen qui bibit, ebrius ne cubet; Silentium non somnum mutamus mero. Illi promito, caupo, sedet qui ultimus; Vinosum eum esse non somniculosum indicat

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sapere che Antonio per abitudine ripeteva spesso che degli altri cultori di queste arti, quasi tutti sono ostentatori del proprio ingegno, mentre costui è un dissimulatore317 del proprio ingegno, ed è, come spesso abbiamo personalmente udito, uno che sottrae meriti a se stesso perfino eccessivamente, mentre ne attribuisce. Ma, di grazia, ci vedo bene? Che cos’è questo apparato? Santo Dio, che folla di maschere! Anche questo è stato introdotto di recente dalla Gallia Cisalpina.318 Mancava solo questo ai costumi così corretti della nostra città! Si fa avanti un trombettiere. Lo segue uno coronato di edera, come per recitare al popolo; chi è questo nuovo poeta che si tira appresso tante maschere? O città di fantasmi, o teste di pazzi! Come, mettono su un pulpito e degli sgabelli? Si preparano a farsi ascoltare? O carissimo Antonio, dove sei? Dov’è quel tuo sorriso e quel tuo spirito così sapido? Il vate è salito sul pulpito, gli uditori si sono seduti.319 Il trombettista suona, ascoltino quelli che hanno tempo da perdere. A me è bastato andar folleggiando in gioventù, a questa età bisogna assumere comportamenti più seri; d’altra parte, come vedo, svegliatosi dal sonno Gioviano ci manda a chiamare con un ragazzo. È permesso anche a te, forestiero siciliano, assieme a noi entrare in casa di un amico e di un uomo tanto gioviale. FORESTIERO. C’è altro che possa desiderare? Andate avanti, io vi seguirò. ATTORE MASCHERATO.320 Zitti, silenzio, e qui volgete l’animo, nuova ve la portiam la vecchia storia. Silenzio, a lungo vo’ che stiate mutoli, finché il silenzio venga il plauso a rompere con la lingua, le mani e i piè, fortissimo; chiunque applaude dopo avrà da bevere. È chiaro, avranno tutti sete: tacciono. Bere è lecito pur prima d’applaudere; c’è un oste, c’è un bicchier, c’è un goccio e un’anfora. Ma stia attento chi beve a non distendersi; col vino non il sonno, ma il silenzio scambiam. Mesci, oste, a chi è seduto ai margini: gli piace ber, non vuole gli occhi chiudere, 251

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Productus nasus, eminens, tuber, rufus. Ipse hoc fatetur, ridet: habent hoc ebrii, Rident libenter, risus nam sitim excitat, Novum tamen poetam ridere abstine. Coenabis post silentium, pretium hoc erit, Imo potabis large, abunde, gallice; Ridere sed iam desinas postquam satis Potasti, nasum emunge, atque aures arrige, Novum dum vates carmen pulpito intonat. Prius tamen argumentum hoc explico tibi: Dum castra haberet ultimis in finibus Ispaniae Sertorius dumque aggredi Parat Pompeius ex improviso eum, Fit per exploratores ipse certior. Cogit in campis copias; committitur Ab equitatu certamen saevum, atrox, dubium, Equi virique hinc illinc confossi cadunt. Duces accurrunt propere, instructo agmine, Pugnatur vi, dolo, fraude, audacia. Nox proelium ac Dianae nuntia dirimit. Habetis argumentum veteris fabulae. Heus, tu, qui dexter assides, subrigito Oculos ac mentulum; quid spectas humum? Paulatim sic, ut video, somnum provocas. Ridetis? dixi mentulum, non mentulam; Nec est peccatum; a mento, non menta editum est Vocabulum. Novus sed vates incipit, Demulsit barbam, hederam capiti implicuit. Tacete atque silete atque animum advortite.

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POETA PERSONATUS. Ipse autem auratis fulgens Sertorius armis Agmina cogebat campis; huic filius astat Hernicus hispanaque satus de matre Marullus. Hic peditem, ille equitem addensat, sua signa tribuni

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lo mostra il naso prominente e rutilo. Lui dice sì, ridendo; han questo gli ebrii, che ridono, la sete il riso suscita, ma del poeta nuovo non de’ ridere, compenserà una cena il tuo silenzio. Anzi berrai, francese, con del supero; ora hai bevuto assai, smetti di ridere, soffia piuttosto il naso, e su le auricole, mentre il nuovo poema ormai dal pulpito intona il vate, ed io la trama espongoti. Era accampato negli estremi limiti della Spagna Sertorio, ed a scagliarvisi era Pompeo d’un tratto già sollecito. Lui dalle spie viene a saperlo ed incita nei campi le sue forze; un fier dissidio, atroce, incerto, i cavalier cominciano, cavalli e fanti insiem feriti cadono. Accorron con le schiere i duci rapidi e si lotta con forza, inganno, audacia. Notte e Diana alfin la zuffa troncano. Ecco a voi l’argomento della storia. Ehi tu, che siedi a destra, addrizza gli oculi e il picciol mento; perché miri il lastrico? Fra poco al sonno te ne andrai, lo immagino. Ridete? Ho detto «il mento» e non «la minchia»; non è un error, da «mento» quel vocabolo viene non già da «menta». Ecco che inizia il neovate. La barba accarezzandosi, intorno al capo avvolse il vate l’edera. Zitti, silenzio, e qui volgete l’animo. POETA MASCHERATO. Lui, Sertorio, splendea d’armi dorate con le sue schiere in campo, Ernico, il figlio, seco e Marullo ch’ebbe madre ispana. Questi i fanti raduna, i cavalieri 253

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Expediunt, portis ruit indignata iuventus Praevenisse hostem et montis iuga celsa teneri. Non aciem campo statui aut dare signa maniplis Pompeianus eques patitur, volat agmine facto Praecipitans. Primi Mariusque acerque Severus Occultam nacti vallem, qua proxima ducit Semita, limosumque ferunt vestigia ad amnem. Astitit in ripa Marius prior; hunc vada nantem Accipiunt tranquilla, ferox sed flumina servat Mallius. Hic duro traiecit pectora conto Percussitque ferum saxo; caput abdidit alveo Attonitus sonipes, Marium rapit unda dehiscens Atque hastae rotat infixum. Fortuna Severo Haud melior fuit; acta manu cava tempora quassat Funda levis cerebroque lapis compactus adhaesit; Decidit exanimis vitamque effudit in undis. Ter fluvio emersit iuvenis, ter gurges anhelum Hausit hians, mox et trunco suffixit acuto. At Catulus Catulique genus Quintillus et asper Tertullus patriique haeres cognominis Oscus, In levam flexere; comes simul additur illis Ispanus Bicia exclamans: «Quo vertitis? huc vos, Huc, iuvenes, ite ad pontem, dux ipse viarum Praecedo». Dixitque et per vestigia nota Delatus, pontem ingreditur; tum coetera pubes Insequitur, furit immissis equitatus habenis.

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l’altro, e i tribuni le bandiere sciolgono. Dalle porte precipita indignata la gioventù, che giunto sia il nemico i sommi gioghi ad occupar del monte. Né di schierarsi in campo i cavalieri di Pompeo sopportar, né che ai manipoli pervenisse il segnal, fatta la squadra slanciansi a volo. Fuoro primi Mario e il feroce Severo, guadagnata l’occulta valle, ove un sentier vicino alla corrente conducea fangosa. Mario per primo si fermò alla riva e calmo il guado l’accogliea nuotando, ma intrepido sta Manlio e osserva il fiume. Con dura trave e’ gli trafisse il petto, e colpì con un sasso l’animale; a quel colpo il destriero immerse il capo nel fiume, l’onda s’apre ed inghiottisce Mario e lo fa rotar nell’asta infisso. Non fu a Sever più mite la fortuna. Una fionda veloce sconquassogli le tempie e il sasso si piantò nel capo, cadde e la vita fé esalar nell’onde. Tre volte venne fuor del fiume il giovane, tre volte il gorgo l’inghiottì, e in cima a un tronco l’infilò. Catulo invece ed il figlio Quintillo e il fier Tertullo, Osco, del nome di sua patria erede, si volsero a sinistra; e vi si aggiunge Beccia l’ispan, che grida: «Dove andate? Voi qui venite, giovani, ed al ponte si vada, ch’io per esser vostra guida vo innanzi», disse, e sul cammin ben noto recatosi, sul ponte entra e lo segue tutta la torma, e la cavalleria si lancia infuriata a briglia sciolta.

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Obvius his equitumque ciens peditumque catervas Fit Rutilus Rutilique gener Veranius et qui Prima puer Musis dedit ocia, moxque secutus Arma, tulit meritum primae legionis honorem, Pontius, a quo etiam ducta est pontana propago; Quem sequitur volucerque Melas alacerque Metiscus, Et Pardus gladio melior, Chariteius hasta, Insignes hederis meritaque ad tempora fronde, Et cui casta comas tegit infula, certus et arcu Et certus conto pugnax Corvinus acuto. Primus in adversum torquet Veranius hastam Quintillum, quae praecipiti delapsa ruina Per clypeumque femurque viri penetravit ad imum Pectus equi; gemuit sonipes, dumque excutit illam Innitens, dum ferratis hic calcibus auras Verberat, excussa Quintillus labitur hasta. Accurrit pater ac, telo per tempus adacto, Deturbat Rutilum. Inde Melas dum fervidus instat, Dum Catulo cadit avulsus de pectore thorax, Exegit medium praecordia ad intima ferrum. Labenti dum ferrum iterumque iterumque coruscat, Sensit praecipitem vento stridente sagittam; Quam dum declinat iuvenis, forte ilia in Oscum Obvertit, lateri et telum crudele recepit. Extraxit telum obnitens ac talibus infit: «Non tibi mentitum, Osce, genus veteresque parentes Profuerint, Fauno aut mater dilecta petenti».

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Vanno contr’a costor, le truppe aizzando di fanti e cavalier, Rutilo e il suo gener Veranio con colui che in pria offrì l’ozio alle Muse e poi seguendo le armi ottenne il meritato onore della prima legion, dico quel Ponzio da cui discende la pontana prole. Mela veloce e l’alacre Metisco il seguon, Pardo e Cariteo, più bravo quei con la spada, questi a lanciar l’asta, d’ellera insigni e con la fronte ornata di meritate fronde, e ’l Corvin fero, cui le chiome ricopre infula casta, che, infallibil con l’arco, non fallisce mai con la lancia combattendo acuta. Scaglia l’asta primier contro Quintillo Veranio, ratta per lo scudo e il fianco penetrò del guerrier, fin giù nel petto del cavallo; il destrier gemette; e mentre fa per scrollarla, ed il destrier coi ferri scalcia nell’aria, scossa l’asta, scivola Quintillo. Il padre accorre, e con un presto dardo Rutilo atterra. E Mela, allora che furioso incalzava, e la corazza cadea dal petto a Catulo, gli immerse fin nel profondo del suo core il ferro. Una e due volte ei vibra il colpo, mentre quegli vacilla, quando sente al vento strider una precipite saetta. Il giovin tenta di scansarla e il fianco e’ verso Osco rivolge, onde il crudele dardo nell’anca ricevette; a viva forza l’estrasse e a dir comincia: «Gli avi e la mentita stirpe a te per nulla varranno, o quella madre che soggiacque al piacere di Fauno assalitore».

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Tum clypeo assiliens ensem quatit et ferit ora Nuda Osci, cum forte levis cervice reflexa Cassis hiat; cruor auratis diffunditur armis. Ingeminat perque ora Melas perque ilia ferrum; Ipse iterum lateri accepit moribundus acutum Ensem, auratum ensem; mox corruit, acer et una Corruit Oscus et ingenti premit arva fragore. Attonitae stupuere acies. At Pontius instat: «Ite, viri, mecum ite, viri, succidite pontem Dum trepidant, nullo et liber custode tenetur». Haec ait, et rapta primus volat ipse securi, Desiliitque pedes. Sequitur cuneata iuventus. Tum Bicia increpitans: «Quo nunc, Tertulle? quid haeres? In ferrum, Romane, rue». Atque hinc talia fatus In medium incurrit peditem; nec defuit illi Tertullus, volat aurato conspectus in ostro, Nunc iaculo, nunc ense micans, fit vi via. Saevit Effera vincentum rabies rabiesque cadentum. Forte ut erat prolapsus equo Veranius, alte Sustulit attollens oculos telumque vibrantem Suspexit Biciam. «Quo tu, quo, pessime, telum, Carpetane, vibras? en hoc, ait, accipe». Et armos Una haurit, simul abreptas detruncat habenas Bellatoris equi, tum cominus ense reducto Perforat ingentemque alta prosternit in haerba. In Biciam se cuncta cohors stipata ferebat; Pro Bicia ferus assurgit Tertullus. At illi

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Indi erompendo con lo scudo scuote la spada e lo scoperto viso ad Osco ferisce, quando al ripiegar del capo l’elmo leggero lascia un varco; il sangue sull’armi sue dorate si riversa. Raddoppia Mela su la faccia e l’anca il colpo; e quei riceve moribondo ancor nel fianco la ferita acuta dalla spada dorata; e cade, cade Osco violento insieme a lui, riempiendo d’incredibil fragore il campo intiero. Stupir le schiere attonite, ma Ponzio: «Con me, prodi, venite, recidiamo il ponte, infin che la custodia è nulla et ei son trepidanti», e insiste, primo la scure sua brandendo ei vola, e a piedi smonta. Lo segue giovanile schiera. Allor Beccia gridando: «Orsù Tertullo: che fai, che aspetti? Contro l’arme irrompi, se sei romano», e così detto in mezzo ai fanti si precipita; gli è dietro Tertullo, vola sfolgorando in vesti e di porpora e d’oro, ora la spada, ed ora un dardo fa brillar d’intorno. E con la forza s’apre un varco. Rugge dei vincitor la rabbia e dei caduti. Sbalzato dall’arcion, Veranio in suso rivolse gli occhi ed avvertì che Beccia vibrava un dardo: «Or dove tu, ribaldo, dove tu vibri il dardo, o carpetano? Prenditi questa» disse, e del destriero il fianco offese e gli strappò le briglie; poi da presso, la spada sfoderando, lo trafigge ed abbatte giù nell’erba il gran corpo di lui; tutta la turba verso Beccia s’aduna e lo circonda. Si leva a pro di Beccia il fer Tertullo. 259

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Succidit iugulum, Parca indignante, Metiscus; Concidit, ut tenuis cum flos enectus aratro est, Insignis facie puer et florentibus annis. Nec mora sive aliquis, dubium, miles ne deus ne Sustuleritque manum iaculumque intorserit, intrat Loricam galeamque inter ferratilis ornus, Qua cervix commissa humeris, nam fata Metisco Nec sua non properant Biciae seu cana senectus, Cui caput avulsum collo maurisius Atlas Atque hastae infixum ostentat; quo territa retro Pompeiana acies pontem turbata petebat. Urgebat fugientem hasta Chariteius, ut se Proripit e specula; simul et clamore premebat Iuncta cohors; illi abruptis referuntur habenis. Saevit at hic gladio incumbens Corvinus et harpe, Ut quondam lupus in pecudes furit; omnis ab uno Grex fugit, ille atrox et dente cruentat et ungui. Pontius, ut sensit strepitum, ac nutantia vidit Robora et attrahere immanem tabulata ruinam, «Cede, inquit, generosa phalanx, fugientibus, ipsi Ferratis ad ripam hastis incumbite, qua se Volvit agens retroque vagus convertitur amnis». Hic vero turbatus eques clamante tribuno Constitit. Instaurata acies; tum Pardus et Actor Sulpitiusque Aniusque et aviti nominis Arunx Incumbunt, Variusque et poeno e sanguine Hiensal, Marmaridesque Mahar atlantiadesque Maharbal, Et Bostar barceus et pyreneus Hierus

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Ma allor Metisco (ché con quei la Parca era indignata) gli troncò la gola. Lui cadde, come un fior sotto l’aratro bello d’aspetto e ancor nel fior degli anni. Tosto, chissà se un combattente o un dio la man sostenne per scagliare il dardo, fra la lorica e l’elmo entra la punta dove la nuca al collo si congiunge, ché a Metisco s’affretta ed anco a Beccia il rio destino, o la bianca vecchiaia; a lui dal collo il mauritano Atlante stacca la testa e nella lancia infissa la va mostrando; con terrore indietro l’armata di Pompeo correva al ponte. Inseguia i fugitivi Cariteo con l’asta in pugno prorompendo fuori dalla vedetta, e insieme, ad alte grida, la coorte incalzava; arretrar gli altri a briglia sciolta. A questo punto incombe con la spada e la scure e incrudelisce Corvino, come allor che un lupo impazza e ’l gregge tutto da lui solo fugge, mentr’ei crudel coi denti azzanna e l’unghie. Come avvertì lo strepito e oscillare vide i sostegni, e una rovina immensa trascinar gli assi, «Strada – esclama Ponzio – coraggiosa falange, ai fuggitivi! E con l’aste ferrate itene addosso lungo la riva, dove il fiume scorre e in suo vagare si rivolve a retro». Allor turbati i cavalier si serrano al grido dei tribun. Pronta è la schiera: Pardo ed Attore con Sulpicio ed Anio incombono ed Arunte, antica prole, con Vario e Iempsale cartaginese, il marmaride Maar, e dagli atlantidi Maarbale disceso, il barceo Bostar, 261

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Androclidesque Maron antenoridesque Boriscus, Atque alii, decus egregium quos traxit in arma, Quique repostus equo Veranius aegra trahebat Corpora, sed vincit famae generosa cupido. Maeoniae nunc plectra, deae, cantusque ciete Et bello decus et decori longam addite famam. Non alias equitum maior seu maior equorum Ardor, utrinque duces stimulant, utrinque tribuni: «State, viri, pugnate, viri» clamatur utrinque, «Quo ruitis? Pompeius adest, incumbite fessis», «Impiger adventat Sertorius». Arma cruore Sparsa madent crepitantque enses, clypeique resultant Impacti clypeis fractaeque hastilibus hastae. Tum varius clamorque equitum atque hinnitus equorum; Dissultant ripae et voces nemora alta remittunt; Non aliter quam cum bello flagrante gigantum Aeoliam ad Liparen sudat vulcania pubes; Fit strepitus, ferrique fluunt aerisque metalla; Antra sonant validis incudibus itque cavernis Immistus fumo sonitus; cava murmurat Aetna Vicinaeque fremunt valles, maria ipsa resultant, Ac longe fragor ingeminans defertur ad auras. Hic Pardo suffossus equus, cadit impiger Actor Androclidesque Maron, traiectus et ilia conto

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Iero qua giù dai Pirenei venuto, e Maron degli Androclidi e Borisco d’Antenore progenie, e ne son altri che all’armi trasse il gran disio d’onore. E quel Veranio che, rimesso in sella, ancora trascinava il corpo stanco, ma pur vince di gloria il fer disio. Ora, Meonie dee, e il plettro e il canto movete, e gloria ai fatti ed alla gloria lunga fama aggiungete; in nessun loco maggior fu di cavalli e cavalieri l’ardore, i duci d’ambo i lati istigano, ed i tribuni: «Resistete, o prodi, combattete ben saldi, o prodi» gridasi d’ambo le parti «Dove ruïnate? È qui Pompeo, su chi è sfinito, addosso piombate», «or qui Sertorio alacre arriva». Di sangue asperse son l’armi grondanti, e delle spade s’ode il tintinnio, risuonan gli elmi urtando agli elmi e l’aste urtando contro l’aste anco s’infrangono. Ecco, vario il clamor dei cavalieri e ’l nitrir de’ cavalli, dalle rive il suon rimbalza e gli alti boschi echeggiano; non altrimenti, allor che dei Giganti ferve la pugna, la vulcania prole suda all’eolia Lipari; uno strepito si leva e sciolti il ferro e il bronzo scorrono. Rintuonan gli antri al suon di dure incudini e va per le caverne mescolato il suono al fumo; l’Etna cava mormora, fremon le valli accanto, i mari echeggiano e il fragor lungi si solleva al cielo. Quivi trafitto fu il cavallo a Pardo, cade il solerte Attor con l’Androclide Marone, attraversato da uno strale nel ventre Arunte, ahi misero, procombe 263

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Corruit infelix Arunx Bostarque Maharque, Ense Mahar, iaculo Bostar per pectus adacto. Sulpitius dextra execta levaque Maharbal Inviti excedunt pugna. Veranius hastam Crure trahit, dumque illam Anius convellere tentat, Accipit aeratam per colla exerta bipennem. Tum vero turbata phalanx cedente Borisco, Quem clypeo exutum et galea Catilina premebat, Syllanum genus et rara virtute tribunus, Vociferans: «En qui Hesperiam sua praemia poscunt, Oceano et regnare parant!». Simul exigit harpen Ore tenus dictisque ferox insultat amaris: «Hesperiam quam quaeris habes; patavina colebas Rura, miser, nunc auratis occumbis in arvis». Tum Fabium Titiumque ferit flavumque Libyscum Fonteiumque et quos Elice de matre gemellos Sustulit eleis praetor Vipsanius oris, Almonem Andronemque et cumanum Labeonem. Dat loeto Laufenum et amicum Nerea Musis, Nerea praestantem forma et puerilibus annis, Quem liquidis Sebethos aquis, quem coerula flevit Parthenope, quem Nereidum chorus omnis et hudae Sirenes conturbatis flevere sub antris. Has inter strages Variusque et fortis Hiensal Stabant invicti ferro, truduntque trahuntque, Vulnera dant sternuntque. Prior sic fatur Hiensal: «Macte, Vari, virtute, vides qua sorte ruat res?

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con Bostar e Maar, questi una spada quegli uno strale ricevea nel petto. Sulpicio a la man destra, a la sinistra Maarbal mutilati escon dal campo controvoglia; Veranio un giavellotto va trascinando con la gamba, e mentre Anio cerca di svellerlo, sul collo nudo riceve una ferrata scure. Rimasta, al ritirarsi di Borisco privo di scudo e d’elmo ed incalzato da Catilina, la falange attonita, quel di stirpe sillana alto tribuno iva dicendo: «Ve’ chi per sé brama d’Esperia il regno e di regnare anela sull’Oceàno!». Gli ficcò la spada infin al viso e con amari detti insiem l’assale e con cotali ingiurie: «Quell’Esperia che cerchi eccola, aravi, misero, i campi padovani e adesso nelle terre dell’oro hai sepoltura». Indi ferisce Fabio e Tizio e il biondo Libisco, e ancor Fronteio, et i gemelli d’Elice figli, che il pretor Vipsanio in Elea allevò, Almone e Androne, e Labeon cumano; a morte invia Laufeno e quel Nereo caro alle Muse, Nereo bello d’aspetto e ancor fanciullo: Sebeto il pianse con le limpide acque e Partenope ancor con gli occhi azzurri, lo pianser le Nereidi in coro e l’umide negli antri addolorati alme Sirene. Fra tali stragi Vario e il forte Iempsale resistevano invitti e con le spade fanno eccidi e rovine e colpi assestano, ammazzando. Così Iempsale parla per primo: «E bravo, Vario, ma non vedi come tutto precipita? La frode 265

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Fraude opus est, hunc ipse locum cape, dum mihi segnis Fit fuga». Vix haec effatus, vestigia vertit. Insequitur Catilina, fugam celerabat Hiensal, Itque reditque iter inceptum, fallitque sequentem, Dum Varius iaculum incoctum post terga sub ipsum Infigit femur et dictis ferus increpat; ille Saucius ingemuit vixque ad sua signa recepit; Incumbunt tum victores victique facessunt. Pontius interea positis vada ad ipsa maniplis, Hos cogebat et hos, ut quem fors ipsa ruentem Obtulerat tumulumque levis delatus in altum, Eventum pugnae ut vidit, turbatus et amens: «Huc, iuvenes», simul ad pontem vestigia vertit. Insequitur pedes atque eques, agglomeratur eodem Cuncta manus. Simul ecce etiam fulgentia signa Cernere erat, volat admissis Sertorius alis. Parte alia de colle procul romana ferebat Se legio, volitant aquilae; Petreius ante Agmen agit primusque vias et flumina monstrat. Ut ventum ad ripam, stetit impiger et, monstrato Ponte, iubet primam confestim anteire cohortem. Ingemuere trabes succisaque robora nutant Assultu peditum vario. Tum pulsus ad amnem Cedebat Catilina omnisque equitatus habenas Laxabat; praemissa cohors tabulata tenebat Ultima; per medium raptat vestigia pontem Pulsus eques; ruit ecce trahens peditemque equitemque Pons secum praecepsque cavo devolvitur alveo.

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è d’uopo, il posto mio prendi mentr’io pian pian mi dò alla fuga», e così detto volge i passi all’indietro. Catilina l’insegue, più veloce Iempsale fugge, su e giù il cammino stesso rifacendo l’inseguitore inganna, allor che Vario gl’infila dalle spalle un crudel dardo nella coscia e gli grida inferocito; il ferito gemette ed alle insegne sue si ritrasse; allora i vincitori vanno all’assalto e i vinti si ritirano. Ponzio frattanto, al guado le sue squadre disposte, or questi raccoglieva, or quelli come la sorte li spingea precipiti, e andato svelto in cima ad un rialzo vide il destin della battaglia, e scosso disse e furente: «Or qui venite, giovani», e, insieme, al ponte l’orme sue rivolge. Lo seguirono fanti e cavalieri, tutta la truppa insieme si raduna. Ed ecco, appaion le fulgenti insegne, mette l’ali Sertorio e vola. In altra parte, dal colle, la legion romana muove, volteggian l’aquile. Petreio fe’ la schiera avanzar, le vie del fiume mostrò primiero, e quando sulle rive fur giunti, pronto ei s’arrestò e la prima coorte fa avanzar mostrando il ponte. Gemetter gli assi ed oscillaro i roveri recisi al vario gravitar dei fanti. Cedeva allora risospinto al fiume Catilina, quand’ecco i cavalieri sciolser tutti le briglie; la coorte prima inviata si piazzò all’estrema parte del palco, al centro affretta i passi dei cavalieri lo squadron respinto. Ruina il ponte trascinando seco 267

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Substitit amnis: tum ripae intumuere profundae, Conversusque nigras fluvius ruptabat arenas. Attonitus casu tanto Petreius amnem Spectabat: vola[ba]t acta manu Corybantis arundo, Atque ocreis illapsa femur penetravit ad imum. Pontius e ripa exclamat: «Nunc vadite, segnes, Et ripam tentate dolo». Cum talia fatur, Diffundit sese in partes ripasque relaxat Turgidus amnis aquis volvitque ad litora fluctu Arma, viros, tabulas et corpora quadrupedantum. Stant pedites innisi hastis versantque ruuntque Semineces, spoliant alii, passimque secundum Flumina suspendunt alte spolia indita ramis. Exanimem implicitumque ulva fluctusque vomentem Eruptant undae Catilinam; ille aera ut almum Hausit et accepit gratae spiramina vitae, Apprendit ramum dextra tenuitque prehensum. Hinc illinc oritur clamor, pugna aspera surgit, Fundarum crepitat lapidosis ictibus amnis Turbidus et multo sub verbere dissilit aer. Exceptus tandem a sociis conamine magno Curvatis trahitur contis ripaque locatus Ulteriore vomit madidas de pectore arenas, Cum subito rapidum affertur Sertorius amnem, Et pugnam tuba terribili ciet horrida cantu.

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e fanti e cavalieri e in fondo al fiume precipitando rotola; si arresta del fiume il corso, le profonde ripe si gonfiarono allora e la corrente, risalendo, eruttò le negre arene. Attonito Petreio al crollo immane guardava il fiume: dalla man scagliata di Coribante una saetta a volo per gli schinieri nella coscia penetra. Ponzio gridava dalla riva: «Andate, ora, poltroni, e d’occupar la riva con l’inganno tentate». E mentr’ei parla, d’ogni parte si spande, e le sue sponde turgido il fiume inonda, sopra i liti l’armi coi flutti riversando e gli uomini, e le tavole e i corpi dei destrieri. Stanno appoggiati sovra l’aste i fanti, gli uni smuovendo e rivoltando, gli altri spogliando i moribondi, e lungo il fiume sovresso i rami appendono le spoglie. Esanime e impigliato in mezzo all’ulva, mentre vomita i flutti, eruttan l’onde Catilina: e’ inspirò l’aura vitale e della cara vita il soffio accolse; la mano afferrò un ramo e ’l tenne stretto. Levasi un grido d’ogni parte, un’aspra battaglia insorge, e crepita pei colpi delle sassate delle fionde il fiume torbido, l’aer sussulta alle percosse. Raccolto alfin con grande sforzo, e steso su curvi pali, dai compagni è tratto e collocato sulla riva, ancora vomita arena madida dal petto, quando a un tratto Sertorio al fiume arriva rapido, e orribilmente con suo squillo alla pugna spronò l’orrida tromba.

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ISTRIO PERSONATUS. Quievit, ut videtis, vates istricus; Sitim pati non potest, quod homericum Ait fuisse seque similem illius Mero potando noctu atque interdius. Bonum poetam nisi vinosum neminem Ait, et id recte et quod ait re comprobat. Heus, tu, cui nasus, ora, labra, guttura Rubescunt, vin potando hoc experirier? Taces, fateris victum, nunc hoc accipe. Vides fortuna variet ut hominum vices? Pugnabant illi de virtute et gloria, Nos de mero; pugnabant ferro, hastilibus, Nos vitro, nos argenteis carchesiis. Hoc nunc agite, spectatores optimi, Duces decoris pictos armis noscite Et gesta Marte dubio certamina Ac saevientes campis ignium globos Vento rotatos et flammarum turbinem Agros, nemora peditumque ambusta corpora Una absorbentem et coelo labentis faces. Audire pulchrum est strages et cadentium Acervos ac cruore stagnantis agros, Ipsum tranquillo et tuto sistere in loco. Illuc redeat unde est digressa oratio. Prius quievit noster hic vates siti, Nunc somno, vinum ut edormiscat scilicet. Homeri hoc tantum habet, quod persaepe ebrius, Maronis unum, nimio marcet ocio; Sentitis ut apertis stertit faucibus? Hiat, muscas venatur. Sane hoc est novum Aucupium! Os aperit, stringit iam, tene, tene Lepidam aviculam. Heus, vitule, heus, marina belua, Deliciae Oceani, surge atque expergiscere,

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ATTORE MASCHERATO. Vedete, il vate istrian come acquestavasi; egli a soffrir la sete non adattasi come Omero, cui dice d’esser simile, perché da mane a sera resta a bevere. Non c’è nessun poeta che sia sobrio e lo dimostra, non lo dice a vanvera. Ehi tu, che naso, bocca, labbra hai rutile, e gola, vuoi accertarti? Bevi e provalo. Taci, datti per vinto, e questa, sentila. Vedi come degli uomini sia varia la fortuna? Gli antichi combattevano non per il vin, per la virtù e la gloria. Col ferro e con le lance essi pugnavano noi coi bicchier di vetro e i vasi argentei. Su via conosci, pubblico illustrissimo, i duci che le belle armi decorano, e vedrai gesta ch’hanno incerto l’esito, globi di fuoco che sui campi infuriano, roteati dal vento, e insieme il turbine di fiamme ch’arde pian, boschi e cadaveri di fanti, e faci che dal cielo piombano. È bello udire d’ecatombi e cumuli di caduti, per cui la terra sanguina, standosi in loco ben protetto e placido. Torni il racconto donde ebbe l’inizio. Forse per sete il vate pria fu tacito, or per il sonno, per smaltir la sbornia. Di Omero questo ha sol, che spesso è ebrio, di Maron, che marcisce per troppo ozio. Lo sentite russar, le fauci schiudere? A bocca aperta caccia mosche, è un ultimo tipo di caccia; aprir la bocca, stringere. Afferra, afferra il grazioso volatile. Ohimè vitello, ohimè marina bestia, gioia dell’Oceàn, levati e svegliati 271

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Postquam venatus. Euge, iam erigit caput, Iam defricat oculos, iam ascendit pulpitum. Taceo, vos, spectatores, animum advortite. POETA PERSONATUS. Constitit hic lustrans oculis loca, mox ita fatur: «Haud parvo fraus haec steterit tibi, Magne»; nec ultra Cunctatus vocat armatos ad signa tribunos. Vos, Musae, memorate, etenim memorare potestis, Vobis Pyrene, arcitenens dea rettulit illi, Vos memori egregium facinus producite fama, Quod iuvet et meminisse et commemorasse minores. Altilius fraterque Lycon prima agmina ducunt, Praestantes animis iuvenes, quos Nursia mater Marte satos furtim patriis mandarat alendos Montibus et succis haerbarum et lacte lyciscae; Testatur nutricem auro galea alta lyciscam, At clypeo quatit ingentem Mars efferus hastam. Proxima Silvano clarus patre, clarior armis Agmina agit Marsus; clypeo lacus enatat ingens, Ipse antro fundit liquidas et Fucinus undas, Pandit se cono advolitans argenteus anser, Addictus puero custos, cum parvus ad amnem Ludit avi puer et vitreos maris innatat aestus. Hinc iaculo bonus, ense bonus, melior tamen arcu Actius insequitur, argento auroque coruscus. Nevit acu chlamydem coniunx, quam lucus opacat

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dopo la caccia. La capoccia or èleva, stropiccia gli occhi, ormai sale sul pulpito. Io zittisco, voi attenti allo spettacolo. POETA MASCHERATO. Ei si fermò, guardossi attorno, e disse: «Non poco ormai ti costerà la frode, o Magno», e senza più esitar richiama all’armi i suoi tribun sotto le insegne. Narrate, o Muse, voi potete farlo, voi cui Pirene lo narrò, et a lei l’arciera diva, il grande evento, voi con la memore fama tramandate ciò che evocare e tramandar convenga. Altilio e ’l fratel suo Licon la prima squadra adduceano, giovani prestanti, che Norcia madre generò da Marte, e ai patrii monti ad allevar furtiva mandò con succhi d’erbe e con il latte d’una licisca; la dorata vetta del lor cimiero fa veder la lupa nutrice. Ed anco sullo scudo appare l’asta ingente a vibrar Marte feroce. L’altra squadra da Marso era guidata, quei ch’è famoso per Silvan, suo padre, ma più per l’armi; sullo scudo un grande lago galleggia; il Fùcino nell’antro versa limpido il flutto; e sul cimiero con l’ali aperte sta in argento l’oca data al fanciullo per custode, quando piccioletto giocava lungo il fiume e sfidava le vitree onde del mare. Dipoi, del lancio esperto e de la spada, più esperto ancor de l’arco, Azio splendente d’argento e d’or lo segue. La consorte ricamato gli avea ’l mantel, su cui 273

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Hesperidum pendentque suis poma aurea ramis. Argento serpens riget et trahit horrida cauda Septem orbes, micat et linguis furiata trisulcis. Sub levam vagina auro viridique smaragdo Irradiat distincta et iaspide fulgidus ensis Ad capulum, nitet et nexu nova fibula eburno. Aurea mandebat sonipes frena, aurea cassis Emicat, auratos spargit sol aureus ignes, Ac serpunt hederae per laevia tempora nigrae. Lunat amazonium in morem pelta horrida monstro Lernaeo septemque illi capita alta tumescunt, Et latos pandit rictus fera; defluit atrox Virus et effuso livescit parma veneno. At dorso pugnacis equi terga aspera pendent Illa boum, tegit et crudus genua ultima pero. Haec variat nemus Idaeum atque ad pocula raptus Dardanius puer et cupido praeda acta Tonanti. Ter puerum invadit praepes, ter praepetis alas Evadit puer; hinc rostro sacer ales adunco Abreptum implicitumque ungui multumque sub ala Percussum, frustra auxilium divosque vocantem Ante Iovem coelo statuit; mox versus in astrum Inter sidereos ales micat aureus ignes. Quem post venatore satus patre, maximus armis Compater; huic apri clypeo riget horrida pellis, Incoctumque ursi tergus, latrat aspera cassis

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dell’Esperidi ombreggia il bosco, e pendono dai rami i pomi d’or. Tutto d’argento s’erge un serpente; la sua coda orrenda ben sette giri traccia, con tre punte guizza la lingua; dalla guaina spicca sulla sinistra, d’oro e di smeraldo verde e diaspro splendida per l’elsa la spada, e spicca per l’eburneo gancio la nova fibbia. L’aureo fren mordeva un destrier; l’elmo dorato brilla, e d’oro un sol dorati raggi sparge; l’edera scura sulle tempie striscia. Si curva a luna (l’han così le Amazzoni) la sua pelta tremenda per il mostro Lerneo, che s’erge gonfio di sue sette teste, e le fauci apre ampie la fiera; scorre atroce il veleno e ’l suo livore sullo scudo si versa. Ma sul dorso del pugnace destrier pendono ruvide cinghie di cuoio e uno stival ricopre grezzo la punta dei ginocchi. Il legno dell’Ida il tutto adorna col troiano fanciul rapito a far poi da coppiere, preda alla voglia del Tonante iddio. Tre volte il gran volatile aggredisce il fanciullo, tre volte alle sue ali ei si sottrasse; con il rostro adunco il sacro uccello lo rapì e nell’unghie impigliato, e dall’ala ripercosso, e invano aita dagli dei pregando, dinnanzi a Giove lo posò nel cielo; poi, convertito in astro, infra le luci celesti brilla come uccello d’oro. Gli vien da presso il gran guerriero, figlio d’un cacciator, Compatre; a lui la pelle ruvida d’un cinghial copre lo scudo e un crudo cuoio d’orso, aspre sull’elmo 275

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Ora canum duraque horrent venabula dextra. Lartius hunc pater, amissa genitrice, lupina Pelle fovet tectum foliis, subque hubera adactum Lactantis quam cum catulis depraenderat ursae. Mox puer exagitare feras assuevit et acto Venatu tolerare famem atque inhiare cruori. Qualis mane novo cum fulgidus igne nitenti Lucifer irradiat coelo, mirantur et illum Pastores, gaudet caro Venus aurea signo, Aeratam sic ante aciem nitet ora Camillus Insignisque coma puer et fulgentibus armis, Miranturque ut tela manu atque ut torqueat hastam, Ut gladium stringat dextra; Sertorius ipse Concipit optatae iamdudum gaudia palmae. Tum vates Phoebo carus Saxonius astur, Idem augur, cui vox avium pennaeque patebant, Et curare manu doctus cantuque levare Vulnera, non tamen ense minor, minus utilis hasta; Laurea cingebat galeam, tegit infula crines, Serpebant hederae clypeo, viret hasta corymbis Et capulo insignis radiabat acinacis aureo. Hinc Aspar garamas, quo non praestantior alter Aut torquere manu iaculum aut dare vulnera funda. Ceruleus capiti trifido micat ore cerastes, Ter caudam collo implicitans; puer Aspar et illi

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bocche di cani latrano, gli spiedi duri da caccia nella destra rizzansi. Il padre Larzio, allor che senza mamma quegli rimase, il confortò con calda pelle di lupo e lo coprì di foglie, poi l’accostò alle poppe d’un’orsa che con i figli catturato avea; si assuefece il fanciullo ad inseguire le fiere, a tollerar la fame andando a caccia, e sete aver sempre di sangue. Come al mattino fulgido di fuoco irraggia in ciel Lucifero, l’ammirano i pastori, mentre aurea del suo astro Venere gode, sì Camillo innanzi all’armata sua schiera in volto splende, giovane insigne per la chioma e l’armi luccicanti, e ammirato allor che lancia con una man le frecce e l’asta, e impugna con la destra la spada; ha già Sertorio accarezzato la sperata palma. Sassonio il segue dalle Asturie, caro a Febo; a lui la voce e il vol ben noto fu degli uccelli, e ben sapea lenire con la mano e col canto le ferite, né a maneggiar la spada o l’asta meno bravura avea; l’elmo cingea l’alloro, l’infula i crini ricopria, strisciava l’ellera su lo scudo, era fiorente di corimbi la lancia e radiava la scimitarra con la presa d’oro. Il garamante Asparre poi, del quale nessun fu più prestante a lanciar frecce o a colpir con la fionda. Con tre teste d’un ceruleo ceraste il viso guizza, mentre tre volte al collo si ravvolge la coda; Asparre giovinetto a lui

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Assuevit, cantata daret cum pabula, et aspis Luderet infantis manibus, cum lambit et ora, Ora genasque simul et collo lubricus errat. Horret et insutus cetrae leo, cruda draconum Terga humeros crudumque tegit thoraca elephantus. Ipse arcum pharetramque humeris clavamque trinodem Incoctamque sudem dextra gerit et quatit acer, Marmaricoque subinde hululans vocat agmina cantu. Ecce decus belli rarum, tritonia Birse, Ipsa pedes quamvis, equites tamen eminet inter Vertice iam toto et passu praevertit euntis. Nodosam lateri clavam fert, dextera pinum, Ingentem quassat pinum, quam fulva bipennis Asperat. Ipsa exerta humeros et brachia et ipso Poplite nuda tenus; non illi pectora thorax, Non galea abscondit crines, sed tornulus aureus Circuit ingentem lato curvamine frontem Et multo pectus communit balteus aere, Palladis armisonae donum fatale, quod illi Ferre dedit, tutum armatos munimen in hostes. Hanc Fauno et nympha genitam Garamantide mater Dum partum celat, tergo bovis indit et aspris Sentibus impositam nymphis nemorique relegat. Quam dum forte lavat tritonide Pallas in unda, Oblatam ut tenuit gremio, miratur et ora Et latos humeros et membra ingentia quodque Nec vagit fertque aspectum non territa divae, Quodque hastam galeamque oculis atque aegida lustrat, Commendat matri Tritonidi; sedula mater

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s’era assuefatto, allor che gli porgea fatato il pasto, e il serpentel giocava nelle sue mani e gli lambiva il viso, le guance e il viso, e scivolando errava sul collo. Fregiato in su lo scudo s’erge orrendo un leon, di draghi il cuoio duro protegge gli omeri e il torace l’avorio. Ei l’arco e la faretra porta sugli omeri e una clava con tre nodi, e un’aspra lancia in pugno, e fieramente scotendola ed urlando la sua schiera con marmarico canto a sé richiama. Ed ecco il pregio della guerra, Birse tritonia, ella va a piedi e pur sovrasta con tutto il capo i cavalieri e avanza tutti col passo. Porta una nodosa clava sul fianco, e con la destra un fusto grande di pino, ch’ella scuote, in cima v’è un’affilata e lucida bipenne. Con le spalle e le braccia denudate, nuda fino al ginocchio, non protegge con la corazza il petto, né con l’elmo asconde i crini, ma un cerchietto d’oro con larga curva la gran fronte cinge, e di bronzo pesante una cintura preserva il petto, dell’armata Pallade dono funesto, che a lei die’ la dea certa difesa contro l’oste armata. Da Fauno e dalla ninfa Garamantide nata, in pelle bovina la ripose e fra pungenti pruni, indi inviolla sua madre a star da le ninfe nei boschi, onde il parto celar; per caso Pallade la trova e nei lavacri del Tritone la terge, e in braccio presala le ammira le larghe spalle, il volto, e la statura, stupita che non pianga e senza tema 279

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Educat. Illa, ut primum aetas tulit, ire per altas Nuda genu silvas latebrasque intrare ferarum, Sectari cervum cursu, venabula in aprum Dirigere et fulvum iaculo attentare leonem. Finitimis etiam bellis assueta, nigrantem Gerionistheniden clava abstulit; hunc tremit omnis Aegyptus, tremit extremi domus abdita Nili, Egregium ac coeli columen maurisius Atlas; Accipit ob meritum donum immortale Minervae Auratam fronti vittam atque ad pectora balteum, Exultat quibus in bellis invicta virago. Hernicus extremas acies atque ultima claudit Agmina; nam iussus properare in castra Marullus, Communire manu vallum portasque tueri. Ipse ostro chlamydem intextam argentoque nitentem, Aurea quam lato percurrit linea tractu Insignis fulvoque comam nodante pyropo Irradiat, veluti roseo cum solis in ortu Percussum radiis splendet mare, iam tremit unda, Iam feriunt se se radii, iam dissilit ardor Huc illuc, nequeunt tum lumina nostra tueri; Quin etiam auratos spargit de casside fluctus Oceanus, splendet cano sub marmore Triton, Fluctuat et clypeo per cerula concita delphin,

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sostenga il guardo della dea, con gli occhi intenti all’asta, all’egida ed all’elmo, e alla madre Tritonide l’affida, che premurosa la fanciulla edùca. Questa, appena in età, nuda i ginocchi nelle selve profonde penetrava e nei rifugi delle fiere, il cervo braccava in corsa, sul cinghiale i dardi drizzava ed il leon fulvo colpiva. Avvezza a guerreggiar con i vicini con la clava abbatté di Gerioniste la bruna prole, cui temea l’Egitto e la dimora dell’estremo Nilo, e ’l mauro Atlante che supporta il cielo; ora il premio riceve di Minerva, premio immortal, la benda d’oro in fronte e sovra al petto il balteo, dovunque invitta la virago in guerra esulti. Chiude in fondo l’armata Ernico, l’ultima schiera guidando; ché a Marullo fue ingiunto al campo d’affrettarsi, e poi di difendere il vallo e di proteggere le porte. Lui, di porpora e d’argento fregiato manto indossa, che una larga lista d’oro contorna, e con la chioma stretta da un nodo fulvo di piropo spicca ed irraggia, come quando al roseo spuntar del sole splende il mar percosso dai raggi, già tremula è l’onda, i rai si scontrano fra lor, di già la vampa qua e là saltella, gli occhi nostri allora sono indifesi; ché dorati flutti sparge dall’elmo l’Oceàn, risplende sotto il marmoreo biancheggiar Tritone, e ondeggia sullo scudo fra l’azzurro movendosi un delfin, l’onde sollevansi

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Argento assurgunt undae. Tum litora gemmis Sparsa nitent, micat adverso sub lumine pontus. Hos Arno genitus nymphaque Evarchide vates, Quem Musae aonio puerum fovere sub antro, Puttius ad pugnam vocat atque hortatur euntis: «Di vobis sunt tela, viri, Mars dextera cuique est; Vicimus, ipsa suas victoria concutit alas, Pax parta, hesperius nobis regnabitur orbis». Ut ventum est sub signa, ducem sua quemque secuta Est legio, ac densis cogit se exercitus armis. Intenti expectant signum moraque omnis iniqua est. Oceano veluti in magno cum cerula Proteus Agmina agit stabulis, coeunt immania monstra Sub duce quaeque suo, fervent freta, pastor ad ipsas Stat caulas baculoque greges et voce coercet; Non casses, ipsi nequeunt retinere magistri. Interea caesos equites primamque cohortem Haustam undis ripasque et flumen ab hoste teneri Nuntius attulerat Magno, famulique ferebant Impositum clypeo Petreium, aegerque dolensque Substitit ad medium collem, secum ipse volutans, Incertus casu tanto, pugnam ne retractet Paulatim colle excedens, an flumina tentans Implicitum eliciat ripis fluvialibus hostem Fidentemque equite atque recenti caede tumentem.

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d’argento. Quindi il litoral di gemme sparso risplende, ed il profondo mare luccica sotto il lume che l’investe. Figlio dell’Arno e della ninfa Evarchide, poeta, che le Muse entro l’aonio antro nutrir fanciullo, alla battaglia Puccio li chiama e ad avanzar li esorta: «Gli dei son le vostre armi, o prodi, e Marte ciascun ha nella destra; abbiam già vinto, fin la vittoria batte l’ali, è pace, e regneremo noi sul mondo esperio». Giunti che fur sotto le insegne, ognuna delle legioni il proprio duce segue, e compatto l’esercito s’aduna. Attenti il segno aspettano, ogni indugio è inviso, come avvien nell’Oceàno immenso allor che Proteo dagli alberghi loro sospinge le marine schiere, gli immani mostri si raccolgon tutti ciascun sotto il suo duce, e fervon l’onde, o il pastore agli stazzi, in piedi, il gregge col bastone costringe e con la voce, né ’l puote trattener guida o recinto. Dei cavalier, frattanto, uccisi e della prima coorte che sparìo nell’onde, delle rive e del fiume posseduti già dal nemico, un nunzio al Gran Pompeo contato avea, Petreio sullo scudo portavan gli inservienti; egro e dolente a mezzo il colle e’ si fermò pensando, né sa se a tal disastro rifiutare deggia la pugna e ritirarsi lentamente dal colle, o se sondando il fiume cercar di attrarre dalle rive l’oste nemica ivi impigliata e fiduciosa nella cavalleria, tronfia com’era per la recente strage. E, meditando, 283

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Haec secum; mox accito iubet arma Cetego Inferri ripis peditemque ad signa vocari. Ipse invectus equo: «Nunc, o fortissima bello Pectora, nunc certate manu; tot flumina nando Emensos torrens tenet atque ignobilis amnis? Vincite iam victos unaque absolvite pugna Relliquias tot bellorum». Dum talia fatur Magnus, ab impigro pugna est commissa Cetego. Namque ultra adversam ripam vada nota secutus Pontius institerat, campo congressus iniquo, Dum fossas et saxa inter versatur equesque Confossus cadit et pediti pedes additus instat. Quod postquam longe aspexit Sertorius et quae Sit fortuna videt, nulla est mora, protinus agmen Ire iubet, dictis stimulans: «Nunc, lecta iuventus, Nunc, victrix manus, ad ripas, vada pervia, et ipse Pontius insultat campo, non audet et hostis Aut conferre gradum aut descendere montibus altis; Hesperiam dextra gerimus, spes omnis in armis». Altilius fraterque Lycon trans flumina primi Consistunt sequiturque hastis innisa iuventus. Pars capiti scuta alta gerunt, pars insita pilis, Pone trahunt alii; sistunt et flumina cursum Mole virum atque undis illisa remurmurat unda. Tum ripae clamore sonant collesque resultant, Offensa et nemorum assultu respondet imago.

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immantinente convoca Cetego e gli comanda di attaccar battaglia sovra le ripe e radunare i fanti. Lui cavalcando esclama: «Ora, o fortissimi cuor di guerrieri, con le man pugnate; ignobil corso d’acqua ora trattiene chi tanti fiumi attraversò nuotando? Quei che vinti son già vincete, e in una sola battaglia debellate i resti di tante guerre». Mentre questo dice Magno, pronto Cetego la battaglia ha già sferrato; infatti, oltre la ripa di fronte, Ponzio seguitando il guado ben noto s’era già disposto in campo non propizio a scontrarsi, egli versava fra fosse e scogli, e il cavalier, ferito, cade ed aggiunto al fante il fante incalza. Poi che Sertorio di lontano il tutto guardonne, e qual esser la sorte vide, senza indugio ordinò la marcia e disse per incitarla: «Or, gioventude eletta, or, vincitrice schiera, sulle rive, sui guadi aperti, Ponzio in campo infuria, non osa incontra muover l’oste e scendere dagli alti monti. In mano abbiam l’Esperia, nell’armi nostre ogni speranza è sita». Altilio col fratel Licone primi oltre il fiume si piazzano, e li segue la gioventude armata d’aste. In parte portan gli scudi alti sul capo, in parte poggiati sopra i giavellotti, dietro li traggon altri; il corso suo raffrena per la gran massa di guerrieri il fiume, rimbomba l’onda da l’altr’onde infranta. Allor le rive risonare e i colli s’odon, dai boschi si riflette l’eco.

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ANTONIUS, VII

Vix alias tantis animis in proelia ventum est; Successus certamen alit, dum cedere neutris Decretum est, urgetque ducum praesentia et ardor. Ingeminat vires, crescit certamine virtus, Crudescit gladio Mavors, nec iam eminus hasta, Cominus ense agitur; humescunt sanguine campi, Caede natant fossae. Tum territa terra cadentum Corporibus tremit et gladiis micat aereus aether. Tercentum clipeata phalanx, hinc sub duce Hiarba Illinc Suffeno, stabilis pedes arma manusque Contulerant, ut forte alnus radice revulsa Conciderat ramisque ingens iter occupat, ut nec Aut his aut illis pateat via. Saevit utrinque Effera vis, durique crepant per scuta molares, Ut cum se Orionis iniquo sidere grando Praecipitat, vasto crepitant sub verbere tecta. Hinc Tacio Lepidoque caput cervice revulsum Ense Tagi; cadit ense Remi Turnusque Ligusque; Nam Liguri femur exectum, Turno ilia et ipsas Traiecit costas ac pectora fervidus ensis. Per galeam cerebrumque ac tempora guttur ad ipsum Assaracum secat Ufentis sullata bipennis. Illinc et Marus et Basso cum fratre Faliscus Thessalicusque Maroniades et lidius Hypseus

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Mai con simile ardor si attaccò guerra; il successo alimenta la battaglia, niun cedere volendo, urge dei duci la presenza, l’ardore aggiunge forza e cresce la virtù nell’urto, armato incrudelisce Marte, e non con l’asta da lontan, ma da presso con la spada; i campi son di sangue pregni, scorre il sangue nelle fosse. Ecco, atterrita trema la terra pei caduti e brilla l’etere al luccichio di bronzee spade. Di ben trecento scudi una falange armata sotto gli ordini di Iarba quinci, di lì al comando di Suffeno fanti ben saldi dato avean battaglia, dove, schiantata la radice, un alno maestoso giaceva, onde i suoi rami il cammino ostruivano, di modo che agli uni e agli altri era la strada ingombra. Ma d’ambo i lati una selvaggia forza infuria, s’ode il crepitar dei sassi tra gli scudi, così come allorquando la grandine precipita per l’astro avverso d’Orione, e sotto il colpo enorme s’ode il crepitio dei tetti. Poscia staccato fu dal collo il capo ed a Tazio ed a Lepido dal brando di Tago; cade Turno, cade Ligure per man di Remo; a Ligure spaccato fu il femore, ed a Turno il ventre, ardente la spada i fianchi suoi trafisse e il petto. Sollevando la scure Ufente sega fino alla gola Assaraco, fendendo traverso l’elmo il cerebro e le tempie. Poscia Maro e Falisco col fratello Basso, e il Maroniade tessalico, ed il lidio Ipseo eran caduti, 287

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Conciderant, siculusque Corax et maurus Iopas: Idem omnes eodem gladio ferus abstulit Ancus. Hic genitus Vulcano atque aetnaea Cianea Fatiferum a patre ensem atque immedicabile ferrum Accepit, Stygia genitor quod tinxerat unda. Dumque alnum truncosque super levis insilit Anser, Accipit aeratam infelix per guttura cornum; Spiramenta animae clausit telum; ille volutus Singultantem animam pronus vomit. «Eia age» Hiarbas Exclamat «spolia illa viri», cum talia fantem Ora per increpitans alis penetravit arundo; Insultans cui Suffenus: «Spolia accipe, victor, Ista tibi»; iaculumque quatit, suffigitur hastae Dextera, dum excusso properat torquere lacerto. Hic caedes miseranda oritur super Ansere tracto, Dum spolia exuviasque viri cupit hostis et hostis Pro decore haud timet adversis incurrere telis. Huc omnis legio versa, huc sua signa Cetegus Inferri iubet, huc contra Altiliusque Lyconque Accurrunt paribusque animis certatur utrinque. Dum primam ferus ante aciem movit arma Cetegus Ac iaculo ferit Iasium sternitque Volenum, Murano clypeum avellit, transfigit utrunque Quercenti femur, ingeminat per viscera ferrum Quintilio atque uda morientem extendit in haerba. Interea per scuta virum, per tela, per enses Altilius ruit infrendens, caput amputat Istro, Brachia Segnitio, nares et labra Mecillo,

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e il siculo Corace e il mauro Iopa; tutti annientò d’un colpo Anco feroce. Di Vulcan figlio e di Cianea etnense ebbe dal padre una fatale spada, dal genitor temprata nello Stige. E mentre Ansere salta agile sovra il tronco d’un ontan, misero, in gola ha una punta di bronzo; il dardo chiuse il respiro dell’alma; ei, rotolato, chino per terra vomitò lo spiro singhiozzando. Ma Iarba: «Eccovi – esclama – la spoglia di tant’uomo», e in ciò uno strale a volo, crepitando, entrogli in bocca. A lui Suffeno baldanzoso: «Or prenditi, vincitor, queste spoglie», il giavellotto vibra, a la man figgesi un dardo, mentre che scosso il braccio già s’appressa al tiro. Miserabile strage allor comincia sul corpo d’Anser trascinato, brama il nemico le spoglie ed il nemico per farsi bello non temea d’incorrere negli inimici dardi. Si riversa tutta qui la legione, qui Cetego ingiunge di condur l’insegne, accorrono quivi Altilio e Licone e d’ambo i lati pari è l’ardor de l’animoso scontro. Mentre Cetego fiero anzi la prima schiera muove battaglia e Iasio fere con un dardo e Volano abbatte, svelle a Murano lo scudo, trafiggendo a Quercente le cosce, e nella pancia a Quintilio raddoppia il colpo e moribondo lo stende sovra l’umida erba. Intanto infra gli scudi, infra gli strali, e tra le spade Altilio fremente d’ira si slancia, taglia il capo ad Istro, a Segnizio le braccia, e labbra e naso 289

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Tempora diffringit Catio, prosternit Omasum, Umbritioque haurit iugulum, forat ilia Cosso, Praecipitemque inter fossas dat Amintora saxo. Tum leva de parte Lycon furiatus et amens Quintilio extincto: «Quid tu, generose Cetege, In plebem furis?» exclamat. Cui talia contra Ille refert: «O Mavortis praeclara propago, Mentitum genus in silvis, quid prelia differs? Est clypeus, sunt tela tibi». Simul iniicit hastam; Avertit venientem umbone; ea lapsa pependit Marmarici clypeo; contra venabula torquet Dura Lycon; saltu devitat tela Cetegus; Illa ocreis illapsa Tagi femora ultima et inguen Extremum rupere; cadit Tagus, advolat Ammon Elatamque alte subigit per colla securim Et caput affigit conto; clamore secuta est Laeta cohors; tum tela Lycon, tum saxa Cetegus Ingeminat, stringunt acres et cominus enses. Interea paulatim acies ac signa movebat Pompeius seque ad ripas non segnis agebat. Ipse ostro insignis humeros auroque coruscus Fertur equo, quem Neptunni de gente crearat Mater ab adversi conceptum flatibus Euri. Forte ut erat de caede equitum, de caede virorum Fessus et extremum servabat Pontius amnem, Vidit ut incensa stipula, exagitantibus auris. Haeserat arenti trunco vapor; ille volutus

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a Mecillo, le tempie spacca a Cazio, Omaso atterra, il collo a Umbrizio infilza, trapassa il ventre a Cosso, e con un sasso fa rotolare Amintore nel borro. Licone a manca allora irato e folle, morto Quintilio: «E perché tu, Cetego – esclama – sulla plebe infurii?». In contra quei gli domanda: «O gran prole di Marte, che falsa stirpe nelle selve ostenti, differisci lo scontro? Hai scudo e dardi». E l’asta gli lanciò, quegli la scansa ed essa, scivolando, finì appesa sull’umbon di Marmarico; frecciate dure Licon gli lancia contro, i dardi schiva Cetego con un salto; alfine negli schinieri penetrando il femore e l’inguine spezzar fin nel profondo a Tago; ei cade, vola Ammone e, alzata la scure, la cacciò nel collo e il capo infisse nella picca; la coorte lieta acclamò; Licone allor le frecce, allor Cetego i sassi raddoppiando le crude spade a un corpo a corpo impugnano. A poco a poco, intanto, armata e insegne Pompeo muoveva e sulle rive pronto si dirigea. Sugli omeri spiccava l’ostro e brillava l’or mentre a cavallo ei procedeva; dalla stirpe avita di Nettuno l’aveva generato la madre, ai soffi d’Euro avverso incinta. Stanco qual era Ponzio delle stragi di cavalieri e di soldati, il fiume guardando estremo, vide come, accesa una stoppia e levatesi le brezze, s’era appiccato a un secco tronco il fuoco; quale poi, fra le fronde volteggiando,

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Per frondes urgente Euro conceperat ignes Et late ramos flamma crepitante cremabat. Admovit dextram trunco avulsitque trahendo Pontius et campo rapidus iacit atque ita fatur: «Eure pater, cui pars coeli pulcherrima servit, Cui parent aurae Oceani, cui regia solis Ampla vacat quique et terris pelagoque sonanti Imperitas, quate nigrantem, rex magne, procellam; Nunc exerce auras et pennis aera verre, Ac mecum insidias hostemque ulciscere victor; Sacra tibi ante aras statuam votiva quotannis Candentis foetus ovium intactamque iuvencam». Annuit excussitque alas deus. Illicet ingens Tempestas coelo exoritur, fremit arduus aether; Dant silvae sonitum ingentem cavaque antra resultant; Pulvereus sequitur confusa per agmina nimbus Dispergitque undas flammarum atque omnia late Involvit iactatque furens incendia ventus. Tolluntur coelo fumi glomerataque flamma Pervolitat, simul absorbens stirpesque virosque, Et quamvis trepidum canerent iam signa receptum Telaque proiicerent dextris clypeosque sinistris, Flammatas tamen ante acies evadere non est. Varenum Iasiosque duos, liguremque Labullum, Cretensemque Gian, gaditanumque Liertem, Assyriumque Naban, pyreneumque Biantem, Tris Alcmeonidas et clarum Hypsenora cantu Erumpens atra primum de subere fumus

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ardeva, d’Euro al soffio, e con la fiamma crepitante bruciava ovunque i rami. S’accostò Ponzio con la mano al tronco e lo svelse strappandolo, e sul campo rapidamente lo gettò dicendo: «Padre Euro, al quale la più bella parte del ciel s’inchina, dell’Ocean le brezze obbediscon, la reggia ampia del sole s’apre, e che regni sulla terra e ’l mare sonante, una tempesta oscura, o grande signor, scatena, e or or l’aure affatica e l’aer trascina con tue penne, meco vendica, e vinci, l’inimiche insidie; io ti porrò davanti all’are ogni anno una statua votiva e bianca prole di pecore ed intatta una giovenca». Fe’ un cenno e scosse l’ale il dio. Immediata spunta dal cielo una tempesta, freme l’etere in alto, fan fragore enorme le selve e ne rimbomban le caverne; poi di polvere un nembo fra le schiere confuse arriva e sparge onde di fiamme e tutto avvolge in lungo e in largo, attizza incendi il vento con sua furia. Al cielo salgono i fumi e un infocato globo svolazza, e tronchi e corpi umani assorbe, e quantunque le trombe ormai il ritiro spaurite suonassero ed i dardi dalle destre cadessero e gli scudi dalle sinistre, agli infiammati assalti sfuggir non si potea, Vareno e i due Iasii, Labullo ligure, il cretese Gia, Lierte gaditan, l’assiro Naba, e Biante pireneo, i tre figli d’Alcmeone ed Ipsenore, famoso nel canto, il fumo involse sprigionandosi dal sugher tetro in pria, poscia la rossa 293

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Involvit, mox flamma rubens una hausit, et alte Iactati, mox flagranti cecidere ruina. Constiterat forte ad saxum tardante sagitta Narnius Himbrasius, dumque illam avellere tentat, Exanimum exustumque alta suspendit in ulmo Fulmineus globus, inde Euro torquente rotatus Alconem rapit; huic barba crinisque reluxit, Sullatumque alte coelo intulit, inde nigrantem Ruptantemque ignes medium deturbat in amnem. Perstridere undae attactu fumumque dedere, Ut cum versatum ardenti fornace metallum Canduit exceptumque tenaci forcipe tingit Ipse lacu faber, effervit lacus, obstrepit unda Et fumus petit advolitans nigrantia tecta. Tercentum huic capita hirta boum totidemque iuvencae Pascebant Sila in magna; famam ipse secutus Deseruit patriam et dulcis cum coniuge natos. Bisseptem Aufidio nati, praeclara iuventus, Surrenti domus ampla, aequano in litore turris, Felices Baccho colles, tot iugera campi Totque greges Sarnusque fluens per florida rura. Et natos tamen et patriam dulcisque recessus Sirenum (potuit tantum ambitiosa cupido) Posthabuit; cui primum oculos flamma abstulit, inde Torruit ambustam dextram vento acta favilla; Post tortus iaculante Euro per viscera truncus

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fiamma insiem li inghiottì; quei, sprofondando, precipitar nella ruina ardente. Trattenuto da un dardo a’ piè d’un sasso mentre Imbrasio di Narni s’adoprava a svellerlo, svenuto ed ustionato il fulmineo globo lo sospese in cima a un olmo; indi, Euro volteggiando, Alcone assalse, il quale nella barba e nei crini rifulse, e sollevatolo alto in cielo il menò, poi tutto nero ed eruttando fuoco lo scagliava in mezzo al fiume; stridere e fumare l’onde all’impatto incominciar, sì quando nell’ardente fornace incandescente il metallo rivolta il fabbro, e ’l tragge e nell’acqua l’immerge con tenaci tenaglie, l’acqua nella conca bolle strepitando, ed il fumo le annerite volte attacca, volando attorno. Avea trecento capi d’irti buoi, trecento giovenche al pascol nell’immensa Sila; e lui per inseguir la gloria il patrio suolo lasciò con la consorte e i cari figli. Sette più sette erano i figli nati ad Aufidio, insigni giovinetti, una ricca magione ebbe a Sorrento, e una torre sul mare in quel degli Equi, colli fecondi d’uva, e tanti iugeri di terra e tanti greggi ed il fluente Sarno gli passa fra campagne in fiore. E nondimeno i figli, la sua patria, delle Sirene i begli antri pospose (tanto poté l’ambiziosa brama); a lui dapprima tolse gli occhi il fuoco, poi gli bruciò la destra la favilla mossa dal vento; poscia ai colpi d’Euro s’accese il busto dilaniato, e fumi 295

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Canduit, ipse atros spirans de vulnere fumos Et Sarni fontem et liquidos reminiscitur amnes. Fatidica Ursidio mater praedixit eunti In bellum: «Fuge, nate, ignes, incendia vita». Correptus flammis queritur matremque deosque Veriloquos quodque humentem liquisset et Arnum Et Fesulas, natale solum florentiaque arva. Tercentum sub rupe cava, sub sentibus aspris, Deliterant simul, insidiis delecta iuventus, Tercentum simul absumpsit glomerata favillis Aura novis; ut cum frondosa in valle sub astrum Pleiadum tacta alta Iovis de fulmine quaercus; Uno omnis simul afflatu per pascua circum Grex cadit exitioque ruunt armenta sub uno. Ter flammam pedibus pernix evaserat Ufens; Infelix ora obvertit, videt aegra trahentem Crura patrem exanguemque metu; vestigia retro Praecipitat prensumque manu ac cervice reclina Impositum trahit et labens incendia vitat; Improvisum anguem pressit gravis. Ille repente Implicuit plantae agglomerans; dum se explicat Ufens, Dum saevit coluber squamosa volumina torquens, Exiliit fumosa vomens incendia turbo Absorpsitque Ufentem una colubrumque patremque, Ufentem, quem ceruleis Feronia in antris Nutrirat, puer et viridi consueverat umbrae. Hunc sacrum Nymphae nemus, hunc flevere Napeae,

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dalla ferita atri spirando, il fonte del Sarno e i corsi limpidi rimembra. Ad Ursidio la madre un dì predisse, quando in guerra partì, divina: «Fuggi il fuoco, figlio, ed evita gl’incendi». Dalle fiamme ghermito, e madre e dei veridici lamenta, rimpiangendo l’acque dell’Arno e Fiesole, il natio suolo e i campi fiorenti abbandonati. Trecento sotto il cavo monte e sotto gli aspri rovi nascosti eran, ragazzi scelti agli agguati, ebben trecento insieme distrusse l’aura densa di faville nove; come allorché in frondosa valle un’alta quercia è dal furor di Giove colpita sotto l’astro delle Pleiadi; da un soffio tutto quanto intorno cade abbattuto nei prati il gregge, e in una sola ruina crollano gli armenti. Tre volte era scampato il piè veloce Ufente; il guardo ahimè rivolge e vede il padre trascinar le gambe a stento, esangue di paura; arretra i passi a precipizio e presagli la mano sovra ’l capo reclin se ’l pone e ’l tragge, all’incendio sfuggendo; d’improvviso col suo peso premette un serpe. Quello subito al piede in glomero s’avvolse; e mentre Ufente si districa, e il serpe crudele attorce le squamose spire, fumose fiamme vomitando un turbine guizzò ed Ufente con il padre e il serpe inghiottì, quell’Ufente che Feronia avea negli antri ceruli nutrito, e che fanciul tra l’ombre verdi visse. Il sacro bosco della ninfa il pianse,

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Circaeique sinus, hunc Anxuris ora lacusque Setini et tacitae rupere silentia Amyclae. Pervolitat turbo involvens silvasque ferasque; Densatur coelum fumo, caligine montes Conduntur fluitantque atrae per summa favillae; Mox saevi erumpunt ignes, flammaeque coruscant, Et coelum lambit rutilans et sidera vortex. Hinc rursus torquente Euro per inane volutus Incumbit campis, truncosque ambustaque versat Robora, candentemque rapit sese ante procellam. Suffenum armigerosque duos eadem aura peremit Cum geminis Vargunteiis libicoque Gulussa. Umbronem Hisponemque lacetanumque Biorem Hastatosque numantinos Nomadumque cohortem, Cetratamque manum, praeerat cui Turdulus Iscon, Iscon, avis atavisque genus qui ducit ab Orco, Una omnis rapit unda, rapit Varumque Macrumque Gisconemque syracosium garamantaque Bocchum, Mox raptos flammarum hausit circumacta vorago. Ut cum Trinacriae campis de vertice summo Aetna vomit rapidos aestus, it turbine denso Sullatus coelo fumus, mox rumpit in auras Flamma furens, volitant rutilae per inane favillae, Post iactante noto agglomerans flectitque rotatque Huc illuc; ea lapsa faces iaculatur et altis Illisa arboribus silvas saltusque vagatur Incensos; ruit interea, mirabile visu,

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lo pianser le Napee, di Circe il golfo, d’Ansure i liti e sotto Sezze i laghi, ruppe il silenzio la silente Amicle. Il turbine avvolgendo e selve e fiere vola; si addensa in cielo il fumo, i monti si copron di caligine e discorrono atre faville sulle cime; fuochi selvaggi erompon poscia, e fiamme brillano, e un vortice lambisce rosseggiando del ciel le stelle. Quindi ritornando Euro a incalzar, volgendosi nel vuoto sui campi incombe, e tronchi e querce tragge combuste, e spinge innanzi a sé l’ardente tempesta. Insieme con Suffeno due armigeri un sol soffio annienta, insieme coi gemelli Varguntei e Gulussa libico. Umbrone e Ispone e il lacetano Bior, gli astati numantin, la turba dei Nomadi, la schiera dei peltasti, che Iscone turdulo guidava, Iscone, avita stirpe che venia dall’Orco, un’onda sola li rapisce tutti, Varo e Macro, Giscon di Siracusa, e il garamante Bocco, li rapisce, e tosto che rapiti ei furo, il gorgo delle fiamme, avvolgendoli, l’inghiotte. Come quando nei campi di Trinacria dalla sua vetta l’Etna emette rapidi bollori, va con turbin denso il fumo fino al cielo, dipoi scoppia la fiamma furente in aria, rosse le scintille volteggiano nel vuoto; indi agitata dall’austro si aggomitola e si piega roteando qua e là; scivola e lancia fiaccole, e in cima agli alberi sbattendo vaga per selve e incendiate balze; e frattanto, mirabile a vedersi, 299

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Flammarum torrens rapidus liquefactaque saxa Praecipitat, simul involvens stirpesque ferasque Tectaque pastoresque; furit vulcanius amnis Per valles, per culta; ingens metus urget agrestes Vicinaeque suis diffidunt moenibus urbes; Haud aliter pavor invasit; fuga coepta per omnis Est acies. «Ite» exclamat Sertorius «ite, Ite citi, vada nota citi pervadite»; et amnem Primus obit. Sequiturque ducem sua quemque iuventus Et circumstetit armatus trans flumina miles. Forte sub annosa quaercu in convalle silenti Arcitenens dea saevarum de caede ferarum Lassa quiescebat, trepido cum excita tumultu Surgit et ascendit summi iuga pinea montis. Constitit hic lustrans oculis loca, cernit utramque Effusam campis aciem, videt agmina et ipsos Hinc illinc instare duces, saevire protervum Eurum atque in mediis volitare incendia silvis, Tot strages, tot fumantes et corporum acervos. Ingemuit traxitque alto suspiria corde: Adventare diem quo dux nursinus acerbo Casurus fato hesperiis occumberet arvis. Nam puerum templo admotum cum sedula mater Commendat Triviae atque adytis dea grata recondit, Consuluit fratrem; frater fata abdita pandit: Ingentem fore et Hispanis per bella, per enses,

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di fiamme scorre rapido un torrente precipitando, ed avvolgendo insieme piante e fiere, pastori e case; infuria lungo le valli di Vulcano il fiume, e per li campi coltivati; immenso timore opprime i contadini e accanto non più sicure delle proprie mura son le cittadi; non diversa fue la paura che irruppe, onde le schiere tutte preser la fuga: «Andate – esclama Sertorio – andate in fretta, ed i ben noti guadi in fretta passate»; e primo affronta il fiume. Dietro al proprio duce avanza la gioventù, e l’armata oltre ristette. Sotto un’annosa quercia nel silenzio d’una convalle riposava stanca la faretrata dea dopo la caccia, quando svegliata al trepido tumulto si leva e alla pineta giunge, sita sulla vetta del monte. E qui sostando percorre i luoghi con lo sguardo, vede d’ambo i lati dispersi per i campi gli eserciti, le schiere e i duci stessi incalzare di qui e di lì, protervo Euro infuriare e in mezzo ai boschi incendi svolazzar, tante stragi, e tanti mucchi di cadaveri in fumo. Ella gemette e dal fondo del cor trasse un sospiro: s’avvicinava il dì, che per l’acerbo fato il duce di Norcia fia caduto sovra i campi d’Esperia. Ché, allorquando la premurosa madre ancor fanciullo l’addusse al tempio ed affidollo a Trivia, grata la dea presso di sé il nascose, e il fratel consultò, che il fato aprìo: grande ei sarà, e pugnando sulle ispane terre a regnare destinato, eppure 301

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Regnaturum oris, tamen illum haud tarda manere Funera, cum pariter flammaeque undaeque faverent Pugnanti armatumque Eurus prosterneret hostem. Fatorum dea facta memor de valle propinqua Pyrenen iubet acciri; haec nam fida ministra, Haec comes, huic omnis thalami quoque credita cura. Illa volat, dictis cui sic dea fatur amicis: «Nota, soror, tibi fata ducis, quae certa propinquant; I, propera, fac signa retro, fac agmina vertat; Pugnatum satis est». Nec plura effatur; at illa In cervam conversa Noto non segnior ibat. Ipsa arcum leva stringens dextraque sagittam Lunavit simul, ut capita accurvata coirent, Laxavit simul, ut flammas elapsa sagitta Conciperet. Fulxere aurae, tractu illa corusco Emicat, et ducis ante pedes affixa reluxit. Obstupuit tanto monitu Sertorius. Ecce Cerva per attonitas penetrat non cognita turmas. Agnovit Triviae famulam dux ac prior inquit: «Nota venis, nec me fallit dea»; quadrupedemque Convertit ripae approperans; praecedit euntem Pyrene pedibusque micans et cornibus aureis. Signa canunt reditum. Sequitur tum ferrea pubes, Oceanoque egressa polum nox occupat atra.

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIA/LOGUS QUI ANTONIUS INSCRI/BITUR FINIT FELICITER.

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ANTONIO, VII

non tarda morte avrà, quantunque in lotta delle fiamme e dell’onde abbia il favore ed Euro l’oste armata anco distrugga. I fati rimembrando, a sé la dea Pirene fe’ venir dalla vicina valle, fedele sua ministra, amica, cui diè perfin del talamo la cura. Ella volò, ed a lei con affettuosi detti la dea si volge: «Ecco, sorella, del capitano i fati a te ben noti, che senza fallo arrivano; t’affretta, fa’ sì ch’ei faccia indietreggiar le insegne, e rivoltar le schiere; assai pugnossi». Né più disse, ma lei mutata in cerva non più lenta correa del Noto. Stretto con la sinistra l’arco, e con la destra lo stral, quello piegò sì che gli estremi fra loro si toccassero incurvati, poi l’allentò per far prendere foco allo stral. Sfolgorò l’aria, una striscia lucida brilla, e il dardo innanzi ai piedi del capitano si piantò e rilusse. Stupito a tanto monito Sertorio rimase. Ed ecco, accade che una cerva fra le attonite turbe entra, mai vista. La riconobbe il duce per ancella di Trivia e disse subito: «Chi sei ben lo so, né la dea m’inganna»; e gira il destriero alla riva appropinquando; Pirene lo precede negli zoccoli risplendendo e nell’auree corna. Suonano la ritirata le canore trombe. La gente armata esegue e dall’Oceano esce negra la notte e il cielo occùpa.

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Asinus L’asino Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

Al di là della sua collocazione in un momento critico del percorso dialogico, fra l’apologo mitologico e il colloquio prevalentemente faceto e polemico dei primi due esperimenti, e l’affermarsi della conversazione accademica delle ultime due grandi prove, l’Asinus costituisce con la sua struttura schiettamente rappresentativa, alla soglia della rinascita plautina della commedia, una testimonianza precoce dell’influsso che la figura dell’asino ebbe sulla letteratura cinquecentesca. Tutta la tematica suggerita da Apuleio col suo tema della metamorfosi dell’uomo e della natura, dell’opposizione e rapporto fra humanitas e feritas, della doppia natura dell’uomo, passa attraverso la stravagante operetta pontaniana, nonostante la frivolezza di alcuni argomenti, il livello comico del motivo autobiografico, dove la follia e la scompostezza confessate dall’autore sembrano un gioco letterario e una divertente dissimulazione. Due fra i più importanti esemplari di questa fortuna apuleiana, l’Asino di Machiavelli e la Cabala di Giordano Bruno, non possono non aver avvertito il tramite di Pontano. Vedremo come Machiavelli, che concepisce il capitolo in terzine rimasto incompiuto solo qualche anno dopo la pubblicazione del dialogo di Pontano, fu certamente lettore del suo De fortuna, pubblicato l’anno precedente al concepimento del Principe, lasciandone le tracce nella polemica del capitolo sulla fortuna. D’altra parte il Bruno non poté non raccogliere, nella sua formazione napoletana, l’eredità di un cultore dell’astrologia, immaginoso studioso della natura e naturalista convinto fino al limite dell’eterodossia. Ma la rivalutazione dell’aspetto simbolico e ideologico dell’Asinus, che lo collega con questo filone, troverebbe un ostacolo nell’interpretazio307

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ne tradizionale, satirica e autobiografica, della vicenda, se non fosse che anche questa ci permette di scoprirvi il significato più autentico delle metamorfosi apuleiane. La follia che ha preso il poeta, salvatore della patria, è una metamorfosi come quella dell’Apuleio incontrato nell’Erebo da Caronte, che aveva mutato l’aspetto e i gusti in quelli asinini; anzi è rilevante che Pontano abbia già colto nella vicenda apuleiana proprio il tema del «mutamento» ed abbia attribuito all’autore la metamorfosi del suo personaggio (Apuleio aveva conservato nell’aldilà i tratti del suo asino, Caronte si preoccupa che il filosofi lo trasformino in un asino), anche se lì si tratta ancora di un gioco stravagante e deformante della reminiscenza letteraria. L’autore si scopre folle quando vuole trasformare un asino in una persona cortese e civile, il furbo e interessato fattore in un dotto agricoltore, sé in un generoso libertino, con la dissimulata coscienza che si tratti alla fin fine di un gioco per sorridere di sé e degli altri che ci hanno creduto e con i quali si ritrova come se nulla fosse successo. Il dialogo narra, come si è visto, in forma scenica, una vicenda espressamente riferita dall’autore a un determinato momento storico, la stipulazione della pace fra il re di Napoli e il papa Innocenzo VIII in seguito alla crisi bellica degli anni 1485-1486 (in coincidenza con la repressione della famosa congiura dei Baroni), annunciata gioiosamente nella gustosa rappresentazione iniziale del mondo popolare e animato dell’osteria, e attribuita ai meriti diplomatici dello stesso Pontano. Ma si evolve in una serie di argomenti correlati, al centro dei quali spicca la follia dello stesso umanista, il quale si è ritirato nella sua villa prendendosi cura di un asino di cui sembra essersi innamorato, come hanno saputo i suoi amici accademici che decidono di andare a trovare il maestro per aiutarlo in questo frangente. Lo trovano infatti alle prese con l’asino, poi alle prese col suo fattore al quale l’umanista dà una lezione di agricoltura, e infine a discutere col fattore stesso per ottenere le grazie della sua giovane sposa in cambio di rustici doni. Gli amici, che hanno visto tutto di nascosto, come in certe situazioni teatrali, assistono alla fine al suo rinsavimento. Nel pubblicare il dialogo il suo editore, Summonte, riferendosi all’episodio più vistoso indicato dal titolo, aveva informato che l’autore intendeva colpire qualcuno per l’ingratitudine dimostratagli («lepido argumento Pontanus in cuiusdam ingratitudinem clam invehitur»), senza svelare il nome del personaggio. Fu Camillo Porzio ad asserire che la persona nascosta sotto il simbolo dell’asino fosse Alfonso, duca di Calabria, che 308

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nel suo racconto della congiura dei Baroni appare generalmente in tinte fosche in linea con l’atteggiamento antiaragonese dello storico. In realtà nell’osteria, dove giunge l’annuncio della pace, il nome del duca di Calabria si fa con tutto rispetto e con estrema serietà: «Salvus est rex! Salva Patria! Salvus est Alfonsus, qui salutem, comparato exercitu, obsessa Roma, nobis peperit». Pensare a Ferrante, invece che ad Alfonso, solo perché possono documentarsi espressioni di personale risentimento da parte di Pontano nei confronti di questo re, significa solo correggere Porzio, seguendolo nella sua infondata illazione. La raffigurazione del proprio re ingrato nelle forme della spregevole bestia, che il poeta alla fine manda al diavolo indignato, farebbe pensare a una rottura molto grave, che in realtà non ci fu mai. L’Umanista sarà costretto, propriamente, a riconoscere l’inutilità di trattare un asino come un uomo, poiché la sua natura non può smentirsi. È più facile che un uomo diventi asino, che un asino diventi uomo («[…] asino caput qui lavent, illos operam cum sapone amittere […] et in asinum abire qui asino delectetur», § 26). Se nel celebrare le opere del grande maestro Sannazaro cita gli ingratos mores dell’asino pontaniano, proprio l’ambigua espressione latina può farci pensare, più che all’«ingratitudine», allo sgradevole comportamento della bestia, che lo stesso autore del dialogo, nel rivolgersi all’asino per dargli lezioni di urbanità, designava come mores istos agrestiores. L’asino rappresenta quindi, nell’uso metaforico che ne fa Pontano, quanto di più lontano ci sia dall’umanità, in virtù della quale, invece, l’uomo esprime brillantemente il suo pensiero e riesce gradito. Il pane d’orzo e il ragliare sono segno di cattivo gusto e di disarmonia. Gli ornamenti usati dall’oste in Apuleio, per agghindare l’asino, è stato notato, sono pressappoco gli stessi usati da Pontano per il suo caro animale. Anche in Apuleio, come in Pontano, il padrone se ne andava in giro continuamente con la sua bestia ornata di ogni gingillo. All’umanista non sfugge il significato «morale» che la figura dell’asino assume nel racconto di Apuleio e se ne serve per impostare una situazione singolare, nella quale si sviluppa lo spunto ridicolo che un uomo tratti un asino, la più ottusa, insulsa e sciocca delle bestie, con gli onori dovuti ad un generoso destriero, o con le gentilezze dovute ad un essere umano. La situazione ci riconduce al contrasto di «sapienza-stoltezza», così caro all’autore del Charon e dell’Antonius. La follia di cui dà prova il poeta 309

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interessandosi dell’asino consiste, nelle parole del Cariteo, nell’aver alienato la «sapienza»: «Usque adeo cum sapientia simul cultus quoque ac comptus ad asinum transiit» (§ 13, cfr. § 21) e richiama l’opposizione già vista nel Caronte fra umanità ed animalità («magari non trovassi fra gli uomini molti che si comportino come asini»). Quest’ultima, raffigurata nell’asino, non è, s’intende, che l’aspetto negativo dell’uomo, la disumanità, non l’animalità in quanto qualità degli animali. Il Pontano teneva a questa distinzione, e la svilupperà appunto nel De immanitate, dove indicherà orribili azioni che l’uomo, e solo l’uomo, compie, quando si libera dai sacri legami della civiltà e diventa bestia, ma peggiore delle bestie perché queste talora hanno atteggiamenti umani. Proprio in questo breve trattato, infatti, Pontano riprenderà lo stesso motivo, visto pocanzi, dell’uomo che essendo pari a una bestia è peggiore delle bestie stesse, contrapponendo questo genere di uomo ad alcune bestie che viceversa seguono le leggi della vita umana meglio degli uomini. Il tema della trasformazione, il gioco delle apparenze interessa direttamente anche l’episodio simbolico dell’asino pontaniano: il personaggio autobiografico vuol trasformare l’asino in un essere umano, mentre lui rischia di trasformarsi in asino. Non c’è nulla della mistica apuleiana, ma il discorso riguarda in pieno la paideia umanistica, rivisitata ironicamente. La natura dell’asino pontaniano è tutta in alcuni semplici atti bestiali, quali il calcitrare, il rudire, il crepitare, che l’animale ripete senza distinguere né persone né circostanze (feritas). Le parole del padrone, del garzone, di Pardo, che è appostato dietro la siepe, commentano ironicamente la sua selvatichezza con i termini e i modi propri del linguaggio affettivo; mentre Pontano si riferisce alla natura selvatica dell’asino con un tono di superiore comprensione: «Siste huc ad me Cyllarum quam nitidissimum; atque id vide, ne dum serica illum reste ductitas, dum ludere feroculus cupit, calcibus in te insiliat. Novi ego cyllarinas illecebras ac domini nostri blanditias» (§ 21). Il richiamo mitologico, la pretesa di ottenere nitidissimum l’animale che rifiuterà di lavarsi, l’evidente traduzione «ironica» del ricalcitrare in un ludere più urbano, l’uso scherzoso della litote feroculus illustrano con un procedimento ironico appunto la selvatichezza costituzionale della bestia. Invitato dal padrone ad essere gentile con l’asino, il garzone incalza con richiami letterari, superando il padrone che se ne compiace, ma alludendo con maggiore pesantezza alle volgari manifestazioni dell’asino: altro che baci e abbracci. L’ot310

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NOTA INTRODUTTIVA

tusità bestiale dell’asino si collega, insomma, con la selvatichezza e la libidine, per costituire insieme l’immagine della deficienza d’umanità, dell’«immanità», per dirla con la terminologia pontaniana. Il padrone avrebbe voluto nell’asino una impossibile metamorfosi: «Eum ego te, aselle, velim, qui in asino quidem asini nihil habeas, qui sis urbanitate etiam ipsa urbanior», «mores istos agrestiores exue atque urbaniores indue» (§ 24). Nel De sermone l’urbanitas s’incontrerà con il «riso» moderato e opportuno, la facetitas si opporrà all’agrestitas, l’urbanitas alla rusticitas come due specie diverse di iocus, che è uno degli aspetti della facetitas. Il «rustico» quindi non può esser considerato l’opposto del «faceto», perché in parte gli si avvicina, opponendosi piuttosto al giusto mezzo del faceto, qual è appunto indicato nel termine «urbano». Rispetto al faceto, insomma, il rustico è una degenerazione, un «difetto». La negazione assoluta di quel sorriso e di quella «civiltà» contenuta nell’habitus dell’uomo faceto viene indicata invece nell’agrestitas. Sicché viene lodato Orazio per aver aggiunto il termine di «agreste» a quello di «rustico» a designare l’assoluta mancanza di modi urbani e di spirito. Alla agrestitas manca appunto quel «ben acconcio», quel «soave», quel «piacevole» che solo il vivere cittadino può offrire nella misura migliore: «facetudo est urbana admodum et undique concinnata eademque perquam et grata». Si viene a costituire una specie di scala dei valori morali e umani, che vede al primo posto l’urbanus, al secondo il rusticus, all’ultimo l’agrestis. Ma quest’ultimo è, potremmo dire, fuori da quella scala, più che l’ultimo gradino di essa. L’agrestis è fuori della civiltà umana e si avvicina al genere delle bestie. Nella tipizzazione fatta da Pontano l’agrestis è refrattario allo urbanità del gioco, come l’asino nel dialogo, che può essere semmai oggetto esso stesso di riso, come chi crede di poterlo educare: rifugge dal dir facezie e dallo scherzare, ma il suo carattere rude, nel senso peggiore, si spinge fino alla insofferenza per tutto ciò che viene espresso cum iocunditate. Nell’uomo agrestis risiede, si potrebbe dire, un’essenziale contraddizione, che ne fa un assurdo di natura, poiché si accorda «ben poco con la stessa natura umana» (De sermone, III IX 1). L’incongruenza fra la forma umana e l’animo bestiale nell’agrestis vir si traduce nel dialogo in forma drammatica e «comica» in un assurdo colloquio di Pontano con una vera e propria bestia, che assomma tutte le caratteristiche della disumanità: 311

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L’ASINO

lacessere, mordicare, sordescere sono anche il costume dell’asino. Inoltre la stessa conclusione dell’episodio ospita un motivo farsesco (quasi le bastonate finali), analogo al finale del viaggio di Suppazio nell’Antonius, con il conseguente monologo del poeta che piange sulla sua imprudenza e si espone al riso dello spettatore, rovesciando la situazione precedente nella quale egli sorrideva divertito, in definitiva, della asinina ostinazione e scostumatezza. Pontano sorride della sua follia e quasi si compiace di non essere inteso, come il Brutus che dissimulava la sapienza nell’exemplum del De sermone (II XV 1). Folle lo credono i suoi saggi amici, abituati a vedere il loro vecchio immerso in gravi pensieri, conversare con loro nell’eletto ambiente dell’Accademia, e pensano che forse non sia svanito del tutto, come invece pensa il contadino, che lo vede rigirarsi tutto il giorno il mappamondo fra le mani; insanus lo crede il garzone ingenuo, costretto a rischiare i calci per obbedire alla sua stravaganza. Si tratta appunto di una forma di umorismo molto vicina a quella ironica «dissimulazione», con cui si concluderà il trattato sulla facezia, e a quella follia che con finalità diverse diventa un importante motivo della riflessione e della poesia rinascimentale a cominciare da Erasmo. L’episodio dell’asino s’intreccia con quello di Fagiolone, che rappresenta il rusticus, diligente e attaccato al suo lavoro, docile e a suo modo comprensivo nei confronti del suo padrone, ma assolutamente incapace di comprenderlo nella sua vita culturale e alla fine nel suo spirito, giacché di fronte alle cortesi offerte del padrone che vuole ingraziarsi la mogliettina, scade nel salace pur di ricavarne dell’utile, cose entrambe deplorate nel De sermone. Che il personaggio sia introdotto con questa particolare funzione, è evidente sin dalla scena in cui il padrone gli rivolge il lungo discorso per istruirlo sulla scienza della coltivazione. Il tono paternalistico di Pontano, che non manca di porre l’accento sulla ignoranza dei «rustici», si rivela sin dalle prime battute, quando il poeta loda la diligentia di Fagiolone prima di disapprovarne l’ignoranza (§ 20). Anche in questo caso l’umanista si accorge di richiedere troppo al suo interlocutore e pensa di affidargli la cura dei cavoli, che almeno gli garantirà un succoso pasto (§ 21). È il fallimento del pedagogo più che l’ingratitudine verso il maestro; sembrerebbe il capovolgimento comico della propria professione di umanista. D’altra parte l’atteggiamento di superiorità sorridente del cittadino di fronte alla semplicità dell’abitante del contado, testimoniato nella lette312

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ratura «nenciale», si manifesta sia nell’elencazione stravagante dei piccoli doni popolareschi dell’amante per conquistare l’amata popolana (ollas pulmentarias, patinas, pelves, vasa, crispellas aureolas, redimicula bracteatulas soleas, calceas diversicolores, penulas, subuculam rosaceam, § 28), sia nel fatto che Fagiolone segua con gradimento il suo padrone quand’egli scende al suo livello e parla un linguaggio a lui familiare. Un esempio del De sermone mostra come si possa analogamente ammorbidire l’animo di un rusticus difficilmente trattabile, facendolo divertire con un linguaggio pieno di rustiche allusioni, e intanto far sorridere un’eletta compagnia dell’insolito colloquio. Anche in questo caso la facezia diventa scena: «Qui vero aderant omnes in cachinnos resoluti sunt. Feci igitur me ridiculum, hoc est rusticanum, quo agrestis hominis mollirem duritiem» (V 2, 14). Gli errori grossolani nel prendere una parola per un’altra alla maniera plautina, le metafore oscene, la parodia dell’ideale del senex (edentulus, exuctis medullis senioque ipso confectus atque incanis malis, § 29), sulla bocca del contadino sono aspetti classici della comicità, che si stemperano ma non svaniscono nell’affabile ironia con la quale Pontano usa gli appellativi di philosophi o heroes per riferirsi ai dotti amici (§ 29), cui si aggiunge il consiglio, dato al contadino, di assumere un contegno grave e compunto, quale ai saggi è richiesto. Gli amici rappresentano l’inflessibile saggezza di fronte al personaggio Pontano, che appena allora finiva di discutere con un contadino di poco oneste frivolezze: essi si sono preoccupati all’annunzio che il loro grande vecchio abbia abbandonato la gravità della vita politica e la serietà degli studi per un curioso piacere. Di fronte a loro il poeta è però costretto a nascondere le sue debolezze, i modi del suo privato divertimento, che non corrispondono alla perfezione dell’ideale etico nel quale s’incontrava con loro, e che egli tuttavia sentiva di dover esprimere come parte della sua più complessa e vivace umanità.

NOTA AL TESTO Il testo dell’Asinus è tramandato per intero dalla sua Editio princeps, curata da Pietro Summonte e stampata a Napoli presso Sigismondo Mayr Alamanno nel 1507 (Mayr), assieme agli altri due dialoghi, Actius ed Aegidius, rimasti anch’essi inediti alla morte del Pontano. Su questa edi313

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L’ASINO

zione si fonda l’Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1518-1519, pars II, cc. 175-183v, a sua volta riprodotta dalle edizioni del sec. XVI. È inoltre disponibile un prezioso frammento manoscritto (V = Vat. Lat. 2840), consistente nella prima stesura, con numerose correzioni d’autore, dei §§ 1-14 di questa edizione. Non è dato sapere se esso facesse parte di un manoscritto completo o fosse solo un abbozzo incompleto. Di certo l’edizione summontiana corrisponde in buona parte all’ultima redazione dell’autografo, con cui è stata messa a confronto, dopo la consultazione non sistematica di C. PREVITERA, 1943, da S. MONTI, L’Asinus nei fogli autografi, 1965, e da G. MARTELLOTTI, Il primo abbozzo dell’Asinus, 1967, che ne riproducono il testo offrendo in forma differente il confronto fra la princeps e la sua ultima redazione, fra quest’ultima e la prima stesura, dando notizia, per quel che è possibile, della dinamica della correzione da parte dell’autore. Su tali studi si vedano le osservazioni contenute nella Nota al testo dell’edizione a cura di F. TATEO, 2014, cui si rimanda anche per i dettagli sulle scelte editoriali. Ovviamente l’accordo fra la redazione finale dell’autografo e la princeps ci assicura dell’ultima volontà dell’autore, mentre dove esso non sussiste sembra necessario supporre o il tramite di un manoscritto non pervenuto, di mano dell’autore o di altri con la sua revisione, servito poi per la prima stampa, in cui fossero presenti ulteriori varianti, oltre alla parte del dialogo non testimoniata da V; oppure ipotizzare un intervento consistente del primo editore. La difficoltà dell’edizione critica di un’opera tramandata nel modo in cui lo è stato l’Asinus consiste insomma nell’errore in cui s’incorrerebbe nel considerare il testo della princeps o frutto integrale dell’autore, o integralmente frutto di un rimaneggiamento formale postumo. Pertanto la nostra edizione si fonda, come l’edizione del 2014, sulla princeps (eliminati errori e refusi già riconosciuti dalla tradizione critica), nella presunzione che il testo tramandato da quest’ultima abbia avuto come antigrafo una redazione autorevole posteriore a V, ma segnalando con qualche esempio la problematica che a nostro avviso la stessa princeps solleva, sia per mettere in evidenza quei casi che confortano l’autenticità delle lezioni tramandate da Mayr, sia per metterle in discussione. Il confronto fra il testo della princeps e l’autografo interessa in questa circostanza per la sua eventuale ricaduta sull’esame della lingua usata 314

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NOTA INTRODUTTIVA

da Pontano soprattutto in questo dialogo di livello particolarmente comico. S’intende che, a parte le varianti ortografiche, documento comunque interessante della cultura classica diffusa in un delicato momento di trapasso dal manoscritto alla stampa, le varianti grammaticali, lessicali e alcune di quelle stilistiche, sono le più esposte al sospetto di autenticità, per la tendenza dell’editore alla normalizzazione e all’uniformità che si era assunto come compito per salvaguardare il maestro, spesso audace e risaputamente ostile alla norma scolastica e alla pignoleria dei grammatici. Meno discutibili sono le varianti che comportano aggiunte e soppressione di testo, e quelle stilistiche più profonde, perché conosciamo la discrezione di Summonte. Pertanto rimandiamo agli studi citati l’informazione sulle varianti di quest’ultimo tipo, limitandoci a citare qualche caso più importante, e significativo, nelle note di questa edizione (cfr. la più ampia disamina nell’edizione del 2014). Per la più significativa variante, la soppressione dei nomi di Antonello De Petruciis e di Francesco Coppola, che figurano solo nella prima stesura del dialogo nella deplorazione dei congiurati (§ 3), possono trovarsi ragioni che rimandino sia all’autore, sia all’editore, ed implicano comunque l’interpretazione del dialogo.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI La dedica di Summonte a Suardino Suardo e Francesco Peto, che saranno i primi interlocutori dell’Aegidius (riprodotta da Previtera, in PONTANO, I dialoghi, 1943, p. 287), ci dice che l’edizione era stata sollecitata dai due amici, i quali avrebbero potuto gustare il dialogo aggiunto per ultimo più di quel vino proveniente dalle viti della villa pontaniana e da loro assaporato. Ma ci dice soprattutto che l’Asinus, evidentemente rimasto fino a quella data sconosciuto, era stato scritto contro una persona ingrata, che non specifica, donde il sottotitolo De ingratitudine con cui veniva stampato. L’identificazione dell’obiettivo polemico con Alfonso, duca di Calabria, risale a C. PORZIO, La congiura dei Baroni, introduzione di F. Pittorru, prefazione e note storiche di F. Torraca, Venosa, 1989, pp. 66-67, ma cfr. E. PERCOPO, Vita, 1938, pp. 235-236, che lo identifica col re Ferrante, fondandosi soprattutto su una lettera di lamentele inviata al Re da Pontano (vd. qui Appendice, Lettera 30, pp. 1403-1406), in cui fra l’altro c’era un riferimento all’intenzione di starsene nella sua mas315

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L’ASINO

seria, «sicuro senz’armi e senza guardia». Le più interessanti delle altre interpretazioni si debbono a F. SATULLO, L’«Asinus», 1905, e G. VINAY, Per una nuova interpretazione, 1935, favorevoli a scorgervi un riferimento autobiografico ed erotico. Per una rassegna e valutazione delle varie interpretazioni, cfr. l’Introduzione di F. Tateo a PONTANO, Asinus, 2014, pp. 10-19 (che riprende L’umorismo di G. Pontano e l’ispirazione etica dell’Asinus, in ID., Tradizione e realtà, 1967, pp. 319-354). Un critico ed esaustivo inquadramento storico della simbologia dell’asino è in N. ORDINE, La cabala dell’asino, 20173 (su Pontano pp. 232-233), al quale si rimanda soprattutto per G. Bruno ed Erasmo. Sulla tematica della ferocia e dell’umanità cfr. G. PAPARELLI, Feritas, Humanitas, Divinitas. Le componenti dell’Umanesimo, Messina-Firenze, 1980, ma per la figura dell’animale come simbolo di stupidità, di mancanza di ragione, più che di violenza, di inferiorità rispetto al cavallo, che spiega l’ironia dei nomi eroici attribuiti da Pontano alla bestia, va tenuta presente anche la tradizione dei bestiari medievali, fra cui si veda dello Pseudo-Ugo di S. Vittore il De animalibus, in PL, 178, col. 91, dove si ricorda anche l’origine degli asini dall’Arcadia, nominata nell’imprecazione del padrone. FRANCESCO TATEO

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS DE INGRATITUDINE QUI ASINUS INSCRIBITUR

[I] VIATOR, CAUPO, [TABELLARIUS]. 1. VIATOR. Pacem Romae factam esse aiunt, eiusque poetam nescio quem auctorem referunt. Ego quidem poetae huic vel grandiusculo propinaverim. Amabo, meritoriae huius ecqui se caupo, ecqui se minister offerat? CAUPO. Equidem pacem hanc siticulosam esse Augustus ipse abunde docet. Euge, pulverulente, laetare hoc nuntio et offulam hanc pepono e suavissimo accipe, cyathumque hunc vel tertio ductandum ebibe. VIATOR. Ebibo. Da, quaeso, et alterum. CAUPO. Pax igitur facta est? VIATOR. Pa… pa… pax. CAUPO. Amabo, resipisce, atque inde loquere. Vel pulverem quidem, bellissime homuncule, tibi palliolo excutiam. Hauri, puer, et secundum. et tertium, et quidem recentissimum. Pax ne facta est? O bone Laurenti, dies hic tibi sacer est: nuces a me quotannis expectato quamplurimas! Pax ne facta est? O bone Laurenti, dies hic tibi sacer est; nuces a me quotannis expectato quam plurimas. Pax ne facta est? Anniversarium tibi sacrum cauponarium ex voto statuo. O misellam cauponam! Ecquando ne mihi frondenti apio, laureo redimitas serto, exteriores foris, internas cellulas liceat coronare? Verum ego sum stultior, occidente iam sole, diem qui ad exortum revocem. VIATOR. Atqui felicissimum te te, ipsamque cum primis tecum cauponam dicito. Pax diem instaurabit. Pacem in foribus atque in tabella 318

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO L’ASINO DIALOGO DELLA INGRATITUDINE

[I] UN FORESTIERO, UN OSTE, [BANDITORE]. 1. FORESTIERO. A Roma si è stipulata la pace, così dicono, e raccontano ch’è tutto merito di non so quale poeta.1 E proprio alla salute di questo poeta 2 io vorrei brindare. Per favore, non si fa avanti un oste in questa locanda? e manco un cameriere? OSTE. Che questa pace metta un po’ di arsura,3 è evidente, ce ne avverte lo stesso mese di Agosto. Allegria, tu che sei tutto impolverato!4 Gioisci per questa notizia, assaggia un po’ di questa dolcissima torta di popone, e scolati 5 questo boccale: devi fartelo portare fino a tre volte. FORESTIERO. Certo che lo berrò. Dammene ancora un altro, ti prego. OSTE. Dunque s’è proprio fatta la pace? FORESTIERO. Pa… pa… pace.6 OSTE. Per favore, riprendi fiato, e poi parla. Intanto, brav’uomo, io ti scuoterò la polvere dal mantello. Ragazzo! Mescine un altro, e poi un altro, del novello, naturalmente. S’è fatta la pace? San Lorenzo benedetto! Il giorno di oggi è consacrato a te;7 aspettati ogni anno da parte mia noci a non finire. S’è fatta la pace? Istituisco per voto una festa da farsi in osteria8 tutti gli anni. Oh, mia povera osteria! Quando sarà che potrò ornare la tua porta esterna di festoni di appio, e le stanze interne di corone d’alloro? Ma che sciocco che sono a voler far risorgere il giorno, quando il sole è al tramonto.9 FORESTIERO. Eppure puoi dirti fortunato, e lo è anzitutto la tua osteria insieme con te. La pace farà proprio rinascere il giorno, anzi il sole. Fa 319

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ASINUS, [I]

pingito. Lucrum tibi vinarium emolumentumque pulmentarium omnis generis, ingens, largum, opulentumque augurator. Eveniet, mihi crede, eveniet. Tu tibi bene habe, cupasque ex urbe comportato huc vinarias. Fac rideant fores, effice ut omnis et domus et hortus renideat. Pax haec imperat pacisque amicus Euhyus, cauponae ipsius atque cauponantium pater. Ego Neapolim propero, triente exucto. 2. CAUPO. Bene mihi fore pace ex hac et libens volo et libentius auguror. Agite, qui adestis ministri, cyathos eluite. Socii, talos iacite, hilaremus diem hunc paci. Adest quaternio: quarto tibi potandum edico. Adest rursum quaternio: rursum tibi ductandum hoc est, hudum, rorans, generoso e palmite. Ah ah, cecidit canis. Tu quidem ipse sities, ut illa est siticulosa, hoc ipso praesertim tempore. En iterum canis allatravit. Licet siti conficiare, tam male fortunatus qui sies. Euge euge tibi, caupo. Adest senio. adest rursum et senio. Mihi augurium hoc promitur; mihi ductandum est, vel septies quidem, decies iterato ductitabo, quippe qui valentibus pedibus, capite valentiori utar; compleamus hilariter numerum. At, at utor ne ego recte oculis? Agglomerari ne ego pulverem video agitatu equino? an ventus, meridiano tempore exciri e mari qui solet, illum exagitat? Equus certe est; quin equo satelles vehitur. Arrigite aures! Inflat ne iam buccinam? inflat profecto, regius est tabellarius. Poculum homini et frigidum et generosum praeparemus. Adventat iam, et equum calcaribus stimulat, et inflavit iam cornu; buccinam buccinatorem nec unquam quidem vidi buccinatius inflare. Et inflat et cachinnatur; et interim praeconium vocalissime enuntiat. 3. TABELLARIUS. Captos iam scitote. CAUPO. Quid captos? auscultemus! TABELLARIUS. Qui regem prodiderunt, qui regium nomen evertere ab imo, cum ipsi infimo e loco prodiissent, conati sunt. Salvus est rex, salva patria, salvus est Alfonsus, qui salutem, comparato exercitu, obsessa Roma, nobis peperit. Hilarem hunc diem facite, noctem multo hilariorem. Effulgeant ignes summis aedium culminibus, etiam quam creber-

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L’ASINO, [I]

dipingere la pace qui sulla porta, e fanne fare un quadretto, augurandoti guadagni dal vino e dal cibo, senza limiti, straordinari, abbondanti, opulenti. Avverrà, credimi, e come se avverrà! E sarai previdente,10 se ti farai portare dalla città delle botti di vino. Fa che sia ridente la tua porta; fa che tutto risplenda, la casa e il giardino. La pace lo vuole; ed è amico della pace Bacco,11 patrono delle osterie e degli osti.12 Bevuti i miei tre boccali, me ne vado a Napoli in fretta. 2. OSTE. Che una bella fortuna mi giunga da questa pace, lo voglio di cuore e me lo auguro. Muovetevi, camerieri, che state a fare qui? sciacquate i bicchieri! E voi, compagni, gettate i dadi, stiamo allegri:13 il giorno è dedicato alla pace. È uscito il quattro! Ti ordino di bere quattro volte. È uscito di nuovo il quattro! Devi sorbire14 ancora questo che è bello fresco15 come la rugiada e proviene da un tralcio di qualità. Ah ah, ti è toccata la «canicola»!16 E siccome è sitibonda, ti toccherà aver sempre sete, specialmente di questa stagione.17 La «canicola» ha latrato di nuovo.18 Lasciati pur distruggere dalla sete, giacché non hai fortuna.19 Evviva, evviva, oste, ecco il «sei». Il «sei» un’altra volta. Questo è di buon augurio per me. Tocca a me bere, anche sette, anche dieci volte di seguito, perché ho le gambe salde e la zucca resistente. Completiamo allegramente il giro. Ma, ma, mi funzionano bene gli occhi? vedo davvero un nuvolo di polvere per lo scalpitio d’un cavallo? Che sia il vento a sollevarlo, il vento che sul mezzogiorno si leva dal mare? È proprio un cavallo; anzi, lo cavalca un gendarme. Drizzate le orecchie, non suona una tromba? Certo che la suona: è un banditore del Re. Prepariamogli da bere, un bicchiere di vino fresco e generoso. Eccolo che arriva, sprona il cavallo, e suona il corno. Non ho mai visto trombettiere soffiare nella tromba più da trombettiere20 di così. E dà fiato, e strepita, e intanto pronuncia il suo bando ad alta voce.21 3. BANDITORE. Sappiate che sono stati catturati. OSTE. Che significa catturati? Stiamo ad ascoltare. BANDITORE. Quelli che hanno tradito il Re, quelli che, provenendo dalla condizione più bassa, hanno cercato di rovesciare il prestigio del Re. Ma il Re è salvo! Salva è la patria! È salvo Alfonso, che, allestito l’esercito ed assediata Roma, ci ha procurata la salvezza. Fate che sia lieto questo giorno, e più lieta ancora la notte. Risplendano i fuochi sul tetto delle vostre abitazioni, anche il più numerosi possibile. Celebrate

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ASINUS, [I]

rimi. Convivia ipsis in propatulis celebrentur. Demum laeta sint omnia, confecta pace, ac duce ipso victore cum exercitu domum redeunte. CAUPO. Age, age, bone hospes, equum siste, potita, aestas est; pulverulenta sunt omnia. Refrigera et pulmones et guttur. TABELLARIUS. Nunquam, quod meminerim, nivosius. Obsecro te, poculum itera. CAUPO. Et quidem ampliusculum. Sed amabo, bone, postquam refrigeratus, qui tantum insperati affers, ut certum affers? TABELLARIUS. Captos sceleratissimos homines, ut reos capitis, ut patriae hostes, ut maiestatis convictos. CAUPO. Pape! TABELLARIUS. Iam de illis capitis sententia aut fertur, aut lata iam est. CAUPO. Luant ipsi meritas poenas, quando publicam rem tam male habuerunt, ut pene regnum omne cum ipso rege liberisque pessum ierit. De pace quid autem? 4. TABELLARIUS. Nostis ne Iovianum Pontanum? CAUPO. Quidni noverimus? hominem ubique notum, quippe qui, paucis ante diebus, de itinere ac valetudine fessus, Romam, conficiendam (ut nunc sentio) ad pacem, illinc ab Innocentio, Alfonso hinc arcessitus, meridianus hic conquieverit; et quidem miserati sumus, qui hic tunc affuimus, senis imbecillitatem ac male valentem habitum, ut qui itineri satis non esset, his praesertim caloribus. TABELLARIUS. Dii ipsi (ut omnes praedicant atque ut rex ipse testatur) seni et quidem valitudinario affuere; pacem enim ita confecit, ut regi salva sint omnia, quae amissa prope iam erant procerum perfidia administrorumque iniquitate. Vos autem et paci, et patriae propugnatori, qui pacem populis virtute sua peperit, exornate et porticus et compita; diesque festos agite. Mihi alia ad oppida properandum est, publicae laetitiae gratia. Rex, patriae pater, publicorumque bonorum auctor, hoc sic imperat. Valete, compotores valentissimi!

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L’ASINO, [I]

conviti all’aperto. E infi ne tutto dimostri la vostra allegrezza, ora che s’è fatta la pace, e che 1’esercito col suo condottiero vittorioso ritorna in patria. OSTE. Su, su, caro ospite, ferma il cavallo, bevi un po’, è estate, c’è polvere ovunque, rinfrescati i polmoni e la gola. BANDITORE. A mia memoria, non ho provato mai cosa più fredda, sembra neve.22 Per favore, un altro bicchiere. OSTE. Anche un pochino più grande. Ma, una volta che ti sei rinfrescato, caro mio, sii gentile: sei sicuro della notizia così inattesa che ci porti? BANDITORE. Sì, sono stati incarcerati quegli uomini scelleratissimi,23 colpevoli di reato capitale, nemici della patria, accusati di lesa maestà. OSTE. Perdinci!24 BANDITORE. La condanna a morte o è in via di essere pronunciata, o lo è già stata. OSTE. Che scontino la pena ben meritata: hanno quasi mandato in rovina tutto il regno, insieme con il Re e con i suoi figli. E che si dice della pace? 4. BANDITORE. Sapete chi è Gioviano Pontano? OSTE. E come non lo sappiamo? un uomo noto dovunque; proprio pochi giorni or sono, spossato dal viaggio e dallo stato di salute, e diretto a Roma per combinare la pace – come sento dire ora – da una parte per incarico del Papa Innocenzo, dall’altra di Re Alfonso, si è fermato qui sul meriggio a riposare; e appunto, tutti quanti ci trovavamo qui abbiamo avuto compassione della stanchezza e del cattivo stato di quel vecchio, che non era in grado di affrontare un viaggio, specie con questi caldi. BANDITORE. I santi stessi – stando a quello che tutti proclamano e il Re stesso attesta – lo hanno aiutato, vecchio e malandato com’era; sicché lui ha saputo combinare la pace, in modo da conservare al nostro Re tutto quello che era già quasi perduto, per la malvagità dei baroni 25 e la corruzione dei funzionari. Ora voi adornate le abitazioni, i portici e le strade in onor della pace e del difensore della patria, che con la sua virtù ha procurato la pace alle popolazioni. E festeggiate per più giorni. Io ho l’obbligo di raggiungere in fretta altre città per annunciare la pubblica gioia. Questo è l’ordine del Re, padre della patria e fautore di ogni pubblico bene. Accaniti bevitori, addio!

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ASINUS, [II]

5. CAUPO. Et tu, nuntii tam auspicati auspicatissime auctor, propera, ut pacem populis promulges, ut nos, qui ad mendicitatem prope redacti ob bellum sumus, nuntio hoc ab inopia vindicatos bees. Dii tecum eant et duces et comites. Mihi certum est e suburbano in urbem properare, certiora illic de pace regiisque rebus ut intelligam. Et iam (ut video) agrorum quoque facies immutari coepit; nescio quomodo, aer ipse laetiora promittit. Ego quidem somniis ipsis fidem vel maximam censeo adhibendam, quando noctibus his equos in boves verti, castaneas arbores abire vinarias in cupas somnians viderim. Quid? somnians haec viderim, fictile ministranti mihi aureum factum qui senserim? mox monetarium ad magistrum perlatum in numos fluere aliumque ex alio numum gigni, confestimque in cumulum congeri meque eo cumulo obrui. Coniectores quidem ipsi somnium sibi coniiciant ut volunt; mihi profecto paci magis creditur. Abeo in urbem. Vos domum exornate qualem pax exigit et somnia haec ipsa volunt.

[II] CAUPO, CHORUS SACERDOTUM. 6. CAUPO. Quod mihi meisque contubernalibus felix ac faustum sit, deorum supplicationibus urbem occupatam invenio. Quam laeta populi frequentia! quam canorus sacerdotum chorus! CHORUS. Pacem coeli Rector populo, Pacem terrae Tutor peperit. O bene ominatum carmen! CAUPO. CHORUS. Nobis pacem, nobis ocium, Pacis nobis auctor rettulit. CAUPO. At meritoriae meae lucrum et voluptatem et dapinationes opiperas. O me beatum! Aderunt frequentes lenonum puellae, aderunt earum sectatores, novitii satellites. Et iam audio Sicilia Hispaniaque ex

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L’ASINO, [II]

5. OSTE. E tu, che hai una notizia di così buon augurio, affrettati a diffondere col tuo bando la pace alle popolazioni, facendoci gioire per esserci liberati dalla povertà, ridotti com’eravamo alla miseria a causa della guerra. Che Dio ti guidi e t’accompagni! Per me è giunta certamente l’ora di andarmene subito in città lasciando questo sobborgo, per informarmi meglio sulla pace e sulla situazione del Re. Già, come vedo, anche 1’aspetto della campagna va cambiando, e non so come è l’aria stessa che promette più allegria. Penso davvero che bisogna prestar fede ai sogni, anzi una fede assoluta, giacché una di queste notti ho visto in sogno i cavalli mutarsi in buoi, e gli alberi di castagno trasformarsi in vigne, e queste andare a finire tutte nei tini. Che dico? ho visto in sogno? Posso dire che ho sentito, mentre versavo il vino, il boccale diventare improvvisamente d’oro, poi dal borsello che portavo per pagare l’esattore scorrere monete e da una moneta spuntarne un’altra, e tutte accumularsi, e da quel mucchio io stesso esser travolto. Quelli che se ne intendono diano l’interpretazione che vogliono al sogno; per parte mia, sono sicuro di credere piuttosto a un annuncio di pace. Me ne vado in città. Voi adornate la casa, come richiede la pace, e come vuole perfino questo mio sogno.

[II] L’OSTE, UN CORO DI SACERDOTI. 6. OSTE. È forse per la felicità e la buona ventura toccate a me e ai miei compaesani che trovo la città occupata da festeggiamenti? Com’è lieta tutta questa folla, com’è armonioso il coro dei sacerdoti! CORO. Pace ha dato il signor del cielo al popolo, pace ci ha dato il protettor del mondo. OSTE. Che bel canto di buon augurio! CORO. A noi la pace, a noi pure il riposo il creator della pace ha dato a noi. OSTE. Ma alla mia osteria guadagno, godimento e sontuosi banchetti.26 Che felicità! Presto ci saranno le ragazze dei lenoni, ci saranno i loro frequentatori e i novellini che vanno appresso. Già sento dire che

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ASINUS, [II]

intima advectum florem scortillorum, recentissimum quidem venereum mercimonium, urbanaeque iuventutis illecebras atque allectamenta, meam merum solidum cuppedinariumque peculium. Agite, sacerdotes, pacem concinite, pacem diis immortalibus acceptam referte! Ego profecto compotoribus ganeonibusque meis omnibus ita me comparabo, uti basilicas apud me commessationes basilicumque me cauponem experiantur, praedicent, in coelum efferant. CHORUS. Pacem rura, pacem praedia, Pacem tecta et urbis sentiunt. Virgo, plaude, nuptae plaudite, Paci rite, matres, plaudite! 7. CAUPO. Mihi quidem loculis plaudendum est meis. Ut gestitis, inanissimi? ut animo agitatis aureolos illos Venetillos? Hos ne mavultis, an Florentinulos illos ampliusculos, picturatulos, hieme etiam media perflorescentes? An oceano vectari cupitis, aurea navicula, aureo malo, velis etiam aureis? Et hoc quoque praestabitur, ut in continenti deambulantes britannicum secetis pelagus. Agite, loculi, capite iam auras quis sinum impleatis. Et iam, ut video, oceano libare gliscitis. Verum agite, inspicite, noscite. britanni ne hi sunt quos, Roma proficiscentes, divertere hanc ad meritoriam video? An me oculus fallit? Profecto vestitus ipe britannici generis eos indicat. Accedam propius; quin britannissimi quidem ipsi sunt. Vobis et urbem et cantum, sacerdotes, relinquo: mihi quidem oceano cauponariam rem facere decretum est, ut hodie aureola cymba piscator, britannico in freto, aureum etiam rete in profundum iaciam. Heus, pueri, Bacchum in iudicium ad praetorem vocate. Dormientem tamen illum somno ne excitetis iubeo, quin vernaciolo illum cado includite, ne, somno experrectus britannicumque forum ac britannum iudicem timens, fugam arripiat; nam et horrida vox sermoque ipse horridior deterrere illum abunde potest. Tu quidem concinere illos iube, quo aut somnus Baccho fiat suavior aut illo excitus ac suavitate cantus delinitus, ludere argenteum ad poculum cum illis cupiat. Et id quoque praestate, pueri, ut nostro in penu sit qui graece, qui corsice, qui ligustice sciat, etiamnum qui cretice.

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L’ASINO, [II]

dal centro della Sicilia e della Spagna è arrivato un fior di sgualdrinelle, fresco mercato per i piaceri di Venere, buone per allettare e attirare la gioventù cittadina; tutto danaro contante da guadagnare per le ghiottonerie. Su, sacerdoti, inneggiate alla pace, fateci sapere com’è ben accetta al cielo la pace. Io senza dubbio farò di tutto per allestire regali banchetti ai bevitori 27 e ai crapuloni che verranno da me, e per farmi conoscere, celebrare ed innalzare al cielo come un oste regale. CORO. Pace nei campi, pace nei poderi, pace nei tetti ed in città si sente; vergine, applaudi, ed applaudite o spose, applaudire alla pace è giusto, madri. 7. OSTE. Io non posso che applaudire alle mie tasche. Come gioite, tutte vuote come siete, come siete in ansia per quelle monetine d’oro di Venezia! Preferite queste o i fiorini, quelli più larghi, decorati, che anche in pieno inverno sono tutti in fiore? O avreste voglia invece di attraversare l’Oceano sopra un vascello d’oro, con albero d’oro e vele dorate? Otterrete anche questo, di poter solcare il mar di Bretagna pur continuando a passeggiare sul continente. Orsù, tasche mie, respirate ormai l’aria aperta, con cui gonfiarvi. Oramai, come vedo, esultate al pensiero di gustare l’Oceano. Ma muovetevi, state a guardare, a rendetevi conto. Non son forse britannici costoro, che vedo dirigersi verso questa osteria provenendo da Roma? O la vista m’inganna? L’abbigliamento li fa sembrare proprio gente britannica. Ma sì! Mi avvicinerò ancora: britanni, anzi britannissimi sono! Sacerdoti, vi lascio alla vostra città e ai vostri inni. È volontà del destino che io faccia il mestiere di oste sull’Oceano, mettendomi oggi a pescare con un vascello d’oro nel mar britannico, e ch’io getti anche una rete d’oro fino al profondo. Olà, ragazzi, citate Bacco in tribunale dal pretore. Ma se dorme, vi ordino di non svegliarlo dal sonno, anzi di chiuderlo in un barile di vernaccia, ad evitare che, svegliandosi, si dia alla fuga per paura di un tribunale britannico e di un britanno come giudice; l’orrida voce, la lingua più orrida ancora, possono spaventarlo assai. Tu falli cantare quegli altri, per rendere a Bacco il sonno più soave, o per far sì che, se si desta sedotto dalla soavità del canto, voglia giocare con loro al bicchiere d’argento. E fate in modo, ragazzi, che nella nostra dispensa non manchi nulla per poterli trattare alla maniera greca, corsa, ligustica e magari anche cretese.28

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ASINUS, [III]

[III] CAUPO, VIATOR. 8. CAUPO. Antiquum et notum amicum peregre advenientem ut libens video, ut mihi iucundum est ipsum et complecti et alloqui! VIATOR. At ego, benivolentem compotorem invenire valentissimum et laetor et habeo diis gratiam. CAUPO. Quam cum stomacho bene? VIATOR. Lupum in ventriculo gero. CAUPO. Ut cum siti? VIATOR. Exaruere pulmones calore et pulvere. CAUPO. Pueri, expeditissime afferte quo sitim levet; heus, expergiscimini. VIATOR. Atqui consilium est prius pulverem pallio excutere. CAUPO. Date linteolum, ministrate frigidulam, qua et os et labra et faciem totam perluat. VIATOR. Ut me recreasti pocillo hoc crystallino! Nil vidi unquam hoc ipso limpidius. Ut in eo salit nigellum tuum! An (ut puto) est Casorianum? 9. CAUPO. Reluite, pueri, pocula; miscete recentiusculum illud intimo e penu. Afferte, Centuresium hoc est. Cape, benivolentissime homo, labra delibatim pertinxeris, pedes illico sentient. Mihi crede: illo in dolio Bacchus cum vere lusitat, totum adeo doliolum flos est merus. VIATOR. Atqui putarim eo e dolio aurum scaturire. Aurum profecto liquentissimum digitis teneo; fusile quidem hoc est, et potatile, ut dicunt. Labellantim profecto ducam, non uno haustu. Euge, Bacchi deliciolum! Anima mihi ipsa congeminata est olfatu solo. Viden ut ipsum aurum aurescit in cyatho? Anima mihi ipsa trigeminata est labellatu uno. CAUPO. Salve, mi Geryones, salve, hospes atlantice. VIATOR. Quid mirum triplicem me factum, si Centuresium potito? si tuum istud mihi penu Atlanta est ipsa illa beatorum insula?

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L’ASINO, [III]

[III] OSTE, UN FORESTIERO. 8. OSTE. Con che gioia vedo venire da fuori un amico di vecchia data! Che gioia mi dà poterlo abbracciare e discorrere con lui! FORESTIERO. Ma sono io che mi rallegro e ringrazio Iddio di ritrovare un simpatico e bravissimo compagno di bevute. OSTE. Come va con lo stomaco? FORESTIERO. Un lupo mi porto nel ventre. OSTE. E la sete come va? FORESTIERO. Sono arsi i polmoni dal caldo e dalla polvere. OSTE. Su, ragazzi, servitegli al più presto qualcosa per alleviare la sete. Su, sveglia! FORESTIERO. Ma prima sarebbe una buona idea spolverarmi il mantello. OSTE. Dategli un asciugamano. E versategli dell’acqua fresca in modo che si sciacqui la bocca, le labbra, e tutta la faccia. FORESTIERO. Come mi hai fatto ricreare con questo bicchierino trasparente come il cristallo! Non ho visto mai niente di più limpido. Si tratta forse di vino di Casoria, o mi sbaglio?29 9. OSTE. Risciacquate i bicchieri, garzoni, e mescete del vino novello, preso dal fondo della cantina. Questo è Centuresio. Assaggialo, amico carissimo, avrai appena accostato30 le labbra per bere, che i tuoi piedi se ne accorgeranno subito. Credimi, in quella botte Bacco non fa che giocherellare con la primavera, tanto il vino della botticella è tutto un fior di vino. FORESTIERO. Eppure avrei creduto che dalla botte sgorgasse oro. È oro purissimo quello che tengo fra le dita; è oro liquido che si può bere, «potatile»31 come si dice. Lo berrò a sorsi sfiorando appena le labbra,32 non tutto d’un fiato. Oh che delizia di Bacco! Perfino 1’anima mi si è raddoppiata al solo profumo.33 Vedi come l’oro s’indora34 nel bicchiere? L’anima mi si è triplicata con un sol sorso.35 OSTE. Salute, mio triforme Gerione,36 forestiero che vieni dall’Atlante! FORESTIERO. E che c’è di strano se mi son fatto tre volte tanto, bevendo e bevendo del Centuresio? se per me la tua cantina è proprio la famosa Atlantide, l’isola dei beati?

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ASINUS, [III]

CAUPO. Ah ah ah. Delinge, amabo, et hoc (iniuriam enim, si hauseris, cadillo feceris) et quidem substrictissimis labris. Fastinianum hoc est, merum quidem Fastinianum, reliquiae non cadi modo huius, verum totius campani penoris. Itaque sublibare te illud et quidem haustillatim volo. VIATOR. An forte verendum est, ne hodie Fastinianum hoc tuum nobis exhibeat negocium? Scis quam mihi non placeat fastus. Et hos quidem ipsos vereor hibernici generis homines fastum in naso qui gerunt. CAUPO. Nihil Fastiniano hoc tuo suavimoratius est, rixas mirum est quantopere fastidiat somni solius amicum, atque blandiloquentiae. Sed, amabo, Hiberni ne hi sunt? 10. VIATOR. Quin horum aliquot Scotia nuper ab ultima Romam devecti. CAUPO. Quae nam adventus causa? VIATOR. Animi pervicacia quaedam, dum persuadere sibi nullo modo possunt Romano Pontifici liberos esse. Itaque invenerunt Pontificem ipsum filii nuptiis praesidentem aurato in solio, filiam vero romanas puellas invitantem ad choreas, atque iis ipsis nuptiarum diebus natam Pontifici filiolam alteram, mirificam, mihi crede, christianae religionis comprobationem. CAUPO. Qui nam? VIATOR. Si enim deo nascuntur nepotuli, nunquid non necesse est Christum ipsum mulieris utero prodiisse? CAUPO. Sane probatissimum argumentum. Proficiscendi autem Neapolim quae nam causa? VIATOR. Leonardum primo apulum, barensem inde Nicolaum, post Hierosolymam videre cupiunt, navi comparata. CAUPO. Et probum et pium consilium. VIATOR. Missa haec nunc faciamus, quando refrigeratae mihi vires sunt. Iube his apparari coenam, atque ita quidem videto, coena ut sit. CAUPO. Quid hoc verbi est “coena ut coena sit” non intellego. VIATOR. Quae sit opipera, quae pluribus sit satis, quae sit bibax, loquax, somnulenta.

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L’ASINO, [III]

OSTE. Ah ah ah! Assaggia, ti prego, anche questo (a berlo d’un fiato si fa un’offesa all’orciolo).37 Assaggialo a labbra strette. Questo è Fastiniano, puro Fastiniano! Ultimo avanzo non solo di quest’orcio, ma di tutta la provvista della Campania. Vorrei che lo gustassi38 a piccoli sorsi.39 FORESTIERO. Non c’è per caso il pericolo che oggi questo tuo Fastiniano ci dia delle noie? Sai quanto a me non piace il fastidio.40 E temo questa gente ibernica, che avendo la puzza sotto il naso41 s’infastidisce. OSTE. Non c’è nulla al mondo che sia più costumato di questo tuo dolce Fastiniano; È straordinario quanto lo infastidiscano le risse, amico com’è del sonno e della piacevole chiacchiera. Ma, di grazia, veramente provengono dall’Ibernia42 costoro? 10. FORESTIERO. Anzi alquanti di loro, venendo dalla più lontana Scozia, sono diretti a Roma. OSTE. E perché mai? FORESTIERO. Per una certa loro ostinazione, non potendosi in alcun modo convincere che il Romano Pontefice avesse dei figli. E così hanno trovato che il Papa in persona,43 sopra il suo trono d’ oro, presenziava al matrimonio di suo figlio; che la figlia invitava a ballare le donzelle romane; e che proprio in quei giorni delle nozze era nata al Papa un’altra figlioletta. Credimi, una mirabile prova della verità della religione cristiana! OSTE. Che dici? FORESTIERO. Se infatti a Dio nascono dei nipotini, non ne consegue forse che anche il figlio suo Gesù Cristo sia venuto fuori dal grembo di una donna? OSTE. Un argomento fondatissimo. E per quale ragione si sono diretti a Napoli? FORESTIERO. Prima vogliono visitare San Leonardo di Puglia, poi San Nicola di Bari,44 infine, procurandosi una nave, Gerusalemme. OSTE. Un bel proposito, devoto oltre tutto! FORESTIERO. Non ne parliamo più, ora che mi si son tornate le forze: fa’ preparar loro la cena, e sta attento a che sia una cena.45 OSTE. Che significa questa espressione «una cena che sia una cena» non riesco a capire. FORESTIERO. Significa che sia abbondante, sufficiente per molte persone, e tale che inviti a bere con avidità,46 che faccia chiacchierare e dormire.47 331

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ASINUS, [IV]

CAUPO. Bellissime, habeo. Agite, benivolentissimi hospites, secedite in umbram. Conquiescite, sedate et sitim et aestum. Opulentissime pariter et lautissime mecum vobis erit. VIATOR. Atqui italice nihil intelligunt! CAUPO. Tute igitur illis blandire, atque ut potissent et quidem quam recentissimum vide. Mihi curae id fuerit, britannice ut discumbant.

[IV] ALTILIUS, PARDUS, CHARITEUS. 11. ALTILIUS. Iudicabam actum cum Ioviano felicissime, quod, pace parta, regias res prope afflictas, magna sua cum gloria, maiore populorum tranquillitate, non restituisset modo, verum etiam stabilisset. Quanto autem secus et illi et nobis, qui eum amamus et colimus, acciderit, dicere dolor prohibet; neque enim contingere aut illi indignius aut nobis insperatius potuit. PARDUS. Quid hoc est quod te tantopere solicitum ac male habet? Nam et verba metior tua, et rem ipsam mirifice suspicor. Neque illud me parum turbat, quod hora tam intempestiva convenire me volueris, cum praesertim noverim in agendis rebus pensitatio quae sit tua. ALTILIUS. Quid tu aut me solicitum aut “male habet” loqueris? Quin cruciat, torquet, vexat, animum ipsum conficit. PARDUS. Mali ne tantum ex te audio? ALTILIUS. Summum quidem malum! An non et summum et publicum tibi videatur malum, senem in quo tantum publice repositum esset tum opinionis tum spei coepisse iam repuerascere? PARDUS. Quid repuerascere? ALTILIUS. An non puerum tibi videatur senex agere, qui, annos circiter sexaginta natus, magnisque honoribus functus, asinum sibi magno comparaverit, sericisque instratum ornamentis ascenderit? atque aurato

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L’ASINO, [IV]

OSTE. Benissimo! ho capito. Suvvia, gentilissimi ospiti, appartatevi all’ombra, riposatevi, placate la sete e 1’arsura. Da me avrete il trattamento più lauto e magnifico che si possa immaginare. FORESTIERO. Ma se non capiscono l’italiano! OSTE. Allora allettali tu, e fallo in modo che bevano quanto più è possibile48 e del più novello. Sarà mia cura farli dormire alla maniera britannica.49

[IV] ALTILIO, PARDO,51 CARITEO.52 50

11. ALTILIO. Credevo che tutto fosse andato a buon fine per il nostro caro Gioviano, perché con la conclusione della pace non solo aveva ripristinato il potere del Re, che era quasi del tutto compromesso, procurando a se stesso grandissima gloria e maggiore tranquillità alle popolazioni, ma lo aveva anche consolidato. Invece, quanto sia andata ben diversamente per lui, e per noi che lo amiamo e lo veneriamo, il dolore non permette di dirlo; non poteva capitare una cosa più indegna per quanto riguarda lui, e per noi più lontana da ogni aspettativa? PARDO. Che cos’è che ti angustia e va male? Soppesando infatti le tue parole mi viene lo strano sospetto che ci sia sotto qualcosa. E mi turba non poco il fatto che hai voluto farmi venire qui da te, in un’ora tanto fuori del solito, specialmente conoscendo la ponderatezza che dimostri in quello che fai. ALTILIO. Mi angustia e va male? Anzi mi travaglia, mi tortura, mi affligge, perfino mi annienta l’animo. PARDO. È tanto grave quel che mi stai dicendo? ALTILIO. È una sciagura da non credere! Non ti sembra un’incredibile sciagura per tutti quanti il fatto che un vecchio, in cui da parte di tutti si riponeva tanta stima e tanta speranza, abbia ormai cominciato a rimbambire? PARDO. Che dici, a rimbambire? ALTILIO. E non ti sembra agire come un rimbambito un vecchio che, in età di circa sessant’anni, pur avendo tenuto cariche importanti, si sia comperato a caro prezzo un asino e vi monti sopra dopo averlo tutto bardato di seta? E che non si sia vergognato di cavalcarlo col freno d’oro, 333

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ASINUS, [IV]

freno, auratis habenis, versiculos etiam nescio quos amatorios cantitantem vehi asello in publico non puduerit? quodque importunissimum dicas, admotis etiam calcaribus, equitem agere procurrentem voluerit? Abeat sapientia. valeat senectus. An aliud expectas aut potius aut certius delirationis signum? 12. PARDUS. Musae Aonides, Sebethides nymphae, ubi nam gentium delituistis? Monstra mihi haec et quidem portentosissima videntur. Quis hoc credat? aut qui nam fieri hoc potest, quod ne dii quidem ipsi videri debeant passuri? ALTILIUS. Certa res est. PARDUS. Asino ne vehi etiam perornato, per urbem, in publico, per regionem urbis frequentissimam, sexagenarium hominem, regiis actionibus praesidentem, moribus tam compositis, institutis tam rigidis? Vale, vale, Apollo. Si verum esse hoc sensero, naturam ipsam credam iam repuerascere. Sed commodissime nobis offertur (ut video) Chariteus: colloquamur cum homine. Quid quod conturbatiusculum domo prodire intelligo? CHARITEUS. Laudent qui velint senectutem; mihi quidem sapientissime institutum videtur, sexagenarii e ponte ut deiicerentur in Tiberim. Quin bene mecum actum putem, ante quam haec videam, quam hunc annum attigerim, si vel scaphariam cum Charonte exercuero. 13. PARDUS. Charitee, Charitee, siste, Charitee, salve; quo properas? quae te res tam impotenter agit? Siste gradum, amicorum res agitur, iubet hoc amicitia, vel humanitas id postulat tua. CHARITEUS. Ne, per deos, quisquis es, ne obsecro me ab itinere incepto revoca. PARDUS. Maior res agitur. Siste, salve. Quo te…? CHARITEUS. Quo asinus imperat. PARDUS. Quid, malam in rem, asinarium iam ne agis? CHARITEUS. Quin asinus ipse me agit! PARDUS. Iam (ut video) deliravimus; actum atque transactum est de sene, ut video. Explica obsecro, quid hoc est quod asinus te te agit? CHARITEUS. Quin imo impellit ac proterit. Tu rem ipsam vide. Propero ad aerarios fabros comparaturus diversi generis tintinnabula, cingulum item sericum diversicolorem, qui cum intextis tintinnabulis asini collum

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L’ASINO, [IV]

le briglie d’oro, e di procedere sull’asinello canticchiando dei versetti da innamorato; e, quel che si direbbe la cosa più stravagante, che abbia voluto farlo correre come un destriero pungolandolo leggermente con gli sproni. Addio sapienza! addio vecchiaia! Ti aspetteresti per caso di avere un altro indizio più valido o sicuro della sua follia? 12. PARDO. O Muse Aonidi, o Ninfe del Sebeto,53 in quale parte del mondo vi siete nascoste? Questo fatto mi sembra una mostruosità, la più strana. Chi darebbe credito ad un fatto del genere? E come mai può accadere una cosa che nemmeno il cielo, così mi pare, avrebbe mai dovuto permettere? ALTILIO. Non c’è dubbio che sia così. PARDO. Guidare un asino, per di più agghindato, in mezzo alla città, fra la gente, in un quartiere affollatissimo della città, un sessantenne, a capo della segreteria del Re, un vero galantuomo, di principii così severi! Apollo, vattene, vattene via! Se mi accerterò del fatto, crederò che anche la natura possa rimbambire. Ma, come vedo, Cariteo si presenta puntuale. Parliamone con lui. Mi par di capire che anche lui esca di casa un po’ turbato. CARITEO. Lodi chi vuole la vecchiaia. A me parrebbe la più savia delle istituzioni, che arrivati ai sessant’anni gli uomini fossero buttati nel Tevere giù dal ponte.54 Anzi a me piacerebbe perfino che prima di veder cose simili, prima d’aver toccato questa età, io vada in fretta a spingere la barca assieme a Caronte.55 13. PARDO. Cariteo, fermati, Cariteo, salve! dove vai con questa fretta? Qual è il motivo tanto impellente che ti spinge? Ferma il passo, è cosa che interessa gli amici, lo richiede l’amicizia, o almeno la tua cortesia. CARITEO. No, perdinci, ti prego, non mi far ritornare indietro, chiunque tu sia. PARDO. Ma si tratta di cosa importante. Fermati, dove te ne…?56 CARITEO. Dove un asino mi comanda di andare. PARDO. E che? al diavolo! Adesso fai l’asinaio?57 CARITEO. È l’asino anzi che spinge58 me. PARDO. Oramai, lo vedo, siamo tutti impazziti, per il vecchio è finita, strafinita.59 Ti prego, che significa questo, che è l’asino a spingerti? CARITEO. Anzi mi incita e mi avvilisce. Giudica da te stesso. Vado di corsa da un ramaio a comprare diverse specie di sonagli, una cinghia di seta variopinta per60 adornare il collo dell’asino applicando i sona335

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ASINUS, [IV]

exornem. Flamen quoque purpureum auro intertextum empturus, ad illius frontem appensum aurata fibula perinde ac flabellum, asino ventum in calore quod exciat. PARDUS. Dii boni, quid ego e Chariteo audio! CHARITEUS. Quid? istis, Parde, oculis videas, domum si meam ingressus fueris: bracteolas argenteas, auratas lamellas, flosculos etiam gemmatos auro intertextos asino parari. Usque adeo cum sapientia simul cultus quoque ac comptus ad asinum transiit! Hoc hoc illud est, quod dici solet omnia tempus suum sortito consequi. Maiora ne aut audire aut sentire vultis? Epistolam legite, quam nuper suis ex hortis vester senex, quod gaudere oppido abunde potestis ad pueritiam iam regressus, ad me per cursorem quam festinatissime misit. EPISTOLA. 14. «Amabo, Charitee meus ocule, pectinem mihi auratum emito, qui sit eburneus, praxitelicus, qui dum stringitur, dum dorso agitur, tinniat mihi, subblandiatur animo meo, qui risum pelliciat atque hilaritudinem. Quid enim asello meo delicatius? vult sibi applaudi, vult dici bellissima verba, facit mihi delicias dum ei frontem defrico, dum versiculos succino. Quin te beatiorem ut faciam, et hoc accipe. Apposui deliciolo meo e melle ientaculum; ubi illud delinxit, osculo me confestim petiit, tam blande, ut ei quoque amplexum cum osculo retulerim; beavit me, cupio et illum beatum esse. Tu vero, meus amicule, et illud statim cura. Timet deliciolum meum muscas, calores fugitat; perrectato institores omnis; dum e tenuissimo serico stragulum compares, quo intectus Arion meus, Cyllarus meus, muscarum aut culicum aculeos ne sentiat; atque id cum primis effice, ut sit quam fulgentissimum stragulum, delicatissimum textum, solidissimum muscarum repagulum. Ne vero aut mirere, aut indigne feras domini delicias, vide et contemplare ex asino atque in asino Pythagoricam disciplinam. Nam haec ad te dum scribo, pellegente asello, ipse, accommodatis humanam ad enuntiationem labris, distichon hoc effudit:

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L’ASINO, [IV]

gli. Debbo poi comprare una benda61 rossa intessuta d’oro, che andrà applicata sulla sua fronte con una fibbia dorata, come un ventaglio, per sventolare l’asino quando fa caldo. PARDO. Dio santo, che ti sento dire, Cariteo! CARITEO. Che senti dire? Potresti vedere con i tuoi occhi, entrando in casa mia, pronte per 1’asino, fogliucce d’argento, laminette dorate, inoltre fiorellini di gemme intessuti d’oro. A tal punto insieme con la sapienza son passati all’asino anche il lusso e l’acconciatura. Questo sì che significa, come suol dirsi, conseguire per sorte ogni cosa al momento giusto.62 Volete udire e saperne di più? Leggete questa lettera che il vostro gran Vecchio ormai tornato bambino, m’ha mandato dalla villa in gran fretta con un corriere, e potrete divertirvi a non finire. LETTERA. 14. «Ti prego, Cariteo, occhio della mia fronte, comprami un pettine dorato, e che sia di avorio, lavorato con l’arte di Prassitele, e che quando lo si impugna, quando lo si passa sul dorso, produca un tintinnio, mi tocchi un po’ dolcemente63 il cuore, mi susciti il riso e il buon umore. Che c’è di più delicato del mio asinello? vuole che gli si battano le mani, che gli si dicano bellissime parole, mi fa le moine quando gli gratto la fronte, quando gli canticchio dei versetti. Anzi per farti più contento, ti racconto anche questa: ho avvicinato a questo mio piccolo tesoro uno spuntino di miele: come lo ha leccato, mi si è subito buttato addosso per darmi un bacio, con tanta dolcezza, che io gli ho ricambiato abbraccio e bacio; lui mi ha fatto felice, ed io voglio che lui sia felice. Ma tu, mio caro amico, occupati subito di un’altra faccenda. La mia cara delizia teme l’assalto delle mosche, vorrebbe sfuggire al caldo; tu passa da tutti i bottegai finché non trovi da comprare un drappo di sottilissima seta, in modo che il mio Arione, il mio Cillaro non senta le punture delle mosche; e prima di tutto provvedi a che sia un drappo tutto luccicante, tessuto con la maggiore finezza, solidissima barriera64 contro le mosche. Ma non ti meravigliare o non indignarti delle moine del padrone, guarda e considera come si possa ricavare dall’asino e nell’asino65 ritrovare la dottrina pitagorica. Mentre ti scrivo, infatti, e l’asinello legge ogni cosa, lui, atteggiando le labbra ad un’espressione umana, ha perfino tirato fuori questo distico: 337

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ASINUS, [V]

Melle meus me pascit herus, pro melle recepit Oscula, complexum pro sagulo excipiet.

Iudicabis aut Marsum aut Cornificium in asello meo versus edere. Illud quoque summo studio ac deditissima curabis opera, uti flabellum pavoninum, quod sit quam oculatissimum, per hunc ipsum puerum ad me mittas, quo in umbra, atque in aestu, meo deliciolo ventum faciam. Recte vale; nam et ego cum domino, sine quo vita mihi nulla est, valeo etiam valentissime». 15. PARDUS. Haec quidem epistola mera est deliratio, aut merus potius nostrum omnium dolor. Quando autem delirium ipsum radices non dum altiores egit, tentandum est quam possumus diligentissime uti curetur. ALTILIUS. Mihi quidem Actius conveniendus videtur, qui nuper e Roma itineris ac laborum socius cum illo rediit, uti ex eo perscrutemur num quae signa delirium antecesserint, siqua fortasse ad sanitatem regrediundi relicta spes intelligatur. PARDUS. Longe optime consultum videtur. Quocirca familiarem atque amicum hominem conveniamus, uti eo ipso comite in hortos ad senem proficiscamur.

[V] ACTIUS, PARDUS, ALTILIUS. 16. ACTIUS. Clivum hunc Musarum esse volebat noster Crassus, imo pace vestra dixerim meus. Is enim me instituit, is me studiis his dedicavit, illi debentur quae in me insunt, siqua laude digna insunt, omnia. PARDUS. Miror Lucium Crassum corpore tam obeso, viribus non satis validis, clivum hunc quamquam amoenum, ascensu tamen non indifficilem (ut ex te tam saepe audio) pedibus frequentasse. ACTIUS. Mira etiam cum voluptate; nam et saepicule considebat sub arbusculis, aut muscoso aliquo conquiescebat in lapide, veterum poetarum aut siquos ipse lucubrasset versiculos interim referens, multa etiam saepe aut ipse docens, aut nos qui eum sequebamur percunctatus. Ad haec dicere nobis solebat, quo labor ipse ascensionis esset levior, collem

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L’ASINO, [V]

Di miel mi pasce, pel miele ha avuto i miei baci il padrone; per la gualdrappa, poi, riceverà un abbraccio.

Penserai che un Marso66 o un Cornificio67 nell’asinello mio compongano versi. Un’altra cosa ancora dovrai far di tutto per procurartela e mandarmela subito tramite questo stesso ragazzo, un ventaglio di penne di pavone, ma che siano il più possibile occhiute,68 perché intendo usarlo per sventolare la mia gioia, tanto al caldo che al fresco. Stammi bene, come sto bene anch’io col mio signore, senza del quale non saprei vivere». 15. PARDO. Questa epistola è mera follia, o piuttosto motivo per tutti noi di mero dolore. Ma poiché la follia non ha messo ancora radici profonde, bisogna cercare col maggior impegno possibile di farla curare. ALTILIO. A me sembra che bisognerebbe far venire qui Azio, tornato or ora da Roma condividendo con lui viaggio e fatiche, per ben informarci da lui se per caso si fossero manifestati in precedenza dei segni di questa pazzia, e se sia rimasta pertanto una qualche speranza di ritorno alla ragione. PARDO. Sembra una buonissima idea. Chiamiamo perciò il nostro intimo amico, e rechiamoci in sua compagnia dal Vecchio, nei suoi giardini.

[V] AZIO, PARDO, ALTILIO. 16. AZIO. Che questo fosse il colle delle Muse, era ciò che pensava il nostro Crasso,69 anzi il mio Crasso, se permettete. È stato lui che mi ha educato, che mi ha avviato a questi studi; sicché a lui si devono i meriti che ho, se ne ho. PARDO. Mi meraviglio che Lucio Crasso con un fisico così obeso, con quelle poche energie che ha, venga a piedi, come ti sento dire spesso, su questo colle, ameno sì, ma non poco difficile a scalare. AZIO. Lo faceva anzi con grande piacere; poiché spesso si accomodava sotto gli alberetti, o si riposava sedendo su qualche sasso ricoperto di muschio; recitava nel frattempo versi di poeti antichi o suoi, se ne aveva composto qualcuno, dandoci spesso molti insegnamenti, o ponendo delle domande a noi che lo accompagnavamo. Inoltre, perché la fatica dell’ascesa fosse più lieve, ci soleva dire che questo, come per lui così 339

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ASINUS, [V]

hunc Heliconem et sibi et nobis esse, neque posse Musarum ad templum nisi eo clivo perveniri, quem Virgilius ipse singulis ferme diebus ascendere esset solitus, ubi post et villam sibi comparasset, et moriens humari testamento cavisset. ALTILIUS. Recte sane haec, ut caetera, Lucius. Quando autem aliud nunc agimus, missum illum tantisper faciamus, dum, quod nos tantopere male habet, sciscitemur illud, siqua via senis nostri delirio obviam iri possit. Age, Acti, Romae cum ageres, qualem se in obeundis Iovianus negociis, qualem in suadenda aut componenda pace, nunc in urbe, nunc in castris aut in itinere ipso egerit, explica, edoce, explana: nostrum omnium una res agitur. 17. ACTIUS. Quem sese egerit ipsa res docet; pacem enim, obsistente Cardinalium collegio, quibus voluit conditionibus perfecit. Miserati saepe sumus senem languenti corpore, mediis diebus, ardentissimo sole, per frequentissimos latrones, quibus itinera circumsessa erant, nunc ex Urbe ad Alfonsum in castra, nunc e castris ad Innocentium Romam properare, ut qui illum sequebamur de senis vita actum iam in singulas prope horas nobiscum ipsi dolentes quereremur. Itaque, diligentiam si requiras, nihil illo etiam ad minima quaeque momenta attentius; si prudentiam, nihil omnino consideratius; ut non modo laudem, verum summam sibi principum hominum admirationem, cum magna etiam populi romani benivolentia, conciliarit. PARDUS. Non videtur, in tam brevi praesertim spatio, parata esse potuisse aliqua ad delirationem via. ALTILIUS. Quae obsecro in itinere atque in reditu eius consuetudo? qui etiam sermones erant? ACTIUS. Consuetudo qualis antehac semper fuit, multum cogitandi, plurima secum in animo volvendi; neque enim tempus ullum labi frustra patiebatur. Erat illi post alias atque alias publicis de rebus cogitationes in ore Urania, quod a se non dum perpolita esset, neque (uti saepenumero etiam querebatur) aut capillum bene cultum haberet, aut faciem

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L’ASINO, [V]

anche per noi, rappresentava il sacro colle d’Elicona; e che al tempio delle Muse non si poteva pervenire se non attraverso quel clivo stesso sul quale Virgilio soleva salire tutti i giorni,70 dove poi si era comprata una villa, e dove per testamento aveva provveduto ad essere sepolto. ALTILIO. Perfette come sempre le parole di Lucio. Ma siccome ora siamo occupati in un’altra faccenda, lasciamo stare per un po’ questo argomento, consultandoci con Azio su ciò che ci angustia, se in qualche modo si possa andare incontro alla pazzia del nostro Vecchio. Orsù dunque, Azio, quando tu stavi a Roma, spiegaci, informaci, dicci chiaramente come si è comportato Gioviano nell’affrontare i negoziati, nel consigliare e nello stipulare la pace, ora in città ora in campo o perfino durante il viaggio: a noi tutti importa una cosa sola. 17. AZIO. Come si sia comportato, lo dice il fatto stesso d’essere riuscito a comporre la pace alle condizioni che ha voluto, pur essendo contrario il collegio dei cardinali. E noi spesso abbiamo avuto compassione del vecchio, che non ce la faceva fisicamente, eppure, all’ora meridiana, sotto il sole cocente, con i numerosi briganti che infestavano le strade, si affrettava ad andare da Roma al campo di Alfonso, e poi dal campo di nuovo a Roma presso Innocenzo; sicché, standogli al fianco, d’ora in ora ci angustiavamo al pensiero, dentro di noi, che per la vita del vecchio non ci fosse più niente da fare. E così, se volessi sapere del suo impegno, non c’era nessuno più attento ad ogni minima cosa; se volessi sapere della sua prudenza, nessuno mai è stato cosi ponderato; tanto da acquistarsi non solo la lode, ma anche l’ammirazione più profonda dei sovrani, e in più la simpatia da parte del popolo romano. PARDO. Non sembra possibile che, specie in così breve spazio di tempo, si sia potuto aprire un varco che portasse alla follia. ALTILIO. E durante il viaggio del ritorno, qual era il suo comportamento, quali discorsi faceva? AZIO. Qual era il suo comportamento? Sempre quello di prima: pensar molto, riflettere molto dentro di sé; perché non sopportava che il tempo passasse inutilmente. I suoi discorsi? Dopo aver ragionato, una volta e un’altra, sugli affari pubblici, aveva sulla bocca l’Urania,71 dicendo che non aveva avuto ancora da lui l’ultima rifinitura, che non portava la capigliatura ben acconciata, o il volto di giovinetta abbastanza terso

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ASINUS, [V]

puellarem ad comptum satis extersam; quaeque, ad Hymenaeum vocata, non dum dignam nuptiis vestem aut dignum Talasio mundum induisset. PARDUS. Nullum hactenus (ut sentio) repuerascendi signum. ACTIUS. Sermones autem, post concoctas illas mentis agitationes, erant quam iucundissimi, ut affirmari in eo iure potuerit Laberianum illud: Facundum comitem in via pro vehiculo esse.

Saepe etiam multa nobis ex antiquitatibus referebat, ut quem locum advertisset, in quo navatum a maioribus aliquid, memoria teneret. Ubi ad meritoriam perventum esset, ibi cum familiaribus quantum leporis erat, quantum hilaritatis? uti labor omnis abiret in voluptatem! In coena atque inter discumbendum, nihil triste passus unquam: oportere in mensa laeta atque exhilarantia esse omnia, neque iniuriam Baccho faciendam, qui laetitiae esset dator. Severitatem in foro, tristitiam in funere, cunctationem in capiendo consilio, supercilium in senatu retinendum esse dicebat. Talem itaque noster senex in itinere (quod commendare etiam debeatis) se se ubique praestitit. 18. PARDUS. Quid igitur, Altili, videntur ne tibi haec delirio tam repentino convenire? Vides quantam temporis, quantam rerum ipsarum pensitationem habuerit? Quam ob rem etiam atque etiam videndum nobis censeo, ne delirare ipsi cum hac delirii suspitione merito videamur. ACTIUS. Quod quidem ipsum etiam atque etiam providendum duco, quando in singulis actionibus ita se suaque omnia circumspexerit, uti, divina quadam providentia duce ac magistra, res magnas illas quidem ac perdifficiles confecisse videri possit. Et clivo hoc inter dicendum atque examinandum superato, illud a nobis sequendum iudico, ne ad Iovianum hac cum suspitione in hortos procedamus, verum ex insidiis quasi quibusdam, quid ipse agat, quid cum villico (quod de more eius est) faciundum proponat, animadvertamus. Eius enim oratio viam nobis patefaciet cum ineundi cum eo sermonis, tum remedii cogitandi. Quocirca

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L’ASINO, [V]

per essere pronto al trucco, e che dovendo presentarsi alla cerimonia nuziale, non aveva indossato ancora un vestito degno delle nozze o un abbigliamento degno del rito di Talas.72 PARDO. E fin qui, mi pare, nessun segno di rimbambimento. AZIO. I discorsi poi, che ci faceva dopo le sue riflessioni ben rimuginate, erano quanto mai piacevoli, tanto che si sarebbe potuto ben confermare nel caso suo quella massima di Laberio:73 un compagno di viaggio facondo vale quanto una vettura.

E spesso ci raccontava molti fatti dei tempi antichi, ogni volta che riconosceva un luogo nel quale ricordava che i nostri antenati avessero compiuto un’azione famosa. Giunti in albergo, quanta festevolezza, quanto brio, quanta gioia con tutta la compagnia! Tanto che ogni fatica si risolveva in piacere. Durante la cena e sedendo a tavola, non ammetteva mai che ci fosse tristezza: a tavola bisognava star sempre allegri, e non far torto a Bacco, che è il nume della giocondità. Diceva pure che la severità va mantenuta nel foro, la tristezza nei funerali, il riserbo nel prendere decisioni, l’austerità nel senato. Insomma, anche durante il viaggio (e dovreste anche lodarlo per questo) il nostro vecchio si è mostrato per tale. 18. PARDO. Ordunque, Altilio, ti pare che questa condotta si possa conciliare con un impazzimento improvviso? Vedi quanta considerazione ha avuto dell’opportunità, quanta considerazione della realtà effettiva! Per cui sempre più penso che da parte nostra bisogna veder bene di non essere noi i pazzi col sospetto che abbiamo della sua pazzia. AZIO. Ed io ritengo che questa considerazione vada tenuta ancora più presente, quando si pensi ch’egli ha usato tale accorgimento in ogni azione che riguardasse la sua persona e tutto quello che gli stava a cuore, da sembrar quasi aver compiuto un’impresa così importante e difficile sotto la guida della provvidenza divina. E penso che, una volta superata la salita intrattenendoci in questi nostri discorsi e pensieri, sia bene seguire un certo percorso, in modo da non arrivare da Gioviano, nella sua villa, con un sospetto di questo genere, ma quasi da un nascondiglio osservare di nascosto che cosa fa, che cosa si propone di fare insieme al fattore, secondo la sua abitudine. I suoi discorsi ci apriranno la strada non solo per entrar con lui in conversazione, ma per escogitare un rimedio. Perciò 343

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ASINUS, [VI]

post contextam illam marino e rore saepiculam, insidendum aut delitescendum potius nobis statuo; inde singula eius verba, gestus ac motus etiam singolos commodissime aucupabimur; quodque et volo et cupio, ac diis bene iuvantibus spero, et animus etiam praesagit, Musae ipeae sacerdotem suum, antistitem suum, sacrorum suorum arcanarium minime desertum patientur. ALTILIUS. Quod et nos omnes fore optamus, et votis ac suppliciis acceptum Musis ipsis referemus. Delitescendi autem consilium, mea sententia, magis e re capi non posset. Quocirca per diverticulum ad saepem, magno silentio, passibus etiam minime strepentibus progredimini, duce me, qui agrum omnes singulasque arbusculas exactissime noverim. Vos autem, pueri, hic nos manete.

[VI] PONTANUS, FASELIO VILLICUS, PARDUS. 19. PONTANUS. Tantam istam inserendi diligentiam vel admiror, Faselio, nimiam tamen illam detrimentorum lunae observationem, arcessendae frugis gratia, iure quidem improbaverim multum. Etenim ipsam illam vim, qua fructus elicitur, non tam ad ultimos illos properantis ad coitum lunae dies, quam ad surculos ipsos referendam statuo; quippe ubi e ramo frugifero atque ad solem exposito ex ipsoque rami cacumine lecti fuerint, etiam primo insitionis anno frugem proferunt. Quodque ipsa me observatio docuit, neque aut offuerint multum, aut contulerint valde lunae detrimenta, si aut despectius praeterita in insitione fuerint, aut diligentius observata. Quid enim conferre possunt surculi, male quidem atque infelici e parte lecti, ut qui enascantur tanquam inutiles atque superfluentes quique in fragella solum exeant, nec, si non eruncentur, ad fructum etiam multos post annos veniant, in quibus praeter proceritatem ipsam nihil est iure quod laudes? Quam quidem provocandae feracitati mirum in modum alienam experientia ipsa docet; inde enim ‘fragella’ dicta, quod perinde ac inutilia refringenda praecipiantur ipso e stipite. Quocirca observare te cum primis velim ramum solarem, frugiferum,

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L’ASINO, [VI]

propongo di appostarci, anzi di nasconderci là, dietro quella siepe di rosmarino; di là potremo comodamente cogliere ogni sua parola, ogni suo gesto e movimento; e, come desidero con tutto il cuore, e come spero avvenga col favore del cielo e l’animo mio presagisce, le Muse non permetteranno che questo loro sacerdote, anzi il loro sacerdote supremo, custode74 di tutti i loro sacri misteri, sia abbandonato al suo destino. ALTILIO. Quel che noi tutti desideriamo che avvenga, con voti e suppliche ci rivolgeremo alle stesse Muse perché sia esaudito. A mio parere, non si sarebbe potuta prendere una decisione migliore che quella di nasconderci. Perciò attraverso una scorciatoia raggiungiamo la siepe, in perfetto silenzio, senza che i nostri passi facciano rumore; vi guiderò io, che conosco perfettamente tutto questo terreno e le piante ad una ad una. E voi, ragazzi, aspettateci qui.

[VI] PONTANO, IL CONTADINO FAGIOLONE,75 PARDO. 19. PONTANO. È perfino ammirevole questa cura così diligente che hai nel fare gli innesti, Fagiolone; ma disapproverei molto, e mi pare di aver ragione, l’eccessiva osservazione dello scemar della luna per ottenere i frutti. Poiché sono dell’avviso che l’intima forza da cui vien fuori il frutto non si deve tanto agli ultimi giorni in cui la luna si affretta alla congiunzione,76 quanto dai polloni stessi; tanto è vero che, quando i rami siano stati bene scelti da un ramo fruttifero ed esposto al sole, e proprio dalla cima del ramo, dànno il frutto anche nel primo anno dell’innesto. E come mi ha insegnato proprio l’osservazione,77 in questi casi lo scemar della luna né potrebbe nuocere78 molto né potrebbe giovare granché, se nel precedente innesto sia stato troppo trascurato oppure sia stato troppo attentamente considerato. Difatti, quali risultati possono dare polloni scelti male, da una parte sterile, che nascono come inutili superfetazioni ed hanno come esito i cosiddetti fragelli,79 e che se non vengono ripuliti non arrivano a dare il frutto se non dopo molti anni? essi non hanno nulla che si possa apprezzare tranne la lunghezza. Ma l’esperienza ti insegna che questa lunghezza non giova affatto alla fecondità; e si è dato loro il nome di fragelli appunto perché si devono «frangere», ossia strappare dal tronco come inutili. Dunque vorrei che stessi bene attento anzitutto 345

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valentem, e quo surculum legas. Hoc ubi feceris, non est quod te oporteat detrimentorum lunae curam tantam suscipere; non quod non et hoc ipse magnopere probem (tunc enim succus ipse coactior atque vegetior est, et glutinosi plus habet), sed quod nolim cuncta te ad lunam referre, quando et ars hanc ad rem plurimum conferat, cum plena etiam luna insitionem optime cedere saepiuscule sim expertus; tunc enim procerior arbor provenit, atque in conum orbiculata quadam specie honestius protenditur. Nec te poeniteat, ubi luxuriosior creverit, annis insequentibus, imminuto lunae lumine, amputatis ramulis, luxuriem ipsam, ne maiorem in proceritatem exeat, falce compescere. 20. Nec vero (quod colonos nostrates latet) parum etiam conferet ad insitionis foecunditatem Signiferi orbis cognitio; hoc est quae signa, inserendi tempore, luna peragret, quo etiam e loco Saturnum intueatur, cuius stella inde sit dicta, quod potissimum satui praesit, cum sit vis eius terrena ac seminibus praeesse intelligatur. Illud autem mirifice improbandum atque accusandum, Faselio, duco, quod sub haec frigora tam repente a septentrionibus excitata, citrios irrigare multa etiam aqua neglexeris. Nihil enim tantopere ab hoc arboris genere frigus arcet, quam frigidissimis etiam diebus assidua irrigatio; quod ratio ipsa docet, siquidem hieme ipsa, concretoque septentrionali flatu aere, qui terrae calor inest magis atque magis in se cogitur, cum evaporare, concreta gelu terrae superficie ac solo, nequeat. Quocirca, cum arbor haec siticulosa sit admodum, tepescente terrae sinu, aquam ad radices appetentius trahit, qua in alimentum versa robustiorem se se adversus frigus agit; neque enim exarescere succum patitur, perinde ac materno fota sinu huberibusque nutricis admota. Ad haec arbuscula ipsa ad summam pene terram fibras etiam plurimas, capillamenta quasi quaedam agit, et quidem minutissima, quae, glebulis inhaerentes, multum inde succum ebibunt; hae autem ipsae glebulae, ut magis ac magis capillamentis ipsis propter humidi vim conciliantur, sic rursus sicciores effectae penitusque exuctae, capillamenta destituunt; quod assidua quidem irrigatio omnino

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a che sia esposto al sole, sia fruttifero, robusto, il ramo dal quale scegliere il pollone. Fatto questo, non ti dar tanta pena dello scemar della luna. Non che io non approvi anche questa attenzione (allora infatti i succhi sono più compatti e più vegeti ed hanno più glutine), ma che non vorrei lasciarti attribuire tutto alla luna, dal momento che anche l’arte ha il suo peso per raggiungere il nostro scopo, avendo io sperimentato piuttosto spesso che anche con la luna piena l’innesto riesce perfettamente, giacché allora l’albero diventa più alto e, prendendo la forma tondeggiante di un cono, si estende in modo più imponente facendo una certa bella figura. E non ti dispiacere, se col passar degli anni lo vedrai crescere troppo lussureggiante, di dover frenare l’eccesso di rami con la falce, amputandone i ramoscelli, quando la luna va scemando. 20. Ma non poco giova, mentre sfugge ai contadini nostrani, la nozione dello zodiaco, che assune grande importanza al fine della fecondità degli innesti, e significa conoscere le costellazioni attraversate dalla luna nel tempo in cui si fa l’innesto, sapere da quale sede essa guardi Saturno, il cui astro ha ricevuto il nome dal fatto che protegge soprattutto la seminagione, in quanto – a quel che si è capito – il suo influsso si fa sentir sulla terra con effetto sui semi. Ma c’è una cosa che soprattutto ritengo vada disapprovata, mio caro Fagiolone, e considerata una colpa, l’aver trascurato di irrigare, con grande quantità di acqua, gli agrumi durante questi freddi provocati improvvisamente dai venti di settentrione. Niente ripara tanto dal freddo questo genere di piante, quanto l’irrigazione frequente anche durante i giorni più freddi; lo dice la stessa ragione, se è vero che anche in inverno, e quando l’aria è congelata per il soffio del vento da settentrione, il calore che è nella terra si concentra sempre di più, non potendo evaporare perché la superficie del suolo è congelata. Allora, poiché quest’albero è molto soggetto alla sete, essendo tepido il seno della terra, tanto più avidamente attira 1’acqua alle sue radici, e trasformatala in alimento, è più capace di reagire al freddo e non lascia perciò inaridire il suo succo vitale, quasi riscaldata dal seno materno e attaccata alle mammelle della nutrice. Inoltre, quando è piccolo, questo stesso albero mette fuori quasi a fior di terra moltissimi capillari – si potrebbe dire così – sottilissimi, i quali, aderendo a piccole zolle, ne succhiano bene la linfa; ma le stesse zolle, come si compattano sempre di più a causa della stessa umidità con i capillari, così, quando siano diventate secche per essere state quasi succhiate, abbandonano i capillari, mentre 347

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prohibet. Hanc ob rem tum aestate tum hieme opportuna irrigatione iuvanda est. 21. PARDUS. Ratio haec colendarumque citriorum cura ingenii haudquaquam delirantis videri potest. Non male igitur nobiscum agitur, nec est quod Musis gratias non agamus. PONTANUS. Te vero, mi Faselio (quod servatum etiam mirifice laudo) inspicere cum primis velim, ne terra imbribus madescente plantas scrobibus infodias, quod permadido solo ac liquescente terra radices minus inhaereant, nec multo post mucidae effectae corrumpantur, verum impendente pluvia. Ubi enim sicco non tamen arescente solo plantam infoderis, radices ipsae magis ac magis terrae coniunguntur et fossa ipsa imbrem statim insequentem cupientissime pariter ac siticulosissime recipit; fit etiam ut solum ipsum magis ac magis spissetur a pluvia, et radices alimentum suum terrae conciliatae huberius multo ducant. Ac ne te morer diutius, exigendo praesertim operi instructum, hoc age, mi Faselio: priusquam destinatam aggrediare operam, brasiculis illis (sunt enim perpaucae) sarculum benigne admove, fimumque radicibus propius sarriendo aggere, quippe quae, tamquam lacte suo destitutae, videantur pallescere ac de matre queri. Tu illis opera tua subveni; nam et hero gratum feceris, et tibi iusculum paraveris, quicum bubulam concinnes succidiaque pervetere. Hoc est quod te agere destinatam ante operam velim. Interea meam me operam asello reddere par est, ne queri de hero suo iure possit. «Heus, puer, hoc age Siste huc ad me Cyllarum quam nitidissimum, atque id vide, ne dum serica illum reste ductitas, dum ludere feroculus cupit, calcibus in te insiliat. Novi ego cyllarinas illecebras ac domini nostri blanditias. PARDUS. Utinam ne hic hodie asinus nobilitate etiam romana nos donet, agnominetque ‘Asinios’. Aures arrigite; idque in primis post saepiculam videte, ne mussitari a vobis quippiam sentiatur.

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una continua irrigazione lo impedisce. Per questa ragione ora d’estate ora d’inverno quest’albero va agevolato con un’opportuna irrigazione. 21. PARDO. L’attenzione prestata alla coltivazione dei suoi cedri non può considerarsi indizio di delirio. Perciò non ci va male, e non c’è motivo di non render grazie alle Muse. PONTANO. Gradirei ancora, mio caro Fagiolone – e apprezzo moltissimo che tu l’abbia osservata questa norma –, vederti attento a non infi lare le piante nei fossetti quando ancora la terra è tutta impregnata d’acqua per via delle piogge, perché essendo il suolo molto bagnato e il terreno liquefatto le radici non aderiscono e non molto dopo una volta ammuffite vanno a male, ma quando la pioggia è in arrivo. Se tu infatti pianti quando il suolo è secco ma non arido, allora le radici si uniscono sempre più strettamente al terreno, e il fossetto dove hai piantato raccoglie con grande avidità, come se avesse una gran sete, la pioggia che cade subito dopo; accade anche che il suolo si condensi sempre di più per opera della pioggia e le radici ben aderenti al terreno traggano il loro alimento in modo molto più fecondo. E per non trattenerti più a lungo pretendendoti particolarmente istruito per il tuo lavoro, mio caro Fagiolone, prima di affrontare il lavoro progettato nella coltivazione, con quei cavoli così teneri (che poi sono pochissimi) adopera generosamente il sarchiello, e sarchiando accumula il letame ben vicino alle radici, per il fatto che sembrano impallidire quasi private del latte, e lagnarsi della madre. E tu soccorrile con l’opera tua; che così farai cosa gradita al tuo padrone, e otterrai un brodetto con cui preparare la carne bovina insieme con quella di porco ben stagionata. Questo vorrei vederti fare prima di intraprendere il lavoro progettato. Frattanto è giusto che io rivolga la mia attenzione al mio asinello, per evitare che si lagni del suo padrone. Ehi, ragazzo! Fa venire qui il mio Cillaro80 tutto ben ripulito; e guarda che non si metta a scalciare contro di te, mentre tu lo conduci con la sua fune di seta e lui desidera scherzare in maniera un po’ selvaggia. Le conosco bene le seduzioni di questo Cillaro e le carezze del nostro signorino. PARDO. Speriamo che quest’asino oggi non ci dia la cittadinanza romana e non ci faccia prendere il nome degli Asinii.81 Drizzate dunque le orecchie, e, nascosti dietro la siepe, badate prima di tutto a che non vi senta bisbigliare.

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ASINUS, [VII]

[VII] PONTANUS, PUER, PARDUS. 22. PONTANUS. Lepidissime illud quidem, et rudit simul et calcitrat, meum delicium: unum illud defuit, asini quod solent. An fortasse puduit hero praesente crepitulum facere? Vides quid praestet domini reverentia? Blandire illi, bone puer, fac delicias, dic bellum aliquid. PUER. Agedum, Cyllare! Eugedum, heros Arionice, herum honora, praesta quod ludentes asini heris solent insanientibus, concrepa musicum aliquid, effice, siqui delirium aucupantur nostrum, tuum ad numerum choreas ut ductitent. Septenarium iam fudit Calliopa: salite, hortenses deae. Heus, heros Cyllarice, numeros muta. Anapesticum volo. Non placet in hortis Iambicum, theatris illum ablega. PONTANUS. Amabo, ut belle, ut in tempore omnia? PARDUS. Asinus crepat, nos dirumpimur. PUER. Heus, Arion, non mihi inter crepitandum placent caudinae blanditiae. Tute tibi caudam contineto, nec est quod muscas ab ore arceas flabello tam lepido. Apage caudam a me; hero tuo subcodaneas istas blanditias tam suaves ventila. PONTANUS. Dic illi bene. Ne subirascatur vide. Age, arionice, age, cyllarice heros, sentiat te herus tuus hilarissimum, quando ipse hilarissimus es. PUER. Choream ductitat bestiola. Secedite, Napaeae, ne dum ternarium saltat, dum septenarium crepitat, ora vestra illiniat purpurisso. Ah ah ah, post ingentis tonitrus ingentes pluviae: potuit ne lepidius ac magis in tempore? O arabicam mercem, sabaeaque odoramenta! Agite, amantes, legite muscum, seligite zebethum, implete arculas cyprio pulvillo. PONTANUS. O delicias regias! o ludos olympico deo dignos. Non ne ego te vel ostro instraverim Tyro abusque advecto? 23. PUER. Fac venalem purpurissum prius, inde tibi pretium proveniet tantum, uti fibulas etiam aureas ostro suffigas, et auratas cingulas, quibus illud subliges, here delicatissime. Sed quid hoc, Cyllare? Quid in-

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L’ASINO, [VII]

[VII] PONTANO, IL GARZONE, PARDO NASCOSTO. 22. PONTANO. È molto divertente quello che fa: raglia e tira calci insieme, il mio coccolo.82 Quella sola cosa manca di fare, e che gli asini fanno di solito; o forse si vergogna di fare scoppiettii alla presenza del padrone? Vedi quale rispetto mostra verso il padrone? Fagli una carezza, bravo garzone, fagli qualche moina, digli qualcosa di carino. GARZONE. Su dunque, Cillaro, evviva, eroe Arionico!83 fa onore al tuo padrone! fa il tuo dovere, come lo fanno gli asini quando giocano con i loro padroni che impazziscono! Fa qualche scoppio musicale per chi eventualmente sia interessato a questo nostro delirio, e fallo danzare al tuo ritmo. Un settenario84 ha già fatto fuggire Calliope;85 e voi danzate, ninfe degli orti! Su, cillarico eroe, cambia ritmo! Voglio un anapesto. Nei giardini non piace il ritmo giambico, riservalo ai teatri.86 PONTANO. Ti prego;87 vedi con quale grazia, e come fa tutto a tempo? PARDO. L’asino scoppietta, e noi crepiamo. GARZONE. Ehi, Arione. Non mi piacciono queste carezze caudine in mezzo a questo scoppiettio. Tieni la coda al suo posto; non è il caso di scacciare le mosche dalla faccia con un bel ventaglio come questo. Via da me la coda! Sventola il tuo padrone con queste tue soavi carezze sottocaudali.88 PONTANO. Rivolgiti a lui con garbo, bada a non farlo irritare. Su, arionico, su, cillarico eroe! Che il tuo padrone senta tutta questa tua allegria, giacché sei così allegro. GARZONE. Ecco che la bestiola si mette a danzare. Al largo, Napee! Che non vi spalmi sul viso il belletto, mentre balla a ritmo ternario, mentre scoppietta a ritmo settenario. Ah ah ah! Che grandi piogge dopo tanti tuoni!89 Avrebbe mai potuto farlo più amabilmente e più a tempo di così? È merce arabica questa, aromi dei Sabei. Su, innamorati, cogliete il profumo del muschio, sceglietevi lo zibetto, riempite le scatolette di cipria. PONTANO. Raffinatezze degne d’un re! Trastulli degni del dio di Olimpia. Non dovrei ricoprirti di porpora, trasportata fin dalla lontana Tiro? 23. GARZONE. Se comincerai a mettere in vendita tutto questo belletto, te ne verrà tanto denaro, da poterlo anche munire di fibbie d’oro e di cinghie dorate con cui legarlo, raffinatissimo padrone. Ma che hai, 351

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ASINUS, [VII]

quam Cyllare? Disciplina haec haudquaquam mihi satis placet. Ludum ego hero, non mihi calcitronem instituo. Abi malam in rem, blanditias istas tam urbanas et lude et applaude domino tuo tam delicato. Ad illum recursa, illi concine cantilenas istas tam lepidas. Asininum istud plectrum illi perpulsato. An etiam me petis? etiam atque etiam calce petis? Proripe hinc te ad regem tuum, nequissime. PARDUS. Quid hoc? post suavium, etiam complexum parat quadrupes spurcissimus? Pulchrum erit videre quo asininae istae deliciae tandem (ut dici solet) evasurae sint. PONTANUS. Cur puero tam bono, mi aselle, malefecisti? quid altorem tuum verberasti tam impie? An fortasse hordeum tibi negligentius excrevit? an pectinem dorso inclementius duxit? Vide, vide amabo, ut prae pudore auriculas, ut etiam caput demisit, ut obticuit pudentissimus, pigetque poenitetque maleficii. Eum ego te, aselle, velim, qui in asino quidem asini nihil habeas, qui sis urbanitate etiam ipsa urbanior. PARDUS. Utinam ne in homine qui asinos se se gerant etiam plurimos invenias; pervetusta est Asiniorum familia, longeque nostris in urbibus numerosa. Quae enim domus quam haec ipsa tam ferax est tamque foecunda propagatu atque altu? PONTANUS. Hoc, sis, puer, flabellum cape, culicemque illum quam potes longissime abige. PUER. Abegi; salvus est dominus, salva est patria! PONTANUS. Defrica illi auriculas manu quam levissima. Vides ut gestit? ut tibi gratias agit? Tantum non te te osculatur. 24. PUER. Abi malam in rem, osculi genus tam suave! asininas morsiunculas tam illecebrosas. Labra pene mordicus abripuit. PONTANUS. Ne, quaeso, irascere. Titillatum tu te illi concisti: tua est culpa. Duc palmam urbaniuscule ad coxam atque sub ipsis ilibus. PUER. Hoc ago. Cave, bestia, quid caudam ventilas? PONTANUS. Ne time! ventrem defrica; idque quam levissime ut agas vide.

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L’ASINO, [VII]

Cillaro? Ohé, Cillaro, dico! Non tanto mi piacciono queste tue moine. Per il padrone, non per me vado allestendo questo spettacolo di calci.90 Eh va al diavolo! Queste così «urbane» carezze riservale al tuo padrone così raffinato, spettacolo e applausi sono per lui. Corri da lui, canta per lui queste tue canzoni così divertenti, fa risuonare per lui il tuo plettro asinino! E ancora mi salti addosso? E sempre di più mi salti addosso? salta addosso al tuo re, birbone che sei! PARDO. Che sta avvenendo? Dopo il bacio, anche a un abbraccio91 si prepara questo quadrupede sporcaccione? Sarà bello vedere dove vanno a finire, come si dice, queste tue delicatezze asinine!92 PONTANO. Perché, asinello mio, hai fatto male a questo ragazzino così buono? Come? Hai colpito così, senza pietà, chi ti porta da mangiare? è stato per caso troppo trascurato nella scelta del1’orzo? ti ha passato il pettine sul dorso con troppa violenza? Vedi, vedi, ti prego, come per la vergogna ha abbassato le orecchie, e anche la testa, come è rimasto muto per la vergogna, e si dispiace del male che ti ha fatto, e se ne pente. Vorrei vederti tale, asinello mio caro, da non aver nulla di asinino in un corpo di asino, da essere più gentile della stessa Gentilezza. PARDO. Magari non se ne trovassero molti, anche nel genere umano, che si comportano come asini! La famiglia degli Asinii93 è però molto antica, ed è molto numerosa anche nelle nostre città. Quale altra stirpe è tanto feconda quanto questa, a propagarsi e a crescere? PONTANO. Sii così buono, ragazzo, prendi questa sferza e scaccia più lontano che puoi quella noiosa zanzara. GARZONE. L’ho scacciata: è salvo il padrone, è salva la patria! PONTANO. Grattagli le orecchie più delicatamente che puoi. Vedi come gioisce? Come ti dice «grazie»? Per poco non ti bacia. 24. GARZONE. Che vadano al diavolo, sorta di baci tanto soavi, mordicchiamenti asinini così seducenti. Mi ha quasi strappato le labbra con un morso. PONTANO. Non ti arrabbiare, ti prego! Tu gli hai provocato il solletico: la colpa è tua. Passagli con un po’ di gentilezza la palma della mano sulla coscia, fin sotto l’inguine. GARZONE. Lo sto facendo. Attenta, bestiaccia, perché sventoli la coda? PONTANO. Non aver timore. Grattagli il ventre e cerca di farlo usando la maggiore delicatezza possibile.

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ASINUS, [VII]

PUER. Istud ipsum agitur. Quid crepitas, nequissime? quid pedem quassas? Vide, bestia, cave, bestia, siste, ingratissime. Here, tu te hoc ipsum age; mihi in asino imperium nullum est. Costas pene calce diffregit. Non sensisti ut insonuit pectus? Nova haec musica asininaque harmonia placeat cuivis. Mihi cum asino posthac res nulla futura est amplius, nisi vectem etiam quernum testem adhibueris. 25. PONTANUS. Abiit puer, et quidem exclamabundus. Vides quid egisti, mea voluptas? Non te pudet, non te poenitet altorem tuum etiam liberalissimum pulsasse tam illiberaliter? deturbasse in terram pexorem obsequentissimum tam impudenter, deblanditoremque tam lepidum pene mutilum fecisse naribus, tanta cum pervicacia? Non intellegis quam inique a te factum sit, quam etiam impotenter? Amabo, deliciae meae, mores istos agrestiores exue atque urbaniores indue. Quid puerum pepulisti tibi tantopere indulgentem? Abundas ocio, abundas hordeo, ornamentis etiam regiis nites. Decet in ista fortuna minime uti superbia. Humanitatem atque mansuetudinem secundae par est fortunae comitem esse. Hos te mores induere velim, hanc hero gratiam tot pro beneficiis referre. Demisisti caput, heri pedes delinxisti: nunc mihi places, dum te malefacti poenitet, dum erratorum pudet. Hoc est sapere: in manifesto peccato audire institutorem, ac recte monentis praeceptis obtemperare. Atqui ego te, pro poenitentia ista, vel sapone etiam arabicis odoramentis condito totum perluerim, caputque et pedes laverim. Pelvem afferte in eaque tepidiusculam plurimam, myrteo cum liquore arabicisque condimentis, quibus meas delicias more meo inungam. Bene habet: aqua tepidiuscula est et multa, pelvis bene ampla et nitida, liquor, quem ipsius Veneris dicas, condimenta, quae Arabiam illam quidem eudaemonem huc secum pertulisse videantur. Quod ultra desiderem nihil est, nisi te ut agas quam mansuetissimum dum te perluo, dum te inungo, delicium meum. 26. PARDUS. Expecto videre quo res haec tandem sit evasura.

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L’ASINO, [VII]

GARZONE. Stiamo facendo proprio così. Ma come? Ti metti a scoppiettare, briccone? E che? Mi fracassi il piede? Guarda, bestia! Statti attenta, bestia! Fermati, odiosa che sei! Padrone mio, faglielo tu: io su quest’asino non ho alcuna autorità. Mi ha quasi fracassato le costole con un calcio. Non ti sei accorto di come ha risuonato il mio petto. Questa musica nuova, questa armonia asinina piaccia pure a chicchessia; io d’ora in poi con l’asino non voglio avere più niente a che fare, a meno che non usi come testimone una sbarra di quercia. 25. PONTANO. Se n’è andato il ragazzo, urlando pure.94 Vedi che hai fatto,95 amore mio? Non ti vergogni, non ti penti d’aver colpito chi ti portava da mangiare con tanta generosità? Non ti accorgi di aver gettato spudoratamente a terra chi ti pettinava con tanta cura? E che per poco non hai con tanta ostinazione96 mutilato del naso chi ti accarezzava97 con tanta grazia? Non capisci quanto quel che hai fatto sia stata una cattiveria, e anche una violenza? Ti prego, amore mio, spogliati di questi costumi un po’ troppo villani e assumi un comportamento urbano. Perché hai fatto andar via un garzone che badava a te e con tanta premura? Hai riposo a non finire, hai biada a volontà, risplendi di ornamenti perfino regali. In questa condizione di fortuna non va bene usare l’arroganza; è giusto che ad una fortuna favorevole si accompagnino umanità e mitezza. Questi costumi vorrei che tu assumessi, questa gratitudine vorrei che tu manifestassi verso il tuo padrone per il bene che ti fa. Hai piegato la testa, hai leccato i piedi al padrone; ora mi piaci, che ti penti del malfatto, che ti vergogni degli errori compiuti. Questa è saggezza! riconoscendo di aver mancato, ascoltare l’educatore e ubbidire agli insegnamenti di chi dà i giusti consigli. Ebbene io, per ricompensarti del fatto che ti mostri pentito, vorrei aspergerti tutto con del sapone infuso di profumi d’Arabia; vorrei lavarti tutto, da capo a piedi. Portatemi un catino, e metteteci dentro molta acqua un po’ tiepida,98 con succhi di mirto e di arabici unguenti, affinché io unga99 a modo mio il mio tesoro. Tutto a posto: l’acqua è un po’ tiepida e in quantità, il catino è largo e splendente, l’olio profumato diresti che sia quello della stessa Venere, gli aromi si direbbero quelli che Eudemone ha portati direttamente dall’Arabia Felice.100 Non c’è nulla che si possa desiderare di più, se non che tu ti comporti il più docilmente possibile, mentre ti lavo, mentre ti ungo, amore mio. 26. PARDO. Sto a vedere dove andrà a finire questa storia.

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PONTANUS. Et iam blandiris, iam caudam surrigis, iam capite micas, totusque toto etiam corpore, meus asine, mihi gestis. Euge, deliciae, ut ego te nitore ipso nitidiorem reddam. Siste; age caudam ad me, dum bene lotam depecto quam lepidissime, depexamque multo lepidius inungo. Quid hoc? quod clunes mihi lavandas, asine, vix porrigis? Non satis placet ista pedum tam frequens agitatio. An fortasse titillatus ipse te cepit? Hoc illud est, mea animula. Verum ego longe te ineptior sum, qui non a capite loturam coeperim. Sensisti erratum; hinc mihi caput obiicis, hinc auriculis micas. Euge, lepidissime, ut te delectat tepidula, ut frictio tam minuta et lenis? Nunc me beas, dum dentes restringis, dum morsiunculas tam urbanas ludis. Apage, apage, animal inertissimum, bestiam ingratissimam! Ut mihi pene manum utramque morsibus abripuit? ut me tam offirmato capite percussum in terram atque in lutum excussit? Arbuscula haec vix praesidio mihi fuit, quo minus stratum me atque humi iacentem et pedibus inculcaverit et calcibus totum diffregerit. Apage te, bestiam nequissimam. Hoc hoc illud est, tarde illud didici senex improvidus, homo minime consideratus, hoc hoc inquam illud est quam usurpatissimum «asino caput qui lavent, eos operam cum sapone amittere, in asinum abire qui asino delectetur». Quocirca frustra me et opera et sumptus habuit. Sero hoc didici; iuvat tamen exemplo ipso alios commonuisse. Oh asini, valete iam, valete posthac ipsa cum Arcadia asini.

[VIII] FASELIO VILLICUS, PONTANUS. 27. FASELIO. Quod sine ulla fiat fraude meoque permagno cum commodo, meum mihi nomen mutari, here, cupio, deque Faselione fieri Caselio volo. PONTANUS. Delectat me utique nominis commutatio, teque, ut de marra rastrisque benemeritum, donatumque parmensi illo caseo pervetere et grandi salvere Caselionem iubeo. Vale, Caselio iam, salve, Caselio, multumque ac diu salve.

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L’ASINO, [VIII]

PONTANO. Ecco che già ti comporti con garbo e alzi la coda, già fai le mosse col capo e con tutto il corpo, asino mio, mi fai cenni di gioia. Evviva! Ti voglio far risplendere più dello splendore stesso. Fermo, avvicina a me la coda, che te la pettino con tutta la gentilezza possibile dopo avertela ben lavata, e dopo averla pettinata te la ungo più gentilmente ancora. Che fai ora, che mi porgi appena le groppe per fartele lavare? Non mi piace questo tuo continuo scalpitare. Forse ti è venuto il solletico? È questo il fatto, animuccia mia? Ma io sono più stupido di te, se non ho cominciato il lavaggio101 dalla testa. Ti sei accorto dell’errore, e perciò mi allunghi la testa, perciò mi fai cenno con le orecchie. Evviva, bellezza, come ti piace quest’acqua un po’ tiepida e la mia grattatina così delicata! Ora mi riempi di gioia, che stringi i denti, che dai per gioco dei morsetti graziosi. Va via! va via! Animale senza giudizio! bestia piena d’ingratitudine. Come non mi ha strappate tutte e due le mani con un morso! con che violenza mi ha sbattuto per terra con la testa facendomi finire nel fango! Mi hanno appena aiutato questi arboscelli a non farmi cadere e rimanere steso per terra, a lasciar che mi calpestasse e mi sfracellasse tutto a calci. Va via, bestia malvagia! A questo si riferisce quel proverbio che ho dovuto imparar tardi, da vecchio sprovveduto e sconsiderato; questo significa quel proverbio che va sulla bocca di tutti e che dice: «chi lava la testa all’asino, perde il tempo e il sapone; chi si diletta a star con un asino, merita di diventar asino anche lui!»102 Sicché ci ho rimesso il tempo e le spese. L’ho imparato tardi, ma sono contento di aver avvertito gli altri col mio esempio. Statevi bene, asini, statevi bene d’ora in poi, voi con tutta l’Arcadia!103

[VIII] IL CONTADINO FAGIOLONE,104 PONTANO. 27. FAGIOLONE. Mi vien voglia, padrone, e penso che si possa fare senza danno di alcuno e con mio grandissimo vantaggio, di mutar nome, e da Fagiolone che ero diventare Caselione.105 PONTANO. Mi diverte senz’altro questo mutamento di nome, e ti saluto come benemerito della marra e del rastrello, regalandoti una forma bella grande e stagionata del famoso cacio parmigiano. Salve dunque, Caselione, salve, e ti auguro di star molto bene e a lungo, Caselione. 357

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ASINUS, [VIII]

FASELIO. Nec me dono ipso indignum, here, duco, et libens volensque illud manucapio; namque et vetustulus est caseus, et sarcinam prorsus asinariam exaequat. Alia tamen est novi nominis et ratio et causa. Ducere uxorem volo, neque ubi cum illa inhabitem, mihi ‘casa’ est ulla. Hac ego a te donatus, dono ex ipso agnominari Caselio volo. PONTANUS. An ne magis ‘Uxorio’? quando uxoris gratia donari a me et ipse cupis et ego te donatum opto uxoriae rei gratia. Eccas tibi unciolas tris, Robertinis e liliatis. Cape libellam, siquidem et probi et iusti sunt pensi: his tu te tibi casam commercator his in suburbanis locis. Vin’ ab hero tuo aliud? 28. FASELIO. Et unciolas accipio, et aliud est etiamnum, here, a te impetrare quod cupio. Tu me de rastris deque marra benemeritum donas, et recte quidem donas. Verum neque te dieculae illius tam voluptariae immemorem esse decet, gratiamque mihi ut referas profecto par est. Lectulus ille in quo delicias tam illecebrosas meridiator fecisti, novam sibi supellectilem cupit, novas munditias, ipseque novus sum maritus, nova et illa nupta. PONTANUS. Do, volo, spondeo; hac tamen conditione, ut mihi quoque… FASELIO. Quid est hoc verbi? Caselio ego sum, non coquus. PONTANUS. Hoc verbi illud quidem ipsum est, mi Caselio, ut mihi perveteri liberali atque indulgenti hero tuo illud liceat etiam in luce. CASELIO. Tu te tibi hoc videto, dum foveo, dum aro, ut luceat; nunquam enim agrum ipse nocturnis aravi in tenebris. PONTANUS. Hoc ipsum est, mi Caselio; arare ego tecum in luce una cum uxorcula agellum velim. CASELIO. Orare profecto ad genua quoque provolutus potes; ne tu trimodio quidem cicerculae ab illa, non si quotquot horti caietani siliquulas ferunt, vel unam solam oculorum poetulam inflexionem impetrabis, senex, edentulus, exuctis medullis, senioque ipso confectus atque incanis malis. 29. PONTANUS. Quid, si ad tris illas unciolas atque ad lectulum accesserit a me senio etiam Alphonsinorum? quis et ollas pulmentarias, et

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L’ASINO, [VIII]

FAGIOLONE. Non mi considero indegno del dono del cacio e me lo prendo ben volentieri; perché il cacio è ben stagionato ed equivale al carico dell’asino. Tuttavia è un’altra la ragione, un altro il motivo106 per cui voglio mutar nome. Voglio prender moglie e non c’è una casa dove possa vivere con lei. Questa l’avrò in dono da te, e da essa voglio prendere il nome di Caselione. PONTANO. E perché non prendere piuttosto il nome di «Uxorio»,107 dal momento che desideri ricevere da me il regalo e io desidero dartelo perché prendi moglie? Eccoti tre belle once, di quelle col giglio di re Roberto.108 Prendi la bilancetta,109 per vedere se il peso è giusto; con queste comprati la casa nei pressi della città. Vuoi110 altro dal tuo padrone? 28. FAGIOLONE. Accetto le monetine, ma c’è ancora un’altra cosa che voglio ottenere da te, padrone. Le tre once me le dai perché me le son meritate con la marra e col rastrello, e fai una cosa giusta. Ma non va bene che ti dimentichi di quella giornatina così piena di godimento, ed è certamente giusto che mi ricompensi. Quel tale lettino, dove hai avuto qualche voluttuoso piacere nelle ore meridiane,111 ha bisogno di un nuovo corredo, di una rimessa a nuovo, ed io sono un marito novello, anche lei è una moglie novella. PONTANO. Voglio fartelo questo regalo, lo prometto, a condizione però che io quoque…112 FAGIOLONE. Che significa questa parola? Io sono Caselione, non un cuoco. PONTANO. Questa parola è come se io dicessi che a me, tuo antico padrone, generoso e compiacente, sia concesso far quella cosa anche di giorno. CASELIONE.113 Tu nel tuo stesso interesse bada che ci sia la luce quando presto la mia opera, quando aro; io non ho mai arato nelle tenebre notturne. PONTANO. È la stessa cosa che dico io, caro Caselione! Vorrei arare il campo con te di giorno insieme con la tua mogliettina. CASELIONE. Potrai anche chiederglielo prostrato in ginocchio; neppure con tre moggia di cicerchie, neppure con quanti fagioli producono gli orti di Gaeta otterrai da lei un solo sguardo pur di sbieco,114 vecchio come sei, sdentato, smidollato, decrepito e con le guance canute. 29. PONTANO. E che ne diresti se a quelle tre once ed al lettino si aggiungessero, da parte di questo vecchio, anche un po’115 di Alfonsini 359

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ASINUS, [VIII]

patinas, et pelves, quaeque vasa nuper peregrina e materia allata sunt Valentia Balearibusque abusque insulis, ipsa sibi uxor comparet? Teque cum videam hilarem atque uxori deditum, illam mihi et illecebrosam videre iam videor et rei familiari etiam plus nimio deditam. Cumque tenella ipsa sit atque in suburbiis nata, urbanitatem prae se ferre scitulas inter puellas festisque ut queat diebus, a te ipso summopere videndum duco. Ego, mi Caselio, non deero. Vult puella crispellas aureolas capiti, vult collo redimicula pedibusque bracteatulas soleas: ego haec illi omnia. Tibi quoque natalitiis in solennibus calceas diversicolores, trisque quotannis pernulas suillas dabo. CASELIO. Num et penulas? PONTANUS. Et penulas tibi, et subuculam illi rosaceam. Verum age, quaeso, amice Caselio, quibus est papillulis nostra animula? CASELIO. Tumidiusculis, quasque manu vix interstringas. PONTANUS. Innata ne obsecro adhuc illic est illi lanugo? CASELIO. Nulla. PONTANUS. Novaculam fortasse adhibuit. CASELIO. Nullum adhuc illa fecit tonsum; putula tota est, nedum glabris femurculis. PONTANUS. Illud quoque non est quod erubescas; fateare, amabo; salit ne, dum ipse salis, nostrum delicium? CASELIO. Et salit et sussilit et auram inspirat, et scit quibus verbis paxillum surrigat. Fermentillam dicas! PONTANUS. Quid hoc verbi, mi Caselio? CASELIO. An ignoras fermento contumescere panificiam materiam? Habet illa in manibus, in verbis, in ocellis fermentum. PONTANUS. Venus bona! Ut blande, ut deliciose futurum est mihi cum fermentilla illa nostra! Sed heus tu, mi Caselio, nihil ultra: continendus est sermo. Eccos philosophos; exhibe vultum gravem advenientibus, ac si de ipsorum adventu collocuti hic simus diutius.

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L’ASINO, [VIII]

con cui potersi comprare le pentole, i piatti, le catinelle, e quel vasellame di materiale esotico importato recentemente da Valenza in Spagna e fin dalle isole Baleari? E vedendoti di buon umore e tutto preso da tua moglie, mi par di vedere anche lei tutta attraente ed eccessivamente dedita alla casa. E poiché ha un po’ di finezza, nata com’è nelle vicinanze della città, penso che a te tocchi provvedere bene a farle mettere in mostra, nei giorni di festa, la sua grazia cittadina fra le ragazze eleganti. Né io mi tirerò indietro, Caselione mio. La ragazza vuole crespine116 dorate per acconciare la testa? Vuole una collana da appendere al collo, e sandali laminati117 da mettere ai piedi? Io le do tutto, e a te pure darò per le feste di Natale delle calze118 variopinte, e tre coscettini di maiale. CASELIONE. Anche dei cappottini,119 allora? PONTANO. Anche dei cappottini per te, e a lei una camicetta color di rosa. Ma su, ti prego, caro Caselione, di che seni è dotata la nostra animuccia? CASELIONE. Belli grossi, tanto che a mala pena potresti stringerli120 con la mano. PONTANO. E ti prego, dimmi, ha ancora lì della lanugine? CASELIONE. Proprio per nulla. PONTANO. Ha usato forse il rasoio? CASELIONE. Non si è fatta ancora una rasatura, è tutta genuina,121 ed ha le coscette belle lisce! PONTANO. Anche questo non deve farti arrossire: fammi sapere, ti prego, salta, quando tu salti, la nostra delizia?122 CASELIONE. Non solo salta, ma sussulta e soffia e sa con quali parole far ergere123 il paletto, tanto che la chiameresti Fermentilla.124 PONTANO. Caro il mio Caselione, che significa questa parola? CASELIONE. Non sapete che il fermento fa gonfiare la pasta per il pane? Ebbene lei ha il fermento nelle mani, nella voce, negli occhietti. PONTANO. Per la dea Venere! Come voglio godermela con la nostra Fermentilla! Ma ohé, Caselione caro, non ti spingere oltre. Il discorso va contenuto. Ecco là i filosofi. Mostra la faccia seria, quando arrivano, come se avessimo discorso a lungo finora del loro prossimo arrivo.

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ASINUS, [IX]

[IX] PONTANUS, CASELIO, PARDUS. 30. PONTANUS. Video ne ego heroes meos? Illi ipsi sunt; dies hic profecto mihi futurus est oppido quam iucundus. Valeat omnino res asinaria. Heus tu, Caselio, de Fermentilla nulla sit cum heroibus nostris omnino mentio. Atque ut illa secum magis ac magis gaudeat, asinum tam belle cultum cuteque tam nitida dono ad eam ducito, quo satis illam scio et ruris et suburbiorum puellas superaturam specie, comptu, stratu, dum ad nuptias vocata, dum puteolanas it ad balneas, etiam blandientibus crepitaculis. CASELIO. Here, mihi crede, hoc asello tibi ab illa et meridies hermaphroditinas comparabis et noctes. PONTANUS. Amabo, quid nobis cum ‘hermaphrodito’? CASELIO. Quod illa sic tecum amplexa, innexa, implicita accumbet incumbetque in lecto, itaque inhaerescet hederescetque tecum una, hermaphroditum simul ut agatis. Ego tum vobis inspergam et rosam et myrtum, et quos illa e citrio deliquavit rores. Verum approperant iam philosophi; ego ad eos praecurro. Exspectati advenitis, viri boni, et herus de adventu quidem solicitus erat vestro, quod diebus compluribus ad eum non venissetis. Scilicet domestica vos negocia impedierunt. Ipse vero de brasiculis diebus his solicitus fuit admodum, quod eruculis averuncandis non medicamenta, non catonianum illud carmen quicquam profuerit; omnia exederunt holera bestiolae tam importunae. 31. PARDUS. Senex ergo noster etiam in hortis non caret molestia? CASELIO. Adite ad illum; liberabitis eum alia etiam molestia. Diem hunc pene dimidiatum transegit in volutando coelo, quod in manibus adhuc etiam versat; cui, mea quidem sententia, cerebrum identidem volutatur, et, ni ego accurrissem amiculo iniecto, dum coelum suspectat et alvearia non videt, in ea illatus, apiculae illum confecissent. Mihi credite, senes tandem omnes, quique praesertim habiti sunt sapientiores, delirio corripiuntur. Senex autem hic noster non uno delirat modo. Sed non est nunc plura dicendi locus; dicam apertius alias. Amore etiam insanit ac

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L’ASINO, [IX]

[IX] PONTANO, CASELIONE, PARDO. 30. PONTANO. Chi sono quelli che vedo, i miei grandi uomini? Sono proprio loro. Certamente questo giorno sarà per me più felice che mai. Addio per sempre alla faccenda dell’asino. Ohé, tu, Caselione, non facciamo parola alcuna di Fermentilla con i nostri grandi personaggi. Anzi, perché ella abbia più piacere ancora, portale in dono quell’asino così ben curato e con il pelo così lustro, col quale so bene che vincerà le ragazze della campagna e dei dintorni cittadini per la bellezza, l’eleganza, la gualdrappa, quando sarà invitata alle nozze, quando andrà ai bagni di Pozzuoli, anche per gli allettanti scoppiettii. CASELIONE. Padrone, credimi, in cambio di questo asino avrai da lei tante belle giornate e nottate ermafroditiche. PONTANO. Di grazia, che ho a che fare io con l’ermafrodito?125 CASELIONE. Il fatto è che ti si stenderà accanto e sopra, sul letto, abbracciandoti, aderendo e attaccandosi come edera,126 e con te sarà tanto intimamente unita, da fare voi due insieme un ermafrodito; io allora spargerò rose e mirto su di voi, e quel profumo che ella ha estratto dal cedro. Ma già i filosofi sono vicini, io corro loro incontro. Siate i benvenuti, galantuomini: il mio padrone era in ansia per il vostro arrivo, perché da parecchi giorni non v’eravate fatti vedere. Ma certo ve lo hanno impedito gli affari di casa. Lui, invece, è stato molto in pensiero, in questi giorni, per i cavoli,127 perché ad eliminare128 i bruchi non aveva funzionato alcuna forma di rimedio, neppure il magico scongiuro di Catone. Se li sono mangiati tutti i cavoli, quelle maledette bestiole! 31. PARDO. E così al nostro vecchio non mancano noie neanche quando è in villa. CASELIONE. Andate da lui. C’è un’altra noia da cui potrete liberarlo. Ha passato quasi metà del giorno a voltare e rivoltare il cielo, e ancora se lo gira fra le mani; a mio parere, gli gira allo stesso modo il cervello; e se non fossi accorso io, gettandogli addosso un mantello, mentre scrutava il cielo e non si accorgeva degli alveari, una volta entratovi, le pecchie l’avrebbero fatto fuori. Credete a me: i vecchi tutti quanti, e specialmente quelli che hanno fama di essere più saggi, sono soggetti alla follia. E questo nostro vecchio non ha una sola specie di follia; ma ora non è il caso di dirne di più, ne parlerò più apertamente un’altra volta. Anche per 363

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ASINUS, [X]

nutrire sibi capillum coepit, qui tonso semper capite in hunc usque diem atque in publicum processerit. PARDUS. Faselio mi, dic obsecro: de asino quid est actum? CAS. Perbene, quod non senem ipsum confecit iam calcibus, adeo nihil defuit ad lumbifragium, quem dono mihi post id dedit; suboluit enim illi uxorculam mihi ducendam, nihil enim est eo salacius ac nescio quomodo in maritas foemellas magis accenditur. PARDUS. Parcius, oro, Faselio, quippe qui solitus sis illi subblandiri et de amore laboranti ferre suppetias. Sed venit iam ad nos senex, conferamus gradum et hilares hilarem salutemus.

[X] PARDUS, SYNCERUS, ALTILIUS, CHARITEUS, PONTANUS. 32. PARDUS. Et bene et feliciter cum familiaribus his tuis agitur, dum te valentem conspicimus, dum quae ruris sunt ea te summo studio, singulari diligentia curantem intuemur. Quodque quatriduum hoc in secessu procul ab negociis, vacuus etiam urbanis curis requieveris, novum te excudisse aliquid tua pro consuetudine arbitramur. Quocirca tanto etiam iucundius magisque e sententia nobiscum agitur eoque et valentem salvere te hilari maxime animo iubemus et perscrutationibus gratulamur, quando ocium tibi nullum absque mentis negocio fuisse tibi unquam abunde cognitum et perspectum nobis est. PONTANUS. Ego vero amicissimos homines ac Musarum nostrarum alunnos ea voluptate his in hortis accipio amplectorque, qua coelestis res diebus his in hac ipsa solitudine vel magis secessu sum contemplatus; siquidem contemplationis ipsius communicatio cum studiosis rerum earundem viris is profecto fructus est etiam suavissimus.

FINIS.

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L’ASINO, [X]

amore sta diventando pazzo, ha cominciato a curarsi i capelli, quando lui fino ad oggi e in pubblico è sempre uscito col capo rasato? PARDO. Dimmi, Fagiolone: come è andata a finire con l’asino? CASELIONE. Gli è andata bene che non lo abbia già fatto fuori a forza di calci, tanto poco c’è mancato da un vero lumbifragio;129 e allora me ne ha fatto un regalo, perché ha subodorato che io potessi portagli la mia mogliettina, essendo il più salace di quanti esistano al mondo, e non so come s’accende di più per le femminelle130 maritate. PARDO. Ti prego, Fagiolone, sii più misurato, giacché sei proprio tu ad assecondarlo di solito e a dargli aiuto quando soffre d’amore. Ma ecco che il vecchio ci viene incontro; avviciniamoci e salutiamolo mostrandoci allegri com’è allegro lui.

[X] PARDO, SINCERO, ALTILIO, CARITEO, PONTANO. 32. PARDO. È una fortuna per i tuoi amici trovarti in buona salute, vedere che ti occupi con grandissimo impegno, con eccezionale attenzione anche di agricoltura, e reputiamo che in questi quattro giorni, in cui hai potuto riposare in disparte, lontano dalle incombenze e libero anche dalle noie cittadine, tu avrai, secondo il tuo solito, composto qualcosa di nuovo. E perciò tanto più ci compiaciamo e ci sentiamo soddisfatti nel nostro desiderio, ti auguriamo di star bene e allegro quanto più è possibile e ci congratuliamo per le tue ricerche, perché sappiamo sicuramente, avendone avuta esperienza, che per quanto ti riguarda l’inattività non è mai esistita senza l’attività della mente.131 PONTANO. Io, per dire il vero, vi accolgo in questa mia villa e vi abbraccio, essendo voi fra gli amici miei più cari e alunni delle nostre Muse, con quello stesso piacere con cui questi giorni, proprio in questo deserto o meglio romitaggio, ho riflettuto su problemi di astrologia, perché comunicare i risultati di questa mia riflessione con studiosi degli stessi argomenti rappresenta certamente un frutto, anzi il frutto più gradevole. FINE.

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Actius Azio Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

Il dialogo intitolato col nome accademico di Iacopo Sannazaro, Azio Sincero, raffigurato come l’animatore di una discussione che riguarda lo stile della poesia e della storia, propriamente l’arte della versificazione e della narrazione, costituisce una vera e propria Poetica, ma confrontato con la varia trattazione dell’argomento così in auge in area umanistica, pare volersene discostare usando la forma della conversazione, che scarta sia il trattato di ordine pedagogico sia la discussione a distanza dell’epistolografia. Non esente dai modi dell’uno e dell’altra, l’Actius intende inaugurare una forma diversa, che eviti l’impegno da una parte e la noia dall’altra di un’esposizione esaustiva. A parte la stravaganza della scenetta iniziale (§§ 1-3), esempio di rusticità, che tuttavia serve a mostrare la decadenza dei tempi e quindi sembra evocare in modo diverso la conclusione dell’Antonius, dove i canterini abbasserebbero l’epica al livello della piazza, anch’esso esempio di decadenza, un discorso sugli oracoli (§§ 4-16) che prosegue in un discorso riguardante i sogni (§§ 31-37) viene interrotto da una serie di questioni grammaticali sul significato e l’uso di certi vocaboli in cui è incorso Paolo Prassicio e che questi chiarisce (§§ 17-30). Il tema centrale della poesia, la cui trattazione è affidata ad Azio, è introdotto proprio dal tema del sogno per la somiglianza che hanno i poeti con i vati cui si attribuiscono le visioni. Il discorso comincia con la trattazione del ritmo, fondamento della versificazione, che richiede un ordine particolare delle parole, diverso dalla prosa in cui le parole sono slegate (§§ 38-62), e prosegue con l’analisi del verso virgiliano, una volta assunto a modello della più alta forma di poesia che è l’epica in esametri (§§ 63-114). Questa secon369

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AZIO

da parte della poetica approfondisce il discorso analizzando particolari esempi di varietà, in cui Virgilio è maestro, mediante la considerazione della collocazione degli accenti, delle pause, del suono delle lettere e delle sillabe e dell’effetto dell’allitterazione. Un’altra circostanza apparentemente casuale fa introdurre il discorso sui caratteri della lingua latina, sui modi e le ragioni dei mutamenti lessicali (§§ 15-18). Si apre a questo punto il discorso sulla storia, sollecitato dalla contiguità della storiografia con la poesia, perfino nell’uso del ritmo, che l’accorgimento dello scrittore in prosa deve perfino evitare che s’incontri con quello proprio della versificazione. Di qui il confronto anche con l’oratoria, con la quale e la storia e la poesia hanno qualche elemento in comune. Ne scaturisce la classificazione e la distinzione delle tre arti disposte in ragione della loro distanza dalla poesia. Ma l’opportunità di osservare la legge accademica delle pause e della varietas fa riprendere il discorso sul lessico latino, sulla forma antica di certi vocaboli e sul meccanismo etimologico (§§ 115-118), prima che Altilio riprenda la trattazione della storia, non per concluderla in tutta la sua ampiezza, ma per mettere ordine fra i caratteri essenziali che riguardano lo stile e le parti costitutive del genere narrativo (§§ 119194). E tuttavia al centro di questa parte s’inserisce un nuovo discorso su argomenti grammaticali (139-148), cui viene attribuito non solo il merito di aver dato un po’ di respiro alla conversazione accademica mediante la necessaria variatio, ma di aver illustrato sul piano della storia linguistica la stessa evoluzione della storia della storiografia. Infatti la tesi varroniana dell’origine di alcuni vocaboli in ambiente rurale, per poi essere recepiti nel linguaggio civile, è sottilmente utilizzata per verificare il progresso delle lettere. Anche Azio riprenderà il discorso interrotto sulla poesia, rivolgendolo ora decisamente e conclusivamente verso la sua celebrazione e il tema da cui era partito, ossia la somiglianza della poesia con il vaticinio. Il cerchio si chiude non solo per quel che riguarda l’iniziale lamento circa la degenerazione dei costumi e la rozzezza contadinesca, cancellate dal riconoscimento della più alta occupazione dell’uomo, ma anche per quel che riguarda l’affinità dei generi letterari, distinti dalla progressiva elevazione dell’arte, ma superati tutti da una funzione creativa che oltrepassa i limiti dell’arte stessa, e che nella visione del sogno, e perfino nella stravaganza della follia, ha la sua metaforica esplicazione. In effetti l’introduzione via via di temi diversi, al di là dell’esemplificazione in atto dell’incontro accademico, non è che una conferma della 370

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NOTA INTRODUTTIVA

unità del sapere e della sua articolazione. Il metodo dell’alternanza tematica del discorso critico non approfondisce la divisione fra le attività professionali che vi sono coinvolte, quella del grammatico che tratta di lessico e di etimologia, del fi losofo che tratta della realtà dei sogni, e dell’umanista che tratta di retorica e di metrica. Anzi il metodo comune della piacevole conversazione che vi viene affermato concorre a potenziare il loro rapporto, che sembra esterno, occasionale, e invece è guidato dal medesimo rifiuto del tecnicismo scolastico, nonostante al lettore possa sembrare di trovarsi talora di fronte a pagine cariche di nozioni. La forma discorsiva, comunque ridotta, in realtà intende espressamente suggerire una nuova forma di comunicazione didattica. Tuttavia la trattazione, come si ricava anche dalla lettera dedicatoria dell’editore a Francesco Poderico, riguarda principalmente due argomenti fi lologici, la prosa e la poesia, l’arte dell’esametro (De numeris poeticis) e l’arte storiografica (De lege historiae), che implicavano oltretutto il più grave problema della classificazione e gerarchizzazione dei generi letterari fondamentali, poesia, storiografia, oratoria. Pontano aveva del resto coltivato entrambi i modi di scrittura, mettendo in versi eroici la materia astrologica e in prosa una narrazione dei suoi tempi. Il modello esemplare per l’intero discorso è fornito a Pontano da Cicerone, non solo perché la discussione si presenta come chiarimento di alcune affermazioni ciceroniane, non solo perché l’ampia digressione sui metri nell’Actius richiama l’analogo argomento ampiamente trattato da Cicerone nell’Orator, ma per la somiglianza di uno schema, che da quelle opere antiche si trasferisce nell’Actius, pur sostanzialmente modificato. L’assunto ciceroniano era quello di mostrare come al di sopra di ogni arte vi fosse l’eloquenza e che per mezzo di essa l’oratore assorbisse in sé il contenuto di ogni scienza: «Neque ulla non propria oratoris res est, quae quidem ornate dici graviterque debet» («Né c’è argomento che non sia proprio dell’oratore, ma deve essere espresso con bellezza e gravità»). L’oratio appariva a Cicerone superiore perfino alla poesia, di cui assumeva la dolcezza ed insieme la sapiente disposizione metrica: «Qui enim cantus moderata oratione dulcior inveniri potest, quod carmen artificiosa verborum conclusione aptius?» («Quale canto può rinvenirsi più dolce di un’orazione ben cadenzata; quale poesia più adorna per artistico finale delle parole?»). Ma Cicerone trovava il modo di distinguere l’arte dell’oratore sulla base della eloquenza che le è propria, che ne costitui371

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sce il principio interno di distinzione: «…non vi è certezza maggiore di questa, che tutte le altre arti senza l’eloquenza possono svolgere il loro compito, l’oratore senza di essa non può conservare il suo nome». Anzi indicava una certa autonomia dell’oratoria fondandosi sulla singolare natura di quest’ultima, consistente appunto nel reggersi in modo autonomo: «…come tutti gli altri, se sono facondi, ottengono qualcosa da ciò, l’oratore, se non si sia formato sui suoi stessi principii, non può ricevere da nessun’altra parte la facondia» (De or., 2, 9, 39). Che sarà argomento fortunato nella trattatistica rinascimentale sulla poesia, al di là dello sviluppo della tesi che ne sosteneva il fine edonistico e didascalico: la poesia è quasi fine a se stessa nella trasposizione alla poetica del bene dicere dell’oratoria. All’altezza dell’Actius già Pontano trasferisce alla poesia il discorso fatto da Cicerone a proposito dell’oratoria, attribuendo alla prima quella ampiezza di significato che il retore romano aveva attribuito all’eloquenza, e respingendo questa verso un ufficio più limitato e particolare. Cicerone, nel condurre la ricerca sull’arte della parola, si era particolarmente rivolto all’oratoria, in quanto fusione e potenziamento di tutte le possibilità retoriche, essendo la poesia ricerca di una particolare forma di espressione oratoria, discorso «legato» metricamente, quando non divinamente ispirato come nell’eccezionale argomentazione del Pro Archia: a un poeta, per la sua identità di uomo superiore, non si può negare la cittadinanza romana. Ancora nella Genealogia di Boccaccio (XIV 7) conviveranno, non si fonderanno, la considerazione della parola poetica come affine all’eloquenza, e quella della poesia come vaticinio. Il capovolgimento d’impostazione che emerge nell’Actius è sostanziale: il sublime della poesia deriva dall’eccellenza della sua fattura e merita un discorso a parte. Nell’Actius Pontano non dedica, a proposito della prosa, una particolare trattazione all’oratoria, perché gli preme affrontare un tema ben più attuale, la storiografia, un campo nel quale poteva, sulla scia dell’insegnamento antico, rivelare la sua originalità. Quello dell’oratoria era un tema obbligato e Pontano ne parla a proposito della storiografia, alla quale oltre tutto è inerente l’uso delle orazioni. Il tema fondamentale dell’Actius è infatti la correlazione fra poesia e storia, e l’oratoria in quanto destinata a persuadere il giudice appare, fra le arti della parola, quella che più si allontana dall’ideale della poesia, quella che meno consente quel grado di ornato proprio del poeta. 372

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In un passaggio, quasi riposto, dell’Actius, fra quelli che servono a rallentare la tensione del discorso e rispondono al criterio dialogico di motivare la piega degli interventi, si annida una ragione metodologica che interpreta i principi originari e profondi delle humanae litterae. Pontano chiarisce per bocca di Altilio, al quale ha affidato la trattazione della storiografia, il senso stesso di quel procedere per esemplificazioni tratte dagli auctores, che potrebbe sembrare solo un modo di puntellare autorevolmente i consigli sul modo di scrivere la storia. La trattazione si collocherebbe sulla traccia di famosi maestri come Luciano, come Guarino, come il più recente Trapezunzio che aveva dedicato un cantuccio della sua Rhetorica a ripercorrere l’insegnamento di Quintiliano e di Cicerone sulla storiografia, offrendo le coordinate di quegli opuscoli sulla poesia e sulla storia fusi nell’Actius, se non fosse che la molteplicità e larghezza delle citazioni fa accostare il dialogo più alle forme di un’antologia che a quelle di un trattato. Pontano chiarisce infatti che la sua è una sollecitazione ad imparare direttamente dai testi le norme che egli raccoglie dalla tradizione, piuttosto che a leggere le sue pagine come una serie di precetti. All’intenzione di non cadere nella precettistica dei grammatici si fa nell’Actius un accenno anche più tardi distinguendo i precetti dei legislatori dagli esempi degli storici, e la precisazione corrisponde ad un riconoscibile impegno pontaniano, se pensiamo che espressamente in un libro che traeva la sua ragione proprio da un genere compromesso con la precettistica, ossia il De principe, l’autore non si lasciava sfuggire l’occasione di prendere le distanze dall’ampiezza dei regimina e dei memoriali, e di confessare di avere scelto una forma sintetica anche rischiando di non dire tutto, come vorrebbe un ordine scolastico. Il suo discorso poteva anche conformarsi, in quell’occasione, come un manuale, ma egli aveva preferito accostarsi alle modalità dell’epistola, e quindi allontanarsi anche dalla pratica dell’elogio. Questa volta la trattazione della storiografia nell’Actius è programmaticamente una scelta di stile dialogico, nel quale i pensieri sul tema vengano allineati, ma non disposti in maniera scolastica, e il metodo non precettistico si riconosce proprio nelle citazioni, che corrispondevano a quello che nei trattati morali era l’aneddoto esplicativo, l’esempio, su cui si sollecitava la riflessione diretta. La trattazione della storiografia si sviluppa insomma secondo la tendenza assunta per trasformare l’insegnamento astratto in un’affabulazione anche gradevole, oltre che utile e convincente. 373

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Pontano rinuncia sia al tipo lineare dell’epistola di Guarino sul fine e i modi della storiografia, sia al discorso critico di Luciano, che iniziava con un divertente pamphlet contro coloro che non sapevano scrivere di storia. Il modello da cui prendeva le mosse era l’inserto sulla storia del Trapezunzio, che rimaneva un trattato scolastico, con tutte le asprezze del dettato scolastico, con le sue norme positive e negative secondo la tradizione grammaticale ma si apriva alla citazione esemplificativa. E la citazione era funzionale alla diretta analisi dello stile, cui la tradizione non aveva dato il dovuto rilievo e nel quale primeggia la circumductio, che Pontano preferisce chiamare complexio: «Ho voluto mostrare questi passi esemplari desunti da illustrissime personalità, non per dare alle nostre parole un sostegno autorevole, ma perché presso di voi e presso i vostri discepoli essi prendano il luogo di precetti, e voi diveniate più attenti ancora di quel che siete a scoprirne altri, e rifletterci sopra, con i quali specialmente Livio e Sallustio, ma anche altri storiografi hanno arricchito e impreziosito le loro opere» (Actius, 182). L’insegnamento umanistico mirava principalmente a formare il gusto per la lettura diretta dei classici; quindi la preferenza per la citazione antologica era destinata ad invogliare alla lettura diretta che è sempre più efficace della norma, e infine a non ridurre la scrittura all’imitazione di quegli autori che pur prioritariamente vanno considerati. Era del resto un’applicazione di quel criterio enunciato da Cicerone nel De oratore, che non è possibile radunare tutte le qualità di cui ha bisogno l’oratore perfetto, ma se ne può solo dare un’idea: a Pontano parevano più adatti a questo scopo gli exempla. Dal loro confronto risultava un dualismo di modelli, e forse un’ulteriore moltiplicazione di essi. Ma il principio dell’ottimo riemergeva nel favore dato a Sallustio per quel che riguarda le qualità specifiche del racconto storico (Actius, 157). Anche il dualismo di res e verba, pur ereditato alla tradizione scolastica, viene modificato, non perché il primato della scrittura facesse della storiografia un opus oratorium nel senso negativo inteso dalla critica storiografica dell’Ottocento, ma perché anche le res sono argomenti su cui si opera una scelta in funzione dell’effetto narrativo, a parte la certezza dell’evento. Un più agguerrito sviluppo speculativo di questa prospettiva umanistica che vedeva muta la storia se non narrata dagli scrittori, e quindi se non retoricamente declinata, avrebbe causato perfino un rilancio del pirronismo e la sottovalutazione della storia in favore della 374

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poesia in quel ripensamento della superiorità fra le arti quale sarà nel Cinquecento ferrarese l’opera di Francesco Patrizi da Cherso. Per questa via già Pietro Bembo definiva nelle Prose della volgar lingua la lirica petrarchesca, un genere appunto, caratterizzato da una combinazione opportuna fra sottoforme della lexis, scelte dal repertorio di Ermogene, e attribuiva al contenuto, ossia ai sensi, alle sententiae, della poesia d’amore il binomio del «grave» e del «piacevole», concependo una via di mezzo fra il sommo dell’epica e l’umile del giocoso, con una tendenza all’alto più che al basso. Era così sancito, come in Pontano, il primato dei verba, dello stile, nella definizione del genere letterario.

NOTA AL TESTO L’Actius fu pubblicato per la prima volta a Napoli da Sigismondo Mayr, a cura di Pietro Summonte, nel 1507 (Editio princeps). Si conoscono dell’opera due autorevoli manoscritti. Un autografo incompleto (§§ 1-124 di questa edizione) con molteplici correzioni e aggiunte di mano dello stesso autore, Vat. Lat. 5984 (A), e una copia dell’opera completa eseguita dal Summonte, con correzioni di mano dell’autore e dello stesso Summonte, Vat. Lat. 2843 (V1). Si può tenere per fermo che la princeps dipenda direttamente da quest’ultimo. La presenza in esso di chiari segni tipografici che rimandano alla numerazione dei fogli della princeps fa dedurre, nonostante l’ipotesi contraria avanzata, che sia stato tenuto in tipografia per la composizione. Il dialogo fu ristampato nel sec. XVI insieme agli altri dialoghi e a tutte le altre opere in prosa di Pontano in IOANNIS IOVIANI PONTANI, Opera omnia soluta oratione composita, in aedibus Aldi et Andreae soceri, Venetiis, 1518-1519, II, cf. 101r-154r (Aldina). Quest’ultima raccolta fu ripubblicata nel corso dello stesso secolo a Firenze e a Basilea. Queste ultime edizioni dipendono, direttamente o indirettamente, dall’Aldina, con errori e interventi correttivi spesso inopportuni. Esistono attualmente due edizioni moderne, l’una a cura di C. Previtera, (G. PONTANO, I dialoghi, Sansoni, Firenze, 1943, pp. 123-239, con un’appendice di note critiche, pp. 317-322), l’altra a cura di F. Tateo (G. PONTANO, Actius. De numeris poeticis, de lege historiae, Roma, RR, 2018) con traduzione italiana, e una traduzione tedesca a cura di E. Grassi e E. Kessler. Allo stato delle nostre conoscenze il manoscritto Vat. Lat. 2845 serba l’ul375

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tima volontà espressa dall’autore, il quale ha inequivocabilmente rivisto, forse non sempre attentamente, la copia summontiana, sia integrando sia correggendo il proprio testo, talora le correzioni di Summonte; ma al di là degli interventi che si possono attribuire all’autore (P) per il suo ben riconoscibile ductus, altri, attribuibili invece alla mano del copista (S), o di cui non sia possibile distinguere la paternità e i tempi, dovrebbero a rigore considerarsi autentici, non potendone definire paleograficamente la stratigrafia e quindi l’eventuale carattere postumo. E tuttavia l’inopportunità o incongruenza di alcuni interventi di S può far sorgere dei dubbi alla luce dell’autografo, nei limiti in cui quest’ultimo può valere. Un manoscritto autografo, Vat. Lat. 5984, vergato da Pietro Summonte e rivisto dall’autore e dallo stesso copista (V1), risulta utile per conoscere le fasi di formazione del testo, che in gran parte esula dal nostro compito, ma nel nostro caso è sicuramente utile a ridimensionare i dubbi sulla validità della copia summontiana, la quale corrisponde in effetti all’autografo dal quale ci risulta derivare perfino, prevalentemente, sul piano ortografico. Una serie di dubbi che nell’esame di V1 riguardavano le autocorrezioni del copista, e comunque le correzioni apportate su V dal copista (Vs), vengono a cadere quando si riconosca che più volte esse non fanno altro che ripristinare la lezione dell’autografo. Sicché, anche nella parte in cui il confronto non può eseguirsi per il venir meno di quest’ultimo, gli eventuali dubbi sulla correttezza di Summonte copista andranno considerati con la dovuta cautela. Assai singolare, ma senza conseguenze sul piano della ricostruzione del testo, è la vicenda che interessa i §§ 192-195 e riguarda la sostituzione di nomi di interlocutori mediante cartellini sovrapposti recanti altri nomi, e l’aggiunta di questi ultimi in margine. Suardinus Suardus e Franciscus Poetus, che compariranno regolarmente all’inizio dell’Aegidius, ora vorrebbero sostituire Podericio e Prassicio, e pur essendo forse la stessa mano del Summonte a vergarli, non compaiono nell’edizione summontiana, la quale rimane sostanzialmente dipendente da V1 (cfr. le note relative al caso nei paragrafi suddetti). Sembrerebbe doversi attribuire la vicenda alla storia successiva del manoscritto. La lettera diretta da Pontano a Battista Spagnuoli nel periodo in cui portava a termine parecchi suoi lavori (1499), parla semplicemente di un dialogo De numeris poeticis e De lege historiae, e Summonte nella dedicatoria dell’edizione a F. Poderico (cfr. Appendice I in Actius, 2018) dirà 376

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di aver provveduto alla buona fama del maestro, il quale aveva lasciato l’opera senza l’ultima rifinitura, testimoniando insieme il suo scrupolo di curatore e i suoi interventi riparatori. Bisogna quindi tener distinti gli interventi di Summonte documentabili sul manoscritto mediante il ductus, da quelli che presumiamo essere attribuibili a lui nella funzione di editore, una volta collazionato Su con V1; tutti e due i gruppi documentano il suo lavoro di revisione, anche se probabilmente vanno assegnati a momenti diversi, il primo a un tempo non necessariamente successivo alla scomparsa dell’autore, l’altro alla vigilia della stampa o in concomitanza con la sua realizzazione. Gli interventi del primo gruppo non possono considerarsi spuri se non dimostrando la loro eventuale inopportunità e incongruenza, perché in taluni casi essi potrebbero essere stati suggeriti dal Pontano stesso, o da lui conosciuti e accettati. Vanno perciò trascurati i più incerti indizi di tentativi, poi rientrati, di interpolazione, le varianti grafiche anche se rivenienti da una correzione di cui sia impossibile scoprire l’autore. Fra le aggiunte e le correzioni di mano del Summonte, probabilmente successive alla revisione dell’autore, perché incluse in passi autografi del Pontano, è importante la correzione di un verso della Lepidina, che rivelerebbe una variante d’autore (cfr. nota § 104). Talora l’intervento, quando non sia palesemente estraneo all’uso dell’autore, accusa una certa presunzione di miglioramento, come si è cercato di spiegare nelle note per quel che riguarda i casi più evidenti: particolarmente interessanti sono i casi di sarcularius e proverbio (§ 1) che implicherebbero l’intenzione di Summonte di eliminare, sia pure in seconda battuta dopo aver copiato scrupolosamente l’originale, due ardite scelte lessicali dell’autore in un contesto popolareggiante. Gli altri sono evidenziati nelle note. Più sicura è l’interpolazione di Summonte al f. 75r (§ 142), perché nella preoccupazione di correggere fraintende il testo. Il passo riguarda l’uso di in iniziale nella formazione delle parole, per indicare non una negazione, ma una intensificazione del concetto espresso dalla parola stessa (per maggiori dettagli in questo e nei casi successivi cfr. la Nota al testo dell’edizione del 2018). Summonte è intervenuto anche, in questa fase della sua revisione, per emendare alcuni testi citati da Pontano con varianti rispetto alla lezione consueta. Talvolta la correzione riguarda una svista banale, talaltra la grafia di un nome, come si vedrà nelle note al testo per i casi più significativi. 377

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Sebbene l’editore rispettasse in massima parte il testo di V1, risulta più ampia e in certo senso più libera la sua opera nei confronti dell’ortografia, che rappresentava un fenomeno significativo nei decenni decisivi del passaggio dal manoscritto alla stampa. Seguendo il testo del manoscritto si sono evitate le sviste che hanno origine da una cattiva interpretazione del manoscritto nei luoghi dove l’intervento correttore dell’autore non è chiaro o le varianti dovute all’intenzione di emendare anomalie ortografiche. Al § 9 la lezione del manoscritto consente di evitare un’interpolazione più significativa (cfr. la nota relativa). Si rimanda alla Nota al testo relativa al De fortuna per una documentazione di notevole importanza circa la cura editoriale del Summonte, intesa a salvaguardare la fama del maestro al di là della correzione lessicale, grammaticale e ortografica. La princeps interviene nel caso di alcune consuetudini pontaniane pur testimoniate dall’accordo fra A e V, come nella separazione delle enclitiche, nell’omissione, forse accidentale, del dittongo, nell’uso anomalo di consumo per consummo, Tiro per Tyro, Cynips per Cinyps, Ecuba per Hecuba, Pyrithoum per Pirithoum. La revisione dell’autore conforta nell’accogliere la lezione di V anche nel caso di alcune forme anomale: coepit usato ripetutamente per cepit (§§ 6, 7), olfatus per olfactus (§ 36), Eurypilum, tritimemeris, Thisiphone. Sono significativi i casi, sia pur rari, in cui l’autografo presenta un’oscillazione (supellectilemque A 319v, § 3, supelectilem A 367r, § 107; suptrahas A 338v, § 39; subtr- altrove), mentre V segue sempre l’uso normale. Per l’alternativa di litera-littera e l’oscillazione di dyssilabicus-dyssillabus, dyssyb-disyll-, cfr. l’edizione 2018, pp. 58-59. La presente edizione, nonostante qualche dubbio che permane circa il rapporto fra i testimoni e l’ultima volontà dell’autore, seguirà l’ultima forma del manoscritto Vat. Lat. 2843, riproducendo il testo della nostra edizione critica del 2018.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Si potrebbe dire che l’interpretazione dell’Actius cominci dalla stessa ampia lettera dedicatoria di P. SUMMONTE a Francesco Poderico (Venezia, 1505, riprodotta da C. PREVITERA, in I Dialoghi, 1943) dove l’editore sottolinea la figura del dedicatario del dialogo, autore del poema cristiano De partu Virginis ispirato all’epica virgiliana rilanciata da Pontano, e 378

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meritevole per il recupero dei codici di antichi poeti nello spirito della riscoperta pontaniana. La Poetica di G. C. SCALIGERO (1484-1558) criticava proprio la exuperantia della pratica pontaniana della poesia, ma certamente il dialogo fu letto come insegnamento metrico dai cultori della poesia neo-latina, e anzi nel sec. XVI G. FRACASTORO (Il Navagero, ovvero Dialogo sulla Poetica, Laterza, Bari, 1947; cfr. F. TATEO, Retorica e poetica, 1960, pp. 275-281) lo tenne presente per la sua Poetica. Non attirò l’interesse di V. ZABUGHIN, Virgilio nel Rinascimento, Bologna, Zanichelli, 1921, pp. 242-243, la critica virgiliana di Pontano, considerato esclusivamente per l’imitazione delle ecloghe virgiliane, mentre già C. TRABALZA, La critica letteraria, nella «Storia dei generi letterari», Milano, Vallardi, 1915, II, pp. 45-50, sottolineava l’orientamento stilistico della critica pontaniana e la sua attenzione per lo stile della storiografia. Per la posizione del Pontano nella storia della retorica e della poetica, cfr. C. VASOLI, L’estetica dell’Umanesimo e del Rinascimento, in Momenti e problemi di Storia dell’estetica, Milano, Marzorati, 1968, pp. 343-345; F. TATEO, Retorica e poetica fra Medioevo e rinascimento, 1960, pp. 243-249; ID., Unanesimo etico, 1972; alcuni testi sulla questione della poesia sono tradotti in F. TATEO, La «Letteratura umanistica», 19892, pp. 163-186; per i riferimenti al Bembo e alla retorica ermogeniana diffusa dal Trapezunzio, cfr. ID., Fondamenti retorici, 1995; ID., Introduzione a PONTANO, Actius, 2018; soprattutto per la «lezione del Trapezunzio» e il rapporto col Valla, si veda G. FERRAÙ, Pontano critico, 1983, 73-106. Come a classici testi intorno alla storia, con i quali è utile confrontare le pagine dell’Actius, ci siamo riferiti a LUCIANO DI SAMOSATA, Del modo di scrivere la storia, in I dialoghi e gli epigrammi, trad. di L. Settembrini, Edizioni Casini, Roma 1962, pp. 327-347; GUARINO DA VERONA, Epist. 796 della raccolta di R. Sabbadini, in E. GARIN, Il pensiero pedagogico dell’Umanesimo, Firenze, 1958, pp. 385 sgg. Si veda qui l’Introduzione, 7, e in particolare, per le teorie storiografiche del Panormita e del Valla, con cui si confronta il Pontano teorico della storia, si veda: ANTONII PANHORMITAE, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, a cura di G. Resta, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1968, e LAURENTII VALLAE, Gesta Ferdinandi regis Aragonum, a cura di O. Besomi, Padova, Antenore, 1973; M. R EGOLIOSI, Valla e la concezione della storia, in La storiografia umanistica, Messina, Sicania, 1992, I, pp. 549-571; F. TATEO, I miti della storiografia umanistica, Roma, Bulzoni, 1990 (le prefazioni del Valla e del Panormita 379

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alle loro Historiae sono tradotte in una essenziale antologia di testi di teoria storiografica, in ID., La «Letteratura umanistica», 1992, pp. 139143, 157-159); ID., Modelli stilistici nell’opera di Enea Silvio Piccolomini, in Enea Silvio Piccolomini uomo di lettere e mediatore di culture, Atti del Convegno internazionale di Studi (21-23 aprile 2005), a cura di M. A. Terzoli, Basel, Schwabe Verlag, 2006, pp. 131-148, che riguarda anche lo stile storiografico. Circa la conoscenza diretta degli storici antichi, oltre Sallustio e Livio: C. BUONGIOVANNI, Tacito auctor, 2007. Su Francesco Patrizi da Cherso (1529-1597), che rappresenta lo sviluppo estremo del tema della superiorità della poetica rispetto alla istorica, dove non ha mancato di avere il suo influsso il libro di Pontano, cfr. F. TATEO, Guarino Veronese e l’umanesimo a Ferrara, nella Storia di Ferrara, VII. Il Rinascimento. La letteratura, a cura di W. Moretti, Ferrara, 1994, pp. 16-55. Per l’interesse pontaniano verso i problemi storici del lessico, si veda P. IZZI, I. NUOVO, G. A. PALUMBO, S. VALERIO, Lessicografia a Napoli nel Cinquecento, a cura di D. Defilippis e S. Valerio, prefazione di F. Tateo, Bari, Adriatica editrice, 2007; e in particolare verso l’uso dell’aspirata G. GERMANO, Il “De aspiratione” di Giovanni Pontano, 2005. La nostra traduzione si estende alle citazioni latine quando si è ritenuto che possa comunque adombrare il rilievo stilistico che l’autore attribuisce loro, ma non quando le citazioni intendono documentare considerazioni riguardanti specificamente la forma latina. Per la traduzione di Sallustio si è tenuta presente l’edizione Barbera, Siena, 2006 (trad. di L. Piazzi, introd. di G. Brescia); per quella di Livio l’edizione delle Storie dell’UTET, Torino, 1995 (XXI-XXV, a cura di P. Romandetti), 1981 (XXVI-XXX, a cura di L. Fiore), 1970 (XXXI-XXXV, a cura di P. Pecchiura), 1980 (XXXVILX, a cura di A. Ronconi e B. Scandigli). FRANCESCO TATEO

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS QUI ACTIUS INSCRIBITUR

CAEPARIUS NOTARIUS ET PASCUTIUS ET SEGNITIUS [COLLOQUUNTUR]. 1. CAEPARIUS. «Pascutius Caulita, Pasculli Caulitae fi lius, sarnensis, spatularius, cum Pignatia Nigella, quae viro suo nunc hic adest, et suo et uxoris nomine, vendit Segnitio Funestillo, acerrano viatori, qui ipsus emit sibi, liberis, nepotibus, pronepotibns abnepotibusque suis cum omni posteritate domunculam». SEGNITIUS. Adde illud: «et anteritate»; utraque enim parte, anteriore ac posteriore, domus constat. CAEPARIUS. Caute agito, mi Caulita; ea domuncula… SEGNITIUS. Mater eius Macronilla non domunculam, sed democulam verbo suo nominabat; quo enim die Sueratus, Pasculli pater, in illam ab harula demigravit cum familia et sue, oculum male auspicato ingressus amisit. CAEPARIUS. Scite, caute, averuncate ammones; pergam: «…sita est Sarnensi in suburbio secundum flumen». SEGNITIUS. Atqui vetuverbio cavetur secundum flumen emundum non esse. CAEPARIUS. Rivum volui, non flumen dicere; evincet tamen illam tibi cum omni quoque posteritate Pascutius. SEGNITIUS. Et anteritate quoque memor uti fuas facito. CAEPARIUS. «Tribules ac vicinos bonos habet, Pilutium Rufillum». SEGNITIUS. Grex mihi suillus venum si daretur, pilus hic nequaquam placeret. 382

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO DIALOGO AZIO

[I] IL NOTAIO CIPOLLARO,1 PASCUCCIO E SEGNIZZO.2 1. CIPOLLARO. «Pascuccio Cavolata,3 figlio di Pascullo Cavolata, spatolatore,4 nato a Sarno,5 con Pignazza Brunetta,6 che è qui presente assieme a suo marito, a suo nome e a nome della moglie, vende a Segnizzo Funestillo,7 di Acerra,8 che acquista per sé, per i suoi figli, per i nipoti, i pronipoti, i postnipoti con tutta la posterità, una casettina». SEGNIZZO. Aggiungi «con l’anterità»,9 perché la casa è fatta di tutte e due le parti, quella posteriore e quella anteriore. CIPOLLARO. Sta attento, caro Cavolata, quella casetta…10 SEGNIZZO. Sua madre Macronilla non la chiamava casetta, ma con la parola appropriata «cecatella»,11 perché nel giorno in cui Suerato,12 padre di Pascullo, si trasferì con tutta la famiglia e col maiale dal porcile in quella casa, perdette un occhio per una sventura della sorte. CIPOLLARO. Sei bravo, prudente e previgente13 a ricordarlo. Andiamo avanti: «La casetta è situata nel territorio di Sarno, lungo il fiume». SEGNIZZO. Eppure secondo un antico detto14 bisogna guardarsi dal comprare lungo il fiume. CIPOLLARO. Volevo dire ruscello, non fiume; «Pascuccio te la farà acquistare15 con tutta la posterità». SEGNIZZO. E con tutta l’anterità, non te ne dimenticare.16 CIPOLLARO. «Ha compaesani e vicini onesti, Peluccio Russillo».17 SEGNIZZO. Se mi desse in vendita un gregge di maiali, questo pelo qua18 non mi piacerebbe per niente. 383

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ACTIUS, [I]

CAEPARIUS. Senex est et cassus iam sanguine institutusque illi est haeres Hordeatius Panicocta et quidem bene auspicata successio; pergam: «Cocleatium quoque Surriponem». SEGNITIUS. Quid, malum istud est et nominis et cognominis? quasi cochlea bonam anni partem domi inclusus succo se suo pascat, mox prodiens rapto ac surrepto vivat. Apage a me vicinos tam male nominatos! 2. CAEPARIUS. Hoc vide, Segniti, quod nec tibi nec patri tuo Funestillo nomen satis bene ominatum est. Audibis reliquum: «… itemque Lardatium Fabaronem, probum virum, agricolam bene unctum abundeque triticatum». Neque tibi verendum est illud, vicini ne moires fame atque inopia impulsi tuam in crumeram nocturni irrepant. «Proba est domuncula tota, proba contignatio, probus paries, tectum ipsum probe canteriatum, asserulatumque, quaernis etiam scandulis Averunconis fabri, proba cisterna, sine ullo stillicidii vitio aut latrinae servitute, fundamenta bene iacta, volutabrum lutulentum, in quo viciniae totius sordes desideant, harula ad solem medidianum exposita firmiterque quaternata». Age igitur, argentum e vestigio dinumera Deo cum bono et illud vide, confestim eo uxor uti traducatur; est enim domus ipsa foecunda cupioque mirandum in modum egnatum iri ex te quam primum qui et cognato nomine et pascendi gregis solertia patrem tuum Sueranum referat Funestillum. Unicabis itaque praepropere digitulatimque pecuniam; unciolae tres pretium est. SEGNITIUS. Duillabo illas potius; binatim enim quam singulatim e vestigio magis numerabitur pretium. CAEPARIUS. Tu, Pascuti, accepisse argentum omne et numeratum et perpensum probe. Tibe vero, Segniti, ea domuncula solenni more est a Pascutio evincunda. SEGNITIUS. Ab ipsis etiam fundamentis tota, cum tecto, asseribus, canteriis, claviculis, scalis, foribus, culinae volutabrique decursibus. Quid enim? si quispiam aedificandum inferius superiusve curaverit tentaverit ve, quid? inquam, evinci mihi summum etiam coelum et ipsum terrarum soli profundum volo caveoque. CAEPARIUS. Haud iniuria, hoc ipsum ego. «Pascutius Caulita, Pasculli Caulitae fi lius, domunculam ipsam evicturum spondet ab infimo solo ad usque coeli subsellium, cum ipso etiam coelo cumque terrae imis ac perimis infernisque, Segnitio Funestillo, Acerrano viatori, eiusque posteritati». 384

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AZIO, [I]

CIPOLLARO. È vecchio e dissanguato, ed è istituito come suo erede Orzaro Pancotta,19 una successione buona e di buon auspicio. Andiamo avanti: «E anche Chiocciolazzo Mariuolone».20 SEGNIZZO. Come, è un disastro sia di nome che di cognome? Quasi una chiocciola che si nutre del proprio succo per buona parte dell’anno, poi uscendo fuori vive di furti e rapine? 2. CIPOLLARO. Guarda, Segnizzo, che né a te né a tuo padre è stato dato un nome di buon auspicio, Funestillo. Ascolta il resto: «E ancora Lardazzo Favarone,21 uomo onesto, agricoltore ben pasciuto di grasso e di frumento». E non devi temere che spinti dalla fame e dalla miseria i topi 22 vicini s’intrufolino nella tua dispensa.23 «La casetta è tutta ben fatta, ben fatta la muratura, perfino il tetto è ben sistemato, con gli assi a posto,24 con le assicelle di quercia del fabbro Averuncone, è ben fatta la cisterna, senza nessun difetto di gocciolamento o servitù della latrina; le fondamenta sono state gettate bene, vi è il pozzo nero dove vanno a finire le scorie di tutto il vicinato, il porcile è esposto al sole di mezzogiorno e saldamente squadrato». Orsù, conta il danaro subito con la grazia di Dio e provvedi a farvi trasferire tua moglie al più presto; la casa infatti è feconda e voglio che a meraviglia ti nasca quanto prima chi con lo stesso cognome e con la bravura nel pascere il gregge rassomigli a tuo padre, Suerano25 Funestillo. Perciò conterai immediatamente, con le dita, le monete ad una ad una;26 il prezzo è di tre once. SEGNIZZO. Le conterò piuttosto a due a due; si farà più presto a contare la somma a due monete per volta che non ad una per volta. CIPOLLARO. Tu, Pascuccio, confermi di aver ricevuto tutto il danaro contato e pesato. Tu, Segnizzo, devi ottenere quella casetta da Pascuccio con pieno diritto. SEGNIZZO. Tutta dalle fondamenta, col tetto, gli assi, le giunture, i viticci, le scale, le porte, la cucina e i canali della fogna. E che facciamo? se qualcuno si metterà o proverà a costruire al di sotto e al di sopra, che facciamo? dico, voglio essere sicuro di possedere anche il cielo e il sottosuolo. CIPOLLARO. Non c’è problema, lo scrivo anch’io: «Pascuccio Cavolata, figlio di Pascullo Cavolata, si obbliga a cedere la casetta dal più basso sottosuolo fino allo scanno del cielo, anche con il cielo e con le parti più profonde della terra e dell’inferno, a Segnizzo Funestillo, corriere di Acerra, e alla sua posterità». 385

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ACTIUS, [I]

SEGNITIUS. Tute et viatorem interrogato et illud caveto, anteritatis bene memor uti sies, et item furni, qui est sinistrum ad latus, triangulum enim domicilium ipsum est, piscationis quoque diurnae nocturnaeque hamariae ac retiariae. 3. CAEPARIUS. «Sistet autem in omni foro et causa, festis profestisque, fastis nefastisque diebus, Segnitioque ac Segnitii posteris evincet, adversarios vero vinciet. Pro quo praestando praedia supellectilemque suam et cum ea bacem, cofinos, riscum ac rete triplumbatum obligat seque staturum in praetorio ad iudicem». Tu, Pascuti, fuste illum investito, tu, Segniti, fustem ipsum manu capito. Haecce uti vera sunt, sciens volensque suaeque spontis atque ex convento utque inter bonos decet uterque agitis meque ut scribam rogatis iureque iurando cuncta haec confirmatis verbis conceptis, quae ego praeeo. Dice tu, Segniti: «Per Pedianum deum, qui noctu primus iter ivit primusque cauponam est cauponatus»; sequere tu, Pascuti: «per et Verronem, quem pastores colimus, primus sues maiales qui fecit primusque et fabam torruit et glandem deglubivit». Haecce acta sicce sunt. «Testes assunt de more acciti rogatique viri utique probi Actius Syncerus [Sannazarius], Franciscus Pudericus, Ioannes Pardus, Gabriel Altilius, Petrus Compater, Paulus Prassicius, [Suardinus Suardus, Franciscus Poetus], Petrus Summontius.. Haecce sicce convenere hisce verbis, hisce conditionibus, acta et transacta sunt hosce inter, assentiente uxore Pignatia, ut par est viros inter bonos bene agier». Memores actorum estote, perinde uti ab utroque ad haec ipsa arcessiti et rogati estis: vobis enim arbitris ita testabor, actum Cal. Quintilibus, praetore Gallo. ACTIUS. Atqui, o bone Caepari, ut nostrum tibi omnium nomine respondeam, negocium profecto rebus tuis maximum maximeque periculosum comparasti a sacerdotibus, dum in illorum iura irrumpis, contemptis ac despectis legibus, iure deorum prorsus adempto. An ignoras sacerdotibus dumtaxat ut deum ministris licere fasque esse venale coelum facere iisdemque etiam solis de intimis terrae locis permissum esse agere, quippe cum in eorum manu sit oblegare quos voluerint ad inferna loca? Qua igitur lege scito ve decreto ve senatus ve consulto de coelo stipulatus fueris deque infernis locis etiam atque etiam vide. Nos abimus bene conventorum memores.

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AZIO, [I]

SEGNIZZO. Tu cita il corriere e sta attento a ricordarti bene dell’anterità, e anche del forno che sta sul lato sinistro, perché la dimora ha tre angoli; ricordati anche della pesca diurna e notturna, con l’amo e con le reti.27 3. CIPOLLARO. «Si presenterà in giudizio in ogni tribunale e in ogni causa, nei giorni festivi e feriali, fasti e nefasti, garantirà per Segnizzo e per i posteri di Segnizzo, ma terrà vincolati gli avversari.28 Per cui, dando in garanzia i poderi e la sua suppellettile insieme con la bacinella, i cofanetti e il forziere29 e la rete fornita di tre piombi,30 si obbliga a presentarsi nel pretorio dal giudice». Tu, Pascuccio, consegnagli il bastone e tu, Segnizzo, prendi il bastone con la mano. E siccome queste cose son vere, sapendo e volendo e spontaneamente e secondo il convenuto, e come conviene fra persone oneste, entrambi vi apprestate a stipulare un atto e chiedete me come notaio e con giuramento confermate tutto ciò, pronunciando le parole che io suggerisco. Di’31 tu, Segnizzo: «Per san Pediano,32 che per primo è andato di notte e per primo ha fatto l’oste in un’osteria»,33 di’ tu di seguito, Pascuccio: «e per Verrone,34 cui siamo devoti noi pastori, che per primo ha creato i maiali suini e primo ha abbrustolito anche le fave e ha gustato le ghiande». Gli atti sono a posto.35 «Sono testimoni, fatti venire e officiati secondo legge come garanti Azio Sincero [Sannazaro], Francesco Poderico, Giovanni Pardo, Gabriele Altilio, Pietro il Compatre, Paolo Prassicio, [Suardino Suardo, Francesco Peto,]36 Pietro Summonte. Su questi atti e su queste transazioni c’è stato un accordo con queste parole e a queste condizioni fra queste persone, con l’assenso della moglie Pignazza, siccome è giusto che tra persone oneste si agisca bene».37 Siate tutti memori degli atti, poiché siete stati convocati e officiati da tutti e due a questo fine: infatti essendo voi testimoni così firmerò l’atto: «1° luglio, Gallo notaio». AZIO. Eppure, caro Cipollaro, per rispondere a nome di tutti, hai certamente compiuto un grossissimo affare per i tuoi interessi e molto pericoloso nei confronti dei sacerdoti, irrompendo nel loro diritto, a dispetto e disprezzo delle leggi, sopprimendo del tutto il diritto divino. Non sai che è lecito solo ai sacerdoti, ministri di Dio, mettere in vendita il cielo ed è lecito a loro soltanto trattare della parte più interna della terra, perché è riposto nelle loro mani destinare chi vogliono all’inferno? Vedi bene dunque sulla base di quale legge, di quale volontà e decreto hai fatto una stipula riguardante il cielo e i luoghi infernali. Noi ce ne andiamo tenendo bene a memoria i patti convenuti. 387

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ACTIUS, II

II ACTIUS SINCERUS SANNAZARIUS, [PAULUS, PARDUS, COMPATER, PUDERICUS, SUMMONTIUS, ALTILIUS]. 4. ACTIUS. Divi boni, vestrum ego utrumque, Petre ac Paule, appello, quonam, quo abiit gentium christianae religionis tanta illa simplicitas? locorum ubi delituit summa ac peculiaris Christianorum innocentia atque integritas? Audet scrofarius pastor in emunda casula coelestem illam Dei sedem evinci sibi deposcere praetoriumque ipsum humanarum actionum ac divinae iustitiae, non timet rusticanus notarius scripto etiam testatum hoc posteritati relinquere! Taedet me pudetqne temporibus his, tempestate tam corrupta editum luceque impurissima oculos contaminasse nascentem. Iure igitur quotidieque magis etiam ac magis desiderio angor Ferrandi Ianuarii eiusque oratio me vehementius in dies commovet, quam ille paucis antequam e vita decederet diebus apud se mecum habuit, cum adesset una Franciscus hic Pudericus, quem videtis. Cum enim ab Innocentio Octavo Pontifice Maximo abas creatus nuper esset Ferrandus paucisque ante diebus e Roma Pontificisque e conspectu Neapolim in patriam regressus, in eo sermone qui tum de religione est ab eo habitus, exorsus ipse a primis illis pontificibus tum provincialibus tum romanis, divi boni, divi, inquam, boni, quam multa, quam etiam memoriter de illorum simplicitate, paupertate, innocentia rerumque humanarum contemptu et retulit et disputavit! Ac ne videretur veterum illorum patrum exemplis tantum solaque antiquitatis auctoritate inniti, plurima, de Francisco, de Dominico deque illorum sectatoribus qui tum quoque viverent summa etiam cum admiratione audientium ita disseruit, uti qui aderant commiseratione omnes horum temporum in lacrimas verterentur. Nam et Ferrandus apprime disertus erat et indignationis maior ipsa vis commiseratioque, indignationi haud indecenter coniuncta, verba quidem ipsa mirificamque illam verborum affluentiam ad dolorem lacrimasque commovendas huberrime excitatissimeque subministrabant, non minore cum animorum qui aderamus nostrorum commotione quam eius ipsius qui disserebat affectu. Qui si conventioni huic paganorum affuisset hominum venum darique audisset coelum, an putatis, quod Cicero etiam indignanter facit, sola eum illa exclamatione fuisse contentum «o tempora, o mores»? Christum ipsum ab aula illa,

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AZIO, II

II AZIO SINCERO [PAOLO,38 PARDO,39 COMPATRE,40 PODERICO,41 SUMMONTE,42 ALTILIO].43 4. AZIO. Santo cielo, mi rivolgo a voi, Pietro e Paolo, dove è andata a finire, in quale parte del mondo, quella purezza, che era tanta, della religione cristiana? In quale luogo si è nascosta l’immensa e singolare innocenza e integrità dei Cristiani? Un pastore di scrofe44 non si perita, nel comperare una casetta, di cercare di assicurarsi la sede del Padreterno e perfino il posto di giudice delle azioni umane e della divina giustizia; un notaio di campagna non si perita di lasciare ciò per iscritto alla posterità con un testamento! Provo disgusto e vergogna per questi nostri tempi, per il fatto che qualcuno, generato in un’età così corrotta, nascendo contamini gli occhi di una luce così impura. Giustamente dunque e quotidianamente mi affliggo sempre di più per la perdita di Ferrando Gennaro45 e mi commuove ogni giorno più profondamente il discorso che pochi giorni prima di dipartirsi tenne al popolo, alla presenza di Francesco Poderico che è qui e che vedete. Infatti, nominato abate dal sommo pontefice Innocenzo poco tempo fa, e allontanandosi pochi giorni fa da Roma e dal cospetto del Pontefice, in quel sermone che tenne intorno alla religione, cominciando da quei primi pontefici, quelli delle province e quelli di Roma, mio Dio, dico, mio Dio, quanto e con quanti ricordi storici parlò e discusse della loro semplicità, povertà, innocenza e del loro disprezzo delle cose umane! E per non sembrar di basarsi soltanto sull’esempio degli antichi padri e sull’autorità degli antichi, moltissimo disse di Francesco, di Domenico e dei loro seguaci46 che ancora vivevano, e lo fece riscuotendo grandissima ammirazione da parte degli ascoltatori, a tal punto che il pubblico si sciolse in lacrime per la pena dei tempi presenti. Perché Ferrando era anzitutto eloquente, e il vigore del suo sdegno, ancora maggiore, e la compassione, convenientemente congiunta con lo sdegno, gli suggeriva le parole e quella mirabile foga di parole capaci di far commuovere fino al dolore con il loro flusso concitato, con l’effetto di provocare in noi, che eravamo presenti, una commozione d’animo non minore della passione di lui che parlava. Che se fosse stato presente a questa transazione fatta da miscredenti e avesse udito andare in vendita il cielo, pensate che egli, come fa anche Cicerone pieno di sdegno, si sarebbe accontentato di quella sola esclamazione «O tempi, o costumi»? Avrebbe 389

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ACTIUS, II

mihi credite, evocasset imprecationibus et manes illos poeticos vociferatu eruisset heiulationeque ab inferis. Sed cum illo bene actum quis non videt, cum eiusmodi praesertim procella paulo post eius obitum ab Alpibus proruperit, quae et Italiam universam concusserit et regnum hoc neapolitanum exhauserit populis spoliaveritque fortunis, excisis funditus aut incendio vastatis tot urbibus? Itaque cum illo bene actum [cum] iam fuerit, desiderio certe consuetudinis orationisque eius viri afficior quotidie magis afficiarque quandiu ipse vixero. 5. PAULUS. E nostro omnium vultu intelligere vel facile quidem, Sincere, potes, quam iucunda nobis fuerit Ferrandi recordatio. Quantum autem, quam etiam valide fixa insideat mentibus nostris illius memoria, consuetudo quidem tam suavis eius nullique non civium ac peregrinorum qui illum noverant probata, docere te oppido abunde potest. Ut autem sermo de veterum patrum castimonia et fide a te tantopere laudatus desiderium in nobis eius renovat, de me ipse ut loquar, non minus fortasse etiam afficit et pene dixerim confirmationis simul atque admirationis magis ac magis implet oraculum illud tibi ab eo in somnis editum; quod mihi quanquam Puderico ab hoc fideliter recitatum, audire tamen ex te ipso coram vel mirifice aveo, cum ad animae immortalitem confirmandam vel mirandum in modum conferat; etsi de ea ita persuasum Christiani habemus omnes, ut illorum qui diem obierunt animas sua quandoque redituras in corpora nosque item ipsos, ubi e vita hac discesserimus, statuto quodam tempore resumpturos nobis illa et teneamus et promittamus. 6. ACTIUS. Memoratu quidem digna res est audituque iucunda e me, Paule, quam requiris, explicatu tamen difficilis. Multa enim somniantes cernimus quae plano referri qualia visa ipsa sunt nequeant, ut figurae quaedam neque ipsae visae alias neque satis per se explicabiles, tum novitate tum complicatione sua; studebo tamen desiderio eorumque qui hic assunt omnium quique mihi idem hoc innuunt tuoque praesertim, Paule, satisfacere. Illud tamen vobis cognitum vestrosque apud animos testatum volo, qua nocte oraculum, ut ipse appellas, est editum, nullas ea quae noctem antecessit die cogitationes a me initas susceptas ve de animae immortalitate, nullas de reversione eius ad corpora, nullum quam

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AZIO, II

invocato Cristo stesso, credetemi, da quell’aula con le sue imprecazioni, e avrebbe fatto uscire dagli inferi a gran voci e grida i famosi poeti morti. Ma chi non vede che è stato un bene per lui specialmente perché poco dopo la sua morte si è abbattuta dalle Alpi una simile tempesta,47 che ha scosso l’Italia intera e ha spopolato questo regno napoletano spogliandolo delle sue fortune, distruggendo dalle fondamenta e devastando tante città? Perciò, mentre a lui è andata bene,48 io sono afflitto certamente dalla mancanza della frequentazione e della parola di quell’uomo ogni giorno di più e mi affliggerò ogni giorno di più per il tempo che vivrò. 5. PAOLO. Dal nostro volto puoi capire perfino agevolmente, Sincero, quanto sia stato gradito il ricordo di Ferrando. Quanto poi, e con quanta forza si sia impressa nella nostra mente la memoria di lui, la compagnia così dolce e ben nota a chiunque dei cittadini e dei forestieri che lo avessero conosciuto te lo può abbondantemente dimostrare. E siccome il sermone sulla purezza e la fede degli antichi padri, da te tanto lodato, rinnova in noi il senso della sua mancanza, per parlar di me stesso, forse non meno mi colpisce e direi quasi mi riempie di conforto e di meraviglia quell’oracolo da lui pronunciato a te in sogno; che, sebbene da Poderico che è qui mi sia stato riferito per fi lo e per segno, tuttavia desidero straordinariamente udirlo raccontare da te stesso in nostra presenza, poiché contribuisce mirabilmente a confermare la verità dell’immortalità dell’anima; quantunque tutti i Cristiani dobbiamo essere persuasi di essa, in modo da tener fermo e credere che le anime di coloro che sono morti ritorneranno una volta nel loro corpo, e che noi stessi, quando ce ne saremo andati, riprenderemo il nostro corpo nel tempo stabilito. 6. AZIO. Si tratta di un argomento degno di essere ricordato e bello da ascoltarsi per parte mia, Paolo, quello su cui mi interroghi, e tuttavia difficile da spiegarsi. Molte cose infatti vediamo in sogno, che non possono essere riferite chiaramente quali sono state viste, perché sono figure non viste mai e per se stesse inspiegabili, sia per la novità sia per la complicazione loro; tuttavia m’ingegnerò a soddisfare il desiderio e di tutti coloro che sono qui presenti e di coloro che mi fanno cenno, e soprattutto il tuo, Paolo.49 Ma voglio che sappiate e che nel vostro animo sia ben fermo che la notte in cui l’oracolo, come lo chiami, mi fu dato, nel giorno precedente quella notte non ho sfiorato né affrontato alcuna riflessione sulla immortalità dell’anima, nessuna riflessione sul ritorno dell’anima nel corpo, non ho avuto su questi argomento alcun colloquio con i dotti 391

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plurimis ante diebus aut sermonem iis de rebus cum doctis viris habitum, aut apud me ipsum modo esse aliquo dubitatum. Liber utique curis ab omnibus atque ab iis potissimum cogitationibus vacuus, cum ipse cubuissem solito in lectulo quaeque saepenumero ante cubitum lectio quidam quasi animi cibus sumitur nulla prorsus divinis de rebus praecessisset, ubi diutius quievissem et iam Aurora illa Ioviani nostri, quae coeli postibus affixa est custos, solem excitasset e somno, videre visus sum, quin haec loquens videre ipse iam videor adesse mihi Ferrandum. Quaeras fortasse unde advenerit mortuus, qua via profectus ac tam repente clausis foribus insinuatus affuerit; nesciam, nesciam, affuit certe, qualem vivum et videbam pene quotidie et alloquebar congredientem; meque statim desideratissime complexus cum esset, ut qui diutius non vidisset, vultu iucundus, risu hilaris, salutatione blandus, et osculo, ut ei mos erat, sanequam familiariter petivisset, «An, inquit, consuetudinis me nostrae oblitum rebare amicitiaeque tam diuturnae factum tam brevi immemorem? Redeo igitur ad te, et quidem tanquam legatione functus aliqua, ut vivens consueveram confecto munere, maximaque profecto cum voluptate ad te redeo. Reducem igitur ac sospitem ipse me vides atque ante expectatum tibi me et vegetum valentemque et amicorum tuique imprimis memorem tuum apud cubiculum sisto. 7. Atque his dictis blandiusculum in modum et surrisit et pene sullacrimatus est; quod evenire solet inter viventis, ubi longa e peregrinatione regressi sunt in patriam, exanclatis periculis reduces, quo tempore natura ipsa contrarios una miscere affectus consuevit et praeteritorum periculorum longiorisque absentiae memores, et praesentis voluptatis ac laetitiae indices. Hoc est autem illud, Paule, vosque, amicissimi viri, hoc inquam illud est quod ne inumbrare quidem suis verbis, nedum figurare queam aut explicare oratione. Coepit eodem me puncto temporis mira voluptas amici iam reducis, coepit admiratio, quod mortuum iam dudum illum esse subiit recordatio; coepit rursum dubitatio, quia vivum illum cernebam et loquentem quidem et vivi hominis munus sermone, vultu affectibusque implentem, num mortuum arbitrarer, an potius illius mihi obitus somnianti esset visus, qui re ipsa iam viveret. 8. Itaque, dum ipsi inter sese recursant affectus mentisque in diversum abit cogitatio meque silentii longioris pudet, una et in hilaritatem pariter profusus sum et in lacrimas iam prorupi. Veterem igitur atque

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da moltissimi giorni, o non ho avuto in nessun modo dubbi fra me stesso. Libero da ogni preoccupazione e soprattutto privo di pensieri del genere, essendomi coricato nel solito letticciolo, e senza che ci sia stata prima quella lettura, che spesso prima di dormire si fa, prendendola quasi come cibo dell’anima, dopo essermi riposato un bel po’ di tempo e quando già l’Aurora del nostro Gioviano, che è affissa come custode alle porte del cielo, aveva fatto sorgere il sole dal sonno, mi sembrò di vedere arrivare da me Ferrando. Mi chiederai da quale parte sia potuto venire un morto, facendo che strada si sia potuto presentare50 insinuandosi in modo così improvviso con le porte chiuse; non saprei dirlo, no, ma certamente è arrivato come lo vedevo da vivo e gli parlavo incontrandolo quasi ogni giorno; e subito abbracciatomi con grande affetto, come chi non mi avesse visto per molto tempo, lieto nel volto, con un sorriso, con un caro saluto, e con un bacio come era solito fare, rivolgendosi in modo assai familiare: «Pensavi – mi disse – che io mi fossi dimenticato del nostro rapporto e che fossi così presto divenuto immemore della nostra lunga amicizia? Torno dunque a te, come dopo aver compiuto un’ambasceria, come ero uso fare da vivo dopo aver compiuto il mio dovere, ritorno a te certamente con grandissimo piacere. Dunque mi vedi reduce e illeso, e prima che tu mi aspettassi, vegeto e forte, memore degli amici e di te in primo luogo,51 sto qui presso il tuo letto». 7. E detto questo sorrise in modo affettuoso e quasi si mise a piangere; come accade fra i vivi, quando ritornano in patria dopo un lungo viaggio, reduci dopo aver affrontato pericoli, allorquando la stessa natura suole mescolare insieme i sentimenti, memori dei pericoli e della lunga assenza, e segni della gioia e della letizia presente. Questo è, Paolo e voi miei grandi amici, questo è quello, dico, che non riuscirei nemmeno a delineare con le parole giuste, nemmeno a rappresentare o spiegare a voce. Mi prese nello stesso momento uno straordinario piacere per l’amico ritornato, mi prese la meraviglia per il fatto che era emerso in me il ricordo di lui morto da poco; mi prese ancora il dubbio di vederlo vivere e parlare, comportarsi come un uomo vivo con le parole, col volto e con i sentimenti: dovevo ritenerlo morto o piuttosto la sua morte era una parvenza dovuta al mio sogno, mentre egli in realtà viveva? 8. E così, mentre le mie sensazioni andavano di qua e di là intrecciandosi e la riflessione della mente se ne andava altrove e io mi vergognavo del troppo lungo silenzio, profondermi in risate e prorompere in lacrime 393

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desideratum amicum arctius complexus ut peregre redeuntem, ut sospitem, nec minus etiam subveritus, quae somniantium est consuetudo, ne, quod haud multo post contigit, repente evanesceret, multa quidem proque veteri nostra consuetudine, paucis cum eo tamen, non minus iucunde quam pie domesticeque transegi mutuoque ille mecum peramanter et grate; quodque Ferrandus ipse dum viveret quotidianis in disceptationibus multa saepe de animae immortalitate quaerere esset solitus, subiit tempus esse idoneum interrogandi illius eorum ne de quibus olim dubitasset factus esset iam certior; nec ausus ipse in primo statim orationis vestibulo ac veluti ex abrupto hoc ipsum exquirere, coepi prius sciscitari num ea quae traderentur de mortuis tam acerba, de poenarum magnitudine, de suppliciorum immanitate cruciatuumque perpetuitate vera essent, ut ea ipsa sunt prodita. 9. Tum ille suo de more, ut quippiam asseverantius erat dicturus, superciliis obductis silentioque paulisper habito, quasi etiam praesagiret quae sciscitanda post a me essent, «Dicam, inquit, Sincere Acti, dicam vere, fatebor ingenue, asseverabo constanter, nos omnis qui e vita iam migravimus, eo desiderio teneri, , in vitam illam remigrandi quae animae cum corpore est communis. ». Atque his dictis iisdemque [in]conniventibus oculis ac superciliis, quasi abiens salutaret non summa sine aegritudine, ut visus est, discessit. Ego statim somno solutus sum. 10. Habes, Paule, somnium quale meum illud fuerit, plenum, ut opinari te etiam video, divinitatis; ex eo mihi et vita haec habita est suavior, quae perfectio quasi quaedam animae videatur, nec mors futura est tam gravis, postquam suo quidem et statuto tempore membris hisce vernaculis sibique peculiaribus, quorum ministeriis principio ab ipso vitae societatisque est usa, sit iterum quoque usura corporeque in hoc, perinde atque in domo ac patria sua, rursus diversatura. Fungamur igi-

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fu tutt’uno. Abbracciato dunque più strettamente che potei il vecchio amico che mi era venuto a mancare come fosse tornato di lontano, sano e salvo, e non di meno temendo, com’è consuetudine di chi sogna, che subito potesse svanire, ciò che avvenne poco dopo, m’intrattenni insieme a lui secondo la nostra vecchia consuetudine, con poche parole tuttavia, non meno piacevolmente che con affetto e familiarità; ed egli a sua volta s’intrattenne con me amorevolmente e piacevolmente; e poiché lo stesso Ferrando durante la vita e nei colloqui quotidiani spesso soleva porre questioni intorno all’immortalità dell’anima, l’occasione fu opportuna per interrogarlo chiedendogli se ormai avesse avuto una risposta rassicurante ai vecchi dubbi; ma non osando subito, all’inizio del mio discorso e quasi all’improvviso fargli questa domanda, cominciai prima a chiedergli se quelle cose così penose che si raccontano sui morti, sulla gravità delle pene, sull’immanità dei supplizi e sull’eternità delle sofferenze siano vere, così come le riferiscono. 9. Allora lui, secondo la sua abitudine quando doveva dir qualcosa con molta autorevolezza, sollevate le ciglia e ottenuto un po’ di silenzio, come se prevedesse quello che io gli avrei chiesto dopo: «Dirò – soggiunse – o Azio Sincero, dirò la verità, mi pronuncerò con schiettezza, affermerò con sicurezza che, venuti fuori dalla vita,52 una sola cosa ci inquieta, ci angustia, da quel solo desiderio siamo dominati, da quella sola brama siamo presi o più propriamente siamo tormentati, di ritornare in quella vita che è comune all’anima e al corpo. Questa sola preoccupazione abbiamo, e così costante ed ansiosa che per te, che ora senti dire ciò, potrebbe essere del tutto incredibile e al di sopra di ogni immaginazione di un vivente. Ma noi abbiamo questo continuo e dolorosissimo tormento, questa pena insopportabile». E detto questo, quasi rinnovando il desiderio della vita precedente, la cui mancanza non era capace di sopportare, abbassando insieme gli occhi e le sopraccigglia,53 come per salutare e andarsene, si allontanò. Io immediatamente mi sciolsi dal sonno.54 10. Ecco, Paolo, qual è stato il mio sogno, pieno, come vedo che anche tu pensi, di cose divine; d’allora in poi né questa vita mi è parsa più dolce, giacché sembra quasi una perfezione dell’anima, né la morte mi sarà così grave, poiché l’anima userà di nuovo al tempo stabilito queste membra propriamente sue, di cui si è servita sin dal principio della vita sociale, ed è destinata a tornare di nuovo in questo corpo come nella casa e nella patria sua propria. Esercitiamo dunque perciò di buon grado le 395

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tur eo libentius, in hac ipsa animae corporisque societate viventes vitae ipsius muneribus, quodque medii quasi quidam ex anima consistimus ac corpore, mediocritatem sequamur eam quae digna sit homine. Et quanquam degener est corpus, illud tamen ita colamus, uti solertes ac boni agricolae agrum, iis ferendis frugibus quarum anima, utque Ciceroni magis placet animus sator est idem et cultor. Nihil civi bene instituto patria sua est carius, quoniam in ea honores assequitur ac titulos, remque illic familiarem cumulat, peculiumque omne sibi comparat. 11. Corpus autem hoc nostrum, perinde ut proprium illi domicilium et pene patria est; quocirca corporis ipsius non immemores ita quidem erimus, ut hospitium et quasi patriam eam animi ipsius domumque vita in hac existimantes, bene illud constituamus, quo animus ipse honores, magistratus muneraque civilia dignasque homine actiones in illo gerere eiusque etiam opera exercere atque administrare cum dignitate ac decore valeat suo, quamdiu hospitio illius et tanquam patriae utetur beneficio; ac posteaquam ex eo migraverit, quamdiu etiam absens fuerit, ut, illius ipsius memor, desiderio remigrandi ad illud eo vehementius teneatur, quemadmodum cives boni, qui quo sua ipsorum patria est honoratior eo absentes maiore tenentur cupiditate in illam revertendi. 12. PAULUS. Et oraculum ipsum summa a te cum fide recitatum plenum est divinitatis et oratio haec ipsa tua teque atque oraculo tali digna; de ipso autem Ferrando maior in dies apud me futura est existimatio existimationique coniuncta veneratio cultusque memoriae ac nominis tanti viri. Inter amicos vero plurimos, quibus ille omnibus perfamiliariter utebatur, quod tui praecipue memor in somno se tibi tam familiariter invisens ostenderit, et mecum gaudeo plurimum et tibi ex animo gratulor; neque enim mediocrem tibi excitationem additam video nobisque item aliis qui haec novimus excolendis animis, vita hac dum fruimur, quando animi ipsi tanto incenduntur ardore redeundi in corpora; in quibus constituti et quorum etiam ministeriis atque ope usi id assequentur, uti humanarum divinarumque rerum naturas, causas potestatesque cognitas ac perspectas habeant. Quid enim excellentius quam in hoc perexiguo tam vasti aequoris meditullio quae terra dicitur habitantem hominem et terras et maria et spiritum et coelum omne, tot tantosque stellarum orbes ac globos, tantam universi molem, rerum tantam infinitatem cognitioni suae subiecisse, mortalique in corpore immortalem

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sue funzioni vivendo in questa comunanza dell’anima col corpo, e poiché siamo composti quasi a metà di anima e di corpo, seguiamo quella medietà che è degna dell’uomo. E sebbene il corpo è degenere, coltiviamolo tuttavia come fanno i solerti e buoni agricoltori, portandogli quei frutti di cui l’anima, e come preferisce Cicerone, l’animo55 è seminatore e insieme coltivatore. Per il cittadino nulla è più caro della propria patria, perché in essa consegue onori e titoli, e vi accumula il patrimonio, procacciandosi tutte le risorse. 11. Questo nostro corpo poi è come il suo proprio domicilio; perciò non saremo così immemori del corpo, che, ritenendolo un albergo e quasi la sua patria in questa vita, non lo formiamo bene, affinché in esso l’animo possa sostenere gli impegni, le magistrature, gli obblighi civili e le azioni degne dell’uomo, svolgere anche e compiere il suo lavoro con dignità e decoro, finché usa la sua ospitalità e il suo favore come fosse quello di una patria; e dopo che sarà emigrato dal corpo, per tutto il tempo che sarà assente, memore di lui, non sia fortemente dominato dal desiderio di ritornarvi, come i buoni cittadini che, quanto più la loro patria è onorata, tanto più quando ne sono lontani sono dominati dalla passione di ritornarvi. 12. PAOLO. Non solo l’oracolo da te perfettamente riferito è pieno di valori divini, ma anche questo tuo discorso è degno di te e di un tale oracolo: dello stesso Ferrando diverrà maggiore nel tempo la stima presso di me e assieme alla stima la venerazione ed il culto della memoria e della fama di un uomo simile. Ma poiché fra tutti i moltissimi amici che egli frequentava con tanta familiarità, ricordandosi specialmente di te ti è apparso in sogno visitandoti con tanta familiarità, io mi compiaccio grandemente e mi congratulo con te di cuore; non piccolo incitamento a coltivare l’animo vedo infatti che si è aggiunto a te e a noi altri che abbiamo conosciuto queste cose, mentre godiamo della vita, dal momento che gli animi si accendono di un così grande ardore di ritornare nei corpi: perché, collocati nei corpi e adoperando i loro servigi e i loro sostegni, conseguiranno il fine di conoscere approfonditamente la natura, le cause e l’essenza delle cose umane e divine. Che c’è infatti di più eccellente del fatto che l’uomo, abitando in questa limitatissima zona intermedia dello spazio infinito che si chiama terra, sottoponga alla propria conoscenza le terre, i mari, lo spirito e tutto il cielo, tanti e sì grandi globi con i loro giri, una sì grande mole dell’universo e l’infinità della natura, e che una 397

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subeuntem personam id curare, sciscitari, pervestigare, comprehendere, tandem scire, quod deorum est munus proprium ac peculiare ab iisque in homines translatum beneficium? 13. Idque ita esse declarare multa quidem possunt, illud vero cum primis, quod dii quidem ipsi excellentibus quibusdam viris visi sunt fuisse praesentiores excellentiaeque illorum et gloriae permultum studiosi. Neque enim de nihilo opinio illa pervetusta de Geniis apud priscos tam constanter esset defensa et habita, nec apud nos Christianos, nec apud Iudaeos aut Arabes quidem illos, nisi permulta eaque maxime obscura monstrata, perspecta, cognita, his ipsis docentibus, fuissent mortalium generi, quae nunc audiendo ac legendo discimus. Ut autem praetereamus maiora quae sunt et audisti, Sincere, saepius et audire coram etiamnum potes ex amicissimo viro (cuius familiaritate ac communitate studiorum quis te ipso magis utitur, quanquam et nos quoque valde utimur?) non adolescentem modo se, sed iuvenem, sed aetate iam provectiorem, cum saepenumero interpretandis veterum scriptorum libris haesitabundus non haberet certi quid traderet, in somnis se a Genio sub imagine veteris cuiuspiam nunc grammatici nunc aut poetae aut philosophi veritatis admonitum. Quod siquis haec forte contemnat, idem hic quonam ore negaverit maximos quoque duces monentibus in somno diis aut maximas insperatasque sibi comparasse victorias aut evitasse ne victi ipsi essent copiis profligatis? 14. Ad haec non pauca etiam saepe monstrantur nobis inter dormiendum, quorum antea cogitatio nulla praecesserit nihilque illa privatim ad nos ipsos resque nostras attineant quaeque neque sensus ipsi versandis atque examinandis illis agitati ante, post dormientibus offerunt nosque lacessunt etiam in quiete. Sacerdos equidem ipse sum nec a studiis, quibus tantopere delectari te mirifice laetor, omnino alienus; plena est historia veterum illorum patrum oraculis, plena visionibus, tum adhortantibus ad fortitudinem, ad pietatem, ad contemptum rerum humanarum, tum a vitiis deterrentibus, quibus ego confirmandis his quae dicta sunt commodissime uti possem, verum neque in hoc praesertim conventu necesse esse duco; christiani enim cuncti sumus solamque pietatem sequimur, teque, Parde, video iam pridem pensitare quid ad haec dicturus sis; itaque te ipsum potius audiamus.

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persona immortale in un corpo mortale s’interessi, ricerchi, investighi, comprenda, e infine ottenga la sapienza, che è la dote specifica della divinità, un beneficio da essa trasferito negli uomini? 13. E molte cose possono dimostrarlo, anzitutto ciò, che gli stessi esseri divini si son fatti vedere più da vicino da alcuni uomini più eccellenti, mostrando particolare attenzione verso la loro eccellenza e la loro gloria. Né certamente l’antichissima credenza nei genii sarebbe stata sostenuta e conservata costantemente, sia presso noi Cristiani, sia presso i Giudei e gli Arabi, se moltissime cose importanti ed oscure non fossero state segnalate, scrutate, fatte conoscere mediante il loro insegnamento al genere umano, cose che ora impariamo ascoltando e leggendo. Ma per tralasciare le cose più importanti che hai udito spesso, Sincero, ancora puoi udire dal tuo grande amico (della cui familiarità e colleganza di studi chi può valersi più di te, sebbene anche noi ce ne valiamo molto?), che non soltanto da ragazzo, ma da giovane, anzi in età più avanzata, spesso quando nell’interpretare i libri degli antichi scrittori esitava non sapendo che dire di certo, è stato informato della verità in sogno dal Genio sotto forma di un vecchio, ora di un grammatico, ora o di un poeta o di un filosofo. Che se per caso uno disprezzasse queste cose, con quale bocca negherebbe che anche grandissimi generali con il consiglio della divinità durante il sonno si sono guadagnata la vittoria, o hanno evitato di essere vinti, mettendo le truppe in fuga? 14. Inoltre anche spesso ci appaiono mentre dormiamo non poche cose, senza che siano state precedute da alcun pensiero e senza che abbiano nulla che fare in privato con noi e con la nostra vita, cose che i sensi, agitati prima che uno prenda sonno per il fatto di rimuginarle ed esaminarle, gli mostrano dopo, quando dorme, affaticandolo anche durante il riposo. Sono un sacerdote e non sono del tutto estraneo a quegli studi di cui sono straordinariamente lieto che tu ti diletti; piena è la storia di quegli antichi padri di oracoli, piena di visioni, sia che esortino alla fortezza, alla pietà, al disprezzo delle cose umane sia che cerchino di distogliere dai vizi; e di esse mi potrei servire per confermare magnificamente quello che è stato detto, ma non ritengo che sia necessario, specialmente in una riunione come questa; siamo tutti cristiani, infatti, e seguiamo la stessa fede religiosa, e vedo che tu, Pardo, già da un po’ stai pensando a qualcosa da aggiungere; perciò ascoltiamo piuttosto proprio te.

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15. PARDUS. Pensitantem me, Paule Prassici, quae a te dicta non minus sunt recte quam a nobis grate accepta, subiit aristotelicum illud, fieri quidem posse ut ob mundi ipsius conversionem, habitu aliquo inducto, quae fera sunt animantium genera, ea ut mansuescant singula; idque usuvenire in locis nonnullis, ut ob insitam bonitatem, sponte sua, nullo quidem cultu adhibito, mitiora illic nascantur quam quae alibi summo etiam studio operaque adhibita diligentiore mitescunt. In tanta igitur nascentium multitudine, tam varia etiam locorum diversitate mundique ipsius agitationibus tam continuis iisdemque tantopere variantibus, cum natura ipsa semper ad unum aliquod suo in genere perficiendum contendat, quid mirum, etsi rarum, tamen in multis quoque seculis oriri aliquem, cui natura et studio cumprimis suo et bonitate seminis stellarumque ipsarum, hoc est mundi ipsius beneficio et opera, omni e parte genere in illo consulat aut facultatis aut scientiae? cum nulla virtus corporis, nulla sit animi ingeniique praestantia, nullus honorum aut externorum bonorum gradus, in quo non, diversis quamvis temporibus, naturae ipsius summus ille conatus effectu ipso non sit etiam manifesto et cognitus et perspectus, pro temporum videlicet, nationum patriaeque constitutione et coeli ipsius, a quo cuncta moventur, agitatu. 16. Abstinebo exemplis, ipsa enim res est per se quam notissima. Verum naturae ipsius opera praesertimque excellentissima quaeque Deum ad ipsum referenda mihi videntur, idque si cuiquam nationi, genti, sectae, christianae cumprimis religioni convenire arbitror, quae virtutum omnium, earum dico quae ad animum referuntur, et fuit et est quam studiosissima. Haec habui quae pensitabundus apud vos dicerem, alias fortasse eadem hac de re commodior offeretur quaerendi ac disserendi locus. Quoniam autem, ut scitis, toto sum corpore ac pedibus praesertim imbecillis, considendum hac sub Porticu censeo, de more maiorum nostrum; considentibus enim nobis ocio magis tranquillo et quaerere licuerit et disputare et qui praetereunt tum ad sedendi ocium tum ad certamen disserendi invitare honestius multo fuerit. 17. COMPATER. Ego vero, quoniam a consuetudine huiusce Porticus meoque ab instituto recessurus non sum, praesertim cum pransi hic consederimus, sequendum illud arbitror quod praestantissimi etiam viri se-

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15. PARDO. Mentre riflettevo, Paolo Prassicio, sulle tue parole non meno giuste che a noi gradite, mi è venuto in mente quel pensiero di Aristotele secondo cui potrebbe essere che per la rivoluzione del mondo, introdotto un certo costume, le specie feroci degli animali diventino ad una ad una mansuete; e avviene in alcuni luoghi che per un’insita bontà, spontaneamente, senza l’esercizio di alcuna educazione, esse nascano lì più miti di quanto non lo siano altrove anche in seguito ad uno sforzo ed un’opera assidua. In tanta moltitudine di specie nascenti dunque, in tanta diversità di luoghi e in tanti continui movimenti del mondo, e per giunta in così continua variazione, poiché la natura tende sempre ad una qualche perfezione nel suo genere, come meravigliarsi, anche se avviene raramente, e tuttavia avviene pure in molti secoli, che nasca qualcuno, che la natura, anzitutto per suo impegno e per la bontà del seme e perfino delle stelle, cioè per l’opera favorevole dello stesso cosmo, provveda a dotare di ogni genere di facoltà e di scienza? sebbene manchi ogni virtù fisica, ogni eccellenza d’animo e d’ingegno, ogni buon livello politico e sociale, su cui quell’estremo sforzo della natura, pur in circostanze diverse, sia ben conosciuto e sperimentato, a seconda delle circostanze ovviamente, a seconda del sito del paese di nascita e la configurazione del cielo, dal cui moto dipende ogni movimento. 16. Mi asterrò dal fare esempi, perché la cosa è di per sé assai nota. Ma l’opera della natura, e specialmente quella di particolare eccellenza, va ricondotta a Dio, e ritengo che questa sia opinione comune ad ogni popolo, ad ogni gruppo sociale, ad ogni scuola, anzitutto alla religione cristiana, che è stata ed è quanto mai attenta a considerare tutte le virtù, dico quelle che riguardano lo spirito. Questo avevo da dirvi quando ero sopra pensiero; in un altro momento forse ci sarebbe uno spazio più opportuno per svolgere un’indagine e una discussione su questo stesso argomento. E poiché, come sapete, sono indebolito in tutto il fisico e specialmente nei piedi, penso che dobbiamo sederci sotto questo portico alla maniera dei nostri avi; se ci siederemo infatti, distendendoci con maggiore tranquillità sarà possibile indagare e discutere e sarà molto più bello invitare chi passa sia a riposare sedendosi, sia a gareggiare nella discussione. 17. COMPATRE. Io in verità, poiché non intendo discostarmi dalla consuetudine di questa Accademia, specialmente sedendo dopo aver pranzato, ritengo che si debba seguire l’abitudine che, a quanto si legge, 401

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cuti leguntur, uti levioribus de rebus deque grammaticis praecipue post accubitum dissererent, primumque cognoscere ex te, Paule, aveo, quid (malum!) quasi latinitatis oblitus paulo ante dixeris: «plena est historia oraculis, plena visionibus». An non puellulus eructabas terentianum illud unum ac ciceronianum alterum: «plenus rimarum sum», et «haud magna cum re, sed plenus fidei», adde et «stultorum plena sunt omnia». 18. PAULUS. Et de more, Compater, tuo feceris et nobis non ingratum, si quanquam studiis maioribus deditus, tamen meridiani quoque temporis memor ab his ad ea nos advocaris, quae cum leviora ipsa sunt, tum iis etiam e studiis, quae pueris nobis prima inhaesere. Quocirca ne diutius te suspensum teneam, etsi tentabundum loqui te certo scio, dicas velim sisne et ipse oblitus Ciceronis tui scribentis ad Tironem: «noctem habui plenam timoribus ac miseriis»; et ad Atticum: «ex tuis literis plenus sum expectatione de Pompeio, quidnam de nobis velit ut ostendat»; et ad Plancum: «sub eas statim recitatae sunt tuae non sine magnis quidem clamoribus; tum rebus enim ipsis essent et studiis beneficiisque in rempublicam gratissimae, tum gravissimis verbis atque sententiis plenae». Qui si contentus his minime futurus es Tacitique haudquaquam meministi dicentis in dialogo De oratoribus: «Illud certe concedet instructum et plenum his artibus animum longe paratum ad eas exercitationes venturum»; item in libro Historiarum XVII: «Opus aggredior plenum variis casibus, atrox proeliis, discors seditionibus»; et paulo post: «magna adulteria, plenum exiliis mare»; et Plinii in quinto Naturalis historiae: «Polybius, annalium conditor, ab eo accepta classe scrutandi illius orbis gratia circumvectus, prodidit a monte eo occasum versus saltus plenos feris quas generat Africa», poteris tutemet revocare tibi in memoriam alia quoque Ciceronis loca, in quibus legitur «plenus officio», «plenum vigilantia, celeritate, diligentia». 19. Poteris auctorum item aliorum meminisse, qui et ipsi principem inter latinos scriptores locum optinent. Ac nihilominus, quoniam in

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hanno tenuto anche uomini di grande valore, cioè di discutere di cose più leggiere e specialmente di grammatica dopo pranzo, e prima di tutto ho voglia di sapere da te come mai (orrore!) quasi dimentico della purezza latina poco fa hai detto che «la storia è piena di oracoli (oraculis), piena di visioni (visionibus)».56 Non ti usciva già dalla bocca, quand’eri ancora fanciullo, la frase di Terenzio e l’altra di Cicerone «son pieno di fori (rimarum)»,57 e «non sono con molte sostanze, ma pieno di fiducia (fidei)»,58 e aggiungi «il mondo è pieno di stolti (stultorum)»?59 18. PAOLO. Faresti così, Compatre, una cosa a te consueta e a me non poco gradita, se quantunque dedito a studi più importanti, tuttavia in considerazione anche della circostanza ci richiami argomenti non solo più leggieri, ma che sono i primi cui eravamo impegnati da fanciulli. Perciò, per non tenerti in sospeso più a lungo, anche sapendo che tu parli certamente per provocare, vorrei che mi dicessi se ti sei scordato di come il tuo Cicerone scrive a Tirone: «Ho avuto una notte piena di timori e infelicità (timoribus atque miseriis)»;60 e ad Attico: «dopo la tua lettera sono pieno di attesa (expectatione) riguardo a Pompeo, che cosa voglia far sapere sul conto nostro»; e a Planco: «subito dopo quella lettera è stata letta la tua, non senza applausi, sia perché riusciva sommamente grata per lo stesso contenuto e per l’amore e i benefici resi allo stato, sia perché piena di parole e di pensieri (verbis atque sententiis) elevati».61 Che se non sei contento di questi esempi e non ti ricordi affatto di Tacito che dice nel Dialogo sugli oratori «Concederà questo, certamente, un animo ben educato e pieno di queste capacità (his artibus), molto preparato ad affrontare quegli esercizi»,62 e così nel libro XVII delle Storie «Affronto un’opera piena di vari eventi (variis casibus), di guerre atroci, di discordie e rivolte», e poco dopo «grandi gli adulterii, pieno di esilii (exiliis) il mare»;63 e se non ti accontenti di Plinio, che nel libro quinto della Storia naturale dice «Polibio, autore di annali, ricevuta da lui la flotta per scrutare quella regione, avendo fatto il giro, raccontò che da quel monte verso occidente le balze erano piene delle bestie feroci (feris) che genera l’Africa»,64 potrai tu stesso richiamare alla memoria altri luoghi di Cicerone, in cui si legge «pieno di dovere (officio)», «pieno di attenzione, di solerzia, di diligenza».65 19. Potrai inoltre ricordarti di altri autori; si tratta di autori che occupano un posto primario fra gli scrittori latini. E nondimeno, poiché

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hunc sermonem volens incidisti, potes et de aliis huiusmodi sciscitari, siqua dubium tibi forte animum atque incertum faciunt. COMPATER. Bene profecto a te satisfactum arbitror, nec arcessendis opus est testibus aut comprobatoribus ubi Cicero est ipse auctor. Quo igitur inceptum prosequamur, explicari a te pervelim, Parde, quinam «maiorum nostrum» potius quam «nostrorum» paulo est a te ante dictum, cum usurpatissimo scriptum legatur «maiores nostri». 20. PARDUS. Nec inepte hoc ipsum a te, Compater, quaeritur, nec a me sine magnis quidem auctoribus dictum est, cum etiam a Sallustio scriptum legatur in oratione illa Lepidi: «Clementia et probitas vestri, Quirites, quibus per coeteras gentes maximi et clari estis»; tametsi scriptum ipsa, ut iam video, depravata est a literatoribus, quod in aliis quoque compluribus animadverti, et ab illis praesertim qui nova hac scribendi ratione libros hodie imprimendos curant. Qua in re Sallustius etiam Graecorum loquendi morem secutus videri potest; verum ne a Cicerone nostro recedamus, quid si a me ita pronuntiatum est «nostrum» ut sit “nostrorum”, ut «sestertium numum»”, “ numorum”, ut «duum virum», “duorum virorum”, ut «deum fidem», “deorum”, ut «praefectus fabrum», “fabrorum”; hac enim verborum contractione vetustas illa vehementer gavisa est; namque apud eundem Ciceronem leges veteris poetae dictum: «patria mei meum factum pudet», pro “meorum factorum”; item: «cives antiqui amici maiorum meum», hoc est “meorum”. Quae quanquam obliterata magna ipsa e parte iam sunt, tamen in paucis quibusdam e Ciceronis sententia et plenum verbum recte dicitur et imminutum usitate. 21. COMPATER. Accipio et rationem et auctoritatem videoque, quod a priscis illis longius deflexerimus, multa recentibus ab his literatoribus magis damnari ob ignorantiam quam repudiari ob vetustatem. Oblatus est mihi diebus his libellus sane pervetus, in quo scriptum erat “rhinocerontis”; vetustis enim in codicibus dictiones has “rhinocerontis” et “aegocerontis” ubique invenias “n” literam retinere, quam quidem literam a grammatista nescio quo, quod graecum inodoratus aliquantum esset, atramento oblitam animadverti, videlicet quod recentioros Graeci quique attice loquantur “aegoceros aegocerotis” et “rhinoceros rhinocerotis” enuntient. Neque tamen argutulus hic id animipendit, quin ignorare

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volontariamente sei caduto in questo discorso, puoi far domande su altre questioni del genere, se per caso ti suscitano qualche dubbio. COMPATRE. Mi ritengo soddisfatto, hai risposto bene, né è necessario cercare altre testimonianze e prove, dove lo stesso Cicerone rappresenta un’autorità. Per proseguire dunque il discorso intrapreso, vorrei che mi spiegassi, Pardo, come mai «maiorum nostrum» piuttosto che «nostrorum» hai detto pocanzi, quando invece si trova scritto molto usualmente «maiores nostri». 20. PARDO. Non è inopportuna, Compatre, la tua domanda, né io ho detto così senza il sostegno di grandi autori, giacché si legge scritto anche da Sallustio nell’orazione di Lepido: «la clemenza e l’onestà che avete voi (vestri), Quiriti, che siete fra tutti i popoli il più grande ed illustre»;66 sebbene il testo, come vedo ormai, è stato guastato dai cattivi grammatici, cosa che ho riscontrato anche in moltissime altre parti, e specialmente ad opera di coloro che oggi fanno stampare i libri con il nuovo sistema di scrittura. In questo caso si può vedere come Sallustio segua anche l’uso linguistico dei Greci; ma per non allontanarci dal nostro Cicerone, che si direbbe del fatto che ho usato nostrum al posto di nostrorum, come sestertium al posto di sestetiorum, come numum per numorum, come duum virum per duorum virorum, come deum fidem per deorum, come praefectus fabrum per fabrorum? questa contrazione nei vocaboli infatti piaceva molto all’antichità; sicché in Cicerone leggerai anche l’espressione dell’antico poeta «mio padre si vergogna di quel che ho fatto», dove meum factum sta per meorum factorum. E così: «Gli antichi cittadini erano amici dei miei antenati», dove meum sta per meorum.67 Forme in gran parte dimenticate, e tuttavia in pochi autori a parere di Cicerone la parola viene pronunciata usualmente nella sua interezza e nella forma ridotta. 21. COMPATRE. Accetto sia il principio sia l’autorità e vedo che, essendoci allontanati troppo dagli antichi, da parte dei moderni pedanti molte cose sono condannate per ignoranza più che respinte per arcaicità. Mi è stato portato in questi giorni un libretto molto antico, nel quale era scritto Rhinocerontis; infatti nei codici antichi potresti trovare che queste voci, Rhinocerontis e Aegocerontis68 conservano la n, lettera che ho trovata cancellata con l’inchiostro da non so quale cattivo grammatico, poiché aveva un’infarinatura di greco, evidentemente perché i greci moderni e quelli che parlano alla maniera attica dicono Aegoceros Aegocerotis, Rhinoceros Rinocerotis. Né tuttavia questo furbastro sa, anzi ha mo405

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se confessus est e graeca fuisse olim gente ut Siculos, italicam nationem, ut Calabros, qui dicerent “aegoceron” et “rhinoceron” et “Minon” atque eiusmodi alia, indeque esse “rhinocerontis”, “aegocerontis” et “Minonis”, quod Cicero etiam ipse protulit. Accepta igitur a priscis Latinis terminatio haec sicula mansit apud nostros: nec est cur accusetur, siquis morem tot seculorum servatum a maximis auctoribus et ipse quoque servaverit, quando cognitum ac certum est graecos quoque auctores, siculos scilicet ac brutios, ita esse locutos, cum etiam abunde notum sit quanta inter Graecos est ipsos varietas et terminandorum et flectendorum nominum. Quin etiam Germanicus Arateo in carmine protulit “Aegocerus”, ut cum ait: Et sedem Aegoceri Cythereius attigit ignis;

item: Clara sagittiferi tetigit cum lumina signi Aegoceri semper coelo levis excidit himber.

22. Audivi non semel et quidem persancte iurantem eruditum apprime et observantem vetustatis hominem se complures codices et Horatii et Ovidii et aliorum poetarum legisse pene vetustate ipsa consumptos, in iisque scriptum, observasse non “Clius”, sed “Clios”, non “Didus”, sed “Didos”, non “Eratus”, sed “Eratos”, quod priscis illis temporibus maiores nostri genitivis casibus graeco more his in nominibus minime uterentur, cum qui graece sunt “Didoos”, “Eratoos”, “Clioos” contraherent in “o” productum “Didos”, “Eratos”, “Clios”, qui casus attice sunt “Didus”, “Eratus”, “Clius”. At nunc quis est e literatoribus adeo compositis moribus, quin ora sinusque ipsos impudentius conspuat ubi quem aliter locutum senserit? Me ipsum maledictis quoque incessitum, nedum acrius increpitum satis quidem scio, quod “Sapho” uno, id est simplici tantum “p” ac non uti a Graecis scribitur et ipse scripsissem, nec animadvertunt erudituli viri latinam linguam post “p” statim alterum “p” non admittere, cui tamen insit aspiratio. Itaque dum Graeci nimium esse volunt, latinum quid velit non vident. Neque enim patribus ac principibus illis latinae locutionis cura maior fuit ulla quam ut peregrina lenirentur nomina, utque Palaemon usurpat, quam ut Latinitatem musicarent, 406

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strato di ignorare che ci furono un tempo popoli, di stirpe greca, come i Siculi, gente italica, come i Calabri, che dicevano Aegoceron, Rhinioceron e Minon, e altre forme del genere e perciò Rhinocerontis, Aegocerontis e Minonis, come anche Cicerone ha scritto. Ricevuta dagli antichi Latini, dunque, questa desinenza sicula rimase nella nostra lingua: e non c’è ragione di biasimarla se egli stesso ha conservato l’uso serbato per tanti secoli dai più grandi autori, dal momento che è certo e ben noto che anche autori greci, siculi e bruzii, si sono espressi così, giacché è abbondantemente noto quanta varietà e di desinenze e di flessioni nominali ci sia anche presso i Greci.69 Ché anche Germanico nel carme arateo scrisse Aegocerus, come quando dice: Eppure toccò il fuoco citereo di Egocero la sede;

e ancora: Quando del sagittifero Egocero i lumi splendenti tocca, dal cielo cade sempre una pioggia leggiera.70

22. Ho udito non una volta sola uno anzitutto erudito e ossequioso dell’antichità giurare, e con vera devozione, dire di aver letto moltissimi codici di Orazio e di Ovidio e di altri poeti, quasi consunti per l’antichità, e di avervi trovato scritto non Clius, ma Clios, non Didus, ma Didos, non Eratus, ma Eratos, perché in quei primi tempi i nostri avi in questi nomi non usavano il genitivo secondo l’uso greco, contraendo le forme che in greco sono Didoos, Eratoos, Cluoos, in una o lunga, Didos, Eratos, Clios, e che in attico fanno Didus, Eratus, Clius. Ma chi c’è ora fra i pedanti così moralisti, che non sputi indecentemente sul volto e sul petto quando sente qualcuno dire diversamente? Ben so di essere stato perseguitato da maledizioni, nonché raggiunto da aspre imprecazioni, perché anch’io ho scritto Sapho con una sola p, ossia con la p scempia, e non come si scrive in greco, né si sono accorti gli eruditi che la lingua latina dopo una p non ammette subito un’altra p comunque aspirata. Perciò, mentre i Greci la ritengono superflua, in latino non vedono che possa significare. Né i padri e gli iniziatori della lingua latina ebbero maggior cura che quella di alleggerire i nomi stranieri, e come usa dire Palemone, per rendere musicale la lingua latina in modo che le voci con 407

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quo voces laenius illaberentur in aures. Hinc qui graece est “Odisseus” factus est “Ulysses”, “Achilleus” “Achilles”, “Aeas” “Aiax”, “Asclepios” “Esculapius”, “Polideuces” “Pollux”, aliaque id genus plurima. 23. Eo autem vecordiae, ne dicam ignorantiae processum est a supinis quibusdam ingeniis, ut inobservato Cicerone, ne dicam contempto, mordicus incursent siquis ita locutus fuerit uti coniunctiones has “etsi” et “quanquam” praeterquam indicativis temporibus coniunxerit, cum et optativis et coniunctivis modis passim coniunctas apud illum invenias. Audite, quaeso, aequo animo Ciceronem tam multis in locis non uni dumtaxat modo, hoc est indicanti, coniungentem; ad Atticum enim quadam in epistola: «Sed posteaquam primum Clodii absolutione levitatem infirmitatemque iudiciorum perspexi, deinde vidi nostros publicanos facile a senatu disiungi, quanquam a me ipso non divellerentur». Alia in epistola: «Rhodum volo puerorum causa, inde quamprimum Athenas, etsi etesiae valde reflaverint». 24. Ad Dolobellam quoque: «Quanquam, mi Dolobella, (haec enim iocatus sum) libentius omnis meas (si modo sunt aliquae meae) laudes ad te transtulerim, quam aliquam partem exhauserim ex tuis». Ad Servium Sulpitium: «Accedit eo quod Varro Murena magnopere eius causa vult omnia, qui tamen existimavit, etsi suis literis, quibus tibi Manlium commendabat, valde confideret, tamen mea commendatione aliquid accessionis fore». Ad Marcum Varronem: «etsi quid scriberem non haberem, tamen amico ad te eunti non potui nihil dare». In primo Academicorum libro: «Certe enim recentissima quaeque sunt correcta et emendata maxime, quanquam Antiochi magister Philo, magnus vir; ut tu existimas, ipse negaret». Item: «tertia deinde plilosophiae pars, quae erat in ratione et in disserendo sic tractabatur ab utrisque, quanquam oriretur a sensibus, tamen non esse iudicium veritatis in sensibus, mentem volebant rerum esse iudicem». 25. Et in secundo De oratore: «erantque multi qui quanquam non ita se rem habere arbitrarentur, tamen quo facilius nos incensos studio dicendi a doctrina deterrerent, libenter id, quod dixi, de illis oratoribus praedicarent». Item: «sese, siquam gloriam peperisse videatur, tamen etsi ea non sit iniqua merces periculi, tamen ea non delectari»; ad

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maggiore leggerezza scivolassero nelle orecchie. Perciò il nome che in greco è Odysseus è diventato Ulysses, Achilleus Achilles, Aiax Aiax, Asclepios Esculapius, Polydeuces Pollux, e moltissimi altri allo stesso modo. 23. Si è pervenuti a tal punto di follia, per non dire di vergogna da parte di alcuni bassi ingegni, che non osservando, per non dire sprezzando Cicerone, assalgono a morsi chi si sia espresso non costruendo le congiunzioni etsi e quanquam se non con i tempi dell’indicativo, mentre nei suoi scritti puoi trovare qua e là usato l’ottativo e il congiuntivo. Ascoltate di buon grado, vi prego, Cicerone che in molti luoghi le costruisce non con quell’unico modo, cioè con l’indicativo; in un’epistola ad Attico: «Ma dopo che ho ben esaminato prima la leggerezza e la scarsa solidità dei giudizi con cui è stato assolto Clodio, e ho visto poi i nostri pubblicani dissociarsi facilmente dal senato, quantunque non si distaccassero da me»;71 e in un’altra epistola: «Volo a Rodi per i bambini, poi non appena possibile ad Atene, anche se i venti etesi soffiavano (reflaverint) contro».72 24. Anche scrivendo a Dolabella: «Anche se, mio caro Dolabella, – ho detto questo per gioco – dovessi aver trasferito a te volentieri tutti i miei meriti, se ne ho, come io ne ho assorbita una parte dei tuoi».73 E a Servo Sulpicio: «Si aggiunge a questo che Varrone Murena vuole a tutta forza far per lui l’impossibile; e pertanto anche se confidava (confideret) molto nella sua lettera, con la quale ti raccomandava Manlio, aveva fiducia che con la mia raccomandazione un po’ più di udienza ci sarebbe stata».74 E a Marco Varrone: «Anche se non avevo (haberem) da scrivere, tuttavia all’amico che veniva da te non potetti non dar niente».75 Nel libro primo degli Accademici: «È certo che tutte le cose più recenti sono corrette e oltremodo revisionate, anche se Filone, maestro di Antioco, grande personaggio, come tu ritieni, lo negava (negaret)». Così ancora: «La terza parte poi della filosofia, quella che riguarda il ragionamento e la discussione, quantunque nascesse dai sensi, volevano tuttavia che il giudizio sulla verità delle cose non risiedesse nei sensi, ma che la mente ne fosse giudice».76 25. E nel secondo libro del De oratore: «e vi erano molti che, quantunque ritenessero di non aver raggiunto il più alto grado di abilità, tuttavia per allontanare più facilmente dalla scienza noi che eravamo accesi dallo studio dell’eloquenza, volentieri andavano dicendo di quegli oratori quello che ho detto». E ancora: «[dicevano] che, se qualche gloria sembra essergli venuta, tuttavia, anche se non dovesse rappresentare una cattiva ricompensa dei rischi affrontati, tuttavia non ne provano piace409

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hoc Ciceronis testimonium, etsi aliud nullum abs te requiri certo scio, non praetermittam tamen quae a Sallustio, Livio Tacitoque mihi nunc in mentem veniunt; Sallustii enim verba sunt haec: «Nam vi quidem regere patriam aut parentes, quanquam possis et delicta corrigas, tamen importunum est». Et Livii XXVI: «Itaque quanquam omnibus omnia deberet, praecipuum muralis coronae decus esse eius qui primus murum ascendisset». Et libro XXIX: «Mauris inde sicuti convenerat retro ad regem remissis, quanquam aliquanto minore spe multitudinis nec unquam tantam rem aggredi satis auderet». Taciti autem quae sequuntur: «Non numeraverim inter Germaniae populos, quanquam trans Rhenum Danubiumque consederint, eos qui decumates agros exercent». Item: «vera statim et incorrupta eloquentia imbuebantur et quanquam unum sequerentur, tamen omnes eiusdem aetatis patronos in plurimis et causis et iudiciis cognoscebant». 26. Tamen haec tolerabiliora; discissum dilaceratumque ab his iisdem satis scio haud indoctum hominem, quod particulam “nedum” ac “ne modo” praeponere sit in scribendo ausus, nec meminerunt Ciceronem scribentem ad Atticum, nec Balbum et Oppium ad Ciceronem; eorum quidem alterum dixisse: «Tu, quoniam quartana cares et nedum morbum removisti, sed etiam gravedinem, te vegetum nobis in Graecia siste», alteros vero: «Nedum hominum humilium, ut nos sumus, sed etiam amplissimorum virorum consilia ex eventu, non ex voluntate a plerisque probari solent». Livius quoque libro vigesimo nono inquit: «Anno nequaquam satis valido ne modo ad lacessendum hostem, sed ne ad tuendos quidem a populationibus agros, equitatu accepto, id omnium primum egit, ut per inquisitionem numerum equitum augeret». Nec alienum forte fuerit Plinii quoque verba e nono Naturalis Historiae libro adducere: «Lolliam Paulinam, quae fuit Caii principis matrona, ne serio quidem aut solenni cerimoniarum aliquo apparatu, sed mediocrium etiam sponsalium coena vidi smaragdis margaritisque opertam». 27. Haec autem quanquam sunt huiusmodi, movent tamen doctos viros. Indignantur enim non permitti sibi maiorum auctoritate uti tutoque evagari per orationis latinae fines, qui latissimi quidem sunt. Nam etsi

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re»;77 e anche se so con certezza che da parte tua non si chiede ancora un’altra, oltre questa testimonianza di Cicerone, non tralascerò tuttavia quegli esempi tratti da Sallustiuo, da Livio e da Tacito che mi vengono ora in mente; il testo di Sallustio è questo: «Infatti, governare la patria o i parenti con la violenza, quantunque ti sia possibile e serva a correggere gli eccessi, tuttavia è odioso […]».78 E il testo di Livio nel libro XXVI: «Pertanto, quantunque a tutti si dovesse tutto, l’onore particolare della corona per chi scala il muro, apparteneva a chi per primo l’avesse scalato». E nel libro XXIX dice così: «Poi rimandati indietro dal re i Mauri, com’erano venuti, quantunque con un po’ meno di speranza della moltitudine non osasse mai affrontare una tal cosa […]».79 È di Tacito il seguente esempio: «Non elencherei fra i popoli germanici, quantunque fossero stanziati al di là del Reno e del Danubio, quelli che coltivano i campi decumati». E analogamente: «Erano subito educati ad un’eloquenza verace e sana, e quantunque seguissero un solo modello, tuttavia nelle molte cause e nei molti giudizi mostravano di conoscere tutti gli avvocati contemporanei».80 26. Tuttavia queste son cose che si possono tollerare; so bene che un uomo non poco colto è stato colpito e dilaniato da questa stessa gente, perché ha osato preporre nella frase le particelle nedum e ne modo, senza ricordarsi di Cicerone che scrive ad Attico, né di Balbo e di Oppio che scrivono a Cicerone; il primo scrive: «Tu, poiché non hai la quartana, nonché ti sei sbarazzato della recente malattia, ma perfino del dolor di capo, presentati a noi in Grecia sano e robusto come sei», mentre altri: «nonché i consigli di poveri uomini, come noi siamo, ma anche quelli di personaggi illustri sogliono essere approvati secondo l’intenzione, non secondo quel che avviene».81 Anche Livio nel libro XXIX dice: «Annone, non solo in un modo per nulla valido a logorare il nemico, ma nemmeno a difendere i campi dalle devastazioni, presa la cavalleria, prima di ogni cosa fece in modo da aumentare il numero dei cavalli attraverso una ricerca».82 Non sarebbe forse fuori luogo citare il testo di Plinio del libro nono della Storia naturale: «Lollia Paolina, che era la signora di Caio, non solo con un apparato cerimoniale serio e solenne, ma anche in una cena di modesti sposalizi ho visto coperta di smeraldi e perle».83 27. Ma per quanto le cose stiano così, tuttavia scuote quello che dicono persone dotte. Esse s’indignano del fatto che non sia permesso loro valersi di un’autorità e muoversi al sicuro per tutto il territorio della par411

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possunt conscientia ipsi sua contenti esse, tamen nescio quomodo praestantibus in ingeniis usu venit quod in equis generosis, ut nolint pungi, aversentur fragella, ad scuticae sonitum exaestuent; namque ipsi etiam reges muscas fugitant. Equidem menimi, quin videre quidem videor digladiantes grammaticos super virgiliano versu, qui est: Instar montis equum divina Palladis arte aedificant,

dum quid “instar” significet parum intelligunt. Neque enim Ciceronem animadverterunt scribentem ad Atticum: «Mearum literarum nulla est synagoge, sed habet Tyro instar septuaginta, et quidem sunt a te quaedam sumendae; eas ego oportet perspiciam, corrigam, tum denique edentur». Et in Oratore ad Brutum: «Nam invenire et iudicare quid dicas magna quidem illa sunt et tanquam animi instar in corpore». Quid? idem cum dixit Cicero ex ore Antimachi in Bruto «Plato enim mihi unus instar est omnium», an sibi vult aliud quam quod Platonis unius audientia idem valeret apud eum tantumque haberet auctoritatis quantum si universus atheniensis populus ad audiendum convenisset intentusque recitantem spectaret, quodque inventio ac iudicium in oratore idem quidem polleat quod in corpore ipso animus? 28. Verum haec a nominis ipsius deductione aliquanto sunt remotiora, cum tamen et Cicero et Virgilius eam innuant, ut quae “instar” aut sunt aut habent, ea quasi oculis ac menti instent illisque perinde ut exemplar quoddam sint proposita. Quod fabris atque artificibus usu venit, qui propositum ad exemplar fabricantur ad illudque opus suum dirigunt, id quod Virgilii verba prae se ferunt dicentis equum illum troianum aedificatum ea vastitate, ut quasi vasti imago montis fuisset proposita aedificatoribus, quam et ipsi imitarentur et equus ipse illam referret; quod ipse alibi declarat, cum ait: Hanc tamen immensam Calchas attollere molem Roboribus textis coeloque educere iussit.

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lata latina, che è amplissimo. Infatti, quantunque possano accontentarsi della propria coscienza, tuttavia, non so come, agli ingegni eccellenti avviene quel che avviene ai cavalli di razza, che non vogliono essere pungolati, sono contrari alle frustate,84 si turbano al suono dello staffi le; perché anche i re scansano le mosche. E mi ricordo, anzi mi sembra di vedere combattere con la spada i grammatici su questi versi di Virgilio, A mo’ (instar) di un monte un cavallo con l’arte di Pallas divina costruiscono,85

non capendo che cosa significhi instar («a mo’ di», «quasi»). E non si accorgono che Cicerone scrive ad Attico: «Non esiste una silloge delle mie lettere, ma Tirone ne ha quasi (instar) settanta, e alcune dovresti fartele prestare; bisogna che io le esamini, le corregga, e allora finalmente saranno pubblicate». E nell’Orator dedicato a Bruto scrive «Infatti a scoprire e giudicare quello che dici, sono cose importanti ed è come scoprire quasi (instar) l’anima nel corpo». Devo dire altro? dal momento che lo stesso Cicerone raccontò nel Bruto di aver udito per bocca di Antimaco: «Il solo Platone infatti per me è come se fossero (instar) tutti»;86 vuol dire altro se non che prestare attenzione al solo Platone aveva valore per lui e aveva tanta autorità quanta se tutto il popolo ateniese si fosse riunito ad ascoltarlo e assistesse con attenzione mentre recitava, vuol dire altro se non che l’invenzione e il gusto nell’oratore abbiano lo stesso potere che l’animo nel corpo? 28. Ma questi esempi sono piuttosto lontani dal significato etimologico del vocabolo, mentre Cicerone e Virgilio accennano ad esso, nel senso che quelle cose che sono o hanno un instar, sono presenti agli occhi e alla mente, e si propongono loro quasi come un «modello». Cosa che avviene ai fabbri e agli artigiani che costruiscono secondo un modello proposto, e dirigono il loro lavoro guardando ad esso, ed è quello che le parole di Virgilio significano, quand’egli dice che il cavallo di Troia fu costruito d’una grandezza tale come se fosse stata dinanzi ai costruttori l’immagine di un monte da imitare e il cavallo la riproducesse; questo lui stesso dichiara altrove, quando dice: Ma d’innalzar Calcante l’immensa mole ordinava intessuta di legno di quercia ed al cielo elevarla.87 413

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29. Et Cicero, cum respondet Attico “habet Tyro instar septuaginta”, an aliud signiflcat quam quod, cum ipse efflagitatarum ab ilio epistolarum nullum haberet penes se exemplum, originales quidem epistolae (sic enim hodie non pauci loquuntur) quasque ipse dictasset a Tyrone asservarentur quodque de exemplaribus illis utpote archetypis exemplum esset sumendum? Idem Cicero declarat hoc apertius scribens ad Varronem: «Equidem hos tuos Tusculanos dies instar esse vitae puto», ac si diceret: «vitae genus dierum illorum, quibus fuisti in Tusculano, esse aliis vitae suae exemplum ac specimen debere iudico». Itaque tum “exempla” tum “exemplum” videtur “instar” significare, quod et Virgilius confirmat cum dicit: «Quantum instar in illo!». Recentiores tamen, ut Plinius Secundus, alia quadam ratione videntur hac usi dictione, neque improprie tamen, neque indecenter, ut cum ait de Traiano: «Instar refectionis existimas mutationem laboris» [Nam apud Ciceronem legitur «instar mortis» itemque] et alibi: «instar ulctionis videretur cernere laceros artus, truncata membra». Item: «maximum beneficium vertebatur in gravissimam iniuriam civitasque romana instar erat odii et discordiae et orbitatis». 30. PUDERICUS. Ego vero, Petre Compater, facile sum passus aegre ferentem te grammaticorum importunam diligentiam evagatum longiuscule; omnis tamen dicendi oblectatio vacare debet taedio cumprimis audientium ac defatigatione. Quamobrem redeat iam Pardus ad insomnia, quo horatianum illud punctum, dum iocis miscemus seria, e dictionibus his nostris ab iis, qui audiendi nobiscum hic gratia consederint, referamus, sintque posthac res inter nos grammaticae levatio quasi quaedam rerum difficiliorum quae in sermonem venient, non autem disserendi materia. 31. PARDUS. Revocas me, ut video, Puderice, ad somnia, vel potius aut impellis aut trahis. Atque equidem vereor ne de his disserentem me huberius ad somniandum adigas etiam vigilantem. Dicam tamen quae sentio quaeque ut probentur a multis desiderari quidem potest, utinam vero id consequamur ut a paucis! Externam quidem esse mentem putat Aristoteles eamque veluti peregre advenientem, ut sentire illum arbitror

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29. E quando Cicerone risponde ad Attico «Tirone ne ha come modello (instar) settanta», vuol significare altro che, non avendo presso di sé alcun esemplare della epistole da lui richieste, le epistole originali (così oggi non pochi le chiamano) e quelle che egli stesso aveva dettato dovevano essere conservate da Tirone e che da quegli esemplari doveva prender l’esempio come da archetipi? La stessa cosa dimostra lo stesso Cicerone più chiaramente scrivendo a Varrone: «Penso che certamente questi tuoi giorni trascorsi a Tuscolo sono pari (instar) a una vita»,88 come se dicesse: «Ritengo che il genere di vita di quei giorni che fosti a Tuscolo debbano essere per gli altri un modello esemplare della propria vita». Perciò sia exemplar sia exemplum pare che significhino instar, e lo conferma Virgilio quando dice: «Che grande modello (instar) è in lui».89 Gli autori più recenti, come Plinio secondo, sembrano usare questa stessa voce in modo diverso, e tuttavia non improprio, né brutto, come quando dice di Traiano: «ritenendo il cambiamento di lavoro un esempio (instar) di refrigerio».90 [Infatti anche in Cicerone si legge: «esempio di morte»],91 e così altrove: «si sarebbero potute vedere le braccia, gli arti, le membra tronche come esempio (instar) di vendetta». Così ancora: «il più grande beneficio si mutava nella più grave offesa, e la città di Roma era un esempio (instar) di discordia e di accecamento». 30. PODERICO. Ma io, Pietro Compatre, ti ho lasciato volentieri esprimere l’insofferenza per l’importuna meticolosità dei grammatici, e dilungarti un poco; tuttavia ogni diletto della parola deve evitare noia e affaticamento agli ascoltatori. Perciò Pardo torni a parlare dei sogni, in modo che, mescolando agli scherzi le cose serie, osserviamo con i nostri colloqui quel «punto» di cui parla Orazio,92 per rispetto di coloro che sono venuti a sedersi qui insieme a noi per assistere, e in modo che in seguito gli argomenti di grammatica siano quasi un refrigerio dopo gli argomenti più difficili che verranno nel discorso, e non la materia della conversazione. 31. PARDO. Mi richiami, come vedo, Poderico, all’argomento dei sogni, o piuttosto mi vi spingi o trascini. E temo veramente che mi induci a sognare stando sveglio se discuto di questo argomento con sovrabbondanza di particolari. Dirò tuttavia quello che penso e quello che può desiderarsi che venga approvato da parte di molti, ma volesse il cielo che riusciamo ad ottenere che venga approvato da pochi! Pensa Aristotele93 che vi sia una mente esterna e che essa venendo dal di fuori, come riten415

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in animos hominum illabi idemque animis praestare ipsis officium ad cogitandum pervestigandumque, denique ad iudicandum quod artificibus ipsis ad conficiendum destinatum opus praebeat dextera. Ac mea quidem sententia, perinde ut de luce per orbem a sole diffusa lumen oculis accenditur ad videndum atque discernendum ea quae oculis obiecta sunt (nam et lux externa, idest coelestis res est eque coelo a sole diffusa peregre ad nos advenit), sic a coeli ipsius siderumque commotionibus, per eam quae “sympathia” graece est, latine “contagionem” fecit Cicero (mihi magis placet appellare “contagem”, quando “contagio” in malam ac pestilentem hodie partem accipitur), sic, inquam, a coeli stellarumque agitatu perpetuo animis nostris mens, idest vis illa cogitandi tam acuta et solers tamque etiam sibi constans dono Dei infunditur. 32. Nec vero ea, quae nunc dico, accipi sic velim ut non et ipse de Deo deque animae immortalitate eiusque creatione ea sentiam, quae Christiani sint hominis et pii quidem hominis, sed disserentem de somniis par est quaedam tanquam somniantem afferre in medium. Neque vero oblitum te illorum arbitror, quae paulo a me ante dicta sunt de monitis persaepe sanctissimis illis patribus a Deo traditis inter dormiendum. Ne igitur a proposita re discedam longius, quae in somnis offeruntur simulacra et visa, ea partim a cupiditate, studio affectionibusque hominum maioribus excitantur, quod videmus etiam in canibus, et, ut Claudianus ait: Venator defessa toro cum membra reponit, Mens tamen ad silvas et sua lustra redit. Furto gaudet amans, permutat navita merces, Et vigil elapsas quaerit avarus opes; Blandaque largitur frustra sitientibus aegris Irriguus gelido pocula fonte liquor.

Est enim iocum hunc poeta ille luculentissime prosecutus; partim etiam a quadam tum colluvie humorum, tum malo ab habitu corporis, hique excitantur in corpore cum dormitur; unde etiam visa ac simulacra illa nonnisi conturbata videntur et persaepe terrent. 33. Multum quoque ad haec ipsa conferunt tempestates, sincerus ne sit an perturbatus aeris ipsius status, anni quoque partes, qualis est au-

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go che sia il suo pensiero, penetri negli animi umani e dia loro il compito di riflettere e di investigare, infine di giudicare, come la mano lo dà agli artisti di portare a termine l’opera stabilita. E a mio parere, come dalla luce diffusa nel mondo dal sole si accende negli occhi un lume per far vedere con discernimento ciò che si presenta agli occhi (infatti la luce è esterna, cioè celeste, e dal cielo è diffusa ad opera del sole venendo a noi dal di fuori), così dai movimenti del cielo stesso e delle stelle, mediante quella che in greco si dice «simpatia», in latino contagio -onis (a me piace di più chiamarla contages,94 poiché contagio oggi ha il senso negativo di «pestilenza»), così, dico, dal movimento del cielo e delle stelle continuamente nei nostri animi viene infusa per dono divino la mente, cioè quella facoltà di pensare così acuta e capace ed anche così coerente con se stessa. 32. Ma non voglio che quello ch’io dico ora sia preso nel senso che io non pensi di Dio e dell’immortalità dell’anima quello che è proprio di un cristiano e di un devoto, ma è giusto che discutendo dei sogni io metta in mezzo qualcosa quasi sognando. E non penso che ti sia dimenticato di quel che ho detto poco fa degli avvertimenti dati spesso ai santissimi padri da Dio durante il sonno. E per non allontanarmi troppo dal proposito, le figure e le visioni che si presentano in sogno in parte sono provocate dalla passione, dal desiderio e dagli affetti più forti degli uomini, come vediamo anche nei cani, e, come dice Claudiano: Allor che il cacciatore le membra sue stanche ripone sul letto, va alle selve e alle paludi la mente. Gode del furto l’amante, scambia le merci il nocchiero e vigile l’avaro l’oro perduto cerca, e dolci a quei che han sete invano largisce bicchieri da una gelida fonte l’acqua che i campi irriga.95

Il poeta ha sviluppato splendidamente questo motivo; in parte le figure e le visioni sono provocate anche da un complesso di umori e dalla condizione del corpo, e questi si producono nel corpo mentre si dorme; per cui avviene anche che le immagini non si vedano se non sconvolte e spesso fanno paura. 33. Molti caratteri inoltre conferiscono ad esse le circostanze, se l’atmosfera è limpida o turbata, anche la stagione, come l’autunno per l’in417

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tumnus propter inconstantiam ac varietatem, ut in somnis quidem contingant ob has ipsas causas pleraque omnia quae nostrorum sunt sensuum, cum et vigilant et exercentur; quippe cum dormientes videmur etiam coenare, potare, Veneris rebus uti, ridere, laetari, timere, lacrimari, sequi, fugere, audere, demum quae vegetantis quaeque sentientis sunt animae pleraque inter dormiendum ipsis in visis accidere, ut haec ipsa fere sine sympathia illa coelesti fiant. At quomodo, inquam, fìent, quomodo absque siderum contage et coeli visiones illae divinae quidem ac sanctitatis plenae futurorumque cognitionis atque, ut Christiani dicimus, arcanorum mysteriorum? Quemadmodum igitur mens illa coelitus sibyllis offertur vatibusque praeclarissimis, per quam remotissimas quoque res nihilque ad se spectantes, ne cogitatas quidem prius nec concupitas vates ipsi et praedicunt et praevident, eundem ad modum coelitus visiones illae offeruntur dormientibus, iis quidem ut nullis occupatis aut curis aut cogitationibus, ipsis vero sensibus ita liberis ac vacuis, ut nihil utique humanum eis inesse videatur; sicuti recte quidem a poetis describitur furor ipse vaticinantium, qui, quod praeter humanos fiat sensus, furor est appellatus. 34. Qui igitur in vatibus furor est, in dormientibus caret nomine; pie tamen magis quam proprie a bonis quibusdam viris tum visitatio tum apparitio divina dicitur, quasi Deus in somnis illos inviserit aut numen iis aliquod apparuerit quiescentibus; quo factum est ut monita ipsa, perinde ac divino ex “ore” prolata, quidam appellarint “oracula”. Ut autem non omnibus, sed perquam paucis divini illius spiritus concessa est familiaritas visque ad vaticinandum, sic non multis est attributa somniandi veritas, vel, ut rectius loquar, sanctitas atque castitudo. 35. Quam paucisssimi vel rarissimi potius existunt poetae, quorum ingenii etiam vis e coelo manare credita est! quibus itaque divinis cum visionibus haec inest familiaritas, et tanquam hospitii ius, et illa quoque eisdem inest a coelo informatio accipiendis apta visis, quae de coelo per contagem illabuntur. Qua de re ab illis qui sideralis scientiae quae Astrologia graece dicitur studiosi sunt permulta traduntur, quae nos ad illorum hac in parte disciplinam relegamus. Te ipsum equidem, Paule Prassici, dicentem audivi saepius multum hanc ad rem conferre tum Veneris stellam, tum Iovis, maxime autem Veneris, qualem scilicet ea sese in genitura habuerit, praesertim adversus signum illud, qualeque

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costanza e la varietà, sicché nel sonno avvengono per queste cause la maggior parte di quelle cose che riguardano i nostri sensi quando sono svegli e in attività. Poiché dormendo ci sembra anche di cenare, bere, fare all’amore, ridere, allietarci, inseguire, fuggire, aver voglia di fare insomma quelle cose che sono proprie dell’anima vegetativa e sensitiva, e durante il sonno accadono la maggior parte delle cose in forma visiva,96 tanto che quasi senza quella «simpatia» celeste ciò si verifica. Ma come, dico, si verificheranno, come senza influsso delle stelle dei cieli quelle visioni divine e piene di santità e di cognizioni future e (come diciamo noi Cristiani) di arcani misteri? Come dunque è data alle sibille e ai vati famosi dal cielo quella mente per la quale i vati predicono e prevedono cose anche lontanissime che non riguardano per niente loro, che essi non hanno nemmeno pensato né desiderato prima, allo stesso modo quelle visioni sono offerte dal cielo a chi dorme, anche se uno non è occupato da preoccupazioni e pensieri, anche se i sensi sono liberi e a riposo, sì che nulla sembra esservi di umano; così è descritto, ed è ben descritto dai poeti il furore dei vaticinatori, che è chiamato furore perché si verifica al di fuori dei sensi umani. 34. Quello che nei vati è chiamato furore, dunque, in chi dorme non ha nome; religiosamente tuttavia, più che con proprietà, da alcuni uomini devoti è chiamata sia visitazione sia apparizione divina, quasi che Dio li abbia visitati nel sogno o un nume li abbia visitati mentre riposavano; da ciò è derivato che gli stessi avvertimenti, come fossero pronunciati dalla bocca (os -oris), alcuni li hanno chiamati «oracoli». E poiché non a tutti, ma a pochissimi sono concesse la familiarità di quello spirito divino e la facoltà di vaticinare, così non è attribuita a molti la verità, o, per dirla più correttamente, la santità e la virtù di far questi sogni. 35. Come son pochi e rari i poeti, la cui potenza d’ingegno si crede discendere dal cielo! in essi vi è tale familiarità con le visioni divine, quasi un diritto di ospitalità, e vi è anche, proveniente dal cielo, una qualità che li rende capaci di ricevere le visioni che per influsso scendono dal cielo. Per la qual cosa da coloro che si applicano alla scienza astrale chiamata dai Greci Astrologia vengono riferite molte cose che rimandiamo al loro insegnamento che riguarda questa parte. Veramente ho udito te, Paolo Prassicio, dire che a determinare ciò molto contribuiscono la stella di Venere, quella di Giove, ma molto di più quella di Venere, naturalmente se la si ha nelle genitura, specialmente se quel segno lo si ha di 419

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signum illud fuerit, quod nonum tunc coeli locum tenuerit aut primum, cum quis in lucem venit. Inter signa vero omnia, cui Virgo nomen est inditum, illud esse divinationi huic quam accommodatissimum; quippe quod eam in constituendo corpore retineat temperationem fermentandis humoribus, qualem fermentationem esse oporteat fabricae illius, quae simulacrorum huiusmodi familiaris futura sit atque hospita. Omnino autem fermentatio illa corporis quae bilis atrae secum habet permultum rei huic est perquam apposita, de cuius natura quaedam etiam admiranda traduntur ab Aristotele. 36. Ea enim ipsa terrenam ob qualitatem, quod atro in vino apparet, ubi concaluit iam, spumam quandam huberiorem excitat, de cuius excitatione spiritus et quidem vehementiores gignuntur. Atqui spiritus quidem ipse aerius cum sit (nam qui graeco nomine est aer, latino dicitur spiritus), efficitur ut, quemadmodum per aerem a natura ipsa visus, qui oculorum est sensus, exercetur, et qui aurium est auditus, item et olfatus, eundem ad modum contages ipsa coelestis supernaque illa affectio per aerem perque spiritus illos tantopere suscitatos sese insinuans exercet mentem in vaticinantibus, plus tamen minusve pro natura fermentationis ipsius eiusque temperatione; quod item efficitur in dormientibus, pro fermentationis eiusdem ratione et habitu corporisque illorum concretione. Itaque neque Augustinus, summa tum doctrina tum etiam sanctitate vir, neque doctissimi e nostris theologi, neque e philosophis Stoici acutissimi iidemque disputaces homines (utar enim novo hoc nomine, quando eiusmodi Academia quidem fuit) somnia visionesque probare dubitaverunt quaeque in somnis traduntur monita; quae quidem etiam sunt qui vocaverint oracula, neque defuere qui arbitrati sint prophetarum pleraque per somnia eis et oracula divinitus demonstrata; et Syllam, felicissimum tum civem tum imperatorem, consulenti Lucullo in re militari quid servaturus esset potissimum, somnia cum primis animadvertenda respondisse [boni auctores tradunt]. 37. Haec igitur, Puderice, sive suasus a te sive compulsus, quando et Sincero satis iri factum intelligebam, de somniis dixi; abstinebo a pluribus, ne, quod paulo ante dixi, vel vigilans videar somniare. Quodque poetica vis vaticinantium habetur persimilis, unde poetae et ipsi vates

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AZIO, II

fronte, e se sia stato quel segno del cielo a tenere il nono o il primo posto del cielo quando uno è venuto alla luce. Tra tutti i segni, quello cui è stato dato il nome della Vergine è il più propizio alla divinazione, perché nella formazione del corpo conserva una temperanza di fermentazione degli umori, e tale fermentazione è necessaria alla costituzione destinata a divenire familiare e ospitale a immagini di questo genere. Ma è molto adatta a produrre questo fenomeno quella fermentazione del corpo che è accompagnata dall’umor nero, sulla cui natura sono esposte da Aristotele molte cose meravigliose.97 36. Esso, infatti, per la qualità terrena, poiché appare nel vino nero, non appena si riscalda, produce una spuma abbondante, da cui si sprigiona uno spirito quanto mai violento. Eppure succede che lo spirito, essendo composto di aria (quello che in greco ha il nome di aer in latino si dice spiritus), allo stesso modo che per la loro stessa natura succede nell’aria alla vista, che è il senso degli occhi, e all’udito che è il senso delle orecchie, oppure all’olfatto, proprio a quel modo quell’influsso celeste e quella superiore disposizione, insinuandosi nell’aria e mediante quegli spiriti tanto eccitati, mette in moto la mente nei vaticini, più o meno a seconda della natura della fermentazione e della costituzione fisica; la stessa cosa accade a quelli che dormono a seconda della misura e del modo della stessa fermentazione e a seconda della condensazione del loro corpo. Pertanto né Agostino, uomo di eccelsa dottrina e santità, né i più dotti dei nostri teologi, né i più acuti dei filosofi stoici, e gli stessi maestri di dispute (userò la nuova denominazione di disputaces, perché tale fu l’Accademia) hanno avuto dubbi nell’approvare sogni, visioni ed eventi che nei sogni vengono dati;98 vi sono anche di quelli che li chiamano oracoli, né son mancati quelli che hanno ritenuto che la maggior parte delle rivelazioni dei profeti siano state manifestate nei sogni e oracoli divini; e [i buoni autori riferiscono] che Silla, fortunatissimo e come cittadino e come generale, a Lucullo che gli chiedeva che cosa bisognasse tener presente più di tutto nell’arte militare, rispose che anzitutto ai sogni bisognava prestare attenzione.99 37. Ho detto queste cose sui sogni dunque, Poderico, non saprei dire se persuaso o spinto da te, dal momento che capivo di soddisfare anche un desiderio di Sincero; mi asterrò dal dirne di più, ad evitare quel che ho detto prima, cioè di sembrar ch’io sogni ad occhi aperti. E poiché la facoltà poetica è ritenuta molto simile a quella dei vaticinatori, per cui i 421

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dicuntur, Sinceri ipsius, poeticae quam studiosissimi vel poetae potius et quidem elegantissimi, officium neque indignum fuerit neque ingratum, si et ipse consessu in hoc de poetis afferet in medium aliquid, quo consessores hos dormitantis iam avocet a somno, quando loquens ipse de iis, quae inter dormiendum offeruntnr, somnum iam videor audientibus provocasse. Quam ad rem locus ipse non minus quam oratio haec mea adhortari te debet, Sincere Acti, quem et Panhormita olim Antonius, dum viveret, et senex nunc hic noster dignum uterque vel iudicavere vel fecere ipsi potius, in quo de omni disciplinarum genere disputaretur a doctis viris, qui non minus libenter quam ad eum saepe conveniunt. 38. ACTIUS. Et exuscitasti nos, Parde, a somno, dum de somniorum natura et causis argute non magis quam vere disseris, et nunc me ad dicendum excitas deque iis praesertim studiis quae, quod pace dictum sit vestra, quanquam fateor esse communia, tamen, quod in iis ita laboravi hactenus diesque laboro ac noctis sumque sedulo laboraturus, si mea ea dixerim, videar iure ipso dixisse. Est tamen haec ipsa res maioris ocii curaeque vigilantioris, disserere de poeticae excellentia; quo utar autem hoc verbo senis nostri auctoritas efficit, quem finientem saepius audivi poetae sive officium sive finem esse dicere apposite ad admirationem. Nihil autem nisi excellens admodum parit admirationem. Quod nisi tanta illa moveret Aristotelis me maiestas, vel ausim abdicare a mediocritate poetam, quae tamen in hoc ipso alio quodam modo et requirenda est et laudanda. Quodque admiratio ipsa multis ac maximis comparatur virtutibus, quibus explicandis haud est satis idoneum nunc tempus, cum sit res ipsa multiplex ac laboriosa admodum multaeque animi pensionis, ne non Pardo tamen vel petenti vel iubenti morem geram, eius attingam vel magis seligam eam partem quae tota versatur in numeris, etsi numeri sunt ipsi e verbis quae versum constituunt, quibus inter nostros quidem eminere videtur Virgilius. 39. Numerus autem ipse cumprimis et movet et delectat et admirationem gignit. Eius autem prima illa laus est quod varietatem parit, cuius natura ipsa videtur fuisse vel imprimis studiosa. Quid enim vel inertius vel, ut ita dixerim, oscitantius quam eodem semper sono ac tenore syllabas et verba compangere? Quo vitio e posterioribus poetis sunt qui laboraverint; quae res non minus modo illos reddidit admirabiles, verum

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poeti sono detti anche vati, non sarà un compito né indegno né sgradito quello di Sincero, studiosissimo della poetica, anzi egli stesso poeta elegantissimo, se anch’egli in questo consesso porti qualcosa parlando dei poeti, per richiamare dal sonno chi è qui seduto e sonnecchia, poiché mi sembra di aver provocato il sonno agli ascoltatori parlando di ciò che ci appare durante il sonno. Perciò non meno che questo mio discorso ti deve esortare, Azio Sincero, lo stesso luogo, che un tempo Antonio Panormita, quando viveva, e ora questo nostro vecchio,100 entrambi hanno indicato e hanno reso degno di celebrarvi ogni genere di disputa da parte dei dotti che non meno volentieri che spesso vi convengono. 38. AZIO. Ci hai svegliati, Pardo, dal sonno discutendo sulla natura e sulle cause dei sogni con non minore intelligenza che veridicità, ed ora mi spingi a parlare in particolare di quegli studi che, sia detto con vostra pace, sebbene io confessi che sono comuni, tuttavia, poiché mi vi sono affaticato finora e giorno e notte mi vi affatico e mi vi affaticherò con costanza, se li dicessi miei, sembrerebbe di averlo detto a ragione. Ma questo argomento, discutere dell’eccellenza dei poeti, comporta una distensione maggiore e una più vigile attenzione; e che io usi questa parola, «eccellenza», lo si deve all’autorità del nostro vecchio, al quale ho spesso udito dire la definizione che è ufficio e fine del poeta esprimersi in modo da produrre la meraviglia; e nulla se non ciò che è molto eccellente produce la meraviglia. Che se non mi muovesse la grande autorità di Aristotele, oserei perfino escludere il poeta dalla mediocrità, la quale tuttavia in un certo altro senso deve essere richiesta e lodata. E poiché la meraviglia si procaccia con molti e grandissimi pregi, che non c’è tempo ora, né è il momento di esporli tutti, essendo l’argomento stesso complesso e molto impegnativo e richiedendo una profonda riflessione, per accontentare tuttavia Pardo che me lo chiede e me lo impone, toccherò o piuttosto sceglierò una parte, quella parte che riguarda interamente il ritmo, sebbene anche il ritmo appartenga alle parole che costituiscono il verso, nelle quali fra i nostri sembra primeggiare Virgilio. 39. Il ritmo dunque anzitutto diletta e fa nascere l’ammirazione. Il suo primo pregio è quello di produrre la varietà, cui la natura sembra aver dedicato primaria attenzione. Che c’è, infatti, di più squallido o, per così dire, di più capace di far sbadigliare101 che mettere insieme sillabe e parole sempre dello stesso suono e dello stesso tenore? Da questo difetto ci sono poeti più tardi che sono stati affetti; questo non solo non li ha 423

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etiam longe minus graves, siquidem ipsis e numeris, tum collidendis vocalibus tum substinendo ac remorando sono, aut contra vocibus syllabisque praeproperandis, comparatur etiam dicendi quaedam tum gravitas tum ea quae dignitas suo est nomine; quanquam harum utraque artibus etiam aliis comparatur, hae autem admirationis ipsius praecipuae quidem sunt nunc comites nunc vero et duces. Quae res quoniam exemplo quam dictione fit manifestior, sumam principio ex ipso Aeneidos versum illum: Multum ille et terris iactatus et alto.

Plenus hic quidem est versus, sonorus, gravis, numerosus; quae laus tota existit de collisione vocalium statim repercussa eaque ingeminata. Quod si dictionem eam subtrahas, quae est “ille”, ac dicas «multumque et terris iactatus et alto», mirum est quantum de versus ipsius dignitate, gravitate, magnitudine detrahatur. Quod quidem ipsum fit etiam ob accentus unius detractionem. Etenim pars ea, quae est “multumque”, unum tantum secum adducit accentum eumque subinclinatum, at «multum ille» duos, quos utique collisio ipsa et coniungit simul ambos et eos efficit tum pleniores tum etiam magis sonoros. 40. Videamus et alium, qui est: Multa quoque et bello passus, dum conderet urbem.

Qui si dicas: «multa etiam bello passus», tumet intelliges quanta fiat sonoritatis imminutio et quidam quasi langor ob soni ipsius exilitatem, quam dictio illa “quoque” non solum exterminat, verum ipsum et auget et implet sonum; quem nequaquam etiam implesset si dixisset: «multa quidem et bello passus»; nam paulo ante cum dixisset «multum ille», in ea quae statim sequebatur copulatione non erat a numeri plenitudine corruendum; dixit igitur «multa quoque»; nam tum “etiam” tum “quidem” sonum faciunt satis exilem, contra dictio “quoque” implet eum. Quocirca vel exquisitissime exigitur in poeta literarum delectus ac selectio. Habet autem versus tot accentus quot et verba, etsi particula “que” et “ve” non faciunt ipsae per se accentum, sed illum ad se trahunt praecedentibus a syllabis, qua e re a grammaticis dictae sunt inclinativae. Quo fit ut quatuor haec verba, «multa quoque et bello», quatuor etiam 424

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resi meravigliosi, ma li ha resi anzi molto meno gravi, se è vero che con il ritmo, ora accostando vocali, ora sollevando e frenando il suono, o invece affrettando le voci e le sillabe, si ottiene anche sia una certa gravità, sia quella che con un nome appropriato si chiama dignità; sebbene entrambe si ottengano anche con altre arti, queste sono della meraviglia compagne e guide principali. E poiché con l’esempio, più che con le parole, il concetto può essere più chiaro, assumerò quel verso famoso dell’inizio dell’Eneide: […] multum ille et terris iactatus et alto.102

Questo verso è pieno, sonoro, grave, molto ritmico; questo pregio deriva tutto dallo scontro103 delle vocali, che immediatamente si ripercuotono e si raddoppiano. Che se gli togliessi la parola ille e dicessi multumque et terris iactatus et alto, c’è da meravigliarsi di quanto il verso perderebbe in dignità, gravità, grandezza. Lo stesso avviene anche per la sottrazione di un accento. E infatti quella parte costituita da multumque ha un solo accento e per giunta un po’ sommesso, ma multum ille ne ha due, che comunque lo scontro congiunge e rende più pieni e anche più sonori. 40. Vediamone un altro, quale: Multa quoque et bello passus, dum conderet urbem.104

Che se dicessi multa etiam bello passus, capirai da te stesso quanto diminuisca la sonorità e intervenga quasi un languore per l’esilità del suono, perché non solo quella voce quoque fa evitare questa esilità, ma aumenta e riempie proprio il suono; né lo riempirebbe dicendo multa quidem et bello passus; avendo detto infatti poco prima multum ille, nella congiunzione che veniva dopo non doveva scadere la pienezza del ritmo; disse dunque multa quoque, perché sia etiam, sia quidem danno un suono troppo esile, mentre la voce quoque lo rende pieno. Perciò la scelta che si richiede al poeta è perfino raffinatissima. Ha infatti il verso tanti accenti quante sono le parole, tranne le particelle que e ve, che non sono di per sé accentate, ma prendono l’accento dalle sillabe precedenti, per cui dai grammatici sono dette «enclitiche».105 Di qui deriva che le quattro parole multa quoque et bello hanno anche quattro accenti, mentre multo etiam 425

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accentus habeant, at «multa etiam bello» tris tantum; nam praeterquam quod sonant tenuiter, uno etiam superantur accentu. Hanc ipsam autem soni ac literae plenitudinem haud multo post, quod locus ipse ab illa esset alienus, Virgilius reiecit, solertissimarum aurium solertissimus subblanditor, dicens: «tot adire labores». Qui si “obire” dixisset, in asperitatem quasi quandam et confragosum incidisset sonum, coniungens statim “tot” et “ob”, cum alibi, quod extollenda vox esset, dixerit: Et lituo pugnas insignis obibat et hasta;

tenuitas enim antecedentis syllabae suffragio egere subsequentis videbatur. Sed omittamus nunc quae tum ad literas spectant, tum ad syllabas. 41. Quid causae fuit, quid, inquam, causae cur exponere se Virgilius maledicentiae grammaticorum voluerit cum dicere «fluviorum rex Eridanus» maluit, quam «Eridanus fluviorum rex», quod per versum licebat? An quod aurium pluris faceret voluptatem quam tetricum literatorum iudicium? Languet enim sic versus sordescitque in ore quodammodo, consideratis praesertim et quae statim praecedunt et quae post sequuntur dictionibus. Quocirca implere illum maluit artificiosa verborum commutatione. At videte quam concinne inter dictiones, quae ambae quatuor constarent e syllabis, interiecit rex, quae est unius, quippe quae post collocata et structurae ineptitudinem argueret et sonoritatem illam tam suavem auribus ipsis invideret. Hac igitur e commutatione versus ipse redditus est spectabilis, qui aliter ridiculus esset atque abiiciendus. 42. Claudit saepenumero Virgilius plures versus sustinendo sonum illumque remoratur, ne ipsa aut deliqueat sonoritas aut praecipitetur. At videte, obsecro, quam apposite, quam studiose praestruit tribus e dictionibus versum iisque dyssyllabicis et tanquam prima in acie spondeum collocat, solutum quidem ac liberum, indeque, praeterita secunda, alterum atque alterum in tertia et quarta acie. Inter primum autem spondeum ac secundum unum quidem secunda in acie statuit dactylum, et ait: Tantae molis erat Romanam condere gentem,

et alibi:

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bello ne ha solo tre. Perciò oltre al fatto che il loro suono è più tenue, hanno anche un accento di meno. Ma non molto dopo lo stesso Virgilio, che è raffinato nel blandire il più raffinato udito, respinge questa stessa pienezza del suono e della lettera, poiché era il tema a non ammetterla, dicendo tot adire labores. Che se avesse detto obire sarebbe caduto in un’asprezza e quasi in un suono rumoroso, per l’immediata vicinanza di tot e ob, mentre altrove, dovendosi sollevare il tono, aveva detto: Et lituo pugnas insignis obibat et hasta.106

Infatti il tono tenue della sillaba precedente sembrava aver bisogno del sostegno di quella successiva. Ma mettiamo da parte ora quel che riguarda le lettere e le sillabe. 41. Quale fu la ragione per cui, quale fu, dico la ragione per cui si volle esporre alla maldicenza dei grammatici dicendo fluviorum rex Eridanus107 piuttiosto che Eridanus fluviorum rex, che era ammesso dal verso? Non doveva considerare più il piacere dell’udito che il rigido giudizio dei pedanti? Infatti il verso talora languisce e risulta squallido quando è recitato, specialmente se si considerano le parole precedenti e quelle successive. Perciò ha preferito farlo pieno con una inversione verbale fatta ad arte. Ma vedete con quanta armonia fra parole entrambe costituite di quattro sillabe ha introdotto rex, che ha una sola sillaba, giacché collocata dopo avrebbe messo in luce l’inadeguatezza della sua composizione e avrebbe tolto una sonorità così gradevole. Con questa inversione si è reso ragguardevole un verso che altrimenti sarebbe stato ridicolo e spregevole. 42. Molto spesso Virgilio conclude più versi sollevando il tono e lo rallenta, per evitare che la sonorità si dilegui e vada giù. Ma vedete, vi prego, con quanta raffinatezza ha strutturato il verso con tre parole tutte e tre bisillabiche108 e come ha collocato uno spondeo si direbbe in prima fila, sciolto e libero, e poi, saltando la seconda sede, un altro e un altro ancora nella terza e quarta. Fra il primo e il secondo spondeo ha collocato in seconda fila un dattilo, dicendo: Tantae molis erat Romanam condere gentem,109

e altrove: 427

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Siqua fata sinant, iam tum tenditque fovetque.

At si invertas «molis erat tantae» et «fata sinant siqua», omnis illa vocalitas iam exhalat; quod Virgilius ut prohibeat, solutum ab omni connexione spondeum in principio collocat; ut alio in loco, cum ait «curru iungit Alesus equos», potuisset cum dicere «iungit Alesus equos curru», numeris tamen maluit auribusque consulere. Dilabi enim videtur sonus et pene fugere cum dicit «iungit Alesus equos», tali praesertim in loco; apparet enim elegiacus semiversus; contra vero consistit vox et sibi ipsi praesidio est, ne, ut dixi, exhalet ac diffluat cum dicitur «curru iungit Alesus equos». 43. An se ipsum auresque ignoravit suas Virgilius cum dixit Bina manu lato crispans hastilia ferro?

Cum enim hac in structura singulisque in dictionibus dyssyllabis primas ad syllabas statuatur accentus, quadrato quasi agmine (quaterni namque accentus e quaternis illis dyssyllabis dictionibus in aeiem simul prodeunt) quaterni simul accentus eodem spatio consonant. At nihil generosum habuerit, nihil selectum, si protuleris: «Ferrea cum valida crispans hastilia dextra», plebeiusque hic versus fuerit, ille vero maronianus. Et cum alibi dixit «Contra tela furit», an non poterat: «Tela furit contra»? sed noluit esse in accinendo praeproperus. Sic cum dixit: «Turno tempus erit» et «Parcae fi la legunt». 44. Possem hac in parte excitare e somno aliquos, qui dormitare mihi visi sunt in hoc ipso genere numerorum, a quo quidem consilio longe ipse sum alienus. Sat mihi fuerit, dum Pardo vobisque qui hic adestis morem gero, explicare paucis quae sentiam quaeque a me studio quodam virgilianae diligentiae fuere observata. Claudit pene iisdem numeris constructionem illam Valerius Catullus: Cum lecti iuvenes, Argivae robora pubis, Auratam optantes Colchis avertere pellem, Ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi, Coerula verrentes abiegnis aequora palmis.

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Siqua fata sinant, iam tum tenditque fovetque.110

Ma se si invertisse molis erat tantae e fata sinant siqua, tutta quella sonorità svanirebbe; per evitare la qual cosa Virgilio colloca all’inizio uno spondeo sciolto da ogni connessione; così in un altro luogo, quando dice curru iungit Alesus equos,111 mentre avrebbe potuto dire Iungit Alesus equos, e tuttavia ha preferito pensare al ritmo e all’effetto sonoro. Infatti il suono sembra dileguarsi e quasi sparire quando dice Iungit Alesus equos, specialmente in un tale luogo, perché appare un emistichio elegiaco; al contrario la voce si ferma e si arrocca, ad evitare che sfumi e si dissolva quando dice curru iungit Alesus equos. 43. Vi pare che Virgilio, quando disse Bina manu lato crispans hastilia ferro,112

abbia dimenticato se stesso e il suo senso armonico? Poiché in questa struttura l’accento si poggia sulla prima sillaba delle parole bisillabiche, sono quattro gli accenti che in un medesimo spazio risuonano, come in una schiera (e infatti quattro accenti avanzano insieme all’attacco da quattro parole bisillabiche). Ma non si avrà nessun pregio se dirai senza pensare bene ferrea cum valida crispans hastilia dextra […], e questo verso sarà plebeo, quello propriamente «virgiliano». E quando altrove disse contra tela furit [infuria contro i dardi]113 non avrebbe potuto dire tela furit contra? Ma non volle essere nell’accentuazione troppo precipitoso. Così quando disse Turno tempus erit e Parcae fila legunt.114 44. Potrei, a questo punto, svegliare dal sonno chi mi è sembrato dormicchiare durante la trattazione del ritmo, ma sono molto alieno dal farlo. Mi basterà, mentre faccio quel che desiderate voi qui presenti, spiegare in breve quel che penso e che ho osservato in una certa indagine sulla raffinatezza virgiliana. Valerio Catullo conclude quasi con lo stesso ritmo quella famosa composizione: Cum lecti iuvenes, Argivae robora pubis, Auratam optantes Colchis avertere pellem, Ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi, Coerula verrentes abiegnis aequora palmis.115

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Sane quam ridiculum videatur ac despicabile si narrare incipias: «Ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi / cum lecti iuvenes». Ac nihilominus Virgilius et ipso duce tamen dactylo (tanta est in numero ipso vis) incipit explicationem illam coniunctis statim quinque vocibus iisque dyssyllabis: Larga quidem semper, Drance, tibi copia fandi,

etsi alibi incipit a spondeo, ut Salve, sancte parens, iterum salvete recepti.

45. Adeo ubique consulendae sunt aures. An forte, quod a convicio exordiretur, remorari vocem magis ac magis numeris illis quinquies eodem tenore et spatio ingruentibus voluit? Quod mihi quidem satis sit probabile. An non idem ipse duce quidem dactylo a crebritate eadem numerorum coepit in enarratione illa tam eximii apparatus? Primus init bellum Tyrrhenis asper ab oris Contemptor divum Mezentius agminaque armat.

Quo in loco rem ipsam ut magnam, ut horribilem futuram quo adaequaret numeris, talique principio finis quoque ut consonaret, intulit «agminaque armat»; parum namque consumatissimis aurium eius sensibus visum est, si conclusisset «agmen et armat» aut «agmina cogens». Itaque ab ipsis extulit pulmonibus «agminaque armat». Vide igitur quid collisio faciat suo in loco adbibita, quid artificiosus assultus contundentium sese vocalium? Numerus igitur alibi sedatus esse debet, perinde ut oratio, ut verba e quibus oratio ipsa constat, quales sunt narrationes eae in quibus non exigitur vel magnificentia verborum vel pondus sententiarum, sed paratur tantum audientium attentio, ut rhetores praecipiunt, qualis est illa: Conticuere omnes intentique ora tenebant. Inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: Infandum, regina, iubes renovare dolorem;

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Come apparirebbe ridicolo e spregevole se cominciassi a narrare così: Ausi sunt vada salsa cita decurrere puppi / cum lecti iuvenes. E nondimeno perfino Virgilio, iniziando tuttavia con un dattilo (tanta è la potenza del ritmo) comincia il discorso mettendo subito insieme cinque parole, tutte bisillabiche: Larga quidem semper, Drance, tibi gloria fandi,116

anche se altrove comincia da uno spondeo, così: Salve, sancte parens, iterum salvete recepti.117

45. A tal punto va tenuto conto dell’orecchio. O per caso, cominciando da un rimprovero, volle frenare la voce ancora di più con quelle cadenze che avanzavano per cinque volte con lo stesso tenore e alla stessa distanza? Cosa che per me sarebbe abbastanza probabile. E non cominciò, collocando all’inizio un dattilo, con la stessa frequenza ritmica nella enumerazione così famosa della sfilata? Primus init bellum Tyrrhenis asper ab oris contemptor divum Mezentius agminaque armat.118

In questo luogo per adeguare al ritmo il contenuto che sarebbe dovuto risultare abnorme, orribile, e per fare in modo che anche la fine avesse lo stesso tono del principio, introdusse agminaque armat; toppo poco sarebbe parso infatti alla sua raffinatissima sensibilità se avesse concluso con agmina et armat o con agmina cogens. Perciò dai suoi polmoni fece uscire agminaque armat. Vedi dunque che effetto fa la collisio adoperata a suo luogo, che effetto fa l’urto artisticamente prodotto di vocali che si scontrano? Il ritmo altrove deve essere tranquillo, come il discorso, come le parole di cui consta il discorso, quali le narrazioni nelle quali non si richiede la magnificenza verbale o la gravità della frase, ma si cerca di ottenere soltanto l’attenzione degli ascoltatori, secondo la prescrizione dei retori; un esempio è questo: Tacquero tutti e tutti tenevano attenti lo sguardo. Quindi così dall’alto del triclinio iniziò il padre Enea: indicibil dolore mi fai rinnovare, o regina.119 431

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fluunt verba, labitur oratio, nihil confragosum, nihil caesum aut ex arte ut videatur collisum habens. Quid explicatione illa mundius? Sic fatur lacrimans, classique immittit habenas, Et tandem Euboicis Cumarum allabitur oris.

Quid alia illa sedatius? At regina gravi iam dudum saucia cura Vulnus alit venis et caeco carpitur igni.

46. Fluunt itaque numeri ipsi, quibus nihil profecto lenius, ut nulla videatur ars adhibita, nulla ipsi appareant cura temperati. At surrigendum supercilium cum fuerit et magno tonandum ore, numeri ipsi conferti, tanquam conserta in pugna milites esse debent, atque ubi est opus, ut et ipsi quoque horrorem incutiant; quin et literae et syllabae vastiores conquirendae sunt, nonnunquam etiam asperiores aut hiulcae. Age, quaeso, quid tibi hac ipsa de exaggeratione videtur? […] Iam Deiphobi dedit ampla ruinam Vulcano superante domus, iam proximus ardet Ucalegon, Sigea igni freta lata relucent. Exoritur clamorque virum clangorque tubarum.

Quae verborum, quae tum literarum tum syllabarum selectio, “clamor”, “clangor”, “virum”, “tubarum”, qui accentus pene quaterni tam accommodati, “Sigea”, “igni”, “freta”, “lata”! Quid ille qui e vestigio sequitur duarum dictionum ab eadem litera incipientium convocalis sonus «Arma amens capio»? An est, Parde, quod aures ultra exigant tuae? Sed adhuc adverte, quaeso, admirabilem in iis verborum conquisitionem: voces illae ambae dyssyllabae “clamor” et “clangor” a syllabis incipiunt rigidioribus, desinunt in horridis; illae alterae “virum” et “tubarum”, quae copulationem finiunt, in syllabis desinunt subobscuris, obscuritas vero omnis horrorem incutit; quod idem poeta servavit in illa tempestate, cum dixit:

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Fluiscono le parole, il discorso scorre, non potresti trovarci nulla di risonante, nulla di rotto ad arte, da sembrare spezzato. Che c’è di più limpido di quella descrizione? Parla così lacrimando e alla flotta allenta le briglie, e finalmente approda di Cuma alle euboiche rive.120

Che c’è di più tranquillo di quell’altra? Ma la regina assalita da grave affanno da tempo la ferita alimenta nelle vene e da un fuoco è rapita.121

46. Fluisce il ritmo, di cui certamente non c’è nulla di più leggero, tanto che sembrerebbe che non sia stata adoperata arte alcuna, ed esso potrebbe apparir modellato senza cura alcuna. Ma quando si avrà bisogno di sollevare il cipiglio e di tuonare a gran voce, il ritmo sia serrato, come dev’essere l’ordine dei soldati nell’attaccar battaglia, e quando è necessario, per incutere anche l’orrore essi stessi; e anzi bisogna ricercare lettere e sillabe piuttosto forti, talora anche piuttosto dure o aspre. Su, ti prego, dimmi che cosa ti sembra di questo affastellamento: […] Di Deifobo ormai la magione crollò, Vulcan l’assale, Ucalegonte vicino brucia, l’onde sigee vaste rilucono al fuoco, un clamor dalla gente, dalle trombe si leva un frastuono.122

Che scelta verbale, che scelta di lettere e di sillabe, clamor, clangor, virum, tubarum, che bella collocazione di accenti in gruppi di quattro, Sigea, igni, freta, lata! E che dire della sonorità, che segue subito dopo, di due parole che cominciano dalla stessa lettera: Arma amens capio?123 C’è forse, Pardo, qualcosa di più che richieda il tuo orecchio? Ma sta attento ancora, ti prego, alla meravigliosa scelta verbale che vi si trova; quelle due voci bisillabiche, clamor e clangor, cominciano con sillabe piuttosto dure, e finiscono con sillabe dal suono orrido; le altre due, virum e tubarum, con la cui coppia termina la serie, finiscono con sillabe oscure, ed ogni oscurità per certo incute orrore; e il poeta cercò di ottenerlo in quel punto, quando disse: 433

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ACTIUS, II

[…] clamorque virum stridorque rudentum;

quo in versu singulae dictiones versum constituentes literam habent asperam, qua multiplicata horror quasi quidam gignitur loco illi debitus. Ipsae quoque inclinativae particulae, dum accentus ad se rapiunt, horrori etiam ipsi non parum adiungunt: «clamorque», «stridorque». 47. Quando autem properare numerus debeat et quomodo properatio ipsa fiat, docet versus ille: Atque levem stipulam crepitantibus urere flammis;

cupiens enim poeta artificiosissimus flammarum concremationisque illius celeritatem numeris suis reddere, versum e dactylis struxit coegitque dictiones celeritati perquam accommodatas. Quid quod ut strepitum quoque accensarum referret stipularum, selegit etiam syllabas interstrepentes, quales sunt primae “stipulae” et “crepitantis”, nulla arcessita collisione aut adhibita inclinativa particula? Rursus qua via sistendum sit et tanquam standum in acie, habent rei huius instar insequentes versus: Stabant orantes primi transmittere cursum,

et Tum demum admissi stagna exoptata revisunt,

et Extemplo Aeneae solvuntur frigore membra.

48. Qua etiam ratione servanda sit mediocritas, collocatio quidem ipsa dactylorum mistim alternisque cum spondeis monstrare potest; qualis scilicet est versuum qui sequuntur: Et mulcere dedit fluctus et tollere vento; Gens inimica mihi Tirrhenum navigat aequor;

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Pontano.indb 434

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AZIO, II

[…] schiamazzo di folle, in più lo stridor delle corde;124

verso nel quale ogni parola che lo compone ha una lettera aspra, che, moltiplicata, produce un senso quasi di orrore appropriato a quel luogo. Le stesse enclitiche125 poi, attirando su di sé l’accento, non poco aggiungono all’orrore: clamorque stridorque. 47. Quando poi il ritmo debba affrettarsi e come si ottenga questo effetto, lo indica quel verso: E al crepitar fra le fiamme si brucia la stoppia leggera;126

desiderando infatti il raffinato poeta rendere col suo ritmo la celerità delle fiamme e di quella stoppia che bruciava, strutturò il verso riempiendolo di dattili e vi inserì parole molto adatte a dare il senso della celerità. Che dire? Per rendere anche lo scoppiettio delle stoppie accese, scelse anche sillabe che si rincorrono scoppiettando, senza andare in cerca di alcuna collisio o adoperare l’enclitica. Al contrario, di come si debba fare per sostare e quasi star saldi sul fronte, i versi seguenti possono offrire un esempio: Stavan in piedi pregando di avere il passaggio per primi,127

e Allora ammessi alfine rivedon gli stagni bramati,128

e Subito con un tremore si sciolgon le membra ad Enea.129

48. Come bisogna fare inoltre per serbare la moderazione, può mostrarlo la collocazione mista di dattili e spondei alternati: E fe’ placare i flutti e sollevarli col vento; A me nemica, una gente il mare tirreno attraversa;

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ACTIUS, II

Talia perstabat lacrimans fixusque manebat; Illa solo fixos oculos aversa tenebat; Talia flammato secum dea corde volutans.

Quo tamen in versu quasi erigere supercilium iam pararet, tris illas dyssyllabicas dictiones in acie quasi media collocavit. Omnis igitur illa sive dignitas sive gravitas magnitudoque numerorum a numerositate ipsa gignitur accentuum, de dictionum collocatione syllabarumque delectu profecta, quippe cum syllabae dictionesque accentum, accentus vero numerum, numerus autem et plenum et generosum et admiratione dignum versum statuat. 49. Quanquam autem nedum Cicero ipse, eloquentiae pater, accentum vocat, sed etiam literatores universi, quorum quidem proprium est loqui de literis, syllabis, dictionibus atque earum qualitatibus, utimur tamen hoc nomine eo libentius quod canere dicuntur poetae et Virgilius exordiens verbo est hoc auspicatus: «Arma virumque cano». Licet videre in versibus, quos paulo post afferam, quandam quasi fluctuationem nunc sistentium nunc profluentium dictionum: qua e re necesse est ut accentus quoque ipsi incertitudine ac varietate fluctuent sua invicemque alternentur: «Quis globus, o cives, caligine volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela et scandite muros. Hostis adest, eia!». Ingenti clamore per omnis Condunt se Teucri portas et moenia complent.

Alibi: Sternitur infelix Acron et calcibus atram Tundit humum expirans infractaque tela cruentat. Atque idem fugientem haud est dignatus Orodem Sternere nec iacta caecum dare cuspide vulnus, Obvius adversoque occurrit seque viro vir Contulit, haud furto melior, sed fortibus armis. Tum super abiectum posito pede nixus et hasta: «Pars belli haud temnenda viris, iacet altus Orodes». 436

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AZIO, II

Fermo restava e ancora su questi ricordi insisteva; Ella volgendoli altrove, tenea gli occhi al suolo ben fissi; Così col cuore in fiamme la dea rivolgendo i pensieri […].130

In quest’ultimo verso, tuttavia, per assumere un certo cipiglio il poeta collocò quelle tre parole bisillabiche quasi in mezzo alla linea del fronte. Tutta la dignità o gravità e grandezza del ritmo nasce dalla cadenza degli accenti, che proviene dalla collocazione delle parole e dalla scelta delle sillabe, poiché le sillabe e le parole determinano l’accento, l’accento il ritmo, il ritmo rende pieno, nobile e degno di ammirazione il verso. 49. Sebbene poi non solo Cicerone, padre dell’eloquenza, lo chiama accento, ma anche tutti i grammatici, che hanno come compito quello di trattare delle lettere, delle sillabe, delle parole e della loro qualità, usano questo nome di «accenti» tanto più volentieri per il fatto che si dice dei poeti che «cantano» e Virgilio esordì con questa espressione: «Canto l’eroe e l’armi». Possiamo vedere nei versi che fra poco citerò quasi un ondeggiare di parole che ora si fermano, ora scorrono; per cui necessariamente anche gli accenti ondeggiano con instabilità e varietà e si scambiano il posto: «Quale caligine oscura, cittadini, si avvolge in un globo? portate presto l’armi, coi dardi, e le mura scalate. È qui il nemico, orsù!» Con grande clamore per tutte le porte si nascondono i Teucri occupando le mura.131

Altrove: Acron viene atterrato e con i calcagni il terreno batte spirando, e di sangue tinge le frecce spezzate. Né si sentì capace di abbattere Orode fuggente né di scagliargli la lancia per dargli una cieca ferita, gli va incontro e di fronte si dispose, l’un contro l’altro, non vincitor per frode, ma per il valore dell’armi. Allor mettendo il piede sul caduto e appoggiandosi all’asta: «L’alto Orode, gran parte della guerra temibile, or giace». 437

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ACTIUS, II

Conclamant socii laetum paeana secuti. Ille autem expirans: «Non me, quicunque es, inulto, Victor, nec longum laetabere; te quoque fata Prospectant paria atque eadem mox arva tenebis». Ad quae subridens mista Mezentius ira: «Nunc morere; ast de me divum pater atque hominum rex Viderit.

Quae igitur vocum varietas accentuumque fluctuatio his sit in versibus ipsi videtis. 50. Dicentem audivi saepius senem hunc nostrum, quotiens locus incideret aliquis in quo sordescere posset oratio numerique relanguescere, sustentandum illum esse crebritate accentuum, non minus quam verborum delectu; quibus spondei quidem permuniti essent eosque veluti gravem armaturam primos statui in acie oportere, inde dactylos summitti, qui tristitiam illam exhilararent; quod ipse secutus esset in toto illo loco qui est de Pristice: Ipsi de rate turrigera aut e puppibus altis Ferratis instant hastis iaciuntque tridentes Pinnigeros. Imo referunt sese icta profundo…

Nec multo post: Agmina perturbat; videasque indagine in una Urgeri armentum vasti aequoris. Ille trucidat Ense ferox, hic sullata secat ossa securi, Aut unco trahit ad litus praedaque superbus Ingentis media tauros resupinat arena.

Post etiam subdit: Hic latis strata in tabulis suffixave ad uncos Ferratos, duplici horrescunt pendentia dorso, Et squamosa rigent duris ad tergora pinnis; Urbs ipsa armentum ad Nerei et spolia effera currit, Ac montana ruit longe ad spectacula pubes.

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AZIO, II

Elevano i compagni un canto di gioia, un peana. Ma lui spirando: «chiunque tu sia, su di me vittorioso non sei senza vendetta, né a lungo gioirai, un destino pari ti attende, e questi campi stessi tra un po’ coprirai». Con un sorriso Mezenzio rispose mischiandovi l’ira: «Or muori; ma dei divi il padre e degli uomini il rege sul mio conto vedrà».132

Potete voi stessi vedere quale varietà133 di vocaboli e quale ondeggiare di accenti ci sia in questi versi. 50. Spesso ho udito dire a questo nostro vecchio, tutte le volte che capitava un certo passo nel quale potesse languire il ritmo del discorso, che bisognava sostenerlo con la frequenza degli accenti, non meno che con la scelta delle parole; e che bisognasse schierare per primi, come una schiera di armati pesanti, gli spondei che di accento sono ben forniti, e poi inserire i dattili per alleviare la loro tristezza; consiglio da lui stesso seguito in tutto quel passo che parla della Pistrice: E quelli dal turrito naviglio o dall’alta sua poppa incalzano con l’aste munite di ferro e i tridenti lancian pinnati. I colpi vanno nel mare profondo…134

E non molto dopo: Disturba i branchi e potresti vedere in un’unica rete del vasto mar sospinto un armento. Quegli crudele ammazza con la spada, quest’altro solleva la scure e seca l’ossa o sul lito trae con l’uncino, e superbo di preda in mezzo alla spiaggia enormi i tori riversa.135

Successivamente aggiunse: Qui su larghi assi distese oppure appese ad uncini di ferro, penzolando col duplice dorso (che orrore!) e su squamose terga si ergono dure le pinne. Perfin la città accorre a vedere il branco marino, le fiere spoglie, e da lunge la gente che vive sui monti.136 439

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ACTIUS, II

Extulit idem hic exilem sane rem solis quidem numeris, delectu tamen verborum adhibito conquisitisque rebus aliquanto remotioribus, imprimisque literarum sonis, e quibus numeros et graves et plenos elicuit: Ast Tingin, Bochique domos, habitataque Mauris Tecta, deosque humeris coelumque Atlanta ferentem, Insignisque auro et pomis radiantibus hortos Hesperidum ac deserta siti Getula leonumque Arva fame Mars armipotens et Scorpius ardens inspectant laeti coelo et sua iura tuentur, Hic chelis, ille ense potens […].

51. Quid autem exilius quam quod dicturus erat, Getuliam ac Tingitanam subiectas esse Scorpio? Afferam et alium locum huius similem, cum dicturus esset Africam ac Numidiam Cancro esse subiectam: At Cancer noctisque decus Latonia virgo Lotophagum sedes tenet et quos Bragrada saltus Infidusque secat Cynips et Punica late Litora quaque vagus se solvit in aequora Triton Et formidatas olim Carthaginis arces Ac latebras, Masinissa, tuas cavaque antra leonum.

Scimus etiam eundem ipsum fuisse solicitum eo de versu qui est in Andromeda: Virginibus praeferre maris sese ausa suumque Ostentans decus.

Sic enim initio scripserat, verum quod tristem iudicaret ac lugubrem materiam, tarditate potius numerorum quam festivitate prosequendam esse, ab exordio praesertim ipso, commutatis dictionibus, remoratus est celeritatem. Etenim, ut Aristoteles etiam asseverat, celeritas acumen soni gignit, tarditas gravitatem. Itaque, subtracta inde dictione quadrisyllaba ac commutatis locis, collocavit ibi dictiones dyssyllabas quidem duas adiecitque statim monosyllnbam ac dixit:

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AZIO, II

Sollevò, ancora lui, un contenuto abbastanza esile con il solo ritmo, adoperando una scelta lessicale e nomi ricercati un po’ peregrini e soprattutto lettere sonore da cui ricavò un ritmo grave e pieno: Ma Tingi ed il palazzo di Boco, le case dei Mauri, gli dei e la sfera celeste che Atlante sostien sulle spalle, gli orti per l’oro famosi e pei pomi raggianti d’Esperia e le regioni deserte dei Geti soggette alla sete e dei leoni alla fame Marte guerriero e l’ardente Scorpion dal cielo lieti guardando mantengon le leggi L’uno armato di chele, l’altro di spada […].137

51. Che cosa vi è di più esile di quello che intendeva dire, che la Getulia e la Tingitana sono soggette allo Scorpione? Citerò un altro passo simile, relativo al punto in cui doveva dire che l’Africa e la Numidia sono soggette al Cancro: Ma il Cancro e, della notte il vanto, la vergin latonia domina dei Lotofagi la terra e le balze solcate dal Bragada e dall’infido Cinife e in lungo ed in largo le spiagge puniche, dove Tritone vagando si versa nel mare e di Cartagine la rocca che un tempo impauriva, le cave dei leoni, che furono tue, Masinisssa.138

Sappiamo anche che lui stesso era tormentato a proposito di quel verso nell’episodio di Andromeda: Virginibus praeferre maris sese ausa suumque Ostentans decus.139

Così infatti aveva scritto inizialmente, ma poiché riteneva che una materia triste e lugubre dovesse essere trattata con un modulo lento piuttosto che brioso, specialmente all’esordio, scambiando il posto delle parole frenò la celerità. Poiché, come sostiene anche Aristotele,140 la celerità produce un suono sottile, la lentezza uno grave. Perciò, eliminate le parole di quattro sillabe e invertito il posto, vi collocò due parole bisillabiche e aggiunse subito un monosillabo, e disse: 441

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ACTIUS, II

Ausa maris se virginibus praeferre suumque Ostentans decus, aequoreas armare sorores,

quo factum est ut tenor ipse primi pedis, qui uno constabat ex accentu ac fluitabat, altero statim adiecto substentaretur atque ingravesceret, siquidem e “virginibus” unus tantum consonabat accentus, at “ausa” cum unum ex sese accentum efflet et quidem circumflexum, “maris” alterum eumque acutum, effìcitur ut sonus ipse dactylicus duplicetur, qua e re tenor ipse et sistitur et ingravescit. Idem hoc servavit alio in versu, qui primo fuerat: Et de marmoreis guttas stillare columnis.

Cumque iudicaret eo in loco opus esse soni remoratione, usus est eadem commutatione dictionum: Et guttas de marmoreis stillare columnis.

52. Numerus enim ille e “marmoreis”, quadrisyllaba dictione, constitutus, quod esset ipse festinantior, reddebatur aliquanto fluentior et pene lubricus; at terni illi accentus tribus e dictionibus conflati confertimque assonantes alter alteri quasi manum de proximo sibi porrigunt aciemque ipsam sustinent. Attulimus hoc praesertim in loco e senis nostri libris exempla, quod consilia eius ex eodem ipso cognovimus; nam veterum poetarum Virgiliique ipsius suspicari quidem illa tantum possumus. Inest et suum quoque numeris decorum, ut cum vel aspera, vel suavis, vel miserabilis, vel iucunda res, vel gravis, vel contra levis versatur in manibus, vel suis aliis affectibus mista et temperata. 53. Vide igitur quibus Virgilius usus est numeris in prognosticatione illa futurae tempestatis: Heu qui nam tanti cinxerunt aethera nimbi?

Ad metum, ad dolorem, ad ducis curam exprimendam coegit tres simul monosyllabas dictiones, summisit deinde dysyllabam, post alteram atque alteram trisyllabam, iunxitque quatuor simul spondeos. Quid hac aut verborum conquisitione diligentius aut animi conquestione 442

Pontano.indb 442

16/07/2019 13:06:25

AZIO, II

Ausa maris se virginibus praeferre suumque Ostentans decus, aequoreas armare sorores;

per cui l’andamento del primo piede, che aveva un solo accento e scorreva, con l’aggiunta di un altro divenne più sostenuto e grave, se è vero che da virginibus risuonava un solo accento, ma siccome ausa esibisce un solo accento, che è circonflesso, e maris un altro accento, che è acuto, accade che lo stesso effetto sonoro del dattilo si raddoppi, per la qual cosa l’andamento si frena e diventa grave. Inoltre ottenne questo stesso effetto in un altro verso, che nella versione precedente era: E da marmoree colonne stillare gocce [vedrai].141

E poiché ritenne che in quel luogo fosse necessario un suono più frenato, adoperò la stessa inversione verbale: E gocce da colonne di marmo stillare [vedrai].

52. Infatti il ritmo costituito da marmoreis, parola di quattro sillabe, essendo troppo veloce, risultava un po’ troppo scorrevole e quasi scivoloso; mentre i tre accenti esibiti da tre parole, che si ripercuotono l’un l’altro a breve distanza, si porgono quasi la mano e sostengono lo schieramento. Abbiamo preferito in questo luogo riportare esempi dai libri del nostro vecchio perché conosciamo i suoi consigli provenienti da lui stesso, mentre quelli degli antichi poeti e di Virgilio possiamo soltanto congetturarli. I ritmi possiedono anche un loro specifico pregio, come quando si ha nelle mani una materia aspra, o dolce, o miserevole, o giuliva, o grave, o al contrario leggera, o mescolata e mitigata da altri sentimenti. 53. Vedi dunque di quali ritmi si sia servito Virgilio in quella famosa predizione delle età future: Heu qui nam tanti cinxerunt aethera nimbi.142

Per esprimere la paura, il dolore, la preoccupazione del timoniere strinse insieme tre monosillabi, aggiunse subito un bisillabo, poi un altro trisillabo e un altro ancora, e congiunse insieme quattro spondei. Non ci potrebbe essere ricerca verbale più attenta o riflessione più profonda. Né 443

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ACTIUS, II

gravius? Nec me quorundam auctoritas moverit asseverantium a Virgilio scriptum “heu quia”, non “qui”, cum nos iudicemus neque “quia” neque “quid”, sed “qui” fuisse a Virgilio scriptum; nam et litera “d” pleniusculum nescio quid sonat, quod hic ipse numerus nunc renuit, et “quia” brevitate plusculum festinat sua, cum vox ipsa videatur in dolore sistenda. Sed de hoc sit suum cuiusque iudicium, nostra quidem haec est opinio. Decorandos igitur ad numeros tum literae tum syllabae, nedum verba integra maximum habent pondus, et, quod non multo ante diximus, in illo versu Insequitur clamorque virum stridorque rudentum

nulla ex illis dictionibus asperiore caret litera. Namque aliarum principium, aliarum finis, aliarum et principium et pausa trahit secum asperitatem literae rigidioris. Quid quod cum in tempestate obscuritas terrorem augeat, “virum” et “rudentum” ultimae sonant etiam nescio quid subobscurum? 54. Animipendite, quaeso, versus illius numeros qui est: Monstrarat caput acris equi, sic nam fore bello Egregiam et facilem victu per secula gentem.

Qui praecedunt tres versus et huius ipsius dimidium tribus clauduntur accentibus iisque disyllabicis. Ne igitur a gravitate descisceret sua, conflavit binis e monosyllabis totidemque e disyllabis dictionibus accentus quatuor, quodque satis est rarum, octo versum illum locupletavit accentibus, quo fit ut tardius pronuntietur; tarditas autem, ut diximus, gravioris est soni causa, perinde ut acutioris celeritas; acutum autem et grave in iis quae auditus sunt habentur a physicis opposita; qua tamen in re, quo modum retineret, copulavit statim binos dactylos, qui tarditatem illam moderarentur. Sunt autem versus hi: Lucus in urbe fuit media laetissimus umbra, Quo primum iactati undis et turbine Poeni Effodere loco signum, quod regia Iuno

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AZIO, II

potrebbe smuovermi alcuna autorità che asserisca Virgilio aver scritto heu quia, non qui, perché noi pensiamo che né quia né quid ha scritto Virgilio, ma qui; infatti il suono della lettera d ha un non so che di più pieno, che il ritmo a questo punto non ammette, e quia è un po’ veloce per la sua brevità, giacché perfino la voce sembra dover sostare sul dolore. Ma su ciò ognuno si tenga il proprio parere, la nostra opinione è questa. Adunque sia le lettere sia le sillabe devono ricevere la loro bellezza in conformità del ritmo, tanto maggiore è il peso che hanno le parole intere, e, come prima abbiamo detto, in quel verso, insequitur clamorque virum stridorque rudentum,143

nessuna lettera di queste parole è senza asprezza. Infatti delle prime il principio, delle seconde il principio e la pausa portano con sé l’asprezza di una lettera piuttosto dura. E che dire del fatto che se nella tempesta l’oscurità fa aumentare il terrore, virum e rudentum collocati per ultimi danno anch’essi un suono con un non so che di oscuro? 54. Riflettete, vi prego, sul ritmo del verso seguente: Monstrarat caput acris equi, sic nam fore bello egregiam et facilem victu per secula gentem.144

I tre versi che precedono e la metà di questo si concludono con tre accenti di voci bisillabiche. Per non derogare alla gravità, il poeta fece scaturire quattro accenti da due coppie di monosillabi e da altrettante parole bisillabiche,145 e, cosa molto rara, dotò di otto accenti quel verso in modo da farlo pronunciare con notevole lentezza: ma la lentezza, lo si è già detto, è causa di un suono più grave, come la velocità produce un suono più acuto; il grave e l’acuto riguardo all’udito sono considerati opposti dai fisici; e tuttavia in questa occasione, per serbare la moderazione, il poeta congiunse i due dattili, affinché quella lentezza ricevesse una misura. I versi sono questi: Lucus in urbe fuit media laetissimus umbra, quo primum iactati undis et turbine Poeni effodere loco signum, quod regia Iuno

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ACTIUS, II

Monstrarat, caput acris equi, sic nam fore bello Egregiam et facilem victu per secula gentem.

55. In tertio quoque loco digne idem fit vocalium concursus, ut Ni faciat, maria ac terras coelumque profundum,

ut item Contigit oppetere, o Danaum fortissime gentis,

et ut Erramus vento, huc et vastis fluctibus acti;

magnam utique gravitatis partem amiserit si mutaveris: «Erramus vento et vastis huc fluctibus acti». Itaque hoc quidem modo erit hiatus ipse copulandi tantum necessitate factus, illo vero implendi ac sistendi sonoris gratia ab arteque profectus. At in quarto et quinto pede quotiens fit, atque in sexto et ad pausam, et versus ipse suo cum numero mirifice assurgit, quadam etiam cum magnitudine et rara quaedam inde comparatur numeris ipsis dignitas; quod versus illi declarant: Franguntur remi, tum prora avertit,

item: Et vera incessu patuit dea, ille ubi matrem,

et Fundamenta locant alii immanisque columnas Rupibus excidunt, scaenis decora alta futuris,

et

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Pontano.indb 446

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AZIO, II

Monstrarat, caput acris equi, sic nam fore bello egregiam et facilem victu per secula gentem.146

55. Anche nella terza sede si verifica con esito considerevole un incontro di vocali, come in: Ni faciat, maria ac terras coelunque profundum;147

come anche in Contigit oppetere, o Danaum fortissime gentis,148

e in Erramus vento, huc et vastis fluctibus acti;149

gran parte comunque della gravità si potrà smarrire se cambierai in erramus vento et vastis huc fluctibus acti. In questo modo lo iato è stato introdotto soltanto per la necessità della congiunzione, ma in quel modo è nato ad arte per rendere più pieno e rallentare il suono.150 Ma tutte le volte che lo iato si presenta nel quarto e nel quinto piede, e nel sesto e alla pausa, non solo il verso mirabilmente si solleva col suo ritmo anche con un certo esito di grandezza, ma riesce a ricavarne altresì una certa dignità proprio mediante il ritmo; lo dimostrano i versi: Franguntur remi, tum prora avertit ,151

e ancora Et vera incessu patuit dea, ille ubi matrem,152

e Fundamenta locant alii immanisque columnas rupibus excidunt, scaenis decora alta futuris,153

e 447

Pontano.indb 447

16/07/2019 13:06:25

ACTIUS, II

Troes te miseri ventis maria omnia vecti,

et Omnibus exhaustos iam casibus, omnium egenos,

et Saevus ubi Aeacidae telo iacet Hector, ubi ingens,

et Contemptor divum Mezentius agminaque armat,

item: Aerea cui gradibus surgebant limina nexaeque Aere trabes,

Et magnos membrorum artus, magna ora lacertosque Exuit,

item: Iamque iter emensi turres ac tecta Latinorum Ardua cernebant,

et Inseritur vero nucis e foetu arbutus horrida Et steriles platani malos gessere valentis.

56. Affert autem raritas haec hiandi cum insequenti versu non sine aurium voluptate etiam dignitatem; nam et novitas delectat ipsa per se et assultus ille hinc versum inchoantis, illinc terminantis vocalis suam 448

Pontano.indb 448

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AZIO, II

Troes te miseri ventis maria omnia vecti,154

e Omnibus exhaustos iam casibus, omnium egenos,155

e Saevus ubi Aeacidae telo iacet Hector, ubi ingens,156

e Contemtor divum Mezentius agminaque armat;157

così anche Aerea cui gradibus surgebant limina nexaeque aere trabes,158

e Et magnos membrorum artus, magna ora lacertosque exuit;159

così anche Iamque iter emensi turres ac tecta Latinorum ardua cernebant,160

e Inseritur vero nucis e foetu arbutus horrida et steriles platani malos gessere valentis.161

56. Questa rarità dello iato con il verso seguente arreca, poi, non senza piacere dell’orecchio, anche una certa dignità; infatti la novità diletta di per sé e lo scontro da una parte della vocale che inizia il verso, dall’al-

449

Pontano.indb 449

16/07/2019 13:06:25

ACTIUS, II

quoque vocalitatem auget, qui fit praesertim absque detractione, ut in illis: classemque sub ipsa Antandro et Phrygiae molimur montibus Idae,

et Talem dives arat Capua et vicina Vesevo Ora iugo.

In horum autem versuum commemoratione non possum non ridere opinionem vel asseverationem potius eorum qui dicunt fuisse a Virgilio scriptum: «vicina Vesevo Nola iugo», mutatum vero post ob denegatam sitienti aquam. Neque enim Virgilius, qui nolanum plane agrum sterilem nosset minimeque triticum alere, sed milii solius ac secalae feracem, inter fertiles eum numerasset campanoque coniunxisset, quin vicinam oram nominans campos innuit acerranos, qui sub ipsum iacent Vesevum occasum versus suntque fertilissimi. Suos igitur numeros suorumque concentuum suavitatem sequebatur cum scripsit: «vicina Vesevo / Ora iugo». 57. Collisio igitur vocalium, quam et contusionem et concursum a re ipsa vocare possumus, fieri singulis in pedibus eorumque concisionibus potest. Vocamus autem concisiones ipsas pedum inter se complicationes; graece nomen habent a numero syllabarum tritimemeris, heptimimeris, enneamimeris, eaque duobus fit modis, cum aut eaedem concurrunt vocales aut cum diversae; ubi eaedem sese collidunt extruditurque e versu altera, ea tum ademptio tum extrusio recte vocatur, non minus fortasse proprie exp1osio. Ipsum autem concursum Cicero hiatum vocat et vocales ipsas dicit hiare; at cum permanent neque truduntur loco boatum sunt e literatoribus qui vocaverint, rectius utique comp1osio vocabitur, quod e resultu geminetur sonus, ut in illo: Ter sunt conati imponere Pelio Ossan.

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tra della vocale che lo chiude, aumenta anche la sonorità vocalica, e ciò avviene specialmente quando non c’è l’elisione, come nei versi: classemque sub ipsa Antandro et Phrygiae molimur montibus Idae,162

e Talem dives arat Capua et vicina Vesevo ora iugo.163

Ma nel ricordare questi versi non posso non ridere dell’opinione, o piuttosto dell’ostinata affermazione di chi dice che Virgilio avrebbe scritto «vicina Vesevo Nola iugo»,164 mutandolo dopo, perché la città gli avrebbe negata l’acqua quando aveva sete. Né Virgilio, il quale sapeva che la campagna nolana è del tutto sterile e non fa nascere per nulla il grano, ma produce solo miglio e segale, l’avrebbe mai enumerata fra le campagne fertili e citata insieme a quella di Capua, e anzi nominando la zona vicina accennò ai campi di Acerra, che si stendono sotto il Vesuvio verso il tramonto e sono fertilissimi. Dunque seguiva il suo ritmo e la soavità dei suoi armonici accordi quando scrisse: vicina Vesevo / ora iugo. 57. La collisione delle vocali, che possiamo chiamare anche «urto» e «scontro» dal fenomeno stesso quale in realtà si verifica,165 può avvenire nei singoli piedi e nel punto della loro divisione.166 Chiamiamo poi «cesure» le stesse concatenazioni dei piedi fra loro; in greco prendono il nome dal numero delle sillabe, tritemimera, eptemimera, enneamimera;167 essa avviene in due modi, o quando si scontrano le stesse vocali o quando si scontrano vocali diverse; quando si scontrano vocali uguali e una delle due si elide dal verso, la si chiama correttamente sottrazione o elisione, forse non meno propriamente espulsione.168 Ma Cicerone chiama iato quello scontro e dice che le vocali sono slegate;169 ma quando permangono e non sono espulse, ci sono grammatici che lo chiamano «boato», comunque è più corretto chiamarla complosio,170 perché per l’urto si raddoppia il suono, come in quel verso: Ter sunt conati imponere Pelio Ossan.171

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Ipse vero resultus longe minor existit cum e diversis fit vocalibus, ut: «Ionio in magno». Atque ego quidem, libere vobiscum ut loquar, praeterquam quod graecam habet imitationem affertque varietatem, quae per se ipsa delectat et naturalis est, non video cur a Latinis complosio magnopere sit probanda, cum vix delectet, nisi in iis quae a Graecis sunt accepta, qualis ille versus: «Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae», et: «Dardanio Anchisa», et: «in Actaeo Aracyntho». 58. Raritas tamen ipsa et quam dixi varietas potest reddere illam et venustam et suavem, suo tamen accommodatoque in loco, ac verbis idoneis. Cum autem concursus fuerit in primo pede, ea e re numerus ipse fit solidior, cum quadam etiam iucunditate, praesertim ubi eaedem concurrunt vocales, ut «Ille ego qui quondam», et «Ergo omnia longo solvit se Teucria luctu», et «Illi indignantes magno cum murmure montis». At cum diversae vocales hiant, numerus solidescit ipse quidem, non eadem tamen cum voluptate audientium, ut «Credo equidem nec vana fides», et «Cuncta equidem tibi rex». Solidiorem autem stabilioremque numerum inde fieri manifesto apparebit si dixeris «Cuncta quidem tibi rex», qua e re numerus ipse statim languescet. Interdum collisione ex ipsa vel extruditur vel exciditur potius integra syllaba vel eius bona pars, id est vocalis cum consonante litera “m” ut «Postquam introgressi», et «Illum expirantem transfixo pectore»; item: «lllum et labentem Teucri». Ex hoc si detraxeris “et”, deque altero “ex”, dixerisque «lllum, labentem Teucri», «Illum spirantem transfixo pectore», curtum nescio quid aures statim offenderit. 59. Hoc autem ideo dicimus quod non ubique collisiones ipsae fiunt necessitate carminis, sed arte potius atque aurium obsequio, id est numerorum gratia. Cur autem syllabae ex vocali et “m” compactae deturbentur ubique nunc e versu (nam priscis illis seculis non semper excludi esse solitum), versus ille ennianus docet: «et milia militum octo». Videtur causae illud esse, quod propter “m” terminalem optusum nescio quid ac subobscurum sonent, quod aures vix patiantur in fine vocum. Itaque nec mirum est si e dictione “sed”, quae olim fuit “sedum”, detruncatio facta est, quando populi quidam finalem “m” compluribus e dictionibus sustulere. Quod ipse aliquot in monumentis summae vetustatis animadverti, ut Beneventi in lapide, in quo scriptum est: «Infelix fatu prior debui mori mater». Et Telesiae: «Mater misera hoc monumentu extruxit Olympias amens», in quibus et “fatum” et “munumentum” sunt absque 452

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Lo stesso scontro risulta molto minore quando avviene fra vocali diverse, come in Ionio in magno.172 Ed io, invero, per parlare con voi liberamente, a parte il fatto che imita il greco e introduce una varietà, che per se stessa piace ed è naturale, non vedo perché lo iato173 debba essere tanto approvato dai Latini, dal momento che piace appena se non nei casi in cui ci sia una dipendenza dal greco,174 come in quel verso: Glauco et Panopeae et Iunoo Melicertae, e Dardanio Anchisa e in Antaeo Aracyntho.175 58. La rarità tuttavia e quella varietà di cui ho detto possono renderlo bello e gradevole, ma quando sono usate nel loro luogo adatto e con parole appropriate. Quando poi lo scontro fra le vocali avviene nel primo piede, per questa ragione il ritmo diventa più solido, anche con una certa piacevolezza, specialmente quando si scontrano due vocali uguali, come in Ille ego qui quondam, e in Ergo omnis longo solvit se Teucria luctus, e in Illi indignantes magno cum murmure montis.176 Ma quando sono in iato vocali diverse, il ritmo si fa solido,177 ma non con lo stesso piacere di chi ascolta, come negli esempi «Credo equidem nec vana fides» e «Cuncta equidem tibi rex». Solidità e stabilità ritmica parrà chiaramente ottenersi se dirai «cuncta quidem tibi rex»,178 per cui il ritmo subito langue. A volte per la stessa collisione viene espulsa o piuttosto troncata tutta la sillaba, o buona parte di essa, cioè la vocale con la consonante m, come in postquam introgressi, e in Illum expirantem transfixo pectore; e ancora illum et labentem Teucri.179 Se vi togliessi et e nell’altro caso ex, e dicessi illum labentem Teucri, illum spirantem tranfixo pectore, un non so che di tronco infastidirebbe subito l’orecchio. 59. Diciamo questo perché non sempre le collisioni si fanno per necessità della poesia, ma piuttosto per l’arte e per compiacere all’orecchio, cioè per il ritmo. Perché poi le sillabe composte con una vocale e una m siano ora eliminate dal verso (infatti nei primi secoli non sempre si era soltiti eliderle), lo dimostra quel verso di Ennio: et milia militum octo (e ottomila militi).180 Sembra che ne fosse la causa il fatto che per la m finale il suono delle parole avesse un non so che di attenuato e di un po’ oscuro, che l’orecchio mal sopporta alla fine della parola. Pertanto non c’è da meravigliarsi se in sed, che una volta era sedum,181 avvenne un troncamento, perché alcuni popoli soppressero la lettera m in moltissime parole. Io stesso mi sono accorto di questo fenomeno in monumenti antichissimi, come in una lapide a Benevento sulla quale è scritto: «infelix fatu prius debui mori mater».182 E a Telese in una lapide è scritto: 453

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“m”. Referam verba epigrammatis: «Apollonia quae vocitabar lapide hoc inclusa quiesco unum sortita maritum, servavi casta pudorem. mater misera hoc monumentu extruxit. Olympias amens». 60. An non prisci illi fecerunt “gelu” et “cornu”, quae prius erant “gelum” et “cornum”, quorum priori Lucretius non semel utitur? Iidem literam “s” frequentissime explodebant e versu, ut idem Lucretius testis est. Graeci terminationibus iis carent quae in “m” desinunt, Latinis autem eae sunt familiarissimae et, ut adverti etiam Ethiopibus. Sed redeamus unde digressi sumus. Eiusmodi quoque literarum hiatus fiunt in secundo pede sustentandi tenoris atque implendi numeri gratia, etiam cura dignitate, nullam tamen ob necessitatem, ut in illo: Ductoresque ispos primum capita alta ferentis;

potuerat enim dicere «ductores ipsos»; et in illo: Praeterea aut supplex aris imponat honorem;

videbitur autem tenor ille flaccescere si dixeris: «Praeterea supplex ve aris imponat honorem», cum in illa collocatione non solum hiet “a”, verum alterum “a”, quod est primum elementum in voce «aris», de proximo loco hiatum ipsum assonando adiuvet. In tertio quoque maiore fit cum vocalitate, ut: Ni faciat, maria ac terras coelumque profundum;

sordescet plane numerus si dixeris: «Ni faciat, pelagus, terras coelumque profundum». At in quarto et quinto pede quotiens fit, in sexto item, et versus ipse mirifice assurgit, quadam etiam cum magnitudine, et rara quaedam inde comparatur numeris ipsis dignitas; quod declarant virgiliani illi: Haec ait et dicto citius tumida aequora placat;

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«mater misera hoc monumentu extruxit olympias amens», dove fatum e monumentum sono senza la m. Riferirò le parole di un epitaffio: «apollonia quae vocitabar lapide hoc inclusa quiesco unum sortita maritum, servavi casta pudorem. mater misera hoc munumentu extruxit. olympias amens».183 60. Forse che gli antichi non fecero gelu e cornu, che prima erano gelum e cornum, del primo dei quali vocaboli Lucrezio si serve non una sola volta?184 Essi molto di frequente escludevano dal verso la lettera s, come attesta lo stesso Lucrezio.185 I Greci non hanno desinenze terminanti in m, mentre in latino sono molto usuali e, come ho potuto vedere, anche nella lingua etiopica. Ma ritorniamo da dove siamo partiti. Anche lo iato fra lettere uguali nel secondo piede fa sollevare il tono e lo rende pieno, con un risultato anche di dignità, qantunque non ce ne fosse necessità, come in quel verso: Ductoresque ispos primum capita alta ferentis186

infatti avrebbe potuto dire Ductores ipsos; e in quel verso: Praeterea aut supplex aris imponat honorem;187

ma il tono parrà infiacchirsi se dirai «Praeterea supplex ve aris imponat honorem», poiché in quella collocazione non solo la a sta in iato, ma anche un’altra a, quella che costituisce il primo elemento di aris, collocata vicino aiuta lo iato con un’assonanza.188 In un terzo verso ciò avviene anche con maggiore sonorità vocalica: Ni faciat, maria ac terras coelumque profundum;189

il ritmo sarebbe del tutto squallido se dicessi: «ni faciat, pelagus, terras coelumque profundum». Ma quando si verifica nel quarto e nel quinto piede,190 e così nel sesto, non solo il verso si solleva mirabilmente, anche con una certa grandezza, ma se ne ricava anche per il ritmo una straordinaria dignità; come dimostrano quei versi di Virgilio: Haec ait et dicto citius tumida aequora placat;

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Fundamenta locant alii immanisque columnas Rupibus excidunt, scaenis decora alta futuris; Et vera incessu patuit dea; ille ubi matrem. Agnovit, tali fugientem est voce secutus; Troes te miseri ventis; aria omnia vecti; Omnibus exhaustos iam casibus, omnium egenos; Saevus ubi Aeacidae telo iacet Hector, ubi ingens.

61. Hiatus etiam ille atque complosio quae fit cum insequenti versu, ut dictum est, raritate sua affert etiam cum aurium voluptate dignitatem. Nam et novitas quasi repente edita delectat per se et assultus ille hinc versum inchoantis, illinc terminantis vocalis suam quoque vocalitatem accumulat, ut: it clamor ad alta Atria,

et Expectata dies aderat nonamque serena Auroram Phaethontis equi iam luce vehebant,

et Famaque finitimos et clari nomen Acestae Excierat,

et In medio sacri tripodes viridesque coronae Et palmae pretium victoribus,

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Fundamenta locant alii immanisque columnas rupibus excidunt, scaenis decora alta futuris; Et vera incessu patuit dea; ille ubi matrem. Agnovit, tali fugientem est voce secutus; Troes te miseri ventis; aria omnia vecti; Omnibus exhaustos iam casibus, omnium egenos; Saevus ubi Aeacidae telo iacet Hector, ubi ingens.191

61. Anche lo iato e l’elisione che si hanno col verso seguente, come si è detto, con la sua rarità arrecano insieme al piacere dell’orecchio la dignità. Infatti la novità che si presenta all’improvviso diletta di per sé e l’assalto che avviene da una parte e dall’altra fra una vocale che inizia e una vocale che termina il verso accresce l’effetto di sonorità, come in it clamor ad alta atria,192

e in Expectata dies aderat nonamque serena Auroram Phaethontis equi iam luce vehebant,

e in Famaque finitimos et clari nomen Acestae excierat,193

e in In medio sacri tripodes viridesque coronae et palmae pretium victoribus,194

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et manifesto in lumine vidi Intrantem portus.

62. Verum ego longior forte et ambitiosior explicandis his fui, feci hoc tamen eo libentius quod scriptum de his adhuc sciam a nemine, quanquam et multa quoque a me praeterita sunt, quae post alii et inquirent ipsi acutius et apposite magis explicabunt. Sat etiam scio esse e vobis longe quam ego sum rerum harum qui sint studiosiores. Itaque, quod hic convenerimus, te praesertim, Parde, auctore, relinquendus est cuique suus etiam dicendi locus. 63. PARDUS. Mihi quidem, Sincere Acti, si inficias irem satis a te non esse factum, inique fecerim. Satisfecisti profecto, nec minus docte quam copiose. Sunt vero etiam qui vultu iam ipso praeseferant allaturos aliquid, quod se, quod hoc ipso conventu dignum iudicent quodque locus quidem ipse vel exigit sedentibus nobis, vel etiam per se postulat. Atque, ut risu ex ipso praesentio, Summontius hic noster egregium aliquid meditatus iam exurgit verecundiaeque est tuae dare locum dicenti. 64. SUMMONTIUS. Ego vero, Parde, arbitror Sincerum nostrum multa nos celare velle, quo post (ut mercatores consuevere) longe pluris vendat quod in arca sepositum est, viliori merce iam divendita. Explicasti vel enucleasti potius nobis, Acti, et quidem non iucunde minus quam memoriter, hiatus et explosiones quique inde gignantur numeri, quotam autem partem poeticae virgilianaeque potissimum numerositatis! Resera igitur arcas mercemque nobis selectiorem explica, quod te per manes ipsos Virgilii obtestatus oro perque locum in quo ille iacuit, quem ipse et invisis saepissime et reverentissime veneraris. 65. ACTIUS. Percalluisti, Petre Summonti, qua me esses arte eam ad rem tracturus, quae fuerit ab hominibus nostris hactenus vel omnino despecta vel parum certe animadversa aut cognita, dum mercatorum mecum exemplo uteris atque consuetudine. Scis enim nobilitas haec nostra omnis ab mercaturae ipsius nomine quantopere abhorreat. Ne tu me igitur aut mercatorem existimes aut avarum, explicabo consilia tibi mea

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e in manifesto in lumine vidi intrantem portus.195

62. Ma io sono stato forse troppo lungo e ambizioso in questa spiegazione, e tuttavia l’ho fatto tanto più volentieri perché so che ancora nessuno si è occupato di questi argomenti, sebbene molte cose abbia trascurate che altri in seguito potranno spiegare con maggiore acutezza e opportunità. So bene inoltre che tra voi ci sono alcuni dediti a questi argomenti più di quanto lo sia io. Perciò, poiché siamo qui riuniti, specialmente per opera tua, Pardo, a ciascuno deve essere lasciato uno spazio per parlare. 63. PARDO. Se io non riconoscessi che tu hai soddisfatto la nostra attesa, Azio Sincero, sarei ingiusto. Certamente l’hai soddisfatta, con non meno dottrina che ampiezza. Ma c’è chi anche con l’atteggiamento del viso dimostra di voler aggiungere qualcosa, che ritiene degna di sé e di questo nostro raduno, e che il luogo stesso o lo richiede stando noi seduti o di per sé perfino lo esige. E, come prevedo dal suo sorriso, il nostro Summonte qui presente, avendo meditato qualcosa di importante, già si leva ed è tua discrezione dargli la parola. 64. SUMMONTE. Io invece, o Pardo, ritengo che il nostro Sincero voglia celarci molte cose, per poi vendere a più caro prezzo, come fanno i mercanti, quello che tengono custodito nello scrigno, quando già è stata venduta la merce di minor valore. Ci hai spiegato, o piuttosto ci hai sviscerato, o Azio, e con non minor piacere che esattezza, le norme che riguardano lo iato e l’elisione, e il ritmo che ne deriva, e poi una parte notevole della poetica e specialmente del pregio ritmico di Virgilio. Apri dunque il tuo scrigno per esporci la merce più scelta, e te ne prego invocando lo stesso spirito di Virgilio e il luogo nel quale egli è stato sepolto, che tu visiti molto spesso e veneri con somma devozione. 65. AZIO. Sei stato bravo a sapere con quale arte attirarmi a trattare di quell’argomento che è stato finora trascurato, o troppo poco considerato o conosciuto dai nostri, usando con me l’esempio e la consuetudine dei mercanti. Sai infatti quanto questa nostra nobiltà aborrisca della mercatura perfino il nome. Dunque per non farmi considerare da te un mercante o un avaro, esporrò a te i miei accorgimenti e le osservazioni 459

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quaeque indagandis poeticis numeris a me fuere diligentius observata, non ut arbitrer me tamen assecutum quod et ipse voluissem et vos forte audire nunc expectatis. Prosequar itaque susceptam de numeris ipsis partem, quodque per Virgilii tantum me es manes optestatus, Virgilii fere unius exemplis agam, quando unus hic de nostris poeticarum virtutum instar est omnium, ac maxime numerorum. 66. Omnino poeticus numerus carminis ipsius structuram sequitur; structura vero ipsa constat e dictionibus, dictiones autem accentum constituunt, singulae singulos. Ipsi quoque accentus dictionum ac syllabarum sequuntur tempora, quibus et laenitas adiuncta est et laenitati contraria asperitas, aliae item qualitates pro syllabarum natura literarumque e quibus sunt dictiones constitutae. Unaquaeque autem dictio aut ex una tantum aut e duabus aut etiam e pluribus constituitur syllabis, singillatim tamen omnes unico duntaxat a grammaticis suoque signandae dicuntur accentu. Sunt vero accentus ipsi duo, sibi e fronte adversi, alter, acutus, gravis alter; quodque in hac controversia liceat medium quoque aliquod constituere, qui medius est accentus ex hisque conflatur duobus et dictus est et habitus moderatus, nomine alio circumflexus, quod nomen ductum est a propria eius peculiarique in scribendo nota. Tempora igitur syllabarum sint cum tantum duo, breve ac productum, ex hoc id existit atque efficitur, ut unaquaeque syllaba aut brevis sit aut producta; nonnullae tamen communitate quasi quadam praeditae et produci possunt et spatio enuntiari breviori. 67. His igitur in hunc modum explicatis, ad usum numerorum venio; qua in re nihil tam aut exigitur aut spectatur quam varietas; cum enim omni studio fugienda sit satietas, ea ne sequatur varietas ipsa praestabit. Complicationes autem sententiarum et nexus illi qui tum sententias ipsas tum sententiarum partes ac membra connectunt et insequentibus versibus per gradus quasi quosdam ductas eas claudunt, ut nunc alterum nunc tertium versum catena quasi quadam vinciant, assidua e continuatione vitium satietatis praecipue afferunt; quae ut rarae ac suis quibusdam in locis terminatae demulcent aures, sic e contrario continuatae ubi fuerint, satietate afficiunt. Ponam versus aliquot e Proserpina Claudiani, poetae tum summi quidem studii, tum magni etiam exercitatique ingenii, qui sunt:

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più approfondite, quali ho fatte indagando il ritmo poetico, non perch’io pensi di aver conseguito quel che volevo e che voi forse vi aspettate da me. Proseguirò dunque a trattare la parte intrapresa sul ritmo, e poiché mi hai pregato invocando soltanto lo spirito di Virgilio, porterò solo esempi di Virgilio, dal momento che egli solo fra i nostri poeti tutti è simbolo delle virtù poetiche, e specialmente per quel che riguarda il ritmo. 66. Il ritmo poetico segue la struttura del componimento, ma la struttura consta di parole e le parole determinano l’accento, ogni singola parola un accento. Anche loro, gli accenti, seguono i tempi che hanno le parole e le sillabe, le quali hanno dolcezza e durezza, carattere ad essa contrario, e così altre qualità a seconda della natura delle sillabe e delle lettere di cui cono costituite le parole. Ciascuna parola poi è costituita o di una soltanto, o di due, o di tre sillabe, ma secondo i grammatici tutte singolarmente sono contrassegnate soltanto da un accento, il loro proprio accento. Gli accenti sono due, l’un l’altro contrari, uno acuto l’altro grave; e poiché in questa opposizione è possibile stabilire anche un termine medio, l’accento che è nel mezzo, fra l’uno e l’altro, e che è risultante da entrambi, viene detto e ritenuto moderato, con altro nome «circonflesso», nome derivato dal segno particolare che lo designa nella scrittura. Poiché dunque i tempi delle sillabe sono soltanto due, breve e lungo, da ciò dipende il fatto che ciascuna sillaba sia o beve o lunga, alcune tuttavia, provviste per così dire di un carattere comune, possono sia allungarsi, sia essere pronunciate in un più breve spazio di tempo. 67. Fatta questa spiegazione preliminare, vengo all’uso dei tempi ritmici; dove non si esige altro o non si mira a nient’altro se non alla varietà; e poiché con ogni sforzo bisogna evitare la nausea, la varietà è quella che ci darà la possibilità di scansarla. La congerie delle frasi e le connessioni che legano le frasi e le loro parti o i loro membri delle frasi e le concludono protraendole in versi che si susseguono quasi per gradi, in modo da avvincere ora un secondo ora un terzo verso come in una catena, son quelle che particolarmente producono il difetto della nausea per l’ininterrotta continuità; perché come quando sono rare e ridotte entro certi limiti riescono gradevoli all’orecchio, così quando al contrario sono protratte a lungo, arrecano la nausea. Riporterò alcuni versi dalla Proserpina di Claudiano, un poeta straordinariamente impegnato e anche d’ingegno grande ed esperto: 461

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Dux Herebi quondam tumidas exarsit in iras Proelia moturus superis, quod solus egeret Connubio sterilesque diu consumeret annos, Impatiens nescire torum nullasque mariti Illecebras nec dulce patris cognoscere nomen. Iam quaecunque latent ferali monstra baratro In turmas aciemque ruunt contraque Tonantem Coniurant Furiae crinitaque sontibus hydris Thisiphone quatiens infausto lumine pinum Armatos ad castra movet pallentia Manes Pene reluctantis, iterum pugnantia rebus Rupissent elementa fidem penitusque revulso Carcere, laxatis pubes Titania vinclis Vidisset celeste iubar rursusque cruentus Aegaeon positis arcto de corpore nodis Obvia centeno vibrasset fulmina motu. Sed Parcae vetuere minas orbique timentes Ante pedes soliumque ducis fudere severam Canitiem genibusque suas cum supplice fletu Admovere manus, quarum sub iure tenentur Omnia, quae seriem fatorum pollice ducunt Longaque ferratis evolvunt secula pensis.

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68. His autem versibus auspicatus est singularis poeta enarrationem sui carminis. Delectat autem carmen ipsum; nam et spatiatur libere et constat sibi ipsi, quanquam in verbis praesefert nimium fortasse studium eorum conquirendorum. Exemplum tamen Virgilii si iusta ponatur, admonebit nimiae nos continuationis nexuum ipsorum de quibus nunc loquimur: Vix e conspectu siculae telluris in altum Vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant, Cum Iuno aeternum servans sub pectore vulnus Haec secum: «Me ne incepto desistere victam, Nec posse Italia Teucrorum avertere regem, Quippe vetor fatis? Pallas ne exurere classem Argivum atque ipsos potuit submergere ponto

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Arse di tumida ira dell’Erebo il principe un giorno pronto a far guerra ai celesti, perché lui soltanto era privo d’una consorte e sterili gli anni sì a lungo esaurìa, non sopportando d’esser ignaro del letto nuziale, delle gioie di sposo e del dolce nome di padre. E già tutti quei mostri nascosti nel fondo funesto s’adunano in torme, feroci muovendosi, contro il Tonante congiurano le Furie, Tisifone cinta di serpi malvage, un pino ardente d’infausto fuoco agitando, armati i Mani spinge nei pallidi campi di guerra, quasi a forza, di nuovo avrebbero infranto alle cose il vincolo gli elementi in guerra, ed il carcere affatto rovesciato, disciolte dei Titan la genia le catene, il raggio celeste avria visto, e di nuovo il cruento Egeone deposti dal corpo i ben stretti suoi nodi, vibrato avrebbe ben cento volte i suoi fulmini contro. Ma le Parche vietar le minacce e del mondo temendo la sorte innanzi ai piedi e al soglio regal la severa canizie, ginocchioni con supplice pianto le mani levaro, alla cui legge son sottoposte le cose tutte, che traggon la serie dei fati col pollice e i lunghi secoli evolvere fanno coi pensi ferrati filando.196

68. Con questi versi l’eccellente poeta ha annunciato la narrazione del suo poema. È gradevole il poema in sé, perché spazia liberamente e ha coerenza, quantunque presenti nelle parole uno sforzo eccessivo di ricerca. Tuttavia se si mette a confronto un esempio virgiliano, esso ci farà riflettere sulla eccessiva continuità e connessione, di cui ora ci stiamo occupando: Allontanati appena dalla vista del siculo suolo in alto mar veleggiavano lieti solcando le spume marine, allorché serbando nel petto l’eterna ferita Giunon si disse: «Or vinta desister dovrei dal mio piano, e di poter dall’Italia il rege dei Teucri sviare perché mi vietano i fati? La flotta bruciar degli Argivi Pallade non poteo e loro sommerger in mare 463

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Unius ob noxam et furias Aiacis Oilei? Ipsa Iovis rapidum iaculata e nubibus ignem, Disiecitque rates evertitque aequora ventis. Illum expirantem transfixo pectore flammas Turbine corripuit scopuloque infixit acuto; Ast ego, quae divum incedo regina, Iovisque Et soror et coniunx, una cum gente tot annos Bella gero; ecquisquam numen Iunonis adoret Praeterea aut supplex aris imponat honorem?» Talia flammato secum dea corde volutans, Nimborum in patriam, loca foeta furentibus austris, Aeoliam venit. Hic vasto rex Aeolus antro Luctantis ventos tempestatesque sonoras Imperio premit ac vinclis et carcere frenat.

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Versus sunt fere totidem, locus ipse satis similis, hic praesefert summum numerorum ac varietatis studium, ille unius connexionis versuumque complicandorum, ut, praeterquam quod a dictione monosyllaba coepit, quae est “Dux” ut Virgilii “Vix”, nullum eius sit exemplum secutus. Ipsius autem complicationis, qui sunt nimio plus studiosi eorum quae admirationem praecipue pariunt, ut obliviscantur necesse est. Excurrit ille tanquam populabundus, nec sistens aliquando pedem, nec ut regionem circumspectans sui ipsius rationem habet. At Maro servandae gravitati intentus, secundum statim versum refersit vocibus duarum syllabarum, e quibus octo accentus extudit et ad quintum pedem e syllabis “re” et “ru” invicem sibi alludentibus pene expressit remorum strepitum; quae annominatio quasi quaedam mirifice blanditur auribus. Ad haec singulis pene versibus sensus suos et graviter et magnifice claudit sistitque pro tempore, ut cum ait: «Haec secum» et cum: «Quippe vetor fatis». Ac ne varietatis appareret immemor, post versus aliquot tam apposite structos, tam examussim quadratos, insonuit versum longe illorum dissimilem: Unius ob noxam et furias Aiacis Oilei.

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per il crimine folle del solo Aiace Oileo? Lei, dalle nubi il rapido fuoco di Giove scagliando, disfece le navi e coi venti l’acque marine sconvolse. Lui, che spirava fiamme dal petto trafitto, afferrando in un turbine sopra acuto scoglio confisse; mentr’io che incedo dei divi regina e di Giove sorella e consorte, con solo un popolo per tanti anni faccio la guerra; e chi mai ancora la diva Giunone rispetta o, supplichevole, sull’ara offre doni votivi?» Nell’infiammato cuore volgendo la dea queste cose, nella patria dei nembi, l’Eolia, di austri furenti feconda giunge. Qui, in un vasto antro il dominio tiene dei venti in lotta il re Eolo, e delle sonanti tempeste, e le raffrena nel carcere con le catene.197

Il numero dei versi è quasi identico, il tema abbastanza simile, e mentre questo rivela un’attenzione straordinaria al ritmo e alla varietà, l’altro un’attenzione solo alla connessione e al collegamento dei versi, talché, se prescindiamo dal monosillabo con cui aveva cominciato, che è dux come il vix di Virgilio, non ha seguito per nulla il suo esempio. Se si è troppo attenti alle connessioni succede necessariamente che ci si dimentichi di quelle cose che suscitano l’ammirazione. Quello scorre come in un saccheggio, non tien conto di sé, né fermando mai il piede, guardandosi attorno per rendersi conto del luogo. Invece Marone, intento a serbare la gravità, riempì subito il secondo verso di vocaboli di due sillabe, con i quali poté ottenere otto accenti, e al quinto piede dalle sillabe re e ru (aere ruebant), messe l’una di fronte all’altra, poté quasi far venir fuori il rumore dei remi; un’annominatio198 che quasi accarezza mirabilmente l’orecchio. Oltre a ciò quasi in ogni verso conclude con gravità e magnificenza il senso e si ferma a tempo giusto, come quando dice haec secum (v. 37), o quippe vetor fatis (v. 39). E per non apparire dimentico della varietà, dopo alcuni versi costruiti con tanta sapienza, squadrati con tanta perfezione, fece risuonare un verso molto diverso dagli altri: Unius ob noxam et furias Aiacis Oilei.199

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69. Quid quod ubi connexionibus utitur, stat, ut «Aeoliam venit» et «circum claustra fremunt»? Ille vero praetervolat suae tantum excursioni deditus, nullo hiatu vel ad efferendam vocem, vel ad sistendum tenorem usus. At Virgilius ad stabiliendum etiam numerum quaternos ad spondeos bis divertitur, in altero versu “explosionem” adhibens: «Illum expirantem transfixo pectore flammas», in altero hiatu nullo usus: «Luctantis ventos, tempestatisque sonoras». Quid cum summisit: «Illi indignantes magno cum murmure», et «Ni faciat maria ac terras»? Quantum utroque hiatu addidit numerorum gravitati! Quid quod dyssyllabarum dictionum memor illarumque numerositatis quater illos arcessivit in auxilium? nunc senos, ut «Vela dabant laeti et spumas salis aere ruebant», nunc quinos: «Circum claustra fremunt, celsa sedet Aeolus»; alibi quaternos, ut «Quippe vetor fatis? Pallasne», alibi ternos, «secum dea corde». In delectu autem verborum ac selectione Virgilius iudicari potest et studiosus et prudens, at ille rancidum nescio quid videtur sapere; verum de delectu ac structura dicere ocii est maioris operaeque magis elucubratae. 70. Varietas igitur affert suum numeris ornatum ac decorem eaque paratur multis ac diversis modis, de quibus in universum praecipi hoc a me potest, ne scilicet iisdem in numeris sit diutius consistendum, quo satietas prohibeatur, neve aures longa de continuatione fatigentur, quo vitio non pauci laborant. Particulatim autem attingam complura; nam omnia, infinitum pene id esset, nec necessarium iudico, quando via ipsa e paucis commonstratis satis patefiet, vobis praesertim quibus studia haec sunt familiarissima. Unisyllabae voces et inchoandis et finiendis versibus varietatem afferunt numerorum, valideque illos sistunt si a spondeis foveantur, auspicando praesertim versu; stabiliunt enim sonorem, qui unus est in unius syllabae voce, quod Virgilius frequentissime servavit in principiis enarrationum praecipue, ut «Urbs antiqua fuit», «Est in conspectu longo locus», «Rex arva Latinus», «Est specus ingens», «Est curvo anfractu vallis», «Ut belli signum», «Sic fatur lacrimans», «At regina gravi». Non quod non et dactylus recte et commode iusta collocetur, ut «Tu quoque litoribus nostris», et «Mos erat Hesperio in Latio», et «Nox

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69. E che dire del fatto che, quando usa collegamenti, poi si ferma, come in «Aeoliam venit» e «circum claustra fremunt?»200 Quegli va oltre volando, pensando soltanto a scorrere, senza usare alcuno iato o per sollevare la voce o per frenare il tono. Invece Virgilio, per dare stabilità al ritmo, ricorre due volte a quattro spondei, adoperando in un verso l’elisione, «illum expirantem tranfixo pectore flammas», nell’altro non usando alcuno iato, «luctantis ventos, tempestatesque sonoras». Che dire di quando soggiunse: «illi indignantes magno cum murmure», e «ni faciat maria ac terras»?201 In che misura riuscì ad aumentare la gravità del ritmo con l’uno e l’altro iato! E che altro dire? chiamò in aiuto quattro volte202 i bisillabi 203 ricordandosi delle parole bisillabiche e del loro valore ritmico: ora sei, come in «vela dabant et spumas salis aere ruebant»; ora cinque: «circum claustra fremunt, celsa sedet Aeolus»; altrove quattro: «quippe vetor fatis. Pallasne…»; altrove tre, come in «secum dea corde». Nella scelta e nella selezione delle parole Virgilio può anche essere giudicato attento e saggio, ma quell’altro sembra avere un non so che di rancido; ma per parlare della scelta e della struttura è necessario avere più tempo libero e dedicare un discorso più approfondito. 70. La varietà dunque aggiunge la sua bellezza e il suo ornamento al ritmo e la si può ottenere in molti modi diversi, su cui in generale questo consiglio io posso dare, cioè di non insistere troppo a lungo con lo stesso ritmo per evitare la nausea o che l’orecchio si stanchi per l’eccessivo prolungarsi di esso, che è un vizio di cui non pochi son quelli che sono vittima. In particolare poi toccherò più punti, perché per toccarli tutti ci vorrebbe un’infinità, né penso che sarebbe necessario farlo, dal momento che la via si apre completamente quando se ne siano mostrati alcuni, specialmente per voi che avete molta familiarità con questi studi. I monosillabi arrecano varietà all’inizio e alla fine dei versi, e li rendono saldi se hanno l’aiuto degli spondei, specialmente nel dare l’avvio ad un verso; infatti rinsaldano l’elemento sonoro che è solo uno nel monosillabo, uso che Virgilio molto di frequente osservò specialmente all’inizio delle narrazioni, come in «Fu un’antica città»; «V’è un luogo in un lungo prospetto»; «Re Latino campi [e città reggeva]»; «V’è una caverna immensa»; «V’è una valle con una grande curva»; «Or il segnale di guerra»; «Sì parla lacrimando»; «Ma la regina da grave [tormento ferita]».204 Non perché il dattilo collocato subito non vada bene e magnificamente, come: «Tu pure (tu quoque) ai nostri lidi», ed «Era costume (mos erat) nel Lazio 467

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erat et somnus», verum aures si consulueris, stabilimentum illud soni ab ipso initio tanquam a fundamento firmiter iacto, nescio quid amplius plenitudine delectat sua. 71. In fine quoque eadem collocatio, dum tamen sit rara, delectat etiam varietate ipsa; praeponendus tamen est dactylus, qui eo in loco idem habet instar ad tarditatem temperandam quam ad moderandam in illo celeritatem spondeus; ibi tamen sequitur, hic praeit, ut «praeruptus aquae mons», et «fractae, vires, aversa deae mens», et «ruit oceano nox», et «Divum pater atque hominum rex». Sed nec Lucretius est veritus spondeum praemittere, cum dixit: «et ingrati genitoribus inventi sunt». Eaedem quoque monosyllabae binae simul collocatae, maxime post dactylicam aliquam properationem, numerosae sunt in medio; sistunt enim tenorem, quem etiam varietate condiunt, ut in illo «Monstravit caput acris equi, sic nam fore bello», et «Praecipue cum iam hic trabibus contextus acernis», et «Visa viri, nox cum terras obscura teneret»; item «Quae relligio aut quae machina belli?» et «Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent?». In principio similem in modum, veluti ab ipso fundamento tenorem stabiliunt, ut «Quam tu urbem, soror, hanc cernes», et «Nos te Dardania incensa», et «Si nunc se nobis ille aureus arbore ramus». In fine quoque id praestant, ut dactylicam aliquam properationem contineant ac maturent pausam, ut «Dardaniumque ducem, tyria Carthagine qui nunc», et «manibusque meis Mezentius hic est», et «quam pro me curam geris, hanc, pater optime, pro me / Deponas». Atque hic quidem versus et in principio et in fine atque in ipso medio monosyllabis instructus est magna cum dignitate. Illo vero quid blandius? cumque sit versus maxime artificiosus, sponte tamen sua maxime etiam fusus apparet: «I decus, i, nostrum, melioribus utere fatis». 72. Duarum autem syllabarum vocibus suus ubique decor inest; quae ubi binatim fuerint aut ternatim collocatae aut forte quaternatim quinatim ve, sive etiam senatim, sive inchoandis sive finiendis versibus sive intertexendis, mirum est quantopere delectent; repellunt enim satietatem illam auribus tam improbe inimicam, ut «Monstra deum refero», et «Ture calent arae», et «Proiice tela manu, sanguis meus», et «Et campos

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d’Esperia», ed «Era notte (nox erat) ed il sonno»,205 ma se stai attento all’orecchio, quella salda collocazione del suono proprio all’inizio, gettato quasi a fondamento con fermezza, non so come diletta di più con la sua pienezza. 71. Parimenti la collocazione dei monosillabi anche alla fine, purché sia rara tuttavia, piace a cagione anch’essa della varietà; ma bisogna disporre prima un dattilo che in quel luogo ha la funzione di moderare la lentezza, la stessa che ha lo spondeo nei confronti della celerità; lì tuttavia viene dopo, qui viene prima: per esempio «praeruptus aquae mons», et «fractae, vires, aversa deae mens», e «ruit oceano nox», e «Divum pater atque hominum rex».206 Eppure Lucrezio non ebbe timore di collocarvi prima uno spondeo, quando disse: «et ingrati genitoribus inventi sunt».207 Le stesse voci monosillabiche collocate a due a due, specialmente dopo un’accelerazione dattilica, hanno un bel ritmo nel mezzo del verso: infatti frenano l’andamento e lo abbelliscono anche con la varietà, come in quel verso «Monstravit caput acris equi, sic nam fore bello», e nell’altro «Praecipue cum iam hic trabibus contextus acernis», e nell’altro «Visa viri, nox cum terras obscura teneret»; così anche «Quae relligio aut quae machina belli?» e «Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent?»208 Allo stesso modo collocati al principio del verso danno stabilità al suo andamento quasi dalle sue fondamenta: per esempio «Quam tu urbem, soror, hanc cernes», e «Nos te Dardania incensa», e «Si nunc se nobis ille aureus arbore ramus».209 Collocati alla fine, i monosillabi hanno anche l’effetto di frenare l’accelerazione del dattilo e creare una pausa come per esempio «Dardaniumque ducem, Tyria Carthagine qui nunc», e «Manibusque meis Mezentius hic est», e «Quam pro me curam geris, hanc, pater optime, pro me / Deponas».210 Ma questo verso è costruito con monosillabi al principio e alla fine e perfino nel mezzo con un effetto di grande dignità. Ma che c’è di più dolce di quell’altro verso, che pur essendo estremamente elaborato, si mostra tuttavia straordinariamente fluido: «I decus, i, nostrum, melioribus utere fatis».211 72. Nelle voci bisillabiche è poi insito comunque il decoro; esse, quando saranno collocate a due per volta o a tre per volta, o si dà il caso a quattro o a cinque per volta, o anche a sei, sia all’inizio, sia alla fine, sia nel bel mezzo, è meraviglioso l’effetto che producono; infatti respingono quel senso di nausea tanto ostico all’orecchio: «Monstra deum refero», e «Thure calent arae», e «Proiice tela manu, sanguis meus», e «Et campos 469

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ubi Troia fuit, feror exul in altum», et «Ipsa canas oro. Finem dedit ore loquendi», et «constituam ante aras voti reus extaque salsos», et «Procubuit subito et coelum tonat omne fragore», et «Quid tum sola fuga nautas comitabor». Quid quod historici quoque voces huiuscemodi perlibenter videntur fuisse complexi, ut Sallustius: «arma, tela, equi, viri, hostes atque cives permisti»? 73. Trium syllabarum verba ternatim collocata variant etiam numeros, quadam cum moderatione, ut «taciti ventura videbant», et «croceo velamen acantho». Qua in collocatione et textu si adhibeatur aut hiatus vocalium aut explosio, non parum sibi gravitatis numerus ipse adiunget, quadam etiam cum generositate, ut «omnis uno ordine habetis Achivos», et «oculis phrygia agmina circumspexit»; item et «Troiae supremum audire laborem». In primis quoque carminis partibus adiuvat textura haec numerositatem, ut «mutemus clypeos Danaumque insignia». 74. Quod si collisio inciderit, tenorem utique versus efferet, ut «undique collecti invadunt», et «gemini Atridae Dolopumque exercitus». Huiusmodi autem dictiones binae ubi collocabuntur, non est cur de his magna habeatur ratio, praesertim in principio; at ubi quaternae, numerum bene implent, ut «lubrica convolvit sublato pectore terga», et «Latonae tacitum pertentant gaudia pectus». Magnam vero generositatem praesefert numerus quotiens primas, medias et ultimas versus partes terna possederint trisyllaba, ut Romanos rerum dominos, gentemque togatam,

quem et contextum et numerum nunquam meo iudicio satis digne laudare quisquam poterit. Licet etiam cum dignitate et aurium gratia implere, versum quinque etiam trisyllabis, ut Talia narrabat relegens errata retrorsum Litora Achaemenides.

Tot vero trisyllaborum continuatio, ni magno fiat cum delectu, versum reddet ignobilem; Virgilius tamen, ne parte ex aliqua varietati dees-

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ubi Troia fuit, feror exul in altum», e «Ipsa canas oro. Finem dedit ore loquendi», e «constituam ante aras voti reus extaque salsos», e «Procubuit subito et coelum tonat omne fragore», e «Quid tum sola fuga nautas comitabor».212 E che dire del fatto che anche gli storiografi pare che abbiano volentieri accolto voci come queste? Un esempio è quello di Sallustio: «arma, tela, equi, viri, hostes atque cives permisti».213 73. I trisillabi collocati in una serie di tre variano anch’essi il ritmo, con una certa moderazione come nel caso di «Taciti ventura videbant», e di «Croceo velamen acantho».214 Se collocati in questo modo e se nel testo si adopera la dialefe o la sinalefe, non poca è la gravità che il ritmo accresce, anche con un certo sfarzo, come in «omnis uno ordine habetis Achivos», e in «oculis Phrygia agmina circumspexit»; e allo stesso modo in «Troiae supremum audire laborem».215 In primo luogo anche questo modo in cui sono intessute le parti del verso aiuta l’effetto ritmico del verso, come in «mutemus clypeos Danaumque insignia».216 74. E se s’introduce la sinalefe il verso solleverà comunque il tono come in «Undique collecti invadunt» e in «gemini Atridae Dolopumque exercitus».217 Quando poi parole di questo genere saranno collocate in coppia, non c’è ragione di non tenerne gran conto, specialmente al principio, ma quando sono collocate in una serie di quattro rendono pieno il ritmo, come in «Lubrica convolvit sublato pectore terga», e in «Latonae tacitum pertentant gaudia pectus».218 Ma il ritmo è sfarzoso, ogni volta che tre trisillabi di seguito occuperanno le prime, le mediane e le ultime parti del verso, come in Romanos rerum dominos, gentemque togatam,219

di cui a mio parere non potrà mai qualcuno degnamente apprezzare abbastanza il contesto ed il ritmo. Si può anche rendere pieno il verso con la dignità e con il gradimento dell’orecchio mediante cinque trisillabi, come in Talia narrabat relegens errata retrorsum litora Achaemenides.220

Ma l’insistenza di tanti trisillabi, se non produce grande diletto, toglierà al verso ogni pregio; Virgilio tuttavia, per non venir meno alla 471

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set, protulit hunc: «Occurrit veterem Anchisen agnovit amicum», in quo praeter varietatis studium ac trium dictionum ab vocali “a” incipientium assonantiam, nesciam quid insit quod iure laudetur. Inerit autem quod laudetur etiam vehementer, si post duo trisyllaba tetrasyllabum collocabitur, ut Currite ducentes subtegmina, currite, fusi.

75. Nec vero is sum qui negare ausim huiusmodi multa faciendis versibus sponte sua ac pene fortuito occurrere, multo etiam plura ex habitu exercitationeque, verum tempus ipsum et artifex rerum harum est omnium et iudex. Itaque nec temere ab Horatio praecipitur nonum premi in annum opus debere. Quid enim numero hoc vel iucundius vel gravius? An deus immensi venias maris et tua nautae.

Qui cum sit constitutus primum e monosyllabo, inde dyssyllabo, deinde duobus e trisyllabis, post sequatur dyssyllabum ibique solvatur, deinceps exurgat rursus monosyllabum duobus cum dyssyllabis, fieri quidem potest uti similis eius versus sponte aliquando sua proveniat; plures tamen vix repentinus ille impetus effundet, quos longa quidem meditatio diuturniorque cogitatio et cura, quae habitus ipsius artisque comites atque ancillae sunt, et saepius et suo in loco construxerint. Quis enim domum omnem fortuito aedificatam aut navem dixerit? Num casus insequentem fecit versum an ars diuturniorque pensitatio, Numina sola colant, tibi serviat ultima Thyle,

qui constet e dactylico trisyllabo primum, tribus inde dyssyllabis, post duobus e trisyllabis, item dactylicis, ultimo e dyssyllabo habeatque se-

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varietà in nessuno dei suoi aspetti, offrì un verso come questo: «Occurrit veterem Anchisen agnovit amicum»,221 nel quale tranne la ricerca di varietà e dell’assonanza di tre voci che iniziano con la vocale a, non saprei che ci sia da poter giustamente apprezzare. Ci sarà invece un motivo di apprezzamento, e grande perfino, se dopo due trisillabi sarà collocato un quadrisillabo, come in Currite ducentes subtegmina, currite, fusi.222

75. Né sono io quello che oserebbe negare che molti di questi accorgimenti vengono quasi spontaneamente e per caso nel comporre i versi, e ne vengono anche molti di più per l’abituale esercizio, ma è la circostanza a fare la parte dell’artista e del giudice in tutto questo. Pertanto non senza ragione Orazio insegna che per pubblicare un’opera occorre attendere nove anni.223 Che c’è infatti di più gradevole e ponderato di un ritmo come questo? An Deus immensi venias maris, et tua nautae [numina sola colant].224

Con un ritmo come questo, costituito prima da un monosillabo, poi da un disillabo,225 poi ancora da due trisillabi, in seguito da una voce di due sillabe dove la frase finisce, dopo di che insorge un monosillabo seguito da due voci di due sillabe ciascuna, potrebbe avvenire veramente che un verso simile a questo venisse fuori talvolta spontaneamente; comunque difficilmente l’impeto immediato ne esprimerà più d’uno, perché in effetti è solo una lunga riflessione e una cura consapevole, che accompagnano e aiutano l’abito artistico, lo potrebbero creare con una certa frequenza e al momento opportuno. Infatti, chi potrebbe dire che ogni edificio oppure ogni nave sia opera del caso? È stato il caso forse a produrre il verso seguente, o piuttosto la prolungata riflessione dell’arte? Numina sola colant, tibi serviat ultima Thyle.226

Un verso, questo, che consta prima di un trisillabo dattilico, poi di tre voci disillabiche, poi di due trisillabi, dattilici anch’essi, infine di un

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cum annominationem syllabarum, quae est ex primis, “tibi” et “Thyle”, et ex media dictionis quae dactylum quintum constituit? 76. Dictionum quae e quatuor constant syllabis ea ratio habenda est, ut neque ipsae mussent neque vastitatem faciant aliquam. Virgilius eas libenter in quarto et quinto pede collocat; et sistunt enim et implent numeros, temperantque celeritatem, siqua forte antecesserit, ut «tacitae per amica silentia lunae», et «totoque ingens extenditur antro», et «Danaumque insignia nobis», et «paribus curis vestigia figit», et «per tot ducta viros antiquae ab origine gentis». Item «pocula siquando saevae infecere novercae», et «aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi», et «Pergameamque voco laetam cognomine gentem», et «manibusque meis Mezentius hic est». Collocat easdem libenter in primis etiam locis subiicitque saepenumero spondeum ubi dactylicae voces illae fuerint, ut «Interea Aeneas urbem designat», et «Incipiam; fracti bello»; et «insequitur, clamorque virum»; et «funereas inferre faces». Non quod non et dactylum subnectat quandoque, adeo nihil in iis perpetuum est, quae ad varietatem pertinent, ut «Myrmidonum Dolopumve», et «Threiciamque Samum»; quin etiam spondeos aliquando iungit, ut «Argumentum ingens». 77. In quibus omnibus consulendae sunt aures videndumque ubi aut celeritate maiore aut tarditate aliqua opus sit. Ad haec quotiens aliquot simul eodem in versu collocantur, interiiciendae sunt dictiones aut duarum aut unius aut trium syllabarum, ut «Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter», et «Aeneadae in ferrum pro libertate ruebant», et «Olli discurrere pares discrimine nullo», et «Virginei volucrum vultus, foedissima ventris / Proluvies», et «Mittimus Eurypilum scitatum oracula Phoebi», et «Qualis populea moerens Philomela sub umbra», et «Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos». Sed nec lucretianus ille praetereundus hoc loco est versus: Squamigerum genus et volucres erumpere coelo.

Usus est Virgilius mirabili artificio cum vellet duas quatuor syllabarum voces easdemque dactylicas simul connectere; praemisit enim monosyllaba duo inter se copulata dixitque:

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bisillabo e insieme ha una ripetizione di sillabe data dalle prime sillabe di tibi e di Thyle e dalla sillaba posta al centro della parola (ultima) che costituisce il quinto dattilo. 76. Delle voci composte di quattro sillabe bisogna avere una considerazione tale da evitare che esse producano un borbottio e qualche stridore. Virgilio le colloca volentieri al quarto o al quinto piede, perché raffrenano e riempiono il ritmo, oltre a moderare la celerità, se si dà il caso che le preceda, come in «tacitae per amica silentia lunae», e in «totoque ingens extenditur antro», in «Danaumque insignia nobis» et in «paribus curis vestigia figit» e «Per tot ducta viros antiquae ab origine gentis».227 Così anche «Pocula si quando saevae infecere novercae», «Aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi», e «Pergameamque voco laetam cognomine gentem», e «manibusque meis Mezentius hic est».228 Le colloca volentieri anche in posizione iniziale e vi fa seguire spesso uno spondeo quando contengono un dattilo, come in «Interea Aeneas urbem designat», e «Incipiam; fracti bello»; «Insequitur, clamorque virum»; «Funereas inferre faces».229 Non che talora non vi aggiunga subito un dattilo, a tal punto manca una norma stabile per quel che riguarda la varietà: per esempio «Myrmidonum Dolopumve» et «Threiciamque Samum». Che anzi talora vi collega degli spondei, come in «Argumentum ingens».230 77. In tutti questi casi va tenuto presente l’orecchio e bisogna vedere dove sia necessaria una maggiore celerità o un qualche freno. Inoltre tutte le volte che vengono collocate nello stesso verso, bisogna introdurre delle voci di due o di una o di tre sillabe, come in «Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter», in «Aeneadae in ferrum pro libertate ruebant», in «Olli discurrere pares discrimine nullo», in «Virginei volucrum vultus, foedissima ventris / Proluvies», in «Mittimus Eurypylum scitatum oracula Phoebi», in «Qualis populea moerens Philomela sub umbra», e in «Praecipitat suadentque cadentia sidera somnos».231 Ma non dobbiamo trascurare a questo proposito nemmeno il seguente verso di Lucrezio: Squamigerum genus et volucres erumpere coelo.232

Virgilio usò un’arte mirabile quando volle collegare due voci di quattro sillabe entrambe dattiliche; vi fece precedere infatti due monosillabi connessi fra loro e disse: 475

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Hinc atque hinc glomerantur Oreades.

Quibus numeris quid excogitari potest vel hilarius vel quod auribus tam adulanter blandiatur? In quinto quoque et sexto mirifice huiusmodi dictiones implent aures, praesertim ubi fuerint spondaicae, ut Pallantis proavi de nomine Palanteum,

et Pilumno, quos ipsa decus dedit Orithyia.

78. Quid cum idem poeta tres simul collocavit quatuor syllabarum voces insonuitque: Cornua velatarum obvertimus antennarum?

Utque sonus esset vocalior, et explosionem adhibuit, cum dicere posset «vertimus», et id praestitit, mediae ut syllabae assonarent ultimis. Hilarem profecto ac maxime gratum numerum exhibuit Lueretius, duobus e tetrasyllabis iisque dactylicis, interiecto trisyllabo, post quoque collocato monosyllabo, inquiens: Omnigenis perfusa coloribus in genere omni.

Lucretiano hoc si non hilariorem, pleniorem certe Maro effudit, cum dixit: Continuo ventis surgentibus aut freta ponti.

Sed agite, quaeso, quos subdam versus considerate, dictionumque e quibus constant collocationem ac pedum solutiones et loca in quibus solutiones ipsae fiunt:

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Hinc atque hinc glomerantur Oreades.233

Che cosa si potrebbe escogitare o di più delizioso o più capace di carezzare dolcemente l’udito? Anche nella quinta o nella sesta posizione le voci di questo tipo riempiono di meraviglia l’udito, specialmente quando avessero il ritmo spondaico, come in Pallantis proavi de nomine Pallanteum,234

e in Pilumno, quos ipsa decus dedit Orithyia.235

78. E che dire del fatto che lo stesso poeta ha collocato insieme tre voci di quattro sillabe e ha fatto risuonare un verso come questo: Cornua velatarum obvertimus antennarum?236

E per far sì che il suono fosse più intenso adoperò anche l’elisione, potendo anche dire «vertimus», e fece in modo che fra le sillabe mediane e ultime si creasse un’assonanza. Certamente un ritmo delizioso ed estremamente gradevole offrì Lucrezio, collocando due quadrisillabi, per giunta dattilici, inserendo un trisillabo, collocandovi dopo un monosollabo, e dicendo: Omnigenis perfusa coloribus in genere omni.237

Se non più delizioso di questo verso di Lucrezio, ne compose certamente uno più sonoro Marone quando disse: Continuo ventis surgentibus aut freta ponti.238

Ma suvvia, vi prego, considerate i versi che ora citerò e la collocazione delle voci da cui sono formati, come i piedi siano sciolti e in quali sedi ciò avvenga:

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ACTIUS, II

Incipiunt agitata tumescere et horridus altis Montibus audiri fragor ac resonantia longe Litora misceri et nemorum increbrescere murmur.

79. Quibus considerandis neutique negligenda est literarum syllabarumque assultatio illa et tanquam annominatio: «agitata tumescere» et «longe litora». Egregium quoque peperit et Virgilius numerum post dictionem tetrasyllabam in quarto collocatam, praepositis dyssyllabis tribus, cum subdidisset monosyllabum ac dyssyllabum, e quibus dactylum constituit cecinitque: Victor equus fontisque avertitur et pede terram.

Quam decenter igitur atque apposite, quanta etiam numerorum cura diversis in locis tetrasyllabas dictiones Virgilius disposuerit declarant qui sequuntur versus: Interea medium Aeneas iam classe tenebat Certus iter fluetusque atros aquilone secabat, Moenia respiciens, quae iam infelicis Elisae Collucent flammis. Quae tantum accenderit ignem Causa latet; duri magno sed amore dolores Polluto, notumque furens quid foemina possit, Triste per augurium Teucrorum pectora ducunt.

In illis quoque: Arma diu senior desueta trementihus aevo Circumdat nequicquam humeris et inutile ferrum Cingitur ac densos fertur moriturus in hostes. Aedibus in mediis nudoque sub aetheris axe Ingens ara fuit iustaque veterrima laurus Incumbens arae atque umbra complexa penates. Hic Ecuba et natae nequicquam altaria circum, Praecipites atra ceu tempestate columbae, Condensae et divum amplexae simulacra sedebant. Ipsum autem sumptis Priamum iuvenilibus armis 478

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AZIO, II

Incipiunt agitata tumescere et horridus altis Montibus audiri fragor ac resonantia longe Litora misceri et nemorum increbrescere murmur.239

79. Per osservare questi accorgimenti non si possono trascurare l’impatto e quasi ripercussione di sillabe, come «agitata tumescere» e «longe litora». Un eccellente ritmo creò Virgilio anche dopo aver collocato un quadrisillabo in quarta sede, disponendo avanti tre bisillabi e facendo seguire il monosillabo e il bisillabo con cui compose il dattilo e cantò così: Victor equus fontisque avertitur et pede terram.240

Con quanta eleganza e opportunità, con quanta attenzione anche al ritmo Virgilio abbia disposto in sedi diverse le voci quadrisillabe, lo dimostrano i versi seguenti: Interea medium Aeneas iam classe tenebat Certus iter fluetusque atros aquilone secabat, Moenia respiciens, quae iam infelicis Elisae Collucent flammis. Quae tantum accenderit ignem Causa latet; duri magno sed amore dolores Polluto, notumque furens quid foemina possit, Triste per augurium Teucrorum pectora ducunt.241

E anche quegli altri: Arma diu senior desueta trementihus aevo Circumdat nequicquam humeris et inutile ferrum Cingitur ac densos fertur moriturus in hostes. Aedibus in mediis nudoque sub aetheris axe Ingens ara fuit iustaque veterrima laurus Incumbens arae atque umbra complexa penates. Hic Hecuba et natae nequicquam altaria circum, Praecipites atra ceu tempestate columbae, Condensae et divum amplexae simulacra sedebant. Ipsum autem sumptis Priamum iuvenilibus armis 479

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ACTIUS, II

Ut vidit: «Quae mens tam dira, miserrime coniunx, Impulit his cingi telis, aut quo ruis?» inquit. «Non tali auxilio, nec defensoribus istis Tempus eget, non, si ipse meus nunc afforet Hector, Huc tandem concede, haec ara tuebitur omnes, Aut moriere simul».

Est eiusdem poetae versus: Si periturus abis, et nos rape in omnia tecum,

quem ipse novem refersit accentibus, tot monosyllabas ac dyssyllabas voces in eum congessit, quod est rarissimum. Itaque dum varietati consulit, nihil est quod non praestiterit, cui condiendae summum adhibendum est a poeta studium singularisque diligentia. 80. Earum dictionum quae pluribus quam e quatuor constant syllabis magna quoque habenda est ratio. Prisci Latini graecos secuti auctores iis frequentissime ad ultimos usi sunt locos, quibus scatet Lucretius, ut Quae mare navigerum, quae terras frugiferentis,

et Nata sit, an contra nascentibus insinuetur,

et Ut puerorum aetas improvida ludificetur;

quin etiam locis ut his satisfacerent, solvebant dipthongos vocalesque simul coactas, ut Effice ut interea fera munera militiai;

quin etiam intermiscebant superfluentis syllabas, ut

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Pontano.indb 480

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AZIO, II

Ut vidit: «Quae mens tam dira, miserrime coniunx, Impulit his cingi telis, aut quo ruis?» inquit «Non tali auxilio, nec defensoribus istis Huc tandem concede, haec ara tuebitur omnes, Aut moriere simul».242

Dello stesso poeta è il verso: Si periturus abis, et nos rape in omnia tecum,243

in cui egli inserì nove accenti;244 inoltre vi condensò tante voci monosillabiche e bisillabiche, che è cosa rarissima. Perciò, mentre si proponeva di ottenere la varietà, non c’è nulla che non abbia fatto di ciò cui un poeta deve applicarsi per renderla piacevole, con la più profonda dedizione ed eccezionale impegno. 80. Anche di quelle voci che constano di più di quattro sillabe bisogna avere una grande considerazione. I Latini antichi, seguendo le orme degli autori greci se ne servivano molto frequentemente nelle ultime sedi, e Lucrezio ne abbonda; per esempio in Quae mare navigerum, quae terras frugiferentis,245

e Nata sit, an contra nascentibus insinuetur,246

e Ut puerorum aetas improvida ludificetur.247

Che anzi per soddisfare le esigenze di queste sedi scioglievano i dittonghi e le vocali contratte; per esempio in Effice ut interea fera munera militiai;248

E anzi vi inserivano sillabe superflue, come in

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Pontano.indb 481

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ACTIUS, II

Inter se nexu magis aut minus indupedita.

Aliquando et Horatius auribus hunc suis numerum exhibuit, ut Olim qui magnis legionibus imperitarint.

81. Sed neque Virgilius numerum hunc omnino reiecit, ut «Quarum quae forma pulcherrima Deiopean», et «nec Thesea Pyrithoumque», et «his Laodomia», et «grave olentia centaurea». Nihil est enim quod non raritas approbet, auribus taedium ac satietatem recusantibus, cum praesertim graeca lingua muneris his mirifice laetetur. Sed nec tamen debet raritas vacare diligentia. Enitet apud Virgilium nobilissimus hic dactylicus: Panditur interea domus omniparentis Olympi;

quo in versu quod desiderare iure possis omnino nihil est; nam quod detrahitur accentibus, id vero suppletur multitudine syllabarum, ut etiam in hoc alio: At Danaum proceres Agamemnoniaeque phalanges.

Et hunc quoque versum eadem multitudine syllabarum numerosum reddidit, trisyllabum statim pentasyllabo coniungens: Fortunatorum nemorum sedesque beatas.

Alium item, in quo simul illigat dyssyllaba etiam plura: Armentarius Afer agit tectumque laremque.

82. Implentur etiam numeri, quotiens quartus et quintus locus occupantur ab huiusmodi dictionibus aut spondaicis, aut dactylicis, ut «immedicabile vulnus», et «tempestatibus actas», et «lychni laqueari-

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Pontano.indb 482

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AZIO, II

Inter se nexu magis aut minus indupedita.249

Talvolta anche Orazio esibì questo ritmo secondo il suo gusto, come in Olim qui magnis legionibus imperitarint.250

81. Ma nemmeno Virgilio scartò del tutto questo ritmo, come in Quarum quae forma pulcherrima Deiopean,

e in «nec Thesea Pirithoumque», in «His Laodomia», in «grave olentia centaurea».251 Non c’è nulla che la rarità non renda ben accetto all’udito che rifiuta la noia e il disgusto, specialmente perché essa nella lingua greca è molto piacevole. Tuttavia la rarità non deve esser priva di cura. In Virgilio spicca questo eccellente ritmo dattilico: Panditur interea domus omniparentis Olympi;252

in questo verso non c’è nulla che lasci a desiderare; infatti quel che si toglie alla accentuazione, viene supplito dalla molteplicità delle sillabe, come avviene anche in quest’altro: At Danaum proceres Agamemnoniaeque phalanges.253

E Virgilio ha reso anche un verso come questo armonioso con la stessa molteplicità delle sillabe congiungendo un pentasillabo con un trisillabo fatto seguire immediatamente: Fortunatorum nemorum sedesque beatas.254

Così in quest’altro, in cui lega insieme anche più bisillabi: Armentarius Afer agit tectumque laremque.255

82. I ritmi sono pieni, ogni volta che la quarta e la quinta sede sono occupate da parole di questo genere o spondaiche o dattiliche, come in «immedicabile vulnus», e in «tempestatibus actas», e «lychni laqueari483

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ACTIUS, II

bus aureis» (cui numero multum est splendoris additum ab insequenti dipthongo, quod facile intelliges si dixeris «laquearibus altis»), et «Corybantiaque aera», et «Hinc Drepani me portus et illaetabilis ora». Versus autem ille petronianus, etsi non abiiciendus, videri fortasse potest aliquanto vastior: Et periturorum deiecit tela Gigantum.

83. Prisci illi, ut fuere polysyllabarum studiosi dictionum, quo uti commodius illis possent, syllabam quandoque externam ac superfluentem interposuere, ut dixi; hinc manavit “induperator”, “indugredi”, “indupeditus”. Arte autem collocatae dictiones huiusmodi [sive] spondaicas post si trahant syllabas sive dactylicas, venustatem profecto suam retinent. Atque ut spondaicae implent, sic dactylicae suapte natura exhilarant, ut O fortunatae gentes, Saturnia regna; Fortunatus et ille, Deos qui novit agrestis,

et Acrisioneis Danae fundasse colonis; Eruet ille Argos Agamemnoniasque Mycenas.

Quid ille? Degeneremque Neoptolemum narrare memento.

Quanto est temperamento conditus, dactylorum celeritate spondaica tarditate temperata! Item: Ora modis Anchisiades pallentia miris.

Quid et hic? Et centumgeminus Briareus ac belua Lernae. 484

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AZIO, II

bus aureis» (a questo ritmo è stato aggiunto molto splendore dal successivo dittongo, cosa che facilmente si capirebbe se invece dicessi «laquearibus altis»), e in «Corybantiaque aera» e in «Hinc Drepani me portus et illaetabilis ora».256 Ma quel verso di Petronio, anche se non va respinto, potrebbe forse sembrare un po’ aspro: Et periturorum deiecit tela Gigantum.257

83. Gli antichi, amanti com’erano delle parole polisillabiche, per poterle usare più agevolmente inserirono talora una sillaba estranea e superflua, come ho detto; di qui derivò induperator, indugredi, indupetitus.258 Collocate ad arte, parole come queste, che si tirino dietro spondei o dattili, certamente serbano una loro bellezza. E come gli spondei hanno un effetto di pienezza, così i dattili hanno un effetto di leggiadria. Esempi: O fortunatae gentes, Saturnia regna; Fortunatus et ille, Deos qui novit agrestis,259

e Acrisioneis Danae fundasse colonis; Eruet ille Argos Agamemnoniasque Mycenas.260

Che dire di quell’altro? Degeneremque Neoptolemum narrare memento.261

Com’è abbellito dalla giusta misura, per la celerità del dattilo moderata dalla posatezza dello spondeo! Così ancora: Ora modis Anchisiades pallentia miris.262

E che ne dite di questo? Et centumgeminus Briareus ac belua Lernae.263 485

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ACTIUS, II

Quam est generosus, nedum canorus et plenus, quod praestat tum syllaba “eus” in dipthongum coacta, tum particula “ac”, quae si inde eiiciatur, sonus ipse in medio pronuntiationis cursu concidet. Est etiam ille admodum plenus et gravis: Amphitryoniadae magno divisque ferebat;

itemque Laomedontiadae, bellum ne inferre paratis?.

84. Itaque ut primis in locis collocata et implent sonum et versum honestant, sic in fine faciunt illum quodammodo exilire nimiam ob celeritatem; sunt enim pene lubrica, ni polysyllaborum ipsorum natura, hoc est literae syllabaeque e quibus constant, tenorem sustentent, quale illud: Hyrtacidae ante omnes exit locus Hippocoontis,

et …nec Thesea Pyrithoumque,

et Quales Threiciae cum flumina Thermodoontis.

Quocirca ars, adhibita industria, potest ubique numeris subvenire, ut Ille pedem referens et inutilis inque ligatus.

Suffecit multitudine syllabarum quod aliter in pausa subtractum esset accentibus. Lucretius quoque non indecenter excoluit ilum suum et dyssyllabis et monosyllabo et literarum syllabarumque annominationibus:

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AZIO, II

Come è prezioso, nonché canoro e sonoro! effetto dovuto alla sillaba eus contratta in un dittongo, alla particella ac, che se vi venissero eliminate, il tono stesso nel mezzo della recitazione calerebbe. Infatti è molto pieno e grave questo: Amphitryoniadae magno divisque ferebat;264

e similmente: Laomedontiadae, bellum ne inferre paratis?265

84. Adunque, come collocate nelle prime sedi danno un suono pieno e sollevano il tono del verso, così alla fine lo rendono in qualche modo leggiero per la eccessiva celerità; infatti sono quasi scivolosi, se la natura degli stessi polisillabi, cioè le lettere e le sillabe di cui constano, non ne sostenessero il tono, come in quel verso: Hyrtacidae ante omnes exit locus Hippocoontis,266

e nell’altro: …nec Thesea Pirithoumque,267

e nell’altro ancora: Quales Threiciae cum flumina Thermodoontis.268

Perciò l’arte, aiutata dallo studio, può in ogni caso venire in soccorso del ritmo, come in Ille pedem referens et inutilis inque ligatus.269

Con la molteplicità delle sillabe rimediò a quello che altrimenti nella pausa sarebbe stato tolto agli accenti. Anche Lucrezio non senza la dovuta convenienza ebbe cura di quel suo ritmo con i bisillabi, con un monosilabo e con la ripetizione di lettere e di sillabe:

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ACTIUS, II

Multa siti prostrata viam per proque voluta.

85. Non sine summa animi pensione collocavit Virgilius in quarto et quinto loco polysyllabum, e cuius primis syllabis statueret spondeum: unus Qui fuit in Teucris et servantissimus aequi.

Horatius quoque prudenter artificioseque temperavit illum suum: Disiecit medium fortissima Tyndaridarum.

Versus hi lucretiani declarare possunt quam sordescant huiusmodi numeri nisi dictiones ipsae sustentent eos: Materies ut suppeditet rebus reparandis,

et Sed magis aeterna pollentia simplicitate,

et Tandem deducunt in tales disposituras.

Dat autem illi veniam vetustas numerorum rudis nec minus etiam materia ipsa tam humilis quam certe est. Quid ille alius? Id facit exiguum clinamen principiorum;

item alius? Et erunt et crescent inque valebunt.

86. Multa possent iis subiici, sed neque poetam nunc instituimus et vos paucis his iure contenti esse potestis. Quocirca attingamus etiam alia, cum praesertim e vitio comparetur aliquando laus, quae virtutis 488

Pontano.indb 488

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AZIO, II

Multa siti prostrata viam per proque voluta.270

85. Non senza riflessione Virgilio collocò nella quarta e quinta sede un polisillabo, disponendo uno spondeo nelle sue prime sillabe: unus Qui fuit in Teucris et servantissimus aequi.271

Anche Orazio modulò quel suo ritmo famoso con riflessione e arte: Disiecit medium fortissima Tyndaridarum.272

Questi versi di Lucrezio possono dimostrare quanto siano squallidi ritmi di questo genere se non sono sostenuti proprio dalle parole adatte: Materies ut suppeditet rebus reparandis,

e Sed magis aeterna pollentia simplicitate,

e Tandem deducunt in tales disposituras.273

Ma lo scusano l’arcaicità rude dei ritmi e non meno la stessa materia così umile come certamente è. E che dire di quell’altro? Id facit exiguum clinamen principiorum.

La stessa cosa si può dire di quest’altro: et erunt et crescent inque valebunt.274

86. Molto si potrebbe aggiungere, ma noi non intendiamo formare il poeta e voi potete con questo che ho detto essere soddisfatti. Perciò tocchiamo anche altri argomenti, specialmente perché mediante i difetti 489

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ACTIUS, II

est propria. Constat versus heroicus, quem non improprie agnominare generosum possumus, sex e pedibus, unde graeco nomine “hexameter”, nostro “senarius” est vocatus; singuli pedes singula constituunt metra. Probantur versus illi maxime qui inter dimetiendum inveniuntur complicatis inter se pedibus invicemque insertis, ut pes pedi sit tanquam catena vinctus. Nihilominus quibusdam in locis qui soluti inveniuntur reprehensione vacant, ut cum post primum et quintum pedem solutio fit estque ipsa dactylica; nimia tamen importunaque solutio vitiosa est. Ac nihilominus placet adeo varietas, ut interdum etiam solutione ab ipsa quaeratur numerositas carminisque ipsius decorum, quod accuratior ars facile quidem praestat, id quod suis in locis iisque singulis conabor ostendere, ut in hoc: Iussi numina magna deum veneramur et inde.

87. Non eo inficias primum pedem saepissime solutum incedere ac sine ullis vinculis, praecipue cum voces illae aut trium fuerint syllabarum ut «unius ob noxam», aut etiam unius syllabae, ut «Haec sunt quae nostra liceat». At cum sunt duarum et spondaicae, videtur sine aurium offensa vitium hoc fieri minime posse. Etiam lucretianus ille nescio quomodo tanquam deficiente anhelitu in pronuntiando concidit: Fulmen detulit in terram mortalibus ignem.

Nihilominus et hinc quoque numerum sibi egregium in versu, quem dixi, Virgilius comparavit, conferta post acie tot dactylis; quod idem servavit in aliis quibusdam versibus quos tamen dyssyllabis honestavit: Tantos illa suo rumpebat pectore questus;

item Tanta mole viri turritis puppibus instant;

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AZIO, II

talora ci si procura la lode, che spetta proprio alla virtù. Il verso eroico, che non impropriamente possiamo chiamare nobile, è formato da sei piedi, donde la denominazione greca di «esametro», e la nostra 275 di «senario»; ogni piede costituisce un «metro». Sono ben accetti soprattutto quei versi nel corso dei quali i piedi sono fra loro intrecciati, in modo che un piede risulti legato all’altro e quasi incatenato.276 Ciò nonostante, se in qualche punto si trovano metri senza legame,277 come quando manca il legamento dopo il primo e il quinto piede e vi è un dattilo, non ricevono una critica negativa; e tuttavia l’eccessiva mancanza di legami è difettosa. Eppure la varietà è tanto gradita, che proprio con quella divaricazione certe volte è ricercata l’armonica bellezza della poesia, che facilmente la particolare cura artistica procura, come cercherò di mostrare nei casi dovuti e specifici; come in questo caso: Iussi numina magna deum veneramur et inde.278

87. Non contesto il fatto che il primo piede molto spesso proceda slegato e senza alcun legame, specie quando le voci o sono di tre sillabe come «unius ob noxam», o anche di una sola sillaba come: «Haec sunt quae nostra liceat».279 Ma quando sono di due sillabe e spondaiche sembra che il difetto non possa esserci senza offendere il gusto. Anche quel verso di Lucrezio, non so come, nel pronunciarlo cala come per mancanza di fiato: Fulmen detulit in terram mortalibus ignem.280

Nondimeno anche di qui Virgilio riuscì a creare il ritmo straordinario che vi ho detto, una volta riempito il fronte di tanti dattili; un modo da lui una volta osservato in alcuni altri versi che tuttavia abbellì con bisillabi: Tantos illa suo rumpebat pectore questus;

così ancora: Tanta mole viri turritis puppibus instant,281

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ACTIUS, II

etsi in his secundus sit pes complicatus, qui in illo est solutus, qua e re duplex illic facta est solutio; quam utramque fecit etiam in hoc: Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis;

uterque tamen pes est dactylus; quam ob causam, cum plures in hoc monosyllabae insint voces, solutiones ipsae minus apparent. Quod idem contingit etiam in hoc: Illi haec inter se dubiis de rebus agebant;

tum propter monosyllaba tum etiam propter hiatum; et in hoc quoque propter dactylum et monosyllabam vocem: Terres; haec via sola fuit, qua perdere posses.

At in hoc, quia duo praecedunt monosyllaba sequiturque dactylus, apparet manifestius: Sed tu desine velle, Deum praecepta secuti.

88. Quid ille in quo tres factae sunt solutiones eaeque dactylicae? Scilicet omnibus est labor impendendus .

Temperavit tamen celeritatem illam iterati dactyli tertius utique dactylus e monosyllabo dyssyllaboque compactus, duos secum accentus afferens; tertiam vero solutionem moderatus est statim subdendo tetrasyllabum, e quo et struxit spondeum et inde adiecto monosyllabo quartum conflavit dactylum, duplicem quoque secum accentum trahentem. Quae vero post secundum statim locum fiunt solutiones, eae quoque fiunt etiam cum dignitate quadamque aurium gratia, praesertim ubi insequuntur duo plura ve dyssyllaba numerique ipsi sunt dactylici, ut

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AZIO, II

sebbene in questi versi il secondo piede sia legato, mentre in quello precedente è sciolto, per la qual cosa avviene che lì per due volte i piedi siano sciolti; ne creò due anche in questo: Hic vir, hic est tibi quem promitti saepius audis;282

tuttavia ciascuno dei due piedi è un dattilo, per la qual cosa, essendoci in questo più voci monosillabiche, la stessa mancanza di legami fra i piedi vi appare di meno. La stessa cosa avviene anche in questo verso: Illi haec inter se dubiis de rebus agebant,283

sia a causa dei monosillabi, sia a causa dello iato (illi haec); e anche in questo verso per via del dattilo e della voce monosillabica: Terres; / haec via / sola fuit, qua perdere posses;284

ma in quest’altro verso, poiché precedono due monosillabi e segue un dattilo, l’effetto è più evidente: Sed tu desine velle, deum praecepta secuti.285

88. E che dire di quel verso nel quale il legame vien meno tre volte, per giunta con dattili? Questo per esempio: Scilicet omnibus est labor impendendus .286

Tuttavia il terzo dattilo composto da un monosillabo e da un bisillabo riuscì comunque a moderare la celerità dovuta alla ripetizione del dattilo, portando con sé due accenti; ma rese più equilibrato il terzo slegamento aggiungendo subito un quadrisillabo, col quale creò uno spondeo e quindi, aggiungendovi un monosillabo, un quarto dattilo, quadrisillabo che portava con sé anche due accenti. I mancati legamenti che si verificano subito dopo la seconda sede, anch’essi hanno un effetto di dignità e di una qualche gradevolezza in chi li ascolta, specialmente quando si susseguono due o più bisillabi e il ritmo è dattilico, come in

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ACTIUS, II

Aut aliquis latet error, equo ne credite, Teucri,

et Nec iam se capit unda, volat vapor ater ad auras,

et Extremi sinus orbis, ubi aera vincere summum,

aut etiam unum, videlicet cum alterum praecedit dyssyllabum, alterum subsequitur, ut Apparet domus intus et atria longa patescunt;

quo in verso triplex etiam fit solutio. Magnam quoque praesefert luculentiam ubi terna subsequuntur trisyllaba uno cum monosyllabo, ut Artificis scelus et taciti ventura videbant.

89. Impletur mirum etiam in modum numerus ubi subsequuntur spondei, non sine monosyllabo, ut Hoc Ithacus velit, et magno mercentur Atridae,

et Visa viri, nox cum terras obscura teneret.

Denique non caret dignitate quacunque ratione solutio hac in parte fiat, ut Nunc tantum sinus et statio male fida carinis,

et

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AZIO, II

Aut aliquis latet / error, equo ne credite, Teucri,

in Nec iam se capit / unda, volat vapor ater ad auras,

e in Extremi sinus / orbis, ubi aera vincere summum,287

o anche un solo bisillabo, evidentemente quando precede un bisillabo, e ne segue un altro, come in questo caso: Apparet domus / intus et / atria / longa patescunt;288

un verso nel quale i legamenti mancati sono anche tre. Un grande effetto di splendore si ha anche quando si susseguono tre trisillabi con un monosillabo, come in Artificis scelus et taciti ventura videbant.289

89. È meravigliosamente pieno il ritmo anche quando si susseguono spondei, non senza un monosillabo, come in Hoc Ithacus velit, et magno mercentur Atridae,

e in Visa viri, nox cum terras obscura teneret.290

Infine non è privo di dignità il mancato legamento, qualunque sia il modo in cui avviene, come in Nunc tantum sinus / et statio male fida carinis,

e in

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16/07/2019 13:06:28

ACTIUS, II

Classibus hic locus, hic acies certare solebant,

et Quo fremitus vocat et sullatus ad aethera clamor;

item Nunc positis novus exuviis nitidusque iuventa,

et Impleri nemus et colles clamore relinqui,

et Coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam,

et Quo Phoebus vocat errantis iubeatque reverti,

et Experiuntur et in medium quaesita reponunt;

quo in versu duo illa monosyllaba trium dactylorum praeproperam festinationem magna cum aurium voluptate remorantur. Persimilis huius videtur lucretianus hic: Vociferantur et exponunt praeclara reperta.

90. Ut autem celeritatem in virgiliano temperant bina monosyllaba inter dactylos constituta, sic in lucretiano tarditatem condit duos post dactylos monosyllabum duplici cum spondeo. Itaque solutiones hae ad secundum locum, dum sint artificiosae, sunt non solum gratae, verum etiam desiderabiles ob varietatem. Tertio quoquo in loco solutio non fit 496

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AZIO, II

Classibus hic locus, / hic acies certare solebant,

e in Quo fremitus vocat / et sullatus ad aethera clamor;

così in Nunc positus novus / exuviis nitidusque iuventa,

e in Impleri nemus / et colles clamore relinqui,

e in Coniugium vocat, / hoc praetexit nomine culpam,

e in Quo Phoebus vocat / errantis iubeatque reverti,

e in Experiuntur et / in medium quaesita reponunt,291

nel quale verso quei due monosillabi frenano la precipitosa celerità dei tre dattili con un effetto molto piacevole all’udito. Molto simile a quest’ultimo sembra il verso seguente di Lucrezio: Vociferantur et exponunt praeclara reperta.292

90. Come poi due monosillabi collocati fra dattili nel testo di Virgilio moderano la celerità, così nel testo di Lucrezio un monosillabo con un duplice spondeo abbellisce la celerità dopo due dattili. Perciò questa mancanza di legame fra i piedi alla seconda sede, purché sia fatto ad arte, è non solo gradevole, ma anche desiderabile in virtù della varietà. 497

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ACTIUS, II

sine dignitate, praecipue si tertius ipse locus fuerit dactylicus, et qui post sequuntur pedes fuerint et ipsi dactyli, ut Horrescit strictis seges ensibus aeraque fulgent;

quo in versu quartus quoque solvitur. Implet aures nescio quid etiam amplius, si subsequatur statim monosyllabum aut pes ipse tertius sistat in monosyllabo, ut Una dolo divum si foemina victa duorum,

et Externum tulit, aut cruor hic de stipite manat.

Habet et hic duplicem solutionem. Item: Interclusit hiems et terruit, auster euntis; Intactamque coli dedit et contemnere ventos; Demens et cantu vocat in certamina divos; Venturum Ausonios, en haec promissa fides est?

Hoc in versu et tertius desinit pes in monosyllabo, et cum alterum monosyllabum quartum ordiatur pedem, pausa ipsa conquiescit etiam tertio in monosyllabo, qui sextum claudit pedem. Est etiam versus ille numerosus, atque, ut ita dixerim, affabrefactus: Da deinde auxilium, pater, atque haec omina firma;

in quo quartus quoque pes liber incedit. Non caret etiam dignitate propter spondeos ac vocalium concursus versus ille: Nereidum matri et Neptuno Aegaeo.

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AZIO, II

In ogni terza sede il mancato legame fra i piedi non avviene senza effetto dignitoso, specialmente se la stessa terza sede sarà dattilica e i piedi successivi saranno dattili anch’essi, come in Horrescit strictis seges / ensibus / aeraque fulgent;293

verso in cui anche il quarto metro è sciolto. Soddisfa l’udito un non so che ancora di più ampio, che si verifica quando segue subito un monosillabo o il terzo piede si chiude con un monosillabo, come in Una dolo divum si / foemina victa duorum,

e in Externum tulit, / aut cruor / hic de stipite manat.294

Anche in questo verso il legame fra i piedi manca per due volte. Così anche in Interclusit hiems / et terruit, / auster euntis; Intactamque coli dedit / et contemnere / ventos; Demens et cantu vocat / in certamina / divos; Venturum Ausonios, en / haec promissa fides est?295

In questo verso anche il terzo piede si chiude con un monosillabo, e poiché un secondo monosillabo dà inizio al quarto piede, la pausa si dispone anche ad un terzo monosillabo, che chiude il sesto piede. È anche armonioso e, per così dire, fatto a regola d’arte quel verso: Da deinde auxilium, pater, / atque haec / omina firma,296

nel quale anche il quarto piede procede sciolto. Non manca di dignità anche quell’altro verso per gli spondei e l’incontro delle vocali. Nereidum matri et Neptuno Aegaeo.297 499

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ACTIUS, II

91. Sed raritas est quae latina in lingua huiusmodi versus condiat. Ad quartum locum facta solutio gignit magnitudinem, quodam etiam cum supercilio, praecipue si accesserit etiam collisio aut monosyllabum subsequatur, ut Vela cadunt, remis insurgimus, haud mora nautae,

et Mortalis hebetat visus tibi et humida circum,

et Fixerit aeripedem cervam licet aut Erymanthi,

et Incensae: moriamur et in media arma ruamus;

quo in versu tertius quoque pes liber est; habet pondus quoque suum, ubi quartus ipse pes ab altero incipit dyssyllabo desinitque in alterum, ut Vela damus vastumque cava trabe currimus aequor.

Hoc autem usu venit propter accentus ipsos, qui numerum augent, quod manifesto cernitur in his qui subsequuntur versibus; neque enim eam retinent magnitudinem: Regia portabat Tyriis duce laetus Achate; Insontem infando indicio, quia bella vetabat; Praedixit, vobis furiarum ego maxima pando; Dant maria et lenis crepitans vocat auster in altum.

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AZIO, II

91. Ma la rarità è quella che abbellisce versi come questi. Il quarto piede libero produce un effetto di grandezza, anche con una certa severità, specie se si aggiungerà anche un legamento o seguirà un monosillabo, come in Vela cadunt, remis insurgimus, / haud mora nautae,

e in Mortalis hebetat visus tibi et / humida circum,

e in Fixerit aeripedem cervam licet / aut Erymanthi,

e in Incensae: moriamur et / in media / arma ruamus;298

dove anche il terzo piede è libero; ha anche la sua efficacia il verso, quando ha il quarto piede che comincia con un bisillabo, e termina con un altro,299 come in Vela damus vastumque cava trabe currimus aequor.300

Ciò avviene usualmente proprio per via degli accenti, che rendono più intenso il ritmo, cosa che si manifesta chiaramente nei versi seguenti; e infatti non serbano quello stesso senso di grandezza questi: Regia portabat Tyriis duce laetus Achate; Insontem infando indicio, quia bella vetabat; Praedixit, vobis furiarum ego maxima pando; Dant maria et lenis crepitans vocat auster in altum.301

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ACTIUS, II

Contra quod inest subsequentibus pondus! Insideat quantus miserae Deus, at memor ille; Et campos ubi Troia fuit, feror exul in altum.

Item Olli somnum ingens rupit pavor ossaque et artus; Et Bellona manet te pronuba, nec face tantum.

Magna quoque inest et huic gravitas tum propter finale monosyllabum, tum etiam propter explosionem: Vertitur interea coelum et ruit Oceano nox;

longe huic alteri maior propter terna tetrasyllaba eaque dactylica, etiam ad solutionem ipsam adiecto monosyllabo, qui numerum ipsum profluentem sistat: Incipiunt agitata tumescere et aridus altis,

cui numero ne syllabarum quidem annominatio defuit, ut ante diximus. 92. Denique quid hoc ipso versu luculentius? O patria, o divum domus, Ilium, et inclyta bello Moenia Dardanidum.

Praesefert supercilium quasi quoddam et hic: Aspectans silvam immensam et sic ore profatur;

cum enim explosio tum monosyllaborum duplicitas spondaicis ipsis numeris pondus adiiciunt; quod idem praestant dactylicis in illo:

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AZIO, II

Qual efficacia invece è contenuta nei versi che seguono: Insideat quantus miserae deus, at memor ille; Et campos ubi Troia fuit, feror exul in altum302

Così anche nei seguenti: Olli somnum ingens rupit pavor ossaque et artus; Et Bellona manet te pronuba, nec face tantum.303

Una grande gravità possiede anche questo verso sia per il monosillabo finale, sia anche per il troncamento:304 Vertitur interea coelum et ruit Oceano nox;305

Di gran lunga superiore a quest’altro per i tre quadrisillabi e per giunta dattilici, per di più con l’aggiunta di un monosillabo proprio dove i metri non sono collegati, capace di frenare il metro eccessivamente fluido. Incipiunt agitata tumescere et aridus altis,306

Al cui ritmo non manca nemmeno la ripetizione delle sillabe, come abbiamo detto prima. 92. Infine che c’è di più splendido di questo verso di Lucrezio?: O patria, o divum domus, Ilium, et inclyta bello Moenia Dardanidum.307

Esprime quasi una severità anche questo verso: Aspectans silvam immensam et sic ore profatur;308

poiché infatti non solo il troncamento ma anche la duplicità dei monosillabi aggiungono efficacia allo stesso ritmo; questo stesso effetto hanno i monosillabi per via dei dattili in quel verso: 503

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ACTIUS, II

Lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto;

quam ad rem non parum etiam confert prior solutio, quae fit ad tertium pedem. 93. Numerorum igitur varietas diversis modis quaerenda est, nec una tantum ratione complectenda, quam nunc pedum eorundem continuatio, nunc variatio illorum pariat. Spondei namque continuati numeros stabiliunt redduntque illos subtristiores, neque enim fluere illos sinunt. Contra dactyli properare illos cogunt et hilaritatem quasi quandam afferunt. Eorum vero mistura illos temperat, quae tamen et ipsa fit non uno modo, sed nunc alternis, hoc est alterum post alterum collocando, nunc geminatim aut ternatim, alias hunc quam illum praeponendo selectius aut posterius statuendo. 94. Voces item ipsae aut unius aut duarum aut plurium syllabarum, nunc in hoc nunc alio atque alio in loco dispositae varietatem pariunt. Unius enim syllabae voces sistunt ac sustentant; duarum vero pro natura temporum aut remorantur aut festinant aut etiam moderantur; nam binatim, ternatim, quaternatim ve dispositae referciunt sonis versum atque illustrant numeros; e tribus vero aut e quatuor aut compluribus e syllabis constitutae voces similem in modum sequuntur naturam temporum, quae in ipsis sunt inconstantiora. Solutiones igitur et complicationes nexusque illi pedum, collisiones item atque explosiones hiatusque illi atque complosiones quantum conferant, loci etiam ipsi carminis, ex iis quae dicta sunt iudicari abunde potest. 95. Mirum est etiam quantum tum literae tum syllabae aut adiungant numerositati ant demant ab ea, cum vocalium aliae sint plenae ac sonorae, aliae exiles, clarae aliae aut contra subobscurae, omnes denique pro natura coniunctarum consonantium aliam atque aliam qualitatem suscipiant, proque loco collocationis, ubi primae ultimae ve aut mediae fuerint in constituendis dictionibus. Ad haec consonantes quoque literae causam afferunt laenitatis, asperitatis, optusionis, exibilationis, qualitatumque aliarum, quae syllabis inhaerent et item vocibus. De quibus quoniam satis scio expectari a vobis aliquid, praestabo et hoc perlibenter idque quanto fieri brevioribus poterit, in re praesertim parum observata et tenui quaeque huberiorem videatur explicationem requirere. Ea igitur sive figura sive ornatus condimentum quasi quoddam numeris affert.

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Lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto.309

Al cui effetto non poco conferisce il mancato legame che si verifica al terzo piede. 93. La varietà del ritmo va ricercata in diversi modi, e non dev’essere fondata su un solo criterio, perché la producono ora la continuità dei medesimi metri, ora la loro variazione. E infatti gli spondei protratti danno stabilità al ritmo e lo rendono quasi quasi triste, né lo lasciano scorrere. Invece i dattili lo fanno accelerare e arrecano quasi una certa piacevolezza. Ma li modera la loro mescolanza, che tuttavia non si ottiene, anch’essa, in un solo modo, ma ora alternandoli, cioè collocandone uno e dopo un piede l’altro, ora mettendone due o tre di fi la, altra volta collocando preferibilmente questo prima di quello o viceversa. 94. Così le voci o di una o di due o di più sillabe, disposte ora in questo ora in un altro e in un altro luogo ancora producono la varietà. Infatti i monosillabi danno stabilità e sostegno, mentre i bisillabi a seconda della circostanza frenano o affrettano o anche moderano il ritmo; disposti infatti per due, per tre, o per quattro riempiono il verso di suoni e abbelliscono il ritmo; i trisillabi invece o i quadrisillabi o i vocaboli di parecchie sillabe obbediscono similmente alla loro natura ritmica, che è piuttosto incostante. Quanto conferiscano la divisione, dunque, il collegamento e il nesso fra i piedi, la collisione, l’elisione, lo iato e lo scontro delle vocali,310 ed anche la tematica della poesia, lo si può giudicare abbastanza da quello che si è detto. 95. C’è anche da meravigliarsi per tutto quello che le lettere e le sillabe aggiungono e tolgono al ritmo, poiché delle vocali alcune sono piene e sonore, altre esili, altre chiare o al contrario un po’ oscure, e infine tutte secondo la natura delle consonanti alle quali si congiungono assumono una qualità o un’altra, e in rapporto alla loro collocazione, se saranno le prime o le ultime, oppure occuperanno la parte centrale nella costruzione delle frasi. Inoltre anche le consonanti producono un effetto di leggerezza, di asprezza, di smorzato, di stridulo, e di altre qualità che sono racchiuse nelle sillabe e nei vocaboli. Di questi argomenti, poiché so che in voi c’è un’attesa, dirò qualcosa, molto volentieri e quanto più in breve possibile, specialmente perché l’argomento è stato troppo poco considerato ed è quindi esile, tale da richiedere una spiegazione più ampia. Si tratta di quella figura o ornamento che conferisce quasi un condi505

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ACTIUS, II

Placet autem nominare alliterationem, quod e literarum allusione constet. Fit itaque in versu quotiens dictiones continuatae, vel binae, vel ternae ab iisdem primis consonantibus, mutatis aliquando vocalibus, aut ab iisdem incipiunt syllabis aut ab iisdem primis vocalibus. Delectat autem alliteratio haec mirifice in primis et ultimis locis facta, in mediis quoque, licet ibidem aures minus sint intentae, ut «saeva sedens super arma», et «tales casus Cassandra canebat», et «insontem infando indicio», et «longe sale saxa sonabant», et «magno misceri murmure pontum», et «quaeque lacus late liquidos». Fit interdum per continuationem insequentis versus, ut in his Lucretianis: «adverso flabra feruntur / flumine». 96. Atqui alliteratio haec ne Ciceroni quidem displicuit in oratione soluta, ut cum dixit in Bruto: «Nulla res magis penetrat in animos eosque fingit, format, flectit», et in secundo De oratore: «quodque me solicitare summe solet». Quid quod ne in iocis quidem illis tam lepidis neglecta est a Plauto? ut cum garrientem apud herum induxit Poenulum: «ne tu oratorem hunc pugnis plectas postea». Atque haec quidem alliteratio quemadmodum tribus in iis fit vocibus, fit alibi etiam in duabus simili modo, ut «taciti ventura videbant», et «Turno tempus erit», et «impulit; impulsu», et «victu venatus alebat», et «duris dolor ossibus ardet», et «formae conscia coniunx», et «vasta se mole moventem», et «castra fugae fidens», et «per loca senta situ», et «quo turbine torqueat hastam», et «quem metui moritura». Cicero idem, eloquentiae romanae princeps, eadem hac in coagmentandis duabus una dictionibus alliteratione delectatur, ut cum dixit in Bruto: «sed dicere didicit a dicendi magistris» et «Iovem, sicuti aiunt, si graece loquatur, loqui». 97. Habet etiam suavissimum condimentum quotiens alliteratio ipsa eodem geminatur in versu, per diversas tamen dictiones ac syllabas, ut «magna manes ter voce vocavi», et: «pharetramque fuga sensere sonantem». Et apud Lucretium: «multa munita virum vi». Fit geminatio interdum eiusdem alliterationis eodem in versu, eaque nec vacua est iucunditate, ut in hoc: «nunc rapidus retro atque aestu resoluta resorbens».

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mento al ritmo. Mi piace chiamarla «allitterazione»,311 perché consiste in un gioco di lettere. Si verifica nel verso tutte le volte che in esso una serie di parole di seguito, o due, o tre, ha le stesse consonanti iniziali, talvolta con la vocale mutata, o le stesse sillabe o le stesse prime vocali. Piace poi straordinariamente questa allitterazione quando è adoperata nella prima e nell’ultima parte del verso, e anche nel mezzo, sebbene le orecchie allora prestano minore attenzione, come in «sedendo sull’armi severa» e in «di questi casi cantava Cassandra», e in «d’un indicibile indizio di colpa innocente», e in «fin da lontano i sassi risuonavan dell’onde salate», e in «il mare mescolarsi con mormorio profondo», e in «i limpidi laghi che in largo».312 Talvolta si verifica nella inarcatura col verso successivo, come in questi versi di Lucrezio: «adverso flabra feruntur / flumine».313 96. Neppure a Cicerone, nella prosa, dispiacque l’allitterazione, come quando disse di Bruto: «Nessuna cosa penetra di più nell’animo e lo forgia, lo forma, lo flette», e nel libro secondo del De oratore: «quello che suole sollecitarmi sommamente».314 Che dire del fatto che non fu trascurata nemmeno da Plauto in quei suoi piacevoli scherzi? come quando introdusse il giovane cartaginese a ciarlare presso il padrone con questa parole: «poi non prendere a pugni questo oratore».315 E questa allitterazione, come si verifica in quelle tre voci, altrove si verifica anche in due allo stesso modo, come ad esempio qui: «vedevano in silenzio gli eventi futuri», e «tempo verrà in cui Turno», e «lo spinse; e a quella spinta», e «lo alimentava col vitto vivendo di caccia», e «arde nell’ossa dure il dolore», e «della bellezza ben conscia la coniuge», e «movendosi con la sua vasta mole», «l’accampamento [cerca] alla fuga affidandosi», «per luoghi squallidi e spogli», e «con che turbune tira la lancia», e «chi pronta a morir paventai».316 Lo stesso Cicerone, principe dell’eloquenza romana, si diletta a collegare insieme due voci con questa allitterazione, come quando disse nel Bruto: «ma ha diligentemente appreso dai maestri del dire», e «Giove, dicono alcuni, parla, se parla in greco».317 97. Ha altresì un effetto gradevolissimo l’allitterazione, se nello stesso verso si raddoppia, ma tuttavia mediante voci e sillabe diverse; per esempio: «per tre volte ho invocato i grandi defunti a gran voce», «sentirono risuonare in fuga la faretra». e in Lucrezio: «rinforzata dalla forza di molti mortali».318 La duplicazione dell’allitterazione si verifica talora nello stesso verso, e con un effetto non privo di piacevolezza, come nel seguente: «ora di retro rapido e in un flusso risolto riassorbe».319 Che dire quando 507

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Quid cum fit per insequentis versus allusionem, ut «verba vocantis / visa viri»? atque ut apud Lucretium. «et fera ferri / corpora constituunt»? 98. Virgiliana quoque alliteratio ea et rara est et aures non parum mulcet, quae constat partim ex continuatione, partim ex intervallo annominantinm syllabarum: «laetum siliqua quassante legumen». Neque insuavis est lucretiana illa «vesco sale saxa peresa». Neque item alia haec: «vera ratione repulsa», aut «clara loca candida luce»; aut alia illa: «tenuia sputa minuta croci contacta colore». Nam virgiliana illa ex continuatione est quam suavissima: «agitata tumescere». Sed nec inconcinna est illa, quae fit cum intervallo dictionis unius, ut «concessit moesta ad Manes», et «si nunc se nobis», et «Olli discurrere pares discrimine nullo», et «pleno se proluit auro». Quid autem annominatione illa iucundius: «Ipsa canas oro. Finem dedit ore loquendi»? Quid etiam illa quae ex continuazione constat atque interiecta dictione: «quam fessis finem rebus ferat», et «aut ulla putatis / dona carere dolis Danaum»? 99. Non indecore, non insuaviter fit etiam alliteratio haec cum allusione primarum literarum syllabarum ve, ultimae ac primae vocis, et desinentis qui antecedit versus et statim subsequentis, ut «tenuere coloni / Carthago», et «loco tum forte parentis / Pilumni», et «credere sensus, / sola viri», et «maxima rerum / Roma colit». Eadem haec alliteratio syllabarum affert quandam, ut ita dixerim, auribus titillationem contextu in ipso, ubi desinente hinc, illinc continuante dictione eadem hac sibi ratione utraque alludit, ut «aere ruebant», et «lato te limite ducam», et «loricam ex aere rigentem», et: «sidera retro», et: «frustra moritura relinquat», et «coniunx iterum hospita Teucris», et «Ditis tamen ante». 100. Non insuaviter etiam concursus earundem syllabarum mulcet aures; est enim genus quoddam complosionis: «ruit oceano nox», et «Fama malum», et «date tela», et «cerno te tendere contra», et «stuppea flamma manu», et «glauca canentia fronde salicta». Interdum ultima desinentis versus syllaba concurrit consonatque cum ultima vocis inchoantis insequentem, ut «diversa in parte furenti / turbantique viros». Ut autem concursus ipse syllabarum delectat propter complosionem earundem literarum, sic etiam ac multo magis earundem vocalium,

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si verifica ripercuotendosi nel verso successivo, «verba vocantis / visa viri»?320 e come in Lucrezio: «et fera ferri / corpora constituunt»?321 98. Anche Virgilio usa l’allitterazione, rara e non poco gradevole all’orecchio; essa consta in parte di sillabe che si ripetono di seguito, in parte di sillabe che si ripetono a distanza: «laetum siliqua quassante legumen».322 E non è priva di grazia quella di Lucrezio: «vesco sale saxa peresa».323 Né ugualmente quest’altre: «vera ratione repulsa», o «clara loca candida luce»; o quell’altre: «tenuia sputa minuta croci contacta colore».324 Infatti quell’allitterazione di Virgilio che consiste nella ripetizione delle sillabe di seguito è quanto mai gradevole: «agitata tumescere».325 Ma non è sgraziata nemmeno quella che si verifica con l’intervallo di una sola parola, come «concessit moesta ad Manes», e «si nunc se nobis», e «Olli discurrere pares discrimine nullo», e «pleno se proluit auro».326 Che vi è di più gradevole di quella ripetizione: «Ipsa canas oro. Finem dedit ore loquendi»?327 E anche di quella costituita da sillabe ripetute una dietro l’altra, e con l’inserimento in mezzo di una voce: «quam fessis finem rebus ferat», e «aut ulla putatis / dona carere dolis Danaum»?328 99. Non senza bellezza, non senza grazia avviene quest’allitterazione con il gioco delle prime due lettere o sillabe, dell’ultima parola del verso e della prima di quello successivo, di quella che conclude e di quella con cui comincia il verso seguente come «tenuere coloni / Carthago», et «loco tum forte parentis / Pilumni», e «credere sensus, / sola viri», e «maxima rerum / Roma colit».329 La stessa allitterazione di sillabe apporta all’orecchio – come dire? – un certo stimolo piacevole nel contesto in cui, qui finendo, lì continuando la parola, c’è un riscontro fra due sillabe, come in «aere ruebant» e «lato te limite ducam», e «loricam ex aere rigentem», et «sidera retro», e «frustra moritura relinquat», e «coniunx iterum hospita Teucris», e «Ditis tamen ante».330 100. Non senza leggiadria anche l’incontro fra due sillabe uguali suona bene all’orecchio; rappresenta infatti una specie di applauso: «ruit oceano nox», et «Fama malum», et: «date tela», et: «cerno te tendere contra», et «stuppea flamma manu», et: «glauca canentia fronde salicta».331 Talvolta l’ultima sillaba della fine del verso si accorda nel suono con l’ultima sillaba della parola con cui comincia il verso successivo, come in «diversa in parte furenti / turbantique viros».332 Come poi la consonanza delle sillabe reca piacere per l’accordo fra medesime lettere, così, e ancora di più, reca piacere l’accordo fra medesime vocali, perché 509

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quippe cum ex ipsa complosione magna fiat vocalitati accessio, ut «si pereo hominum manibus, periisse iuvabit», et «imponere Pelio Ossam», et «Nauticus exoritur vario hortamine clamor», et «sub Ilio alto». Verum complosio haec Graecorum est linguae quam nostrae familiarior, cui explosio magis est peculiaris, ut «Dixerat et genua amplexus», et «Cum Troia Achilles», et «nec dum fluctus latera ardua tinxit», et «coelo capita alta ferentes», et «Porta adversa ingens». 101. Videtur res sane ridicula, rara tamen et affabrefacta; subblanditur enim auribus quaedam quasi strepens literarum inter se sive concursatio sive conflictatio, ac nonnunquam etiam syllabarum, quae vis ipsis potius inest consonantibus quam vocalibus quae syllabas eas ineunt; exemplum est «convulsum remis rostrisque ruentibus aequor», et «cristaque tegit galea aurea rubra», et «fluitantia transtra», et «ora puer prima», et «quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum», et «quod fieri ferro», et «praefractaque quadrupedantum», et «infesta subit obvius hasta», et «tribusque / transiit intextum tauris opus», et «Fugit illicet ocior Euro». 102. Ac mihi quidem videtur in pangendo carmine atque condiendis numeris illud idem usuvenire quod in puellari cultu atque munditiis, ut non modo gemmae cuiuspiam nitidioris, verum flosculi unius accessio permultum adiiciat cultui atque munditiis. Subiiciam itaque exempla quaedam virgilianarum observationum in parte illa tum alliterationis, tum conflictationis; perexigua sane res, tamen nec pervulgate populariterque animadversa, sed quae et observata delectet, nec ulla sit ratione praetermittenda conanti quacunque possit arte audientium auribus subblandiri. Nunquid non etiam perquam suavis est allusio illa postremarum syllabarum «sterneret aequor aquis»? item illa mediae et ultimae «animam abstulit hosti»? alia item mediae ac primae: «qua semita monstrat»; «foliorum exhuberat umbra», «vulnificusque chalybs»? Nam de primis dictum est: «vellere vallum». Quid cum primarum et ultimarum simul: «volat vapor ater»? Quid cum etiam primarum duarum et mediae dictionis inter utramque interiectae, ut «relegens errata retrorsum»? 103. Quid? etiam conflictationes ipsae quam sunt loco suo gratae, ut quidam quasi flosculi rariores inter prata niteant, ut «fulmineus Mnes-

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proprio dall’accordo nasce un più di vocalità, come in «si pereo hominum manibus, periisse iuvabit», e «imponere Pelio Ossam», et «Nauticus exoritur vario hortamine clamor», e «sub Ilio alto».333 Ma questo iato è più consueto nella lingua greca che nella nostra, nella quale è più speciale l’elisione, come in «Dixerat et genua amplexus», e «Cum Troia Achilles», e «nec dum fluctus latera ardua tinxit», et «coelo capita alta ferentes», et «Porta adversa ingens».334 101. Sembra cosa ridicola, ma è una rarità e una raffinatezza; infatti alletta l’orecchio quello che si potrebbe dire quasi un risonante incontro o scontro di lettere fra loro, talora un incontro e scontro di sillabe; questa forza è insita nelle consonanti piuttosto che nelle vocali che nelle sillabe sono incluse; qualche esempio: «convulsum remis rostrisque ruentibus aequor», e «cristaque tegit galea aurea rubra», e «fluitantia transtra», e «ora puer prima», e «quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum», e «quod fieri ferro», e «praefractaque quadrupedantum», et «infesta subit obvius hasta», e «tribusque / transiit intextum tauris opus», e «Fugit illicet ocior Euro».335 102. E a me sembra veramente nel comporre una poesia e nell’accomodare il ritmo che mi succeda la stessa cosa che nell’abbellire e agghindare una ragazza, che non solo le gemme di un certo splendore, ma anche l’aggiunta di un solo fiorellino aggiunge un di più alla bellezza e all’eleganza. Introdurrò pertanto alcuni esempi di attenzioni virgiliane, per quel che riguarda sia l’allitterazione, sia il contrasto; proprio piccola cosa, di cui tuttavia non ci si accorge da parte della gente comune e modesta, ma che a ben guardare fa piacere, e per nessuna ragione deve essere trascurata da chi cerca con ogni arte di appagare l’orecchio degli ascoltatori. Non è forse straordinariamente gradevole quella ripresa nelle sillabe finali? «sterneret aequor aquis»; ed è così la ripresa di una lettera posta nel mezzo o alla fine «animam abstulit hosti».336 L’altra, che riguarda una lettera collocata nel mezzo o all’inizio ha lo stesso effetto: «qua semita monstrat»; «foliorum exhuberat umbra»; «vulnificusque chalybs».337 Ché delle lettere iniziali si è detto: «vellere vallum».338 Che dire della riprese di lettere iniziali e finali? «volat vapor ater»?339 E che dire inoltre della ripresa di due lettere iniziali e di una collocata in mezzo ad una parola fra le due, «relegens errata retrorsum»?340 103. E che dire? molto sono gradite perfino le variazioni341 collocate al punto giusto, come quando risplendono nei prati dei fiorellini più rari, 511

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theus», et «inter tela rotasque viros», et «stabula alta Latinus», et «insertabam aptans», et «nota intra tecta refugit», et «cristaque tegit galea aurea rubra». Sed nec poenituerit subiunxisse lucretianum illum: «nix acri concreta pruina»! Neutique fortasse ad numeros quod subdam, sed magis ad poetae prudentiam spectabit; nihilominus numeros quoque ipsos illustriores reddit. Hoc autem tale est ut numeris ipsis fiat satis etiam cum dignitate exprimendis affectibus, ut cum Virgilius Camillae vellet pedum celeritatem exprimere, pedum quoque ac syllabarum usus est celeritate: Ferret iter, celeres nec tingeret aequore plantas;

et, quod initio diximus, volucrem illum flammae strepitum his verbis ac numeris explicuit: Atque levem stipulam crepitantibus urere flammis.

104. Certum habeo senem nostrum aegre hoc laturum, referam tamen. Is cum vellet Lepidinae illius suae tardos ac defatigatos gressus innuere, versum ita statuit, ut verba ipsa pedesque videantur quodammodo aegre se trahere: Nam defessa traho vix genua et ipsa canistri Sarcina me gravat.

Quid enim his et verbis et numeris aut tardius aut defatigatius? Idem ipse Virgilius evaporantis aheni aestum ebullitionemque illam vix sese intra labrum continentis aquae cum explicaret, versum ita dilatavit, vix ut se ipsum capiat, quippe quem decem usque ad accentus extenderit nec habuerit quo amplius: Nec iam se capit unda, volat vapor ater ad auras.

Quod idem servavit in Mezentio irato et saeviente: praepeditur enim lingua iratorum ob excandescentiam, ut haereat et consistat et remoretur sonum ac verba interrumpatque sermonem ac concidat orationem ipsam:

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per esempio in «fulmineus Mnestheus», et «inter tela rotasque viros», in «stabula alta Latinus», in «insertabam aptans», et «nota intra tecta refugit», et «cristaque tegit galea aurea rubra».342 Ma non ci pentiremo di aggiungere quel verso di Lucrezio «nix acri concreta pruina».343 Forse non introdurrò un esempio riguardante il ritmo, ma più l’accortezza del poeta; nondimeno rende più splendido il ritmo stesso. Questo fatto è tale da aiutare il ritmo stesso ad esprimere le sensazioni con efficacia, come quando Virgilio voleva esprimere la velocità dei piedi di Camilla, e usò anche la celerità dei piedi e delle sillabe: neppur le piante correndo avrebbe bagnato con l’acqua.344

e, come si è detto al principio, espresse il veloce crepitio della fiamma con queste parole e con questo ritmo: e bruciar la leggera stoppia al crepitar delle fiamme.345

104. Ho la certezza che il nostro Vecchio non lo consentirebbe,346 ma lo dico lo stesso. Lui, volendo far sentire i passi stanchi e affaticati di quella sua Lepidina,347 dispose il verso in tal maniera, che le stesse parole e i piedi sembrino in certo qual modo procedere a fatica: Ché le ginocchia stanche a stento trascino e il fardello del canestro mi pesa.

Che c’è di più lento o affaticato di questo verso e di questo ritmo? Infatti lo stesso Virgilio, volendo rappresentare l’ebollizione dell’acqua in una caldaia che evapora e che non riesce a trattenersi dentro gli orli, dilatò il verso a tal punto che esso non conteneva più se stesso, perché lo estese fino a dieci accenti né aveva come farne di più: né l’onda si contiene, e il nero vapor va nell’aria.348

E si comportò allo stesso modo nel caso dell’ira e della furia di Mezenzio: infatti la lingua di chi va in escandescenze è impacciata, sì che si arresta e si blocca, fa ritardare il suono, interrompe il parlare e fa perfino arrestare il discorso: 513

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Nunc morere; ast de me divum pater atque hominum rex viderit.

Quid enim est hoc ipso versu aut haesitantius, aut verbis interruptius, aut numeris etiam concisius? Quae quidem omnia praestantissimo cuique ingenio summa cura videnda esse censeo. 105. Quin etiam idem ipse Virgilius quacunque posset arte auribus ut satisfaceret, Graecos imitatus struxit quandoque tres simul voces in “e” desinentes, ut «quatuor ex omni delectae classe carinae», et «Stant terrae defixae hastae». Alibi quatuor, ut «ite solutae / ite deae pelagi». Quid cum dixit: «degere more ferae»? An est qui inficias eat numerum hunc summo fuisse studio conquisitum? Aliquando tres item coniunxit voces eadem a vocali exordientes, ut «insulae Ionio in magno», et «Ire iterum in lacrimas». Aliquando etiam diversas diversa a vocali incipientes, ut «regum aequabat opes animis». Quid cum dixit: «omnes uno ordine habetis Achivos»? Illud vero omnino homericum: Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae.

Est et hoc tenerrimum in aures suavitatis infundibulum: «lacerum crudeliter ora /ora manusque ambas»; et alibi, ut vultum vidit morientis et ora Ora modis Anchisiades pallentia miris.

106. Neque parum etiam neque insuaviter mulcetur auditus numerique ipsi condiuntur, ubi ultimae versuum dictiones itemque primi, secundi, tertii et quarti loci invicem consonant in ultimis syllabis, ut Stringentem ripas et pinguia culta secantem; Venerat extinctam ferroque extrema secutam; Vix adeo agnovit pavitantem et dira tegentem; …Longarum haec meta viarum;

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Or muori; ma di me il re della terra e del cielo vedrà lui.349

Di tutte queste cose penso che ogni ingegno superiore deve tenere il massimo conto. 105. Che anzi lo stesso Virgilio, per compiacere l’udito in ogni modo possibile, imitando i Greci dispose insieme tre voci terminanti in e, come in «quatuor ex omni delectae classe carinae», e in «Stant terrae defixae hastae».350 Altra volta quattro come in «ite solutae / ite deae pelagi».351 Che ne dite di quando scrisse: «degere more ferae»?352 Ci può essere chi contesti che il ritmo sia stato ottenuto con somma attenzione? Alcune volte congiunse in modo analogo tre voci con la stessa vocale iniziale, come in «insulae Ionio in magno», e in «Ire iterum in lacrimas».353 Alcune volte congiunse voci diverse con la prima vocale diversa, come in «regum aequabat opes animis».354 E quando disse: «omnes uno ordine habetis Achivos»?355 Una famosa espressione è tutta omerica: A Glauco e Panopia ed all’Inoo Melicerta.356

Anche questa frase è un delicatissimo imbuto357 di dolcezza per le orecchie: «crudelmente straziato / il volto, il volto e le mani»; e altrove, come in: del moribondo vide lo sguardo ed il volto, mirabilmente pallido quel volto, il figliolo di Anchise.358

106. Non poco poi né senza delicatezza si alletta l’udito e si abbellisce lo stesso ritmo, quando fra le ultime parole dei versi, e i primi, i secondi, i terzi e i quarti posti vi sia una sintonia nelle ultime sillabe, come in stringentem ripas et pinguia culta secantem; venerat extinctam ferroque extrema secutam; Vix adeo agnovit pavitantem et dira tegentem; …longarum haec meta viarum; 515

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Ad terram misere aut ignibus aegra dedere; Vincla recusantum et sera sub nocte rudentum; Ad genitorem imas Erebi descendit ad umbras.

Nam qui statim sequuntur versus, quotiens vel recitari audio vel mecum eos ipse succino, et aures et animum titillari mihi sentio: Terribilem cristis galeam flammasque vomentem Fatiferumque ensem loricamque ex aere rigentem, Sanguineam, ingentem.

Sed haec fortasse ad verborum collocationem spectant et ad structuram carminis potius quam ad numeros; quamobrem ad ea quae reliqua sunt transeo. 107. Delectus ipse verborum poetae nobilitat supelectilem, verum satis non est delegisse, nisi etiam seligas; fit enim delectus plerumque e multis, selectio vero e paucis. Itaque et voces et syllabas, etiam literas seligere oportet, quo versus ipse undique sibi constet, ex eoque tanquam in quadram redacto numerum perficias, id quod versus hi paucis indicabunt: Illum expirantem transfixo pectore flammas.

An non poterat etiam sic: «traiecto pectore» suo quidem ac proprio verbo? Sed cum ante collocasset vocem illam «expirantem», post vero «flammas», refertam utramque consonantibus literis, voluit etiam in medio collocare vocem, quae similibus quoque literis consonaret, quippe cum in dictione «traiecto» ea non esset consonantium literarum copia nec similitudo, quae utraque est in «transfixo». 108.

Talia flammato secum Dea corde volutans:

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ad terram misere aut ignibus aegra dedere; vincla recusantum et sera sub nocte rudentum; ad genitorem imas Erebi descendit ad umbras.359

Infatti i versi seguenti, tutte le volte che li sento recitare o me li ripeto fra me e me, mi sento allettare l’animo: terribilem cristis galeam flammasque vomentem fatiferumque ensem loricamque ex aere rigentem, sanguineam, ingentem.360

Ma ciò forse riguarda la collocazione delle parole e la struttura della poesia piuttosto che il ritmo poetico; perciò passo a trattare degli argomenti che rimangono. 107. La scelta stessa delle parole nobilita l’ornamento poetico, ma non basta aver operato la scelta, se non vi si aggiunge la selezione; perché la scelta avviene per lo più fra molte possibilità, mentre la selezione fra poche. Perciò bisogna selezionare voci e sillabe, ma anche lettere, per far sì che il verso stesso sia in ogni parte conforme, e tu raggiungi la perfezione con esso, come se riducessi il ritmo ad un quadrato, cosa che potranno indicare in breve361 i versi che seguono: Illum expirantem transfixo pectore flammas.

Non avrebbe potuto dire anche così, «traiecto pectore», col suo verbo appropriato? Ma avendo collocato prima la voce «expirantem», e dopo «flammas», tutt’e due piene di consonanti, volle collocare una voce anche in mezzo, che con lettere simili producesse una sintonia, per il fatto che nella voce «traiecto» non vi era una tale quantità e somiglianza di lettere in sintonia, entrambe invece presenti in «transfixo».362 108.

Talia flammato secum Dea corde volutans.363

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Cur non «talia succenso»? Nimirum quia vocalis “a” clarum e se edit sonum, at “u” vocalis subobscurum; itaque si “u” post duplex “a” subdidisset, claritatem quam affectabat eo in loco subobscurasset, eamque ob rem summittendo alterum atque alterum “a”, adauxit literae claritudinem; quid si dixisset: «flammnanti»? atqui claritas illa erat implenda auxilio vocalis sonorae et gravidae, non tenuanda exili, qualis est “i” vocalis. …loca foeta furentibus austris.

Cur non «plena»? Videlicet quod alliteratio delectet magis aures. Aeoliam venit. Hic vasto rex Aeolus antro.

Potuit sic et cum praeterito tempore: «Aeoliam venit. Vasto hic rex Aeolus antro»; praeterquam autem quod praesens tempus repentinam vehementemque Iunonis commotionem indicat magis quam praeteritum, quando res ipsa geri iam videtur et hiatus ille et monosyllaborum duplicatio eo in loco tum versum tum numerum nimio plus stetissent, quod ipsum pronuntiando sentitur. celsa sedet Aeolus arce, Sceptra tenens mollitque animos et temperat iras.

In eo quod est «celsa sedet» et «sceptra tenens» simul insunt et alliteratio et conflictatio, quae aures submulceant. Quod vero dixit “mollit” potius quam “laenit”, hoc videtur fuisse causae, quod vocalis “e” cum sonorem demittat, si “laenit” dixisset, eam trigeminasset indeque generosus ille canor, supra quam oportebat, demissus pene contabuisset; quem plenitudine sua vocalis “o” et sustentavit et illustrem reddidit, hac eum ratione moderatus. 109. Ex his igitur quanquam paucis licet cognoscere quanta maturitate et studio sit cum literis cumque auribus habenda ratio. Qua de re dictum a me sit hactenus; nam progredi ulterius quidnam esset aliud quam

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Perché non «talia succenso»? Evidentemente perché la vocale a emette un suono chiaro, mentre la vocale u emette un suono piuttosto scuro; e così se u fosse stato introdotto dopo una doppia a, avrebbe oscurato la chiarezza che il poeta desiderava ottenere in quel luogo, e perciò introducendo un’altra ed un’altra a, fece aumentare la chiarezza della lettera; e se avesse detto «flammnanti»? eppure quella chiarezza doveva trovare la pienezza con l’ausilio di una vocale sonora e greve, non attenuarsi con una vocale esile come la i. …loca foeta furentibus austris

perché non plena («pieni»)? Evidentemente perché l’allitterazione è più gradevole all’orecchio. Aeoliam venit. Hic vasto rex Aeolus antro.

Avrebbe potuto usare il tempo perfetto, così: «Aeoliam venit. Vasto hic rex Aeolus antro»; tranne il fatto che il tempo presente esprime la repentina e veemente emozione di Giunone più del tempo passato, poiché la stessa azione sembra già essere eseguita, e quello iato e la duplicazione dei monosillabi in quel luogo avrebbero fatto sostare sia il verso sia il ritmo troppo di più, come si avverte proprio alla lettura: celsa sedet Aeolus arce, sceptra tenens mollitque animos et temperat iras.364

Nelle espressioni celsa sedet e sceptra tenens sono insieme l’allitterazione e il contrasto, che sono gradite all’orecchio. Del fatto che abbia detto mollit («addolcisce») piuttosto che lenit («lenisce»), sembra essere stata questa la ragione, che essendo effetto della vocale e quello di abbassare il tono, se avesse detto lenit l’avrebbe triplicata e così quella sonorità si sarebbe abbassata e illanguidita oltre il necessario, mentre la vocale o con la sua pienezza ha sostenuto e reso eccellente l’effetto sonoro, in tal modo regolandolo. 109. Da questi esempi, quantunque pochi, si può vedere quale approfondimento di studio sia necessario quando si ha a che fare con le lettere e con il gusto. Su questo argomento basta quel che ho detto; andare 519

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structurae collocationisque campum ingredi? Quae materia haudquaquam est loci huius magnumque volumen sola desiderat, ut de iis omnino taceam quae ad admirationem comparandam pertinent. Quocirca ad id quod reliquum videtur transeo. 110. Numerus ipse quoniam celeritate constat ac tarditate, quarum alteram dactylus, alteram spondeus secum habet (est autem sermo hic noster omnis heroicis, hoc est generosis de versibus), ex his opportune collocatis prudenterque simul mistis manat dignitas illa quae laudabile carmen reddit; quibus si accesserit verborum delectus, selectio syllabarum, de quibus pauca quaedam dixi, prudentia item et verborum et syllabarum temperandarum, ad haec magnitudo sententiarum, explicatio rerum iucunda et gravis pro loco ac re, et haec ipsa numerorum artificiosa varietas decorumque illud quod in omni non modo vitae genere, verum etiam disciplinae ac facultatis a natura ipsa exigitur, ut de inventione, distributione iudicioque hac in parte taceam, nimirum admiratio illa plena laudis, quam poeticis senex nester proponit studiis, multa etiam cum commendatione ac fama comparabitur, quam sequendam ab illis duco, qui in hac ipsa facultate excellere eminenter cupiunt. Has autem res omnis et praestabit ars ingenio coniuncta, et eas perficiet, ac pertinax illa et diligens cura, quae optimo cuique inesse debet artifici; quodque pace omnium dixerim (quanquam tecum, Parde, hoc ad aurem dictum velim) et Cicero oratorum maximus et Ovidius poetarum maxime ingeniosus nolunt ipsi quidem artem apparere. 111. Ego vero non ibo inficias in iis hoc probandum artibus, quibus proposita est sola persuasio. At ipse nostris his in studiis laboro, contendo, enitor, meum ut carmen appareat etiam admirabile, ut industria innotescat mea, ut celebretur artificium, dici quoque de me ut possit: «Eris ab illo alter». Dissimulat hic orator, alibi contra simulat quae sunt in causa, quo a iudice iure vel iniuria, dicendo tamen vel assequatur quod quaerit, vel extorqueat. At in hoc dicendi genere insidiae insunt nullae, nullum praeterquam famae compendium. Cupio igitur, et aventer quidem cupio, appareat industria mea in carmine, appareat diligentita, labores laudari pervelim meos. Incendor cupiditate gloriae utque inter

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oltre, infatti, non significherebbe altro che invadere il campo della composizione e dell’ordine del discorso. Materia, questa, che non si adatta a questa occasione e richiederebbe un libro voluminoso da sola, per non dir nulla di quegli argomenti che riguardano il modo di ottenere la meraviglia. Perciò passo al resto. 110. Poiché il ritmo è fatto di acceleramenti e rallentamenti, e gli uni si ottengono con il dattilo, gli altri con lo spondeo (questo nostro discorso è tutto sui versi eroici, cioè di alto stile), dalla loro opportuna collocazione e sapiente mescolanza deriva la dignità che rende pregevole la poesia; se poi a questo si aggiunge la scelta lessicale, la selezione delle sillabe, di cui ho detto qualcosa, la sapienza nel mescolare parole e sillabe, inoltre la grandezza dei pensieri, l’esposizione piacevole e ponderata della materia a seconda delle circostanze, e la stessa varietà artistica del ritmo e quell’abbellimento che non solo in ogni genere di vita, ma anche in ogni genere di scienza e di arte è richiesta dalla stessa natura, per non parlare in questo caso dell’invenzione, della disposizione e del criterio di scelta, non è strano che quel fine perfetto della meraviglia che il nostro vecchio propone all’applicazione del poeta potrà ottenersi anche con apprezzamento e fama, che ritengo essere la meta da perseguire da parte di chi desidera eccellere in questa attività. Potrà dare questi risultati, fino alla perfezione l’arte congiunta all’ingegno insieme alla cura costante e indefessa365 che deve avere ogni artista, e quello che – vorrei dirlo con beneplacito di tutti (sebbene con te,366 Pardo, vorrei fosse detto in un orecchio) – sia il più grande dei prosatori, Cicerone, sia il più abile dei poeti, Ovidio, non vogliono che appaia come frutto di arte.367 111. Io però non disconoscerò che questo possa concedersi in quelle arti che hanno come fine la sola persuasione. Ma io in questi nostri studi mi do da fare, mi adopero, mi sforzo perché la mia poesia appaia anche come oggetto di meraviglia, in modo che si veda il mio lavorìo, l’opera d’arte sia celebrata e si possa dire anche di me: «Sarai il secondo».368 L’oratore ora dissimula, ora simula cose contrarie a quelle che sono argomento della causa per ottenere o estorcere dal giudice, a diritto o a torto, e tuttavia con la parola, quel che chiede. Ma in questo genere di discorso non ci sono tranelli, non c’è che da ottenere la fama. Bramo, ed ardentemente bramo dunque, che il mio lavorìo si veda nella poesia, si veda l’applicazione costante, le mie fatiche vorrei che siano lodate. Sono acceso dal desiderio di gloria, e vorrei riuscire il primo fra coloro che 521

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earundem rerum studiosos evadam etiam primus. An inficiatus est hoc Virgilius cum decantavit: Primus ego in patriam mecum, modo vita supersit, Aonio rediens deducam vertice Musas?

112. Non inficiantur vel minores auctores, Ovidius atque Horatius, uterque tamen suo in genere abunde clarus: Exegi monunentum aere perennius,

et Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira, nec ignes, nec ferrum poterit, nec edax abolere vetuatas.

Nolim tamen intelligatur ars mea antequam lectorem mei carminis in admirationem eius traxerim; at postquam factus est illius admirator vel introspiciat ipse consilia, laudet, commendet, extollat quaecumque etiam liniamenta. Quis statuarius, fusor, pictor vult se videri dum inumbrat, dum colores primos linit, dum primas illas quasi lituras effigiat? Post vero consumatum opus exponit illud et ambit publice laudari praeponique ob adhibitum studium coeteris artificibus omnibus. Etenim ab arte artifices sunt dicti finisque ipsius artificis, qua artem exercet, non qua lucrum inde quaerit, est bene consumateque in illa sese gerere opusque perficere a se susceptum. 113. A poetis igitur non lucrum quaeritur, qua poetae sunt, sed admiratio cum commendatione operis suique ingenii; cuius quando comes est laus, laudari quoque se et palam et ore pleno tum cupient tum laetabuntur; quanquam, etiamsi a nemine laudentur, possunt tamen sola ingenii artificiique sui conscientia esse contenti. Sed elucescat oportet ingenii et artis eorum magnitudo ac praestantia, de quibus fama est proditura, quae ab illis omni studio affectatur. Sed cohibebo me ipsum, ne incensus studiorum meorum commendatione longius ab incepto sermone disces-

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si dedicano allo stesso lavoro. Non ha mancato di riconoscerlo Virgilio quando ha cantato: Per primo in patria meco, purché la vita mi basti, condurrò meco le Muse dall’aonia cima tornando.369

112. Non mancano di riconoscerlo nemmeno autori minori, Ovidio e Orazio, entrambi tuttavia ben famosi ciascuno nel suo genere: Ho eretto un monumento ch’è più duraturo del bronzo,370

e Un’opera ho compiuto, che Giove con l’ira, né il fuoco dissolvere potranno né il ferro, né il tempo vorace.371

Non vorrei tuttavia che la mia arte fosse riconosciuta prima che io abbia tratto il lettore della mia poesia ad ammirarla; ma che dopo essere divenuto suo ammiratore si addentri perfino nei suoi pensieri, lodi, elogi, esalti anche i contorni. Quale scultore di marmi, quale scultore di bronzi, quale pittore vuol farsi vedere mentre disegna, mentre spalma i primi colori, mentre esegue le prime correzioni? Dopo aver perfezionato il lavoro lo espone e ambisce ad esser lodato in pubblico e ad esser proposto come esempio a tutti gli altri artisti per la sua applicazione. E infatti gli artisti sono chiamati così per l’arte, e il fine per cui un artista esercita l’arte non è quello di ricavarvi un lucro, ma consiste nel comportarsi a perfezione nell’eseguire l’opera d’arte intrapresa e portarla a compimento. 113. Da parte dei poeti non si cerca un profitto, per il fatto di esser poeti, ma l’ammirazione con il riconoscimento della propria opera e del proprio ingegno; e poiché la lode accompagna l’ammirazione, i poeti avranno desiderio e piacere di essere lodati e davanti a tutti e a piena voce; quantunque, anche se non sono lodati da nessuno, possono tuttavia contentarsi della consapevolezza del proprio ingegno e della propria arte. Ma necessariamente brillano la grandezza e l’eccellenza del loro ingegno e della loro arte di cui parlerà la fama che da loro è perseguita con tutto l’impegno. Ma io mi tratterrò, per non sembrare di essermi troppo allontanato dal discorso intrapreso, infervorato dall’elogio dei miei pro523

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sisse videar. Sit igitur satis [haec] me in vestram omnium, qui hic adestis, gratiam ea de numeris tradidisse. Quocirca cui sorte sua optigerit, loquendi possessionem ei trado, ne loci huius consuetudinem existimer aut neglexisse impudenter aut contempsisse superbe. 114. PUDERICUS. Vestrum, qui adestis, omnium officium arbitror non laudare solum quae a Sincero tam exacte dicta sunt de numeris, verum etiam admirari, dum qua via incedatur ad admirationem in poetica comparandam e numeris tam designanter et monstraverit nobis illam et expurgatis etiam scrupulis ac salebris complanaverit, id quod video a literatoribus nostris praetermissum vel ignoratum potius. Recte itaque ab Antonio usurpatum memini poetam esse ipsum oportere, poeticis qui de virtutibus loqui cum dignitate vellet. 115. SUMMONTIUS. Hoc nimirum fuit, Puderice, causae cur, qui ipse scirem grammaticis incomperta haec esse, Sincerum ad dicendum excitaverim, nec aut importunitatis poenitet me meae aut obsecrationis, per quam quid exanclatum fuerit ipse vides, ut neque iniuria neque praeter opinionem qui ea audivimus admiremur omnes. Utinam autem literatores ipsi etiam in iis quae literaturae sunt paulo essent diligentiores, cum praesertim videam Senem nostrum vel minutissima quaeque pensitantem etiam in grammaticis! Sed quid Senem ad haec ipsa advocaverim, qui paucis ante diebus eadem hac in Porticu audiverim Altilium hunc quaedam explanantem quae grammaticorum essent propria? Verum quis est eorum tanta solertia, ut non alienis potius quam suis rimetur oculis artis ipsius secreta? Venit in sermonem Ciceronis, qui “causam” duplici “s” scribere esset solitus, quod ipsum Romae adhuc quoque vetustissimo in monumento inscriptum legitur. 116. Attendite, quaeso, quibus a principiis est exorsus; non enarraverim qua suavitate rem expresserit, ne videar in gratiam eius qui hic adest eloqui; nam mihi quidem grammatici ab omni videntur prorsus dicendi suavitate alieni, etsi in cognoscenda vocum proprietate illisque contexendis omnis eorum fere versatur disciplina. Prisci, inquit, illi qui Latium, a quo latinam dictam esse linguam sunt qui velint, etiam ante Aborigines tenuere, plerique in “cavernis” habitabant, quae a “cavando”

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pri studi. Basti dunque quello che ho detto del ritmo per rispondere alla cortese richiesta di voi tutti presenti. Perciò passo la parola a chi la otterrà in sorte, perché non si pensi che io abbia trascurato spudoratamente la consuetudine di questo luogo, o di averla spregiata con sufficienza. 114. PODERICO. Penso che sia dovere di voi tutti presenti non solo approvare il discorso sul ritmo fatto con tanta precisione da Sincero, ma anche ammirarlo, avendoci lui dimostrato con tanto ordine il procedimento da seguire per ottenere con il ritmo l’ammirazione nell’arte poetica e avendocelo spiegato eliminando scogli e scabrosità, cosa che vedo trascurata o piuttosto ignorata dai nostri maestri di grammatica. Ricordo che Antonio372 perciò soleva dire che fosse necessario esser poeta per parlare convenientemente dei pregi della poesia. 115. SUMMONTE. Non ci si meravigli se fu questa la causa per cui, Poderico, sapendo io che questa materia è ignota ai grammatici, ho spinto a parlare Sincero, né mi pento della mia insistenza, o dell’insistente preghiera, mediante la quale tu stesso vedi quel che si è ottenuto, sicché tutti quanti noi, avendo ascoltato quel che ha detto, siamo giustamente meravigliati e non senza che ce l’aspettassimo. Magari i maestrini delle lettere in quegli argomenti che riguardano le lettere fossero un poco più attenti, specialmente perché vedo che il nostro Vecchio riflette perfino sulle più piccole cose anche in argomenti grammaticali. Ma perché in questi argomenti dovrei citare il Vecchio, avendo udito pochi giorni fa in questa stessa Accademia il qui presente Altilio esporre questioni che appartengono propriamente alla grammatica? Ma chi è fra loro di tanta abilità da non scrutare con occhi altrui piuttosto che con i propri i segreti dell’arte? Capitò nel discorso di citae Cicerone, il quale soleva scrivere causa con la doppia s, come nell’iscrizione che si legge ancora a Roma in un antichissimo monumento.373 116. State attenti, vi prego, ai presupposti dai quale prese le mosse; non vorrei esporre con quanta gradevolezza trattasse l’argomento, per non sembrar di parlare in sua presenza per ingraziarmelo; per me i grammatici sono del tutto alieni dalla piacevolezza della trattazione, anche se nella conoscenza della proprietà dei vocaboli e nell’arte di combinarli consiste tutta la loro scienza. I primi abitatori del Lazio, da dove fu detta «latina» la lingua, ancor prima degli aborigeni secondo il parere di alcuni,374 abitavano nella maggior parte in «caverne», così dette da «scavare»; per mezzo di esse si riguardavano (cavebant) dal caldo e dal freddo e da 525

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essent dictae; iis autem et aestus cavebant et frigora, pleraque etiam alia incommoda, in illisque se et sua cautius tutabantur. Qua e re verbum “caveo” ab iisdem esse deductum; quodque in causa ipsa “cavisse” oporteret, inde ab initio dictam esse “cavissam”; post vero, subtracta vocali, “caussam”, nomine ipso tris adhuc syllabas retinente; postremo prima et secunda syllaba duabusque illis vocalibus literis in unum coactis, vocem ipsam factam esse dyssyllabam ac nihilominus duplex “s” mansisse; quod tandem laeniendae votis gratia simplex extitisset, quando duplex ipsum post “au” dypthongum sonaret horridius, praesertim “c” consonante dypthongum praecedente. Ab eodem illo verbo “cavo” factam esse primo “cavipam”, vas vinarium, ab eoque “caviponam” et “caviponem”, quod cavis in locis vel cavis doliis vinariam exercerent, e quibus posteriores vocalem “i” detraxissent, indeque esse hodie “cupas”, “au” in “u” productum verso, ut “claudo cludo”, et cauponam cauponemque et cauponari. Eosdem illos locos fornices dictos a “foranda” olim vel terra vel saxo, quam a graeco verbo malebat, fornicesque ac cavernas idem in initio fuisse, pro varietate linguarum appellatione non una. 117. Venit etiam in sermonem verbi quod est “exanclo”. Videte, obsecro, rem unde [vir latinitatis amantissimus] repetierit; quod si, quae eius est verecundia, repeti a me forte non aequiore fert animo, avertat, quaeso, a dicente faciem aut alio paulisper inambulet. “Am”, inquit, vocula fuit apud priscos illos idem illud quod nunc est apud nos “circum”; inde “hamus”, etsi post differentiae gratia praefixa ei fuit aspiratio; inde “annus”, quod in circulum rediret, mutata post “m” in semivocalem literam concinnioris soni gratia. Eodem e fonte “amnis”, quod fluviorum cursus plerumque sint flexuosi, et “ambio” et “ambulo” et “ambedo”, “ambesus” que, inde etiam “anus”, oscena pars corporis ab eius ambitu, et “anulus” et “anus”, vetula, quod propter annositatem senilis status corporis a capite proclinet in pedes efficiaturque incurva. Ex “anno” vero ductum esse “anniculum”, ut “bimum”, ut “trimum”, quasi “biamnum”, et “triamnum”, quae res indicat principio secundam “anni” literarum fuisse “m”; ab “anniculo” “anniculare”, cumque tempestate ea hominum

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molti altri disagi, e in esse proteggevano con maggior «cautela» se stessi e le proprie cose.375 Perciò di qui è derivato il verbo caveo; e poiché nella causa bisogna «cautelarsi» (cavisse), inizialmente essa fu detta cavissa,376 ma dopo, con la sottrazione di una vocale, caussa,377 conservando nel nome le tre sillabe; infine, unificate la prima e la seconda sillaba e le due vocali, il vocabolo divenne di due sillabe e ciononostante rimase la doppia s; alla fine per addolcire il suono del vocabolo divenne scempia, poiché la doppia dopo il dittongo au suonava orribile, specialmente che il dittongo era preceduto dalla consonante c. Da quel verbo cavo derivò dapprima cavipa, che era un vaso per il vino, e da questo vocabolo derivò cavipona -ae e cavipo -onis,378 perché la vendita del vino si esercitava in luoghi «cavi» o con botti «cave», e da quei vocaboli, eliminata la i, si ottennero quelle che oggi sono le botti (cupae -arum), col mutamento di au in una u lunga, come appare in claudo/cludo, e cauponam, cauponem e cauponari. Preferiva dire che gli stessi luoghi fossero stati chiamati «fornici» dal fatto che la terra o la roccia si «forava», piuttosto che accettare la derivazione dal greco; fornici e caverne sarebbero stati inizialmente la stessa cosa, mentre la denominazione non univoca dipende dalla varietà delle lingue.379 117. Capitò anche nel discorso di parlare del verbo exanclo (compiere).380 Vedete, vi prego, da dove lo ha fatto derivare quell’uomo [così innamorato della lingua latina];381 che se, data la sua ritrosia, non sopporta per caso che io lo ripeta, giri altrove la faccia, di grazia, per un poco si faccia una passeggiata andandosene altrove. Am, così disse, era presso gli antichi una particella che valeva quello che da noi è circum («circolo», «cerchio»); di lì hamus, anche se per differnziarla le fu aggiunta dinazi l’aspirazione; di lì annus («anno»), per il fatto che ritornava compiendo un circolo,382 col mutamento della lettera m in una semivocale383 per ragioni di eufonia. Dalla stessa origine provengono amnis («fiume»),384 per il fatto che generalmente i fiumi sono flessuosi, e ambulo («andare in giro»), ambedo («rosicchiare attorno») e ambesus («rosicchiato attorno»),385 di lì anche anus, parte oscena del corpo per la sua forma tonda, e anulus («anello»)386 e anus, «vecchia»,387 perché dalla testa si piega verso i piedi a causa dello stato senile del corpo, e diventa curva. Da annus poi derivò anniculus («di un anno»),388 come bimus,389 trimus, equivalenti a biamnus e triamnus («di due e di tre anni»), che indica essere stata m originariamente la seconda lettera di annus; da anniculus deriva annicu527

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vita esset agrestior magnaeque daretur laudi fruges ipsas post annum asservasse, unde “perannare” factum esset, formatum primo verbum “exanniculo”, donec ex eo subductum fuit exanclo”, quod verbum relatum esset ad labores, ad pericula, ad difficultates. Quid enim difficilius quam vina, triticum, poma in alium atque alium annum illaesa perducere aetatemque iis addere quibus a natura vix aliqua esset data? 118. Addam et hoc: erat quaestio, qua ex origine deducta esset dictio haec “imbecillitas”. Animum advertite, quaeso, qua eam via deduxerit. Via, inquit, dicta principio est, quod ea “veherentur” et nomine et res quae domum devehebantur initioque fuisse “veham”; sic etiam “vehillam” et “vehicum”, quod illuc veherentur quae colligebantur ex agris; ea post mutata sunt in “villam” et “vicum”; factum est etiam nomen “vehiculum”, quo res ipsae vehuntur. A “via” “vietus”, “viator”, “viaticum”; a “villa”, “villicus”, “villicatio”; a “vico”, “vicinus”, “vicinitas”, “vicinia”, “vicatim”; quodque senes aetate iam confecti soli absque subsidio “vehi” pedibus suis nequirent, sumptus cum esset ab illis fustis viae faciendae, hoc est ambulandi gratia, “baculum” ex eo dictum, quasi “viaculum”, qui alio etiam nomine esset “scipio”, a “manus” scilicet “capione”; a “baculo” que factum esse nomen “imbecillum”, cui innixi incederent qui infirmis essent pedibus; quodque non absque labore ac difficultate etiam baculo veherentur, inde quoque manasse “vix”, quae vox est difficultatis ac laboris. Ab habitu igitur “imbecilli” hominis eiusque infirmitate deductum esse nomen “imbecillitatis” commutatione literarum. 119. PUDERICUS. Et ex illis quae poeticis sunt de numeris a Sincero dicta et quae nunc a te, Summonti, referuntur grammaticis de rebus mirandum in modum incendor ardore audiendi aliquid de historia, quae nullos adhuc praeceptores habuerit, cum grammatica, rhetorica, philosophia institutores quidem plurimos eosque maximos ac praestantissimos viros promeruerit. Ac tametsi scio dictionem eam esse multiplicem, nec unius fortuitaeque consessionis, velim tamen non oratum modo, verum

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lare,390 e poiché a quei tempi la vita umana era generalmente agreste e si attribuiva un gran merito alla conservazione dei frutti fino al termine di un anno, donde derivò perannare,391 si formò dapprima il vocabolo peranniculus, finché da esso si fece derivare exanclo,392 un verbo che fu messo in relazione con le fatiche, i pericoli e le difficoltà. Che c’è infatti di più difficile che far durare il vino, i cereali, la frutta un anno e un anno ancora senza far guastare questa roba e aggiungerle un’età che la natura non le aveva data? 118. Aggiungerò anche questo: si discuteva sull’origine della parola imbecillitas. State attenti, vi prego, al modo con cui ne dimostrò l’etimologia. Via, disse, fu detta così inizialmente perché per mezzo di essa veherentur,393 cioè venivano «veicolate» le persone e le cose che erano condotte a casa, e dapprima si diceva veha. Così anche si dissero vehilla e vehicum, perché vi era «veicolato» ciò che si raccoglieva nei campi; quei vocaboli furono poi mutati in villa («fattoria») e vicus394 («villaggio»); si coniò anche il nome vehiculum, per indicare il mezzo con cui le cose si trasportavano. Da via derivano vietus («vizzo», «raggrinzito»),395 viator («viandante»), viaticum («viatico»),396 da villa derivano villicus («massaro») e villicatio («masserizia»),397 da vicus derivano vicinus («vicino»), vicinitas («vicinanza»), vicinia («vicinato»), vicatim («villaggio per villaggio»); 398 e poiché i vecchi già stremati per l’età non potevano condursi (vehi) a piedi da soli senza aiuto, e usavano un bastone per fare la «via», ossia per camminare, quello fu chiamato baculum, equivalente a viaculum,399 che aveva anche un altro nome quale scipio,400 derivato da manus e capio -nis (il «prender con la mano»); e da baculum derivò il nome imbecillum,401 su cui si appoggiavano camminando quelli che avevano i piedi deboli; e poiché non senza fatica e difficoltà si conducevano anche col bastone, di lì derivò anche vix («a stento»),402 voce che riguarda la difficoltà e la fatica. Dalla condizione dell’uomo debole e dalla sua mancanza di forza derivò il nome imbecillitas,403 con un mutamento di lettere. 119. PODERICO. Dalle idee espresse da Sincero intorno al ritmo poetico e dall’esposizione fatta da te, Summonte, degli argomenti grammaticali mi viene un ardente desiderio di sentire qualcosa riguardante la storia, la quale non ha avuto ancora dei maestri, mentre la grammatica, la retorica, la filosofia hanno ottenuto moltissimi educatori, uomini per giunta di prima grandezza. E sebbene io sappia che per parlarne, dati i suoi molteplici aspetti, ci vorrebbero parecchie sedute, desidererei tuttavia 529

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etiam exoratum Altilium, uti Actio succedens in dicendi possessione hac ipsa de re vel edisserat aliquid enucleatius, vel saltem, ut dici solet, de ea nobis innuat, dum accuratius quippiam de historia vel traditum ab eo accipiamus vel nutu ipso significatum. Quod tu, Altili, per Musas rogatus perque communem hunc consessum, cuius honestandi fuisti semper studiosissimus, nobis audiendi tui cupientissimis praestare ne recusaris. 120. ALTILIUS. Nec quid ipse mihi honeris, Puderice, imponas satis consideras, et ego inconsideratior fuerim, si tanto subire velim honeri humeris tam imbecillis. Quis enim ego sum, aut rem ab eminentissimis viris reformidatam potius quam intentatam quo aggrediar animo? aut eam aggressus quo e priscis vel consultore utar vel auctore? Ne tamen aut vobis ipsis expetentibus aut loco deesse huic videar, innuens quidem, ut tu ipse, Puderice, exigis, potius quam praecipiens, dicam de historia aliquid quodque ipse quidem multa de lectione collegerim, magis quam quod auctore nitar aliquo, quem nullum, ut video, in hunc usque diem habuit historia. Cuius mihi principium a natura ductum videtur, quando insitum est homini studium propagandi res suas ad posteros, nativa quadam cum cupiditate efficiendi memoriam sui quam maxime diuturnam; qua e re nomen id ei graece fuit inditum. Romani vero, quod per annos singulos quae gesta essent mandare literis consuessent, “annales” initio vocavere, post, accepto graeco nomine, et ab illis quoque historia dicta est, prisco et latino nomine pene obliterato. 121. Eam maiores nostri quandam quasi solutam poeticam putavere, recteque ipsi quidem; pleraque enim habent inter se communia, ut rerum vetustarum ac remotarum repetitiones, ut locorum, populorum, nationum, gentium descriptiones, quin etiam illorum situs, mores, leges, consuetudines, ut vitiorum insectationes, virtutum ac benefactorum laudes; utraque enim demonstrativo versatur in genere, nec minus etiam in deliberativo, quod ipsum conciones indicant ac consilia, quibus tum poetica tum historia maxime ornatur gloriaturque ex iis locupletiorem sese bonis ab auctoribus redditam. Ad haec repentini casus successusque, ipsi varii atque incerti, consilia item diversa quaeque praeter hominum ipsorum

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che fosse pregato, anzi implorato Altilio, che succedendo ad Azio nel prendere la parola, proprio su questo argomento discuta, sviscerandolo o fornendoci almeno qualche cenno, come si suol dire, in modo da venire a sapere da lui sulla storiografia qualcosa del pensiero tradizionale o qualche indicazione propriamente sua. E tu, Altilio, pregato in nome delle Muse e di questo consesso, che hai sempre molto desiderato di onorare, non rifiutare di accontentarci, ansiosi come siamo di ascoltarti. 120. ALTILIO. Poderico, tu non consideri abbastanza il carico che mi metti addosso, e io sarei sconsiderato se prendessi sulle mie deboli spalle un carico di questa fatta. Chi sono io, e con che animo potrei affrontare un argomento di cui hanno avuto timore, più che non averne tentato la trattazione, personalità eccellenti di studiosi? o, affrontando questo argomento, di quale autore o consigliere antico mi dovrei servire? Tuttavia, per non sembrare che voglia venir meno alle vostre richieste, o alla norma di questo luogo, per cenni, come tu stesso richiedi, Poderico, piuttosto che per insegnamenti, dirò della storia quel po’ che dalle mie numerose letture ho ricavato, più che basarmi su un autore, dal momento che, come vedo, la storiografia non ne ha avuto nessuno. A me sembra che essa abbia tratto la sua origine dalla natura, perché è insito nell’uomo il desiderio di tramandare ai posteri le proprie vicende, con una certa brama di rendere il più possibile duratura la memoria di sé; da questo fatto le fu dato il nome, in greco.404 Ma i Romani, avendo preso l’abitudine di affidare alla scrittura ogni avvenimento anno per anno, usarono dapprima chiamarli «Annali», poi accolto il nome greco, anche da loro la storia fu chiamata così, e l’antico nome latino fu quasi dimenticato. 121. I nostri antenati la ritennero quasi una poesia in prosa; infatti poesia e storiografia hanno fra loro in comune molte caratteristiche, come l’evocazione di avvenimenti antichi e remoti, la descrizione di luoghi, di popolazioni, di nazioni, di genti, ma anche della loro posizione, dei loro costumi, delle loro leggi, delle loro consuetudini; così la denigrazione dei loro difetti e la celebrazione dei loro pregi e meriti, entrambe riguardano il genere epidittico,405 non meno che quello deliberativo,406 come indicano i discorsi e i concili, di cui non solo la poesia, ma anche la storiografia si adornano, e moltissimo, vantandosi di esserne arricchite con l’ausilio dei buoni autori. Hanno inoltre in comune la narrazione delle disgrazie e dei successi repentini, vari ed incerti come sono, e così dei propositi diversi e delle tante cose che accadono numerose nella vita 531

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opinionem plurima contingunt in vita ac rebus gerendis. Nec vero, si poetica ipsa multa est in explicandis deorum tum consiliis tum rebus quae ab illis administrantur, non historia etiam deorum iras explicat, refert prodigia placatque illos votis, supplicationibus, ludis consulitque eorum oracula; utraque etiam gaudet amplificationibus, digressionibus item ac varietate, studetque movendis affectibus sequiturque decorum quaque in re ac materia suum. Itaque neutrius magis quam alterius aut propositum est aut studium ut doceat, delectet, moveat, ut etiam prosit, rem apparet eamque ante oculos ponat, ac nunc extollat aliud, nunc aliud elevet. 122. Sed nec in deligendis tum rebus tum verbis iisdemque proprie ac decenter disponendis collocandisque altera cedit alteri (historia tamen est castior, illa vero lascivior), nec item in ornatu et cultu non eadem quoque utriusque sedulitas est et cura, tametsi historia cultu tantum contenta esse potest suo, eoque qui sit matrona dignus idoneusque continentiae, a fucoque abstineat ac purpurisso, quem quidem in altera illa theatra persaepe probant; idque ut in puella nequaquam aliquando reprehenditur, dum tamen ipsa intelligat quid ingenuam inter et vulgarem intersit. In verbis item ac sententiis altera castigatior, altera ut etiam in numeris sic in verbis nunc liberalior est nunc etiam affectatior. Nam parum contenta priscis atque usitatis vocibus exultat persaepe novandis illis aut peregre afferendis; proposito vero omnino pene aut maxime profecto differunt, cum altera veritati tantum explicandae, quamvis et exornandae quoque intenta esse debeat, poetica vero satis non habeat neque decorum suum servaverit, nisi multa etiam aliunde comportaverit, nunc ex parte aut vera aut probabilia, nunc omnino ficta neque veri ullo modo similia, quo admirabiliora quae a se dicuntur appareant. Hoc tamen ipso mirifice conveniunt, quod utriusque propositum est quod susceperit dicendum illustrare et quoad possit sempiternum id efficere. 123. Numeros quoque utraque suos habet itemque dicendi figuras, diversa tamen ratione. Ordine quoque enarrandarum rerum differunt inter se, cum historia rerum gestarum ordinem sequatur ac seriem, at illa altera persaepe a mediis, non nunquam etiam pene ab ultimis narrandi principium capiat, assumens etiam extrinsecus personas pro rei

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e nelle imprese perfino al di fuori di ogni umana supposizione. Né, se la poesia è copiosa nel riferire i concili degli dei e le loro faccende, la storia manca di raccontare le ire degli dei, di parlare dei prodigi, e di come i voti, le suppliche, gli spettacoli cerchino di placarli, e si consultino i loro oracoli; ciascuna delle due si compiace pure delle amplificazioni, delle digressioni e della varietà, e cerca di muovere gli affetti, e in ogni circostanza come in ogni materia di perseguire il fine della bellezza. Pertanto il loro proposito e il loro desiderio, non di una più che dell’altra, è di insegnare, dilettare, commuovere, come anche di giovare, rappresentare il fatto mettendolo davanti agli occhi, e ora di esaltarne uno, ora di innalzarne un altro. 122. Ma nemmeno nella scelta dei fatti e delle parole, e nel disporli giustamente e garbatamente una rimane dietro all’altra (la storia è tuttavia più discreta, l’altra più sfrontata), e nemmeno nel vestire e nell’acconciarsi differiscono fra loro la diligenza e la cura, sebbene la storia si possa accontentare del proprio abbigliamento, di quello che si adatta ad una signora e sia idoneo al suo comportamento discreto, astenendosi dal trucco e dal rossetto, che invece nell’altra l’esigenza dello spettacolo fa molto spesso approvare; e ciò, come avviene nel caso di una ragazza, talvolta non è ripreso, purché essa comprenda la differenza che c’è fra una persona nobile e una volgare. Allo stesso modo nelle parole e nei pensieri l’una è più misurata, l’altra come nel ritmo così nella lingua ora è più libera, ora perfino più affettata. Infatti, non accontentandosi di voci arcaiche e dell’uso, molto spesso con baldanza le innova e le importa; e nel proposito certamente differiscono quasi del tutto o in grandissima parte, poiché l’una mira soltanto ad esprimere la verità, sebbene debba essere intenta ad esornare, mentre alla poesia non basta né serberà la sua bellezza, se non trasporterà molte cose anche da fonti strane, ora in parte vere o probabili, ora completamente inventate e nemmeno verosimili, per far apparire più meraviglioso quello che dice. Proprio in questo tuttavia s’incontrano mirabilmente, che in entrambe il proposito è di illustrare e di rendere eterno, finché è possibile l’argomento assunto. 123. L’una e l’altra hanno un proprio ritmo e così anche proprie metafore, tuttavia con un criterio diverso. Differiscono inoltre fra loro nell’ordine in cui narrare gli avvenimenti, poiché la storia segue l’ordine e la sequenza delle azioni, e l’altra spesso comincia il racconto dal mezzo e talora anche quasi dagli ultimi eventi, assumendo personaggi anche da ambiti estranei, 533

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ipsius natura, ut deorum, nympharum numinumque aliorum, ut vatum furentiumque. Quid quod vocem quoque dat et orationem rebus mutis, divinitatem tribuit insomniis, deos etiam ipsos mortalibus instruit affectionibus? Quae quidem omnia apud Graecos Homerus, apud nostros Virgilius passim ostendunt; una vero re potissimum sibi ipsae conciliantur, quod utraque naturam sequitur, qua magistra et duce ambae quoque varietati student, cum ea ipsa natura cumprimis varietate laetetur et decorum illud quod ab eadem rei est cuique attributum cum venustate sequatur ac dignitate etiam summa. 124. Haec habui quae dicere in universum de re hac liceat et tanquam vobis innuens, qui una hic adestis, significare. Reliquum est, quoniam historiam poeticam pene solutam esse quandam de maiorum auctoritate dixi, ut, quoad vires meae tulerint et locus hic patitur, talem esse eam exemplis quoque ipsis edoceam. Licet autem in Livio Sallustioque, historiae romanae principibus, diversa splendescant claritate quae historia digna sunt lumina, dicendique in altero maiestas heroica pene quaedam emineat atque uterque fuerit poeticae admodum studiosus (cum ille poeticis non solum numeris scripta sua, verum etiam integris quandoque exornet versibus, hic Empedoclea in Latinum, ut Aratea Cicero, converterit neque poeticis abhorreat a figuris), tamen Livius in plurimis oratori similior est, Sallustius vero historicis tantum legibus ubique videtur addictus. Uterque tamen opus suum poeticis auspicatus a numeris, ille a semiversu dactylico, qui est «Facturusne operae pretium», hic vero alter ab integro hexametro iugurtina in historia, quem tamen ita refersit spondeis, praeterquam quarto in loco, ut vix agnoscatur esse hexameter, gravitatem tamen illam spondaicam retinuit inquiens «Bellum scripturus sum, quod populus romanus», quae verba heroicum senarium, gravem quidem numeris verbisque maxime accommodatis, constituunt. Huius igitur exemplis si utar familiarius, vestrum quidem mirari debuerit nemo. 125. Igitur cum in unaquaque ad dicendum suscepta materia primum sit poetae officium proponere qua sit de re explicaturus, quod quidem docuit Virgilius, cum dicere est orsus: «Arma virumque cano». Idem a Sallustio servatum intelligo, cum et ipse, quod paulo est ante dictum, coepit «Bellum scriptures sum, quod populus romanus cum Iugurta

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come gli dei, le ninfe e altre divinità, come vati e forsennati. E che dire del fatto che attribuisce la voce e la parola a cose mute e apparizioni divine alle veglie notturne? Fornisce anche agli dei sentimenti mortali. Tutto ciò dimostrano qua e là Omero nella letteratura greca e Virgilio in quella latina; ma in una sola cosa concordano fra loro moltissimo, che entrambe seguono la natura, col magistero e la guida della quale entrambe si applicano alla verità, dal momento che la stessa natura fra le prime cose si diletta della varietà, e segue quel decoro che da lei stessa è attribuito a ogni cosa, insieme con la bellezza e la dignità, la somma dignità. 124. Questo ho avuto da poter dire in generale sull’argomento, e da far conoscere a voi qui presenti, e quasi per accenni. Ora mi rimane, poiché vi ho detto che la storia è quasi una poesia in prosa secondo l’autorità degli antichi,407 il compito di farvi vedere anche con esempi che essa lo è, finché le mie forze lo sosterranno e questa occasione lo permette. Sebbene, infatti, in Livio e in Sallustio, prìncipi della storiografia romana, splendano con luce diversa408 gli ornamenti degni della storiografia e nell’uno409 spicca quasi una maestà epica ed entrambi sono molto dediti all’arte poetica (giacché il primo orna i suoi scritti non solo col ritmo, ma anche talora con veri e propri versi, il secondo ha tradotto i versi di Empedocle in latino, come Cicerone i versi di Arato,410 e non sfugge alle figure poetiche), tuttavia Livio in moltissimi casi è più simile a un oratore, mentre Sallustio sembra rispondere sempre soltanto alle norme della storiografia. Ma diedero entrambi inizio alla propria opera con ritmo poetico, il primo con un emistichio dattilico, qual è «Facturusne opere pretium»,411 il secondo nella storia di Giugurta con un esametro intero; ciononostante lo riempì talmente di spondei, tranne nella quarta sede, da non farlo più riconoscere come un esametro, pur conservando la gravità che deriva dagli spondei quando disse: «Bellum scripturus sum, quod populus romanus».412 Queste parole compongono un esametro epico, in realtà grave per i vocaboli e il ritmo straordinariamente congrui. Se trarrò dunque più frequentemente gli esempi da lui, nessuno si dovrà meravigliare. 125. Ebbene, poiché quando si intraprende la trattazione di una materia il primo compito del poeta è quello di anticipare l’argomento che intende esporre, come insegnò Virgilio quando cominciò dicendo Arma virumque cano, lo stesso modo penso che fu osservato da Sallustio quand’egli, come ho detto poco fa, cominciò con «Mi accingo a narrare la guerra che il popolo romano condusse con Giugurta re di Numi535

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rege Numidarum gessit». Atque, ut ille causam susceptae a se materiae statim asserit, difficillimos scilicet Aeneae errores bellumque summis viribus, maximis etiam periculis ab illo administratum, post quos eventus multiplicesque successus urbs Roma esset condita (hoc enim versus illi praeseferunt «multum ille et terris iactatus et alto»), sic et hic ipse Sallustius suscepti causam reddit operis inquiens: primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, deinde quia tum primum potentiae nobilitatis obviam itum est; quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem fecerit.

Quid? Livius ab exordio quam primum secundi belli punici nonne heroico quasi quodam cum supercilio ait: In parte operis mei licet mihi praefari, quod in principio summae totius professi plerique sunt rerum scriptores, bellum maxime omnium memorabile quae unquam gesta sunt me scripturum, quod Carthaginenses Hannibale duce cum populo Romano gessere. Nam neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque contulerunt arma, neque iis ipsis tantum unquam virium ac roboris fuit; et haud ignotas belli artes inter se expertas primo Punico conserebant bello et adeo varia belli fortuna ancepsque Mars fuit, ut propius periculo fuerint qui vicerunt?

126. Altiores quoque repetitiones praesentique ab negocio longius remotarum rerum susceptae enarrationes et poeticae et historicae facultatis inter se necessitudinem quasi quandam arguunt. Declarant hoc et Virgilius et Sallustius, alter cum exorditur: Rex arva Latinus et urbes Iam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et nympha genitum Laurente Marica Accipimus,

alter cum iugurtino in bello, post redditas suscepti a se operis causas, repetendo incipit:

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dia».413 E, come Virgilio dichiara subito la causa della materia da lui assunta, cioè le difficoltose peregrinazioni di Enea e la guerra condotta con sommo vigore ed anche affrontando grandissimi pericoli, e dopo quali eventi e molteplici vicende Roma fu fondata (lo mostra infatti quel verso, «molto sballottolato per terra e per mare»),414 così anche Sallustio rivela il motivo della sua opera, dicendo: in primo luogo perché essa fu lunga, atroce e con esito non sempre positivo, poi perché allora, per la prima volta si contrastò l’arroganza dei patrizi; questo scontro sconvolse tutto il mondo umano e divino, a tal punto di follia, che con la guerra e la devastazione dell’Italia cessarono finalmente le lotte dei partiti.

E che dire di Livio? Questi subito, sin dall’esordio della seconda guerra punica, quasi con cipiglio epico dice: In una parte della mia opera mi è lecito premettere quello che gli storici generalmente dichiarano all’inizio di tutta l’opera, che narrerò la guerra più memorabile di tutte quelle che si siano mai combattute, quella che i Cartaginesi guidati dal condottiero Annibale condussero col popolo romano. Infatti né città e nazioni dotate di forze maggiori si scontrarono con le armi, né ebbero mai tanta potenza; e non solo si guerreggiavano non senza avere sperimentato tra loro le arti militari nella prima guerra punica, che dunque non erano loro ignote, ma la sorte del conflitto fu così varia e Marte così ambiguo, che i vincitori furono più vicini al pericolo.415

126. Le evocazioni e le narrazioni di vicende lontane dal fatto presente mettono in luce la stretta relazione fra l’arte poetica e l’arte storiografica. Lo dimostrano Virgilio e Sallustio, l’uno quando esordisce: Campi e città il re Latino già un po’ vecchio reggeva placidi in pace da tempo. Nato da Fauno e dalla ninfa laurente Marica lui ben sappiamo;416

l’altro quando nella Guerra di Giugurta, dopo aver esposto i motivi dell’opera da lui intrapresa, comincia con un’evocazione: 537

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Bello Punico secondo, quo dux Carthaginensium Annibal, post magnitudinem Romani nominis, Italiae opes maxime attriverat, Masinissa, rex Numidarum, in amicitia receptus a Publio Scipione […]

Et in Catilinario: Urbem Romam, sicuti ego accepi, condidere atque habuere initio Troiani, qui Aenea duce profugi sedibus incertis vagabantur.

127. Ad haec, quid cognatius quam quod uterque et poeta et historicus affert in medium causas edisseritque rationes antequam enarrare quam scribendam suscepit rem incipiat? In ipso Virgilius initio explicat errorum ac laborum Aeneae causas ac Iunonis irarum: «Urbs antiqua fuit, Tyrii tenuere coloni, / Carthago» usque ad eum versum: «Tantae molis erat Romanam condere gentem». Et Livius: Odiis prope maioribus certatum est quam viribus, Romanis indignantibus quod victoribus victi ultro inferrent arma, Poenis quod superbe avareque crederent imperitatum victis esse,

quaeque alia de Annibalis indignatione referuntur ob Siciliam Sardiniamque amissas. Idem quoque indicant descriptiones locorum, gentium, morum, legum, quod et ipsum Sallustius docuit, cum dixit: Res postulare videtur Africae situm paucis exponere et eas gentes quibuscum nobis bellum aut amicitia fuit attingere.

Et Virgilius: Est locus, Hesperiam Graii cognomine dicunt, Terra antiqua, potens armis atque hubere glebae.

128. Quid autem solutae poeticae tam simile quam livianum illud?

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AZIO, II

Durante la seconda guerra punica, nella quale Annibale, a capo dei Cartaginesi, aveva logorato come non mai, dopo che si era affermata la grandezza di Roma, le forze dell’Italia, il re di Numidia Masinissa, accolto come alleato da Publio Scipione […].417

E nella Guerra di Catilina: Fondarono la città di Roma, come ho appreso, e inizialmente la tennero sotto il loro dominio, i Troiani, che andavano vagando, come esuli dalla loro terra, sotto la guida di Enea.418

127. Inoltre, quale segno di maggiore affinità potrebbe esservi del fatto che entrambi, il poeta e lo storico, mettono in mezzo i motivi ed espongono le ragioni prima di cominciare a narrare la storia che intendono scrivere? Virgilio proprio all’inizio espone i motivi delle peregrinazioni e delle fatiche di Enea e delle ire di Giunone: «Vi fu un’antica città, tenuta da coloni di Tiro, Cartagine», fino a quel verso che dice: «Tanta fu la fatica per fondare la stirpe romana».419 E Livio: Lo scontro si verificò quasi più con l’odio che con la forza, poiché i Romani erano indignati che i vinti per di più portassero le armi contro i vincitori, e i Punici ritenevano che con superbia e avidità si fosse esercitato il dominio sui vinti,420

e il resto che si riferisce sull’indignazione di Annibale per la perdita della Sicilia e della Sardegna. La stessa cosa dimostrano le descrizioni dei luoghi, dei popoli, dei costumi, delle leggi, come insegna anche Sallustio quando dice: L’argomento sembra richiedere una descrizione, in breve, della posizione dell’Africa e di quelle popolazioni con cui ci toccò far guerra e alleanza.421

E Virgilio: V’è un luogo, con il nome di «Esperia» lo chiamano i Greci, terra antica, di armi potente e di campi ubertosi.422

128. Che vi è di più affine alla poesia di questo passo di Livio? 539

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ACTIUS, II

eaque uti rata scirent fore, agnum leva manu, dextra silicem retinens, si falleret, Iovem coeterosque precatur deos, ita se mactarent quemadmodum ipse agnum mactasset, et secundum precationem caput pecudis saxo elisit.

Quid tempestatis illa nimbique explicatio? Dein cum iam spiritum includeret nec reciprocare animam sineret, aversi a vento parumper consedere. Tum vero ingenti sono coelum strepere et inter horrendos fragores micare ignes; capti auribus, oculis, metu omnes torpere.

Nam quid per Musas, o viri optimi, ex omni est parte magis illo poeticum? Ex propinquo visa montium, altitudo nivesque coelo prope immistae, tecta informia posita in rupibus, pecora iumentaque torrida frigore, homines intonsi, inculti, animalia inanimaliaque omnia rigentia gelu, coetera visu quam dictu fediora.

Utque poeticum omnino possis dicere, heroicis etiam numeris res ipsa clauditur: «Ingentemque fugam stragemque dedissent». 129. Fuit enim omnino poeticus Livius in toto transitu in Italiam Annibalis describendo, et cum ipse tum viros equosque transeuntes Rhodanum describit, ingenti sono fluminis, clamore vario nautarum ac militum, et qui nitebantur prorumpere impetum fluminis et qui ex altera parte ripae transeuntes suos hortabantur, tum etiam elephantes, quibus primus erat pavor, cum soluta ab coeteris rate in altum raperentur, ibi urgentes inter se, cedentibus extremis ab aqua, trepidationem aliquantum edebant, donec quietem ipse timor circumspicientibus aquam fecisset.

Animadvertite adhuc, quaeso, quibus Annibal milites affatur verbis:

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e per far sapere che questo era stabilito che accadesse, tenendo l’agnello con la sinistra, la selce con la destra, per non fallire, rivolge a Giove e agli altri dei la una preghiera di sacrificare lui stesso come lui avesse sacrificato l’agnello e secondo la preghiera troncò col sasso il capo della bestia.423

E che dire di questa rappresentazione della tempesta e della nuvolaglia? Infine, poiché [la tempesta] permetteva ormai di riprendere fiato e rinfrancare l’anima, con le spalle al vento si mettevano per poco a sedere. Ma allora con grande fragore il cielo si mise a tuonare, i fulmini a lampeggiare; per quel che udivano e vedevano tutti rimanevano con l’udito e la vista storditi dalla paura.424

Che c’è infatti, illustri uomini, in nome delle Muse, di più poetico di questo passo, in ogni senso? Da vicino si videro l’altezza dei monti e le nevi quasi confondersi col cielo, case informi poste sulle rupi, bestiame e giumenti intirizziti dal freddo, uomini barbuti, esseri animati e inanimati irrigiditi dal gelo, tutto il resto più brutto a vedersi che a dirsi.425

E perché possa dirsi assolutamente un pezzo di poesia, si conclude con un ritmo epico: «subito avrebbero inflitto una gran fuga e una strage».426 129. Fu assolutamente poetico Livio nella descrizione di tutto il tragitto di Annibale per giungere in Italia, e quando descrive uomini e cavalli che attraversano il Rodano, con il gran rumore del fiume, col gran clamore dei marinai e dei soldati, gli uni che si sforzavano di rompere l’impeto del fiume, gli altri che dall’altra parte della viva esortavano i compagni che attraversavano, e anche gli elefanti, i quali prima ebbero paura, quando venivano tratti in alto una volta sciolta la nave dalle altre, poi, incalzandosi fra loro, quando le estremità cedevano all’acqua, mostravano una qualche trepidazione, finché lo stesso timore non ebbe infuso la tranquillità a quelli che guardavano l’acqua tutt’intorno.427

Vi prego di sentire con attenzione con quali parole Annibale si rivolge ai soldati: 541

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mirari se quinam pectora semper impavida repens terror invaserit; … nullas profecto terras coelum contingere, … coli Alpes, gignere atque alere animantes; … eos ipsos quos cernant non pennis sublime elatos Alpes trangressos; ne maiores quidem eorum indigenas, sed advenas Italiae cultores ingentibus saepe agminibus cum liberis ac coniugibus migrantium modo tuto transmisisse … Romam orbis terrarum caput petentibus quicquam adeo asperum atque arduum videri quod incoeptum moretur.

Quid cum ait? Equi maxime infestum agmen faciebant, qui et clamoribus dissonis, quos nemora repercussaeque valles augebant, territi trepidabant, et icti forte aut vulnerati adeo consternati sunt, ut stragem ingentem simul hominum ac sarcinarum omnis generis facerent.

Quid etiam: cum caedendum esset saxum illud, arboribus circa immanibus deiectis detruncatisque, struem ingentem lignorum faciunt, eamque, cum et vis venti apta faciundo igni coorta esset, succendunt ardentiaque saxa infuso aceto putrefaciunt; ita torridam incendio rupem ferro pandunt molliuntque anfractibus mollibus clivos?

130. His haudquaquam grandiora plenioraque apud Virgilium leguntur, ubi Aeneam ab Antandro in Italiam devehit per tempestates, scopulos Harpiarumque portenta ac Cyclopum, ne quidem cum ipse ait: Vastumque cava trabe currimus aequor. Postquam altum tenuere rates, nec iam amplius ullae apparent terrae, coelum undique et undique pontus;

aut cum: Tristius haud illis monstrum nec saevior ulla Pestis et ira deum Stygiis sese extulit undis. Virginei volucrum vultus, foedissima ventris

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si meravigliava vedendo come un repentino terrore avesse occupato dei cuori che erano stati sempre impavidi; … nessuna terra certamente tocca il cielo, … le Alpi erano coltivate, producevano e nutrivano animali; loro stessi potevano vedere quelli che avevano oltrepassato le alpi salendo in altro senza penne; che non solo i loro antenati indigeni, ma coltivatori forestieri dell’Italia spesso con ingenti eserciti, con figli e mogli alla maniera degli emigranti si erano trasferiti con sicurezza … A coloro che si dirigevano a Roma, capitale di tutta la terra, sembrava talmente aspro e difficile ciò che ritardava l’impresa.

Che dire di quando scrive così? I cavalli formavano una schiera pericolosa, e con un chiasso dissonante, che i boschi e le valli ripercosse aumentavano, trepidavano atterriti, e per caso colpiti a tal punto erano costernati, da fare un’immensa strage di uomini e di ogni genere di salmerie.428

E anche di quando scrive questo? Poiché bisognava tagliare quella roccia, fatti andar giù e distrutti alberi giganteschi, costruiscono una gran mole di legna tutt’intorno, ed essendo sorto un vento impetuoso adatto ad ottenere il fuoco, la accendono e spruzzando l’aceto sulle rocce in fiamme le fanno marcire; in tal modo aprono col ferro la rupe infuocata per l’incendio e facilitano la salita dei pendii mediante le curve.429

130. In Virgilio non si leggono cose più grandi e più robuste, quando fa navigare Enea da Antandro in Italia attraverso le tempeste, gli scogli e le mostruosità delle Arpie e dei Ciclopi, nemmeno quando scrive: Sul vasto mare coi concavi legni corriamo. Poi che tennero il largo le navi e ormai terra nessuna Appare, e cielo dovunque, e mare dovunque vediamo.430

O quando scrive: Più infesto di loro non c’è un mostro né peste più cruda e l’ira degli dei si leva dall’onde di Stige. Volti virginei di uccelli, e flusso schifoso del ventre, 543

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Proluvies, uncaeque manus et pallida semper Ora fame.

Ne ve cum intonat: Haec loca vi quondam et vasta convulsa ruina, Tantum aevi longinqua valet mutare vetustas, Dissiluisse ferunt, cum protinus utraque tellus Una foret; venit medio vi pontus et undis Hesperium Siculo latus abscidit arvaque et urbes Litore diductas angusto interluit aestu;

aut cum: Horrificis iusta tonat Aetna ruinis, Interdumque atram prorumpit ad aethera nubem, Turbine fumantem piceo et candente favilla, Attollitque globos flammarum et sidera lambit, Interdum scopulos avulsaque viscera montis Erigit cruetans liquefactaque saxa sub auras Cum gemitu glomerat fundoque exaestuat imo.

131. Quid quod hic idem Livius, quasi gemmis quibusdam, nunc verbis omnino poeticis, nunc figuris ac numeris insignit orationem atque illustrat historiam? ut cum ait: «anceps Mars», et «agitare animo bellum», et «tela micare», et «dempto hoc fulgure nominis Romani» et «circumferebant ora oculosque», et «pandi agmen coepit», et «non Manes, non stirpem eius conquiescere viri», et «hunc iuvenem tanquam furiam facesque huius belli», et «inde equitum certamen erat», et «haec ubi dicta dedit», et «cum Poenis bellum pro nobis suscipiatis». Ex his itaque perpaucis, quanquam videri haec ipsa multa quidem testimonio atque auctoritate possunt sua, satis tamen, ut arbitror, factum est ei parti quam probandam suscepi, haud male sensisse eos scilicet qui historiam censeant poeticam quasi quandam esse solutam. Quocirca, quod cum voluntate et gratia, Puderice, fiat tua horumque omnium qui dicentem me vel mussantem potius audiere tam attente et, ut video, tantum praese-

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hanno artigli uncinati, e pallido sempre l’aspetto per la fame.

Nemmeno quando intona: Un tempo fur questi luoghi sconvolti da immensa rovina, tanto dei secoli il corso mutar può le cose del mondo, e si spaccar, così dicono, allora unite le terre ch’erano, il mar d’un tratto divise con l’onde nel mezzo l’Esperia dalla Sicilia, e campi e città separati bagnando sulla costa fluì nell’angusto canale.

O quando: Presso tuona l’Etna con orripilanti rovine e talora proietta oscura nel cielo una nube, dal turbinoso fumo di pece e di ardenti faville, e solleva di fiamme globi che sfioran le stelle. Alza talora scogli e viscere svelle dal monte Eruttandole e sassi liquefatti condensa per l’aria, E un gemito si sente ribollire giù nel profondo.

131. Che dire del fatto che lo stesso Livio, ora con qualche gemma, ora con parole assolutamente poetiche, ora con figure e con ritmi fa spiccare il discorso e fa risplendere la storia? Come quando dice: «l’incerto Marte», e «rivolgere nell’animo la guerra», e «brillare i dardi», e «tolto via questo lampo della romana gloria»,431 e «rivolgevano in giro i visi e gli occhi», e «cominciò a spiegarsi la schiera», e «non i defunti, non la stirpe di quell’uomo riposavano», e «questo giovane come una furia e una fiaccola di questa guerra», e «di lì cominciava la battaglia della cavalleria», e «quando ebbe rivolti questi detti», e «addossatevi per noi la guerra con i Punici».432 Con questi esempi, pochissimi quantunque con la loro testimonianza e autorità si può vedere molto di quel che intendiamo dire, penso che si sia fatto abbastanza per quella dimostrazione che mi sono accollata, che cioè non hanno ragionato male quelli che considerano la storiografia una poesia in prosa. Perciò, Poderico, con la volontà e il gradimento tuo e di tutti che con tanta attenzione mi hanno udito parlare 545

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ferunt audiendi studium, ad ea iam transeamus quae a me potius observata quidem sunt quam quod ea praecepta quasi quaedam institutaque scribendae historiae existimari velim aut ex me ipso profecta et tradita. 132. PUDERICUS. Et me hoc, Altili, volente feceris et his ipsis qui tam intente atque aventer audiunt praecipue cupientibus. Coeterum Marcus Cicero locuples nobis auctor esse potest poetas «alia quadam lingua locutos». Itaque videndum etiam atque etiam relinquitur, si poetae alia quam quae oratoris propria est locuti sunt lingua, quonam modo historia poeticae erit quasi cuiusdam solutae similis. Locus igitur expurgandus hic tibi prius est scrupusque, Altili, excutiendus, nisi forte, posthabito Cicerone, Livius tibi unus satis futurus est ad haec et credenda et comprobanda. 133. ALTILIUs. Et Livii testimonio contenti esse unius possumus et Cicero minime est abiiciendus, vir ad omne genus eloquentiae genitus naturae ipsius munere atque ipsius Livii magister et doctor. Ac tute quidem ipse meminisse potes Ciceronem exigere maius quiddam in historia quam quod in annalibus pontificum aut in Fabii, Antiatis, Caelii ac Sisennae scriptis appareret. Nam de Sallustio omnino nihil, sive quod post Ciceronis obitum historias is scripserit, sive propter simultates, quodque ille ipse viveret, silentio eum praeteriit. Ipsum igitur illud maius quod a Cicerone desideratur praestitere postea eorum studia qui poeticae ornamenta et cultum sibi ante oculos posuerunt scriptitandae historiae, non verba quidem confragosa illa et perquam glutinata inter se, theatris apta, non senatui, ut “ferriclaves” postes, ut hastas “belliferratas”, ut “spumivomos” fluctus, ut “fluentisona” litora, ut talia haec gignendae permulta admirationi inventa, sed magnitudinem poetarum, sed varietatem descriptionesque locorum ac gentium, sed evagationes, amplificationes, digressiones, ornatum decorumque illud praecipue cui poetae imprimis videntur inservire. An, quaeso, tranandus erat Annibali Rhodanus sine strepitu, clamore, tumultu nautarum ac militum, sine pavore et consternatione elephantum, sine casu denique unius atque alterius in amnem e rate belluae? Videlicet traiiciendae erant Alpes sine tempestate, sine nimbis frigoribusque, non frangendum erat incendio prius, insperso

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o piuttosto borbottare e che, come vedo, dimostrano tanto desiderio di udire, passiamo ormai a quelle che vorrei fossero considerate mie osservazioni piuttosto che precetti e insegnamenti per la storiografia, ovvero idee partite e riferite da me. 132. PODERICO. Lo farai, Altilio, confortato dalla mia volontà e specialmente dal desiderio di costoro che ascoltano con attenzione e avidità. Del resto Marco Cicerone può essere per noi un’autorità degna di fede, quando dice che «i poeti parlano un’altra lingua».433 Perciò bisogna vedere quel che ci rimane da vedere, se i poeti si siano espressi in una lingua diversa da quella degli oratori, in che senso la storiografia sia quasi simile ad una poesia in prosa. Tu devi prima di tutto chiarire e rimuovere questo dubbio, Altilio, a meno che, messo da parte Cicerone, Livio soltanto ti basterà a sostenere la dimostrazione di questa teoria della quale sei convinto. 133. ALTILIO. Possiamo accontentarci della testimonianza del solo Livio, ma non si deve assolutamente respingere Cicerone, disposto per dono naturale ad ogni genere di eloquenza e maestro dello stesso Livio. Tu stesso puoi ricordare che Cicerone richiede nella storiografia qualcosa di più che negli annali dei pontefici e in quel che si trovava negli scritti di Fabio, di Anziate, di Celio e di Sisenna.434 Di Sallustio infatti non parla,435 o perché questi scrisse le storie dopo la morte di Cicerone, o per inimicizia e, poiché viveva, lo passò sotto silenzio. Quel di più che da Cicerone si richiedeva, lo diedero poi gli studi di coloro che si posero davanti agli occhi il culto poetico delle bellezze per scrivere la storia, non le parole rumorose e intricate come ferriclaves postes («le porte con chiavi ferrigne»), come hastas belliferratas («lance ferrate per la guerra»), come spumivomos fluctus («flutti che vomitano schiuma»), come fluentisona litora («lidi che risuonano del flusso marino»),436 e moltissime altre espressioni del genere inventate per provocare la meraviglia, ma la grandezza poetica, ma la varietà e la descrizione dei luoghi e dei popoli, ma le divagazioni, le amplificazioni, le digressioni, specialmente quel decoro elegante cui anzitutto i poeti sembrano dedicarsi. Forse, vi chiedo, il Rodano poteva essere attraversato da Annibale senza grida, senza clamore, senza agitazione di marinai e di soldati, senza la paura e lo scompiglio degli elefanti, infine senza la caduta nel fiume di una o di un’altra bestia dall’imbarcazione? È evidente che non si potevano attraversare le Alpi senza una tempesta, senza nuvole e freddi; non doveva prima sfracellarsi con l’incendio e poi sgretolarsi una volta aspersovi l’aceto quella roccia 547

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post aceto putrefaciendum saxum illud immane, tantis copiis, tamque excellenti duci obvium? non adeundum promontorium illud immane, coelo proximum, omnis e quo despiceretur Italia, in cuius vertice constitutus Annibal suos cohortaretur Romamque orbis caput illis ostentans diripiendam, magnifica etiam oratione obiiceret offerretque? Hoc sibi vult igitur solutae poeticae similis historia, hoc desiderabatur a Cicerone, hac caruerunt laude et dignitate Caelius, Antias, Sisenna. 134. Ac mihi quidem videtur Herodotus poetarum in scribendo instar habuisse, dum, contemptis qui ante se scripserant historicis, magnitudinem assecutus est illam et varietatem et ornatum et cultum a Cicerone desideratum. Et qui dicit poeticam picturae esse similem, num ideo dicit aut illud sentit, quod poeta usurus sit coloribus quibus pictores utantur adumbrandis atque informandis rerum imaginibus? Quin de varietate loquitur, de collocatione, de dignitate, vetustate, informatione, habitu, quibus in effingendis rebus poetae pictorum more atque ad illorum exemplum uti debeant. Nec verba quoque non sibi a poeta quandoque mutuabitur diligens rerum scriptor, pudenter tamen ac tenerrimo cum delectu, ut cum dixit Sallustius «tuba hosticum cecinit», et «tela utrinque volare», et «strepitus armarum ad coelum ferri», et «fors omnia regere». Nonne descriptio illa Africae mera est et soluta poetica? mare saevum, importuosum, ager frugum fertilis, bonus pecori, arboribus infoecundus, coelo terraque penuria aquarum: genus hominum salubri corpore, velox, patiens laborum; plerosque senectus dissolvit, nisi qui ferro aut bestiis interiere.

135. An ne tibi virgilianum illud videatur aliud, nisi quod solutum non est? Durum a stirpe genus, natos ad flunina primum Deferimus saevoque gelu duramus et undis; Venatu invigilant pueri silvasque fatigant, Flectere ludus equos et spicula tendere cornu.

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immane che si opponeva a tante milizie e ad un comandante così straordinario?437 non si sarebbe dovuto salire su quell’altura immane, che si accostava al cielo, dalla quale si potesse guardare dall’alto tutta l’Italia, e sulla cui cima postosi Annibale dovesse esortare i suoi e presentare ed offrire, perché la si distruggesse, Roma capitale del mondo mostrandola loro con un’orazione per altro magnifica?438 Questo significa che la storia è simile ad una poesia in prosa, questo era il desiderio di Cicerone, in questo mancarono di guadagnar meriti e onore Celio, Anziate, Sisenna. 134. E a me sembra che Erodoto nel narrare abbia avuto davanti il modello dei poeti, poiché, trascurati gli storici che avevano scritto prima di lui, conseguì quella grandezza e varietà e bellezza e cura desiderate da Cicerone. E chi dice che la poesia è affine alla pittura,439 non lo dice e lo pensa perché il poeta usa i colori di cui si servono i pittori per abbozzare e dar forma alle immagini delle cose? Che anzi dice della varietà, della disposizione, della dignità, della grazia, della capacità di dar forma, del metodo di cui i poeti debbono valersi nel «rappresentare» alla maniera dei pittori e sul loro esempio. Né lo storico diligente eviterà di mutuare dal poeta talora il lessico, con discrezione tuttavia e con sottilissima scelta, come quando Sallustio disse tuba hosticum cecinit («suonò con la tromba l’inizio delle ostilità»), e tela utrinque volare («volavano i dardi da una parte e dall’altra»), e strepitus armorum ad coelum ferri («saliva al cielo lo strepito delle armi»), e fors omnia regere («regger la sorte ogni cosa»).440 Non è mera poesia in prosa quella famosa descrizione dell’Africa? Il mare è tempestoso, niente porti; la campagna ricca di frutti, buona per il pascolo, non produce alberi; c’è penuria di acqua piovana e sorgiva; la costituzione degli uomini è sana, attiva, capace di sopportare la fatica; per la maggior parte li consuma la vecchiaia, salvo che non muoiano uccisi dal ferro e dalle bestie.441

135. E quel famoso passo virgiliano, ti parrebbe diverso, se non per il fatto che non è in prosa? Gente dura di stirpe, i figli portiam dall’inizio sui fiumi e li rinforziamo col gelo crudele e con l’onde; si sveglian per andare a caccia i ragazzi, e le selve scorron, per loro è gioco domare e lanciare le frecce. 549

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At patiens operum parvoque assueta iuventus Aut rastris terram domat aut quatit oppida bello. Omne aevum ferro teritur versaque iuvencum Terga fatigamus hasta nec tarda senectus Debilitat vires animi frangitque, vigorem: Canitiem galea premimus semperque recentis Convectare iuvat praedas et vivere rapto.

Quid cum paulo post idem ait? Africam in initio habuere Getuli et Libyes, asperi incultique, quibus cibus erat caro ferina atque humi pabulum, uti pecoribus; hi neque moribus neque legibus aut imperio cuiusquam regebantur; vagi, palantes, qua nox coegerat, sedes habebant.

Quid magis poeticum dicas, nisi quod poeticis absque numeris? Age, quaeso, et aliud: Erat inter ingentis solitudines oppidum magnum atque valens, nomine Capsa, cuius conditor Hercules Libys memorabatur; eius cives apud Iugurtam immunes, laeni imperio et ob ea fidelissimi habebantur; muniti adversum hostes non moenibus modo et armis atque viris, verum etiam multo magis locorum asperitate; nam praeter oppido propinqua alia omnia vasta, inculta, egentia aquae, infesta serpentibus, quorum vis, sicuti omnium ferarum, inopia cibi acrior. Ad haec natura serpentium ipsa satis perniciosa, siti magis quam alia re accenditur.

136. Descendit Crispus romanae, ut putant, pater historiae, descendit, inquam, ad serpentes atque illorum naturam attingit, quae siti aestuque maxime incendatur. Ne hoc mea quidem sententia minus poetice, perite, ornate quam a Virgilio illustre illud de asilo: Est lucos Silari circum ilicibusque virentem Plurimus Alburnum volitans, cui nomen asilo

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Gioventù laboriosa, avvezza a viver di poco, doma la terra coi rastri o scuote città con la guerra. Tutta la vita si passa col ferro e con l’asta a rovescio le terga dei giovenchi stimoliamo e la tarda vecchiaia stanca le forze e il vigore dell’animo infrange; con l’elmo comprimiam la canizie e sempre ci piace una preda recente accumulare e vivere ognor di rapina.442

Che dire del fatto che subito dopo Sallustio dice una stessa cosa? Per primi abitarono l’Africa i Getuli e i Libi, gente rozza e selvaggia, che si cibava di carne di fiere e di foraggio agreste come di bestiame. Costoro non obbedivano né a consuetudini, né a leggi o a qualche specie di governo; vagando, dispersi, si fermavano dove la notte li costringeva a farlo.443

Che potresti considerare più poetico, se non mancasse il solo ritmo poetico? Su, ti prego, senti quest’altro brano: In mezzo a vasti deserti c’era una città grande e forte chiamata Capsa e fondata, a quanto si diceva, da Ercole libico. I suoi abitanti sotto Giugurta erano esentati dai tributi e governati con benignità e perciò avevano fama di essere fedelissimi; erano difesi contro i nemici non solo dalle mura, dalle armi e dagli uomini, ma molto di più dall’impraticabilità dei luoghi. Infatti, tranne le località vicine alla rocca, tutto il territorio è desolato, incolto, senz’acqua, infestato da serpenti, la cui violenza, come quella di tutte le bestie feroci, è resa più terribile per la mancanza di cibo. Inoltre la stessa natura dei serpenti, molto dannosa, è resa peggiore dalla sete, più che da ogni altra causa.444

136. Crispo, ritenuto il padre della storiografia romana, si abbassò, dico si abbassò, a parlare perfino di serpenti e disse qualcosa della loro natura, che cioè per la sete e specialmente per il forte caldo prendono fuoco. A mio parere nemmeno questo possiede un minor pregio poetico, artistico, ornamentale di quel che si legge in quel passo famoso di Virgilio sull’assillo: Vive dintorno ai boschi del Silaro e al verde, per l’elci, Alburno numerosa una specie d’uccello, l’assillo, 551

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Romanum est, oestrum Graii vertere vocantes, Asper, acerba sonans, quo tota exterrita silvis Diffugiunt armenta.

Libentissime quoque ac peringenue Sallustius verba figurasque, numeros item a poeticis mutuatus est, ab illis praesertim qui annales scripsere, ut cum ait «signum tuba dat», et «ignoto atque horribili sonitu repente exciti», et «iamque dies consumptus erat»; item «Et sane Marius illoque aliisque temporibus»; qui si “diebus” dixisset, senarium integrum heroum apte canoreque fudisset. Illa vero quantopere heroica! Spectaculum horribile in campis patentibus: sequi, fugere, occidi, capi … postremo omnia qua visus erat constrata telis, armis, cadaveribus et ea inter humus infecta sanguine.

137. Nesciam tamen quonam modo minus haec extant in Sallustio nec tam apparent atque exposita sunt quam in Livio, ut alter quodam modo praeseferre velit artem poeticaeque imitationem, alter celare eam, ut tanquam in nubecula delitescat. Et vero oratoria ipsa, quamvis sit a poetis munerositatem illam generosam ac dignitatis plenam, ut a primis eloquentiae cultoribus mutuata antiquissimisque dicendi magistris, cumprimis tamen rerum gestarum scriptores ea seque resque suas fecere magnificas; ut interdum generositas illa eorum sermonis videatur solis pene e numeris constare in iisque tantum consistere, ut cum ait Livius: Nam neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque contulerunt arma, neque in iis ipsis tantum unquam virium ac roboris fuit, et haud ignotas belli artes inter se, sed expertas primo punico conserebant bello.

Quid his numeris plenius, dignius, addo et generosius? non minus tamen latine et haud minore cum ornatu dicentur et copia, siquis dixerit:

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AZIO, II

nome romano, i Greci gli diedero in nome di «estro»; aspro n’è il verso e stridulo, per cui nelle selve atterriti fuggon gli armenti.445

Molto volentieri e con molta eleganza Sallustio ha mutuato parole e figure, così anche ritmi da autori di poesia, e specialmente da coloro che scrissero annali, o quando dice «dà il segnale la tromba», e «svegliati improvvisamente da non si sa quale orribil rumore», e «già consumato è il giorno», oppure «e veramente Mario in quella ed in altre giornate …»; che se avesse detto diebus («giorni») invece di temporibus («circostanze»), avrebbe creato perfettamente e con effetto canoro un intero esametro. Com’è adatto all’epica quel passo! Uno spettacolo orribile nella vasta pianura: chi inseguiva, chi fuggiva, chi era ucciso, chi catturato, … alla fine dappertutto, dove si volgeva lo sguardo, erano sparse frecce, armi, spoglie, e in mezzo la terra era infestata dal sangue.446

137. Non saprei dire tuttavia come mai cose del genere risaltino e siano evidenti in Sallustio più che in Livio, come se l’uno voglia in certo qual modo dimostrare l’arte e l’imitazione poetica, mentre l’altro celarla, in modo da nasconderla come in una nebbiolina. E in verità sebbene proprio l’oratoria abbia mutuato dai poeti la ritmica nobile e piena di dignità, come dai primi cultori e antichissimi maestri dell’eloquenza, i narratori furono fra i primi tuttavia a sollevare con essa fino alla magnificenza sé e i loro scritti; sicché talvolta la nobiltà del loro linguaggio sembra essere costituito quasi solo di ritmo e in questo soltanto consisetere, come quando Livio dice: Infatti né città e nazioni dotate di forze maggiori si scontrarono con le armi, né ebbero mai tanta forza e potenza; e si guerreggiavano non senza avere sperimentato tra loro le arti militari nella prima guerra punica.447

Che c’è di più completo, di più degno, aggiungo di più nobile di questo ritmo? Tuttavia non minore latinità e non minore ornamento e ricchezza si avranno se uno dicesse:

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ACTIUS, II

Nam neque validiores opibus ullae inter se civitates gentesque arma contulerunt, neque in iis ipsis tantum unquam virium fuit ac roboris, neque ignotas belli artes inter se, sed expertas primo bello punico conserebant.

Verum subtractis iis spondeis et numeris commutatis, omnis illa generositas nescio quomodo interit, deciditque orationis supercilium. 138. Atque his quidem numeris excellit in historia Livius et tanquam inter alios exultat. Ne te igitur animi dubium Cicero aut minus tibi te in hoc constantem faciat, quod poetas alia lingua usos dicat, scrupulum excute omnem atque ex animo eiice deque forensibus illum actionibus, haud de historiis locutum tibi persuadeas velim. Nam et a Roscio illo motum gestumque discendum oratori ad imitandum in agendo, ubi causa ipsa exigat, non videatur esse Ciceroni alienum, nec inficiabimur tamen graecos poetas oratoriis a verbis ac dicendi figuris quam nostros multo abesse longius viderique alia [quasi] quadam lingua locutos. PUDERICUS. Et perpurgatus est hic a te, Altili, locus sentesque excisae sunt omnes et evagari iam tuto potes certis minimeque labentibus vestigiis, neque verendae offensiunculae, cum libera a scrupis ipsis sit via. 139. COMPATER. At ego passurus minime sum, Altili, evagari te ulterius exultareque extra praescriptos fines, cumque sis ipse grammaticorum grammaticissimus, tui te oblitum non perferam, dum quae princeps est disciplinarum omnium, ut historiae satisfacias, e iure, auctoritate finibusque pene eiicis grammaticam suis. Habenda est igitur et tibi et nobis omnibus qui hic assumus illius ratio conservandusque ei debitus in disserendo locus, antoniana lege hoc ipsum sanciente. Etenim idem ipse Cicero “axillam” ait factum esse “ahalam”, fuga literae vastioris. Quid (malum!) si vastior “x” est litera, si elementum minime simplex, in multis ea cur abutimur? Cur qui graece est “Odysseus” fuitque apud priscos Latinos “Ulysseus”, duplicata “s” litera, factus est nunc [a quibusdam] “Ulyxes”? Cur a “sessu”, hoc est sessione, si fiat “sexus”, quod sedendo, [ut quidam volunt], occulatur pars ea corporis nostri quae est oscenior, literas non retinuit suas? Neque enim “x” refert “s” duplicatum, sed tum “c s”, tum etiam “g s”.

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AZIO, II

Infatti né città e nazioni dotate di forze maggiori con le armi si scontrarono, né ebbero mai tanta forza nonché potenza; né senza avere sperimentato tra loro le arti militari nella prima guerra punica si guerreggiavano.

Ma sottratti questi spondei e mutato il ritmo, tutta quella magnificenza non so come si dilegua e precipita la maestosità del discorso. 138. In questo genere di ritmo eccelle nella storiografia Livio e quasi spicca fra gli altri. E perché dunque Cicerone non ti insinui il dubbio e ti renda meno sicuro riguardo a quel ch’egli afferma, che cioè i poeti usano un’altra lingua, scuoti via ogni scrupolo e respingilo dalla mente, e persuaditi che lui parla delle azioni giudiziarie, non della storiografia. Infatti non parrebbe essere estraneo a Cicerone, spinto e trascinato da quel Roscio448 ad imitare l’oratore nell’azione giudiziaria, quando la causa lo richiede, e non disconosceremo tuttavia che i poeti greci si discostavano più dei nostri dal linguaggio e dalle figure degli oratori. e sembravano parlare un’altra lingua.449 139. PODERICO. Non solo, Altilio, hai spiegato bene questa questione e tutte le spine sono state da te recise, ma ti si dà la possibilità di spaziare con sicurezza e senza il minimo pericolo di scivolare, né di temere ostacoli, perché la via è libera ormai da intoppi. COMPATRE. Ma io, Altilio, non intendo più sopportare tue ulteriori divagazioni, né il fatto che oltrepassi i limiti prescritti, e poiché sei il più grammatico dei grammatici, non permetterò che tu ti dimentichi di te stesso, cacciando quasi, di diritto e d’autorità, dai suoi confini la grammatica che è la prima di tutte le discipline, per dar soddisfazione alla storiografia. Bisogna dunque avere considerazione di essa da parte tua e da parte di tutti noi che siamo presenti, e bisogna serbarle il debito posto nella trattazione, poiché la stessa legge data da Antonio lo stabilisce.450 E dunque lo stesso Cicerone dice che axillam è divenuto ahalam per il dileguarsi della lettera più complessa.451 Perché (maledizione), se x è una lettera troppo complessa, se non è un elemento semplice, perché ne abusiamo in tanti casi? Perché quello che in greco è Odysseus e fra i latini antichi era Ulysseus, con la duplicazione della lettera s, è stato trasformato [da qualcuno]452 in Ulyxes? Come mai sexus, derivando, se pur deriva, da sessus, che significa «seduta» perché sedendo [come vogliono alcuni] si nasconde quella parte del corpo che è più oscena,453 non ha conservato le sue lettere? E infatti x non corrisponde alla duplicazione di s, ma ora a c s, ora a g s. 555

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140. Scimus omnes perantiquam fuisse dictionem “pessum”, a qua dicti “pessuli”, quasi “pedessum” a calcandis “pedibus”, unde “pessundare” datumque verbum ipsum opprobrio atque ignaviae deque eo formatum nomen “pessimus”; cur sonum eius evastant “x” litera accepta? A “magno” deduxere primi illi “magnior” et “magnissimus”, quae voces postea contractis dictionibus ac subductis literis fuere “maior” et “massimus”; cur passae sunt aures doctissimorum hominum audire tamdiu “x” literae vastitatem? nam si a “massa” deductum sit nomen “maximus”, idem erit abusus, cum “massa” dicta sit a “magno”, eaque fuerit in initio “magnissa”, vel graeco modo “maza”. Cur “elixare”? nam a “liquo liquas” principio fuit “liquasso”, ut a “levo levas”, “levasso”, post subtractis literis “lisso” et “elisso”; cur, inquam, et in his vasta assumpta est atque asperius sonans litera? Cur in his quoque, “palus”, “velum”, “paulum”, “talus”, “mala”, “l” mansuetioris literae loco accepta vastiore, abusu ex illo “paxillum”, “vexillum”, “pauxillum”, “taxillum” ac “maxillam” dicimus, quando concentus ipsius suavitate capiantur aures mulceaturque audiendi sensus etiam concidendis quibusdam atque decurtandis vocibus? 141. Fuit primum a sistendo “sistlocus”, post “stlocus”, factus est postremo “locus”, repudiato confragoso sonitu. Eadem deductione et via a sistendo “sist[i]litis”, quod sistendum esset in iudicio ad praetorem, inde fuit “stlitis”, post “litis”, ultimo “lis”, perconcinne quidem et commode. An non initio humani oris pars inferior, quod loquentibus atque edentibus aut etiam hiantibus nobis moveretur, dicta est “movimentum”, quae postmodum fuit “mentum”? Quid autem mirum in sono et literis factam esse ruinam, quando in significationibus quoque ipsis haud secus contigerit, neque recentioribus tantum seculis, verum etiam et priscis? Etenim dictionibus his “amabilis”, “nabilis”, “flexibilis”, “vulnerabilis”, “reparabilis”, “flebilis”, “revocabilis” aptitudo quasi quaedam inest ad patiendum vel innata potius vis quaedam apud latinos homines; non dubitavit tamen Virgilius, populo ut morem gereret etiam aberranti, dicere «penetrabile frigus», quod vim habeat penetrandi; non alii poetae telum “exitiabile”, quod exitium afferat; non scriptores alii, quibus minus concessum est decedere e via. Itaque passim audias “risibilem” hominem,

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140. Sappiamo che la voce pessum,454 da cui proviene pessuli, detto di coloro che sbattono la porta, come se fosse pedessum, deriva dall’atto di «mettere sotto i piedi», donde pessumdare, che equivale a «mandare in rovina», parola attribuita ad un atto obbrobrioso e vile, da cui fu formato il vocabolo pessimus; perché guastare il suo suono introducendo la lettera x?455 Da magnus gli antichi fecero derivare magnior e magnissimus, voci poi diventate maior e massimus, con una contrazione e sottrazione di lettere; perché l’orecchio di persone dottissime sopportò di udire per tanto tempo una lettera ostica come x? Infatti, se da massa è derivato il vocabolo maximus, l’abuso sarà lo stesso, dal momento che massa è derivata da magnissa, o nell’uso greco maza.456 Perché elixare?457 da liquo -as in principio si ebbe liquasso, come levasso da levo -as, e poi con una sottrazione di lettere lisso ed elisso; perché, dico, anche in queste voci fu introdotta una lettera ostica e con un suono più aspro? Perché anche in queste voci, palus, velum, paulum, talus, mala, introducendo una lettera più ostica al posto di una più dolce, per quell’abuso diciamo paxillus, vexillum, pauxillum, taxillus e maxilla, dal momento che l’orecchio è conquistato dalla soavità di quel suono e il senso dell’udito è attratto e sedotto da alcune voci in cui si sia verificata una caduta e una riduzione?458 141. In principio dal verbo sisto derivò sistlocus, poi stlocus, e infine si ebbe locus, col ripudio di un suono stridulo. Mediante un medesimo metodo di derivazione da sisto si creò sistlitis, che riguardava la comparizione in giudizio davanti al pretore, poi si creò stlitis, post litis, e infine lis,459 in modo invero molto aggraziato e conveniente. Non avvenne che all’inizio la parte inferiore del volto umano, che si muoveva quando noi parliamo e mangiamo, o anche quando apriamo la bocca, si chiamasse movimentum, quello che poi fu il mentum?460 Perché meravigliarsi della caduta di suoni e di lettere, quando non è avvenuto diversamente perfino nei significati, e non solo nei secoli più recenti, ma anche nei primi secoli? Tanto è vero che voci come queste, amabilis, nabilis, flexibilis, vulnerabilis, flebilis, revocabilis, hanno un’accezione o piuttosto un insito senso passivo presso i Latini;461 tuttavia Virgilio non esitò a dire penetrabile frigus,462 per seguire un’espressione popolare anche se errata, perché il freddo ha un forza di penetrazione; altri poeti463 non esitano a chiamare il dardo exitiabilis, perché arreca la morte; nemmeno esitarono a farlo nemmeno i prosatori,464 ai quali è meno concesso di sviare. Perciò potresti udire qua e là che un uomo è risibilis, che i cavalli sono hinni557

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“hinnibiles” equos, “sensibile” animal, deflexa ad agendum a patiendo significantia, quamvis postremum hoc lucretiana auctoritate non careat. 142. At contra miramur in Virgilio «incana menta» et «incurvum aratrum», quod in his insita augeat “in” significationem; ac si non et Cicero dixerit “infractum”, ut qui vehementer esset “fractus”. Ac mihi credite, compangendis atque ineundis vocibus “in” frequentius auget, quam imminuit, affirmatque potius quam inficiatur. Idque licet videre enumeratis vocibus, quacunque a litera incipientibus: «inhabito, inambulo, imbibo, imbuo, incido, incutio, indo, induco, inhaereo, inest, influo, infero, ingero, ingluvies (est enim “ingluvies” a verbo “inglubo), inhio, iniicio, illido, illudo, immitto, immuto, innatus, innato, inolesco, inhorreo, impello, impingo, inquino, inquiro, irruo, irretio, instillo, instruo, intego, intorqueo, inuro, invenio, invado». Quid tu, Summonti, defesso mihi enumeraudis his non affers suppetias? non et ipse grammaticae locum tueris? 143. SUMMONTIUS. Equidem ego illud ubique et sensi olim et hodie quoque sentio, literatores nostros aberrasse non parum ab antiqua enuntiatione et sermone; concedendum tamen in plurimis esse populo usumque in multis sequendum, potius quam rationem aut artem, quippe quae nata sit ab observatione. Atque de vasta ut litera dicam quod sentio, ea elementum minime simplex est, verum conglutinatio quaedam atque ad imminuendum in scribendo laborem inventa; nam initio cum fuisset in primo casu “calcis”, “lancis”, “arcis”, ut “plebes”, ut “scrobes”, ut “trabes”, quae nunc sunt “plebs”, “scrobs”, “trabs”, post subtracta litera “i” mansere “calcs”, “lancs”, “arcs”; inde inventa nova est figura, quae una duarum subiret et vicem literarum et locum, scribique coeptum “calx”, “lanx”, “arx”. Et quoniam in hunc sermonem incidimus, repetam hac in parte pauca quaedam, et si fortasse remotiora, neque iniucunda tamen, neque aliena ab umbratili hac aestivaque consessione nostra. Sermo coepit primum noster ab incultis et rusticanis, imo agrestibus ab hominibus; utque eorum erant res inopes, angustae, egenae, sic quoque sermo ipse inops minimeque affluens, verborumque perpaucorum ac sine ullo prorsus eorum excolendorum studio et cura. 144. Crescentibus post artibus atque hominum rebus actionibusque, quod sermo esset ipse et componendus et maturandus, factae sunt praecisiones tum syllabarum, tum literarum, non ab ipsis modo vocum prin-

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biles, che un animale è sensibilis, cambiando il significato da passivo in attivo,465 sebbene questo ultimo esempio non manchi di un’attestazione lucreziana. 142. Viceversa ci meravigliamo di leggere in Virgilio incana menta e incurvum aratrum,466 perché in questi casi in accresce il significato; come se anche Cicerone non avesse detto infractum, quasi a dire «fortemente spezzato».467 E, credete a me, nelle parole composte e all’inizio delle parole è più frequente che in accresca, piuttosto che diminuire, e affermi piuttosto che negare.468 Lo si può constatare elencando voci con qualunque lettera iniziale: inhabito, inbibo, imbuo, indo, induco, inhaereo, inest, influo, infero, ingero, ingluvies (ingluvies infatti deriva dal verbo inglubo),469 inhio, iniicio, illido, illudo, immitto, immuto, innatus, innato, inolesco, inhorreo, impello, impingo, inquino, inquiro, irruo, irretio, instillo, instruo, intego, intorqueo, inuro, invenio, invado.470 Come mai, Summonte, non mi sostieni, stanco come sono di questa enumerazione? non occupi anche tu il posto di un grammatico? 143. E infatti, per la verità, io sempre ho pensato, e lo penso tutt’oggi come in passato, che i nostri maestrini di grammatica si siano non poco fatti sviare dal modo di esprimersi arcaico; bisogna tuttavia concedere che in moltissimi casi va seguito l’uso popolare, piuttosto che la ragione o l’arte, nate dall’esperienza. E per dire quel che penso della lettera ostica, essa non è un elemento semplice, ma un accorpamento trovato per diminuire la fatica nello scrivere; essendoci all’inizio, in prima istanza, calcis, lancis, arcis, plebes, scrobes, trabes, quelle voci che ora sono plebs, scrobs, trabs,471 dopo la sottrazione della lettera i rimasero calcs, lancs, arcs; in seguito fu trovato un nuovo segno,472 che prendesse il posto delle due lettere, e si cominciò a scrivere calx, lanx, arx. E poiché siamo incorsi in questa discussione, ripeterò a questo punto alcune considerazioni, anche se forse troppo remote, e tuttavia non prive di interesse, né estranee a questa nostra oziosa riunione estiva. Il nostro discorso è cominciato da personaggi incolti e rusticani, anzi selvatici; e come i loro argomenti erano poveri, angusti, miseri, così anche il linguaggio era povero e senza alcuna scioltezza, fatto di pochissimi vocaboli e assolutamente privo della premurosa attenzione alla loro funzione di abbellire. 144. Poi con lo sviluppo delle arti, delle faccende e delle operazioni dell’uomo, poiché doveva costruirsi e maturarsi il linguaggio, si fecero dei tagli di sillabe e di lettere, non solo al principio delle voci, ma anche 559

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cipiis, verum etiam desinentibus a syllabis. Principio enim costitutiones formaeque appellationum haudquaquam fuere quales nunc sunt, finalibus praesertim literis. Nam quae sunt hodie «fex, grex, dux, rex, emax, vendax, fallax, minax» fuere primis illis seculis in casu nominante «fecis gregis ducis regis emacis vendacis fallacis minacis»; amputatis contractisque post literis, decurtatae terminationes sunt, utar autem Ciceroniano verbo. Qua e re id etiam secutum, ut figura haec (quod dixi) duplex quidem ea sit inventa minuendi laboris gratia scriptumque “fex grex dux rex emax vendax fallax minax”, quae voces prius habuerant “cs” aut “gs”. Excultioribus enim seculis contraxere “adeps”, quod nomen ante “adepis” fuerat, et “abs”, cuius postea locum subiit “ab”, et “ex”, cuius loco et vice “e” utimur, et “ast”, pro quo quibusdam magis placuit “at”, quod sonus ille esset vastior. Quid quod “donicum” fuit quod nunc est “donec”, “sedum” quod est “sed”, “sicce” quod est “sic”, “etiam” pro quo “et”, “sat” quoque quod fuerat “satis”, “lac” quod “lacte”, “tribunal” quod “tribunale”, “animal” quod “animale”, “sal” quod “salis”, “nil quod “nilum”, “far” quod “farre”? Quid quod “forsit” pro “forsitan”? quo non Horatius modo popularibus in sermonibus, sed Propertius in amatoriis est usus, cum dixit: Iste quod est ego saepe fui, sed forsit in hora Hoc ipso eiecto carior alter erit.

145. Nec vero primarum tantum atque ultimarum sive literarum sive syllabarum factae sunt amputationes, dum aut brevitati consulitur aut suavitati, verum a mediis quoque. Quidnam, quaeso, nunc est taberna, nisi quod olim “tabulerna”, facta literarum subductione? Quid “venter” nisi “vehenter”, quod se implendo evehat vel quod vehat in cibum absumpta, unde ventrem exhonerare dicuntur qui excrementa eiiciunt? Quid vultus nisi “voluntus”, quod animi voluntatem indicet? Quid lautus nisi “lavatus”, a sorde scilicet liber atque extersus? Quid coxae nisi “coissae” a coeundo, vel in ipsa libidine, vel quod hinc illincque coeant ad oscenas partes vehendo corpori? Iam vero “fortuna” a ferendo dicta, et mutatis et subtractis literis quasi “ferentuna”; terra “pulla”, quasi “pulvilla”, idest resolubilis et in pulverem versa, qualis est terra campa-

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alle sillabe finali. Al principio infatti la struttura e la forma dei nomi non era quali sono adesso, specialmente nelle sillabe finali. Quei nomi che sono oggi fex, grex, dux, rex, emax, verdax, fallax, minax, erano in quei primi secoli al nominativo fecis, gregis, ducis, regis, emacis, verdacis, fallacis, ninacis;473 poi con l’espulsione e la contrazione delle lettere, le terminazioni – per usare il vocabolo ciceroniano – si accorciarono.474 Da ciò è seguito il ritrovamento di questo segno vocalico (come ho detto) doppio per ridurre lo sforzo e si è scritto fex, grex, dux, rex, emax, vendax, fallax, minax, voci che prima avevano un cs o un gs. Nei secoli più raffinati si contrasse adeps,475 vocabolo che prima era stato adepis, e abs, al posto del quale subentrò ab, ed ex, al posto del quale usiamo e, e ast, al quale si preferì at, perché il suono di quella voce era più esteso. E che dire del fatto che era donicum quello che attualmente è donec, sedum quello che attualmente è sed, sicce quello che attualmente è sic, etiam invece dell’attuale et,476 ed ora si dice sat invece del satis di una volta, lac invece di lacte, tribunal invece di tribunale, animal invece di animale, sal invece di salis, ni invece di nilum, far invece di farre? Che dire di forsit invece di forsitan? lo ha usato non solo Orazio nei Sermoni,477 che hanno un carattere popolare, ma Properzio nelle poesie d’amore, quando disse: Al posto suo fui spesso; ma forse nel giro di un’ora respinto anche costui, preferiranno un altro.478

145. Ma non si sono fatte espulsioni soltanto delle prime e delle ultime lettere o sillabe, per poter favorire la brevità e la dolcezza, ma anche delle lettere interne. Che significa mai ora, di grazia, taberna se non quello che una volta era tabulerna,479 con la sottrazione di qualche lettera? che significa venter, se non vehenter, perché empiendosi fa uscire oppure trasmette le cose ingoiate per cibarsi, per cui si dice che si liberano da un peso quelli che cacciano gli escrementi?480 Che significa vultus se non voluntus, perché indica la volontà dell’animo?481 Che significa lautus se non lavatus, cioè liberato e deterso dalla sozzura?482 Che significa coxae se non coissae, da coire, unirsi, o nell’atto sessuale o perché si uniscono da una parte e dall’altra all’organo osceno per far camminare il corpo? Ma allora fortuna vien detta così dal verbo fero, quasi fosse ferentuna col mutamento e la sottrazione di lettere;483 la terra è pulla, come fosse pulvilla, perché si scioglie e si trasforma in polvere, quale la terra campana di 561

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na, ut ait Columella, quae nequaquam nigra est, ut quidam perperam arbitrantur, sed resolubilis et putrida, quaeque saepius arata in pulverem abit. Est et “columna” a columine, quae fuit “columina”; et a pascendo “pabulum”, quod fuit “pascibulum”; et panis “pascinis”; et pasta “panista”; et vinum a “vite vitinum”; et vinea “vitinea”; et a ferendo ferculum “fericulum”, quod in pompis ferantur “fercula”; poculum item “potaculum”; flumen “fluimen”; tegmen “tegimen”; semen “serimen”; discrimen “discernimen”; nam “prosa” quid est aliud quam “promissa” oratio? 146. An, quaeso, “meditari” est aliud quam in medio itinere aliquid “itando” aut agere aut cogitare, quod est occupati animi aliudque quam iter agitantis? Quid est etiam aliud foenum nisi “fovenum”, quo scilicet foveantur animalia hieme? quid foetus nisi “fovetus”, quod a matribus foveantur? retinetque propterea dypthongum “oe”; nam in primo verbo cum insit litera “o”, subtracta “v” litera, relinquitur “oe”. An non postes sunt a positu quasi “posites”? ac testis, tecum sto aut pro te sisto? nam et testes sistebant olim apud praetorem. Tela nonne “texula”, ut tegula, ut regula? Cliens nonne “coliens”, quod patronum utique coleret suum, e Romuli constitutione? “Castra” sunt qui putent a servanda castitate dicta, ambitiose sane, quippe quae sint a claudendo, claudebantur enim vallo et fossa. Sic et casteria, locus in triremi, sic etiam vallis illa Caudina, quod sit undique clausa montibus hodieque ex eo vocatur Caudium. Sic quoque et castellum, quod fossa claudatur et muris; erant etiam in aquarum ductibus castella, quod in iis aquae concluderentur, unde post largius affluerent. Atque ut a “dio” dies, sic a gladio “gladies”, pro qua est clades; fuitque “stratages”, pro qua est “strages”; et “stratagulum”, pro quo “stragulum”; et “stratamen”, pro quo stramen; quin etiam “sarriculum”, pro quo “sarculum” et “noviper” pro quo nuper; et “sequeculum” pro quo seculum, hoc est annorum multorum series ac sequela, qua in voce qui dypthongum “ae” scribunt male omnino sentiunt; neque enim prima eius producitur quod dypthongum habeat, sed quod veteres poetae geminaverunt in ea voce literam “c”, quemadmodum in religione

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cui parla Columella,484 che non è per nulla scura, come alcuni sbagliando asseriscono, ma solubile e marcia, e tale da finire spesso in polvere quando viene arata. Ancora, proviene da columen la voce columna, che una volta suonava columina,485 e la voce pabulum, che una volta suonava pascibulum, deriva da «pascere»; e «pane» da pascinis, e «pasta» da panista, e «vino» da vitinum (la vite), e «vigna» da vitis, vitinea, e ferculum, fericulum486 da fero (portare), perché nelle processioni si trasportano i fercula (le barelle che sostengono le statue), e così poculum da potaculum, flumen da fluimen, tegmen da tegimen, semen da serimen, discrimen da discernimen;487 prosa, infatti, non è altro che una parlata prolungata?488 146. Di grazia, meditari significa altro che fare o pensare qualcosa nel mezzo del cammino, ed è proprio di un animo occupato a fare altro che camminare?489 che altro significa foenum se non fovenum, di cui si cibano gli animali d’inverno? che significa foetus se non fovetus, perché sono alimentati dalle madri?490 ed è per questo che conserva il dittongo oe; infatti nel primo vocabolo, essendoci la lettera o, con la sottrazione della lettera v rimane oe. E postes non deriva da positus ed è come fosse posites?491 e testis non sta per tecum sto oppure per pro te sisto?492 infatti i testimoni si disponevano un tempo accanto al pretore. Tela non sta per texula, come tegula o regula?493 E cliens non sta per coliens, perché onorava il suo patrono, secondo la costituzione di Romolo?494 C’è chi pensa che i castra siano così chiamati dal fatto che conservino la castità,495 ma è una presunta etimologia, perché il vocabolo deriva dal verbo claudere («chiudere»), e infatti i castra (gli accampamenti) erano chiusi o da una palizzata e da un fossato. Così anche si chiamava casteria496 un locale della triremi, e così la famosa valle Caudina, per il fatto che è chiusa d’ogni parte dai monti, e perciò oggi si chiama Caudio.497 Così anche castellum ha questo nome perché è chiuso da un fossato e da muraglie; i castelli erano anche collocati su condutture d’acqua, perché le acque vi si raccoglievano, onde poi affluire più largamente. E da dius deriva dies,498 così da gladius deriva gladies, sostituito da clades;499 ed esisteva la voce stratages, sostituita da stramen;500 che più? sarriculum, sostituito da sarculum, e noviter sostituito da nuper;501 sequeculum sostituito da seculum, cioè una serie e una successione di molti anni,502 ma chi scrive la voce seculum col dittongo ae non ha per niente ragione; infatti la prima lettera non si allunga perché la voce abbia il dittongo, ma perché i poeti antichi vi raddoppiarono la lettera c, come avvenne per religio e per reli563

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et reliquiis “l” et in propagine “p”, cum harum producunt primas syllabas, utque Lucretius refficit et redducit. An quia quod imminutum fuit e literis, cum “seculum” in initio fuerit, ut dixi, “sequeculum”, adiectum sit postea tempori hoc est quantitati? quod in multis aliis est servatum. Sed dies me deficiat iis enumerandis. 147. Sermonem autem quo utimur ab agrestibus ac rudibus coepisse hominibus, illud declarat potissimum, quod pleraeque e primis illis impositionibus sunt rusticis incomptisque a rebus sumptae. Iam primum “palam”, “saepe”, “e vestigio” rusticorum quidem sunt inventa hominum; nam quod “saepes” spissa esset et densa, dixerunt “saepe” pro “frequenter” indeque et «saepissus spissus»; “e vestigio” pro “statim”, quasi non minus cito quam e vestigio pes dimoveatur; “palam” aperte, quod sit aperta quidem ac protenta “pala” nihilque cavum habeat aut complicatum, in quo latere quid collocatum possit. Nam penes, id est in manu atque in potestate, fuit olim, quod quidem ipse iuraverim, “penest”, accomodatum rudibus ab hominibus ex asinorum et iumentorum caudis, aut manu prehensis, unde fuit “manucapio”, aut “capistro”, colligatis invicem; mos est enim alterum iumentum alterius caudae illigare, ne digrediendi illis sit potestas; post vero detracta litera “t”, mansit “penes”. Et “cernere”, unde “decernere” et “certare”, quae senatoria sunt atque imperatoria verba, indeque et “decreta” et “certamina”, manavit initio a “cernendis” leguminibus. Et “serere” et “pangere” ruris sunt arborumque et seminum, e rure tamen in urbem atque a rusticis ad urbanos venere, et “series” rerum, et “sermo”, et “sermocinatio”, et “dissero”, et “disertus”, et “pangere” versum, et “pagina”, et “pagella”; quin etiam literarum exaratio. 148. Quodque pastores cogerent pecudes gregatim “compascere”, non sparsim, inde “compescere” est continere; quodque vehendis ex agro in oppida et vicos rebus instanter darent operam, factum est “vehestigo”, quod erat tunc eandem viam insistere eaque saepius itare; nam et via ini-

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quiae, e nel caso di propago la p, dal momento che le prime sillabe così si allungano, come quando Lucrezio dice refficit e redducit.503 O dobbiamo pensare che la riduzione delle lettere,504 giacché inizialmente la voce era, come ho detto, sequeculum, fu compensata con un aumento del tempo, cioè della quantità? procedimento osservato in molti altri casi. Ma mi mancherebbe il tempo se volessi enumerarli. 147. Che il linguaggio da noi usato abbia avuto origine dalla gente rozza addetta alla coltivazione della terra, lo dimostra anzitutto il fatto che la maggior parte delle prime attribuzioni di nomi sono derivate da concetti semplici riguardanti la campagna. Già in un primo tempo furono inventati dalla gente di campagna palam, saepe, e vestigio; infatti, poiché la siepe è fitta e densa dissero saepe invece di frequenter,505 e di conseguenza saepissus invece di spissus; dissero e vestigio invece di statim, come se il piede si movesse non meno velocemente che il piede quando si muove subito; palam, che significa «apertamente», perché il palmo della mano è aperto e proteso, e non ha nessuna cavità e complicazione in cui qualcosa possa collocarsi per nascondersi. E infatti penes, cioè «in mano», «in potere», si diceva un tempo penest, ed io stesso potrei giurarlo, riferito a quel che facevano i contadini alle code degli asini e dei giumenti, o presi con la mano o legati vicendevolmente, da cui vennero i verbi manucapere o capistrare; vi è infatti l’uso di legare un giumento alla coda dell’altro per non dar loro la possibilità di andarsene via; ma poi sottratta la lettera t rimase penes. E cernere, da cui derivano decernere e certare, che sono verbi riguardanti il senato e il comando dell’esercito, e di conseguenza decreta e certamina, derivò inizialmente dall’operazione di scegliere, decernere, i legumi. Inoltre serere, «seminare», e pangere, «piantare»,506 sono vocaboli propri della campagna, degli alberi e dei semi, e tuttavia si spostarono dalla campagna alla città e dai contadini ai cittadini; e si ebbero sermo, la lingua, sermocinatio, il discorso, dissero, discutere, disertus, eloquente, pangere, comporre, riferito al verso, pagina e pagella; ma anche exaratio, riferito alle lettere, «trascrizione».507 148. E poiché i pastori costringevano il bestiame a pascere insieme (compascere), non in maniera sparsa, compescere508 è venuto a significare «contenere»; e poiché insistentemente si affaticavano a portare le cose dalla campagna nelle città e nei villaggi, si formò il verbo vehestigo, che allora significava intraprendere la stessa via e andare molto spesso sulla stessa strada; infatti anche via originariamente fu veha, e allo stesso 565

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tio fuit “veha”; factum item est “vehestigium”; quae nunc ademptis syllabis sunt vestigo et vestigium eaque ab iumentis atque a curribus in scolas profecta a philosophis etiam recepta sunt. Atque illis quidem seculis satis habebatur quali res cumque appellatione notare, nulla cum esset quantitatis ac temporum aut suavitatis cura formandis vocabulis. Quam post et curam et cogitationem primi poetae suscepere, dum urbanitatis suscipiunt patrocinium, donec senatus ac fori maiores agitatiores atque actiones peperere eam quae post dicta est eloquentia. Qua quidem in explicatione, etsi latissimus mihi sese offert campus, tamen quod et petenti subsidium Compatri videri potest satis pro virili factum esse, cum etiam brevis haec refrigeratio fuerit Altilio nostro non ingrata, et quod Puderici supercilium non est contemnendum, quem video grammaticis non satis aequum, loquendi possessionem tuumque ad continuandum de historia locum, Altili, et volens et libens tibi restituo. 149. ALTILIUS. Et refrigeratio ipsa fuit mihi pergrata et te interim vetustissimas repetentem res iucundissime audivi. Nam et ex iis quae explicasti principiis nata est historia, quae rudis in initio ipsa fuit, sine cultu, sine copia, nulla adhibita artis industria, perexigua etiam naturae; quippe cum ea cura pontificibus tantum esset demandata iique annis singulis quae gesta essent notabant populoque exponebant cognoscenda. Cui post et Piso et Fabius et Cato non ita multum addidere ornamenti, ut generis scribendi eorum magna fuerit a posterioribus ratio habita. Ne multo quidem quam horum maior habetur a Cicerone Caelii, nec Sisenna eius implet aures, quanquam vocaliorem is historiam fecit, cui, ut Ciceroni ipsi videtur, maiorem quendam Caelius sonum vocis addidisset. Ad haec Sisenna parum libero ore locutus Sallustio videtur, cum sit historiae e Ciceronis sententia prima illa lex «nequid falsi dicere audeat, deinde nequid veri non audeat, nequa suspicio gratiae sit in scribendo, nequa simultas»; atque hi quidem progressus romanae fuere historiae ad Ciceronis usque tempora. Nam de graeca illi viderint qui graece praecipiunt; de qua tamen et Cicero ea attigit quae satis esse latinis nobis

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modo si creò allora vehestigium; quei vocaboli che ora con la sottrazione delle sillabe sono vestigo e vestigium, anch’essi provenienti dai giumenti e dai carri, una volta entrati nelle scuole, sono stati accolti anche dai filosofi.509 Ma in quei secoli bastava indicare le cose con qualunque denominazione, non portandosi alcuna attenzione alla quantità prosodica o alla dolcezza nella formazione dei vocaboli. Questa attenzione e riflessione furono i poeti ad affrontarla per primi, assumendo la difesa dei valori urbani, finché il senato e più importanti attività e azioni del foro produssero quella che poi fu chiamata eloquenza. Con questa spiegazione, anche se il campo che mi si offre dinanzi è amplissimo, tuttavia alla richiesta di sostegno da parte del Compatre può sembrare che si sia soddisfatto per quanto umanamente possibile, senza fare per giunta cosa sgradita al nostro Altilio, e poiché non va trascurata l’avversione di Poderico, che vedo non molto benigno nei confronti dei grammatici, restituisco di buon grado e volontariamente a te, Altilio, la parola e la continuazione del discorso sulla storia. 149. ALTILIO. Molto ho gradito avere un po’ di respiro ed è con molto piacere che ho udito nel frattempo i tuoi ricordi antiquari. Perché ha avuto le origini che tu hai chiarito anche la storiografia, che all’inizio era rozza, senza rifinitura, senza eloquenza, senza l’applicazione di arte alcuna, neanche quella ristretta della natura, essendo affidato soltanto ai pontefici il compito di averne cura, ed erano loro che annotavano ogni anno le azioni compiute e le esponevano al popolo per farle conoscere.510 A quest’opera poi né Pisone, né Fabio, né Catone aggiunsero tanto abbellimento,511 da far tenere in gran conto da parte dei posteri questo genere letterario. Nemmeno di Celio512 da parte di Cicerone ci fu una considerazione maggiore di quella che ebbe per costoro, e nemmeno Sisenna513 soddisfa il suo gusto, sebbene quegli rendesse la storiografia più canora, perché, come pare a Cicerone, aveva aggiunto alla storia una certa vocalità.514 Inoltre sembra a Sallustio che Sisenna si sia espresso con troppo poca libertà,515 essendo, secondo il parere di Cicerone, la prima norma della storiografia quella di non osar di dire alcunché di falso, poi quella di non osar di dire nessuna cosa meno che vera, e che nella scrittura non vi sia alcun sospetto di favoreggiamento o di inimicizia;516 e furono questi i progressi della storiografia fino ai tempi di Cicerone. Infatti si interessino della storiografia greca quelli che insegnano il greco; da essa Cicerone ha attinto quello che possa sembrare sufficiente a 567

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videri possint. Itaque, his sic dictis, me vobis reddo, sive admonens sive innuens pauca quaedam, ut dixi utque sum pollicitus, potius quam ut qui videri velim praecepta tradidisse. 150. Principio, ut natura ipsa rerum generationi consulens suo quodque in genere perficere ac consumare nititur, in aliis tamen aliud eius atque aliud est propositum, sic dictio omnis et scriptio eo spectat, ut bene consumateque et dicatur et scribatur; alibi tamen, hoc est forensibus in causis, ut consumate dicatur etiam ad persuasionem, alibi ad laudationem approbationemque, ut in eo genere quod demonstrativum dicitur atque in historia, cuius prima cum sit lex neque in gratiam loqui neque opticere odio vera aut ea dissimulare, efficitur ut laudentur quae sint commendatione digna, suo quidem et loco et tempore utque improbentur turpiter atque imprudenter facta; alterum sine spe, sine pretio, alterum sine simultate et metu; ita uti et tuae pariter et illius, de quo suscepta est laudatio, famae honorique pudenter ac modeste consulas. Nam qui pretio servit ac malivolentiae veritati quonam pacto studeat? Ac mihi quidem in laudando aut improbando videtur rerum gestarum scriptor iudicis quasi cuiusdam personam debere induere, ne ab aequo et iusto illo recedat, quod est inter praemium ac poenam medium. 151. Et quoniam res ab aliquo gestas historicus sibi scribendas suscipit, primum videre illud debet, quod dicendi genus sequi debeat; quod tale mihi quidem assumendum videtur quale est genus fusum, laene, aequabiliter incedens, neque ita compressum ut inops videatur et languens, neque adeo amplum ut intumescat oratio et verba ipsa quodammodo exiliant, utque incedat oratio, non saliat aut titubet sitque incessus ipse non muliebris ac petulans, sed virilis et gravis. 152. Omnium autem iudicio laudatur potissimum in historia brevitas, cum ea sit maxime idonea ad docendum, ad delectandum, ad movendum. Nam nec docere bene potest qui loquaciter atque ambitiose explicat; parit enim loquacitas ac diffluentia ipsa tum contemptum tum etiam satietatem, quae docilitati adversantur ac delectationi. Nam quis omnino doceri velit molestia taedioque affectus? nec moveri et agi quo volumus animus eius potest, male qui libenter aut audit aut legit. Ad haec nimius verborum tractus effusiorque oratio memoriae quam officiat omnes videtis; de quo natura est horatianum illud:

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noi latini. Perciò, detto questo, sono tutto vostro, sia per ricordare, sia per accennare poche cose, come ho detto e promesso, piuttosto che voler dare a vedere di impartire dei precetti. 150. Alle origini, siccome la natura, provvedendo alla creazione si sforza di portare a compimento e perfezionare le cose ciascuna nel suo genere, e tuttavia in alcune il suo proposito è uno in altre un altro, così ogni parola orale e scritta mira a essere pronunciata bene e perfettamente; in un caso, cioè nella cause forensi, ad essere pronunciata perfettamente al fine della persuasione, in altri al fine della lode e dell’approvazione, come in quel genere che si chiama «dimostrativo», ossia elogiativo. E nella storiografia, essendo la prima norma quella di non parlare per compiacere, né di tacere o dissimulare la verità per odio, avviene che ottenga l’approvazione quel che è degno di essere elogiato nel luogo e nel tempo giusto, e che sia riprovato quel che è brutto e malfatto; la prima dev’esser applicata senza attendersi nulla e senza compenso, la seconda senza inimicizia e timore; in questo modo si provvede con saggezza e moderazione alla fama e all’onore tuo e di colui che ti sei assunto il compito di elogiare. Perché come può essere che sia dedito alla verità chi è servo della ricompensa e della malevolenza? E a me sembra che nel lodare e nel biasimare lo scrittore di storia debba quasi vestire i panni di un giudice, per non discostarsi dall’equo e dal giusto, che è il punto di mezzo fra la ricompensa e la pena. 151. E poiché lo storico si assume il compito di raccontare le azioni di qualcuno, prima di tutto deve vedere quale stile deve seguire; e a me pare che lo stile debba essere quello sciolto, leggero, equilibrato nel procedere, non così denso da risultare povero e fiacco, né tanto ampio da gonfiare il discorso e da far quasi balzare le parole, e che il discorso proceda, non sobbalzi o incespichi e l’incedere non sia femminile e sfacciato, ma virile e grave. 152. A giudizio di tutti fra le qualità più apprezzabili della storiografia vi è la «brevità», la più adatta quando si debba insegnare, dilettare, commuovere. Infatti non può insegnare bene chi si esprime con loquacità e giri di frasi; la loquacità e l’eccessiva effusione generano il rifiuto e la nausea, che sono il contrario del consenso e del diletto. Chi mai consentirebbe a ricevere un insegnamento se infastidito e tediato? né può essere trasportato e tratto dove vogliamo l’animo di chi malvolentieri ascolta e legge. Inoltre un’eccessiva sfilza di parole e un discorso troppo diffuso, vedete tutti quanto possa riuscire ostico; di qui è nato il detto di Orazio: 569

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Quicquid praecipies, esto brevis.

153. Quo haec igitur aliaque vitentur in scribendo incommoda et vitia, danda erit opera ut brevitas ipsa sit aperta et clara quaeque apte colligat, non concise, lucide, non obscure. Nam et Cicero in Thucydide ac Philisto, qui illum imitatus est, non probat eorum quasdam sententias, ut concisas, ut non satis lucidas, quaeque contractione sua officiant nimioque acumine. Equidem hac in parte pudore capior quodam, dicam tamen quod sentio ingenue, inter vos praesertim, dissertiones illustres illas quidem et puras et appositas, easdem etiam graves et suptiles, ita tamen nimio acumine ne officiant, non breves vocandas, sed accommodatas potius, sed et aequabiles et temperatas; arbitrorque nomen hoc brevitatis inde venisse in usum vel potius in honorem, quod diffluentia illa et superfluens collectio rerumque aggestio ac verborum tantopere improbaretur, ut eius contraria brevitas favorem eo maiorem invenerit. Sed non sit nobis de verbo illo contentio, quod in Ciceronis sonet ore, dum brevitas intelligatur esse apposita ipsa quidem et verbis ac sententiis accommodatis, collectione ipsa nec arcta nec pervagata, in qua, perinde ut in agro bene culto, nullae insint sentes, quin eniteant in ea ipsa omnia et virescant suo tempore, suo etiam et florescant et maturescant. Hoc itaque sive breve et appositum, sive aequabile atque accommodatum dicendi genus amplectendum est historico; constetque appellatam brevitatem non quia concisa et manca, verum quod multa complectatur verbis non ita multis, quaeque pro rerum ac sententiarum complexu appareant etiam pauca. 154. Hoc est igitur illud genus quod paulo ante diximus assumendum: fusum, laene, aequabiliter defluens, neque ieiunum neque intumescens atque corruptum. Etenim fusa oratio concisionem longius a se repellit obscuritatis sociam sibique adversantem atque contrariam. Laenis atque aequabilis aspernatur reiicitque ab sese contortus illos ambitusque nimios ineptasque atque asperas verborum collocationes strepitusque tum vocum ac syllabarum tum interruptos hiatus; ut quemadmodum sedatus amnis feratur cursu tranquillo, nullis contortus gurgitibus aut spumantibus obiectu saxorum aquis. Ieiuna vero atque inops illa, quasi glareosus ager, quem afferre fructum potest, quando quod laudandum suscepit reddit contemptibile illud ac ridiculum? In brevi autem hoc et apposito

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Qualunque cosa insegnerai, sii breve.517

153. Per evitare questi inconvenienti e difetti nello scrivere, bisogna far di tutto perché la brevità stessa sia ariosa e limpida e che i nessi siano giusti, non stringati, evidenti, non oscuri. Infatti anche Cicerone non approva in Tucidide e Filisto,518 che lo imitò, alcune frasi perché stringate, non abbastanza evidenti, tali da dar fastidio per la concisione e l’eccessiva acutezza. E, per dire la verità, a questo punto sono preso da un certo pudore, ma dirò schiettamente il mio pensiero, specialmente fra voi, che cioè quelle illustri dissertazioni, pur fini e ben fatte, e anche gravi e sottili non al punto da non infastidire per l’eccessiva acutezza, non vanno chiamate «brevi», ma piuttosto congrue, equilibrate e moderate; e ritengo che questa stessa denominazione di «brevità» sia venuta in uso o piuttosto in onore, perché l’effusione e la straripante raccolta e affastellamento di concetti e di parole era tanto malvista, che il suo contrario, la brevità, incontrò maggior favore. Ma non è il caso di scontrarci su parole che risuonano sulla bocca di Cicerone,519 purché s’intenda per brevità quella ottenuta con parole e frasi ben conformate, né compressa né diffusa per quel che concerne il loro aggregamento, nel quale, come in un campo ben coltivato, non devono esserci spine, anzi tutte le piante devono mostrarsi nel loro splendore e verdeggiare al tempo giusto, e mettere anche i fiori e produrre i frutti. Questo è lo stile, breve e appropriato, equilibrato e ben fatto che lo storico deve abbracciare; e deve esser chiaro che si chiama brevità non perché sia stringata e le manchi qualcosa, ma perché comprende molte cose in un numero di parole non tanto grande, e che appare piccolo in confronto col complesso dei fatti e delle idee. 154. Questo è lo stile che sopra abbiamo detto doversi adottare: sciolto, leggero, equilibrato nel procedere, non scarno, né gonfio e sregolato, E infatti il discorso sciolto si tiene ben lontano dalla stringatezza compagna dell’oscurità, sua avversaria e nemica. Il discorso leggero ed equilibrato rifiuta e respinge da sé i ben noti artifizi e gli arzigogoli e la collocazione sconveniente e aspra delle parole, e ora il suono forte dei vocaboli e delle sillabe, ora le interruzioni dello iato; tutto in modo da procedere come un fiume calmo, con un corso tranquillo, senza essere sconvolto da gorghi o dalla spuma delle acque dovuta all’ostacolo degli scogli. Viceversa il discorso scarno e povero, come un terreno ghiaioso, quale frutto può portare, quando rende deprecabile e risibile l’argomento che ha assunto 571

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dicendi genere, in repetendis antiquitatibus, in revocandis memoriis, in describendis locis, in referendis consiliis, in enarrandis casibus, in proeliis, victoriis, cladibus memorandis, extollendis praeclaris facinoribus, accusandis ac deprimendis ignavis et perditis, iudicio vetustatis magnus et clarus existit Sallustius; nam celeritate facile est princeps. In contionibus vero habendisque orationibus non idem video esse omnium iudicium, quasi parum habita ratione personarum, hoc est militum, populi, senatus, ad quos orationes ipsae habentur; ad haec et scabrosior in illis iudicatur et concisior in sententiis et contractus ac nimium acutus apud quos minime deceat. 155. Quibus autem (quod de eloquente ait Cicero, quod mirabilius et magnificentius quam disertus augebit atque ornabit quae volet) quibus, inquam, mirabilior ac magnificentior magis placet oratio, iis vitandum est dicendi genus insolens, affectatum, tumidum; quibus scatet vitiis Marcellinus, quo in genere scribendi Livius profecto regnat. Quia vero exempla comparationesque declarant maxime virtutes ac dicendi figuras, afferam e Sallustio quos memoria teneo locos quosdam, tametsi quicquid dicit, simplex est et unum dumtaxat, ut horatianis utar verbis. Loci erunt de ingenio Iugurthae et moribus: Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio valido non se luxui neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari, cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse. Ad haec pleraque tempora venando agere, leonem atque alias feras primus aut imprimis ferire, plurimum facere, minimum ipse de se loqui.

Et alibi: Nam Iugurta, ut erat impigro atque acri ingenio, ubi naturam Publii Scipionis, qui tum Romanis imperator erat, et morem hostium cognovit, multo labore multaque cura, praeterea modestissime parendo et saepe obviam eundo periculis, in tantam claritudinem brevi pervenerat, uti nostris vehe-

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per ottenere la lode? In questo stile breve e adeguato nel recuperare le antichità, nel rievocare le memorie, nel descrivere i luoghi, nel narrare le vicende, nel ricordare battaglie, vittorie, sconfitte, nell’esaltare le azioni illustri, nel biasimare e abbassare le imbelli e sciagurate, a giudizio dell’antichità grande ed illustre si leva Sallustio, perché senza dubbio è il primo per «celerità». Ma nel caso di discorsi pubblici e orazioni non vedo essere unanime il giudizio, come se vi si fosse tenuto poco conto delle persone, cioè dei soldati, del popolo, del senato al quale le orazioni stesse sono rivolte; inoltre è giudicato nelle orazioni un po’ spigoloso e nei pensieri angusto e troppo acuto nei confronti di coloro verso cui non dovrebbe esserlo. 155. Coloro ai quali poi (come dice Cicerone dell’uomo eloquente, che ingrandirà e abbellirà quel che vorrà con la meraviglia e la magnificenza più che con la facondia),520 coloro ai quali, ripeto, piace di più l’orazione piuttosto mirabile e magnifica, devono evitare lo stile eccessivo, affettato, rigonfio; di questi difetti è pieno Marcellino,521 in quello stile nel quale regna certamente Livio. Ma poiché gli esempi e i confronti illuminano moltissimo i pregi dello stile, addurrò da Sallustio alcuni passi che tengo a memoria, sebbene qualunque cosa che scrive sia semplice non meno che unitaria, per usare le parole di Orazio,522 I passi riguarderanno l’indole e il comportamento di Giugurta: Quando egli divenne adolescente, forte e bello d’aspetto, ma soprattutto vivace d’intelligenza, non si lasciò corrompere dal lusso e dall’ozio, ma, seguendo i modi della sua gente, cavalcava, lanciava l’asta, gareggiava con i coetanei nella corsa e, nonostante fosse superiore a tutti nel successo, riusciva tuttavia ad essere simpatico a tutti. Inoltre trascorreva la maggior parte del suo tempo a far caccia, era sempre il primo o fra i primi a ferire il leone e le altre fiere, agiva molto, non parlava quasi per nulla di sé.523

E altrove: E infatti Giugurta, infaticabile e astuto d’indole com’era, non appena si accorse del carattere di Publio Scipione, che allora guidava l’esercito romano, e delle abitudini dei nemici, con la sua tanta fatica e attenzione, oltre tutto obbedendo con grande remissione e spesso andando incontro ai pericoli, era pervenuto in breve a tal punto di buona reputazione da riuscire molto simpatico ai nostri, ed esser temuto straordinariamente dai 573

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menter carus, Numantinis maximo terrori esset. Ac sane, quod difficillimum imprimis est, et proelio strenuus erat et bonus consilio; quorum alterum ex providentia timorem, alterum ex audacia temeritatem afferre plerunque solet. Igitur imperator omnes fere res asperas per Iugurtam agere et in amicis habere, magis magisque eum in dies amplecti, quippe cuius neque consilium neque inceptum ullum frustra erat. Huc accedebat munificentia animi et ingenii solertia.

156. Singula verba res pene complectuntur singulas, ipsa quidem ita propria, ut nullo appareant modo conquisita, structura illaborata, cursus fluens ac sedatus, sonus laenis auribus maxime gratus, nihil denique quod artem praeseferat, cum tamen omnia sint ex arte: quodque de Amphionis cithara murisque Thebanis in fabulis dicitur, et verba et res sponte sua ac natura duce in unum confluunt. Referam et livianum de Annibale locum: Nunquam ingenium idem ad res diversissimas, parendum atque imperandum habilius fuit. Itaque haud facile discerneres utrum imperatori aut exercitui carior esset; neque Asdrubal alium quenquam praeficere mallet, ubi quid fortiter ac strenue gerendum esset, neque milites alio duce plus confidere aut audere. Plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat; nullo labore aut corpus fatigari aut animus vinci poterat; caloris ac frigoris patientia par, cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate modus finitus, vigiliarumque somnique nec die nec nocte discriminata tempora. Id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli strato neque silentio arcessita; multi saepe militari sagulo opertum, humi iacentem intra custodias stationesque militum conspexerunt. Vestitus nihil intra aequales excellens, arma atque equi conspiciebantur. Equitum peditumque idem longe primus erat, princeps in proelium ibat, ultimus confecto proelio excedebat. Has tantas virtutes ingentia vitia aequabant: inhumana crudelitas, perfidia plus quam punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nullum iusiurandum, nulla religio.

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Numantini. E veramente, cosa fra le più difficili, egli era coraggioso nel combattimento e saggio nelle decisioni, mentre per lo più l’una di queste qualità produce il timore per eccessiva prudenza, l’altra la temerità per eccessiva audacia. Perciò il generale si serviva di Giugurta per quasi tutte le imprese difficili, lo considerava suo amico, lo apprezzava sempre di più perché nessuna delle sue idee e delle sue azioni avevano un esito cattivo. A questo si aggiungeva una generosità d’animo e una brillante intelligenza.524

156. Tutte le parole, singolarmente, rispecchieranno le cose, ed esse devono essere talmente appropriate da non sembrare in nessun modo ricercate, come la struttura non deve essere elaborata, il flusso delle parole deve essere sciolto e pacato, il suono leggero e più che mai gradevole, nulla infine deve ostentare l’arte, sebbene tutto sia fatto ad arte: e, quel che si dice nelle favole mitologiche della cetra di Alfione e dei muri di Tebe, le parole e le cose spontaneamente e con la guida della natura si fondono. Riferirò anche un passo di Livio su Annibale:525 Giammai una stessa indole fu più idonea ad attività tanto diverse come l’obbedire e il comandare. Infatti non si sarebbe potuto distinguere facilmente se fosse più caro al comandante o all’esercito; ché né Asdrubale gli preferiva alcun altro quando si trattava di compiere azioni forti e ardite, né con un altro al comando erano più pieni di fiducia e coraggio. Arditissimo nell’affrontare i pericoli, nei pericoli si comportava poi con la massima prudenza; nessuna fatica poteva logorare il suo corpo né abbattere il suo animo. Era capace di sopportare il caldo come il freddo; la misura del mangiare e del bere era regolata dal desiderio naturale, non dal piacere; i tempi della veglia e del sonno non erano distinti a seconda del giorno e della notte. Era concesso al riposo il tempo che rimaneva dalle azioni; per il riposo non richiedeva un morbido letto o il silenzio; molti lo videro sdraiato sulla terra nuda avvolto in un mantello militare tra i corpi di guardia e gli appostamenti dei soldati. Il vestiario non era superiore a quello dei coetanei; spiccavano le sue armi e i suoi cavalli. Tra i cavalieri e i fanti era di gran lunga il migliore, entrava in combattimento per primo, si ritirava a fine combattimento per ultimo. A queste così grandi virtù erano pari i considerevoli vizi che aveva: una crudeltà disumana, una perfidia più che cartaginese, nessuna sincerità, nessuna pietà, nessun timor di Dio, nessun rispetto per i giuramenti e per la religione.

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157. Iudicare his praesertim e locis plane potestis in Sallustio maius esse brevitatis eius de qua loquimur studium, in hoc altero rerum adiectis verbis augendarum; illi curae est proprie simpliciterque espressa res, huic arcessitum atque extrinsecus allatum aliquid tanquam excolendae formae. Et lenis et fluxu tantum suo incitus placet Sallustio decursus, at Livio altior paulo, nec tam aliquando sedatus quam plenus ac personans. Ille in id intendit, ut natura videatur duce loqui, hic ut naturae bonis attulisse ex arte industriaque videri velit adminiculum. Utque alter ille virili et senatorio incessu graditur, ac pro loco et sistit interdum gradum et tanquam prospectat longius metiturque loca singula, sic alter hic et gestit quandoque et viribus suis laetus exultat praefertque robur et artis et ingenii. Declarat hoc manifestius Lucii Catilinae de virtutibus et vitiis descriptio; locus tamen ille Liviano huic haudquaquam satis similis. Verum de iis sit suum cuique iudicium. 158. Quoniam igitur, ut Cicero maximus dicendi auctor sentit, pura et illustris esse debet brevitas atque, ut nos dicimus, aperta et clara puritasque ipsa et claritas versentur tum in sententiis tum in verbis e quibus constat orationis contextio, nimirum omni studio fugienda est obscuritas loquendique perplexio ac dubietas. Evitabuntur autem vitia haec, si verba ipsa bene fuerint collocata eaque non rancida, non obsoleta, non putida minimeque ancipitia; cursus non contortus, non verticosus, non lubricus; non concisa aut quasi in involvolum complicata, ut rustici loquuntur, textura; non spinosa sensa, verum series ipsa fusa et tracta. Quarum ubi rerum diligens habebitur cura, quasi fugatis nubibus, aperta apparebit ac serena brevitatis species. 159. Est brevitati coniuncta vel potius cognata celeritas, adeo in historia laudata, eaque existere absque brevitate omnino nequit. De qua innuendum est aliquid, ne partem hanc aut aegreferatis a me praeteritam aut parum omnino animadversam existimetis. Audite, quaeso, studiosissimi viri, quae a me dicentur, nequaquam tamen ut qui novi hausturi aliquid meo de fonte sitis, sed ut ab eo qui ea potius sit vobis in memoriam revocaturus, de quibus saepius eodem hoc in consessu non minus

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157. Specialmente da questi passi potete giudicare come sia maggiore in Sallustio la ricerca della brevità di cui stiamo parlando, mentre nell’altro la ricerca di amplificazione con gli aggettivi; all’uno sta a cuore esprimersi con proprietà e schiettezza, all’altro ricercare qualcosa anche di diverso, come se si avesse una cura particolare per la forma. E a Sallustio piace un flusso leggero e sospinto soltanto dal suo interno, mentre a Livio un poco più sostenuto, e talora non tanto pacato quanto robusto e sonoro. Il primo ha l’intento di parlare in modo da sembrar guidato dalla natura, il secondo in modo che sia palese l’aiuto offerto ai beni della natura dall’elaborazione artistica. E come l’uno procede con passo virile quasi degno di un senatore, e al momento giusto talora ferma il passo e si direbbe che guardi più in là misurando ogni luogo, così l’altro si muove tutto di quando in quando ed esulta lieto e ostenta la forza dell’arte e dell’ingegno. Lo dimostra con maggiore evidenza la descrizione delle virtù e dei vizi di Lucio Catilina;526 tuttavia questo passo non è assolutamente simile a quello di Livio. Ma su questo ciascuno ha un proprio giudizio. 158. Poiché dunque, come pensa Cicerone che è l’autorità massima nell’arte del dire,527 la brevità deve essere limpida e lucida e, come diciamo noi, aperta e chiara, e la stessa purezza e chiarezza devono riguardare sia le frasi, sia le parole di cui consta il testo del discorso, tanto più con ogni sforzo bisogna fuggire l’oscurità e la complicazione e incertezza del dettato. Si eviteranno questi difetti se le stesse parole saranno collocate perfettamente e saranno non rancide, non invecchiate, non affettate e per nulla ambigue; il flusso non deve essere contorto, precipitoso, scivoloso; il testo non deve essere involuto quasi alla maniera del bruco, che i contadini chiamano involvolum;528 i sensi non devono essere pieni di punte, ma la loro sequenza deve essere ben fusa e sciolta. Se si rivolgerà una diligente attenzione a queste cose, sarà come se, volte in fuga le nuvole, appaia aperto e piano il concetto di brevitas. 159. Con la brevità è collegata, o piuttosto è affine, la celerità, tanto apprezzata nella storiografia, e non può sussistere senza la brevità. Bisogna accennarne, perché non vi dispiaccia ch’io abbia trascurato questa parte o pensiate che non me ne sia ricordato. Ascoltate, vi prego, grandi studiosi che siete, quello che dico non proprio come chi debba bere dalla mia fonte qualcosa di nuovo, ma come da uno che piuttosto vi riporterà alla mente cose di cui in questi raduni è stato discusso non meno am577

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copiose quam diligenter est disputatum. Differt itaque a brevitate celeritas, quod brevitas quocunque inesse in sermone et oratione potest, celeritas nec ubique nec semper potest. Etenim brevis est oratio haec: «Ubi quenque periculum coeperat, ibi stare». At si coniungas statim: «arma, tela, viri, equi, hostes atque cives permisti; nihil concilio, neque imperio agi, fors omnia regere», erit utique celeritas. Cuius etiam persimilis est illa: «Deinde ipse pro re ac loco, sicuti e monte descenderat, paulatim procedere, Marium post principia habere, ipse cum sinistrae alae equitibus esse». 160. Est igitur celeritas brevis et accurata sive complexio sive collectio conglutinatioque complurium simul rerum ac verborum, et quasi partium, quarum unaquaeque per se prolata sensum perficit; sive ea conglutinatio sit inconiuncta et absque copulatione aliqua, ut quas supra posui, sive copulatione constet, ut haec: «Eodem tempore imperator et aciem instruere et hosti obviam ire et milites cohortari et quid facere quemque vellet imperare; neque voce neque manu usquam deesse». Huius autem ipsius complexionis partes ac membra interdum singulis e verbis constant, ut: «arma, tela, viri, equi, hostes atque cives permisti»; interdum e pluribus, qualis ea: Nam uti planicies erat inter sinistros montes et inter dexteram rupem, octo cohortes in fronte constituit, reliquarum signa in subsidiis collocat. Ex his centuriones omnes electos et evocatos, praeterea ex gregariis militibus optimum quemque armatum in primam aciem subducit; C. Manlium in dextra, Fesulanum quendam in sinistra parte curare iubet, ipse cum libertis et colonis propter aquilam assistit.

161. Atque haec quidem ipsa celeritatis species minus apparet, nec tam allicit lectorem, nihilominus varietas est quae eam condiat. Contra mirifice trahit ad se legentem, ubi partes ipsae mistim constituentur et e singulis et pluribus verbis, ut: Quibus rebus permota civitas atque immutata facies urbis erat; ex summa laetitia atque lascivia, quae diuturna quies pepererat, repente omnis tri-

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piamente che attentamente. Differisce pertanto la brevità dalla celerità, perché la brevità può esserci in qualunque conversazione e discorso, la celerità non in ogni occasione e in ogni tempo. E infatti questa frase è breve; «stavano fermi lì, ciascuno dove il pericolo lo aveva colto».529 Ma se vi aggiungessi subito «armi, dardi, uomini, cavalli, nemici e concittadini tutti insieme; non si prendeva nessuna decisione, non si dava nessun ordine, la sorte regnava su tutto», vi sarà comunque la celerità. Simile a questa è quella frase: «Quindi lui come, secondo la circostanza e il luogo, era disceso dal monte, procedeva a poco a poco; aveva Mario dietro le prime file, mentre lui stava con i cavalieri dell’ala sinistra».530 160. La celerità è dunque un complesso o un’aggregazione o un collegamento accurato di cose e di parole e quasi di parti, delle quali ciascuna enunciata da sola ha un senso compiuto; sia che quel collegamento sia privo di nessi e di congiunzioni, come negli esempi su riportati, sia che si tenga insieme mediante la congiunzione, come in questo caso: «Nel medesimo tempo il generale disponeva l’esercito e andava incontro al nemico, ed esortava i soldati e ordinava quello che ciascuno dovesse fare; ed era sempre presente con la voce e con la mano». Talora poi le parti e i membri di questo complesso constano di singole parole, come «armi, dardi, uomini, cavalli, nemici concittadini tutti insieme»; talora di più parole, come nella frase: Infatti, essendoci una pianura fra i monti a sinistra e la rupe a destra, egli dispone otto coorti sul fronte, colloca le insegne delle altre nella riserva. Scelti e designati da queste altre tutti i centurioni e inoltre tra i soldati semplici tutti i guerrieri migliori, li inserisce in prima fila; ordina a C. Manlio di comandare sull’ala destra, ad uno di Fiesole di comandare sull’ala sinistra, lui con i liberti e i coloni si piazza presso l’aquila.531

161. E lo stesso concetto di celerità non è evidente, né attrae tanto il lettore, e tuttavia è la varietà che l’aggrazia. Invece mirabilmente attrae il lettore, là dove le parti mescolandosi si formano con singole e con più parole: La popolazione era in subbuglio a causa di questi eventi e l’aspetto della città era cambiato; da un eccesso di gioia e di piacere, prodotto da un lungo periodo di pace, d’un tratto la tristezza invase tutti: si davano da fare, 579

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stitia invasit: festinare, trepidare, neque loco neque homini cuiquam satis fidere, neque bellum gerere neque pacem habere, suo quisque metu pericula metiri.

Accedat et altera compago: Ad haec mulieres, quibus reipublicae magnitudine belli timor insolitus incesserat, afflictare sese, manus supplices ad coelum tendere, miserari parvos liberos, rogitare deos, omnia pavere, superbia atque delitiis omissis sibi patriaeque diffidere.

162. Ut autem naturae propria ac peculiaris est varietas, sic ea ipsa praecipue multum confert ad decorandam magnificandamque celeritatem. Quocirca videndum erit ne idem ubique sit eius tractus, sed mistus et varius filumque orationis non unum, verum aliae atque aliae partium texturae, qualis sallustianus ille locus: Postquam eo ventum est unde a ferentariis proelium committi posset, maximo clamore cum infestis signis concurritur, tela omittuntur, gladiis res geritur. Veterani pristinae virtutis memores cominus acriter instare, illi haud timide resistunt, maxima vi certatur. Interea Catilina cum expeditis in prima acie versari, laborantibus succurrere, integros pro sauciis arcessere, omnia providere, multum ipse pugnare, saepe hostem ferire, strenui militis et boni imperatoris officia simul exequebatur.

Itaque neque omnia eodem aut semper filo contexenda sunt aut numerus variandus non est; cuique etiam rei adhibendus est modus, cunctorum enim sensuum satietas mala, aurium vero multo molestissima. Fuit autem tantum virtutis huius in Sallustio studium, uti divinam illam appellare non dubitaverit Marcus Fabius, aliis tamen multis et magnis virtutibus Livium assecutum, scilicet quod ad hanc ipsam aspirare minime potuerit. 163. Neque tamen nos id aut sentimus aut dicimus, quod eam ipse sallustiano sequi more contenderit. Sunt enim et dicendi sua fere cuique innata semina, sicuti et appetendi studiorumque coeterorum. Est

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trepidavano, non avevano abbastanza fiducia di nessuno, non erano né in pace né in guerra, ciascuno misurava i pericoli in base alla paura paura.532

Si aggiunga il passo successivo: Di più le donne, nelle quali si era diffuso un timore della guerra, insolito data la grandezza dello stato, si affliggevano, tendevano supplici le mani al cielo, avevano pietà dei loro piccini, invocavano gli dei, avevano paura di tutto, messe da parte superbia e gioie, diffidavano di sé e della patria.533

162. Siccome la varietà è propria e particolare caratteristica della natura, è essa che specialmente contribuisce molto ad abbellire e render magnifica la celerità. Perciò bisogna vedere che il suo tracciato non sia sempre lo stesso, ma misto e vario, e non uno solo sia il fi lo del discorso, ma la tessitura delle parti sia sempre diversa, come in quel luogo di Sallustio: Giunti a un punto da dove si poteva attaccare battaglia da parte degli armati alla leggera, col più grande clamore si precipitano con le insegne di guerra, trascurano le frecce, lo scontro avviene con le spade. I veterani, memori dell’antico coraggio, incalzano da vicino con ardore, quegli altri resistono senza timore, si combatte con straordinaria violenza. Frattanto Catilina insieme con gli armati alla leggera si muove in prima linea, soccorre chi è in difficoltà, chiama chi è sano a rimpiazzare i feriti, provvede a tutto, combatte egli stesso con molto impegno, spesso colpisce il nemico, faceva insieme la parte di un soldato coraggioso e di un buon generale.534

Perciò non tutte le trame vanno sempre intrecciate con lo stesso fi lo, o il ritmo non deve subire variazioni; in ogni cosa va usata la moderazione, perché in tutti i casi il troppo è negativo, ma è di gran lunga fastidioso all’udito. Fu poi tanta in Sallustio l’attenzione verso questo pregio, che Marco Fabio non esitò a chiamarla divina,535 pur avendo elogiato Livio per altre e grandi virtù, evidentemente perché a questa non poteva assolutamente ambire. 163. Né tuttavia pensiamo e diciamo ciò per il fatto che lui si sia sforzato di adeguarsi allo stile di Sallustio. In ciascuno sono insiti dalla nascita dei germi propri riguardanti il linguaggio, come avviene per le passioni e le 581

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autem celeritas ipsa tum grandium magnificatrix rerum tum sullevatrix humilium; eadem effusa colligit, collecta nunc graviter nunc venuste pro materia digerit; quae multa sunt cogit in pauca, quae rursus pauca ornat, insignit, auget. Ac perinde ut manus ad agendum, pedes ad inambulandum innitendumque multis pollent iuncturis, sic et ipsa celeritas suis arcticulis indefessa indefatigataque est. Atque ut pedes etiam ipsi ad ducendas quandoque serviunt choreas manusque ad decorandam formam, praeterquam quod pedes nati sunt ipsi ad incessuum labores atque ad ferendum honus corporis, manus vero ad robur viresque exercendas, sic ipsa quoque adiuvat confertque celeritas ad comptum, ad hilaritatem, ad venustatem, ad varietatem denique comparandam, naturae profecto ipsius narrantis appositissimum ministerium. Quae Livius dum quaerit, alia etiam via ingressus atque profectus est. Cuius viri multae profecto magnaeque virtutes extitere, tum exornandis atque adaugendis rebus tum etiam complectendis ac variandis, ut nunquam illi aut res defuisse videantur aut ipse rebus defuerit. Denique ut nullus post Marcum Tullium extitit qui aures impleverit audientium in foro, in senatu, in populo orator actorque causarum, sic inventus necdum post Livium est ullus, ex ore cuius in rebus bellicis terribilem dederit sonitum tuba, nec, ut vaticinor, ex alicuius ore datura est post multa etiam secula. 164. Qualis igitur et quae celeritas sit, iudicari ex iis quae dicta sunt potest, etsi multa quoque a me praetermissa sunt, quae quamvis minutiora, non exiguam tamen laudem afferunt scriptori. Comparatur autem et constituitur ea tum verborum tum rerum copia; oportet enim perhuberem esse eam perque affluentem, cum necesse sit multa, diversa, varia hinc atque illinc apportata et disquisita colligat collectaque quasi pleno e sinu effundat, ut quae mirabiliter quoque inventa videantur; veluti cum Sallustius, ut paulo ante retulimus, dixisset «omnia pavere», non ante subiunxit «sibi patriaeque diffidere», quod abunde fuisset per se plenum, quam iniecisset «superbia ac delitiis omissis», quadam cum admiratione et audientium et recitantium. 165. Et Livius mira etiam celeritate usus cum esset, in virtutibus vitiisque Annibalis exponendis, cum dixisset «inhumana crudelitas, perfidia plusquam punica, nihil veri, nihil sancti, nullus deum metus, nul-

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altre tendenze. La celerità è poi capace di render magnifiche le cose grandi e sollevare le umili; raccoglie le cose disperse, dopo averle raccolte le distribuisce con gravità e con grazia secondo la materia; riduce e riunisce le cose molteplici, e all’inverso quando son poche le adorna, le fa spiccare, le ingrandisce. E come la mano per fare, i piedi per camminare e per sostenersi sono forniti di molte giunture, così anche la celerità non è stanca né affaticata in virtù delle sue articolazioni. E come i piedi talvolta sono utili per far condurre le danze, e le mani per aggiungere fregi alla bellezza, nonostante che i piedi siano nati per la fatica di camminare e per portare il peso del corpo, le mani per esercitare la forza e le energie, così anche la celerità dà il suo aiuto e contribuisce a procurare l’eleganza, la piacevolezza, la grazia e infine la varietà, che è certamente il compito più appropriato alla fisionomia di chi narra. Cose che, quando le ricerca Livio, imbocca e percorre un’altra strada. Di costui furono certamente molti e grandi i pregi sia nell’adornare e ingrandire le vicende, sia nell’abbracciarne il racconto e variarlo, tanto che né a lui sembrano essere mancati i fatti, né sembra che ai fatti sia venuto meno lui. Infine, come non c’è stato più nessun oratore o avvocato che dopo Marco Tullio abbia soddisfatto in pieno l’orecchio degli uditori nel foro, nel senato, nel popolo, così non si è trovato alcuno che dopo Livio abbia fatto con la sua bocca risuonare la tromba terribilmente in guerra, né, come presagisco, la farà risuonare per molti secoli. 164. In che consista e quale sia la celerità, si può giudicare da quel che si è detto, anche se molte cose ancora sono state omesse da me, cose che, sebbene piuttosto minute, non poco merito arrecano al narratore. Viene poi raccolta e ordinata una quantità di parole e di argomenti. Bisogna infatti che sia molto ricca e abbondante, per quando sorge la necessità; raccolga lo storico molto materiale, diverso, vario, prendendolo e ricercandolo di qua e di là, e raccoltolo lo riversi quasi dal grembo ricolmo, perché appaia anche miracolosamente scoperto; per esempio avendo detto Sallustio, come poco prima abbiamo riferito, «tutto tremò di paura» non soggiunse «non aver fiducia in sé e nella patria», che sarebbe stato di per sé completo, prima di aver inserito «tranne che per la superbia e i piaceri», col risultato di una certa sorpresa degli ascoltatori e dei lettori. 165. E Livio, usata la celerità nell’esporre virtù e vizi di Annibale, dopo aver detto «disumana crudeltà, perfidia più che cartaginese, nessuna verità, nessuna pietà, nessun timore degli dei, nessuna lealtà nel giuramento», per render più grandi queste cose, infine quasi tirandolo fuori dal fondo 583

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lum iusiurandum», quo maiora illa omnia faceret, tandem imo quasi e pectore erutum effudit: «nulla religio». Etenim celeritas quasi plenus et profundus amnis multa vehit et tanquam aquarum mole rotat versatque. Vitanda tamen confusa et inordinata permistio, eaque evitabitur si partes ipsae et quos dixi arcticuli separatim ipsi suis quique illustrentur atque impleantur verbis, si verba apte et plane explicent res, si loco et ordine subsequantur suo, si numerorum quoque recta habeatur ratio, si incessus ac cursus ipse minime, ut dici solet, pedem offendat. Quid vero hac ipsa sallustiana copiosius, planius, tractius aut denique numerosius? Ibi primum insuevit exercitus populi Romani amare, potare; signa, tabulas pictas, vasa caelata mirari, ea privatim et publice rapere, delubra spoliare, sacra profanaque omnia polluere. Igitur hi milites postquam victoriam adepti sunt, nihil reliqui victis facere. Quippe secundae res sapientium fatigant animos, nedum illi corruptis moribus victoriae optemperarent. Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria, imperium, potentia sequebatur, hebescere imperium, paupertas probro haberi, innocentia pro maleficentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventutem ubi luxuria atque avaritia cum superbia invasere, rapere, consumere, sua parvipendere, aliena cupere, pudorem, pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi, nihil moderati habere»,

et quae post sequuntur. 166. Erit igitur celeritas ut minime sordescens ac lutulenta, sic undique sibi constans et conformata suoque loco adhibita; integra partibus, iucunda numeris, cursu laenis, rotunda, constituta, magnifica, ac rerum plena, quemadmodum piscosus multarumque ac liquidarum aquarum fluvius. Locus autem virtuti est huic maxime aptus cum multa sese offerunt quae breviter sint pertractanda, aut cum prosequenda magnifice augendaque oratione, aut ubi res per se ipsa videtur exilior, estque et verbis tum honestanda atque extollenda tum rebus locupletanda atque sententiis, iisque extrinsecus allatis. Diximus de brevitate deque coniuncta ei celeritate, de illo item dicendi genere quod historiae videatur accommodatum, etsi non exacte, plura fortasse quam consilium nostrum

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del cuore esclamò: «nessuna religiosità». E infatti la celerità al pari di un fiume profondo in piena trascina molte cose e le fa girare e le rivolta come con una massa d’acqua. Bisogna comunque evitare la mescolanza confusa e disordinata, e la si potrà evitare se le parti e quelle articolazioni di cui ho parlato vengono abbellite e rifinite con parole appropriate, se le parole espongono le cose con opportuna chiarezza, se si dispongono di seguito al loro posto e in ordine, se si tiene conto anche del ritmo, se l’andamento e la corsa, come si dice, non fanno urtare il piede. Che vi è di più ricco, piano, scorrevole o infine ritmico di questo passo? Lì per la prima volta un esercito del popolo romano prese l’abitudine di darsi agli amori, di bere; di ammirare le statue, i dipinti, vasi cesellati, di derubare i templi, di violare ogni cosa sacra e profana. Perciò questi soldati ottennero la vittoria, ma non lasciarono nulla ai vinti. Perché il benessere logora perfino l’animo dei sapienti: e poi gente dai costumi corrotti non poteva essere moderata nella vittoria. Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere in pregio e ad esse seguirono il successo, la supremazia, il potere, cominciò a venir meno la virtù, la povertà ad essere disprezzata, la integrità ad esser considerata malanimo. Cosicché, quando dopo le ricchezze la sregolatezza e l’avidità, insieme con l’arroganza, s’impadronirono della gioventù, si rapiva, si sperperava, si era insoddisfatti del proprio, si bramava la roba d’altri, si confondevano pudore, onestà, valori sacri ed umani, non c’erano ponderatezza né moderazione.

E quel che segue.536 166. Dunque la celerità dovrà essere priva di scorie e di fango, e così dovrà essere anche organica e ben costruita, oltre che adoperata al tempo giusto: coesa nelle sue parti, piacevole nel ritmo, scorrevole, ben tornita, ben piantata, magnifica e robusta, come un corso d’acqua pescoso, limpido e abbondante. L’occasione più favorevole a esercitare questa virtù è quando si offrono molti argomenti da trattare brevemente, o quando bisogna accompagnarli con la magnificenza e ingrandirli col discorso, o quando l’argomento sembra di per sé troppo esile e bisogna non solo dargli dignità e maggior tono mediante le parole, ma anche arricchirlo di concetti e di pensieri, e questi bisogna ricavarli dal di fuori. Abbiamo trattato della brevità e della celerità ad essa collegata, dello stile che sembra adeguato alla narrazione storica, anche se non perfettamente, forse 585

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fuerat aut quam ab eo qui innuere atque adumbrare tantum habeat promissum initio fuerit. Quocirca progrediamur ad reliqua. 167. Omnino historia, ut Cicero putat ac natura ipsa docet, partibus constat e duabus, hoc est rebus et verbis. Rebus autem ipsis est ordo adiunctus; agendis enim negociis insunt et quae prius et quae posterius sint administranda. Rerum enim ac naturae ipsius ordine ut quaedam praecedunt, sic etiam sequuntur alia. Ac de rebus quidem ipsis existit enarratio; verbis autem series earum contexitur, quemadmodum e lapidum strue aedificiorum fabricatio. Ordo est qui materiam omnem prudenter ac recte disserit seriemque passim et universam informat et singulas eius partes moderatur ac digerit. Oportet igitur explicationem quidem ipsam esse ordinatam, quo veritas minime confusa incerta ve aut indistincta appareat. Parit igitur ex sese rerum ordo eam quae dispositio et totius et partium dicitur; cuius ea laus est, ut eius opera et cura, tanquam uno in corpore, omnia suo loco, suis partibus apte, proprie, decore, prudenterque collocentur; terminataque suis finibus totum ipsum partesque ita simul vinciant inter se atque connectant, ut in unum coacta decenter consentiant existatque universi species tum honesta et gravis tum blanda et cum dignitate. Habebunt igitur ordo pariter ac dispositio rationem non rerum modo distribuendarum suis in locis, verum suo quoquo tempore, cuius spatio et ambitu cuncta comprehenduntur consistuntque quae sunt universa. 168. Et quoniam actio omnis, geriturque atque administratur quodcunque, id aliquam ob causam susceptum est (causae namque ubique antecedunt rerumque suscipiendarum fines), oportet rerum scriptorem causarum ipsarum ac finium cumprimis esse memorem certumque earum ac verum expositorem. Quibus exponendis summum est ab eo adhibendum studium maximeque diligens cura. Quodque causis iis, quae propinquae quidem sunt, aliquid tamen sese quandoque ostendit antiquius, huius quoque tanquam principii nobiliorisque originis facienda est repetitio, antiquitasque atque obliteratio ipsa in memoriam revocanda et tanquam exponenda in lucem; ut cum Sallustius, quo Micipsae regis consilia magis magisque in aperto poneret, numantino usque a bello repetit; utque ad Catilinae incepta progrederetur suosque per tramites, coepit repetere ab urbe condita, et quibus primo artibus civi-

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più di quel che era stata la nostra intenzione e più di quanto sia stato promesso inizialmente da chi ha soltanto il compito di farne un cenno e una delineazione. Perciò andiamo oltre. 167. La storiografia, come ritiene Cicerone e la stessa natura insegna, consta di due parti, cioè di un contenuto storico e di una forma stilistica. Al contenuto si aggiunge l’ordine; nel condurre le azioni infatti ci sono cose che si devono fare prima e cose che si devono fare dopo. Nell’ordine delle cose naturali, come ci sono cose che precedono, così ci sono cose che seguono, E delle cose stesse esiste la narrazione; la loro serie poi si collega con le parole, alla stessa maniera che la fabbrica degli edifici con la massa delle pietre. L’ordine è quello che dispone tutta la materia con sapienza e perfezione e dà forma da ogni parte e a tutta quanta la serie e regola e distribuisce le singole parti. Dunque è necessario che l’esposizione stessa sia ordinata, per non far apparire la verità confusa o incerta o vaga. L’ordine delle cose produce dunque di per sé quella che si chiama «disposizione» e del tutto e delle parti, il cui merito è questo, che per opera sua e per sua cura, come in un corpo, tutte le membra sono collocate al loro posto, a fare la loro parte, con la dovuta proprietà, con convenienza e saggezza; e bisogna che, definito il loro confine, il tutto e le parti si intreccino e si connettano, in modo che stiano ben unite in un accordo, ed emerga un’immagine del tutto nobile e grave, attraente ed inoltre piena di dignità. L’ordine e la disposizione dunque avranno cura non solo di disporre le cose nel loro posto, ma anche nel loro tempo, perché tutte le cose che esistono sono comprese e hanno luogo nello spazio e nel tempo. 168. E poiché ogni azione, tutto quello che si fa e si conduce, è assunto per qualche causa (le cause infatti precedono sempre i fini delle imprese), bisogna che lo storico sia memore anzitutto delle cause e dei fini, e se ne faccia espositore certo e veridico. Per narrarle deve adoperare uno studio straordinario e un’attentissima cura. E poiché talvolta rivela qualcosa di più antico delle cause che sono vicine, anche di questo principio, per così dire, e di questa più nobile origine bisogna operare il recupero, e revocare alla memoria l’antichità e lo stesso oblio e quasi metterlo in mostra; come quando Sallustio, per rendere ancora più chiara l’intenzione del re Micipsa, riprende la narrazione dalla guerra di Numnazia;537 e per giungere alla narrazione delle imprese di Catilina, considerandone i relativi passaggi, cominciò ad evocare le vicende ab urbe condita, e con 587

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tas creverit et quibus etiam moribus corrupta post iuventus fuerit, quae corruptio Catilinam ad ineundam coniurationem et traxit et perpulit. 169. Ipsis autem causis suscipiendi sive negocii sive belli coniuncta sunt consilia et hominum qui agendum quippiam decernunt sententiae ac voluntates; quae quod saepenumero sunt diversae, exponendae eae sunt a rerum scriptore in partem utranque; ut cum Livius Annonem alterius factionis principem inducit impugnantem carthaginensis senatus sententiam de bello inferendo Romanis creandoque Annibale duce. Quo fit ut quandoque utriusque partis diversorumque consiliorum auctores ac principes inducendi sint altercatim disserentes in senatu, quo sententiae ipsae clariores appareant, illustreturque magis magisque historia et lectores ipsi apertius doceantur de altercationum causis consiliorumque ac sententiarum diversitate; quod servavit Sallustius, cum et Caesarem inducit et Catonem sentientes in senatu contraria. 170. Suscepto autem negocio aut bello explicando (nam res gestae plerunque sunt bellicae) duo statim coniuncta sunt, et pene dixerim agnata, descriptione sua digna: belli dux ipsius atque imperator et vires atque opes reipublicae, si tum ea magistratibus regitur, aut regis ipsius, ubi sub unius moderatione urbs regnum ve temperatur. Itaque et Livius ingenium, institutionem moresque describit Annibalis et Iugurtae Sallustius ac Catilinae. Principum quoque senatus et civitatis mores qui sint quaeque instituta aperienda fideliter; opes item, amicitiae, societates. His accedit explicatio bellici apparatus, tum terrestris tum maritimi; quales et quantae utriusque partis copiae, armorum genera, equitum ac peditum numerus; quaeque alia his annexa sunt atque a scriptoribus minime omittenda, ut praesagia, auguria, vaticinia, oracula, visiones, sacrificia, transfugia denique atque explorationes; legationes item ac legatorum mandata, bellique ipsius indictio atque indicendi modus ac ratio. Non praeteriit Annibalis insomnium illud Livius, quo vastitatem Italiae denuntiatam significat, non Catilinae epistolam Sallustius aut Scipionis

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quali arti crebbe la città e con quali costumi in seguito la gioventù si corruppe, poiché fu quella corruzione che trascinò e spinse Catilina alla congiura.538 169. Alle cause poi che portano ad intraprendere un’azione o una guerra sono connessi i progetti e i pensieri degli uomini che decidono doversi fare una qualche cosa, nonché le loro volontà; e poiché queste ultime sono diverse, devono essere esposte dalla storiografia nei due versi contrari, come quando Livio introduce Annone, capo di una delle due fazioni, a contrastare il parere del senato cartaginese sulla necessità di portare guerra ai Romani e sulla proposta di eleggere a capo Annibale.539 Perciò avviene che di quando in quando bisogna che i promotori e i capi di ciascuna delle due parti e di pareri diversi vengano introdotti a discutere in competizione, affinché i pensieri appaiano più evidenti e sempre di più sia illuminata la storia e gli stessi lettori siano edotti più chiaramente intorno alle cause delle polemiche e alla diversità dei progetti e dei pensieri; cosa che ha osservata Sallustio, quando ha introdotto Cesare e Catone a esporre nel senato le loro opinioni contrarie.540 170. Quando ci si è assunto il compito di narrare un’impresa o una guerra (le gesta per lo più sono di guerra) due informazioni sono strettamente richieste e direi quasi naturali, di cui dover rendere il conto dovuto: il comandante generale della guerra e il contingente militare e finanziario dello Stato, se in quel tempo esso è retto da magistrature o queste dipendono dallo stesso sovrano, quando la città o il regno è sotto il governo di uno solo. Perciò da una parte Livio descrive la fisionomia morale di Annibale, dall’altra Sallustio quella di Giugurta e di Catilina.541 Bisogna far conoscere con precisione anche quale sia il costume dei senatori e della città e quali le sue istituzioni: lo stesso si dica delle relazioni di amicizia e di alleanza. Si aggiunge a questo l’illustrazione dell’apparato bellico, terrestre e marittimo; quali sono e quante sono le forze dall’una e dall’altra parte, le forme di equipaggiamento, il numero di cavalieri e di fanti; e le altre cose annesse che gli storici non possono ignorare, come i presagi, i pronostici, i vaticini, le visioni, i sacrifici, e infine la vicenda dei transfughi e delle spie. Lo stesso si dica delle ambascerie e dei messaggi affidati agli ambasciatori, delle dichiarazioni di guerra e della forma e metodo di dichiararla. Non trascurò Livio di parlare di quel sogno famoso di Annibale,542 con cui annuncia la devastazione dell’Italia, o Sallustio dell’epistola di Catilina543 o di quella di 589

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ad Masinissam, non uterque aut Martii vatis praedictionem Cannensi de calamitate alter, alter de imperio Corneliorum familiae debendo in urbe Roma. 171. Post vero susceptas expeditiones ac bellum iam indictum motumque, quo aperta magis magisque sint quae narrantur omnia, describendae sunt regiones, loca, situs, qua ducendus exercitus, qua castra metanda, quibus aut campis aut collibus bellum administretur; ordo etiam ipse ductandi aperiendus, ut cum legitur triplici aut quadrato agmine incedere exercitum. Flumina quoque et montes siqui sunt et illorum naturae et siquid in his dignum memoratu ac rarum. Erat – inquit Sallustius – in ea parte Numidiae, quam Adherbal in divisione possederat, flumen oriens a meridie, nomine Mutul, a quo aberat mons ferme millia passuum viginti, tractu pari, vastus ab natura et humano cultu; sed ex eo medio collis oriebatur in immensum pertingens, vestitus oleastro et myrtetis aliisque generibus arborum, quae in humo arida arenosaque gignuntur. Media autem planities deserta penuria aquae, praeter flumini propinqua loca. Ea consita arbustis pecore atque cultoribus frequentabantur.

172. Quo igitur et lectorem doceret et delectaret remque ante oculos quasi videndam exponeret, et situm omnem exequitur et qui situs esset ipsius habitus et quae soli natura. Et Livius: Tumulus erat – inquit – inter castra Minutii et Poenorum; qui eum occupasset haud dubie iniquiorem erat hosti locum facturus. Eum non tam capere sine certamine volebat Annibal, quanquam id operaepretium erat, quam causam certaminis cum Minutio, quem semper occursurum ad obsistendum satis sciebat, contrahere. Ager omnis medius erat prima specie inutilis insidiatori, quia non modo silvestre quicquam, sub ne vepribus quidem vestitum habebat, re ipsa natus detegendis insidiis, eo magis quod in nuda valle nulla talis fraus timeri poterat. Et erant in confractibus cavae rupes, ut quaedam earum ducenos armatos possent capere.

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Scipione a Masinissa,544 e tutti e due non hanno trascurato di parlare, l’uno della predizione del poeta Marzio sul disastro di Canne,545 l’altro del dominio che la famiglia dei Cornelii era destinata ad avere sulla città di Roma.546 171. Una volta affrontate le spedizioni e dichiarata la guerra, per fare in modo che la narrazione sia sempre più chiara, bisogna descrivere le regioni, i luoghi, i siti dove condurre l’esercito, dove disegnare l’accampamento, su quali campi e su quali alture si progetti di condurre lo scontro bellico; anche l’ordine della marcia bisogna illustrare, come quando si dice che l’esercito avanza in triplice schiera o facendo quadrato. E se ci sono fiumi e monti, bisogna illustrare la loro natura e se a questo riguardo ci sia qualcosa degna di essere ricordata straordinaria: C’era in quella parte della Numidia di cui nella divisione Aderbale aveva avuto il possesso – racconta Sallustio – un fiume chiamato Mutul, che nasceva a mezzogiorno, e dal quale distava circa venti miglia una catena montuosa che si estendeva parallelamente, desolata per natura e per mancanza di coltivazione da parte dell’uomo. Ma nel mezzo sorgeva come un colle, che si estendeva smisuratamente, rivestito di ulivi selvatici, di mirteti e ti altri generi di arbusti che nascono in terreni aridi e sabbiosi. In mezzo poi una pianura deserta per mancanza di acqua, tranne le zone vicine al fiume. Queste, piantate ad alberi, erano popolate di bestiame e coltivatori.547

172. Per istruire il lettore e dilettarlo mettendogli quasi sotto gli occhi lo spettacolo, lo storico tratta di tutto il sito e di qual è la sua disposizione e la natura del suolo. E lo fa Livio: Sorgeva un’altura fra il campo di Minucio e quello dei Punici; chi l’avesse occupata avrebbe reso certamente più difficile la situazione del nemico. Annibale mirava non tanto a occuparla senza combattere (quantunque ne valesse la pena), quanto a cogliere l’occasione di scontrarsi con Minucio, il quale, com’egli ben sapeva, si sarebbe precipitato a far resistenza. Tutto il terreno di mezzo era a prima vista non favorevole a chi volesse fare un agguato, perché non solo era privo di boschi, ma non era nemmeno coperto da cespugli, anzi di natura adatto a far scoprire gli agguati, tanto più che in una valle nuda nessun inganno poteva temersi. Vi erano anzi nelle pieghe di esso cavità rocciose, tali da poter accogliere ciascuna duecento armati.548 591

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173. Horum uterque loca describit insidiarum gratia aperitque et locorum aptitudinem et ducum consilia et quid uterque imperator designasset animo. Describit Africae situm Crispus, quo scilicet et situs ipse notus esset et qui amici qui ve inimici ex omni provincia. Cum obsidionem etiam castelli descripturus esset, licet ignobilis, tamen natura permuniti, situm ante eius exponit: Haud longe a flumine Mulucca quod Iugurtae Bochique regnum disiungebat, erat inter planiciem mons saxeus, mediocri castello satis patens, in immensum editus, uno perangusto aditu relicto; nam per omnia natura velut opera atque consulto praeceps erat; quem locum Marius, quod ibi regis thesauri erant, summa vi capere intendit.

Urbium quoque origines gentiumque primordia procul repetita, quae sint earum leges, qui mores studiaque, haud exiguam historiae dignitatem afferunt, et propter varietatem ipsam et quod pervetusta atque a memoria nostra longius remota vehementer delectant; ut cum Sallustius Maurorum gentis initia ad Medos refert et Tacitus Iudaeorum nationis antiquitatem commemorat. Quibus referendis magna cura, non minore prudentia opus est, cum eiusmodi pleraque aut incerta sint aut fabulosa. 174. Necubi vero plura quam bellicis in rebus accidunt improvisa, insperata, non ante cogitata praeterque opinionem atque consilium eaque ipsa plena nunc terroris nunc spei, modo gaudii modo tristitiae. Itaque casuum fortuitorumque in his eventuum magna scriptori ratio habenda est; tempestatum quoque, famis, frigoris, aestus, pestilentiae, periculorum in faciendo itinere, in conserendis manibus; item audaciae, metus, temeritatis, suspitionis, insidiarum, falsorum rumorum, quaeque alia inter gerendum atque administrandum bellum sive consilio eveniunt hominum sive casu. Ex his enim perspicitur potissimum qualis fuerit scriptoris diligentia atque perpensio. Attingenda etiam permulta, quae nihil tamen susceptam ad historiam, verum ut extrinsecus allata novitate sua pariunt et admirationem et voluptatem suntque condimentum quasi

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173. L’uno e l’altro descrivono i luoghi in vista degli agguati e chiariscono anche l’opportunità dei luoghi e le intenzioni dei comandanti e quel che l’uno e l’altro generale avesse in animo. Crispo descrive il sito dell’Africa, ovviamente perché fosse noto non solo il sito, ma anche quali fossero gli amici e i nemici provenienti da tutto il territorio. Accingendosi a descrivere anche l’assedio del forte, quantunque poco importante, tuttavia ben protetto dalla natura, esamina prima la sua posizione: Non lontano dal fiume Molucca, che teneva distinti i regni di Bocco e di Giugurta, nel mezzo di una pianura si ergeva una montagna rocciosa, abbastanza visibile per una fortezza pur modesta, dove era stata lasciata una stretta via d’accesso; ché dappertutto per natura era ripida, come se fosse stata fatta di proposito. Mario era intenzionato a conquistare a tutti i costi quel luogo, perché vi era conservato il tesoro regio.549

Non poca dignità apportano alla storia le informazioni sulle origini delle città e sui primordi delle popolazioni sin dall’antichità, su quali siano le loro leggi, i loro costumi e le loro occupazioni, sia per la varietà che queste cose comportano, sia perché le cose molto antiche e piuttosto lontane dalla nostra memoria fanno piacere; come quando Sallustio riferisce le origini della popolazione dei Mauri e Tacito ricorda l’antichità della stirpe giudaica. Nel riferire queste notizie bisogna avere molta cura, e non minore prudenza, perché si tratta di cose per lo più incerte o favolose. 174. Ma in nessun caso fuorché in quello di una guerra ci sono più avvenimenti improvvisi, insperati, sconosciuti e al di fuori dell’immaginazione e della volontà, e oltre tutto pieni sia di terrore, sia di speranza, ora di gioia, ora di tristezza. Perciò lo storico deve tenere gran conto dei casi e degli eventi fortuiti in questa materia; anche delle tempeste, della carestia, del freddo, del caldo cocente, della pestilenza e dei pericoli cui si può andare incontro nel viaggio, nel venire alle mani; così anche dell’audacia, del timore, della temerità, del sospetto, delle imboscate, delle false dicerie e di quelle altre cose che avvengono sia intenzionalmente sia per caso durante la conduzione di una guerra. Da questi indizi infatti si vede più che mai quale sia stata l’attenzione e la riflessione dello storico. Bisogna toccare anche moltissime cose che tuttavia non riguardano l’impresa dello storico, ma, come attinte ad un campo estraneo, producono con la loro novità ammirazione e piacere e sono quasi un condimento e per il 593

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quoddam, atque ut peregrina vehementer afficiunt; ut cum Sallustius iugurtino in bello, quod solum susceperat scribendum, aliunde affert: Per idem tempus adversum Gallos ab ducibus nostris Q. Cepione et M. Manlio male pugnatum, quo metu Italia omnis contremuit. Illique et usque ad nostram memoriam Romani sic habuerunt, alia omnia virtuti suae prona esse, cum Gallis pro salute, non pro gloria certare.

175. Et Livius, cum belli achaici adversus Mesenen particulam sibi referendam assumit. Eius autem verba sunt haec: Cuius belli causam et ordinem si expromere velim, immemor sim propositi, quo statui non ultra attingere externa, nisi qua Romanis cohaererent rebus. Eventus memorabilis est, quod cum bello superiores essent Achaei, Philopomenes, praetor eorum, capitur, ad praeoccupandam Coroneam, quam hostes petebant, in valle iniqua cum equitibus paucis oppressus. Ipsum potuisse effugere Thracum Cretensiumque auxilio tradunt, sed pudor relinquendi equites, nobilissimos gentis ab ipso nuper lectos tenuit. Quibus dum locum ad evadendas angustias cogendo ipse agmen praebet, sustinens impetus hostium, prolapsus equo et suo ipse casu et honere equi super eum ruentis, haud multum abfuit quin exanimaretur, septuaginta annos iam natus et diutino morbo, ex quo tum primum reficiebatur, viribus admodum attenuatus. Iacentem hostes superfusi oppresserunt; cognitum primum verecundia memoriaque meritorum haud secus quam ducem suum attollunt reficiuntque et ex valle devia in viam portant.

Quem quidem locum ita executus est Livius, ut et funus referat et honores pene divinos in eum collatos dicat et annum eum celebrem morte trium clarissimorum ducum Annibalis, Philopomenis, Scipionis. 176. Iam vero cum sit homini data a natura oratio magna cum excellentia animalium coeterorum ipsorumque hominum inter ipsos, sitque

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fatto di essere peregrine hanno un grandissimo effetto; come quando Sallustio nella Guerra di Giugurta, che era stato l’unico ad affrontare, in un altro luogo dice: Nel medesimo tempo si combatté da parte dei nostri comandanti Q. Cepione e M. Manlio contro i Galli con risultato negativo. Da questa guerra fu scossa tutta l’Italia. Dall’ora in poi, fino a nostra memoria i Romani furono della convinzione che tutti gli altri popoli si piegassero al loro valore, mentre con i Galli si misuravano per salvarsi, non per la gloria.550

175. Così anche Livio, quando si prende il compito di raccontare una piccola parte della guerra acaica contro Messene. Sono queste le sue parole: Se volessi esporre la causa e la sequenza di questa guerra, dovrei dimenticare il proposito che mi son posto di non debordare raccontando le vicende straniere, se non per quel tanto che fossero attinenti a quelle romane. Un avvenimento degno di memoria è la cattura di Filopemene, generale degli Achei, quando la guerra volgeva a vantaggio di questi ultimi, schiacciato con pochi cavalieri in una valle accidentata mentre tentava di occupare per primo Coronea, che i nemici cercavano di raggiungere. Raccontano che lui avrebbe potuto fuggire con l’aiuto dei mercenari traci e cretesi, ma lo trattenne la vergogna di lasciare i cavalieri membri della più alta nobiltà, scelti recentemente da lui stesso. E mentre offriva loro l’occasione di sfuggire, fermando lui stesso la schiera, dovette subire l’assalto del nemico, ma il suo cavallo scivolò, e a causa della sua caduta e del peso del cavallo che si riversava su di lui, egli fu sul punto di perdere la vita, a settant’anni che aveva e indebolito da una lunga malattia, dalla quale appena allora si era ripreso. Come cadde a terra, i nemici riversatisi su di lui lo schiacciarono, e poi lo riconoscono, e per rispetto e per il ricordo dei servizi loro resi, lo aiutano a sollevarsi come fosse stato il loro capo riconfortano e dalla valle appartata lo portano sulla strada.551

Livio ha eseguito questa parte in modo da raccontare anche il funerale e da parlare degli onori quasi divini a lui tributati e di quell’anno celebre per la morte di tre famosissimi condottieri, Annibale, Filopemene, Scipione. 176. Ma poiché all’uomo è stata concessa dalla natura la parola con la superiorità sugli altri animali e agli uomini la capacità di superarsi fra 595

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orationis propria vis movere animos et quo velit flectere, nuncque, pro re ac loco, a metu trahat ad fiduciam, a dolore ad laetitiam, ab ocio ac mollicie ad laborem, eademque fugientes retineat, irruentes impellat, dubitantes confirmet, huius esse memor rerum gestarum scriptor cumprimis debet. Itaque quotiens res tulerit, imperatores ipsos inducet nunc confirmantes suos in periculis, nunc excitantes illos ad ea obeunda, alias exhortantes alias obiurgantes, et modo praemia proponentes modo admonentes infamiae, turpitudinis, servitutis, mortis. Videntur enim eiusmodi allocutiones, quae nunc ad multos nunc ad singulos habentur, decorare historiam et quasi animare eam. In quibus, quotiens res ipsa tulerit, nervos orationis atque ingenii sui ostendet rerum scriptor. 177. Nec solum quae dicta fuisse referuntur ab imperatoribus, verum etiam ea afferet quae verisimilia quaeque dicenda tempus, periculum reique ipsius natura postulare videatur; uteturque in increpando acrimonia, in excitando vehementia, in sedando laenitate, in impellendo contentione, in extollendis rebus propriis, adversarii deprimendis, magnitudine ac linguae suae acie, rerum ipsarum qualitates ac ducum maxime personas secutus. Magnificant autem historiam conciones potissimum rectae illae quidem, ubi imperatores ipsi et loqui et agere introducuntur, ut quasi geri res videatur. Adhiberi tamen debent suo et loco et tempore suumque ubique decorum retinendum. Illa vero trita sunt, ante pugnam instruere aciem, indicare animorum habitum, nunc victoriae nunc cladis praesagum; militum vel strenue in acie vel ignaviter facta referre; ducum solertiam, adhortationes, consilia et siquid strenue manu ediderint memorare; hic fortitudinis prudentiaeque, illic fortunae casusque mentionem facere; a quo primum cornu aut fuga coeperit aut victoria declarare; post pugnam ac victoriam caedes, captivorum numerum, vexilla capta, praedam, spolia, direptiones recensere, praemia referre, commendare fortitudinem, accusare ignaviam, miserari humanos casus, varietatem ludumque fortunae mirari, aut deorum vel iras vel favorem, quaeque alia vel eventus natura vel ratio ipsa rerum laudanda aut vituperanda,

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loro, ed è virtù propria della parola muovere gli animi e piegarli dove si vuole, e ora, a seconda delle circostanze egli è capace di trascinare dal timore alla fiducia, dal dolore alla gioia, dalle mollezze dell’ozio alla fatica, e di trattenere chi fugge, di spingere chi si precipita, di dar sicurezza ai dubbiosi, di questo lo storico deve anzitutto ricordarsi. Perciò, tutte le volte che l’occasione lo permetterà, introdurrà gli stessi generali ora a dar sicurezza ai suoi nei pericoli, ora a sollecitarli ad affrontarli, talvolta ad esortarli, talvolta a rimproverarli, ora proponendo premi, ora facendo loro presente il pericolo dell’infamia, della vergogna, della servitù, della morte. Sembra infatti che simili allocuzioni, che si tengono ora in pubblico ora in privato, rendono bella la storia e quasi la animano. In queste cose, tutte le volte che ce ne sarà l’occasione, lo storico dimostrerà la forza della sua oratoria e del suo cervello. 177. E non solo si riportano le parole realmente pronunciate dai generali, ma lo storico addurrà anche quelle verosimili e che la circostanza, il momento pericoloso e la natura stessa della vicenda sembrano richiedere doversi pronunciare: e userà asprezza nella rampogna, veemenza nello spronare, dolcezza nel pacare, tensione nell’incitare, la potenza e l’acume della sua lingua nell’esaltare quel che a lui pertiene, nell’abbassare quel che pertiene all’avversario, tenendo presenti la realtà delle cose e specialmente la figura dei comandanti. Rendono magnifiche la storia, poi, le concioni, specialmente quelle ben fatte, quando gli stessi generali sono introdotti a parlare e ad agire in modo che quasi si veda rappresentata la realtà stessa. Tuttavia deve farsene un uso adatto al luogo e al tempo, e comunque va conservato il decoro. Sono invece troppo note istruzioni come quella di schierare l’esercito prima della battaglia, denotare lo stato d’animo, ora presago della vittoria, ora della sconfitta; riferire le azioni compiute dai soldati nella battaglia, o valorose o vili; ricordare la solerzia dei comandanti, le esortazioni, i consigli e se hanno compiuto qualche prodezza; e qui far menzione del coraggio e della prudenza, lì della fortuna e del caso; far sapere da quale ala sia cominciata la fuga o la vittoria; dopo la battaglia e la vittoria, far la ricognizione delle stragi, del numero dei prigionieri, dei vessilli conquistati, del bottino, delle spoglie, delle rapine, elogiare il coraggio, incolpare l’ignavia, commiserare i casi umani, meravigliarsi della varietà e del gioco della fortuna, dell’ira o del favore divino, e quelle altre cose che, o la natura dell’evento, o la considerazione stessa dei fatti insegneranno 597

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iucunde aut aegre accipienda, miseranda aut accusanda docuerit, per ea evagari. 178. Audite, quaeso, Sallustium post Catilinae male decertatam pugnam: […] strenuissimus quisque aut occiderat in proelio aut graviter vulneratus discesserat. Multi autem, qui e castris visendi aut spoliandi gratia processerant, volventes hostilia cadavera, amicum alii, pars hospitem atque cognatum reperiebant; fuere item qui inimicos suos cognoscerent. Ita varie per omnem exercitum laetitia, maeror, luctus atque gaudia agitabantur.

Et post Metelli proelium cum Iugurta: Igitur pro metu repente gaudium exortum; milites alius alium appellant, acta edocent atque audiunt, sua quisque fortiter facta ad coelum fert. Quippe res humanae iter se habent: in victoria vel ignavis gloriari licet, adversae res etiam bonos detractant. Metellus in iisdem castris quatriduo moratus saucios cura reficit, meritos praemiis more militiae donat, universos in concione laudat atque agit gratias, hortatur ad coetera quae levia sunt parem animum uti gerant; pro victoria satis pugnatum, reliquos labores fore praedae.

Nec pigeat referre quae a Livio dicuntur post stragem ad Thrasimenum ab Annibale editam: Haec est illa nobilis ad Thrasimenum pugna atque inter paucas memorata populi Romani clades; quindecim millia Romanorum in acie caesa sunt, decem millia sparsa fuga per omnem Etruriam diversis itineribus urbem petiere, mille quingenti hostium in acie, multi postea utrinque ex vulneribus periere.

Et post pugnam ad Trebiam factam primo quid Annibal fecerit refert:

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AZIO, II

a dover lodare o denigrare, prendere con gioia o con tristezza, commiserare o riprovare, a divagarvi su. 178. Udite, vi prego, quel che dice Sallustio dopo la battaglia combattuta con esito negativo da Catilina: […] tutti i più coraggiosi o erano caduti in battaglia o si erano ritirati gravemente feriti. E molti, che erano usciti dal campo per vedere o per depredare, rivoltando i cadaveri dei nemici scoprivano chi un amico, chi un conoscente forestiero o un parente; vi furono anche alcuni che riconobbero nemici personali. Così variamente in tutto l’esercito si agitavano il rallegramento, il rammarico, il pianto e la gioia.552

E dopo il combattimento di Metello con Giugurta: E dunque improvvisamente il timore si muta in gioia; i soldati si chiamano felici l’un l’altro, raccontano e ascoltano quel che hanno fatto, ciascuno porta alle stelle le prodezze sue. Perché così va il mondo: nella vittoria perfino agli inetti è lecito gloriarsi, mentre le sventure fanno svilire anche i valorosi. Metello, fermatosi quattro giorni nel medesimo accampamento, fa curare i feriti, premia i meritevoli secondo la consuetudine militare, loda e ringrazia in una sua concione tutti quanti, li esorta a conservare pari coraggio nell’affrontare le altre più lievi imprese; si era combattuto abbastanza, le altre fatiche sarebbero valse per far bottino.553

E mi piace riferire le parole di Livio dopo la strage fatta da Annibale sul Trasimeno: È questa la famosa battaglia del Trasimeno, una delle più memorabili sconfitte del popolo romano; quindici mila romani caddero uccisi in campo, dieci mila, dispersi per tutta l’Etruria, cercarono con la fuga per vie diverse di raggiungere la città; mille e cinquecento nemici caddero in battaglia, molti perirono dopo in seguito alle ferite.554

E dopo la battaglia sulla Trebbia Livio prima riferisce quel che fece Annibale:

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ACTIUS, II

Finis insequendi hostis Poenis flumen Trebia fuit; ita torpentes gelu in castra rediere, ut vix laetitiam victoria senserint.

Deinde transit ad ea quae Romae agitabantur post cladis nuntium: Romam tantus terror ex hac clade perlatus est, ut iam ad urbem crederent infestis signis hostem venturum, nec quicquam spei aut auxilii esse qua portis moenibusque vim arcerent; uno consule ad Ticinum victo, altero e Sicilia revocato, duobus consulibus, duobus consularibus exercitibus victis, quos alios duces, quas alias legiones esse quae arcesserentur?

179. Quanta vero hac in parte scriptores varietate sint usi, magis ut appareat, subdam tertium quoque e Livio locum. Post superatum enim beneventanorum in campis a Sempronio Gracco Annonem poenum, postque donatos libertate volones donisque militaribus veteranos atque ignominiae nota quos par erat affectos, signum deinde Gracchus colligendi vasa dedit. Milites praedam portantes agentesque per lasciviam ac iocum ita ludibundi Beneventum rediere, ut ab epulis celebrem festumque diem actis, non ex acie reverti viderentur. Beneventani omnes turba effusa, cum obviam ad portas exissent, conspectis militibus gratulari, vocare in hospitium. Apparata convivia omnibus in propatulo aedium fuerant; ad ea invitabant, Graccum orabant epulari permitteret militibus. Et Graccus ita permisit, in publico epularentur omnes; ante suas cuiusque fores prolata omnia. Pileatis aut lana alba velatis capitibus volones epulati sunt, alii accubantes, alii stantes, qui simul ministrabant vescebantur.

180. Placuit locos hos duorum ex eloquentissimorum scriptorum historiis referre, ut intelligeretis qua varietate sint usi rerum explicatores post eiusmodi strages enarratas, quae varietas perlectis etiam proeliis aliis longe maior apparebit. Eadem habenda est ratio in obsidionibus ex-

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AZIO, II

Il fiume Trebbia pose fine all’inseguimento dei nemici da parte dei Cartaginesi, che tornarono nel loro accampamento tanto intorpiditi dal gelo, da provare appena la gioia della vittoria.555

Poi passa a dire quello che si faceva a Roma dopo l’annuncio della sconfitta: Fu tanto il terrore pervenuto a Roma in seguito a questa sconfitta, che già si credeva che il nemico marciasse verso Roma con le sue insegne minacciose; né avevano qualche speranza o qualche sostegno per contenere l’assalto dalle porte e dalle mura: vinto un console al Ticino, fatto tornare l’altro dalla Sicilia, sconfitti gli eserciti guidati dai consoli, quali altri comandanti, quali altre legioni potevano essere chiamate in difesa?556

179. Perché sia più evidente in quale misura gli scrittori su questo versante abbiano usato la varietà, vi sottoporrò un terzo passo di Livio. Dopo la sconfitta subìta dal cartaginese Annone nel territorio di Benevento da parte di Sempronio Gracco, e dopo che fu concessa la libertà ai volontari e furono dati i doni di guerra ai veterani e ai marchiati d’ignominia, com’era giusto, Gracco diede quindi il segnale di radunare i bagagli. I soldati, trasportando le prede, tornarono a Benevento così pieni di allegria fra i piaceri e i divertimenti, che pareva fossero di ritorno da banchetti tenuti per celebrare una festa. I Beneventani tutti, usciti incontro in gran folla alle porte, abbracciavano i soldati, si congratulavano con loro, li ospitavano in casa. Erano stati preparati banchetti per tutti negli atrii delle case; li invitavano a partecipare, e pregavano Gracco di permettere ai soldati di banchettare. E Gracco diede questo permesso, che banchettassero tutti all’aperto. Tutto fu portato davanti alla casa di ciascuno. I volontari banchettarono con in capo un berretto o una fascia di lana bianca, alcuni accomodati, altri in piedi, che allo stesso tempo che servivano mangiavano.557

180. Ho voluto riferire questi passi di due eloquentissimi storici, per farvi intendere come abbiano usato la varietà i narratori dopo aver raccontato le stragi, una varietà che apparirà di gran lunga maggiore dopo aver letto anche il racconto degli altri combattimenti. Bisogna usare lo 601

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ACTIUS, II

pugnatiouibusque. Oportet enim aperire prius naturam et loci et civium, genus obsidionis ac machinarum; quid intra urbem paretur, quid geratur in castris edocere; dolos, artes, insidias, diurnos nocturnosque labores, ruinas, instaurationes referre, quaeque permulta et obsidentibus et obsessis aut virtus contulit, aut fortuna ipsa diligentia ve, aut negligentia partis alterius repente optulit obiecitque, vel abstulit eripuitque consulto. Livius cum Thaumatorum situm describeret, quam urbem Philippus obsidebat rex, dum nomen ipsum interpretare vult, locum illum historiae mirifice illustravit, inquiens: […] ubi ventum ad hanc urbem est, repente velut maris vasti, sic immensa panditur planities, ut subiectos campos terminare oculis haud facile queas; ab eo miraculo Thaumati appellati, nec altitudine solum tuta urbs, sed quod saxo undique abscisso rupibus imposita est.

Audiamus, quaeso, et Sallustium, fortuitam rem quanta cum dignitate sit executus: At Marius, multis diebus et laboribus consumptis, anxius trahere animo omitteret ne inceptum, quoniam frustra erat, an fortunam opperiretur, qua saepe prospera usus fuerat. Quae tum, multos dies noctesque aestuans agitaret, forte quidam Ligus, e cohortibus auxiliariis miles gregarius, castris aquatum egressus, haud procul ab latere castelli, quod aversum proeliantibus erat, animadvertit inter saxa reptantes cocleas; quarum cum unam atque alteram, dein plures peteret, studio legendi paulatim prope ad summum montis egressus est. Ubi postquam solitudinem intellexit, more ingenii humani cupido difficilia faciendi animum vertit ut forte eo in loco grandis ilex coaluerat inter saxa, paulum modo prona, deinde flexa atque aucta in altitudinem quo cuncta gignentium natura fert, cuius ramis modo, modo eminentibus saxis nixus Ligus castelli planitiem describit, quod cuncti Numidae intenti proeliantibus aderant. Exploratis omnibus, quae mox usui fore ducebat, eadem regreditur, non temere uti ascenderat, sed

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stesso metodo nel caso degli assedi e delle espugnazioni. È importante infatti prima far conoscere la natura del luogo e dei cittadini, il tipo di assedio e di macchinario usato, far sapere quali siano i preparativi dentro la città: esporre gli inganni, le arti, le insidie, i lavori compiuti di giorno e di notte, le rovine, le riparazioni, e i moltissimi aiuti dati agli assedianti e degli assediati ad opera della virtù o perfi no dalla fortuna o dalla diligenza, oppure i vantaggi offerti e regalati improvvisamente dalla negligenza della parte avversa, o portati via e sottratti di proposito. Livio, nel descrivere il sito dei Taumaci, la cui città era assediata dal re Filippo, volendo interpretare i nome, mirabilmente rese celebre quel passo della sua storia: quando si giunse in questa città, d’un tratto come di un vasto mare gli si apre davanti tutta una distesa tale che non potresti facilmente raggiungere con la vista la fine dei campi sottostanti: da questa meraviglia deriva ai Taumaci il nome, né la città era protetta solo dall’altezza, ma perché è situata su una roccia con dirupi da ogni parte.558

Ascoltiamo, vi prego, anche Sallustio, con quanta dignità eseguì la narrazione di un caso fortuito: Mario però, consumati che ebbe molti giorni e fatiche, si chiedeva con ansia fra sé: abbandonare l’impresa, dato che era vana, o attendere l’ausilio della fortuna, di cui spesso si era servito con buoni risultati? Mentre per molti giorni e molte notti era agitato da questi pensieri, un ligure, soldato semplice delle forze ausiliarie, uscito dall’accampamento in cerca di acqua, si accorse, non lontano dal lato della fortezza che stava di fronte ai combattenti, che strisciavano fra i sassi delle lumache. Cercandone una e un’altra, e più ancora, per il desiderio di raccoglierle, a poco a poco arrivò su in cima al monte. Quando si accorse del deserto che c’era, seguendo l’istinto umano si fece prendere dal desiderio di compiere ardue imprese. C’era per caso in quel luogo un grande leccio, che era cresciuto fra i sassi, ora un po’ piegato verso il basso, poi spintosi e cresciuto in altezza, secondo la natura delle piante. Il ligure, ora aggrappandosi ai rami, ora ai sassi sporgenti, attraversa il piano superiore della fortezza, poiché i Numidi tutti erano alle prese con i combattenti. Esplorato tutto ciò che riteneva potesse esser utile in seguito, ritorna da dove era salito, non a casaccio, ma rendendosi conto 603

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tentans omnia et circumspiciens. Itaque Marium propere adit; acta edocet, hortatur …

et quae sequuntur. 181. Videtis quae sit loci huius explicatio quantaque cura tenuitate ac verborum gratia. Non exornavit modo orationem, verum etiam magnificavit res ipsas Livius, cum quasi repente oblatam causam ab ipso libri illius initio exorsus est, his quidam verbis atque his etiam verborum numeris: Inter bellorum magnorum, aut vixdum finitorum aut imminentium curas intercessit res parva dictu, sed quae studiis in magnum certamen excesserit. M. Fundanius et L. Valerius tr. pl. ad plebem tulerunt de Oppia lege abroganda. Tulerant eam M. Oppius et T. Romulius, tr. pl., Q. Fabio T. Sempronio consulibus, in medio ardore Punici belli: nequa mulier plus semunciam auri haberet, neu vestimento versicolori uteretur, neu iuncto vehiculo in urbe oppido ve, aut propius inde mille passus, nisi sacrorum publicorum causa veheretur. M. et T. Iunius tr. pl. legent Oppiam tuebantur, nec eam se abrogari passuros aiebant. Ad suadendum dissuadendumque multi nobiles prodibant; Capitolium turba hominum faventium adversantiumque legi complebatur. Matronae nulla nec auctoritate nec verecundia nec imperio virorum contineri limine poterant, omnis vias urbis aditusque in forum obsidebant, viros descendentes ad forum orantes ut florente re publica, crescente in dies privata omnium fortuna, matronis quoque pristinum ornatum reddi paterentur. Augebatur haec frequentia mulierum in dies; nam etiam ex oppidis conciliabulisque convenerant. Iam et consules praetoresque et alios magistratus adire et rogare audebant.

182. Tam multa autem animadvertenda sunt ab histoticis, ut non reliquerit inexpressum Livius inenarratumque Numidarum equitum equorumque habitum ac foedam speciem:

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AZIO, II

di ogni cosa guardandosi attorno. Perciò va in fretta da Mario; gli racconta ciò che ha fatto, lo esorta…559

E quel che segue. 181. Vedete qual è la rappresentazione in questo luogo, e con quanta cura e garbo lessicale è stata eseguita. Livio non ha soltanto ornato il discorso, ma ha anche ampliato la realtà, quando quasi immediatamente ha esordito all’inizio di quello stesso libro parlando dell’occasione offertasi con questo lessico e anche con questo ritmo verbale: Tra le preoccupazioni causate da grandi guerre o appena terminate o sul punto d’iniziare si inserì una questione di scarsa importanza a dirla, ma che per l’accendersi delle passioni doveva condurre ad una lotta accanita. Marco Fundanio e Lucio Valerio, tribuni della plebe, proposero al popolo di abrogare la legge Oppia. L’avevano proposta il tribuno della plebe Caio Oppio e T. Romulio sotto il consolato di Quinto Fabio e di Tiberio Sempronio, quando divampava la guerra punica: in base ad essa nessuna donna doveva possedere più di un mezza oncia d’oro né indossare vestiti dai colori sgargianti, né andare in giro in carrozze a pariglie a Roma o in altra città o in un raggio di mille passi da esse se non in occasione di pubbliche cerimonie religiose. M. e T. Iunius, tribuni della plebe, difendevano la legge Oppia e affermavano che non ne avrebbero permessa l’abrogazione; molti noti personaggi si facevano avanti sostenendo e combattendo la proposta. Il Campidoglio si riempiva di una folla di uomini favorevoli o contrari alla legge. Le donne, da nessun senso di pudore, da nessuna autorità, da nessun ordine dei mariti potevano essere trattenute in casa, occupavano tutte le strade e le vie di accesso al foro chiedendo agli uomini che si recavano al foro di permettere che, essendo lo Stato fiorente, crescendo di giorno in giorno per tutti il privato benessere, anche alle donne venisse concesso di abbigliarsi nel modo consueto. Questo affollarsi di donne cresceva di giorno in giorno: difatti erano convenute anche dalle città e dalle adunanze. Ormai osavano andare dai consoli, dai pretori e dagli altri magistrati e far le loro richieste.560

182. Tante sono le cose che gli storici devono tener presenti, che Livio non ha lasciato inespresso o non narrato il comportamento dei cavalieri e dei cavalli dei Numidi e il loro brutto aspetto: 605

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At Numidae equos conscendunt et obequitare stationibus, neminem lacessentes, coeperunt. Nihil primo aspectu contemptius: equi hominesque paululi et graciles, discinctus et inermis eques, praeterquam quod iacula secum portat, equi sine frenis, deformes. Ipse cursus rigida cervice et extento capite currentium; hunc contemptum de industria augentes labi ex equis ac per ludibrium spectaculo esse.

Nec Sallustius non et ipse faciem quoque ac nidorem Tulliani carceris explicuit: […] circiter quatuordecim pedes humi depressus; eum muniunt undique parietes atque insuper camera lapideis fornicibus vincta, sed incultu, tenebris, foeda odore atque terribilis facies eius.

Hos locos ab eminentissimis viris sumptos afferre placuit, non ut auctoritatem ab iis dictis comparemus nostris, verum ut praeceptorum locum apud vos quique haec e vobis audierint optineant utque diligentiores etiam multo quam estis efficiamini explorandis locis aliis iisque considerandis, quibus tum Livius Sallustiusque praecipue tum alii rerum scriptores historias suas et locupletarunt abunde et insigniter etiam decorarunt. 183. Iam vero post expugnationes direptio et caedes ipsa campum praebet quam latissimum edisserendi quae libido, ira, superbia, crudelitas, dolor, avaritia suadet victoribus quaeque perpetienda victis atque expugnatis. Quae quidem ipsa clariora sunt quam ut exemplis sint illustranda. Hi tamen loci praecipue et scriptoris ingenium quantum valeat ad movendos indicant animos et quae sit in eo augendi atque magnificandi virtus ac dicendi copia. 184. Illud vero rerum scriptori servandum maxima atque in tota rerum serie, ut pro locis, rebus, occasionibus, iudicis ipse personam induat, ut laudet, condemnet, admiretur, deprimat, misereatur; nunc rideat humanos casus, nunc deploret, demum meminerit demonstrativo in dicendi genere se versari, ac tum laudandi tum vituperandi honus a se esse susceptum. Sallustius in explicandis Catilinae perversis consiliis atque coniurationis apparatibus quasi dolore victus prorupit in haec verba:

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Ma i Numidi balzarono a cavallo e cominciarono a cavalcare davanti alle postazioni nemiche, senza attaccarne alcuna. A prima vista non c’era nulla di più spregevole: uomini e cavalli gracili e in numero esiguo, cavalieri senza cinturone e inermi, tranne il fatto che portavano con sé i giavellotti, cavalli senza briglie, deformi. I corridori, poi, col collo rigido e la testa protesa; aumentando a bella posta il disprezzo, scivolavano dal cavallo e davano spettacolo con la beffa.561

Non mancò Sallustio di descrivere anche l’aspetto e il cattivo odore del carcere di Tullio: […] di circa quattordici piedi sotto terra, rinforzato da ogni parte di pareti e coperto al di sopra da una volta sostenuta da archi di pietra, ma il suo aspetto era squallido e tetro per l’abbandono, le tenebre e il cattivo odore.562

Ho voluto mostrare questi argomenti affrontati da illustrissimi uomini non per dare alle nostre parole un sostegno autorevole, ma perché coloro che udiranno da voi queste cose le ricevano come precetti e voi diveniate molto più diligenti di quel che siete esaminando e considerando altri modelli, con i quali sia Livio e Sallustio, sia altri scrittori hanno arricchito con dovizia le loro storie e le hanno anche impreziosite. 183. Ma, dopo le espugnazioni, il saccheggio e la stessa strage offrono un campo il più largo possibile all’esposizione di quale sfrenatezza, ira, arroganza, crudeltà, dolore, avarizia spingano i vincitori, e quali soprusi siano indotti i vinti a sopportare dopo l’espugnazione. Sono cose troppo chiare perché valga la pena di illustrarle. Tuttavia questi argomenti specialmente indicano quanto sia capace l’ingegno dello scrittore a commuovere gli animi e quali siano in lui l’arte dell’amplificazione e l’eloquenza. 184. La raccomandazione più importante che lo scrittore deve osservare in tutta la serie dei fatti storici, è quella di assumere le vesti del giudice a seconda dei luoghi, degli eventi, delle occasioni, in modo da lodare, condannare, ammirare, svilire, commiserare; ora rida dei casi umani, ora li deplori, ora si ricordi che sta trattando il genere epidittico, e che ha assunto il compito sia di elogiare sia di denigrare. Sallustio nel riferire le perverse intenzioni di Catilina e i preparativi della congiura, quasi vinto dal dolore proruppe in queste parole: 607

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Ea tempestate mihi imperium populi Romani multo maxime miserabile visum est, cui cum ad occasum ab ortu solis omnia domita armis parerent, domi ocium, atcque divitiae, quae prima mortales putant, affluerent, fuere tamen cives qui seque et rem publicam obstinatis animis perditum irent. Nanque duobus senatus decretis ex tanta multitudine neque praemio inductus coniurationem patefecerat neque ex castris Catilinae quisquam omnium discesserat: tanta vis morbi uti tabes plerosque civiun animos invaserat.

Et post captum a Mario oppidum, de quo paulo est ante sermo habitus, sententiam quasi iudicialem protulit: Sic forte correcta Marii temeritas gloriam ex virtute invenit.

Et Livius in explicando ad Capuam militum Annihalis langore ac desidia: Maius – inquit – id peccatum ducis apud peritos artium militarium haberetur quam quod non ex Cannensi acie protinus ad urbem Romam duxisset exercitum. Illa enim cunctatio distulisse modo victoriam videri potuit, hic error vires ademisse ad vincendum.

Item post eruptionem ad Nolam a Marcello factam: […] ingens eo die res ac nescio an maxima illo bello gesta sit. Non vinci enim ab Annibale difficilius fuit quam postea vincere.

Et alibi: Eludant nunc antiqua mirantes. Non equidem, siqua sit sapientium civitas, quam docti fingunt magis quam norunt, graviorem temperatioremque a cupidine imperii aut multitudinem melius moratam censeam fieri posse.

185. Eiusmodi autem exempla affatim multa extant, quae sequenda sunt rerum gestarum scriptori sua cum maxima laude et historiae dignitate. His itaque servandis non laudatorem modo se nobilium nunc

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AZIO, II

A quel tempo mi parve oltre modo miserabile la condizione dell’impero romano, ché sebbene da oriente a occidente tutto il mondo domato dalle sue armi gli obbedisse, e al suo interno prosperassero quiete e ricchezze, che gli uomini considerano il bene supremo, vi furono tuttavia cittadini che mandavano in rovina sé e lo stato con ostinazione.563

E dopo la presa delle città da parte di Mario, di cui poco prima si è fatta menzione, espresse un pensiero che può essere quello di un giudice: Così la temerarietà di Mario, indirizzata dalla fortuna, fece scaturire la gloria dalla virtù.564

E Livio nell’esporre il rilassamento e la neghittosità dei soldati di Annibale presso Capua scrisse: E più grave – disse – sarebbe considerato questo errore del condottiero da parte degli esperti di arte militare, di quello commesso per non aver marciato subito su Roma dopo la battaglia di Canne. Infatti quel temporeggiamento poté sembrare soltanto aver differito la vittoria, mentre questo gli aveva tolto la forza di ottenere la vittoria.565

Lo stesso dopo l’irruzione fatta da Marcello a Nola: […] una straordinaria azione fu compiuta quel giorno, e non saprei se la più grande in quella guerra; infatti non esser vinti da Annibale fu più difficile che in seguito vincerlo.566

E altrove: Si deridano ora gli ammiratori dell’antichità! Io non riterrei proprio che, se esistesse quella città di sapienti che i dotti, più che conoscerla, immaginano, potrebbe esserci una popolazione o più seria e moderata riguardo alla brama di potere, o più educata.567

185. Ne esistono in abbondanza esempi come questi, che lo storico deve seguire col risultato di ottenere grandissima lode e di dar grandissima dignità alla storia. Pertanto, osservando questi precetti non solo si 609

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ACTIUS, II

facinorum praeclarissimarumque actionum nunc reprehensorem turpium abiectorumque ostendet egregius rerum gestarum expositor, verum etiam virtutis ipsius patronum admonitoremque sapientiae praeseferet et quasi magistrum, quando historia ipsa vitae est hominum ac rerum humanarum magistra. Idem Livius de Annibale Italia excedente sic loquitur: Raro quenquam hominem patriam exilii causa relinquentem tam moestum abiisse ferunt quam Annibalem hostium terra excedentem. Respexisse saepe Italiae litora et deos hominesque accusantem, se quoque ac suum ipsius caput execratum, quod non cruentum ab Cannensi victoria militem Romam duxisset; Scipionem ire ad Cartaginem ausum, qui consul hostem poenum in Italia non vidisset; se centum millibus armatorum and Trasimmenum aut Cannas caesis, circa Casilinum Cumasque et Nolam consenuisse. Haec accusans querensque ex diutina possessione Italiae est detractus.

Hic igitur praecipue locus admonere rerum scriptores potest, qua animi pensione uti debeant quodque adhibere iudicium ac curam, non in enarrandis modo rebus ipsis quae gestae sint, sed illis etiam innuendis effingendisque quae concipi cogitatione et colligi coniectura possunt, pro rebus, negociis, temporibus, personis. Quae singula velle complecti, nec consessus est huius et videtur esse satis admonuisse, cum praesertim sit ostensum historiam poeticae maxime esse similem, ipsa vero poetica naturam potissimum imitetur. 186. Diximus hactenus de rebus, quibus disserendis fuimus fortasse longiores, reliquum est de verbis ut dicamus, cum iis e duobus historia, ut dictum est, constet. Illud igitur videndum est primum, ut ea sint propria, accommodata, delecta, usitata bonis ab auctoribus, pro loco ac re sumpta, quanquam interdum, pro rei magnitudine, a poetis quoque mutuanda ea sunt, quod frequentissime omnium servavit Livius, et Cicero ait poetam oratori esse finitimum. Deinde ut ea bene sint opportuneque collocata ipsaque ut collocatio sit artificiosa, varia, multiplex, numerosa

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mostrerà ora elogiatore di nobili fatti e di egregie azioni, ora denigratore di quelle turpi ed abiette il narratore di gesta, ma si presenterà anche come protettore e quasi maestro di virtù, giacché la stessa storia è maestra della vita e delle azioni umane. Ancora Livio così si esprime quando racconta di Annibale che lascia l’Italia: Raramente qualcuno, costretto a lasciare la patria per andare in esilio, apparve mai allontanarsi con tanta tristezza, quanta quella con cui si racconta che se ne andasse Annibale lasciando la terra nemica; si voltò spesso indietro a guardare i liti d’Italia e accusava gli dei e gli uomini, maledicendo sé stesso e la sua stessa persona per non aver guidato subito a Roma i suoi soldati ancora grondanti di sangue romano dopo la vittoria di Canne; Scipione aveva osato andare a Cartagine, lui che da console non si era mai scontrato col nemico cartaginese; lui stesso, dopo aver massacrato centomila armati al Trasimeno o a Canne, era rimasto invece ad invecchiare nelle vicinanze di Casilino, di Cuma e di Nola. Muovendo queste accuse e lamentandosi desistette da un’ulteriore occupazione dell’Italia.568

Questo argomento specialmente può far considerare agli storici quanta riflessione debbano fare e quale giudizio e attenzione debbano adoperare non solo nel narrare le imprese fatte, ma anche nel tratteggiare e rappresentare quelle che possono concepirsi con la mente e acquisire con l’immaginazione, in ragione dei fatti, delle operazioni, delle circostanze e delle persone. Voler considerare tutte queste cose, non è adatto a questa riunione e sembra che basti ricordarle, specialmente perché si è già dimostrato come la storia sia oltremodo simile alla poesia, ma come la stessa poesia imiti più che mai la natura. 186. Abbiamo detto finora dei contenuti, parlando dei quali forse siamo stati troppo lunghi; rimane ora da parlare della forma, poiché di questi due punti consta la storiografia. Prima dunque bisogna guardare che le parole siano appropriate, adatte, scelte, usate da buoni autori, prese in base all’occasione e al referente reale, sebbene talora, a seconda della grandezza dell’argomento, anche dai poeti debbano essere mutuate, cosa che Livio ha osservata più frequentemente di tutti, e Cicerone dice che il poeta è proprio al confine con l’oratore. Poi bisogna guardare che esse siano bene e convenientemente disposte e che la stessa disposizione sia fatta con arte, varia, molteplice, ritmica, e tenga conto non solo di una 611

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habeatque rationem non aequabilis solum sibique consentientis texturae, verum etiam decursus ac soni, qua quidem de re aures sunt potissimum consulendae. Ad haec summa ea cura expolienda exornandaque, ut nec forma ornatu careat extrinseco, nec ornatus appareat aut negligenter adhibitus aut alienus a forma, retineatque tum venustatem dignitatemque pro re ac loco, tum etiam gravitatem ac supercilium. 187. Quarum rerum omnium Cicero optimum se nobis magistrum exhibebit. Usu venit autem in componenda historia quod in aedificandis tum domibus tum navibus, multas subinde fieri rerum commissuras et quasi membrorum inter se coniunctiones, quas prudentia ordinisque solers ac circumspecta ratio moderetur oportet quaeque et ipsa locorum quoque ac temporum rationem habeat, ut post narratas explicate diligenterque res alias transgrediatur ad alias; indeque postquam parti huic satisfecerit, ad continuandam regrediatur priorem materiam; rursus, ea quantum satis erit explanata, reditum ad alteram illam faciat, aut, si rei ratio tulerit, ad aliam moxque ad aliam; ut cum Livius post descensum ex Alpibus Annibalis postque proelium cum Scipione factum proditumque Clastidium subiungit rem navalem, inquiens: […] interim circa Siciliam insulasque Italiae imminentes […] viginti quinqueremes cum mille armatis ad depopulandam oram Italiae a Carthaginensibus missae, novem Liparas, octo insulam Vulcani tenuerunt, tres in fretum avertit aestus maris.

Deinde revertitur ad res ab Annibale gestas postque placentinam pugnam transit in Hispaniam: «Dum haec in Italia geruntur, Cn. Scipio in Hispaniam cum classe missus». Hae igitur, sive commissurae sive diversarum in historia rerum inter se connexiones, eiusmodi esse debent ut partes, quae hinc atque illinc explicandae subiunguntur, sint per se integrae, clarae, minime perplexae atque ab ipso quam primum initio appareant esse aliae; quod praestabunt verba primo loco et ipsis quasi in foribus posita, qualia sunt «interim» et «dum haec geruntur» et «per id tempus» quaeque et Sallustius et Livius et coeteri omnes usurpant. 188. Itaque committendis atque subnectendis his primum omnium id videndum, uti diversitas materiae confestim elucescat intelligaturque

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orditura uniforme e coerente, ma anche di un flusso sonoro, perché su questa qualità soprattutto le orecchie devono essere consultate. Inoltre con estrema cura esse vanno scelte pure e belle, in modo che l’ornamento sembri adoperato con negligenza o privo di forma, e serbi sia la grazia e la dignità, sia la gravità e la serietà richieste dalla circostanza e dal soggetto. 187. Di tutte queste precauzioni Cicerone si offrirà a noi come il maestro migliore. Succede poi nel comporre la storia quello che succede nell’edificare le case e le navi, che si fanno molte connessioni e quasi congiunzioni reciproche di membri, che è necessario intervengano a dominarle la prudenza e la solerte e circospetta ragione ordinatrice, a patto che essa tenga conto dei luoghi e dei tempi, in modo che, una volta narrate le cose con chiarezza e diligenza, alcune si trasferiscano altrove; quindi, dopo che si sia messa a punto questa parte, si ritorni a dar seguito alla materia precedente; e di nuovo, quando essa è stata un po’ spiegata, si faccia ritorno all’altra, se lo permetterà la giusta considerazione dei fatti, si ritorni all’altra e poi all’altra accora; come quando Livio, dopo la discesa dalle Alpi di Annibale, e dopo enunciata la battaglia fatta con Scipione, inserisce un avvenimento navale, dicendo: […] frattanto intorno alla Sicilia e alle isole vicine all’Italia […] furono inviate dai Cartaginesi venti quinqueremi con mille armati a devastare lea costa italiana; nove occuparono le Lipari, otto l’isola di Vulcano, tre ne fece deviare verso lo stretto dal mare agitato.569

Ritorna quindi alle gesta di Annibale e dopo la battaglia di Piacenza passa in Spagna: «Mentre in Italia avviene questo, Cneo Scipione fu inviato in Spagna con la flotta».570 Dunque queste, sia che le chiamiamo mescolanze di notizie diverse nella storia, sia che le chiamiamo connessioni, devono essere tali che le parti congiunte per essere svolte di qui e di lì siano di per sé intere, chiare, per nulla complicate e appaiano subito esser diverse, dal primo momento; lo mostreranno le espressioni collocate in prima posizione e quasi alle porte, quali sono «frattanto», e «durante queste azioni» e «in quel tempo» e altre espressioni usate da Sallustio e da Livio e da tutti gli altri. 188. Pertanto nell’operare queste mescolanze e connessioni bisogna vedere di far in modo che la diversità della materia traspaia subito e si 613

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quasi membrum quoddam corporis ab alio membro diversum ac nihilominus, ut membra nostri corporis nervis complicantur, sic partes hae verbis quam maxime aptis nervorumque praestantibus officium apte inter se prudenterque iungantur. Quo circa ad ingenium atque a natura tributa dicendi dona adiungenda est lectio optimi cuiusque ex Graecorum ac Latinorum auctoribus; quaeque in illis cernuntur apparentque eminentissima, ad ea tanquam ad metam dirigenda est omnis scriptorum opera et cura, ut similes, ut pares, si superare illos minus valuerint, aut imitatores saltem boni ut evadant, laudemque, si non primi aut secundi loci, aliquam quoque et ipsi certam propriamque ac studiis suis dignam consequantur. 189. Ac mihi quidem res gestas momoriae qui mandant officioque funguntur tradendi ad posteros res praeteritas non minore fortasse laude digni videantur quam qui leges tradidere vivendi. Illi enim praecepta, exempla hi nobis tradidere; quippe cum proprium eorum officium ac munus sit sustentare ingenio suo vitae nostrae imbecillitatem atque mortalitati ire obviam, ne, quantum in ipsis est, dicta factaque memoratu digna resque praeclare atque excellenter gestas tempus obscuret ne ve eae omnino e memoria excidant; quaeque imitatione atque cognitione digna sunt, aevo ea ne intercidant, quibus mortale genus ad virtutem excitetur et gloriam; ut qui legunt, qui de iis loquuntur intelligant omnes quo ore quoque animo laudentur honesta, vituperentur turpia et improba; ut fortunam, ut varietatem inconstantiamque rerum humanarum animadvertentes discant in adversis esse patientes ac firmi, in prosperis continentes et laenes, in deiectionibus ac ruinis fortes robustique ac spirante fortuna mansueti, faciles, placidi, in opulentia liberales ac benefici, in inopia sorte sua si non contenti, saltem non abiecti, non squalidi; ut nihil quod accidat homini novum existiment, nihil repentinum mirentur, nihil non aliquando reantur aut posse accidere aut putent non quandoque etiam accidisse. 190. Macti igitur diuturnitate estote ac laude, rerum scriptures, quorum opera et studio effectum est ut sciamus qui primi Deum cognoverint intelligamusque quibus eum sacrificiis, votis suppliciisque veneremur,

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capisca che si tratta di un membro del corpo diverso dall’altro membro e che nondimeno, come le membra del nostro corpo si collegano mediante i nervi, così queste parti si congiungono fra loro con convenienza e prudenza mediante parole quanto mai convenienti e capaci di avere la funzione dei nervi. Perciò all’ingegno e alle doti di eloquenza fornite dalla natura va aggiunta la lettura di tutti i migliori autori greci e latini; e a ciò che in essi appare di eccellente vanno rivolte l’opera e la cura tutta degli scrittori come ad una meta, per riuscire simili, per riuscire uguali se non si è capaci di superarli, o almeno buoni imitatori, e per conseguire anche loro, se non la lode del primo o del secondo posto, una qualche lode sicura e degna dei loro sforzi. 189. E a me certamente coloro che affidano alla memoria le gesta e assolvono il compito di tramandare ai posteri le azioni del passato parrebbero degni forse di una lode non minore di quella riservata a coloro che hanno tramandato le leggi del vivere. Quelli infatti hanno tramandato precetti, costoro ci hanno tramandato gli esempi; perché il loro proprio ufficio e compito è quello di sostenere con il loro ingegno la debolezza della nostra vita e di contrastare la mortalità, per evitare che, per quanto è in loro, le parole e le azioni degne di essere ricordate e le gesta famose ed eccelse vengano oscurate dal tempo e cadano del tutto dalla memoria; e non cadano per il trascorrere dei secoli quelle che sono degne di essere imitate e conosciute, da cui i mortali sono spinti alla virtù e alla gloria; affinché chiunque legge, chiunque parla di loro comprenda con quale voce, con quale animo si lodino le azioni oneste, si condannino quelle turpi e cattive; affinché, sentendo la fortuna come varietà e incostanza delle cose umane, imparino ad essere pazienti e saldi nelle avversità, continenti e pacati nella prosperità, forti e solidi nei disastri e nelle rovine, e quando spira la fortuna miti, cordiali, pacati, nella ricchezza liberali e benefici, nell’indigenza se non contenti della propria sorte almeno non afflitti, non vigliacchi; affinché non considerino cosa nuova nulla di quel che accade all’uomo, non si meraviglino di nulla che capiti improvvisamente, non pensino e non credano che possa mai accadere qualcosa che non sia già accaduta una volta. 190. Godete di lunga fama e lode voi storici, per l’opera e lo studio dei quali è avvenuto che noi sappiano chi sono stati quelli che per primi hanno conosciuto Iddio, e possiamo capire con quali sacrifici, con quali voti e suppliche dobbiamo venerarlo, adorarlo, ingraziarcelo. Fu 615

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colamus, placemus; quorum item beneficium ac munus fuit ut cognosceremus qui leges tulerint, naturae secreta aperuerint, artes invenerint, vivendi praecepta tradiderint. Quae dum sequitur genus hominum, e silvis atque a fero victu cultuque liberum in urbes se contulit atque in libertatem, in quibus pietatem, fidem, aequitatem, amicitiam, humanitatem, iustitiam, urbanitatem denique omnem exerceat seque homo ipse diis non modo gratum ipsis, verum etiam persimilem invicem gratuitoque benefaciendo reddat. 191. Constat igitur historia et rebus et verbis; verba vero esse debent, ut ultimo dictum est loco, elegantia et propria et bene decenterque collocata et sparsa. Res ipsae constant ordine et dispositione, quibus coniunctae sunt descriptiones causarum, temporum, rerum praeteritarum antecessionumque, ingenii morumque eorum qui bellum administrant, virium, societatum, apparatuum; item descriptiones regionum, locorum, urbium, fluminum, montium, et siqua in illis memoratu digna; itinerum quoque, casuum, eventuum, pugnarum, quaeque pugnam sequuntur; ad haec obsidionum, oppugnationum expugnationumque, quaeque expugnationem comitari consueverunt. Accedunt his personae, laudantis scilicet aut improbantis, pro re ac tempore, lectio item atque imitatio. De genere autem ipso dicendi, quale scilicet conveniat historiae dictum est, de brevitate similiter ac celeritate, quarum altera est historiae commendatrix, altera locupletat eam atque magnificat. Itaque plura de re hac loqui praecipientis est velle personam assumere. Quo circa, ne mihi sit cum grammaticae patrocinatoribus contentio posthac ulla, finem dicendi facio meque a promisso absolvo, quando factum est a me, ut arbitror, satis promisso et fortasse amplius quam iudicari possit esse promissum. 192. PUDERICUS. Et promissis a te satisfactum, Altili, confitemur omnes et disserendis iis incredibili voluptate nos affecisti, dum rem sparsam ac passim iactatam colligis collectamque ordine suo suaque regula ac lege sic componis, ut siqui posthac redacturi ea sint in praecepta, facile quidem praestituri id videantur. Nec his contentus laudes quoque historiae addidisti et quam ea sit utilis mortalium generi multa cum gravitate docuisti et copia. Coeterum nesciam volens ne an negligens praeterieris

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loro beneficio e dono che noi possiamo conoscere chi abbia promulgato le leggi, chi abbia aperto i segreti della natura, chi abbia inventato le arti, chi abbia tramandato le leggi del vivere. Seguendo queste cose il genere umano, libero dalle selve e dalla ferocia dei costumi, si trasferì in città e in libertà, dove esercitare la pietà, la fede, la equità, l’amicizia, l’umanità, la giustizia e infine ogni forma civile, e rendersi, lui uomo, non solo grato agli dei, ma anche simile col mutuo e gratuito esercizio della beneficenza. 191. La storiografia dunque consiste nei fatti narrati e nel rivestimento delle parole;571 ma le parole, come si è detto per ultimo, devono essere eleganti e collocate e distribuite con proprietà, perfezione e convenienza. I fatti a loro volta comportano ordine e disposizione, con cui si coordinano le esposizioni delle cause, dei tempi, degli eventi passati e dei precedenti, del carattere e dei costumi di chi guida la guerra, degli uomini, delle alleanze, degli apparati; così le descrizioni delle regioni, delle località, delle città, dei fiumi, dei monti e di quel che vi è degno di essere ricordato; anche dei viaggi, dei casi, degli eventi, delle battaglie e delle loro conseguenze; inoltre degli assedi, degli assalti e delle espugnazioni, e di quello che suole accompagnare l’espugnazione. Vi si aggiungono le lodi e i biasimi pronunciati dai personaggi, a seconda del fatto e della circostanza, e similmente la scelta e l’imitazione. Si è già detto dello stile che conviene alla storia, della brevità e della velocità, di cui l’una serve a rendere lodevole la storia, l’altra a renderla ricca e magnifica. Quindi parlare ancora di questo argomento significherebbe voler assumere l’atteggiamento di uno che dia precetti. Perciò, perché non vi sia dopo una lite fra me e i sostenitori della grammatica, pongo fine al discorso e mi considero sciolto dalla promessa, avendo corrisposto abbastanza, come penso, alla promessa e forse più di quanto si possa ritenere richiedesse la promessa fatta. 192. PODERICO. Tutti riconosciamo che la promessa è stata da te soddisfatta, e che con la tua dissertazione ci hai donato un incredibile piacere, raccogliendo una materia sparsa e gettata qua e là e dopo averla raccolta, coordinandola e dandole regole e norme, in modo che, se qualcuno ha l’intenzione di ridurla in precetti, potrà farlo facilmente. Né contento di ciò non hai mancato di aggiungere le lodi della storia e di insegnare con serietà e ricchezza di argomenti quanto sia utile al genere umano. Del resto non saprei se volutamente hai trascurato quel che attiene alla bio617

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ea quae ad scribendas magnorum virorum vitas spectant, quo in genere historiae graece latineque versati sunt permulti. 193. ALTILIUS. Atqui, Puderice, de toto et integro nos historiae corpore locuti, non de parte sumus, quae et ipsa ad totius imaginem componi pro natura sua potest. Itaque ut pauca quaedam in hoc quoque genere scribendi tradamus, quod ipsum demonstrativum est genus (nam qui vitam alicuius scribit in locos nunc laudis nunc vituperationis incidit, cuius rei monitum fecisse eum satis est), tria cumprimis servanda censemus: ut scriptio ipsa sit brevis, sit diligens atque etiam gravis; adde, si placet, et quartum, ut sit ea quam maxime quoque elegans. Brevitas autem erit talis, ut rerum summas paucis complectatur; diligentia tanta, ut nihil omittat quod iudicetur memoratu dignum; gravitas item ea quae addat explicationi ac dictis pondus quaeque et auctorem rerum et scriptorem commendet. Nam praeter veritatem nihil potest esse commendabile. Quid, obsecro, tam est adversum quam vanitas historiae, quae vitae magistra esse dicitur? Elegantiam iccirco dicendi maximam hac praesertim in parte exigimus, quod haec ipsa scribendi pars permultis sit aliis laudibus ac virtutibus caritura. Itaque compensetur utique elegantia quod deerit de culto coeteroque splendore; cuius rei Caesar gravissimus esse potest et testis et monitor; de cuius commentariis etsi multa in exemplum adduci a nobis poterant, tamen scribendi genus historicum ex omni parte minime complexus est Caesar, quippe qui materiam et praebere et relinquere maluerit aliis de se scribendi. 194. Et qui pictor aut statuarius imaginem facturus est, quae totius referat corporis pulchritudinem, nimirum pulcherrimi cuiusque viri speciem sibi in exemplum assumit, non eius qui parte tantum praecellat aliqua, sed qui omnibus. Nam quanquam et Tacitus et Curtius abunde sunt laudibus ac virtutibus ornati suis, laus tamen omnis latinae historiae penes duos putatur existere diversoque in dicendi genere, Livium ac Sallustium. Ad haec iniquitas temporum Trogum nobis omnino abstulit, et Curtium ac Tacitum quasi mutilatas videmus statuas, licetque suspicari potius ac coniicere quam omnino de iis iudicium aliquod absolutum ac certum tradere. Quid quod noster paulo ante Actius uno fuit ubique fere contentus Virgilio? Videlicet quod ab optimo quoque suo in genere quaerenda est semper auctoritas. Quod autem, sicuti ex

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grafia degli uomini illustri, un genere al quale moltissimi, greci e latini, si dedicano. 193. ALTILIO. Eppure, Poderico, abbiamo parlato di tutto quanto il genere storiografico, non di una sola parte, che anch’essa può accordarsi con l’idea della totalità. Pertanto, per riferire poche cose riguardo anche a questo genere, che appartiene anch’esso all’epidittica (infatti chi scrive la biografia di qualcuno incorre ora in argomenti di lode, ora di denigrazione, e su questo è sufficiente l’accenno fatto),572 ritengo che bisogna osservare anzitutto tre punti: la scrittura sia breve, sia attenta e anche ponderata; aggiungi, se vuoi, un quarto punto, che sia anche il più possibile elegante. La brevità, poi, sia tale da comprendere tutto in poche parole, l’attenzione sia tale, da non trascurare nulla che sia degno di menzione; la ponderatezza sia tale da aggiungere alla narrazione e alla forma letteraria il peso del contenuto e da far lodare sia l’autore sia il narratore dei fatti. Infatti al di fuori della verità nulla può essere lodevole. Che cosa, vi prego, è tanto contrario alla storia, che si dice maestra della vita, quanto la vanità? Perciò esigiamo la massima eleganza d’espressione specialmente in questo settore della storiografia, perché questo settore sarà privo di molti altri pregi e virtù. Quindi l’eleganza compenserà quello che mancherà al resto della cura e dello splendore: ne può essere testimonianza e punto di riferimento il grandissimo Cesare; che se anche dai suoi commentari avremmo potuto addurre molti esempi, tuttavia Cesare non ha contemplato lo stile storiografico in tutti i suoi aspetti, in quanto ha preferito offrire e lasciare ad altri materiale da utilizzare per narrare di lui.573 194. E se un pittore o scultore ha l’intenzione di fare un’immagine che rappresenti la bellezza di tutto il corpo, certamente prende ad esempio l’aspetto dell’uomo più bello, non di quello che è superiore soltanto in una parte del corpo, ma in tutte. Infatti, sebbene Tacito e Curzio siano ben forniti di pregi e virtù loro,574 tuttavia il pregio completo della storiografia latina si ritiene che sia prerogativa di due, in due generi diversi, Livio e Sallustio. Inoltre la nequizia dei tempi ci ha sottratto Trogo completamente,575 e vediamo Curzio e Tacito come statue mutilate,576 e su di loro è possibile fare soltanto delle congetture ma non esprimere un giudizio assoluto e sicuro. Che dire del fatto che Azio poco fa si è mostrato contento del solo Virgilio?577 Evidentemente perché bisogna cercare l’autorità in chi è ottimo nel suo genere. Ma poiché, come mi sembra di 619

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oculis ac vultu coniicio, Prassicius hic noster dicere paratus est aliquid officiumque absolutum est meum, dicat pro arbitrio vir et in poetica et in oratoria maxime exercitatus depromatque de pectore apprime foecundo dignum aliquid seque et hoc ipso consessu, ut munus et ipse quoque suum adimpleat. 195. PUDERICUS. Atqui et ordo lexque ipsa sessionis huius id ipsum exigit et nos omnes non istud ipsum modo petimus, verum etiam rogamus atque exposcimus. PAULUS. Equidem ex iis quae acute, graviter eruditeque ab Altilio sunt de lege historiae dicta quaeque ante Sincerus poeticis de numeris, ipse vero Altilius de verbis nuper atque ornamentis disseruit magis magisque incendor ad pervestigandum poeticae finem, quem ex ore Senis nostri esse Sincerus initio retulit bene atque apposite dicere ad admirationem comparandam. Convertor autem ad te, Parde, potissimum, quem dicendi labor non adeo ut hos ipsos delassavit, audientiam primo abs te exposcens, deinde sententiam in his quoque requirens tuam. PARDUS. Et audientem me perque intentum in dicendo habebis, et paratum etiam respondere ad ea quae ex me intelligere ipse voles aut quid ipse sentiam aperire, si opinionem fortasse meam tentando sciscitaberis. 196. PAULUS. Principio quod Cicero aiat finitimum esse oratori poetam, duo, ut mihi videtur, cur in eam sententiam venerit omnino illum movere, et quod uterque versatur in dicendo et quod utriusque communes sunt laudationes, quod demonstrativum genus dicitur, tametsi et deliberationes quoque; apud poetas enim tot deorum concilia consultationesque non ne hoc nobis palam faciunt? Habent igitur tum laudationes tum deliberationes inter se communes, bene item et consumate dicere, suo uterque in genere dicendi, cum alter solutus incedat atque promissus, alter astrictus numeris ac pedibus certa lege coercitis. Quin verba quoque et ipsa sunt inter eos communia; verum alterius digna foro ac senatu quaeque gravitatem satis est uti sequantur retineantque dignitatem, alterius quae magnificentiam, altitudinem excellentiamque quasi quandam ostentent. 197. Neque enim gravitas comparandae admirationi satis est sola, ni magnificentia accesserit excellentiaque et verborum et rerum, utque ego arbitror, hoc illud est quod ait Horatius:

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capire dagli occhi e dal volto, il nostro Prassicio qui presente578 è pronto a dire qualcosa e il mio compito è esaurito, dica a sua volontà un uomo come lui, massimo esperto di poetica e di retorica, ed esprima dall’animo suo più che mai fecondo qualcosa degna di lui e di questo consesso, affinché anche lui adempia al suo compito. 195. PODERICO. Eppure la norma ordinaria di questa seduta esige che noi tutti non solo facciamo proprio questa richiesta, ma che la imploriamo con insistenza. PAOLO.579 In verità in seguito a quello che con acutezza, con ponderatezza e dottrina è stato detto da Altilio sulla storiografia e prima Sincero e or ora lo stesso Altilio hanno detto discutendo del ritmo poetico e dell’ornamento stilistico, sempre di più mi accendo dal desiderio di ricercare il fine della poesia, che Sincero all’inizio, riferendo quanto ha udito dire dal nostro Vecchio, ha definito un dire in maniera perfetta e atta a procurare la meraviglia. Mi rivolgo dunque a te specialmente, Pardo, che non ti sei stancato come costoro per la fatica di parlare, prima chiedendo a te il favore di ascoltare, poi richiedendo anche il tuo parere in questa materia. PARDO. Tu mi avrai attento uditore in quel che dirai, ed anche pronto a rispondere a quello che vorrai sapere da me o ad esprimere il mio pensiero, se mai solleciterai la mia opinione provocandomi. 196. PAOLO. Prima di tutto, che Cicerone collochi il poeta al confine con l’oratore,580 due sono le ragioni che lo muovono a pronunciare questo giudizio, sia il fatto che entrambi si occupano del dire, sia il fatto che essi hanno in comune le lodi, quello che si chiama genere epidittico, sebbene anche le deliberazioni; infatti nei poeti non ce lo manifestano i tanti concili degli dei? Hanno dunque in comune le celebrazioni e le deliberazioni, il dire con perfezione e lima, ognuno nel suo stile, poiché l’uno procede sciolto e scorrevole, l’altro legato dal ritmo e con i piedi costretti da una norma determinata. Che anzi anche le parole oratori e poeti hanno fra loro in comune; ma quelle degli uni sono degne del foro e del senato e basta loro osservare la gravità e serbare la dignità, quelle degli altri bisogna che ostentino una certa magnificenza, elevatezza ed eccellenza. 197. Né infatti la gravità da sola basta a produrre la meraviglia, se non si aggiunga la magnificenza e l’eccellenza sia delle parole sia delle cose, e come io penso è questo che vuol dire Orazio quando dice: 621

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mediocribus esse poetis Non homines, non dii, non concessere columnae,

cum oporteat eos suo in genere excellere neque aliter digni eo nomine videantur. Hoc etiam est et illud quod a Cicerone dicitur singulis vix seculis bonum poetam inventum. Perrara namque omnis est excellentia, quodque oratori satis est bene dicere atque apposite, id oportet in poeta sit ut excellenter. Ac tametsi oratoris quoque est aliquando et magnifice et excellenter, tamen id non ubique, neque semper, cum poetae hoc ipsum ubique suum sit ac peculiare, etiam cum in minutissimis atque humilibus versatur rebus, siquidem necesse est et minutissimis et humilibus describendis rebus appareat etiam eius excellentia. Nam et quae fuit naturae excellentia creando in homine, eadem nec minor pro specie illarum ac forma in apibus atque formicis fuit. 198. Utriusque etiam, oratoris ac poetae, officium est movere et flectere auditorem; verum quonam, quo, inquam, haec et commotio et flexio et maximum utriusque in hoc ipso studium? Oratoris scilicet ut persuadeat iudici, poetae ut admirationem sibi ex audiente ac legente comparet, cum ille pro victoria nitatur, hic pro fama et gloria, quae videtur sola ac maxime ab hoc scriptorum genere quaeri. Et orator quidem ubi minime persuaserit, potest fine suo contentus esse, quod bene, quod apposite, quod consumate dixerit in causa, at poeta fine omnino defraudabitur suo nisi in audientis ac legentis animo pepererit infixeritque admirationem, per quam sit famam venerationemque assecuturus. Nec vero audientem aut legentem eum nos intelligi volumus, cui sit admirationi Bavius aut Maximianus, sed cui magnam quoque mentem Delius inspiraverit vates; vix enim de bono poeta, nisi et ipse auditor bonus poeta fuerit, iudicare recte potest. Tametsi, nescio quomodo, a natura ipsa instituti nonnulli, alii in musicis, alii in pictura, in poeticis alii, neque poetae tamen ipsi neque pictores aut musicam professi, bonum quid in ea sit arte sentiunt;

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mediocrità ai poeti mai concessero gli uomini, o gli dei, o con le lor classifiche i librai,581

essendo necessario che essi eccellano nel loro genere, né altrimenti possono sembrar degni del loro nome. Anche questo è quel che intende dire Cicerone quando asserisce che a stento in ogni secolo si trova un vero poeta.582 Ogni eccellenza infatti è rarissima, e quel che per un oratore è dire in maniera perfetta e opportuna, è necessario che per il poeta sia dire perfino in maniera eccellente. E sebbene sia compito dell’oratore talvolta dire in maniera magnifica ed eccellente, tuttavia ciò non riguarda ogni luogo, né ogni tempo, mentre ciò è proprio e peculiare del poeta in ogni caso, anche quando tratta di cose minime ed umili, se è vero che è necessario che la sua eccellenza appaia anche nel descrivere le cose più piccole e umili. Infatti quella che fu l’eccellenza della natura nel creare l’uomo, la stessa eccellenza e non minore si manifestò nella creazione di api e formiche in conformità della loro specie e della loro forma. 198. Dell’uno e dell’altro, inoltre, dell’oratore e del poeta, il compito è quello di muovere e piegare l’uditore; ma dove tendono, dico, dove tendono sia il muovere sia il piegare,583 sia il loro grandissimo sforzo nel far questo? Ovviamente l’oratore a persuadere il giudice, il poeta a guadagnarsi l’ammirazione di chi lo ascolta e di chi lo legge, poiché l’uno si sforza di ottenere la vittoria, l’altro di ottenere la fama e la gloria, che sembra la sola ad essere cercata da questo genere di scrittori. E l’oratore, se non è riuscito a persuadere, può accontentarsi del suo obiettivo raggiunto, l’aver parlato bene, adeguatamente e perfettamente nella causa, mentre il poeta sarà completamente privato del suo obiettivo se non avrà suscitato e infuso nell’animo del lettore o dell’ascoltatore l’ammirazione con cui ottenere la fama e la venerazione. Ma non vogliamo che s’intenda per lettore e ascoltatore uno che rivolga la sua ammirazione a Bavio o a Massimiano,584 ma a chi il dio di Delo585 abbia ispirato la mente, e che abbia grande la mente; non può infatti esprimere un retto giudizio su un buon poeta se l’ascoltatore non sia egli stesso un buon poeta. Quantunque, non so come, alcuni, formati nient’altro che dalla natura, chi nella musica, chi nella pittura, chi nella poesia, e quantunque non siano essi stessi né poeti, né diretti cultori della musica e della pittura, sanno scoprire che cosa sia ben fatto in quell’arte. Ma capire chi sia l’ottimo non 623

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optimum vero sentire haud poterit, nisi quem ars quoque cum natura ipsa ingeniosum pariter atque solertem fecerint. 199. Quocirca mediocritas illa, quae in rebus plerisque omnibus conceditur, poetae omnino adversatur eique minime est concessa; nisi forte dicendi excellentia et magnificentia illa sit vocanda mediocritas in genere dicendi poetico, quando excellentia dicendi in poeta ut vacua esse debet inflatione atque intumescentia, sic nullo debet modo de grado suo deiici. Quid quod oratorem, multitudinis praesertim impleturum aures aut unius iudicis aut paucorum admodum, multae illum adiuvare res possunt, at poeta solis excellentibus ingenioque excellenti praeditis sola et una cum excellentia potest satisfacere? Quocirca coniunctus et ipse ratione hac historico est, quod lectoribus iisque literatissimis viris, non iudici scribit aut moltitudini. His itaque permotus Senis nostri sententiae accedo poetae sive finem sive officium esse bene atque excellenter loqui ad admirationem. Quod si, Parde, probaveris (nam Sincerum id probaturum testificari ea possunt quae in initio dissertionis suae attigit), Altilium sat scio, qua est observantia in Senem et cultu, minime dissensurum. 200. PARDUs. Visus es mihi, Prassici, probandis poeticis his non minus quam ex aristotelica disciplina, ex ipsa etiam rei natura esse locutus, et quod multa sunt oratori et poetae communia et quod in non paucis etiam differant inter se. De fine vero officioque poetae siquis aliter sentiat, meo iudicio invide magis quam vere sentire videbitur, dum quod poetae ipsi gloriantur se tantum quaerere, nomen scilicet ac famam, invidere illis et pretium et laborum tantorum summam volunt; et quod in oratore exigitur bene et consumate, id in poeta esse debere excellenter, id profecto mihi et verissime et appositissime a te dictum videtur. Nam, te obsecro per Musas ipsas perque tantopere a nostro cultam Sene Uraniam, quid nisi admiratio, quid, inquam, nisi una et sola admiratio quaeritur ex magnificis illis et maxime numerosis verbis dictisque?

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AZIO, II

potrà, se non colui che l’arte insieme alla natura abbiano reso nella stessa misura pieno d’ingegno e di esperienza. 199. Perciò quella mediocrità che nella maggior parte dei casi a tutti viene concessa, è assolutamente contraria al poeta e a lui non è concessa affatto; a meno che non debbano chiamarsi mediocrità nello stile poetico quella eccellenza e magnificenza, poiché l’eccellenza del dire in un poeta come deve essere priva di gonfiezza e di eccesso, così non deve mai venir meno al suo livello. Che dire del fatto che l’oratore, specialmente quando intende riempire le orecchie della moltitudine o di un solo giudice o di poco pubblico, può ricevere molti ausili, mentre il poeta con l’aiuto della sola sua eccellenza può soddisfare solo gli uomini eccellenti e forniti di eccellente ingegno?586 Perciò egli è collegato con lo storico, perché scrive per lettori che siano uomini con una grande educazione letteraria, non per un giudice o per la moltitudine. Spinto da queste ragioni mi sento di consentire con il pensiero del nostro Vecchio, per il quale il fine e l’ufficio del poeta sia parlare con perfezione ed eccellenza per ottenere l’ammirazione. E se tu, Pardo, approverai (giacché l’approvazione di Sincero può testimoniarla ciò che egli ha accennato all’inizio della sua dissertazione), ben so che Altilio, data la sua devozione e rispetto verso il Vecchio, sarà d’accordo anche lui. 200. PARDO. Mi è sembrato che tu, Prassicio,587 nel dimostrare la tua tesi sulla poetica, abbia parlato sul fondamento dell’insegnamento aristotelico non meno che della realtà stessa, dicendo sia che molto è in comune fra l’oratore e il poeta, sia che non poco differiscano fra loro. Ma se c’è qualcuno che la pensa diversamente sul fine e sull’ufficio della poesia, a mio parere il suo pensiero nasce da malanimo piuttosto che da una vera riflessione, volendo togliere ai poeti il pregio e il risultato di tante fatiche, poiché quel che essi si vantano di cercare è solo il nome e la fama; e certamente a me sembra che tu abbia detto cosa verissima e opportuna, quando hai detto che dall’oratore si esige soltanto che faccia con correttezza e perfezione ciò che il poeta deve fare con eccellenza. Difatti, ti prego per le Muse stesse e per l’Urania588 tanto curata dal nostro Vecchio, che cosa mai, che cosa, dico, se non l’ammirazione soltanto si cerca di ottenere da quelle parole meravigliose ed estremamente melodiose?

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ACTIUS, II

Dicam horrida bella, Dicam acies actosque animis in funera reges Tyrrhenamque manum totamque sub arma coactam Hesperiam. Maior rerum mihi nascitur ordo, Maius opus moveo.

Quid? cum Stabuli de culmine summo Pastorale canit signum, cornuque recurvo Tartaream intendit vocem, qua protinus omne Contremuit nemus et silvae intonuere profundae; Audiit et Triviae longe lacus, audiit amnis Sulfurea Nar albus aqua fontesque Velini.

Quid amplius? Et trepidae matres pressere ad pectora natos.

Quo, quaeso, et res et verba tanta cum industria et arte inventa et posita nisi ad movendam spectant admirationem? Quo, inquam, et illa? […] assum dirarum a sede sororum, Bella manu letumque gero […];

et Olli somnum ingens rupit pavor […].

201. Itaque non verbis modo magnificis, sed rebus quoque et inventis excellenter et expressis admiratio a poetis quaeritur, ut, cum poetica sicut historia constet rebus ac verbis, his utrisque poeta ad admirationem conciliandam non utatur modo, verum etiam innitatur. Quamobrem, quod veritas praestare hoc sola minus posset, veritatem nunc inumbrant

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AZIO, II

Canterò guerre orrende, schiere e regi alla morte condotti dal loro coraggio, e le forze tirrene, e sotto le armi adunata l’Esperia. È ben maggiore la serie di eventi che or nasce, opra più grande avvio.589

E che dire, quando: dal vertice sommo dà il segnale d’allarme ai pastori, e col corno ricurvo lancia come una voce infernale, onde subito tutto tremò il bosco, e il rimbombo raggiunse le selve profonde; l’udì da lungi il lago di Trivia, l’udìr pure il fiume Nera bianco per l’acqua di zolfo, ed il fonte Velino.590

Che dire di più? E trepide le madri al petto si strinsero i figli.591

A che cosa mirano, ti prego, le immagini e le parole trovate con un’arte tanto raffinata, se non a suscitare la meraviglia? A che cosa mirano quelle altre parole? […] qui dalla sede delle mie funeste sorelle porto la guerra in pugno, e la morte […];592

e queste altre Gli ruppe il sonno immensa una paura […].593

201. Perciò non solo con parole magnifiche, ma anche con immagini trovate ed espresse in modo eccellente i poeti cercano l’ammirazione, talché, constando la poesia e la storia di idee e di parole, delle une e delle altre si serve il poeta per guadagnarsi l’ammirazione, ma anche vi si sforza. Onde, poiché da sola la verità non può offrire questo risultato, i poeti ora la dipingono con finzioni e favolosi colori, ora vi mescolano 627

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ACTIUS, II

fictis fabulosisque commentis, nunc ea comminiscuntur quae omnino abhorreant a vero atque a rerum natura, ut cum fit tortile collo Aurum ingens coluber,

et Virginei volucrum vultus,

et Tertia sed postquam maiore hastilia nisu Aggredior […].

Itaque quae a te, Prassici, in tota hac quaestione dicta et disputata sunt omni e parte a me, ac summopere etiam probantur et, cum de admiratione loquamur, ne discedamus a cognatis verbis, mirifice etiam probantur. Quocirca perge ad reliqua. 202. PAUL. Quaeri autem ab illis admirationem, hoc est approbationem et plausum quasi quendam, eorum quae dicantur cum animorum admiratione illorum qui audiunt et qui legunt, quae a te delibata sunt, Parde, duo illa potissimum docent, et res et verba; siquidem neque res ipsae quales gestae sunt perinde atque ab historicis narrantur neque poetae ipsi verbis semper agunt usitatis ac simplicibus; nam et rebus gestis ornatum aliunde et magnitudinem et decorem ubique fere arcessunt a figmentis videlicet; ut cum scripturus esset Virgilius navium Aeneae concremationem, finxit ea quae leguntur de Cybele, de Iove, de navium conversione in nymphas: […] cum virgineae, mirabile monstrum, Reddunt se totidem facies pontoque feruntur.

Quo enim maiora atque admirabiliora quae ab ipsis dicuntur appareant, humana ad deos transferunt, fingunt monstra, mittunt insomnia, deos denique in homines vertunt. Comparationes quoque, quibus frequentissinie utuntur, non magis ad docendum atque illustrandum pertinent 628

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AZIO, II

cose che non hanno nulla che fare col vero e con la realtà, come quando dicono che si attorciglia al collo un gran colubro d’oro;594

e dei volatili i volti verginei;595

e ma dopo che sforzandomi ancora di più un terzo ramo aggredisco […].596

Per cui, Prassicio,597 quello che da te in tutta questa disputa è stato detto, io lo approvo, e anche con molta convinzione, e giacché parliamo di ammirazione, per non allontanarci da parole analoghe, lo approvo a meraviglia. Dunque continua pure. 202. PAOLO.598 Che si cerchi l’ammirazione, cioè l’approvazione, e per così dire il plauso, per quello che si dice con l’ammirazione dei lettori e degli ascoltatori, come hai accennato, Pardo,599 due cose specialmente lo dimostrano, il contenuto e la forma; poiché né le azioni sono compite così come sono narrate dagli storici né i poeti stessi agiscono con parole sempre usuali e semplici; infatti quasi sempre ricavano dal di fuori l’ornato, la grandezza e la bellezza, per le loro narrazioni, naturalmente dalle immaginazioni; come quando Virgilio si accingeva a narrare l’incendio delle navi di Enea, immaginò ciò che si legge di Cibele, di Giove, della trasformazione delle navi in ninfe: […] quando (oh portento!) riemergono di vergini altrettante figure che vanno sul mare.600

Per far apparire più grande e meraviglioso ciò che si dice, trasferiscono alla divinità le cose umane, immaginano mostri, mandano sogni e infine trasformano gli dei in uomini. Anche le comparazioni, di cui si servono con molta frequenza, non servono a informare e ad illustrare 629

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quam ad movendam admirationem. Quid, obsecro, sibi vult aliud Cupido in Ascanium? quid Mercurius totiens e coelo in terras missus, nisi ut qui legunt admiratione impleantur? Parum profecto, parum erat utique Maroni tempestatem describere, quae per se ipsa magna quidem erat atque horribilis, sed Iunonis ad Aeolum, sed Aeoli ad Iunonem allocutiones admirabilem multo maxime eam faciunt, ventorum ipsorum deo illam exciente. Itaque intonantur magis quam dicuntur illa: […] cavum conversa cuspide montem Impulit in latus, ac venti, velut agmine facto, Qua data porta, ruunt et terras turbine perflant.

203. Quid excogitatius ad conciliandam admirationem? Re autem vera Aeneas a Lacinio, Calabriae promontorio, sacris Iunoni rite prius persolutis, solvens, quo praeterita Sicilia ad oras Latinorum classem appelleret, fuit a tempestatibus Drepanum perlatus; videte, obsecro, quibus veritatem commentis concinnaverit, quo admirabiliora cuncta redderet. Verba autem ipsa poetae, quique vere dicuntur poetae, non solum simul compangunt aut ea novant, ut «mare velivolum», ut «silvas comantes», horum ipsorum quae nunc a me dicuntur gratia, verum ea transferunt, nec verba tantum, sed orationem persaepe omnem. Quin etiam et excessum et superlationem iis persaepe adiiciunt a natura penitus recedentes, ut praeruptus aquae mons,

et vastos tollunt ad sidera fluctus,

et Tollimur in coelum sullato gurgite et iidem Subducta ad Manes imos descendimus unda.

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AZIO, II

più che a suscitare l’ammirazione. A che pro, vi prego, Cupido si trasforma in Ascanio?601 A che pro Mercurio viene inviato tante volte dal cielo in terra,602 se non per riempire di meraviglia i lettori? Era troppo poco certamente, era troppo poco per Virgilio Marone descrivere comunque una tempesta, che di per sé era grande ed orribile, ma le allocuzioni di Giunone ad Eolo, ma quelle di Eolo a Giunone la rendono meravigliosa al massimo, poiché è il dio dei venti che la scatena. Perciò quei versi sono cantati più che recitati: […] la cuspide rivolta, l’incavo del monte urtò nel fianco; e i venti, come un esercito in campo, dove s’apre una porta irrompono e investon le terre.603

203. Che c’è di più ricercato604 per guadagnarsi l’ammirazione? Il fatto reale fu che Enea, salpando da Lacinio, promontorio della Calabria, assolti prima i riti sacri dovuti a Giunone, per approdare ai lidi del Lazio, lasciando la Sicilia fu trasportato a Drepano dalle tempeste;605 ma vedete, vi prego, con quali accorgimenti abbia abbellito la realtà per rendere tutto più meraviglioso. I poeti, quelli che meritano di esser chiamati poeti, non solo accostano le parole o le rinnovano, come «mare veleggiante», come «boschi chiomati»,606 in funzione di ciò che ora sto dicendo, ma le trasformano metaforicamente, e non soltanto le parole, ma molto spesso perfino l’intero discorso. Che anzi molto spesso accrescono ed esaltano le cose reali allontanandosi del tutto dalla natura, come il ripido monte dell’acqua,607

e gli enormi flutti sollevano fino alle stelle,608

e Siam sollevati al cielo da un gorgo levatosi in alto, quando si abbassa l’onda scendiam fino al regno dei morti.609

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204. Nec vero tenorem hunc comparandae admirationis in gravioribus ac seriis tantum servant rebus, verum in iis quoque in quibus lectorum atque auditorum delectatio voluptasque sola quaeritur, ut Ambrosiaeque comae divinum vertice odorem Spiravere,

et fotum gremio dea tollit in altos Idaliae lucos, ubi mollis amaracus illum Floribus et dulci aspirans complectitur umbra.

Singulis pene e verbis Venerisque e gestibus gignitur virtus haec de qua nobis est nunc quaestio, quam et in docendo et in movendo nec minus in delectando assequi poetae omni arte studioque contendunt. Tu vero quid ad haec, Parde? nam et gravitatem hic tuam et iudicandi pondus requirimus. 205. PARDUS. Ego quidem, Paule Prassici, censeo te assecutum quod disputatione hac quaeris, ipsis et rationibus et exemplis, quae duo non in disciplinis modo, verum etiam in vita agenda moribusque probandis et laudis et testificationis secum vim auctoritatemque omnem ferunt. Coeterum, quoniam a Sincero de poetis sermo cepit, ut ab eo quoque desinat, reliqua siqua sunt, ab illo potius sciscitare. Quin, ut video surrexisse eum iam, interrogandi te labore liberabit. 206. ACTIUS. Equidem, Parde, dicenti Paulo sic assentior, ut semper existimaverim in quacunque ad dicendum suscepta materia atque in dicendi quoque genere magnitudinem sullimitatemque ipsam poetae esse propriam, nunquam mediocritate contentam, quod Virgilii agricultura docere plane potest; utque implere generosos illos spiritus quacunque ratione poetae valeant, coelestes etiam res mortalium rebus inseruisse eos refersisseque carmen suum commentis atque fabulis, quibus ipsa sullimitas ad summum usque, hoc est ad admirationemn incresceret; hocque illud esse quod paulo ante dicebatur, alia quadam lingua locutos. Nam cum oratoriae sit mediocritas aequabilitasque illa quidem dicendi,

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204. Ma non serbano questa modalità di acquistare la meraviglia soltanto negli argomenti gravi e seri, ma anche in quelli che mirano soltanto al diletto e al piacere dei lettori e degli ascoltatori, come in e le chiome di ambrosia dal capo un profumo divino spirarono;610

e in tenendolo in grembo la dea lo solleva negli alti boschi d’Idalia, ove dolce la sua fragranza spirando l’amaraco lo avvolge coi fiori e con l’ombra sua lieve.611

Quasi da ogni singola parola e gesto di Venere si sprigiona la virtù di cui ora stiamo discutendo, e che nell’addottrinare, nel commuovere non meno che nel dilettare i poeti si adoperano con arte e fatica di conseguire. Ma tu che cosa pensi di questo, Pardo? Infatti ora abbiamo bisogno della tua gravità e della tua ponderatezza nel giudicare. 205. Io veramente, Paolo Prassicio,612 ritengo che tu abbia conseguito quel che cerchi con questa disputa, usando il ragionamento e gli esempi, le due cose su cui si fonda, non solo nel campo della conoscenza, ma anche in quello della vita pratica e morale tutta l’efficacia e l’autorevolezza della lode e della testimonianza. Per il resto, poiché il discorso dei poeti è cominciato da Sincero, se è rimasto qualcosa, chiedigli se possa concludersi anche da parte sua. Anzi, siccome vedo che si è già alzato, sarai libero dalla fatica di rivolgergli la richiesta. 206. AZIO. In verità, Pardo, con quel che dice Paolo613 sono d’accordo, che cioè – come ho sempre ritenuto – nel trattare qualunque materia e anche per ciò che riguarda lo stile sono propri del poeta la grandezza e il sublime, mai contenti della mediocrità, come chiaramente può dimostrare il libro virgiliano dell’agricoltura;614 e perché fossero capaci di riempire quei generosi spiriti in qualunque maniera, i poeti hanno inserito fra le cose dei mortali quelle celesti e hanno riempito i loro versi di immaginazioni e di favole, con cui lo stesso sublime si eleva sino ai livelli più alti, cioè fino alla meraviglia; ed è questo quello che poco prima si diceva,615 che essi parlano una lingua diversa. Difatti, pur essendo proprio dell’oratoria la mediocrità e l’equilibrio del dire, se essa talvolta deve 633

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siquando magnitudinem assumptura est aliquam, per poeticae vagatur atque exultat campos, ut cognatae facultatis sibique finitimae; qua in re Cicero e nostris eminuit. Nam historia, ubi magnifica esse vult, ubi heroica videri ac grandis, et figuras et verba de poetis mutuatur. Qua de re multa et erudite et graviter disseruisse mihi visi estis. 207. Coeterum tanta rerum arcessitarum copia, tantus etiam verborum ornatus, tanta et rerum et verborum sullimitas ut desit necesse est implendae tubae cantuque maeonio, ni fabulosa commenta affatim ea suppeditent verbaque fabulosis apta rebus illisque explicandis idonea. Hinc Aeris in campis latis.

Hinc […] cavum conversa cuspide montem; At tuba terribilem sonitum procul aere canoro Intonuit.

An non audientibus nobis illa capillus ipse surrigitur animusque concutitur et pene horrescit? At iuveni oranti subito tremor occupat artus, Diriguere oculi: tot Erinnis sibilat hydris, Tantaque se facies aperit; tum flammea torquens Lumina cunctantem et quaerentem dicere plura Reppulit et geminos erexit crinibus angues Verberaque insonuit.

208. Itaque dum poetae haec ipsa et fingunt et ficta suaviter, magnifice admirabiliterque loquuntur, alios ipsi eloqui docuere. Nam imitati eos postea qui causas egere, qui in senatu de capiendis consiliis disseruere, qui res gestas memoriae mandavere, eloquentiam perfecerunt solutam illam ac vagantem. Quo fit ut omne dicendi genus a poetica manaverit. Nam et primi doctorum omnium cum extiterint poetae, om-

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assumere una forma più grande, vaga e saltella nei campi della poesia, come in quelli di un’arte affine e quasi confinante, cosa nella quale fra i nostri Cicerone ha spiccato. Infatti la storiografia, quando vuol essere magnifica, quando vuol sembrare epica e grande, mutua figure e parole dai poeti. Su questo argomento mi sembra che abbiate dissertato a lungo con dottrina e ponderatezza. 207. Del resto non basta la ricchezza degli argomenti ricercati, non basta anche l’ornamento delle parole, non basta il sublime del contenuto e della forma che ci vogliono per gonfiare la tromba e il canto meonio,616 se non vengono in soccorso, in abbondanza, anche le immaginazioni favolose e le parole idonee a narrare quegli argomenti. Sicché Nei vasti campi dell’aria.617

E poi […] la cuspide rivolta, l’incavo del monte; Ma la tromba, lontano, col bronzo canoro l’orrendo squillo intonò.618

Non si rizzano i capelli agli ascoltatori, non si scuotono e quasi inorridiscono gli animi? Ecco che, mentre il giovane implora, i suoi arti percorre un tremor; gli occhi sbarra; l’Erinni con tutte sue serpi va sibilando, e i tanti suoi volti discopre; di fiamma è lo sguardo che lancia contro di lui che esitando vorrebbe dir; lo ferma, gli scaglia contro due serpi e fa schioccar la frusta.619

208. Pertanto mentre i poeti immaginano ed esprimono con dolcezza, magnificenza e meraviglia le loro immaginazioni, insegnano agli altri come esprimersi. Infatti imitandoli coloro che trattarono le cause, che dissertarono in senato sulle decisioni da prendere, che affidarono alla memoria i fatti, crearono l’eloquenza sciolta e diffusa, la prosa. Si può dire così che ogni genere di scrittura deriva dalla poesia. Infatti, poiché 635

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nia quoque carmine ac numeris sunt complexi testisque horum omnium est Homerus, qui quantum ubique dicendo valeat et suspiciunt docti et admirantur indocti. Ab hoc philosophi, ab hoc physici, ab hoc et rhetores facultatis suae praecepta et aucupati sunt et auspicati. Solon quas Atheniensibus tradebat leges carmine auspicatus legitur; cumque ipse stultitiam simulasset, legendis ac recitandis in publico versibus, quos de Salamine bello revendicanda scripserat, Pisistrato optimatibusque omnibus collaudantibus, cives traxit ad abdicandam legem quae populi totius suffragio constituta fuerat, ne cui unquam de ea re mentionem facere liceret neve ad populum ferre idque capitale esse. Itaque et decretum factum est et Solon ipse belli dux delectus, tantum carmine illo suo valuit. Romanorum rex Numa, versibus a se de diis deque deorum rebus compositis iisque in sacris publicis ac ludis rite decantatis, ferocissimam gentem, dum id assiduus agit, ad mores humaniores transtulit cultumque dei maiorem. 209. Aperuit rerum naturam generi hominum carmine suo Empedocles, sideralis disciplinae Dorotheus Sidonius, quos latine imitati Lucretius ac Manilius, Christe optime, quid copiae, quid ornatus, quantus e clarissimis luminibus eius emicat in altero splendor! Rapit quo vult lectorem, probat ad quod intendit, summa cum subtilitate et artificio hortatur, deterret, incitat, retrahit demum omnia cum magnitudine, ubi opus est, atque decoro et hac de qua disputatum est admiratione, ut expurgatis rudioribus illis vetustatis numeris, quibus postea Virgilius romanam illustravit poeticam, nihil omnino defuisse videatur. Alteri vero in astronomicis siquid ornatus poeticoque defuit decori, additum nuper ac suffectum a nostro est Sene. De cuius Urania, ut arbitror, iudicabunt posteri fortasse liberius, quod, certo scio, de ea sentient minus invidenter. Quibus igitur verbis aut quonam ore gestuque assurgemus poeticae? quae princeps de deo et disseruit et eius laudes cecinit, instituitque sacra, unde primi poetae sacerdotes vocati, verbisque eum placavit et cantibus, docuitque habere rerum humanarum curam benigneque cum probis agere, excandescenter cum improbis. Haec prima excitavit ad virtutem homines, dum animae immortalitatem profitetur, haec e terris piorum animos in coelum devexit, impiorum detrusit in Tartara; haec

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i poeti sono stati i primi di tutti gli uomini colti, hanno abbracciato con i versi ed i ritmi ogni cosa, e ne è testimone Omero, del cui valore i dotti sono ben consapevoli e i non colti si meravigliano. Da lui i filosofi, da lui i fisici, da lui i retori hanno appreso e hanno diffuso i precetti della loro arte. Si legge che Solone abbia diffuso con componimenti poetici le leggi che impartiva agli Ateniesi, e avendo simulato la pazzia, leggendo e recitando in pubblico i versi che aveva composti sulla battaglia di Salamina, con la lode Pisistrato e di tutti gli ottimati riuscì a trascinare i cittadini ad abrogare la legge approvata col voto di tutta la cittadinanza, per la quale era vietato a chiunque far menzione di quell’argomento e parlarne in pubblico, e che fosse un reato capitale.620 Pertanto fu fatto un decreto e Solone stesso fu scelto come comandante della guerra, tanto fu capace di fare con la sua poesia. Il re di Roma Numa, con i versi composti da lui sugli dei e sulle cose divine e cantati nelle cerimonie sacre e nelle feste, trasse quel popolo ferocissimo verso costumi più umani e ad un maggiore culto degli dei. 209. Con i suoi componimenti poetici Empedocle scoprì al genere umano la natura fisica, Doroteo Sidonio621 la natura della scienza astrologica, che in latino furono imitati da Lucrezio e Manilio:622 Cristo santissimo, quanta eloquenza, quanta bellezza, quanto splendore spicca nel primo dei due dai suoi colori brillanti. Rapisce il lettore dove vuole, gli fa approvare il suo intendimento, con arte sublime lo esorta, lo terrorizza, lo incita, infine lo ritrae, con magniloquenza, quando è necessario, con decoro e con quella meraviglia di cui abbiamo trattato, in modo che, ripuliti quei ritmi più rozzi trasmessi dall’antichità, non mi pare che non sia stato all’altezza di quelli con cui in seguito Virgilio illustrò la poesia. Se poi all’altro dei due nel poema astronomico mancò qualche bellezza e fu minore l’ornamento poetico,623 poco fa ha supplito a questa mancanza il nostro Vecchio. Della cui Urania, come penso, giudicheranno i posteri più serenamente, perché so di certo che su di essa il loro pensiero sarà meno prevenuto. Con quali parole o con quale faccia insorgeremo contro la poesia? Essa per prima ha parlato di Dio e ha cantato le sue lodi, ha istituito i riti sacri, donde i primi poeti furono chiamati sacerdoti,624 e ha placato con parole e con canti, e ha insegnato ad aver cura delle cose umane e a comportarsi benignamente verso i buoni, con ira verso i cattivi. Essa spinse per prima gli uomini alla virtù professando l’immortalità dell’anima, essa avviò dalla terra al cielo l’animo dei pii, scacciò nel Tar637

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bonis tandem praemia retribuit, malos poenis postremisque insecuta est cruciatibus. 210. Salve igitur, doctrinarum omnium mater foecundissima; salve iterum! Tu enim mortalitati occurristi inventorum ac scriptorum tuorum perpetuitate; tu e silvis homines eruisti atque e speluncis. Per te noscimus, per te praeterita ante oculos cernimus, per te deum sapimus religionemque retinemus ac pietatem deoque ipsi accepti supernam etiam in sedem ab eo evocamur arasque cum ipso meremur et templa. PUDERICUS. Peregregie quidem, Acti, et pie et sancte, imo et recte admodum, ut, sicuti a religione sermo coepit tuus, in religione quoque idem desinat, quodque fervor perfractus est iam canicularis vocamurque familiaribus a negociis, solventes conventum hunc, et feliciter abeamus et recte valeamus omnes. FINIS.

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taro quello degli empi; essa diede infine ai buoni il premio, perseguitò i cattivi con pene e tormenti. 210. Salve dunque, madre fecondissima di ogni dottrina; ancora salve! Perché tu sei venuta in soccorso della mortalità dei tuoi creatori e scrittori con la continuità della vita; tu hai portato gli uomini fuori dalle selve e dalle spelonche. Per opera tua conosciamo, per opera tua vediamo il passato davanti agli occhi, per opera tua sappiamo di Dio e custodiamo la religione e la pietà, ed accetti a Dio siamo da lui anche chiamati nella sede suprema e insieme a lui meritiamo altari e templi. PODERICO. Magnificamente, Azio, devotamente e santamente, anzi molto correttamente, il tuo discorso, come ha avuto inizio dalla religione, si concluda sulla religione, e poiché il calore della canicola si è interrotto e siamo richiamati dalle faccende familiari, sciogliendo questa riunione andiamo via felicemente e saluti a tutti. FINE

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Aegidius Egidio Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

Il dialogo intitolato al frate agostiniano Egidio da Viterbo, che fu a Napoli in contatto con l’Accademia pontaniana negli ultimissimi anni del secolo XV, e fu poi personaggio di spicco a Roma sotto il pontificato di Giulio II e Leone X, interpreta la più profonda esigenza del dialogo umanistico, nato come strumento per l’esercizio della parola, e per il confronto delle idee attraverso una sorta di responsabilità retorica. L’Aegidius vuol essere, infatti, la dimostrazione di come il progresso dell’arte della parola, sulla linea di un saggio ciceronianismo, abbia coinvolto, oltre le idee fi losofiche e filologiche, la teologia. E infatti, dopo la prima scena nella quale due forestieri, amici del Pontano, Suardino Suardo e Francesco Poeto, raggiungono l’Umanista nella sua dimora ed egli si presenta anche a noi attraverso l’epigrafe incisa sul suo tempietto e il sintetico ritratto dell’amico che lo riconosce da lontano, egli dà inizio al dialogo col ricordo di una elaborata predica di Egidio, dove i fondamenti della religione cristiana, l’Incarnazione e la Redenzione, sono esposti mediante un discorso pieno di suggerimenti agostiniani e di eloquenza. Non c’è in questo dialogo, che in largo senso potrebbe dirsi dottrinale, una tesi che emerga come preponderante nel susseguirsi degli interventi e delle opinioni avanzate dai vari personaggi, nonostante che si tratti di argomenti rilevanti e delicati come quello della fede nella provvidenza o nella necessità astrologica, nel libero arbitrio e nella volontà, nella natura come ordine o come limite dell’ordinamento provvidenziale; forse, in parte, proprio per l’intento di evitare l’urto esplicito delle professioni ideologiche, come di gran lunga avverrà più tardi, in epoca più rischiosa per chi affrontasse argomenti di portata teologica. La sfumatura delle 643

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posizioni diverse produce nel lettore l’impressione di un sostanziale incontro in una sapiente ortodossia. Il religioso Egidio parla della redenzione cristiana e dei suoi presupposti teologici, il Cariteo di creazione e di provvidenza, Francesco Poderico di influssi astrali e di volontà dell’animo, Pontano di influssi astrologici, ma tutti lo fanno in un modo eloquente, ciò che costituisce il superamento del barbaro linguaggio e della dialettica litigiosa della scolastica, tutti pronti invece a riflettere sulla parola e a riconoscere in parole chiave della filosofia e della teologia il loro senso autentico e originario secondo i princìpi della scuola umanistica. Perciò vi si aggiunge armonicamente, nonostante sembri rispondere ad un vezzo di giustapposizione tematica, la discussione su argomenti di filologia e di poetica. Possiamo considerare un incontro epocale, alla fine del primo secolo dell’Umanesimo, quello fra Giovanni Pontano ed Egidio da Viterbo, che ha fatto generalmente presumere, anche ai critici più provveduti, una qualche commozione religiosa venuta ad incrinare una fede naturalistica di stampo essenzialmente aristotelico in seguito ad un impatto con un indirizzo di pensiero decisamente agostiniano e platonico facente capo all’ordine degli Eremitani. Non riproporremo l’argomento della vecchiaia che avrebbe sollecitato pensieri di morte e di eternità, motivi cui il poeta aveva in effetti risposto nel modo più adeguato alla sua vocazione poetica e alla sua religiosità laica e classicistica, almeno col genere letterario dei Tumuli. La capacità di comprendere anche la sensibilità religiosa gli aveva fatto già riservare un posto, nel corpus così vario della sua opera poetica, a un libretto di hymni ai santi. Amore, piaceri, affetti coniugali e familiari, fantasie, mondo terreno e celeste convissero per tutta la vita nella forma sincretica di un classicismo, perfino al limite paganeggiante, ma sostanzialmente non lontano da una sorta di umanesimo cristiano. Un atteggiamento di lunga durata che sopravviverà, almeno nella tradizione intellettuale italiana, ai rigori della religiosità clericale e del razionalismo. Anzi l’eccezionalità di quell’incontro fra un vecchio umanista che aveva assunto dal platonismo quanto potesse accordarsi con la medietas ciceroniana e col naturalismo aristotelico, e un giovane umanista proveniente da una scuola diversa, un religioso oltre tutto, che si apriva a quell’altra sintesi maturata allo studio di libri esoterici della tarda antichità, privilegiando la mistica teologica anziché la fisica tolemaica, sta proprio nella stranezza di 644

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NOTA INTRODUTTIVA

un’amicizia non fondata su quella comunione d’intenti che presuppone la sodalità accademica. Pontano fu colpito più dalla retorica di Egidio, corrispondente alla missione umanistica della persuasione, che dal recupero principalmente filosofico delle dottrine orientali e dalla sconcertante ricerca di verità oscure da decifrare. Aveva ascoltato l’agostiniano penetrare con la forza della parola, con l’iterazione variata del lessico emblematico e pregnante, il miracolo della divina concezione, riportato alla volontà divina e dimostrato attraverso le stesse parole della rivelazione, senza spiegazioni dialettiche e teologiche, e lo aveva ascoltato mentre lui stava invece meditando su ciò che nel mondo è irrazionale e pur vero, dovuto talora (o sempre?) ad un impulso inesorabile della natura. Non da questa problematica teologica egli partiva, pur essendone ben informato: la voce di Egidio che convinceva il popolo fondandosi sul primato della volontà gli fece tornare a mente quel discorso, fino a ricrearlo per farlo ascoltare ai suoi amici accademici come segno di un rinnovamento profondo dell’oratoria sacra. Cosicché il nuovo dialogo Aegidius cominciava con il ricordo, una lunga citazione, ricostruzione o invenzione che sia, di quel discorso tenuto al popolo da Egidio da Viterbo, da cui nasce esplicitamente, o indirettamente, la serie delle discussioni che animano l’Accademia al culmine della vita del suo maestro. Questi ci ha voluto lasciare nel suo ultimo dialogo questa testimonianza, contemporaneamente all’altra, inserita nel trattato De fortuna, dove i temi della casualità, dell’irrazionalità, dell’astrologia, provenienti da una predilezione tolemaica e aristotelica, discordavano dal parere di Egidio che gli mosse qualche critica. È probabile che vi fosse a sua volta, da parte di Pontano, al di là di una forma sostanzialmente morbida di difesa, una riserva nei confronti di metodi esoterici come la cabbala, ma ciò non compare nelle testimonianze fin troppo esplicite dei rapporti fra Pontano ed Egidio. Nel dialogo dedicato al frate, questi interviene non ad esporre una tesi filosofica, ma come rappresentante dell’oratoria sacra, rimanendo un grande assente, ma più presente che mai, se possiamo ricondurre a lui l’intervento sulla efficacia dei sogni, già affrontato nell’Actius dal personaggio di Sannazzaro (Actius, 31-37), anche lui grande amico di Egidio, e quello sulla filosofia ermetica affidato al Cariteo (Aegidius, 38-43). Anche in questo dialogo, infatti, si intercalano argomenti di fi lologia e di poetica, che impegnano Giovanni Pardo, Francesco Pucci e Tamira. Anzi l’intervento 645

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di questi due «forestieri», l’uno proveniente dalla scuola del Poliziano, l’altro da quella di Pomponio Leto, al di là del rispetto con cui sono nominati i due maestri, serve a mettere in evidenza il vanto di affrontare nell’accademia pontaniana questioni alle quali né a Firenze né a Roma si era rivolta l’attenzione. Pontano si fa infatti elogiare da Pucci per aver applicato la retorica alla scienza. E più che un pretesto per introdurre le prime due scene dell’Aegidius è il saluto in nome delle Muse che i forestieri Suardino e Peto danno al vecchio maestro dell’Accademia, ponendo il tema della convergenza fra le custodi pagane della poesia e la figura di Cristo. Sono loro a ricordargli, suscitando la sua riconoscenza, i valori a lui più cari della cultura connettendo le Sirene, simbolo della tradizione napoletana erede della cultura greca e latina, ma soprattutto della scienza secondo la raffigurazione virgiliana e omerica delle mitiche figure quali depositarie della conoscenza del mondo, con le Muse custodi dell’arte della parola. Queste ultime, come le Sirene, appartengono al paesaggio napoletano, dove sono collocate sia la favolosa dimora virgiliana protetta dalla ninfa Patulci, sia l’attuale dimora del nostro poeta, che vi ha collocato l’analoga ninfa Antiniana a proteggere il suo giardino. La scienza naturale dell’antichità si sposa con la religione moderna mediante quell’arte poetica proveniente anch’essa da un’eredità vetusta, e non è un caso che il giardino virgiliano riviva nel moderno giardino pontaniano, come l’immagine dei campi elisi rivivono nel concetto cristiano del Paradiso, secondo una ragione etimologica, ma carica di un profondo significato simbolico: la convergenza fra cultura classica e cristiana, che costituirà un tema successivo, pretestuosamente occasionale, delle pagine centrali del dialogo. In questa rivisitazione del sincretismo patristico vivono l’intento di riassorbire nell’ideologia cristiana i valori della tradizione classica, e insieme quello di esaltare i valori antichi per la loro capacità di simboleggiare le verità della nuova fede. Sta di fatto che il discorso parte dall’evocazione dei miti e si svolge sul fi lo tematico della naturalità della religione, ove la naturalità si confonde con i primordi dell’umanità e questi ultimi s’identificano con la nascita della mitologia antica. Siamo nell’orizzonte della teologia naturale, la formula con la quale nasce la nuova poetica vista come manifestazione dell’originaria sensibilità umana per la religione in quanto legame fra l’umano e il divino. 646

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NOTA INTRODUTTIVA

Il personaggio di Pontano coglie l’occasione dal ricordo di Mariano da Genazzano, Padre degli Eremitani di sant’Agostino, cultore delle Muse cristiane, per far sapere come quell’ispirazione sia stata raccolta da Egidio, e per riferire il sermone di costui, che oltre a porre agostinianamente il tema della redenzione (§§ 8-10) come manifestazione della carità e della volontà divine, ricorre all’analogia con le credenze degli antichi Egizi e con le consuetudini umane per sostenere la plausibilità della scelta fatta Dio di venire col sacrificio in soccorso delle sue creature (§§ 11-12). Non era sconosciuta al mondo antico la credenza nella possibilità che la divinità generi col suo afflato una creatura umana, né che un uomo s’immoli per il prossimo. È ancora il personaggio di Pontano a ricordare non solo un’ode saffica da lui composta nello stile mitologico antico per elogiare Mariano, chiedendo scusa della forma classica, ma in realtà affermandone la legittimità. Come dimostrazione della naturalità della religione egli cita l’esempio del piccolo Lucio, ancora non catechizzato, che di fronte alla luce solare aveva creduto di riconoscervi la divinità. Due modi diversi di sostenere l’incontro fra religiosità e natura nel segno della mitologia, mitologia del cigno che canta il suo ultimo e più bel canto sulla riva dei fiumi sacri come Mariano in Paradiso, e mitologia del sole identificato con la divinità nella genuina fantasia infantile. Ma il senso del discorso si storicizza, quando viene evocata l’inequivocabile credenza antica nell’immortalità della parte superiore dell’uomo, che Pontano chiama sempre animus, non anima, in ossequio a Cicerone, il quale avrebbe pur anticipato il principio fondamentale del Cristianesimo, accanto al motivo così fortunato dell’inizio della civiltà con l’uso delle onoranze funebri, espressione della credenza nell’immortalità. E quando i due nuovi forestieri che appaiono nella seconda scena recano, insieme al ricordo della tomba di Varrone (una curiosità archeologica che sembra inserita per confermare la credenza antica nella funzione religiosa della tomba), la notizia della visione avuta in sogno da un sacerdote, con un messaggio per l’umanità a sostegno della religione da parte di Gabriele Altilio, da poco scomparso (§§ 17-18), è lo stesso Pontano a raccogliere la provocazione contenuta nell’inverosimile discesa di una figura celeste, e a spiegarla come un fatto naturale dovuto alla relazione fra le regioni alte dell’etere e quelle terrestri, respingendo la spiegazione psicologica che ne farebbe una falsa suggestione dei sensi. È un momento 647

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assai delicato del dialogo, perché l’autore s’impegna in prima persona a sostenere la dottrina religiosa della visione come un reale contatto fra la terra e il cielo, ricorrendo – senza ovviamente negare la suprema origine divina dell’oracolo – ad una ragione astrologica, la connessione naturale (una cognazio o, non a caso con raro vocabolo lucreziano, una contages, § 20) che tiene insieme la terra e la regione eterea, per cui in questa si possono formare figure sensibili che portano messaggi di previsioni e raccomandazioni concepiti dagli astri mediatori della volontà divina e autori del fato. La spiegazione astrologica del fenomeno della visione non è insomma finalizzata a sostenere la concezione mistica del sogno rivelatore, ma la compatibilità dell’astrologia quale scienza della natura con la religione: operazione parallela a quella di favorire l’incontro fra mitologia e verità cristiana. Su un altro registro l’operazione era portata avanti nel terzo libro del De fortuna, dopo che il caso e il fato erano stati esaminati in una loro quasi indipendenza dalla religione, o per lo meno nell’autonomia di concetti fi losofici che derivano dall’antichità e possono assumersi come ancora validi. Per ritrovare la continuazione logica del discorso tenuto nelle prime due scene bisogna attendere la sesta e le successive, dove il Cariteo, Pardo, Poderico e lo stesso Pontano intervengono a trattare rispettivamente dell’ermetismo, che sostiene il problema della creazione e della redenzione, in cui rivive il sermone di Egidio, del concetto di «vuoto» connesso col tema della creazione, e dell’astrologia prefigurata nella spiegazione dei sogni rivelatori. Invece una sorta di intermezzo costituito dalle scene III-V viene ad interrompere il discorso col pretesto di una deviazione dal tema dovuta alla consuetudine accademica di variare la discussione. Enfatizzata da Marino Tomacelli che rimprovera garbatamente Girolamo Carbone per aver introdotto di punto in bianco il tema della poesia georgica (§ 30), la deviazione sulla poesia didascalica, e quindi sui grandi modelli di Virgilio e Lucrezio, rivela a sua volta la sottile convergenza con la tematica generale del dialogo. Il ricordo della grande poesia didascalica latina dedicata alla natura in quanto coltivazione della terra e in quanto scienza del mondo materiale riguarda ancora, da altro punto di vista, il tema iniziale delle Muse invocate a rendere gradevole la trasmissione della sapienza, e prosegue nel discorso sulla poetica iniziato nell’Actius, ma lì riferito soprattutto agli aspetti metrici della composizione. Qui Pontano trova l’occasione per far 648

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NOTA INTRODUTTIVA

citare la sua opera georgica appena compiuta, il De hortis Hesperidum, come ripresa dell’antica poesia didascalica con i suoi pregi emblematicamente fissati al principio e alla conclusione dell’opera, che assicurano l’assolvimento delle norme fondamentali del docere, delectare, movere. Allo stesso tempo, oltre a dare un esempio tipico di arte poetica (§ 28-29) trattando delle parti proemiali e finali dei poemi didascalici, il discorso diventa propedeutico all’illustrazione del rapporto fra il simbolo classico e il simbolo cristiano del «giardino», i campi Elisi e il Paradiso, che risponde al problema centrale del dialogo, cioè il riconoscimento di una sostanziale analogia fra il pensiero classico e quello cristiano, nonché la riflessione sulla traducibilità del patrimonio lessicale degli antichi nel linguaggio moderno, con un’apertura al problema delle origini del linguaggio (§ 33). Oltre tutto l’acuta considerazione del carattere simbolico del «luogo» ultraterreno, dove l’anima gode il frutto dei sui meriti, supera consapevolmente l’interpretazione popolare e superstiziosa dei miti religiosi, mentre l’immagine della coltivazione della terra si carica di sensi religiosi quando ad essa viene riferito l’esempio relativo all’acquisizione dei meriti da parte del lavoratore dei campi con evidente allusione evangelica (§ 29). Ma se consideriamo che nel De hortis Hesperidum Pontano aveva introdotto, per rappresentare il giardino ideale, tutto ordine artistico e profumo di poesia, il ricordo di Iacopo Sannazaro alla cui partenza per l’esilio di Francia quella bellezza si era persa per la mancanza di accurata coltura, anche la scena che vede lo stesso autore onorare insieme a Pietro Summonte la memoria del poeta (§§ 35-37), al quale era stata affidata nell’Actius la trattazione del ritmo, acquista un significato nella trama dell’Aegidius. Ma al di là della ripetuta menzione di Sannazaro nelle due opere quasi contemporanee, la sua figura accompagnata da un esempio della sua poesia (fosse o non fosse un componimento autenticamente sannazariano) è l’evocazione di un amico fra i più vicini ad Egidio per cultura, come si vede negli squarci dell’Arcadia aperti ad una religiosità e ad un simbolismo esoterici, che riemergeranno nel De partu Virginis, dove la memoria di Egidio andrà ben oltre l’allusione al frate eremitano accostato alla figura di Agostino. La terza parte del dialogo, costituita dalle scene VI-VIII mette a confronto la dottrina ermetica di Egidio, di cui è portavoce il Cariteo conquistato recentemente dalla lettura dei libri attribuiti a Ermete Trismegisto (§§ 38-43) e l’astrologia, di cui è relatore Francesco Poderico, portavoce del 649

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Pontano (§§ 46-57) ed espressione di una critica alla scienza malintesa degli influssi stellari. Fra l’una e l’altra di queste due sezioni Giovanni Pardo, esperto di dottrina peripatetica, prende lo spunto dal concetto di creazione, svolto dal Cariteo su fondamento biblico e teologico, e in particolare dal concetto del nulla che precederebbe l’opera del verbum (§ 40), per affrontare una prima riflessione riguardante il significato proprio di termini latini compromessi con la filosofia greca, in questo caso quelli di carentia e privatio, e la loro adeguatezza ai termini greci corrispondenti. Si tratta di una questione analoga a quella precedente circa il simbolo religioso del giardino, che comportava una considerazione sia di ordine lessicale sia di ordine ideologico, ma rivolta ad evitare la contrapposizione fra la verità cristiana e la tradizione greco-latina. La citazione autorevole di Cicerone, maestro della trascrizione in latino del lessico greco (§ 45), ribadisce l’intento pontaniano di operare, in profondo accordo con il sincretismo di Egidio, per la convergenza e insieme per la non confusione delle rispettive tradizioni, nella prospettiva di un confronto fra classicismo e cristianesimo. Ma ne risulta anche esaltato l’assunto principale del dialogo, che risiede nel compiacimento di veder convergere le opinioni soprattutto attraverso l’uso appropriato ed elegante della parola. Pontano avvia l’ultima parte del dialogo, dedicata alla discussione sulla correttezza semantica di alcune parole chiave dell’etica e della metafisica, sottolineando l’esito eloquente degli interventi, esemplare quello di Pardo, che aveva affrontato l’arida materia grammaticale con stile, com’era avvenuto nell’esempio predicatorio di Egidio: «Voi stessi avete udito con quanta aderenza al problema specifico, con quanta ornata facondia abbia discusso Pardo» (§ 58). La discussione finale sembra voler evidenziare l’altra faccia di Egidio, il cultore delle lettere greche e latine anche sul piano grammaticale, e non fa che riportare per bocca del personaggio dell’autore, come era avvenuto per la predica iniziale, le cose dette da Egidio «passeggiando nel giardino del monastero di San Giovanni a Carbonara», un luogo religioso che fa da pendent all’edificio fatto costruire dal poeta umanista, il luogo simbolico dell’Accademia di cui si parla ad apertura del dialogo. Egidio tratta della corrispondenza col greco del vocabolo habitus, che è fondamentale nella riscrittura latina dell’etica aristotelica condotta da Pontano; tratta del vocabolo dispositio, termine chiave della composizione retorica; tratta, col medesimo metodo comparativo fra greco e latino, 650

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di complexio e di temperatio e simili, che riguardano aspetti propri dei versanti fisiologico e metereologico della scienza naturale (§§ 58-65). E il suo rammarico è quello di doversi scontrare con l’errore che si fa quando si crede la lingua latina incapace di misurarsi con quella greca nel settore scientifico, un problema che aveva animato la ricerca ciceroniana e che ora tornava, con lo sviluppo della ricerca e la diffusione dei testi greci, ad angustiare i fi lologi. Pucci aveva elogiato Pontano per aver dato la speranza che l’eloquenza si riconciliasse presto con la scienza della natura e con l’astrologia, essendo già accaduto, ancora per opera sua, che l’etica fosse illustrata con dignità letteraria (§ 24). La conclusione, per così dire fi lologica, diretta al lessico e alla semantica, affidata al ricordo dell’insegnamento di Egidio, è ancora un segno della convergenza fra classicità e religione qual era stato all’inizio il mito delle Muse tornate dall’antichità ad ispirare l’arte predicatoria del frate. La difesa dell’immortalità dell’anima e della possibilità che dal cielo provenissero nei sogni dell’uomo messaggi rivelatori, poteva ben iscriversi in una fede comune, di Egidio e di Pontano, nella relazione fra un mondo superiore e di un mondo inferiore in cui si dispieghi la duplice natura dell’uomo, e nel comune rifiuto di un materialismo empirico, che riducesse tutto alle cause naturali. Entrambi coltivavano il mito classico come forma rivelatrice ed espressiva della verità, ma l’uno era sordo al richiamo dell’astrologia e rivolto piuttosto all’interpretazione platonico-cristiana dell’esistenza spirituale dell’uomo, mentre l’altro faceva proprio dell’astrologia, oltre tutto la scienza più vicina alla poetica, il metodo interpretativo della vicenda umana. Si direbbe che Egidio parlasse della realtà dell’anima prigioniera del corpo e Pontano della realtà dell’animus, partecipe col corpo della sua patria celeste. Questa divergenza di cultura non viene attutita, ma esplode proprio al centro dell’Aegidius, fra il discorso del Cariteo e quello del Poderico, proprio come esempio di una convergenza di punti di vista diversi in nome della retorica, ossia della forma comunicativa e persuasiva delle idee. La considerazione astrologica del mondo viene sunteggiata e riproposta nella scena VIII, depurata da ogni frangia superstiziosa. I bersagli polemici sono da una parte il fraintendimento dei matematici e del volgo, illusi di poter ricavare dall’osservazione delle stelle l’indicazione del futuro, e dall’altra la posizione dei fisici che chiamano naturale questo mondo terreno, che è invece regolato dagli astri (§ 19), e si limitano a 651

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considerarne la composizione elementare senza tener conto dell’«azione formatrice dell’etere e dei movimenti celesti» (§ 20). Non manca in questa configurazione del mondo quello stesso platonismo che Egidio armonizzava con Aristotele, nelle forme del classico neo-platonismo emanazionistico, che assegna all’uomo un posto privilegiato, ma nella natura, piuttosto che nelle forme del neo-platonismo pichiano, verso cui Egidio propendeva, che designava l’uomo arbitro di sé fra la terra e il cielo. La differenza, insomma, rimane netta fra Pontano ed Egidio, né il recupero del libero arbitrio può essere guardato come un compromesso fra la tesi astrologica e la tesi che rifiuta il condizionamento degli astri, perché la nozione di libero arbitrio, di indipendenza della volontà, è presente anch’essa nella concezione etica tramandata dai pagani. La convergenza con Egidio avviene sul piano retorico. Nel 1507 Egidio da Viterbo pronunciava la più famosa delle sue orazioni alla presenza di Giulio II e di Emanuele di Portogallo nell’occasione solenne del loro incontro, un momento glorioso per la Chiesa cattolica che si apprestava a varare la definitiva sistemazione della sua sede centrale sul colle Vaticano. La stesura certamente successiva dell’orazione, nota come De aurea aetate, rispecchiava indubbiamente le linee e la sostanza di quella realmente pronunciata, ma con un’ampia ed elaborata fattura inconcepibili in una circostanza reale, nonostante la consuetudine declamatoria dell’epoca, e può considerarsi per la ricchezza e sapienza dei riferimenti classici e biblici la più profonda testimonianza dell’impegno teologico e letterario del frate agostiniano, la cui attività di scrittore, com’è noto, non è in gran parte pervenuta alla stampa. È comunque significativo che proprio nell’ottobre di quello stesso anno usciva postumo il grande omaggio composto per Egidio in forma dialogica da Giovanni Pontano circa sette anni prima; usciva per cura di Pietro Summonte, che in quel dialogo figurava come autorevole protagonista, e che, impegnato com’era a far conoscere attraverso la stampa le opere del maestro dell’accademia napoletana, riteneva che l’attuale grande fama di Egidio avrebbe favorito la fama dell’autore di quell’elogio. E Summonte aveva inteso esattamente il senso del dialogo pontaniano, quando nella lettera dedicatoria della princeps scriveva rivolgendosi a Egidio e ricalcando Cicerone: «Nam cum eloquentium longe sis religiosissimus, id etiam felicitate ingenii consecutus es, ut religiosorum omnium, quoscunque haec tulit aetas, idem facile sis eloquentissimus». 652

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NOTA INTRODUTTIVA

NOTA AL TESTO Dell’Aegidius, pubblicato per la prima volta a stampa per cura di Pietro Summonte assieme all’Actius e all’Asinus presso Sigismondo Mayr nel 1507 (ff. Fvir-Iiiir), l’unico manoscritto che si conservi (Corsini 36 F 16 = C), apografo, reca qualche segno di revisione della stessa mano e in calce la data 1501, riferibile probabilmente alla revisione, che è quindi il termine ante quem della composizione. Questo manoscritto, di cui non si conosce la provenienza, conserva alcune forme ortografiche dell’usus pontaniano, a differenza del testo a stampa, per cui merita qualche considerazione nella costituzione del testo, pur non potendo essere assunto alla base di essa per i suoi errori e perché la princeps potrebbe dipendere da un manoscritto più autorevole che conservasse l’ultima volontà dell’autore, nella ipotesi che egli sia intervenuto sul testo dopo la stesura pervenuta indirettamente all’apografo corsiniano. Infatti il manoscritto Corsini ha conservato una versione, certo precedente e originaria, di due passi che l’autore avrebbe rivisto, ammettendo questa ipotesi, nella copia pervenuta alla stampa. E tuttavia tali passi (§§ 37, 41) potrebbero essere stati rimaneggiati dal Summonte editore, rispettivamente per sostituire il nome di Dionisio Aquosa, scomparso alla vigilia della stampa, con quello di un Elisio Calenzio scomparso nel 1503, poco prima della morte dell’autore, e per correggere espressioni non teologicamente appropriate al racconto sacro della divina concezione. La discussione relativa a questi due importanti episodi della storia del testo, da me svolta nella Nota al testo dell’edizione dell’Aegidius 2013, pp. 26-27, e qui documentata nelle note, non influirà sulla forma di questa edizione per i dubbi che sussistono, e che inducono a riprodurre la princeps, salvo in alcune mende sicure, e in alcune peculiarità dell’uso pontaniano testimoniate dal manoscritto Corsini. Per le possibili conseguenze sul piano cronologico della composizione dell’opera cfr. qui la relativa nota al testo del § 37. Nella Nota al testo dell’edizione 2013 sono state registrate, le principali varianti di Mayr rispetto al manoscritto Corsini, alcune delle quali hanno un particolare interesse perché, a parte i palesi errori, sono la spia di un probabile intervento da parte dell’editore. Se si escludono le lezioni equivalenti e le varianti meramente grafiche di cui non si abbiano esclusive testimonianze del Pontano in un senso o nell’altro, e su cui non è possibile dare un giudizio, se si tratti di un 653

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uso particolare del copista di C, di un intervento correttivo di Mayr o di probabile ravvedimento dell’autore (es. 3 tarentina-tarantina, 10 quantum-quanto, 13 quadriennis-quadrimus, 15 suaserit-suasit, 54 excitatexciat, 67 conferunt-conferent), un caso complesso come quello di § 52 (redditu-reditu), riconducibile a questa stessa alternativa, rivela più che altri una intenzione correttiva da parte dell’editore. La lezione redditu di C (f. 1r), derivata da un redditus non attestato, ma che rispecchia la forma poi affermatasi nel volgare, fatta derivare da redditum (neutro del participio di reddo) piuttosto che da reditus, non è corretta, mentre la forma usata da Mayr (reditu) è corretta in quanto fondata sul latino reditus, che nel senso attestato di «reddito», «provento», ha un corrispondente in volgare antico («redito»). Sennonché proprio per questo la lezione della princeps può provenire da una correzione di Summonte, e meno probabilmente da un’autocorrezione dell’autore; nel qual caso C trasmetterebbe la lezione autentica. Così a § 33 la mancanza, in C (f. 54r), di dei ipsius munere potrebbe far pensare, dato certo scrupolo del Summonte revisore, che C conservi appunto la lezione autentica, in un contesto in cui non sarebbe stato necessario precisare che l’intuizione di Dio sia resa possibile all’uomo solo ad opera della stessa grazia divina (cfr. n. 63). In assenza di un autografo va dato maggior credito alla princeps anche lì dove la lezione di C è confortata dall’uso singolare, o anomalo, ma non costante, di Pontano (45 optimuerit-obtimuerit). Del resto l’uso ortografico di Mayr corrisponde il più delle volte all’uso autografo pontaniano, mentre C se ne discosta, nella separazione delle enclitiche dal corpo della parola (nam, ne, ve) o dei pronomi raddoppiati (se se, me me), e nell’uso di litera con la t scempia (ma, come C, anche Summonte copista dell’Actius usa la doppia). È conservato invece da C, contro Mayr, l’uso ortografico pontaniano, ben attestato, di Virgilius. Fa risalire all’autore invece, verosimilmente, l’accordo di Mayr e C sul mancato uso delle lettere greche, su forme alternative come fece (faece), quo minus (quominus), non dum (nondum), sull’uso anomalo di edisertavit per edissertavit, di heremita, per eremita, nonostante Pontano nel De aspiratione (Aldina, Venezia 1519, II, c. 19r) sostenga la forma non aspirata, consumata per consummata, hilariam per hilaram (corrette entrambe da Previtera, ma si veda hilariusculus, De sermone, IV), huberiore («ab humendo», ivi, c. 27v), cui forse va aggiunto caeram, col dittongo 654

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NOTA INTRODUTTIVA

poi eliminato in C (§ 44; f. 58r). Al § 63 è probabile, pur nell’accordo fra i due testimoni, una svista dell’autore che l’edizione Previtera corregge (tum coactae per sive coactae).

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Per la biografia del frate agostiniano, cui è intitolato il dialogo, si veda G. ERNST, Egidio da Viterbo, in DBI, 42, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 341-353. Sulla gamma degli interessi culturali di Egidio, cfr. G. SAVARESE, Un frate neoplatonico e il Rinascimento a Roma, Roma nel Rinascimento, Roma 2012, e sulla convergenza fra humanae litterae e pietà cristiana nel contesto romano, R. ALAHIQUE PETTINELLI, Bonorun atque eruditorum cohors: cultura letteraria e pietas nella Roma umanistico-rinascimentale, Roma nel Rinascimento, Roma 2011. Sull’epidittica romana fra Quattro e Cinquecento cfr. S. BENEDETTI, Ex perfecta antiquorum eloquentia: Oratoria e poesia a Roma nel primo Cinquecento, Roma nel Rinascimento, Roma 2010. La più famosa delle orazioni di Egidio, del 1507 è edita da J. W. O’ M ALLEY, Fullfilment of the christian golden Age under pope Julius II: Text of a Discours of Giles of Viterbo, 1507, in «Traditio. Studies in ancient and Medieval History, Thought, and Religion», vol. XXV, New York 1969: circa la sua qualità retorica, cfr. F. TATEO, L’orazione de aurea aetate, 2014. G. TOFFANIN, Giovanni Pontano fra l’uomo e la natura, 1938 (con in appendice il dialogo Aegidius tradotto da V. Grillo) impostò acutamente il discorso critico sul divario fra la scienza astrologica di Pontano e la dottrina trismegistica. Cfr. F. TATEO, L’Aegidius di Giovanni Pontano 1969; B. BARBIELLINI AMIDEI, Per la lettura dell’Aegidius, 1999; M. DERAMAIX, Musae Mysticae. Gille de Viterbe, Sannazar et Pontano, 2016. Il nostro discorso riprende sostanzialmente l’Introduzione a G. PONTANO, Aegidius. Dialogo, 2013. Ha esaminato alcuni concetti su cui verte l’ultima parte del dialogo, ma riguardanti tutta l’etica pontaniana, C. CORFIATI, Habitus, Habitudo, Habentia, 2016. Sulla complessa questione della figura del Pucci e del suo ruolo nell’ambiente napoletano, cfr. ID., Un corrispondente fiorentino da Napoli: Francesco Pucci in Poliziano e dintorni, a cura di C. Corfiati e M. de Nichilo, Cacucci editore, Bari 2011, pp. 65-112. Per la citazione di Duns Scoto cfr. De fortuna, III 6, 5 e nota; per il riferimento alla teologia naturale: G. BOCCACCIO, Genealogia deorum 655

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EGIDIO

gentilium, XV VIII; e per la convergenza fra classicità e Cristianesimo: CICERONE, Tusc. 1, 8, 19, 65; Div. 2, 129; De republica, 6, 29 (Somnium Scipionis). Sulla teoria cosmologica contenuta nei versi di Ovidio citati a proposito dell’incipit, cfr. F. TATEO, Ovidio nell’“Urania” del Pontano, 1995. La dedica ad Egidio dell’edizione del dialogo (P. Summontius Aegidio Augustiniano Heremitae S.) nella princeps, riprodotta in G. PONTANO, I Dialoghi, a cura di Previtera, 1943, p. 243, interpreta perfettamente il senso del dialogo chiamando Egidio «Cicerone cristiano» e aggiungendo «poiché sei il più religioso degli eloquenti, hai potuto conseguire per la felicità del tuo ingegno, di essere facilmente anche il più eloquente di tutti i religiosi che i nostri tempi abbiano prodotto». Sull’importante rapporto fra Egidio e il poema sannazariano che interpreta il senso dell’eredità pontaniana consegnata a questo dialogo, si veda M. DERAMAIX, La genèse du De partu Virginis, 1990. FRANCESCO TATEO

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Aegidius (incipit), 1507

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DIALOGUS QUI AEGIDIUS INSCRIBITUR

COLLOCUTORES

I SUARDINUS, POETUS, PONTANUS.

1. SUARDINUS. Et aedes ipsas agnoscimus, quales urbem intrantibus descripsere nobis qui portarum praefecti sunt custodiae et turrim suspicimus, quadrangulam eam quidem atque in sullime editam, imminentemque quadrivio atque in loco urbis maxime celebri et nobili vocitantque eam pontanianam. Quid quod titulus nescio quis (neque enim oculis satis bene utor) cuiusnam aedes hae ipsae sint vel declarare vel etiam attestari nobis abunde potest? Lege, obsecro, ac recita. POETUS. De pulvere adhuc et ipse caligo aliquantum; suffricabo itaque oculos excutiamque supercilia; ac, per Iulianum, hospitalem divum, cuius ab urbis haud procul portis templum venerati sumus, eius ipsius Ioviani hae sunt aedes, eius ipsius turris ac frequentata Porticus. Titulum iam examino oculis, acie iam percurro, iam recito: Haeres, successor, dominus harunce aedium quiqui futurus es, ne te, ne pudeat veteris neu pigeat domini has qui sibi paravit: coluit is literas, coluit artis bonas, coluit et reges; coluerunt eum probi iuvenes, senes probi; probaverunt et domini integritatem, fidem, mores animi bonos. Etenim talis fuit Iovianus Pontanus, prisci reliquiae temporis. vixit ipse et sibi et musis, sic vivas ipse et tibi et tuis, sic liberi superent. qui si lapidi huic iniuriam iniurius feceris, irati dii sint tibi.

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO DIALOGO EGIDIO

I SUARDINO,1 PETO,2 PONTANO. 1. SUARDINO. È proprio questa, la riconosciamo, la casa, come ce l’hanno descritta all’ingresso in città i custodi delle porte; ma vediamo anche, precisamente, la torre quadrata che si eleva sovrastando il quadrivio, nel più frequentato e celebre luogo della città, e che comunemente chiamano «pontaniana».3 Ma quella iscrizione che non riesco a decifrare (perché la vista non tanto mi aiuta), non ci potrebbe far conoscere o perfino attestare a chi appartiene questa abitazione? Leggi, di grazia, ad alta voce. PETO. Per via della polvere anch’io vedo un po’ ombrato. Per cui mi fregherò gli occhi e batterò le sopracciglia. Per l’ospitalità di San Giuliano, di cui abbiamo visitato con venerazione la chiesa4 non lontano dalle porte della città, questa abitazione è proprio di Gioviano, ed appartengono a lui la torre e l’accorsato portico! Ora vedo bene l’iscrizione, ormai la scorro con gli occhi, te la leggo: Erede, successore, signore di questa casa, chiunque sarai, non ti vergognare, non ti dispiacere del vecchio che se l’è fatta edificare; egli onorò le lettere, onorò le belle arti, onorò anche i re. Lo riverirono i giovani onesti, i vecchi onesti apprezzarono la integrità, la lealtà, la moralità d’animo del suo signore. E infatti Gioviano Pontano, sopravvissuto al tempo antico, fu tale. Egli visse per sé e per le Muse, così possa tu vivere per te e per i tuoi, così i figli ti sopravvivano. E se tu ingiustamente recherai ingiuria a questa lapide, gli dei si adirino con te.5 659

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AEGIDIUS, I

2. SUARDINUS. An fortasse ille ipse Iovianus est, solus pro foribus qui deambulat? Idem habitus, idem incessus, eadem statura et comptus, perinde ac nobis verbis exculptus fuit, nisi quod pede altero minime claudicat; quod fortasse sobrietas illi abstulit sanavitque diligentia quod casus intulerat vitium visque illata extrinsecus. Quid quod meditatum nescio quid vel ipse secum immurmurat deambulans, vel mihi ut oculi sic aures quoque et ipsae caligant? Admovebo me propius, auscultabo propinquius. Proh, dii immortales, dignam gravitate viri sententiam, dignum et poeta eodemque philosopho carmen: Desine sollicitare Deum ac vim afferre precando, Cui privata hominum, cui sit quoque publica cura!

Nec vero sententiae huius vis ea est ut deo ipsi supplicandum ne sit, sed quod permittenda ei libere nostra sint omnia, quippe qui quid utile, quid inutile sit cuique et cognitum habeat et examinatum, cum saepenumero et expetantur et summo etiam cum labore quaerantur a nobis quae paulo post futura sunt minime utilia ac nonnunquam vel maxime etiam nocitura. Quid quod, ut ipse quidem vides, senilem post deambulatiunculam assedit in hemicyclo? Quocirca peropportunum nobis offertur congrediendi eius tempus ac salutandi. 3. POETUS. Peropportunum, ut dicis, quodque natu maior ipse quidem es, partibus tuis utere. SUARDINUS. O salve multum ac diutius bonis vive hominibus, bone senex, et quod, ut ex vultu coniicimus, facis, vitam hilariam duce. PONTANUS. Et venire sospites vos ac valentis est diis quod agam gratias, et mihi congressio istaec vestra grata est admodum ac periucunda. Heus autem, pueri, situlam capite frigidamque haurite e puteo. Vos, boni hospites et nostrum, ut video, peramantes, refrigerate manus limpidissima hac et frigentissima, abluite et ora et oculos. At vos molluscas illas sive nuces, sive persica poma, sive terentina huc afferte. Sumite, iucundissimi viri, has nostras de insitionibus fruges et sitim sedate, atque aestus nostrarum e liquore vitium, quae nobiscum consenuere; eas enim adolescentes pene sevimus, nec semel etiam iteravimus effecimusque

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2. SUARDINO. Non è, forse, proprio quel Gioviano, quel tale che va su e giù da solo dinnanzi all’ingresso?6 Quel portamento, quella camminata, quel personale e quella pettinatura corrispondono perfettamente alla descrizione, quasi la rappresentazione scultorea che ce ne hanno fatta; senonché ha un piede che zoppica, impercettibilmente, forse perché la moderazione gli ha tolto e la buona volontà gli ha sanato il difetto dovuto alla caduta e alla violenza del colpo che ha preso. Ma quali pensieri va mormorando fra sé e sé mentre passeggia? O gli orecchi mi si ottundono come fanno gli occhi? Mi voglio appressare e ascoltarlo più da vicino. O dei immortali! Che massima degna della gravità del personaggio, e che versi degni insieme di un poeta e di un filosofo: Non annoiar più il cielo, né con le preghiere forzarlo, Ché gli sta a cuore l’uomo in pubblico come in privato.7

Veramente il senso di questa massima non è che non si debba implorare Iddio, ma che gli si debba affidare volentieri tutto di noi, a Lui che conosce perfettamente ciò che è utile o inutile a ciascuno, mentre noi spesso ci attendiamo, e richiediamo anche con eccessiva insistenza, cose che sono destinate ad essere subito dopo di nessuna utilità e talora perfino del tutto dannose. Ma, come vedi, dopo la passeggiatina da vecchietto, si accomoda sul sedile; ci si offre perciò una magnifica occasione di avvicinarlo e salutarlo. 3. PETO. Magnifica, come dici; e poiché sei tu il più anziano, fa quel che devi. SUARDINO. Tanti saluti a te, con l’augurio di vivere di più per gli uomini buoni, o buon vegliardo, e, come dal tuo viso immaginiamo che già fai, di condurre una vita gioiosa. PONTANO. Grazie a Dio giungete sani e salvi; non solo, ma questo incontro con voi mi riesce assai gradito e piacevole. Olà, ragazzi, prendete il secchio e attingete l’acqua fresca dal pozzo. Voi, cari ospiti, a cui, come vedo, siamo tanto cari, rinfrescate le mani con quest’acqua così limpida e fresca, e lavatevi il viso e gli occhi. E voi portate qui le noci mollusche, o le pesche, o i pomi terentini.8 Prendete, carissimi, questi frutti che provengono dagli innesti, e alleviate la sete e l’arsura col succo delle nostre viti invecchiate con noi. Le abbiamo piantate quand’eravamo giovani, ma le abbiamo iterate e rinnovate, non una sola volta; e ciò nonostante 661

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novellas, ac nihilominus aetate nunc queruntur de senecta. Agite igitur, haustillate penulli nostri non rhetica illa Virgilii aut Horatii caecuba pocula, sed nostratia haec, tum Sorbinia, tum Montonica. Mihi credite, refrigeratione ex ipsa laudabitis iuveniles nostros excolendis iis labores operasque pro rusticae rei institutione colendique arbusti praeceptis impensas. Agite, optimi viri, iterate sorbillationes et conquiescite post desudatos labores apud hospitem benivolentem et peregrinari consuetum. SUARDINUS. Mihi quidem ex ablutione refrigerati sunt oculi. POETUS. Et mihi totum quidem e sorbillatione sussultat corpusculum. 4. PONTANUS. Bene habet, consedite ambo vestrumque uterque sic existimet, senis huius exiguas esse pro laboribus proque eius in reges meritis opes resque ipsas domesticas, amicis tamen communes, ac si non lautissimas, profluentes tamen atque amicorum usibus expositas. Utimini iis et hospitii iure et literarum; Musarum enim hae, idest Christi Optimi Maximi, sunt munera. Nec vero hilaritudinem hanc in sene tam fortasse mirabimini (quanquam et senectus ipsa per se tristior est et ego meopte ingenio minus sum iocis deditus ac festivitati) quam, ut arbitror, commendabitis, quod, mortuo nuper Petro Compatre, quicum annos circiter sexaginta amicissime vixi, coniunctissimis vitae studiis ac laboribus, et laetor illum humanis his miseriis potius quam molestiis liberatum iam esse et me propediem iter idem ingressurum fruiturumque eadem libertate et ocio coelesti illo quidem ac sempiterno. Sed vos cuiates nam ostia et huc ad nos unde? SUARDINUS. Mihi patria est Bergamum, nomen Suardino, huic vero Poeto, quo quidem cive merito gloriatur frequentissimum oppidum quondam Fundi, quos, ni displiceat, appellare ausim varronianos, quorum in agris hodie quoque extent hortorum eius vestigia famaque sic teneat testenturque aedificia. Iter vero e Roma susceptum est nobis, quo terram hanc viseremus, Sirenum prius altricem, posterius vero Musarum. 5. PONTANUS. Amabo, hospites peramoeni, lenocinari ubinam tam urbane didicistis, qui me et Sirenum commemoratione et Musarum ad vos amandos etiam non ante visos nec cognitos tam blande allicitis? Et

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ora si lamentano della vecchiaia. Su, dunque, centellinate, ragazzi miei, il vino della nostra cantinetta9 non certo il famoso vin Retico di Virgilio o il Cecubo10 d’Orazio, ma questo nostrano, che sia Sorbinio, o Montonico;11 e, credete a me, una volta rinfrescati, apprezzerete il lavoro che abbiamo fatto da giovani quando le abbiamo coltivate, queste viti, e le fatiche spese per formare gli agricoltori e per impartire insegnamenti sulla coltivazione degli arbusti. Su, bravissimi, ancora un sorso e un sorso ancora, e riposate, ché siete sudati e stanchi, presso il vostro ospite che vi vuol bene ed è abituato ad andar vagando fuori del proprio paese. SUARDINO. A me, dopo essermi lavato, gli occhi si son rinfrescati. PETO. Ed io, dopo aver bevuto, mi sento il fisico pieno di energia. 4. PONTANO. Così va bene; sedete tutti e due, e siate pur certi tutti e due che, di fronte ai servigi e ai meriti acquisiti presso i regnanti, son poche le risorse di questo vegliardo e le proprietà di famiglia; ma esse, sia pure non molto laute, sono a disposizione tuttavia degli amici. Usatene, dunque, in nome dell’ospitalità e della cultura: sono doni delle Muse, cioè di Cristo nostro Signore. Ma forse voi non tanto vi meraviglierete di trovare in un vecchio tutta questa gioiosità (sebbene la vecchiaia sia di per sé piuttosto triste, ed io, per mia natura, sia poco dedito allo scherzo e all’allegria), quanto, come penso, approverete il fatto che – morto poco fa Pietro Compatre,12 col quale13 son vissuto, per circa sessant’anni, nella più grande comunanza di studio e di laboriosità – non solo gioisco per la sua liberazione dalle noie, o piuttosto, miserie, di questo mondo, ma per il mio prossimo avvio sullo stesso cammino, e il godimento della medesima libertà e del medesimo ozio celeste ed eterno. Ma voi di che14 paese siete, e da dove venite? SUARDINO. La mia patria è Bergamo, e mi chiamo Suardino, mentre questi si chiama Peto, ed è giusto che si vanti di averlo come cittadino la città di Fondi, una volta popolosissima, e che, se volete, oserei chiamare di Varrone.15 Difatti, ancor oggi in quel territorio rimangono le vestigia dei suoi giardini, e così ritiene la tradizione ed attestano gli edifici. Ma il viaggio è iniziato da Roma, con l’intenzione di visitare questa terra, nutrice prima delle Sirene, poi delle Muse.16 5. PONTANO. Di grazia, carissimi ospiti, dove mai avete imparato a lusingare con tanta civiltà e grazia da indurmi con tanta dolcezza, nominando le Sirene e le Muse, a trattarvi da amici, pur non avendovi prima né mai visti, né conosciuti? È vero, le famose Sirene abitarono 663

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Sirenes illae quidem loca haec tenuere, quae, ut Cicero noster ex Homeri dictis tradit Tum grave certamen belli clademque tenebant, Graecia quam Troiae divino numine vexit, Omnia tum e latis rerum vestigia terris;

vel (ut Homeri verba poeticis sine numeris propriora reddam) sciebant quaecunque in terra gererentur, rerum plurimarum parente atque altrice. Et Homerus ipse declarat eadem quoque loca Musas incoluisse, cum illa ipsa Sirenibus tribuit, quae sunt Musarum. Quorum enim numinum nisi harum ipsarum est scire quae sit rerum quae in terra fiunt, geruntur gignunturque natura? Id quod apertius multo ac luculentius Virgilius expressit, cum dixit Me vero primum dulces ante omnia Musae, Quarum, sacra fero ingenti perculsus amore, Accipiant coelique vias et sidera monstrent, Defectus solis varios lunaeque labores, Unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant Obiicibus ruptis rursumque in se ipsa residant, Quid tantum Oceano properent se tingere soles Hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet,

quaeque alia maximo a poeta, tanta cum gravitate et verborum et sententiarum referuntur. Sed me fortasse ad hos ipsos congressus praedia invitant mea Virgilianis finitima, cum etiam illorum cultrix Patulcis fuerit, nympharum hortensium peritissima, cuius viculus ipse hodie quoque nomen retineat, meorum vero Antiniana, non tam hortensium deliciarum perita quam sive admiratrix sive studiosa. Sed quid quod in hac ipsa Musarum commemoratione vestrum utrumque lacrimas vix tenere iam video? 6. SUARDINUS. Equidem ego, pro Poeto quoque ut respondeam, ipso Musarum nomine excitus sum ad lacrimas Mariani heremitae memor

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questi luoghi, ed esse, come il nostro Cicerone racconta usando le parole di Omero: Ben conoscemmo allora l’orribile guerra e la strage, che a Troia i Greci addussero per volere divino, e d’ogni cosa i segni rimasti per tutta la terra.17

O, per rendere in prosa con maggiore proprietà le parole di Omero,18 «sapevano tutto ciò che nasce sulla terra, genitrice e nutrice di una molteplicità di cose». Ed anche Omero afferma che gli stessi luoghi furono abitati dalle Muse, dando alle Sirene gli stessi attributi delle Muse. Quali deità, infatti, se non proprio queste, hanno la prerogativa di conoscere la natura delle cose che accadono, che sono generate e prodotte sulla terra? Questo stesso pensiero espresse Virgilio in modo molto più chiaro e brillante quando disse: Prima di tutto le Muse che sopra ogni cosa son care, giacché i lor sacri riti osservo con gran devozione, m’accolgano, e le vie mi mostrin del cielo e le stelle, l’eclissi varie del sole e i decrementi lunari, donde il tremor della terra, e il mar che si gonfia, profondo, e dopo, gli argini infranti, al suo luogo ancora ritorna perché nell’Oceàno s’affretti d’inverno a calare il sole, o qual ritardo si oppone alla notte che indugia.19

Ed altro ancora disse il sommo poeta con tanta profondità nelle parole come nei pensieri. Ma forse a un discorso di questo genere m’induce la confinanza dei miei poderi con quelli di Virgilio. Giacché a coltivare anche quelli fu la più dotta delle ninfe dei giardini, Patulci,20 dalla quale tuttora prende il nome quel piccolo borgo; mentre a coltivare i miei è Antiniana, più ammiratrice ed amante che esperta nelle delizie dei giardini. Ma perché, al solo ricordo delle Muse, già vedo che tutti e due non potete trattenere le lagrime? 6. SUARDINO. Io, in verità, per rispondere anche a nome di Peto, solo a sentir nominare le Muse sono spinto alle lagrime, ricordandomi di frate Mariano21 che, morendo in questi luoghi con sommo rimpianto di tutti

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factus, qui nuper maximo cum desiderio Christianorum omnium, Italiaeque praesertim totius, his in locis diem obiens naturae concessit, dum Musas in iis christianas et colit venerabiliter et illarum secreta per divorum templa perque aedium sacrarum pulpita mortalibus et enucleatissime aperit et suavissime etiam decantat. PONTANUS. Sistite, amabo, lacrimas ac viri potius Manibus gratulamini, qui nunc coelestibus cum Musis arcana Dei introspicit, vel fruitur illis potius, eaque Aegidio, coniunctissimo sibi homini, Musas per ipsas inspirat; quarum hic sacra christiano etiam ritu et pientissime colit et decreta etiam eloquentissime interpretatur divulgatque inter populos, ut ea, quae nuper lustricis diebus, in conventu innumerabili etiam cuiusquemodi generis mortalium, edisertavit; quae nunc si retulerim, sat scio non me exiguum vobis Mariani obitus solamen allaturum; nequaquam tamen ut qui vim assequi ac copiam dicentis eius valeam (siquidem sermo hic noster porticibus tantum assuetus est paucorumque consessionibus, cum illius ex ore videri possit scatere fontis fluminaque ingentia demanare), verum degustatione ut ex ipsa intelligatis quem Marianus successorem reliquerit quemque sibi post illius obitum christianae Musae antistitem cooptaverint. Dicam igitur, hunc quoque fructum referendis iis vobiscum etiam ipse collecturus, quod conceptum interim ex itinere aestivisque pulveribus laborem ac molestiam sedendo atque audiendo levabitis. SERMO AEGIDII AD POPULUM.

7. «Nequiit, o viri christiani, vetus illa philosophia boni ipsius speciem intueri vel bonum ipsum potius et summum et consummatum, quippe cum Christus esset neque ab antiquis philosophis visus neque ab illis aut auditus aut cognitus. Ille nanque ipse ex illoque perque illum bonum existit ipsum, deque illius fonte bonitas omnis manat defluuntque bonorum omnium rivi. Multo autem minus potuit veritatem agnoscere, quando idem ipse Christus veritas est, nec bonum aut videri aut intelligi nisi per veritatem potest. Idem ipse igitur Christus et veritas est et bonum, in eoque utriusque, et veri et boni collocata est species, ex eoque et verum demanat et bonum, ac per eum et veritas ipsa agnoscitur et boni ipsius natura qualis sit quaeque etiam sive species eius sive idea.

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i cristiani e specialmente di tutta l’Italia, si è sottomesso alla legge naturale; e questo mentre vi coltivava con venerazione le Muse cristiane e nei santuari e sui pulpiti delle chiese ne svelava agli uomini i misteri con grande semplicità, e anzi li faceva risuonare con la straordinaria soavità della voce. PONTANO. Frenate le lacrime, per cortesia, e congratulatevi piuttosto con l’ombra di un uomo che ora, insieme con le Muse celesti, penetra nei segreti divini o, meglio, ne gode e attraverso queste stesse Muse li trasfonde in Egidio, suo intimo amico. Questi, a sua volta, con rito cristiano e con somma pietà, ne venera i misteri e ne interpreta con eccezionale eloquenza i precetti, divulgandoli fra la gente; come ha magnificamente fatto in quel discorso tenuto di recente durante i giorni di purificazione e di digiuno, dinnanzi a un’innumerevole folla convenuta, persone di ogni ceto sociale. Che se io ora ve lo riferissi, so per certo che riuscirei a darvi non poco sollievo della morte di Mariano, quantunque io non sarei certamente capace di raggiungere la forza e la facondia di un tale oratore, essendo la nostra oratoria avvezza soltanto all’accademia e al ritrovo di pochi, mentre dalla sua bocca sembrerebbero scaturir fonti e fiumi ingenti di eloquenza; eppure perfino da questo assaggio potreste intendere quale successore Mariano abbia lasciato e quale sacerdote le Muse cristiane abbiano scelto al suo posto dopo la sua morte. Ve ne riferirò, comunque, qualcosa, sperando, nel riportare il suo discorso, di ottenere anch’io un risultato, che voi, riposando e ascoltando, vi rinfranchiate dalla fatica del viaggio e dalla noia della polvere estiva. DISCORSO DI EGIDIO AL POPOLO.

7. «Non fu possibile, o Cristiani, all’antica filosofia avere l’idea del bene in sé o, piuttosto, avere la visione del bene in sé, sommo e perfetto, non essendo stato Cristo né visto dagli antichi filosofi, né udito o conosciuto da loro. Egli stesso, infatti, è il bene, e da lui e per lui lo stesso bene esiste, dalla sua fonte emana ogni bontà e scorrono i rivi di ogni bene: meno che mai le fu possibile poi conoscere la verità, poiché è Cristo stesso la verità, e il bene non può esser visto o percepito se non mediante la verità. Pertanto, Cristo stesso è la verità e il bene, e da lui emana il vero e il bene: ed è attraverso lui che si conosce non solo la stessa verità, ma anche quale sia la natura stessa del bene ed inoltre quale 667

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Minime vero omnium vetustas illa in tenebris constituta cum esset, versari in luce potuit. Veritas autem ipsa luculentissima cum sit, neque quicquam aut sciri aut intelligi nisi per veritatem queat, sitque veritas ipsa Christus, nimirum et lux ipsa Christus est. Idem igitur Christus et bonum et veritas et lux est, idem quoque et vita. Vivere enim vere dicendus is est qui et solum quidem et semper est; qui autem est eiusmodi semper vivit, quoniam semper est, cum coeteris quidem omnibus usu veniat aut esse quandoque coepisse aut aliquando contingat fore. Quin et quae fuere et quae futura sunt quaeque aliquando coeperunt ab eo necesse est esse, ut quae et fuerint et futura etiam sint ab illo, qui semper ipse quidem est; deque eo tantum dici et recte et vere quod est potest. 8. Ille igitur ipse vivere solus dicendus est, illi etiam soli vitae nomen ascribendum. Quis hic autem nisi Christus est? Qui cum patre quidem suo semper est, ad eum ipsum si respicias; sin ad homines, et fuit cum patre ipso semper et cum eodem ubique futurus est. At mortuus est Christus; nobis quidem ac corpori mortuus, sibi vero nunquam. Qua enim via moriatur qui ipse quidem vita est? quo etiam pacto extinguatur qui lux est? quove modo esse desinat qui et solum et semper est? At pependit in cruce; pependit ante quia voluit, voluit vero quia bonus est. Quid hoc igitur mirum, quando ipse etiam bonum est, cum boni ipsius proprium sit bene facere? Quodnam autem beneficii genus conferri maius potest ab urbium rectoribus ac populorum, quam ut pro eorum salute vitam ipsi suam obiectent periculis? Atqui maius fortasse beneficium illud fuit voluisse nasci subireque hominis munus, quam mori; nam ex quo subire hominis conditionem voluit, ut mortem quoque adiret par quidem fuit; quando hac ratione succurrere hominum generi maxime voluit neque maius homo homini conferre beneficium potest, quam ut vitam pro illo obiectet. 9. Deus igitur cum sit ipse beneficentissimus, quo nullum profecto beneficentius sit, conferre in hominem munus decrevit. An fortasse ut parum pius, ut generis hominum neglector, quorum quidem esset amantissimus, quos ipse in lucem genuisset quo vitae fruerentur muneribus, eosdem pateretur a tenebris submergi et sub morte perpetua laborare caligantes? In-

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ne sia l’essenza o l’idea. Meno che mai l’antichità, collocata com’era nelle tenebre, poté vivere nella luce. Essendo, poi, la verità stessa il massimo della luminosità, e non potendosi né conoscere né comprendere alcunché se non mediante la verità, ed essendo lo stesso Cristo la verità, Cristo è, certamente, la luce stessa.22 Cristo, dunque, è il bene, la verità, la luce ed anche la vita. Giacché si deve dire che veramente viva colui che solamente e sempre è; chi è tale, infatti, vive nell’eternità, perché è in eterno; mentre a tutti gli altri può accadere o di aver cominciato una volta ad essere, o di dover essere una volta. Anzi, le cose che sono state, quelle che verranno e quelle che una volta hanno avuto principio, derivano necessariamente da lui, così come quelle che sono state, ed anche quelle che verranno hanno avuto origine da lui, che sempre è di per sé, e del quale solo si può correttamente e veramente dire che «è». 8. Lui solo, dunque, si deve dire che vive, ed a lui solo attribuire la «vita». Ma chi è lui, se non Cristo? Egli è sempre col Padre suo, se lo si considera rispetto a lui; che, se lo si considera rispetto agli uomini, è stato sempre col Padre e con lui sarà, dovunque che sia. Ma Cristo è morto; morto sì, per noi e per il corpo, per sé giammai.23 Poiché, in qual maniera può mai morire colui che è la vita stessa? E in qual modo può estinguersi chi è la luce stessa? E come potrebbe mai cessare di essere colui che solamente e sempre è? Ma fu crocifisso; fu crocifisso prima perché lo volle; e lo volle per sua bontà. E che c’è di strano, essendo lui stesso la bontà, ed essendo proprio della bontà fare il bene? Poiché, qual beneficio maggiore può farsi da parte di chi governa città e nazioni, che quello di esporre ai pericoli la propria vita per salvarle? Eppure fu, forse, maggior beneficio quello di aver voluto nascere e sottostare al carico dell’uomo, che non quello di morire: infatti, volendo sottostare alla condizione di uomo, dovette necessariamente affrontare anche la morte; giacché volle soprattutto in questo modo venire in soccorso del genere umano, né uomo può fare al suo prossimo un beneficio maggiore che sacrificando la vita per lui. 9. Iddio, dunque, essendo in sé la somma beneficenza, decise di fare all’uomo un dono il cui beneficio non può essere superato da nessun altro. O possiamo forse pensare, che, poco pietoso e noncurante degli uomini, a lui invece assai cari, che aveva messi alla luce per far godere loro i doni della vita, permettesse che venissero sommersi dalle tenebre e soffrissero di una vista annebbiata sotto il peso di una morte eterna? 669

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ter tyrannum quidem bonumque rectorem ac regem hoc interest, quod ille asper, acerbus, insolens in subiectos est, incedit stipatus satellitibus, non patitur se ab illis adiri, insectatur illorum flagitia, non ut corrigat, verum ut rapiat, torqueat, enecet, at hic et commonefacit errantes et clementia in illos utitur, ac non solum in conspectum admittit aditum ad se petentes, verum aegrotantes illos visitat, dolentes praesens solatur, adversis in rebus coram et adhortatur et illis adest, participemque se se moeroris exhibet ac molestiarum. At Deus optimis et principibus et regibus omni genere humanitatis, benivolentiae caritatisque maior ac potior est. 10. Voluit igitur, quo parte ex omni munus suum impleret, subire hominis officium et ut homo quoque inter homines versari caritatemque suam quo maiorem ostenderet, pati etiam illa quae essent hominum. Quid tu hic oblatrabis, o ingratissime homuntio? An quod necesse esset Deum illa pati? In Deo tunc mihi eiusque in voluntate necessitatem praetendis, qui nullis indigeat, nullam aut parem timeat aut maiorem potestatem? Quam tu necessitatem deblateras? benivolentia illa quidem fuit, pietas, amor, caritas. An Decios, patrem, filium, nepotem necessitas traxit pro Romano se ut populo devoverent? An alios etiam cives popularesque inclytarum et urbium et populorum? Amor, mihi credite, amor et boni publici studium traxit illos ad mortem voluntariam. Incurrit sponte in venatoris spiculum lea pro tutandis catulis, incurrunt sues, neque omnes tamen aut sues aut leae, sicuti inter cives, nec omnes quidem pro patria ruunt in ferrum, aut, ut Virgilius ait, pro libertate, sed optimus ac generosissimus quisque. Videlicet Deus Optimus Maximus, pientissimus, beneficentissimus vinci se ab optimo cive patietur, cum ipse non civium aut contribulis sit aut aequalis aut ut e multitudine unus, verum pater, educator, rector? Quid igitur de necessitate oblatras? quae caritas quidem est, ac paterna etiam caritas; ac tanto etiam paterna affectione maior, quanto Deus ipse rebus omnibus praestat nullisque aut indiget aut subiectus est, minimeque aut precaria eius potestas est aut vicaria, sed omnium ut maxima sic etiam arbitraria. 11. At quis cogat Deum humanas subire solicitudines atque affectus? nulla profecto vis; eadem quasi tamen Deum inducit caritas, quae et ho-

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Fra il tiranno e il re che ben governa vi è questa differenza, che il primo è aspro, rude, insolente verso i sudditi, cammina attorniato da guardie del corpo, non tollera che i sudditi lo avvicinino, perseguita i loro misfatti non per correggere ma per rapinare, torturare, uccidere, mentre il secondo avverte coloro che errano e in più usa verso di loro la clemenza; non solo ammette alla sua presenza quelli che gli chiedono udienza, ma li visita se sono ammalati, li consola prontamente se sono afflitti dal dolore, nelle tribolazioni li solleva ed è loro accanto, mostrandosi partecipe della loro afflizione e delle loro pene. Ma Iddio è più grande e migliore dei più buoni principi e re in ogni genere di bontà, di affetto e di carità. 10. Volle,24 dunque, per adempiere perfettamente al suo compito, sostenere il carico di un uomo e vivere come uomo fra gli uomini, e per dimostrare maggiormente la sua carità, subire le sofferenze che son proprie degli uomini. Quale obiezione avrai da fare, a questo punto, con i tuoi latrati, ingratissimo omicciattolo che non sei altro? Era forse necessario che Dio avesse quelle sofferenze? Che pretendi tu, che vi fosse un elemento necessario in Dio, nella volontà di chi non ha bisogno di nulla, e che non può temere potestà alcuna, pari o superiore? Di quale necessità vai tu blaterando? la sua fu, senz’altro, benevolenza, pietà, amore, carità. Fu forse la necessità a spingere i Decii, padre, figlio, nipote, a sacrificarsi per il popolo romano? E così anche altri, cittadini e paesani, di illustri comuni e nazioni? L’amore, credetemi, l’amore e il desiderio del bene pubblico li spinse a volontaria morte.25 La leonessa, per difendere i suoi nati, affronta volontariamente la morte, e così pure le scrofe, se pure non tutte le scrofe o le leonesse, come non tutti i cittadini si precipitano incontro al ferro per la patria o, come dice Virgilio,26 per la libertà, ma i migliori e i più coraggiosi. Ti pare che il supremo ottimo Iddio, pieno di pietà e di grazia, si lascerà superare da un cittadino, ottimo che sia, non appartenendo al novero dei cittadini, o della stessa gente, o di uguale condizione, oppure come uno della moltitudine, ma padre, educatore, guida? E tu, latrando, parli di necessità? Questa invece è carità, carità paterna, di tanto più grande anche dell’amore paterno, di quanto Iddio stesso è superiore a tutte le cose, non ha bisogno di nessuno e non è soggetto a nessuno, e la sua potestà non è affatto precaria o vicaria; ma, come è la più grande di tutte, così è anche assoluta. 11. Ma chi potrebbe costringere Dio a subire gli affanni e le passioni umane? Nessuna forza di certo; e tuttavia lo spinge quasi lo stesso amo671

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minem patrem familias inducit, tranato mari, periculosissimis exanclatis procellis ac laboribus aliis, in Libyam enavigare ad gentes nationesque prorsus ignotas atque inhumanas, quo liberos tueatur locupletetque rem familiarem. Paulinus Nolanus episcopus mulierculae commotus precibus, filium eius quo redimeret a praedonibus, in Africam profectus est. Videlicet ab homuntione in hoc ipso officii genere aliisque pietatis ac beneficentiae Deus vincetur muneribus? An quem Deus ipse effinxit hominem, quem imaginem ac similitudinem referre sui ipsius in terris voluit, quem animalibus praefecit cunctis, aspernabitur eiusque res negliget, contemnet, destituet, nec periclitanti ei succurret afferetque suppetias? Succurrit autem ei, et in Christo, ac per Christum. Credidit antiquitas omnis Palladem Iovis e capite genitam, quo numerum augeret dearum perque eam hominibus sapientiam ostenderet; non credes Deum ipsum ac verum Deum rerumque creatorem omnium per Christum fi lium succurrisse mortalibus in ruinam prolabentibus? per illius sapientiam liberasse ab erroribus in quibus immersi erant restituisseque in antiquam gratiam per poenam ac supplicia? quae ille volens, sciens libensque perpessus est. Credidit gens omnis, credidere ferae etiam nationes atque exleges e Deo genitos qui insigni aliqua virtute praediti essent. Potuit igitur virtus aliqua rara quidem illa atque excellens id efficere, ut dii a coeteris illi esse crederentur. Tu vero in hoc haesitabis, dubitabis, nullo modo credes, ut pro humani generis salute Christus sit e Deo deus, e luce lux, e salute ipsa salus facta mortalium? Credidit praecipue Aegyptus divino ex afflatu puellas concipere atque hac ratione a diis et posse et solere homines gigni, magni alicuius negocii ac boni gratia. Tu autem in tanta perditione mortalitatis universae hominum, non credes Deum eorum creatorem voluisse illis prospicere? Hoc igitur inhaesitanter credamus, hunc Deum fateamur, veneremur, colamus, huic concilia nostra omnia actionesque permittamus. Et quae fides necesse est cunctis ut praesit disciplinis, eam religioni quoque adhibeamus, sine qua nec veritas nota esse nobis potest, nec boni ad nos pars ulla pertingere, nec tantis in tenebris lux certa splendescere, denique nec vitalis

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re che induce il padre di famiglia, attraversando il mare e superando27 il grande pericolo delle tempeste insieme con altre fatiche, a navigare verso la Libia, verso genti e nazioni del tutto sconosciute, per mantenere i figliuoli ed accrescere il patrimonio familiare. Il vescovo Paolino da Nola,28 commosso dalle preghiere di una donnetta, che gli chiedeva di riscattare dai pirati un suo figliuolo, si mise in viaggio per andare in Africa. Si lascerà superare Iddio da un piccolo uomo, in questo genere di favori ed in altre opere di pietà e di beneficenza? E Iddio disprezzerà quell’uomo che egli stesso ha plasmato e ha voluto che fosse sulla terra sua immagine e somiglianza, mettendolo a capo di tutti gli altri esseri animati, e trascurerà le sue cose, spregiandole, e non dandosene più cura, né lo soccorrerà e non gli recherà aiuto quando sarà in pericolo? Sì che lo soccorre, nel nome di Cristo e per Cristo. Tutta l’antichità credette che Pallade fosse nata dal cervello di Giove per far accrescere il numero delle dee e rivelare agli uomini, attraverso lei, la sapienza: e non crederai tu che Dio stesso, vero Dio e di tutte le cose creatore, sia venuto, tramite Cristo suo figliuolo, in soccorso dei mortali che precipitavano nel baratro? e che per mezzo della sua sapienza li abbia liberati dagli errori nei quali erano immersi, e che abbia restituita loro l’antica grazia mediante la pena e il sacrificio che egli con piena volontà e consapevolezza ha sofferto? Credettero tutti i Gentili, popoli barbari e senza leggi, credettero che fossero figli di Dio gli uomini dotati di qualche insigne virtù. Poté, dunque, qualche rara ed eccellente virtù far sì che essi fossero creduti dei dagli altri, mentre tu esiterai, dubiterai, non crederai in alcun modo che Cristo, per la salvezza del genere umano, sia disceso da Dio e sia Dio, sia luce discesa dalla luce, e salute degli uomini discesa da quella che è la salute stessa? Credette soprattutto l’Egitto che le fanciulle concepissero per afflato divino, e che per questa ragione gli uomini potessero essere generati e accadeva che lo fossero da parte degli dei, al fine di compiere qualche grande e buona impresa. E tu, in tanta rovina dell’intera specie mortale degli uomini, non crederai che Dio, loro creatore, abbia voluto provvedere a loro? Prestiamo fede, dunque, a questo prodigio senza esitazione: riconosciamo, veneriamo, adoriamo questo Dio; a lui affidiamo tutti i nostri pensieri e le nostre azioni. E adoperiamo anche nei confronti della religione quella fede che è necessario presieda a tutte le scienze, perché senza di essa né ci può esser nota la verità, né può toccarci alcuna parte di bene, né può risplendere in tenebre così profonde una luce 673

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vita duci, cum alia ratione vita ipsa mors sit, mors vero omni e parte miserabilis ac perpetua». 12. PONTANUS. Haec igitur per christianas Musas Aegidio Marianus cum divis agens inspirat. Quocirca eius commemoratione desinite, obsecro, lacrimari, quin illi ipsi potius gratulandum ducite, quando consecutus est per mortem quod vivus per sudores maximos plurimasque vigilias assequi laborabat; ac terrae quoque huic gratias agite, e qua mortalibus exuperatis laboribus in coelum evolavit, ubi sanctissimis cum viris agens luce fruitur non solis quidem eius mundum qui illustrat universum, sed luce ea quae e Dei mente profundens se se et fovet eos, quos ad se evocavit, et invitat coeteros qui Dei ipsius memores lucem eius intueri volunt ac per eam tenebras mortalitatis effugere. Mihi quidem (nesciam fortasse an parum christiano e ritu, forsan et supra quam christianum decet hominem) venit in mentem in Mariani memoriam hymnum ludere inque eius honorem decantare cum familiaribus; quem, quia non displiciturum vobis intelligo, referam, in hoc praesertim ocio. Is autem talis est: Qualis Alphei liquidos ad amnis, Sive Meandri viridante ripa Concinit serum moriens in ipso Funere cygnus, Talis ad plectrum, ad thyasos deorum Ludit in coelo Marianus, ipsa Morte victurus Marianus, ipso Funere felix. Ipse sis felix faveasque nobis, Ipse ades fessis, Mariane, rebus, Tu preces audi miserorum et iras Siste Tonantis.

13. Ego vero, ornatissimi viri, ita quidem mihi semper persuasi et pene exploratum duxi, opinionem eam, quae a levissimis quibusdam hominibus probata et culta inolevit, de animorum deliquatione, nuperrime

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sicura, né, finalmente, una vita che sia vita può esser vissuta, in quanto altrimenti la vita è morte, morte in verità, in ogni senso, miserabile e perpetua». 12. Son queste, dunque, le parole che Mariano, stando con i beati, ispira ad Egidio con l’ausilio delle Muse cristiane. Per cui vi scongiuro, cessate di lacrimare al suo ricordo, anzi pensate piuttosto a rallegrarvi con lui, ora che ha raggiunto, con la morte, ciò che in vita si adoperava di raggiungere mediante grandissimi sforzi e moltissime veglie. E rendete grazie anche a questa terra, dalla quale, superati gli affanni mortali, è volato al cielo, dove, vivendo in compagnia dei santi, gode non già di quel sole che illumina il mondo intero, ma di quella luce che, sgorgando dalla mente di Dio, non solo riscalda coloro che ha chiamato a sé, ma invita gli altri che, memori di Dio, vogliono penetrare nella sua luce e, per essa, sfuggire alle tenebre della condizione mortale. Io, in verità, ebbi l’idea (non saprei se forse secondo un’usanza poco cristiana o sorpassando i limiti morali di un cristiano) di comporre per svago un inno in memoria di Mariano, e recitarlo in suo onore insieme con gli amici, e poiché credo che non vi dispiacerà, ve lo riferirò specialmente ora che abbiamo del tempo libero. Eccolo: Come d’Alfeo sul limpido ruscello29 o sulla verde rira del Meandro canta al momento della morte il cigno di lunga vita, così, danzando con gli dei, le corde tocca suonando, in cielo, Marïano, per vincer sulla morte, e nella morte stessa felice. Sii tu felice, e noi, propizio, aiuta, o Marïano, chi nelle disgrazie soffre e t’invoca, i fulmini frenando del cielo irato.

13. In verità, onoratissimi uomini, io sono stato sempre convinto e l’ho ritenuta quasi una certezza, che l’opinione riguardante il disfacimento dell’anima,30 sviluppatasi per l’approvazione e la considerazione avuta da parte di persone superficiali, e riproposta da alcuni filosofi dappoco 675

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a minutissimis quibusdam Graeciae philosophis ac Cyrenaicae renovatam, quae esset ab ignorantissimis Persidis ac Iudaeae physiologis, tum ob ignorantiam, tum ob vitae morumque lasciviam, multo ante excitata; cum sanctissima illa vetustissimaque immortalitatis opinio cum hominibus simul ipsis ab initio increvisset, quemadmodum et religio, quae nobis ipsis a natura est insita. Quaenam enim tam fera gens est tamque moribus et cultu barbara quae non in Dei cultum aut admittat tradita ab aliis aut non et ipsa quoque excogitet quae ad deorum maiestatem colendam magnificandamque conferre intelligat et illorum cultu digna esse sibi habeat persuasum? Memini Luciolum fi lium vix quadriennem in sinu nutriculae quiescentem animadvertisse per fenestram in clarissimo sole repente e coelo defluxisse pluviam grandioribus guttis, quae a sole illustratati mirifice splendescebant, miratumque rem tantam aliquantum fuisse, moxque ad me conversum dixisse: «An, o tata, Deus illic est?». Adeo itaque a natura inest homini religio, ut quadrimus puer de cognoscenda Dei natura esset solicitus a splendore illo luculentissimo adductus sibi ut persuaderet Deum illic inesse. 14. Ab initio igitur homines post obitum optimorum, sive regum sive civium sive institutorum sive etiam doctorum hominum, Manes eorum venerati sunt eosque inter divos retulerunt posueruntque aras illis ac templa; nec Graeci id modo servavere ac Latini, sed nationes (ut dixi) omnes etiam ferae atque immanes. Atqui hoc nequaquam fecissent, nisi apud eas immortalitatis animorum viguisset opinio, quae quibus si defuisset, an solicitari eos tantopere par fuisset in illis praesertim, quae nihil ad ipsos attinerent? Nam cur, obsecro, introductum esset in funeribus orare deos pro mortuorum Manibus illorumque pacatione atque accessu ad pios ac felices locos, simul si cum corporibus et animi interissent? Ut igitur sanctissima, sic antiquissima etiam ac naturalis est de animi immortalitate opinio; contra ut vitiosissima maximeque profana, sic etiam nuperrima mortalitatis, habuitque ortum non a populo rudioribusque hominibus, quod minus fortasse mirum haberi posset, verum a perditissimis quibusdam literatis, qui et ingenio abusi sunt et literis, non aliter

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della Grecia e della Cirenaica31 in tempi molto recenti, sia quella avanzata molto tempo prima da alcuni scienziati incolti di Persia e di Giudea, sia per ignoranza, sia per dissolutezza morale; mentre quella santissima e antichissima opinione dell’immortalità si era affermata sin dalle origini insieme con lo stesso genere umano, allo stesso modo della religione insita nell’anima per natura. Qual popolo, infatti, è così selvaggio e ha costumi così barbari e incivili, da non recepire per il culto divino riti di tradizione forestiera, o da non ideare anche di propria iniziativa quei riti che a suo parere possano concorrere all’adorazione e alla lode della maestà divina, e che secondo la sua convinzione siano adeguati al culto religioso? Ricordo che mio figlio Lucietto,32 di quattro anni appena, riposando in grembo alla balia, vide attraverso la finestra, mentre il sole risplendeva, cader dal cielo all’improvviso una pioggia con gocce più grandi del solito, che, illuminate dal sole, luccicavano meravigliosamente, e rimase per qualche momento incantato di fronte a uno spettacolo così grande, poi subito, rivolgendosi a me disse: «non è forse, o tata, Dio che sta lì?». Adunque la religione è così naturale nell’essere umano, che un ragazzo di quattro anni si dimostrava ansioso di conoscere l’essenza divina, indotto dallo splendore eccezionale di quella luce a ritenere che lì risiedesse la divinità. 14. Da principio gli uomini, dopo la morte di persone particolarmente meritevoli, re, cittadini, uomini a modo o anche dotti, venerarono la loro memoria33 e li annoverarono fra gli dei, innalzarono loro altari e templi; né questa pratica fu solo dei Greci e dei Latini, ma, come ho detto, di tutti i popoli, anche barbari e crudeli. Ma in nessun modo avrebbero praticato questa usanza, se presso di loro non avesse avuto vigore la credenza nell’immortalità dell’anima; senza la quale, sarebbe ragionevole da parte loro prendersi tanta cura, specialmente in quei casi che non li riguardano direttamente? Difatti perché, di grazia, sarebbe stata introdotta nei funerali la preghiera agli dei per le anime dei morti, per la loro pace e per l’accesso ai luoghi santi della felicità, se l’anima morisse insieme col corpo? Come, dunque, santissima, così anche antichissima e naturale è la credenza nell’immortalità dell’anima; al contrario, come è del tutto erronea e soprattutto empia l’opinione che l’anima sia mortale, così è di origine molto recente; ed è nata non dal popolo e da uomini piuttosto rozzi, che potrebbe considerarsi meno strano, ma da alcune persone dotte, scellerate, che hanno abusato dell’ingegno e della cultu677

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quam qui gladium inventum ad usum vivendi ac securim et cultrum converterunt post ad rixas atque homicidia. 15. Itaque et ingenio et natura abutitur ac Dei immortalis dono qui aliter de animorum natura sentit, quam illi ipsi sensere qui rerum origini propiores fuere ab initioque et urbes constituere et conventus hominum, honoremque habendum decrevere sepulcris prosequendosque funeribus mortuos. Equidem ego maximum semper impietatis esse genus duxi inhonoratos praeterire eos sinere diem, qui obiissent, cum videam infestissimos exercitus post conflictus caedesque teterrimas ac truculentissimas sepeliendis mortuis indutiarum dies decernere; adeo quem in acie occidit, victor hostis honorem post illi sepulturae atque inferiarum non denegat. Quocirca in bene constitutis et urbibus et familiis annua sacra, statis etiam diebus, solvendis inferiis decreta sunt; quod quid est aliud quam manifestissimus gentium quidem omnium consensus in declarandam animorum perpetuitatem? Nec vero commendandum siquid pietas ipsa suasit superstitiosius, quod tamen ratione corrigendum est; tametsi cum rusticanis minusque excultis gentibus ac populis agendum est fortasse minus exculte in sacrificiis ac solennibus pompis; quemadmodum et in cultu corporis reique familiaris agrestiore illo quidem nec tam polito. 16. Scripsit Augustinus libellum de cura erga mortuos adhibenda; quid ni vir ad hoc piissimum opus adhortaretur homines et sanctus et christianus, qui sciret antiquissimum hoc esse maximeque secundum naturam? At cum Anchise dixerit aliquis: «facilis iattura sepulcri»; nec vero nos accusamus, siquis honorem sepulturae neglexerit, quod fortasse ad modestiam referri debeat; sed et improbum et nefarium ducimus, qui quem debet et praestare potest parentibus, cognatis, amicis honorem post mortem, aut omnino id noluerit aut parum certe curaverit. Itaque Virgilius, ut fuit et ipse cum Aenea suo pietatis studiosissimus, inducit illum aegerrime ferentem amici naufragium his verbis: O nimium pelago et coelo confise sereno, Nudus in ignota, Palinure, iacebis arena;

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ra, non diversamente da quelli che hanno trasformato, poi, in un’arma per le risse e gli omicidi, la spada, inventata per gli usi della vita, e così la scure e il coltello. 15. Sicché abusa dell’ingegno, della natura e del dono di Dio immortale chi sull’animo ha una teoria diversa da quella che hanno coloro che furono più vicini alle origini, e fondarono primamente le città e le comunità umane, istituendo la norma di onorare i sepolcri e accompagnare i morti con il funerale. Quanto a me, ho ritenuto sempre una delle più grandi empietà quella di lasciar passare senza onore i defunti, vedendo che gli eserciti più ostili, dopo battaglie e stragi, le più orribili e feroci, stabiliscono alcuni giorni di tregua per seppellire i morti; a tal punto il nemico vincitore non osa negare a colui che ha ucciso in combattimento l’onore della sepoltura e dei funerali. Per cui nelle città e nelle famiglie dove regna l’ordine sociale è istituito un anniversario per le funzioni in onore dei morti: e che altro significa se non un evidente accordo da parte di tutti i popoli nell’affermare il principio dell’immortalità dell’animo? Non che meriti approvazione, però, il fatto che la pietà abbia introdotto nei riti funebri qualche elemento piuttosto superstizioso, il quale, tuttavia, va corretto con la ragione; quantunque in fatto di funzioni sacre e processioni solenni si debba essere meno esigenti con paesi e popolazioni rustiche e meno civilizzate, allo stesso modo che nella cura del corpo e del patrimonio domestico con chi è un po’ rustico e non tanto raffinato. 16. Agostino scrisse un libretto intorno al culto dei morti;34 per qual motivo non avrebbe dovuto esortare gli uomini a questa grande opera di pietà un santo cristiano, il quale ben sapeva come questa consuetudine fosse antichissima e, soprattutto, secondo natura? Senonché qualcuno potrebbe dire con Anchise: «È lieve il danno di un mancato sepolcro»;35 ma noi non stiamo criticando chi forse per modestia fu trascurato nel tributare gli onori della sepoltura; consideriamo, invece, malvagio ed empio colui che o negò del tutto o anche curò troppo poco gli onori che, dopo la morte, si devono e si possono prestare a parenti, a congiunti, amici. Perciò Virgilio, lui che era molto ligio verso la religione insieme con il suo Enea, gli fa dire mentre si doleva per il naufragio dell’amico: Troppo ti sei fidato del mare e del cielo sereno, or nudo giacerai, Palinuro, ignorato sul lido;36

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videlicet propter non solutos illi honores funeris ac sepulturae. Quod servandum eo diligentius suadeo, quod non exiguum sit sive argumentum immortalitatis sive commonefactio, cura iis in sacrificiis requiem illis sempiternam et hymnis comprecemur et obsecrationibus. Sed facessat nostra haec oratio assurgamusque doctissimis viris ad nos venientibus, Francisco Puccio ac Romano Thamyrae deque more Porticum visitantibus.

II PONTANUS, PUCCIUS, THAMYRAS. 17. PONTANUS. Et Porticus vos nostra expectat magna cum voluptate et ego ipse advenientes vos Casinate ex agro sospites atque laetos amplector ex animo utrumque. Quid tu tandem, Pucci, inde novi, imo veteris ad nos affers? nam Thamyram satis scio eo in agro parum omnino esse versatum. Die igitur, si quid vetustum Porticuque hac ipsa dignum inde affers. PUCCIUS. Affero, quod omnes quidem uno ore consentiunt, spectaculum quod hodie quoque illic extat, perbreve tamen atque concisum, Varronis esse monumentum; scriptum tamen nullum id indicat. Certi vero haberi illud tantum potest quod Virgilius ait «Aruncos ita ferre senes», siquidem omnes in hoc conveniunt, et cives et coloni. Illud autem delectaturum te admodum confido quod nuperrimum quidem est, oraculum tamen quasi quoddam futurum honestarum literarum studiosis. Scis enim, et ego ipse satis scio, una te nobiscum nec aut lacrimas tenere potuisse aut gemitum, nuntiato obitu Gabrielis Altilii, polycastrensis antistitis, hominis tecum a puero educati in literis versatique in disciplinis summo cum labore et studio. Scis, inquam, non multis ante diebus eum obiisse et clarum nostris in literis et christianis disciplinis excultissime institutum. Referam itaque de eo ipso, meaeque huic orationi vel etiam iureiurando Thamyras hic astipulari potest, quod de illo monachus nobis casinensis retulit, singulari sanctimonia sacerdos et vitae simplicitate inter monachos ipsos notus ac venerabilis.

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evidentemente a causa dei mancati onori funebri e della sepoltura. È questo un dovere che con tanta maggior attenzione io consiglierei di osservare, in quanto è argomento non poco valido a tener vivo il pensiero dell’immortalità, ché durante quei sacrifizi e con inni e con fervide preghiere imploriamo per i morti il riposo eterno. Ma mettiamo da parte questi nostri discorsi, e andiamo incontro a Francesco Pucci e al romano Tamira, persone di grande dottrina, che vengono a fare la consueta visita all’Accademia.

II PONTANO, PUCCI,37 TAMIRA.38 17. PONTANO. Con gran piacere la nostra Accademia vi aspetta, ed io anzi vi abbraccio con tutto il cuore, tutti e due che venite sani e salvi dal territorio di Cassino.39 Che ci rechi, Pucci, di nuovo, anzi di antico da quei luoghi? Poiché so bene che Tamira vi ha soggiornato troppo poco. Dimmi, dunque, se ne rechi qualche notizia antica e degna di questa Accademia. PUCCI. Reco la notizia su cui tutti all’unisono concordano, che i resti spettacolari ancor oggi lì presenti, sebbene molto esigui e malridotti, appartengono al sepolcro di Varrone;40 ma non vi è nessuna testimonianza scritta. Di certo si può ritenere soltanto quello che, come dice Virgilio «così raccontano i vecchi Arunci»,41 perché tutti sono d’accordo su ciò, cittadini e contadini. Penso, invece, che vi arrecherà un piacere immenso una nuova che, pur essendo recentissima, è destinata tuttavia, a diventare quasi un oracolo per gli studiosi delle belle lettere. Tu sai, ed anche io so bene, che non abbiam potuto, io e te insieme, trattenere le lacrime e il lamento all’annuncio della morte di Gabriele Altilio, vescovo di Policastro,42 un personaggio cresciuto con te nel culto delle lettere, sin da fanciullo, e applicatosi al sapere con faticoso studio. Lo sai, dico, che è scomparso non molti giorni fa, illustre qual era nelle lettere da noi coltivate e profondamente istruito nella dottrina cristiana. Parlerò dunque di lui, e Tamira qui presente può convalidare le mie parole anche col giuramento, quel che ci riferì un monaco cassinense, sacerdote di eccezionale santità e semplicità di vita, ben noto e venerabile fra gli stessi monaci. 681

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18. Is igitur, facta re divina, cum honestiorem in secessum nobiscum deambulans utrumque nostrum perduxisset, ita quidem aggressus est: «Ego vero, o filii, ni Dei flagellum timerem, ab his abstinerem dictis parceremque huic sermoni; siquidem nuntius haec magis quam enarrator aliquis vobis trado, suppliciis quidem acerrimis silentio meo propositis ab eo ipso, qui haec ut referam vobis iniunxit. Dormienti mihi matutinum sub tempus antistes astitit, humana quidem maiestate augustior, lituum praeferens, in meque intuens inquit: ‘Rerum atque hominum pater Christus te ut adirem iussit a somnoque excitarem; expergiscere igitur ac peracta prius re divina, illos adi’, vestrum utrumque significans, et nominis simul et patriae unde oriundi estis admonens. Quocirca haec illius ex ore vobis affero: ‘significare Deum sibi parum placere abuti vos oratione nugis tantum fabellisque inanibus decantandis; satis esse lusisse vos in adolescentia in ipsoque aetatis flore; coeterum ut herbae, ut arbusculae e floribus postmodum fruges proferunt, eadem via; ac multo etiam maiori studio (quando ratione quoque praediti estis) post lusus, iuvenilesque delicias, fruges afferre vos oportere, easque divinis hominum ingeniis coelestibusque donis convenientes; declarare item Musas quas vos appellatis, eas pietatem esse ac religionem, Christum ipsum denique; hunc igitur colere vos iubere; in eius honorem Musas vestras, id est orationem, tanta cum excellentia vobis concessam convertere; quod ni fecissetis…’, lituum extulit tanquam eo vos percussurus, atque irato similis abiit. Ego somno solutus maximoque horrore exterritus ad aram statim profectus sum veniamque a Deo precatus, ea quae et vidi et audivi iussus ad vos defero». Haec monachus. 19. THAMIRAS. Quin et illud etiam addidit, uti eadem ipsa literatis omnibus dicta ac mandata esse putaremus idque etiam teneremus, quemadmodum nascentibus nobis religio statim comes adderetur, sic praestandum esse religio ut eadem comitaretur etiam morientibus. PONTANUS. Equidem ego, o Thamyra, cum rerum naturae ordo mirificus sit magisque mirari illum possimus quam ingenio omnino assequi, arbitratus sum semper ac pro comperto duxi divinam cumulatissimamque bonitatem, quae in Christo se se paterna cum caritate ostendit

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18. Questi, dunque, dopo aver recitato l’ufficio, a passeggio con noi, conducendoci entrambi in un luogo piuttosto riservato, così cominciò: «A dire il vero, figliuoli, se non temessi la punizione divina, mi asterrei dal dire queste parole e mi risparmierei il discorso, in quanto di quel che vi riferisco sono più un messaggero ufficiale che un narratore, essendomi stata minacciata una crudelissima pena se avessi taciuto, proprio da chi mi ha ingiunto di riferirvelo. Mentre, quasi in sul mattino, dormivo, mi apparve il Vescovo, più venerabile di quanto si addica ad una maestà umana, che mostrandomi il pastorale, e tenendo fisso lo sguardo su di me, pronunciò queste parole: «Cristo, re e padre della natura e degli uomini, mi ordinò di venirti a trovare, e di svegliarti dal sonno: destati dunque, e recitato l’ufficio va da loro», riferendosi a voi due, di cui mi rammentava insieme il nome e la patria di origine; perciò vi riferisco quel che mi disse: Iddio vuol farvi sapere che a lui piace poco che voi facciate cattivo uso della parola, ripetendo scemenze e favole vane; che ora basta aver giocato nell’adolescenza e nella giovinezza, ma, come le erbe, come gli arboscelli dopo i fiori portano i frutti, allo stesso modo, ed anche con maggiore impegno (poiché siete forniti anche di ragione), bisogna che, dopo i giuochi e i piaceri giovanili, rechiate dei frutti, e frutti corrispondenti all’ingegno divino degli uomini e ai doni celesti. Per sua espressa dichiarazione, ancora, quelle che voi chiamate Muse sono la pietà e la religione, insomma Cristo stesso; e pertanto l’ordine che vi dà è quello di venerare Lui e volgere in Suo onore le vostre Muse, cioè il dono della parola concesso a voi per farvi tanto superiori; e se non faceste ciò…  – alzò il pastorale, come volesse percuotervi, e si allontanò come fosse adirato. Risvegliatomi e tutto pieno di spavento, mi son recato subito all’altare e, dopo aver implorato perdono da Dio, obbedendo al comando, ecco che vi riferisco ciò che ho visto e udito». Fin qui il monaco. 19. TAMIRA. Anzi aggiunse ancora una cosa, che queste stesse parole e queste stesse raccomandazioni le considerassimo rivolte a tutta la gente colta, e ricordassimo che, come sin dalla nascita riceviamo subito per compagna la religione, così bisogna adoperarsi a che essa ci accompagni anche in punto di morte. PONTANO. Per dire il vero io, o Tamira, poiché è meraviglioso l’ordine della natura e noi possiamo più ammirarlo che con la mente in tutto comprenderlo, sono sempre stato convinto che la divina e sovrabbondante bontà che in Cristo si manifesta insieme con una paterna carità 683

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hominum generi, multis quidem ac diversis modis se se aperire mortalibus; quodque res hae inferiores quaeque naturales dicuntur a physicis aethereis ab illis commotionihus temperentur, non exiguam quidem homini cum illis esse cognationem; quam per ipsam fabricator illo omnium moderatorque ac rector Deus multa, bonis praesertim viris nec raro etiam perversis, emendandorum ipsorum gratia et significet et portendat, praecipue autem humanis quiescentibus curis atque inter dormiendum; ut aliquando dii ipsi nobiscum perinde ac humano assumpto ore loqui videantur; unde oracula sunt a prudentibus quibusdam dicta. Neve autem in enumeratione oraculorum ipsorum antiquitatisque testimoniis vos occupem referendis, de me ut loquar, ego ipse ita saepe dormiens commonefactus sum, ut quae pericula nec ante timuissem neque prius agitassem animo, vigilans postea tutus liberque commonefactione, ex ea facile praeterierim. 20. Sunt qui ad naturam haec omnia atque ad curas ipsas nostras diurnasque ad actiones referant; ego vero, quae ad divinitatem pertinent, nesciam quomodo naturae huic elementari ascribam. Quid enim in se habet divinum aut sanguis aut pituita aut utraque bilis? aut quatuor haec simul etiam suos per numeros atque ad amussim concreta? quippe quae ne coire aut concrescere una quidem possint, praeterquam aethere informante aethereisque agitationibus; quarum profecto cognatione et quadam quasi contage deus ipse utitur in hominibus commonefaciendis. At dices: unde nam species illa polycastrensis antistitis tam cito, tam repente informata extitit? eadem profecto et ratione et via qua mens nostra triangulum, pyramidem, syllogismum suis e partibus informat colligitque perfectum undique illum atque absolutum, qua lignarius faber et arcam et scrinium mente ipsa concipit, qua etiam pictor, sculptor, conflator imaginem. Quod igitur mens hominis in se ipsa praestat tam facile non poterit aetherea illa praestare cognatio ac vis, rebus nostris prospiciente deo, inque quiescentis hominis mente informare imaginem humanae similem, quae futurorum nos tandem admoneat? Quod si aethereis a magistratibus inferiores quidem res temperantur, nimirum illi ipsi magistratus sciunt quae in futurum ipsi agitent, perinde ut artifices

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verso il genere umano, in molti e diversi modi si riveli ai mortali; e che, essendo questo mondo terreno, che i fisici chiamano naturale, regolato dai movimenti celesti, vi sia tra l’uomo e quei movimenti una relazione non piccola, per mezzo della quale Iddio creatore, guida e signore di tutto il mondo, indica e preannunzia molti eventi specialmente ai buoni, e non raramente anche ai cattivi per farli ravvedere, soprattutto quando essi riposano dalle umane preoccupazioni e sono in dormiveglia; talché sembra a volte che gli stessi celesti parlino con noi come se avessero assunto una «bocca» (os -oris in latino) umana, donde il nome dato da alcuni saggi agli «oracoli».43 E per non trattenervi con un elenco di oracoli e con le testimonianze dell’antichità, stando alla mia esperienza, io stesso più d’una volta ho ricevuto nel sonno degli avvertimenti, per cui poi facilmente sono riuscito a superare, vigilando e reso sicuro e libero dall’avviso ricevuto, quei pericoli che prima non avevo né temuti né rimuginati dento di me. 20. Vi è chi riporta tutto questo alla natura, agli stessi nostri pensieri e alle azioni compiute durante la giornata. Io, invero, non saprei come attribuire a questa natura elementare ciò che riguarda la divinità. Che hanno, infatti, di divino in sé il sangue, la pituita o le due specie di bile? o questi quattro elementi,44 sia pure armonicamente e perfettamente composti insieme? Giacché essi non possono comporsi, né certo assumere forma senza l’azione formatrice dell’etere e dei movimenti celesti: e di questa relazione, per verità, di questa sorta di contatto,45 si serve Iddio quando dà avvertenze agli uomini. Ma dirai: donde mai spuntò la figura del vescovo di Policastro, formatasi così presto, così rapidamente? Certamente allo stesso modo e con lo stesso procedimento con cui la nostra mente si forma l’idea del triangolo, del prisma e delinea il sillogismo collegando le sue parti in modo che sia perfetto e in ogni parte compiuto; allo stesso modo con cui il falegname concepisce nella sua mente l’arca e lo scrigno, con cui il pittore, lo scultore, il fonditore concepiscono le loro creazioni. Ciò, dunque, che la mente dell’uomo produce così facilmente in se stessa, non potrà produrre quella forte relazione celeste, con l’aiuto della provvidenza divina nei nostri confronti? e formare nella mente dell’uomo, mentre dorme, una figura simile a quella umana, che alfine ci avverta del futuro? Che se, com’è certo, il mondo inferiore è regolato da ministri celesti, senza dubbio quei ministri sanno ciò che essi stessi meditano per l’avvenire, nella stessa maniera che gli artefici non ignora685

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minime ipsi ignorant quid animo conceptum habeant quidque etiam apparent. An non saepenumero ratione hac clades urbium calamitatesque populorum sunt ante visae ac longe etiam prius quam evenerint significatae? At non omnibus hoc contingit hominibus. Neque omnibus etiam terris omnes contingit ferre sive arbores sive herbas aut fruges; perindeque ut latet motus hic neque omnino compertum est qua via hoc ipsum contingat in terreno solo, sic neque palam est nobis quonam modo cognatione ex illa aetheria haec ipsa usu veniant dormientibus, ac nonnunquam etiam vigilantibus, eveniunt tamen. 21. Itaque dum ad naturam cuncta referimus, naturae ipsius partitione parum recta mea quidem sententia utimur; cum alia quidem elementaris sit eaque sublunaris, varia, inconstans, dubia, servitio assueta atque in interitum prona, alia aetherea, immortalis atque in imperio constituta, tamen et ipsa quoque corporea, etsi nullis casibus nullique corruptioni obnoxia. Est item et alia omni profecto concretione corporeaque conditione libera immortalisque ac deo ipsi tantum vacans, quippe quae divina illius luce tantum fruitur, ministeriisque ab illo distributis solummodo adest atque intenta est. Nec nos pudet, qui quidem ignoremus qua via trahatur a magnete ferrum, velle naturis illis praescribere ac praesertim incorporeis? At dicet quispiam: «trahit ferrum magnes ab insita vi»; quasi viribus suis careat, multo quidem praestantioribus nullique corruptioni addictis, tum aetherea illa natura tum etiam alia illa excellentior, incorporea quidem imperioque ornata mundique totius gubernaculo praefecta ac ministeriis. 22. Usu venit igitur in hac ipsa naturae perscrutatione non paucis philosophantium e numero quod vel etiam plurimis in agricultura exercitatis, dum agro tantum stercorando intenti nec seminis animadvertunt naturam nec coeli ac regionis, quorum primae fere partes habendae sunt. Obsecro vos, viri optimi, mane oriente sole non ne statim lux ipsa puncto temporis dispersa coelum hoc universum irradiatione sua illuminat? Atqui lux a sole existit, sol vero ipse corporeus est, quod oculi ipsi sentiunt; potest igitur a sole profluens lux tenuitate sua incomprehen-

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no essi stessi quello che hanno dentro di sé concepito, nonché quello che hanno in programma. Che forse, molto spesso, non furono allo stesso modo previste e annunciate distruzioni di città e calamità di popoli, anche molto prima che avvenissero? Ma ciò non accade a tutti gli uomini. Ma nemmeno a tutte le terre è dato di produrre tutte le specie di alberi o di erbe o di frutti; e come questo meccanismo ci rimane oscuro, e non è affatto appurato il modo in cui il fenomeno si verifichi sul suolo della terra, così non ci è chiaro come, per via di questa relazione con l’etere, si verifichino tali fenomeni in coloro che dormono e, talora, anche in coloro che vegliano: e tuttavia si verificano. 21. Pertanto, quando riportiamo tutto alla natura, non facciamo, a parer mio, a proposito della natura un uso giusto della distinzione, poiché altra è la natura elementare, quella sublunare, varia, incostante, solita ad esser dominata e destinata a perire, altra la natura eterea, che è immortale e collocata in una posizione di dominio, sebbene essa pure sia corporea, anche se non soggetta ad alcuna casualità o ad alcuna corruzione.46 Ma ve n’è anche un’altra, libera da ogni materialità e corporeità, immortale e disponibile ad ubbidire unicamente a Dio, in quanto essa sola fruisce della sua luce divina, e aderisce ed attende soltanto ai compiti da lui assegnati. E non ci vergogniamo, noi che ignoriamo la causa per cui il ferro è attratto dal magnete, di imporre la nostra volontà su quelle nature, e soprattutto su quelle incorporee? Ma «la calamita attira il ferro per un’insita energia» – dirà qualcuno: quasi non avessero una propria energia, anche più rilevante e non soggetta ad alcuna corruzione, sia la natura eterea, sia ancora quell’altra più eccellente, incorporea, senza dubbio, e dotata di potere e preposta al governo e all’amministrazione del mondo intero. 22. Accade, dunque, a non pochi filosofanti in questa stessa investigazione della natura, ciò che accade anche nella pratica a moltissimi agricoltori, quando sono intenti solamente alla concimazione del campo, e non badano alla natura del seme, né al clima e al carattere della regione, che debbono ritenersi alla stregua di fattori primari.47 Vi prego di dirmi, valentuomini, se al sorger del sole, al mattino, non sia la stessa luce al illuminare subito con i suoi raggi tutto quanto il cielo, diffondendosi in un solo istante? Ma la luce deriva dal sole, e il sole stesso è corporeo, come gli stessi occhi avvertono: può, dunque, la luce, emanando dal sole, con la sua levità e con quella incredibile celerità, illuminare in un sol mo687

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sibilique illa celeritate eodem simul puncto tantam aeris, maris, terrae vastitatem illustrare, nec tamen poterunt eodem ipso momento ministri illi divinae maiestatis vel supremo ex aethere ad nos evolare, incorporei ipsi neque ut solaris lux e corpore eiaculati? quod non miraris in candela a te ipso accensa, in Deo id miraberis coelestibusque sive substantiis sive ministris? At dicet quispiam: «Neque Dei est laborare neque occupari in negociis». O ruditatem insulsissimam hominis, qui Deum ut hominem metiatur, ut operarium aliquem, ut redemptorem opificem! Nihil agit prorsus Deus, nihil omnino laborat, cuncta tamen agit moderaturque ac regit omnia, nullumque inde laborem sentit, ac si non sit in assiduo coelum motu, nullam tamen inde defatigationem agnoscat, licet corporeum, licet immensum. Tu vero Dei super defatigatione tantopere quidem solicitus es? Igitur in natura omnia qui reponunt eandem illam si qua decet ratione contemplarentur, desinerent profecto tam esse quam certe sunt pertinaces, utque verius dicam, protervi. 23. Ad haec quid ignorantius rationeque utenti indignius quam inferiori huic naturae tantum tribuere eique ex toto incumbere, de superiore vero illa nullo prorsus modo cogitare, nec quam omnes quidem debemus habere rationem, ut per superbiam quidem ignorantiamque dignitatem ei suam suasque et partes velimus per improbitatem adimere? Nos igitur antistitis Altilii monitis, quod vos rogo hortorque, obtemperantes ita quidem vitae transigamus reliquum, ut, quoniam in maturitatem seges nostra iam intendit, frugem eam studiorum nostrorum orationisque ipsius qua hactenus in flore quidem usi sumus in usum commodaque afferamus illorum maxime, quos ad haec ipsa studia scriptis nostris multiplicibusque laboribus ac vigiliis invitamus, ut nec eos poeniteat imitationis nec nos vigiliarum pigeat inceptique tantopere laboriosi. Quid enim laboriosius quam in eloquendi materia versari? quae tametsi communis atque exposita est omnibus, in ea tamen nationes quidem plurimae mutae sunt; e coeteris autem sive populis sive gentibus pauci in ea admodum ita claruere ut sapientiam quidem miscuerint cum dicendi arte ac scientia.

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mento insieme tanta immensità di aria, di mare, di terra, e non potranno tuttavia, gli stessi inviati della potestà divina, in un solo momento, volare sino a noi, sia pure dal più alto del cielo, essendo anch’essi incorporei, e per giunta non lanciati da un corpo come la luce del sole? Quel fenomeno che ti sembra normale nella candela da te stesso accesa, ti sembrerà strano in Dio e in esseri celesti, sostanze o emanazioni di esse che siano? Ma dirà taluno: «non è di Dio lavorare, né affaccendarsi». O grossolana insulsaggine dell’uomo, che misura Dio alla sua stregua, come un operaio qualsiasi, come un imprenditore: Iddio non opera assolutamente, non lavora di certo, e nondimeno tutto è opera sua, ed è Lui che governa e regge ogni cosa, senza risentirne fatica alcuna. Come se il cielo non fosse in continuo movimento senza tuttavia avvertire, in seguito a questo, alcuna stanchezza; eppure è corporeo, eppure è immenso. Ti preoccupi veramente tanto della stanchezza di Dio? Pertanto, quelli che ripongono tutto nella natura, se la considerassero razionalmente come dovrebb’essere, cesserebbero sicuramente di essere, come di certo sono, così pertinaci, così, per meglio dire, arroganti. 23. Inoltre, quale maggiore insipienza, quale cosa meno degna di un essere razionale che attribuire tanta importanza alla natura inferiore e dedicarsi totalmente ad essa, e in nessun modo affatto rivolgere l’attenzione a quella superiore, e non tenerne conto come tutti dobbiamo, sino al punto da volerle negare, per superbia e ignoranza, il valore che propriamente ha, ed anche, per malvagità, le relative funzioni? Noi, dunque, osservando le raccomandazioni del vescovo Altilio – ed io vi prego e vi esorto a farlo –, cerchiamo di trascorrere il resto della vita in modo che, volgendosi ormai la nostra messe verso la maturazione, riusciamo a portare il frutto del nostri studi e della stessa parola, di cui ci siamo valsi finché siamo stati nel fiore dell’età, specialmente a vantaggio di coloro che abbiamo indirizzati, con i nostri scritti e con le molteplici fatiche e le lunghe vigilie, a questi stessi studi; in modo che essi non si dolgano di seguirci e a noi non dispiaccia delle veglie e dell’impegno intrapreso, che è costato tanta fatica. Che c’è di più faticoso, infatti, che praticare l’eloquenza? Essa è comune e aperta a tutti, eppure moltissime sono le nazioni incapaci di usarla; e delle altre, popolazioni o stirpi che siano, poche eccelsero sino al punto da congiungere la sapienza con l’arte e la scienza della parola.

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24. PUCCIUS. Nos quidem, bone Senex, oratio haec tua quam oraculum ipsum non minus intendere ad dicendi frugem, ad quam ipse hortaris, iure suo potest; quando iniquitate temporum factum est plurimis ut etiam seculis dicendi laus a disciplinarum cognitione seiuncta fuerit, cum antea quidem nemo doctus quin idem quoque esset eloquens. Sed eloquentiae studium post romani imperii declinationem prorsus interiit vixque grammaticae ipsius perstitere vestigia, cum tamen disciplinae ipsae in honore essent habitae, id quod physicorum theologorumque multitudo quae post Boetium extitit plane declarat, tum in Hispania, tum in Galliis Britanniisque ipsaque in Germania. Qua quidem de causa haud ita, mirum videri debet eloquentiae si defuere studia. Tamen et spes est brevi futurum ut eloquentia cum doctrina tum naturali tum divina in gratiam redeat, cum minime per te steterit, Ioviane, quo minus moralis cognitio latinis fuerit literis illustrata sideraliumque rerum notitia, quam pluribus etiam voluminibus ita complexus es, ut siderum effectiones cum physicis etiam causis coniunxeris. Nec defuere etiam aut desunt qui e graeco multa in latinum sermonem transtulerint maxima etiam cum dignitate atque ornatu. Reliquum est igitur exemplis ut iis atque adhortationibus non minus quam oraculo ipsi altiliano satisfacere studeamus. Tu vero quid ad haec, Thamyra? 25. THAMIRAS. Magna et me quoque spes tenet brevi fore quod dicis, cum graecos videam tum Aristotelis tum Platonis libros versari in philosophorum nostrorum manibus antiquasque illorum interpretationes aut passim abiici aut parum omnino placere; utque alios taceam, non ne Aegidius noster magna cum consectatione heremitarum suorum totus graecis est literis deditus? Sunt ex aliis quoque sacerdotum sive ordinibus sive sectis non pauci, qui eadem et ipsi delectatione studioque teneantur. Sed nos, o Pucci, ita quidem consessionis huius memores esse oportet, ut quae porticus ipsius lex est, eam cum primis sequamur, quippe cum disserendi locus suus sit cuique relinquendus tuque ipse iam videas, dum haec a nobis disseruntur, plures interim convenisse et ad dicendum et ad quaerendum, quod ex vultu quidem intelligo, intentissime paratos. Quamobrem ordienti iam Carboni, ut Musarum sacerdoti, ore faveamus; sic enim antiquis a sacerdotibus in sacrificiis silentium olim imperabatur.

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24. PUCCI. Caro vegliardo, questo tuo discorso può di certo, con la sua autorità, non meno che lo stesso Oracolo, spingerci a considerare i frutti dell’eloquenza, ai quali tu stesso ci esorti; anche per lunghi secoli, infatti, è avvenuto che per l’avversità del tempi il pregio dell’eloquenza non sia stato connesso con la dottrina, mentre alle origini non vi era alcun dotto che non fosse insieme anche eloquente. Ma lo studio dell’eloquenza, dopo la caduta dell’Impero Romano, si perdé del tutto, e a mala pena resistettero le vestigia della stessa grammatica, pur essendo, tuttavia, le arti tenute in onore; lo dimostra pienamente il gran numero di fisici e di teologi che spuntarono dopo Boezio, in Spagna, in Gallia, in Britannia e perfino in Germania. Perciò non deve sembrar tanto strano che gli studi di eloquenza mancassero. Tuttavia, vi è anche la speranza che essa sia destinata a riconciliarsi presto con la scienza della natura e con la teologia, essendo accaduto per opera tua, o Gioviano, che non sia mancato all’etica di essere illuminata dalla cultura latina e dalla conoscenza astrologica, quella che tu hai anche trattata in più volumi, in modo da collegare gli influssi delle stelle persino con le cause fisiche. Né, inoltre, sono mancati o mancano traduttori di molte opere dal greco in latino, che lo hanno fatto con grandissima dignità ed eleganza. Non ci resta, dunque, che adoperarci a seguire questi esempi ed incitamenti, non meno che lo stesso oracolo di Altilio. E tu, o Tamira, che ne dici? 25. TAMIRA. Una grande speranza l’ho anch’io che, in breve, quel che dici posa accadere, vedendo che i libri greci di Aristotele e di Platone vanno per le mani dei nostri fi losofi, e che le loro antiche interpretazioni o qua e là si respingono, o sono ben poco approvate. E, per non parlare degli altri, questo nostro Egidio non è tutto dedito alla cultura greca con un gran seguito di confratelli eremitani? E non sono pochi quelli che negli altri ordini o associazioni religiose, hanno la stessa passione e la stessa inclinazione. Ma è il caso, Pucci, che ci ricordiamo delle norme di questa accademia e che siamo noi anzitutto a seguirle, dovendo dare a ciascuno il suo spazio per partecipare alla discussione; e tu stesso già puoi vedere come, mentre noi discorriamo, son diventati parecchi quelli che, affluiti qui nel frattempo, sono pronti a parlare e a porre questioni con grande interesse, come mi accorgo dal loro atteggiamento. Sicché ascoltiamo in silenzio Carbone, come un sacerdote delle Muse, il quale sta prendendo la parola. Così, una volta, da parte degli antichi sacerdoti veniva intimato il silenzio nelle sacre funzioni. 691

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AEGIDIUS, III

III HIERONYMUS CARBO, PUCCIUS, THAMYRAS. 26. HIERONYMUS. Principio sedes apibus statioque petenda, Quo neque sit ventis aditus.

Huiusmodi exorsus est principio Virgilius, cum de apium rebus naturaque esset praecepturus. Mirum est autem unde coeperit et qua sit a re auspicatus: videlicet et prudens poeta et cautus habebat ante oculos quam imbecilla esset apium natura quodque in condenda illarum urbe potissimum erat inspiciendum, locus ut is eligeretur qui incolentium vitae esset praecipue accommodatus, idque et prudenter et apposite et secundum naturam. Sed quid quod in primo libro, qui est de segetibus, ab ipsa statim aratione coepit, nec aut quae esset natura soli aut quae regionum ante considerandum admonuit, cum praesertim genere in hoc scripti quod didascalicum graeco nomine literatores nostri vocant (pertinet enim ad erudiendum sive auditorem sive discipulum) ab initiis quibusdam etiam remotioribus auctores quandoque incipiant? Non ne Ovidius cum de mundi esset constitutione locuturus, a re etiam incomperta exorsus est? Ante mare et terras et quod tegit omina coelum Unus erat toto naturae vultus in orbe, Quem dixere chaos.

Itaque dum haec considero, ignorantiae me ipsum et accuso et damno, cum mihi ipsi hac in parte nullo modo satisfaciam ac praesertim videam Iovianum, qui conciliationi huic nostrae praesidet, locuturum de citriorum natura, ut de arbore peregrina, ut de cultu eius a nemine tradito coepisse a loco unde in Italiam advecta fuerat, ac de arboris ipsius primordiis quanquam fabulose, poetico tamen more tradidisse, ne ante de cultu eius praeciperet quam quae et qualis esset arbor ostendisset.

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EGIDIO, III

III GIROLAMO CARBONE,48 PUCCI, TAMIRA. 26. GIROLAMO. Devono sceglier, l’api, dapprima una sede e una stanza, protetta dal vento.49

Così esordì Virgilio, accingendosi a dare precetti riguardanti le api e il loro comportamento. Ed è meraviglioso l’inizio come l’argomento scelto per un felice avvio: ovviamente il poeta sapiente ed accorto aveva ben presente quanto fosse delicata la natura delle api e che cosa bisognasse osservare nella fondazione della loro città, ossia la necessaria scelta di un luogo tale, che fosse particolarmente adatto alla vita degli abitanti, fatta per di più con gusto, convenientemente, e secondo natura. Ma qual è la ragione per cui nel primo libro che tratta delle messi, incominciò subito proprio dall’aratura, e non ricordò che si dovesse, prima d’ogni altra cosa, considerare la natura del suolo e della regione, mentre, specialmente in questo genere letterario, denominato dai nostri letterati, con un vocabolo greco, «didascalico» (infatti riguarda l’insegnamento impartito a un pubblico di lettori o di scolari), gli autori talora si rifanno a princìpi anche un po’ troppo remoti? Ovidio, dovendo parlare della costituzione del mondo, non incominciò forse da una realtà ancora sconosciuta? Prima del mar, delle terre e del cielo che tutto comprende era uniforme nel mondo della natura l’aspetto, e lo chiamarono caos.50

Nel riflettere, pertanto, su questi argomenti, accuso la mia ignoranza e mi disapprovo, perché mi sento a questo riguardo assolutamente insoddisfatto, e soprattutto vedo che Gioviano, il quale presiede a questa nostra riunione, accingendosi a parlare della natura dei cedri come d’un albero esotico,51 di una coltivazione da nessuno trattata, ha cominciato dal luogo da cui era stato importato in Italia, e dalle origini di quella pianta, e sebbene lo abbia fatto con una favola,52 seguendo tuttavia il costume dei poeti, ci ha raccontato le origini dello stesso albero, per non trattare della sua coltivazione prima di averne esposto le caratteristiche. Perciò mi ri693

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AEGIDIUS, III

Quocirca ad te quidem me convertam, o Thamyra, si quid a Iulio Pomponio, cuius auditor fuisti et cultor, ad te item, Francisce Pucci, cuius erudimenta illa grammatica fuere sub Politiano; quos et rogo et obsecro ne invideatis nobis siquid, inquam, ab excultis illis viris habetis quod ex eorum sententia affirmare possitis in re mihi perquam difficili, vobis vero, ut arbitror, nec dubia nec investigatione vestra indigna. 27. THAMIRAS. Mihi quidem, etsi Pomponius et diligens fuit et cultus in explanandis poetis permultaque (quod mercatores sunt soliti in explicandis mercibus) quasi peregre a se quidem advecta ipse exponeret, non tamen in mentem venit in interpretandis illum Georgicis in eiusmodi quaestionem unquam incidisse; nesciam tamen an ne aliquid Puccius habeat hac in parte de Politiano quod referat. PUCCIUS. Neque ego quidem memini quippiam ab illo explicatum; itaque tuam ipsi potius quaestionis huius, Hieronyme, solutionem expectamus. HIERONYMUS. Atqui provincia haec prorsus tua est, Pucci, his in rebus annos tam multos qui versere summa cum auctoritate et gratia. PUCCIUS. Quod et anni mihi tribuunt et continuata his in studiis opera, id a me vel extorquere exhortatio, Hieronyme, potest tua. Quocirca tua ista sive exhortatione sive voluntate commotus, dicam ipse quod sentio ac pro mea quidem libertate, si tamen, data prius atque accepta fide, Thamyras tantundem et ipse post praestiterit; nam et ratio illa nondum a grammaticis prodita est, cur maxime tum Lucretius tum Virgilius et principia librorum et exitus tanta cum iucunditate ac venustate fuerit uterque complexus. Thamiras. Do fidem nec me poenitebit promissi. 28. PUCCIUS. Hac igitur conditione meam explicabo sententiam. Instituentis et in praecepta redigentis materiam aliquam a se susceptam officium videtur primo loco considerare, ipsam ante praeceptorum traditionem, rei ne cuiuspiam sit auditor admonendus; quod Virgilius praestitit in rebus apium, cum primum ac praecipuum in ea praeceptione sit locus ipse idoneus ac perappositus; praestitit et hoc de vitibus atque arbustis locuturus: Principio arboribus varia est natura serendis.

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EGIDIO, III

volgerò a te, Tamira, che sei stato allievo e seguace di Giulio Pomponio, ed anche a te, Francesco Pucci, che hai appreso sotto Poliziano quelli che sono i fondamenti della grammatica, e se da quei grandi studiosi avete imparato qualcosa che a loro giudizio possiate esporre senza incertezze in un campo così difficile per me, ma per voi, come penso, privo di dubbi e non indegno della vostra ricerca, vi prego e vi scongiuro di non negarcela. 27. TAMIRA. A me invero, sebbene Pomponio s’impegnasse con accortezza e dottrina nell’interpretazione dei poeti, e desse molte spiegazioni, come se si trattasse di argomenti peregrini da lui introdotti (lo fanno di solito i mercanti nell’esporre le merci straniere), non mi viene, tuttavia, in mente che, interpretando le Georgiche, egli abbia mai toccata una questione di questo genere: non saprei, però, se a questo proposito Pucci abbia qualche cosa da riferire derivata dal Poliziano. PUCCI. Io neppure ricordo di aver ascoltato qualcosa in merito: e perciò, Girolamo, aspettiamo piuttosto che sia tu a risolvere la questione. GIROLAMO. Ma questo settore è del tutto tuo, o Pucci, che con straordinaria competenza ed autorità ti dedichi ad argomenti di questo genere da tanti anni. PUCCI. Il tuo invito, Girolamo, può riuscire a farmi tirar fuori le conoscenze che gli anni e la continua applicazione in questi studi mi permettono di avere. Sicché, mosso da codesta tua esortazione o imposizione che sia, dirò liberamente quel che penso, a condizione che Tamira, a sua volta, scambiandoci la promessa, faccia dopo altrettanto: infatti, non ancora ci è stata resa nota dai grammatici la spiegazione del perché Lucrezio e Virgilio53 abbiano prestato la più grande attenzione, entrambi con tanta finezza ed eleganza, al principio e alla fine delle loro opere. TAMIRA. Faccio la promessa e non me ne pento. 28. PUCCI. A questa condizione, dunque, esporrò quel che penso. Nell’introdurre e raccogliere in precetti la materia della sua trattazione, sembra giusto che uno debba anzitutto considerare, prima di comunicarne i precetti, la materia nella quale l’uditorio vada istruito, e Virgilio trattando delle api dimostrò di saperlo fare, essendo innanzi tutto e principalmente quello il luogo idoneo e perfetto per dare quell’informazione. Fece così anche accingendosi a trattare delle viti e degli arbusti: Prima di tutto gli alberi che pianti hanno varia natura.54

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AEGIDIUS, III

Nec imitator eius Columella a magistro suo recessit cum praecepturus de colendis hortis praemisit: Principio sedem numeroso praebeat horto Pinguis ager.

Atque haec quidem ratio tanti videri potest, ut ante arationem faeiendam a Virgilio monefaciendus esset auditor observandae naturae agri ac soli. Verum ut fuit scriptor ille et in praecipiendo solers et in observandis rebus diligens, cum videret agrorum studium esse in Latio totaque Italia celebratissimum neque ab agricolis ipsis ignorari agrorum naturam neque etiam quae coeli vis esset ac regionis, praetermisit sponte id quidem quod illis arbitraretur observatum, coepitque non ab observatione terrae, id est ab agri natura sciscitanda, sed ab actione ipsa, ac si ab eo non ageretur cum imprudente agricola, sed experiente ac probato, cuius ipsius operam diligentem ac minime ignavam exigeret, ut post cognitionem eam, quam de agri natura haberet, agricola mature facto opus esse sciret essetque cum primis temporis studiosus, quippe cum primo loci, dein temporis et cura habenda est et ratio. Itaque et arationis ipsius initium ver constituit, nec tamen omittit in tradendis post praeceptis naturas quoque terrarum ac qualitates ostendere et qua etiam via id esset assequendum diligentissime aperit. Nec vero vos moveat quod a mediis fere nonnunquam rebus poetae ipsi ordiantur, cum id sequendum videatur in alio dicendi genere, ut in enarrandis bellis explicandisque rebus gestis, minime tamen in genere didascalico, quod totum in tradendis versetur praeceptis erudiendisque auditoribus. Quid igitur mirum exorditum esse Virgilium ab actione, id est a diligentia quam in agricola praecipuam exigit, quando in agro colendo, ut ipse ait, nihil umquam exhausti satis est? 29. HIERONYMUS. Dici vix potest quam me ratio ista delectet, quam etiam videatur omni e parte commendanda. Tu vero quid ad haec, Thamyra?

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EGIDIO, III

Né Columella, suo imitatore, si allontanò dal maestro quando scrisse, prima di trattare della coltivazione degli giardini: Prima di tutto la sede da offrire ad un orto fecondo un campo fertile sia.55

Una norma, questa, evidentemente di tanta importanza, che Virgilio ritenne necessario invogliare l’uditorio a tenerne conto prima di procedere all’aratura, alla natura del campo e del suolo. E da scrittore accorto nei precetti che dava, e osservatore preciso com’era, vedendo molto diffusa nel Lazio e in tutta l’Italia la cultura agricola, e non ignote agli stessi agricoltori la natura dei campi, l’influenza del clima e della regione, volutamente tralasciò ciò che a suo parere essi già osservavano, incominciando non dall’esame della terra, cioè dall’analisi naturale del suolo agricolo, ma direttamente dalle opere, come se non si rivolgesse ad un agricoltore sprovveduto, ma esperto e provetto, dal quale bisognava aspettarsi un lavoro diligente e non trascurato; per cui sapeva che, dopo aver accennato a quella nozione che l’agricoltore possedeva intorno alla natura del campo, era necessario passare subito a trattare dell’operazione effettiva da compiere, e considerare prima d’ogni altra cosa la stagione, in quanto come prima cosa si deve avere una premurosa nozione del luogo, in seguito della stagione. Pertanto egli fissa la primavera come inizio dell’aratura, e tuttavia non trascura, nell’impartire successivamente i precetti, l’esposizione della natura e della qualità dei terreni, di rivelare scrupolosamente anche il metodo da seguire per ottenere il risultato. E non vi paia strano, poi, che i poeti comincino, talora, dal bel mezzo del tema, mentre sembra che questa sia la regola di altro genere letterario, come dell’epica bellica, dei canti di gesta, e non già del genere didascalico, che consiste tutto nell’impartire precetti e nell’istruire il lettore. Che c’è di strano, dunque, se Virgilio ha cominciato dall’opera effettiva, dall’attenzione, cioè, che sopra ogni altra cosa egli richiede all’agricoltore, quando nella coltivazione d’un campo, come espressamente dice, nessun lavoro, pur esauriente,56 basta mai? 29. GIROLAMO. Non ci sono parole per esprimere il piacere che ricevo da questo ragionamento, e quanto mi sembri doversi sostenere sotto ogni aspetto. E tu, Tamira, che ne pensi?

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AEGIDIUS, III

THAMIRAS. Et mirifice probandam eam iudico et ad praestandum promissum meme accingo. Poetae officium, ni fallor, tribus in his praecipue vertitur, ut doceat, ut delectet, ut moveat; quae tametsi diversa videri iure debent, ut quidem sunt, tamen et dum docet quippiam et dum movet, necesse est ut tunc etiam delectet. Quonam enim modo auditorem aut docebis ipse aut movebis, ubi oratione uteris inerudita, incomposita, male conglutinata, verbis inconcinnis, gestu aut ridiculo, aut horrido, voce raucescente et dissona, ut opus omnino sit scriptorem praecipue memorem venustatis esse atque ornatus et gratiae? Virgilius igitur ac Lucretius, quo auditorem ad se raperent, ab ipso statim initio usi sunt principiis maxime iucundis ac festivis; ne ve satietas, quae inter narrandun docendumque solet obrepere, in discessu auditorem comitaretur, exitus quoque librorum malore etiam festivitate condivere lusibusque refersere iucundioribus. Videas itaque eosdem et ludere et lascivire totosque in eo esse, iis ut lusibus in initio auditores trahant ad ea libenter audienda, quae ipsi sunt praecepturi; in exitu vero et tanquam in peroratione id studere, ne discedentes satietate una teneantur, imo vero ut et hilaritatem secum in domum ferant et animum illorum memorem, quae somma cum iucunditate vel audierint vel fuerint etiam admirati. Quid enim magis admiramur quam rem vel magnam vel exiguam cum venustate lusam ac lepore et comitate? Videlicet redeuntibus nobis domina a conviviis non et fistulae comitantur et tibiae, quo satietas nulla sentiatur e coenis nullaque post coenas tristitia? Magno igitur cum artificio et Virgilius et Lucretius haec usurpaverunt, quorum exempla studiosissimus quisque poeticae praeponere sibi ante oculos debeat.

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TAMIRA. Io lo ritengo straordinariamente accettabile, e mi accingo a mantenere la mia promessa. Il compito del poeta, se non erro, riguarda principalmente tre cose, insegnare, dilettare, creare emozioni; ma, sebbene queste operazioni debbano a ragione apparire diverse, come di fatto sono, tuttavia, mentre un poeta insegna e crea l’emozione, è necessario che, contemporaneamente, produca anche il diletto: in qual modo, in verità, istruirai o creerai l’emozione nell’uditorio, usando un linguaggio incolto, sciatto, non armonico, fatto di parole sproporzionate, accompagnato da una gestualità ridicola o brutta, espresso con una voce roca e disarmonica?57 sicché è necessario che lo scrittore si ricordi soprattutto dell’amabilità, dell’ornamento e della grazia. Perciò Virgilio e Lucrezio, proprio all’inizio, hanno usato un avvio straordinariamente piacevole e brioso per attrarre l’ascoltatore: ed affinché alla fine non se ne andasse con quel disgusto che suole insinuarsi durante la narrazione e l’insegnamento, resero il finale dei loro libri ancora più piacevole, riempiendolo di più seducenti attrattive. Puoi notare, dunque, che essi giocano e si divertono, e son tutti presi dal fine di attrarre sin dal principio gli ascoltatori con argomenti piacevoli, per far loro ascoltare volentieri i precetti che si impartiranno; nel finale, poi, proprio come si fa nella perorazione, si adoperano a far in modo che gli ascoltatori, allontanandosi, non siano presi da alcun senso di sazietà, ed anzi si portino a casa la gioia e l’animo pieno del ricordo di ciò che con piacere sommo hanno udito o di cui sono anche rimasti ammirati. C’è argomento, infatti, che ammiriamo di più, di quello, grande o piccolo che sia, espresso con grazia, con garbo e con amabilità? Forse, al nostro ritorno a casa dopo il convito, non ci accompagnano e flauti e tibie, per non farci avvertire alcun senso di sazietà per la cena e nessuna tristezza dopo la cena? Con grande arte, adunque, Virgilio e Lucrezio si servirono di questi accorgimenti, che ognuno dedito alla poesia dovrebbe seguire, ponendoseli come modelli davanti agli occhi.

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IV MARINUS TOMACELLUS, FRANCISCUS AELIUS, TRISTANUS CARACIOLUS. 30. MARINUS. Ego vero, Hieronyme Carbo, facile passus sum te praeter altilianum oraculum aliquantum extra aciem progressum esse propter aetatem in qua ipse constitutus es; multo autem facilius patior, quod vetustissimi poetae, quos sacerdotes vocavit antiquitas, multa tradidere monumentis quae Christianis sint rebus admodum etiam similia, qualia sunt quae ab illis de secessu Elysio, a nobis vero de Paradiso dicuntur. Quocirca, Francisce Aeli, vertor enim ad te, qui studiose in iis adolescens perque etiam diu versatus es, quale illud sit quod ab illis de Elysiis proditum est locis ita nobis aperias, ut comparare rebus id nostris valeamus. AELIUS. Faciam id libenter tuo praesertim rogatu, nec minus ut viam quoque monstrem iuventuti, dum illa legunt, quanam ea ratione nostra ad haec convertant. Duplicem esse prisci illi hominis vitam arbitrati sunt, et quae duceretur cum corpore simul ab animo et qua animus ipse sine corpore frueretur – nam nefaria haec de animi interitu opinio nondum a sceleratis atque impiis quibusdam viris fuerat tanta cum improbitate suscitata –, ut vitae quidem genus alterum propter corpus tum sensibus indigere vellent, tum aliis corporis ipsius instrumentis, alterum vero, cum animus se a corpore seiunxisset, absolutum, liberum omnique corporea necessitate vacuum. Quocirca, quam diu animus ipse corpore conclusus teneretur, tanquam illius arctaretur vinculis, veluti in carcerem coniectum, minime vagantem aut liberum esse iudicabant; postquam vero a corpore separatus esset, liberum tunc ac sui prorsus iuris effectum. Haec itaque ipsa illa eius libertas campi sunt Elysii, in quibus ipse post solutum carcerem, pro insita vi naturaque felix ac sorte sua contentus diversaretur; quam diu enim a corpore tanquam compeditus teneretur, nec iurisditione tum sua libere uti eum posse, nec quae secum attulisset bona, illis pro divinitate ac iure suo frui. 31. Itaque vitam quae ab ortu duceretur ad obitum servilem esse ac carcerariam, quae vero post obitum bonis quidem illam viris beatam contingere, improbis vero miseram; ut palam quidem facerent eandem Deum sequi rationem in gignendis hominibus, quam prudens sequeretur paterfamilias in locandis operis ad agrum fodiendum. Nam et instru-

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IV MARINO TOMACELLO,58 FRANCESCO ELIO,59 TRISTANO CARACCIOLO.60 30. MARINO. A dire il vero, Girolamo Carbone, ho lasciato passare, senza fare difficoltà, il fatto che tu sia andato un po’ fuori tema, saltando l’oracolo di Altilio, per l’età in cui versi: e tanto più sono disponibile a tollerare ciò, in quanto anche i più vetusti poeti, che l’antichità chiamava sacerdoti, documentano molte credenze che rassomigliano assai a quelle cristiane, come quando ad esempio raccontano del luogo appartato dell’Elisio e da noi del Paradiso. Perciò mi rivolgo a te, Francesco Elio, che hai coltivato a lungo questi studi sin dalla giovinezza, per farci esporre le tradizioni antiche sui campi elisi, in modo che possiamo confrontarle con le nostre. ELIO. Lo farò volentieri, anzitutto perché me lo chiedi tu, ma non meno per far vedere anche ai giovani come debbano, quando leggono quei testi, tradurli secondo la nostra mentalità. Per gli antichi le forme della vita umana erano due: quella vissuta dall’animo insieme col corpo, e quella goduta dall’animo stesso senza il corpo, ma non era stata ancora sollevata da alcuni scellerati ed empi, con tanta malignità, l’idea nefasta della mortalità dell’animo; cosicché ritenevano che una forma di vita, per via della presenza del corpo, avesse bisogno sia dei sensi sia degli altri strumenti di cui lo stesso corpo è dotato; l’altra, invece, essendosi l’animo diviso dal corpo, è perfetta, libera ed esente da ogni necessità fisica. Ritenevano pertanto che, sino a quando l’animo è rinchiuso nel corpo, rassomiglia ad un uomo incatenato, gettato in carcere, per nulla libero di vagare; una volta separato dal corpo, allora diventa libero e padrone di sé. E questa sua libertà, pensavano, costituiscono i campi Elisi, nei quali l’animo, sciolte le catene, e felice per una innata virtù naturale, e contento del suo destino e in grado di muoversi di qua e di là; infatti, finché viene trattenuto dalle catene del corpo, non può godere liberamente dei suoi diritti, né dei beni portati con sé in base al suo diritto divino. 31. Sarebbe pertanto da servi e da carcerati, secondo il loro pensiero, la vita dalla nascita alla morte, mentre destinata ad essere beata per i buoni, infelice per i malvagi quella successiva alla morte, quasi a rendere palmare la verità secondo cui Iddio, nel generare gli uomini, segua lo stesso criterio di un prudente massaio nell’assumere la forza lavoro per far zappare la terra. Non solo, infatti, fornisce loro gli arnesi per 701

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mentum illis praebet ad fodiendum et quid illos ipsos facere velit operarios et verbis declarat et exemplis etiam commonefacit; quibus navatam post operam mercedem cuique suam distribuit commendatque officium eorum qui probe, qui vero improbe rem administrarint de mercede ipsa detrahit afficitque eos ignominia. Itaque merces eorum ac praemium, qui animum pie recteque coluissent, Elysius putabatur secessus, in quo is perpetua frueretur beatitudine; at qui corporis addicti lenociniis degenerare a natura sua animum propter corporis contagionem passi essent, eos relegabant ad loca coenosa, tetra, caligantia, delectatione omni vacua, aethereisque a regionibus remotissima, quippe quae etiam novies Styx interfusa coercet. Habes, Marine, quid sacerdotes illi Musarum sentirent et quas elysias esse amoenitates ducerent, coelum videlicet, ad quod patere reditum bonis arbitrarentur viris post mortem, malos contra ab illo arceri putabant, coelestique ab secessu eiectos extorresque in hac elementorum fece sordescere perpetuoque in cruciatu agere luereque ante actae vitae meritas poenas. Qua autem via haec ipsa christianis accommodari rebus queant, Tristanus hic, cuius dicendi sors a me secunda est, facile quidem ostendet, quique et qualis etiam christianus sit Paradisus christiano etiam sermone edocebit. 32. Tristanus. Ad rem me non iniucundam invitas, Aeli, difficilem tamen explicatu propter verba, quae divinis rebus parum quidem proprie accommodentur, cum ea ipsa humanis quam divinis explicandis aptiora sint magisque apposita, nec nos de Deo cum disserimus aliis quidem verbis quam cum de homine et loquimur et disputamus. Coeterum conabor, si non explanare, saltem innuere quinam hic sit hortus quem christianis suis Deus incolendum atque inhabitandum post mortem constituerit, nam Paradisus hoc ipsum sonat. Quocirca aequis animis audite balbutientem hominem magis quam pro dignitate explicantem rem ipsam, quae mihi e conventus huius lege institutisque demandatur. 33. Principio qui rebus nomina indiderunt blandioribus quaedam vocibus appellavere, veluti de quo nunc agimus Paradisum, ut blandimento ab ipso appellationis homines ad eas res amandas magis magisque allicerentur. Namque ut nostri loca dixerunt amoena quod ea suapte natura

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zappare, ma spiega ciò che vuole che facciano gli operai, esortandoli anche con esempi; e a ciascuno di essi, a lavoro finito, distribuisce la paga dovuta, lodando coloro che ben hanno lavorato, mentre diminuisce la paga a quelli che hanno compiuto male il loro compito, coprendoli di vergogna. Si credeva pertanto che la ricompensa e il premio per coloro che avevano coltivato l’animo secondo la pietà religiosa e la rettitudine morale, fosse il ritiro dell’Elisio, dove l’animo godesse la beatitudine in eterno; relegavano, invece, quelli che si erano abbandonati alle seduzioni del corpo, permettendo che l’animo, in seguito al contatto con il corpo, degenerasse dalla sua propria natura, in luoghi fangosi, tetri, nebbiosi, privi di ogni diletto e lontanissimi dalle regioni eteree, poiché «il fiume Stige, che vi scorre intorno, li cinge nove volte».61 Puoi così, o Marino, comprendere quale concezione avessero i celebri sacerdoti delle Muse delle piacevolezze dell’Elisio, e in che consistessero per loro, in che consistesse cioè il cielo, al quale credevano che ritornassero dopo la morte i buoni, e dal quale i cattivi fossero tenuti lontani, scacciati dal regno celeste, e costretti a vivere esuli, in desolata tristezza, nella zona più bassa dell’infimo mondo, in un perpetuo tormento per pagare il fio della vita passata. In qual modo, poi, queste credenze si possano accordare con quelle cristiane, ce lo mostrerà il qui presente Tristano, cui tocca parlare dopo di me, facendoci sapere come sia concepito il paradiso cristiano, usando anche una terminologia cristiana. 32. TRISTANO. Non è cosa spiacevole, Elio, rispondere all’invito che mi fai, ma è difficile per via del lessico, che certo con poca proprietà si adatta ad esprimere le divine verità, essendo più atto ed appropriato a spiegare i concetti umani che non quelli divini; né noi, quando discorriamo di Dio, lo facciamo con un lessico diverso da quello che adoperiamo parlando e discutendo dell’uomo. Comunque mi sforzerò, se non di chiarire, di accennare almeno al significato di questo «giardino» che Iddio ha assegnato ai suoi cristiani per viverci e abitarci dopo la morte: poiché Paradiso proprio questo vuol dire. Perciò ascoltate di buon grado uno che balbetta, più che spiegare degnamente questo argomento, che mi è affidato secondo le norme e le consuetudini di questo consesso. 33. Coloro che in origine diedero i nomi alle cose, alcune le chiamarono con nomi più gradevoli, come nel nostro caso quello di «paradiso», affinché dalla dolcezza stessa della denominazione gli uomini fossero ancor più invogliati ad amarle. Orbene, come i nostri chiamarono ameni 703

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sine aliquo humani cultus munere aut opera nos traherent ad se amanda invitarentque amoenitatis tantum gratia, sic graeci scriptores, quod horti maxime deliciosi sint atque ad oblectandum idonei, coelestem illam sedem ‘paradeison’ nominarunt, in qua, tanquam in hortulis hortensibusque in deliciis, sanctorum ac probatorum virorum animi conquiescerent, vel summo illo bono potius fruerentur et in ea quidem luce quam irradiatione sua Deus ipse effundit, nequaquam vero ut sol aut e stellis aliqua, sed ut qui et solus est et pater omnium et a quo lux quidem omnis elucescit, non qua ratione aut sol ipse illustrat quae intuetur aut sidera (quippe quorum illustratio oculis percipiatur indigeatque elementaribus adminiculis in hac praesertim mundi parte, quae terra dicitur), sed qua mentes beatissimorum fruuntur numinum Deo administrantium quaeque Deo ipsi sunt proxima; neque ad eam perfruendam corporis sit opus articulis, sed naturali illa tantum animi divinitate atque opera; parum tamen recte dixerim operam, quando nullus in ea re labor est, nulla agitatio, aliud tamen verbum minime habeo, quod hoc ipso sit accommodabilius. Animus igitur mensque ipsa suapte quidem opera Deum agnoscit, suapte Deum natura introspicit, suopte penetratu divinam se ad lucem, Dei ipsius munere, insinuat Deique aspectu fruitur, quae quidem ipsa fruitio Paradisus est. Haec immortalitas, haec beatitudo, humanorum hic officiorum piissimarumque actionum finis; ultra quem nihil est quod expetatur, nihil quod mens nostra extra eum inquirat, nihil in quo praeter ipsum aliud quippiam repositum intelligat, expetitione ac fruitione ipsa dignum, cum in eo collocata et perfecta sint omnia. 34. Namque ut nihil est supra Deum supraque eius maiestatem, sic res est nulla quae ante Dei fruitionem supraque eius notitiam alicuius habenda sit momenti, cum in eo ipso perfruendo omnia sint reposita eaque perquam perfecta et consumata. Hic est igitur Christianorum Paradisus, Elysiis deliciis similis, in quo tamen nec incolentium animi lacte vescimtur ac melle, sed eo tantum liquore qui nec aut capellarum manet ex huberibus, aut solarium e radiorum sullevatione terrenisque ab exha-

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alcuni luoghi, perché essi, per propria natura senza cura alcuna da parte dell’uomo, ci inducevano ad amarli, attirandoci solo con la loro amenità, così gli scrittori greci, essendo gli orti al massimo grado deliziosi e capaci di dilettare, nominarono «paradiso» la sede celeste, dove, come fra le delizie dei giardini, gli animi dei santi e dei giusti trovassero riposo, o, meglio, godessero di quel sommo bene, e per di più di quella luce che Iddio effonde da se stesso con i suoi raggi, non certo come il sole o qualche astro, ma come colui che è unico padre dell’universo, e per opera del quale certamente risplende ogni luce:62 non alla stessa maniera in cui il sole o le stelle illuminano ciò che guardano (la loro luce si percepisce infatti con gli occhi ed ha bisogno dell’aiuto di organi elementari, specialmente in questa parte del mondo che si chiama terra), ma alla maniera in cui godono le intelligenze angeliche che sono ministre di Dio e quelle sostanze che allo stesso Dio sono vicinissime: né, per godere di quella luce hanno bisogno delle deboli membra del corpo, ma soltanto di quella divina attività insita nella natura dell’animo: pur tuttavia, poco correttamente pare che abbia detto «attività», poiché in quell’operazione non risiede alcuna fatica, alcun movimento, ma non trovo altra parola più appropriata di questa. Adunque l’animo e l’intelligenza conoscono Dio per via della loro stessa attività, per via della loro stessa natura penetrano nella divinità, e attraverso la loro stessa capacità di penetrazione, dono dello stesso Dio,63 s’immettono nella luce divina e godono della visione di Dio, e proprio in questo godimento consiste con ogni certezza il paradiso.64 Questa è l’immortalità, questa la beatitudine, questo è il fine ultimo dei compiti che ha l’uomo e delle opere di pietà; non v’è nulla da desiderare di più, nulla che la nostra mente debba ricercare fuorché quello, nulla di nascosto che al di là di quello possa intendere, nulla che sia degno di esser desiderato e goduto, essendo in quel fine riposta ogni perfezione. 34. Orbene, come nulla è superiore a Dio e alla sua maestà, così nulla deve essere anteposto al godimento e considerato superiore alla conoscenza di Dio, giacché tutto risiede proprio nel suo godimento, in cui consiste la perfezione assoluta. Questo è, dunque, il paradiso dei Cristiani, simile alle delizie dell’Elisio, tranne il fatto che gli animi degli abitatori non si nutrono di latte e di miele, ma soltanto di un licore che né scende dalle mammelle delle caprette, né evapora per effetto dei raggi solari,65 né deriva dai vapori terrestri che diventano liquidi durante la 705

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AEGIDIUS, V

lationibus nocturno sub tempore liquescentibus, sed Dei tantum de luce fulgentissimoque eius diffundatur aspectu, mentes irrorans intuentium; de luce, inquam, manat ac liquescit illa quae nec oculis perceptibilis est hominum, nec affatu explicabilis, nec mentis ipsius licet aethereae immortalisque divinitate concipi omnino queat; nisi quod Deum qui videt omnia quidem videt quique eius aspectu fruitur nihil est quod deesse illi vere possis dicere, nihil est quod ulterius aut expetendum ab eo ducas aut desiderandum. Exigis fortasse, Marine, fruitionis huius locum. Quis, quaeso, in tanta coeli vastitate, mole, infinitate locum ipsum praescribat certum definitumque? nam decretum esse ipsum quidem ac sancitum quis dubitet qui ordinem Dei rerumque ab illo creatarum omni e parte perfectissimum maximeque sibi constantem intueatur ac consideret? Satis itaque esse homuntionibus nobis debet metiri illum animo, nec spatio finiendum ullo ducere, verum ab divina tantum luce divinique aspectus fruitione terminandum. Haec ego vestro ex imperio, Marine atque Aeli; urna ipsa de reliquis consulenda vobis est.

V PONTANUS, PETRUS SUMMONTIUS. 35. PONTANUS. Laetatur in coelo, ut arbitror, nunc Altilius exultatque inter beatissimos spiritus, cum intelligit in hoc consessu et pie cum Christo agi et suis piissimis monitis obtemperantis nos esse. Unum credo illi dolet, si dolere eum fas est dicere, quod in tanto conventu Actii locus sit vacuus voluntarium ob exilium, dum Federicum regem Neapolim relinquentem proficiscentemque ad Ludovicum in Galliam, accepta ab illo fide, benivolentiae tantum gratia sequitur ac gratitudinis. Sed Altilius consolatione nulla quidem indiget cum diis agens. Quod vero ad nos ipsos attinet; hominis maxime ingeniosi et docti quis nostrum non angatur absentia? Verum, Musis ipsum comitantibus, et illi nihil prorsus timendum est et nobis ipsis desiderio absentis eius temperandum, in re praesertim voluntaria et homine generoso digna. Tu quid ad haec, Petre Summonti?

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notte; ossia soltanto di quello che si effonde dalla luce di Dio e dal suo fulgidissimo aspetto, irrorando la mente di coloro che lo contemplano: voglio dire che emana e sgorga da quella luce che non è percettibile da occhi umani o spiegabile con parole, né potrebbe essere affatto concepita nemmeno dalla stessa sostanza divina della mente, quantunque eterea ed immortale, se non in quanto chi vede Dio vede in realtà tutte le cose, e non v’è niente che possa dirsi mancare a chi gode della sua visione, né che costui debba aspettarsi da lui o desiderare. Tu forse, o Marino, vuoi sapere dove risieda questo godimento. E chi, scusatemi, potrebbe assegnargli un posto determinato e definito in tutta la vastità e infinita grandezza del cielo? quantunque non si potrebbe dubitare che esso sia senz’altro decretato e stabilito, quando si guardi e si consideri l’ordine di Dio e del creato, perfettissimo in ogni senso e soprattutto coerente. Deve, dunque, bastare a noi, omicciattoli, poterlo definire intellettualmente, e non pensare di poterne delimitare lo spazio, ma di dovergli attribuire per confine solo la luce e la visione divina. Tutto ciò, Marino ed Elio, l’ho detto io per ordine vostro. Per le altre questioni dovreste consultare proprio un oracolo.

[V] PONTANO, PIETRO SUMMONTE. 35. PONTANO. Ora Altilio gioisce nel cielo, me lo immagino, ed esulta tra gli spiriti felici, venendo a sapere che non solo in questo raduno si ha devozione per Cristo, ma noi siamo obbedienti ai suoi divini precetti. Un dolore credo che abbia, se pur si può dire ch’egli avverta un dolore, e cioè che, in una riunione così importante, sia vuoto il posto di Azio, andato in volontario esilio, soltanto per affetto e gratitudine, al seguito di re Federico, che lasciando Napoli si reca in Francia66 presso Luigi, avendogli dato costui le dovute garanzie. Ma Altilio, vivendo con i beati, non ha bisogno di alcuna consolazione. Quanto a noi, invece, chi può non affliggersi dell’assenza di un uomo di così grande ingegno e dottrina? Ma lui non ha nulla da temere, perché lo accompagnano le Muse, e noi dobbiamo trattenerci dal rimpiangere la sua assenza, soprattutto nel caso di un sacrificio volontario e degno di un animo grande. Tu, Pietro Summonte, che hai da dire in proposito? 707

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AEGIDIUS, V

36. PETRUS. Me vero solicitat eius imbecillitas, cum saepicule quidem laboret de stomacho. Sed ipsa forte peregrinatio coelique varietas ac terrarum robur illi adiunget, quod fore quidem non despero. Quod vero ad animum eius ac consilium spectare potest, vehementer me hortantur versiculi eius, quos discedens ipse, in puppi constitutus, quasi Nereidibus audientibus ac locorum nymphis, decantavit; quorum ipsorum recitationem non temere recreamentum arbritrer quasi quoddam quaestionum haud multo ante explicatarum nec parvum quoque momentum allaturam absentiae eius desiderio moderando; sunt autem versiculi huiusmodi: Parthenope mihi culta, vale, blandissima Siren, Atque horti valeant Hesperidesque tuae. Mergillina, vale, nostri memor et mea flentis Serta cape, heu domini munera avara tui! Maternae salvete umbrae, salvete paternae, Accipite et vestris thurea dona focis. Neve nega optatos, virgo sebethias, amnes, Absentique tuas det mihi somnus aquas, Det fesso aestivas umbras sopor et levis aura Fluminaque ipsa suo lene sonent strepitu. Exilium nam sponte sequor, fors ipsa favebit; Fortibus haec solita est saepe et adesse viris Et mihi sunt comites Musae, sunt numina vatum; Et mens laeta suis gaudet ab auspiciis, Blanditurque animi constans sententia, quamvis Exilii meritum sit satis ipsa fides.

Hos ille abiens confirmato admodum animo vultuque quam maxime hilari pronuntiabat; quem nos ut amicum, ut regem sequentem suum et bonis prosequamur ominibus et Deos illi propitiabiles bene precemur. 37. Coeterum ut a quo tua, Ioviane, coepit, ad eundem quoque Altilium mea convertatur oratio, non ne existimas cum bonis illum geniis, qui pie percolenterque morientibus adesse solent, astitisse morienti nuper Elisio? quem tu ita quidem solatus es, sic hominem confirmasti, tale illi robur addidisti, ut astantibus honestissimis viris sacerdotibusque ma-

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36. PIETRO. Mi preoccupa, a dire il vero, la sua malferma salute, il mal di stomaco, di cui soffre piuttosto spesso. Ma, forse, proprio il viaggio e il cambiamento del clima e dei luoghi lo rimetteranno in forze, e non dispero di questa riuscita. Per quel che poi può riguardare il suo stato d’animo e la risoluzione presa, molto mi confortano i pochi versi che egli stesso recitò quando stava in partenza, ritto sulla poppa, quasi rivolgendosi alle Nereidi ed alle Ninfe del luogo; son propenso a ritenere che la recita di quei versi, non senza ragione, riuscirà a risollevare l’animo dopo le questioni or ora trattate, contribuendo non poco a mitigare il rimpianto della sua assenza. Ed eccovi i versi: Addio, da me adorata Partenope, dolce sirena, ai tuoi giardini addio, ed alle tue ninfe d’Esperia; salve, non ti scordare di me, Mergellina, ed accetta la ghirlanda bagnata di pianto, mio povero dono. Ombre materne, addio, addio, voi ombre paterne, ed accogliete in dono sul vostro fuoco gl’incensi. Né mi negare, o vergin sabetide, il caro fluire, e a me, lontano, il sonno conceda veder le tue acque. Mi doni il sopor l’ombre estive, ed un soffio leggero, ed il romor dei rivi, pur lieve, risuoni a me stanco. Vado spontaneamente in esilio, la sorte mi aiuti, lei che di solito aiuta i forti ed è loro vicina, mi accompagnan le Muse che son protettrici dei vati; e l’alma piena di gioia gode dei loro auspici; la costanza del cuore mi dona una grande dolcezza, pur se mi basta la fede a ripagar l’esilio.67

Questi sono i versi che lui pronunciava allontanandosi rincuorato e pieno di gioia a vederlo, e noi, come ad un amico che parte al seguito del suo re, rivolgiamo un lieto augurio, e preghiamo che gli sia favorevole il cielo. 37. Ma come, Gioviano, il tuo discorso è cominciato da Altilio, così a sua volta il mio vi ritorni: non pensi tu che, insieme con quegli angeli che sogliono esser vicini a chi muore con pietà e devozione,68 egli abbia assistito poco fa Elisio69 sul letto di morte? E tu hai saputo veramente come confortarlo, dandogli tanta sicurezza e infondendogli tanto vigore, da fargli dire ad alta voce, alla presenza di persone di grande rispetto e di 709

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xime venerabilibus ipse sullata voce diceret: «Mori nec deprecor, quando tu me ad mortem tam confirmate adhortaris, id est ad sempiternam perfruendam vitam illam quidem ac bonis viris quique pie vixerint cum diis ipsis communem». Haec ille moriens dictabat versabatque in ore: «Vive pius, moriere pius», non eo tamen sensu quo ab auctore suo versus ille pronuntiatus est, sed quod qui bene vixisset ac pie, eundem quoque emori contingeret. Et Gallutius quidem Elisius sic e vita discessit, ut amicis desiderabilem reliquerit sui ipsius memoriam.

VI PONTANUS, CHARITEUS. 38. PONTANUS. Ego te, Charitee, quod diutius mussitantem intueor, quonam mussitatio ista evadat tua vel aventer videre expecto, ni res fortasse uxoria negocium tibi afferat, in re praesertim familiari ac molestiarum plena. CHARITEUS. An fortasse arbitraris Petronillae uxori inditum nomen a Petrone ac vervece sectario; sic enim quidam e priscis illis eum vocavere, quod videlicet gregem mihi filiarum uxor comparaverit, quae illam sequantur et ad rem divinam atque in templa et ad invisendas per urbem puerperas, ad celebrandas item nuptias ac festos dies? Sed desinam hac nunc in consessione hisque in quaestionibus velle videri facetus. Vos igitur qui hic adestis, viri optimi, sic accipite: Hermetem illum, quem vetustas ob ingenii divinitatem agnominavit Termaximum, his ipsis diebus suis me armis, suis item telis instruxisse meque illius iurasse in verba; itaque Platone relicto ex hoc die militiam eius sequor. Quae autem, Ioviane, mussitantem me de eius lectione animadvertisti, haec quidem sunt, si modo eius ipsius libri, qui nunc versatur in manibus, Hermes ipse est auctor. In re quidem christiana duo potissimum principia esse consideranda: et mundi ipsius rerumque quae eo continentur hominisque praecipue creationem, quod primum quidem principium est, et generis ipsius humani, postquam in immensum crevit labique in ruinam improbitate

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sacerdoti profondamente venerabili: «Non mi duole di morire, una volta che tu, rincuorandomi tanto, mi esorti ad affrontare la morte, ossia a godere la vita, quella vita veramente eterna, che gli uomini buoni e che son vissuti religiosamente hanno in comune con gli stessi beati». E morendo ripeteva queste parole che aveva sulle labbra: «Vivi pio, morrai pio»; non già in quel senso con cui quel verso fu pronunziato dall’autore,70 ma nel senso che a chi è vissuto onestamente e religiosamente debba anche toccare di morire così. E, per verità, Elisio Gallucci morì in maniera da lasciare negli amici il ricordo e il rimpianto di sé.71

VI PONTANO, CARITEO. 38. PONTANO. Da un bel po’, Cariteo, ti vedo borbottare, e aspetto con ansia il momento di sapere che cosa voglia dire il tuo borbottio: non vorrei che ti desse qualche noia una lite con tua moglie,72 specialmente in una vita come la tua che ha un carico familiare ed è piena di fastidi. CARITEO. Pensi tu, forse, che a mia moglie sia stato attribuito il nome di Petronilla derivandolo da petro -onis,73 ossia dal «castrato», così chiamato da alcuni nei tempi antichi? Mi ha partorito74 infatti un gregge di figliuole, per farsi accompagnare alle cerimonie religiose e nelle chiese, e a visitare le puerpere per la città, e ancora ad assistere alle celebrazioni nuziali e partecipare alle feste. Ma ora basta, non voglio sembrare faceto in un consesso come questo e in mezzo a queste discussioni. Voi, dunque, carissimi amici qui presenti, dovete sapere che quell’Ermete chiamato dall’antichità «Trismegisto»75 per altezza d’ingegno, proprio in questi giorni mi ha armato delle sue armi e del suoi dardi, ed io mi sono affiliato a lui: pertanto, messo da parte Platone, seguo d’ora in poi la sua milizia. Quanto poi al mio borbottare a proposito della lettura di questo autore – e tu Gioviano te ne sei accorto – si tratta in realtà di questo, se è proprio Ermete l’autore di quel libro che ora passa di mano in mano. Senza dubbio nella religione cristiana due sono soprattutto i principii da considerare: il primo è certamente quello della creazione del mondo e delle cose che ne sono contenute e specialmente dell’uomo; il secondo – come penso che debba giustamente considerarsi – è quello della salvezza dello stesso genere umano, dopo il suo massimo sviluppo 711

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ac libidine coepit sua, salutem atque ab interitu illo miserabili receptionem, quod secundum quidem principium iure appellandum censeo. 39. Quodque Hermes ipse divini saepe verbi mentionem faciat, sic mecum ipse et rerum creationem perscrutor examinoque et Deum ipsum contemplor, ut qui initio per sapientiam quae sunt cuncta quidem verbo creasse illum contendam; post vero per Gabrielem, sive nostro genium sive graeco nomine angelum, salutem etiam verbo peperisse mortalium generi universo, facinus profecto utrunque divina illa caritate dignum Deique ipsius beneficentia et munere. Igitur creationem ipsam provenisse crediderim ex verbo Dei, dictante sapientia, quo statim momento enuntiavit Deus ipse dixitque: «Fiat coelum, fiat terra, fiat lux» quaeque coetera divino ex ipso verbo provenerunt omnia. Cumque praeter Deum ipsum antea praeterque sapientiam, quae cum Deo et erat ab initio et fuit et est semper, nihil existeret omnino aliud praeterquam verbum, quod ipsum Deus quidem erat, crediderim similiter omnia illa e nihilo verbo ipso Dei dictoque provenisse. 40. At dixerit quispiam: «Quonam modo Deus e nihilo haec ipsa eduxerit?» At quonam hic ipse consilio aut fiducia haec dixerit? cum audeat Aristoteles profiteri causam illam tertiam generationis esse carentiam, quam Latini quidam eius sectatores vocant fortasse minus proprie ‘privationem’; quae quidem ipsa nihil prorsus est, cum tamen et materia et forma res quidem ipsae sint, privatio vero re ipsa nihil omnino in se habeat, praeterquam cogitatione tantum concepta post voce enuntietur. Humanorum igitur ingeniorum, quanquam non tamen omnium, sive vanitas sive insolentia, addam etiam ignorantia, exigit expostulatque ad mundi procreationem convenire oportuisse materiam simul ac formam, quarum altera rebus insit ipsis illasque informet, ex altera vero res constituantur, itemque carentiam, quae ante generationem quidem nihil est; formam autem insitam sic esse rei volunt, ut omnino, postquam quod generatum est interiit, ne ipsa quidem amplius appareat, materiam vero in aliud transferri atque aliud. 41. Haec parum pii homines ita se habere et volunt et digladiantur parumque aut intelligunt aut considerant in divino illo edicto «fiat» et materiam inesse et formam; quando id ipsum Dei verbum Dei voluntas

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e la conseguente rovina dovuta alla sua malvagità e sregolatezza, e quindi del ritorno nella grazia dalla sua miserevole caduta. 39. E proprio come fa Ermete, menzionando spesso la parola divina, così, fra me e me, investigo ed esamino la creazione del mondo, e rifletto sulla persona divina, tenendo ben fermo che essa, da principio, per mezzo della sapienza, ha create con la parola tutte le cose, e che dopo, tramite Gabriele, Genio o Angelo che sia,76 a seconda che si usi il nome latino o il nome greco, ha procurato ancora con la parola la salvezza di tutto il genere umano, opere, l’una e l’altra, degne certamente della carità divina, della bontà e della grazia di Dio. Pertanto sarei propenso a credere che la stessa creazione sia derivata dalla parola di Dio, per ispirazione dalla sapienza, proprio nel momento che Iddio la pronunciò, quando disse «Sia fatto il cielo», «Sia fatta la terra», «Sia fatta la luce» con tutto il resto derivante dalla parola divina. E poiché, prima di allora, tranne Dio stesso e tranne la sapienza che era con Dio da principio, lo è stata e lo è sempre, tranne il verbo77 che certamente pur esso era Dio, non esisteva nulla affatto, sarei propenso a credere che tutte le cose siano derivate78 dal nulla proprio per opera della parola di Dio e dell’ordine suo. 40. Ma qualcuno potrebbe obiettare: in qual modo Iddio ha fatto derivare queste cose dal nulla? Ma in base a quale ragionamento o a quale certezza potrebbe fare questa obiezione, dal momento che Aristotile osa affermare che la terza causa della generazione è la carentia,79 quella che alcuni aristotelici latini chiamano, forse meno propriamente, privatio?80 Questa, a dire il vero, di per sé non esiste, mentre invece materia e forma esistono, e la privatio non contiene niente in sé, ma è soltanto un concetto astratto, espresso poi con la voce.81 Dunque la vanità, l’arroganza, aggiungerò anche l’ignoranza degli ingegni umani, sebbene non di tutti, pretendono e presuppongono che, per la creazione del mondo, sia stato necessario che si unissero insieme la materia e la forma, delle quali quest’ultima è propriamente l’essenza delle cose e le informa, mentre l’altra è ciò di cui sono costituite le cose, cioè la carentia che prima della creazione non esiste; sostengono poi che la forma è insita nell’oggetto in modo tale che dopo l’estinzione di ciò che è stato generato, anch’essa si dilegui, mentre la materia continua a prendere forme sempre diverse. 41. Sostengono tutto questo, accapigliandosi, persone poco religiose, e non capiscono quasi nulla, perché non considerano che, in quel divino comando,82 fiat, sono comprese la materia e la forma, essendo la parola la 713

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est, idem quoque verbum et iussus et edictum est Dei. Quamobrem si Dei voluntas verbum est et idem Deus est sapientia, idem quoque omnipotentia, quid mirum, oculatissime physice, in verbo illo Dei inesse simul et materiam et formam? ac materiam quidem, quoniam eandem hanc ipse posset sumministrare et simul cuncta ex ea propter omnipotentiam gignere, formam vero illam rerum constitutricem, quoniam sapientiae ipsius munus hoc esset proprium. Informare enim aut statuam aut picturam, cuiusnam est nisi sapientis aut pictoris aut statuarii? Quod si statuarii ac pictoris inest mente qualis sit futura statuae figura ac picturae, quam et hic et ille sibi effigiandam proposuit, quid, obsecro, vim ac potestatem hanc eripere conaris Deo, rerum omnium artifici? 42. In sapientia igitur Dei atque omnipotentia insunt haec ipsa omnia et informandi et materiandi, atque e nihilo etiam producendi quaecunque ipse et esse voluisset et decerneret fore, et quam diu quidem illa ipsa et esse decerneret et qualia. Itaque ut fatum a fando, id est a dicendo deductum est, quia Deus ipse sic edixerit atque effatus sit, cum rerum naturae legem praescriberet, sic et verbum, cum dixit ipse iussitque in rerum procreatione «Fiat coelum fiantque – ut ab eodem ipso dictum est – coetera». Quam ob rem hoc ipsum creationis principium rei publicae Christianae primum quidem esse principium statuo. Venio nunc ad alterum. PONTANUS. Tibi quidem, Charitee, videndum est quanam via progrediare, cum podager ipse sis medicorumque maxime indigeas opera, quorum officium est ad materiam potissimum studia curationesque suas referre. CHARITEUS. Ista quidem perinde dicuntur a te, Pontane, ac si ignores naturam ipsam ea ratione podagris consuluisse, quo dolorem minus sentiant, lingua ut uterentur loquaciore. Quodque tu ipse factus es iam surdaster, voce etiam utar clariore, magisque ac magis plena; quamobrem reliqua quae sunt, quaeso, animadvertite. Cognoverat Deus ruere in praeceps quem creasset hominem tanta cum dignitate atque excellentia animantium coeterorum; admonitus itaque a sapientia atque a caritate, consulendum ei decrevit etiam per verbum, per quod et illum genuerat. Itaque genius ille Deo acceptissimus, cum ex ore dixisset Dei «have, virgo, Dominus est tecum», verbum ipsum in utero receptum virginis

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volontà di Dio, così come il comando e l’ordine divino sono la sua parola. E perciò, se la volontà di Dio è il «verbo», e se Iddio è anche sapienza e onnipotenza insieme, che c’è di strano, occhiutissimo fisico, se in quel «verbo» risiedano insieme materia e forma? la materia, perché egli stesso può fornirla e, nel medesimo tempo, per la sua potenza, generare da essa tutte le cose; la forma, perché le fa essere, essendo questo per l’appunto la prerogativa propria della sapienza? Infatti, dar forma ad una statua o ad un dipinto, di chi mai è prerogativa se non dello scultore o del pittore sapiente? Che se sta nella mente dello scultore e del pittore l’eventuale figura che si sono proposti di rappresentare con la scultura o con la pittura, perché, di grazia, cerchi di negare questa capacità e questo potere a Dio, artefice di tutte le cose? 42. Proprio nella sapienza, dunque, e nella onnipotenza di Dio risiede la capacità di dar forma e materia all’intero universo, nonché di creare dal nulla tutte le cose che avesse voluto far nascere, nel presente e nel futuro, e di scegliere quali e di farle esistere per tutto il tempo che avesse voluto. Pertanto, come fatum è derivato da fari che significa dicere, perché Iddio stesso così decretò e parlò nel prescrivere la legge alla natura, così anche la «parola» deriva dal fatto che egli stesso usò la parola per comandare, nel creare il mondo, dicendo (come disse in effetti) «sia fatto» il cielo e ancora «siano fatte» le altre cose.83 Per la qual cosa fisso come primo principio che quello della creazione sia il principio della religione cristiana. Vengo ora al secondo punto. PONTANO. Ti conviene veder bene, Cariteo, su quale via ti stai inoltrando, essendo tu podagroso e avendo soprattutto bisogno dell’opera del medici, il cui compito consiste nel ricondurre i loro studi e la loro attenzione specialmente alla materia. CARITEO. Tu dici questo, Pontano, come se non sapessi che la natura stessa è stata provvidenziale verso chi è affetto dalla podagra, perché i podagrosi sentono tanto meno il dolore, quanto più sono chiacchieroni. E siccome tu sei ormai diventato un po’ sordo,84 parlerò a voce più alta e sempre più forte. Perciò, vi prego, state attenti al resto del discorso. Si era accorto Iddio che l’uomo, da lui creato con tanta dignità ed eccellenza rispetto agli altri animali, andava a precipizio, e, consigliato dalla sapienza e dalla carità, decise di venirgli in aiuto ancora mediante il verbum, col quale lo aveva creato. Pertanto, avendo quell’angelo famoso,85 fra i più cari a Dio, detto da parte sua «Ave, o Vergine, il Signore è con te», lo stesso verbum, 715

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humanitatem assumpsit, ut divinum verbum illud, cum e Deo esset, et homo idem fieret et nihilominus Deus esset; cumque e Deo natus esset Deus, idem tamen esset et pater et fi lius, perinde ut idem et Deus et homo; cumque ut Deus et homo aliquandiu versatus esset inter homines, mori denique pro salute hominis voluit atque ut Deus et homo liberare hominem a morte perpetua maximeque miserabili constituit. 43. Itaque ut verbum ipsum principium fuit creationis et mundi et hominis, sic et principium etiam eiusdem a mortis tenebris ac miseriis vindicandi. Nec mirum hoc ulli bene instituto divinaeque caritatis observanti videatur, si consideraverit verbis etiam hominum ipsorum alios iam iam in mortem prolabentes in vitam e morte restitutos, alios, dum pati contumeliosa nequeunt verba, mortem sibi ipsos conscivisse. Quod si nulla maior est hominis vis ac facultas quam quae constat e verbis, mirum si Deus verbo suo mundum primo constituit procreavitque hominem, deinde verbo etiam illum suo vindicavit ab interitu miserabili restituitque ad vitae munera etiam coelestis ac perbeatae? Haec mea erat, Ioviane, mussitatio illa a te animadversa, quam vobis veluti Hermetis studiosus ac novus eius miles explicavi; reliquum est ut, quoniam muneri a me satisfactum est meo, Pardum iam audiatis.

VII PARDUS, CHARITEUS. 44. PARDUS. Equidem ego te vel inter loquendum risissem, Charitee, nisi de religione deque republica christiana sermo esset habitus, dum physicos tam imprudenter, ne parum pudenter dicam, ipse in te provocas. Concedatur tamen hoc podagrae articularibusque doloribus, de quibus tam saepe quidem iaces; et quoniam a te de privatione facta est mentio, dicam de vi verbi, ne de rei significatione loquens videar adversus religionem per diverticula velle irrumpere. Hoc ipsum autem verbum in usum ita receptum est, ut alterum illud quod est ‘carentia’ a ple-

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ricevuto nell’utero della Vergine, assunse la natura umana, in maniera che il verbum divino,86 poiché derivava da Dio il suo essere, diventasse nello stesso tempo uomo, e nondimeno fosse Dio, ed essendo nato Dio da Dio, fossero tuttavia la stessa cosa il padre ed il figlio, come la stessa cosa Iddio e l’uomo. Ed essendosi come Dio e uomo per qualche tempo trattenuto fra gli uomini, volle alla fine morire per la salvezza dell’uomo; e, come Dio e uomo insieme, stabilì di liberare l’uomo da una morte perpetua e oltremodo miserabile. 43. In tal modo, come il verbum fu il principio della creazione del mondo e dell’uomo, così fu anche il principio della sua redenzione dalle tenebre e dalle miserie della morte. Né questo può apparire strano alla persona ben istruita che considera la carità divina, se ha avuto modo di riflettere sul fatto che alcuni, sul punto di morire, furono, anche per opera di parole pronunciate dagli stessi uomini, restituiti dalla morte alla vita, altri, non tollerando parole oltraggiose, si siano da se stessi data la morte. Che se l’uomo non ha nessuna forza e facoltà maggiore di quella consistente nelle parole, qual meraviglia se Dio, con la sua parola, dapprima edificò il mondo e creò l’uomo, successivamente, ancora con la parola, lo liberò da una miserabile rovina, restituendolo inoltre ai beni della vita celeste e felice? In questo consisteva, Pontano, quel mio borbottare di cui ti eri accorto, e di cui vi ho dato ragione, come studioso di Ermete e suo nuovo militante; non vi resta che porgere ora ascolto a Pardo; il mio dovere l’ho fatto.

VII PARDO, CARITEO.88 87

44. PARDO. In verità, Cariteo, avrei riso di te anche mentre parlavi, se l’argomento del discorso non avesse riguardato la religione e il cristianesimo, perché con tanta imprudenza, per non dire impudenza, ti attiri le ire dei naturalisti. Permettiamolo pure alla podagra e ai dolori articolari, da cui tanto spesso sei affetto; e siccome hai toccato la voce privatio, parlerò del senso che ha la parola, ad evitare il sospetto, se parlo del suo significato concettuale,89 che io voglia irrompere per vie traverse contro la religione. Orbene, questa parola è entrata talmente nell’uso, che l’altra, ossia carentia, rimane ignorata oppure un po’ fraintesa dai 717

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risque aut ignoretur aut parum bene intelligatur. Quo fit ut, cum a doctis etiam viris receptum sit, probari a nobis quoque ipsis debeat, quando nihil omnino afferrat quod aut interpretationi obsit aut adversetur disciplinae. Tamen sic habeto hanc ipsam vocem deduci a ‘privatu’ ipsoque a verbo ‘privo’, a quo est ‘privatus’; quae vox suapte natura adversatur ‘publico’, ut cum dicimus agros alios esse publicos, alios privatos, hoc est singularium civium, fitque ex eo ut vitam agere privatam dicamus eum, qui publicis gerendis a magistratibus abstinet civilibusque muneribus. Eadem quoque vox idem alibi prae se fert quod exutus spoliatusque; ut cum dicimus «privatum aliquem bonis ac fortunis suis», nec non etiam ut cum Lucretius ait: «privata dolore omni», quod libera sit exemptaque ac vacua dolore ab omni deorum natura. ‘Privum’ autem, a quo est verbum ‘privo, significat quod est suum cuiusque ac proprium, unde privilegium, quod non sit publicum, sed suum ac singulare cuiuspiam, sive civis sive familiae sive municipii. Sequitur autem haec ipsa privatio verbalium vim ac naturam nominum, ut ‘vectatio’, ‘legatio’, ‘verberatio’, ‘largitio’, ‘congressio’, ‘sponsio’, ‘cognitio’, ‘cohortatio’ et id genus coetera. Quocirca videtur a physicis accepta in ea potissimum significatione in qua est apud Lucretium, ac si ‘vacuitas’ quaedam ipsa sit, ut cum dicimus materiam aliquam, ut ceram, vacuam forma, quod ei nulla prorsus insit effigies, ut massam cementitiam, quae nec parietis nec structurae cuiuspiam figurationem habeat ullam, verum informis ipsa sit omnisque penitus informationis expers ac vacua. 45. Itaque, tametsi pro eo in quod ipsi intendunt physici ‘privationem’ accipiunt, parum tamen dictio id ipsum implere videtur, nec palam quidem illud nec plane praeseferre, cum voces ipsae verbales ubique sive passivitatem innuant tantum, sive activitatem, physicis vero opus sit voce praesertim indicativa naturae eius de qua est quaestio, cuiusmodi est ‘carentia’, quae indicet materiam ipsam quidem expositam esse ac paratam ad induendam se se forma qua ipsa penitus careat, non tanquam illa fuerit aliquando spoliata, verum ut exors atque omnino vacua, quaeque vestiri ea non dedignetur. De verbo autem ‘careo’ Marcus Tullius recte quidem multa praecipit, ut cum ait non posse eum qui ipse non sit re ulla carere, nec recte dici qui sit mortuus carere eum vita. Ad haec ne

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più. Perciò, essendo stata recepita anche dalle persone colte, dobbiamo recepirla anche noi, quando non rechi con sé alcun ostacolo all’interpretazione, o si opponga alla scienza. Abbiate tuttavia per certo che questa voce deriva da privatu e dallo stesso verbo privo da cui deriva privatus, voce che, per sua natura, si oppone a publicus, come quando diciamo che alcuni «campi» sono «pubblici», altri «privati», cioè di singoli cittadini; e di qui deriva che diciamo, riferendoci a chi si tiene lontano dagli uffici pubblici e dalle cariche politiche, che fa una vita privata. La stessa voce, in altri casi, ha pure lo stesso significato di exutus e spoliatus, come quando diciamo che uno è «privato» dei suoi beni di fortuna; ed anche, come dice Lucrezio parlando della natura degli dei, libera ed esente da ogni dolore, che è «priva di ogni dolore».90 Ma privum, da cui il verbo privo, significa ciò che è «proprio di ciascuno», onde si dice privilegium ciò che è non pubblico, ma che appartiene, peculiarmente, ad un solo cittadino, o ad una sola famiglia, o ad un solo comune. La stessa voce privatio assume poi il senso e il carattere dei nomi che derivano da forme verbali, come vectatio, legatio, verberatio, largitio, congressio, sponsio, cognitio, cohortatio, ed altre simili. Perciò vediamo che i naturalisti l’assumono specialmente con quel significato in cui compare in Lucrezio, come corrispettivo di vacuitas. Così diciamo che una materia è vuota di forma, per esempio la cera su cui non è impressa alcuna figura, o la massa di cemento, quando non ha alcuna conformazione né di parete, né di altra struttura, ma è informe e del tutto priva e appunto «vuota» di qualsiasi immagine formale. 45. Pertanto, sebbene i naturalisti assumano la privatio per intendere un loro particolare concetto, sembra, tuttavia, che la parola ben poco risponda a questa funzione, e che non lo esprima chiaramente e pienamente. Ciò avviene perché le voci derivate da verbi accennano solamente, in ogni caso, o il carattere passivo o il carattere attivo, mentre i naturalisti hanno soprattutto bisogno di una voce che indichi la natura della privazione di cui si tratta, come carentia, ad indicare che la materia stessa è disposta e preparata ad assumere una forma della quale essa manchi del tutto: non come se ne fosse stata una volta spogliata, ma perché ne è sprovvista e completamente priva, e non rifiuti di rivestirsene. Intorno al verbo careo, poi, Marco Tullio ci fa capire bene molte cose, come quando dice che «non può esser carente di qualche cosa chi di per sé non esiste»;91 e che non sia corretto dire di un morto che «è carente della vita». 719

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si dicamus vivum quidem hominem cornibus carere aut pennis, quia cum id non habeas quod tibi nec usu nec natura sit aptum, illo minime careas etiamsi sentias te non habere. Denique ‘carere’ ait esse ‘egere’ eo quod habere velis, inesse autem velle in carendo, nisi cum dicatur carere aliquis ‘febri’, aut cum aliquid non habeas neque id non habere te sentias, ad haec nec eo indigeas, tamen dicamus illo te carere. Itaque verbo ‘careo’ multis etiam modis ut aliis etiam quibusdam vocibus scriptores abutuntur multumque in dicendo non solum translatio valet, verum etiam abusus. Propriam itaque appellationem esse arbitror carentiam cum materia indigeat forma quam suapte natura cupiat sibi inesse. Quocirca Ciceronis quoque auctoritatem si sequamur, propria rei de qua agitur appellatio est carentia. Quia usus tamen aliter obtinuerit, nullo modo videtur repugnandum, penes quem – ut Horatius praecipit – et arbitrium iusque est loquendi et norma. Haec ego tecum habui, Charitee, quo pacem tibi cum physicis procurarem, quorum opera et stomachus et pedes isti tui tam saepe indigeant, ni aegre forte id tulerit Franciscus, qui hic adest, Pudericus, qui et ipse non modo cum medicis, verum cum ipsis etiam astrologis bellum gerat assiduum.

VIII FRANCISCUS PUDERICUS, PARDUS. 46. PUDERICUS. Quidni mihi cum astrologis bellum sit, Parde? cum Iovianum hunc videam, qui tam multa scripsit de sideribus, saepenumero illis irasci nec omnino satis bene de illortun dictis sentire atque enuntiatis, cum tamen disciplinae sit eius ipse mirifice studiosus; quanquam, ut mihi semper visus est, non ut Ioannes Picus in disciplinam ipsam armis equisque, quod dicitur, irrumpit, cum illam tueatur ut cognitu maxime dignam ac pene divinam, sed astrologos quosdam ut parum cautos minimeque prudentes insectatur ac ridet.

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Inoltre, neppure d’un uomo vivo può dirsi che sia carente delle corna, o delle penne, perché quando non hai ciò che, per natura e per uso, non ti si conviene, non sei carente di quella cosa, anche se sai bene di non averla. Dice infine che carere significa mancare di ciò che vorresti avere,92 e che questa parola comporta la volontà, a meno che non si dica di qualcuno che «ha carenza di febbre», oppure quando non hai qualche cosa e non pensi di non averla: in questi casi non diciamo che «ha bisogno» di quella cosa, ma che «non ce l’ha». Dunque gli scrittori fanno variamente abuso del verbo carere, come anche di alcune altre parole; e nel parlare vale non soltanto il senso traslato, ma anche l’abuso. Penso, quindi, che carentia sia la parola appropriata, quando la materia manca di quella forma che desidera, per sua natura, ricevere in sé. Perciò, seguendo anche l’autorità di Cicerone, la denominazione appropriata da dare al concetto, di cui stiamo trattando, è carentia («mancanza»). Perché, dal momento che essa si è conservata diversamente nell’uso, al cui dominio, come Orazio c’insegna, sono soggette la legge e la norma della lingua,93 in nessun modo sembra opportuno rigettarla. Questo avevo da dirti, Cariteo, per farti riappacificare con i medici, della cui opera lo stomaco e codesti tuoi piedi hanno così spesso bisogno; a meno che, per caso, non se ne sia infastidito Francesco Poderico, che è qui fra noi, e che, non solo con i medici, ma anche con gli astrologi è in continuo conflitto.

VIII FRANCESCO PODERICO,94 PARDO. 46. PODERICO. Perché non dovrei essere in conflitto con gli astrologi, Pardo mio, quando vedo che questo nostro Gioviano, che ha scritto tanto intorno agli astri, spesso si adira con loro,95 e che non ha proprio una buona opinione di quel che dicono e di quel che pensano, pur essendo lui un magnifico studioso di quella scienza? Per quanto, come ho sempre ritenuto, egli non irrompa armi e cavalli, come si dice, al pari di Giovanni Pico, contro quella disciplina che considera degna di essere sopra ogni altra conosciuta, e quasi divina; ma dà addosso a certi astrologi e li irride, come poco cauti e per nulla giudiziosi.

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PARDUS. Non temere hoc quidem, Puderice; quid enim magis sive absurdum sive temerarium quam, quod coniecturis praecipue constet, id necessarium esse velle? Cum enim coeli siderumque agitationes inferiora haec, quod liquido apparet, citatu moderentur suo, nequaquam tamen quae ab illis innuuntur iisdem numeris, eadem quoque qua portenduntur via ubique eveniunt, quod res ipsae inferiores superioribus illis causis aut non omni e parte assentiantur aut etiam omnino repugnent. PUDERICUS. Sunt igitur causae illae agentes ac primae, hae vero patientes ac secundae. PARDUS. Nimirum sunt; nam nec calor ipse solis ubique est aequalis, nec terrarum situs idem ac par omnium. Quodque ad hominum res spectat, voluntates ipsae nostrae, dum imperare velimus sensibus, liberae quidem sunt sideralibusque agitationibus aliquanto validiores. Quod quonam modo fiat, id si aperuerim, non indignum conventu isto videatur. Quatuor haec corpora, quaeque alio nomine sunt elementa materiamque generationi suggerunt vel ipsa eadem potius sunt materia, quatuor quidem humores sumministrant e quibus haec constant omnia. Hi pro motu quidem solis lunaeque atque utriusque habitu, ne de aliis nunc loquamur stellis, in assiduo ubique sunt aut incremento aut imminutione. Qua e re generatio cietur atque corruptio, exindeque in eodem nunquam persistunt statu, quando et solis et lunae mutationes ipsi quoque imitentur ac luna ipsa continenter pene fluctuet, sol vero erraticis cum stellis nunc sit ipse propior nunc contra remotior ab regionibus quas incolimus; quibus e rebus et incrementa sequuntur humorum qualitatumque et item imminutiones. 47. Has ad res permultum etiam regionum conferunt tum situs tum habitus, cum Apulia, Libya, Aegyptus aptior sit calori siccitatique augendae, quam aut Germania aut Gallia; hae vero quam illae frigori atque humectationi. Ad haec terrarum aliae non multam quidem hominum exigant aut operam aut industriam in re frumentaria procuranda, aliae contra suapte natura parum sint feraces. Quid, quod habitus ipse locorum alibi obtusiora gignit ingenia, alibi magis acuta eademque versutiora? Quo fit ut tam multae quoque rerum earundem sint varietates. Quod in saporibus potissimum ac succis ostenditur itemque in anima-

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PARDO. Non è un caso, questo, Poderico. Che c’è, infatti, di più assurdo e temerario del pretendere che abbia carattere di necessità ciò che consta di semplici congetture? In effetti, quantunque i movimenti del cielo e degli astri, come chiaramente appare, col loro corso, governino questo mondo inferiore, tuttavia i loro presagi non si avverano ovunque nella stessa misura e con la stessa cadenza in cui vengono annunciati, giacché il mondo inferiore o non risponde in tutto e per tutto a quelle cause superiori, o le contrasta perfino completamente. PODERICO. Dunque, quelle sono cause agenti e primarie, mentre queste sono passive e secondarie. PARDO. Non c’è dubbio. Infatti, il calore del sole non è uguale dappertutto, né eguale e identica la posizione di tutte le terre. Per quanto riguarda le cose umane, anche le nostre volontà, fin tanto che vogliamo esser padroni dei sensi, sono certamente libere e un po’ più potenti dei movimenti astrali. E se mi dovesse riuscire, la dimostrazione di questo fenomeno sembrerà bene all’altezza di questo consesso. Queste quattro sostanze, denominate anche elementi, che forniscono la materia alla generazione, o, piuttosto, sono essi stessi la materia, forniscono pure i quattro umori, di cui sono composte tutte le cose quaggiù. Gli umori, a seconda del movimento del sole e della luna e del loro conformarsi, per tacere, al momento, degli altri astri, sono dovunque in continuo accrescimento o in continua diminuzione. Da questo fenomeno scaturiscono la generazione e la corruzione, che perciò non persistono mai nello stesso stato, seguendo, a loro volta, le mutazioni del sole e della luna; e come la stessa luna quasi continuamente fluttua, così il sole con le stelle erranti ora è più vicino, ora è più lontano dalle regioni da noi abitate; e da ciò derivano così l’incremento come il decremento degli umori e delle qualità. 47. A questi cambiamenti contribuiscono moltissimo non soltanto il sito, ma anche le caratteristiche regionali, dal momento che la Puglia, la Libia, l’Egitto sono più esposte al calore e ad accrescere la siccità, che non la Germania e la Gallia; queste sono più esposte di quelle al freddo e all’umidità. Inoltre, alcune terre non richiedono molto industrioso lavoro da parte dell’uomo per produrre il frumento: altre, invece, sono per lor natura poco feconde. E la stessa disposizione dei luoghi non produce qui intelligenze più ottuse, lì più acute e anche ingegnose? Da ciò deriva che vi siano tante varietà anche in cose della stessa specie.96 E quel che si rileva soprattutto nei sapori e nei succhi appare egualmente negli 723

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libus sive feris sive altilibus, ac tum in celeritate eorum, tum etiam in statura et robore, ut humores hi ipsi non solum agitationes sequantur stellarum ac coeli, verum etiam agrorum naturas ac regionum tum situm, tum habitum. Quod cum ita sit, ne stellarum quidem effectiones ubique aut eaedem aut pares esse possunt; quae qui astrologus probe consideraverit, vix ille longius aberraverit a prognosticorum coelestium significationibus vere pronuntiandis, quousque tamen coniectura se se ipsa tuto conferre poterit. Haec igitur ipsa cum tantopere inter se dissentiant ac tam sint, quam profecto sunt, cognitu difficilia, nata est hinc observatio, cuius proprium est intueri quae appareant signa, eaque animadversa multumque retenta in mente quid tandem afferant expectare; indeque a re ipsa prognostica dicta sunt, non tamen ut semper quae promittere videantur praestent, sed quod plerumque tantum, cum et medici et nautae, ipsi quoque agricolae in curationibus aegritudinibusque, item in pluviis aut serenitatibus, frugumque proventu aut huberiore aut modico non raro se a signis observationeque deceptos querantur; minus ut mirum videri debeat astrologi quoque si fallantur, cum ipsae aliquando causae invicem se oppugnent, actionesque ac passiones inter se se, ut dictum est, non uno modo dissentiant. 48. Tertio ante anno ager campanus laboravit plus solito aestivis pluviis; eodem tamen tempore in agro brutio ac cotroniensi de nimia siccitate atque aestu vineae exaruere. Hinc igitur mathematicorum vanae praedictiones, quod ad ea quae portendi videntur a stellis non omnes conveniant simul causae permultaque eos lateant, quemadmodum et medicos. Et hi quidem frustra haberi solent non solum propter naturam morbi humorumque parum cognitam, verum etiam aegrotantium et regionis aerisque ipsius ob alias causas atque alias, ac tum ventorum tum exhalationum; illi vero propter incognitas stellarum ipsarum misturas, aut quod in id tempus incidant significationes aliquarum sive copulationum sive eclipsium aut cometarum multis ante annis eas portendentium, quae parum quidem observatae fuerint, interdum quod regio ipsa perniciosis a ventis aut vexetur aut a salubribus defendatur plusque venti ad

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animali, feroci o domestici che siano, e non solo nella loro celerità, ma anche nella loro statura e nella loro forza, di modo che questi stessi umori non si conformano solo ai movimenti del cielo e delle stelle, ma anche alla natura dei terreni, al sito e alle caratteristiche regionali. In questa situazione, neppure l’effetto degli influssi stellari può essere identico in tutti i luoghi. Sicché, se l’astrologo considererà correttamente tutti questi fattori, si discosterà di poco da una verace interpretazione dei segni offerti dai pronostici celesti, sino al punto, però, dove la congettura stessa potrà spingersi con sicurezza. Orbene, poiché queste cose sono piene di contraddizioni, e tanto difficili a conoscersi, come in effetti sono, è nata di qui quella che si chiama «osservazione», la quale ha il compito di esaminare le stelle che appaiono, ed aspettare, dopo averle considerate e serbate a lungo nella memoria, l’evento che alla fine apportano:97 di qui, dal fatto stesso, sono stati denominati pronostici, non già perché si avveri sempre quel che sembrano far prevedere, ma solamente perché accade il più delle volte. I medici, infatti, i marinai e gli stessi contadini, nelle cure e nelle malattie, come nel caso delle piogge, del tempo sereno e del rendimento più abbondante o più modesto delle messi, non di rado si lamentano di essere stati ingannati dall’osservazione astrologica. Deve, quindi, parer meno strano che anche gli astrologi possano errare, poiché, talora, le stesse cause sono in contraddizione fra loro, e gli influssi come i loro effetti, lo si è già visto, differiscono fra loro in modo variabile. 48. L’agro Campano tre anni fa soffrì più del solito per le piogge estive; nello stesso tempo, nel territorio della Calabria e di Crotone, le vigne inaridirono per il troppo calore e per la siccità.98 Di qui si può dedurre come le predizioni degli astrologi siano vane, perché le cause non si accordano tutte insieme con gli effetti che sembrano preannunciati dalle stelle, e moltissimi eventi sfuggono loro, allo stesso modo che ai medici. I medici, infatti, cadono spesso in errore, non solamente per la scarsa conoscenza della natura della malattia e degli umori, ma anche di quella degli ammalati, della regione e perfino del clima, per cause sempre diverse, comprese quelle dei venti e delle esalazioni. Gli astrologi cadono in errore a causa delle sconosciute interferenze fra le stesse stelle, o perché in quel momento si verifichino gli indizi, certamente a suo tempo osservati non molto bene, dovuti ad alcuni congiungimenti o eclissi, o comete, che molti anni prima avevano dato il pronostico; talora perché la regione stessa è tormentata da venti perniciosi, o è difesa da venti sa725

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prohibendum valeant, quam ad nocendum hostilis stellarum irradiatio. Anon Hetruriae maritima pleraque pestilens est ora propter paludes halitusque malignos ab iis afflatos aurasque illos agitantes, cum collinae eius regiones sint quam saluberrimae? Itaque et in locis illis palustribus salutiferae stellarum configurationes parum prodesse per aestatem poterunt et collinae salubritati non adeo malignae nocebunt ac pestilentes. 49. Patrii quoque mores consuetudinesque municipales atque artes institutaque tum publica tum domestica multum in utramque partem conferunt sideralibus configurationibus. Quid, quod rerum certa cognitio eaque quae scientia dicitur generalibus versatur in perscrutationibus? quis igitur humorum, e quibus constamus, singulares assequi possit sive commistiones sive temperaturas? quis rursus siderum particulares vires, quae tum abstrusissimae sunt, tum pene etiam infinitae? quis item adversantium inter se causarum digladiationes particulatim cognitas et observatas habeat et quantum et quousque? Itaque illi ipsi qui ad particulares dilabuntur praedictiones ab ipso etiam Ptolemaeo habentur derisui, cum necesse sit eorum coniecturas observationesque hac in parte vacillare ipsosque non solum deerrare e via, verum turpissime dilabi deque vestigio ruere. Vides igitur, Puderice, tam multi unde mathematicorum proficiscantur errores coniecturaeque tam fallaces, ut iure quidem irasci et possis et debeas in pestilentiis praedicendis itemque in sterilitatibus, tempestatibus, abluvionibus atque eventis aliis. 50. Veniamus nunc ad horninum voluntates, quibus, si se se ipsae sensibus dominandas permiserint, nihil est fluxius, imbellius, addam etiam infractius, domabiliusque, contra nihil quod sit illis generosius, robustius imperiosiusque, ubi sensus ipsos eorumque illectamenta nihili fecerimus miserimusque sub iugum. Vendidit M. Cato confectum iam senio equum, quicum ipse sive consul sive praetor militaverat, Marcus, inquam, Cato, optimus sui temporis orator, senator, imperator, sic enim est habitus. Cur vendidit? quia voluit, quia plus apud eum attenuatissima illa valuit parsimoniae cura quam ratio et senatore et oratore et imperatore tam valde etiam spectato digna; quodque usurpare esset solitus bonum patrem familias vendacem esse oportere magis quam emacem, voluit etiam in re sua praeceptum id pertinacissime tenere. At coactus

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lubri, ed hanno più potere i venti a impedire, che l’ostile influsso stellare a nuocere. La spiaggia marittima della Toscana, non è forse, per la maggior parte, pestilente a causa delle paludi e delle loro maligne esalazioni e dei venticelli che le agitano, mentre sono più che mai salubri le colline di quella regione? Così, in quei luoghi palustri, le benigne configurazioni stellari potranno giovare poco durante l’estate, e quelle maligne e pestifere non tanto nuoceranno alla salubrità della collina. 49. Anche le tradizioni, le consuetudini municipali, le arti, le istituzioni pubbliche e private hanno il loro peso, in bene o in male, insieme con l’influsso delle configurazioni astrali. E che dire della conoscenza sperimentale e di quella che si chiama scienza, che si occupa di ricerche d’indole generale? chi dunque potrebbe arrivare a conoscere le singolari combinazioni o mescolanze degli umori di cui siamo composti? chi, ancora, le particolari potenze degli astri, le quali, possiamo dire, non solo sono del tutto nascoste, ma quasi infinite? chi, ripetiamo, può ritenere di aver conosciuto ed osservato in particolare il conflitto99 fra le cause contraddittorie, e verificato la loro entità e il possibile sviluppo dei loro effetti? Pertanto, quegli stessi che si lasciano indurre a predizioni particolareggiate, sono oggetto di derisione persino da parte di Tolomeo,100 giacché in questo caso necessariamente le loro congetture ed osservazioni non reggono, e non solo deviano, ma si dileguano malamente e vanno subito distrutte. Sicché, Poderico, tu vedi l’origine dei così frequenti errori fatti dagli astrologi e delle così inattendibili congetture, e giustamente puoi e devi adirarti con loro, quando predicono pestilenze, e inoltre carestie, tempeste, inondazioni ed altri eventi. 50. Veniamo ora alla volontà umana, di cui, se lasciata al dominio dei sensi, nulla vi è di più instabile, di più fragile, e dirò anche di più fiacco e cedevole. Per contro, non v’è nulla di più nobile, di più solido e capace di comandare, se non daremo retta ai sensi stessi tenendoli a freno. Marco Catone vendette il cavallo sfinito dagli anni,101 col quale aveva militato da console e da pretore. Dico Marco Catone, fra i più grandi oratori, senatori, generali del suoi tempi, poiché questa è la sua fama. Perché lo vendette? Perché volle: perché in lui ebbe maggior forza quella riduttiva preoccupazione del risparmio, che la valutazione adeguata ad un senatore, ad un oratore, ad un generale così ragguardevole. E volle ostinatamente osservare, anche nei propri riguardi, quel precetto ch’era solito seguire, che cioè al buon padre di famiglia si convenga più vende727

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est ad hoc ipsum ab natalitia coeli stellarumque configuratione. O coelum avarissimum, o stellas tam attenuate ac sordenter parcas, quae in hoc tam intentae essent tantopereque pervicaces! Potuit procul dubio coeli stellarumque configuratio Catonem facere ad parsimoniam propensiorem propter humorum e quibus constaret compactionem, non tamen ut cum summa et senatorum et civium Romanorum sive accusatione sive irrisione militarem vel consularem potius equum vilissimo etiam pretio captus venderet; ac si equus ille nascente Catone solicitas stellas sua etiam de venditione fecerit! Ptolemaeus, Aegypti rex, sororem suam duxit uxorem, impulsus videlicet expugnatusque natalis coeli ac stellarum themate! O profanum coelum cum themate etiam tam impuro et conquinato, in quo tam immanis reposita esset libido! quis vel summe etiam improbus ac pervicax asseverare hoc audeat? Etenim configurationes illae intemperantiam tantum portendunt humorum ac concretionis corporeae; atque in re quidem venerea, detur etiam et in sororia coniunctione. An non felicissimus ipse rex ac potentissimus poterat, quod quidem noluit, sororem suam alii locare in matrimonio, ipse aliam sibi ducere? 51. At medici vel modicis adhibitis medicamentis humorem qui nimius sit temperant coguntque sub regulam, qui minimus atque attenuatus eum et exuscitant et attollunt; tu vero, rex eximie, minime potuisti nefariam istam libidinem continere! quod videlicet noluisti. Patravit igitur scelus hoc quia voluit; nam si voluisset, qua diximus via evitare illud omnino poterat. Quod ut patraret, credibile est multas variasque in ea re cogitationes consumpsisse, sed passus est tandem a libidine se se vinci. At apud Persas eiusmodi matrimonia erant et usitata et concessa secutusque est finitimae gentis exempla. Nam qua promptitudine secutus ipse Persas est, cur non Macedones secutus est suos laudatissimosque Macedonum reges? nequaquam autem secutus est quia noluit, quia imperari maluit sibi a libidine quam ipse libidini imperare. I nunc et coelum incusa et stellas et nefarias stellarum configurationes! 52. Tempestate hac nostra qui apud reges regulosque magistri fuere epistolarum, utque hodie dicuntur secretarii, summum in modum lo-

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re che comprare. Ma a ciò fu costretto dalla configurazione del cielo e delle stelle nel giorno della sua nascita. O cielo avarissimo, o stelle così riduttivamente e squallidamente parche, che furono in questa occasione tanto accorte e tanto ostinate! Avrebbe potuto, senza dubbio, la configurazione del cielo e delle stelle far di Catone un uomo più propenso alla parsimonia, per la compattezza degli umori di cui era composto il suo corpo, ma non tanto da fargli vendere, attirato dal prezzo perfino basso, il suo cavallo di soldato o meglio di console nonostante denigrazioni e derisioni, non lievi, da parte dei senatori e dei cittadini romani; come se quel cavallo, quando nacque Catone, avesse fatto preoccupare le stelle anche della sua vendita. Tolomeo, re d’Egitto, sposò sua sorella, evidentemente spinto e soggiogato dalla configurazione del cielo e delle stelle all’atto della sua nascita! O cielo profano, configurato in senso così impuro e corrotto, da contenere tanta immane libidine! Chi mai, perfino la persona più malvagia e ostinata, oserebbe affermarlo? Le configurazioni, infatti, fanno prevedere soltanto l’intemperanza degli umori e della complessione fisica, e in campo erotico si conceda pure il connubio con la propria sorella. Forse che non avrebbe potuto, quel re fortunatissimo e potentissimo, fare ciò che non voleva, cioè far maritare sua sorella con un altro, ed egli sposare altra donna? 51. Ma i medici, anche usando farmaci leggeri, temperano il soverchio umore e lo riportano alla regola, come lo risvegliano e lo fanno salire, quando esso è troppo basso e ridotto. Ma tu, o esimio re, non fosti capace per nulla di frenare la tua nefanda libidine; evidentemente non lo volesti. Commise, dunque, questa sconcezza, perché volle; giacché, se avesse voluto, avrebbe potuto del tutto evitarla nel modo che abbiamo detto. E per commetterla, si può pensare che vi abbia molte e varie volte riflettuto su, ma che infine, si lasciasse vincere dalla libidine. Ma presso i Persiani erano in uso e consentiti matrimoni di questo genere, ed egli seguì gli esempi del popolo confinante. Ora, con la prontezza con cui seguì l’esempio dei Persiani, perché non imitò quello dei suoi amici macedoni ed ammiratissimi re di Macedonia? Non li seguì affatto, perché non volle; perché volle essere piuttosto comandato dalla libidine102 che comandarla. Va, dunque, e accusa il cielo, le stelle e le infauste configurazioni delle stelle. 52. Ai nostri tempi coloro che presso i re e i principi sono adibiti alla cancelleria, i segretari, come oggi si chiamano, si son tutti sommamente 729

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cupletati sunt omnes, praeter Iovianum hunc, qui hic adest, quam ad rem ab amicis familiaribusque assidue cohortatus cum esset, nunquam a proposito dimoveri potuit, illud in ore semper habens: «Egere nolo, opulentus esse recuso». Qua ratione non modo cupiditati imperavit pecuniarumque appetitioni, verum ipsis etiam regibus in republica moderanda; quam animi firmitatem his ipsis etiam diebus ostendit. Cum enim, capto regno Neapolitano, Ludovici Galliarum regis praefectus magistratum ei offerret, quo e reditu eius senectutem opulentiorem duceret: «At, inquit, non opulentiorem eam feceris, verum occupatiorem, quando diis iuvantibus nullius honestae rei indigeo». Voluntas certe haec fuit ratione temperata eaque cupiditatum victrix ac sensuum titillantium. 53. Nero Augustus singulari fuit crudelitate nobilitatus; quis sanae tamen mentis inficietur in procreando Nerone seminis humorumque temperaturam, e qua fotus ipse et concretus est, apprime malignam fuisse stellasque ipsas eam ad rem adiumenti plurimum contulisse, ut suapte natura Nero proclivis esset atque incitus ad saevitiam? Fuere igitur rei huius causae tum materia ipsa e qua Nero constitit, quod male esset fermentata, tum stellarum malus habitus perversaque configuratio, quae aut humorem secuta est, malignum illum quidem atque perverse affectum, aut eum malignitate ac depravatione affecit sua. Esto, detur hoc quidem. At invenire nova suppliciorum genera inusitataque excogitare tormenta et cum artifice convenire qua via navicula maternum ad naufragium opportune strueretur, Neronis hoc fuit sanguinariaeque eius voluntatis, non stellarum ac coeli. Fuit autem Neronis, quia voluit; voluit autem, quod ab ambitione rapiebatur, qua expugnatus conculcavit ipse rationem. Sed desinam pluribus iam exemplis uti, maximorum etiam virorum, quorum voluntates victae cupiditatibus aut sensuum captae illecebris iere praecipites. Quocirca his hunc in modum explicatis, quaeramus eadem haec aliquanto etiam exploratius. 54. Principio laus omnis vituperatioque voluntariis versatur in actionibus existitque ab illis. Cum enim natura duce movearnur ad ea cupienda quae boni alicuius speciem prae se ferant eaque a sensibus repraesententur, de quorum titillatione animus se se exciat, non prius tamen

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arricchiti, tranne Gioviano che è qui fra noi: e nonostante che vi fosse continuamente esortato dagli amici e dai familiari, non lo si poté mai rimuovere dal proposito, sempre pronto com’era a ripetere: «Non voglio esser povero, ma mi rifiuto di esser ricco». Ed in questo modo, non solamente egli ha dominato la cupidigia e il desiderio di denaro, ma ha superato anche gli stessi re nel governo dello Stato; fermezza d’animo, questa, che ha dimostrato anzi proprio in questi giorni. Difatti, dopo la caduta del regno di Napoli, offrendogli il luogotenente di Luigi, re di Francia,103 una incarico, con la cui rendita poter trascorrere più agiatamente la vecchiaia, lui ha risposto: «Anzi, non la farai più ricca, ma più piena di preoccupazioni, dal momento che, grazie al cielo, non mi manca nulla che sia necessario al mio decoro». Certamente questa volontà fu diretta dalla ragione, e capace di vincere l’avidità e l’attrazione del sensi. 53. L’imperatore Nerone divenne famoso per la sua straordinaria crudeltà; ma chi, sano di mente, potrebbe negare che, nel mettere al mondo Nerone, intervenisse prima di tutto una maligna mescolanza di seme e umori, da cui egli ricevette la vita e la complessione?104 e che proprio le stelle avessero dato tutta la loro cooperazione per far di Nerone un uomo naturalmente proclive e dedito alla crudeltà? Furono, dunque, causa di ciò sia la materia della quale era formato Nerone, perché male fermentata, sia la cattiva posizione delle stelle e la loro perversa configurazione, che accompagnarono l’umore certamente maligno e perverso, o lo influenzarono con la loro malignità e depravazione. Sia pure così, concediamolo. Ma inventare strani generi di supplizi, escogitare inusitate torture, e mettersi d’accordo con l’esecutore su come dovesse essere preparata la navicella appositamente per provocare il naufragio della madre, fu tutta opera di Nerone e della sua sanguinaria volontà, non delle stelle e del cielo. Fu opera di Nerone, perché lo volle lui; volle, perché si lasciò trascinare dall’ambizione, e soccombendo ad essa calpestò la ragione. Ma non ricorrerò ad altri esempi, sia pure di uomini sommi, la cui volontà, sopraffatta dalla passione o conquistata dalle attrazioni dei sensi, andò a precipizio; perciò, dopo questa introduzione esplicativa, sottoponiamola ad un esame un po’ più specifico. 54. Prima di tutto, ogni lode e biasimo riguarda le azioni volontarie, e da esse deriva. Ora, quantunque noi siamo spinti per natura al desiderio di ciò che in qualche modo ha l’apparenza di un bene per via della rappresentazione che ne fanno sensi, dal cui stimolo l’animo viene 731

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ad ea peragenda, quibus assecuturum se se illa confidat, animus ipse expergiscitur, quam voluntas quoque suscitetur; quae initio quidem ut libera ac sui iuris latius evagatur, post vero, adhibita secum in consilio ratione ac frenum sibi ipsa imponens, eo accepto, se se ipsam moderatur redigitque intra praescriptum; mox deliberando eligit quae pro facultate ac viribus suis eligenda videantur. Quin ratione duce illa ipsa perscrutatur diligentius perpenditque maiore cum pensitatione quae a sensibus sunt oblata, an talia sint qualem eorum species se se offert, sint necne ipsa utilia et iucunda, an rursum inutilia et molesta. Post vero, his perpensis et cognitis evagationeque illa tam libera sub frenum coercita, iter statim ingreditur quo, quae eligenda esse duxit, pervenire ad ea possit. Iuris itaque atque arbitrii eius fuit, nec ne vellet sive eligere ac prosequi seu nihil omnino curare. Est igitur suapte natura statimque ex quo suscitata est libera; quae rationem si sequatur, libertatem ubique suam et tuebitur et retinebit; sin relicta ratione a sensibus delinita illis obsequatur, nimirum amissa libertate captiva ducetur, et quae imperare ipsa sibi noluit, imperio serviet alieno. Est igitur sui iuris ac libera, quotiens se se a sensuum malarumque cupiditatum vi ac captivitate tuebitur. Tunc vero facile tuebitur cum, excitata inter eam sensusque ipsos controversia bonane sint an mala quae a sensibus offeruntur, rationem sequetur illamque sibi in auxilium vocabit, cuius etiam consilio utetur ac ductu. An non tibi voluntas ipsa videatur libera, quae cum sensibus in certamen descendat quaeque victrix omnino evasura sit, praeterquam si illorum insidiosis blanditiis capi se patiatur? 55. Demum quia ad actiones tunc accingimur cum voluntas ipsa et voluerit et elegerit et decreverit suscipiendum aliquod sive inceptum sive negocium, merito actiones ipsae ad voluntatem referentur; quae si cum ratione progredietur, nimirum ipsae laudabuntur; contra vituperabuntur ubi et in eligendo et in progrediendo de rationis deerrans via sensusque deliciis emollita cupiditatem sequetur ducem illiusque inhaerebit vestigiis parueritque imperio. Non solum autem res ipsae actionesque voluntatem liberam esse testantur, verum etiam nomen ipsum deliberandi, quod videlicet liberum eius sit in decernendo iudicium, velit ne suscipere et prosequi, an contra desistere ac sensuum ipsorum monita

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sollecitato,105 tuttavia lo stesso animo non è indotto a compiere le azioni, per mezzo delle quali confida di soddisfare quello stimolo, se prima non si ridesta la volontà. Certo quest’ultima, essendo libera e padrona di sé, inizialmente si muove di qua e di là, ma dopo, impiegando la ragione nell’intimo della coscienza, e dandosi un freno, una volta che vi si sia adeguata si modera da sé e si riduce nei giusti limiti; poi, deliberando, fa le scelte che gli sembrano doverose in base alla capacità delle sue forze. Anzi misura con maggiore ponderatezza ciò che le offrono i sensi, per vedere se sia tale quale si presenta in apparenza, e se sia utile o gradito, ovvero inutile e scomodo. Quindi, dopo averlo soppesato ed essersene resa conto, dopo aver frenata l’eccessiva irrequietezza, si avvia subito verso la realizzazione della scelta fatta. È dipeso, pertanto, da sé e dal suo libero arbitrio, volere o non voler fare o non quella scelta, e perseguirla o non darsene affatto pensiero. La volontà è, dunque, per sua natura e dal momento stesso in cui viene sollecitata, libera: e se segue la ragione, serberà e manterrà in ogni caso la sua libertà. Se invece, abbandonando la ragione, facendosi allettare dai sensi, se ne lascia dominare, con la perdita della libertà diverrà ovviamente prigioniera, e non avendo voluto signoreggiare se stessa, sarà asservita al comando altrui. Pertanto, essa è perfettamente libera tutte le volte che saprà sottrarsi alla violenta oppressione dei sensi e dei desideri nocivi; allora sì che potrà facilmente ritenersi sicura, quando, nella controversia che sosterrà con i sensi, se siano beni o mali le loro offerte, essa si schiererà con la ragione, e invocherà il suo aiuto, facendosi anche da essa consigliare e guidare. O non ti sembra libera quella volontà che scende in guerra contro i sensi, e che sia tale da uscirne pienamente vittoriosa, a meno che non si lasci prendere dai loro insidiosi allettamenti? 55. Infine, poiché allora ci accingiamo ad agire, quando la volontà ha voluto, ha operato la scelta e stabilito di affrontare qualche impresa o affare, è giusto pensare che le azioni stesse dipendano dalla volontà; e, se questa procederà con la ragione, esse otterranno senza dubbio un giudizio positivo, mentre si attireranno la critica, se essa, nel procedere alla scelta, deviando della ragione, infiacchita dal piacere dei sensi, si lascerà guidare dalla passione, le terrà dietro ubbidendo ai suoi ordini. Che la volontà sia libera, poi, non è solo la realtà delle azioni ad attestarlo direttamente, ma perfino il vocabolo «deliberare», con cui si vuol dire che il giudizio di essa è libero nel valutare se voler accogliere e osservare, 733

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labi sinere. Legum quoque constitutores ac mederatores populorum id ipsum testantur, cum impunita dimittant crimina quae furentes admittunt atque insania perciti, quod voluntaria ea minime sint nec furentes ipsi liberi aut sint aut haberi debeant. 56. Postremo autem considerandum videtur, cum sensus corporei ipsi sint singulique corporeis utantur instrumentis, ut auribus ad audiendum, ut oculis ad videndum, naribus item ad inodorandum, palato linguaque ad degustandum, ac sive manibus sive alia parte corporis ad tangendum, voluntatem tamen ipsam nulla parte corporis uti nullaque re corporea cum aut deliberat aut eligit decernitque, quippe cum vis ea potestasque tantum sit animi atque ex omnibus animalibus hominis unius. Quo fit ut coeterorum quidem sit sive impetus sive instinctus tantummodo, hominis vero voluntas propria ac peculiaris. Igitur, si stellarum effectiones versantur inferioribus in corporibus rebusque illis tantum quae ex elementis constant, ipsaque elementa campus quasi quidam sit in quo stellae vires exerceant suas, quanam via voluntates hominum subiectae illarum sint agitationibus, quarum iurisditio tantum sit in elementis rebusque elementaribus, animus vero et incorporeus ipse sit et ab omni prorsus elementari qualitate ac conditione vacuus, cuius voluntas ipsa vis potissima quidem sit, quae actiones ad quas homo natus est vel commendatione honestet, vel opprobrio damnet ac contemptu? 57. Iure igitur, Puderice, mathematicis illis succenses, qui tam sint futuras ad praedicendas res proni hominumque mores ac fortunas ab ortu statim ipso pronuntiandas; ac si nulla in eis sit libertas, nulla deliberandi aut eligendi sive ratio sive auctoritas; quae quidem tanta est, ut homo sui iuris sit in iis administrandis omnibus in quibus animus imperare habeat, nec corporis ei sit opus ministerio ac praesidiis. Possunt coelestes tamen configurationes impedimento illis tunc esse ac se se animo ipsi opponere cum corporeis atque externis indigeat auxiliis ac favoribus. Ubi vero actiones solius tantum fuerint animi, frustra tunc de stellarum actionibus disputatur ac viribus, cum, ut dixi, animus ipse liber sit ac suopte arbitratu eligat decernatque. Haec habui tecum tuamque in defensionem quae, Francisce, dicerem, longius fortasse quam portio dicendi ferret mea, brevius certe quam res

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o fuggire invece e lasciar perdere il richiamo dei sensi. Anche i legislatori e i governanti degli stati lo attestano, quando lasciano impuniti i delitti commessi dai pazzi e dai dementi, perché non sarebbero affatto volontari, e i pazzi non sarebbero liberi né dovrebbero considerarsi tali.106 56. In ultimo, poi, sembra giusto considerare che, mentre i sensi sono essi stessi corporei e si servono ciascuno di strumenti corporei, come degli orecchi per udire, degli occhi per vedere, delle nari per odorare, del palato e della lingua per gustare, e delle mani o di altra parte del corpo per toccare, la volontà non fa uso invece di alcuna parte del corpo e di alcun mezzo fisico, quando delibera, sceglie o giudica, essendo essa solamente una potenza e una facoltà dell’animo, e appartenendo unicamente all’uomo, fra tutti gli animali. Sicché gli altri animali hanno solo l’impeto e l’istinto, mentre la volontà è una prerogativa degli uomini. Pertanto, se l’influsso degli astri riguarda i corpi inferiori e solamente le entità composte di elementi, e gli elementi a loro volta rappresentano il campo su cui gli astri esercitano la loro potenza, in qual modo mai la volontà degli uomini potrebbe esser soggetta ai loro movimenti, giacché il potere di questi ultimi si esercita soltanto sugli elementi e sulle cose elementari, mentre l’animo è incorporeo e completamente libero da ogni qualità e condizione fisica, e proprio la volontà ne è la potenza fondamentalmente designata a far onorare col plauso o a far deplorare col disonore le azioni che l’uomo è nato a compiere? 57. Giustamente, quindi, Poderico, tu ti adiri con quegli astrologi che sono tanto propensi a predire le cose future e a prevedere, sin dal momento della nascita, i caratteri e la fortuna degli uomini, come se costoro non avessero alcuna libertà, alcuna capacità razionale o autorità nel deliberare e nell’operare la scelta, che sono invece di tale entità, da concedere all’uomo il pieno diritto di governare su tutte quelle cose sulle quali è dato all’animo comandare senza bisogno del servigio e dell’ausilio del corpo. Possono, nondimeno, le configurazioni celesti frapporvi un ostacolo e perfino contrapporsi all’animo, allorquando questo abbia bisogno di aiuti e di sostegni fisici ed esterni. Ma, quando le azioni derivano solamente dall’animo, è vano allora discutere dell’influsso e della potenza delle stelle, in quanto, come ho detto, l’animo è libero, sceglie e delibera a proprio arbitrio. Erano queste le argomentazioni che mi proponevo di esporre parlando con te e in tua difesa, Francesco, forse più a lungo di quanto permettesse il tempo a mia disposizione, ma certo più brevemen735

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ipsa exigit. Quamobrem finem his faciam, si prius tamen hoc subdiderim, hominum illorum numerum oppido quam exiguum esse, animum qui colant animique arbitratu utantur atque imperio, cum multitudo fere universa corpori sit omnino dedita corporeisque illecebris, ut fortasse mathematicis ipsis permittendum sit laxissimis etiam habenis currere ad apotelesmata pronuntianda.

IX PONTANUS, SUARDINUS, POETUS. 58. PONTANUS. Venit mihi in mentem, Suardine, tuque, fundane Poete (ut, quando a vobis coepit, vobiscum quoque consessio haec desinat), plurima secum damna afferre etiam ingeniorum tempora ipsa temporumque iniquitates, non pauca rursus honestamenta commendationesque et artium et facultatum, eorundem quoque felicitatem. Audivistis ipsi quam apposite Pardus, quam pro rei natura et ornate disseruerit et copiose. Itaque quanquam senem me annisque gravatum, spes tamen cepit fore ut, antequam a vobis emigrem, latinam videam philosophiam et cultu maiore verborum et elegantia res suas explicantem utque, relicta litigatrice hac disputandi ratione, quietiorem ipsa formam accipiat et dicendi et sermocinandi ac verbis item suis utendi propriis maximeque romanis. Cumque plura sint quae me ad hanc ipsam invitent spem, cum primis profecto Aegidius mihi hoc promittit heremita, quem superioribus diebus in hortis coenobii Baptistae Ioannis cum deambularemus, quod est Neapoli ad Carbonariam, adessentque mecum una quem hic adesse cernitis Hieronymus Carbo, itemque Chariteus, ita quidem locutum et ipse memini et hi ipsi testificari hoc idem possunt, ut aegerrime ferret vitium hoc inter philosophantes inolevisse nostrorum temporum coepisseque illud iam nostris a maioribus, nemo ut nunc audeat latino more ac pervetusto illo quidem maximeque probabili de naturae rebus deque virtutibus disserere; fluxisse autem inde vitium ipsum, quod superiorum temporum philosophi, secuti eorum qui aristotelicos libros satis quidem ignoranter transtulere et verba et modos ac dicendi figuras, multa quae latine ac

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te di quel che il problema stesso non richieda. Per la qual cosa, porrò fine al mio intervento, ma non prima di far considerare come sia, più che non si pensi, esiguo il numero di coloro che riconoscono il pregio dell’animo, e che si servono dell’arbitrio e dell’autorità di cui esso dispone; mentre quasi la totalità degli uomini è dedita al corpo ed agli allettamenti sensibili, sì che non si possa far altro che permettere agli astrologi perfino di correre a briglia sciolta nel rivelare oracoli.

IX PONTANO, SUARDINO, PETO. 58. PONTANO. Penso, Suardino e tu, Peto Fondano107 (per finire con voi questa seduta che da voi è cominciata), che di per sé l’età come l’iniquità dei tempi recano con sé la perdita di non pochi ingegni, a loro volta anche quella di non pochi degli onori e riconoscimenti dovuti ai meriti artistici e scientifici, nonché della loro buona fortuna. Voi stessi avete udito con quanta aderenza al problema specifico, con quanta ornata facondia abbia discusso Pardo. Perciò, quantunque vecchio e oppresso dagli anni, nutro la speranza di vedere, prima ch’io vi lasci per sempre, la filosofia latina trattare la sua materia con maggior decoro ed eleganza espressiva, e la disputa assumere, mettendo da parte la litigiosa maniera oggi in voga, una forma più serena di espressione e di ragionamento, ed anche la proprietà e la purezza della lingua romana. E pur essendo vari gli indizi che m’inducono a questa speranza, uno dei primi è la garanzia che mi dà l’eremitano Egidio. Questi, pochi giorni or sono, passeggiando nel giardino del monastero di San Giovanni a Carbonara,108 situato a Napoli, mentr’ero in compagnia di Girolamo Carbone che qui vedete fra noi, ed anche di Cariteo, parlò in questi termini, come io ricordo e loro stessi possono testimoniare. Disse che non riusciva proprio a sopportare che si fosse sviluppato fra i fi losofanti del nostri tempi, e fosse già cominciato dalle generazioni precedenti, questo difetto, che nessuno abbia il coraggio di discutere di scienza della natura e di etica secondo l’antichissimo e assai pregevole uso latino; e che quel difetto era scaturito dal fatto che i filosofi delle generazioni precedenti, imitando i traduttori piuttosto ignoranti dei libri aristotelici, hanno mancato di rendere con parole ben appropriate i vocaboli, lo stile e le figure del loro linguag737

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proprie dici possunt aut neglexerunt accommodatis explicare verbis, aut scire quonam pacto recte dicerentur, id minime curavere. 59. Coepit igitur sic vir et doctus et eloquens: est graece ‘exis’ a verbo suo ‘echo’, latine autem ab ‘habeo’ ‘habitus’, qui et agendo quidem et diu constanterque assuescendo comparatur. Nam et diutius exercendis iis quae liberalis sint viri, cum laude qui consuescit ‘habitum’ sibi agendi liberaliter vendicat, qui vero administrandis fortibus agendi quidem fortiter; et prior ille ‘habitus’ liberalitas, posterior vero hic fortitudo dicta est recte quidem ac proprie. Namque militaris ut habitus militem designat, pontificem pontificius, rusticanus agricolam, pastorem, calonem, fossorem, nauticus item nautam, sic quam quisque ingenuo dignam homine actionem exercuit exercetque, habitus hic ipse agendo comparatus illam ipsam indicat sive artem sive facultatem. Et hic quidem ab ‘habendo’ dictus est; coeterum vis illa et huic et illi, aliique atque alii a natura insita, quaeque etiam nonnumquam ab institutione magis magisque aut augetur aut excitatur, per quam huic quam illi rei actionique exercendae quispiam magis aptus est atque idoneus, graece est ‘diathesis’, ab alia quidem voce quam quae est ‘echo’; quo factum est ut graeca in latinum qui transtulere dixerint ‘dispositionem’ non solum inepte, verum etiam ignoranter ac parum proprie. Nam latine ‘dispositio’ ordinem quidem innuit rerumque ipsarum ac progressionis seriem, minime vero naturalem illam sive vim aptitudinemque sive innatam propensionem. Cum enim ‘ponere’ et vitem et arbusculam prisci illi dicerent, vim compositae dictionis secuti, ‘disponere’ et vites dixere et arbores, per ordinem videlicet eas serere ac per agrum distributim infodere; quod Virgilius innuit dicens «pone ordine vites», hoc est ‘dispone’; hinc etiam dicti dispositi in quincuncem ordines; deductaque translatione a re rustica, duces et ipsi copiarum dicuntur ‘disponere’ acies, hoc est exercitum in ordinem cogere et suo quemque militem loco constituere ad conserendas manus; inde etiam patres familiarum ‘disponere’ rem familiarem, hoc est in ordinem illam ac sub regulam redigere. Oratores quoque et ipsi ‘dispone-

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gio, che si potrebbero in numero consistente rendere con la purezza e la proprietà della lingua latina, o non si sono minimamente preoccupati di sapere in qual modo potersi esprimere correttamente. 59. Incominciò dunque così quell’uomo, dotto ed eloquente qual era. Vi è in greco exis dal verbo echo, e in latino habitus da habeo,109 l’«abito» che si acquista con l’azione e con un esercizio abituale lungo e costante. Infatti chi in maniera lodevole si assuefà al lungo esercizio di quegli atti che si addicono ad un uomo liberale, acquisisce l’abito di agire con liberalità; chi poi si assuefà all’esercizio di atti che implicano la fortezza, acquisisce l’abito di agire con fortezza. Sicché giustamente e propriamente il primo abito fu detto liberalità, il secondo fortitudine. Difatti, come l’abito militare designa il soldato, quello pontificale il pontefice, quello rusticano l’agricoltore, il pastore, il bagaglione, lo zappatore, e quello nautico il marinaio, così per chiunque ha compiuto o compie atti degni di un uomo libero, l’abito acquisito con l’operare rivela precisamente quell’arte o attitudine che sia. E questo habitus deriva certamente da habeo. Del resto la forza insita dalla natura in questo e in quello, nell’uno e nell’altro, e che più di una volta si sviluppa o si desta ad opera dell’educazione, per la quale uno diventa atto e idoneo ad esercitare questa più che quell’attività, in greco si chiama diathesis, vocabolo che deriva certo da una voce diversa da echo. Per la qual cosa è avvenuto che coloro i quali lo tradussero dal greco in latino con il vocabolo dispositio, hanno sbagliato non solo per inettitudine, ma anche per ignoranza e scarsa attenzione alla proprietà, perché in latino dispositio indica l’ordine e la serie progressiva delle cose, e non già la forza naturale o l’attitudine o l’innata propensione. Difatti, sebbene gli antichi dicessero ponere in riferimento ad un oggetto come la vite o un arbusto, aderendo al significato del verbo nella forma composta dicevano disponere le viti e gli alberi, cioè piantarli in ordine e interrarli con una determinata distribuzione lungo il campo; cosa a cui accenna Virgilio, quando dice «Pone ordine vites»,110 cioè dispone. Derivò di qui l’usanza di dire, degli ordini,111 che sono dispositi come i cinque numeri di un dado; e, deducendo il traslato dall’arte agricola, si dice che i capitani disponunt le schiere, mettono, cioè, in ordine l’esercito e assegnano a ciascun soldato il proprio posto di combattimento. Scaturisce di qui, ancora, l’uso di dire che i padri di famiglia disponunt gli affari della famiglia, cioè danno loro un ordine e una regola. Anche degli oratori si dice che «dispongono» le cose da dire, 739

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re’ traduntur quae dicenda sunt, id est quo quidque loco quoque ordine disserendum sit in causa; unde rhetoricae pars illa maxime prudens artificiosaque ‘dispositio’ est vocata. Itaque parum proprie ‘diathesis’ ab his dicta est ‘dispositio’. 60. Sed noluerunt qui primi hoc dixere laborare in perquirendo proprio et suo nomine, contenti quadam quasi dictionis assimili constitutione ac structura, cum tamen parum ipsi periti romanae essent elocutionis; ac si non et recte et romane et significanter a verbo ‘habeo’, a quo est ‘habitus’, deduci posset deductaque inveniretur dictio huius ipsius quod quaerimus indicatrix; quae quidem est ‘habilitas’. Qua in deductione a verbo suo facienda et copiosiores et rei ipsius significantiores sumus quam Graeci. Nam si ‘habitus’ est qui post vendicatur, nimirum ‘habilitas’ haec ipsa recte quidem ac significanter dicitur vis illa praecedens, qua et ducimur et fovemur et adiutamur ad habitum comparandum; siquidem ut habitus praesefert rei comparatae adeptionem, sic habilitas vim illam aptitudinemque indicat et idoneitatem, si latine diceretur, sive a natura insitam sive ab institutione productam confirmatamque; quasi Virgilius hoc ipsum nobis non et ostenderit et expresserit cum dixit: Atque habilis membris venit vigor.

Nam et vigorem appellavit vim illam a natura ingenitam (est enim a ‘vigendo’ vigor, ut apud Sallustium: «aetas viget, animus valet») et ‘habilem’, idest aptum atque idoneum, dixit. Itaque quid hoc ipso vocabulo appositius significantiusque ad explicandam ‘diathesin’ inveniri potest? 61. Sed noluerunt desidiosi viri, ne dicam loquendi ignari, in hoc laborare, quando satis habuere posse se se excusare quod multa essent graece quae latine dici parum possent commode, ac si hoc ipsum non multo melius a nobis quam a Graecis et dicatur et deducatur. Videlicet non et Aristoteles ab eodem verbo a quo est ‘exis’, id est habitus, deduxit novum verbum ‘entelecheia’? non etiam e nostris eruditi quidam scriptores ab ‘habeo’ declinarunt habentiam, ut ‘enthelecheia’ perfecta sit corporis habentia? nova quidem vox, ex ‘habeo’ tamen verbo ab illis

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definiscono, cioè, il posto e l’ordine di ciascun argomento nel trattare la causa: onde fu chiamata dispositio quella parte della retorica che richiede esperienza ed ingegno particolari. Con poca proprietà, dunque, diathesis è stata da costoro tradotta con dispositio.112 60. Ma coloro che usarono per primi questa terminologia non vollero darsi molta pena nella ricerca d’una parola appropriata e idonea, e si accontentarono d’un vocabolo in certo qual modo simile per formazione e struttura, pur essendo essi poco esperti del linguaggio latino. Come se dal verbo habeo, da cui deriva habitus, non si potesse latinamente, correttamente e in modo perspicuo far derivare, e non se ne trovasse già fatta la derivazione, il vocabolo che indica proprio quel che stiamo cercando, habilitas; e nel fare questa derivazione di un nome dal verbo siamo più che non i Greci forniti e capaci di rendere un concetto. Se habitus, infatti, è quello che si acquisisce in seguito, senza dubbio si indicherà, correttamente e con la garanzia di rendere il concetto, col nome di habilitas la potenza che precede, dalla quale siamo confortati e aiutati ad acquisire l’habitus. Poiché come l’habitus porta con sé l’acquisizione, così habilitas indica, con vocabolo latino, quella potenza, attitudine e idoneità, sia essa insita per natura o prodotta e rafforzata dall’educazione; e lo stesso Virgilio ci ha dimostrato ed espresso proprio ciò, quando scrisse: E l’abile vigor venne alle membra.113

Infatti, chiamò vigor la potenza infusa dalla natura (il vocabolo vigor deriva da vigeo; come presso Sallustio: «L’età è vigorosa, valido l’animo»),114 e la disse «abile», cioè, atta ed idonea. Pertanto, quale vocabolo si può trovare più adatto e più significativo di questo per esprimere il significato di diathesis? 61. Ma non vollero quegli uomini pigri, per non chiamarli ignoranti della lingua, prendersi troppa briga, poiché ritennero che potesse essere una scusa sufficiente il fatto che esistano in greco molti vocaboli che poco agevolmente si possono rendere in latino; come se proprio questo vocabolo non si ottenesse col metodo della derivazione molto meglio da noi che dai Greci. Non fece derivare anche Aristotile la nuova parola entelechia da quella stessa da cui deriva exis, ossia habitus?115 E anche alcuni nostri dotti scrittori, non fecero derivare habentia da habeo, intendendo per entelechia la perfetta habentia del corpo?116 voce nuova, 741

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declinata, quo rem ipsam proprie magis significantiusque exprimerent. Quid quod haec ipsa ‘diathesis’, pro rerum diversitate, latine aliis atque aliis explicari verbis et potest et consuevit, ut cum dicimus quempiam sive affectum sive propensum esse ad mercaturam magis quam ad literas? Vis enim illa aptitudoque naturalis tum affectio tum propensio et proprie et significanter dicitur, minime vero dispositio, et homo ille eam ad rem propensus affectusque, non autem dispositus. Nam ‘proclivis’ facilitatem magis praesefert voluntatis quam naturae vim atque aptitudinem, quae tamen a propensione ipsa affectioneque exprimitur. 62. Dicunt etiam tofum, eadem cum absurditate, male ‘dispositum’ statuae faciendae, cum et latine et recte dici debeat male ‘aptum’, male ‘appositum’, male etiam accommodatum; nam male ‘affectum’ non ita libenter dixerim, quando in lapidem vix cadat ‘affectio’, praeterquam si abutamur vocabulo, quando aerem etiam male ‘affectum’ legimus. Quo fit ut ‘diathesis’ ipsa hac in parte tum ‘aptitudo’ latine dicatur, tum ‘appositio’ maximeque significanter omnium ‘accommodatio’, quod apte quidem peridoneeque materia ipsa accommodari ad eam rem possit, quam artifex ipse faciendam susceperit, non tamen ut non haec ipsa recte etiam dicatur ‘habilitas’. Quin et ‘diathesis’ haec nonnunquam nostris a maioribus vocata est ‘natura’, ut cum legitur «agri huius natura», sive ligni lapidis ve aut materiae cuiuspiam; quin «ingenium» quoque et terrae et soli et regionis rerum rusticarum scriptores protulerunt. Sed redeamus ad verbum ‘habeo’: an non ab eo derivata est etiam ‘habitudo’? quae fortasse ad corpus ferri quam ad animum magis debeat, ut «quae est pueri huius puellaeve habitudo». Sed non ero in hac quaestione de hac ipsa differentia nimis solicitus. 63. Quid? quod tum nova, tum inerudita etiam appellatione quae graece ‘krasis’ est transtulere ‘complexionem’? Nam quid, obsecro, cum complexione ‘krasis’ habet? ‘complector’ namque quid latine significet manifestum est: ut «complector amicum, hospitem, familiarem», et «complector negotia publica», et «Livius scriptis suis res romanas com-

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si sa, derivata dal verbo habeo, per esprimere il concetto con maggiore proprietà e chiarezza. E che dire del fatto che questo stesso vocabolo diathesis, a seconda della diversità delle accezioni, si può rendere in latino, come di solito avveniva, ora con un vocabolo ora con un altro: diciamo per esempio che qualcuno è affectus o propensus più alla mercatura che alle lettere? Difatti, quella potenza e abilità naturale si chiama con proprietà e chiarezza ora affectio ora propensio, non già dispositio; e l’uomo che ha una propensione o un’inclinazione non si dice che è dispositus, ma propensus e affectus. Chi è «proclive», infatti, rivela piuttosto un’inclinazione volontaria che una potenza naturale e un’attitudine, ma essa si designa tuttavia con propensio e affectio. 62. Dicono anche, in modo altrettanto assurdo, che il tufo è male dispositus a farci una statua, mentre, con corretta espressione latina, si deve dire male aptus, male appositus, ed anche male accommodatus; giacché non me la sentirei di dire male affectus, non essendoci nella pietra alcuna affectio; a meno che non si faccia abuso di questa parola, come quando ci capita di leggere anche «aerem male affectum». Per la qual cosa può capitare che, a tale proposito, in luogo di diathesis si dica in latino ora aptitudo ora appositio e, con una parola più espressiva di tutte, accommodatio, perché, per attitudine e per particolare idoneità, la materia stessa può adattarsi (accommodari) all’intenzione dell’artefice; ma non che in luogo di questa stessa parola, accommodatio, non si dica anche correttamente habilitas. C’è di più: il concetto di diathesis fu reso talora, dai nostri antenati, con «natura», come quando si legge «la natura di questo campo», o «di questo legno», o «di questa pietra», o di qualche altro materiale: che anzi gli scrittori di argomento agricolo attribuirono un’indole anche alla terra, al suolo, alla regione. Ma ritorniamo al verbo habeo: non è derivata da esso anche la parola habitudo? la quale, forse, va riferita più al corpo che all’animo, come quando diciamo: «qual è l’abitudine di questo ragazzo, o di questa ragazza»? In una discussione come quella che stiamo facendo non mi preoccuperò molto di tale differenza. 63. Che dire poi del fatto che, con un neologismo che oltre tutto rivela ignoranza, tradussero in latino con complexio quella che in greco è crasis? Ditemi un po’, che cos’ha crasis in comune con complexio? Che cosa significhi complector in latino lo sanno tutti: si dice abbraccio un «amico», un «ospite», un «parente», abbraccio, cioè occupo, cariche pubbliche; «Livio nei suoi scritti ha abbracciato la storia romana». La 743

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plexus est»; dicendi quoque sive color sive figura quaedam est complexio. Quo nam autem modo haec ipsa vox idem latine sonabit quod graece ‘krasis’? ut enim ‘complexio’ tum coitionem quandam corporeae sive compactionis sive humorum e quibus corpus consistit, tum coactae simul massae concretionem plane indicet, quod quidem non indicat, quo nam inquam modo indicabit temperationem, cum ‘krasis’ graece hoc ipsum significet? Esto tamen, ut ‘complexio’ collectionem illorum copulationemque atque connexionem massae totius indicet complectaturque eorundem comprehensionem; temperaturam vero nullo modo aut indicat aut complectitur, quam graece ‘krasis’ praecipue ac significanter indicet ac praeseferat. Itaque vox ipsa ‘complexio’, praeterquam quod nove dicta est, non implet graecae vocis significationem. 64. Quocirca et propria et latina eademque maxime significans dictio est ‘temperatura’, ni magis forte tibi placuerit ‘temperatio’; nam ut ‘mistio’ et ‘mistura’, sic ‘temperatio’ in usu est doctorum homimun ac ‘temperatura’; sic status corporis ac statura, quamquam ‘status’ ad plura pertinet quam ‘statura’. ‘Temperatura’ igitur massae totius coitionem praesefert atque compactionem ipsiusque compactionis misturam ac temperamentum, ut ‘scriptura’, ‘sculptura’, ‘textura’, ‘iunctura’, ‘pictura’, itemque ‘statura’ ac permulta eiusmodi alia. Perinde nanque ut scriptura picturaque designant quid et quale sit, itemque quantum id ipsum quod scriptum ac pictum est, quid item et quale et quantum quod sculptum, textum ac iunctum est sculptura, textura iuncturaque, utque statura qui status sit et qualis quantusque ipsius corporis, sic temperatura quae et qualis, quanta quoque coitio ipsa massaque sit corporea humorumque ipsorum corpus constituentium concretio ac mistura. Nec minus tamen proprie ac significanter rem ipsam designaret quam proxime dixi ‘mistura’, sed graeca vox temperationem magis indicat. Demum, si rem ipsam attenderimus, et significantius diceretur et proprie magis sive «corporis compactio conglutinatioque» sive «mistura ac constitutio» (namque ut est reipublicae constitutio e legibus, moribus, statutis decretisque, sic corporis ex humoribus eorumque misturis ac convenientia), quam haec ipsa dicitur inter omnes tam divulgata complexio, quae prima quidem facie amatorias praesefert delicias voluptariosque complexus. Itaque rem

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complexio si riferisce anche sia all’ornamento,117 sia alla conformazione del discorso. Orbene, con quale criterio questa voce potrà avere in latino lo stesso significato che ha crasis in greco? Ammesso, infatti, che complexio indichi ora una certa aggregazione, sia della complessione corporea, sia degli umori, di cui è composto il corpo, ora la concrezione della massa condensata, significato che certamente non ha, con quale criterio – ripeto – potrà indicare la temperatio, ossia la mescolanza? Ché in greco crasis questo appunto significa. E vada pure che complexio indichi il raccogliersi degli umori, l’aggregazione e la fusione di tutta la massa, e ne abbracci l’insieme, non indica e non comprende in nessun modo il significato di «temperatura», che in particolare e chiaramente la voce crasis indica ed esprime in greco. Pertanto, la stessa voce complexio, oltre ad essere un neologismo, non traduce appieno il significato della voce greca. 64. Perciò la voce latina appropriata che ben traduce crasis è temperatura; a meno che non piaccia di più temperatio, giacché come mistio e mistura, così nell’uso dei dotti sono presenti temperatio e temperatura; così, parlando ancora del corpo, si ha status accanto a statura, sebbene status possa riferirsi a più concetti che non statura. Temperatura, dunque, indica l’aggregazione, la fusione di tutta la massa, nonché la mescolanza e l’intima relazione fra gli elementi della fusione stessa, come scriptura, sculptura, textura, iunctura, pictura, e similmente statura, ed altre moltissime voci del medesimo genere. Difatti, come scriptura e pictura indicano la natura, la qualità e la quantità di ciò che è scritto o dipinto, e sculptura, textura, iunctura la natura, la qualità e la quantità di ciò che è scolpito, tessuto, aggiunto; e come statura indica quale e quanto sia grande lo stato del corpo stesso, così temperatura indica quale e quanto grande siano l’aggregazione e la massa del corpo, e la concrezione e la mescolanza degli umori stessi di cui il corpo è composto; né con minore proprietà e chiarezza designerebbe la stesso concetto la voce richiamata poc’anzi, mistura;118 ma la voce greca designa meglio la temperatio. Infine, se consideriamo il fenomeno in sé, parlando di un corpo si direbbe con maggior chiarezza e proprietà sia compactio e conglutinatio, sia mistura e constitutio (giacché, come la costituzione di uno stato è fatta di norme consuetudinarie, di statuti e decreti, così quella di un corpo è fatta di umori e della loro mescolanza e conformità) di quanto non si dica con voce tanto diffusa fra tutti, qual è complexio, voce che, nel suo primo significato, vuole indicare le delizie e gli abbracciamenti voluttuosi. 745

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ipsam non ut non plane intellectam heremita querebatur, sed non suo quidem nomine explicatam latinaque appellatione et propria, cum tamen affirmare non dubitaret, ni graecam reddere dictionem mallemus, dici eam apposite magis proque rei ipsius natura ‘fermentationem’ idque verbum significandam ad rem maxime esse accommodatum. 65. Idem, quanquam pudenter ac parce, mirabatur tamen hos eosdem philosophantes parum animadvertisse quas ipsi vocarent ‘circumstantias’ (nam liberales considerare debent et quantum ipsi dent et cui, quid item et quale, ac permulta quidem in dando alia) easdem omnes uno verbo priscos auctores consuevisse complecti, quod quidem verbum esset ‘delectus’. Itaque M. Cicero cum praecipit «delectum rerum esse habendum» quidnam aliud praecipit quam ut ratio habeatur rerum, temporum, personarum, locorum, quaeque alia agentem ipsum comitantur quem prudentem esse oporteat, cum sit haec ipsa consideratio prudentiae propria? 66. Haec nobiscum deambulans, quanquam verecunde et probe, querebatur tamen Aegidius, quod negligentia recentium philosophorum effectum sit ut et romana lingua, quae abunde locuples esset, in summa saepe copia laborare videretur inopia et graeca verba a parum cultis scriptoribus inculcata propriam vim ac significantiam nec latine redderent nec significanter, minime ut sit mirum tempestate nostra eloquentiae studiosos aut nullam aut perexiguam impendisse philosophiae operam, ipsos vero philosophos eloquentiae penitus esse ignaros atque utinam non et hostes. Sed nos Aegidium absentem quidem ac pie rem christianam et fortiter gerentem et bene et religiose valere iubeamus, consuetudinis eius ac sanctitatis memores. 67. SUARDINUS. Eadem et nos quoque cepit spes ipsaque ita quidem certam se se nobis offert, ut latinam philosophiam iam iam cultu elegantiore cothurnisque nitidioribus incedentem videre videamur. Quam ad rem consessiones istae tuae non parum etiam conferent. Nam Aegidium ad hoc ipsum natum intelligimus et Augustini exemplo sic invitari vel rapi eum potius, ut nihil magis aut aveat aut curet quam ut heremitarum ordinem in veteris eloquentiae possessionem pristinam iam restituat.

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Pertanto, l’Eremitano119 si lamentava non già che il fenomeno non fosse stato ben inteso, ma che non fosse stato spiegato col suo nome e con una denominazione latina e appropriata, e non esitava ad affermare che esso, se non preferissimo la dizione greca, si direbbe, con maggior proprietà, e secondo la sua natura, fermentatio, e che questa parola sarebbe adattissima a designarlo.120 65. Similmente, quantunque con discrezione e misura, si meravigliava tuttavia che questi stessi filosofanti poco avessero badato a quelle che proprio essi chiamerebbero «circostanze» (le persone liberali, infatti, devono considerare quanto esse donano e a chi, e molti altri aspetti che riguardano l’atto del donare),121 quelle circostanze che gli antichi autori usavano comprendere in una sola parola, e questa parola è delectus. Difatti è questo l’insegnamento che dà Marco Cicerone, mostrando la necessità di operare una scelta,122 delle circostanze, dei tempi, delle persone, dei luoghi e di tutti gli altri elementi che nell’azione accompagnano l’uomo, al quale compete esser prudente, essendo questa considerazione caratteristica propria della prudenza. 66. Era questa la lamentela di Egidio, fatta comunque in modo rispettoso e corretto, nelle nostre passeggiate, essendo avvenuto, per la negligenza dei nuovi filosofi, che la lingua latina, in tanta sua ricchezza e abbondanza, sembrasse soffrire di miseria, e che parole greche, introdotte da scrittori poco colti, non esprimessero il giusto valore semantico né con purezza latina, né con chiarezza: così che non doveva parere strano se, ai nostri giorni, gli studiosi di eloquenza non si fossero per niente o si fossero dedicati pochissimo agli studi filosofici, e che i filosofi fossero del tutto a digiuno di eloquenza, e, magari, non anche ad essa ostili. Ma noi mandiamo un religioso saluto ad Egidio, che non è qui e che vive con tanta forza e pietà il Cristianesimo, memori della sua amicizia e della sua santità. 67. SUARDINO. Anche noi nutriamo la stessa speranza, e questa ci si offre così sicura, che già già ci sembra veder la filosofia latina incedere con più elegante abbigliamento e con più splendidi coturni. A raggiungere questo traguardo non poco contribuiranno anche queste tue adunanze. Pensiamo, infatti, che a questo scopo sia nato Egidio, e che egli sia così sollecitato, anzi rapito, dall’esempio di Agostino, che nessun altro desiderio coltivi di più, che restituire ormai all’ordine monacale il possesso dell’antica eloquenza.

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PONTANUS. De Aegidio quidem nemo est qui dubitet. Coeterum consessiones hae ipsae fortasse habiturae sunt momenti aliquid, Pardo praecipue operam suam non abnuente, cum fama quoque certa sit adolescentes quosdam optimis ingeniis praeditos ad hanc ipsam militiam se se instruere. POETUS. Utcunque, Ioviane, itineris e Roma suscepti nec nos poenitet et Porticum hanc, quam diu Neapoli erimus, quotidianasque istas consessiones assidui frequentabimus.

FINIS.

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PONTANO. Non v’è nessuno che possa dubitare di Egidio. Del resto, queste adunanze potranno assumere qualche importanza, soprattutto se Pardo non negherà il suo apporto, dato quel che si sente dire, che alcuni giovani, forniti di eccellenti qualità intellettuali, si stanno addestrando proprio per questa militanza. PETO. Comunque, o Gioviano, non solo non ci pentiamo di aver intrapreso un viaggio da Roma, ma, fin che resteremo a Napoli, saremo assidui frequentatori di questi convegni quotidiani.

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De fortuna La fortuna Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

I tre libri De fortuna di Giovanni Pontano concludevano, assieme al De immanitate, la serie dei trattati sulle virtù morali con la considerazione del loro rovescio, in due sensi convergenti, giacché la fortuna capovolge la norma razionale della virtù, anche quando sembra assecondarla, mentre la immanità l’annulla. Il trattato amplifica il discorso teorico dell’etica aristotelica e ciceroniana, arricchendolo di esempi antichi e moderni, e in parte innova la tradizione antica e medievale, portando alle estreme conseguenze in una prospettiva tutta umana, e perfi no rischiosa dal punto di vista teologico, alcuni dei motivi più delicati del secolare dibattito. Derivano da questa impostazione alcuni corollari importanti per gli sviluppi della riflessione rinascimentale sul versante etico-politico, su quello degli studi naturalistici, e perfino, come si è già visto, su quello della poetica. Nel suo complesso il De fortuna affronta il difficile rapporto fra la necessità del fato, che dovrebbe poter rendere matematico l’oroscopo, e l’incertezza assoluta della fortuna, che rende invece impossibile prevedere il futuro, identificandosi, almeno per le aspettative dell’uomo, col caso. Tale problematica era già implicita nel dialogo di Poggio sulla varietà della fortuna, quantunque in forma non sistematica, ma nell’Accademia fiorentina, mentre Pontano elaborava il suo pensiero astrologico, la riflessione sul destino dell’uomo seguiva la prospettiva neoplatonica. Si verificò dunque uno scontro fra Pontano e Giovanni Pico della Mirandola, la cui condanna dell’astrologia nasceva da una ragione profondamente cristiana, riconducibile alla tesi agostiniana della volontà, che considera l’uomo arbitro della propria fortuna. Conseguenza estrema della tesi 755

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del Pico era l’annullamento dello stesso ordine della creazione, fondato invece proprio sul principio della causalità astrologica. Perciò già nel libro dodicesimo del De rebus coelestibus Pontano, difendendo la scienza astrologica come scienza della natura, aveva accusato Pico di aver avversato, condannando l’astrologia, ogni scienza, tranne la teologia, ma di aver sostanzialmente deviato anche da quest’ultima fino a sfiorare l’eresia. Presunzione e amore di gloria avrebbero impedito al Pico, pur stimato come filosofo, l’eccellenza. Ripetuto nel Proemio del De fortuna, e appesantito da una facezia (Pico non aveva creduto all’oroscopo della sua morte, che invece si avverò nei termini dati dagli astrologi) e perfino da un’accusa di eresia, questo giudizio non pervenne alla stampa e fece ipotizzare una riconciliazione fra il Pico e il Pontano. In realtà quest’ultimo ribadì nel De fortuna la sua fede astrologica andando incontro alla censura da parte dell’agostiniano Egidio da Viterbo, amico del Pico ed estimatore della sua dottrina. Fino alla composizione del trattato sulla fortuna Pontano si era occupato a lungo di astrologia in quanto teoria degli influssi astrali, sia assorbendo la dottrina classica tramandata da Tolomeo e da Aristotele, sia allineandosi con la divulgazione poetica della materia astrologica che aveva visto recentemente soprattutto i poemi di Basinio da Parma e Lorenzo Bonincontri emuli degli Astronomica di Manilio. L’interesse delle arti per l’astrologia vedeva nel secolo XV momenti di eccellenza quali gli affreschi di Schifanoia a Ferrara, dove gli studi naturalistici fiorivano in virtù del recupero della tradizione classica, e gli Hymni naturales di Michele Marullo, il poeta greco che, per qualche tempo vicino agli umanisti napoletani, recuperava mediante i nomi della mitologia pagana la rappresentazione neoplatonica dell’universo del filosofo Gemistio Pletone. Ma il tardo trattato pontaniano sulla Fortuna era soprattutto una riflessione sulla natura dell’uomo, che era il punto cruciale del suo impatto da un lato col filosofo di Mirandola e con il neoplatonismo fiorentino, e dall’altro con la teologia cristiana. Certo, la lunga meditazione di Pontano sulla tematica astrologica comportò qualche oscillazione e perfino contraddizione, dovute ora alla varietà dei punti di vista e ai generi letterari adoperati volta per volta, il dialogo, il poema, il trattato, ora alla natura contraddittoria degli stessi concetti di fato e di fortuna. Perché l’ambiguità del fato, riferibile alla «necessità» dell’ordine universale inerente alla stessa opera creatrice 756

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di Dio, come anche alla fissità delle leggi naturali che potrebbero non lasciare margini nemmeno alla provvidenza divina, soddisfa l’esigenza di razionalità e di riguardo per l’onnipotenza e preveggenza divina, ma non quella di garantire la libertà dell’arbitrio richiesta dalla morale e la bontà divina che potrebbe essere in contraddizione con l’esistenza del male. D’altra parte l’ambiguità del concetto di fortuna, riferibile sia alla contingenza degli eventi e all’esito incerto delle azioni volontarie, sia all’inconoscibilità dello stesso fato, fa generalmente eludere il problema teorico della fissità o meno delle cause celesti, e induce a tener conto soprattutto del flusso mutevole dell’esistente, rinunciando a fondare una rigorosa scienza del mondo naturale (cfr. ARIST., Metaph., 6, 2). Né Pontano si propose una trattazione sistematica, che non fosse quella di sviluppare la serie degli argomenti che la fisica, la metafisica, l’etica aristotelica e la cosmologia tolemaica gli offrivano. Ma per la stessa tendenziale considerazione della fortuna come mera casualità, il trattato della fortuna usciva in certo qual modo dagli schemi tradizionali, perché l’argomento era stato sempre svolto ai margini di quello del fato o della provvidenza. Esso recuperava in realtà il concetto antico della fortuna come potenza autonoma, privandola della qualità divina, anzi sottraendola alla divinità antica e cristiana, e quasi opponendola alla provvidenza come segno di una natura irrazionale, che agisce nella sfera in cui non arriva la bontà e la razionalità della creazione. Pontano si rifà espressamente ad alcune actoritates, con cui puntella il suo discorso anche con ampie riprese, ma in realtà assumendo da esse lo spunto per procedere con un metodo sincretistico e di amplificazione degli argomenti più utili al suo proposito. A Platone è dedicato nel libro primo tutto un capitolo, dove è esposto l’ordinamento divino mediante i ministri, argomento fondamentale del Timeo, letto per tramite o con l’ausilio del commento di Calcidio, come alcune citazioni puntuali ci fanno pensare. Un capitolo è dedicato nel libro secondo a Tommaso d’Aquino per riportare l’esposizione dal teologo di un testo che circolava come De bona fortuna, in cui viene ricondotto a Dio il movimento del creato, e mentre viene eluso il problema dell’origine della sventura e del male, vengono considerati quegli eventi felici che non possono spiegarsi con la ragione e con la prudenza umane. Nel terzo libro, oltre a prelievi dichiarati dalla tomistica Summa contra gentiles, e ad altri probabili incroci con opere tomistiche, compare insolitamente, come un’autorità, 757

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una duplice citazione di Giovanni Duns Scoto. Lo scotismo si caratterizzava per la tendenziale distinzione fra teologia e fi losofia, per la concatenazione, una sorta di emanazione di tipo neoplatonico, fra l’ente primario e il mondo sublunare, per l’insistenza sull’assoluta volontà divina e il carattere infinito e contingente dei suoi ultimi effetti, e per la vitale molteplicità, mescolanza di necessità e possibilità, attribuita alla residua sfera materiale. E se Pontano non dà segni di usufruire organicamente di questa complessa problematica, bastano il tema della causalità astrologica, della volontà e della concezione della natura inferiore come causa irrazionale, ma attiva al pari della fortuna, a far considerare motivata la sua scelta di recuperare l’autorità dello Scoto nel suo orizzonte teoretico. In Aristotele, citato in varie circostanze ma non esposto in un capitolo specifico come avviene per Platone e Tommaso, Pontano poteva già trovare le premesse di un discorso sul caso in quanto contingenza, tanto più che esso era sostenuto da un exemplum emblematico, cui era ricorso perfino Tommaso quando, nel trattare della provvidenza divina, aveva escluso la sfera del contingente dalla prospettiva teologica, e quando aveva inteso escludere dal merito quel che avviene fortuitamente: il caso di chi, scavando per piantare un albero, scopre un tesoro (De fortuna, I IX 3). L’exemplum è caro a Pontano, perché più di una volta da lui richiamato, anche con altre varianti, come un fondamentale punto di riferimento. Ma anche nei secoli addietro non era mancata l’occasione di riconsiderare la fortuna come mero accidente, senza ricondurne l’origine ad una ragione superiore e senza riconoscerne religiosamente la provvidenzialità. La mera accidentalità presuppone l’indifferenza dell’esito, su cui Pontano insiste quando identifica la fortuna con la causa efficiente sciolta dalle altre cause, soprattutto da quella finale (cosa improbabile per Aristotele) e quando escogita per la fortuna l’attributo di «eventizio» (De fortuna, I XXXI). Fra i trattati di Aristotele di cui sia possibile trovare nel De fortuna un frequente riscontro, senza che si possa definire se si tratti di diretta o indiretta dipendenza, non possiamo escludere il riferimento diretto all’Etica Nicomachea, fondamento di tutta la serie dei trattati morali pontaniani, alla Grande Etica che considerava i fondamenti morali della felicità e forniva un discorso specifico e concentrato sul tema dell’uomo fortunato, all’Etica Eudemia (8, 2) che vi tornava parlando degli uomini fortunati per natura, e ai libri sugli animali, di cui risulta che Pontano possedesse una copia col titolo De animalibus. 758

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È presente al Pontano, fra le autorità antiche, quella di Cicerone, di cui egli trascrisse il De divinatione, e mostra di ricordare il De fato. Vi poteva trovare svolta da una parte la tesi accorta sull’arte degli indovini, e dall’altra quella della necessità degli eventi, ma anche quella che esclude che tutti gli eventi, fino ai minimi, possano essere ricondotti ad una consequenzialità di cause remote. È presente Seneca, che asserisce la necessità dell’influsso stellare, pur riconoscendo nell’infinità e imprevedibilità dei movimenti celesti l’impossibilità umana di prevedere il futuro. La citazione di Crisippo, di altri stoici, di Epicuro, di Democrito e dei presocratici può risalire alla mediazione dei grandi autori, ma certamente alla diretta consultazione di un’epitome come il De placitis philosophorum dello Pseudo-Plutarco; ed è particolare il caso di Galeno, della cui storia filosofica, almeno per il capitolo sulla fortuna che rimanda a pensieri di Platone e di Anassagora, Pontano deve aver avuto a disposizione il testo greco da cui traslitterava. Gli era forse presente, se possiamo così interpretare un accenno alla fortuna provvidenziale dell’impero romano, topos per altro ben diffuso ad opera della storia liviana che sottintendeva la provvidenzialità dell’impero augusteo, l’opuscolo dei Moralia di Plutarco su La fortuna dei Romani, nonché l’altro su La fortuna (3, 5, 1). Fra le autorità dichiarate importa soprattutto ricordare quella di Lucio Bellanti, contemporaneo, e invocato in occasione della citazione del Pico come il difensore più competente al quale appellarsi per rintuzzare la confutazione dell’astrologia. Di lui certamente Pontano si valse, oltre che di Tolomeo, nelle esemplificazioni astrologiche del libro terzo. Si è già visto con quali, fra i grandi letterati dell’età moderna che avevano affrontato espressamente la questione, Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Leon Battista Alberti, Poggio Bracciolini, egli avvertisse una comunanza di problemi. Pontano distingue ripetutamente fra eventi che seguono le leggi razionali della natura ed eventi che non si spiegano con tali leggi, fra l’ordine della ragione e il disordine della fortuna. La volontà divina, che si riflette nell’ordinamento astrologico, spesso non va oltre un certo segno, si direbbe oltre il limite della natura ordinata, da lei stessa regolata, come la volontà degli uomini meno che mai va oltre il limite dei loro propositi e delle loro intenzioni. Sicché se non tutto è ordinato dal fato, e non tutto risponde alle volontà umane (III proemio, 5), né sono precisabili questi confini, il disordine e l’irrazionalità della fortuna dominano assoluti nel 759

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mondo dell’uomo, che diventa il dominio dell’incertezza, del contingente. Di questo ben si accorsero gli Eremitani di sant’Agostino, offrendoci con la loro censura, come spesso avviene, la misura più esatta della trasgressione contenuta nel discorso di Pontano. Ma questi, riaffermando l’esistenza del fato astrologico e non potendo sfuggire al problema della volontà e della libertà morale, riconduce preferibilmente il discorso al rapporto fra la volontà e il successo esterno, piuttosto che riproporre quello fra libero arbitrio e virtù. Considera pertanto la volontà alla pari di un impulso naturale, che, se pur viene regolato dalla ragione, è destinato a misurarsi con la fortuna e quindi con la sua irrazionalità, sia che si prefigga il bene, sia che non si accorga del male verso il quale si rivolge e che non è detto debba poi avere un esito negativo, per la stessa irrazionalità che regola – si fa per dire – i beni esterni. Ne deriva che una certa opinione diffusa nel volgo, ma non estranea al pessimismo dei dotti, e quindi non nuova, secondo la quale i cattivi vengono premiati e i buoni puniti, diviene in Pontano una considerazione scientificamente fondata sulla definizione della fortuna come quella che muove e trascina la volontà nel gorgo di eventi incerti. Una sorta di calcolo del probabile – perché un vero calcolo non potrà esservi mai –, ci dice che è più facile che gli eventi non corrispondano alle attese o al giusto, e che la sfortuna predomini sulla fortuna, entrambe le quali dal punto di vista della natura sono indifferenti. Così nella prospettiva pontaniana si capovolgeva la visione cristiana del mondo: se la fortuna non è, o lo è raramente, per caso, opera della volontà guidata dalla retta ragione o dalla provvidenza, e la sventura prevale sulla fortuna positiva, un’ombra viene a gravare proprio sull’ordine provvidenziale del creato; è troppo, appunto, lo spazio concesso alla divinità pagana, come del resto opinava Egidio da Viterbo. Il clima entro il quale Pontano costruiva uno dei suoi trattati più innovativi e controversi, emerge nella duplice citazione di Giovanni Duns Scoto (De fortuna, III VI e VII), un filosofo che richiama un ambiente intellettuale ben definito, fra francescanesimo culturalmente impegnato e naturalismo ben consolidato nella tradizione napoletana. Il ricorso a questa autorità più recente, fra una citazione di Tommaso e un passo senechiano, ha un senso particolare così com’è formulata, dopo la menzione dei litigi sorti nelle «scuole» di dialettica su questo argomento (III VI, 4). Perfi no Giovanni Duns Scoto, cui Pontano poteva attingere attra760

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verso l’opera di Lucio Bellanti, accolto e quotato nelle moderne scuole, com’egli diceva, sostiene l’influsso dei corpi celesti e la conseguenza della fortuna («fortunam fato obsequi»), non nel senso che la fortuna obbedisca al fato, e vi si identifichi, ma nel senso che ne è l’estremo e naturale esito, data la molteplicità, la complessità, la mutevolezza delle cause per cui non è possibile risalire all’origine, cui si aggiunge l’incertezza della natura sensibile in cui domina l’impulso. Pontano infatti si espone in questa occasione coniando, sulla falsariga della terminologia scolastica, il termine di eventitius, che riguarda la varietà e la precarietà della contingenza. Dichiarando di non voler fare un discorso teologico, Pontano aveva evitato di mettersi sul cammino non suo della teologia. Ma ora, senza tuttavia abbracciare il vero e proprio linguaggio scolastico, e quasi esplicando la dottrina tomistica dei tre gradi della potenza superiore, Dio, l’angelo, i corpi celesti, fa emergere un riferimento al sottile teologo francescano della contingenza come infinita manifestazione della divinità, capace di illuminare tutto il discorso racchiuso nei primi due libri. Era lì, più che in Tommaso, dove in parte era pur presente il problema del rapporto fra contingente ed eterno, la fonte di quella particolare considerazione del reale come contingenza: la varietà e mutevolezza degli eventi ha un fondamento naturale, la fortuna non è una falsa immagine del mondo, né una metafora della provvidenza, perché essa risiede nella qualità propria dei corpi dai quali promanano gl’influssi. Questi non hanno forza sufficiente a governare l’irrazionalità della materia, e sono responsabili delle varie e mutevoli propensioni e passioni dei sensi, dell’impeto e dell’impulso naturale che si manifestano al limite estremo della catena astrologica. Nel primo libro la dottrina della fortuna come spinta della natura irrazionale aveva perfino mostrato l’origine amorale del successo sociale e politico e istintiva del successo poetico. La fortuna era fatta intervenire anche nella divinazione delle sibille, il cui successo sarebbe dipeso anch’esso dalla casualità. Ma anche ora viene configurata una situazione nella quale l’uomo che rinuncia a farsi guidare dalla ragione entra in una sorta di vortice naturale che lo trascina in modo imprevedibile al successo e all’insuccesso al di fuori di ogni dimensione etica e razionale. Nel primo libro questa situazione era guardata, eccezionalmente e paradossalmente, con una sorta di ottimismo che faceva mitizzare la figura 761

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del fortunato e dell’uomo invasato dal furore. Ora il discorso propende verso la spiegazione di come l’impulso dei sensi possa ridurre l’influsso degli astri, perfino derogando alla necessità celeste e introducendo l’elemento irrazionale della fortuna. Testimonianza di questo atteggiamento «umanistico» di fronte al problema sono i due libri Commentariorum in centum sententiis Tolomaei, in cui Pontano rinnova la traduzione del Fructus, un compendio della scienza tolemaica degli oroscopi, che pur aveva avuto recentemente, in area napoletana, una versione latina da parte del filologo greco Giorgio Trapezunzio, e illustra le sententiae con intenti di chiarimento e divulgazione. L’attenzione prestata dal Pontano sin dal Commento a Tolomeo alla complessità dell’oroscopo, nel quale giocano fattori molteplici e non sempre definibili, agli esiti imprevedibili e al gioco della fortuna che solleva ed abbatte senza alcuna presumibile ragione, è già un segno della direzione che prenderà l’umanista nel riflettere sulla vicenda esistenziale, sulle attese e le delusioni dell’uomo. Il commento poi, ampio e anche ricco di sapienza ed eloquenza, è un esempio ulteriore dell’impegno pontaniano verso la divulgazione del pensiero antico. Anzitutto la stessa scelta del verso, sull’autorità dei Fenomeni di Arato e degli Astronomica di Manilio, cui vanno aggiunti il poema naturalistico di Lucrezio, mitologico di Ovidio e georgico di Virgilio, è principalmente tesa al perfezionamento e innalzamento della funzione divulgativa. Significativi a questo riguardo sono il progetto di svolgere in un poemetto la materia metereologica, Meteororum liber, che si apre alla considerazione della mutevolezza dei fenomeni atmosferici del mondo sublunare, in contatto diretto con la terra, e in un poema maggiore la materia propriamente astrale, Urania, in cui si descrive l’ordine astronomico dell’universo e in cinque libri si sviluppa la materia astrologica, ossia si dà conto del vario ma regolare influsso degli astri sulle regioni soggette e sul carattere degli uomini nati sotto i rispettivi segni. In realtà i due momenti del progetto riguardano l’irrazionalità degli effetti, a livello terreno, dell’ordine planetario, e possono assumersi come simbolo della cosmologia pontaniana, intesa a considerare la natura dai due punti di vista dell’ordine originario del creato, che rende possibile la scienza astrale, e del disordine dell’esistente, metaforicamente rappresentato dalla varietà climatica in cui si svolge la vita precaria dell’uomo. Una più complessa 762

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ispirazione presiede al concepimento dell’Urania, che per essere la versione astrologica di un poema mitologico come le Metamorfosi ovidiane, mette alla prova la fantasia del poeta impegnata a inventare e riplasmare miti tradizionali con assoluta libertà, per adattarli alla figura di pianeti, segni zodiacali e costellazioni secondo il metodo eziologico della letteratura alessandrina e dello stesso Ovidio. Ma con Ovidio, in virtù di alcuni precisi riscontri intertestuali, è necessario il confronto, e forse con la tradizione ovidiana dei poemi naturalistici e didattici del tardo Medioevo, quando si tratti di valutare l’impatto di Pontano con il problema della creazione, che è poi il problema dell’ordine universale riguardante il sistema astrologico, il fato e la provvidenza. Il nostro umanista evita di affrontare il problema in termini teologici, anche se ha presente, pur attraverso Aristotele e Platone, come dall’ultima sfera s’inizi il moto circolare dell’universo. La struttura mitica del poema gli permetteva di ricorrere alla favola di Giove che convoca gli dei per dare ordine al mondo, la medesima favola che in forme analoghe si trovava anzitutto nel Timeo platonico, poi in Virgilio e in Claudiano, e si rinnoverà nel De partu Virginis del Sannazaro. Quella favola del concilio celeste traduceva sostanzialmente l’ordinamento dato da un deus sive natura, con l’assegnazione ai ministri di compiti definiti, e poteva in certo qual modo incontrarsi con la cosmologia naturalistica di Lucrezio, dove è Venere che presiede alla convergenza degli atomi. Ovviamente il naturalismo epicureo di Lucrezio, quantunque si abbia, anche nel De fortuna, testimonianza del fatto che era presente al nostro umanista, non può comparire come un’autorità per le implicazioni esplicitamente atee della dottrina.

NOTA AL TESTO I tre libri De fortuna, stampati per la prima volta a cura di Pietro Summonte a Napoli, presso Sigismondo Mayr, nel 1512 (Editio princeps), sono stati tramandati anche da due manoscritti: A = Cod. Vat. Lat. 2841, ff. 1-66 numerati sul recto in alto (f. 66 bianco), autografo di Giovanni Pontano con dedica a Consalvo di Cordova, correzioni e aggiunte di mano dell’autore e di Pietro Summonte, e in calce, f. 65v, la data del 1501 (finis de fortuna. liber III/neapoli MCCCCCI). Sul manoscritto si leggono via via anche i numeri, da 1 a 12, corrispondenti alle pagine dei 763

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terni dell’edizione Mayr, a dimostrazione del fatto che tale manoscritto è stato, in tipografia, l’esemplare della princeps. B = Cod. Marc. Lat. VI, 233 (= 3668), ff. 1-109 numerati sul recto in alto (f. 109rv bianco), con prefazione ad Antonio Guevara e in calce, f. 108v, la data finale del 1510. La scrittura è minuta ma calligrafica, l’intestazione di ciascuna parte è uniforme. Ritenuto a torto autografo di Pietro Bembo, è stato attribuito con certezza alla sua biblioteca (M. DANZI, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, 2005, Droz, Parigi, p. 330). Alla princeps seguirono nel sec. XV l’edizione Aldina, J. J. PONTANI Opera omnia soluta oratione composita, Venezia, 1518, t. I, ff. 264-309 e sulla base di questa le edizioni di Filippo Giunta, Firenze 1520, di Andreas Cratander, Basilea, 1538-1540, di Petrus Heinrich, Basilea, 1556. Unica edizione moderna, G. PONTANO, La fortuna, a cura di F. Tateo, testo latino a fronte, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2012, anche per la Nota al testo che reca la descrizione dei codici e l’esame più particolareggiato della tradizione. Il confronto fra A e B permette di definire tre fasi di revisione del testo da parte del Pontano. La prima è quella che confluisce in B, il quale riproduce il testo in questa fase della sua storia, quando dovette esserne tratta una copia. Tuttavia B presenta varianti rispetto a tale stadio di A, consistenti in qualche trasposizione, accomodamento formale o svista. Ma soprattutto B conserva la dedica originaria dell’opera ad Antonio Guevara. La seconda è testimoniata da un’aggiunta autografa (III VI 6) e da altre modificazioni non ascrivibili sicuramente alla mano del Summonte, e non confluite in B. La più importante modifica, apportata dall’autore, è la sostituzione della dedica ad Antonio Guevara con quella al Gran Capitano. La terza fase è dovuta all’intervento del Summonte, riconoscibile nella cancellatura di un passo polemico contro Giovanni Pico della Mirandola, sul quale egli era già intervenuto per attutirne qualche espressione (cfr. i Riferimenti bibliografici), nella dedica del libro III ad Angelo Colocci e nella sostituzione del nome di Giovanni Pardo con quello di Antonio Galateo (I XIX 1), in una serie di altri interventi che intendono introdurre miglioramenti formali (si veda la Nota al testo cit., p. 68). Ad essi vanno aggiunte le varianti della princeps rispetto al secondo stadio di revisione del manoscritto, che va considerata l’ultima volontà dell’autore. Qui, di conseguenza, riproduciamo il testo pubblicato in G. PONTANO, La fortuna, a cura di F. Tateo, 2012, fondato sull’autografo vaticano, libe764

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rato dalle correzioni riconoscibili come summontiane, successive all’ultima revisione d’autore, senza recepire quindi neanche le lezioni della princeps, quando se ne discostano. L’edizione riporta perciò la dedica al Consalvo, il passo polemico contro Pico non pervenuto alla stampa, ma non il nome del Galateo in luogo di quello del Pardo, né la dedica del terzo libro al Colocci. Circa i dubbi sulla dedica generale dei tre libri al Consalvo, dovuti ad una difficile lettura, per via di una correzione indecifrabile delle prime parole, si veda la nota 2 alla dedica.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Un’esposizione globale del pensiero pontaniano è in G. SAITTA, L’Umanesimo, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 645-692, che insiste sul tema della libertà umana e sottovaluta l’Aegidius, mentre G. TOFFANIN, Giovanni Pontano, 1938, già avverte il difficile rapporto dell’Umanista da un lato con il naturalismo e dall’altro con la religione. Cfr. M. SANTORO, Fortuna, ragione e prudenza, 1967, per uno sguardo generale su questi concetti fondamentali dell’etica umanistica. Sulla polemica col Pico e l’ipotesi di una «conversione» di Pontano si vedano C. M. TALLARIGO, Giovanni Pontano, 1874, e B. SOLDATI, La poesia astrologica nel ’400, 1906, ristampato con prefazione di C. Vasoli, Firenze, Le Lettere, 1986. La questione filologica relativa al De rebus coelestibus e al De fortuna sul rapporto col Pico è stata sollevata e discussa da G. DESANTIS, Pico, Pontano, 1986, e F. TATEO, La prefazione originaria, 2007, oltre che nella Introduzione e nella Nota al testo di PONTANO, La fortuna, 2012, cui si rimanda anche per la bibliografia relativa. Per la dottrina astrologica nel Rinascimento ci limitiamo a citare il fondamentale E. GARIN, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Bari, Laterza, 1976, e per i riferimenti classici sul problema della fortuna: ARISTOTELE, Etica Nicomachea, trad. di A. Plebe, in ID., Opere, VII, Bari, Editori Laterza, 1973, ID., Grande Etica, Etica Eudemia, trad. di A. Plebe, in ID., Opere, VIII, ibid.; CLAUDIO TOLOMEO, Le previsioni astrologiche (Tetrabiblios), a cura di S. Feraboli, [Roma], Fondazione Lorenzo Valla, 1985; TOMMASO D’AQUINO, De sortibus, in Opera omnia, iussu impensaque Leonis XIII, vol. XLVII, pp. 229-238 (oltre l’esposizione del De bona fortuna citata qui, nell’Introduzione generale); G. DUNS SCOTO, Opera omnia, editio minor, a cura di G. Labriola, Alberobello, Arti grafiche, 2001. Dell’at765

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tenzione rivolta da Pontano alla dottrina tolemaica e alla sua fortuna umanistica, testimoniata dalle sue Commentationes in centum sententiis Ptolemaei (si veda PONTANI, Opera omnia, Venezia, Aldo Manuzio, II, 1519, cc. 2-47) hanno scritto M. R INALDI, Pontano, Trapezunzio,1999; ID., Sic itur ad astra. Giovanni Pontano e la sua opera astrologica nel quadro della tradizione manoscritta della Mathesis di Giulio Firmico Materno, Napoli, Loffredo, 2002; F. TATEO, Traduzione, divulgazione, 2011. Sulla tradizione medievale e umanistica del concetto di fortuna: C. SALUTATI, De fato et fortuna, a cura di C. Bianca, Firenze, Olskhki, 1885; POGGIO BRACCIOLINI, De varietate fortunae, in Le Pogge. Les ruines de Rome, a cura di J.-Y. Boriaud, M. Coarelli, Paris, Le Belles Lettres, 2005; F. TATEO, L’Alberti fra il Petrarca e il Pontano, 2007. Su Lucio Bellanti si veda la voce redatta da C. VASOLI nel DBI, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1965, vol. 7, pp. 597-599. Per le citazioni da Aristotele vd. le Opere in trad. ital., Bari, Editori Laterza, 1973. Il tema «eroico» che fa da sigillo al trattato, eccezionale e pur non inatteso da parte dell’autore del De fortitudine, e di cui nell’introduzione generale si è intravista la lunga durata, riemerge con Giordano Bruno e fin dall’antichità ha una varietà di esiti illustrati nel già citato La cabala dell’asino, 20173, di N. Ordine (pp. 136 sgg.); Ordine, in un saggio di prossima pubblicazione, ha dedicato alcune riflessioni anche a queste pagine pontaniane. FRANCESCO TATEO

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AD EXIMIUM EQUITEM CONSALVUM FERDINANDUM HISPANI EXERCITUS DUCEM FORTISSIMUM REGNIQUE NEAPOLITANI PROREGEM CONTINENTISSIMUM IOANNIS IOVIANI PONTANI DE FORTUNA LIBER PRIMUS

1. Tibi ego, Consalve Ferdinande, Dux fortissime, cum classe in Calabriam applicanti tris hos de Fortuna libros pro mea in Hispanam gentem affectione destinaveram, quippe cuius Neapoli annis cum ageres superioribus, virtus tum ea, quae moralis dicitur ac politica, satis esset beneque mihi perspecta, tum militaris et bellica propter illa, quae de rebus a te fratreque tuo, equite strenuissimo, in Hispania gestis atque administratis iussu auspicioque Ferdinandi Regis sapientissimi et Helisabethae coniugis, Reginae tum maxima continentia praeditae, tum summa generositate divinaque quadam prudentia, pleno omnium ore cunctorumque affirmatione atque consensu, qui ex Hispaniis profecti essent, referebantur. Meam hanc voluntatem deque libris ipsis tibi dedicandis propositum mirificum auxere in modum ea, quae a te gesta sunt in Brutiis, Calabria, Apulia, Lucanis, Samnitibus armis subigendis, regumque tuorum imperio ditionique adiungendis. 2. Exorto dein inter Hispanos ac Gallos bello, difficile admodum iudicatu est, in initio ipso belli maior ne cunctatio fuerit tua, an in exitu celeritas ac festinatio; quippe qui quo die e Barulo in expeditionem Cereniolam versus profectus es, vix castris positis oppidoque nondum circunsesso, in hostem conversus, eosdem fundis, fugas, caedis insequeris, Ludovico nemorense gallici exercitus duce caeso, tanto militum impetu atque ardore, animique magnitudine tui tanta, ut, nisi nox fugientibus auxilio fuisset, vix pauci fuerint e proelio evasuri. Quo confecto proelio, paucis diebus regnum neapolitanum auctoritate et fama, magisquam

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ALL’ESIMIO CAVALIERE CONSALVO FERDINANDO FORTISSIMO CAPITANO DELL’ESERCITO SPAGNOLO E MODERATISSIMO VICERÉ DEL REGNO NAPOLETANO GIOVANNI GIOVIANO PONTANO LIBRO PRIMO DELLA FORTUNA

1. A te, Consalvo Ferdinando, eroico generale, io avevo deciso di destinare1 questi tre libri 2 della Fortuna per l’affetto che ho verso la tua nazione, quando approdasti con la tua flotta in Calabria, perché quando eri a Napoli negli anni precedenti3 ebbi modo di conoscere bene la tua virtù, sia quella che si chiama morale e politica, sia quella militare e bellica, per le mirabili cose che dagli oriundi spagnoli venivano riferite intorno alle azioni di guerra e di governo compiute da te e dal fratello tuo,4 valorosissimo cavaliere, in Ispagna agli ordini del sapientissimo re Ferdinando e della consorte Elisabetta,5 Regina dotata della più grande moderazione, di somma generosità e prudenza, con voce unanime, con l’attestazione e il consenso di tutti. Questa mia volontà e il proposito di dedicare a te questi libri hanno ricevuto una straordinaria spinta ulteriore da quelle gesta che hai compiuto quando hai sottomesso le forze nemiche negli Abruzzi, in Calabria, in Puglia, in Lucania, nel territorio sannita, e hai aggiunto quelle regioni alla giurisdizione imperiale dei tuoi re.6 2. Di poi, sorta la guerra fra Spagnoli e Francesi,7 è molto difficile stabilire se proprio all’inizio della guerra sia stato maggiore il tuo temporeggiamento o la rapidità e la fretta nel portarla a termine; perché nel giorno in cui sei partito da Barletta in spedizione verso Cerignola,8 appena posto il campo, e non ancora circondata la città, rivolgendoti contro i nemici, li sbaragli, li metti in fuga, li batti, li insegui, una volta ucciso Luigi di Némours re dei Francesi,9 con tanto impeto e ardore dei combattenti, con tanta tua grandezza d’animo, che se la notte non fosse stata di aiuto ai fuggiaschi, pochi appena sarebbero sopravvissuti alla battaglia. Portata a termine questa battaglia, in pochi giorni sei riuscito 769

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, I

praedando aut diripiendo, conciliatis tibi summa humanitate tua militumque continentia populorum animis, universum pacasti. 3. Itaque non gallum modo hostem superasti virtute ista admirabili et rara, verum fortunam ipsam. Etenim fortuna adversari prudentibus consuevit tum viris, tum ducibus: hanc tu tibi vel virtute tua devinctam conciliasti, vel adversari fortasse aut ludere arte studentem sua vicisti, superasti, sub ditionem retraxisti, tuaeque subiecisti prudentiae atque magnanimitati. Salve igitur, Consalve dux fortissime, victor continentissime et fortunae ipsius sive conciliator sive expugnator. Salve iterum, et libros hos nomini tuo dedicatos, qua manu hostem superasti, fortunam aut conciliasti tibi, aut eam expugnasti, dextra eadem, ut ipse etiam in victoria humanissimus es, humanissime capias quaeso, eorumque me auctorem inter amicos atque clientes tuos recipe, quem superiores regni neapolitani reges non amaverint modo, verum etiam et suspexerint, et honoribus ac magistratibus fuerint etiam honestissime prosecuti.

I [FORTUNAE NOMEN.] 1. Fortunae nomen apud omnes gentes divulgatum est adeo, ut docti etiam viri consentiant et medicos, in quorum manu salus posita est vitaque aegrotantium, et imperatores, e quorum ductu victoria expectatur exercitus reique incolumitas publicae, fortunatos esse oportere. Cumque bonorum tria sint genera, atque alia quidem animi, corporis vero alia, quae tertia sunt externaque vocantur fortunae quoque sunt iure quasi suo attributa. Quo fit, ut adipiscendam ad felicitatem, quod summum civile atque humanum existimatur bonum, vel magnopere fortuna ipsa iudicetur conferre, ac si non et templa illi a priscis posita fuerint et sacerdotes decreti, et ad sortes eius consulendas futuris de rebus iisdemque dubiis, atque asperis undique a principibus viris summa etiam frequentia sit trepidationeque concursum. 2. Atque haec quidem rudioribus illis seculis de fortuna erat homi-

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, I

a pacificare tutto il regno di Napoli con la fama della tua autorità, piuttosto che con saccheggi e distruzioni, conciliandoti gli animi dei popoli con la tua somma umanità e con la moderazione dei combattenti. 3. Perciò hai vinto non solo il nemico francese con questa tua ammirevole virtù, ma la stessa fortuna. E infatti la fortuna di solito contrasta gli uomini e i condottieri prudenti: tu o incatenatala con la tua virtù te la sei fatta amica, o mentre cercava forse di contrastarti o d’ingannarti con l’arte sua l’hai vinta, l’hai superata o l’hai riportata sotto il tuo dominio, e l’hai sottoposta alla tua prudenza e alla tua magnanimità. Salve dunque, o Consalvo, eroico condottiero, vincitore moderatissimo che ti sei dimostrato capace o di conciliarti o di superare la stessa fortuna. Ancora salve, e ti prego di accettare cortesemente, cortesissimo come sei anche nella vittoria, questi libri che nella dedica portano il tuo nome, con la mano medesima con cui hai vinto i nemici o con cui ti sei resa amica la fortuna, o l’hai espugnata, e di accogliere fra i tuoi amici e i tuoi devoti me che sono il loro autore, e che i precedenti re del regno napoletano non solo hanno amato ma hanno anche guardato con ammirazione, ed hanno insignito perfi no di grandi onori, di cariche e posti di rilievo.

I [IL NOME DELLA FORTUNA.] 1. Il nome della fortuna è così divulgato presso tutti i popoli, che anche le persone colte, così come i medici nelle mani dei quali è riposta la salute e la vita dei malati, e i capi militari dalla cui guida si attende la vittoria dell’esercito e la salvezza dello stato, sono d’accordo sul fatto che bisogna essere fortunati. E poiché sono tre i generi di beni, e alcuni riguardano l’animo, altri il corpo, il terzo genere, quello dei beni detti esterni, va anch’esso attribuito alla fortuna quasi di diritto. Perciò a raggiungere la felicità, considerata il bene più alto dal punto di vista civile ed umano, si ritiene che la fortuna contribuisca nella misura maggiore, altrimenti dagli antichi non sarebbero stati dedicati a lei templi e sacerdoti, e non ci sarebbe la corsa anche da parte dei prìncipi a consultare gli oracoli sul futuro, e con tanta frequenza e trepidazione, nei momenti di incertezza come in quelli difficili. 771

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, II

num opinio: qui, quod ignorarent quae vis esset ea, quodque tum bona tum mala plurima repente obiicerentur praeterque expectationem atque agendi propositum ac rationem, magisque omnino contingerent, quam ordine ac lege proficiscerentur sua, aut electioni consentirent susceptisque actionibus, a ferendo ei nomen indidere, quod pro libito videlicet, magis quam ratione, aut ex concepta sententia constitutoque nunc prosperos afferret, nunc contrarios eventus, nec tamen praevisos ante, nec etiam, ut dixi, expectatos ac saepenumero parum meritos, non raro iniquos iniustosque et quorum fortuna ipsa accusari iure quidem possit in utranque partem, sive prosper successus ipse fuerit, sive adversus. Nam et prudenter administratae res actionesque ac secundum rectam progredientes rationem, non raro propter fortunae ipsius impetus infeliciter cedunt. Ignaviter inerterque ac praeter rationem negocia resque ipsas administrantibus, felicissime supraque sententiam atque consilium perquam frequenter succedit. Quid quod eadem ipsa bonis viris adversa plerunque obiicit plurima, pravis autem ac maxime flagitiosis secunda offert et laeta?

II FORTUNAM NON ESSE DEUM. 1. Quocirca recte Aristoteles hanc ipsam fortunam nec deum esse, nec naturam putavit, minime vero intellectum, aut rationem. Quomodo enim deus erit, si haec tam saepe, tam inconsiderate, tam etiam inique atque inopinato extollit ignavos, locupletat immeritos, vexat atque affligit insontes, bonos in calamitatem adducit ac servitutem, pravos statuit in solio, liberat a periculis perversos, moderatos et honestos viros laboribus, periculis, erumnis ac miseriis conficit? Tyrannorum haec sunt non dei; cuius est summa bonitas, absoluta iustitia, rectissimum iudicium, aequissima rerum omnium dispensatio.

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2. Era questa nei tempi primitivi l’opinione degli uomini sulla fortuna: essi, ignorando quale ne fosse l’essenza, e poiché tante cose, sia buone sia cattive, si presentavano loro repentinamente, inattese e fuor di proposito e di ragione, piuttosto che con ordine e regolarità, oppure corrispondenti alla loro scelta o alle azioni intraprese, le diedero il nome dal verbo fero («portare»),10 evidentemente perché essa «portava» a suo arbitrio, anziché secondo ragione o secondo un’idea concepita o stabilita, ora eventi prosperi ora eventi dannosi, comunque non previsti, né – come ho detto – attesi, e spesso non meritati, non di rado iniqui ed ingiusti, e per i quali la stessa fortuna potrebbe essere accusata in tutti e due i sensi, sia nel caso di esito favorevole, sia nel caso di esito sfavorevole. Infatti, a causa dell’impeto della fortuna, le azioni condotte con prudenza e portate avanti in modo giusto non raramente hanno un esito infelice. Succede, invece, molto di frequente che a coloro i quali conducono operazioni con ignavia ed inerzia e senza raziocinio le cose riescano felicissimamente e al di là di quel che pensano e che si propongono. Che dire del fatto che la stessa fortuna, la quale oppone per lo più moltissimi ostacoli a uomini onesti, offre vantaggi e piaceri a uomini perfidi e indegni?

II LA FORTUNA NON È UN ESSERE DIVINO. 1. Pertanto Aristotele ritenne che la fortuna di cui parliamo non sia un essere divino, né possa identificarsi con la natura, e meno che mai con l’intelletto e con la ragione.11 Come, infatti, potrebbe essere divina, se così spesso, così sconsideratamente, così anche ingiustamente e inopinatamente solleva gli ignavi, fa arricchire chi non lo merita, vessa ed affligge gli innocenti, porta alla rovina e alla servitù i buoni, mette sul trono uomini cattivi, libera dai pericoli uomini perversi, sottopone a fatiche, a pericoli, a sventure e miserie uomini temperati ed onesti? Queste sono azioni degne di tiranni non di un essere divino cui pertengono la somma bontà, la giustizia assoluta, il giudizio perfetto, l’equità nella distribuzione di ogni cosa.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, III

III FORTUNAM NON ESSE NATURAM. 1. Naturam quoque non esse eam, haec ipsa liquido satis docent, quod fortuna ipsa quidem incostans est, inordinata, varia, repentina, incerta. Contra vero quid natura ipsa ordinatius, constantius, certius? Cuius is est ordo, ea lex, ac regula, ut non nisi certis, constitutisque e principiis suo tempore, suis progressionibus mensurisque tum universa proveniant, tum etiam singula, quarumcunque ipsa rerum, effectionum, operum auctor est et causa. Pergit natura ordine suo, graditur suis passibus, dispensat actiones suas cum temporibus, viribus opibusque suis utitur cum mensura, et penso; non fluitat, non nutat. Stabilis est in officio suo sibique semper constat. Nec vero, quod de fortuna a tragico dicitur Seneca, spargitque manu Munera caeca, peiora fovens,

dici hoc de natura iure aut potest aut debet, cum manu maxime certa et viribus omni e parte consentientibus, suoque ordine ac regula se moderantibus, propriis ipsa in actionibus versetur atque operibus. Nec fovet peiora, quod fortunae videtur quodammodo proprium, sed in eo tota est, ut suo quoque in genere, quod perfectum sit, ipsa nitatur efficere. 2. Ut naturae ipsius denique videatur proprius esse ordo, mensura, regula, cum secus haec omnia cernantur in fortuna, quippe quae obiiciat, potius, quam det aut offerat, ruat potius, quam incedat, profundat verius, quam dispenset, atque ut repentina et improvisa, tanquam ex insidiis prodit, sic abit, vel deserit potius, insalutato, ut dici solet, hospite, tristia de sese ubique relinquens vestigia. Itaque non esse eam naturam, quantopereque inter se differant, et iudicatu facillimum est, et cognitu.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, III

III LA FORTUNA NON S’IDENTIFICA CON LA NATURA. 1. Che essa non s’identifichi con la natura può facilmente dimostrarlo la considerazione che la fortuna è incostante, disordinata, varia, repentina, incerta. E che c’è invece di più ordinato, costante, certo della natura? Di quest’ultima l’ordine, la legge e la norma sono tali, che gli universali, come anche gli individui, non possono nascere se non da definiti e fissi princìpi, al tempo debito, con i dovuti processi e con le dovute misure, quali che siano le cose, gli effetti, le opere di cui essa è fautrice e causa. Procede la natura secondo il suo ordine, cammina con suoi passi, distribuisce le sue azioni secondo i tempi, usa le sue forze e le sue risorse ponderatamente e misuratamente, non fluttua, non muta; è stabile nel suo compito ed è sempre coerente. Né può o deve dirsi giustamente della natura quel che della fortuna dice Seneca tragico,12 sparge con mano cieca i suoi doni, favorendo il peggio,

poiché con mano fermissima e con l’accordo perfetto di tutte le forze che osservano l’ordine e la regola loro si adopera in azioni e operazioni che le son proprie; né favorisce le cose peggiori, che sembra in certo qual modo compito proprio della fortuna, ma tutta s’impegna nello sforzo di far riuscire in ogni genere ogni cosa a perfezione. 2. Sicché, in definitiva, sembrano appartenere propriamente alla natura l’ordine, la misura, la norma, mentre viceversa tutte queste caratteristiche non si riscontrano nella fortuna: questa ostacola piuttosto che dare o offrire, si precipita piuttosto che avanzare, profonde più che dispensare e, repentina e improvvisa com’è, spunta quasi da nascondigli; così si allontana, o piuttosto abbandona insalutato ospite, come si suol dire, lasciando tristi tracce di sé dovunque. Perciò che essa non sia natura, e quanto sia grande la differenza, è molto facile a giudicarsi e a riconoscere.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, IV

IV FORTUNAM NON ESSE INTELLECTUM. 1. Nam cum intellectu vix aliquid habere eam commune, illud docet, quod intellectus in iis versatur, quae intellegibilia ipsa quidem sunt, fortuna vero in iis, quae ab eadem ipsa dicantur fortuita habeanturque externa. Quin ea ipsa videtur intelligentiae potius mentique hominis adversari. Nam si fortunae effectiones operaque praeter propositum contingunt, secusque quam ante et elegerimus et decreverimus, quonam modo intellectus idem erit ipsum quod fortuna? cum electiones constitutionesque ac proposita nostra ab intelligentia proficiscantur, deque cogitationum ac meditationum fontibus manent. An non prudentia humanarum est actionum omnium dux ac magistra? Est vero. Rursus non ne fortunae impetus, ruinam quam saepissime afferunt prudentiae? Et quidem violentissime? Adversatur igitur fortuna intelligentiae, cuius alunna est prudentia. 2. Atqui bona fortuna non raro favet incoeptis respondetque propositis hominum et constitutis? Non imus inficias; verum non fuit id constituentis propositum, neque illud expectabatur, quamvis fieri posse non desperaretur, ut fortunae quoque favor accederet (sed aliud est propositum, aliud spes), cum tamen propositum ipsum constituentis collocatum in sola esset prudentia maximeque ordinatis progressionibus, quique rectam rationem sequerentur actibus. Utcunque igitur, sive favor accesserit fortunae, sive iniquitas opstiterit, praeter propositum omnino evenit, etsi fortasse minime praeter spem. Quo fit, uti fortuna ab intellectu omnino sit aliud, maximeque diversum, quando intellectus ipse quidem in iis versatur potissimum, quae necessaria ipsa sunt, habereque se aliter nequeant. Contra fortuitae res variae, incertae, mutabiles, ac fluxae, cum et mentis sit intelligentiaeque ipsius officium cogitare atque in veris inquirendis versari, fortunae vero ministerium ludere potius vimque in illis suam, quae externa dicuntur, ostendere.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, IV

IV LA FORTUNA NON S’IDENTIFICA CON L’INTELLETTO. 1. Che essa, infatti, non abbia nulla in comune con l’intelletto, lo dimostra il fatto che l’intelletto s’adopra in cose che sono intelligibili, la fortuna al contrario in cose che dal suo stesso nome si dicono fortuite e son ritenute esterne. Ché, anzi, essa pare contraria all’intelligenza e alla mente dell’uomo. Se, infatti, gli effetti e le operazioni della fortuna si verificano al di là del proposito e diversamente da quel che era stata la nostra scelta e la nostra decisione, in qual modo l’intelletto si potrà mai identificare con la fortuna? Perché le scelte, le decisioni e i propositi nostri muovono dall’intelligenza e scaturiscono dalle riflessioni e dalle meditazioni. Non è forse la prudenza la guida e la direttrice delle azioni umane? Lo è per certo. E, invece, non apportano molto spesso un danno alla prudenza gli assalti della fortuna? Certo, lo fanno con molta violenza. Dunque la fortuna contrasta con l’intelligenza, da cui la prudenza trae alimento. 2. Eppure, non avviene forse raramente che la buona fortuna favorisce le iniziative e corrisponde ai risultati che l’uomo si prefigge? Non possiamo negarlo; ma – dirai – non si trattò del risultato che uno si era prefisso, né era quella la cosa che si aspettava, per quanto non disperava che potesse accadere che si aggiungesse anche il favore della fortuna. Ma una cosa è il proposito, altra cosa la speranza. Poiché il proposito di chi si prefigge uno scopo dovrebbe risiedere, tuttavia, nella sola prudenza e in uno sviluppo programmato con la massima precisione, e in quegli atti che seguono la retta ragione. E dunque, sia che si aggiunga il favore della fortuna, sia che si opponga la sua nequizia, l’esito è del tutto indipendente dal proposito, anche se forse non del tutto dalla speranza. Perciò la fortuna è tutt’altra cosa dall’intelletto, anzi ne è cosa assolutamente diversa, poiché l’intelletto come tale si occupa principalmente di ciò che è di per sé necessario e non può comportarsi altrimenti, mentre le cose fortuite sono varie, incerte, mutabili e passeggere, in quanto l’ufficio della mente come dell’intelligenza consiste nel riflettere e occuparsi della ricerca del vero, laddove il mestiere della fortuna consiste piuttosto nel giocare e mostrare la sua forza nei beni detti esterni.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, VI

V FORTUNAM NON ESSE RATIONEM. 1. Quibus e rebus efficitur, ut eadem haec fortuna absit a ratione etiam quam longissime. Quid enim ratione ordinatius? Rursus, quid fortuna minus compositum? Rationis quidem proprium est modum adhibere ac mensuram regulamque in cunctis sequi. At fortunae excessus plerunque est aut defectus. Haec ubique mutabilis atque inconstans, illa stabilis ac certa: a rato enim ratio dicta. Ad haec ratio cuncta metitur disponitque atque aptat singula; fortuna vero minime circumspecta est. Illius quoque aequabilitas propria est ac perpensio, huius inaequabilitas atque inconsideratio. Praeterea, quorum ratio moderatrix est, eadem ipsa aut ubique sunt aut plerunque. Ad fortunam autem nihil certum, nihil sibi constans continuatumque, nihil denique, quod in futurum sibi haereat, referendum. VI AN FORTUNA SIT IPSA ALIQUA CAUSA. 1. Haec autem ipsa quanquam huiusmodi sunt, causam tamen aliquam esse fortunam et bonorum et malorum plurimorum, ac valentissimam quidem causam, vel maximi etiam philosophi tradunt; nam et esse eam populi gentesque, et docti pariter indoctique consentiunt, etsi pientiores quidam viri ac maxime divinae maiestatis studiosi, quam alii fortunam, ipsi dei nutum voluntatemque esse eam dicunt. Ac ne iniustum eum aut inconsideratum statuant, dum sceleratis offerentem secunda, probis vero ac continentibus aspera adversaque referentem intelligunt, rationem deo ipsi et causam rei eius permittendam censent, cuius constituta decretaque sint hominibus incomperta, nec fas sit nobis legem ac metam deo praescribere, nec occultam eius scitari velle sententiam. Nam et boni et maxime officiosi in subiectos populos reges multa quidem agunt, quorum causae ipsis sint popularibus parum notae, utiliter tamen prudenterque et excogitata ab illis in parentium usum sunt, et

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, VI

V LA FORTUNA NON S’IDENTIFICA CON LA RAGIONE. 1. Da queste considerazioni si deduce che la fortuna debba distinguersi, moltissimo, anche dalla ragione. Che cosa vi è, infatti, di più ordinato della ragione? E viceversa, che cosa vi è di meno regolato della fortuna? È certamente caratteristica della ragione adoperare modo e misura, e osservare la norma in tutte le circostanze. Invece alla fortuna appartengono per lo più l’eccesso o il difetto. Questa è in ogni caso mutevole e incostante, quella è stabile e certa; infatti ratio («ragione») deriva da ratus («determinato»).13 Si aggiunga che la ragione misura tutto, dispone e adatta le singole cose, mentre la fortuna non ha affatto circospezione. Dell’una sono proprie caratteristiche l’equilibrio e la ponderatezza, dell’altra l’accidentalità e la sconsideratezza.14 Inoltre, le cose su cui la ragione adopera la moderazione sono stabili, o lo sono per lo più. Alla fortuna non si può riferire nulla di certo, nulla di continuativamente costante, nulla infine che in futuro rimanga coerente con se stesso.

VI SE LA FORTUNA SIA DI PER SÉ UNA CAUSA. 1. Sebbene le cose stiano così, tuttavia i filosofi, e perfino i più grandi, hanno lasciato scritto che la fortuna sia una causa, anzi una causa potentissima, di moltissimi beni e di moltissimi mali. Infatti, popoli e genti, persone colte ed incolte, alcuni uomini anche di formazione religiosa e specialmente studiosi di teologia dicono che quella che altri chiamano fortuna sia per conto loro il cenno e la volontà divina. E per non dover asserire che Iddio è ingiusto o sconsiderato quando si avvedono che offre agli scellerati i favori, mentre manda difficoltà e avversità ai buoni e ai puri, ritengono di dover lasciare la ragione e la causa di ciò nelle mani di Dio, le cui decisioni e volontà sono sconosciute agli uomini, e che non sia lecito a noi prescrivere a Dio una norma e un obiettivo, né voler perscrutare il suo occulto pensiero. Infatti anche i re buoni e che si comportano in modo giustissimo nei confronti dei sudditi, fanno molte cose i cui motivi sono ben poco noti alla gente del popolo, e tuttavia sono da loro utilmente e giudiziosamente concepite in favore dei subalterni, 779

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constituta summo etiam cum studio et ratione. Itaque dei haec, quae ad fortunam referantur secreta esse; causamque cur ita sit illi placitum, vel cum bonum improbo, vel malum bene instituto viro offertur aliquod, nullo esse pacto perscrutandam, permittendumque illi esse res nostras omnis quae imperio eius subiaceant, pro arbitrio dispensare suaque e sententia, ab illius vero voluntate praescriptoque minime discedendum, aut ei tergiversandum esse. 2. Quorum opinioni tantum abest ut repugnemus (christiani enim sumus), uti nostra omnia ad supremi illius numinis voluntatem constitutionemque referenda censeamus, et quicquid vel decretum ab illo, vel permissum aut concessum videatur, illud et iustum et rectum, ac maxime etiam sanctum, et habendum et iudicandum. Sed nec omnes gentes christianam sequuntur religionem, nec pauci etiam sunt qui, quod homo intellectu praeditus liberque ipse sit agatque pro arbitrio suaque ex auctoritate atque consilio, fortunam esse aut nullam dicant, aut si est, eam vix ullam in rebus nostris habere iurisditionem velint, nisi quantum ipsi ab ratione aberrantes mentisque rectitudine, intelligentia relicta, appetitiones sequimur sensuumque titillationes ac blanditias. Quamobrem non indignum duximus hanc quoque partem indagare, et quid ea sit (si modo est aliquid) tentare, ut apertius fortasse, quam hactenus proditum est, quae vis quaeque causa ea sit a nobis ostendatur, atque unde ea quae fortuita dicuntur, unde etiam fortunati homines vitaque ipsa fortunatorum manet, et eorum contra qui male fortunati dicuntur habenturque miserabiles. Igitur ut summa quoque dementia est deo velle praescribere, sic minime consentaneum, vel potius maxime est indecens, adscribere ei vel pedis offensiunculam inter deambulandum, vel lupi in gregem insultum, aut buculae infoecunditatem sterilitatem ve asellae, quae inanis cuiusdam sunt infelicisque superstitionis. 3. At ratione hac, dices, nulla erit rerum humanarum deo cura, quae quidem illi vel summa rerum inest suarum omnium. Dei enim homo est fabrica, quatenus tamen inesse par est deo, ut optimo, ut maximo, ut praestantissimo, ut administrationem habenti gerentique rerum quae existunt universarum gubernationem et pensum. Quod, si suum est praetorum, senatorum, consulum, regum munus atque officium, videlicet

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e sono anche stabilite con somma cura e ragione. Pensano pertanto che queste cose riferite alla fortuna siano segreti divini, e non va perscrutata in alcun modo la causa per cui Dio avrebbe voluto così, quando ad un cattivo si vede offerto un bene o ad una persona onesta un male, e che bisogna lasciare a lui il compito di disporre a suo arbitrio e secondo il suo giudizio di tutte le nostre cose soggette al suo dominio, né bisogna affatto allontanarsi dalla sua volontà e dalle sue prescrizioni, o cercare di sottrarvisi. 2. All’opinione di costoro siamo così lontani dall’opporci (giacché siamo cristiani), che riteniamo di dover affidare tutto quanto ci appartiene alla suprema volontà e decisione della potenza divina, e di dover considerare e giudicare ogni sua decisione, ogni suo permesso e consenso, proprio per questa ragione giusto, retto e specialmente sacro. Ma non tutti i popoli seguono la religione cristiana, né sono pochi quelli che, essendo l’uomo provvisto d’intelletto, libero e capace di fare secondo il suo arbitrio, la sua autonomia e il suo senno, sostengono che la fortuna o non esiste o, se esiste, non ha alcuna giurisdizione sulle nostre cose, se non per quel tanto che noi, allontanandoci dalla ragione, abbandonata la via retta e l’intelligenza, seguiamo gli appetiti, le sollecitazioni e gli allettamenti dei sensi. Perciò noi non abbiamo ritenuto inopportuno indagare anche questo aspetto e cercare che cosa sia la fortuna (se pur è qualcosa), in modo da mostrare chiaramente, se è possibile, quel che fi nora si è detto, in quale potenza, in quale causa essa consista, quale sia l’origine di quel che si dice fortuito, e altresì l’origine degli uomini fortunati e della vita stessa degli uomini fortunati e, al contrario, di coloro che si dicono sfortunati e si considerano miserabili. Pertanto, come è anche somma follia voler prescriver leggi a Dio, così è assolutamente inopportuno, o piuttosto del tutto sconveniente attribuire a lui o un inciampo del piede durante una passeggiata, o l’assalto di un lupo al gregge, o l’infecondità di una giovenca o la sterilità di un’asinella, tutte cose oggetto di una vana e malaugurata superstizione. 3. Ma in questo modo – tu dirai – Dio non avrà alcuna cura del mondo umano, che invece costituisce per lui perfino la cosa più importante. Infatti l’uomo è opera di Dio, in quanto è ben naturale che Dio l’essere più buono, più grande, più eccellente che tenga il governo, la direzione e la cura di tutto il mondo esistente. Che se i pretori, i senatori, i consoli, i re hanno ciascuno la sua funzione e il suo ufficio, non è ovvio che ci sarà 781

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nullum eius existet, a quo et senatores existunt et reges? Si manuum est, si pedum, aurium, oculorum, membrorum etiam singulorum, nullum erit animi, cuius nutu totum agitatur corpus, resque nostrae administrantur ac geruntur, tum omnes tum singulae? Moderatur autem ac regit deus quae existunt cuncta, igitur et curam habet universorum. At dices, quam et qualem? Et quae utique deum deceat cura, ab eo suscipitur, et qualem habere eum par est, cuius nutu universa et moventur et perstant. Non dubitat poeta ille non minore eruditione, quam ingenio praeditus, ea fortunae tribuere quae versibus his cernuntur. Fortuna arbitriis tempus dispensat ubique. Illa rapit iuvenes, sustulit illa senes. Quaque ruit, furibunda ruit, totumque per orbem Fulminat, et caecis caeca triumphat equis.

4. Non enim externa tantum fortunae adscribit bona, quam tyrannidem quoque exercere inter homines ait, sed temporum statuit eam dominam et alios iuvenes de medio tollere, alios aetate provectiores ac senes. Ciceroni videtur magnam fortunae vim inesse in utranque partem, cuius quoties secundus esset flatus, provehi nos in portum summa cum felicitate, reflare contra ubi coepisset, eius impetus maxime esse procellosos. Aristoteles multum eam conferre ad felicitatem iudicat, bonorumque ac malorum successuum illam esse causam, eventusque eius incertos, interminatos, repentinos, praeterque electiones hominum ac proposita cadere. Itaque permagnam eius potestatem esse, doctissimi quique philosophi poetaeque consentiunt, a quibus ne populus quidem dissentiat. 5. Nullam igitur esse fortunam quis dicet? cum eruditissimus poeta et vitae brevitatem ad eam referat et longitudinem? cum experientissimus rerum humanarum, idemque doctissimus vir Cicero, in statu eius prospero ac reflatu, plurimum existimet esse repositum? cum Aristoteles, solertissimus rerum naturae explorator ac cognitor, et felicium et infelicium pariter eventuum causam fortunam esse dicat, quippe qui bonam eam esse et malam pro eventibus ipsis existimet? cum populus denique in hoc consentiat universus, et felices et fortunatos eos iudicans, quibus prospere ea uti contingat, miseros quibus e contrario. Persei regis filium, eius quidem Persei, quem Paulus Aemilius in triumphum duxit, ferra782

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, VI

una funzione o un ufficio di colui, dal quale e senatori e re provengono? Se vi è una funzione delle mani, dei piedi, delle orecchie, degli occhi, perfino delle singole membra, non vi sarà una funzione dell’animo, al cui cenno tutto il corpo si muove, le nostre cose vengono guidate e gestite, sia nell’insieme sia singolarmente? Ma Dio governa e regge tutto il mondo esistente, e dunque ha cura di tutte le cose. Ma – dirai – qual è, e di che genere è la sua cura? Non solo è assunta da Dio la cura che comunque a lui conviene, ma anche che è giusto che l’abbia colui, al cui cenno il mondo tutto si muove e si conserva. Non dubita il famoso poeta,15 provvisto di non minore cultura che ingegno, di attribuire alla fortuna quelle cose che sono indicate in questi versi. La fortuna dispensa il tempo a chi l’usa a suo modo. Ella rapisce i giovani, ella si porta via i vecchi; si precipita ovunque furiosa, in giro pel mondo fulmina, e cieca trionfa sui ciechi suoi cavalli seduta.

4. Infatti non soltanto ascrive alla fortuna i beni esterni, quando dice che esercita la tirannide anche fra gli uomini, ma la definisce anche signora dei tempi, quando dice che toglie di mezzo da una parte i giovani, dall’altra anziani e vecchi. Pare a Cicerone che sia insita nella fortuna la potenza di agire in due direzioni diverse e che quando il suo soffio è favorevole ci sospinge in porto con somma felicità, mentre quando comincia a soffiare contro, il suo impeto ha una straordinaria turbolenza.16 Aristotele pensa che essa concorra molto alla felicità,17 che è causa dei buoni e dei cattivi esiti, che i suoi eventi sono incerti, indefiniti, repentini, e capitano indipendentemente dalla scelta e dai propositi umani. Perciò i più dotti fi losofi e poeti sono d’accordo che è grande la sua potenza, e nemmeno il popolo dissente da loro. 5. Chi potrà dire dunque che la fortuna non esiste, dal momento che un coltissimo poeta18 riconduce ad essa la brevità e la lunghezza della vita? Dal momento che un uomo anche lui dottissimo come Cicerone, espertissimo delle cose umane, ritiene che il più è riposto nel suo soffio favorevole e nel suo soffio contrario? Dal momento che Aristotele, espertissimo indagatore della natura, afferma che la fortuna è causa insieme degli eventi felici e degli eventi infelici,19 ritenendo che essa è buona e cattiva a seconda degli eventi? Dal momento che, infine, tutta 783

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riam exercuisse officinam legimus. Figuli filium Agathoclem regnasse in Sicilia. Valerianus Romanorum imperator captus a Parthis in teterrima servitute et vixit multos annos, et tandem mortuus est. Apud hos eosdem Parthos, qui primus ex Arsacidum regnavit familia, eius conditio haud alia initio quam mulionis fuit. Pupieni Maximi, quem Senatus publico consensu in Augustum evexit, pater rhedarius fuit faber, utque alii tradidere, ferrarius. Maximini Augusti patria vicus fuit Thraciae plane ignobilis, pater gotus, mater halana, quorum nomina vix etiam fuere memoriae prodita. Vidimus Matthiam Corvinum ad regium e carcere fastigium elatum ab Hungaris. 6. Quae quidem aliaque generis eiusdem, si philosophis assentiri volumus, neque ad deum referenda sunt, ut paulo est ante disputatum, neque ad naturam, minime vero ad intellectum. Videlicet Matthiae Corvini adolescentuli cogitatio in carcere sola in hoc erat, ut Hungariae regnum optineret, communi Pannonum consilio e compedibus ad regium tribunal deducendus. Mutium Sfortiam ab aratro atque ab asino quaenam ratio quodve ratiocinandi studium maxime adolescentem evocavit ad militiam? Catamelata furnarii narniensis filius, cum lignatum puer a patre missus esset, amissa in sylva falce lignaria, dum patris iram veretur, praetereuntem secutus est militem. Brevi autem is evasit dux, ut a veneto Senatu, virtutis ergo statuam equestrem in maxime celebri Pataviii loco positam solus tempestate nostra patrumque nostrorum meruerit. Cum haec quidem omnia ad fortunam referantur eorumque sit causa initio quidem nobis ignota, quae postmodum progressionibus sese suis et aperit et declarat. Itaque qualis ea sit, et quam etiam pollens ac valida eius vis, vita ipsa plane docet nostra, cum singulis pene diebus videamus, temere res suas administrantibus felicissime tamen eis succedere, prudenter vero ac ratione recta sese moderantibus, non parum modo prospere, verum etiam maxime infeliciter.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, VI

la gente è d’accordo su questo punto, di considerare felici e fortunati quelli a cui tocca di usufruirne in senso favorevole e miseri coloro cui tocca il contrario? Leggiamo che il figlio del re Perseo, di quel Perseo che Paolo Emilio condusse in trionfo,20 lavorò nell’officina di un fabbro; che Agatocle, figlio di un vasaio, regnò in Sicilia.21 Valeriano, imperatore romano, catturato dai Parti, visse molti anni nella più oscura servitù, e alla fine morì.22 Presso questi stessi Parti, la condizione di colui che regnò per primo, della famiglia degli Arsacidi,23 non fu all’inizio diversa da quella di un mulattiere. Il padre di Pupieno Massimo, che il Senato elevò con pubblico consenso al rango di Augusto, fu un fabbricante di carrozze, e come altri hanno raccontato, un fabbro ferraio.24 La patria di Massimino Augusto fu un villaggio assolutamente sconosciuto della Tracia,25 il padre era goto, la madre alana 26 e i loro nomi non sono stati nemmeno tramandati alla memoria. Abbiamo visto Mattia Corvino sollevato dal carcere ai più alti fastigi da parte degli Ungari. 6. Questi esempi, e altri ancora dello stesso genere, se vogliamo condividere ciò che dicono i filosofi, né possono attribuirsi all’opera divina, come si è argomentato poco fa, né a quella della natura, meno che mai all’intelletto. Naturalmente il pensiero di Mattia Corvino, quando da giovinetto era in carcere, era tutto preso dal pensiero di ottenere il regno di Ungheria,27 essendo destinato a passare dalle catene al palco regale per comune decisione dei Pannoni. Quale ragione, quale calcolo richiamò dall’aratro e dall’asino Muzio Sforza 28 per farlo passare alla carriera militare quando era ancora molto giovane? Gattamelata, figlio di un fornaio di Narni,29 quando ancora fanciullo fu mandato dal padre a far legna, temendo l’ira del padre, si mise al seguito di un soldato di passaggio; in breve poi divenne un capitano tale, che da parte del Senato veneziano, in ragione del suo valore, ha meritato una statua equestre30 collocata nel luogo più frequentato di Padova, esempio unico ai nostri tempi e ai tempi dei nostri padri. Mentre tali cose vengono attribuite tutte alla fortuna, e ce ne è ignota all’inizio la causa, quest’ultima in seguito, col progredire degli eventi, si palesa e si manifesta. Perciò quale essa sia, e quanto anche sia potente e valida la sua forza, lo insegna la nostra stessa vita, quando vediamo quasi ogni giorno che coloro che amministrano sconsideratamente i loro affari hanno un magnifico successo, mentre quelli che agiscono con prudenza, ragione e moderazione non solo hanno poca fortuna, ma incorrono perfi no in grandissime sventure. 785

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VII FORTUNAM ADVERSARI PRUDENTIAE. 1. Quo fit ut fortuna ipsa prudentiae potissimum videatur adversari; quae cum ab intellectu cogitationeque ortum ducat, quis erit, qui fortunam ad intelligentiam ac mentem referat, cum illa prudentiam exuscitet, haec illi maxime adversetur, et a fine saepissime divertat optato? Quis ad deum, cum persaepe ab optimis ad deterrimos regna transferantur rerumque publicarum administrationes atque imperia? Causam tamen et vehementissimam et acerrimam quidem esse negare potest nemo, dum recte quidem philosophetur et sentiat, nisi qui ad dei fortasse sententiam referre vim eam velit, gubernantis quidem res nostras suopte arbitrio eodemque ignoto nobis atque etiam incomperto. In hoc tamen omnes consentiunt, ut tria cum sint bonorum genera, quae externa sint quaeque neque animi, neque corporis existimentur, fortunae ea sub imperio laborare; et qui iis abundent, felices eos esse, qui vero inhonorati vivant, inopes, ignobiles, egeni, eos et infelices esse et miseros; contra vero fortunatos, quibus bene feliciterque succedat.

VIII DE BONIS FORTUNAE. 1. Itaque et divitias et honores et imperia magistratusque fortunae ipsis subiiciunt, et rerum negotiorum administrationumque felices tum successus, tum prospera etiam eventa. Quocirca romanarum scriptores rerum, felicissime populo romano multa praeter omnem rationem ducumque ac Senatorum consilia cum evenisse videant, fortunae id populi romani attribuunt. Itaque non raro apud illos legitur «vicit fortuna populi romani». Est igitur fortuna nec vanum quidem, nec arcessitum nomen, quin maxima quaedam potius potentissimaque et vis et causa.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, VIII

VII LA FORTUNA È CONTRARIA ALLA PRUDENZA. 1. Da ciò si deduce che la fortuna è contraria alla prudenza; e poiché questa trae origine dall’intelletto e dalla riflessione, chi potrebbe mai riferire la fortuna all’intelligenza e alla mente? Mentre l’intelligenza risveglia la prudenza, la fortuna le si oppone completamente, e molto spesso la fa deviare dal fine desiderato. Chi potrebbe riferirla a Dio, dal momento che molto spesso i regni passano da persone nobilissime a degenerati, come la guida degli stati e gli imperi? Tuttavia nessuno può negare che la fortuna sia una causa fortissima e inesorabile, tanto che non ragiona e non pensa rettamente se non chi intende forse riferire quella forza al volere di Dio, il quale governa il nostro mondo a suo arbitrio, pur rimanendo a noi ignoto e sconosciuto. Su questo tuttavia sono tutti d’accordo che, essendo tre i generi di bene, i beni esterni e quelli non considerati né fra quelli dell’animo, né fra quelli del corpo sono soggetti al dominio della fortuna, e coloro i quali ne hanno in abbondanza sono felici, sono invece infelici e miseri coloro che vivono senza onori, privi di mezzi, ignorati, bisognosi, mentre sono fortunati quelli che hanno un felice successo.

VIII I BENI DELLA FORTUNA. 1. Adunque i filosofi ritengono soggetti alla fortuna i beni, gli onori, i posti di comando e le magistrature, i successi nel governo della cosa pubblica e degli affari, come anche gli eventi prosperi. Perciò gli storici romani, vedendo che al popolo romano erano toccati molti felicissimi eventi al di là di ogni ragione, al di là dei propositi dei condottieri e del Senato, attribuiscono ciò alla fortuna del popolo romano.31 E così non raramente si legge presso di loro «vinse la fortuna del popolo romano».32 È dunque la fortuna un nome né vano né astratto, che anzi è piuttosto una forza e una causa potentissima.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, IX

IX DE FORTUNAE POTESTATE EX ACCIDENTI. 1. Quamobrem videndum ac perscrutandum est, quid ea sit, unde illi tanta obveniat potestas, ut non honorum modo ac magistratuum adeptio, divitiarumque comparatio, quae prima mortales ducunt, sit ad illam referenda, verum vitae ipsius tum brevitas, tum longitudo, cum prudentiae quoque mentisque ipsius consilia, quae divina quaedam in nobis pars est, et irritet et pervertat. Nam si fortuna, ut Aristoteli placet, causa est et quidem ex eventu contingens praeterque electionem eius ac propositum, qui aliquid agendum suscepit, et consilia ut pervertat et prudentiae ut adversetur necesse est impugnetque incoepta nostra. Et vero hominum actiones, susceptionesque negociorum voluntariae ipsae sunt, atque a ratione profectae, eaedemque cum electione maturisque consiliis; quae perquam saepe fortuna ipsa perturbat confunditque rationem, labefacitque adeo voluntatem frustraturque electionem, ut nihil omnino patiatur eorum succedere, ad quae summo studio rationeque intendamus. 2. Interdum vero secus, quam speramus quamque opinio nostra est, quippe cum incoepta temere persaepe sumpta praeterque rationem administrata, quaeque sapientium etiam virorum opinione nullo modo successura iudicentur, et facile quidem succedant, et summa quoque cum felicitate et laude. Itaque, quae fortuna ipsa praestat, in utranque partem evenire iure dicuntur, eaque ex accidentia cadere, quando neque pro electione succedunt atque ex proposito, nec mens nostra in suscipiendis actionibus eo spectabat, ut aut iis progressionibus finem assequeretur, aut ut finis ipse alia via interciperetur: ab eventu igitur effectiones eius iudicandae sunt, minime vero a ratione, aut pro suscepta electione, atque consilio. Quo fit ut, quia praeter mentem eveniant ac propositum, repentinae illae quidem sint incertaeque, atque ex eo parum rationabiles omninoque inconstantes appareant. Repentina enim vix perdurant, quae sine consilio ac ratione certa esse minime queunt; itaque ut varient necesse est, sintque infirmae admodum.

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IX IL POTERE DELLA FORTUNA DERIVA DA CAUSE ACCIDENTALI. 1. Per queste ragioni bisogna vedere e ricercare che cosa sia la fortuna, da che cosa le provenga tanto potere, che non solo l’acquisizione di cariche politiche e amministrative nonché l’accumulazione delle ricchezze considerate dai mortali i beni più importanti debbano riferirsi ad essa, ma perfino la brevità e la lunghezza della vita,33 dal momento che è capace di vanificare e di capovolgere perfino i propositi della prudenza e della mente, che costituisce in noi la parte divina. Se la fortuna, infatti, come vuole Aristotele,34 è una causa, ed è una causa contingente che non dipende dalla scelta e dalla prudenza di chi si sia proposto di fare qualcosa, ne consegue che essa capovolge le intenzioni e contrasta la prudenza, opponendosi alle nostre iniziative. Epperò le azioni degli uomini e le imprese sono di per sé volontarie e mosse dalla ragione; ma proprio quelle che si fondano sulla scelta e su mature intenzioni molto spesso la fortuna sconvolge confondendo la ragione, indebolendo la volontà e annullando la scelta a tal punto, da non permettere assolutamente che si avveri alcuna di quelle cose alle quali con sommo impegno e consapevolezza miriamo. 2. Talvolta l’esito è diverso da quel che ci attendiamo e da quel che possiamo congetturare, giacché molto spesso iniziative prese a caso, dirette senza riflessione e anche a parere dei saggi ritenute in nessun modo destinate al successo, hanno un successo facile coronato anche da felicità e gloria. Pertanto quello che la fortuna di per sé offre, si dice giustamente che possa accadere in un senso e nel senso opposto, e che inoltre si verifichi per accidente, poiché non succede per una scelta fatta e secondo l’intenzione, senza che la nostra mente abbia come mira, nell’affrontare l’azione, di raggiungere quel risultato con quegli sviluppi, o ritenga che lo stesso risultato possa esser raggiunto per via diversa: da ciò che accade, dunque, vanno giudicati i suoi effetti, niente affatto dalla ragione, o dalla considerazione della scelta fatta e dall’intenzione. Perciò, essendosi verificati a prescindere dalla mente e dal proposito, essi appaiono repentini, incerti e pertanto ben poco razionali e del tutto incostanti. Ciò che è repentino infatti dura poco, ma quel che accade senza consiglio e ragione non può affatto essere certo, e perciò necessariamente è variabile e mutevolissimo. 789

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, X

3. Igitur etsi fortuna maxime potens est causa, effectiones tamen eius ab eventu sunt iudicandae, quando successus ipsi neque a proposito susceptaque ab electione proficiscuntur; ut qui, dum vitem pangit, thesaurum invenit, neque progressus eius ipsa sunt ab ratione ducti aut temperati; ut qui ad forum pergit defensitandi apud praetorem amici gratia, obviam habet qui nuntiet, institutum eum heredem ab hospite, cui decedenti nec liberi essent, neque ex agnatione ullus, qui iure ei succederet.

X AN FORTUNA SIT PER SE CAUSA. 1. Licet igitur ab eventu atque ex contingentia, quantum nostra interest atque ad nos ipsos spectat, haec ipsa causa iudicanda sit, numquid tamen ex hoc non erit et ipsa per se et suapte etiam natura causa, ac maxima etiam causa? Non et suis viribus instructa? Non et opibus innisa suis? suaque auctoritate atque arbitrio praedita? Quocirca quaerendum hoc restat, ac summo etiam studio quaerendum. Videlicet Romulus romani constitutor imperii, sub quo magna orbis pars, tam multis etiam seculis temperata est et recta, et a quo et gentium pars maxima leges acceperit ac vivendi formulas, genitus ita quidem est, ut nulla ortus eius ratio sit habenda, praeterquam quod contigit illum nasci ex coitu illo infami, si humanae spectentur leges. Ducunt a Mose originem in colendo deo et Iudaei et Christiani, et Sarracaeni. Nulla igitur geniturae eius ratio habenda est alia, nisi quod contigerit illum, quicunque ii fuerint parentibus suis, nasci. Quod dictu quidem non absurdissimum modo videatur, verum maxime etiam impium ac ratione ab ipsa, qua praestare nos caetera inter animalia gloriamur, omnino alienum. 2. In ortu autem hominis generationeque humanae leges neque naturae praescribere habent, neque Deo. Civiles enim leges apud illas praescribunt gentes, atque apud eos populos, qui constituendis illis consenserunt, ut lex quae est de una tantum ducenda uxore, in Italia quidem atque inter Christianos locum optinet, minime vero apud Syros, Mauros, Sarracenos. At naturalis lex est, ut infans e mare gignatur et foemina,

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, X

3. Ordunque, anche se la fortuna è una causa molto potente, i suoi effetti vanno giudicati dall’esito, perché i successi di per sé non provengono da un proposito e da una scelta. Così, ad esempio, se uno trova un tesoro mentre pianta le viti, i suoi vantaggi non dipendono dalla ragione o dalla virtù. Così, ad esempio, se uno va al foro per difendere un amico presso il pretore, e incontra chi gli annunzia che è stato designato come erede da un estraneo, che morendo non ha lasciato né figli né parenti che per diritto potessero succedergli.

X SE LA FORTUNA SIA IN SÉ UNA CAUSA. 1. Sebbene dunque la fortuna debba giudicarsi in base all’evento contingente, per quel che ci interessa e ci riguarda, forse per questo non sarà comunque una causa in sé e per sé? e perfino una causa grandissima? Non provvista per giunta di sue proprie forze? Non fondata su risorse sue proprie e fornita di una sua autorità e autonomia? Perciò rimane questa ricerca da fare, e ci vuole grandissimo impegno. Un esempio evidente: Romolo, fondatore dell’impero romano, dal quale una gran parte del mondo, e per tanti secoli, è stata governata e guidata, e dal quale la maggior parte dei popoli hanno ricevuto le leggi e le norme di vita, nacque in un modo che alla sua nascita non debba attribuirsi alcuna ragione,35 tranne che gli accadde di nascere da quell’unione infame, se guardiamo alle leggi umane.36 Fanno risalire a Mosè la loro origine nel culto divino sia i Giudei, sia i Cristiani, sia i Saraceni.37 Dunque non bisogna tenere alcun conto della sua discendenza, se non che gli accadde di nascere, chiunque fossero i suoi genitori.38 Ciò potrebbe sembrare non solo una cosa assolutamente assurda a dirsi, ma anche assolutamente empia, e del tutto aliena dalla ragione, nella quale noi ci gloriamo di essere superiori a tutti quanti gli altri animali. 2. Ma in fatto di nascita e di riproduzione dell’uomo le leggi umane non hanno di che prescrivere né alla natura, né a Dio. Infatti le leggi civili hanno vigore presso quelle genti e presso quelle popolazioni che hanno convenuto sulla loro costituzione, come la legge che obbliga ad avere una sola moglie ha vigore in Italia e presso i Cristiani, non presso i Siri, i Mauri, i Saraceni.39 È legge naturale che un bambino nasca da un maschio e da 791

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XI

neutique vero ut ex uxore ac marito. Non igitur adversus naturae legem aut naturali repugnante constitutione natus est Romulus, neque coitus ille, si naturae legem ac vim spectes, infamis, sed naturalis prorsus, atque ex ipsa generis humani constitutione et ordine. Quid enim ad naturae legem condemnandam, quod Virgilium mater sit enisa in via sub arborem, minime vero in culcitra ac laqueata sub contignatione? Aut quod aliquis ruri nascatur sordidoque sub tugurio? Quae quidem aliaque eiusmodi inde profecta sunt, quod nimis ipsi delicati sumus, et in accusanda natura arguti ac licentiosi. Velle virginitatem sequi voluntarium hoc quidem est, nequaquam vero naturale, at et naturale et voluntarium dare operam liberis. 3. Quo fit ut, ad naturam si respicias atque ad geniturae rationem, nulla Romulo inurenda materno sit e coitu infamiae cicatrix, nihilque quod accusare in eo procreando naturali iure liceat. Igitur, si natura ipsa rebus consulere hominum studebat, si numen illud supremum, quod mundum regit ac moderatur omnem, imperium erat Romanum per Romulum eiusque successores constituturum, quid leges ad hoc humanas de incoestu, aut de adulterio citas? quae ne apud Garamantes et Nasamones vastissimasque alias nationes locum quidem habent ullum, quem paucis ante annis, ne apud Canarios quidem, id est fortunatas habebant insulas, ab Ispanis nuper captas atque ad Christianam vivendi consuetudinem ac sacrorum ritum traductas. Tanto igitur naturae incoepto divinique numinis constitutioni non potuisse hominum leges praescribere illud docet, quod Faustulus Romuli altor ac conservator, perinde ut ab Amulio iussus fuerat, illum cum Remo fratre minime occidit, sed alendum potius quam occultissime ab Acca uxore procuravit. Verum relicto Romulo, rem ad ipsam redeamus.

XI QUO IN GENERE CAUSARUM FORTUNA SIT COLLOCANDA. 1. Igitur, si fortuna et causa est eaque et praepotens ac maxime valida, cum externis imperet rebus ipsaque cum quadrifaria sint causarum genera, nimirum aut ad materiam referenda est, de qua fit aliquid, aut ad

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una femmina, ma non che nasca da due che siano marito e moglie.40 Non dunque contro la legge della natura, o in contrasto con la norma naturale nacque Romolo, né quella unione, se si guarda all’essenza della legge naturale, è infame, ma del tutto naturale e conforme alla stessa norma e regola del genere umano. Come si può, infatti, condannare secondo la legge di natura il fatto che la madre di Virgilio partorisse mentr’era in cammino, sotto un albero?41 Non su un materasso?42 Non sotto un’impalcatura con soffitto? O che qualcuno nasca in campagna, in un sordido tugurio? Queste cose, e altre dello stesso genere provengono dal fatto che siamo troppo schizzinosi, e troppo pronti e sconsiderati nell’accusare la natura. Voler seguire la verginità è una scelta volontaria, niente affatto naturale, ma è azione naturale e volontaria dedicarsi a procreare figli. 3. Perciò, se si fa attenzione alla natura e al fondamento razionale della procreazione, nessun marchio d’infamia bisogna imprimere su Romolo per l’unione della madre, se il nume supremo che regge e governa il mondo aveva l’intenzione di costituire tutto l’impero romano tramite Romolo e i suoi successori. E dunque perché citi a questo proposito le leggi romane sull’incesto43 o sull’adulterio? Queste leggi che né presso i Garamanti né presso i Nasamoni44 e altre immense popolazioni hanno alcun vigore. Non avevano alcun vigore, fino a pochi anni fa, nemmeno presso gli abitanti delle Canarie, cioè le isole fortunate, poco fa conquistate dagli Spagnoli e trascinate alle norme della vita cristiana e alla religione.45 Che a questo così forte principio naturale e a questa norma fondata sulla volontà divina non abbiano potuto contrastare le leggi degli uomini, lo dimostra il fatto che Faustolo46 nutrì e salvò Romolo secondo l’ordine avuto da Amulio,47 e non lo uccise insieme al fratello Remo, ma si diede da fare piuttosto per farlo nutrire dalla moglie Acca48 più occultamente che fosse possibile. Ma, lasciando Romolo, torniamo al nostro discorso.

XI IN QUALE GENERE DI CAUSE VA INCLUSA LA FORTUNA. 1. Se dunque la fortuna è una causa ed è anche una causa molto potente e straordinariamente efficace, poiché comanda sulle cose esterne, e i generi di cause sono di quattro specie,49 è evidente che o va riferita 793

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XII

formam, a qua materia ipsa informatur, aut ad finem (quicquid enim aut faciendum suscipitur aut agendum, finem habeat constitutum necesse est, cuius illud susceptum sit gratia), aut ad vim denique agentem aliquam, quae et materiam ipsam informet et ad fi nem perducat illum quidem, quem sibi in initio constituerat. In hoc itaque potissimum genere causae videtur fortuna collocanda, cum nec ipsa sit e qua quid efficiatur, qualis est materia, verum quae efficiat potius, nec sit forma, quae materiae quidem ipsi accedat, tanquam artifice ab aliquo indita extrinsecusque inducta, nec sit ullo modo finis, cum ipsa prorsus intendat in finem. Etenim quicunque agit, et finem aliquem prospectans agit. 2. Nam et qui in certamen prodeunt, ab iis omnino propter victoriam susceptum est certamen, et qui pecuniae divitiisque dant operam, omnis utique ab illis labor suscipitur rerum ac copiae gratia. Iure igitur in agentis causae tribunali fortunam constituimus. Ac nihilomunus hae ipsae divitiae, copia, victoria, honores magistratusque, quoniam fortuita dicuntur bona, materia quasi quaedam fortunae sunt ipsius, perinde ut statuarii lignum, lapis, metallum, e quibus statuae suis conflantur ab artificibus. Atque ut statuariorum opera sunt imaginesque, sic bona quae dicuntur fortuita, quod ea a fortuna oblata sint, fortunae tum opera esse dicuntur, tum munera; ut non aliter ferme in bonis ipsa rebusque sibi subiectis sese gerere videatur, quam in materia sibi apposita statuarius artifex ac metallicus fictor. Quocirca fortuna ipsa suis in ministeriis atque effectionibus videtur artificis vel auctoris potius cuiuspiam sibi personam assumere ac gerere, perindeque ut qui versantur in re publica ac rem communem gerunt magistratus, munus suum atque officium administrare inter homines, ad quorum usum bona ipsa fortuita et sint et videantur comparata.

XII FORTUNAM ESSE CAUSAM EFFICIENTEM. 1. E quibus efficitur, ut haec ipsa de qua loquimur fortuna quatuor e causis sit una eaque efficiens, et tanquam magistratum gerens distribuendorum inter homines bonorum, quae tum externa dicantur, quoniam non insint homini a natura, tum fortuita, quod eorum dispensatio

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XII

alla materia, di cui una cosa è fatta, o alla forma, dalla quale la materia è modellata, o al fine (infatti ogni cosa o azione che si affronta ha necessariamente un fine stabilito per il quale si è affrontata) o comunque ad una potenza agente,50 che dà forma alla materia stessa e la conduca a quel fine inizialmente prefisso. In questa specie di causa sembra doversi soprattutto collocare la fortuna, poiché né essa serve per fare qualcosa, come la materia, ma piuttosto fa, né è forma che si aggiunge alla materia, come fosse imposta da un artefice e portata dall’esterno, né è in alcun modo un fine, perché semmai essa tende ad un fine; infatti, qualunque cosa uno fa, la fa rivolta ad un fine. 2. Così, anche da parte di quelli che vanno ad una gara, questa è affrontata assolutamente in vista della vittoria, e ogni sforzo di coloro che si dedicano a far danaro è rivolto ad accumulare la roba. Giustamente quindi abbiamo collocato la fortuna sul podio della causa efficiente. E nondimeno le stesse ricchezze, l’abbondanza, la vittoria, gli onori, le magistrature, poiché si dicono beni fortuiti, sono quasi una materia della fortuna, come per lo scultore il legno, la pietra, il metallo di cui le statue sono formate ad opera dell’artista. E come le opere degli scultori sono segni ed immagini, così i beni che si dicono fortuiti, poiché sono offerti dalla fortuna, si dice che siano effetti e doni della fortuna, in quanto essa si comporta con i suoi soggetti, quasi non diversamente dall’artista che produce statue o dall’inventore che opera col metallo, nei confronti della materia che è loro disposta. Perciò la fortuna nel suo lavoro e nelle sue operazioni sembra assumere piuttosto la figura di un artista o di un autore, e comportarsi conseguentemente, come i magistrati che hanno che fare con la politica e gestiscono lo stato sembrano svolgere il loro dovere e il loro ufficio fra gli uomini, per la cui utilità gli stessi beni fortuiti sono procacciati, come ben si vede.

XII LA FORTUNA È CAUSA EFFICIENTE. 1. Di qui si deduce che la fortuna della quale parliamo sia una fra le quattro cause, e in particolare la causa efficiente, e si può dire che essa svolga la funzione di distribuire fra gli uomini i beni, quelli che si chiamano ora esterni, perché non sono insiti nell’uomo per natura, ora fortuiti 795

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XIII

fortunae ipsi sit attributa. Quippe quae et illis pro materia utatur, et tanquam supellectile effectionum suarum omnium, et quibus ea ipsa optulerit, illos ita constituat atque, ut ita loquar, informet, ut divites copiosique habeantur, et in honoribus constituti ac dignitatibus, imperium inter alios exerceant funganturque potentatibus. Qui finis autem sit eius, usus ipse ostendit ac certum facit. Nam et bona fortuita comparantur usus gratia, et felicitas, ad quam fortuna ipsa non parum conferre iudicatur, in actione constituta est. Actio autem ipsa ab rerum usu administrationeque secerni nullo modo potest. Vides igitur fortunae ipsius effigiem quasi quandam, nec solum quod causa ipsa sit aperte intellegis, verum etiam quae sit, et qualis, quodque e pluribus una eaque efficiens.

XIII FORTUNAM DICI FINALEM QUOQUE POSSE CAUSAM. 1. Dices fortasse hoc in loco, hacque praesertim in quaestione, cum ea sit causa plerunque praeter mentem ac propositum nostrum, atque ab eventu contingens, finem potius esse quendam et insperatum et repentinum. Quis autem, dum recte modo sentiens, hoc ipsum inficietur? Sed nos fortunam, qua offert quippiam vel adimit, quaque adiuvat vel damno est, agendi eam gerere magistratum dicimus; qua vero praeter eligentis ac constituentis propositum opera eius procedit finem esse quendam repente obiectum inexpectatumque si negaverim, iniurius esse profecto videar. An non eandem quoque materialem esse causam, et recte forte quis dixerit, si bona ab illa obiecta tantum consideraverit, ut materiam, ut copiam, ut rem abunde suffectam, perinde atque horreum quoddam ad omnem vitae usum atque sumministrationem? Sed nos qua adiuvat, ut bona ac benevola, qua adversatur et officit ut nocua atque infesta, qua finem ad quem tendimus, vel offert ut propitia vel eripit ut inimica, efficiendi eam ac gerendi res in utranque partem magistram dicimus. Qualem etiam innuere videtur Aristoteles, qualem etiam Plato, qui eam Galeno teste ait esse causam secundum contingentem eventum in «Proaereticis», iisque quae ipsi et elegerimus et agenda proposuerimus.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XIII

perché la loro distribuzione si deve proprio alla fortuna. Sicché costei se ne serve come di una materia, quasi fossero uno strumento di tutte le sue operazioni, dispone e per così dire conforma coloro ai quali ella li offre, in guisa che siano tenuti per ricchi e doviziosi, e rivestano cariche pubbliche e di prestigio, esercitino il comando fra gli altri e ricoprano posti di potere. Quale sia il suo fine, l’esperienza lo mostra e lo dimostra. Infatti i beni fortuiti ce li procacciamo per utilità, e la felicità, alla quale si ritiene che la fortuna non poco contribuisca, consiste in un’azione. L’azione stessa poi in nessun modo può distinguersi dall’esercizio del governo. Vedi dunque quasi un’immagine della fortuna, e non solo puoi comprendere come essa sia una causa, ma anche quale causa sia e di qual fatta, e come sia una fra le tante, e in particolare una causa efficiente.

XIII LA FORTUNA PUÒ DEFINIRSI ANCHE CAUSA FINALE. 1. Dirai forse a questo punto, e specificamente a proposito di questo interrogativo, che essendo la fortuna una causa che agisce per lo più al di fuori della mente e del proposito nostro, essa sia piuttosto un fine insperato e improvviso. E chi potrà confutare questa opinione, purché la s’intenda correttamente? Ma noi diciamo che la fortuna ha la funzione di una causa efficiente, per il fatto che dà o toglie qualcosa, è di aiuto o di danno; eppure se negassi che essa consiste in un fine che si presenta inaspettato per il fatto che la sua operazione procede senza il proposito di qualcuno che sceglie e decide, certamente sembrerebbe che io sia in errore. O qualcuno forse potrebbe dire, e giustamente, che consista in una causa materiale, considerando solamente i beni che offre, come mezzi, roba, risorse sufficienti, al pari di un granaio per tutte le utili provviste della vita? Ma noi, per il fatto che giova, mostrandosi buona e benevola, e che si oppone e nuoce mostrandosi ostile e molesta; per il fatto che, mostrandosi benigna, ci offre il fine al quale tendiamo, oppure ce lo toglie mostrandosi ostile, la consideriamo una guida che opera e governa le cose in un senso e nell’altro. Con questa definizione sembra consentire Aristotele,51 con questa anche Platone, il quale, come attesta Galeno, dice che essa è una causa conforme all’evento contingente nei Pro aereticis,52 e che riguarda le nostre scelte e i nostri proposti. 797

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XV

XIV QUID ANAXAGORAS ET STOICI DE FORTUNA SENSERINT. 1. An non eodem hoc Galeno teste et Anaxagoras et Stoici arbitrati eam sunt causam esse minime notam humanarum agitationum, atque, ut ipsorum verbis utar, «anthropinon logismon», quippe qui alia quidem secundum necessitatem ac fatum, alia vero secundum fortunam et casum esse putent?

XV QUIBUS IN REBUS AC NEGOTCIIS FORTUNA VERSETUR. 1. Cum igitur efficientem causam fortunam esse statuerimus eique gerendarum in administratione rerum curulem posuerimus sedem, non temere quaerendum videtur, quibus ea vertatur in negociis, quippe cui agendi si vis inest efficiendique potestas ac ius, nimirum subiectis in rebus imperium exerceat necesse est. Aristoteles igitur, cui in re ut maxima vera non turpe modo, verum etiam profanum videatur velle adversari, tradit, quaecunque lunae contineantur circuitu, ea cuncta patibilia esse subiectaque supernis potestatibus, atque inferiora haec corrumpi, in aliaque atque alia continenter verti; at superiora illa, utpote aeterna divinaque, tenorem perpetuum in statu quaeque suo retinere. Inter caetera itaque animalia, quae condicione sua mortalia quidem sunt, cuius res maxime variabiles existant atque incertae, hominem esse statuit. Cui quoniam soli e mortalium numero intellegentia mensque ac ratiocinatio tributa est, eundem hunc solum et cogitare et quaerere et ratiocinari, unumque item eum deliberare atque ad agendum impelli existimat, propter vitae necessitatem insitamque naturam eorumque bonorum assequendorum gratia, quorum illi insita est cupiditas, cui post voluntas quoque accedat et animi certa constitutio, reique propositae firmitas atque constantia. 2. Cuiusmodi autem haec sive negocia, sive res ac bona sint, quanquam abunde dictum est, non poenitebit tamen denuo ea connumerare,

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XV

XIV IL PENSIERO DI ANASSAGORA E DEGLI STOICI RIGUARDO ALLA FORTUNA. 1. Per testimonianza dello stesso Galeno non sappiamo forse che per Anassagora come per gli Stoici la fortuna è la causa non conosciuta dei movimenti umani?53 E per usare le loro parole, anthropinon logismon,54 ritengono che alcune cose siano secondo la necessità e il fato, altre secondo la fortuna e il caso.

XV IN QUALI COSE E IN QUALI ATTIVITÀ OPERA LA FORTUNA. 1. Avendo stabilito che la fortuna è causa efficiente, e avendole assegnata una sedia curule dove svolgere la funzione di governare il mondo, non mi pare avventato ricercare in quali faccende essa si muova, perché se le è insita la capacità di agire e l’autorità legittima di eseguire, non c’è da meravigliarsi se eserciti il potere sulle cose che le sono soggette. Aristotele, che mi sembrerebbe non solo brutto, ma anche empio voler contestare, specialmente a proposito di una verità lampante, scrive che le cose contenute nella sfera della luna, tutte quante sono passibili di influssi e sottoposte a superiori poteri, e che le cose di questo mondo inferiore sono destinate a corrompersi e a trasformarsi continuamente in altre e poi in altre.55 Invece le cose del mondo superiore, poiché sono eterne e divine, si conservano per sempre ciascuna nel proprio stato; e che fra tutti gli altri animali che sono mortali per la loro propria condizione solo l’uomo è forse quello le cui cose sono più che mai variabili e incerte. E poiché solo all’uomo, fra i mortali, è stata data l’intelligenza, la mente e il raziocinio, Aristotele reputa che lui solo pensi, ricerchi, ragioni, lui solo ancora decida e senta la spinta ad agire per le necessità della vita e per insita natura al fine di procurarsi quei beni di cui gli è insito il bisogno, cui si aggiungono anche la volontà e la sicura determinazione dell’animo, la fermezza e la costanza del proposito. 2. Di qualunque genere siano queste cose, sia che vogliamo chiamarle attività, sia sostanze o beni, quantunque abbondantemente lo si sia detto, non dispiacerà enumerarle un’altra volta: ricchezze, capitali, cariche, 799

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XVI

divitias scilicet, opes, honores, clientelas, potentatus, magistratus, imperia, generisque eiusdem coetera. Has igitur res bonaque haec ipsa ludum esse fortunae in iisque eam versari, illud praecipue docet, quod fortuita ea ab hominibus dicuntur bona. Quae item sint negocia, in quibus exerceri quoque illam et Aristoteles velit et Plato, illa nimirum sunt, quae sibi homines tum agenda tractandaque, tum etiam adipiscenda proposuerint cum electione et consilio animoque in primis volente et confirmato. In his igitur tum rebus ac bonis, tum etiam negociis hominumque actionibus fortuna magistratum ac ius ostendit suum exercetque pro arbitrio dominatum.

XVI FORTUNAM IN IIS SOLUM VERSARI QUAE AD HOMINEM SPECTENT. 1. Et quoniam in illis quoque, quae corporis sunt, multa etiam praeter mentem contingunt atque opinionem, idque in iis quoque, quae ad naturam referenda prorsus videantur, ita quidem in iis omnibus tenendum ac iudicandum est naturam quidem ipsam rerum minime indigere consilio aut deliberatione, cum motus eius ac fines sint omnino certi constitutique, progredianturque suo ordine, suis etiam numeris, temporibus, progressionibus. Sunt enim eius opera ac munera omni e parte certa ac prorsus necessaria. At hominum commotiones ac voluntates incertae sunt ac mutabiles, parumque omnino sibi constant, perinde ut eorum quoque res ac negocia, quae aliter sese habere atque aliter consuerint. Quocirca propter dubitationem atque incertitudinem consultare eos oportet utpote rerum futurarum atque eventorum ignaros, diuque ac multum et deliberare et quaerere ante quam decernant. Quo fit ut, quod in iis contigerit, de quibus homines ipsi et consultant et decernunt, illud ad fortunam referatur, quae in aliis ad casum.

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seguito di clienti, signorie, magistrature, sovranità, e tutte le altre cose dello stesso genere. Che questi beni materiali siano soggetti al gioco della fortuna e che questa si muova nel loro ambito, lo dimostra specialmente il fatto che dagli uomini vengono denominati beni di fortuna. Non meraviglia che siano queste le attività sulle quali sia Aristotele sia Platone sostengono che la fortuna si eserciti, quelle attività che gli uomini si propongono di affrontare, di svolgere e di portare a compimento con scelta consapevole e in primo luogo con volontà d’animo e fermezza. Su questi beni e su queste attività, nonché sulle azioni umane la fortuna dimostra di aver potere e giurisdizione, ed esercita a suo arbitrio il dominio.

XVI LA FORTUNA SI MUOVE SOLO NELL’AMBITO DI CIÒ CHE RIGUARDA L’UOMO. 1. E poiché per quel che riguarda il corpo molte cose accadono indipendentemente dall’intenzione e dalla congettura, e lo stesso avviene per quello che sembra riguardare esclusivamente la natura, in tutte queste cose bisogna tener fermo e reputare che la natura di per sé non ha bisogno affatto né di proposito né di deliberazione, dal momento che i suoi movimenti e i suoi fini sono certi e definiti e procedono con la loro regola, con i loro ritmi, con i loro tempi e secondo la loro evoluzione. Infatti le sue operazioni e le sue funzioni sono determinate e del tutto necessarie. Ma i moti e le volontà degli uomini sono incerte e mutevoli, e non sono per niente coerenti, proprio come i loro beni e i loro affari, che di solito vanno ora in un modo ora in un altro. Perciò a causa del dubbio e dell’incertezza gli uomini hanno bisogno di interrogare gli oracoli, in quanto sono ignari del futuro, di riflettere molto, e a lungo, e di ricercare prima di decidere. Ne consegue che quel che accade in quelle cose, nelle quali sono gli uomini a riflettere e decidere, viene attribuito alla fortuna, mentre quel che accade nelle altre viene attribuito al caso.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XVIII

XVII QUAE AD FORTUNAM SINT, QUAE AD CASUM REFERENDA. 1. Itaque accidentia ipsa ac rerum eventa negociorumque, alia ad casum tantum referenda, alia ad fortunam sunt, quam quidem humanis tantum constitutionibus ac decretis et favere velint et adversari. Atque hoc quidem illud est, quod Cicero ait, vim eius partem in utramque plurimum posse, cum de casu nullam omnino mentionem faciat, aut in iis quae ad prosperum, aut quae ad parum secundum spectent negociorum eventum; cum etiam illa ipsa quae naturae forte sunt casuque contingunt, ut pluviae, ut tempestates, ut alluviones, si incoeptis ac negociis vel conduxerint nostris, vel illa adversus ierint, ad fortunam tamen referantur, cum praeter electionem destinatumque animo contingant finem.

XVIII SOLUM HOMINEM DICI POSSE FORTUNATUM. 1. Quid casus igitur, quid fortuna inter se differant et quae tanquam materia sit ea, in qua fortuna versetur, iam, ut arbitror, plane tenes, exque iis colligere etiam potes, fortunatas nec pecudes, nec coetera animalia, inanimaliaque recte dici posse, cum humanae tantum res sub fortuna laborent, ipsique homines uni de dubiis consultent et ad finem sibi propositum contendant. Quocirca, si quando secula quoque fortunata dicimus, ad homines ac principes, qui sub ea tempora fortuna bene usi fuerint, referimus. Quale illud, O fortunatae gentes, Saturnia regna.

Ut, si poetae aliquando aliter locuti inveniantur, per lusum utique perque translationem locuti videantur.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XVIII

XVII QUEL CHE VA ASCRITTO ALLA FORTUNA E QUEL CHE VA ASCRITTO AL CASO. 1. Perciò degli eventi accidentali e delle azioni ed affari, alcuni vanno ascritti soltanto al caso, altri alla fortuna, che – a quanto sostengono – favorisce e contrasta soltanto le decisioni e i propositi umani. Ed è questo quello che pensa Cicerone, quando dice che la fortuna esercita molto potere in tutti e due i sensi, senza fare alcuna menzione del caso,56 o in quelle cose che hanno un esito positivo, o in quelle cose che hanno un esito poco propizio. Invece anche quelle cose che accadono fortuitamente o per caso nella natura, come le piogge, le tempeste, le alluvioni, se favoriscono le nostre iniziative e le nostre attività, o le contrastano, vengono ascritte comunque alla fortuna, perché accadono indipendentemente da una scelta e da un proposito dell’animo.

XVIII SOLO DELL’UOMO SI PUÒ DIRE CHE È FORTUNATO. 1. Che differenza ci sia fra il caso e la fortuna, e quale sia per così dire la materia sulla quale si esercita la fortuna, ormai, come penso, dev’esserti chiaro, e da questi argomenti puoi anche dedurre che fortunato non può esser detto il bestiame, né possono dirsi gli altri animali, poiché soltanto le cose umane si travagliano sotto la fortuna, mentre gli uomini, soltanto loro s’interrogano sui dubbi e si sforzano di raggiungere il fine che si sono proposti. Perciò, se talora diciamo fortunati anche i secoli, ci riferiamo agli uomini e ai prìncipi che hanno goduto della fortuna in quei tempi. Questo è il senso di quel verso: O genti fortunate, o regni di Saturno.57

Tanto che, se talvolta si trovano poeti che parlano in un modo diverso,58 si vede che lo fanno per scherzo e per metafora.

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XX

XIX DE NECESSITATE AC FATO. 1. Quamobrem quoniam paulo ante in fati mentionem incidimus ac necessitatis, , de utraque pauca si disseruero, haudquaquam videbor temere ad haec ipsa de fortuna disputans divertisse. Et cum haec ipsa fortuna videri possit fati ipsius sive executrix, sive ministra. Cuius opinionis, quod vel auctorem habeam Ioannem Pardum, vel quae verecundia est eius socium, non poenituerit me sive auctoris sive socii, tum propter studiorum horum summam ac singularem, quae in eo est, cognitionem, tum propter rerum peripateticarum acutissimas pariter ac solertissimas indagationes. 2. Qua de re dicturi ut christiani nullo modo sumus, ut qui ad dei voluntatem ac sententiam, eamque prorsus incognitam cuncta referamus; cui parendum aequo etiam sit animo, quippe cuius decreta omnia plena sint sapientiae, iusticiae, aequitatis. Sed quoniam haec ipsa de veteris philosophiae hausta sunt fontibus, pro veterum ea philosophorum opinionibus ac sententiis prosequemur, venia tamen ante nostris ab hominibus ac sacerdotibus impetrata. Disserimus enim ut ratiocinantes, neutique vero ut qui pro constitutis haec et tanquam postulatis tradentes asserere atque asseverare aliis, perinde ac certa determinataque velimus.

XX QUID VETERES DE FATO SENSERINT AC NECESSITATE. 1. Posidonius igitur stoicus rerum harum primas deo, secundas naturae, tertias fato partes assignat. Thales omnipotentem esse necessitatem voluit; Parmenidis vero ac Democriti sententia est omnia e necessitate evenire illamque et fatum esse et iudicium et providentiam, cum tamen Plato alia ad necessitatem referenda, alia vero ad providentiam putet. Empedocles opinatur necessitatem esse principiorum elementorumque violentam impetuque progredientem causam, Democritus reflexionem

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XX

XIX NECESSITÀ E FATO. 1. Pertanto, essendoci capitato poco fa di far menzione del fato e della necessità (gli antichi fi losofi della Grecia chiamano questa anance, quella eimarméne),59 se discuterò un poco di entrambi non sembrerà che abbia fatto casualmente una digressione rivolgendomi a questo argomento, potendo la stessa fortuna esser considerata sia come esecutrice, sia come ministra dello stesso fato. E avendo perfino come sostenitore ovvero, ho ritegno a dirlo, come sodale in questa opinione Giovanni Pardo,60 non mi dispiacerà di assumerlo sia come sostenitore sia come sodale,61 e per la profondissima e straordinaria conoscenza che ha lui di questi problemi, e per le sue acutissime e geniali indagini intorno alla dottrina peripatetica. 2. Su questo argomento non mi appresto assolutamente a parlare come cristiano, riportando ogni cosa alla volontà e alla decisione di Dio, del tutto sconosciuta, perché a lui bisogna obbedire con rassegnazione, essendo le sue decisioni tutte piene di sapienza, di giustizia e di equità. Ma poiché questi argomenti sono attinti dalle fonti della filosofia antica, proseguiamo il discorso secondo le opinioni e il pensiero dei filosofi, dopo aver chiesto tuttavia perdono ai contemporanei e ai nostri sacerdoti. Infatti discutiamo da raziocinanti, non come se volessimo, trasmettendole agli altri, fare asserzioni a mo’ di postulati già definiti,62 quasi fossero accertati e determinati.

XX PENSIERO DEGLI ANTICHI SUL FATO E SULLA NECESSITÀ. 1. Adunque, lo stoico Posidonio assegna la prima parte della fortuna a Dio, la seconda alla natura, la terza al fato.63 Talete asseriva che la necessità fosse onnipotente.64 Il pensiero di Parmenide e di Teocrito è che tutto avviene per necessità ed essa si identifica col fato, col giudizio e con la provvidenza,65 mentre Platone ritiene che alcune cose vadano ricondotte alla necessità, altre alla provvidenza. Empedocle è dell’opinione che la necessità sia la causa dei primi elementi, causa violenta che procede con impeto; Democrito che la necessità sia quella tal ripercussione e rimbal805

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXI

ac resultationem illam ac concursum et plagam materiae; cum tamen Heraclitus fati ipsius substantiam censeat esse rationem per universum euntem, id quod innuere videtur, Virgilius cum ait: […] deum namque ire per omnes Terrasque tractusque maris coelumque profundum.

2. Cui etiam opinioni Chrysippus videtur assentiri, existimans eimarmaenen vim esse spiritualem seriemque universi gubernatricem, per eamque et quae sunt esse et quae facta ab illa ortum duxisse, et quae faciunda causam inde ductura. Nec vero non Platonis illa quoque est sententia, ut fatum corpus sit aetherium semenque omnium generationis, seu naturae universi lex. Hi igitur simul omnes, quanquam aliter atque aliter, necessitatem tamen et fatum esse consentiunt.

XXI DE PLATONIS OPINIONE. 1. Verum nos, praeteritis nunc aliis, Platonis sive sententiam sive opinionem hac ipsa de re consideremus. Putat enim nequaquam e providentia proficisci omnia, quippe cum rerum earum quae quidem dispensantur minime sit uniformis eademque natura. Quocirca quaedam tantum ad providentiam referenda, ad fatum quaedam esse censet. Quid ultra? Ad hominum ipsorum voluntates atque arbitrium non nulla, alia ad fortunae inconstantiam, pleraque ad casum, quae quidem ipsa seiuncta a ratione pro libidine accidant. 2. Quinque ita sunt numero quae Platoni in mentem veniant, providentia, fatum, hominis ipsius voluntas, ac tum fortuna, tum casus, et divina quidem quae essent atque intellegibilia, quaeque diis ipsis cognata et proxima ad providentiam ea solam unamque referenda. Quae vero naturalia, eademque corporea, atque ex elementis constituta, quod constitutionis suae naturam sequuntur, ad fatum, cuius ipsius munus sit, atque officium, singula quidem diggerere, eaque pro motu, loco, forma, tempore distribuere, providentiae vero suum sit ac proprium, cuncta quamvis diversa, quamvis alia atque alia pariter tamen complecti.

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zo, quel tale scontro e urto della materia, mentre Eraclito asserisce che essenza della necessità sia la ragione che si muove per l’universo,66 cosa cui sembra consentire Virgilio quando dice che67 […] il dio andava per tutte le terre, le distese del mar, nel profondo del cielo.

2. Con questa opinione Crisippo68 sembra concordare quando ritiene che l’eimarméne sia una forza spirituale, un ordine che governa l’universo, e che per opera sua esista il presente, e il passato abbia tratto origine da essa e da essa sarà causato il futuro. Ed è anche questo il pensiero di Platone, che il fato sia un corpo etereo, seme di ogni generazione, o legge della natura universale. Tutti costoro, sebbene in modo diverso, consentono tuttavia nell’opinione che la necessità e il fato esistano.

XXI OPINIONE DI PLATONE. 1. Ma noi, lasciati per ora gli altri, consideriamo il pensiero platonico a proposito di questo argomento, sia che si tratti di una vera e propria teoria, sia che si tratti di una opinione. Platone ritiene infatti che non tutto provenga dalla provvidenza, perché la natura delle cose che sono distribuite nell’universo non è uniforme. Per cui pensa che alcune vadano riferite alla provvidenza, altre al fato. Che più? Vanno riferite alcune alla volontà e all’arbitrio degli uomini, altre all’incostanza della fortuna, la maggior parte al caso, cioè quelle che, separate dalla ragione, accadono senza regola.69 2. Così cinque è il numero dei soggetti che vengono in mente a Platone, la provvidenza, il fato, la stessa volontà dell’uomo, la fortuna e il caso, mentre vanno riferite alla provvidenza, e solo ad essa, le cose divine e intelligibili e che sono affini e vicine a Dio. Le cose naturali e corporee, invece, composte di elementi, poiché seguono la natura della loro complessione, vanno riferite al fato, il cui ruolo ed ufficio è proprio quello di indirizzare gli elementi singoli distribuendoli secondo il moto, il luogo, la forma, il tempo, laddove è compito proprio della provvidenza abbracciare tutti quanti gli elementi allo stesso modo, quantunque diversi l’uno dall’altro. 807

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3. Itaque fatum ipsum diggerere, explicare, administrare, disponere, ordine suo suoque loco ac tempore, quae videlicet providentia ipsa in sese congesta ac prospecta habeat, et qua etiam via ac ratione gerenda sint, atque administranda, quippe quae modum illis ordinemque statuerit, cuius profecto et ordinis et rationis fatum sit ipsum dispensator quasi quidam, atque administer. Sapienter itaque Severinus Boëthius, atque apposite, gerendarum rerum formam immobilem ac simplicem, divinam ait esse providentiam, fatum vero eorum quae divina semplicitas gerenda disposuit, mobilem nexum esse ordinemque temporalem; indeque illud existere ut, fato quae subsint, ea quoque omnia providentiae sint subiecta, cui et ipsum etiam subserviat fatum; quaedam tamen, quae providentiae iurisditioni tantum ascripta sint, ea fati seriem magistratusque eius cancellos egressa esse. 4. In nostra autem voluntate quae tertia Platonis distributio est, eiuscemodi omnia esse posita, qualia sunt uxorem ducere, ad mercatum accedere, dare operam literis, vites pangere, negociari, venari, piscari, certare cursu, palaestram exercere quaeque alia nostris iuris sunt inque hominis ipsius manu sita. In rebus vero externis, quaeque iurisditionis minime sint nostrae, quippe quae repente, atque ex imparato accidant praeterque rationem ac secus etiam quam ipsi in suscipiendis negociis incoeptisque aggrediundis nobis proposuerimus ac longe aliter, quam consilium ab initio ipsaque ab electione nostrum fuit, iis in rebus versari fortunam retur rerumque eventa pro illius imperio libidineque succedere. 5. At contra, praeter haec omnia, ut quae nostrae nullo modo sint ditionis hominum ve arbitrii, ea porro cuncta sub casu laborare. Qualia autem et quae sint illa, quae ad providentiae unius spectarent magistratum atque officia, Plato ipse subinnuit in Timaeo, cum deum inducit mundi fabricae intentum, constituentem illum ipsum ac deligentem tot animas, quot ipse creasset stellas, eisdemque distribuentem singulis vehicula singula, mox aperientem illis, et tanquam expectorantem universae rei naturam, omnemque ex ordine futurorum seriem atque edisserentem leges, quas condidisset, quasque ipsae sequerentur decretorumque suorum constantiam atque immutabilitatem. Annon deus ipse statuit formatque quae placita ei sunt, perinde ut creatori rerum omnium? Non

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3. Perciò il fato distribuisce, dispiega, dirige, dispone con la sua regola, a suo luogo e tempo, quelle cose che la provvidenza tiene in sé raccolte e previste, e nel modo in cui devono esser gestite e governate, perché ha stabilito modalità e ordine, essendo il fato distributore e quasi collaboratore nel far osservare l’ordine razionale. Sapientemente pertanto e opportunamente Severino Boezio70 afferma che la divina provvidenza è una forma immobile, semplice di gestire le cose, mentre il fato è il legame mobile e l’ordine temporaneo di quelle cose che la semplicità divina ha disposto da gestire. Da questo deriverebbe che le cose sottoposte al fato siano tutte soggette anche alla provvidenza, ai cui ordini starebbe anche lo stesso fato, e tuttavia alcune cose che vengono attribuite solo alla giurisdizione della provvidenza sarebbero sfuggite all’ordine del fato e ai limiti imposti dal suo governo. 4. Dalla nostra volontà dipendono tutte quelle azioni che fanno parte della terza categoria, secondo la distinzione fatta da Platone, quali sono il prender moglie, l’andare al mercato, dedicarsi alle lettere, piantare le viti, negoziare, andare a caccia, pescare, gareggiare con la corsa, esercitarsi in palestra, e le altre che sono di nostra pertinenza e sono affidate alle mani dell’uomo. Con le cose esterne e che non sono assolutamente sotto la nostra giurisdizione, perché accadono repentinamente e senza preparazione alcuna, al di fuori della ragione e indipendentemente dal fatto che ce le siamo proposte nell’affrontare un affare o nell’intraprendere un’iniziativa, in modo molto differente da quel che era la nostra iniziale intenzione e dalla nostra scelta, pensa Platone che abbia a che fare la fortuna, e che gli eventi avvengano secondo la sua volontà e a suo piacimento. 5. Al contrario, tranne tutti questi eventi, quelli che non sono assolutamente sotto la nostra giurisdizione o sotto l’arbitrio dell’uomo, sono tutti sottoposti al caso. Di che genere e quali siano quelli che riguardano il governo e l’opera della sola provvidenza, lo stesso Platone accenna nel Timeo quando introduce Iddio, intento alla fabbrica del mondo, a costruirlo, a scegliere tante anime quante stelle aveva lui stesso create,71 e a distribuire loro i mezzi per muoversi, a ciascuna il suo, poi ad aprir loro e quasi ad esprimere72 la natura di tutte le cose ed ogni serie di cose secondo un ordine e a spiegar loro le leggi che aveva fondate e che dovessero seguire, la costanza e immutabilità delle sue decisioni. Non è forse Iddio che ha stabilito e plasmato le creature che ha voluto, come 809

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ne ut maximus idemque supremus legem ponit sancitque? Num non ut sapientissimus docet? quodque illos, quos alloquitur, exequi par esset et instruit et informat? 6. Itaque providentia ipsa ut princeps auctorque antecedens praegreditur, praeque se fert dei ipsius moderantis ac regentis cuncta voluntatem, imperium, numenque illud immutabile, e quo fatum manat ipsaque rerum series ac causarum proficiscitur, a fando videlicet ductum nomen, quia deus ipse dixerit fatusque sit leges, quibus et mundus omnis et illi ipsi, quos instrueret, obedienter essent optemperaturi: a fando igitur fatum, ut ab edicendo edictum, a decernendo decretum. Quodque qui praesidet regitque sciscat, constituat, sanciat, scitum, sanctio, constitutio dicta. Itaque Platonici ipsi atque e nostris praecipue Chalcidius consentiunt divinam legem fatum esse inevitabilemque tum promulgationem, tum sanctionem scitumque, quod creator mundi et constitutor deus de universa sciscens natura, animis ipsis dixerit, quo sanctionem eam mundus sequeretur universus perque eandem ipsam, praeteritis quae praesentia, praesentibus autem quae futura necterentur, quippe quae rationem contineret perpetuam, ac tum ordinationem, tum seriem eorum omnium, quae consequenter ac continuate fierent et futura essent, proptereaque mundi ipsius animae ab auctore constitutoreque insinuatam, eamque trifariam esse volunt. 7. De qua poetae quoque locuti sunt, fati ipsius vim atque substantiam in triplicem quasi personam partientes, Atropon, Clothon, Lachesin et Atropon quidem orbem illum, utque graece loquamur ‘sphaeram’ esse volunt, quae ‘aplanes’ ab illis dicitur, quod non modo non erret, verum motum illum suum continuet indesinenter atque ex praescripto; nam neque ullam sentit agitationis suae obliquitatem, neque deflexionem omnino aliquam. Erraticam vero illam ac divagantem sphaeram appellavere Clothon, ob tortuosam obliquantemque et tanquam deviam coeli vertiginem perplexamque obliquitatem, de qua scilicet provenirent ea, quae diversae variantisque ut essent motus, nec idem quidem ipse motus, verum devius, nec eadem, sed dissimilis progrediendi ratio praestaret. At quae sub luna est sphaera atque ex eo sublunaris a Platonicis ipsis dicta, Lachesis est agnominata, quod proprium eius munus esset ea in se cuncta suscipere, quae ex illarum utriusque effectionibus existerent

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spetta al creatore del mondo, non è lui che in quanto l’essere più grande e l’essere supremo pone le leggi e le sancisce? Ed essendo il più sapiente degli esseri non è lui che insegna? Non è lui che ordina e insegna quel che sarebbe giusto eseguire da parte di coloro a cui si rivolge? 6. Perciò la provvidenza come un principe ed un propugnatore va innanzi e manifesta la volontà e il comando dello stesso Dio, che guida e regge tutto quanto, e la potenza divina immutabile, da cui promana il «fato» e nasce la serie delle cose e delle cause, un nome – com’è evidente – che deriva da fari, perché Dio stesso lo ha «detto»,73 e il fato consiste nelle leggi con le quali tutto il mondo e quegli stessi ministri che egli ha istruito osserveranno con obbedienza; da fari deriva dunque «fato», come da edicere «editto», da decernere «decreto». E poiché chi presiede e regge dovrebbe decretare col suo voto,74 disporre, sancire, la decisione si chiama scitum, disposizione. Pertanto i Platonici, e fra i nostri specialmente Calcidio,75 concordano nell’idea che il fato sia una legge divina, una promulgazione e una disposizione inevitabili, e un decreto che il creatore e fondatore del mondo, comprendendo la natura tutta, ha dato alle anime, affinché tutto l’universo seguisse quella disposizione, e per mezzo di essa il presente si connettesse al passato e al presente il futuro, per il fatto che in lui risiede la regola permanente, e non solo l’ordine ma anche la serie di quelle cose che conseguentemente76 avvengono e avverranno di seguito, e perciò sostengono che dall’ideatore e fondatore del mondo vi sia stata infusa l’anima e che essa sia triplice. 7. Di essa hanno parlato anche i poeti, dividendo la potenza e la sostanza del fato in tre parti, quasi in tre persone, Atropo, Cloto e Lachesi,77 e vogliono che Atropo sia quel globo, e come dicono i Greci la sfera, che da essi è detta «fissa»,78 perché non solo non va errando, ma conserva continuamente quel suo moto senza fine e secondo l’ordine prescritto; infatti non è soggetta né ad alcuno sconvolgimento o deviazione, né ad alcuno sviamento. Chiamarono Cloto79 invece la sfera errante e vagante, per il giro tortuoso, obliquo e quasi deviante del cielo, e per la complicata deviazione da cui ovviamente provengono quelle cose che, essendo i movimenti diversi e vari, e non essendo il movimento sempre lo stesso, ma errante, procedono in modo non sempre uguale, ma dissimile. La sfera che è sotto la luna, e perciò chiamata sublunare dai Platonici, fu denominata Lachesis,80 perché il suo proprio compito era quello di prendere su di sé tutte quante le funzioni e le azioni che rimanessero fuori 811

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ministeria et opera. Iam igitur quid fatum sit tenes, de quo dicendum proposuimus. Ac ne Ciceronis de eo praetereat te sententia, audi quid de fato in libris de divinatione et loquatur et sentiat: esse scilicet ordinem seriemque causarum, cum causam causa ex se gignat. Ea est autem ex omni aeternitate fluens veritas sempiterna. Item, ex quo intellegitur, ut fatum sit, non id quod superstitiose, sed id quod physice dicitur causa aeterna rerum, cur et ea quae praeterierint facta sint, et quae instarent, fiant, et quae sequuntur futura sint.

8. Quod cum ita sit, efficitur, ut fatum ipsum sit in agitatione positum, trahens secum innumerabilem rerum varietatem ac copiam, seriemque multplicem eorum omnium, quae ex infinito in infinitum ordine ac nexu accidant suo, secundumque eandem legem, quam deus ipse ab initio scivit. Nihilo tamen ipsum immutabile est ac terminis suis fixum, constans divinaeque parens iussioni, eique obnoxium, quando is, qui nunc est eritque deinceps diebus, horis ac momentis singulis, idem ipse et coeli et coelestium orbium, et quae coelo feruntur stellarum habitus, ex circuitione in circuitionem, circumactione semper sua instauratur, idque ipsum quam diu lex ipsa providentiaque divina constitutum habeat ac decretum. 9. Nunc de voluntate, quae, ni fallor, appetitio est intelligentiae inhaerens. Itaque sentientium e numero animalium homini tantum inest voluntas, cum et cupiendi vis et item irascendi sit ei cum illis communis; proinde fit ut, quod carent intellectu, careant et voluntate. A voluntate igitur primo afficimur, deinde etiam movemur ad agendum, et quanquam voluntas ipsa ad ea nonnunquam sese excitat, quae nec conditionis humanae, nec virium sint nostrarum (nam etiam immortales esse vellemus, et momento [eodem] ab occasu solis in ortum delabi, qualis mentis ipsius motus, ac raptatio est), tamen ad ea plerunque volentes ducimur, quae nostrarum prorsus sint virium ac facultatis. Quocirca ea tantum incipienda eligimus, quae assequi nos posse confidimus. Ante tamen quam

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dalle operazioni delle altre due. Ormai devi aver capito che cosa sia il fato, del quale ci siamo proposti di parlare, e perché non ti sfugga il pensiero di Cicerone, ascolta quello che dice e pensa sul fato nei libri sulla divinazione, che cioè esso è l’ordine e la serie delle cause, poiché una causa produce da sé una causa,81 ma essa è una verità eterna che procede da tutta l’eternità. Parimenti, da ciò s’intende come il fato sia non quel che si dice in base alla superstizione, ma quel che si dice in base alla fisica, la causa eterna delle cose, per cui anche le cose che sono passate sono accadute, e accadono quelle che incombono, e accadranno quelle che seguono.82

8. E stando così le cose, succede che lo stesso fato sia posto in un movimento che trascina con sé una varietà e quantità innumerevole di cose, e una serie molteplice di tutte quelle cose che accadono all’infi nito, provenendo dall’ordine infi nito con un loro nesso, e secondo quella medesima legge che Dio sin dall’inizio ha concepito. Nondimeno il fato è immutabile e fisso nei suoi termini, costante, obbediente e soggetto al comando divino, poiché quel comportamento identico del cielo, delle orbite celesti e delle stelle che si muovono nel cielo, che è ora, e sarà poi in ogni giorno, in ogni ora e in ogni singolo istante sempre lo stesso, di circuito in circuito, si rinnova sempre nel suo rivolgimento, e ciò per tutto il tempo che la legge della provvidenza divina ha deciso e decretato. 9. Tratteremo ora della volontà, che, se non mi sbaglio, è un desiderio inerente all’intelligenza. Perciò fra gli animali sensibili, soltanto nell’uomo risiede la volontà, poiché sia l’impulso concupiscibile, sia quello irascibile è comune con gli animali; di qui deriva che questi ultimi, mancando di intelletto, mancano anche di volontà. Dapprima dunque siamo spinti dalla volontà, poi ci muoviamo anche ad agire, e quantunque la stessa volontà talora si accenda anche per quelle cose che non sono né della condizione umana, né adatte alle nostre forze (vorremmo infatti essere immortali, vorremmo che in un momento si passasse dal tramonto all’alba, che sarebbe un moto rapido proprio come quello della mente), tuttavia siamo indotti per lo più dalla volontà verso cose che sono pienamente adeguate alle nostre forze e alla nostre capacità. Perciò scegliamo di intraprendere solo quelle cose che confidiamo di poter realizzare. E 813

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illa aggredimur, persaepe etiam diutius deliberamus, sintne futura utilia an inutilia conducturane rei familiari, an incommodatura. 10. Itaque, si ratio ipsa ac recta quidem ratio consultantibus nobis dictaverit rem eam et futuram utilem, et vires nostras ei satis esse consequendae, negocium ipsum aggredimur. Sin minus aut illud de mente cogitationeque abiicimus, aut male incoeptum si iam fuerit, ab illo prorsus desistimus. Est itaque in voluntate nostra positum, cum quid agendum vel offertur, vel ipsi de eo cogitationem capimus, aggressuri necne illud simus; proinde Plato, quae eiusmodi essent, fato ea nequaquam censebat assignanda, sed in nostra omnino voluntate esse collocata. Quid enim ad fatum, si mihi in mentem venit pangendae vineae? cum mea sit in manu constitutum sim ne laborem eum suscepturus, an quod male videar rei familiari consulere, opus ipsum praetermissurus. Et cum pares nobilitate, dote, forma, aetate, educatione, moribus, vel una, vel plures simul offeruntur in rem uxoriam virgines, nunquid non arbitrii iudiciique est eius, cui virginum fit oblatio et cuius est optio, sit ne aut omnes pariter repulsurus, aut hanc quam illam potius electurus? quandoquidem voluntates in his nostrae liberae sunt, ab omnique necessitatis aut maioris imperii iure solutae. 11. Quo etiam fit, ut actiones ipsae hominum, quae virtutes constituunt, vel eaedem ipsae potius sunt virtutes, voluntariae esse debere iudicentur, et virtus ipsa electivus esse habitus atque in mediocritate positus; nam quid obsecro aliud est electio, quam in consultando ac decernendo temperata rectaque a ratione confirmata voluntas? quin illud quoque hinc efficitur ut actiones violentae quamlongissime a virtute relegentur, nec quisquam invitus, quanquam recte quid egerit, iure veniat laudandus; quod scilicet voluntatem in agendo liberam esse oporteat, ac nullo modo coactam; siquidem coactae actiones, quanquam honestae et probae, desinunt esse virtutes propter vim exteriorem. His itaque in actionibus quae voluntariae quidem sunt, quanquam etiam in voluntariis vim exercet suam fortuna, ut vel afflatu quis prospero perducatur in portum, vel adverso iactetur in scopulum aut exagitetur tempestatibus. Qui igitur fortunae campus sit, quae etiam palaestra ludusque tam incertus ac lubricus iam intellegis; cum negocia saepius prudentissime suscepta administrataque summa etiam cum ratione et usu quam accommodatis-

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tuttavia prima di affrontarle, spesso riflettiamo anche a lungo per decidere se possano essere utili o inutili, se possano risultare vantaggiose per gli interessi familiari, o se potrebbero arrecare loro qualche difficoltà. 10. Pertanto, se la ragione, la retta ragione certo, avendo noi preso consiglio, c’indicherà che quella cosa può essere utile e che le nostre forze sono sufficienti a conseguirla, affrontiamo la faccenda; se no, o ce la togliamo dalla mente, o se l’abbiamo intrapresa male, subito ci ritiriamo. È infatti insita nella nostra volontà la capacità di affrontare o di non affrontare una cosa, quando deve essere fatta o si presenta davanti, o ce la mettiamo in testa. Per questo Platone riteneva che non dovessero attribuirsi al fato cose di questo genere, ma dipendessero del tutto dalla nostra volontà.83 Come, infatti, potrebbe attribuirsi al fato, se mi viene in mente di piantare una vigna, dal momento che dipende da me se io sono disposto ad affrontare quel lavoro, o a trascurare quel lavoro che mi sembri non arrecare vantaggi agli interessi familiari? E quando sono disponibili insieme una o più ragazze per il matrimonio, pari in nobiltà, dote, bellezza, età, educazione, comportamento, non è nell’arbitrio e nel giudizio di colui al quale le ragazze sono state proposte, respingerle tutte o scegliere questa invece di quella? Poiché le volontà nostre in questo caso sono libere, e sciolte di diritto da ogni necessità o potenza superiore. 11. Da ciò deriva che le stesse azioni degli uomini, in cui consistono le virtù, o sono virtù esse stesse, debbano necessariamente essere considerate volontarie, e la virtù debba essere considerata essa stessa un abito elettivo ed essere collocata nel giusto mezzo. Difatti, che altro è, di grazia, la scelta, se non la volontà guidata dalla consultazione e dal giudizio, e convalidata dalla retta ragione? Ne consegue che le azioni violente sono tenute quanto mai lontane dalla virtù, e nessuno viene lodato a buon diritto per un’azione compiuta senza volerlo, quantunque giusta, perché nell’agire la volontà deve essere libera, e in nessun modo coatta. Così accade nelle azioni che sono propriamente volontarie, sebbene anche nelle volontarie la fortuna esercita la sua forza, come per esempio quando uno viene condotto in porto da un vento favorevole, o viene scaraventato su uno scoglio da un vento contrario, o viene sballottolato dalle tempeste. Quale sia dunque il campo della fortuna, quale sia la sua palestra e il suo gioco incerto e pericoloso, ormai lo capisci, giacché molto spesso faccende affrontate con molta prudenza e gestite con il massimo di ragionevolezza, oltre che con l’esperienza più adegua815

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simo infeliciter tandem vertant, contra vero parum considerate incoepta minimeque prudenter; quin etiam vel maxime incomposite inordinateque tractata fortunatissimos habeant eventus. 12. Hac igitur parte, quae ad voluntatem spectat in hunc modum explicata, progrediamur iam ad casum, qui a fortuna hoc interest, quod illa in iis versatur tantum, in quibus agitur de voluntate hominum, de electione, consiliis, propositis, at casus in iis, quae aut inanima ipsa sunt, aut si animalia, ratione tamen carentia, viventiaque suopte solum ductu, nullo adhibito consilio, ac fine ullo rationis praesidio. Itaque ut quae vel secunda in iis, quae nobis ipsi proposuimus, quaeque ut adpiscamur prosequimur, vel contra adversa accidunt, ad fortunam referuntur, sic ad casum, quae in rebus inanimis ac brutis, dum ea nec a natura tamen, nec ab arte proveniant. Huiusmodi enim omnia casui adscribenda sunt, perinde ut illiusmodi fortunae. Itaque hac potissimum ratione inter se casus ac fortuna differunt; utranque enim causam eventitiam esse qui recte philosophantur volunt.

XXII DE CAUSIS PER SE ET AB EVENTU. 1. Etenim in hoc ipso quaerendi ac ratiocinandi genere causa ipsa cum duplici sit via consideranda, et ut est ipsa per se (sic enim hodie loquimur) et ut est ex eventu atque ab rerum accidentia, causam illam, cui nomen est per se, tum primariam, tum primigeniam appellare nobis placet, quam Chalcidius vir apprime eruditus principalem dicere non est veritus, at alteram illam, quam tum accidentem, tum ex accidenti agnominarunt eventitiam, ut ab eventu ipso nomen ducat; quando prisci illi, qui latinam initio constituere philosophiam, et eventum et rerum ac negociorum eventa vocavere. Utque haec ipsa, quae de casu dicimus et fortuna deque primigeniis atque eventitiis causis, testimoniis quoque comprobata notiora fiant, et tanquam constituantur in aperto, sit hoc maxime exemplum. 2. Suscepit M. Tullius Cicero iter in Graeciam, inde etiam in Asiam ac Rhodum, ut maximos ac disertissimos illius aetatis rhetores audiret.

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ta, alla fine hanno una piega sfortunata, mentre imprese sconsiderate e imprudenti, anzi portate avanti con grandissima confusione e disordine, hanno esiti fortunatissimi. 12. In questa parte dunque, una volta chiarito quel che riguarda la volontà, procediamo a trattare del caso, il quale si distingue84 in ciò dalla fortuna, che essa ha a che fare soltanto con quel che riguarda la volontà, la scelta, i consigli, i propositi, mentre il caso ha a che fare con le cose che sono inanimate o, se sono animate, sono tuttavia prive di ragione e vivono soltanto del proprio istinto, senza l’uso del consiglio e senza il sostegno della ragione. Pertanto, come viene riferito alla fortuna ciò che è favorevole, o viceversa sfavorevole rispetto a quegli obiettivi che ci siamo proposti e che cerchiamo di conseguire, così vengono riferite al caso quelle cose che appartengono al mondo inanimato e ai bruti, quando non provengono né dalla natura né dall’arte. Infatti le cose di questo genere vanno ascritte tutte al caso, come alla fortuna quelle dell’altro genere. E così soprattutto si differenziano fra loro il caso e la fortuna. I veri filosofi vogliono infatti che siano entrambe cause eventizie.85

XXII LE CAUSE IN SÉ E QUELLE DIPENDENTI DA UN EVENTO. 1. Ordunque, rimanendo in questo ambito di ricerca e di argomentazione, poiché la causa va considerata sotto due aspetti, ossia in quanto esiste per se stessa (questo è l’uso odierno),86 o dipende da un evento e da un accidente, quella che è detta «per sé», e che il dottissimo Calcidio non ha esitato a chiamare «principale»,87 ci pare opportuno chiamarla o causa primaria, o causa originaria, mentre l’altra, che hanno denominato accidente o accidentale, ci pare opportuno chiamarla eventizia,88 in quanto trae il suo nome proprio dall’evento, perché gli antichi, che inizialmente hanno fondato la filosofia latina,89 hanno usato la dizione «evento» o quella di «eventi di fatti e faccende». E per far sì che ti sia più chiaro quello che stiamo dicendo del caso e della fortuna, e delle cause originarie ed eventizie, quando siano dimostrate mediante testimonianze, considera soprattutto questo esempio. 2. Marco Tullio intraprese un viaggio in Grecia,90 poi in Asia e a Rodi per ascoltare i più grandi ed eloquenti retori di quel tempo. Così, im817

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Itaque a Brundusio solvens, prosperam nactus tempestatem, paucissimis horis Apolloniam perlatus est. Bona itaque fortuna hac in navigatione usus est Cicero. Contra, cum e Piraeo solveret, quo in Asiam traiiceret ac tantum non continentem Asiae terram teneret, repente ex adverso excitata procella, in Pireum unde moverat eum reiecit: mala utique atque adversa fortuna usus hic dicitur, quoniam praeter propositum hoc ipsum contigisset, ut contra navigatio in Apolloniam contigerat e sententia. Idem Rhodio cum in litore esset expositus, atque animi gratia per arenam deambularet, in murenam incidit, quam fluctus maris in aridum eiecisset. Casu igitur piscis ille Ciceroni obiectus est, quando et mutum est animal, et ipse non eo consilio deambulabat, pastum ut quaereret, sed ut animum refocillaret corpusque, cum adhuc ipse de sentina nausearet. Post inventum quoque pisciculum, paulo etiam progressus longius, pedem in fiscum offendit philippeorum plenum, de iactura fluctuantium mercatorum ab undis in arenam iactatum. Et hoc quoque casui ascribendum; nam et id Ciceroni praeter cogitationem optigit atque sententiam, et fiscus ipse aureique illi numi inanimae res erant, nec humana cum ratione quicquam habebat omnino coniunctum. 3. Verum ut ad causas tum eventitias, tum primarias ac primigenias redeamus, primaria itineris suscpti in Graeciam atque Asiam Ciceroni fuit causa eloquendi cupiditas, utque perfectus tandem orator evaderet. Fuit igitur fortuna illi propitia, quod ex animi sententia, proque cupiditate, qua flagrabat, contigerit ea tempestate in Graecia, atque Asia docere eruditissimos rhetoricae magistros, summosque dicendi artifices, quibus audiendis etiam contigit, ut oratoriae institutionis librorum vel maxima tunc esset copia. Eventitia est haec et ad casum referenda causa, ast illa fortuita, quod doctores omnis (quod ipse maxime studebat) sibi fecerit amicissimos morum probitate et ingenii elegantia. Quocirca causa ipsa per se primigenia quidem est, at illarum utraque eventitia sequiturque primigeniam; cui sic accedunt ac coniunctae sunt, ut primaria illa perinde ac substantia quaedam videatur, hae vero tanquam accidentiae. 4. Ne igitur hac in parte diutius immoremur, fortunae vis omnis in hominum versatur rebus ac negociis, casus vero in rebus solum, aut inanimalibus, aut animalibus verum a ratione destitutis, ut brutis mutisque,

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barcatosi a Brindisi, imbattutosi in una tempesta in poche ore pervenne ad Apollonia.91 Cicerone in questa navigazione si valse di una fortuna favorevole. Al contrario, salpando dal Pireo per recarsi in Asia, quando appena stava per toccare il continente asiatico, improvvisamente una tempesta lo rigettò nel Pireo92 da dove si era mosso: in questo caso si dice che egli incontrò comunque una cattiva e avversa fortuna, poiché questo gli capitò fuori del suo proposito, come invece la navigazione verso Apollonia gli era andata secondo le sue intenzioni. Lo stesso Cicerone, sbarcato sul litorale di Rodi, mentre passeggiava sulla spiaggia per rianimarsi, s’imbatté in una murena93 che i flutti marini avevano gettato sul secco lido. Quel pesce dunque si offrì per puro caso agli occhi di Cicerone, dal momento che si tratta di un animale muto e lo stesso Cicerone non si aggirava in cerca di cibo, ma per rifocillare l’animo e il corpo, giacché lui sentiva ancora la nausea della sentina. E dopo aver trovato quel pesce, andato ancora avanti, urtò col piede in un canestro pieno di filippi,94 gettato sulla spiaggia dalle onde, proveniente dal naufragio di mercanti che l’avevano perduto. Ed anche questo va attribuito al caso, perché Cicerone l’ottenne senza saperne nulla e al di là della propria intenzione, e lo stesso canestro con quelle monete d’oro che vi erano dentro erano cose inanimate, né c’era alcun rapporto con la ragione umana. 3. Ma per tornare alle cause eventizie e a quelle primarie e originarie, la causa primaria del viaggio intrapreso in Grecia e in Asia fu per Cicerone il desiderio d’imparare l’eloquenza in modo da riuscire ad essere un perfetto oratore. Fu dunque propizia a lui la fortuna, perché secondo l’intenzione e il desiderio di cui ardeva, accadde che in quel tempo in Grecia e in Asia insegnassero i più dotti maestri di retorica e i più grandi artisti della parola, alla cui scuola capitò anche che ci fosse allora una grandissima quantità di libri di istituzione oratoria. Quest’ultima è una causa eventizia e riferibile al caso, mentre quella è una causa fortuita, perché, come fortemente desiderava, si rese grandemente amico di tutti i dotti. Perciò vi è una causa in sé originaria, ma entrambe le cause eventizie fanno seguito a quella originaria, alla quale si aggiungono e con la quale sono collegate, in modo che la primaria sembra quasi la sostanza, mentre queste degli accidenti. 4. E per non trattenerci troppo su questo argomento, la forza della fortuna riguarda tutta le cose e le azioni umane, mentre il caso riguarda solo gli esseri inanimati, o animati ma privi di ragione, come i bruti e 819

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dum tamen ipsa quae accidunt, nec a natura sint, nec ab arte. Itaque hominibus quaecunque accidunt, quae illorum incoeptis, constitutis, propositis vel faveant vel incommodent, fortunae ascribenda sunt iurisditioni. Qua e re hominem tantum, seu fortunatum dicimus, seu male fortunatum, nullo tamen modo, ni vel ab usu vel translatione quadam, aut arborem aut bestiolam dixerimus fortunatam. Quae vero in rebus accidunt inanimalibus, ut auro, argento, marmore, tabellis, arbustis, praediis, quaeque alia inanima sunt, sive etiam animalia, quales sunt pisces, alites, quadrupedes, repentia, infecta, greges armentaque, ea casus omnino tribunal ac iudicium subeunt. Quamobrem eventitiae omnes causae, quaeque ad fortunam quaeque ad casum referuntur, proprie accidentes dicuntur acceduntque primigenia ac principalem ad causam. 5. Ipsa vero primigenia causa in fato collocanda est; quod autem dicimus est huiusmodi. Navigabat Anneus Seneca e Roma in Siciliam, ubi multa et opima possidebat praedia, quo et agros suos et villas inspiceret et rationem proventus a villicis exigeret ac vicariis. Haec est susceptae a Seneca navigationis primigenia causa. Inter navigandum autem propter agitationem contigit et nauseare eum, et stomacho moveri, et relanguescere de vomitu, et perpallescere, multum etiam sitire, et quod per aestatem navigaret, defatigari aestu et decolorari, quaeque alia navigantibus accidunt. Haec igitur omnia in causa eventitia ponenda sunt. Quo fit ut iure dicantur primigeniae causae accidentia. Ad haec differunt vel etiam vehementer inter se ipsa quae accidunt, et quorum causa est fortuna, et quorum casus. Nam quorum auctor est fortuna, ea ex hominis consilio ac proposito ducunt originem acciduntque ut absque ratione, sic cum admiratione quadam animique commotione, siquidem praeter opinionem atque ex imparato. Quorum vero casus in iis nihil est omnino, quod ad hominis referatur propositum humanamque ad rationem ac voluntatem, siquidem in iis accidunt, quae aut muta sunt infantiaque, aut inanima nihilque sentientia. 6. Recte igitur compositeque, atque ex ipsa rerum natura, qui dicunt duas simul causas humanis e consiliis atque electionibus profectas, cum ita confluunt, ut minime quod propositum est proveniat, verum longe quidem secus praeterque opinionem ac susceptam operam, ludum hunc

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le bestie, purché le cose che accadono non provengano né dalla natura né dall’arte. Perciò tutto quello che accade agli uomini, che favorisca o intralci le loro imprese, le loro decisioni, i loro propositi, va ascritto al dominio della fortuna. Ne consegue che chiamiamo fortunato o sfortunato soltanto l’uomo, e in nessun modo tuttavia, se non usualmente o metaforicamente, chiameremo fortunato un albero o una bestiola. Ma quello che accade nel mondo degli esseri inanimati, come l’oro, l’argento, il marmo, le tavolette, gli arbusti, i poderi, e tutti gli altri esseri privi di anima, o anche animati, come sono i pesci, gli uccelli, i quadrupedi, i serpenti, gli insetti, i greggi e gli armenti, sottostanno completamente alla giurisdizione del caso. Perciò tutte le cause eventizie, quelle che riguardano la fortuna e quelle che riguardano il caso si chiamano propriamente accidentali e si aggiungono alla causa originaria e principale. 5. La causa originaria va collocata nel fato. Quel che diciamo rientra in questo genere. Anneo Seneca navigava95 da Roma in Sicilia, dove possedeva molti e ottimi poderi, per ispezionare i suoi campi e le sue ville, e riscuotere la parte dei proventi a lui dovuta dai fattori e dai subalterni. Questa è la causa originaria della navigazione intrapresa da Seneca. Ma durante la navigazione, a causa del mare agitato avvenne che ebbe la nausea, fu preso da un urto di vomito e impallidì; gli venne inoltre molta sete e poiché navigava di estate, era spossato dal caldo, scoloriva in viso, e gli accadevano altre cose che accadono ai naviganti. Tutte queste cose vanno collocate fra le cause eventizie. Ne consegue che debbano chiamarsi accidenti della causa originaria. Si aggiunga che differiscono, anche fortissimo, tra loro gli accidenti stessi, quelli la cui causa è la fortuna, e quelli la cui causa è il caso. Infatti quelle cose che hanno come fautrice la fortuna traggono origine dal consiglio e dal proposito dell’uomo, e accadono sia senza ragione sia con una certa meraviglia ed emozione dell’animo, per il fatto che accadono impensatamente e inaspettatamente. In quelle invece che hanno come fautore il caso, non c’è assolutamente nulla che possa ricondursi al proposito dell’uomo, alla ragione e alla volontà umana, se è vero che accadono in cose che sono o mute e senza parola, o inanimate e senza capacità d’intendere. 6. A ragione dunque, correttamente, e su basi reali si dice che quando due cause provenienti insieme dai consigli e dalle scelte dell’uomo concorrono senza che il proposito riesca, ma si avvera molto diversamente e oltre la previsione e il progetto, si tratta di un gioco e di una macchi821

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meditationemque esse fortunae, quale pervulgatum illud est exemplum. Fuisse qui thesaurum terrae infodisset servandi illius ab hoste, atque a furibus gratia, fuisse et item qui arbusculam cum decrevisset pangere fossamque repurgaret, thesaurum ab illo alio infossum invenerit; horum igitur uterque fortuna usus est sua et quidem ex inopinato. Alter enim, cum defodisset custodiendi eius gratia, illum amisit, in quo deceptus est spe atque opinione, lusitque eum inopinus atque contrarius eventus. Alter, cum plantae subigendae intenderet, quod animo quidem destinasset, thesaurum repente invenit, quod sibi nullo modo aut persuaserat antea aut optaverat, ut ille quidem optorpuerit improvisum ob damnum dolore confectus, hic vero repentino atque insperato gestierit de gaudio subitaque laetitia. 7. Composite quoque atque ex ipsa re, quicunque dixerit, casum concursum esse accidentium una simul absque ratione causarum, in mutis tum animalibus, tum inanimalibus rebus, ut cum coenantibus nobis in hortis ac sub dio, evolantis aquilae unguibus delapsa testudo hydrus ve in terram ex improviso corruit. Qua in re tam non modo repentina, verum etiam incogitata, quidnam loci habeat hominum sive ratio, sive intentio? cum tamen et aquila pastum quaerens comprehensam hunguibus praedam male tenuerit; et gravia quae sunt, cum non habeant quo se sustineant, deorsum corruant necesse sit. Sed nobis de casu, fato, providentia deque liberis hominum voluntatibus hactenus dictum sit; quocirca ad ea regrediamur quae adhuc de fortuna necessario quaerenda videantur.

XXIII AN FORTUNA SIT DEFICIENTE HOMINUM GENERE. 1. Et primo quidem ea, cum in hominum versetur negociis a voluntate proficiscentibus rationeque temperatis discretisque ab electione, prius tamen deliberatione adhibita atque consilio, cumque electiones etiam ipsae negotiaque suscepta, propter inditam rationem ad hominem tantum spectent subserviantque fortunae, quaedam quasi subiecta materia,

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nazione della fortuna, come si vede in quel ben noto esempio. Ci fu uno che seppellì un tesoro per salvarlo dal nemico e dai ladri, e poi uno che, avendo deciso di piantare un arbuscolo, mentre ripuliva la fossa trovò il tesoro seppellito da quel tale. Costoro incorsero entrambi nella fortuna, e inopinatamente. L’uno infatti, avendo scavato per custodire il tesoro, perdette quello in cui ingannandosi aveva riposto la speranza e l’illusione, e l’esito impensato e contrario si prese gioco di lui. L’altro, avendo l’intenzione di interrare una pianta, cosa che si era prefisso di fare, improvvisamente trovò un tesoro, cosa che in nessun modo o avrebbe prima creduto o aveva desiderato; sicché quello restò paralizzato, distrutto dal dolore per il danno imprevisto, questi esultò improvvisamente per la gioia e la sùbita letizia.96 7. Parla anche correttamente, e su base reale, chiunque dice che il caso è un concorso di accidenti senza ragione di cause in esseri animati e inanimati, come per esempio quando, mentre cenavamo in giardino e all’aperto, una testuggine sfuggita agli artigli di un’aquila in volo, o un serpente acquatico, improvvisamente precipitò a terra. In questo fatto non solo repentino, ma anche non visto mai, che posto ha la ragione o l’intenzione degli uomini? Va considerato tuttavia anche il fatto che l’aquila, in cerca del pasto, aveva trattenuto male la preda con gli artigli, e che i gravi, quando non hanno come tenersi in alto, necessariamente precipitano giù. Ma abbiamo detto abbastanza del caso, del fato, della provvidenza e del libero arbitrio. Perciò torniamo a parlare di quello che ancora ci sembra di dover ricercare a proposito della fortuna.

XXIII SE ABBIA LUOGO LA FORTUNA IN ASSENZA DEL GENERE UMANO. 1. E in primo luogo diremo che la fortuna, avendo a che fare con le faccende umane che procedono dalla volontà, sono moderate dalla ragione e selezionate dalla scelta con l’impiego preventivo della decisione e del consiglio; dunque, poiché le scelte e le faccende intraprese riguardano soltanto l’uomo per esser lui dotato di ragione, e sono soggette alla fortuna quasi come la materia oggetto della sua azione, potrà mai esistere la stessa fortuna se mancano queste condizioni e se non esistesse 823

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num haec ipsa si defuerint, si homo nusquam sit omnino ullus, existat ne fortuna ipsa, quando nec desunt, eam qui omnipotentem appellent? Atqui ne ars quidem futura est ulla, non denique doctrina ac scientia, homo ubi esse desierit. Settamen, ut artificis manca est opera ubi omnis de medio auferetur materia, vis autem illa perstat in artifice faciendo apta operi atque idonea, praestitura operam ipsa suam e vestigio, ubi materia fuerit ei reddita, sic de fortuna sentiendum videtur, ludum eius exercitationemque futuram omnino nullam, si rerum illi humanarum campus defuerit, quo quidem ei ad divagandum restituto, an dubitandum est magistratum illam suum solitumque munus administraturam? dignitatemque retenturam cum auctoritate et supercilio? Nam deleta atque excisa Cartagine in Africa, quam amisit ipsa iurisditionem, extincto populo cartaginensi ac patribus, recuperavit multo post finitima in urbe Tenete, ibique eam vel superbissime nunc exercet, cum regum Africae arx ea sit urbs ac domicilium.

XXIV FORTUNAM ESSE COMMUNEM ET MEDIAM. 1. Communem quoque esse eam, et mediam sese inter utrunque gerere, illud plane docet, quod flatum eius nunc prosperum, nunc adversum, et aspirare modo eam, modo reflare dicimus, et alibi ut bonam, id est facilem ac propitiam, laudamus, alibi ut malam improbamus ac nocuam, et bonae quidem cognomine illustramus cum aspirat e sententia, malae vero notamus, quotiens incommoda est insectaturque res nostras hostilem in modum. Duplex igitur est fortuna, et bona et mala, irata et iucunda, cum dominatus tamen sit eius unus, siquidem et boni, et mali arbitrium, id est prosperorum atque incommodantium eventuum externis in rebus ac negociis ius in manu illius est collocatum. Qua etiam via modoque poetae de Aeolo ventorum rege fabulantur, cui Divum pater atque hominum rex Et mulcere dedit fluctus, et tollere vento.

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alcun uomo, dal momento che mancherebbe anche chi la potesse chiamare onnipotente? Non potrà esistere neppure alcun’arte, alcuna dottrina, alcuna scienza, dove l’uomo mancasse. Ma tuttavia, come manca l’opera dell’artista, quando gli sia sottratta la materia, mentre continua ad esserci nell’artista la facoltà atta e idonea al compimento del lavoro, ed essa è subito pronta ad operare quando le sia restituita la materia, così pare che bisogna ragionare a proposito della fortuna, che cioè il suo gioco e la sua funzione non potrà esserci affatto, se le mancherà il campo dell’azione umana; ma quando le fosse restituito per andarvi girando, si può dubitare che essa manterrà il suo impegno, ed eserciterà il suo solito ruolo, e conserverà la sua dignità con autorità e rigore? In Africa infatti Cartagine, distrutta e abbattuta, recuperò molto dopo nella città vicina di Tunisi il dominio perduto una volta che si estinsero la popolazione cartaginese e i padri,97 e ora lo esercita perfino con troppa arroganza, perché rappresenta la fortezza e la città domiciliare dei re dell’Africa.

XXIV LA FORTUNA È AMBIVALENTE E STA IN MEZZO FRA DUE ESTREMI. 1. Che la fortuna sia anche ambivalente e situata come un punto mediano fra due estremi, ce lo può chiaramente dimostrare il fatto che il suo soffio è ora prospero, ora contrario, e ora diciamo che spira, ora che è ferma, e in un caso la lodiamo come buona, cioè benevola e propizia, in un altro caso la disapproviamo come cattiva e nociva, e la esaltiamo denominandola buona, quando spira secondo le nostre intenzioni, mentre la condanniamo denominandola cattiva, tutte le volte che è molesta e perseguita i nostri affari in modo ostile. Duplice è dunque la fortuna, buona e cattiva, furiosa e piacevole, sebbene la sua signoria sia unica, poiché nelle sue mani è posto l’arbitrio del bene e del male, ossia degli eventi prosperi e di quelli dannosi, riguardo alle cose e alle azioni esterne. In questo senso raccontano del re dei venti Eolo, a cui Il divin padre e re di tutti gli umani diede il poter di ammansire i flutti ed alzarli col vento.98

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXV

Quo fit ut officium eius sit vel ludus potius, nunc favere rebus hominum, nunc incommodare, et modo conferre boni aliquid, modo eripere, alibi extollere, deiicere alibi, ac marinorum more fluctuum res humanas versare.

XXV QUANTUM BONA FORTUNA CONFERAT AD FELICITATEM. 1. Itaque maximi etiam philosophi de bona fortuna scripsere, et quid et qualis ea esset, commenti sunt; nec iniuria, quippe quam vel plurimum conferre ad felicitatem arbitrentur, cum rerum externarum ei iurisditionem ascribant, nec felicitatem sine externis bonis reantur posse ullo modo aut perfici aut consistere; quando inventi etiam sunt, qui existimaverint, bonam fortunam ipsam esse felicitatem, et bene fortunati qui essent, eosdem quoque felices. Cum igitur ad civilem constituendam felicitatem magnificandamque ad eam pluribus simul opus sit, praecipue vero divitiis, clientelis, opibus, amicitiis, magistratibus, atque haec ipsa in externorum habeantur bonorum numero (nam inglorii qui sint, huiusmodique bonis vacui, abiecti ipsi, ac sordescentes, quonam modo felices eos vocaveris?), quis non videat, vel potissimum felicitatis ornatum decusque illud populare atque in exteriore positum expectatione, ad fortunam, quae illorum domina et dispensatrix sit, illaque moderetur pro arbitrio referenda? 2. Nam quae opsecro futura est felicitas, si absque liberis, cognatis, amici, clientibus, honoribus, dignitatibus, si in summa paupertate rerumque omnium constituatur inopia, et in patria maxime ignobili atque abiecta, si denique et culinam ipsam sibi instruat et patinam, atque ollas eluat? Iure igitur plurimum ad perficiendam exornandamque felicitatem, ac merito inquam plurimum fortunae tribuitur. Nam etsi vera perfectaque commendatio ab animo est honestisque ab actionibus ac virtutibus, perinde ut laus arboris a fructu maxime est ac fruge, exornatur tamen arbor ipsa fructusque eius praecipue a frondibus ac ramis, qui neque ab aestu, neque ab aliis aeris iniuriis tutus esse potest, absque frondium

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXV

Avviene perciò che il suo compito, o piuttosto gioco, ora favorisce le cose umane, ora le danneggia, e ora accorda ai buoni qualcosa, ora la toglie loro, in un caso li esalta, in un altro li abbatte, e a mo’ dei flutti marini mette in agitazione le vite umane.

XXV QUANTO CONTRIBUISCA ALLA FELICITÀ LA BUONA FORTUNA. 1. Perciò sulla buona fortuna hanno scritto i più grandi fi losofi, e hanno riflettuto su che cosa fosse e su quale fosse la sua natura; e giustamente, giacché pensano che essa contribuisca moltissimo alla felicità, attribuendole il dominio sulle cose esterne e non ritenendo che la felicità possa in alcun modo realizzarsi o consistere senza beni esterni, visto che ci sono stati anche di quelli che hanno pensato essere la buona fortuna essa stessa la felicità, ed essere felici proprio i fortunati. Poiché dunque per realizzare la felicità pubblica e per esaltarla sono necessarie più cose, ma specialmente le ricchezze, le clientele, le risorse, le amicizie, le cariche, e queste sono tutte incluse nel novero dei beni esterni (infatti come potresti chiamar felici coloro che non hanno lustro, privi di quei beni, negletti e desolati come sono?), chi non vede che il paludamento della felicità, l’onore popolare e quello riposto nell’aspetto esteriore vadano specialmente riferiti alla fortuna che è signora e dispensatrice di quelle cose oltre a governarle a suo arbitrio? 2. Infatti, quale mai sarà la felicità, di grazia, se senza figli, parenti, amici, clienti, onori, dignità, uno si trova in somma povertà e nell’indigenza di tutto, e in una patria completamente oscura e spregiata; se, infi ne, si tratta di una donna che si fa da se stessa la cucina, e si lava da sé il piatto e le pentole? Giustamente dunque si attribuisce alla fortuna moltissimo per la realizzazione completa della felicità, e a ragione, ripeto. Infatti, anche se il vero e perfetto merito è quello che proviene dai valori dell’animo, dalle azioni oneste e dalle virtù, come il pregio dell’albero proviene specialmente dalla produzione del frutto, tuttavia lo stesso albero e il suo frutto ricevono l’apprezzamento specialmente per le fronde e per i rami, perché né dal caldo né da altre ingiurie del tempo possono essere protetti senza il beneficio delle fronde e dei 827

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXVI

beneficio ac ramulorum; nihilo tamen minus felicitatis ipsius ornatus, et tanquam condimentum existit a bonis fortunae atque externis. Usuque veniet homini felici, id est plurimis ac maximis virtutibus instructo et culto, quod aquilae implumi ac sine pennis, ut non ornatus ei desit plumarum solum ad decorem, verum etiam pennae desint ad volatum, id est copia instrumentumque ad usum bonarum laudabiliumque actionum. 3. Nam si felicitas in actione et usu est posita, manca erit omnino, exuta fortunae bonis, sine quibus virtutes ipsae, honestaeque actiones exerceri nequeant, cum iustitia in primis liberalitasque ac beneficentia erga alios sese exhibeant. Ut, si felicitas ipsa in animi bonis potissimum eminenterque constituta sit, ac secundum eam virtutem, quae perfecta est, tamen ut clarescat ipsa et illustretur, seque et excolat et maiestati suae debitum et augustum illum ornatum adiungit, externorum hoc minime praestabitur sine accessione bonorum. Etenim vis ipsa eloquendi prorsus infans videatur, et qui antea eloquens habebatur, mutus, si ad eloquendum ei instrumenta erepta fuerint, lingua, dentes, labia, quibus sine disertus nemo possit evadere. Itaque neque fortunae ludus meditatioque ulla erit, si campus ei hominis desit, nec felicitas ipsa civilis absoluta, si fortunae ei supellex defuerit, illiusque accessio, et copia.

XXVI FORTUNAM AC RATIONEM INVICEM ADVERSARI. 1. Bonorum autem externorum nomen ipsum aperte quidem declarat ea iuris nostri non esse, nec nostris subesse consiliis aut electionibus; quocirca nec etiam rationi, cui et consilia inhaerent nostra, deque ea actiones hominum temperantur, et ab eadem ipsa rationales ipsi dicimur. Itaque et actiones humanae, dum rectae quidem sint, rationi subserviunt, et quae, ut fortuita contingunt, nihil cum ratione coniunctum habent. Qua e re vehementiorem in modum sibi adversantur, exque eo efficitur ut ratio atque fortuna sibi invicem e regione obstent, quando utriusque inter se adversae sunt et effectiones et opera. Ab actionibus

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXVI

rametti; nondimeno l’ornamento e quasi il condimento della felicità provengono dai beni esterni e della fortuna. Capiterà all’uomo felice, cioè a quello fornito e adorno di moltissime e grandissime virtù, quello che accade all’aquila implume e senza penne, che ad essa non manchi soltanto l’ornamento delle penne per raggiungere il decoro, ma mancano anche le penne per volare, cioè la risorsa e il mezzo per l’uso delle buone e lodevoli azioni. 3. Difatti, anche se la felicità è riposta nell’azione e nell’esercizio, sarà priva di tutto se sarà spoglia dei beni di fortuna, senza i quali le stesse virtù e le azioni oneste non possono essere esercitate, poiché anzitutto la virtù, la liberalità e la beneficenza si manifestano verso gli altri. Talché, se la felicità stessa è riposta specialmente ed eminentemente nei beni dell’animo, e sia conforme alla virtù perfetta, tuttavia perché risplenda e sia illuminata, e si perfezioni aggiungendo alla sua maestà quel dovuto e augusto ornamento, non potrà affatto mostrarsi senza l’aggiunta dei beni esterni. E infatti la stessa eloquenza sembrerebbe del tutto puerile, e chi prima era considerato eloquente sembrerebbe muto, se gli si togliessero gli strumenti dell’eloquenza, la lingua, i denti, le labbra, senza cui nessuno potrebbe riuscire buon parlatore. Perciò non vi sarà alcun gioco né macchinazione della fortuna, se le si toglierà il campo umano, né la stessa felicità pubblica potrà realizzarsi, se le verrà meno la suppellettile della fortuna, e l’aggiunta delle sue risorse.

XXVI FORTUNA E RAGIONE SONO FRA LORO CONTRARIE. 1. Il nome stesso di beni esterni dimostra chiaramente che essi non cadono sotto la nostra giurisdizione, né sono soggetti ai nostri consigli e alle nostre scelte, perciò neanche alla ragione, cui sono inerenti i nostri consigli e dalla quale le nostre azioni vengono governate e per la quale noi siamo chiamati esseri razionali. Così anche le azioni umane, purché siano rette, obbediscono alla ragione, e quelle che accadono fortuitamente non hanno nulla in comune con la ragione. Ne consegue che in modo piuttosto forte si contrappongono fra loro, e da ciò deriva che la ragione e la fortuna si fronteggino in campi avversi, dal momento che costituiscono forze e realtà fra loro contrarie. Pertanto ci chiamano giu829

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXVIII

itaque secundum rectam rationem administratis, nostraque a voluntate profectis, et iusti et fortes agnominamur. Et quoniam ea ut ageremus, e quibus tum iustitia, tum fortitudo comparatur, in nostra erat voluntate ac potestate positum, inde iustis ac fortibus nomen adiectum est. Ut vero fortunati simus, neque iuris, id est nostri, neque rationis ac prudentiae, verum fortunae ipsius opus.

XXVII BONA EXTERNA AD FORTUNAM REFERENDA, NON AD VIRTUTEM. 1. Quamobrem quae fortunae dicuntur, ut quidem sunt bona, cum humani minime sint arbitrii, nullo videntur pacto ad virtutem referenda, siquidem fortuna ipsa nihil prorsus cum ratione commune, aut aliqua saltem e parte coniunctum habet; e contrario vero, quid est quod non virtus habeat cum ratione consentiens atque cognatum? An non actio omnis, quae secundum virtutem existit, eadem quoque est ipsa, etiam secundum rationem? Quocunque igitur te verteris, nulla penitus exstabunt rationis vestigia, sive secundae, sive adversae fortunae eventus operaque contempleris. Quo fit ut extra rationem fortuna sint omnia, et in quo auctoritatis tributum est plurimum rationi atque intellegentiae, minimum in eo loci sit relictum fortunae. Contra vero fortuna ubi regnet, nullum illic locum concessum esse rationi.

XXVIII FORTUNAM NONNUNQUAM RATIONALIBUS E REBUS MATERIAM SIBI COMPARARE. 1. Quod quamvis ita sit, fortuna tamen ipsa non raro instrumentum quasi quoddam exercendo muneri ex iis sibi comparat, quae ratione constant atque prudentia, hoc est e legibus, ac testamentis, quibus condendis civiles constitutiones prudentissime consulunt, consensusque accedit hominum ratione suadente. Non paucos enim satis longo intervallo, extinctis propioribus haeredibus, cum ipsi magna etiam premerentur egestate, repente tamen haereditatis ac legum beneficio locupletatos 830

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXVIII

sti e forti in base alle azioni condotte secondo la retta ragione e provenienti dalla nostra volontà. E poiché il compiere quelle azioni con cui si realizzano la giustizia e la fortezza era riposto nella nostra volontà e potestà, sono stati aggiunti gli attributi di «giusti» e «forti». Per essere fortunati non è necessaria da parte nostra né la giustizia, né la ragione, né la prudenza.

XXVII I BENI ESTERNI VANNO ATTRIBUITI ALLA FORTUNA, NON ALLA VIRTÙ. 1. Per tutto questo i beni che si dicono della fortuna, concesso che siano beni, non essendo dovuti all’arbitrio umano, non vanno assolutamente attribuiti alla virtù, se è vero che la fortuna stessa non ha nulla in comune, o per qualche verso almeno un punto di contatto con la ragione. Invece, che cosa la virtù non ha di consono e di affine con la ragione? Non è vero che ogni azione compiuta secondo virtù, lo è anche secondo ragione? Dovunque ti volgerai, non vi saranno tracce della ragione, se consideri gli eventi e le opere della fortuna. Onde le cose fortuite sono tutte estranee alla ragione, e dove si è attribuita la maggiore autorità alla ragione e all’intelletto, non rimane alcuno spazio per la fortuna. E invece dove regna la fortuna, non è concesso alcuno spazio alla ragione.

XXVIII LA FORTUNA TALORA SI PROCACCIA LA MATERIA DALLE COSE RAZIONALI. 1. Pur stando così le cose, la fortuna tuttavia non raramente si procaccia quasi uno strumento per esercitare il suo ruolo perfino da cose che si fondano sulla ragione e sulla prudenza, vale a dire leggi e testamenti, a dar fondamento alle quali le costituzioni provvedono con saggezza, col consenso degli uomini, col consiglio della ragione. Non pochi sono infatti quelli che vediamo, dopo lungo intervallo di tempo, estinti gli eredi più vicini, pur essendo oppressi da grande povertà, arricchirsi improvvisamente per il beneficio di un’eredità e della legislazione, tanto 831

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXIX

videmus, ut ipsi sibi magis videantur repentinum id bonum somniare, quam initio credere, tantum divitiarum tam ex imparato a fortuna esse obiectum. 2. Referebat nobis adolescentibus Antonius Panormita literatorem quendam germanum, quo puer ipse usus esset magistro consenuisse Panhormi in Sicilia, profitendis literis; cumque et senio iam et inopia contabesceret, ex insperato profectos e Germania nobiles viros, qui eum reduxerunt in patriam, mortuis iam agnatis omnibus; qua via non illorum bonis tantum domesticis haeres successit, verum aliquot etiam oppidorum dominatui, quibus maiores eius praefuissent. Itaque humanarum persaepe constitutionum opera legumque patrocinio (quae civilis ratio est), fortuna ipsa utitur. 3. Nobis item adolescentioribus, Franciscus Mutii Sfortiae filius, iure uxorio in Ducatu mediolanensi subrepsit; nam patre mortuo, qui ex agasone ad maxime clarum imperatorem pervasisset, cum ei in re militari et gloria successisset Franciscus, ob virtutem gener a Philippo Maria Mediolanensium duce ascitus est, collocata ei Blanca e concubina filia, quae post patri successit, cum ille decessisset, nullis legitimis liberis superstitibus; quem dominatum his ipsis diebus Ludovicus filius per summam ignaviam amisit. Namque adventu Ludovici Gallorum regis in Italiam deterritus, impellente metu, exanimatusque formidine, nocturnam fugam populis pariter multibusque ignorantibus, in Rhetos turpissime arripuit. Quo ignavius ne quippiam nesciam an sol viderit.

XXIX FORTUNAM ET BONAM ET MALAM AB EFFECTIBUS VOCATAM. 1. Fortunae igitur iurisditio cum in bonis versetur ac malis, prosperis et adversis, laetis ac tristibus rebus, sanis ac languentibus, felicibus atque infelicibus, nimirum et bona et mala ab ipsis agnominata est effectionibus. Et bonae quidem fortunae duplex etiam munus est atque officium: alterum quidem cum inopinantibus nobis nihilque omnino tale aut co-

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXIX

che sembra loro di vedere in sogno quel vantaggio improvviso, piuttosto che credere, inizialmente, che tanta ricchezza sia stata insperatamente99 offerta dalla fortuna. 2. Quando eravamo giovani Antonio Panormita100 ci narrava che un grammatico tedesco, che lui aveva frequentato da fanciullo, era invecchiato in Sicilia facendo la professione del letterato. Quando già era consunto dalla vecchiaia e dalla povertà, vennero insperatamente dalla Germania alcuni nobili, che lo riportarono in patria, essendo ormai morti tutti i parenti; per questa ragione non solo successe come erede ai loro beni di famiglia, ma al dominio di alcune città, delle quali i loro antenati erano stati signori. E così molto spesso la fortuna si avvale dell’opera delle istituzioni umane e dell’ausilio della legislazione, che rappresentano la ragione civile. 3. Ancora, quando eravamo giovani, Francesco figlio di Muzio Sforza per diritto matrimoniale si inserì nella discendenza del Ducato di Milano;101 infatti, morto il padre che da garzone di stalla era giunto ad esser un grandissimo e famoso generale, essendogli successo Francesco nella gloria delle imprese militari, per la sua virtù fu scelto come genero dal duca Filippo Maria, il quale gli fece sposare Bianca, una figlia avuta da una concubina, la quale poi successe al padre, una volta che questi morì in mancanza di figli legittimi. In quegli stessi giorni il figlio Luigi perdette il potere per la sua ignavia.102 E infatti, spaventato dall’arrivo in Italia di Luigi re di Francia, sotto la spinta della paura, sgomento per il terrore, all’insaputa del popolo e dei soldati che non sapevano nulla della sua fuga notturna, se la filò nella Rezia.103 Non saprei dire se il sole vide mai un’azione più vile.

XXIX LA FORTUNA È CHIAMATA BUONA O CATTIVA DAI RISULTATI. 1. Poiché dunque il campo d’azione della fortuna riguarda gli eventi buoni e quelli cattivi, prosperi e sfavorevoli, quelli lieti e tristi, le condizioni di buona e di cattiva salute, felici e infelici, riceve la denominazione di buona e di cattiva dai risultati stessi. E invero duplice è anche il compito e l’ufficio della fortuna: uno, quando ci capita qualche grande vantaggio senza che ce lo immaginiamo, senza che niente di simile sia 833

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXXI

gitantibus aut desiderantibus magnum aliquod repente bonum obiicit, alterum cum grave aliquod discrimen, quod nec dum etiam paratum sentiamus capitique tamen immineat, aut nulla aut perquam exigua nostra cura adhibita, illud ante praeterimus, quam adventare senserimus. Itaque eius nunc proprium munus est benefacere (inde enim vocata est bona) commodaque nobis insperata afferre ac nullo pacto expectata compendia, nunc a periculis damnisque surripere atque a malis liberare, sospitesque atque incolumes reddere.

XXX FORTUNAM SERVARE MOREM VENTORUM. 1. Consuevit quoque, quod eius ipsius naturae proprium est, variare, quare incostans merito dicta et dona etiam sua confundere, nullum aut ordinem servans aut regulam, indeque temeraria, ut ventorum imitari inconstantiam videatur atque impetum. Contra haec, quanquam rarenter admodum secusque quam consuevit, constantior tamen aliquando existit, et tenorem semel conferendis bonis coeptum continuat eademque pergit via. Quod quibus contigit, fortunae eos filios appellare consuevimus. Itaque ut bona et mala, prospera vel adversa, pro merito suo dicitur, sic modo parum sibi omnino constat, modo stabiliorem sese ostendit minusque variabilem, quod ventorum quoque proprium ac solitum munus est.

XXXI FORTUNAM CARERE MODO AC MENSURA. 1. Eiusdem quoque peculiare est munus, nullam retinere aut mensuram aut modum, nullumque habere discrimen. Nam quotiens ei videbitur ac placitum fuerit, fies tu quidem, ut Satyricus iocatur ille, de rhetore consul, atque haud ita multo post, de consule rhetor. Maximinus Augustus, de quo diximus, e sordidissimo Thraciae tugurio, ignobilissimis parentibus, nullis omnino maioribus ad imperium romanum a fortuna profectus est. Quid rarius? Florianus Augustus e maximo imperio in servitutem corruit, cuius servitus eo fuit indignior, quod quotiens Par834

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXXI

nei nostri pensieri e nei nostri desideri; l’altro, quando ci accorgiamo di qualche grave difficoltà che non era neppure nelle previsioni, e tuttavia ci pende sul capo, o senza che abbiamo potuto provvedere per nulla o in minima parte, ci lasciamo sfuggire che si sta avvicinando qualcosa, prima che ce ne accorgiamo. Perciò la sua specifica funzione è ora quella di far del bene (donde è chiamata buona) e portarci vantaggi insperati e profitti assolutamente inattesi, ora di farci scampare da pericoli e danni e liberarci dai mali, e far sì che rimaniamo incolumi.

XXX LA FORTUNA SI COMPORTA COME I VENTI. 1. La fortuna ha anche l’abitudine di variare, cosa propria della sua natura, per cui a ragione è detta incostante, e sconvolgere i suoi stessi doni, senza serbare alcun ordine o regola, e quindi è quasi una pazza, tanto da somigliare all’incostanza e all’impeto dei venti. Contrariamente a ciò, pur se molto di rado, diversamente dal suo solito, è piuttosto costante e continua a serbare il modo col quale ha cominciato ad offrire i beni, e fino alla fine continua per quella via. Perciò come merita di essere detta buona e cattiva, prospera e avversa, così ora è ben poco coerente con se stessa, ora si mostra più stabile e meno variabile, che è l’attributo proprio e consueto dei venti.

XXXI ALLA FORTUNA MANCA MODO E MISURA. 1. Della stessa fortuna è attributo peculiare quello di non serbare modo né misura, e di non avere alcun criterio. Infatti, quante volte vorrà e le piacerà, tu diventerai, come dice per gioco il poeta satiro,104 da retore console, e non molto dopo da console retore.105 Massimino Augusto, che abbiamo già citato,106 da uno squallidissimo tugurio della Tracia,107 assolutamente ignobile di stirpe, senza avere antenati, per opera della fortuna salì al trono imperiale romano. Vi è qualcosa di più straordinario? Floriano Augusto dal massimo grado dell’impero precipitò in servitù,108 e la sua servitù fu tanto più indegna, perché quando il re dei Parti saliva a cavallo, 835

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXXIII

thorum rex equum ascendebat, de lumbis prostrati eius ad equi latera sussultabat equestrem in sellam. Quid miserabilius? C. Marii rebus quid inopinabilius, aut variantius? Quid denique illarum inconstantia, magnitudine, prostratione, quid eius aut victoriis aut cladibus admirabilius? magisque incogitatum, ante quam contingerent aut inexpectatum? Quid contra Lucii Syllae felicitatibus ac secundis rebus accumulatius? ut inde felix sit agnominatus.

XXXII QUI DICANTUR ESSE FORTUNATI. 1. Ex his igitur eos proprie magis atque usitatius fortunatos dicimus, quibus fortuna ipsa diutius arriserit apparueritque fovendis eis firmior ac stabilior, quorum etiam merita vix aliqua antecedunt, quae dignos iis beneficiis illos faciant, non assidue prudentesque cogiatationes atque consilia non ingenii validae vires solertiaque permagna et rara, non maioribus denique in rebus diuturnior exercitatio ac rerum plurimarum usus.

XXXIII UTRUM QUIDAM EVENTUS AD VIRTUTEM SINT AN AD FORTUNAM REFERENDI. 1. Quaeri autem hoc in loco solet, cum magnanimis ea nonnunquam faveat viris, aut aliis etiam, qui praeclaris insigniti sint virtutibus tum bellici, tum civilibus, nunquid favor hic sit potius ad virtutem referendus, cum virtus ubique rationem et ducem et magistratum habeat, fortuna vero ab eius itinere plerunque deerret? Cui quaestioni paucis ut respondeamus, primum quidem nec magnanimitatis nec virtutis moralis cuiuspiam finem esse externa tantum bona dicimus. Nam, etsi victoria inter externa numeratur, eius tamen ipsius finis est, ut in pace vivatur ac sine iniuria et metu; verum eo spectare, ut externa ipsa instrumenti nobis loco subserviant cedantque in apparatum virtutum ipsarum atque in ornamentum et cultum.

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXXIII

saltava dalla sua schiena, stando lui prostrato al lato del cavallo, sulla sella equestre. Che c’è di più miserevole? Che c’è di più inimmaginabile, o di più variabile delle vicende di Caio Mario?109 Che cosa c’è, infine, che potrebbe far meravigliare di più della loro incostanza, della loro grandezza, dei fallimenti cui andò incontro, delle sue vittorie e delle sue sconfitte? E prima che si verificassero che c’era di più sconosciuto o di più inatteso? Quando mai si sono cumulati110 tanti esiti felici e vicende favorevoli111 come nel caso di Lucio Silla? Per questo fu denominato felice.

XXXII QUALI UOMINI SI CHIAMINO FORTUNATI. 1. Tra gli uomini dunque chiamiamo propriamente e più comunemente fortunati quelli a cui la fortuna ha arriso più a lungo e sia apparsa più salda e stabile nel favorirli, e in cui inoltre sono ben pochi i meriti che li rendono degni di tali vantaggi, non assidue e prudenti riflessioni e propositi, non valide forze d’ingegno e grandissima e rara abilità, non un esercizio particolarmente lungo in cose di grande importanza ed una molteplice esperienza.

XXXIII SE ALCUNI EVENTI VADANO ATTRIBUITI ALLA VIRTÙ O ALLA FORTUNA. 1. Ci si suol chiedere112 a questo punto, giacché la fortuna talvolta favorisce i magnanimi o anche altri che sono dotati di virtù sia militari sia civili, se questo favore non sia attribuibile alla virtù, dal momento che la virtù in ogni occasione ha come guida e maestra la ragione, mentre l’altra per lo più si allontana dalla sua strada. Per rispondere in breve a questa questione, diciamo prima di tutto che né della magnanimità, né di qualche virtù morale il fine risiede soltanto nei beni esterni. Infatti, anche se la vittoria è annoverata fra i beni esterni, il suo fine tuttavia è quello di farci vivere in pace, senza ricevere ingiustizie e senza paura, e mira in verità a che gli stessi beni esterni ci servano da strumenti e divengano apparato e perfino ornamento delle virtù. 837

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXXIV

2. Deinde fortunam arbitramur non ita laetari novis semper rebus novisque hominibus, ut non et notos quandoque et probatos atque praeclaris instructos artibus benigne prosequatur, sed cum ei tamen libitum fuerit. Denique nullum ab ea praeteriri genus hominum, sive nobile, sive ignobile, sive ignavum et deses, sive solers et impigrum, sive humili in loco, sive in edito constitutum, sive illustre virtutibus, sive turpissimis etiam vitiis notatum, quod non pro libidine sua magisquam ex meritis et prosequatur cum voluerit benefice, et insectetur, cum placitum est, acerbe. Itaque actiones eius operaque nullo modo ad rationem referendae, sed ad ludum potius ac libidinem. Neque enim favet iusto, secundum illius meritum, sed quia sic ei sit libitum, perinde ac cum adversatur probis et piis viris, non quod illi sint externis de rebus utique male meriti.

XXXIV FORTUNATORUM HOMINUM DUO ESSE GENERA. 1. Fortunatorum quoque hominum duplex est genus: aliis enim fortuna aut repente, atque ex imparato inexspectatoque favorem confert suum humili loco editis atque in re maxime tenui, aut cumulum aliis adiicit, quippe qui illustri nati sint loco in amplissimisque divitiis atque honoribus alti educatique; qua ex accessione, eaque continua et per seriem minorum producta, familiae quoque et gentes ipsae fortunatae dicuntur. Itaque est et secundae sua quaedam constantia, non tamen tanta, ut non in mediis etiam favoribus subinde et subirascatur et vellicet. Et vero felicitate populi romani quid magis continuum? quid aut accumulatius aut diuturnius? qui e rupe maxime horrida et sola ad rubrum usque potentiam suam protendit mare, atque ad habitationis humanae Orchades terminum. Qui tamen saeviere in eum Annibalis pugiones? qui Parthorum acinaces? aut quam sanguinolenta tum Gallorum gesa, tum Germanorum catervae? 2. Intercedunt enim continuationibus iis orbitates liberorum, amissiones cognatorum, amicorum, affinium, hospitum, familiarium, incendia aedium villarumque, uredines item atque calamitates tum segetum, tum

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LA FORTUNA, LIBRO PRIMO, XXXIV

2. Riteniamo inoltre che la fortuna non si diletti sempre di novità e di nuovi arrivati, tanto da non usare la benignità verso uomini ben noti, stimati, provati e forniti di eccellenti qualità, ma tuttavia quando a lei fa piacere; che infine nessuna specie di uomini ne viene trascurata, la nobile e l’ignobile, l’ignava e l’oziosa, quella solerte e quella attiva, che appartenga sia ad un ambiente umile, sia ad un ambiente alto, che sia illustre per virtù o macchiato da vizi turpissimi, perché anche se tratta non a capriccio ma in base ai meriti, è benigna quando lo vuole, e perseguita amaramente quando le piace. Pertanto le sue azioni e le sue opere non si possono affatto attribuire alla ragione, ma piuttosto ad un gioco e ad un capriccio. Essa infatti non favorisce chi è giusto, secondo il suo merito, ma perché così le piace, e quando contrasta gli uomini onesti e devoti, non lo fa perché essi non abbiano meritato, comunque, la gratificazione di beni esterni.

XXXIV LE DUE CATEGORIE DI UOMINI FORTUNATI. 1. Di uomini fortunati esistono due categorie; agli uni la fortuna d’un tratto, inaspettatamente e improvvisamente offre il suo favore pur se provengono da umili origini e vivono in estrema povertà, agli altri aggiunge un sovrappiù a quello che hanno, essendo nati da famiglie illustri, cresciuti e educati fra grandissime ricchezze ed onori; ed è per questo sovrappiù, per giunta continuo e che si protrae anche nelle generazioni dei discendenti, che le famiglie e le stirpi si chiamano fortunate. Perciò anche la fortuna favorevole ha una sua qualche costanza, non tanta tuttavia da non far soffrire e tormentare anche in mezzo ai suoi favori. E invero che c’è stato di più continuo del successo del popolo romano? Che cosa di più smisurato o di più duraturo? Il popolo romano che da una rupe tutta selvaggia e solitaria protese la sua potenza fino al Mar Rosso e al limite dell’habitat umano, fino alle Orcadi. Eppure quali aculei da parte di Annibale non vi incrudelirono contro? Quali scimitarre di Parti? O quali armi sanguinose di Galli, o masse di Germani? 2. Interrompono infatti quella continuità il venir meno di figli, la perdita di consanguinei, di amici, di parenti, di ospiti forestieri, di famigli, gli incendi di templi, di ville, la messa a fuoco e le distruzioni di messi 839

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XXXIV

arbuscularum, valitudines corporis ac vitia quaeque alia incommoda, quaeque etiam mala contingunt in iis, quae ad animum quoque non minus, quam ad corporis aut ad externa pertinent bona; ut denique fortuna ipsa amarum semper aliquid suavibus obgerat intermisceatque e sententia fluentibus, quales amatoriae sunt voluptates ac deliciae, quibus in mediis triste aliquid semper innascitur, id quod a nobis adolescentibus amatorie decantatum est. Di faciles, miscere iuvet nunc tristia laetis, Oscula cum lacrimis, cum lacrimisque iocos.

3. Nec vero non et eos fortunatos dicimus secundaque fortuna uti, quibus contigit maximis elabi e periculis imminentibusque e malis, eoque magis si citra rationem ipsam praeterque humana consilia atque cogitationes elapsi videantur, ut divina illis ope subventum iudicetur? Sed nescio quomodo pleniori illis ore applaudimus, quibus conferendis bonis cumulandisque favoribus fortuna ubique adiicit commoditates ac lucra, in repellendis autem malis avertit tantum damna. Et illic quidem eius opera ad usum ipsum bonorum pertinet, hic vero ad evitationem mali ac fugam solum modo, quando malum ipsum boni tum privatio esse, tum ademptio videatur. Quo enim spectat naturalis illa malorum fuga rerumque adversarum evitatio, nisi ad boni cupiditatem studiumque assequendi eius, cuius suavitate ita delinimur et tanquam recreamur nomine, ut mali ipsius nos vel umbra quidem deterreat avertatque exterritos? 4. Etenim boni ipsius appetitio naturalis est speciesque eius nobis ubique blanditur atque ad se allicit, quod ipsum per se quidem amamus, colimus, assequi omni arte, studioque contendimus. At malum non aliam magis ob causam extimescimus ac defugimus tantopere, quam quod cupiditatibus nostris deliciisque adversetur tam hostiliter, ut non tam sua ipsius causa, quam non aut assequendi boni, aut si assecuti illud sumus, eripiendi gratia timeamus. Qui igitur et quales fortunati sint, qualis etiam fortuna quique illius mores, progressus, munera, hac in parte abunde monstratum videtur. Quocirca ad alia progrediamur.

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e di boschetti, le malattie del corpo, i vizi, gli altri disagi e gli altri mali che riguardano l’animo non meno che il corpo o i beni esterni. Talché la fortuna oppone sempre qualche amarezza alle dolcezze e la mescola con quel che scorre secondo i voti. Così avviene ai piaceri e alle delizie dell’amore, in mezzo a cui sempre spunta qualcosa di triste, come noi, quando eravamo giovani, abbiamo teneramente cantato: O dei benigni, piacciavi legar tristezza e gioia, i baci con le lacrime, con le lacrime i giochi.113

3. Ma chiamiamo fortunati, e diciamo anche che godono di una fortuna favorevole, coloro ai quali capita di scampare ai pericoli e ai mali incombenti, tanto più se pare che scampino travalicando la stessa ragione, al di fuori delle attenzioni che si possano avere e delle riflessioni che si possano fare, talché si deve pensare che sia venuto loro in soccorso la divinità. Eppure, non so come, esaltiamo più a gran voce coloro ai quali la fortuna è stata più propizia e generosa nel concedere i beni. E infatti nel conferire i beni e nel cumulare favori la fortuna comunque aggiunge vantaggi e guadagni, mentre nel respingere i mali non fa che allontanare i danni. In quel primo caso la sua opera riguarda soltanto l’uso dei beni, in questo secondo caso riguarda lo scampo e la fuga dal male, dal momento che il male in sé non pare altro che privazione e sottrazione di bene. Che significa infatti la fuga naturale del male e la ricerca di evitare le avversità, se non il desiderio del bene, e lo sforzo per raggiungerlo? Ché dalla sua dolcezza siamo così sedotti, e dal suo nome siamo tanto confortati, che perfino l’ombra del male ci fa paura e ci fa fuggire atterriti. 4. E infatti il desiderio del bene è naturale e la sua vista sembra allietarci e attrarci, perché lo amiamo per se stesso, lo veneriamo, ci sforziamo di ottenerlo con ogni mezzo e cura. Invece temiamo il male e ne rifuggiamo non per altra ragione, se non per il fatto che si oppone ai nostri desideri e ai nostri piaceri, a tal segno che non lo temiamo tanto a causa sua, quanto per il fatto che o non ci permette di conseguire un bene, o se lo abbiamo conseguito ce lo sottrae. Come son fatti dunque i fortunati, come anche è fatta la fortuna, e quale sia il suo comportamento, il suo procedere, il suo ruolo, in questa parte ci sembra di aver mostrato abbastanza. Perciò passiamo ad altro. 841

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XXXV QUID SIT FORTUNA. 1. Etenim licet disputatum sit fortunam a natura prorsus esse aliam, non defuere tamen qui assererent, etsi a naturae moribus institutisque longe plurimum fortuna abhorreat, sitque ipsa inconstans admodum et lubrica, non continua, non eadem ubique, non eorumdem semper effectrix, non similes sibi retinens progressiones, non discriminata servans tempora, denique improvida sit, repentina, inordinata, temeraria, qui sive mores, sive impulsus, neque naturae conveniant, neque rationi, quarum utriusque propria sit constantia, maturitas, ordo, mensura, regula, discriminatio item rerum, temporum, effectuum, non inquam defuere, fortunam qui asserant irrationalem quandam esse naturam, nec aliud illam denique, quam naturae impetum quendam, hoc est ratione carentem agitationem naturae quandam, in iis ipsis videlicet, quae nec rationi subiiciantur naturae, neque hominum electionibus ac consiliis. 2. Impetum itaque esse eam censent, quod sit absque ratione feraturque suopte tantum agitatu atque impulsu, quodque ubi impetus dominetur illic rationi nullus omnino relictus sit locus, nulla prorsus auctoritas, aut pensitatio earum quae gerantur rerum. Etenim ratio administrandis negociis finem ubique respicit ad illumque sese accommodat, progressionibus quam maxime appositis, consideratis, idoneis, de via nullo modo aut declinans aut aberrans, ab omni vi ac violentia libera. At impetus secus sese habet ad haec omnia; nam nihil cum consideret, nihil respectet, nihil utique ordinate gerat, violentus ipse et tanquam caecus progreditur, rapiturque magis quam incedit. Itaque ab impetu ipso raptum aliquem si interroges, quo se proripiat, respondebit aut «nihil opinor», ut violentus et parum audiens, aut quod ille in causa meticulosa apud tragicum Senecam: «Nihil timendum video, sed timeo tamen»; quod, ut transferamus in similitudinem: «Nec quo progrediar video, progredior tamen». Igitur, si impetus a ratione prorsus abhorret, si et aspernatur et conculcat illam, in illis sese fortuna oportet exerceat, quae nec electionibus subiiciantur hominum, nec consiliis minimeque iuris sint nostri, neque praeceptis ra-

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XXXV CHE COSA SIA LA FORTUNA. 1. Ordunque, sebbene sia stato sostenuto esser la fortuna assolutamente altra cosa dalla natura, non è mancato chi affermasse che la fortuna, anche se contrasta moltissimo con i comportamenti e i princìpi della natura, e sia assolutamente incostante e mobile, non costante, non identica in ogni circostanza e non sempre attuatrice delle medesime cose, incapace di conservare procedimenti simili, di osservare tempi non ben distinti, e infine sia imprevista, repentina, disordinata, temeraria, e che le sue norme e i suoi impulsi siano tali da non concordare né con la natura, né con la ragione, delle quali due sono proprie la costanza, la perfezione, l’ordine, la misura, la regola, la distinzione delle cose, dei tempi, dei fatti, non è mancato, ripeto, chi asserisse che essa consista in una natura irrazionale, e che nient’altro essa sia, che un impeto, cioè una certa agitazione della natura priva di ragione, ovviamente in quelle cose che non sono soggette alla ragione, né alla scelta e al consiglio dell’uomo. 2. Si ritiene che essa sia pertanto un impeto, perché priva di ragione, trasportata soltanto dal proprio moto e dal proprio impulso, e perché, dove domina l’impeto, non rimane assolutamente posto per la ragione, nessuna autorità o riflessione circa quello che debba farsi. E infatti la ragione nel governare le azioni è sempre rivolta ad un fine e si adegua sempre a quello, con passi il più possibile adeguati, ponderati, idonei, senza deviare mai, senza errare, libera da ogni imposizione e violenza. Ma l’impeto si comporta diversamente in queste circostanze, perché, non avendo considerazione di nulla, non usando alcuna riflessione, non conduce nulla con ordine, procede violento esso stesso e quasi fosse cieco, e si precipita più che camminare. Perciò, se interrogassi qualcuno che sia trascinato dall’impeto, chiedendogli dove si precipita, risponderà o «non ho idea», come in preda alla violenza e incapace di ascoltare, o quello che rispose il famoso personaggio di Seneca Tragico in una circostanza paurosa:114 «Non vedo nulla da temere, ma temo tuttavia», che significa, per tradurlo in una espressione simile: «Non vedo dove vado, e vado tuttavia». Dunque, se l’impeto rifugge del tutto dalla ragione, se la disprezza e la calpesta, necessariamente la fortuna si esercita in quelle cose che non sono soggette né alla scelta né alla decisione dell’uomo, e che non sono di nostra competenza, né obbediscono ai precetti della 843

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tionis rectae obtemperent. Apposite igitur fortunam qui finiunt, naturae impetum esse cuiuspiam. Qualis autem sit impetus et quam a ratione diversus, abunde monstratum est.

XXXVI QUARE FORTUNA SIT NATURA QUAEDAM. 1. Restat videndum de natura, an ex hac quoque parte definitio ipsa sibi consentiat? Iam vero fortuna cum nec ipsa intellectus sit, ut plane ostensum est, nec ratio, quippe quibus mirifice adversetur, nec deo sit attribuenda, cum maiestas illa divina summa sit iustitia, singularis sapientia, suprema circumspectio ordoque sempiternus, contra vero fortuna ab his omnibus prorsus sit aliena, nec praeter haec quicquam sit aliud, quam natura, ipsaque externorum sit bonorum dispensatrix ac domina, nimirum a natura separanda non est. Nam etsi natura, quorum est ipsa causa, eorundem quoque ipsorum aut utique semper, aut certe plerunque effectrix est et auctor, occupaturque circa eadem perpetuo ubique tenore, praeterquam si impedimentum aliquod senserit, secus vero fortuna ipsa parum omnino sit ordinata, verseturque tantum circa eventus, qui accidentes quidem sunt, unde ipsa, qua causa est, eventitia agnominatur, tamen, et cum continua ipsa est retinetque tenorem iam conceptum servatque ordinem estque eorundem quoque efficiens, et cum ipsa pro instituto variat, si non ubique, alicubi tamen, si non semper, tamen saepicule, si non plerunque, tamen aliquando, si non frequenter, at certe quandoque, eaedem sibique assimiles eius sunt effectiones, et effectus ipsi persimiles atque consentientes, quae res efficit ut, si natura prorsus dicenda non sit, propter ea quae adversum multa sese offerunt, quaedam tamen sit natura, eaque sine ratione.

XXXVII QUARE FORTUNA SIT IMPETUS QUIDAM. 1. Ad haec quod plerunque nec ipsa ordinem servet, nec rationem sequatur progrediaturque nunc violenta et incomposita, nunc ut repen-

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rettitudine. Opportunamente dunque coloro che definiscono la fortuna, dicono che essa è l’impeto di una certa natura. Di quale impeto si tratti, poi, e quanto sia diverso dalla ragione, si è mostrato abbastanza.

XXXVI PERCHÉ LA FORTUNA CONSISTE IN UNA CERTA NATURA.115 1. Resta da vedere a proposito della sua natura, se anche a questo riguardo la definizione sia coerente. Orbene, poiché la fortuna non s’identifica con l’intelletto, come chiaramente si è mostrato, né con la ragione, dato che contrasta straordinariamente con entrambe, e non deve attribuirsi a Dio, essendo la maestà divina somma giustizia, singolare sapienza, suprema prudenza, ordine eterno, mentre invece la fortuna è aliena da tutte queste qualità, e al di là di queste non esiste altro che la natura, ed essa è dispensatrice e signora dei beni esterni, non va evidentemente separata dalla natura. Infatti, anche se la natura è comunque sempre, o certo per lo più, realizzatrice e fautrice delle cose di cui è causa, e se ne occupa in perpetuo e in ogni momento con continuità, tranne che se incombe qualche impedimento, mentre la fortuna non è affatto ordinata e riguarda solo gli eventi accidentali, onde essa, essendo una causa, è chiamata eventizia, tuttavia, poiché è costante e mantiene il modo di procedere iniziale conservando l’ordine, ed è anche esecutrice di cose identiche, poiché varia secondo un principio, comunque, se non in tutti, in qualche caso, se non sempre, spessissimo, se non il più delle volte, talvolta, se non frequentemente, certamente di tanto in tanto le sue operazioni sono ad essa conformi e gli effetti sono molto simili e coerenti, ne deriva che, anche se non può dirsi natura in modo assoluto per molte qualità che manifesta in contrario, tuttavia consiste in una certa natura, una natura senza ragione.

XXXVII PERCHÉ LA FORTUNA CONSISTE IN UN IMPETO.116 1. Inoltre, poiché per lo più la fortuna non osserva l’ordine né segue la ragione, e procede ora violenta, ora scomposta, ora repentina così come 845

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tina, sic etiam inconstans, iure quoque efficitur, ut ipso sit ab impetu ac libidine terminanda. An non erit natura, cum videamus quosdam sic ab illa institutos, ut naturali sorte, et appositi et nati sint, in quos fortuna munus suum peculiaremque illum sua pro libidine exerceat impetum? Qua e re naturalique ab hac institutione fortunati sunt merito dicti. Etenim naturae ipsius munus alibi idem quidem est ac perpetuum, praeterquam si impedimentum ei aliquod sit illatum, perinde ut ignis est calefacere ac calore suo fovere, imbris humectare quae corpulenta sint et gravia, deorsum atque ad imum contendere, suopte ductu ac pondere. 2. Alibi vero id ipsum quod a natura inest munus, tametsi inest omnibus, non omnes tamen illud, sed pauci potius student implere. Nam, cum sit hominum generi indita a natura ratio, qua et auctore et duce naturaliter afficiamur ad praeclaras honestasque exercendas actiones, quae virtutes constituunt morales, licet hae ipsae virtutes nec a natura insint nobis, nec sint naturae ipsi parum consentientes, tamen generosus et optime institutus quisque, igniculis illis a natura inditis calefactus, ad virtutem omni arte studioque contendit. Atque hi quidem perpauci sunt et rari, cum multitudo fere omnis malis cupidinibus vitiisque turpissimis sit addicta. Quid autem tam a natura insitum quam sciendi cupiditas? quoti tamen sunt populosissimis etiam in oppidis, qui rerum cognitioni dent operam incumbantque scientiae ac rebus vacent naturae perquirendis? Itaque et quod a natura inest, duplici etiam modo inest, et ut ubique et in cunctis, et ut raro atque in paucis. Quam rationem in hac ipsa fortunae definitione si sequimur, fortasse videbimur a natura ipsa minime recessisse. Quid autem vita carius? cuius conservandae studium commune quidem est generi animalium omni; quod quamvis ita sit, vel multi tamen ad mortem, quaeque pericula illam afferant, volentes feruntur. Unde egregium illud, Aeneadae in ferrum pro libertate ruebant.

3. Quid quod non pauci, evitare mortem cum possent, minime voluere, ut Socrates, ut e Christianis innumerabiles, nec defuere qui illam ipsi sibi conscierint, ut Marcus Cato, aut inferri sibi suis a familiaribus

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anche incostante, a buon diritto avviene che sia definita proprio dall’impeto e dal capriccio. O non sarà natura, mentre invece vediamo che ci sono alcuni da essa formati in modo da essere originariamente disposti, per sorte naturale, in modo che la fortuna eserciti verso di loro a suo capriccio il suo compito e quell’impeto particolare? E non è in virtù di questa formazione che sono stati detti correttamente fortunati? E infatti il compito della natura è del resto sempre il medesimo, a meno che non gli si pari dinanzi un impedimento, come per esempio è compito del fuoco riscaldare e favorire col suo calore, compito della pioggia è inumidire, dei corpi grossi e pesanti precipitare giù e al fondo per loro tendenza e peso. 2. Ma d’altra parte quella stessa tendenza che proviene dalla natura, sebbene sia in tutti, non tutti tuttavia cercano di attuarla, ma piuttosto pochi. Infatti, mentre dalla natura è infusa in tutto il genere umano la ragione, per opera e guida della quale siamo naturalmente spinti a compiere splendide e onorevoli azioni, in cui consistono le virtù morali, sebbene queste virtù non siano infuse in noi dalla natura, né sono poco congrue con la stessa natura, tuttavia chiunque sia generoso e perfettamente formato, e chiunque sia riscaldato da quelle fiammelle infuse dalla natura, cerca di giungere alla virtù con ogni mezzo e sforzo. Sono ben pochi e rari costoro, giacché la moltitudine è dedita quasi tutta a cattivi piaceri e a turpissimi vizi. Ma quale desiderio è tanto insito nell’uomo dalla natura, quanto quello di conoscere? Eppure quanti sono, anche in città popolosissime, quelli che si dedicano alla conoscenza, e attendono con tutte forze alla scienza, e si occupano di ricercare le verità naturali? Perciò, quel che è insito per natura, lo è in due modi, dovunque e in tutti, di rado e in pochi. Se seguiamo questo metodo nella stessa definizione della natura, forse non ci sembrerà di esserci discostati affatto dalla natura. Ma che cosa è più prezioso della vita? Il desiderio di conservarla è comune a tutto il genere umano. Ma quantunque sia così, molti sono tratti tuttavia volontariamente alla morte e ai pericoli che conducono alla morte. Donde quel verso illustre: Gli Eneadi per la libertà si precipitavano contro il ferro.117

3. E che dire del fatto che non pochi, potendo evitare la morte, non vollero affatto evitarla? Come Socrate, come innumerevoli Cristiani,118 né sono mancati di quelli che se la sono procurata, come Marco Cato847

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imperaverint, ut Marcus Brutus? Quin maximus ille Romanorum omnium Caesar de ea sibi inferenda cogitasse in Ispania legitur. Itaque nec Aristoteles ipse, nec e Peripateticis accusari quisquam aut debet aut recte potest, si alibi fortunam minime esse naturam dixerint, alibi tum naturam esse quandam, illamque sine ratione, tum etiam naturalem impetum. Id autem tale est, ut non hic ipse forsan impetus bona sit fortuna, sed ut qui sic natura sint ab ipsa constituti, hocque instinctu praediti naturale adiumentum habeant, et viam quasi quandam paratam accipiendis fortunae muneribus ac donis. Ut naturalis hic ipse impulsus causam afferat ad conciliandam sibi fortunae bene volentiam ac favorem. Itaque ut non omnes fortunatos videmus, videlicet quod adminiculum hoc quam plurimis desit, sic quibus adest fortuna, illis propitia est. Quid enim invita ac repugnante natura?

XXXVIII DE FORTUNATIS. 1. Utque ad fortunatos de quibus paulo est ante dictum redeamus, hi sunt quibus ut pervulgate loquuntur, fortuna dormientibus advigilat. Sunt autem hi non multi, cum omnes tamen cupiant, fortuna secunda uti. Sunt item satis pauci, qui rebus naturae cognoscendis dent operam, cum tamen scire omnes naturaliter cupiant. Qui igitur (etsi rari quidem sunt) ut sciant, laborant, maius nimirum ad hoc ipsum, naturae auxilium habent, quam qui ab ingenita illa sciendi cupiditate relanguescunt. Et qui in ocio atque in solitudine civilibus procul ab negociis desides ipsi ac marcescentes vivunt, non ne naturales illos igniculos, quibus ad agendum atque in societate vivendum naturaliter trahimur (nati enim sociabiles sumus), multo tepidiores remissioresque sortiti sunt, quam qui in luce quaerunt vivere et in magna hominum frequentia praeclarescere? Quemadmodum igitur igniculi illi ut accensiores vehementioresque calfaciunt, incendunt, inflammant hos civiles ad actiones, ad gerendos magistratus, ad honores adipiscendos, quibus gerendis natura eos ap-

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ne,119 o che hanno comandato ai propri familiari di infliggerla loro, come Marco Bruto.120 Che anzi si legge che il più grande dei Romani, Cesare, pensò in Ispagna di arrecarsela da se stesso.121 Pertanto né Aristotele, né qualcuno dei Peripatetici o deve, o giustamente può essere accusato, se hanno detto ora che la fortuna non è affatto natura,122 ora che è in qualche modo o natura priva di ragione, o un impeto naturale. Ma le cose stanno in modo, che forse non è quest’impeto a costituire la buona fortuna, ma che coloro i quali siano così fatti dalla natura, e forniti di questo istinto, hanno un aiuto naturale e quasi una via spalancata a ricevere i favori e i doni della fortuna. Sicché l’impulso stesso porta ad attirare verso di sé la benevolenza e il favore della fortuna. Perciò, come vediamo che non tutti sono fortunati, evidentemente perché a moltissimi manca questo aiuto, così a chi la fortuna è vicina, a loro essa è propizia. Che avviene infatti quando la natura è contraria ed ostile?

XXXVIII I FORTUNATI. 1. Per tornare a quelli di cui poco prima abbiamo parlato, chiamandoli fortunati, su costoro la fortuna vigila anche quando dormono, come si dice comunemente. Non sono molti tuttavia, quantunque tutti desiderino avere la fortuna dalla loro parte. Allo stesso modo sono abbastanza pochi quelli che si danno da fare per conoscere le cose naturali, quantunque tutti desiderino possedere la scienza della natura. Coloro dunque (anche se sono veramente rari) che si affaticano per acquistar sapere, non c’è da meravigliarsi se a questo fine hanno da parte della natura un sostegno maggiore di coloro che si lasciano andare senza rispondere a questo innato desiderio di conoscenza. E chi vive inoperoso e marcisce nell’ozio e nella solitudine, lontano dall’attività civile, non ha avuto in sorte molto più tiepide e modeste quelle scintille naturali dalle quali siamo tratti ad agire e a vivere secondo natura nella società (siamo nati, infatti, con la disposizione alla socievolezza), di chi cerca di vivere nella luce e di distinguersi123 nella gran moltitudine degli uomini? Come dunque avviene che le faville più accese e più forti riscaldano, incendiano, infiammano questi uomini civili all’azione, ad assumere cariche pubbliche, a conseguire onori – ad affrontare le quali cose la natura ha 849

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tiores fecit magisque accommodatos, illos vero ad subiiciendam sibi, et coelestium et humanarum cognitionem rerum, universaeque naturae scientiam, sic impetus illi motusque irrationales excitant, aptant, dirigunt hos ipsos, quos fortunatos dicimus, ad consequenda fortunae favorabilis dona fructusque eius huberrimos. 2. Quocirca, ut dictum est, cum sine ratione, sine consilio consultationeque aliqua repente ad aliquid excitanterque moventur, quod illis postea bene vertit, eos tunc si percunctabere, quaenam vos commovet causa, quae ratio ad haec ipsa sequenda? «Atqui – respondebunt – nobis ita quidem dictat animus. Sic nobis placitum est hocque nostrum nobis cor innuit». Quod ulterius si perstiteris quaerere, cum non habeant, quid cum ratione respondeant: «Deus – inquient – hoc vult, sic nobis imperat, illum sequimur, eius nos paremus imperio». Itaque inesse animus eorum videtur a natura, ut instinctu quidem atque impulsu tantum illo, ratione vero ac consultatione nulla adhibita, ad ea ferantur raptim, atque ex incogitato ad quae natura ipsa illos trahit, vel raptare potius cernitur. 3. An non his ipsis fortunatis saepenumero usuvenit, ut praeter prudentium hominum consilia, praeter experientium senum monita adversusque sapientissimorum virorum exempla, neglectis, despectis, repudiatis amicis atque consiliariis omnibus, negocium aggrediantur aliquod, quod periculosissimum maximeque exitiosum omni e parte appareat, et tamen ipsi soli illud sibi agendum suscipiant, eique administrando modum quoque adhibeant, a coeteris omnibus improbatum alienumque utique ab aliis iudicatum, ac nihilominus feliciter illud perficiant, praeter omnium aliorum mentes ac iudicia?

XXXIX SIMILITUDO DE SIBYLLIS, VATICINANTIBUSQUE AC DE POETIS. 1. Nec vero comprobandis iis, quae de fortunati viri impetu dicimus, exempla desunt sive vaticinantium Sybillarumque sive etiam poetarum. Et vaticinantes ipsi quidem Sybillaeque neque ex se ipsis moventur nec ducuntur ratione. Quae enim in homine indocto et saepenumero rusticano, in muliercula autem praerudi et semifatua inesse potest divinandi ratio? Divinant tamen, et plurimorum simul seculorum futuras res 850

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reso più idonei e disposti alcuni, altri invece a dominare la conoscenza delle cose celesti ed umane, la scienza di tutto l’universo – così gli impeti e i moti irrazionali sollecitano, attrezzano, dirigono quegli stessi che chiamiamo fortunati a conseguire i doni favorevoli della fortuna e i suoi frutti più floridi. 2. Perciò, come si è detto, poiché repentinamente e senza ragione, senza riflessione, senza decisione alcuna vengono spinti e mossi verso qualcosa, che poi riesce bene, se domanderai loro «che cosa vi spinge, quale metodo bisogna seguire per realizzare ciò?», risponderanno: «Niente. Eppure così ci detta l’animo, così ci è piaciuto fare, questo ci ha suggerito il nostro cuore». Che se insisterai a chiedere, poiché non hanno come rispondere con raziocinio: «Dio – diranno – lo vuole, così ci comanda di fare, Lui seguiamo, al suo comando obbediamo». Perciò sembra che nel loro animo sia insita per natura la tendenza a precipitarsi lì, spinti soltanto da quell’impeto, senza avvalersi di alcuna ragione e consiglio, e d’improvviso, e a far quello cui la natura li trascina o piuttosto pare che essa li rapisca. 3. E non avviene spesso a questi fortunati, che al di là dei consigli degli uomini prudenti, al di là delle raccomandazioni degli anziani pieni di esperienza, contro l’esempio degli uomini più sapienti, trascurando, spregiando, respingendo gli amici e tutti i consiglieri, affrontano un’impresa che si presenta pericolosissima e straordinariamente esiziale, e che tuttavia se l’accollano da soli, e nel gestirla usano anche un modo da tutti gli altri sconsigliato e comunque giudicato da altri non opportuno, e nondimeno la portano a termine felicemente, indipendentemente dal parere e dal giudizio di tutti gli altri?

XXXIX SIBILLE, INDOVINI E POETI: UN’ANALOGIA.124 1. Né mancano esempi per dimostrare quel che diciamo di quelle persone fortunate che sono gli indovini, le sibille e i poeti. Anche gli indovini e le Sibille, né si muovono da sé, né sono guidati dalla ragione. Quale capacità di divinare, infatti, potrebbe esserci in un uomo ignorante, spesso in un uomo di campagna, o anche in una donnetta quasi rozza e mezza sciocca? Eppure indovinano e presagiscono il futuro di 851

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annuntiant. Moveri autem et vaticinantes ipsos et Sybillas impetu illo naturali tantum, procul ab omni pensitatione, consilio rationeque, illud docet, quod ille ipse motus furor est appellatus, et qui eo correpti sunt furentes dicti. Quid quod non a ratione destituuntur solum, verum etiam a sensibus, quippe quibus nec color, nec vultus illis suus est, non oculi, non comptae, ut Poeta testatur, mansere comae, sed pectus anhelum, et rabie fera corda tument. Atque hic quidem sive impetus sive furor, quod ei praeesse deus putaretur, cuius est propria futurorum cognitio, cum ratio humana praestare nullo id possit modo, divinus est vocatus. 2. Quocirca, furor ubi recessit impetusque ille tam humana ab ratione remotus alienusque, non ignorat modo Sybilla quod paulo ante de furore agitata praedixit, verum id se praefatam, etiam si percunctere, negaverit; quippe quomodo meminisse eius possit, quae sensibus omnino consternata et mente per id omne tempus fuerit, quo vaticinata est? nam mente consternatos esse ac sensibus vaticinantes, habitus ipse corporis quamdiu furore correpti sunt, docet ac monstrat. Igitur si impetus, quanquam ab hoc ipso fortunae diversus, vates Sybillasque ad futura praedicenda concitat, instigat, rapit, utpote praedicendis tantum futuris accommodatus, nunquid non alius similiter impetus externis conciliandis bonis aptus natusque impellet raptabitque, nunc neglecta, nunc conculcata ratione, ad fortunam propitiandam rerum externarum dominam? quae nostrae quidem iurisditioni minime subiecta sunt, quippe cum rationi, quae hominum ipsorum est propria, nullo pacto subiiciantur. 3. Homerus ac Virgilius, duo poeticae duabus in linguis lumina, ab innato eiusmodi ad poeticandum impetu id uterque consecuti sunt, ut si dii ipsi graece aut latine herois cantare velint numeris, non alia nec voce, nec cantu, nec numeris, nec suavitate, dignitate, magnitudine, quam quibus illi modulati sunt, canerent. Itaque quod poeticam ad dignitatem magnitudinemque ars doctrinaque labore etiam summo industriaque comparata nequeat omnino accedere, praeterea quod neque studiorum assiduitas, neque vigilantissima praestare potest cura, eo posse accedere, id utique et assequi et praestare, naturali huic atque, ut putatum est, divino impetui datum est atque concessum. Qua de re quibus magis

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moltissimi secoli. Che poi gli indovini e le Sibille siano mossi soltanto da quell’impulso naturale, indipendentemente da ogni ponderazione, riflessione, ragionamento, lo dimostra il fatto che quel moto è stato chiamato furore, e sono detti furenti coloro che ne sono preda. E che dire del fatto che sono abbandonati non solo dalla ragione, ma anche dai sensi, poiché non rimane loro né il proprio colore, né il proprio volto, non gli occhi, non i capelli composti, come attesta il Poeta,125 ma il petto è anelante e il cuore si gonfia di rabbia feroce. Ma questo impulso o furore che dir si voglia, poiché si pensa che lo presieda Iddio, cui spetta la cognizione del futuro, non potendo in nessun modo derivare dalla ragione umana, è chiamato divino. 2. È per questo che quando il furore si dilegua insieme con l’impulso così lontano ed alieno dalla ragione umana, la Sibilla non solo ignora quel che poco prima aveva predetto agitata dal furore, ma se la interrogassi su quel che ha presagito, non ti risponderebbe perfino, perché come potrebbe ricordarsene chi è rimasta stravolta nei sensi e nella mente per tutto il tempo che ha vaticinato? Infatti che gli indovini siano stravolti nella mente e nei sensi, lo dichiara e lo dimostra l’atteggiamento stesso del corpo per tutto il tempo che sono in preda al furore. Ordunque, se l’impulso, per quanto diverso dall’impulso della fortuna, eccita, istiga, trascina i vati e le Sibille a predire il futuro, perché è soltanto adatto a far predire il futuro, non è possibile che allo stesso modo un impulso, adatto a far procacciare i beni esterni, spinga e trascini, ora con trascurata, ora con ponderata ragione a render propizia la fortuna, signora dei beni esterni, che non sono affatto soggetti alla nostra competenza perché non sono in nessun modo soggetti alla ragione, che appartiene propriamente all’uomo? 3. Omero e Virgilio, due luminari della poesia in due lingue diverse, entrambi per un simile impulso innato hanno conseguito che, se gli dei stessi volessero cantare in greco o in latino in versi eroici, non canterebbero con altra voce, né con altro canto, né con altro metro, né con altra dolcezza, dignità e grandezza se non con quella usata da loro per cantare. Pertanto il risultato di accostarsi alla dignità e grandezza della poesia, che l’arte e la dottrina non potrebbero assolutamente raggiungere nemmeno con l’ausilio di un’estrema fatica ed elaborazione, e inoltre quel che non potrebbero far raggiungere, né potrebbero far conseguire ed offrire né l’assiduità degli studi e la raffinatissima cura, è stato dato e concesso a questo naturale e, come si è ritenuto, divino impulso. Su 853

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quam his ipsis credendum est poetis? aut quorum potius standum dicto? Proindeque Ovidium audiamus: Est deus in nobis, agitante calescimus illo Sedibus aethereis spiritus ille venit.

Cui quidem sive spiritui naturali, sive impetui quod divinum quiddam atque humano quidem esse videatur maius, sacer is est vocatus, unde idem hic Spiritus ille sacer, qui vatum pectora versat.

4. Is itaque sive coeli naturae ve, sive utriusque impulsus visque humana maior id prorsus praestat atque efficit, quod ars praestare nullis studiis, nullis quanquam assiduis laboribus potest assequi, neque metae ipsi [potest] vel distantissimo etiam spatio propinquare. Unde Democrito non temere visum est poeticis in rebus ingenio tribuenda esse omnia, poetaeque fortunam omnem, hoc est dignitatem atque excellentiam ab ingenio proficisci. Quod igitur in divina atque admirabili re (sic enim ab antiquissimis ac sapientissimis viris habita est poetica), quod inquam naturalis praestat impetus in ea re, quae ad pangendum spectat carmen atque ad comparandam inde laudem ac gloriam, nunquid non praestare idem poterit atque efficere in commovendo ac propellendo eo, cui talis inest, fortunae consequendis bonis et stimulus et adminiculum, atque ad eiusdem benevolentiam promerendam? Nec vero poeta versum faciet et Apolline dignum et Musis, ut artis eius peritus et multum quoque exercitatus, quae quidem peritia atque exercitatio etiam versificatorum est ac grammaticorum (etsi impetus ipse diu exagitatus ac versatus multum et artem sibi peperit, et quid decorum esset invenit) praeterquam cum impetus ille calorque excitus mentem agitat. 5. Tunc enim miracula promuntur, tunc maior rerum ordo nascitur maiusque humano artificio movetur opus. Identidem quoque fortuna opes effundet mercesque explicabit suas, neque aut supellectilem non ostentabit aut penum in illum ipsum, qui suo instinctu impulsuque et cohortetur eam, et innato adactus impetu facere sibi propitiam studeat.

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questo punto a chi bisogna credere più che agli stessi poeti? O a quali parole bisogna credere di più che agli stessi poeti? Ascoltiamo Ovidio: Un alito divino v’è in noi, ci scaldiamo al suo moto. Dalla sede celeste ci vien l’ispirazione.126

Questo spirito naturale o impulso che sia, poiché sembra contenere qualcosa di divino, e certamente più che umano, è stato detto sacro, onde lo stesso poeta: quello spirito sacro, che agita il petto dei vati.127

4. Sia che quell’impulso, dunque, provenga dal cielo, sia che provenga dalla natura o da entrambi, quella superiore forza umana procura e realizza ciò che l’arte non può procurare con alcuno sforzo, non può conseguire con nessuna fatica per quanto assidua, né può128 l’arte avvicinarsi a quella meta perfino rimanendone a lunghissima distanza. Perciò a Democrito non senza ragione parve di dover attribuire tutto all’ingegno in fatto di poesia, ed egli sostenne che al poeta tutta la fortuna, cioè la dignità, proviene dall’ingegno.129 Quello che, dunque, in una cosa divina e meravigliosa (così dai più antichi e sapienti uomini è stata intesa la poesia), quello che – ripeto – offre l’impulso naturale, in quella operazione che riguarda la composizione poetica, l’acquisto della lode e della gloria, non lo potrà offrire e realizzare sollecitando e spingendo colui nel quale risiedono tale stimolo e tale aiuto della fortuna a conseguire i beni, e a meritare la sua benevolenza? Ma nemmeno il poeta farà un verso, né lo farà degno di Apollo e delle Muse, quantunque esperto e molto esercitato in quell’arte – e perizia ed esercizio sono anche prerogativa dei versificatori e dei grammatici (anche se l’impulso a lungo e intensamente messo in funzione s’impadronisce anche dell’arte e crea qualcosa di bello) – tranne che quando l’impulso e il calore agitano la mente. 5. Allora si manifestano anche dei miracoli, allora nasce anche un genere di cose superiore e dall’arte umana scaturisce un’opera più grande. Allo stesso modo la fortuna diffonderà le sue ricchezze, e farà vedere le sue mercanzie, e non mancherà di mostrare la sua suppellettile e il suo cibo a colui stesso che per suo istinto ed impulso non solo la va ricercando, ma spinto da un innato impeto si dà da fare per farsela propizia. 855

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XL DIVERSA ESSE GENERA FORTUNATORUM HOMINUM. 1. Quid quod ut poetas ipsos peculiaris illa commotio maiorque mentis exagitatio alios in heroo, in elegiaco alios, sive tragicis aut comicis, seu lyricis in numeris claros, atque illustres facit? Sic fortuna alios divitiis praeter modum, alios victoriis, alios potentia, magistratibus, praefecturis, imperiis, ut diversis etiam modis, alios atque alios ditet, honestet, amplificet, altiusque etiam evehat, cum secundam sese exhibet atque favorabilem. Qua via fortunatio ipsa est etiam diversimoda efficiturque ut fortunatorum hominum non unum, sed multiplex sit genus. Fortunavit alios vis haec ac natura in bellicis, alios in pacis ociique rebus, alios pascendis gregibus atque armentis, hos commutandis mercibus, nunc mari nunc terra, illos exercendis agris, quosdam comparandis literis, non paucos, dum in procerum ac regum aulis versantur, permultos etiam colenda religione, ut multiplicibus modis fortuna, quos idoneos nacta est quodque libido eius fert, eos et locupletet et extollat. 2. Qua e re id efficitur, cum fortuna impetus sit, ipse autem impetus parum obsequatur rationi, ut mirum minime sit si vulgus in id quoque consentit, quo in negocio quaque in re amplior datur ac maior fortunae locus, in iis aut nullum, aut omnino perquam exiguum dari rationi aditum; atque ex adverso, ubi rationis maxima sit auctoritas, illic fortunae aut certe nullam, aut omnino minimam fore.

XLI FORTUNAM INTERDUM CONVENIRE CUM RATIONE, NIHILOMINUS INVICEM ADVERSARI. 1. Quod si aliquando in unum forte conveniant, inde ipsum proficiscitur, quod fortunae nihil insit perpetuum, quae ut plerunque adversatur rationi, sic interdum illi quasi insidians blandiatur, et vultum quam maxime benignum offerat, ut non favor ille magisquam dolus, aut pellacia quasi quaedam dici iure debeat. Etenim maris atque aquarum propria cum sit agitatio, iisque innatum sit aeque atque aeri nunquam ut consi-

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XL CATEGORIE DIVERSE DI UOMINI FORTUNATI. 1. E che dire del fatto che quel particolare stimolo e quella superiore agitazione della mente rende famosi ed illustri alcuni nel genere eroico, altri nell’elegiaco,130 altri nei versi tragici, comici o lirici? Così la fortuna dota, onora, riempie alcuni di ricchezze oltre misura, altri di vittorie, altri di potenza, di cariche, di governatorati, di comandi supremi, e li solleva anche troppo in alto quando si mostra disponibile e favorevole. In tal senso la stessa opera della fortuna si differenzia nei modi e succede che di uomini fortunati non c’è un solo genere, ma ce ne sono molti. Questa forza naturale rende fortunati alcuni nelle opere di guerra, altri nelle opere della pace e della vita tranquilla, altri nel pascere i greggi e gli armenti, gli uni nello scambio di merci per mare e per terra, gli altri nel lavorare i campi, alcuni nell’apprendere le lettere, non pochi nel frequentare i palazzi dei signori e dei re, moltissimi anche nel coltivare la religione, sicché in parecchi modi la fortuna arricchisce ed esalta quelli che trova adatti e perché lo vuole il suo capriccio. 2. Pertanto avviene che, essendo la fortuna un impeto, è proprio l’impeto che obbedisce ben poco alla ragione, tanto che non bisogna meravigliarsi se il volgo vi dà pure il suo consenso. Nell’ambito di quelle attività in cui viene dato alla fortuna un ruolo troppo importante e grande si suol dare alla ragione un ruolo nullo e del tutto insignificante. E al contrario, dove è grandissima l’autorità della ragione, lì la fortuna o sarà certamente nulla o assolutamente minima.

XLI LA FORTUNA SI ACCORDA TALORA CON LA RAGIONE, E NONDIMENO SI SCONTRANO L’UNA CON L’ALTRA. 1. Che se, per caso, talvolta vanno d’accordo, ciò proviene dal fatto che nella fortuna non v’è nulla di duraturo, perché essa, pur generalmente in contrasto con la ragione, talora l’accarezza quasi insidiandola, e mostra un volto il più possibile benevolo, onde quel favore non debba dirsi correttamente favore, ma piuttosto inganno o astuzia. E, infatti, pur essendo proprietà del mare e delle acque l’essere agitati ed è una proprie857

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stant, tamen et mare quandoque motum illum sistit suum et aquae ipsae restagnant aerque sic interdum conquiescit, ut recte de iis dicatur: Tum venti posuere omnisque repente resedit [Flatus, et in lento luctantur marmore tonsae].

Et vero de fortuna non recte minus ac proprie, quam de mari lucretianum illud dici potest. Placidi lusit pellacia ponti.

2. Nam quantopere insidiosa fortunae sit blanditia ac secundior eius flatus, docuit venenosus ille Annibalis tandem anulus, docuit sceleratus atque infelix Pompeii exitus in Aegiptio litore, Iulii item Caesaris in curia pompeiana, Alexandri Severi in patenti et libero militibus praetorio, nec non et Marci Antonii in eius ipsius ac Cleopatrae thalamo. Quos omnis ut de aliis taceamus, fortuna sic extulit, ut eorum sint exempla quam rarissima. Igitur si ratio cum impetu certat hostiliter, ut cum fortuna quoque certet necesse est; etsi iis favet fortuna, qui impetum tantum sequuntur, illis obsit par est, qui rationi sint, qui se resque suas accommodant. Minime igitur mirum male si fortunati sint, qui secundum rectam rationem vivunt ab eaque ne minimum quidem recedere audent. 3. Et vero integrum qui diem consumunt iaciendis talis, quid murum tandem aliquando venereum si iaciunt? aut si in tot fortunae lusibus, qui pene tot ipsi sunt, quot et homines et negocia, unum aliquando aliquem ad vitae usque exitum comitetur felicitas? Paucissimos invenias Augustos, rarissimos Traianos, una etiam manu numeraveris Antoninos. Quis tamen ex his est, exque aliis, qui inter fortunatos ac felices numerantur, quem non subinde fortuna etiam letaliter percusserit? Nedum ut luserit etiam perquam ridicule? Quod si quandoque usuveniat illum ipsum impetum rationi se adiungere, innumerabilis tamen coetus est illorum ac series, quibus male conduxerit rationis usus atque prudentiae; cum quibus optime profecto actum fuisset, ratione relicta, naturae impetum

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tà dell’acqua e dell’aria non fermarsi mai, tuttavia non solo il mare talora arresta quel suo movimento, ma perfino le acque ristagnano e l’aria talvolta si acqueta, in modo che si possa ben dire di esse: Quando posano i venti, e tutto, a un tratto, si calma [il soffio, e i remi lottano sulla piana distesa del mare]131

E invero della fortuna, con non minore correttezza e proprietà che nel caso del mare, si può dire quella famosa espressione di Lucrezio: Inganna la seduzione di un placido mare.132

2. Infatti, quanto insidiosi siano la carezza della fortuna e il suo benevolo soffio, lo hanno mostrato, alla fine, quel tale anello133 velenoso di Annibale e l’infelice morte di Pompeo sul lido dell’Egitto,134 di Giulio Cesare nella Curia pompeiana,135 di Alessandro Severo nel pretorio cui ebbero libero accesso i soldati,136 e inoltre la morte di Marco Antonio nella camera sua e di Cleopatra.137 Tutti costoro, per tacere di altri, la fortuna esaltò in modo da farne esempi più che mai rari. Adunque se la ragione si scontra con l’impeto, necessariamente si scontra con la fortuna. Anche se la fortuna favorisce quelli che seguono soltanto l’impulso, è normale che si opponga a coloro che conformano sé e le proprie cose alla ragione. Non fa meraviglia, dunque, se sono sfortunati coloro che vivono secondo la retta ragione e non osano minimamente allontanarsene. 3. E invero chi consuma tutto il giorno a giocare a dadi, che meraviglia c’è se una buona volta lanci il dado di Venere? o se in tanti giochi della fortuna, che sono quasi tanti quanti sono gli uomini e quante le cose che fanno, alla fine la felicità accompagni qualcuno fino alla fine della vita? Pochissimi sono gli Augusti che s’incontrano, rarissimi i Traiani, e con una sola mano potresti contare gli Antonii.138 Vi è qualcuno fra loro e fra altri, tuttavia, che potrebbe essere annoverato fra i fortunati e i felici, che la fortuna non abbia colpito, anche in modo mortale? Tanto più per prendersene gioco fino al ridicolo? Che se talora accadesse che lo stesso impeto si aggiungesse alla ragione, innumerevole è la schiera e la serie di coloro, cui l’uso della ragione e della prudenza abbia portato male, mentre a loro sarebbe andata certo magnificamente, se, lasciata stare la ragione, avessero seguito l’impeto della natura, perché lo stesso 859

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DE FORTUNA, LIBER PRIMUS, XLI

esse secutis, quod impetus ipse, eiusmodi in negocio, ad fortunam si respicias, non autem ad consilium rationis utique locum obtineret; cui consonat virgilianum illud, Una salus victis, nullam sperare salutem.

4. Ac nihilominus, si ratio in unum, fortunaque convenerit (nam convenire quandoque Livius etiam testis est cum ait: «adeo non fortuna modo, sed ratio etiam cum barbaris stabat») non id tam est rationi ascribendum, quam fortunae ipsius volubilitati eventuumque eius incertitudini. Itaque nec temeritas semper felix est, nec prudentia ubique respondet successibus. Nam et idem Livius ait: «Bella fortius, quam felicius gessissent». Atque utinam non quotidianae etiam essent vel sapientissimorum consiliariorum vanae delusiones atque inanes exitus. 5. Verum his in hanc sententiam explicatis, ac pluribus fortasse quam necesse esset, ad ea quae reliqua sunt nostra convertatur oratio. Si unum hoc tamen iis ipsis, quae dicta sunt, adiunxerimus, rationem quidem rectam quamque prudentes qui habentur sequi solent, si fortunam, id est impetum naturae illum vimque introrsus animadverterimus, habendam nullo esse modo rationem, quippe quae non modo non dirigat (quod recte rationis proprium est officium), verum etiam a fine ipso detorqueat cogatque de via recedere, contra vero illorum impetum qui apti nati sunt ad felicitatem pro ratione habendam esse; cum ratio, ut dictum est, ipsa dux sit quaedam ad ea, quae appetiscimus potienda, ni illud forte opstiterit, quod rectam esse rationem hominis tantum volumus, non naturae cui nulla insit voluntas, nulla prorsus consultatio aut electio.

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impeto, nella medesima azione, se ti rivolgessi alla fortuna, non al consiglio, otterrebbe comunque il posto della ragione; a ciò si confà il famoso verso virgiliano: L’unica salvezza per i vinti consiste nel non avere speranza alcuna di salvezza.139

4. E nondimeno, se la ragione si accorderà con la fortuna (infatti che si accordi talora ne è testimone Livio quando dice: «Non solo la fortuna, ma anche la ragione stava dalla parte dei barbari»)140 non va attribuito tanto alla ragione quanto alla volubilità della stessa fortuna e alla incertezza dei suoi eventi. Ché la temerità non è sempre fortunata, né la prudenza in tutti i casi corrisponde ai successi. Infatti perfino Livio dice «[che] avevano condotto la guerra più con forza che con fortuna».141 E volesse il cielo che non fossero quotidiane le vane delusioni e gli inefficaci esiti di sapientissimi consiglieri. 5. Ma, spiegate le cose in tal senso, e più a lungo del necessario, il nostro discorso si rivolga agli argomenti che rimangono. Senonché questa sola cosa aggiungeremo a quello che è stato detto, che la retta ragione, quella che sogliono seguire coloro che sono considerati prudenti, se ci accorgeremo che c’è dentro la fortuna, cioè quell’impeto violento della natura, non va considerata in nessun modo ragione, per il fatto che non solo non dirige (che sarebbe la funzione propria della retta ragione), ma perfino distorce dal fine e costringe a deviare; dev’essere considerato invece quasi una ragione l’impeto di coloro che sono nati per la felicità, essendovi atti. Poiché la ragione, come si è detto, è guida a ciò che desideriamo possedere, a meno che non si opponga per caso quella che intendiamo essere la retta ragione e che è soltanto dell’uomo, non della natura nella quale non c’è volontà, non c’è riflessione o scelta alcuna.

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IOANNIS IOVIANI PONTANI DE FORTUNA LIBER SECUNDUS

I FORTUNATOS DICI A FORTUNA NON AB HONESTIS ACTIONIBUS. 1. Quoniam autem de virtute honestisque ab actionibus, quae in manu nostra sunt, fortunatus nemo dicitur, verum ab agendis fortibus fortes ipsi quidem, ab iustis iusti, atque ab liberalibus liberales dicimur, nullo autem pacto fortunati, nec Caesar profecto fortunam sibi peperisse de tot tantisque exanclatis periculis, nec Iulianus Augustus, ne de externis loquamur ducibus, verum fortitudinis ac magnanimitatis commendationem sibi ac gloriam comparasse dicentur, nec aut Publius Scipio, aut ante eum M. Marcellus, aut post Domitius Corbulo, aut Iulius Agricola, aut innumerabiles alii, quos minime quidem ut fortunatos laudamus, sed admiramur potius res gestas, praeclaraque eorum facinora, quod virtutis est non exiguum aut indignum precium, quippe cum disciplina militaris, labores, erumnae, vigiliae, ratio ipsa rerum administrandarum magistra gloriam iis suam ac decus peperit. 2. Siquidem ratio virtutis et comes et dux est, minime vero fortunae, neque fortunatio rationis rectae atque agentium secundum rationem opus est ac ministerium, sed virtus ipsa, sed virtutis decus illud sempiternum, per quod tot etiam seculis et clari habentur, et in hominum versantur ore ac mentibus, et versabuntur, quandiu graeca extabit latinaque oratio. Epaminundas, Leonidas, Pausanias, Cincinnatus, Camillus,

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GIOVANNI GIOVIANO PONTANO LIBRO SECONDO DELLA FORTUNA

I I FORTUNATI NON PRENDONO IL NOME DALL’ONESTÀ DELLE LORO AZIONI. 1. Poiché poi a nessuno la denominazione di fortunato deriva dalla virtù e dalle azioni oneste, le quali dipendono da noi, ma per le azioni coraggiose che facciamo siamo chiamati coraggiosi, per le opere giuste compiute giusti, per la liberalità esercitata liberali, non fortunati, proprio no, certamente nemmeno di Cesare si potrà dire che dalle imprese così grandi affrontate si sia procacciato il nome di fortunato, e nemmeno di Giuliano Augusto142 lo si potrà dire, per non parlare dei condottieri non romani, ma si dirà che si sono meritata la lode e la gloria per via della fortezza e della magnanimità, né di Publio Scipione143 o di Marco Marcello,144 che fu prima di lui, o di Domizio Corbulone,145 che fu dopo di lui, o di Giulio Agricola,146 o d’innumerevoli altri, che non lodiamo affatto come fortunati, ma di cui piuttosto ammiriamo le gesta e le illustri imprese; che non è piccolo o inadeguato riconoscimento della virtù, poiché la loro disciplina militare, le fatiche, le pene, le veglie, l’intelligenza magistrale nel condurre le operazioni hanno procacciato loro la gloria e l’onore. 2. È vero, infatti, che la ragione è compagna e guida della virtù, non certo della fortuna, né è l’opera della fortuna147 ad essere ausilio e supporto della retta ragione e di chi agisce secondo ragione, ma quel valore eterno della virtù per il quale perfino per tanti secoli rimaniamo famosi e viviamo e vivremo sulla bocca e nella mente degli uomini, finché rimarranno salde la lingua greca e latina. Ad Epaminonda, a Leonida, 863

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, II

Publicola et schola illa maxime gloriosa veterum tum Graecorum, tum Romanorum, quibusque aliis fortuna parum propitia, virtus autem ubique familiaris ab ipsisque praeter coetera omnia et honorata fuit et culta. Quae res ut manifestior appareat, placuit genera fortunatorum hominum distinctius huberiusque, quam non multo ante fecimus, explicare.

II DE VARIIS GENERIBUS FORTUNATORUM. 1. Est itaque genus unum fortunatorum, quibus quidem contigit eosdem ipsos ea sibi comparasse, per quae fortunati habeantur. Est et eorum aliud, quos haereditas maiorumque patrimonia ac census abunde multum fortunavit. Est et illorum tertium quibus nec cupientibus, nec operam laborem ve suum in id impartientibus, locupletibus tamen esse contigit; ut quibus secundum quietem monstratus est thesaurus sub terram defossus, quem statim expergefacti e somno, reclusum inveniunt. Quartum quoque illorum his accedit genus, quos opulenti ac primates viri, cum orbi sint liberis, eos sibi adoptant, aut arrogant. Alii item quibus aut populorum principes, aut magni reges plurima conferunt externis e bonis. 2. Est et alius fortunandi modus, et ipse quidem multiplex, quando alios fortunatos res fecit uxoria, alios eximia forma atque e libidine qui est amor, alios a parentibus expositos fortuna ipsa sibi illos supposuit, aliusque atque alius modus alios ditavit atque alios. His autem illi annumerantur omnibus, quos non collata bona, quo fortunatos vocaremus, praestitere, verum malorum ipsorum repulsio atque evasio; ut qui cum maximus circum opsideantur periculis, nec evadere illa se posse confidant, fortuna tamen ipsa repente atque ex insperato illos liberat; ut qui capitis condemnati maneque ducendi ad supplicium, noctu exorto inter cives tumultu, caeso inter rixantes praetore effractoque a tumultuantibus carcere, liberantur. His accedunt, quos fortuna ab ignoratis ac nullo

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, II

a Pausania,148 a Cincinnato, a Camillo, a Publicola149 e a quella schiera gloriosissima di Greci e di Romani fu ben poco propizia la fortuna, ma la virtù sempre amica, e da loro fu onorata e coltivata prima di ogni altra cosa. E perché appaia ciò più chiaramente, ho voluto enumerare con maggior precisione e ampiezza di quanto non abbia fatto prima i generi di uomini fortunati.

II LE VARIE CATEGORIE DI UOMINI FORTUNATI. 1. Vi è dunque una categoria di uomini fortunati, ai quali accade di essersi procacciati da se stessi i beni per i quali sono considerati tali. Vi è anche un’altra categoria, quella di coloro che l’eredità, il patrimonio e il censo degli antenati ha molto abbondantemente favoriti. Vi è una terza categoria, quella di coloro ai quali capita tuttavia, né desiderandolo, né impegnando fatica e lavoro proprio a quello scopo, di essere ricchi, come quelli ai quali si è rivelato un tesoro nascosto sotto terra durante il riposo, e non appena si svegliano dal sonno lo scoprono. A quella di costoro si aggiunge una quarta categoria, quella di coloro che vengono adottati e presi con sé da uomini ricchi e di prim’ordine che non hanno figli. Così si dica di altri, i quali ricevono gran quantità di beni esterni da parte di signori, di repubbliche o di grandi re. 2. Vi è un altro modo di far fortuna, un modo molteplice, poiché alcuni son divenuti fortunati mediante un matrimonio, altri son divenuti fortunati per la loro straordinaria bellezza, o per quell’amore che deriva dalla libidine, altri, esposti dai genitori, sono stati presi direttamente sotto la protezione della fortuna, e alcuni in un modo, altri in un altro, altri in un altro modo ancora la fortuna li ha fatti arricchire. A tutti costoro si aggiunge il numero di quelli, che non i beni loro conferiti hanno fatto sì che li chiamassimo fortunati, ma il fatto stesso che siano stati respinti ed evitati i mali. Come per esempio avviene di coloro i quali, assediati tutt’intorno dai pericoli e non confidando di poterli scansare, sono liberati d’un tratto, insperatamente, dalla fortuna. Altro esempio è quello di coloro che, condannati a morte e in attesa di essere condotti al supplizio, sollevatasi di notte una rivolta fra i cittadini, ucciso il pretore durante la rissa e aperto il carcere dai rivoltosi, tornano liberi. A costoro si aggiun865

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, III

modo praevisis periculis insperata ipsa eximit, ut qui invitati ad nuptias, die stata cum hospite, tranandus cum esset fluvius, illo repente tumefacto de nimiis ac repentinis imbribus, a transitu prohibentur, interimque dum ipsi cis flumen a torrente prohibiti morantur, aedes ubi coenaturi erant, corruunt de fundamentorum vitio aut contignationis. 3. Admirabile vero fortunationis genus tempestate nostra visum est in Matthia Corvino, de quo libro superiore diximus. Is adolescens admodum non parum temporis compeditus atque in carcere male habitus, dum securim timet iramque Hungariae ac Pannoniarum principum, e squalore illo ac pedore teterrimi carceris ex insperato in sellam repente regiam tractus est. Nuper et in Ludovico aurelianensi duce, qui pugnans adversus regem Galliae, captus cum esset capitisque damnatus patrum ac iudicum omnium sententiis, in carcere custodiretur ad supplicium, rege ab Carolo Octavo adversus omnium sententiam atque opinionem absolvitur, atque ab ipso rege reserato carcere equo acceptus in regiam deducitur, nec multos post annos, Carolo ipso absque liberis decedente, Galliarum rex creatur, uno patrum ac procerum consensu. Atque haud multo post, Ludovico Mediolanensium duce de metu adventus eius in Italiam consternato, clanculumque ab illo arrepta fuga, Insubrium ei omne deditur cum transpadanis quique cis Padum sunt populis. Haec igitur fortunatorum sunt fere genera, quae tamen dividi in longe plures etiam possunt species idque cuivis in promptu est. Nobis satis fuerit ex his admonuisse reliquorum.

III QUI PROPRIE DICENDI SINT FORTUNATI. 1. Exercet igitur his in cunctis ius suum fortuna. Quo fit ut, quibus quomodocunque ea aspiraverit, ii fortunati habeantur. Illi tamen et proprie, et de fortunae ipsius libidine deque naturae impetu cognomentum ipsum fortunatorum ducunt. Quibus de eius nutu ac favore contigit comparare sibi sua quoque opera atque adnisu, externis e bonis sine

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, III

gono quelli che la stessa fortuna, inattesa, sottrae a pericoli ignorati e assolutamente imprevisti, come accade a coloro che, invitati alle nozze, passata la giornata con l’ospite, dovendosi attraversare un fiume ed essendosi questo gonfiato improvvisamente per le piogge eccessive e improvvise, sono impediti dall’impossibilità di attraversarlo. E intanto, mentre essi indugiano al di qua del fiume impetuoso, l’edificio dove avrebbero dovuto cenare precipita per difetto delle fondamenta o dell’impalcatura. 3. Ma un genere straordinario di fortuna ai nostri tempi si è visto in Mattia Corvino, di cui abbiamo detto nel libro precedente.150 Egli, ancora molto giovane, non poco tempo tenuto incatenato e in carcere, mentre viveva sotto la paura della scure dei principi di Ungheria e di Pannonia, da quella misera condizione e dal sudiciume151 di un carcere terribile insperatamente fu messo all’improvviso sul trono. Lo si è visto recentemente nel duca Luigi di Orléans,152 il quale, catturato e condannato a morte in seguito al giudizio della corte e dei giudici durante la guerra contro il re di Francia, mentre era custodito in carcere in attesa del supplizio, viene assolto contro il pensiero e l’opinione di tutti dal re Carlo VIII e, aperto il carcere dallo stesso Re, viene condotto a cavallo nella reggia, e dopo non molti anni, morto lo stesso Carlo senza figli, viene eletto re di Francia col consenso unanime della corte e dei nobili. E non molto dopo, spaventato Ludovico duca di Milano153 della sua venuta in Italia, e presa la fuga di nascosto, tutta la regione degli Insubri si arrende a lui insieme ai popoli transpadani e a quelli che abitano al di qua del Po. Queste dunque sono le categorie di uomini fortunati, che tuttavia si possono dividere in ben più numerose specie, e ognuno può farlo. A noi basterà ricordare che ce ne sono anche altre.

III CHI PROPRIAMENTE VA DETTO FORTUNATO. 1. La fortuna dunque esercita il suo dominio su costoro. Perciò avviene che sono tenuti per fortunati coloro che essa ha investito del suo soffio, in qualunque modo lo abbia fatto. Ma ottengono il soprannome di fortunati appropriatamente e per capriccio della fortuna e per impeto della natura coloro cui capita di procacciarsi, per volontà e favore di lei, ed anche per opera e volontà propria, senza la guida della ragione 867

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, IV

rationis ductu prudentiaeque adminiculo, impetum naturae ipsius sequendo, ea quae et desiderabilia ipsa quidem sint atque ab iisdem ipsis concupita; nam nobilitas, patrimonia, avitae divitiae, etsi externis sunt e bonis meritoque appetuntur, tamen ex lege consuetudineque civili in nostram veniunt sortem, aut nulla, aut vix exigua nostra adhibita opera. 2. Itaque etsi successio ipsa domesticae nobilitatis avitarumque facultatum fortunatos efficit, tamen principe illi in loco constituendi sunt proprieque fortunati appellandi, quibus, ut dictum est, contigit impetus ipsius tantum ductu, neglecta rationis ac prudentiae lege, ea consequi quae in sua ipsorum non essent potestate posita quaeque et appetenda ipsa sint, ac pro iisdem adipiscendis et conferenda opera et labor etiam impendendus. Nam pericula qui evadunt difficillima et maxima, licet fortunati et dicantur et habeantur, tamen bona per se ipsa appetuntur, malum autem per se a nullo, qui sanae mentis sit, appetitur. Laetamur tamen repulisse illud ac defugisse, quod quae bona sunt, ea nobis malum ipsum eripiat, a quo quis est qui non abhorreat? contra qui bonum non appetiscat a naturaque ad illud trahantur?

IV QUAE SINT HOMINIS BONA, ATQUE IN EIUS IURISDITIONE POSITA. 1. Utque semel terminemus nostra quae sint bona nostraque in potestate posita, quo terminatione ex ipsa intelligamus externa atque fortuita bona, minime nostra esse aut hominis potestati subiecta, sic quidem censemus nostra esse bona, quaecunque animi tantum sunt quaeque in nostra sunt potestate collocata; eae autem actiones ipsae sunt hominum, quae a voluntate atque electione secundum rectam rationem proficiscuntur, cum coetera quidem fortunae dicantur. Nam de bonis corporis hac in dissertione non multa est habenda aut ratio aut cura.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, IV

e l’ausilio della prudenza, seguendo l’impeto della stessa natura, quelli fra i beni esterni che sono desiderabili e da loro stessi desiderati. Infatti anche la nobiltà, i patrimoni, le ricchezze avite appartengono ai beni esterni e a ragione sono desiderate; e tuttavia ci pervengono in forza della legge e della consuetudine civile, senza che ci siamo adoperati per nulla, o essendoci adoperati appena. 2. Pertanto, anche se è l’eredità della nobile casata e delle ricchezze avite a farli fortunati, essi devono pur collocarsi in una posizione primaria, e chiamarsi appropriatamente fortunati, perché è toccato loro, con la sola guida dell’impeto, a dispetto di ogni legge di prudenza e di ragione, conseguire quelle cose che non sono di loro dominio e che sono oggetto di desiderio, e che, per conseguirle, si deve dare la propria opera e spendere la propria fatica. Sebbene infatti coloro che evitano pericoli difficilissimi e grandissimi sono detti e ritenuti fortunati, tuttavia sono i beni ad essere desiderati per se stessi, mentre il male non è desiderato per sé da nessuno che sia sano di mente. Ci allietiamo tuttavia di riuscire a respingerlo e fuggirlo, poiché sono i beni che ci tolgono il male, dal quale chi è che non aborre? Viceversa chi non desidera il bene, e non vi viene sospinto dalla natura?

IV QUALI SONO I BENI DELL’UOMO, POSTI SOTTO IL SUO DOMINIO. 1. E per definire una volta per tutte quali siano i beni propriamente nostri, quelli che sono di nostro dominio, in modo che dalla stessa definizione capiamo che i beni esterni e fortuiti non sono nostri affatto o soggetti al dominio dell’uomo, dobbiamo pensare in questi termini, che sono beni nostri quelli dell’animo e quelli in nostro dominio; e sono atti propri dell’uomo quelli che muovono dalla volontà e dalla scelta in conformità della retta ragione, mentre gli altri beni e gli altri atti si attribuiscono alla fortuna. Perciò in questa trattazione non va rivolta molta attenzione o molto interesse ai beni del corpo.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, VI

V FORTUNAE IURISDITIONEM NULLAM ESSE IN BONIS ANIMI, SI RATIONI PAREATUR. 1. In animi igitur bonis, dum rationi obsequamur rectae, dum sensus illi moderandos subiiciamus, dum ad agendum et consulto et cum electione accedamus, interque agendum quam prudentia viam nobis ostenderit, eam ducem sequamur ipsis, inquam, in animi bonis, ut quae nostra sint propria, nihil omnino iuris fortunae relinquitur, nihil prorsus auctoritatis aut loci; siquidem ubi plurimum auctoritatis habet ratio, ibi minimum iuris habet fortuna, quod dictum iam transit in proverbium. Quae igitur iurisditio fortunae sit, et in quibus quae item rationis rectae, iam liquet. Quod si sensibus voluntatique parum temperatae atque impotenti dominandos nos permiserimus, nimirum fortuna nos nostra de possessione deiiciet deturbabitque, ac tyrannidem in iis, quae hominis iam erant, exercebit, nostra sibi culpa vendicatis.

VI FELICITATEM CIVILEM ABSQUE BONIS EXTERNIS PERFECTAM NON ESSE. 1. Quoniam autem vetus et Graecorum et Latinorum philosophia duplicem constituit felicitatem, et quae civilis a nostris dicitur graeco nomine est politica, et quae a contemplando nomen duxit, (nam de felicitate, quam Christiani constituunt, non eadem omnino habenda est ratio, neque de ea nos hac in disputatione dicendum suscepimus), ita quidem sentiendum est, civilem felicitatem sine bonis externis nequaquam posse perfici. Nam si Fabricius, si Publicola Valerius, si alii non pauci rem familiarem vel admodum exilem habuere adeoque angustam, ut neque liberalitate neque magnificentia illustrare eam possent, tamen et nobiles nati sunt et in urbe clarissima educati, et summis etiam functi magistratibus, quae quidem inter externa numerantur bona suntque fortunae ipsi subiecta. Quo fit uti civilis felicitas, quo perfectior sit magisque illustris appareat, bonae quoque fortunae praesidiis indigeat. An non in plebeiorum etiam hominum versatur ore imperatores atque exercituum

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, VI

V SUI BENI DELL’ANIMO NON C’È GIURISDIZIONE DA PARTE DELLA FORTUNA, SE ESSI OBBEDISCONO ALLA RAGIONE. 1. Nei beni dell’animo, dunque, purché obbediamo alla giusta ragione, purché lasciamo che i sensi ne siano guidati, purché procediamo all’azione con riflessione e scelta, e nell’agire seguiamo come guida la via che la prudenza ci mostra, nei beni dell’animo – dico – poiché quelli sono propriamente nostri, alla fortuna non rimane assolutamente alcun potere, alcuna autorità, alcuno spazio. Poiché, dove la ragione ha moltissima autorità, lì ha un potere minimo la fortuna, pensiero divenuto ormai proverbiale.154 Quale sia il dominio della fortuna, e su quali cose, e quale sia quello della retta ragione, ormai è chiaro. Che se affideremo ai sensi e ad una volontà troppo poco moderata e anzi sfrenata il dominio di noi stessi, non c’è da meravigliarsi se la fortuna ci ricaccerà e ci sbatterà fuori dal nostro territorio, ed eserciterà la tirannide su quello che prima era dell’uomo, rivendicandolo a sé per nostra colpa.

VI LA FELICITÀ CIVILE SENZA BENI ESTERNI NON È PERFETTA. 1. Poiché l’antica filosofia dei Greci e dei Latini ha definito una duplice felicità, quella che dai nostri è chiamata civile e con nome greco si chiama «politica»,155 e quella che ha derivato il nome dalla contemplazione (infatti della felicità definita dai Cristiani non va tenuta la medesima considerazione, né di quella ci siamo assunto il compito di parlare), bisogna pensare in questi termini, che la felicità civile senza i beni esterni non può essere perfetta. Infatti se Fabrizio,156 se Valerio Publicola,157 se non pochi altri ebbero una condizione familiare molto esile e talmente ristretta da non poterla illustrare né con la liberalità, né con la magnificenza, tuttavia nacquero nobili e furono educati in una città famosissima, tennero inoltre le più alte cariche di governo che devono annoverarsi fra i beni esterni e soggetti anch’essi alla fortuna. Ne deriva che la felicità civile, quanto più è perfetta, tanto più appare illustre ed ha bisogno dei sostegni della fortuna. Non corre forse sulla bocca del popolo che sia 871

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, VIII

duces fortunatos esse oportere? Proindeque bona fortuna et illustrat et perficit civilem felicitatem, aut illustrari absolvique ea nequit absque fortunae et opere et munere.

VII BONA EXTERNA PARUM CONFERRE AD FELICITATEM CONTEMPLATRICEM. 1. Eadem tamen ipsa parum omnino confert ad contemplatricem, siqui sunt qui paucis contenti ac modicis, rerum naturae causis cognoscendis dediti divinisque contemplandis tantum intenti, coeteris vitae muneribus humanisque negociis omnino spretis, vitam in ocio maxime beato aut egerunt olim, aut nunc agunt, a quibus quidem ipsis cum res hominum cunctae, tum vel in primis fortuna habita est contemptui.

VIII FORTUNAM ET PRUDENTIA, INTERDUM CONVENIRE. 1. Quanquam autem et dictum et abunde probatum est, prudentiam rationemque fortunae prorsus adversari, nihilominus hac in parte hocque in ipso munere videntur sibi quodammodo subblandiri. Nanque ut prudentia ipsa rationis rectae praesidio et dirigit et ducit ad finem incoepta hominum negociaque suscepta, sic idem illud molitur ac praestat bona fortuna impetusque ipse naturalis. Illud tamen interest, quod prudentia actiones dirigit et consilio susceptas et ratione temperatas, fortuna vero secus, quippe quas ab impetu susceptas, ductu suo et perficit et gubernat.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, VIII

necessario un generale e a un capo militare aver fortuna? Perciò la buona fortuna illumina e perfeziona la felicità civile, oppure questa non può essere illustrata e realizzata senza l’aiuto e il sostegno della fortuna.

VII I BENI ESTERNI SERVONO BEN POCO ALLA FELICITÀ CONTEMPLATIVA. 1. La stessa fortuna ben poco apporto dà alla contemplazione, se si pensa a coloro che, contenti di poche cose modeste, dediti alla conoscenza della metafisica, e intenti soltanto alla contemplazione del divino, disprezzando assolutamente tutti gli altri doni della vita e le faccende umane, hanno trascorso un tempo o trascorrono ora la vita in un ozio tutto beato; da parte loro non solo tutte le cose umane sono oggetto di spregio, ma in primo luogo la fortuna.

VIII TALORA LA FORTUNA E LA PRUDENZA VANNO D’ACCORDO. 1. Sebbene sia stato detto e abbondantemente provato che la prudenza e la ragione sono diametralmente opposte alla fortuna, nondimeno per questo verso e in questa stessa loro funzione sembra che in qualche modo si accordino fra loro. E infatti, come la prudenza fa da presidio alla retta ragione e indirizza e guida le imprese umane e gli impegni assunti ad un fine, così la buona fortuna e lo stesso impeto naturale si danno a realizzare il medesimo obiettivo. Questa è tuttavia la differenza, che la prudenza indirizza le azioni intraprese con la riflessione e regolate dalla ragione, mentre la fortuna porta a termine e governa quelle intraprese dall’impeto.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, X

IX BONAM FORTUNAM DUPLICEM ESSE. 1. Ipsa quoque item bona fortuna duplici modo partienda est, et in eam quae continuum quendam quasi tenorem in conferendis servat beneficiis, quadam veluti constantia adhibita in ferendis suffragiis, et in illam quae, etsi bona ipsa est, parum tamen suo perseverat in tenore, in quo nec frequens est, neque, ut ita dixerim, quotidiana. Utraque autem bona et favorabilis, continuatione tamen differunt, confertque utraque felicitati, magnum etiam in modum, perseverans tamen illa et maxime frequens, tum constantius, tum etiam huberius, ac saepius perinde ut foetus sui studiosa mater, quae cum plenioribus sit huberibus, et hubera illi saepius admovet, subinde etiam succinens et lac instillat indulgentius. Itaque illa ipsa bona fortuna quae suffragatur quidem, et amice favet, rarius tamen, multoque minus saepe, eventitia omnino et videtur et est, et quae praestat ex accidentia quoque praestat, utpote duabus, sive causis, sive negociis ac rebus in id repente convenientibus, praeterque opinionem atque consilium. Quod secus fortasse in altera illa magis studiosa, et in suffragiis continua iudicari merito suo potest.

X AN AD PERFICIENDAM FELICITATEM, DIVINA SIT OPUS BENEFICENTIA. 1. Et vero, quoniam divinum quiddam potius quam humanum perfecta videtur esse felicitas, quae ut parte ex omni consumetur, dei videtur beneficio opus esse ac gratia, non absurdum fortasse nec praeter rei ac loci naturam videatur, si in hac ipsa re diligentius perquirenda aliquantum immorabimur, nec ut philosophiae solum studiosi, verum etiam ut christiani, quorum propria est pietas divinaeque in nos beneficentiae gratitudo. Nam, cum et ratio et prudentia et intellectus, ipsa etiam scientia fortunae tantopere intersint, quantum omnes utique intelligunt, nec fortuna prorsus rationalis sit natura, sed cuiusdam potius

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, X

IX LA BUONA FORTUNA È DUPLICE. 1. La stessa buona fortuna va distinta in due specie, quella che serba quasi un tenore continuo nel conferire benefici, osservando una certa qual costanza nell’offrire aiuti, e quella che, anche se è buona, non persevera tuttavia nel medesimo tenore, nel quale non ha una frequenza regolare, né, per così dire, quotidiana. L’una e l’altra però, buone e favorevoli, differiscono tuttavia per continuità, ed entrambe contribuiscono alla felicità, anche in modo notevole; nondimeno l’una, quella perseverante e di gran lunga frequente, si comporta ora con maggiore costanza, ora con maggiore abbondanza e molto spesso come una madre amorosa verso la sua creatura, che quando ha le poppe più piene gliele avvicina più spesso, cantandogli pure qualcosa e gli fa sorbire il latte con maggiore generosità. E così quella buona fortuna che aiuta e favorisce amichevolmente, ma piuttosto raramente e molto meno spesso, sembra «eventizia», e lo è, e quello che offre, lo offre accidentalmente, come quando due cause o due azioni e circostanze convergono nello stesso punto, al di là di ogni immaginazione o proposito. Una considerazione diversa, forse, si può fare giustamente a proposito di quell’altra fortuna più premurosa e più continua nel dare il suo aiuto.

X SE A CONSEGUIRE LA FELICITÀ SIA NECESSARIA LA MISERICORDIA DIVINA. 1. E invero la felicità perfetta, poiché sembra qualcosa di divino piuttosto che di umano, essendo in ogni suo aspetto compiuta, pare che abbia bisogno del favore e della grazia divina. Talché non parrebbe forse estraneo all’argomento e fuori luogo, se ora ci soffermassimo a fare qualche indagine con particolare diligenza intorno alla questione, e non soltanto come studiosi di fi losofia, ma anche come cristiani, che hanno come prerogativa la pietà e la gratitudine per la misericordia divina verso di noi. Ed essendo la ragione, la prudenza e l’intelletto e finanche la scienza partecipi della fortuna nella misura che tutti ben sanno, e non avendo la fortuna assolutamente natura razionale, in quanto consistente 875

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naturae impetus, nec deus iniquus sit ipse dispensator rector ve consideratus aut parum iustus, nec fluitare res ipsas et hominum et terrarum et coeli per imprudentiam aut incuriam aut negligentiam patiatur, videntur haec nec contingere posse, nec per impetum naturae praestari et perfici divino sine numine ac concessu; cum, ut dictum est, absoluta felicitas divina potius res appareat quam humana, nec coelum ipsum, quo omnia continentur, evenienter fluitet nulloque teneatur nec ordine nec lege, dei autem providentiam rebus ipsis initio affuisse, illisque et nunc et ubique adesse atque affuturam, et coeli motus conversionesque tam ordinate compositae, et religio ipa mentibus hominum infixa cultusque coelitum a natura profectus manifestissime declarant. Neque enim natura in illum ab ipsa moveremur, a quo nulla in nos prorsus aut exstent, aut sperentur beneficia. Quo fit ut cultus ipse noster tantarumque religio opservatrix cerimoniarum nil omnino sit aliud, quam gratitudo quaedam divinorum in homines beneficiorum ac munerum. 2. Neque enim, ut Cicero ait, cum mundus hic omnis deo pareat et maria terraeque obediant, aut parerent ei, aut obedirent, nisi illorum esset ei cura cunctaque ipse pariter et moveret, et moderaretur. Nam, quod quae sunt et moventur et vivunt a deo quidem est, et quod ordine suo moveantur et seriem movendi teneant, a quo nam nisi existit a deo, ut a prima et maxima causa, eaque origine et auctore omnium, et quae sunt in natura, et ipsius etiam naturae rerumque cunctarum, quae a natura fiunt, et quarum ratio, cur fiant, ad illam ipsam refertur, qua e re dicta sunt naturalia? Cumque motus causa sit omnium quae gignuntur, et occidunt, undenam obsecro motus est ipse, nisi a deo, qui prima et origo est, et causa?

XI AN FORTUNA SIT AD DEUM REFERENDA. 1. Igitur cum fortuna natura quaedam sit, eaque absque ratione, et quia sine ratione, iccirco impetus est, qui quidem nihil est aliud quam irrationalis quidam motus, videtur fortuna ipsa ad deum, ut ad princi-

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XI

piuttosto nell’impeto di una certa natura, non potendo Dio stesso essere considerato un dispensatore iniquo, o ben poco giusto, che permetta alle cose degli uomini, della terra e del cielo di scorrere fra l’imprudenza e l’incuria o la negligenza, non pare che queste cose possano accadere per impulso naturale, né verificarsi senza la volontà e l’autorizzazione divina. Infatti, come si è detto, l’assoluta felicità sembra cosa divina piuttosto che umana, né il cielo stesso, che contiene ogni cosa, scorre casualmente senza esser tenuto da alcun ordine né legge, oltre al fatto che la provvidenza divina ha assistito all’inizio il mondo e sempre lo assiste e lo assisterà, come il moto del cielo e i giri così ordinatamente disposti, la religione impressa nella mente degli uomini e il culto della divinità fondato su una disposizione naturale chiarissimamente dimostrano. Né dalla stessa natura saremmo spinti verso colui, dal quale o non ci fossero venuti benefici, o non sperassimo di riceverne. Di qui deriva che il nostro stesso culto e la religione osservatrice di tante cerimonie non sia altro che una gratitudine espressa per i doni e i benefici divini verso gli uomini. 2. Né infatti, come dice Cicerone,158 poiché tutto questo mondo è sottomesso a Dio, e i mari e le terre gli obbediscono, o sarebbero a lui sottomessi o gli obbedirebbero, se egli non avesse cura di loro, e se non movesse e governasse equamente tutte le cose. Perché è opera di Dio che tutte le cose che sono si muovano e vivano; da chi deriva il fatto che si muovano secondo un loro ordine e conservino la serie dei movimenti, se non da Dio, come dalla prima e più alta causa, origine e autrice di tutto, e delle cose che sono in natura, e della natura stessa e di tutte le cose che provengono dalla natura, e la cui ragione, quella per la quale esistono, ad essa stessa si riferisce, onde sono dette naturali? E poiché il moto è la causa di tutto quello che nasce e tramonta, da dove, di grazia, deriva il moto se non da Dio, che è la prima causa e l’origine di tutto?

XI SE LA FORTUNA VADA RICONDOTTA A DIO. 1. Adunque, poiché la fortuna è natura, e natura priva di ragione, e per il fatto che è senza ragione consiste in un impulso, che altro non è se non un moto irrazionale, sembra che la fortuna debba ricondursi a 877

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pem rerum omnium causam referenda. Sed videndum est, ne cum hoc fecerimus, deum ipsum iniustitiae parumque honestae dispensationis condemnemus, cum fortuna ipsa et pravis adesse saepenumero, et bonis nocere soleat. Quod ut evitemus (esset enim hoc ipsum de deo sentire, res supremum in modum nefaria) ita tenendum ac statuendum ducimus, nihil in deo eiusque voluntate ac lege diversum inesse, uniusque prorsus formae voluntatem esse eius, non dissentire ipsum sibi, non vacillare, non in diversum rapi, eundemque semper esse eademque ubique velle. Itaque quod uniforme est, quod idem quodque nullo modo variat labitur ve in diversum, deo id ipsi, ut origini, ut principi causae omnino tribuendum. Quod vero variat diversoque agitur modo, id minime a deo proficiscitur, verum a diversitate rerum ipsarum, quae et moveantur et informentur, quae ve secundo loco et ipsae quoque moveant et informent. Etenim, ut supra est dictum, cum de providentia ageremus ac fato, quas creasset deus animas, iis ipse legem praescripsit, scivitque quid et quomodo essent administraturae, exhibuitque materiam in qua versarentur. Sive autem animis quaeque suis praeditae sint stellae, sive et stellis et corporibus coelestibus singulis suae insint a deo adiunctae intellegentiae, hac in parte minime putamus differre, quando lex omnibus data est sua. Etenim, crassiore ut agamus Minerva, ignis proprium est calfacere; hoc autem igni tribuitur motore ab eo, qui coelum agitat, ipsi autem motori, de dei id voluntate ac lege et permissum est, et attributum. 2. Itaque calor ipse variat, neque unus in iis est, quae ab eo concalescunt omnibus, manat igitur existitque diversus ac varius e calefactione effectus, pro natura rei eius, quae concalescit. Atque haec quidem varietas tantaque etiam diversitas nequaquam ad deum referenda, verum ad naturam potius calefacti, aut forsan etiam ad vim eiusdem, qui secundo movet loco instillatque igni calorem roburque calfaciendi, forsitan etiam ad utrumque. Quocirca rerum diversitas aliaque atque alia, tum rerum motoribus attribuenda, tum rebus ipsis, perinde ut res ipsae sunt diversae, qua ratione et via deus ipse, ut princeps atque uniformis causa, omni culpa vacuus est. Quid enim ad deum diversitas haec, quod idem ipse ignis lapidem in calcem excoquat, in carbonem quaercum ac cinerem?

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Dio come alla causa principale di tutte le cose. Ma bisogna stare attenti a che, facendo questo, noi diamo a Dio la colpa dell’ingiustizia e di una poco retta distribuzione di beni, giacché la fortuna spesso aiuta i cattivi, ed è solita nuocere ai buoni. Per evitare questo errore (pensar questo di Dio è cosa assolutamente nefanda), riteniamo che bisogna tener fermo e stabilire questo principio, che in Dio e nella sua volontà non vi è nulla di diverso dalla legge, e che la sua volontà ha assolutamente una sola forma e Lui non dissente mai da se stesso, non ondeggia, non viene spinto in senso diverso, ed è sempre lo stesso e vuole le stesse cose di sempre. Pertanto ciò che è uniforme, ciò che è identico, ciò che non varia in alcun modo o scorre in senso diverso, va assolutamente attribuito a Dio, come origine e causa prima, mentre ciò che varia e si muove in modo diverso non proviene assolutamente da Dio, ma dalla diversità delle cose stesse che ricevono movimento e forma, o che a loro volta muovendosi informano. E infatti, come sopra si è detto quando si trattava della provvidenza o del fato, a quelle anime che ha creato, Dio ha prescritto una legge, e ha ordinato che cosa e come dovessero governare e ha fornito la materia su cui dovessero esercitarsi. Sia che le stelle fossero ciascuna provvista di una propria anima, sia che a ciascuna delle stelle e dei corpi celesti sia stata aggiunta da Dio un’intelligenza, non pensiamo che in questo ci sia differenza, perché a tutte le cose è stata data una propria legge. E infatti, per procedere con un ragionamento meno sottile,159 è proprio del fuoco riscaldare, ma questa prerogativa gli viene attribuita da quel motore che fa muovere il cielo, ma a quello stesso motore ciò è stato concesso e assegnato dalla volontà di Dio. 2. D’altronde lo stesso calore varia, né è sempre lo stesso quello che è nelle cose che si riscaldano per opera sua, ed è dunque diverso e vario l’effetto che proviene dal riscaldamento, per la diversa natura della cosa che si riscalda. E questa varietà, insieme a tanta diversità, non si possono ricondurre per nulla a Dio, ma piuttosto alla natura della cosa riscaldata o forse anche alla forza della causa che agisce in seconda istanza, e infonde col fuoco il calore e la forza di riscaldare, forse anche ad entrambe. Perciò la continua diversità delle cose va attribuita ora ai motori delle cose, ora alle cose stesse, per il fatto che le cose sono diverse. Per questa ragione Dio, come causa principale e uniforme è privo di ogni colpa. Che ha a che fare con Dio questa diversità, giacché lo stesso fuoco cuoce la pietra fino a farla diventare calce, cuoce la quercia e la fa diventare car879

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XII

liquefaciat plumbum, cogat lutum atque opstringat in tegulam? Quae quidem diversitas pro natura humorum corporeaeque constitutionis in humanis quoque provenit ingeniis, ut alii acuti sint, alii contra optusi, celeres alii ac solertes ad agendum atque ad intelligendum, tardi alii atque inertes. Siquidem deus et princeps ipse est et architectus, et universalis tum lex tum causa, effectus tamen cuiusque particulares particularibus quidem causis propriisque sunt artificibus dedicati, quorum effectiones magisteriaque, naturas quoque rerum, quas illi informant, praecipue sequuntur. Nam et pecunia in manu viri liberalis posita vertetur in erogationem usumque eius atque commoditatem in quem erogabitur. At furiosus illam et furenter iactabit, et dissipabit inutiliter. Avarus vero aut in cumulum congeret, aut defodiet sub terra, quam mercator mutabit pannis aliisve mercibus, aut locabit foenori. 3. Ex his autem id efficitur, licet deus rerum sit omnium princeps atque universalis causa, quarum tamen rerum natura est auctor, eae naturae ut ipsi, perinde ac propinquiori causae assignandae sint; recteque comparatum est, ut naturalia quae dicuntur naturam ad ipsam, ut propriam ad causam magisque coniunctam referantur. Id quod usu quoque venit in re militari et bellica, ut quae militis sunt ad militem, quae tribuni ad tribunum, quae imperatoris imperatorem ad ipsum; idque non in rebus tantum maioribus administrandis, qualis est gubernatio rei publicae atque exercitus, verum etiam in longe minoribus, qualis res est panifica, siquidem panis seu probus fuerit seu vitiosus furnarium id ad artificem referri solet, nequaquam vero ad eum, qui aut frumentum trivit in area, aut in agro sevit, aut denique ad agelli dominum, qui aratorem cum bubus ad serendum conduxit frumentum. Quamobrem, ut res ipsae distinctae sunt, itemque artes atque exercitia, sic etiam causae distinguendae, et artificibus queque suis opificibusque adiudicanda.

XII FORTUNAM AD NATURAE IMPETUM REFERENDAM ESSE. 1. Igitur fortuna naturalis quidam cum sit impetus, ipsaque natura hac in parte sine ratione prorsus atque ab impetu agat solo, ad naturae impetum referenda est, tanquam ad propinquam peculiaremque ac par-

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XII

bone e cenere? Fa liquefare il piombo, fa rapprendere il fango e lo fa rassodare in una tegola?160 Questa diversità, invero, secondo la natura degli umori della costituzione corporea, coinvolge anche gli ingegni umani, in modo che alcuni sono acuti, altri invece ottusi, alcuni veloci e solerti ad agire e ad intendere, altri lenti ed inerti. Poiché Dio è somma autorità e architetto, legge e causa universale, mentre gli effetti particolari di ciascuna cosa dipendono dalle cause particolari e da fattori specifici, le cui operazioni corrispondono alla natura delle cose che ne subiscono l’influsso. Infatti anche il danaro posto nelle mani di un uomo generoso si convertirà in erogazione e in utilità e comodità di chi l’avrà ricevuto. Ma l’uomo folle lo getterà follemente e lo dissiperà inutilmente, mentre l’avaro raccoglierà in un cumulo o seppellirà sotto terra quel danaro che il mercante scambierà con i panni o con altre merci, o lo presterà ad usura. 3. Da questo deriva che, sebbene Iddio sia la principale e universale causa di tutte le cose, di esse tuttavia è autrice la natura, ed esse alla natura come alla causa più vicina vanno assegnate. Ed è stato giustamente acquisito che le cose dette naturali vadano riferite ad essa come alla causa propria e più prossima. È la stessa cosa che avviene nella vita militare e nella guerra, che ciò che riguarda un soldato vada attribuito al soldato, ciò che riguarda un tribuno al tribuno, ciò che riguarda il generale al generale, e questo non solo nell’amministrazione delle cose più importanti, qual è il governo dello stato e l’esercito, ma anche in cose di molto minore importanza quale la panificazione. Infatti, se il pane sarà buono o difettoso, lo si suole attribuire al fornaio, non a colui che ha trebbiato il frumento nell’aia, o lo ha seminato nel campo, o infine al padrone del campicello, che ha ingaggiato l’aratore con i buoi per produrre il frumento. Per la qual cosa, come sono distinte le azioni, e allo stesso modo le mansioni e gli esercizi, così anche le cause devono essere distinte e attribuite agli artefici e fattori appropriati.

XII LA FORTUNA VA RICONDOTTA AD UN IMPETO DI NATURA. 1. Essendo dunque la fortuna un impeto naturale, ed agendo la stessa natura in questo ambito senza ragione e per effetto di un impeto, essa deve essere ricondotta all’impeto naturale come alla sua causa prossima, 881

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XIII

ticularem causam, sive hic ipse impetus rebus nostris conducat, sive adversetur et noceat. Accusatur enim Ennius tanquam poeta rudior, quod nimis remoto e loco vel quaeri coeperit, vel incusare. Utinam ne in nemore Pelio securibus Caesae cecidissent abiegnae ad [terram trabes, Neve inde navis inchoandae exordium Coepisset, quae nunc nominatur Argo nomine].

Recte autem et considerate Virgilius non a caesu arborum in Pelii montis nemoribus, sed ab annavigatione tantum atque in litus appulsu. Felix, heu nimium felix, si litora tantum Nunquam Dardaniae tetigissent nostra carinae.

2. Nec temere autem, nec parum utiliter a Christianis post, ante ab deorum cultoribus, quos nostri hodie theologi gentiles vocant, institutum est, ut ab divis his haec, ab illis vero illa, ab aliis alia atque alia et supplicantes rogarent et votorum compotes gratias eis agerent, quippe quibus persuasum esset, divis singulis numen suum inesse peculiaremque potestatem.

XIII FORTUNATOS INFORTUNATOSQUE A NATURA ESSE INSTITUTOS. 1. Quas ob res, si natura quaedam irrationalis est fortuna, naturae huic ut ascribatur necesse est, utque natura ab ipsa fortunati hi, illi vero infortunati et dicantur et sint. Qua in re illud etiam necesse est usuvenire, ut hi quam illi natura ab ipsa magis minus ve instituti sint ad fortunae fructus colligendos. Quemadmodum autem quibus a natura tributum est, bene ut versus faciant aut musicos tractent modulos, hi nati prorsus atque accommodati ad illud ipsum sunt munus, sic qui ad amplectendam fortunam idonei nati et ipsi sunt atque appositi ad impetus sequendos,

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XIII

specifica e particolare, sia che quest’impeto favorisca le cose nostre, sia che le contrasti e le sfavorisca. Infatti Ennio è criticato come poeta piuttosto rozzo, per il fatto che si rifà a una causa troppo lontana quando si lamenta ed accusa: Volesse il cielo che nella selva del Pelio, dalle scuri colpiti, i tronchi di abete non fosser caduti per terra, e non avesse iniziato di lì a navigare la nave or conosciuta col nome di Argo.161

A giusta ragione Virgilio, e opportunamente, non si rifà alla caduta degli alberi nei boschi del Pelio, ma soltanto alla navigazione e all’approdo sul lito. Felice, oh troppo felice, sarei se soltanto i liti nostri le navi non mai dei Dardani avesser toccato.162

2. E non senza ragione, né con scarsa utilità, in seguito dai Cristiani, ma prima dagli adoratori degli dei, da quelli che oggi si chiamano teologi pagani,163 fu istituita l’usanza che a queste divinità, ad alcune per una cosa ad altre per un’altra, ci si rivolgesse supplicandole, e che coloro cui fossero stati esauditi i desideri le ringraziassero, perché erano persuasi che in ogni divinità ci fosse una forza divina e un potere particolari.

XIII FORTUNATI E SFORTUNATI SONO ALUNNI DELLA NATURA. 1. Per queste ragioni, se la fortuna è una natura irrazionale, necessariamente va assegnata a questa natura, giacché per effetto della stessa natura gli uni sono detti fortunati, mentre gli altri sono e son detti sfortunati. In tal modo avviene anche questo di necessità, che gli uni siano più o meno disposti dalla natura a raccogliere i frutti della fortuna. Ma come coloro ai quali dalla natura è stata data la capacità di far bene i versi, o di modulare i ritmi musicali, costoro sono nati e ben disposti a quella professione, così coloro che sono nati con la disposizione ad abbracciare la fortuna sono anche adatti a seguire gli impeti, quegli impeti 883

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XIV

illos scilicet, qui fortunam concilient, aut illi ipsi potius sunt fortuna. Videmus enim quosdam ita genitos institutosque a natura, qualis Cato fuit is, qui cognomen habuit ab Utica, ut nullius eos suasio, nulla vis impotentiaque, nullus etiam terror a proposito suo suaque ab electione detorqueat, quos nesciam an fortunatos iudicem, etiam cum bene illis successerit, quando pertinaciae id certisque eorum ac firmis propositis videatur prorsus ascribendum; contra haec alios, qui ab incoepto itinere et facile et statim dimoveantur, ac relicta ratione prudentioribusque admonitionibus atque consiliis, viam ingrediantur aliam, alienis minime vestigiis inhaerentes, ut qui vagi palantesque ferantur. 2. Qua e re, quod ita sors ferat, naturalis ille impetus praesidio illis est ac favori, quod scilicet, ratione relicta, impetum sint secuti, ut videatur similitudo ipsa naturae simul eos conciliare appareantque propter hanc condicionem ab ipsa etiam natura fortunati, et quantum a ratione diversi ferantur ac devii, tantum, et fortasse amplius concilientur fortunae. Et qui, qua ratio vires extendit suas, parum ipsi prudentes videantur parumque consulti, sint tamen ad fortunae promerendum favorem maxime appositi et tanquam affabrefacti naturalem ob levitatem consimilesque impulsus; nihil enim prohibet, qui abunde multum in coeteris sapiat, in iis, quae fortunae sunt, naturali more ingenitoque ab instituto parum omnino sapere.

XIV FORTUNAE VIRES ESSE AMPLISSIMAS. 1. Nec vero genus universum hominum in civitate qui versantur civilibusque in negociis ac muneribus, adde et facultatibus et disciplinis, ut in administratione publica, in militari, in navali re, ut in medicina (nam et fortunatum medicum esse oportere, omnes quidem consentiunt) non etiam sub fortuna laborant, quando artes ipsae, etsi praeceptis constant rationeque atque observatione, tamen fortunae quoque iis in ipsis locus relictus est suus. Quaenam enim aut artes sunt aut facultates, ut non in

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XIV

cioè, che procurano la fortuna, o essi stessi s’identificano con la fortuna. Vediamo infatti che alcuni sono stati generati e conformati dalla natura, come lo fu quel famoso Catone soprannominato Uticense,164 in guisa che nessuna persuasione, nessuna forza e violenza, nessun terrore mai riesce a distoglierli dal loro proposito e dalla loro scelta, né saprei se considerarli fortunati, anche se è andata loro bene, dal momento che sembra che lo si debba attribuire alla loro ostinazione e ai loro certi e fermi propositi; al contrario vediamo altri, che dal cammino intrapreso si discostano facilmente e subito, e abbandonata la ragione, le raccomandazioni di maggior prudenza e i consigli, intraprendono un’altra via, senza aderire minimamente alle tracce altrui, vagando e sbandando. 2. Adunque, giacché lo vuole la sorte, quell’impeto naturale li preserva e li favorisce, per il fatto che, abbandonata la ragione, hanno seguito l’impeto a tal punto da far sembrare che una specie di natura li raccomandi e per questa condizione siano favoriti dalla fortuna ad opera della stessa natura, e che di quanto si allontanano e deviano dalla ragione, di tanto, e forse di più, diventano amici della fortuna. E coloro che, nella misura in cui la ragione spiega le sue forze, sembrano poco saggi e prudenti, tuttavia sono adattissimi ad ottenere il favore della fortuna e quasi perfettamente adatti per la naturale leggerezza e per gli adeguati impulsi; nulla infatti impedisce che, chi molto s’intente di tutte le altre cose, non s’intenda di nulla quando si tratta delle cose che riguardano la fortuna, per il carattere naturale che ha e per quello che gli proviene dall’educazione.

XIV LE POTENTISSIME FORZE DELLA FORTUNA. 1. E non è vero che l’intera categoria degli uomini che vivono in società, dediti ad attività e funzioni civili, oltre che a professioni e a scienze, come quelli impegnati nella pubblica amministrazione, nella vita militare e nella marina, come quelli impegnati nell’arte medica (e infatti bisogna che il medico sia fortunato, tutti ne sono convinti) operano sotto l’egida della fortuna, dal momento che, sebbene le arti si fondino su insegnamenti, sulla ragione e sull’esperienza, tuttavia anche in esse è riservato un suo posto alla fortuna? Quali arti o professioni esistono, 885

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quibus illae versantur rebus plura in iis accidere ex improviso soleant? nam etsi quae olim eventura sunt, ea nec arte continentur nec facultate, nisi qua coniectura sese efferat, campus tamen illorum ludusque fortunae est liber ac proprius. An non curanti aegrotum medico, cuius ad curationem opus sit aut radice pontica aut helleboro, vel multum etiam potest in eo illi obesse fortuna, quando, quod inter navigandum curatio haec contigerit, nec radix in navi pontica, nec ad purgationem reperiatur helleborus? Et imperatori, qui se crastinum in diem pugnaturum cum hoste constituit, nunquid non accidere illud potest, ut nocte quae diem constitutam antecedit ardentissima corripiatur a febri, ne interesse pugnae possit? aut, cum e castris prodire in praelium parat, repente atque ex insperato literas ut a Senatu accipiat, quibus praescriptum ei sit, ne pugnam omnino cum hoste ineat, neve cum illo conserat manum? Et qui sutor calceolarius pactus est, suturum se hospiti die insequenti iter inituro calceolos itinerarios, quonam modo promissum praestabit, si mane, dum ad suendum consurgit, omnem comperiat alutam coriumque item omne fuisse a furibus paulo ante subreptum? Quid cum statuarius somno expergitur dolaturus mane in Caesaris effigiem saxum, animadvertit illud nocturna a coeli procella disiectum? 2. Latissimus est igitur fortunae campus, iisque in omnibus vires extendere atque imperium exercere valet suum, in quibus praeter spem, opinionem, propositum ac constitutum accidere aliquid valeat omninoque improvisum. Patet quoque vis eius non in iis modo, quae iam diximus, verum etiam quocunque in hominum gradu atque condicione, summa, humili, ingenua, servili, rustica, urbana plebeia, patritia. Nam et humili loco editos in reges pervasisse satis scimus, et dites in paupertatem extremam redactos, et maxime inopes ad summas etiam pervenisse facultates, et in libertate genitos consenuisse in servitio. Quibus e rebus liquido constat, non a natura modo fortunatos esse quosdam aut infortunatos, verum in quaque hominum condicione contingere hoc ipsum posse, versarique fortunae imperium in artibus item hominum ac facultatibus quibuscunque.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XIV

nelle quali, per quanto riguarda il campo di cui si occupano, non sono di più le cose che sogliono accadere all’improvviso? Infatti, anche se le cose che si prevede debbano una volta accadere dipendono dalle arti e dalla professione, a meno che non venga fuori una congettura,165 tuttavia il loro campo è esposto al gioco libero e peculiare della fortuna. Non accade al medico curante, il quale per curare ha bisogno della radice del Ponto o dell’elleboro,166 che in questa operazione gli si opponga anche molto la fortuna, allorché, capitando questa cura durante la navigazione, né la radice del Ponto si può trovare sulla nave, né l’elleboro che serve a purgare? E al generale che ha stabilito di attaccare battaglia col nemico il giorno dopo, non può succedere di essere assalito da una febbre fortissima la notte precedente al giorno stabilito, in modo che egli non possa partecipare alla battaglia? O, quando si prepara ad entrare nel combattimento, non gli può succedere di ricevere improvvisamente e senza aspettarsela una lettera dal Senato, nella quale gli si ordina167 di non attaccare battaglia, e di non venire alle mani col nemico? E il calzolaio che ha preso l’impegno di cucire i calzari per il viaggio al cliente che doveva partire il giorno dopo, come potrà mai mantenere la promessa, se al mattino, quando si leva per cucire, trova che la pelle e il cuoio gli sono stati tutti sottratti dai ladri poco prima? Che avviene, quando uno scultore che deve lavorare l’indomani al blocco di marmo per fare la statua di Cesare si sveglia dal sonno e si accorge che dalla tempesta della notte esso è stato buttato giù? 2. Larghissimo è il campo della fortuna, ed essa è capace di estendere le sue forze e il suo potere su tutte quelle cose in cui può accadere del tutto improvvisamente qualcosa al di là di ogni attesa, di ogni proposito e di ogni decisione. È evidente anche la sua potenza non solo in quelle cose che abbiamo dette, ma anche in ogni livello e condizione sociale, altissima, umile, nobile, servile, rustica, cittadina, plebea, patrizia. Sappiamo infatti che alcuni provenienti da umile condizione hanno raggiunto il rango di re, e alcuni ricchi si sono ridotti all’estrema povertà, e specialmente che alcuni poveri sono giunti ad avere immense ricchezze e che alcuni nati in libertà sono invecchiati in servitù. Da ciò risulta agevolmente che non soltanto ci sono i fortunati o gli sfortunati, ma che questo può avvenire in qualsiasi condizione umana, e che il dominio della fortuna riguarda ugualmente le arti degli uomini e le loro professioni.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XV

XV ANIMADVERTENDUM ESSE DEUM PRIMAM ESSE CAUSAM. 1. Atque haec quidem ipsa licet habere hunc se in modum intelligantur; tamen, si christiani esse volumus pieque etiam philosophari, non pauca ex iis quoque, quae fortunae tribuuntur, Deo ipsi divinaeque beneficentiae videantur potius ascribenda. Nam et Theodosio Augusto satis parva manu pugnam cum Gotis conserenti tempestas repente coelo immissa opitulata est, tanta ventorum mole a tergo suo in hostium oculos atque acies, ut tela ab iis ipsis emissa retorqueret, ictusque eorum frustraretur, retroversumque terga uti darent cogeret. Vicit igitur Theodosius praesidio repentinae, ut apparet, procellae. At nihilominus consulenti Theodosio Ioannes Anachorita respondit, vir utique deo maxime ob sanctitatem acceptus, monuitque triduo universo cum exercitu ut ieiunaret remque divinam deo faceret; inde pugnam audacter capesseret, quoniam deus esset pugnanti affuturus. Cuius rei, ut Horosius etiam testatur, Claudianus meminit inquiens: O nimium dilecte deo, cui fundit ab antris Aeolus armatas acies, cui militat aether, Et coniurati veniunt ad classica venti.

2. Circumsessa ab Neapolitanis acriter Siponto in Apulia, multos post opsidionem dies, erumpentibus Sipontinis acrique pugna conserta manu, Gargano e monte, coorta procella, tanto repente impetu moleque tonitruum ac fulgurum tanta in Neapolitanos ingruit, ut non ab iis pauciores extincti fuerint, quam gladio caesi. Atqui Laurentius antistes maxime sanctus vir ante Sipontinos admonuerat eruptionis dieique, qua erumpendum esset, ieiunio prius ac rebus divinis peractis, quoniam Gabriel genius a deo in somnis ad ipsum missus ita monuisset. Utriusque igitur victoriae laus repentinam ob causam videtur merito ad fortunam referenda, tamen et sanctorum virorum monita et pie facta sacrificia divinam id testantur statuisse providentiam. Sed nec deo caruere, summique numinis praesentia dirempta illa inter Romanos ac Poenum Collinam ad

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XV

XV TENER PRESENTE IL FATTO CHE DIO È LA CAUSA PRIMA. 1. E sebbene si capisca che le cose stanno in questo modo, tuttavia, se siamo cristiani e vogliamo ragionare in maniera religiosa, non poche di quelle cose che si attribuiscono alla fortuna vanno ascritte piuttosto a Dio e alla divina provvidenza. Infatti, anche Teodosio Augusto,168 che si misurava contro i Goti con un esercito abbastanza ridotto, fu aiutato da una tempesta venuta giù dal cielo improvvisamente, e da tanta forza di venti alle sue spalle contro gli occhi dei nemici, che deviava le frecce lanciate da loro e vanificava i loro colpi costringendoli a voltare le spalle. Perciò Teodosio vinse, a quanto pare, per il sostegno di una tempesta improvvisa. Ma nondimeno Giovanni Anacoreta, uomo a Dio molto gradito per la santità, rispose a Teodosio, che gli chiedeva consiglio, di digiunare per tre giorni insieme con tutto l’esercito e di celebrare una messa in onore di Dio; e poi di riprendere con audacia la battaglia, perché Dio gli sarebbe stato favorevole. Di questo fatto fa menzione Claudiano,169 come attesta Orosio, quando dice: O troppo caro Iddio, al cui cenno dagli antri si scatena Eolo per sconfiggere gli eserciti armati, al cui comando milita l’aria, e i venti si uniscono obbedendo al suono della tromba di guerra.

2. Quando in Puglia Siponto era duramente accerchiata dai Napoletani,170 e dopo molti giorni di assedio i Sipontini tentarono una sortita attaccando un’aspra battaglia, una tempesta insorta dal monte Gargano piombò addosso ai Napoletani con tanto impeto improvviso e con tanta quantità di tuoni e di fulmini, che da questi non ne furono uccisi meno di quanti ne fossero uccisi con le armi. Eppure il vescovo Lorenzo, santissimo uomo, già da prima aveva avvertito i Sipontini di pensare alla sortita e al giorno in cui sarebbe dovuta avvenire, facendo far loro prima un digiuno e celebrando i riti sacri, perché l’angelo Gabriele171 mandato a lui da Dio così aveva consigliato. Dunque il merito dell’una e dell’altra vittoria per la causa improvvisa sembra doversi ricondurre alla fortuna, tuttavia i moniti dei santi uomini e le cerimonie celebrate attestano che lo aveva stabilito la provvidenza divina. Ma non venne meno Iddio, né fu assente la somma divinità nello scontro fra Romani e Cartaginesi a Porta 889

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XVI

portam certamina. Itaque et assiduus ille continuusque propitiae fortunae tenor permultaque iis similia, quae ipsi in exemplum adduximus, dei ipsius potius videntur ascribenda volutati ac beneficentiae, quam fortunae temeritati. Sed his iam delibatis, ad fortunae ipsius munera reditum faciamus.

XVI ARTEM ATQUE SCIENTIAM CUM FORTUNA NON CONVENIRE. 1. Ne autem quae divinae maiestatis sunt, iis admisceamus quae profana illorum comparatione videantur, ne ve de fortuna disserentes, idest eventitiis de causis ad ea quae providentiae sunt, parum aut pie aut prorsus impudenter delabamur, praeterque rei ipsius qua de agitur naturam, sic habeto, neque artem aut comitari fortunae aut eam dirigere, neque scientiam. Nam nec fortunatio praeceptis constat rationeque, neque qua via bona comparetur fortuna, quisquam unquam didicit; neque enim disciplina continetur, quando omnino est ab intellectu ac ratiocinatione diversa. Itaque neque ab arte neque a scientia fortunati existunt, neque humanae aut artis, aut scientiae praeceptis institutione ve ab aliqua fortunae favor comparatur, sed naturae tantum inhaerendo commotionibus, quae ab impetu excitentur ut omittamus, quid vel ad deum, ut principem causam, omnia temperantem, vel ad coelestes ac supernas causas referri ea possint. 2. Nam si, ut dictum est, materia non minus fortunae subiecta fortasse est, quam arti, quodque utraque suo quodam iure in eadem re versetur, forma tamen utrique omnino diversa est. Etsi enim natura contendit ad finem exercetque vires in hoc ipsum suas, quo id efficiat, in quod prospectat, in idemque fortuna et ipsa incumbit, hac tamen ex intentione atque conatu, neque natura, neque fortuna cum scientia coniungitur, aut prudentia, neque eundem ex eo videntur magistratum gerere.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XVI

Collina.172 Pertanto l’assiduità e la continuità della fortuna propizia, e i molti casi simili che abbiamo portati ad esempio, sono da ascriversi alla volontà e alla misericordia di Dio, piuttosto che alla temerità della fortuna. Ma toccati questi argomenti, facciamo ritorno alle funzioni proprie della fortuna.

XVI ARTE E SCIENZA NON SI ACCORDANO CON LA FORTUNA. 1. Per non mescolare poi alle cose che riguardano la maestà divina quelle che al loro confronto sono profane, ad evitare che parlando della fortuna, cioè delle cause eventizie, scivoliamo verso quelle che riguardano la provvidenza, commettendo o empietà o impudenza, o superando i limiti naturali dell’argomento di cui si sta trattando, tieni presente questo, che né l’arte né la scienza accompagnano o dirigono la fortuna. Infatti né l’azione fortunata comporta insegnamenti, né qualcuno mai ha appreso il metodo per procacciarsi la fortuna, perché essa non consiste in una disciplina, dal momento che è diversa dall’intelletto e dal ragionamento. Sicché gli uomini fortunati non sono tali né per arte né per scienza, né il favore della fortuna si acquista mediante i precetti dell’arte o della scienza, o di qualche forma di istruzione umana, ma soltanto aderendo ai moti della natura spinta dall’impeto, per non parlare di cause celesti o superiori che possano ricondursi a Dio che è la causa prima e che governa il tutto. 2. Infatti, se, come è stato detto, la materia non è soggetta alla fortuna meno che all’arte, e l’una e l’altra si comportano a modo loro sullo stesso soggetto, tuttavia ognuna delle due ha una forma diversa. E anche se la natura tende ad un fine ed esercita le sue forze allo scopo di realizzare ciò che ha davanti, e la fortuna anch’essa ha tale inclinazione, tuttavia, nonostante questa tensione e questo sforzo, né la fortuna si accorda con la scienza o con la prudenza, né per questo svolgono tutte la medesima funzione.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XVIII

XVII FORTUNATOS A NATURA INSTITUTOS ESSE. 1. Est igitur proprium naturae ipsius munus, sua opera suoque magisterio eos ipsos, qui fortunati futuri sunt, ita quidem ad illas ipsas commotiones suscitandas instituere, atque ad sequendos impetus aptos reddere atque idoneos, ut nulla prudentia adhibita pensitationeque ac ratiocinatione prorsus nulla, sed quem natura excitavit impetum, illum tantum secuti, ea ipsi adipiscantur ac sibi vindicent, propter quae merito dicantur fortunati. Atque hi quidem ab ipso statim initio quales futuri sint apparent, quaeque inter eos ipsos aliosque qui secus a natua instituti sunt, intercessura differentia sit ac varietas. Perinde ut qui aut caesiis nascuntur oculis aut nigellis, colore rufo aut mustelino, simis naribus aut acutis. Nanque, alia ut praetereamus, qui proprie dicuntur artifices, ipsi in iis quas exercent artibus sapere ab aliis iudicantur, e contrario fortunati in ea ipsa re aut parum existimantur, aut nihil penitus sapere, cuius gratia evadunt fortunati.

XVIII DE IACTUS TALORUM SIMILITUDINE. 1. Dices hoc ipse in loco, quaeres, sciscitabere: cur, unde, quamobrem? Quaerendo tamen ac sciscitando aliud consequere nihil, quam quod talorum contingit in ludis. Erunt igitur tali ipsi bene dolati, tersi, leves, affabrefacti in quadram undique, nulla in eis labes, nullum inerit vitium. Iacit Marcus sine ullo malo dolo, nulla arte adhibita, ad primum statim iactum, quem exigit senarium, quippe quem felicem ad fortunationem talorum natura instituerit. At Lucio vel centies clamanti quaternarium, nunquam is iactus obveniet, natura parum adminiculante. Itidem in suscipiendis negociis iisdemque prosequendis, Quintilio, cui natura suffragatur, statim, repente, excitanter movetur animus, illam unam ut ineat viam, neque omnino praeter eam eius oculis alia obversatur, vel si obversetur, e vestigio quidem ea repudiata, festinanter illam ingressus, facillime atque e sententia in quod intendebat, illud assequi-

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XVIII

XVII I FORTUNATI SONO ISTRUITI DALLA NATURA. 1. È compito precipuo della natura formare con la sua opera e col suo magistero coloro che dovranno essere fortunati, sì da risvegliare in loro le passioni e renderli idonei a seguire gli impeti, in modo che senza adoperare alcuna prudenza, ponderatezza e raziocinio, ma seguendo soltanto l’impeto che ha suscitato la natura, essi riescano ad ottenere quelle cose per le quali a ragione sono chiamati fortunati. Ed appare subito, sin dall’inizio, come saranno, e quale differenza o divergenza intercorrerà fra loro e gli altri che dalla natura sono stati formati diversamente. Così avviene che alcuni nascono con gli occhi verdastri, o piuttosto neri, hanno i capelli rossi o di faina, hanno il naso schiacciato o acuto. E infatti, oltre tutto, si chiamano propriamente artisti quelli che sono ritenuti dagli altri capaci di esercitare le arti che esercitano, mentre sono detti fortunati quelli che si ritiene sappiano o ben poco o niente in quella materia per la quale riescono fortunati.

XVIII SIMILITUDINE CON IL GIOCO DEI DADI.173 1. Dirai a questo punto, chiederai, domanderai: perché, come mai, per quale ragione? Tuttavia chiedendo e domandando non riuscirai a sapere nulla, se non quello che avviene nel gioco dei dadi. Mettiamo dunque che i dadi siano ben lavorati, levigati, leggeri, fatti a regola d’arte, squadrati da ogni parte, che non ci sia in loro alcun difetto, alcuna irregolarità. Marco174 getta il dado senza barare, senza usare alcun espediente, al primo colpo, subito, ottiene il sei che vuole, perché la natura lo ha formato per ottenere un esito felice ai dadi. Ma a Lucio che per cento volte cerca di avere un quattro, mai quella gettata gli sarà favorevole, la natura non gli darà il più piccolo aiuto. Lo stesso nell’affrontare gli affari e nel portarli avanti, a Quintilio, cui la natura è favorevole, subito, d’un tratto, l’animo si muove per sollecitarlo ad intraprendere quell’unica strada, e tranne quella ai suoi occhi non se ne mostra altra, e se si mostra, respintala immediatamente, avviatosi in fretta per quella strada, consegue con la massima facilità e secondo il desiderio lo scopo cui mirava; e tuttavia a 893

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XIX

tur; et tamen prudentissimorum indicio virorum, in initio parum aut rectum aut tutum iter visus est ingredi. At Valerio tanquam oscitanti, neque ad id ipsum nato nullae tales initio inerunt commotiones, quae si inerint, ratione eas ac penso adhibito moderari tentabit; diutiusque etiam secum ratiocinabitur animoque id agitabit, quin amicos quoque et prudentes adhibebit in consilium viros. Demum nullum omnino aliud secuturus est iter, quam quod ratio monstrabit ac prudentia. Itaque itinere in medio repelletur ab incepto et ratione et prudentia temperato. 2. Vir et sanctus et maxime doctus Thomas Aquinas, cum in hunc sermonem de fortuna scribens incidisset, inquit: «Iactum tali e tribus constare, e tali ipsius constitutione, e collocatione eius in palma atque e iacientis impulsu»; eundem quoque in modum sentiendum est de fortuna, ut scilicet qui ea usurus est secunda, naturales illos habeat impetus, utque excitetur ab illis rapiaturque, eosque ut excitatus sequatur. Cui itaque numerus ipse alludet quem quaerit, optatque provenire de tali iactu probe constituti sineque dolo malo, sine fraude, huic dicendum est ab eventu succedere, sin vero artem fraudem ve veteratoriumque adhibebit quippiam in iaciendo, huic ars proderit, nequaquam alludet eventus. Atque huius quidem iactus artificiosus erit, illius vero eventitius.

XIX OPORTERE FORTUNATUM NATURAE IPSIUS IMPETUM SEQUI. 1. Igitur, ut neque tali proba constitutio quadraturaque affabrefacta numerum ex se pariet aliquem sine iactoris opera manuque, sic natura ipsa impetuosa irrationalisque fortunatum minime praestabit aliquem, praeterquam sicui voluntatem movit impetus, eundem ipse pronus paratusque insequatur, illique volens ac libens obtemperet. Neque enim nostro sine assensu operaque, hac in parte naturae solum praesidium, unaque eius procuratio satis erit. Ut cum navigantibus nobis secundae incassum aspirent aurae, ni velum malo antennisque suspensum tetenderimus, frustraque vindemia quamvis laeta et felix ab anni constitutione

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giudizio dei più saggi, pareva che avesse intrapreso una via poco retta e poco sicura. Ma per Valerio, che va quasi sbadigliando e non è nato per questo, all’inizio non vi saranno tali spinte, e se ci saranno, lui tenterà di moderarle con la ragione e usando ponderatezza; e piuttosto mediterà seco e rifletterà a lungo, ché anzi userà il consiglio degli amici e dei saggi. Infine non seguirà altro cammino, se non quello che gli mostreranno la ragione e la prudenza. E così a metà viaggio si troverà ad esser ricacciato indietro da un’impresa diretta dalla ragione e dalla prudenza. 2. Il santissimo e dottissimo Tommaso d’Aquino, imbattutosi in questo discorso sulla fortuna, disse: «L’esito di una gettata di dado dipende da tre cose, dal modo come il dado è formato, dalla sua collocazione nella mano e dall’impulso di chi lo getta»;175 anche della fortuna bisogna pensare allo stesso modo, che cioè chi l’avrà favorevole, dispone di quelle famose spinte naturali, che lo inciteranno e lo trascineranno a seguirle. A chi pertanto arride il numero che cerca, e che desidera aver successo dalla gettata di un dado ben disposto, senza barare, senza inganno, a lui bisogna dire che la cosa succede per caso, ma se adopererà l’artificio o la frode o la scaltrezza, sarà l’arte a favorirlo, niente affatto il successo ad arridergli. E la gettata di quest’ultimo sarà dovuta all’abilità, mentre quell’altra al caso.

XIX LA FORTUNA È UNA NATURALE CONSEGUENZA DELL’IMPETO DELLA NATURA. 1. Adunque, come né la buona fattura del dado e la squadratura fatta a regola d’arte produrranno di per sé un numero senza l’operazione manuale di chi fa la gettata, così la natura impetuosa e irrazionale non produrrà alcuna fortuna, a meno che l’impeto non stimoli la volontà di qualcuno, e costui non lo segua disponibile e pronto, e non obbedisca volentieri e spontaneamente. Né infatti senza nostro assenso e senza il nostro operato, unico sostegno per questo verso della natura, sarà sufficiente il solo impegno di quest’ultima. Come quando navighiamo, che le brezze spirano favorevoli inutilmente, se non abbiamo spiegato sull’albero la vela appendendola alle antenne, e inutilmente la vendemmia, quantunque abbondante, rigogliosa e feconda secondo la produzione 895

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arridere nobis videbitur, praeterquam si manu e vitibus uvas legerimus blandientemque autumnum artificio iuverimus atque opera. Atque haec quidem non inepta fortasse fuit causa, cur a fortuna fortunatos potius dixerint, quam a naturae favore bene natos. 2. Quoniam autem navigationem in similitudinem assumpsimus aurarumque aspirationem, idem mihi videtur [homini] usuvenire fortunato, quod vitioso ac male compacto navigio, quod quamvis parum probe aedificatum, si solertem tamen, ac peritum nactum fuerit gubernatorem, multo et tutius celerius applicabit in portum, quam bene instructa navicula, cui ignavus gubernator praefuerit parumque nauticae rei peritus. Habet enim fortunatus vir ipse secum naturam ducem, cuius industria multo quam artis cuiusvis aut facultatis maior est, atque felicior. Itaque facile quidem fortuna praestat, quod ratio aut nullo forte modo praestiterit, aut non absque summo labore ac difficultate.

XX CUR NATURA IN HOMINIBUS FORTUNANDIS MINIME FUERIT ORDINATA. 1. Nec temere autem, nec parum fortasse apte hoc praesertim loco quaerendum videatur, cur, cum in generando homine ordini ubique natura inhaereat consulatque progressionibus exacta cum maturitate, in iis vero, quae ad fortunandum eum pertineant, ita nullum omnino retineat ordinem, ut lubrica prorsus appareat vel incomposita potius et tanquam temeraria. An quia in progignendo homine etsi plures conveniunt causae, ut coeli ipsius vis ac solis, ut semini etiam humano vis insita, ut seminis e dorso, lumbisque concalefactus defluxus instillatioque atque eiusdem receptio in utero, hae tamen ipsae et exploratae sunt causae atque ipsae quidem per se, cum tamen quae causae a fortuna ipsa dictae sunt fortuitae, quod illam ipsam constituant et tanquam informent, sint omnino inordinatae, incognitae, inexploratae, progressionesque earum temerariae, magis quam constantes aut stabilitae? Quocirca eventitiae sunt iureque putantur casu contineri, quando humani seminis explorata vis est, notus item solis vigor coelestisque agitationis.

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dell’annata, potrà arriderci, se non abbiamo raccolto l’uva con le nostre mani dalle viti e non abbiamo aiutato le lusinghe dell’autunno col nostro mestiere e col nostro lavoro. E forse è stata questa la ragione, non sciocca, per cui si sono chiamati fortunati da «fortuna» piuttosto che ben «nati» dal favore della «natura». 2. Poiché allora abbiamo assunto la navigazione e lo spirare delle brezze come esemplificazione, a me sembra che avvenga all’uomo176 fortunato quello che avviene ad un naviglio difettoso e sconnesso, che, quantunque poco ben fabbricato, se tuttavia ha per caso in sorte un timoniere solerte ed esperto, approderà in porto molto più velocemente che una navicella ben fabbricata, guidata da un timoniere pigro e poco esperto della navigazione. L’uomo fortunato ha infatti dalla sua come guida la natura, la cui operosità è molto più importante e più efficace che quella di qualsiasi arte e di qualsiasi scienza. Perciò la fortuna fornisce facilmente quello che la ragione o non potrebbe fornire in alcun modo, o potrebbe farlo ma non senza grande fatica e difficoltà.

XX PERCHÉ NEL RENDERE GLI UOMINI FORTUNATI LA NATURA SIA SREGOLATA. 1. Non dovrebbe sembrare sconsiderato, né forse poco opportuno a questo punto chiedersi perché, mentre nel generare l’uomo la natura rispetta comunque una regola e provvede agli avanzamenti con esatta perfezione, quando si tratta di renderlo fortunato non serba alcuna regola, a tal segno da apparire sfuggente o piuttosto sregolata e quasi casuale. Forse perché nel generare l’uomo, anche se si combinano più cause come la forza del cielo e del sole, come quella insita nel seme umano, come il deflusso del seme dalla schiena e dai lombi, e l’inserimento e la ricezione di esso nell’utero, queste cause sono comunque ben note e sussistono di per sé, mentre quelle cause che son dette «fortuite» dalla «fortuna» sono senza alcuna regola, sconosciute, poco indagate, e i loro sviluppi sono casuali piuttosto che costanti e definiti? È per questo che sono eventizie e giustamente si ritiene che dipendano dal caso, dal momento che la forza del seme umano è ben conosciuta, ed è ugualmente noto il vigore del sole e del movimento celeste. 897

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2. At vero etsi cognitum est et comprobatum sponte sua ad imum graviora decurrere, ignotum tamen est atque incompertum, accedente ad forum Volcatio, casura ne sit tegula, quae in caput eius prolapsa vulnus infligat. Quocirca quae fortunam constituunt causae, cum incertae sint inordinataeque, nequaquam per se, verum ut accidentes habentur atque eventitiae. Natura igitur caeteris in effectionibus ministeriisque suis evidentia utitur causarumque certitudine, at fortuitis in effectibus, incompertis potius atque ab eventu oblatis. Nam etsi causa manifesta est, et ipsa quidem per se existens, quod sorte sua ruant deorsum quae maxime gravia sunt corpora, licet item eadem per se constet notaque sit causa, Volcatium ire ad mercatum emendi opsonii gratia, eventitium tamen quiddam est tegulae repentinus lapsus vulnerisque inflictio.

XXI FORTUNAE CAUSAS ESSE INTERMINATAS. 1. Quo igitur paucioribus rem hanc transigamus, nihil est natura, ne intellectus quidem ipse, determinatius constitutiusque, quippe cum naturae ipsius vires in unum omnes et pariter conveniant et in idem simul una coeant, fortuna vero, quod ex impetu existat naturae, vel sit ipsa utique eius impetus, interminatisque constet minimeque definitis causis. Dices hic forsitan itionem ad forum finitam quidem esse planeque exploratam, quasi vero non suscepti ad forum itineris possint esse causae etiam multiplices, ut conveniendi hospitis, exigendae pecuniae, vendendae aut emendae annonae, commutandi in lanam olei, conducendi fossoris, comparandi aratri, mercandi asini aut iumenti, edomitandi equi aut frenandi, et eius generis ac diversi etiam plurimae causae. 2. Quocirca fortuitae quidem causae multiplices ipsae sunt, possibilitate videlicet sua (utar enim et si verbo neutique novo, minus tamen usitato) verum actione post ipsa ita terminantur, ut quod antea quidem interminatum erat nostraque in potestate situm, agendo tamen certum appareat omninoque exploratum. Itaque, quae a natura proficiscuntur, a causis minime certis constitutisque proficiscuntur, iisque nullo modo per se existentibus. Quod si fortasse et ab exploratis ac cognitis argu-

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2. Ma anche se è noto e ben sperimentato che le cose più pesanti tendono al basso, è ignoto tuttavia e incerto se, quando Volcazio si reca al foro, c’è una tegola che cadendogli sul capo gli infligga una ferita. Perciò le cause che determinano la fortuna, essendo incerte e sregolate, non sono considerate per sé esistenti, ma accidentali ed eventizie. La natura, quindi, in tutti gli altri suoi atti e in tutte le altre sue funzioni procede mediante cause evidenti e certe, ma negli atti fortuiti procede mediante cause poco note e date dall’evento stesso. Infatti, anche se la causa è manifesta, ed esiste di per se stessa, poiché i corpi particolarmente pesanti cadono per conto loro, e sebbene la causa sia di per sé chiara e nota, il fatto cioè che Volcazio vada al mercato per comprare del cibo, sono tuttavia un evento casuale la caduta della tegola e la ferita.

XXI LE CAUSE DELLA FORTUNA SONO INDETERMINATE. 1. Per farla breve, non c’è nulla di più determinato e di più definito della natura, nemmeno lo stesso intelletto, poiché le forze della stessa natura si accordano tutte e tutte insieme si congiungono, mentre la fortuna, scaturendo dall’impeto della natura, o essendo essa stessa il suo impeto, dipende da cause indeterminate e assolutamente non definite. Dirai forse a questo punto che l’andata al foro è definita e ben considerata, mentre dell’andata non intrapresa le cause potrebbero esser anche molteplici, come quella di dover ricevere un ospite, di dover riscuotere del danaro, di dover vendere o comprare vettovaglie, di dover scambiare l’olio con la lana, di dover assoldare uno zappatore, di doversi procurare un aratro, di dover comperare un asino o un giumento, di dover domare o ferrare un cavallo, e moltissime cause di questo o di altro genere. 2. Quindi le cause fortuite sono molteplici, ovviamente per la loro «possibilità» (userò infatti una parola, anche se per niente nuova, tuttavia meno usata),177 ma dopo l’azione hanno una determinatezza tale, che quel che prima era indeterminato e posto in nostro potere, ad azione compiuta appare certo e del tutto noto. Pertanto quello che procede dalla natura,178 procede da cause assolutamente incerte e indefinite, e per giunta non esistenti di per sé. Che se per caso tu cercherai anche di

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mentabere, etiam proficisci, ita quidem censeto finitas eas actu quidem, potestate vero minime terminatas aut certas.

XXII FORTUNAE DEFINITIO. 1. Bene igitur atque ex ipsa veri cognitione qui dixerunt fortunam nihil prorsus esse aliud, quam inopinum eventitiumque causarum concursum quendam atque coitionem; expressius autem, nec minus e re ipsa, qui naturam esse quandam eamque sine ratione seu ipsius impetum quendam naturae esse professi sunt. Quae quoniam causa est, quarum ea rerum causa sit, antea quidem abunde explicatum est, bonorum scilicet vel adipiscendorum, vel amittendorum, cuius ea imperio subiecta sunt, hominumque fortunandorum iis ipsis e bonis vel in miseriam coniiciendorum.

XXIII CIRCA QUOS NATURAE IMPETUS FORTUNA VERSETUR. 1. Reliquum est, ut videamus quinam illi naturae sint impetus, quibus movendis agitandisque fortuna versetur. Et vero, ni fallor, humani impetus animi partim ab appetitione existunt, partim a ratiocinatione, aliique sunt impetus, quos ratio ipsa movet, alii quos appetitus. Et illi quidem rectitudinem sequuntur: quid enim nisi rectum ratio aut curet aut quaerat? Qui vero ab appetitu, qua rationi opsequuntur, et illi quoque a recto vix detorqueant; quonam igitur pacto in iis fortuna versabitur, cum rationis fortunaeque diversi sint mores longeque alia utriusque condicio? Ad haec, si fortuna ipsa quaedam est absque ratione natura, quam in opinionem Peripatetici consentiunt, quaenam fortunae potest esse cognatio illo cum impetus genere, qui sit ipse rationabilis, neque ab intellectu abhorreat, neque a scientia hominis, aut prudentia?

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partire da quelle sicure e ben note, sappi bene che esse sono definite in atto, ma per nulla determinate o certe in potenza.

XXII DEFINIZIONE DELLA FORTUNA. 1. Hanno detto bene, dunque, e si sono fondati sulla cognizione del vero, coloro che hanno detto esser la fortuna nient’altro che un concorso e un incontro inopinato ed eventizio di cause. Ma più chiaramente, né in modo meno corrispondente al vero si sono espressi coloro che hanno detto esser la fortuna una natura senza ragione, oppure un impeto naturale. E poiché è una causa, di che sia causa lo abbiamo spiegato avanti abbondantemente, dei beni ovviamente, o di quelli da acquisire o di quelli da perdere, beni che sono soggetti al suo dominio, beni degli uomini che avranno fortuna da quei beni, o che saranno gettati nella miseria.

XXIII IN QUALI COSE SI ESERCITA L’IMPETO DELLA FORTUNA. 1. Resta da vedere quali siano questi impeti della natura, con il cui irregolare movimento ha a che fare la fortuna. E in verità, se non mi sbaglio, gli impeti umani insorgono in parte dall’appetito, in parte dal raziocinio, e di un genere sono quelli che è la ragione a mettere in moto, di altro genere quelli che mette in moto l’appetito. E gli uni seguono la rettitudine: di che cosa infatti si occupa o che cosa cerca la ragione se non quel che sia retto? Ma quelli che nascono dall’appetito, se seguono la ragione, anch’essi deviano difficilmente dal giusto: come dunque avrà a che fare con loro la fortuna, essendo diversi i comportamenti della ragione e delle fortuna e di gran lunga diversi i fondamenti dell’una e dell’altra? Inoltre, se la stessa fortuna è una natura senza ragione, opinione sulla quale sono d’accordo i Peripatetici,179 quale rapporto vi può essere fra la fortuna e quel genere di impeto, che sia di per sé ragionevole, e che non aborre né dall’intelletto, né dalla scienza e dalla saggezza dell’uomo?

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2. Palam igitur fit impetus hos, de quibus nunc agimus, ab ea citari animae parte, cuius appetitio propria est, illa videlicet quae nomine alio, nec inepte fortasse, naturalis est vocata, ut impetum hunc naturalem, non minus recte quam appetitivum hodie philosophi vocent. Et enim natura duce, quibus opus nobis sit quaeque censeamus conducibilia, ea concupiscimus in hocque maxime illa intenta est, quo sibi ipsa bene consulat propriaeque prospiciat conservationi, idque commune est cunctis etiam animalibus. Quod cum ita sit, appetendis profecto illis naturaliter propensi sumus, quae utilia censeantur et commoda, nobisque ipsis profutura. 3. Igitur si ratio, scientia, prudentia, ipse quoque intellectus iungi prorsus cum fortuna recusat, eiusque abhoret a familiaritate, nimirum cum et fortuna natura quaedam sit, illos sibi impetus accommodat, in suaque contrahit iura, qui naturales quidem sint atque ab appetitu profecti; exque eo appetitionis tantum genere, quae propter utilitatis studium propriamque conservationem homini communis est cum belluis; nam et fortuna et ferae a ‘ferendo’ sunt dictae, feruntur enim nulla ratione, verum naturali et suo tantum impetu, quocunque naturae ipsius cupiditate rapiuntur. Habes igitur qui sint impetus, quos fortuna sibi ministros paret, tametsi fortuna plane multum in hominibus atque in his ipsis tantum, in feris autem nihil omnino iurisditionis habet, quippe quarum nullae sunt actiones atque negotia nullusque propositus finis, fortuna vero ipsa in iis versetur, quae praeter propositum usuveniunt.

XXIV DE IMPETU VOLUNTARIO. 1. Utque mihi quidem videtur, voluntas etiam ipsa duplici est modo consideranda. Nam qua rationi se adiungit inhaeretque, qui ex ea manant impetus, vel impulsus potius, hi nihil omnino cum fortuna consentaneum habent. Tunc vero fortunae familiares sunt atque coniuncti, cum voluntas ipsa nec a ratione excitata est, nec illam utique, sed naturam tantum ipsam secuta, naturali quoque a motu solum trahitur. Franciscum Pudericum, non illiteratum hominem rerum quoque civilium abunde peritum, dicentem audivi saepius naturam ipsam a deo esse institutam,

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2. Diventa chiaro dunque come questi impeti, di cui ora trattiamo, sono messi in moto da quella parte dell’anima cui pertiene l’appetito, quella cioè che con altro nome, forse non a torto, è stata chiamata naturale, talché oggi i fi losofi lo chiamano impeto naturale non meno rettamente che «appetitivo».180 E infatti con la guida della natura le cose di cui riteniamo aver bisogno e che riteniamo utili, quelle noi desideriamo, e in questo specialmente essa è intenta, a provvedere bene a sé e alla propria conservazione, e ciò è comune anche a tutti gli animali. Stando così le cose, siamo certo naturalmente inclini a desiderare quelle cose che si ritengono utili, comode e per noi vantaggiose. 3. Dunque se la ragione, la scienza, la prudenza, lo stesso intelletto rifiutano assolutamente di congiungersi con la fortuna e aborrono dalla sua compagnia, nondimeno essendo anche la fortuna una qualche natura, adatta a sé quegli impeti e li fa rientrare nelle sue competenze, quegli impeti che sono naturali e provenienti dall’appetito e soltanto da quel genere di appetito, che per ricerca dell’utilità e per provvedere alla propria conservazione l’uomo ha in comune con le bestie; infatti e la fortuna e le fiere son così chiamate da fero,181 perché si fanno trasportare senza ragione, ma da un loro impeto naturale, dovunque vengono trascinate dal capriccio della natura. Ecco dunque che cosa sono gli impeti, disposti dalla natura come ministri, sebbene la fortuna abbia moltissima autorità sugli uomini, e su loro soltanto, mentre non l’ha affatto sulle fiere, perché esse non hanno attività e affari e nemmeno un fine che si propongano, e la fortuna riguarda le cose che avvengono fuor di proposito.

XXIV L’IMPETO VOLONTARIO. 1. E, come a me sembra, anche la volontà va considerata sotto due aspetti. Infatti, poiché essa si applica e aderisce alla ragione, quegl’impeti, o piuttosto impulsi, che ne scaturiscono, nulla hanno di conforme con la fortuna. Sono invece in rapporto e connessi con la fortuna, quando la volontà non è stata sollecitata dalla ragione, né comunque l’ha seguita, ma seguendo soltanto la natura viene trascinata solo dal moto naturale. Ho udito spesso Francesco Poderico, uomo tutt’altro che senza lettere,182 anzi assai competente in diritto civile, dire che la natura è stata ordi903

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eamque ob rem exploratum semper aliquid ac definitum et meditari et agere; at rationem ipsos sibi homines esse commentos, contemplando, perquirendo, ratiocinando, quae tamen vis a natura quoque vel a deo magis esset illis insita; qua de causa rationem non ita ex comperto terminatoque iter suum prosequi, neque adeo ex composito pergere. Quanto igitur impetus ille secundum quem fortunate atque aspiranter nobiscum agitur, naturalior est, tanto a ratione magis recedit longiorique intervallo distat ab intellectu, efficiturque ut naturales tantum impetus fortunae sint ascribendi.

XXV RATIONEM DUPLICITER ESSE CONSIDERANDAM. 1. Equidem ipse in scholis audivi etiam non raro naturalium disceptatores rerum ac magistros ita quidem disserentes: rationem duplici esse modo considerandam, et ut natura ipsa est, et ut eadem ipsa est ratio. Qua enim a deo moveretur atque superno a numine, naturam utique illam esse sibique ipsi supremum in modum congruentem, summaque certitudine in quod intendat in unum illud contendentem, gerereque sese determinate admodum atque ab explorato; qua vero a semet excitetur, suo tantum iure innisa, minus quidem ex definito progredi, neque tam omnino explorate atque e comperto incoeptum iter peragere. Utrocunque igitur modo rationem acceperis, nihil omnino commune habebit cum fortuna, quando quem nunc irrationalem vocamus impetum, talem prorsus esse eum volumus alienumque ab omni rationis progressione et ordine; cum liquido etiam constet, saepenumero eos ipsos, quos fortunatos dicimus, fuisse desertos ab consueta fortunae aspiratione, dum relicto naturalis illius impetus cursu, ad rationem declinant rationisque sese praeceptis accommodant; contra vero secunda illis fluxisse omnia, ubi relicta ratione ignaviter, imprudenter ignoranterque et in ratiocinando de negotio quod gererent sese habuissent, et etiam in administrando.

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nata da Dio, e perciò progetta e fa sempre qualcosa di ben considerato e definito, mentre della ragione gli uomini si sono serviti meditando, contemplando, investigando, raziocinando, una capacità che è stata tuttavia infusa loro dalla natura, o piuttosto da Dio. Per questo la ragione segue il suo cammino con non tanta certezza e determinazione, né tanto ordinatamente continua a seguirlo. Quanto più, dunque, è naturale quell’impeto, secondo il quale da parte nostra si agisce col favore della fortuna,183 tanto maggiore è lo slancio con cui si allontana dalla ragione e tanto maggiore è la distanza con cui si differenzia dall’intelletto, e ne deriva che gli impeti naturali debbano soltanto attribuirsi alla fortuna.

XXV LA RAGIONE VA CONSIDERATA IN DUE SENSI. 1. Io stesso nelle scuole ho udito non raramente dottori e maestri di scienze naturali dissertare in questo modo: la ragione va considerata in due modi, sia come natura, sia come ragione. In quanto, infatti, muove da Dio e dalla suprema divinità, essa è una natura, perfettamente coerente con se stessa, e tesa con somma certezza solo a quello cui mira, si comporta in maniera molto determinata e con consapevolezza; in quanto si muove da sé, fidando solo nelle sue forze, avanza con minore determinazione, né con piena consapevolezza e certezza compie il cammino intrapreso. In qualunque dei due sensi avrai concepito la ragione, nulla avrà in comune con la fortuna, poiché quello che noi ora chiamiamo impeto irrazionale, tale assolutamente intendiamo che sia, estraneo ad ogni svolgimento e ordine razionale. Giacché è lampante che spesso quegli stessi che chiamiamo fortunati, sono abbandonati dal consueto favore della fortuna quando, lasciato il percorso dell’impeto naturale, deviano verso la ragione e si adattano ai suoi precetti. Ma al contrario tutto per loro è andato favorevolmente, quando accantonata la ragione si sono comportati con ignavia, imprudenza e ignoranza nel riflettere sull’attività che svolgevano, e nell’indirizzarla.

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XXVI QUAE SIGNA SINT NATURALITER FORTUNATORUM. 1. Signa igitur et notae quasi quaedam eorum, quos natura ipsa instituisse ad fortunationem videatur, haec fere sunt: si facile ipsi moveantur ab impetu, sine ratione, sine consilio, nulla prorsus maturitate adiuncta, qua de re fit indicatio, moveri impetum eum ab appetitione tantum naturali; si appetitiones et ipsae absque ratione erunt et penso, verumtamen eius ipsius, quod et appeti oporteat, et quo tempore, quo etiam modo oporteat, quae quidem ipsa apertissime indicant naturae aptitudinem eius, qui naturaliter sit ad fortunationem institutus; si in suscipiendis aut susceptis negociis ineptius ipse quidem ac parum pro re ipsa ratiocinabitur, deque iis disseret vel potius insipienter, ac nihilominus e sententia ei succedat; si administrandis rebus negociisque impetum tantum sequetur ducem; si, ubi consilium rationemque inter agendum adhibuerit, male ei vertet, neque enim a ratione fortunati evadunt, verum a natura ad id ipsum comparati; si in administandis negotiis appareat sequi eum naturales impetus, repudiata prorsus ratione atque consiliis; si minime cunctanter, quin statim atque e vestigio eliget, decernetque suscitatum a natura sequi impetum. Quanquam, ubi naturalis regnat impetus, quae potest illic esse electio? 2. Vocamus autem electionem promptitudinem illam sequendi extemplo illud ipsum, quod impetus repente excitatus oblatum animo obiecerit, nulla prorsus consultatione adhibita aut pensitatione. Potissimum autem insipientia et stoliditas quasi quaedam gerendis in negociis prosequendo[que] naturali impetu, cum successus ipse plerunque secundus et felix fuerit, potissimum inquam signum est apti nati hominis eiusdemque naturaliter instituti, in quem fortuna ipsa benevolentiam ac potestatem ostentet suam, si excitato statim impetu, ad illum repente se accommodaverit, spretis, abiectis, repudiatis et consiliis eorum et sententiis, qui secus aut sentiant aut persuadere aliter conentur. 3. Haec fere signa sunt fortunandi hominis, natura ab ipsa indita; nam quemadmodum glauci nascentis foetus oculi imbecilliore illum indicant

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XXVI SEGNALI DISTINTIVI DEGLI UOMINI FORTUNATI PER NATURA. 1. I segni distintivi, quasi dei marchi, che la natura sembra aver creato per far notare il favore della fortuna, sono i seguenti: se gli uomini facilmente si muovono spinti dall’impeto, senza ragione, senza approfondimento, senza aggiungervi la perfezione, donde l’indicazione che quell’impeto deriva solo dall’appetito naturale; se gli appetiti stessi saranno senza ragione e ponderatezza, nondimeno rispetto a quel che conviene desiderare, e al tempo e al modo in cui conviene farlo, cose che di per sé indicano chiarissimamente l’attitudine naturale di chi è naturalmente disposto a ricevere il favore della fortuna; se inoltre nell’affrontare o nello svolgere un’attività intrapresa ragionerà in modo inopportuno o ben poco adeguato alla realtà stessa, e ne discuterà piuttosto con insipienza, e ciò nonostante la cosa gli riesca secondo le intenzioni; se nel condurre l’attività e gli affari seguirà soltanto l’impeto; se, quando adopererà riflessione e ragione nell’agire, gli andrà male, poiché i fortunati non riescono ad esserlo per via della ragione, ma perché disposti dalla natura a quel fine; se nel condurre gli affari sembrerà seguire gli impeti naturali, rifiutando del tutto la ragione e la riflessione; se opererà la scelta senza indugio, anzi subito e immediatamente, e deciderà di seguire l’impeto proveniente dalla natura. Sebbene, dove regna l’impeto naturale, quale scelta può esservi mai? 2. Chiamiamo scelta184 la prontezza nel seguire immediatamente185 proprio ciò che l’impeto appena risvegliatosi presenta davanti all’animo, senza che vi sia stata alcuna riflessione o ponderazione. Soprattutto l’incoscienza e una quasi stoltezza nel condurre gli affari seguendo186 l’impeto naturale, quando l’esito è stato favorevole e per lo più positivo e felice, specialmente questo, dico, è il segno distintivo dell’uomo ben nato e ben disposto dalla natura, verso cui la fortuna mostrerà la sua benevolenza e il suo potere, se una volta svegliatosi l’impeto, ad esso immediatamente si adeguerà, trascurando e rifiutando i consigli e le opinioni di coloro che la pensano diversamente e che cercano di persuaderlo ad agire diversamente. 3. Questi sono i segni distintivi della persona fortunata, impressi dalla stessa natura; infatti, come gli occhi glauchi del neonato indicano che 907

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXVII

videndi vi usurum, nigri vero ac fusculi validiore, sunt enim haec ipsa certa quaedam naturae semina, sic haec quae diximus signa futuri sunt fortunati hominis, cuius natura quidem ipsa dux futura est ac magistra, minime vero ratio aut prudentia. Quin hic ipse aliorum aspernabitur consilia auresque opstrudet suas prudentiora monentibus. Quae igitur a natura insint signa fortunatorum hominum, qui etiam naturales sint impetus, quibus tanquam ministris fortuna utatur quamque sit ipsa ab ratione diversa pensitatisque a consiliis, dictum sit hactenus.

XXVII CUR MUTABILIS SIT FORTUNA. 1. Et vero quamvis incompertior causa, forsitan etiam divina existat, cur secunda fortuna alias tenorem continuet suum, alias facile mutet illum minusque ac minus assidua ipsa sit et stabilis, ex eo tamen hoc ipsum potest accidere, quod fortuna, cui est familiarior, eius sit naturalis institutio magis magisque accommodata atque ad id ipsum nata, ut ad impetus facile excitetur; quibus repente quidem excitis, nullo prorsus adhibito consilio, morem ipse confestim gerat, ac volens illos libensque prosequatur; contra vero parum cui familiaris est, quod is male sit aptus, nec omnino apte natus ad naturales ipsos impetus prosequendos, ubi exagitati fuerint, quorum cursum adhibita ratione, pensitando ac ratiocinando impediat aut quod naturalis eius constitutio nequaquam sit illiusmodi, ut prona et facilis sit, aut ex toto idonea, in qua suum ius natura pro libito exercere ad impetus commovendos queat naturalesque ad appetitiones. Ac si non moralis quoque institutio, civilisque consuetudo pudore quasi quodam nos afficere aliquando soleat, id ne sequamur cuius honestam reddere causam nec possimus nec sciamus, turpe admodum ducentes iis occupari negociis atque actionibus, quarum probabilis saltem ratio reddi nequeat; itaque naturalis apud quosdam institutio morali cedit institutioni civilibusque praeceptis; et illos quidem nihil pudor moveat, aut honesti gratia, modo quod libuerit, quodque impetus tulerit, sequantur, si suscepti ignoret negocii reique vel gestae vel gerendae rationem. Hi vero, etsi initio videntur impetui velle obsequi, post tamen mentem ipsam in consilium adhibentes, naturali illo impulsu ut

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXVII

egli avrà una vista più debole, gli occhi neri e bruni invece una vista più forte, perché questi sono sicuri indizi naturali, così saranno questi i segni, come li abbiamo chiamati, dell’uomo destinato ad essere fortunato, cui la natura dovrà essere guida e maestra, non la ragione o la prudenza. Anzi costui disdegnerà i consigli e chiuderà le orecchie per non sentire chi gli consiglia maggiore prudenza. Su quali siano i segni distintivi delle persone fortunate, quali siano gli impeti naturali di cui la fortuna si serve come di ministri, e quanto essa sia altra cosa dalla ragione e dai consigli ponderati, basti quel che si è detto finora.

XXVII PERCHÉ LA FORTUNA È MUTEVOLE. 1. E in verità, quantunque sia poco nota, e forse anche divina, la causa per cui la fortuna alcune volte mantiene il suo andamento, altre volte lo muta, e sia poco assidua e stabile, può tuttavia accadere, in seguito a ciò, che colui al quale la fortuna è più amica, abbia una disposizione naturale ancor più idonea e fatta in modo ch’egli sia facilmente portato agli impeti; e quando questi ultimi si svegliano all’improvviso, egli, senza adottare alcuna riflessione, subito li asseconda, e li segue volentieri e di buon grado. Invece chi non ha la fortuna amica, poiché è poco disposto, e per nulla nato a seguire gli impeti naturali, quando essi si destano, adoperando la ragione, ponderando e ragionando, impedisce il loro corso, perché la sua naturale costituzione o non è tale da renderlo docile e disponibile, o non è del tutto idonea a lasciare che la natura possa esercitare a capriccio il suo potere nel suscitare gli impeti e i naturali appetiti. Come se anche l’educazione morale e la consuetudine civile non ci facessero spesso vergognare di non seguire ciò di cui non possiamo né sappiamo dimostrare onesta la causa, considerando molto brutto occuparci di affari e di operazioni, di cui non è possibile dimostrare almeno una ragione probabile (perché per alcuni l’istituto naturale cede di fronte all’istituto morale e alle norme civili); e come se nessun pudore o considerazione dell’onestà smuovesse187 quelli dal seguire ciò che piace e ciò che l’impeto li porta a fare, ignorando la ragione dell’attività intrapresa o dell’azione compiuta o che vanno a compiere. Ma anche se all’inizio sembrano voler obbedire all’impeto, poi tuttavia adoperando la mente 909

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXVIII

temerario parumque, ut urbana dictat ratio, laudabili sub iugum rationis compresso, nullum naturae illi impetuosae irrationabilique permittunt locum. 2. Theodorus Gaza, vir et vita et moribus non minus probatus quam eruditione rerum plurimarum clarus atque scientia, cum audiret obiurgantes quosdam, magis quam incusantes Ferdinandum regem Neapolitanorum, quod parum consulte nec omnino prudenter res suas administraret: «Amabo», inquit, «viri boni, desinite regem incusare, cui moribus his hocque gubernandi genere seque resque suas moderanti omnia e sententia fluerent; anne id agere est in animo, quo cursum rerum eius suapte natura fluentium consultando matureque agendo impediatis? Quin gradiatur rex et fortunatus et felix non alia magis quam qua hactenus incessit via, ne dum iter mutat ac mores, fortunam quoque, quod ipsi nullo modo cupitis, novis artibus mutet». Intelligebat igitur vir doctissimus, id illos tandem agere (dum quid fortuna esset ignorant) uti consiliis cogitationibusque bene concoctis aurarum secundos flatus regiis ab rebus averterent.

XXVIII FORTUNAM ALIQUANDO VERSARI ETIAM CIRCA IMPETUS RATIONALES. 1. Quamquam autem hos ipsos impetus versari in iis dicimus appetitionibus, quae a mente rationeque aberrent longius, tamen quod abunde multum potens pollensque fortunae vis est, non videtur negligendum, id quod res ipsa docet, in appetitionibus quoque eam rationalibus propitiam sese maximeque favorabilem aliquando ostendere. Nam etsi, ut dictum est utque fortunae definitio docet omnesque consentiunt, nihil omnino cum ratione coniunctum habet, non raro tamen utraque in unum congruunt; ut, cum hinc ratio modusque et prudens et cautus administrati negocii reique bene gestae bonum adducit sive exitum sive eventum, illinc fortunae quoque afflatus in idem aspirat, duae ut simul diversae causae, rationalis altera, altera eventitia, casu quodam in id ipsum confluunt unaque collabuntur.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXVIII

per la riflessione, assoggettato quell’impulso come temerario e troppo poco lodevole, come vuole la ragione civile, sotto il giogo della ragione, non lasciano più posto a quella natura impetuosa e irrazionale. 2. Teodoro Gaza,188 persona stimata per la vita e i costumi non meno che famoso per vasta dottrina e scienza, udendo alcuni che ingiuriavano il re di Napoli Ferdinando, più che accusarlo, perché governava con poca riflessione e con nessuna prudenza il suo stato, disse: «Vi prego, buona gente, cessate di accusare un re al quale, con questo modo di comportarsi e con questa maniera di governare sé e le sue cose, tutto andava secondo le intenzioni; per caso avete in animo di ostacolare mediante la consultazione e l’azione opportuna il corso dei suoi eventi che scorrono naturalmente? Che anzi lasciamo il re procedere, fortunato e felice com’è, per una via non diversa da quella che fin qui ha tenuto, ad evitare che cambiando lui itinerario e modo di fare, anche la fortuna si metta ad usare nuove arti, cosa che certo voi non desiderate». Capiva il dottissimo uomo, che in definitiva quelli (ignorando come sia fatta la fortuna) facevano così per allontanare dalla vita del Re il soffio favorevole dei venti con i pensieri ben meditati.

XXVIII LA FORTUNA TALORA RIGUARDA ANCHE GLI IMPETI RAZIONALI. 1. Sebbene poi diciamo che questi impeti riguardino gli appetiti, che si allontanano di molto dalla mente e dalla ragione, tuttavia essendo molto potente e valida la forza della fortuna, non sembra necessario trascurare il fatto, come la realtà dimostra, che essa anche negli appetiti ragionevoli si mostri propizia e talora molto favorevole. Infatti anche se, come si è detto e come insegna la definizione della fortuna ed è pensiero concorde di tutti, la fortuna non ha nulla in comune con la ragione, tuttavia non è raro che s’incontrino su un punto; per esempio, quando di qui la ragione e il modo prudente e cauto con cui si è guidato un affare e si è gestita un’azione, produce un esito o un evento positivo, di lì anche il vento della fortuna spira nella stessa direzione, in tal modo che le cause diverse, una razionale, l’altra eventizia, per un caso confluiscono e coincidono. 911

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXVIII

2. Quae tamen res non tam id efficit, ut ratio fortunae sit subiecta imperio utque ipsa per se quidem aut cum ratione agat, aut rationis utatur opera, quam ut nobis ostendat simulque commonefaciat casu id eventitiaque de causa usuvenire; ut cum aedificanti domum, apparantique pecuniam necessariam et architectis et operis, lapides item materiamque aliam opportunam aedificationi, repente in substruendis fundamentis obiicitur auri, aut argenti massa. Qua tamen in re, nec ratio traxit ad se fortunam, nec fortuna secum adhibuit rationem, verum ita contigit perinde ut humanae ferunt res ac varietates, duas has in unum simul sive naturae vires, sive e natura menteque temperatas potestates consentire, et tanquam duos rivulos, alterum sulphureum squalentemque, maxime limpidum alterum in amnis cuiuspiam alveum confluere, quo e confluxu amnis illius et compleatur alveus et augeatur decursus. Itaque eventus aliquando fert ipse, ut fortuna quoque videatur cum ratione coniungi, neutrius tamen ob naturam, verum ob eventum solum, diversarumque causarum repentinam concursionem. 3. Vides igitur qua via quoque modo id interdum eveniat, ut secundum rationales quoque impulsus fortunae vis sese exerceat. Verum enim cum mens ipsa et quem tum intellectum vocamus, tum intelligentiam, in inquirendo, contemplando ratiocinandoque versetur, profecto nihil habet fortuna, quare illius sese immiscere iurisditioni in alterutram possit partem seu favoris, seu detrimenti. Sed nescio quomodo fortunae quoque eodem penetrat vel lenior aura, vel turbatior, quasi non contemplatricem nobis vitam sequentibus fortuna multa possit obiicere, ut patriae excidium, ut patrimonii direptionem, ut liberorum orbitatem, ut qui carissimi nobis erant eorum amissionem ac iacturam, quae animum ipsum mentemque pluribus e partibus et perturbent vehementius et concutiant retrahantque a contemplando, aut ex adverso bona plurima offerat quae magis magisque animum incitent, hortentur vel etiam impellant ad navandam longe etiam studiosius operam, ad rerum naturae divinarumque contemplationem atque scientiam. Itaque quid etiam nos ipsi hac in parte sentiamus, manifesto ex iis, quae dicta sunt, intelligis.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXVIII

2. Questa circostanza non tanto fa in modo che la ragione sia soggetta al dominio della fortuna e che questa agisca autonomamente o insieme con la ragione, o si valga dell’opera della ragione, quanto ci mostra, e allo stesso tempo ci fa capire come ciò avvenga per caso e per una causa eventizia; per esempio quando ad uno che edifica una casa e si procaccia il denaro necessario per gli architetti e per i lavori, come le pietre e l’altro materiale per la costruzione, d’un tratto nello scavare le fondamenta salta fuori una quantità d’oro o d’argento. Tuttavia in questa circostanza né la ragione attrae a sé la fortuna, né la fortuna si vale della ragione, ma accade quel che accade nella mutabilità delle cose umane, che queste due insieme, sia le forze della natura, sia le potenze regolate che provengono dalla natura e dalla mente, si accordano, e come due rivoli, l’uno sulfureo e sporco, l’altro limpidissimo confluiscono in uno stesso alveo di fiume, e dalla loro confluenza il letto del fiume viene riempito e il corso cresce. Perciò lo stesso evento talvolta fa che anche la fortuna sembri congiungersi con la ragione, non però per la natura che hanno l’una e l’altra, ma per accidente, e per il repentino concorso di cause diverse. 3. Vedi dunque come può ben avvenire talora che la forza della fortuna si esplichi anche secondo impulsi razionali. Ma quando la mente e quello che ora chiamiamo intelletto, ora intelligenza, si applica alla ricerca, alla contemplazione e al ragionamento, certamente la fortuna non ha nessuna possibilità di congiungersi al suo dominio, in un senso o nell’altro, per recar vantaggio o danno. Ma, non so come, anche il vento della fortuna, più leggero o più turbolento che sia, vi penetra, quasi che la fortuna non possa opporci molti ostacoli quando seguiamo la vita contemplativa, come la rovina della patria, la distruzione del patrimonio, la perdita dei figli, la perdita e il danno di coloro che ci erano più cari, cose che turbano fortemente e scuotono l’animo e la mente per più versi, e ci distolgono dal contemplare; o viceversa non possa offrirci moltissimi beni, che sollevano ancor di più l’animo, lo esortano e lo spingono a compiere l’opera anche con più lena, verso la contemplazione e la conoscenza della natura e della divinità. Così, da ciò che abbiamo detto, puoi capire chiaramente che cosa pensiamo su questo argomento.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXIX

XXIX THOMAE AQUINATIS DICTA. 1. Thomae Aquinatis in explanatione libelli, qui de bona inscribitur fortuna, dicta sunt haec; perquam libenter enim quadamque quasi necessitate in re, quae pene habita est profana, testimonium adducimus ac sententiam eiusdem unius et viri sanctissimi et theologi maxime eminentis inter Christianos. Sunt igitur dicta eius sententiaeque huiusmodi: nihil extra Deum esse, conservareque ipsum cuncta, perinde ut anima corpus tueatur ac conservet, cumque omnia tuendo conservet conservandoque contineat, nihil prorsus extra deum esse; ad haec deum et principium esse et causam motus rerum quae sunt omnium universaque ex hoc moveri, in iis et hominis quoque animam ad intelligendum et contemplandum; esse igitur divinum in nobis quiddam, in anima videlicet nostra, quod nos nostraque ad bonum excitet atque invitet, divinum vero illud deum esse, moventem finem in suum cuncta; itaque qui motum eum percipiant divinosque sequantur impetus, eos et adipisci quae iudicentur bona, et inde fortunatos esse atque haberi. 2. Post quae etiam ait principium rationis nullo esse modo rationem, verum aliquid quod praestet rationi; quid autem praestet, quid ve potius sit ac melius scientia atque intelligentia? praeter deum aliud esse nihil. Quin etiam, quae sint cuncta respectu eius, quod est primum, instrumenta quasi quaedam esse ab eodem fabrefacta, referendum ergo intellectum ad deum esse veluti ad principium, quo nihil sit praestabilius, nihil melius. Cumque hic ipse intellectus habeat se aeque ac instrumentum, hinc animae nostrae commotiones ad deum quoque ipsum referendas, agitationes item mentis atque intelligentiae, utpote primam ad causam omniumque quae moveantur originem. Igitur et impetus quoque illos ipsos, qui in ea parte animae quae intellegit fiunt, ad eundem modo simili referendos. Hinc etiam subiicit bonam fortunam esse aliquid sine ratione fortunatisque hominibus consilio, aut consultatione minime opus esse, quin rationem ipsam saepenumero bonae fortunae cursum impedire. Ad haec prudentiam atque agendi peritiam, sapientiam denique a fortuna superari. Illud etiam usuvenire, ut parum qui habeantur sapientes fortunae potius favore beneficioque uterentur, esse quoque eosdem fortunatiores; ideoque verum id esse, quod pervulgatum iam esset, hos ipsos scilicet sine ratione, sine consilio,

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXIX

XXIX OPINIONE DI TOMMASO D’AQUINO. 1. I pensieri di Tommaso d’Aquino nell’esposizione dell’operetta intitolata La buona fortuna sono i seguenti;189 riportiamo, in verità, molto volentieri e quasi per necessità, in un argomento che è stato considerato quasi profano, soltanto la testimonianza e il pensiero di quell’uomo santissimo e teologo fra i più eminenti del Cristianesimo. Le sue parole e i suoi pensieri sono dunque di questo genere:190 non vi è nulla che sia al di fuori di Dio, e Lui conserva tutte le cose come l’anima protegge il corpo e lo conserva, e poiché proteggendolo lo conserva e conservandolo lo contiene, nulla è fuori di Dio. Inoltre Dio è anche principio e causa del moto di tutte le cose che sono, e per ciò l’universo si muove all’interno di esse come anche l’anima dell’uomo rivolta alla conoscenza e alla contemplazione. C’è poi qualcosa di divino in noi, cioè nella nostra anima, che spinge e fa rivolgere noi e le nostre cose verso il bene, ma quel qualcosa di divino è Dio,191 che muove al suo fine tutte le cose. Pertanto coloro che percepiscono quel moto e seguono gli impulsi divini, si ritiene che conseguono i beni, e perciò sono e sono ritenuti fortunati. 2. Dice inoltre che principio della ragione non è affatto la ragione, ma qualcosa che preesiste alla ragione; e che cosa potrebbe preesistere alla ragione o essere migliore della scienze e dell’intelligenza? Non può esser nulla tranne che Dio. Che anzi, tutte le cose sono, rispetto a lui che è l’essenza prima, strumenti fatti da lui stesso, per cui l’intelletto va riferito a Dio come al suo principio, e di lui non v’è nulla di più eccellente, nulla di migliore. E poiché lo stesso intelletto ha sé come strumento, perciò anche i moti della nostra anima, i movimenti della mente e dell’intelligenza vanno riferiti a Dio come causa prima e origine di tutte le cose che si muovono. Dunque anche gli impeti che si creano nella parte dell’anima che intende, allo stesso modo vanno ricondotti a lui. Di conseguenza soggiunge anche che la buona fortuna è un qualcosa privo di ragione e che alle persone fortunate non è necessaria né la riflessione, né la consultazione, che anzi spesso la ragione impedisce il corso della buona fortuna. Inoltre la prudenza e la bravura nell’agire, e infine la saggezza sono superate dalla fortuna. Avviene di solito anche questo, che coloro che son tenuti per poco saggi, si valgano del favore e dell’ausilio della fortuna, e siano anche più fortunati; perciò avviene un fatto ormai abbastanza notorio, che 915

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXIX

impetu tantum duce, optatam metam contingere. Esse igitur fortunam sine ratione quippiam; impetus enim illos, quos fortunati sequerentur, a ratione nullo modo excitos, verum a deo ipso, eamque ob rem consilio opus iis nequaquam esse; sequi enim eos causam illam atque originem, quae et consilio potior est et intellectu, quippe cum deum ipsum rectorem habeant, atque itineris ducem. 3. Subdit deinde, qui rationem sequantur, iis neque id inesse, ut sint fortunati, neque divinos instinctus esse insitos, nec optatum ob id posse eos finem pertingere. Boni nanque successus adeptionem ab instinctu illo carente ratione atque consilio proficisci. Etenim belluas cassaque ratione animalia instinctus ipsos naturales multo familiarius opsequentiusque quam homines sequi, quos ratio quidem ipsa mensque rationi intenta impediat distrahatque a percipiendis atque insequendis illis; per eundem itaque solere modum contingere, ut qui sapientiae studeant rerumque dediti sint cognitioni, ne eosdem aut sentiant aut sequatur instinctus, magis magisque a ratione sapientiaque prohibeantur; ex eo id effici, ut ratio impedimentum esse quoddam videatur bonorum eventuum fortunaeque secundioris. 4. Deinceps haec quoque subiungit: hominum ita institutorum divinationem longe quam sapientium apparatiorem esse ac magis promptam, fortunatos enim et citius et melius rerum exitum ac finem praesentiscere, quippe qui et sentiant ipsi et praesagiant divino ab instinctu, qui sensum excedat omnem omnemque utique intelligentiam. Esse autem atque inveniri, rerum exitus qui praesentiant, et tanquam antevideant futura quae sint, quia multa ipsi audierint, legerint, experti sint, quodque diu multumque cogitando, praesentiaque comparando praeteritis ex iisque futura coniiciendo, de rerum exitu et iudicent, quid eventurum sit, et praedicant illud. Deum autem absque ulla rerum inter se comparatione coniectura ve, absque doctrina et scientia habere ante oculos et quae praeteriere et quae praesentia sunt atque etiam sint futura, nullaque illi ratione opus esse aut praesagio futuris praenoscendis. Quippe qui non solum ea per se ipse noverit, verum et alia quoque < – asserit – ipsi esse cognita>, quorum ad homines necdum pervenerit aut ratio aut cognitio. Quocirca meliorem et ducem, et directorem rerum nostrarum deum quam prudentiam esse, aut sapientiam, usum ve plurimorum negociorum. Recte igitur dictum esse ac definitum, bonam fortunam, quaeque divina dicatur, hominum praestare cognitioni, ac sapientiae. Atque haec quidem Thomas. 916

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXIX

essi raggiungono la meta desiderata senza la guida della ragione, senza la guida della riflessione, soltanto guidati dall’impeto. È la fortuna un qualcosa privo di ragione; poiché gli impeti che i fortunati seguono non sono mossi dalla ragione, ma da Dio stesso, e perciò essi non hanno bisogno di riflessione; seguono infatti quella causa originaria preferibile all’intelletto e al consiglio, avendo per signore e per guida di viaggio lo stesso Iddio. 3. Aggiunge poi che, chiunque segua la ragione, non possiede la prerogativa di essere fortunato, né gli sono insiti istinti divini,192 né può raggiungere, per questo, il fine desiderato. Il raggiungimento del successo proviene infatti dall’istinto privo di ragione e consiglio. Le bestie e gli animali sprovvisti di ragione seguono gli istinti naturali con molto maggiore aderenza e obbedienza di quanto faccia l’uomo, che la stessa ragione e la mente dedita alla ragione distrae dal percepirli e perseguirli; allo stesso modo succede che chi è dedito alla sapienza e alla conoscenza non avverte né segue gli istinti, e ancora di più dalla ragione e dalla sapienza viene impedito; perciò avviene che la ragione risulti essere un impedimento ai successi e alla fortuna favorevole. 4. In seguito aggiunge: la dotazione di uomini cosiffatti è di gran lunga maggiore e più valida di quella dei sapienti, perché i fortunati sentono anticipatamente, più presto e meglio, l’esito e il risultato, per il fatto che avvertono e presagiscono193 per un istinto divino, il quale eccede ogni senso e così ogni facoltà intellettiva. Vi sono poi, e si trovano, di quelli che sentono anticipatamente e quasi prevedono il futuro per il fatto che molto hanno udito, molto hanno letto, di molte cose hanno avuto esperienza, e per il fatto che, pensando molto e confrontando il presente con il passato, e congetturando di qui il futuro, giudicano l’esito che è da venire e sono capaci di annunziarlo. Ma Dio, senza fare alcun confronto o congettura, senza dottrina e scienza ha davanti agli occhi il passato, il presente e anche il futuro, e non ha bisogno di alcuna ragione o presagio per prevedere il futuro. Perché egli non solo conosce queste cose in sé, ma anche altre ,194 la cui ragione o conoscenza non ancora è pervenuta agli uomini. Perciò egli è guida e signore delle nostre cose più che la prudenza e la sapienza, o l’esperienza molteplice. Giusta dunque è la definizione, secondo cui la buona fortuna e quella che vien detta divina, sia superiore alla conoscenza e alla sapienza umane. E fin qui quel che dice Tommaso.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXX

XXX DE FORTUNA DIVINA ET EVENTITIA. 1. Igitur idem ipse Peripateticique uno simul ore consentiunt, hos ipsos impetus, qui alio nomine sunt instinctus impulsusque ad deum veluti ad primam ac supremam causam referendos, ipsam vero bonam fortunam, quod etiam ipsi non multo ante fecimus, duplicem esse, alteramque quae pene continua atque assidua magis esset, divinam appellare non dubitavit, alteram omnino fortuitam habendam censet; utranque vero in eo convenire, quod neutra rationi consilioque innititur; nihil enim quod a fortuna intra rationis cancellos versari aut coerceri, contra in eo differre, quod divina haec, licet impetum sequatur, magis tamen sibi constat ac tenorem retinet, illa vero tenorem abrumpit estque nullo pacto assidua. Cumque haec ipsa parum continua minusque ac minus familiaris, fortuiti plus habeat, minus profecto habet bonitatis; divina vero bonitatis plus, minus omnino fortuiti. 2. Quod autem dicunt minus habere fortuiti, tale est, quod videlicet fortuita pluribus progrediantur e causis, quarum concursus sit penitus eventitius, quantoque eventitii secum plus habet, tanto etiam fortuiti amplius. Nam quae ad divinam conveniant eandemque quae impetum sequitur ac tenorem magis servat, licet et ipsa quoque confluant ex accidenti, naturalem tamen quendam videntur ordinem sequi, neque enim eventitium omnino putandum est ac temerarium, quod et impetus in anima excitos atque in nobis ipsis suscitatos amplectamur extemplo, ac secundum eosdem susceptum iam negocium moderemur dirigamusque actiones ad exitum nostras. Quid igitur mirum si plus in hac boni? Nam bona fortuna a bono est dicta, quando quo magis assidua est, eo saepius benignum sortitur eventum efficiturque per singulas frequentationes ac gradatim melior. Bona autem tum plura, tum magis frequentata quis nesciat praeponenda esse paucioribus? Non igitur mirum, fortuiti si plus in altera, longe vero in altera boni amplius.

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXX

XXX FORTUNA DIVINA E FORTUNA EVENTIZIA. 1. Dunque i Peripatetici sono d’accordo su uno stesso punto, che questi impeti, che con altro nome si chiamano istinti e impulsi, vadano ricondotti alla prima e suprema causa, ma che la buona fortuna, come anche non molto prima abbiamo asserito, è duplice, e l’una, quella che è quasi continua e più costante, Tommaso non ha esitato a chiamarla divina, mentre ritiene che l’altra debba considerarsi del tutto fortuita. Ma l’una e l’altra convergono in ciò, che nessuna delle due si fonda sulla ragione e sul consiglio; non c’è niente, infatti, che dalla fortuna sia spinto o costretto entro i limiti della ragione; differiscono invece in ciò, che quella divina, quantunque segua l’impeto, tuttavia è coerente con se stessa, conserva il suo andamento normale, mentre quell’altra lo interrompe e non è affatto costante. E poiché quest’ultima è poco continua e meno amica, ha più casualità, ha certamente minore bontà; la divina invece ha più bontà e minore casualità. 2. Quanto poi al fatto che dicono aver essa minore casualità, si tratta di questo, che naturalmente le cose fortuite procedono da moltissime cause, il cui incontro è assolutamente eventizio, e quanto più ha con sé di eventizio, tanto più ha di casuale. Infatti, quegli eventi che si accordano con la fortuna divina, con quella stessa che segue l’impeto e conserva di più un andamento normale, sebbene anch’essi provengano da un accidente, sembra tuttavia che seguano un certo ordine; non bisogna infatti considerare del tutto eventizio e sconsiderato il fatto che noi accogliamo subito le spinte impresse nell’anima e suscitate in noi, e che assecondandole governiamo l’opera intrapresa e dirigiamo le nostre azioni verso il loro esito. Che meraviglia c’è, se in questa fortuna vi sia più bontà? La buona fortuna, infatti, vien detta così da «buono», poiché quanto più è costante, tanto più spesso sortisce un effetto benigno e diviene ad ogni passo e gradatamente migliore. E chi mai non sarebbe dell’avviso che debbano preporsi i beni più numerosi e più richiesti, a quelli meno? Non fa dunque meraviglia, se c’è più casualità nell’una, ma molto più vantaggio nell’altra.

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DE FORTUNA, LIBER SECUNDUS, XXXI

XXXI DE GENERE DUPLICI FORTUNATORUM. 1. Eadem hac via duplex genus fortunatorum constituunt, eorum quidem unum, qui divino agantur ductu sentiantque consistentis illius favorem assiduum, illorum vero alterum, quorum institutrix sit fortuna penitus eventitia, ipsaque parum frequens et rara. Ac prioris quidem generis exemplum est. Eutychus Sabinus, qui pransus cum esset conversus ad uxorem, «nescio quid – inquit – boni mihi praesagit animus», itaque e vestigio «iturus Romam sum, cras ad te rediturus», iter ingressus, cum de aestu deque itinere fessus sub arborem consedisset, animadvertit vetus aedificium, quod erat secundum viam, paulo ante corruisse, factusque ruinae propior, in scriniolum incidit argento gravidum. Idem cum vidisset in somnis gallinaceum scalpurientem solum atque inde rostro haurientem triticum, experrectus cum esset ac somni memor sibique bene auspicans ad villam contendit, et quo loco vidisset dormiens scalpurientem gallum, ibidem coepit fodere, nec multum operae in effodiendo adhibuit, ecce concrepuit olla numorum plena. 2. Item cum audiret a praecone venalem fieri vineam, statim pupugit animum spes quaedam inopina futuri inde multis cum emolumentis boni. Emit ea spe atque instinctu ductus, cumque decrevisset in ea columbarium aedificare, effodiendis fundamentis praeluxit repente eius oculis aurea Veneris et Charitum tabella. In olei quoque vilitate ad forum cum accessisset, nemine de oleo emendo tunc solicito, coeteris aspernantibus, commovit eum de subito appetitus quidam repente quidem excitus, qui emptionem utilem futuram promitteret. Emit igitur, mercatoribus qui aderant propositum eius irridentibus. Insequenti anno nullus fuit ex olivis proventus, tertio et quarto siccitas, aestus, uredines, bruchi quoque frondibus ramusculisque fecere iniuriam. Quinto igitur anno tantum lucri obvenit illi ex oleo, ut decuplo etiam vendiderit. Iter etiam Romam faciens obvium habuit in via adolescentulum etruscum, qui patris iram fugerat. Percunctatus igitur et itineris causam et pueri solitudinem, quem egregia esse indole videbat et sermone ingenuo, perculit illico eius animum cupiditas collocandae fi liolae; adducit igitur

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LA FORTUNA, LIBRO SECONDO, XXXI

XXXI LE DUE SPECIE DI FORTUNATI. 1. Con questo stesso metodo si distinguono due specie di fortunati, una è quella di coloro che sono sospinti dalla guida divina e che risentono del favore continuo di quella guida costante, mentre l’altro è quello di coloro di cui è fautrice la fortuna del tutto eventizia, e questa è rara e molto poco frequente. Un esempio della prima specie è quello di Eutichio Sabino,195 il quale dopo pranzo rivolgendosi alla moglie disse «l’animo mi presagisce non so che cosa di buono»; e subito «sto per andare a Roma per ritornare da te domani», e intrapreso il viaggio, poiché stanco del viaggio si accomodò sotto un albero, si accorse che un vecchio edificio, che era lungo la via, era crollato poco prima, e avvicinatosi alla catastrofe s’imbatté in uno scrignetto carico di argento. Lo stesso personaggio, visto nel sonno un gallinaceo che raschiava il suolo e ne traeva col becco del grano, svegliatosi e ricordatosi del sogno, si avviò verso la sua villa augurandosi qualcosa di buono; cominciò a scavare nello stesso luogo nel quale aveva visto dormendo il gallo che scavava, e non dovette impegnare molta fatica a scavare, che ecco risuonare una pentola piena di denari. 2. Sentendo dire inoltre da un banditore che era in vendita una vigna, subito fu punto da un’inopinata speranza di un bene futuro e di bei guadagni. La comprò spinto da quella speranza e dall’istinto, e avendo deciso di edificare in essa un colombaio, mentre scavava le fondamenta ai suoi occhi risplendé un quadretto d’oro raffigurante Venere e le Grazie. Andato in piazza quando l’olio era a basso prezzo, non essendoci nessuno interessato all’acquisto dell’olio, mentre tutti gli altri si rifiutavano di comprare, fu preso improvvisamente da un desiderio repentino, che gli prospettava un acquisto vantaggioso. Lo comprò mentre i mercanti presenti ridevano del suo proposito. L’anno seguente i proventi delle olive furono nulli, il terzo e il quarto anno la siccità, l’arsura, e anche i bruchi sulle foglie e sui rami apportarono un bel danno. Nella quinta annata fu tanto il guadagno che ricavò dall’olio, potendolo vendere a un prezzo dieci volte maggiore. Viaggiando alla volta di Roma, incontrò lungo il viaggio un ragazzo toscano che cercava di sfuggire all’ira del padre. Informatosi allora del perché viaggiasse da solo il giovinetto, che gli sembrava di ottimo carattere e di nobile favella, lì per lì si fece prendere dal desiderio di dargli in moglie la figliola: se lo porta a casa esortando921

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illum ad se multis cohortatus, bonum ut haberet animum, indeque uxori commendat. Nec multos post dies, quod adolescentuli mores mirificam prae se ferebant ingenuitatem, egregiamque animi indolem, spemque in dies maiorem quanquam invitis cognatis atque affinibus, despondit ei filiolam. Annus nec abiit cum, patre quique illi erant de pestilentia extinctis fratribus, paternis atque avitis bonis haeres adolescens ipse successit, fuitque patrimonium amplum admodum atque magnificum. 3. Vides Sabinum hunc Eutychum, plura in dies fortuna aggerente, praesagientem ubique bene sibi atque e sententia perinde ac numine commonefaciente aliquo morem illi gerere, primoque iter Romam suscepisse, secundo vineam sibi comparasse, praesagiente animo secundos successus; tertio emisse oleum, eodem stimulante appetitu, quarto fugitivum puerum ascivisse in generum, utile id honoratumque futurum pollicente instinctu, quem auctorem et ducem ubique secutus est. 4. Posterioris generis est illud: Mamercus Capretanus, piscator apprime pauper, ut fere plerique omnes sunt piscatores, de more ingressus mane cymbam, id agebat, ut de piscatu sibi familiaeque opsonium compararet et panem; cum iecisset rete in altum, indeque illud postilena ad litus traheret, halga gravidum subduxit, iratusque halgam in litus cum proiiceret, capsulam aureorum plenam cum halga eiectam in arenam fregit, domumque ex paupere dives rediit. Nihil non hic fortuitum, impetus omnino nullus, praesagium nullum, appetendis ea e piscatione lucris thesauris ve titillatio alia prorsus nulla, praeterquam capiendorum in coenam piscium atque emendi panis.

XXXII QUAE DIFFERENTIA INTER DIVINAM, EVENTITIAMQUE FORTUNAM. 1. Divina igitur eventitiaque fortuna, bona utraque agnominata, magnopere inter se differunt, quando appetitio illa quasi divinitus excita ubique dux est eius atque commonitrix, qui divinae fortunationis existit e genere. Illum autem alterum aut vix aut rarenter admodum vel exci-

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lo vivamente a star di buon animo, e lo raccomanda alla moglie. Non dopo molti giorni, poiché il comportamento del giovane dimostrava una straordinaria nobiltà e un eccellente carattere, e faceva sperare di sé sempre di più, nonostante il parere contrario di familiari e parenti, gli fece sposare la figliola. Non passò un anno che, morti di pestilenza il padre e i fratelli che aveva, il ragazzo successe ai beni paterni e aviti, e il suo patrimonio divenne molto grande e magnifico. 3. Guardalo, questo Eutico Sabino, con la fortuna che di giorno in giorno gli aggiungeva sempre qualcosa di più, sempre sicuro che tutto gli sarebbe andato bene secondo le sue intenzioni, come se un nume consigliasse di compiacergli: dapprima affrontò un viaggio a Roma, per secondo si comperò una vigna perché l’animo presagiva favorevoli successi, terzo comprò dell’olio spinto a ciò da una medesima voglia, quarto si prese come genero un ragazzo fuggitivo, poiché a fargli presagire un futuro utile e onorato era l’istinto, che lui sempre seguì come protettore e guida. 4. All’altro genere appartiene quest’altro esempio: Mamerco Capretano, dapprima povero pescatore come quasi la maggior parte dei pescatori lo sono, entrato in mare secondo il solito, portava la barca per procurarsi cibo e pane per sé e per la sua famiglia; gettata la rete in alto mare, e quindi trascinandola con una cinghia196 a riva, la tirò su carica di alga, e mentre arrabbiato gettava l’alga sulla riva, ruppe una cassetta piena di monete d’oro gettandola sulla sabbia con l’alga, e tornò a casa ricco da povero che era. Non c’è nulla in questo caso di non fortuito, nessun impeto assolutamente, nessun presagio, nessun altro prurito, assolutamente, di cercar guadagni o tesori da quella pesca, tranne quello di catturare pesci per la cena e comprare del pane.

XXXII DIFFERENZA FRA FORTUNA DIVINA E FORTUNA EVENTIZIA. 1. La fortuna divina e quella eventizia, entrambe definite buone, differiscono molto fra loro, perché quello stimolo quasi mosso dalla divinità è comunque una guida e un avvertimento per colui che appartiene al genere di chi riceve l’influsso della fortuna divina. Difficilmente o molto di rado invece dà la spinta o l’avvertimento a quell’altro. Inoltre l’uomo 923

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tat, vel monefacit. Ad haec fortunatior ille, quique videatur Deo carior, electionem quasi quandam adhibet sequendi eius atque agendi, quod animus ipse praesagus ac praesentiens repraesentat. Hic vero alter multo quidem sese habet secius; in ea nanque fortunae raritate aut nullus eum excitat impetus nulloque ipse instinctu ducitur, aut nulla incoeptis ac gressibus eius accedit electio, et siqua forte accesserit, viam hanc principio ingressus ipse in aliam mox inscius ignoransque delabitur. 2. Quocirca fortunatus ille, cui assiduum fere adest divinae illius fortunae suffragium lumenque naturalis illi favor accendit in tenebris, impetum sequitur, et quo instinctus ipse eum ducit, illo seque actionesque suas dirigit, totumque ad illum se componit, nullo consilio, nulla penitus ratione adhibita; interrogatusque ipse, uti iam diximus, quidnam aliud afferat causae, quam quod illud sequatur ipsum, quod impetus simul animusque dictaverit? Ipsa vero appetendi excitatio primaque commotio cum insit a natura, quippe quae in bonum ubique et ipsa feratur, et hominem etiam eo trahat, non nisi divino potest de beneficio contingere. Quippe cum eiusmodi ipsa sit, ea ut concupiscat, quibus opus sit, et quo tempore oporteat, quoque etiam modo. Etenim excitatio ipsa atque appetitio futura est pro naturae ipsius aptitudine atque institutione, supremo illo numine, ut nostri etiam Theologi sentiunt, eam movente.

XXXIII DE FORTUNATIS, QUI SUNT RUDI ET CRASSO INGENIO. 1. Nec mirum igitur, nec a rei natura alienum est, rudiori quosdam ingenio praeditos minusque ad ratiocinandum accommodatos, quorum etiam animis quaedam insita est simplicitas, crassitudo[que] quasi quaedam et ad inveniendum et ad iudicandum, naturae commotiones has magis sequi illisque obtemperantiores esse, quam qui acutiori sit ingenio captuque magis perspicaci. Quibus idem usuvenit [(ut A. Colotius noster dicere solet)], quod iis qui oculis capti sunt. Hi enim propter aut amissam, aut non concessam lucem, memoria sunt maiore magisque tenaci et valida. Itidem quibus acumen deest ingenii ad ratiocinandum, defec-

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più fortunato e tale da sembrare più caro a Dio, compie quasi una scelta nel seguirlo e nel compiere quello che l’animo stesso, presago e capace di avere un presentimento, gli rappresenta. L’altro invece si comporta in modo assai differente; infatti, nella stessa situazione di rarità della fortuna, o nessun impeto lo sveglia, o da nessun istinto si fa trasportare, o nessuna scelta accompagna i suoi progetti o i suoi passi, e se ve n’è qualcuna che li accompagna, lui dapprima entra per questa via, poi subito scivola in un’altra senza saper nulla né rendersi conto di nulla. 2. Perciò la persona fortunata che l’aiuto di quella fortuna divina quasi accompagna continuamente, e al quale come un lume naturale il favore brilla nelle tenebre, segue l’impeto, e dove l’istinto lo conduce, lì dirige sé e le sue azioni, e tutto ad esso si adegua, senza usare alcun consiglio, alcuna ragione assolutamente; e interrogato, come già si è detto, quale altro motivo potrebbe addurre se non che egli segue ciò che l’impeto e insieme l’animo gli dice di fare? Lo stesso stimolo e il movimento iniziale, essendo insiti per natura, poiché anch’essa va sempre verso il bene trascinandovi l’uomo, non possono provenire se non da un favore divino, perché la natura è di tal fatta da desiderare quelle cose che sono necessarie e nel tempo in cui lo sono, e nel modo in cui lo sono. E quindi lo sprone e lo stimolo saranno conformi all’opportunità e alla regola della natura, essendo mossi da quella potenza divina, come pensano anche i nostri teologi.

XXXIII I FORTUNATI D’INDOLE ROZZA E GROSSOLANA. 1. Non deve meravigliare, e non è contro natura, il fatto che alcuni forniti di un ingegno piuttosto rozzo, poco adatti al ragionamento, nel cui animo risiedono una qualche semplicioneria e quasi una durezza197 nel percepire e nel giudicare, seguano di più questi stimoli della natura e siano più disponibili a obbedir loro, che non quelli dotati di un ingegno più fine e di una maggiore capacità d’intendere. A loro avviene la stessa cosa che ai malati di occhi [come suol dire il nostro amico Angelo Colocci].198 Costoro, infatti, per il fatto che hanno perduta, o non è stata concessa loro la vista, hanno una maggiore e più forte memoria. Allo stesso modo quelli che non hanno acume d’ingegno per il ragionamento, 925

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tus ipse opitulatur magisque ac magis adiuvat eoque impellit, naturae ut parentem sequantur instinctum obtemperentque excitanti atque admonenti utilia et commoda, ut, quod in parte illa intellegendi contemplandique ademptum illis est, id repensetur ac suppleatur in gerendo naturae more eiusque admonitionibus audiendis. Relictis enim civilibus negociis exterioribusque actionibus, quibus nullo modo apti sunt, quasque natura parum eis concessit, qui insiti sunt eis instinctus quaeque interiores commotiones, illas secuti, naturae tantum sese accommodant nutuique eius praesto sunt, quae quidem ipsa divino a numine temperetur illiusque regatur imperio. Neque enim non sapientissime etiam dictum est a maximis ac sapientissimis viris, rationem ipsam, qua se movet agitque, rationem quidem esse, qua vero summo movetur a numine, tum vero naturam eam esse, non autem rationem.

XXXIV DEFENSIO FORTUNAE AC NATURAE ADVERSUS EARUM ACCUSATORES. 1. Haec habui de fortuna disserenda quae ducerem, quam, ut scis, sunt qui nullam esse omnino velint, contra qui omnipotentem statuant humanaque omnia, nutu eius imperioque agitari exque eo prosperaque atque adversa ad eam cuncta referenda. Hinc igitur tot in eam ab inconsideratis hominibus doctis indoctisque, probis pariter atque improbis accusationes , totque etiam maledicta iactantur, quod scilicet intemperantes plerunque ac perversos extollat, deiiciat moderatos, quique digni externis, hoc est fortunae ipsius bonis merito videantur. Nec vident eandem sive accusationem sive notam naturae ipsi deoque omnium moderatori posse inuri, deque corporis etiam atque animi bonis, quod eorum quoque parum iusta minimeque aequalis distributio sit, queri eadem via rationeque non minus etiam honeste liceat quam de fortuitis. Est profecto et naturale et eximium corporis bonum tum forma, tum sanitas, idoneum sane alterum donum, ornamentumque et probarum foeminarum et eorum, qui regnis aut publicis administrationibus sunt praepositi. Quae enim honestior potest esse societas atque coniunctio,

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ricevono un aiuto ancora maggiore proprio dal loro difetto, e sono spinti a seguire l’istinto naturale come un genitore e obbediscono a quell’istinto che li richiama e li esorta a fare cose utili e vantaggiose, sicché quello che in parte è venuto loro a mancare nell’intendere e nel ragionare, viene compensato e supplito dal compiacere la natura e dall’udire le sue raccomandazioni. Infatti, trascurando le attività civili e le azioni pubbliche, cui non sono per nulla idonei e che la natura non ha loro concesse, seguendo gli istinti che sono in loro e le spinte interiori, si adattano unicamente alla natura, pronti ad obbedire al suo cenno, la quale natura a sua volta è guidata e governata da una potenza divina. Né è stato detto se non con estrema saggezza dai più grandi e sapienti fra gli uomini, che la stessa ragione, per il fatto che si muove e agisce, per il fatto che è mossa da una somma potenza, è natura, non ragione.

XXXIV DIFESA DELLA FORTUNA E DELLA NATURA DAI SUOI ACCUSATORI. 1. Questo avevo da dire trattando della fortuna, che, come sai, alcuni credono affatto inesistente, alcuni invece definiscono onnipotente e tale che tutte le cose umane siano mosse dal suo cenno e dal suo comando, e perciò ritengono che tutto quanto c’è di prospero e di ostile debba ricondursi ad essa. Di qui allora provengono le tante accuse contro di essa199, da parte di persone sconsiderate, dotte e non, oneste e meno, di qui le maledizioni che le vengono gettate contro, naturalmente perché solleva chi è smodato e perverso, abbatte chi è equilibrato oltre a chi sembra giustamente degno di ottenere i beni esterni, cioè quelli della fortuna. E non si accorgono che possono attribuirsi anche alla natura e a Dio che governa ogni cosa la stessa accusa e la stessa nota di biasimo; non si accorgono che dei beni del corpo e dell’animo, poiché la loro distribuzione è ben poco giusta e per nulla equa, è lecito lamentarsi allo stesso modo e per lo stesso motivo, e non meno correttamente che dei beni della fortuna. Sono certamente beni naturali ed eccellenti del corpo la bellezza, la sanità, un’altra dote certo conveniente, e pregio non solo delle donne oneste, ma anche di coloro che sono a capo dei regni e delle istituzioni pubbliche. Quale sodalizio, quale unione può essere più ono927

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quam probitatis inter se, ac pulcritudinis? quam etiam maiestatis? Egregia enim ac digna et viro et muliere species et probitati addit dignitatem, etiam summam, et reverentiam non exiguam maiestati. 2. Erat in Carolo Octavo Gallorum rege, qui regnum nuper occupavit neapolitanum, foeda quaedam oris corporis vero totius deformis effigies, summa tamen animi fortitudo, digna rege liberalitas, humanitas vel etiam popularis. Quodsi artifex quasi quaedam corporis natura esset accusanda, vel ab ipsis etiam unguiculis ad capillum usque, nihil esset quod non in eiusmodi status constitutione iure suo vel etiam increpanter accusaretur, cum praesertim horis pene singulis obversentur nobis ante oculos etiam mendici homines, quos natura compositissima universi corporis conformaverit et statura et habitu. Summas ipse ac singulares matronas principesque novi foeminas, quas adversum natura videtur fuisse iniquior, quae et Laidas et Thaidas notissima scorta exactae pulcritudinis dote, summo etiam nisu, maximo adhibito artificio decoraverit. Tanti denique artificii quis usus, nisi prostitutio atque infamis quaestus? Indigna vel nefaria potius tam multi studii atque sedulitatis merces. 3. Tutemet nosti Paulum Bosinatem. Eo ne in puero adolescente viro desideratum est aliquid vel ad aspectus dignitatem, vel ad corporis totius speciem? Quonam tanta haec oris pulcritudo, statusque totius in homine etiam ignavo et degenerante? Sed de forma hactenus. De sanitate, quod erat donum alterum aliquid, ut bona corporis reliqua praetereamus. Robur ipsum commendatur in fossore, mediastino, palestrita. Bene habet, congruit artifici atque exercitationi. Sanitas vero, quibus magis necessaria, quam publicarum rerum temperatoribus quique universae civitatis curam gerunt? Horum autem nonne plerique membrorum, aut fere complurium, aut ex his alicuius imbecillitate, aut corporis universi mala tenentur habitudine, publicis ut muneribus, propter langorem atque imbecillitatem, nullo modo satis esse queant? Alius ob stomachi languet debilitatem, alius distillationibus capitis, aut lateris aut pedum dolore laborat alius, cum lenones, ganeones, fartores, popinonesque videamus amicitiam, et tanquam foedus cum sanitate ac membrorum valentia iniisse. 4. Haec cum vides, animadvertis, consideras, cur non, relicta fortuna, in naturam ipse inveheris atque ut iniusti iniuriique damnandam ream

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rata di quella fra onestà e bellezza? Ed anche fra maestà e bellezza? Un aspetto singolare e degno dell’uomo e della donna aggiunge all’onestà una dignità eccelsa e alla maestà non poca autorevolezza. 2. Carlo ottavo re di Francia, che poco tempo fa ha occupato il regno di Napoli,200 aveva un aspetto fisico brutto e deforme, e tuttavia una grandissima fortezza d’animo, una liberalità degna di un re, una umanità cara perfino al popolo. Che se la natura artefice del corpo dovesse essere rimproverata, a cominciare dalle unghie e a finire ai capelli, non ci sarebbe niente che non dovesse essere sbeffeggiato a buona ragione in una simile costituzione, specialmente che quasi a tutte le ore ci stanno davanti agli occhi anche poveracci formati dalla natura nella figura fisica e nei modi in maniera perfetta. Io stesso conosco signore e principesse, con le quali sembra che sia stata ingiusta la natura, che ha invece onorato della dote di una perfetta bellezza Laide e Taide,201 famosissime meretrici, e le ha ornate anche con grandissimo sforzo, usando il massimo dell’arte sua. Qual è l’utilità di tanta opera d’arte, se non la prostituzione e l’infame mestiere? Indegno e scellerato è piuttosto il profitto proveniente da tanto sforzo e da tanta diligenza. 3. Tu stesso conosci Paolo Bosinate.202 Mancava qualcosa a quel giovane per raggiungere la dignità dell’aspetto o la completa bellezza fisica? A che pro tutta quella bellezza del volto e di tutto il fisico in un uomo ignavo e dissoluto? Ma basti questo sulla bellezza. Quanto alla salute, che era l’altra delle due doti, per tralasciare le altre doti fisiche, la stessa forza è elogiata in uno zappatore, in un garzone, in un frequentatore di palestre.203 Va tutto bene, si accorda con l’operatore e col suo esercizio. Ma la salute, a chi è più necessaria che ai governanti dello stato, e a quelli che hanno la cura dell’intera città? Eppure di costoro la maggior parte non è soggetta alla debolezza delle membra, di moltissime o di qualcuna, oppure a una cattiva tenuta di tutto il corpo, sicché essi non possono rispondere sufficientemente ai loro compiti per la fiacchezza e la debolezza? Uno languisce per una debolezza di stomaco, un altro per congestione alla testa, o al fianco, o soffre per il dolore dei piedi, mentre i lenoni, i crapuloni, i beoni, li vediamo aver contratto amicizia, e quasi un patto con la sanità e con la salute delle membra. 4. Quando vedi queste cose, le osservi, le consideri bene, perché, lasciando stare la fortuna, non inveisci contro la natura? E perché, come fanno gli ingiusti e gli iniqui, non la incolpi per condannarla rivolgendoti 929

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apud reum agis? an quia vereris, ne deus ipse inclamans, obiurgans, ira percitus vociferetur «cur, o cur me accusas, ignave homuntio? quid tu, quanam de causa insolescis, homulle undique necessitudinibus circumvente ac de squalore obsite? qua re, quo iure, quibus meritis deum non sinis libere tuaque absque increpitatione officium suum facere? quin sorte tua contentus obticescis cessasque auctori velle rerum omnium praescribere, quando te ipsum tuaque prorsus ignoras omnia?» Itaque quocunque te verteris in distribuendis iis, quae corporis sunt bonis, habes et cuius et qua in re accusare naturam possis, etsi immerito eius, pro humana tamen improbitate atque ignorantia, vel rectius ingratitudine. 5. Mihi in summa vitae parsimonia obrepere coepit surditas. At servulis meis non inest modo auditus bonus, verum summa etiam loquacitas atque ingluvies. Quid mirum autem usuvenire hominibus, quod et terris usuvenit et regionibus? India nigrum Fert hebenum. Solis est thurea virga Sabaeis.

Ut est apud Maronem. Solam intuere Italiam. Nihil ea variantius esse intelleges. Siticulosa est Apulia, Cereris tamen horreum. Marsi Pelignique male arant; iidem abunde pascuntur. Armentosa Lucania; olivosi Salentini; Ligures maxime laboriosi et parci ob soli temuitatem; maritima Etruriae ora pestilentissima et non parum foecunda, reliqua coelo est maxime salubri ac solo vario. Abundat Umbria oppidis, montibus, fluminibus. Eadem hieme maiorem in modum squalescit imbribus, nivibus, frigoribus. Terra Campania opulenta et ferax coeloqu admodum clementi, vexatur tamen assiduis pene motibus austrisque perniciosis. Calabria pecore, vino, fruge, materia etiam felix, homine minus industrio. Itaque eadem est hominum quae et terrarum diversitas ac variantia. Vix quicquam in natura rerum ita simile, ut non multum etiam differat, bene si inspiciatur. Neque natura ipsa ad profectum pervenire atque ad rerum consumationem potest, nisi per diversitatem multam plurimamque varietatem. Inspice hominis, si placet, corpus corporisque ipsius constitutionem ac compaginem, nervos, ossa, lacertos, cutem, spi-

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al colpevole? Forse perché temi che Iddio gridando, rimproverandoti, preso dall’ira dica: «perché, perché addossi la colpa a me, omuncolo ignavo? come mai tu, per quale ragione insolentisci, omiciattolo d’ogni parte assediato da necessità e coperto di sudiciume? Per quale motivo, con quale diritto, per quali tuoi meriti ti senti in grado di non lasciare Iddio fare il suo mestiere liberamente e senza il tuo rimprovero? Perché non ti stai zitto accontentandoti della tua sorte, e non cessi di voler dare ordini all’autore di tutte le cose, dal momento che ignori completamente te stesso e ogni cosa?» Perciò dovunque ti volgi, nella distribuzione di quei beni che appartengono al corpo, hai di che e in che poter accusare la natura, anche se essa non se lo merita, tuttavia secondo la disonestà e ignoranza, o piuttosto ingratitudine, umana. 5. A me, nonostante la parsimonia della mia vita, è cominciata a venire la sordità. Ma i miei servi non solo hanno un buon udito, ma anche una straordinaria loquacità e voracità. Che meraviglia c’è che avvenga agli uomini quel che avviene ai paesi e alle regioni? L’India il nero eban produce. Soli hanno il ramo d’incenso i Sabei.204

Come dice Marone. Considera solo l’Italia. Non troverai nulla di più vario. La Puglia è arida, ha tuttavia i cereali. I Marsi e i Peligni arano con difficoltà, ma pascolano in abbondanza. La Lucania è ricca di armenti; i Salentini hanno l’olio; i Liguri sono straordinariamente laboriosi e parchi per la scarsità del sole; la costa marittima della Toscana è piena di pestilenza e non poco feconda, il resto ha un clima salubre e un suolo vario. L’Umbria abbonda di rocche, di monti, di fiumi. Essa inoltre d’inverno è incolta in misura maggiore per le piogge, le nevi, i freddi. Il territorio della Campania è opulento e ferace e ha un clima molto clemente, è vessato tuttavia da continui terremoti e dannosi venti del sud. La Calabria 205 è fertile di frutti, ma anche di materie prime, meno d’industria umana. E così la stessa diversità e varietà che ha la terra hanno anche gli uomini.206 Difficilmente qualcosa nella natura è simile, da non differire anche molto, se ben si guarda. Né la natura può giungere al profitto e alla perfezione, se non mediante la grande diversità e la moltissima varietà. Guarda, se vuoi, il corpo umano e la stessa costituzione e complessione del corpo, i nervi, le ossa, le braccia, la pelle, le vene dello spirito vitale, 931

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rituales venas, carnem, cartillaginem, humores etiam ipsos, bilem tum atram, tum rubram, pituitam, sanguinem; ipsa quoque membra, caput, cervicem, humeros, dorsum, costas, clunes, femora, genua cumque ipsis cruribus pedes. Item quae intestina sunt, pulmones, guttura, iecinora, transversum saeptum, lienem, cor, vesicam, ventriculum, testiculos, cerebrum. Quid vel diversius his, vel variantius? Ex ipsis tamen animal et constituitur et perficitur. Ipsum quoque animal, quo in universum obsolvatur, plures easdemque multiplices complectitur species, terrestres, aquaticas, aërias, et horum omnium quanta sit, iam apparet cum varietate diversitas. Suspice coelum, atque inde et aquas despecta, et terras, an quicquam in his tibi non magnopere etiam dissimile videatur? 6. Homo ipse perinde ut annus in diem e die perficitur, pueritia, adolescentia, iuventa, senectute. Itaque naturae propria est varietas, nec populi civitatesque constare sibi possent, nisi homines ipsos natura tum diversis, tum etiam variantibus constituisset appetitionibus atque affectibus, accommodassetque illos diversas ad artes dissimilesque actiones ac negotia, ut necesse fuerit in iis quosdam rudi adeo e materia condolasse, ut delectentur etiam concinnandis coriis atque emundandis cloacis sordidioribusque etiam opificiis. An non corpus hoc nostrum ita compactum est et fabricatum, ut quemadmodum instrumenta ad spirandum habet, videndum, audiendum, odores ac sapores percipiendum, sic etiam habeat ad mandendum concoquendumque quae sint ad alendum necessaria, pariterque ad eiiciendum excrementa succosque inutiles ac putrescentes? Sapientissime igitur Paulus et hortatur unumquenque et commonefacit, contentus ut sit ea vocatione, qua ipse quidem vocatus est. Igitur ut bona etiam praetereamus alia corporis, qualia sunt videndi acumen atque audiendi, pedum pernicitas ac dexteritas manuum, veniamus ad animi bona, quibus dispensandis maior fortasse cernatur indignitas, quam in ipsius fortunae bonis. 7. Ac ne vetusta semper afferantur in exemplum, quos proventus omnis generis improbitatis ac vitiorum habuere liberi nepotesque eorum, qui paucis ante annis rerum publicarum Italiae administrationibus praefecti erant, aut ipsis etiam populis dominati summa cum aequitate ac moderantia? Eadem tempestate videre licuit rusticanorum hominum nedum plebeiorum liberos floruisse, alios in re bellica, alios in sacerdotiis, hos in rerum naturae cognitione, illos in legum civilium peritia aut

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la carne, la cartilagine, perfino gli umori, la bile scura, quella rossa, la pituita, il sangue; le stesse membra, il capo, il collo, gli omeri, il dorso, le costole, le natiche, i femori, le ginocchia e i piedi con le gambe. E inoltre le parti interne, i polmoni, la gola, il fegato, il diaframma, la milza, il cuore, la vescica, il ventre, i testicoli, il cervello. Che c’è di più diverso e di più vario? E tuttavia l’essere animato è costituito e perfezionato mediante queste componenti. Lo stesso essere animato, per essere in tutto perfetto, comprende più e molteplici specie, terrestri, acquatiche, aeree, e quanto sia grande la diversità e insieme la varietà di tutti questi esseri animati ormai è chiaro. Guarda in su, verso il cielo, e poi guarda in giù verso le acque e le terre: non ti sembra che non ci sia nulla che non sia diverso, anzi molto diverso? 6. L’uomo stesso come l’anno di giorno in giorno si modifica, attraverso la fanciullezza, l’adolescenza, la giovinezza, la vecchiaia. Pertanto la varietà è propria della natura, né le popolazioni e le cittadinanze potrebbero conservarsi, se la natura non avesse costituito gli uomini di diversi e di vari appetiti e passioni, e se non li avesse resi idonei a diverse arti e differenti azioni e attività, in modo che fosse necessario aver formato fra loro alcuni di materia così rude, che si dilettano anche a conciare il cuoio, a pulire le cloache e perfino a mestieri più squallidi. Non è il nostro corpo composto e fabbricato in tal modo che, come ha strumenti per respirare, vedere, udire, percepire odori e sapori, così anche ha la capacità di masticare e di digerire ciò che è necessario al nutrimento, e similmente a emettere gli escrementi e i liquidi inutili e putridi? Con somma sapienza Paolo esorta e raccomanda a ciascuno di essere contento della vocazione che ha. Dunque per non parlare degli altri beni del corpo, quali sono l’acutezza della vista e dell’udito, la velocità dei piedi e la destrezza delle mani, veniamo ai beni dell’anima, della cui distribuzione potrebbe sembrare forse maggiore, che non quella dei beni della fortuna, l’iniquità. 7. E per non portare come esempio sempre le storie antiche, quali esiti di ogni genere di scelleratezza e di vizi ebbero i figli e i nipoti di quelli che pochi anni fa hanno amministrato repubbliche in Italia, o anche hanno regnato su popolazioni con somma equità e moderazione? Nello stesso periodo era possibile vedere figli di contadini nonché di plebei esser fioriti, alcuni nell’attività di guerra, altri in quella sacerdotale, questi nella scienza naturale, quelli nella pratica del diritto civile o nella 933

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curandis aegritudinibus. Ut quibus maxime necessaria bonarum fuerit artium cognitio, iis prorsus defuerit, in illis excelluerit, quibus satis fuerat maiorum suorum esse similes vel texendis lanis, vel colendis agris aut aliis atque aliis minoribus artibus exercendis. Marcus Tullius Cicero ornamento fuit patri ac maioribus, Publiusque item Scipio. Horum utrique melius fortasse consultum fuisset, liberis si caruissent. 8. Abstinebo a referendis Heliogabalo et Galieno ac similibus monstris. Illustravit Mantuam seu viatoris seu figuli filius Virgilius Maro. Cur natura non hoc ipsum concessit primario civium alicui? Cur Atheniensis civis eiusque nequaquam eximii filio tantum Socrati concessit, ut sapientissimus suo tempore in eruditissima illa Graecia fuerit iudicatus, Croesi autem maximi regis filio locutionem ademerit? Ac, ne in re maxime clara longiores simus, aut multo fortasse iniquiorem, ut iniqui ipsi iudices simus, aut nullo modo magis aequam invenies bonorum animi naturam distributricem, quam fortunam suorum. Verum trahunt nos, vel rapiunt ad se potius non modo pelliciunt voluptates, blandissimae, ut Cicero ait, sensuum nostrorum dominae. Non invidemus scientibus multa, sed possidentibus. Quotus est, opsecro, qui ducatur sciendi tantum voluptate? At quis est contra, qui non illis trahatur voluptatibus, quas copia pariat fortuitorumque bonorum opulentia? Hinc itaque tot, ut dixi, accusationes ac maledicta, quod voluptatibus capti, id in dispensandis a fortuna bonis reprehendimus, quod aut forte magis, aut certe nullo pacto minus reprehendi in distribuendis animorum dotibus natura possit. Sunt enim fortunae bona instrumenta atque illecebrae voluptatum et quaedam, ut ita dixerim, retia, quibus perinde ut a piscatoribus pisces, aut ab aucupibus volucres, ipsi a voluptatibus capiamur. Nec profecto te ipsum puto oblitum Terentiani illius, omnes sibi malle. At dices, animi bona adquiruntur laborando; et fortunae quoque bona cum labore item, ac periculis, militando, navigando, peregre proficiscendo. 9. At inventi sunt, quibus absque labore contigerint ullo divitiae, ut haereditates patrimoniaque. Tribuatur humanis id potius legibus institutisque quam fortunae temeritati aut libidini. Fuere qui thesauros ex

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cura delle malattie. A quelli cui era soprattutto necessaria la conoscenza delle buone arti, a loro questa è venuta del tutto a mancare, mentre si è segnalata in coloro cui bastava esser simili agli antenati o nel tessere la lana, o nel coltivare i campi, o nel praticare altre e altre ancora arti minori. Marco Tullio Cicerone fu di onore al padre e agli antenati, e così Publio Scipione. L’uno e l’altro meglio avrebbero fatto a decidere di non avere figli.207 8. Mi asterrò dal parlare di Eliogabalo, Galieno208 e simili mostri. Rese famosa Mantova Virgilio Marone, che fosse figlio di un corriere o di un vasaio.209 Perché la natura non concesse questo stesso prestigio ad un cittadino di prim’ordine? Perché al figlio di un cittadino ateniese e neppure illustre, Socrate, la natura concesse tanto, che ai suoi tempi in quella Grecia coltissima fu considerato il più sapiente? E perché al figlio di Creso,210 grandissimo re, tolse la parola? E per non essere troppo lunghi in un argomento estremamente chiaro, forse troverai la natura distributrice dei beni dell’anima molto più iniqua, per essere noi giudici iniqui, o in nessun modo più equa, di quanto non sia la fortuna di quelli suoi?211 Ma ci trascinano, o piuttosto ci attraggono a sé, non solo ci adescano, con la loro straordinaria dolcezza, come dice Cicerone,212 i piaceri che dominano i nostri sensi. Non invidiamo coloro che sanno molto, ma coloro che posseggono molto. Quanto è considerato, ti prego, chi è considerato soltanto per il piacere di conoscere? Ma chi è invece che non venga attratto dai piaceri procurati dalla quantità e dall’abbondanza dei beni di fortuna? Di qui tante accuse e maledizioni, come ho detto, perché, presi dai piaceri, riprendiamo il modo tenuto dalla fortuna nel dispensare i beni, potendo forse di più, o certamente non meno esser ripresa la natura per la distribuzione delle doti dell’animo. Sono infatti i beni della fortuna come strumenti e allettamenti dei piaceri e, per così dire, reti con le quali siamo catturati dai piaceri come i pesci dai pescatori e gli uccelli dai cacciatori. Né credo che tu abbia dimenticato il detto famoso di Terenzio, che tutti preferiscono essere favorevoli a se stessi.213 Ma se dirai che i beni dell’animo si acquisiscono con la fatica, dirò che anche i beni della fortuna si acquisiscono con la fatica, i pericoli, la milizia, la navigazione, con l’andare in giro a procurarsi il guadagno. 9. Ma si trovano persone che senza alcuna fatica ottengono ricchezze, come eredità e patrimoni. Ciò deve attribuirsi alle leggi e alle istituzioni umane piuttosto che alla casualità o al capriccio della fortuna. Ci sono 935

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insperato invenerint. Fuere et qui sine praeceptoribus institutoribusque bonitate quadam naturae et boni evaserint viri, et maxime etiam eruditi. Et quanquam ingratitudo hominum ac superbia tum summa est, tum effrena etiam cupiditas, quibus tamen in scholis conclusum hoc atque concessum est, quia bonus quis ac modestus sit, iccirco dives idem opulentusque ut esse debeat? aut, quia maxime doctus, ideo maximum quenque gerere magistratum, ac si uni omnia debeantur? Sunt tamen etiam quidam comperti, in quos et corporis et animi et fortunae bona huberrimo quasi quodam e fonte simul confluxerint. Plures fortasse inventi, quibus omnia simul aut defuere, aut affuere vel maxime etiam imperfecta et manca. Sed nos, dum eos incusamus, qui tum adversus fortunam, tum etiam naturam ipsam rerum omnium parentem iniurii sunt, id videamus, ne accusari ab illis iure et ipsi possimus, quod fortunae videamur quodammodo suscepisse patrocinium. Quamobrem ad id quod reliquum est, et in quod principe ipsi loco intendimus, progrediamur, nequid omnino a nobis praetermissum videatur, quod spectare ad fortunam (qua de re dicendum suscepimus) vel ipsi intelligamus, vel ab aliis forte desideretur, idque tertius qui sequitur liber explicabit.

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stati di quelli che hanno rinvenuto tesori insperatamente. Ci sono stati di quelli che sono riusciti uomini onesti, e anche straordinariamente dotti senza precettori e istitutori, per una certa bontà di natura. E quantunque l’ingratitudine e la superbia degli uomini è grandissima, e sfrenata la cupidigia, in quali scuole tuttavia si è mai definita e avallata questa teoria, che uno, per il fatto che è buono e modesto, perciò debba essere ricco e opulento? o, per il fatto che è dottissimo, perciò debba tenere le più grandi cariche, come se a lui solo si dovesse tutto? Si è venuto a sapere anche di alcuni, sui quali sono confluiti, quasi da una fonte copiosissima, beni del corpo, dell’animo e di fortuna. Più numerosi forse sono coloro che o son privi di tutto, o hanno perfino tutto, ma lo hanno tutto pieno di difetti e deficienze. Quando però noi accusiamo coloro che sono ingiusti verso la fortuna, e anche verso la natura madre di tutte le cose, vediamo bene di non essere a nostra volta accusati per aver preso in certo qual modo il patrocinio della fortuna. Perciò andiamo avanti a trattare di ciò che è rimasto, e che in primo luogo intendiamo trattare, perché non sembri che abbiamo trascurato quel che o noi ben sappiamo riguardar la fortuna (che è l’argomento che abbiamo affrontato), o altri forse ritiene che manchi, ed è ciò che il terzo libro esporrà.

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[IOANNIS IOVIANI PONTANI DE FORTUNA] LIBER TERTIUS

[PROOEMIUM.] 1. Mariamus heremita et sanctus vir et theologus non minus elegans, quam praedicator divinus, nuper moriens reliquit Christianis suis viterbiensem Aegidium, tum sanctitatis suae, tum etiam praedicationis haeredem, hominem quidem certe summa integritate, sacerdotem pietate eximia ac castimonia, theologum singulari eruditione et fide; predicatorem autem vel theologorum eloquentissimum, vel inter praedicantes divinarum rerum institutionumque maximum eruditum. Is cum in nostratia haec incidisset de fortuna, non potuit non commendare studium nostrum raritatemque laboris; praeoptasset tamen uti cognitiones has nostras in potiora convertissemus cognituque magis digna, quaeque vel in christianam rem publicam vel in vitae civilis institutionem morumque probitatem utilitatis plus conferrent: esse enim quodam modo christiano indignum homine de fortuna rationem habere aliquam, cum res mortalium divinae magis curae permittendae essent, quam de fortuna inquirendum aut casibus. Accepimus et boni et docti viri sermonem, quo profecto par fuit animo, et pro nostra etiam pietate in deum atque opservantia repensaturi in posterum iacturam hanc temporis, si iactura dicenda est, naturae opstrusas res in apertum velle proferre, commonefacereque nostratis homines (ne humanum dicam genus) qua ratione quae fortunae ascribuntur consideranda sint, et quo etiam accipienda animo, et ubi opus fuerit sunt perferenda. 2. Incidit quoque inter loquendum quaestio de dei ipsius scientia atque cognitione: eiusmodi eam esse quae et deo digna esset, neque alie938

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[GIOVANNI GIOVIANO PONTANO] LIBRO TERZO [DELLA FORTUNA]

[PROEMIO.] 1. Quel santo eremita che fu Mariano,214 fine teologo non meno che predicatore divino, poco tempo fa, morendo, lasciò quale erede della sua santità e della sua predicazione ai cristiani che lo seguivano Egidio da Viterbo,215 uomo di somma integrità, sacerdote di eccellente religiosità e castità, teologo di singolare dottrina e fede: uno dei più eloquenti fra i predicatori e i teologi, e perfino dei più dotti fra i divulgatori delle verità e degli insegnamenti divini. Egli, imbattutosi in queste nostre pagine sulla fortuna, non ha potuto non riconoscere il nostro impegno e la singolarità del lavoro; avrebbe desiderato tuttavia che avessimo rivolto questa nostra ricerca verso argomenti migliori e più degni di conoscenza e che potessero offrire maggiore utilità alla società cristiana o alla formazione della vita civile e alla moralità: era infatti indegno di un cristiano fare alcun conto della fortuna, perché avremmo dovuto affidare le cose dei mortali alla cura di Dio piuttosto che far ricerche sulla fortuna e sul caso.216 Abbiamo accolto il sermone dell’uomo onesto e dotto col sentimento col quale era giusto accoglierlo, e in misura della nostra pietà e devozione verso Iddio, con l’intenzione di riflettere in futuro sulla perdita di tempo, se perdita dev’esser chiamata, di volere esporre le cose nascoste della natura, e ricordare ai nostri uomini (per non dire al genere umano) in che modo va considerato ciò che si attribuisce alla fortuna, e con quale animo bisogna accoglierlo e sopportarlo quando sarà necessario. 2. Capitò durante la conversazione di affrontare l’argomento della scienza e della conoscenza: si diceva che esse son degne anche di Dio, e 939

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, [PROOEMIUM.]

na ab rebus ipsis, quae in scientiam venirent eius divinamque cognitionem; quae enim coelestia, perpetua, aeterna essent ac necessaria, habereque sese aliter nullo modo possent utpote commutationis varietatisque atque inconstantiae omnis expertia illa perinde a deo sciri et uti rerum omnium scio, et uti rerum ipsarum natura ferret atque condicio. Quae vero dubia, incerta, varia, parum consistentia passimque sese aliter habentia atque aliter denique etiam desitura, eorum scientiam apud deum minime eam esse, ut quae ambigua essent atque in dubitatione posita, illa aut necessaria efficeret aut constituta et certa, ni forte sese frustrari velit irique a rerum natura deceptum, aut cum summus ipse ordo sit rerum ipsarum ordinem mutare et constitutionem simul vellet et regulam. Medicum enim ita aegroto dare operam, ut sciat se quidem medicum, illum vero languentem et aegrum, habeatque item cognitum illius morbum, quartanamque eum in febriculam declinaturum; nequaquam tamen scientiam hanc medici atque cognitionem praestare id atque efficere, quo in quartanam febricula illa recidat; aut si curabilis morbus sit, quominus hoc ipsum defugiat ac propellat. Fabri quoque lignarii cognitionem, quod ab experto faber ipse sciat quaernam materiam dolatu esse atque asciatu parum facilem, difficultatem nullo modo eam parere, quae a natura quaercui esset insita. 3. Dei itaque scientiam, quae natura sua certa essent sibique ubique constantia in iis et pro maiestate versari sua, et pro rerum ipsarum sorte ac condicione; itidem et iis quae incerta et varia, ut neque ipse a dignitate discedat, quae dei est propria, neque eius scientia rerum varietati obstet atque incertitudini, cum illi obversentur semper ante oculos omnia; nec quod in praesentia cernat praescribere habeat ullo modo futuris, quae apud illum omnino sunt nulla; neque enim deo ullum, quod nobis quidem mortalibus labitur, defuit in posterum tempus. Itaque sciri a deo coelestia divinaque ut certa aeternaque, humana vero ut varietati ac mortalitati obnoxia. Hinc igitur non philosophos modo, verum indoctorum quoque consensum hominum fortunae nomen esse commentos quod commotiones eius ancipites essent variae, inconstantes et tanquam ex imparato ab impetuque ferrentur; quippe cum ferae quoque eodem a verbo similique ex eventu et causa essent vocatae: feruntur enim et ipsae impetu tantum suo.

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, [PROEMIO.]

non estranee a quanto conviene alla scienza e alla conoscenza divina; infatti le cose celesti sono perpetue, eterne e necessarie, e non potrebbero essere assolutamente in un modo diverso perché esenti da mutamento, da varietà e incostanza e per essere conosciute da Dio come so che è conosciuta la natura di tutte le cose e come la condizione naturale potrebbe produrle. Delle cose dubbie, incerte, varie, poco coerenti, e che si muovono in maniera disparata e sempre diversa, e che sono infine destinate a perire, Iddio non ha conoscenza per il fatto che sono ambigue e incerte; e quindi o le rende necessarie o stabili e certe, a meno che non voglia fallire ed esser ingannato dalla natura, oppure, essendo egli stesso l’ordine supremo, non volesse mutare l’ordine, e insieme la disposizione e la regola del mondo. Il medico, infatti, si adopera col malato, sapendo di essere lui medico, e quegli debole e malato, e inoltre di conoscere bene la sua malattia e che possa ridursi ad una febbricola quartana; in nessun modo tuttavia questa conoscenza scientifica da parte del medico opera e fa che il morbo receda in una quartana; oppure, se si tratta di un morbo curabile, riesca a sfuggirgli e ad eliminarlo. Anche la conoscenza di un falegname, per il fatto che l’artigiano sappia da esperto che il legno di quercia si presta molto poco ad essere sgrossato e piallato, non è essa assolutamente a produrre la difficoltà, che è insita nella quercia per natura. 3. La scienza di Dio, pertanto, verso quelle cose che per natura sono certe e sempre coerenti con se stesse si comporta secondo la maestà sua e la condizione che hanno in sorte le cose stesse. Così avviene per quel che riguarda le cose che sono incerte e varie, sicché né Dio si allontana dalla sua dignità propria, né la scienza entra in contrasto con la varietà e incertezza delle cose, essendo sempre tutto davanti ai suoi occhi; né quello che vede al presente lo ha da prescrivere in alcun modo per il futuro, che presso di Lui non esiste affatto; poiché a Dio non sfugge nel tempo che verrà alcuna cosa che per noi mortali passi inosservata. Ordunque, da Dio sono conosciute le cose celesti e divine come certe ed eterne, ma quelle umane come soggette a varietà e temporaneità. Di qui anche deriva che non solo i filosofi, ma anche il consenso degli uomini non dotti ha concepito il nome di fortuna per il fatto che i suoi moti sono incerti, vari, incostanti e quasi trasportati, trasferiti, all’improvviso e da un impeto; perché anche le fiere sono chiamate così dal medesimo verbo, e per lo stesso fatto e la stessa causa:217 sono infatti trasportate anch’esse soltanto dal loro impulso. 941

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, [PROOEMIUM.]

4. Post haec omnia venit in mentem Platonis inducentis concionantem deum in creandis rebus apud optimates suos, stellas scilicet, quibus singulis pares delegisset animas pariaque tribuisset curricula; statuentemque ex praefinito illis rebus uti prospicerent inferioribus ac dantem iis leges iuraque inevitabilia. Dein (ut qualitas ipsa sermonum tulit) allatum quoque est in medium Gregorii Pontificis dictum illud, constitutum esse homini quantum vel prosperitas sullevaret eum vel feriret adversitas quoque etiam die et quo esset etiam mortis genere interiturus. Nec contemptui est habitum virgilianum illud Fortuna omnipotens et ineluctabile fatum.

5. Quae cuncta eo viderentur spectare ut fortuna ipsa fatum quoque sequeretur rerumque ordinem ac seriem adeo in initio praestiturum, cuius ipsius e Platonis sententia videri possent stellae executrices esse ac ministrae, cum stellarum ipsarum in rebus his inferioribus tanta vis cerneretur quoddamque quasi imperium; ab illis enim et tempora delabi et rerum manare proventus ac vitas simul animantium eorumque interitum; ad haec aliarum in alias ex immutatione conversionem ac transitum. Ab his etiam ipsis alimentorum existere hubertatem atque inopiam, serenitates ac procellas, aestus ac frigora, siccitates atque humectationes nimias; ut praeterquam hominum voluntatibus coeteris sane praescriberent omnibus quae inferiore hoc in mundo naturali gererentur et ordine et lege; qua de re dicturi hoc libro sumus, et pro siderum ipsorum natura et pro hominum condicione ac statu; neque enim aut omnia sunt ad sidera referenda aut rursus cuncta ad hominum voluntates vitaeque ipsorum institutiones ac munera. Nam quid, opsecro, cum astris, si mihi esse hodie de asso magis libuerit quam de elixo, aut si maluit Virgilius dicere: Haec sunt, quae nostra liceat te voce moneri,

cum ‘doceri’ posset etiam cum dignitate? Sed ille aures potius consuluit, quam ut de titillatione Veneris Mercuriique, aut utriusque traheretur impulsu. Quid rursus humanis cum voluntatibus ac studiis, si aestatem hanc maxime humidam sensimus atque himbricosam, praeteritam vero

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, [PROEMIO.]

4. Dopo tutte queste cose venne in mente che Platone introduceva Iddio a parlare durante la creazione ai suoi primi ministri,218 cioè alle stelle, a ciascuna delle quali aveva distribuito anime pari e attribuito pari percorso; introduceva Iddio a ordinare loro con precisione di provvedere alle cose inferiori e a dare loro leggi e norme inderogabili.219 Quindi (come richiedeva il tenore dei discorsi) fu tirato in ballo anche il pensiero famoso del papa Gregorio,220 che all’uomo era stato dato anche un termine fino al quale la prosperità potesse sollevarlo o l’avversità colpirlo, e stabilito perfino in quale giorno e di qual genere di morte dovesse morire. E non fu trascurato nemmeno quel famoso verso virgiliano: L’onnipotente fortuna e l’ineluttabile fato.221

5. Tutte queste cose parevano comportare che la fortuna seguisse il fato e l’ordine seriale delle cose così stabilito sin dall’inizio, e di quest’ordine secondo il pensiero di Platone sembrava che le stelle fossero esecutrici e ministre,222 poiché tanta è la forza e quasi dominio esercitato dalle stelle su questo mondo inferiore. Infatti per opera loro trascorre il tempo e da loro deriva la nascita delle cose e insieme la loro vita e la loro morte; oltre a ciò la trasformazione e il passaggio di alcune cose in altre per mutazione. Da queste stesse cause derivano la ricchezza e la povertà degli alimenti, il clima sereno e tempestoso, le calure e i freddi, le siccità e le eccessive umidità; sicché all’infuori delle volontà degli uomini esse danno ordine e legge a tutte le altre cose che risiedono in questo mondo naturale inferiore; di ciò intendiamo parlare in questo libro, e in relazione alla natura degli astri e in relazione alla condizione e allo stato degli uomini; e infatti non tutto va ricondotto alle stelle o viceversa tutto alla volontà degli uomini e agli ordinamenti e funzioni della loro vita. Che cosa, ti prego, c’entrano gli astri se oggi mi aggrada di più l’arrosto che non il fritto, o se Virgilio preferì scrivere: Sono queste le cose che può la mia voce annunciarti,223

quando avrebbe potuto anche dire con bella forma «insegnarti»? Ma egli tenne conto dell’orecchio piuttosto che del pungolo di Venere o di Mercurio, o di farsi trascinare dall’impulso di entrambi. Che cosa ha a che fare con la volontà e con gli studi, se abbiamo avvertito umida e 943

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, [PROOEMIUM.]

hiemem, praeter temporis qualitatem ac regionis abunde tepescentem? Aut si uvarum nullum, pomorum vero proventum maxime huberem habuerimus? 6. Nec nos deterrebit Ioannes Picus magna tum nobilitate, tum etiam ingenio ac doctrina vir, qui nuper diruere prorsus sideralem conatus est disciplinam. Cui quominus ipsi respondeamus, labore eo nos omni liberavit vir in omni disciplinae genere clarus ac perquam acutus Lucius Bellantius, cui aetas nostra multum profecto debet, debituri autem longe amplius posteri, ne ad eos maledicentia perinvidentis hominis penetraret. Quid enim aut invidum magis aut maledicum, quam tot seculorum tradita, tot excellentium hominum velle inventa labefacere, et quae disciplinarum est omnium antiquissima, in eam rabido ferri morsu rictibusque oblatrantissimis? Videlicet Picus noster (voco eum nostrum, quia magna mecum benevolentia coniunctus fuit, quodque doctissimum quenque maxime mihi familiarem atque amicum statuo) tractus ipse quidem exemplo est aut Pyrronis, qui physicam et moralem omnem doctrinam evertere conatus est olim, aut Laurentii Vallensis, qui nuper vel decem praedicamentorum seriem, ne dialecticam dicam omnem, ut subverteret, quid non tentavit? 7. . 8. Aristoteles, eruditissimus pariter atque opservantissimus naturalium rerum vir, in libris qui de animalibus dicuntur, multa tradit per opservationem in genere hominum universo comperta, ut quae de auribus, de fronte, de superciliis, de labris, de oculis, de pedibus, ab illo referuntur, quae quidem ipsa propensionum animi non incerta habeant indicia et signa. Quis haec (dixerit quispiam) in universum opservavit? Et multa et plurima et innumerabilia opservarunt secula, et plurimi et maximi et praestantissimi viri; et, quod idem inquit Aristoteles, infinities quae ipse perquireret eadem illa fuisse et disputata et tradita et iisdem ratiocinationibus ex occulto deprompta; cur quaeso munus hoc contigerit in coeli et stellarum motibus ac significationibus perquirendis? Et quod concedimus philosophis, medicis iisque qui in facultatibus versantur coniecturabilibus, cur invideamus Aegiptiis, Babyloniis, Chaldaeis, Phoenicibus, qui infinita cognoscendis ac pervestigandis iis consumpserunt secula? Quid quod natura hominibus ipsis consulens quosdam etiam ingenerare suo quodam tempore consuevit, quibus dei optimi maximi peculiari concessum sit dono etiam abstrusissima constituendis disciplinis aperire mortalibus, quantum scilicet captus ipse ferat humanus; quamquam et quae a prophetis sunt praedicta, ut de sibyllis taceam quod eam rem Cicero in dubium revocet, et captum et vires videntur excessisse humanas. Sed Bellantio ut fortissimo duci provincia relinquatur sua. Nos autem [Coloti] libro hoc tentabimus quantum res ipsa tulerit manifestum facere fortunam vires suas potissimum per stellarum cursus in rebus hominum exercere, non quod eorum prudentia multas illarum effectiones non possit longius quoque avertere, sed quod nequaquam omnia, aut propter animi nostri impotentiam nimiasque cupiditates, aut quia in quibusdam illarum sit vis longe valentissima, materia etiam ipsa parum nostris favente propositis ac consiliis.

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, [PROEMIO.]

l’astrologia si sforzava di fare soprattutto con l’osservazione, ed egli stesso per alcuni anni si affannò in questa ricerca. Ma gli astri, completando il loro corso fatale, mostrarono che la predizione del matematico era vera e fondata su indubbi calcoli numerici. 8. Aristotele, il più dotto e attento osservatore della natura, nei libri degli Animali 233 riferisce molte scoperte fatte mediante l’osservazione dell’intero genere umano, come quelle che si riferiscono alle orecchie, alla fronte, alle sopracciglia, alle labbra, agli occhi, ai piedi, che portano indizi e segni non incerti dell’animo. Chi – direbbe qualcuno – ha osservato queste cose in generale? Molti, moltissimi, innumerevoli secoli si sono dedicati a questa osservazione, moltissimi, grandissimi ed eccellentissimi uomini; e, come dice ancora Aristotele, quelle cose che all’infinito234 egli scrutava erano state oggetto di discussione, di trasmissione, e di scoperta attraverso riflessioni simili; ti chiedo perché ci sia stato tutto questo impegno nell’investigazione dei movimenti e dei segni del cielo e delle stelle? E così, quel che concediamo ai filosofi, ai medici e a quelli che s’interessano di scienze congetturali, perché dovremmo negarlo agli Egizi, ai Babilonesi, ai Caldei, ai Fenici, che hanno consumato tanti secoli nella conoscenza e investigazione di queste cose? E che dire del fatto che la natura, provvedendo agli uomini, ha generato di solito al momento opportuno alcuni, ai quali per grazia del supremo Iddio è stato concesso anche di aprire ai mortali i princìpi più nascosti per la costruzione del sapere, ovviamente nei limiti delle capacità umane; quantunque anche le predizioni dei profeti, per tacere delle sibille perché è cosa messa in dubbio da Cicerone, sembrano eccedere le capacità e le energie umane. Ma si lasci a Bellanti, condottiero fortissimo,235 il suo campo. Noi 236 tenteremo invece in questo libro, per quanto sia realmente possibile, di manifestare come la fortuna mediante il corso delle stelle eserciti soprattutto la sua potenza sul mondo degli uomini, non perché la prudenza di costoro non possa anche di molto allontanare parecchi effetti di esse, ma perché non può farlo con tutti, o per la sfrenatezza del nostro animo, o per le troppe voglie, o perché in alcune di esse risiede una forza troppo potente, essendo la stessa materia ben poco favorevole ai nostri propositi e alle nostre intenzioni.

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, I

I PRIMAS QUASDAM COMMOTIONES AMBIENTE AB AERE EXCITARI. 1. Ambientem hunc aera primas illas excitare commotiunculas, quae intellectum mox cieant, seu appetitum, auctor est Aristoteles. Post cessationem enim atque quietem solere nos ipsos etiam repente ad agendum exurgere, deque otio ad negotium statim rapi. Putat igitur motus eos extrinsecus ab ambiente suscitari, esseque alios qui ‘dianoiam’ moveant aut ‘horexim’, alios qui totum animal. Harum vero motionum animam nostram minime esse causam, verum ambientem aera; effici enim ea e motione, ut homo ipse commonefiat eorum, quae vel nocitura sint, vel e contrario profutura, quaeque aut desint aut, si assint, timeatur, nequo pacto vel diffluant, vel eripiantur, quae ve ipsa voluptatem sint allatura aut utilitatem aliquam, sive dignitatem auctoritatemque sive cognitionem denique atque peritiam, quaeque aliae appetitiones nostrae sunt, quippe quae in anima ipsa, ab visione ac vi ingenerantur illa, quae phantasia dicta est a graecis scriptoribus, nostri tum visum appellant, tum visionem. 2. Si enim visiones hae defuerint ac simulacra, deerunt cupiditates quoque, appetendique vis omnis evanescet. Ad ambientem igitur aeraque ad ipsum excitationem illam primigeniam referendam esse natura ipsa nos docet, principiumque commotionis nostrae sive ad illa, quae cogitationem moveant, sive appetitum, eo etiam spectare: ex aere spiramus, etenim spiritus si defuerit, deerit etiam vita. Nec temere maiores nostri, nec improprie, suo id est latino nomine spiritum, qui graeco est aer, vocavere. Nec dubitavit maximus poeta dicere: «Atque in ventos vita recessit». Recte igitur qui dixerunt aera receptaculum esse et tanquam penu eorum omnium, quae e terra atque aquis exhalant, evaporant, aspirant. Namque, uti cuncta admittit recipitque in sese, sic cuncta quoque remittit, et tanquam mutuo acceptum loco ac tempore suo reddit.

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, I

I I PRIMI MOTI SONO CAUSATI DALL’AMBIENTE. 1. Lo dice Aristotele237 che l’ambiente suscita quei primi movimenti,238 che incitano poi l’intelletto o l’appetito. Dopo il riposo e la quiete da noi stessi anche rapidamente riprendiamo ad agire, e dall’ozio passiamo subito all’attività. Egli ritiene dunque che i moti sono suscitati dall’ambiente esterno, e ve ne sono alcuni che riguardano la mente o il desiderio,239 altri tutto l’essere animato. Di questi moti non è minimamente causa la nostra anima, ma l’ambiente; avviene infatti a causa di quel movimento, che l’uomo da se stesso si accorga di ciò che gli può nuocere o al contrario gli può giovare, e di ciò che o manca, o se c’è deve temersi che o sparisca o ci venga tolto, di ciò che o porterà un qualche piacere o una qualche utilità, o un pregio o qualcosa d’importante o infine una conoscenza o un’abilità, e di altri nostri appetiti che si generano nell’anima stessa dalla visione e da quella potenza che dagli scrittori greci è stata detta fantasia, e i nostri chiamano sia vista, sia visione. 2. Se infatti verranno a mancare queste visioni e queste immagini, mancheranno anche le passioni e svanirà ogni forza di volontà. Ce lo insegna la stessa natura che quella prima spinta va ricondotta all’ambiente, e che il principio del nostro movimento dipende sia dalle cose che muovono il pensiero, sia da quelle che muovono l’appetito; noi respiriamo l’aria circostante e perciò se mancherà il respiro, mancherà anche la vita. Né senza ragione, né inopportunamente i nostri avi chiamarono nella loro lingua «spirito» quello che in greco si dice aer. E il massimo poeta non esitò a dire: «E la vita si ridusse a vento».240 Fecero bene allora quelli che dissero l’aria essere un ricettacolo e quasi una dispensa di tutto quello che esala, evapora, spira dalla terra e dalle acque. Infatti, come riceve e accetta in sé tutte le cose, così anche rimette tutte le cose, e le restituisce come se le avesse prese in prestito a suo tempo e luogo.

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, III

II VARIETATES IN AERE CONTINGENTES A STELLIS PROFICISCI. 1. Atque haec quidem omnia stellarum beneficio et opera, praecipue autem solis ac lunae, ut illi quoque ipsi motus, quos in nobis aer ciet, ad stellas sint omnino referendi. Nam et turbari aerem et serenescere, ac nunc concalescere plus nimio, nunc perfrigere, humescere item atque arefieri, aliterque atque aliter mutari ac variare, quis non videt, a sole, luna et stellis hoc ipsum proficisci? cum in aere perinde ac in materia quasi quadam stellae ipsae ut informatrices versentur officioque fungantur suo. An non crasso sub coelo hebetiora plerunque nasci ingenia cernimus? In tenuiori vero per acuta sane, ac magis magisque excitata? Proceriora alibi corpora, breviora alibi? Igitur si ab aere, de quo spiramus et in quo vivimus primigenii illi existunt motus, ipseque aer campus est quasi quidam, in quo sol versetur ac luna cum stellis reliquis, quis dubitet referendos illos esse ad sidera eorumque ad effectiones ac munera? An temere fortasse dictum est ab homine ipso hominem atque a sole gigni? Nam quod moventur corpora, quod ab ambiente nostra excitatur atque expergiscitur anima, id a stellis utpote motricibus proficiscitur atque existit. Aeque enim ac in materia artifices, ac multo etiam liberius, stellae ipsae in elementis ut informatrices munus atque officium assiduo obeunt suum.

III INFERIORA OMNIA PRAETER HOMINUM VOLUNTATES STELLIS ESSE SUBIECTA. 1. Quocirca, si fatum lex est ac regula naturae a deo praescripta, si naturae eiusdem et materia et instrumenta sunt ea, quae rerum dicuntur elementa, si stellae denique sua in iis et iura exercent, et imperia, an temerarium tibi aut parum forte rationale videatur, quod stellas fati ipsius ministras diximus, executricesque naturae munerum divinaeque constitutionis? ut praeterquam voluntates ipsae hominum, caetera inferiora omnia illarum sequantur agitationes atque curricula? Haec autem

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, III

II LE VARIAZIONI CHE SI VERIFICANO NELL’ARIA PROVENGONO DALLE STELLE. 1. E tutto ciò che avviene per favore e opera delle stelle, ma specialmente del sole e della luna, come quei moti che in noi suscita l’aria, vanno ricondotti completamente alle stelle. Chi non vede che dal sole, dalla luna e dalle stelle proviene che ci sia sereno, e che ora faccia troppo caldo, ora faccia freddo, che ci sia umido e che ci sia siccità, e che si abbia sempre un nuovo cambiamento e una nuova variazione? poiché nell’aria, come si trattasse di una materia, le stelle si muovono e svolgono il loro compito di plasmatrici. O non vediamo nascere generalmente sotto un cielo denso ingegni un po’ ottusi? invece in un clima più sottile ingegni molto acuti e sempre più vivaci? Non vediamo corpi più lunghi in un luogo, più corti in altri? Pertanto, se dall’aria che respiriamo e nella quale viviamo sorgono i primi movimenti, e la stessa aria è quasi un campo in cui si muove il sole e la luna con le altre stelle, chi potrebbe dubitare che quei primi moti vadano ricondotti agli astri, ai loro effetti e alla loro azione? Ed è stato detto forse senza ragione che l’uomo nasce dall’uomo stesso e dal sole? Il fatto che i corpi si muovano, il fatto che la nostra anima venga sollecitata e svegliata dall’ambiente, ciò nasce e proviene dalle stelle quali forze motrici. Allo stesso modo, infatti, e anche molto di più liberamente di quanto non facciano gli artisti sulla materia, le stelle compiono la loro funzione e il loro ufficio di modellatrici sugli elementi.

III TUTTO IL MONDO INFERIORE, TRANNE LA VOLONTÀ DEGLI UOMINI, È SOGGETTO ALLE STELLE. 1. Perciò, se il fato è la legge e la regola prescritta da Dio, se materia e strumenti della natura sono quelli che si chiamano elementi, ti sembra per caso naturale o poco razionale, quel che abbiamo detto, che le stelle siano ministre dello stesso fato, esecutrici dei compiti della natura e della creazione divina? sicché tranne le volontà degli uomini, tutte le altre cose inferiori seguono il loro movimento circolare? Ma tutte queste cose 951

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, IV

quae dicimus eiusmodi quidem sunt, ut nec fato subiecta sint cuncta, nec rursus pro hominum cuncta administrentur voluntate ac consiliis.

IV ALIA FATO PROVENIRE, ALIA CONTINGENTER. 1. Fatum vero intellegi volumus causarum sive ordinem sive seriem, e quibus ut alia necessario quidem proveniunt, quippe quorum causae necessariae ipsae sint, sic alia contingenter atque ex eventu, quando ne eveniant, vel multa quoque impedire ac prohibere simul possunt. Itaque fato quae fiunt, minime quidem omnia, sed quaedam tantum necessaria esse dicimus, mutarique ea aut prohiberi nullo modo posse, quominus ordinem, progressionem ac seriem sequantur suam. Etenim quam diu status hic rerum persistet ac mundi, solque ab ortu feretur in occasum, dies quidem nobis erit, rursus vero cum ab occasu ad ortum, nox. Quam diu etiam ab aequis ac mediis coeli partibus austrum versus sol movebitur rursusque ab austro versus septentrionem, quatuor anni tempora de accessu eius constituentur ac reditu ad locum, unde discesserat. 2. Eiusmodi enim causae necessariae sunt, nec mutari queunt, aut aliquo illis pacto obviam iri potest. Fati est necessitati ac rerum ordini tribuimus hominem gigni ab homine, bovem a bove, ab aquila aquilam, mugilemque a mugile, suisque e seminibus ac principiis arbores, herbas, frutices ortum ducere. Sic enim ab initio haec ipsa constituta, dei iussu perpetuum servant tenorem seriemque perpetuam. Ideoque necessarius eorum est proventus, necessaria generatio ac fato suo suaque serie ac constitutione et reguntur et conservantur rerum omnium species. An non a fato est fatique ab necessitate ductum, quae oriantur cuncta occidere? Dices fatale quoque esse ac necessarium hominem aegrotare. Potest id quidem fieri, atque eo quidem pacto fieri, ut prohiberi tamen vel omnino queat, vel magna e parte moribus ipse levari, quoniam adversa valetudo nostra non raro de causa culpaque proficiscitur, nec pauci ad obitum usque perpetua usi sunt sanitate, perinde ut nonnulli ab ortu ipso assiduis gravati fuere aegritudinibus, perniciosisque ab humoribus circumsessi.

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, IV

di cui parliamo sono tali, che né sono tutte quante soggette al fato, né d’altra parte sono governate secondo la volontà e le intenzioni umane.

IV FATO E CONTINGENZA. 1. Vogliamo far capire però che il fato è una serie ordinata di cause, dalle quali alcune cose derivano di necessità, perché le cause stesse sono necessarie, altre in maniera contingente e per caso, dal momento che sono molti gli impedimenti che possono non farle accadere. Pertanto, le cose che avvengono ad opera del fato, non tutte assolutamente, ma alcune soltanto diciamo essere necessarie e non soggette a mutamenti e ad impedimenti, poiché seguono l’ordine, la progressione e la successione che a loro si confanno. E infatti per tutto il tempo che persisterà il mondo così com’è, e il sole si recherà dall’alba al tramonto, noi avremo il giorno, viceversa quando si recherà dal tramonto all’alba, avremo la notte. Per tutto il tempo che il sole si muoverà dalla fascia degli equinozi verso il mezzogiorno e viceversa dal mezzogiorno verso il settentrione, quattro stagioni si determineranno in seguito alla sua andata, e al suo ritorno al luogo di partenza. 2. Tali cause sono necessarie, né si possono mutare, o in qualche modo ostacolare. Appartiene alla necessità del fato e attribuiamo all’ordine delle cose il fatto che l’essere umano nasca da un essere umano, un bue da un bue, un’aquila da un’aquila, e un mugile da un mugile, e che gli alberi, le erbe, i frutti abbiano origine da matrici femminili. Così, infatti, dal principio queste cose sono state stabilite, e per ordine divino conservano ordinatamente il loro corso. Perciò il loro apparire è necessario, necessaria la loro generazione, governate e conservate da un ordine stabilito dal fato le specie. Non deriva forse dalla necessità del fato il fatto che tutto ciò che nasce muoia? Dirai che è fatale e necessario che l’uomo si ammali. Ciò può avvenire, e avvenire in tal modo che tuttavia o può del tutto impedirsi, o in gran parte l’uomo può essere sollevato dalle malattie, poiché la cattiva salute non raramente proviene da cause di cui siamo colpevoli noi, né sono pochi quelli che fino alla morte hanno goduto di una buona salute, come non mancano di quelli che fin dalla nascita sono stati oppressi dalle malattie, e oppressi da dannosissimi umori. 953

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DE FORTUNA, LIBER TERTIUS, V

V ALIA NECESSARIA ESSE, ALIA POSSIBILIA ET EVENTITIA. 1. Igitur eorum quae sunt quaeque esse possunt atque a nostri temporis philosophis dicuntur possibilia, alia necessaria quidem sunt, eventitia vero alia. Necessarium autem, ac possibile simul est, viro et foemina coeuntibus hominem nasci. At possibile, atque eventitium, Ciceronem agentem pro Milone causam in ea defendenda superiorem evadere. Possibile item atque eveniens, occaso sole statim pluere, necessarium vero noctem sequi. At nulla fit necessitate occaso ut sole pluat, aut ut ne pluat, quando alterutrum potest contingere. Quibus e rebus id efficitur, ut eorum quae esse possunt, quaeque possibilia dicuntur, alia sint et possibilia simul et necessaria, alia vero possibilia atque eventitia, atque haec quidem, quod causae ipsae nullo sint pacto necessariae, illa vero contra, quod omnino necessariae. Quale igitur fatum, de quo ipsi loquimur, constituamus, ex his ipsis potest aperte iam intellegi, quod ut manifestius etiam intelligatur, sic habeto. 2. Nostrum prorsus esse nostraque in potestate collocatum velle nolle hoc vel illud, appetere, non appetere, assentire aut dissentire, eligere aut reiicere, sequi aut declinare, quaeque alia eiusdem sunt modi, quae nostro quidem arbitratu, vel suscipienda sint, vel praetermittenda. Aliena vero sunt divitiae, honor, magistratus, clientelae quaeque alia optari a nobis soleant, magis quam ut ea iuris nostri aut sint, aut redigi in ditionem nostram facile queant. In utrunque igitur eventum boni malique recte dictum est a Ptolemaeo, sapientem animam conferre coelestibus actionibus perinde ut optimus agricola arando expurgandoque conferat naturae. Etenim vertendo saepius terram feraciorem eam reddit, ac nunc occando quaeque sata sunt sarculis prosequendo, nunc manu legendo haerbas inutiles ac malignas, hubertati plurimum adiumenti affert ac messi. 3. Rursus, posse eum qui sciens sit, multos stellarum effectus avertere, quando naturam earum cognitam habeat, seque antequam effectus ipsi sequantur et praeparare et munire. Admonet igitur his dictis libertatis nos nostrae Ptolemaeus, quod et bonis a coelo promissis non parvum addere cumulum ipsi possimus, et mala tum cavendo, tum eorum natu-

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, V

V NECESSITÀ, POSSIBILITÀ, CASUALITÀ. 1. Ordunque, di quelle cose che sono e che possono essere, chiamate dai fi losofi contemporanei possibili,241 alcune sono necessarie, altre casuali. Cosa necessaria è, ed è insieme possibile, che un uomo nasca da un maschio e una femmina che si accoppiano. Ma è possibile, e casuale, che Cicerone sostenendo la causa a favore di Milone, nella difesa riesca vincitore.242 Ugualmente possibile e casuale è che piova improvvisamente al calar del sole, ma è necessario che segua la notte. Ma non avviene per alcuna necessità che al calar del sole piova, o che non piova, poiché possono avvenire l’una e l’altra cosa.243 Da questa ragione deriva che di quelle cose che possono essere e che si dicono possibili, alcune siano possibili e insieme necessarie, mentre altre possibili e casuali: queste ultime, perché le cause non sono per nulla necessarie, quelle altre, al contrario, perché le cause sono del tutto necessarie. 2. Adunque, la definizione del fato di cui stiamo parlando si può ricavare chiaramente da questo discorso, ma perché si intenda con maggiore evidenza ascolta quel che dirò. Appartiene esclusivamente a noi ed è nelle nostre mani il volere, il non volere questo o quello, il desiderare, il non desiderare, l’assentire o il dissentire, lo scegliere o il rifiutare, il seguire o deviare, e le altre azioni dello stesso genere che a nostro arbitrio vengono, o no, intraprese. Sono esterne a noi le ricchezze, l’onore, le cariche, le clientele e le altre cose che di solito desideriamo, più che appartenere a noi di diritto, o poter essere ricondotte facilmente sotto la nostra giurisdizione. In riferimento ai due possibili esiti, buono o cattivo, è stato ben detto da Tolomeo244 che il sapiente collabora con l’anima alle azioni del cielo, come l’ottimo agricoltore arando e pulendo collabora con la natura. E infatti rivolgendo spesso la terra la rende più ferace, e ora erpicando, e badando a quel che è stato seminato con il sarchiello, ora raccogliendo con la mano le erbe inutili e maligne, offre moltissimo aiuto alla fecondità della messe. 3. Ancora, chi ha la scienza per farlo può allontanare molti effetti delle stelle, perché conosce la loro natura e prima che si verifichino gli effetti può prepararsi e premunirsi.245 Ci ricorda della nostra libertà Tolomeo,246 dicendo che noi possiamo non poco aggiungere ai beni promessi dal cielo, sia guardandoci dai mali, sia intuendo e correggendo la natura 955

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ram intelligendo declinandoque, quae nocendi vim habeant, quaeque portendantur incommoda pericula ve, ea vel ex toto, vel magna etiam e parte prohibere adhibitaque prudentia repellere. Quod si nequaquam praestare valuerimus, id tandem praestabimus, uti tolerandis nos illis praeparemus, muniamusque costantia et fortitudine. Quae enim provisa sunt et ante cognita, nec tantum secum impetus afferunt ac novitatis, et minus sunt gravia minusque toleratu difficilia, cum e contrario quae repente ac praeter spem opinionemque obiiciuntur, et concutiant animum, et animi ipsius vires prosternant. Alibi quoque ait decreta stellarum haudquaquam praetoriis decretis esse similia, quorum ea quidem natura est, uti poena statim iis sit luenda, minime qui paruerint. Quocirca in utranque partem quae a coelo portenduntur, tum prohiberi, tum laeniri ingenio et arte possunt, ubi damnum minantur aut periculosum aliquid, et foveri ac tanquam allici, ubi blandiri videntur, successusque polliceri felices.

VI FORTUNAM FATO FAMULARI. 1. Bene igitur, proque rei de qua agitur natura dictum est a nobis, fortunam fato opsequi, et cum fatum necessitate utitur, et cum nulla prorsus vi adhibita, iuribus tamen ac partibus incumbit suis, permittitque nobis ipsis id sequi, aut declinare, quod et placuerit, et in rem nostram magis conducere censuerimus. Ne autem videamur tanta hac in re a theologis forte nostris discrepare, aliud ve sentire, quam quod christianum decet hominem, afferam Ptolemaei eiusdem enuntiatum quoddam, quod ad bonam spectat fortunationem, post etiam Thomae referam Aquinatis sententiam in hoc ipso etiam fortunationis genere ac tractatu. «Cum in eodem – inquit – minuto luminaria fuerint, si ascendit benefica, natus aeque sane in omnibus quae inciderint bene fortunatus erit. Simili modo ab ortu atque occasu invicem si opponentur, sin malefica in ascendente fuerit, contrarium sentias». 2. Audiamus nunc Thomam in iis, quae adversus Gentiles scripsit, asseverantem hominem ipsum, quia e corpore quidem constet, coelesti-

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LA FORTUNA, LIBRO TERZO, VI

di quelle cose che hanno il potere di nuocere e di apportare noie e pericoli, e possiamo o bloccarli completamente o in gran parte respingerli usando la prudenza. Che se non saremo capaci di far questo, alla fine saremo capaci di prepararci a sopportarli, e a difenderci con la costanza e il coraggio. Quel che è previsto e conosciuto prima, non porta con sé tanto impeto e tanto sconvolgimento, ed è meno grave e meno difficile a sopportarsi, mentre quel che ci si presenta improvvisamente e senza che ce lo aspettiamo e ce lo immaginiamo, abbatte perfino le resistenze dell’animo. Anche altrove dice che i decreti delle stelle non sono affatto simili ai decreti del pretore, 247 la cui natura è tale che va subito pagata la pena da parte di coloro che non sono stati ligi per nulla. Perciò quello che il cielo preannunzia in un senso o nell’altro può esser impedito o lenito sia con l’ingegno sia con l’arte, quando v’è la minaccia di un danno o di un pericolo; può esser secondato e quasi attirato, quando sembra blandire e promettere esiti felici.

VI LA FORTUNA È AL SERVIZIO DEL FATO. 1. Abbiamo dunque fatto bene, e in base alla sostanza del nostro ragionamento, a dire che la fortuna asseconda il fato, sia quando il fato agisce di necessità, sia quando pur senza usare assolutamente alcuna violenza, tuttavia incombe con le sue proprie leggi e le sue proprie funzioni, permettendoci di seguire quel che ci piace e che riteniamo possa avvantaggiarci, o di deviare. Ma perché non sembri che su un argomento così importante ci dissociamo per caso dai nostri teologi, e pensiamo diversamente da quello che deve pensare un cristiano, addurrò il parere dello stesso Tolomeo riguardante la buona fortuna, poi riferirò il pensiero dell’Aquinate nella trattazione di questo stesso argomento della fortuna.248 L’uno dice: «Quando nello stesso minuto i due astri saranno entrambi presenti, se l’oroscopo è favorevole chi nasce sarà ugualmente ben fortunato in tutto quel che accadrà. Allo stesso modo, se si opporranno l’un l’altro dall’oriente e dall’occidente, se nell’oroscopo vi sarà una stella malefica, devi pensare il contrario».249 2. Ascoltiamo ora quel che scrive Tommaso nel trattato Contro i Gentili, quando afferma 250 che l’uomo, in quanto ha un corpo, è soggetto ai 957

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bus esse corporibus addictum, quia vero intellectu sit praeditus, angelis, quia autem voluntate utatur, deo; posse itaque quippiam accidere, quod praeter suum hominis sit ipsius propositum atque intentionem, idque pro coelestium tamen corporum affectione proque angelorum constitutione, aut summi etiam dei. Tametsi deus ipse solus in iis ipsis, quae ab hominibus eliguntur, habet sese perinde ut persuasor, coelestis autem vis corporis perinde ut affectrix, quia videlicet coelestium impressiones corporum nostra haec corpora ad eligendum id afficiunt, quod utile videatur. Cum itaque ex impressione quispiam coelestium corporum causarumque superiorum ea, qua dictum est, via inducitur ad eligendum utile quod appareat, etsi utilitatem ipsam ratione nequaquam metitur minimeque comprehensam habet, nihilo tamen minus intellectui eius tum supernis a substantiis ad eam ipsam intellegendam lumen accendi, tum dei ipsius beneficentia et munere voluntatem eiusdem induci ad utilia eligenda, quorum tamen rationem penitus habeat nullam; indeque bene fortunatum eum dici maleque e contrario fortunatum, ubi superioribus quis a causis ad ea ducatur, quae contraria quidem sint eligenda. Differre autem tradit hoc ipso, quod affectiones atque impressiones coelestium corporum humanis in corporibus naturales corporum ipsorum ingenerent propensiones, ideoque propensionem ob eam coelestibus a corporibus inditam, non bene solum aut male fortunatum quempiam dici, verum etiam aut bene natum aut male. 3. Atque haec in hanc quidem a Thoma dicuntur sententiam, quibus non pauca quoque subdit alia, quo manifestius ostendat hominum corpora coelestibus affici a corporibus, ipsosque affectus propensionem ingenerare, cuius admonitu et ad eligendum, et quod elegimus incitemur prosequendum. Ut cum saepenumero aut odio trahimur aut benevolentia, nequaquam tamen vim ipsam coelique affectionem existimat tanti ullo pacto esse momenti, ut eo vis ea pertingat evehaturque, quo vis ipsa spiritualis, qua de re coelestem affectionem, ut inferiorem ac minus validam, nullo pacto eo se efferre, quo extolleretur humana; proindeque hominibus tum bona tum mala accidere, quorum quidem sive ad coelestia habeatur corpora, sive ad angelos relatio, ea tamen ipsa in bonorum genere fortuitorum esse collocanda. Sin autem ad deum, ea vero nullo pacto habenda esse fortuita. Nihil enim tale esse posse, quod dei praetereat cognitionem accidatque illi ut eventitium.

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corpi celesti, ma in quanto è fornito di intelletto, è soggetto agli angeli; e poiché usa la volontà, è soggetto a Dio; può quindi accadere, che qualcosa accada al di là della sua intenzione e del suo proposito, e che questo tuttavia accada secondo l’influsso dei corpi celesti, secondo l’ordine degli angeli o del sommo Iddio, sebbene solo Iddio nelle scelte che fanno gli uomini si comporta come persuasore, mentre la forza del corpo celeste esercita il suo influsso, perché evidentemente le influenze dei corpi celesti agiscono sui nostri corpi spingendoli a scegliere quello che sembra utile. Pertanto, quando per l’influsso dei corpi celesti e di cause superiori qualcuno, nel modo che si è detto, viene indotto a scegliere quel che appare utile, anche se non misura affatto con la ragione tale utilità e non la comprende per nulla, nondimeno o ad opera delle sostanze superiori si accende nel suo intelletto un lume che fa sì ch’egli la intenda, o per grazia divina la sua volontà è indotta a scegliere cose utili di cui non ha assolutamente alcuna cognizione; onde qualcuno è detto fortunato, e al contrario sfortunato, quando è guidato da cause superiori a scegliere cose contrarie all’utilità. Insegna poi che in questo risiede la differenza, che gli influssi impressi dai corpi celesti sui corpi umani generano le propensioni naturali degli stessi corpi, e perciò in seguito alla propensione infusa dai corpi celesti, uno vien detto non solo fortunato o sfortunato, ma anche bennato o malnato. 3. Ed è in questo senso che Tommaso tratta questo argomento, aggiungendo ancora non poche cose, per mostrare più chiaramente che i corpi umani ricevono l’influsso dai corpi celesti, e che la propensione genera le passioni, da cui siamo spinti a scegliere e a proseguire in ciò che abbiamo scelto.251 Sicché spesso siamo tratti o dall’odio, o dall’affezione, e tuttavia egli non ritiene che la forza e l’influsso del cielo siano in alcun modo di tanta importanza, da estendersi e spingersi fino al punto cui giunge la forza spirituale, onde l’influsso celeste, per essere inferiore e meno potente, in nessun modo si spinge dove potrebbe sollevarsi quella umana; perciò agli uomini accadono ora cose buone ora cattive, e sia che ne venga attribuita la causa ai corpi celesti, sia agli angeli, esse vanno tuttavia collocate nel genere dei beni fortuiti. Ma se viene attribuita a Dio, in nessun modo può esser considerata fortuita. Niente infatti può essere tale, che sfugga alla cognizione di Dio, e accada per lui come eventizio.

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4. Ad haec idem ipse auctor est hominem, cum ad eligendum aliquid coelesti afficitur a corpore illustraturque ab angelo ac suasu dei commonefactioneque inducitur, in prosequenda quidem electione favorem ac suffragium ab his ipsis sic sortiri, ut non a deo solum atque ab angelis proficisci id ipsum possit, verum etiam coelestibus a corporibus, quippe cum sita eiusmodi vis in corpore ipso sit. Nec vero Astrologia nostri temporis non ineptos quosdam assertores habet, nec e latinis tantum hominibus, verum etiam aegyptiis arabibusque, quorum in scriptis utinam non vel plurima inessent etiam anilia, nec risu modo, verum etiam quae despuantur gravibus a viris digna. Quod malum utinam non et alias quasdam invasisset disciplinas, dum aut parum intellectis, aut perperam forte acceptis veterum sententiis, in id sit deventum, ut studiorum nostrae superiorisque aetatis hominum non videatur finis esse nosse ac scire, verum litigare, et quaque super re etiam digladiari. Quo effectum est, praeter admodum pauca, nihil ut non sit in scholis ipsis litigiosum. 5. Nec vero maxime et acutus et doctus vir Ioannes Scotus non idem quoque et sentit et tradit, cum non inficiatur coelestia corpora ius in elementis auctoritatemque habere, itemque in permistis, animalibusque atque inanimalibus, instrumentis quoque in ipsis sensuum. Quid quod nequaquam ius illis adimit ac vim (quando sensus ipsi a coelo coelestibusque a corporibus aut perficiuntur, aut manci existunt minimeque absoluti), quin potestatem quoque ac iurisditionem quasi quandam ad intellectionem quoque habere valeant. Iactis igitur quibusdam quasi fundamentis, atque iis potissimum ducibus, quorum opiniones vel potius sententias retulimus, ad ea quae dicenda restant fidentius accingamur, ostensuri et bonos pariter malosque eventus a stellis portendi atque a coelo nascentibus hominibus. Tunc vero effectus ab iis in genitura significatos succedere, cum tempus praestitutum advenerit, inde etiam fieri, ut quae eventitia nobis sint ab stellis tamen ipsis, ut quae nostra afficiant corpora et suscitentur initio innuanturque, et post etiam cum tempus ipsum ematuravit, afferantur. Itaque quae repentina nobis accidant, a coelo tamen ac stellis non ut repentina accidere, verum suo motu, suisque momentis, spatiis ac progressionibus invehi, et tanquam pedibus progredi suis. 6. Itaque operae pretium fuerit Senecam audire, de his quoque ad Martiam dicentem: «Videbis micanti uno sidere omnia impleri, solem

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4. Inoltre lo stesso Tommaso afferma 252 che l’uomo, quando riceve l’influsso di un corpo celeste ed è illuminato da un angelo o è indotto dal consiglio e dall’ispirazione di Dio a fare una scelta, nel compiere la scelta riceve da essi un incitamento e un sostegno tali, che non solo da Dio e dagli angeli ciò può provenire, ma anche dai corpi celesti, perché una medesima forza risiede nello stesso corpo. L’Astrologia dei nostri tempi non ha soltanto alcuni sciocchi sostenitori, né soltanto fra i Latini, ma anche fra gli Egizi e gli Arabi, nei cui scritti magari non ci fossero anche le stupidaggini delle vecchiette, o cose risibili, e tali da essere spregiate dalle persone serie. Magari questo male non fosse penetrato anche in alcune discipline, visto che, o per essere state ben poco intese, o forse male apprese le parole degli antichi, si è giunti a tale che degli studi contemporanei e dell’età precedente non sembra che il fine consista nel conoscere e sapere, ma nel questionare e contendere su qualsiasi argomento. Donde deriva che tranne pochi argomenti, non ce n’è alcuno che nelle scuole non faccia litigare. 5. Né quel grandissimo dottor sottile, Giovanni Scoto,253 la pensa diversamente,254 quando non esclude che i corpi celesti abbiano un influsso e un dominio sugli elementi, e così sugli esseri misti, animati e inanimati, e anche sugli stessi strumenti dei sensi. E che dire del fatto che egli non nega loro influsso e forza (essendo i sensi stessi prodotti dal cielo e dai corpi celesti, o sono difettosi e imperfetti), e anzi sono capaci di avere una qualche giurisdizione anche sull’operazione dell’intelletto? Gettate dunque – si direbbe – le fondamenta, e specialmente fruendo di tali guide, di cui abbiamo riportato le opinioni, o meglio i giudizi,255 accingiamoci fiduciosi a dire quanto rimane, per mostrare come i buoni e i cattivi eventi siano disposti dalle stelle e dal cielo alla nascita degli uomini. Ma allora gli effetti preannunciati all’atto della genitura si verificheranno, quando giungerà il tempo previsto, per cui avviene questo, che ciò che per noi è eventizio, dalle stelle stesse, poiché esse influenzano i nostri corpi, venga avviato e accennato, e quando i tempi sono maturi, prodotto. Pertanto quelle cose che ci accadono improvvisamente, dal punto di vista del cielo e delle stelle non accadono repentinamente, ma avvengono secondo il loro proprio movimento, con i loro tempi, i loro spazi e i loro sviluppi, e procedono, si potrebbe dire, con i loro passi. 6. Perciò varrà la pena ascoltare Seneca256 quando dice a Marzia parlando anche lui di questo argomento: «Vedrai che quando un solo astro 961

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quotidiano cursu diei noctisque spatia signantem, annuo aestates hiemesque aequaliusque dividentem. Videbis nocturnam lunae successionem a fraternis occursibus lene remissumque lumen mutuantem, et modo occultam, modo toto ore terris imminentem, accessionibus damnisque mutabilem, semper proximae dissimilem. Videbis quinque sidera diversas agentia vias et in contrarium praecipiti mundo nitentia. Ex horum levissimis motibus fortunae populorum disponuntur, et maxima ac minima perinde formantur, prout aequum iniquum ve sidus incessit».

VII BONA FORTUNAE A COELO ET STELLIS PROMITTI. 1. Et quoniam fortuna vim in iis praecipue ostendit suam, quae tum externa, tum sua fortunae ipsius dicuntur bona, de his primum dicemus, allaturi de Astrologia stellarum positus atque configuarationes, quae vel bona annuntiare, vel mala cuiusque generis consuerint tum in hominum genituris, tum in annorum conversionibus, tum etiam in suscipiendis negociis. Quod autem Iupiter ac Venus beneficae dicantur stellae, de iis carptim tamen exempla quasi quaedam in pollicendis bonis, eaque perpauca referemus. Iupiter in horoscopo, hoc est in ascendente coeli parte ad exortum partiliter constitutus, in signoque praesertim domestico et peculiari, aut in quo ipse extollitur, diurnaque in genitura pergens ipse recto incessu, magistratus portendit ac dignitates, aliaque item bona ei cuius ea genitura fuerit, pro patriae tamen ac parentum qualitate ac meritis. Praecipue autem inter alia bona, hoc ipsum adipiscendo de magistratu a Iove portenditur. Assequetur itaque vir ille promissum sive magistratum, sive dignitatem bonum ve aliud decreto a genitura, tempore cum vel in tertiam ab ipso horoscopo domum Iupiter pervenerit, vel in quintam, aut etiam decimam undecimam ve, ni vis tamen aliqua potentior opstiterit, seu tum cum in convertendis annis inventus ipse fuerit aut ascendere ab horoscopo aut etiam culminare, aut cum dignitate

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brilla tutto si riempie di quello, che il sole col suo corso quotidiano disegna gli spazi del giorno e della notte, dividendo equamente col suo corso annuo le estate e gli inverni. Vedrai la luna succedergli di notte e ricevere dagli incontri col fratello una luce lieve e dimessa, ora nascosta, ora imminente sulla terra con tutta la sua faccia, mutevole per gli accrescimenti e le perdite, sempre diversa da quel ch’era prima. Vedrai cinque astri che vanno per vie diverse e risplendenti in senso contrario al rapido giro del mondo. Dai lievissimi moti di questi corpi vengono disposte le sorti dei popoli, e le cose più grandi come le cose più piccole sono formate a seconda che l’astro proceda regolarmente o irregolarmente».

VII I BENI DELLA FORTUNA SONO PROMESSI DAL CIELO E DALLE STELLE. 1. E poiché la fortuna dimostra la sua potenza specialmente in quelle cose che si dicono propriamente beni di fortuna, parleremo dapprima di questi ultimi, adducendo dalla scienza astrologica le posizioni e le configurazioni degli astri, che sogliono annunziare o beni o mali di ogni genere, sia nella genitura degli uomini, sia nella rivoluzione degli anni, sia anche nell’intrapresa degli affari. Poiché poi Giove e Venere si dicono stelle benefiche, di esse riferirò pressoché degli esempi, quantunque limitati, e pochi, che riguardano la promessa di beni. Giove collocato parzialmente257 in oroscopo, cioè nella parte ascendente del cielo verso oriente, e specialmente in una costellazione sua propria, o nella quale si esalta, quando procede con giusto passo in una genitura diurna, promette magistrature e posti di prestigio e altri beni a colui che abbia avuto quella genitura, tuttavia a seconda della qualità della patria, dei genitori e dei meriti. Specialmente poi, tra gli altri beni, da Giove viene preannunciato proprio quello di conseguire una carica. Pertanto quell’uomo acquisirà sia la carica promessa, sia il posto di prestigio o altro bene nel tempo decretato dalla genitura, quando Giove sarà pervenuto nella terza casa a partire dall’oroscopo, o nella quinta, o anche nella decima o undicesima, a meno che una qualche potenza maggiore non si sarà opposta. Oppure allora, quando col volgersi degli anni si troverà che Giove o risieda in oroscopo, o anche tocchi la cuspide del cielo, o risieda 963

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residere in cardinum eorum aliquo, qui geniturae tempore coeli angulos occupabant. Videtur igitur hoc ipsum cum acciderit, eventitium omnino esse, ut quidem est. 2. Causa tamen id efficiens et ab hora geniturae manat, et a Iove in horoscopo feliciter collocato. Quod si qua hora hic ipse magistratum inibit vel horoscopum vel Iovem infelix percusserit stella, Mars scilicet aut Saturnus, quae utraque stella malefica a mathematicis dicitur, nimirum impedimentum aliquod, incommodum ve seu periculum in gerendo magistratu pro natura portenditur aut Saturni aut Martis proque eius statu, pro loco item ac signo de quo hosticum minitabitur. Repentinum hoc autem cum eveniet, iure suo videbitur praeterque opinionem accidere atque exspectationem, unde tamen ducat originem, iam apparet. Quod quamvis ita se habeat, fortuitum tamen est. Provisum vero atque ante cognitum poterit, adhibita prudentia, aut prohiberi ex toto, aut non exigua saltem parte imminui. Venus geniturae cuiuspiam tempore in horoscopo constituta, in signis familiaribus aut etiam humanis feliciterque sese habens, ipsa quidem nocturna omnique detrimento atque impugnatione libera, sacerdotium viro illi pollicetur, cuius ea fuerit genitura, atque eo dignius sacerdotium, si ei Iupiter blandiatur. Advenit iam promissi sacerdotii tempus praestaturque promissum. Ea praestatio eventitia est ac repentina propter sacerdotis obitum, qui sacerdotio illi praeerat. Geniturae tamen tempore satis constat a coelo id esse promissum. Ac nihilominus consequendo sacerdotio vir ipse et honestate morum et opera industriaque sua artibusque aliis non parum sibi adiumenti afferre potest. Tempus autem ipsum, quo sacerdotium assequitur eiusque indipiscitur possessionem, indicium faciet eorum, quae in administrando eventura sint sacerdotio. Atque ipsi quidem eventus fortuiti sunt futuri, caeterum unde profecturi, vel faventes stellae, vel contra minitantes indicabunt. Quod si sacerdos ipse eventuum ipsorum fuerit ante admonitus sive felicium, sive infelicium, in utranque partem praestare haud parum poterit. 3. Marcus Hordeonius Neapoli discedens Romam proficiscitur, conficiendi negocii sui gratia. Exorta repente tempestate, nocturnis himbribus tumefactus Lyris amnis, effractis naviculae retinaculis, quae erat ad traiectum, illam in mare propellit, quae in ipso hostio a fluctibus quassata submergitur. Adveniens ad vadum Hordeonius arcetur a transitu,

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autorevolmente in uno dei cardini che occupavano gli angoli del cielo al tempo della genitura. Si vede dunque come quando questo accade, il fatto sia del tutto eventizio, e così è in effetti. 2. La causa efficiente di ciò risale tuttavia all’ora della genitura, e da Giove collocato felicemente in oroscopo. Che se nell’ora in cui quell’uomo inizierà a tenere la carica, una stella infausta colpirà l’oroscopo o Giove, evidentemente Marte o Saturno, astri entrambi detti malefici dai matematici, non c’è da meravigliarsi se qualche impedimento, o danno, o pericolo nello svolgimento del compito venga presagito secondo la natura di Saturno o di Marte e secondo la loro posizione, e inoltre secondo il luogo e la costellazione da cui deriva la minaccia ostile. Quando questo avverrà in modo repentino, giustamente sembrerà accadere al di là di ogni supposizione e attesa; tuttavia già appare chiaro quale ne sia l’origine. E quantunque vada così, si tratta tuttavia di un caso fortuito. Ma una cosa prevista e conosciuta prima potrà, usando prudenza, o essere del tutto impedita, o almeno in non lieve misura essere mitigata. Venere collocata in oroscopo nel momento della genitura, fra costellazioni amiche o anche miti e di aspetto favorevole, in fase notturna e immune da ogni danno e opposizione, promette il sacerdozio a quell’uomo di cui rappresenterà la genitura, e un sacerdozio tanto più degno, se Giove sarà compiacente. Giunge il momento del sacerdozio promesso, e la promessa è esaudita. L’esaudimento è eventizio e di breve durata per la morte del sacerdote preposto al sacerdozio. Al momento della genitura tuttavia è abbastanza chiaro, che il cielo lo aveva promesso. Nondimeno, per conseguire il sacerdozio l’uomo con l’onestà dei costumi e l’opera e l’attività sua e altri mezzi non poco può essere di aiuto a se stesso. Il momento, tuttavia, in cui consegue il sacerdozio, e ne entra in possesso, lo indicheranno gli eventi accaduti durante l’amministrazione del sacerdozio. E in verità gli eventi futuri sono fortuiti, ma donde proverranno, lo indicheranno o le stelle favorevoli o al contrario quelle minacciose. Che se il sacerdote stesso sarà avvertito prima degli eventi, sia felici, sia infelici, non poco potrà fare in un senso o nell’altro. 3. Marco Ordeonio,258 lasciando Napoli, parte alla volta di Roma per portare a termine un affare che lo riguarda. Sorta improvvisamente una tempesta, il fiume Liri,259 gonfiato dalle piogge notturne, rotte le gomene della navicella che vi era per la traversata, la spinge in mare ed essa nel porto stesso s’immerge sconquassata dai flutti. Venendo al guado Ordeo965

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avulsa navicula ac praetumescente flumine. Siquis itaque natalitiam Hordeonii configurationem inspexerit aut annuae conversionis, aut horae discessus eius ab Neapoli, inveniet profecto Saturnum, aut Lunam, aut utranque simul, aut fixam aliquam similis naturae stellam peregrinationibus Hordeonii impedimentum ab aquis minitari, minitationisque atque impedimenti illius tempus adesse. Quod si Martem forte iter infestantem habuisset, nae ille in latrones incidisset atque sicarios, qui eum male habuissent ac ferro forte grassati in eum essent. 4. Nascente sub primam noctem Sulpicio, Iupiter cum Mercurio in octavo ab horoscopo geniturae loco inventus partiliter, pollicitus est ei sive haereditatem, sive pecuniariae cuiuspiam rei thesauri ve inventionem, e qua vitae sibi familiaris substantiam comparaturus esset. Eius autem sive haereditatis successio, sive thesauri inventio, rei ve quae lucrum afferret, tempus cum haberet praefinitum, atque a coelo decretum, iam advenit. Nam, parietem cum subrueret, vasculum invenit aureorum plenum; eodem fere tempore a patruo haeres instituitur. Quid inventione hac pecuniae inopinatius aut patrui bonorum successione minus tunc expectatum, cum ille aetate esset integra et corpore abunde valido? Optulit igitur Sulpicio fortuna, quod suo et decreto tempore atque ab ortu coelum ipsum promiserat. Qua e re liquido cernitur fortunam, rerum quae a stellis geniturae promittuntur tempore, exsecutricem esse, vel effectum esse ipsum potius. 5. In lucem prodeunte Aurelio, Venus quarto in loco ab horoscopo cum Mercurio, eoque matutino, feliciter collocata, aut a servitute in libertatem vindicabit Aurelium, aut ab ignobilitate in splendorem atque claritudinem. Servit hero suo Aurelius (nam direpta patria puer capitur) et fideliter et diligenter, eos in servitute mores retinens, uti perquam liberalem institutionem in rebus praeseferret omnibus. Hoc igitur ob meritum ab hero manumittitur et familia etiam donatur, in cognationem ascitus. Vides ipse quam haec omnia ex imparato, a coelo tamen apparent significata, quemadmodum observatio innumerabilium docuit seculorum, ac res ipsa manifestum facit. Itaque visa est fortuna ipsa in liberando Aurelio, repente e coelo delapsa.

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nio è impedito dal fare la traversata perché la navicella è stata portata via dalla corrente ed è piena d’acqua.260 Se uno scruta la configurazione261 della nascita di Ordeonio, o del corso annuale, o dell’ora della sua partenza da Napoli, troverà certamente Saturno o la Luna, o tutti due insieme o qualche stella fissa di natura simile minacciare ai viaggi di Ordeonio un impedimento da parte delle acque, e che è vicino il tempo di quella minaccia e di quell’impedimento. Che se il viaggio avesse avuto per caso Marte infesto, certamente lui sarebbe caduto nelle mani di ladri e di sicari, che l’avrebbero maltrattato e l’avrebbero forse assalito con le armi. 4. Nascendo Sulpicio alle prime ore della notte,262 Giove, che si trovava in parte nell’ottava sede dall’oroscopo della genitura, gli promise sia l’eredità sia un affare finanziario o la scoperta di un tesoro, da cui avrebbe potuto ricavare il sostentamento della famiglia. Non solo la successione di quella eredità, ma anche la scoperta di un tesoro, avendo un tempo prescritto e decretato dal cielo, si verificarono. Infatti, smantellando un muretto egli trovò un vasetto pieno di monete d’oro; quasi nello stesso tempo viene designato come erede dallo zio. Che c’è di più imprevedibile di questo danaro, o di meno atteso della successione ai beni dello zio, essendo costui in età fiorente e molto valido di corpo? Offrì dunque a Sulpicio la fortuna quello che al tempo stabilito e sin dalla nascita il cielo gli aveva promesso. Da ciò si vede chiaramente che la fortuna è esecutrice a suo tempo delle cose promesse dal cielo al momento della genitura, o piuttosto questo è quel che si è verificato. 5. Venendo alla luce Aurelio, Venere collocata felicemente nella quarta sede dall’oroscopo insieme a Mercurio, e per giunta di mattina, o liberò dalla schiavitù Aurelio, o lo riscattò facendolo passare da una condizione ignobile allo splendore e alla fama. Aurelio servì il suo signore (infatti da fanciullo è catturato una volta distrutta la sua patria), e lo servì fedelmente e scrupolosamente, serbando pur nella servitù tali costumi, da mostrare a tutti un’educazione perfetta da uomo libero. Dunque per questo merito viene affrancato dal padrone e riceve anche il dono di una famiglia, accolto nella sua parentela. Vedi tu stesso come tutte queste cose avvengano senza preparazione, e tuttavia appaiono indicate dal cielo, come ha dimostrato l’osservazione d’innumerevoli secoli, e i fatti stessi lo dimostrano. Pertanto si vide nella liberazione di Aurelio la fortuna scesa improvvisamente dal cielo.

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6. Prodeunte e matris utero Venilio, Mars simul ac Mercurius duodecimo in loco simul positi, et propter loci naturam et propter societatem parum probam, eas in Venilio propensiones instillant atque in improbitatem prolabentes affectiones, ut futurus ipse sit et perfidus, et rapax, et depositae pecuniae abnegator, unde et accusationes timendae illi sint, et civilibus a legibus constituta supplicia. Adolescit igitur intemperatis moribus conflictaturque cum improbis, et male institutis civibus, paulatimque assuescit furari, fidem fallere, peierare, commercia polluere. Trahitur inde ad praetorem in iudicium, convincitur, condemnatur, luit tandem poenas a legibus constitutas. De mala igitur stellarum collocatione ac societate Venilius propendebat in improbitatem ac perfidiam. Quam propensionem et foverunt institutiones pravae, et auxerunt improborum consuetudines, impuraeque confl ictationes civium. Ex hac itaque assuetudine confirmata eius voluntas est ad sequendam improbitatem, cui ratio ita locum dedit, ut praetorio tandem iudicio poenas scelerum suorum dederit. Fortuna igitur hunc illi exitum attulit. Atque haec illa quidem iniqua est passimque adversans fortuna, quae, voluntate hominis progressim corrupta, prostrataque prorsus ratione, in praeceps tandem hominem ipsum rapit. 7. Et astra quidem ac coelum munus exercent suum, vires dum proprias easque seu cognitas homini, seu incognitas, conficiendis tamen inferioribus his admovent, quo varietati prospiciant rerum, sine qua natura ipsa perfici ac consumari nullo modo queat. Caeterum quis est, qui ignoret civilibus a legibus coerceri violentiam ac rapinas, condemnari furta, affici supplicio periuria, creditaeque pecuniae minime servatam fidem? Habuit in lucem veniens Pellianus, nocturnis tamen in tenebris, Saturnum ac Mercurium una coniunctos in sexto ab horoscopo loco, qui suapte natura maleficus perhibetur. Copulatio haec eoque in loco, ni alia obstiterint, quae malum prohibeant, Pellianum indicant improbum ipsum quidem futurum et conquinatis ac perversis moribus, quin adulterinarum quoque auctorem literarum. Cui copulationi quod Mars fuerit infeliciter quadrangulatus, implicatum in eum ac circunventum maximis necessitudinibus plurimisque simul malis involutum, publicus magistratus animadvertet; et haec quoque et deteriora longe mala invehit fortuna, malarum coeli configurationum executrix ac ministra. Etenim voluntas ipsa hominis, pravis ubi occupabitur actionibus mini-

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6. Uscendo Venilio dal seno della madre, Marte insieme con Mercurio posti nella dodicesima sede, e per la natura della sede e per la congiunzione ben poco buona, infondono in Venilio tali propensioni e disposizioni tendenti alla cattiveria, che egli è destinato ad essere perfido e avido, e capace di negare che gli fosse stato affidato del danaro, per cui deve temere le denunce e le pene prescritte dalle leggi civili. Cresce quindi con costumi smodati ed è alle prese con cittadini malvagi e maleducati, e a poco a poco si abitua a rubare, mancar di parola, spergiurare, contraffare gli atti commerciali. Viene perciò trascinato in giudizio davanti al pretore, viene trovato colpevole, condannato, paga infine la pena secondo le leggi prescritte. Per una cattiva collocazione e congiunzione delle stelle Venilio propendeva alla cattiveria e alla perfidia. Non solo le cattive istituzioni favorirono questa propensione, ma in più la consuetudine con i cattivi e le impure compagnie di cittadini la fecero crescere. Da questa consuetudine pertanto fu confermata la sua volontà di seguire la disonestà, alla quale la ragione cedette a tal punto, che in base al giudizio del tribunale egli pagò il fio delle sue scelleratezze. La fortuna dunque arrecò a lui questo esito. Ed è questa l’iniqua e avversa fortuna, che, una volta corrotta progressivamente la volontà dell’uomo e abbattuta del tutto la ragione, trascina l’uomo nel precipizio. 7. Gli astri ed il cielo in verità esercitano il loro compito quando adoperano le loro forze, sia quelle note, sia quelle sconosciute all’uomo, per dar forma comunque a questo mondo inferiore, per provvedere alla varietà delle cose, senza della quale la natura stessa non può essere né fatta né perfezionata. Del resto chi è che ignora che la violenza e le rapine siano frenate dalle leggi civili, i furti condannati, colpiti da pene, gli spergiuri e i debiti di danaro non pagati? Venendo alla luce, ma nelle tenebre notturne, Pelliano ha avuto Saturno e Mercurio congiunti nella sesta sede dall’oroscopo, che per sua natura è malefica. Questa congiunzione in quella sede, se non ci sono interferenze che impediscano il danno, indicano che Pelliano sarà disonesto, di costumi inquinati 263 e perversi, anzi anche autore di falsi. Poiché Marte è stato infelicemente quadrangolare a questa congiunzione, il pubblico magistrato lo implicherà e procederà contro di lui oppresso dalle più grandi angustie e coinvolto in moltissime disgrazie; ed anche questi mali di gran lunga peggiori porta la fortuna, esecutrice e ministra delle configurazioni celesti. E infatti, quando la volontà dell’uomo viene impiegata in cattive azioni e non si oppone agli 969

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meque appetitionibus adversabitur intemperatis, tum publica lex, idest civium consensus omnium, privatorum prospicit nefariis actibus criminaque insectatur supplicis. Praetorio itaque iudicio ac decreto publico Pellianus admissi facinoris poenas luit. 8. Hoc ipsum aliaque flagitia palam faciunt hominem, si intra rationis gyrum cohibere se et appetitui frenum adhibere voluerit minimeque voluntatem efferri sinet, stellarum configurationes inditasque a coelo propensiones virtute superaturum. Dices: coegit Pellianum paupertas angustiaque rei familiaris, uti vim attulerit viatori, uti pecunia corruptus falsum perhibuerit testimonium, uti precio etiam ac mercede persuasus adulteraverit literas. Atqui vel etiam plurimi summis circumventi necessitatibus, et a flagitiis abhorrent, et paupertatem tolerant magna cum vitae integritate et animi firmitudine. Itaque turpibus a facinoribus iccirco abstinent, quia et volunt ipsi et in animum induxerunt suum malle omnia perpeti, quam ab honesto tantisper facessere. 9. Tertullus, matris cum prodiret ex utero ac diurnum esset tempus, Martem habuit ac Mercurium sexto in loco ab ascendente coeli parte, una copulatos, Lunam vero plenam hostiles in eos vibrantem radios augentemque perversas illorum meditationes. Ob hanc igitur maxime noxiam coeli positionem Tertullus non raro fuit ad praetorem ab accusatoribus tractus, dum inditis ipse a coelo propensionibus rapitur, ac nunc in carcerem coniectus ac vincula, nunc tortus excruciatusque aut ob servorum ignobiliumque hominum calumnias seu coniectorum in carcerem, aut ob admissorum criminum causas a praetoribus male habetur. Itaque vitam quam calamitosissime et egit et finivit. 10. Negabit haec fortasse aliquis sideralis cognitionis parum studiosus, inficiabiturque eas stellis ac coelo vires inesse tantamque auctoritatem. At non inficiabitur Ioannes Scotus, vir acutissimus ac maxime probatus theologus, qui tradat daemonas illos malos ignorare quidem ipsos futura; nisi aut coniectura utantur, quemadmodum et homines utuntur ipsi, aut quia e stellarum animadversione atque a coeli motibus futura percipiant, quod vir tantopere eruditus versatusque adeo divinis naturalibusque in causis cum dicit asseveratque, an aliud dicit, quam quod corpora illis nostra ita subiecta atque addicta sunt, ut ad propensiones ab illis insitas pro virium qualitate roboreque moveantur? Non ut coer-

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appetiti sregolati, è questo il momento in cui la legge pubblica, cioè il consenso di tutti i cittadini, s’interessa delle nefandezze dei privati e persegue i crimini con le pene. Dunque Peliano in base a pubblico decreto pagò il fio del crimine commesso. 8. Questo fatto e altre scelleratezze chiariscono come l’uomo, se vorrà restare nell’ambito della ragione e porre un freno all’appetito, e non permetterà alla volontà di lasciarsi andare oltre i limiti, potrà superare con la virtù le configurazioni stellari e le propensioni infuse dal cielo. Dirai che la povertà e le strettezze delle risorse familiari costrinsero Pelliano ad assalire un viandante, a dare falsa testimonianza corrotto dal danaro, a falsificare le scritture indotto dal pagamento di una ricompensa. Eppure vi è moltissima gente che assediata dalle angustie non solo aborre dai crimini, ma sopporta la povertà con integrità di vita e fermezza d’animo. Quindi queste persone si astengono dal commettere turpi delitti, perché lo vogliono esse stesse e si sono messe in mente di voler sopportare tutto, piuttosto che allontanarsi pur di poco dall’onestà. 9. Tertullo, uscendo dal ventre materno ed essendo di giorno, ebbe Marte e Mercurio congiunti nella sesta sede dall’oroscopo, ma la Luna piena che vibrava i raggi verso di loro e aumentava i loro influssi perversi. Dunque per questa posizione grandemente nociva del cielo Tertullo non raramente fu trascinato davanti al pretore dagli accusatori, perch’egli si lascia attrarre dalle propensioni del cielo, ed ora messo in carcere e in ceppi, ora torturato e fatto soffrire o per le calunnie di servi e di gente ignobile o di carcerati, o a causa dei crimini commessi, è mal considerato dai pretori. Pertanto ha trascorso e concluso la vita fra immense calamità. 10. Negherà forse ciò qualcuno poco studioso della scienza astrale, e contesterà che le stelle e il cielo abbiano tale potenza e tanta autorità. Ma non potrà essere confutato Giovanni Scoto, teologo sottilissimo e largamente riconosciuto, quando afferma che i demoni cattivi ignorano di per sé il futuro, a meno che o usino la congettura, come gli stessi uomini la usano, o percepiscano il futuro dall’osservazione delle stelle e dei movimenti del cielo;264 cosa che, quando la dice un uomo così colto ed esperto nella metafisica e nella fisica, che altro vuol dire se non che i nostri corpi sono così soggetti e sottoposti ai corpi celesti, che si muovono secondo le propensioni da loro impresse, a seconda della qualità e della quantità delle forze? Non tuttavia al segno che essi possano costringerci, e che 971

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cere tamen illa nos valeant, dum ne volentes quidem ipsi assentiamur manusque illis praebeamus vinciendas. Idem etiam auctor asserit solere astrologos vera pronuntiare de moribus hominum deque illorum applicationibus, nimiam quidem ob propensionem a coelo illis atque a stellis inditam, dum ratione repudiata illam tantum appetendi sequuntur partem, quae sensui uni obsequitur, illique soli inhaeret, quando cogitationes sunt hominum in malum pronae. 11. Quam quidem ob sententiam confiteri necesse est et coelum et stellas, rationem ubi abiecerimus dominandosque nos ipsos sensibus tradiderimus malisque corporis voluptatibus, illis tantum appetitionibus dediti, quae homini cum belluis sunt communes, nostris in actionibus, voluntatibus, consiliisque ius imperiumque suum exercitaturas. Etenim sensibus omni qui est e parte deditus illisque tantum addictus, corporei cum illi sint corporaque ipsa nostra coeli stellarumque agitationibus ac naturis addicta, nimirum hoc ipso in homine eiusque in cogitationibus, agitationibus, electionibus, consiliis actibusque, eiecta prorsus ratione, coeli vis regnabit ac siderum illumque impotenter secum rapiet.

VIII QUANTA VIS SIT STELLARUM IN BONIS CORPORIS. 1. Quanta igitur coeli stellarumque vis ipsa sit atque iurisdictio in iis, quae ad corpus corporeosque ad sensus pertinent, ad illa item, quae corporis dicuntur bona, in utranque etiam partem, paucis tanquam exemplis quibusdam allatis ostendamus, ut in bonis quoque corporeis itemque etiam malis fortunae ipsius iura vel maxima quoque valentissimaque appareant. Principio constituendis corporibus regiones etiam ipsae, nedum parentes agnationesque plurimum conferunt. Etenim regiones aliae nigrum producunt, aliae candidum corpus; hae sanguine redundans, illae contra exsangue. Sunt quae procerum, aut macilentum, quae ex adverso breve, aut crassum, aut bene temperanterque sibi constans ac quadratum. Has autem ad res affectionesque vires simul admiscent suas et aer ambiens et natura soli, in quo quis nascitur educaturque, et coeli circumvolitantis despectus ac positura. Familiae quoque atque agnationes consuevere peculiares quosdam progenerare corporum status atque concretiones. Signa etiam coelestia vires ad hoc et ipsa 972

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noi dobbiamo assentire anche non volendo e ci lasciamo legare le mani. Lo stesso autore asserisce inoltre che gli astrologi sono veridici quando si pronunciano sui caratteri degli uomini e sulle loro inclinazioni, per la forte propensione infusa in loro dal cielo e dalle stelle, quando respingendo la ragione seguono soltanto la parte concupiscibile dell’anima, che obbedisce solo al senso, e vi aderisce, poiché i pensieri degli uomini sono inclini al male. 11. In base a questo parere bisogna convenire che una volta respinto il cielo, le stelle e la ragione, e divenuti dediti soltanto agli appetiti, che gli uomini hanno in comune con le bestie, sulle nostre azioni, sulle nostre volontà e sulle nostre intenzioni gli appetiti eserciteranno tutto il loro dominio. E infatti, se un uomo è dedito in tutto ai sensi e solo ad essi è soggetto, essendo essi corporei ed essendo i nostri corpi soggetti ai movimenti e alla natura del cielo e delle stelle, non c’è da meravigliarsi se in lui, nei suoi pensieri nei suoi movimenti, nelle scelte, nei propositi e negli atti, messa completamente da parte la ragione, regnerà la potenza del cielo e degli astri, ed essa lo trascinerà con sé senza alcun freno.

VIII INFLUSSO DELLE STELLE SUI BENI DEL CORPO. 1. Quanta sia dunque la potenza, in un senso e nell’altro, del cielo e delle stelle e la loro autorità su quanto riguarda il corpo e i sensi corporei, e sui cosiddetti beni del corpo, lo vogliamo mostrare portando quasi degli esempi, affinché sui beni e così sui mali fisici appaiano essere grandissimi e fortissimi i poteri della fortuna. In primo luogo nel formare i corpi perfino le regioni, nonché i genitori e le parentele danno un grandissimo apporto. E infatti delle regioni, alcune fanno procreare corpi neri, altre corpi bianchi; queste fanno generare corpi abbondanti di sangue, quelle corpi esangui. Vi sono di quelle che fanno generare corpi alti, o macilenti, quelle invece che fanno generare corpi bassi, o grassi, o ben armoniosi e squadrati. A questi caratteri poi e a queste disposizioni daranno il proprio forte contributo l’ambiente e la natura del suolo su cui uno nasce e viene allevato, e il prospetto e la posizione del cielo che gira attorno. Lo stato della famiglia e della parentela di solito generano alcune situazioni e caratteristiche particolari dei corpi. Anche gli astri 973

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quoque suas particulatim adiungunt, quorum alia ratio habenda est, ubi primae signi partes in alicuius genitura ascenderint ab exortu, alia ubi mediae aut ultimae: neque enim parum interest. Caeterum quoniam errantes stellae perinde ut informatrices per coelum feruntur, in quo tanquam artifices in materia quaeque versatur sua, primumque Sol ac Luna perinde ac duces locum optinent, quorum alter quidem in coelo velut cordis, altera vero quasi cerebri vicem gerat, videamus quinque ex erraticis stellis, quem corporis statum qualemque compactionem, quaeque ab insita tantum vi propriaque a natura constituat, quotiens geniturae fuerit dominatum sortita in coeloque feliciter, ac pro dignitate collocata. 2. Saturnus igitur, ut nec regionis, nec parentum, nec signorum rationem habeamus ullam, quae quidem habenda est, suapte quidem natura, insitaque a vi ac potestate, modicum effingit nascentis hominis corpus idque languidum atque imbecillum et pallidum, quod tum malignis humoribus, tum latentibus etiam doloribus non raro vexetur laboretque de ventris frigida constitutione, quin et oculis suffusiones malumque inducet habitum, calvitium quoque et aquam intercutem; praeterea podagram, morbum comitialem ac pneumonicum spasticumque ac nervorum contractionem, praesertim male ubi fuerit ignobiliterque collocatus, accesseritque Lunae etiam minax aspectus, imminuto eius lumine ac nocturno in tempore. Quas autem excitet in homine ingeneretque propensiones ad appetendum atque ad volendum, et quas ad affectiones illum applicet suapte, ut dictum est, natura, ne hoc quidem praetereundum videtur. Nam stellarum quoque aliarum commistiones, quibus ex ipsis genus hominum sic variat, uti varietate ex ea natura videatur absolvi in iis et perfici ad quae assidue intendit, sunt illae quidem innumerabiles parumque comprehensae. Saturninae igitur propensiones, et quos hodie pervulgate influxus dicimus, ad tarditatem plerunque spectant, cunctationem, lentitudinem, austeritatem, tristitiam, futurorum prospectationem, parsimoniam, vehementiam, animadversionem, occultarum causarum inquisitionem, pertinaciam, patientiam ac propositi firmitatem. 3. At ubi Saturnus indigne collocabitur, ad invidentiam spectat, ad sordem, squalorem, metum, suspicionem, avaritiam, maledicentiam, seductionem, solitudinem, superstitionem, erumnas atque ad sui ipsius, nedum aliorum odium. Quod vero ad artes eas pertinet, quae sunt qua-

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del cielo aggiungono in particolare le loro forze per ottenere questo effetto, ma di essi bisogna tenere un conto diverso, quando le prime parti dell’astro nella genitura di qualcuno sono in oroscopo al sorgere, a metà del corso o alla fine, perché la cosa non è indifferente. Ma poiché le stelle erranti con la loro capacità di plasmare si muovono nel cielo, nel quale ciascuna si comporta come un artefice sulla sua materia, e anzitutto il sole e la luna occupano il posto di guide, e l’una nel cielo fa le veci del cuore, l’altra – si direbbe – quelle del cervello, vediamo delle cinque stelle erratiche quale costituzione fisica e quale connessione ciascuna è capace di determinare in virtù della forza che le è stata infusa dalla natura, quanto sia importante il dominio sulla genitura che ciascuno ha sortito e come sia perfettamente collocata nel cielo e nella posizione che le compete. 2. Saturno dunque, per non tenere conto, mentre bisogna in realtà tenerne, della regione, dei genitori, delle costellazioni, modella il corpo dell’uomo che nasce in forme modeste e con carattere languido, debole e pallido, poiché è vessato da umori maligni, e non raramente da dolori nascosti e soffre di ventre per una costituzione fredda, anzi produce cateratte agli occhi e cattiva condizione, ed anche calvizie e acqua intercutanea;265 produce inoltre la podagra, l’epilessia, la malattia polmonare, lo spasmo e la contrazione nervosa, specialmente se è collocato male e in posizione inopportuna, e se si aggiunge l’aspetto minaccioso della luna, nella fase in cui la luminosità è diminuita ed è notte. Le inclinazioni a desiderare e volere che la natura produce nell’uomo, e i sentimenti ai quali lo spinge, come si è detto, nemmeno questo sembra che debba trascurarsi. Infatti anche le combinazioni con altre stelle,266 per cui il genere umano è vario, in modo che in virtù di quella varietà la natura sembri realizzarvisi e pervenire a ciò cui intende, sono innumerevoli e ben poco note. Le propensioni saturnine dunque, e quelli che oggi volgarmente chiamiamo influssi,267 riguardano per lo più l’indugio, l’esitazione, la lentezza, l’austerità, la tristezza, la considerazione del futuro, la parsimonia, la veemenza, l’attenzione, la ricerca delle cause occulte, la pertinacia, la pazienza, la fermezza di propositi. 3. Ma se Saturno sarà collocato in maniera inopportuna, il suo influsso riguarda l’invidia, la meschinità, il timore, il sospetto, l’avarizia, la maldicenza, la lusinga, il carattere solitario, la superstizione, le pene e l’odio contro se stessi nonché contro gli altri. Ma per quel che riguarda 975

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estuosae, saturninae propensiones plerunque ad rusticationem invitant fabriliaque ministeria, praecipueque e ligno, ad aedificandas naves, ad struendos currus, ad exercendam culinam, ad expurganda coria, ad eluendas cloacas atque ad res sordidas. Ne te autem lateat quam valide etiam impotenterque stellae male atque ignobiliter collocatae in corpora grassentur hominum, hoc sic accipe, futurum illum aut gibberum, aut nanulum, aut paralyticum, aut incurvum, aut ridiculo denique corpore, in cuius genitura culminans Saturnus Martem de quadrangulo aut ex opposito loco minitantem aspexerit, ipse vero vel geniturae ipsius adversetur domino, vel vitae datori benefica tamen nulla auxilium ferente. Idem Saturnus ipsa ab adolescentia canitie illius foedabit caput, cuius in genitura inter solem ipse ac lunam positus perinde ac circunsessus invenietur. Illud etiam stella haec intentabit, ut in occultioribus corporis locis a medico secetur is, qui Saturnum in lucem veniens in occasu sortitus fuerit Lunam vero aut Saturno oppositam, aut quadrangulantem, ni forte benefica stella malum prohibuerit. 4. Verum ne omnia videamur velle excutere, de Iove quoque pauca quaedam delibemus. Is enim ab insita vi ac suopte ingenio humani corporis statum cum dignitate constituit ac pulcritudine illustratque colore eo qui argentum referre videatur, pulcris oculis, multo et promisso capillo, toto denique corpore moderato. Ingenitae vero a Iove propensiones in magnanimitate proclinant ac magnificentiam, in religionem, honestatem, misericordiam, benevolentiam, humanitatem, liberalitatem, magniloquentiam, dignam viro voluptatem, in benefaciendi item, beneque dicendi atque inveniendi studium. Has, ut diximus, propensiones innuit Iupiter ab insita vi ac potestate, ubi scilicet in alicuius viri genitura cum dignitate praeerit; contra, indigne collocato, in luxum proclinabunt atque in ostentationem, prodigentiam, fictam religionem, rusticanum quendam pudorem; quin etiam ad fatuitatem, stoliditatem, voluptatesque iure odibiles, atque insectatione dignas. Morbi vero eius spectabunt in anginam malumque pulmonum ac spiritus habitum, in nervorum resolutionem, capitis dolores sudoresque illos nimios, qui cardiacum indicant, quique mali affectus ex inflatione ingenerantur, quaeque hodie a medicis ventositas dicitur, aut qui a cruditate manant. Quod si quaestuosas ad artis ignobiliter collocatus Iupiter quempiam invitaverit, profecto

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le arti lucrose gli influssi di Saturno per lo più invitano al mestiere del contadino, a quello dell’artigiano specialmente del legno, alla costruzione delle navi, alla fabbricazione dei carri, all’esercizio della cucina, alla pulitura del cuoio, al lavaggio delle cloache e a lavori bassi. Non ti sfugga poi con quanta forza e sfrenatezza le stelle male e inopportunamente disposte assalgano i corpi umani: considera questo, che sarà gobbo, o nano, o paralitico, o curvo, o dotato di un corpo ridicolo colui nella cui genitura Saturno in cuspide guarderà Marte minacciare dal quadrangolo o dalla sede di fronte, mentre lui sta di contro al signore della stessa genitura o al datore di vita, ma senza poter venire in aiuto con alcun beneficio. Lo stesso Saturno sin dall’adolescenza sfigurerà il capo con la canizie, a chi nella genitura si troverà posto e circondato fra il sole e la luna. A un’altra cosa questo astro rivolgerà il suo influsso, a far che da parte del medico subisca un’amputazione nelle più occulte parti del corpo chi venendo al mondo avrà avuto Saturno al tramonto mentre la luna opposta a Saturno, o in quadrangolo, a meno che una stella benefica non lo avrà impedito. 4. Ad evitare però che sembri voler noi esaminare tutta la materia, anche sul conto di Giove delibiamo poche cose. Questi infatti per una forza insita e per sua indole dà al corpo umano una forma piena di dignità e di bellezza, e l’abbellisce col colore che sembra riprodurre l’argento, gli occhi belli, capigliatura folta e lunga, tutto il corpo infine armonioso. Le propensioni infuse da Giove piegano verso la magnanimità e la magnificenza, verso la religione, l’onestà, la misericordia, la benevolenza, l’umanità, la liberalità, la magniloquenza, il piacere onesto, inoltre verso la generosità, l’eloquenza e l’inventiva. Queste propensioni, come si è detto, Giove infonde per un potere insito in lui, ovviamente quando presiederà opportunamente nella genitura di qualcuno; invece, se è collocato in posizione inopportuna, gli uomini saranno proclivi al lusso e all’ostentazione, alla falsa religione, ad un pudore un po’ rusticano; anzi anche alla fatuità, alla stoltezza, ai piaceri giustamente odiosi e degni di riprovazione. Le sue malattie riguarderanno l’angina, il mal dei polmoni e il modo di respirare, la paralisi, i dolori di testa, l’eccesso di sudore che indicano un male cardiaco, e quelle affezioni che nascono dal gonfiore e da quella che oggi dai medici viene detta «ventosità», o quelle che derivano dal mal di stomaco. Che se Giove collocato in posizione inopportuna avvierà qualcuno ad arti remunerative, certamente quelle arti 977

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artes eae aut augurales erunt, aut sacris in rebus templisque versabuntur, aut in conciliandis matrimoniis, aut in exigendis portoriis, sive in athleticis certaminibus. 5. Sed iam ad Martem transeamus, de eo quoque pauca quaedam dicturi, quando sigillatim ea nos diffusiusque iis in libris expressimus, quos coelestibus ac sideralibus de rebus scripsimus declaravimusque quae erraticae cuiusque sint propria et in geniturae dominatu et in distribuendis artibus opificiisque. Commotiones a Marte suscitatae, quaeque appetitum et titillant et irritant, in rixas propendent atque contentiones (inde enim propensiones a maioribus nostris dictae) in violentiam, rapinas, arrogantiam, pervicaciam, contumaciam, excandescentiam, impatientiam, implacabilitatem, crudelitatem, impietatem, belligerationem; in deorum item contemptum, incontinentiam, temeritatem, conviciationem, praecipitationem, perfidiam. Corpus autem ipsum, cuius Mars erit constitutor, inflammabitur multo atque effervescente sanguine, ut color eius sit ignitus, capillus rufus, oculi sanguinolenti et foedi, trux etiam vultus, portendanturque nimia de sanguinis aestuatione, inflammationes, febres acutae, ac pestilentes, insaniae, hulcera, pustulae, abscessus, cancer. Eaedem etiam propensiones ad militiam invitant vitamque in ea agendam atque inter arma. Coeterum ubi ad artes devenietur quaestuosas propter ignobilem Martis collocationem geniturae tempore, artes ipsae innuuntur ex igne et ferro, ut ferraria, furnaria, fornacalis, fusoria, conflatoria, cauponaria, laniaria. Innuuntur et vulnera et inustiones, ruinae quoque casusque e locis editioribus. 6. Quas autem Venus excitat propensiones, eae in res intendunt iucundas ac voluptarias, atque in ornatum et cultum, in delicias, munditias, leporem, elegantias, luxum, nec minus in religionem, pietatem, misericordiam, integritatem, beneficentiam, amicitiae cultum. Eadem stella mirum in modum cupiditatem excitat, honorum, dignitatis, sacerdotii, praesertim ubi in genitura hominis fuerit cum dignitate collocata. Ubi vero ignobiliter, desidiam portendit, opscuritatem, probrositatem, obiectionem, mulierositatem. Quae si artes quidem innuerit quaestuosas, erunt eae organaria, pictura, pigmentaria, atque earum similes. Corpus longum efficit, candidum, oculos gratos ac venustos, capillos etiam multos gignit et molliter flexos. At male affecta morbos vitiaque

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o saranno quelle che si riferiscono alla divinazione, o riguarderanno le cose sacre e i templi, o la combinazione di matrimoni, o l’esattoria delle gabelle, o le gare atletiche. 5. Ma ora passiamo a Marte, per dire qualcosa anche di lui, giacché in forma più particolare e diffusa abbiamo detto queste cose nei libri sulla scienza del cielo e degli astri,268 spiegando le proprietà di ciascun pianeta sia nel dominio della genitura, che nella distribuzione delle arti e dei mestieri. I moti suscitati da Marte, che spingono e inducono all’aggressività, inclineranno alle risse e alle contese (e perciò dai nostri antenati sono state dette propensioni),269 alla violenza, alle rapine, all’arroganza, alla pervicacia, alla contumacia, all’escandescenza, all’impazienza, all’inflessibilità, alla crudeltà, all’empietà, alla belligeranza, al disprezzo degli dei, all’incontinenza, alla temerarietà, all’ingiuria, all’azione precipitosa, alla perfidia. Il corpo alla cui formazione presiederà Marte s’infiammerà poi per il sangue abbondante ed effervescente, sicché il suo colore sarà di fuoco, i capelli saranno rossi, gli occhi sanguinolenti e crudeli, truce anche il volto, e faranno presagire per il troppo bollore del sangue infiammazioni, febbri acute e pestifere, follie, ulcere,270 pustole, ascessi, cancro. Le medesime propensioni avviano all’arte militare, ad una vita da trascorrere nella milizia e fra le armi. Per il resto, se si passa alle arti remunerative, per la collocazione inopportuna di Marte al tempo della genitura, perfino le arti sono segnate dal fuoco e dal ferro, come quella del fabbro, del fornaio, delle fornaci, delle fusioni, delle fonderie, delle osterie, dei macelli. Vengono previste anche ferite e bruciature, e inoltre precipitose cadute da luoghi piuttosto alti. 6. Venere desta propensioni a cose piacevoli e voluttuose, all’ornamento e alla raffinatezza, al godimento, al buon gusto, alla gradevolezza, all’eleganza, al lusso, nonché alla religione, alla pietà, alla misericordia, alla compitezza, alla beneficenza, al culto dell’amicizia. La medesima stella desta in modo straordinario la passione per gli onori, per le cariche, per il sacerdozio, specialmente quando alla genitura dell’uomo è collocata in posizione eccellente. Ma quando è collocata in posizione inopportuna fa presagire indolenza, oscurità, ignominia, passione per le donne. E se indicherà arti remunerative, esse saranno la fabbricazione degli organi, la pittura, la vendita di cosmetici e simili. Forma un corpo slanciato, candido, occhi gradevoli e belli, produce una capigliatura folta e morbidamente flessuosa. Ma quando è mal disposta fa presagire morbi 979

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in partibus corporis occultioribus ac naturalibus portendit, malam item stomachi iecinorisque affectionem, alui profusionem, phistulas, malum e potionibus ac veneficiis. 7. Corpus vero, cuius Mercurius auctor fuerit, medii quidem status erit, gracile tamen, ac pallidum, oculi vero honesti, propensiones ipsae atque affectiones pronae quidem erunt in literas, scientias, eloquentiae studium, secretarum atque abditarum rerum, et divinarum et humanarum pervestigationem, in negociationes, commercia, legationes, advocationesque; in computationem, diligentiam, solertiam, coniecturationem, sagacitatem, frugalitatem, sapientiam. Sequitur autem Mercurius in excitandis affectionibus applicationibusque naturas potissimum signorum et stellarum aliarum configurationes atque aspectus. Itaque si Luna male constituta, mala illum irradiatione pulsaverit, si et Mars item malignorum humorum superfluentiam indicat nervorumque contractiones, morbum quoque comitialem ac delirium. 8. Sol ac Luna vires suas harum cuique vel adiungunt, vel robur ac praesidium afferre suum abnuunt, pro sua quidem collocatione ac coeli statu. In universum autem Sol fidei studium praesefert, nobilitatem item ac generositatem, ad morum quoque accendit compositionem, ad religionem atque humanitatem, non tamen ut non et animi elationem exuscitet et spiritus inflationem. Staturam vero corporis integram praestat, ac bene collocatus addit ad proceritatem, praestat et robur membrorum egregiamque constitutionem, et totius corporis bonum habitum, oculos etiam decoros, capillum vero flavum. At Luna prona est ad splendorem, ad morum egregiam compositionem, ad honoris cupiditatem ac popularem gratiam. In fingendo autem corpore staturaque decernenda signi maxime naturam sequitur, pulcritudinem tamen procurat, vitae vero inaequalitatem, quae natura eius est, decernit. Corpori candorem affert, male tamen collocata atque affecta non modo maculis illud inficit, aut tetra scabie, verum languidum efficit ac tremulum, malignos assidue humores instillans. 9. Ex his igitur, etsi non multis pro rei quidem magnitudine ac diversitate, aperte tamen et intelligere potes et etiam iudicare quanta coeli potestas ac stellarum sit, quam valida etiam vis, non in fortunae ipsius modo bonis, verum etiam corporis, nec corporis solum, verum etiam animi, qua parte mens ipsa cogitatioque atque intellegentia a sensibus

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e difetti nelle parti più occulte e genitali del corpo, una cagionevolezza allo stomaco e al fegato, emorragie del ventre, fistole, malanni provenienti da pozioni e venefici. 7. Il corpo plasmato da Mercurio sarà di media statura, tuttavia gracile e pallido, mentre gli occhi dignitosi,271 le propensioni e le predilezioni saranno rivolte alle lettere, alle scienze, allo studio dell’eloquenza, all’investigazione delle cose segrete e nascoste, divine ed umane, ai negozi, ai commerci, alla diplomazia e all’avvocatura; al calcolo, alla diligenza, alla solerzia, alla congettura, alla sagacia, alla frugalità, alla sapienza. Mercurio poi segue, nel suscitare le disposizioni e le inclinazioni, specialmente la natura di altre costellazioni e stelle, la loro configurazione e il loro aspetto. Pertanto se è la luna ad essere mal disposta, colpirà con una cattiva irradiazione, se lo sarà Marte, questi indica ugualmente eccesso di umori maligni, contrazione di nervi, epilessia e delirio. 8. Il sole e la luna o aggiungono forza a ciascuna di queste stelle, o si rifiutano di dar forza e sostegno, a seconda della loro collocazione e della configurazione del cielo. In generale, poi, il sole offre da parte sua la disposizione alla fede, e anche nobiltà e generosità, accresce la compostezza dei costumi, il sentimento religioso, non tuttavia al punto di non suscitare l’esaltazione dell’animo e l’eccesso di baldanzosi spiriti. Dona una statura piena del corpo, e quando è ben collocato aggiunge qualcosa all’altezza, dona anche forza alle membra, una costituzione magnifica, e una condizione fisica complessivamente buona, occhi dignitosi, ma capelli biondi. La luna è invece propensa allo splendore, all’egregia compostezza dei costumi, alla brama di onore e al favore popolare. Nel plasmare, poi, il corpo e nella scelta della statura segue soprattutto la natura del segno, e tuttavia procura bellezza, ma una diversità di vita che è nella propria natura. Arreca candore al corpo, e tuttavia quando è male collocata e disposta non solo lo contamina di macchie e di tetra scabbia, ma lo rende languido e tremante, istillandogli continuamente umori maligni. 9. Da questi elementi, anche se non molti rispetto all’ampiezza e molteplicità della materia, si può capire tuttavia e anche valutare, quanto sia grande la potenza del cielo e delle stelle, quanto anche sia forte l’influsso che esercitano non solo sui beni di fortuna, ma anche su quelli del corpo, né solo del corpo, ma anche dell’animo. Da qui la mente, la riflessione e l’intelligenza ricevono le immagini somministrate dai sensi, e da quella 981

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subministrata simulacra accipit vique ab illa titillatur, qua et ad appetendum trahimur, et ad appetita consequendum, voluntate ad id propensius impulsa. Ut nonnunquam tanta etiam vis ipsa sit impetusque adeo validus ac pertinax, ut hominem ipsum de statu suo, idest de rationis possessione abstractum impotenter, aut secum in praeceps rapiat, aut trudat in insaniam. 10. Quid quod vis haec ipsa coelestis malignitasque configurationum nunc delirium inducit, nunc lymphationem, morbosque animorum alios? Siquidem in lucem veniente aliquo, si Luna nullo prorsus copulationis genere iungetur horoscopo, nulla item Mercurius familiaritate ac vinculo, Saturnus vero in cardine constitutus fuerit, praesertim si nocturna erit genitura, aut ubi diurna, Mars cardinem tenuerit potissimumque in Cancro, aut Vergine, aut Piscibus, nimirum hic ipse, qui hac sub coeli configuratione nascetur, daemoniacus futurus est hocque insaniae genere laborabit. Itidem furore agitabitur, ubi sub hac eadem configuratione Martis ac Saturni natus quis fuerit, dum tamen Luna nulla prorsus ratione Mercurio copuletur. Quin etiam aut insanus futurus est aut lunaticus, qui in lucem prodiens Solem Lunamque partiliter in aliquo coeli cardine coniunctos habuerit, ac tum Martem alio e cardine illis quadrangulantem, tum Saturnum vel e regione, vel e quadrangulo eos hostiliter impugnantem. Nec temere igitur, nec praeter rerum naturam ac rationem dictum est a nobis, fortunam tum fati ministram esse illique et obsequi et famulari, tum executricem eorum omnium, quae a stellis portendantur ac coelo, vel suum ipsius coeli potius ac stellarum effectum. Nam quae a coelo in initio innuuntur, ea videntur tanquam in motu posita, deque vi ac potestate insita in actionem progressim transitionem suam facere. Quemadmodum usuvenit in arbusculis, quae initio gemmas quasi quasdam trudunt, post in flores sese induunt, inde in poma, quae sensim quoque ematurescunt. Atque hic quidem ipse fructus ab ipso est initio, atque ab ipsa gemmarum explicatione promissus. Has itaque per progressiones, quae initio arbor vel innuit, vel promittit, ad fructum tandem perveniunt. 11. Eundem quoque in modum quae a primordio coelestes innuunt portenduntque configurationes, positusque stellarum atque habitus, ea suo tandem tempore promissum fructum, idest effectum ipsum, adducunt suos per motus perque progressiones. Quem quidem effectum, ubi felix ipse portenditur, studio industriaque nostra et adiuvare possumus 982

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forza vengono sollecitate, per cui siamo tratti a desiderare e a conseguire quel che desideriamo, quando la volontà riceve una spinta maggiore. Sicché talvolta è tanta la forza e così grande e intenso l’impeto, da allontanare prepotentemente l’uomo dal suo proprio stato, ossia dal dominio della ragione, e trascinarlo a precipizio con sé, oppure da spingerlo alla follia. 10. E che dire del fatto che questa stessa forza celeste, questa stessa malignità di configurazioni ora induce il delirio, ora la follia e altri morbi dell’animo? Poiché, quando un uomo viene alla luce, se la luna in nessun genere di congiunzione si unirà all’oroscopo, e Mercurio non sarà legato da alcun vincolo di amicizia, mentre Saturno si troverà in un segno cardinale, specialmente se la genitura avverrà di notte, o, se di giorno, e Marte si troverà in un segno cardinale272 e soprattutto in Cancro, o in Vergine, o in Pesci, non c’è da meravigliarsi se chi nascerà sotto questa configurazione del cielo sia destinato ad essere demoniaco, e perciò sarà travagliato da una sorta d’insania. Similmente uno sarà agitato da furore, se nascerà sotto questa stessa configurazione di Marte e di Saturno, quando la Luna non si congiunge per nulla con Mercurio. Che anzi sarà o insano o lunatico chi venendo alla luce avrà in qualche cardine del cielo il Sole e la Luna in congiunzione, e ora Marte che da un altro cardine fa con loro quadrangolo, ora Saturno che di fronte, o dal quadrangolo, 273 si oppone loro ostilmente. Non senza ragione dunque, né senza tener conto della realtà e della ragione è stato detto da noi che la fortuna è sia ministra del fato e gli obbedisce ed è al suo servizio, sia esecutrice di tutte le cose che dalle stelle e dal cielo vengono preconizzate, o sono piuttosto effetto del cielo e delle stelle. Infatti le indicazioni iniziali del cielo sono poste quasi in moto, e fanno progressivamente il loro corso dalla potenza all’atto. Come avviene nelle piante, che all’inizio mettono fuori quasi delle gemme, poi si vestono di fiori, quindi di frutti che a poco a poco maturano. E questo frutto è promesso sin dall’inizio, e sin dall’apertura delle gemme. Così attraverso questi stadi progressivi quel che l’albero all’inizio o accenna, o promette, alla fine giunge al frutto. 11. Allo stesso modo quello che inizialmente accennano e fanno preconizzare le configurazioni celesti, la conformazione e la posizione delle stelle, finalmente a tempo debito arreca il frutto promesso, ossia l’effetto, attraverso i moti suoi propri e fasi progressive. Questo frutto, quando è preconizzato felice, noi possiamo favorirlo col nostro impegno e con la 983

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et huberiorem reddere succique melioris, malum autem atque infelicem vel laenire, vel omnino avertere, vel non parva saltem e parte imminuere. Quod item studiosi rerum rusticarum cultores praestant, runcando, emundando, sarriendo, rivum inducendo, stercorationem adhibendo, terram saepius fodiendo, dum nihil in agris remissum esse aut segne patiuntur, nullumque relinquunt negligentiae locum. 12. Et vero, quanquam nonnunquam vis maxima est coeli eaque fortasse insuperabilis, iuverit tamen, quod prudentis est officium hominis, illud gnaviter praestitisse, ne ignaviter superemur. Ipsius vero bonae fortunae eiusque continuationis eadem est ratio, quae adversantis et malae. Ut enim ad malae continuationem, sic ad bonae conveniunt et coeli, et signorum, et errantium pariter fixarumque stellarum situs, aspectus, configurationes, qualesque hae ab initio fuerint in bonum malum ve commodum, aut incommodum, tales post effectiones erunt, talis etiam fortunae eventus. Ubi enim configurationes omni e parte ad felicitatem convenerint, continuationem servabunt in conferendis bonis, eaque quae ex convento et tanquam ex foedere promissa sunt amice constanterque praestabunt. Sin mistae fuerint, atque ex utroque constabunt, ut et commoda et incommoda simul portendant, effectiones quoque et eventus futuri sunt misti, atque ex utroque pariter prospero et adverso. Quodsi configurationes undique adversantes erunt et malae, malorum non deerunt continuationes atque adversitatum, tenorque earum perinde ac perpetuus futurus. Quas ad res non nihil aut addent, aut ex iisdem dement patria, parentes, regio, institutio, consuetudo, quin etiam religio ac secta in qua natus quisque est atque aducatus, leges item sub quarum institutis ac praeceptis in communi vivitur. 13. Quibus e rebus arbitrior id effectum esse, lucide ut appareat, fortunam hinc, quantum scilicet nostra interest, eventitiam esse causam, et, ut hodie loquuntur, ex contingenti ac per accidens, illinc autem qua a coelo producitur atque a sideribus, pernaturales propriosque ipsorum motus atque effectiones causam esse per se, suisque ad finem progredi e principiis mediis atque agitationibus. Deus autem ipse Optimus Maximus tum sua providentia et numine, tum per Geniorum, hoc est Angelorum intelligentiarumque ministeria, sic omnia et metitur et regit et

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nostra operosità, e rendere più abbondante e con un succo migliore, ma quando è cattivo e gramo, possiamo o svigorirlo o del tutto rimuoverlo, o almeno in parte ridurlo. Lo dimostrano gli studiosi che coltivano la scienza agricola, sradicando, ripulendo, sarchiando, portando l’irrigazione, concimando, zappando frequentemente la terra, poiché non tollerano che nei campi rimanga qualcosa indietro o di trascurato, non lasciando spazio alla negligenza. 12. Ma sebbene più di una volta la forza del cielo è grandissima, ed è insuperabile, gioverà, ed è questo il compito dell’uomo prudente, offrire la propria opera con sollecitudine per non essere vinti a forza di comportarci con ignavia. In verità della buona fortuna e della sua continua durata il principio è lo stesso che nel caso della fortuna avversa e cattiva. Infatti, come per la persistenza della cattiva fortuna, così per quella della buona si accordano i cieli e la posizione, gli aspetti, le configurazioni dei segni, e insieme delle stelle erranti e delle stelle fisse: come queste si sono comportate inizialmente dando un vantaggio, buono o men buono che sia, o un danno, così saranno poi gli effetti, e tale sarà anche l’esito della fortuna. Se infatti le configurazioni274 si accorderanno da ogni parte per la felicità, serberanno costanza nel conferire i beni, e manterranno con fedeltà e costanza le promesse fatte con un accordo e quasi con un patto.275 Se saranno miste e composte di entrambi gli influssi, prospettando vantaggi e svantaggi, anche gli effetti e gli eventi futuri saranno misti e in ugual misura consteranno di prosperità e avversità. Che se le configurazioni saranno in ogni senso avverse e maligne, non verrà meno la persistenza dei mali e delle avversità e il loro corso sarà come perpetuo. Non poco vigore aumenteranno o toglieranno a questi effetti altri fattori quali la patria, i genitori, la regione, le istituzioni, la consuetudine, anzi anche la religione e la fazione in cui uno è nato ed è stato educato, inoltre le leggi sotto le cui norme e i cui precetti si vive in comune. 13. Da queste ragioni ritengo che derivi una chiara conclusione, che da una parte la fortuna, ovviamente per quello che ci riguarda, è una causa eventizia e, come oggi si dice, contingente e accidentale, dall’altra, poiché è prodotta dal cielo e dagli astri, i loro moti sono del tutto naturali e propri, e i loro effetti sono causa per sé, e procedono al loro fine partendo da princìpi e movimenti neutri. Il sommo Dio poi, con la sua provvidenza e la sua potenza, sia per opera dei Genii, cioè degli angeli e delle intelligenze, misura tutto e regge e governa ogni cosa, sì 985

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dispensat cuncta, ut nostrum nullo modo sit ei velle praescribere, aut dispensationis eius, providentiaeque exigere rationem. Cui aequo qui assentiuntur animo, eiusque conquiescunt in distributione ac nutu, et prospera quae succedunt iucundiora efficiunt ac magis grata, et quae adversa, minus gravia longeque etiam tolerabiliora. 14. Quae igitur fortuna sit, et qualis, apertissime quidem vides, quaeque item sit causa, et quibus fluat e principiis, et quorum etiam sit sive effectrix, sive ipse potius effectus, quodque qua repentina et quidem ex inopinato offertur, eventitia est, qua vero coelestibus movetur a causis, sit per se ipsa causa, praeterea quarum sit etiam rerum causa, sive res ipsae de genere bonorum habeantur, sive contra malorum. Vides etiam et fato eam obsequi, et nihilominus voluntates hominum esse liberas ac sui iuris; denique coeli effectum esse ac siderum, quibus inferiora haec omnia sint subiecta, praeterquam ubi ratio mensque ipsa locum ac maiestatem retinet suam suoque se tuetur in solio. Nos igitur, quoniam rationales sumus rationisque ipsius meritis et divinum animal habetur homo et coelitibus maxime acceptum, rationem omni studio colamus, illi nos actionesque nostras, nostra demum omnia adiungamus, eius inhaereamus vestigiis obtemperemusque praeceptis. Ut si minus tueri valuerimus quae fortunae sunt, nostraque neutique in manu posita, quae nostra tamen habentur, rationique quae nostra est, vel cognata sunt, vel subdita, ea sic tueamur, ne vel inimicam nobis, ubi praestari id poterit, fortunam fecisse iudicemur, inque odium provocasse eam rerumque nostrarum perniciem, aut quo minus ab illa superemur, ubi nobiscum in certamen venerit, ne non annisi summis etiam conatibus videamur. Quodsi in finibus illam suis suisque in agris conserta manu vincere minime concessum nobis fuerit, id saltem praestabimus, ne, dum minime victores e pugna discedimus, victi ignaviter abeamus. FINIS DE FORTUNA LIBER III NEAPOLI MCCCCCI.

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che non è assolutamente nostro compito far eccezione o chiedere ragione della sua decisione e della sua provvidenza. E coloro che di buon animo danno a lui il proprio assenso, e accettano pacificamente il suo criterio di distribuzione e il suo ordine, rendono più piacevoli e graditi gli eventi prosperi, e meno gravi e più tollerabili gli eventi avversi. 14. Vedi dunque con estrema chiarezza che cosa sia la fortuna e qual è la sua natura, quale sia la sua causa e da quali principi scaturisca, e di che cosa sia causa efficiente e piuttosto effetto, e che per il fatto di essere repentina e di presentarsi all’improvviso, è eventizia, ma per il fatto che muove da cause celesti, è causa per sé; e vedi inoltre di quali effetti sia causa, vuoi che essi appartengano al genere dei beni, vuoi che appartengano invece al genere dei mali. Vedi anche che essa obbedisce al fato, e nondimeno le volontà degli uomini sono libere e autonome; infine che è effetto del cielo e delle stelle, cui è soggetto tutto questo mondo inferiore, tranne quando la ragione e la mente stessa mantengono la loro dignità e rimangono sul loro trono. Noi dunque, poiché siamo dotati di ragione e l’uomo per merito della ragione è ritenuto un animale razionale e più di ogni altro caro ai celesti, con ogni sforzo coltiviamo la ragione; ad essa uniformiamo le nostre azioni e infine tutte le nostre cose, seguendo le sue tracce e obbedendo ai suoi precetti. Che se non saremo capaci di tenerci quel che è proprio della fortuna, e per nulla in nostro potere, cerchiamo di tenerci tuttavia quello che ci appartiene ed è ritenuto affine o soggetto alla ragione, che è cosa nostra, in modo che non si pensi che ci siamo inimicati la fortuna, e l’abbiamo noi provocata all’odio e alla rovina della vita nostra, o almeno non ne veniamo sopraffatti quando verrà in conflitto con noi, e non sembri che non abbiamo fatto tutto il possibile; e se non ci sarà concesso di vincerla 276 scontrandoci con lei nel suo territorio e nel suo dominio, questo almeno otterremo, che non potendo uscire vittoriosi dalla battaglia, non ne usciamo vinti come codardi. FINE DEL LIBRO III DELLA FORTUNA, NAPOLI 1501.

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De sermone La conversazione Nota introduttiva, traduzione e note di FRANCESCO TATEO

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Nota introduttiva

Alla ricostruzione e all’ampliamento del sistema etico di Aristotele appartengono, dell’opera pontaniana, non solo tutta la serie di libri sulle virtù morali e sociali, ma anche il trattato sul sermo, che riguarda il linguaggio della conversazione e della narrativa minore di carattere piacevole. Pontano ricorda questo suo lungo impegno nella dedica a Marco Antonio Coccio Sabellico (1436-1506), insigne storico di Venezia, proveniente dall’Accademia romana, sostituito dal Summonte nel manoscritto e poi nella stampa dal nome di Giacomo Mantovano, dell’ordine dei Predicatori, che fu poi vescovo di Lesina (1526-28). Con questo trattato l’Umanista completava sia l’analisi delle virtù etiche, sia l’analisi delle forme letterarie, con il riferimento alla oralità. Il linguaggio della conversazione, infatti, può considerarsi, come Pontano lo considera, una forma virtuosa di socievolezza nel rapporto umano, rappresentando quello che nell’etica è il «giusto mezzo», e allo stesso tempo una forma piacevole di espressione di fronte, o meglio accanto, ai generi seri della scrittura, la poesia, la storiografia, l’oratoria. Per questo, se non è possibile tenere distinti i due generi dei dialoghi e dei trattati morali, nonostante la diversa impostazione stilistica che differenzia il metodo didattico, fino al tecnicismo, della prosa filosofica e la disinvoltura della prosa dialogica che insiste sulla variabilità del discorso volutamente asistematico e affidato ad un’apparente casualità e perfino libertà e inventiva linguistica, a maggior ragione non è possibile separare il De sermone dai dialoghi, dai trattati morali e dalla poetica. Anzi esso rappresenta una sorta di collante nel progetto pontaniano, fondamentalmente unitario, fra il problema etico e quello dell’espressione letteraria, al confine fra virtù e arte. 993

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LA CONVERSAZIONE

Oltre tutto il trattato si presenta esso stesso come una fusione fra la conversazione che include l’aneddotica piacevole, e la trattatistica che ricorre, soprattutto nelle parti teoriche iniziali, alla tecnica raffinata e perfino cavillosa delle distinzioni e delle definizioni. In sostanza la cornice esplicativa comprendente una serie di esempi narrativi (si direbbe un repertorio simile alle Facezie di Poggio Bracciolini, anch’esse finalizzate ad alimentare l’arte della conversazione), è essa stessa conversazione come molta parte dei Dialoghi quando comprendono aneddoti comici. Ma, rivolto quasi a completare la poetica, come nel progetto aristotelico, sul versante della narrativa di livello comico, ossia medio, cui si riferiscono i generi del racconto breve e della novella propriamente detta, il trattato è costruito col medesimo metodo scientifico. Del resto ad una pagina dell’Etica di Aristotele risale l’impostazione primaria del discorso pontaniano sul sermo, e precisamente a quella che tratta del giusto mezzo applicato ai rapporti umani riguardanti le parole e le azioni, dove trova posto il piacevole. Ché, mentre Cicerone nel secondo libro del De oratore offre un famoso repertorio di facezie in funzione dell’efficacia persuasiva dell’oratoria forense, cui hanno attinto tutti coloro che hanno trattato della facezia, compreso Pontano, facendo notare volta per volta il carattere e l’opportunità della battuta, Aristotele aveva operato distinzioni e suddivisioni a proposito della medietà, sottolineando già anche lui, come farà Pontano, la difficoltà di trovare i nomi appropriati ad ogni unità tipologica: «Vi sono altri tre tipi di giusto mezzo, e hanno qualche analogia fra loro, pur differendo l’uno dall’altro: tutti e tre infatti riguardano i rapporti umani o mediante parole o mediante azioni; differiscono però perché l’uno riguarda la verità che vi è insita, gli altri due invece riguardano il piacevole; e in quest’ultimo si distinguono il piacevole riguardante il divertimento, e quello riguardante i casi comuni della vita. Occorre parlare anche di questi generi, affinché meglio si veda che in ogni cosa è lodevole la medietà, mentre gli estremi non sono né giusti né lodevoli, bensì biasimevoli. Anche di questi comportamenti la maggior parte non ha un nome specifico; bisogna tuttavia tentare, come già a proposito degli altri, di conferir loro un nome in vista della chiarezza e della comprensibilità. Quanto dunque alla verità, chi è nel giusto mezzo è veritiero, e quindi il giusto mezzo può dirsi veracità; l’esagerazione, che avviene per eccesso, 994

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NOTA INTRODUTTIVA

si può dire millanteria, e chi ne fa uso millantatore; la finzione che tende a diminuire invece si piò dire ironia, e chi ne fa uso ironico. Quanto al piacevole che vi è nel divertimento, chi è nel giusto mezzo può dirsi faceto e questa disposizione d’animo facezia, l’eccesso buffoneria e chi ne fa uso buffone, chi ne manca invece rozzo, e questa disposizione d’animo rozzezza. Per quell’altra piacevolezza che risiede nella vita comune, chi è piacevole come si conviene è amabile e il giusto mezzo può dirsi amabilità, chi invece eccede, se lo fa senza scopo alcuno, è complimentoso, se lo fa per qualche proprio vantaggio, è adulatore; chi invece ne difetta ed è intrattabile in ogni circostanza, è uomo scontroso, dal cattivo temperamento» (Eth. Nicom., II 7). Pontano terrà presenti tutte queste suddivisioni e le applicherà alla piacevolezza della conversazione, e ai suoi effetti ed eccessi, con qualche variante, giacché per lui la veracità rappresenta una funzione del rapporto umano consistente nel gradevole conversare, forse accostata a quella virtù che noi chiameremmo «sincerità», tipica virtù dell’amicizia, mentre l’ironia, fra l’altro definita alla stessa maniera aristotelica, rappresenta una delle virtù, ossia medietà, fondamentali del sermo, quindi un giusto mezzo, quando è opportunamente ed efficacemente usata nella forma della dissimulazione. L’opera, in sei libri, discorre propriamente dell’uso consapevole, artistico, della parola, e fa emergere attraverso la discussione etimologica che riguarda la terminologia relativa alla forma narrativa breve, una serie di osservazioni che pongono la facezia, quella che appare oggi come una specie minore del genere narrativo, al centro della trattazione complessiva dell’arte del narrare. Facetia sarebbe vocabolo affine a facundia e l’arte di usare facezie si fonda su quella virtù che con vocabolo nuovo si direbbe facetudo, e consisterebbe nella disposizione a usare la parola evitando la rozzezza agreste o il silenzio dei bruti e la satira pungente o la loquacità noiosa, con una sorta di umorismo innocuo e piacevole, acuto talora ma senza punta velenosa, con quel distacco proprio dell’arte che ha come fine il piacere di se stessa. L’arte del narrare è inclusa dunque nella trattazione della virtù, di una virtù particolare che concerne l’uso della parola e che in quanto virtù, ossia in quanto principio di comportamento sociale e politico nel senso aristotelico dell’«animale politico», risponde agli stessi requisiti delle tante virtù che pratichiamo, e che vanno 995

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LA CONVERSAZIONE

definite sulla base delle materie su cui si esercitano (la liberalità si esercita nell’uso dei beni materiali, la fortezza nell’affrontare il pericolo, la facezia nell’uso della parola), della diversa tipologia di persone che esercitano la stessa virtù, delle varie circostanze in cui essa viene applicata. Il primo libro, dopo aver esaltato il pregio della lingua, che distingue l’uomo nella natura del mondo, esamina le qualità diverse che si riscontrano nell’umanità, come è diversa la tipologia della lingua fra gli uomini. L’espressione è segno del carattere per cui la varietà dei caratteri umani produce la varietà delle forme espressive, fra le quali alcune sono guidate dalla moderazione sulla quale si fonda la virtù della parola. L’insistenza sulla urbanità e la schiettezza e affabilità come le più vicine a quel giusto mezzo fa pensare all’amicizia, dalla quale invece si distingue, ma lasciando la difficoltà di una denominazione appropriata. Già la comitas, virtù dell’uomo comis, emerge come la virtù di cui si cerca il nome e una delle più importanti per la denominazione di cui si va in cerca. Il secondo libro indugia prevalentemente sui caratteri negativi che non permettono l’esercizio di questa virtù non ancora denominata; al centro del libro l’evocazione del pensiero aristotelico del giusto mezzo avvia la rassegna di una serie di caratteri vicini all’ideale che si vuol designare. Si affacciano quindi l’ironia e la dissimulazione, che possono anche avere i loro limiti, ma corrispondono al giusto mezzo nell’uso della parola, anzi sembra che l’autore propenda per queste forme di espressione, se ad esse tornerà ancora a riferirsi. Nel terzo libro si affronta il problema della denominazione sfuggente di questa virtù: si punta sui termini esistenti di facetus e facetia, e si propone una preferibile etimologia da facere per dare a quel vocabolo una significazione più ampia, che non rimandi semplicemente alla parola, ma a tutto il comportamento che supporta il linguaggio. Non si può dire facondia, non si può dire eloquenza, che sono termini consumati in un ambito squisitamente retorico-scolastico. I neologismi di facetudo, o facetitas, convincono perché i loro suffissi rimandano all’habitus della facezia piuttosto che all’uso saltuario e occasionale dello spirito. La virtù dell’uomo spiritoso si manifesta, infatti, in ogni occasione e l’uomo provvisto di questa virtù non si allontana mai dal giusto mezzo e dal criterio che gli fa scegliere non solo il momento opportuno per esprimere il suo spirito, ma anche le persone con le quali esprimerlo. Si parla perciò della discrezione, che è appunto la virtù della scelta opportuna, e della 996

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varietà di forme virtuose e viziose di fare dello spirito, che escludono la trivialità. Un lungo capitolo tratta della topica, che secondo la retorica è a fondamento del dire, in quanto lo scherzo trova in luoghi diversi e appropriati gli argomenti su cui costruire lo scherzo. Un capitolo è dedicato a Marziale, esempio di poeta di spirito, anche se al limite della virtù della moderazione, un altro alla distinzione ciceroniana di facezia, fra cui la facezia estesa a tutto il discorso viene praticamente esclusa dalla più tipica, un altro alla distinzione fra la facezia degli oratori e quella dei comici. Il libro si chiude con l’altra distinzione fra scherzi, motti, buffonerie e novelle. Il quarto libro, che comincia con l’esame degli effetti dello scherzo quando sia contenuto in certi limiti, si occupa dell’arte di scegliere argomenti e circostanze per usare lo spirito, quindi della varietà, e di come la natura possa favorire l’uomo faceto, delle norme che deve osservare, del carattere piccante di alcune facezie, che soprattutto non vanno usate per punzecchiare miserabili e potenti. Come l’oratoria, anche lo scherzo ha le sue regole riguardanti l’actio; ma non si adattano all’uomo faceto la mimica e le forme tipiche dell’azione teatrale, mentre è efficace per suscitare il riso pronunciare le battute senza atteggiare il volto al riso. Il quinto libro si apre col ribadire un principio che corre per tutto il trattato, la necessità di usare la moderazione della facetudo anche quando gli argomenti e le occasioni esulano dai limiti richiesti. L’urbanitas è una norma generale che riguarda il parlare come il comportamento. Nel lungo capitolo sulla urbanità si esamina la varietà di materie, da cui mediante la parola si fa scaturire il riso, quindi si riferiscono esempi in cui quel che fa ridere sono le persone, anche la propria persona, cose e situazioni che di per sé sarebbero degne di riprovazione. Il libro si conclude con il ricordo autobiografico di una novella, praticamente un apologo narrato dalla nonna Leonarda, in cui la Gotta si compiace di aver trovato finalmente l’ozio nella dimora di uomini infingardi, dediti al sonno e al vino. Pontano ricorda che anche la madre Cristiana soleva narrare favolette educative quando lui leggeva la notte al lume di candela, e una in particolare per lodare il suo impegno di lettore. I due esempi, l’uno per disapprovare il vizio, l’altro per approvare la virtù, si giovavano entrambi della forma gradevole dell’apologo. La considerazione finale riguarda proprio la forma piacevole del racconto, che produce il gradimento di chi ascolta. 997

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L’ultimo libro ha un proposito riassuntivo riguardante il profi lo dell’uomo faceto e la defi nizione della virtù della facezia, ma insiste sul carattere dei motti e delle risposte utilizzando anche la tradizione andata sotto il nome del famoso buffone Gonnella. L’ironia, con il classico ricordo di Socrate e con il recente ricordo del Panormita richiamati nel dialogo Antonius, ricompare alla fi ne del trattato come la forma più schietta di quel che per il Pontano era il linguaggio artistico della conversazione. Il discorso sull’ironia sconfi na in quello sulla dissimulazione, che si arricchisce di brevi ma importanti considerazioni conclusive, fra le quali emerge una nota sulla dissimulazione politica, esemplificata con aneddoti attuali, che riguardano Giacomo Caldora e Ferrante, i quali usarono la dissimulazione a loro danno, e Federico di Urbino, che seppe invece giovarsi di essa. Siamo alle soglie di un ripensamento della dottrina politica tradizionale, che della dissimulazione intesa come strumento di azione del principe farà uno dei suoi punti di forza. Giustamente il De sermone è potuto apparire come una teoria della novella, o della narrazione, o dell’intrattenimento letterario tout court, o un’estetica, applicabile, perché no, alla narrativa storica, a quella poematica e a quella dialogica, all’elegia, all’egloga, alla lirica, dal momento che ad ognuno di questi generi, in cui Pontano si misurava proprio con l’intenzione di provarli tutti, egli applicava uniformemente la varietà e lo humour nei suoi registri più vari, dal patetico al ludico. Ma l’interesse teorico del Pontano non va solo alle facezie che spesso sono esse stesse un modo spiritoso di conversare, ma anche ai modi della conversazione, in cui le facezie vengono inserite per rendere piacevole il discorso. A questo proposito emerge la virtù della comitas, ossia l’amabilità (affine all’affabilitas, che Pontano nomina e fa derivare da fari), di cui un classico esempio è quello dei novellatori del Decameron. La maniera cortese del conversare e la cornice entro cui si svolgono i racconti piacevoli accosta il trattato pontaniano alla novellistica che si sviluppava in ambiente cortigiano (De sermone, I X 2). Il ricordo di Luciano indica che la riflessione sulla prosa narrativa coinvolge, al di là della scrittura, la forma orale della conversazione, di cui appunto la comitas è caratteristica essenziale (ivi, XXVIII) La comitas in realtà sconfina nella «cortesia» in quanto socievolezza e capacità di adeguarsi con la parola al livello di un mondo cortese. 998

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Boccaccio aveva dimostrato quasi un disinteresse verso la denominazione dei generi dei suoi racconti (novelle, favole, parabole, istorie) e additava nel proemio l’importanza della cornice che li conteneva e l’arte della narrazione che li accomunava. La favola, di cui si parla nella Genealogia è soprattutto locutio, exquisita locutio, ed attinge la piacevolezza che la caratterizza dal fatto di essere «detta» e riferita ai mores, non è mai mera fantasticheria, ma sempre esperienza di vita, exemplum. Perfino le favole delle vecchiette che sembrano farneticare sono difese nel trattato mitologico come una forma di umanità. Pontano si ricorda sia della varietà strutturale del racconto breve e piacevole, unificabile sotto la definizione di facezia per le sue caratteristiche intrinseche, sia dell’attribuzione di una dignità anche alle favole immaginose. In questa prospettiva la facezia non può distinguersi dalla novella che per elementi strutturali del tutto esterni, quali la brevità e la mancanza di particolari nell’esposizione delle circostanze. La novella si scioglie spesso in facezia già in Boccaccio nel caso di novelle elaborate nell’intreccio o consistenti in beffe. E perfino la burla, che è racconto di azione, viene a collimare con la facezia, che è gioco di parola, una volta inclusa nel discorso piacevole e valutata soprattutto per questo, come in Poggio: si pensi al racconto fatto dal Bibbiena nel Cortegiano, una burla che diventa facezia, tutta fondata com’è sul pregio dell’autoironia del narratore che la racconta. Boccaccio è citato insomma accanto a Luciano, a Plauto e a Ovidio, a proposito della cornice dell’occasione narrativa e discorsiva delle novelle, chiamate fabellae, della disposizione narrativa e del rapporto dei conversatori fra loro e dei novellatori con chi li ascolta, che presuppone la virtù fondamentale del racconto che è la comitas. Si può tradurre comis con «affabile» e comitas con «affabilità», ma il vocabolo comporta delle sfumature. È evidente che Pontano pensa alla comitas dei novellatori, in quanto viene riconosciuta alla novella la caratteristica di essere piacevole per il fatto stesso di essere raccontata con grazia e varietà, senza il fine utilitario dell’allettamento o l’eccesso della lascivia. Macrobio usava il vocabolo a proposito del colloquio e del convito: «Neque enim recte institutus animus requiescere aut utilius aut honestius usquam potest, quam in aliqua opportunitate docte ac liberaliter colloquendi, interrogandique et respondendi comitate» (Sat., I II, 4: «Né l’animo ben costumato può riposare in modo più utile e onesto, se non in occasione di qualche dotto ed eletto conversare, e per l’affabilità di un motto e 999

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di una risposta»). Seguono infatti, nel De sermone, i capitoli De blandis e De lascivis per tener distinti questi vizi dal blande et illecebrose loqui, il parlar dolce e allettante, che si ritroverebbe nel modello massimo di comitas che è significativamente Ovidio quando fa parlare Vertumno: «Vides quam delectet et comiter ludat et variet rem ac dictionem et verbis innitatur ornatis ac maxime suis». Nel passo ovidiano Pontano scorge varietà, ornato, proprietà e «convenienza», che costituiscono propriamente lo «stile» della comitas e della narrazione. Il poema mitologico, segnato dalla varietà e da quel genere di ornato piacevole, è visto come una raccolta di novelle (cosa che serve a capire anche il concepimento dell’Urania). Quindi la comitas riguarda l’atteggiamento e i modi del narratore, non la forma della novella, che è interscambiabile con altre forme del discorso quando osservano la medesima finalità. Due versi di Plauto definiscono la «situazione» narratologica: «Mihi ad enarrandum hoc argumentum est comitas, / si ad auscultandum vestra erit benignitas», che voleva dire soltanto, nel linguaggio un po’ barocco del comico: «io sarò gentile a raccontarvi il fatto, ma voi siate gentili ad ascoltarmi» (Mil. glor., 79-80). Nel verso pareva stabilirsi un’equazione fra comitas e benignitas sulla quale Pontano ebbe a riflettere probabilmente anche a proposito del De beneficentia, quando definiva l’atteggiamento gioviale con cui è necessario accompagnare l’azione benevola. Ma, più oltre, nella definizione della comitas la fonte citata è ancora una volta Livio nel luogo in cui fa parlare l’ambasciatore in modo da ottenere il gradimento perfino del nemico: «anche Livio, per non parlare di altri scrittori, ci mostra abbastanza chiaramente in molti passi che l’uomo comis è caro e affabile nelle relazioni e nei rapporti di amicizia e assai disponibile, e fa di tutto per comportarsi affabilmente tanto da meritare la simpatia di coloro di cui gode l’amicizia e la familiarità, e giunge quasi ad insinuarsi nel loro animo». (De sermone, I XXVIII; Livio, 7, 33, 1-2). Per l’etimologia del vocabolo, Pontano ha in mente il De lingua latina di Varrone (7, 85), anche se non lo cita, dove comis, comiter sono riferiti non tanto al parlare, come il nostro «affabile» (da for -faris), quanto alla cortesia del comportamento, e non mancava il confronto con il termine di comoedia che evoca la medietas di quel genere drammatico. La spiegazione varroniana può essere alla base dell’accostamento a comptus suggerito da Pontano quando parafrasa il verso di Terenzio che egli cita 1000

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(«Itaque et ornatum rebus adiungit», De sermone, I X; «Ornato munus verbis, quam potes», Eun., 214), osservando come le parole ornate che accompagnano il dono esprimano grazia, e come comptus valga ornatus: «Vide, quaeso, quibus verbis, quam etiam comptis, quam gratis item sententiis Aeneam alloquitur apud Virgilium Evandrus». Comitas, adunque, non è tanto il contenuto della narrazione, quanto la sua qualità espressiva, il carattere del contesto nel quale il racconto, breve come la facezia o più ampio come un exemplum, o un’istoria, svolge una funzione di persuasiva ricerca di consenso o di piacevole e istruttivo intrattenimento. Il De sermone è principalmente un trattato sul sermo, ossia sulla virtù dell’umana compagnia, che si vale anche di strutture narrative. Pontano ha inteso il problema della novella, come giustamente ha rilevato il Walser, e non ne ha trattato marginalmente, ma ha in effetti ridimensionato la identità del genere che la novella andava assumendo. Si veda come, nei confronti dell’exemplum, egli abbia scartato il genere del repertorio alla Valerio Massimo, che Poggio e il Panormita avevano prediletto, ed ha inserito i medesimi exempla nel corpo dei dialoghi e nel corpo della trattazione, analogo ad un colloquio amichevole, come varianti gradevoli e persuasive del discorso. Pontano ha del resto sperimentato la novelletta, includendola nei dialoghi come una perla da mettere in evidenza in un contesto tipico di comitas. Nel Charon la novella di Frate Alberto si carica di satira antimonastica nel racconto autobiografico di una giovane che sta per varcare l’Acheronte, mentre l’apologo del padre del figlio e dell’asino si trasforma anch’esso nel racconto autobiografico di un personaggio picaresco come il Suppazio dell’Antonius. In entrambi i casi la novella è strettamente collegata con la cornice e da essa assume il suo significato. A proposito della sua opera, che corrispondeva ad un convito, ossia il dialogo che nasce al di fuori della tensione dimostrativa e dialettica, Macrobio diceva: «Multae in illo artes, multa praecepta sint multarum aetatium exempla, sed in unum conspirata» («conterrà molti insegnamenti, molti precetti, esempi di molte epoche, ma fusi in un corpo unico», Sat., I, prologo, 10). Il trattato sul linguaggio della conversazione è esso stesso un esempio di conversazione, con lo sguardo rivolto a quella stessa affabulazione che si vuol teorizzare. Le ripetizioni, i richiami al già detto all’inizio dei capitoli e dei libri, sia pur con un fine didattico, la scioltezza dei nessi, riflettono il linguaggio innovativo dei dialoghi, anche se gli altri trattati 1001

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nel loro intento divulgativo non mancano di mirare alla leggerezza e alla gradevolezza dell’insegnamento morale. Pontano rilanciava il modello di Macrobio, il quale teorizzava il carattere distensivo del conversare dopo il convivio, e aveva già influito sul concepimento del Decameron. Questo rilancio, che presupponeva la grande e molteplice esperienza pontaniana dei dialoghi e del De sermone, avrebbe avuto un immediato e notevole effetto in un allievo di Pontano, che raccontava la conversazione erudita della stessa Accademia. I Dies genialis di Alessandro D’Alessandro concepiscono infatti un convito variato da exempla con una ridotta ma sistematica collocazione di essi ad interrompere le disquisizioni. Exempla di cose meravigliose che possono avvenire, come in una serie di facezie di Poggio, o in tanti nuclei aneddotici divenuti novelle per via di amplificazione. Più accostata, strutturalmente, al De oratore ciceroniano, la parte dedicata al riso dal Castiglione offre alla trattazione del racconto faceto e della battuta di spirito la cornice della corte. La cornice classica del banchetto ritorna nella più naturale continuazione dell’esperienza di Pontano, quale possiamo considerare La civil conversazione del Guazzo, a tal punto che la felice definizione sembra poter interpretare il titolo latino di un’opera concepita nell’orizzonte ancora schiettamente umanistico come il De sermone.

NOTA AL TESTO Il De sermone, di cui si ha una moderna e autorevole edizione critica, IOANNIS IOVIANI PONTANI, De sermone libri sex, ediderunt S. Lupi e A. Risicato, Lugano, in aedibus Thesaurus Mundi, 1954 (riprodotta anastaticamente in PONTANO, De sermone, 2002), è stato tramandato da un prezioso autografo pontaniano, frutto di un’ampia revisione da parte dell’autore, cui si sono aggiunte alcune interpolazioni del Summonte, e da una cinquecentina curata dallo stesso Summonte. Bibliotheca Palatina Vindobonensis, 3413, ff. 152r-245r. Il codice contiene il De bello Neapolitano, il De sermone, il De magnanimitate e tre esemplari del carme in esametri in lode di Corylus, trascritti da Pontano, il De Prudentia e un altro esemplare del De magnanimitate, mutilo, entrambi trascritti da Pietro Summonte. Tutti portano il segno della revisione da parte dell’autore con mutamenti e aggiunte. Dopo la sua morte il codice, che subì la sorte degli altri manoscritti lasciati da Pontano, pervenne 1002

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infine col favore di Iacopo Sannazaro al Summonte, il quale, dopo aver fatto stampare l’anno precedente il De magnanimitate e il De prudentia, provvide nel 1509 alla pubblicazione del De sermone assieme al De bello Neapolitano: PONTANI de sermone et de bello Neapolitano. Escussum opus Neapoli per Sigismundum Mayr Alemannum, summe diligentiae artificem, mense Augusto 1509, assistente (ut in aliis) P. Summontio, ac fideliter omnia ex archetypis, Pontani ipsius manu scriptis, quae deinde Summontium in aede Divi Dominici servanda curavit. In effetti il codice pontaniano, dapprima conservato nel convento di San Domenico, finì a Vienna tramite Giovanni Sambuco che lo acquistò probabilmente a Napoli, dove soggiornò fra il 1562 e l’anno successivo. Composto nel 1499, il trattato De sermone era stato rivisto dal Pontano entro il 1502. Sulla edizione summontiana, con qualche emendamento e qualche caratteristica grafica diversa, è stata eseguita l’edizione Aldina (I. I. PONTANI Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae soceri, 1518-1519, pars I, cc. 227-263r), alla quale seguirono le altre edizioni complessive del sec. XV di Filippo Giunta (Firenze, 1520), di Andrea Cratander (Basilea, 1538-1540), della Herispetrina (Basilea, 1556). Viene seguita in questo volume, anche per l’ortografia, l’edizione critica moderna – salvo la correzione di evidenti errori (probositate per probrositate, III XVI 3; falsae per salsae, III XVIII 1; nostram per nostras, VI IV 19) e qualche variante nella punteggiatura –. Si è conservata l’ortografia pontaniana in alcune forme della prima stesura autografa, perché generalmente attestate nell’uso dell’autore, non tenendo conto della correzione ascrivibile al Summonte e non segnalata dall’apparato dell’edizione critica (Virgilius, praeseferre, cumprimis). Secondo il criterio seguito nelle altre opere si è usata l’iniziale minuscola per gli aggettivi corrispondenti a nomi propri, e secondo l’uso autografo pontaniano si è usata la maiuscola per l’iniziale dei versi, tranne che nel caso dei comici latini.

R IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Sul Sabellico, cui fu dedicata l’opera da Pontano, cfr. F. TATEO, Coccio Marcantonio, detto Marcantonio Sabellico, in DBI, 26, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1982, pp. 510-515 (cfr. PONTANO, De sermone, 1954, p. 1). Un esame fondamentale del trattato dal punto di vista degli 1003

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exempla è in E. WALSER, Die Theorie des Witzes, 1908; sul rapporto con la tradizione del Decameron: F. TATEO, Primato del sermo e cornice etica, 2000. Per la considerazione del trattato nella prospettiva della trattatistica morale cfr. ID., Umanesimo etico, 1972, pp. 61-163; G. ALFANO, La misura e lo scacco, 2000; A. MANTOVANI, Introduzione a PONTANO, De sermone, 2002; F. BISTAGNE, Le De Sermone de Giovanni Pontano, 2007; EAD., traduzione francese e note in PONTANO, De sermone / De la conversation, 2008; C. RONCORONI, Il binomio sermo/oratio, 2008. Sulla tradizione cui fa capo il trattato, vd. F. BISTAGNE, Les lectures médiévales de Giovanni Pontano, 2012; sulla originalità dello scrittore latino e la sua formazione, con lo sguardo al contesto napoletano: EAD., Les créations verbales, 2005; EAD., Modèles et contre-modèles, «Cahiers d’études italiennes», XV, 2012. Del modello linguistico comico latino hanno scritto: F. TATEO, Il lessico dei comici, 1975; ID., Il linguaggio comico, 1976; e in particolare in riferimento a Plauto: R. CAPPELLETTO, La “Lectura Plauti”, 1988; F. BISTAGNE, Relire Plaute, 2016. Sulle forme dell’umorismo pontaniano: F. TATEO, Sapienza e umorismo, 2004. La continuità della consuetudine accademica a Napoli è testimoniata con notevole prestigio da A. D’ALESSANDRO, Giorni di festa. Dispute umanistiche e strane storie di sogni, presagi e fantasmi, Introduzione, commento e cura di M. de Nichilo, traduzione di C. Corfiati, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2014. Sulla tradizione pontaniana nella letteratura etica cinquecentesca: F. TATEO, La civile conversazione. Trattati del comportamento e forme del racconto, in La novella italiana, Atti del convegno (Caprarola, 19-24 settembre 1988), Roma, 1989, pp. 59-81; A. QUONDAM, La conversazione: un modello italiano, Roma, Donzelli, 2007; ID., Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Bologna, Il Mulino, 2010; ID., Pontano e le moderne virtù, 2010. Per gli interventi sul testo da parte del Summonte in relazione ai nomi di persona cfr., oltre all’apparato in PONTANO, De sermone, 1954, L. MONTI SABIA, Manipolazioni, 1987, e le note alla traduzione di Bistagne, in PONTANO, De sermone, 2008. Per le commedie di Plauto si è tenuta presente la traduzione a cura di G. AUGELLO, Torino, UTET, 1969-1972. FRANCESCO TATEO

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IOANNIS IOVIANI PONTANI AD ELOQUENTISSIMUM E PRAEDICATORUM ORDINE FRATREM IACOBUM MANTUANUM DE SERMONE LIBER PRIMUS

1. Annum agimus, Iacobe Mantuane, tertium ac septuagesimum et eum quidem nequaquam ociosum aut desidem, quando ocio illo frui, quod suapte natura concessum est senectuti, per Italiae turbationes non licet, discursante per Aemiliam, Hetruriam, Latium, Campaniam, Apuliam ac Brutiam Gallorum exercitu, meque ipso de rebus non modo familiaribus verum de vita ipsa solicito. Nam ut desidem agamus vitam ante acta aetas docere satis potuit in tot tantisque occupationibus, docet etiam praesens, quae ne per ignaviam transeat volumina a me scripta diversis etiam de rebus ac disciplinis ostendunt. Itaque vagantibus per Italiam Gallicis, ne dicam eam vastantibus, copiis regnumque Neapolitanum hinc Gallis ipsis, illinc Hispanis occupantibus, a maximis doloribus nos merito labefacientibus animum ac mentem nostram omnino avertimus, quodque mirum fortasse videri possit, convertimus ad scribendas eas sive virtutes sive vicia quae in sermone versantur; non autem aut oratorio aut poetico sed qui ad relaxationem animorum pertinet atque ad eas quae facetiae dicuntur, id est ad civilem quandam urbanamque consuetudinem domesticosque conventus hominum inter ipsos, non utilitatis tantum gratia convenientium, sed iucunditatis refocillationisque a labore ac molestiis. 2. Divisimus autem pervestigationem eam in plures libros; quodque solari literarum studiosum hominem ipsorum esset literatorum proprium, quasi dissertatio haec inter literatos qui in Italia florent haberetur, libros ipsos non uni inscripsimus sed compluribus, quo plures habeamus iactu-

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GIOVANNI PONTANO ALL’ELOQUENTISSIMO GIACOMO DA MANTOVA DELL’ORDINE DEI PREDICATORI LIBRO PRIMO DELLA CONVERSAZIONE

1. Ho l’età di settantadue anni compiuti, caro Giacomo da Mantova, e non la trascorro affatto nell’ozio e nell’inerzia, perché durante le turbolenze che agitano l’Italia non è permesso godere di quell’ozio che naturalmente è concesso alla vecchiaia, mentre l’esercito francese imperversa nell’Emilia, nella Toscana, nel Lazio, nella Campania, nella Puglia e nella Calabria, mentre io stesso sono in preda a preoccupazioni non solo familiari, ma vitali per la mia stessa persona. Che io non trascorra la vita nell’inerzia lo hanno potuto dimostrare sia il passato con le tante e importanti occupazioni in cui mi sono impegnato, e anche il presente, che non trascorre nell’ignavia, come testimoniano i volumi da me scritti, riguardanti discipline e argomenti anche diversi. Perciò, mentre i Francesi scorrazzano per l’Italia per non dire che la vanno devastando, e il Regno di Napoli da una parte è occupato dalle truppe francesi, dall’altro dalle truppe spagnole, cerco di distogliere totalmente l’animo e la mente da questo infinito dolore che, com’è giusto che sia, mi fa vacillare, e, cosa che forse parrà strana, mi rivolgo a scrivere di quelle virtù e di quei vizi che riguardano il discorso; non quello oratorio o poetico, ma quello che si riferisce al rilassamento dell’animo e alle cosiddette facezie, cioè alle relazioni civili ed urbane e alla vita sociale, non solo ad un fi ne utilitario per le persone che si riuniscono, ma per il piacere ed il recupero della loro salute danneggiata dalla fatica e dalle noie. 2. Ho diviso la trattazione in più libri; e poiché consolare un letterato dovrebbe essere compito dei letterati stessi, questa che potrebbe essere considerata come una dissertazione fra i letterati che fioriscono in Italia, non l’ho dedicata ad uno solo, ma a molti per avere più di uno che mi 1007

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, I

rae nostrae nostrorumque dolorum consolatores. Tu librum hunc accipe et ad iucunda tantum animum cogitationesque tuas verte; neque enim te ad complorationem invitamus sed ad risum atque festivitatem, neque nos ipsos a dolore avertimus, quo te ipsum reliquosque invitemus ad lacrimas, sed ut sciatis nos neque consolatione etiam in summis erumnis indigere et ut vos ipsos intellegatis Italicis a vastationibus contemplandis a me averti. Tu vero, Mantuane, quod tuum est quodque literatorum omnium proprium, id et contemplare et age, ut arbitrere, cogites, scias non pauca hominum consiliis atque actionibus geri posse, rerum tamen omnium summam ad deum optimum maximum referendam esse; qui vero secus arbitrentur vanos eos esse homines ac maxime futiles.

I RATIONEM ATQUE ORATIONEM ESSE HOMINI A NATURA TRIBUTAM. 1. Et rationem homini natura dedit, quo animal ipsum perfìceret, et orationem; atque altera, mente quidem duce, coelitibus maxime eum esse similem voluit; utraque vero coeteris praestare animalibus summa etiam cum excellentia et dignitate. Itaque ratione quidem ipsa homines seque suaque et metiuntur et componunt omnia, oratione autem et conciliationem a natura insitam conservant tuenturque et, quae ratio ipsa dictat, ea explicant atque eloquuntur, sive ad usum spectent atque ad seria sive ad iocum ac voluptatem, quando absque illa ratio manca quaedam res esset maximeque imbecilla, cum hominis praesertim vita in actionibus versetur civilique in congregatione et coetu, cuius oratio ipsa totiusque humanae societatis vinculum sit praecipuum ac sine ea ad summi boni adeptionem perveniri nullo modo queat. 2. Ut autem ratio ipsa dux est ac magistra ad actiones quasque dirigendas, sic oratio illorum ministra est omnium quae mente concepta ratiocinandoque agitata depromuntur in medium, cum sociabiles, ut dic-

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO PRIMO, I

consoli per la sventura e i dolori che mi toccano. Tu accetta questo libro e rivolgi l’animo e i pensieri solo a ciò che può dar piacere; infatti non ti sto invitando al pianto ma al riso e alla gioia, né mi distolgo dal dolore per poi invitare te e gli altri alle lacrime, ma affinché sappiate che a me non manca la consolazione perfino nei più gravi affanni, e vi rendiate conto del fatto che per opera mia voi stessi venite distolti dallo spettacolo delle devastazioni d’Italia. Ma tu, Mantovano, com’è compito tuo e di tutti i letterati, considera e fa in modo da ritenere, pensare, sapere che non poche cose possono compiersi col consiglio e l’animo dell’uomo, e tuttavia la totalità delle cose va riferita al sommo Iddio; e che sono vacui e del tutto insulsi coloro che la pensano diversamente.

I LA RAGIONE E LA FACOLTÀ DI PARLARE SONO STATE ASSEGNATE ALL’UOMO DALLA NATURA. 1. È stata la natura a dare all’uomo non solo la ragione, ma anche il linguaggio, per rendere l’essere vivente in sé perfetto; e ha voluto che in virtù della prima, avendo come guida la mente, fosse in tutto simile ai celesti, mentre ha voluto che in virtù di entrambe fosse superiore a tutti gli altri animali raggiungendo somma eccellenza e prestigio. Sicché gli uomini, proprio mediante la ragione, misurano se stessi e le cose loro, e tutto coordinano; servendosi del linguaggio, invece, conservano e custodiscono la socievolezza insita nella natura, oltre ad esternare e manifestare le idee concepite dalla ragione, sia che riguardino necessità e argomenti seri, sia che riguardino il gioco e il piacere, dal momento che senza il linguaggio la ragione resta in certo qual modo imperfetta ed estremamente debole, specialmente in considerazione del fatto che la vita umana consiste nel comportamento e nella civile e sociale convivenza, che proprio il linguaggio costituisce il vincolo precipuo di quest’ultima, e che senza di esso in nessun modo si può pervenire all’acquisizione delle virtù e della felicità. 2. E come la ragione è guida e maestra nel dirigere ciascuna azione a giusto fine, così il linguaggio è strumento di tutte quelle idee che, concepite dalla mente e discusse dalla facoltà raziocinante, vengono manifestate pubblicamente, giacché, come si è detto, siamo nati esseri socievoli 1009

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, III

tum est, nati simus sitque vivendum in multitudine; quae quo maior est ac frequentior, eo in illa huberior est copia eorum omnium quibus vita indigeat, quando nascentibus hominibus inopia data est comes; qua e re vita ipsa longe aptior redditur atque habilior tum ad assequendas virtutes tum ad felicitatem comparandam. Igitur ut ratio dux est ac magistra dirigendis actionibus virtutibusque comparandis, oratio vero mentis est interpres rationisque ipsius instrumentum quasi quoddam, siquidem consultationes, consilia, ratiocinationes ipsae denique dissertionibus constant, dissertiones vero verbis, sic eadem ipsa oratio instrumentum quoque rationi et quasi materiam sumministrat, in qua versetur. Nam si laudantur recte qui loquuntur dicuntque apposite quod sentiunt, improbentur necesse est qui male atque incomposite.

II VIRTUTEM ET VICIUM VERSARI ETIAM CIRCA ORATIONEM. 1. Quod si ubicunque laudi locus suus est ac vituperationi, illic et virtuti et vicio, nimirum et in oratione virtus ac vicium sedem sibi constituent aliquam, ut, quemadmodum in agendis rebus, sic in explicandis quae animo menteque concepta sunt, sententiis item dicendis atque in habenda oratione sive ad multos sive apud paucos, modus mensuraque servanda sit ac mediocritas illa, quae virtutes constituit estque in omni vitae genere merito laudanda. Etenim graviter alii, quae sentiunt, explicant ac composite, inepte alii ac ieiune: hique ut inepti levesque improbantur, illi contra commendantur ut graves atque compositi. Ergo et in oratione quoque virtus sibi locum comparavit illumque ipsum cum dignitate et laude.

III MAXIMAM ESSE VIM ATQUE AUCTORITATEM ORATIONIS. 1. Nec vero populosissimis in civitatibus amplissimisque in administrationibus non maximum sibi peperisse locum summamque auctoritatem eos constat, qui inter coeteros essent elocutione praecipue clari; inde

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e siamo destinati a vivere fra la moltitudine.1 E quanto più questa è ampia e numerosa, tanto maggiore è in essa la quantità di tutte quelle cose necessarie alla vita, dal momento che agli uomini, fin dal loro nascere, è stata assegnata come compagna l’indigenza, ed è questa la condizione che rende la vita più idonea e capace a far conseguire la virtù e procacciare la felicità. Pertanto, come la ragione è guida e maestra delle azioni e mezzo per acquisire le virtù, e come il linguaggio è interprete della mente e quasi strumento della stessa ragione, se è vero che le decisioni, i consigli e perfino i ragionamenti consistono in discorsi, e i discorsi in parole, così lo stesso linguaggio è anche strumento della ragione alla quale quasi fornisce la materia su cui operare. Se infatti è giusto lodare coloro che esprimono adeguatamente ciò che sentono, è inevitabile che siano biasimati coloro che si esprimono male e in maniera inadeguata.

II VIRTÙ E VIZIO RIGUARDANO ANCHE IL LINGUAGGIO. 1. Che se in ogni cosa è riservato un posto alla lode e al biasimo, certamente anche nel linguaggio avranno il loro posto, per così dire, la virtù e il vizio, in modo che siano osservati il limite e la misura, nonché l’equilibrio su cui si fonda la virtù e che merita la lode in ogni genere di vita, come nell’agire così nell’esprimere le idee concepite dall’animo e dalla mente, verso un pubblico ampio o ristretto. Vi sono infatti alcuni che esprimono ciò che pensano con gravità ed eleganza, altri invece che lo esprimono senza criterio né stile: questi ultimi vengono riprovati per la loro inopportunità e leggerezza, gli altri invece ricevono l’elogio per la gravità e il decoro. Perciò anche nel linguaggio la virtù si è riservata un posto, un posto in cui risiedono dignità ed onore.

III GRANDISSIMA FORZA E AUTORITÀ DEL LINGUAGGIO. 1. È ben noto che nelle città molto popolose e nelle amministrazioni molto ampie hanno acquisito una posizione elevatissima e un grandissimo prestigio coloro che si sono distinti particolarmente fra gli altri per 1011

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, IV

ea qui pollerent oratores dicti. Sed nos hac in parte de ea, quae oratoria sive vis facultasque sive ars dicitur, nihil omnino loquimur, verum de oratione tantum ipsa communi, quaque homines adeundis amicis, communicandis negociis in quotidianis praecipue utuntur sermonibus, in conventibus, consessionibus, congressionibus familiaribusque ac civilibus consuetudinibus. Qua e re alia quadam hi ratione commendantur quam qui oratores dicuntur atque eloquentes.

IV MAXIMAM ESSE IN HOMINIBUS ORATIONIS VARIETATEM AC DIVERSITATEM. 1. Nec vero natura in hoc quoque a se ipsa discessit aut ab ea, quae sua ipsius propria est, varietate ac dissimilitudine. Cum aliorum sermones severi sint ac subtristes, aliorum iucundi et lepidi, huius blanda sit elocutio atque ornata, illius inculta et aspera, atque alius in loquendo prae se ferat urbis mores, alius vero ruris, est videri qui velit facetus et comis, contra qui austerus et rigidus, qui maxime verus omnique a simulatione alienus, secus autem cui dissimulatio placeat aut ea quae graece est ‘ironia’. Itaque loquendi genus tum cuiusque naturam tum etiam mores sequi potissimum videtur. Quid? quod populi gentesque, sive natura ab ipsa sive ab institutione et usu quodque alia alibi magis probantur suntque in pretio maiori, aliae taciturniores sunt, contra loquaciores aliae? Magniloquentia delectat Hispanos, fucatus ac compositus sermo Graecos, Romanorum gravis fuit oratio, Lacedaemoniorum brevis et horrida, Atheniensium multa et studiosa, at Carthaginensium Afrorumque callida et vafra, de natura illorum sic dicta. Quo fit, ut genus colloquendi alibi aliud magis probetur aut minus. 2. Cum igitur de fortitudine disseruerimus deque virtutibus iis quae in pecunia versantur, quae quidem plures sunt ac diversae, itemque de magnanimitate, prudentia deque fortuna ei contraria, tentemus hoc in ocio, quod senectus nobis concessit visque etiam hostilis, de iis item

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il modo di esprimersi, per cui veniva chiamato «oratore» chi eccelleva in quella virtù.2 Ma noi non parliamo in questo trattato di quella che si chiama arte oratoria, bensì soltanto di quella forma comune di esprimersi di cui gli uomini si servono nei contatti con gli amici, nelle relazioni di lavoro, nel colloquio giornaliero, nelle riunioni, nelle assemblee, negli incontri, nei rapporti amichevoli e civili. Perciò gli uomini cui mi riferisco vengono apprezzati per altra ragione che non sia quella che fa apprezzare gli oratori e gli uomini eloquenti propriamente detti.

IV COME SIA GRANDE LA VARIETÀ E LA DIVERSITÀ DI LINGUAGGIO FRA GLI UOMINI. 1. Ed è certo che neanche in questo caso la natura si sia discostata dalla sua propria caratteristica, che consiste nell’esser sempre varia e diversa. Infatti il discorso di alcuni è austero e un po’ triste, mentre quello di altri è amabile e gradevole, la parola di uno è dolce ed ornata, quella di un altro è aspra e rude, ed uno mette in mostra nel parlare maniere cittadine, un altro maniere rustiche; vi è chi vuol sembrare faceto e cortese, chi al contrario severo e rigido, chi oltre modo schietto e alieno da ogni simulazione, diversamente da chi ama la dissimulazione e quella che con termine di origine greca si chiama «ironia».3 È chiaro così come il genere d’espressione dipenda sia dalla natura di ognuno, sia anche dalla sua educazione. E che dire del fatto che fra le popolazioni e, per effetto sia di natura, sia di educazione e consuetudine, e perché in un luogo si stimano e apprezzano certe cose, in un altro certe altre, alcune sono taciturne, altre loquaci? L’eloquenza grande piace agli Spagnoli, il discorso elaborato ed elegante ai Greci, i Romani avevano un parlare austero, gli Spartani laconico e rude, gli Ateniesi prolisso e ricercato, mentre i Cartaginesi e gli Africani sottile ed astuto, tanto che il termine «vafro» deriva dalla natura degli «Afri».4 Ne consegue che un genere di conversazione viene stimato di più o di meno a seconda dei luoghi. 2. Avendo, quindi, già discusso del coraggio e di quelle virtù che riguardano il danaro e che sono molteplici e diverse, e inoltre della magnanimità, della prudenza e della fortuna che ad essa si contrappone,5 tentiamo in quest’ozio che la vecchiaia e le energie ancorché ostili mi 1013

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, V

virtutibus praecepta tradere quae in verbis versantur quoditianoque in sermone; quique plerumque indicare mores cuiusque consuevit ac vel laudem afferre vel reprehensionem, etsi, ut Horatius inquit, Oderunt hilarem tristes tristemque iocosi.

Neque enim nos de laude sic nunc loquimur atque improbatione, ut qui ex aliorum iudiciis virtutes metiamur ac vicia, verum a ratione tantum atque a mediocritate, penes quam iudicium est atque examen virtutum omnium.

V ETIAM IN ORATIONE SERVANDAM ESSE MEDIOCRITATEM. 1. Censemus igitur rerum nostrarum omnium, non in agendo solum verum etiam in loquendo explicandisque in sententiis ac consiliis mentis denique atque animi conceptis sive seriis sive iocosis, mediocritatem esse iudicem; quam qui sequantur, ii et in dicendo et in agendo cum delectu rationem retineant ipsaque cum ratione modum ac mensuram, sive sermo ipse gravis sit atque austerus sive iucundus et comis aut in festivitatem deflectat aut in severitatem. De quibus singillatim distincteque ordine quidem dicemus ac pro natura virtutis cuiusque sua. Verum quoniam virtutum earum, quae in loquendo versantur, oratio materia est quasi quaedam eaque ipsa nobis a natura tradita, id videndum est, dum aut faceti videri volumus aut graves, ne adversus naturam ipsi propriam contentionem moliamur aliquam, ne ve velimus universa illi acie ire obviam, quod est non modo difficile ac laboris plenum, verum etiam reprehendi iure solet a sapientibus viris, cum, ut proverbio etiam monemur, nihil invita sit agendum Minerva, hoc est natura repugnante. Nec nisi etiam sapientissime est a Cicerone praeceptum, ut, quibus ipsi apti rebus sumus, in iis potissimum occupemur. 2. Nam etsi concessum est aliquando, propria relicta natura, alienae se accomodare, tamen adversus universam ut suscipiatur certamen, nullo id pacto videtur committendum, quando praestari id cum laude ac

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO PRIMO, V

hanno concesso, di esporre le norme riguardanti le virtù della parola e del conversar quotidiano, in cui il più delle volte si rivela la personalità con i suoi meriti e i suoi difetti, anche se, come dice Orazio, non può vedere chi è allegro il triste, né il triste chi è allegro;6

perché noi non parliamo di lodi e di biasimi come se misurassimo virtù e vizi con un metro esterno, ma abbiamo come criterio la ragione e il giusto mezzo, su cui si basano il giudizio e la valutazione di tutte le virtù.

V ANCHE NEL PARLARE BISOGNA CONSERVARE IL GIUSTO MEZZO. 1. Riteniamo, dunque, che il giusto mezzo sia il criterio di valutazione di tutto ciò che concerne noi uomini, non solo per quel che riguarda l’azione, ma anche la parola, la manifestazione dei pensieri, delle intenzioni della mente e, infine, dei sentimenti dell’animo; chi riesca a seguire il giusto mezzo, è anche capace di serbare nel parlare e nell’agire la razionalità della scelta, e insieme il limite e la misura, vuoi che il discorso sia serio ed austero, vuoi che sia piacevole e affabile, vuoi che pieghi verso l’allegrezza o verso la serietà. Di questi modi parleremo singolarmente e distintamente secondo l’ordine e la natura di ciascuna virtù. Ma poiché di quelle virtù che riguardano il linguaggio, la parola è quasi la materia a noi trasmessa dalla natura, bisogna guardarsi, volendo apparire faceti o austeri, dal muovere proprio noi un’offensiva contro la natura e dal cercare di contrapporci ad essa con tutte le energie, cosa non solo difficile e faticosa, ma solitamente riprovata dai saggi, dal momento che, come anche il proverbio ammonisce, nulla si deve compiere contro il volere di Minerva, cioè contro natura. E non da altro che da una grandissima saggezza nasce l’esortazione di Cicerone ad occuparci preferibilmente di quelle cose verso le quali abbiamo inclinazione.7 2. Sebbene, infatti, sia consentito, di tanto in tanto, abbandonata la propria naturale inclinazione, volgersi ad un’altra, tuttavia non pare assolutamente che si debba commettere l’errore di affrontare lo scontro con tutta quanta la natura, poiché è difficile che ciò si possa fare con lode 1015

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, VII

dignitate vix omnino queat, idque si ad breve fortasse tempus, natura tamen ipsa ad id quod est proprium ac suum tandem recurrit. Qua e re argui solet atque haud iniuria accusari vitae inconstantia ac morum levitas.

VI A NATURA INTESSE HOMINI CUPIDITATEM QUIETIS AC RECREATIONIS. 1. Principio, quod hominum vita tum corporis tum animi laborum plena est ac molestiarum, iccirco post labores cessatio quaeritur, in qua recreetur animus, atque inter molestias iocus. Natura enim duce, ad requietem trahimur ac voluptatem. Nam et a regibus et bene constitutis populis et a Romanis praecipue, gentium dominis, ludi fuere diversi etiam generis instituti, quibus spectandis tum populus universus tum magistratus ipsi relaxarentur quotidianis a laboribus negociisque susceptis et privatim et publice, quando et fossores et qui caedendis exercentur lapidibus et ioca inter se funditant oblectandi gratia et, illa ubi defuerint, cantu laborem mulcent leniuntque erumnas. Unde et recte et naturaliter ab equite romano eodemque poeta suavissimo dictum est: Crura sonant ferro sed canit inter opus.

VII URBANITATEM AC VERITATEM MERITO LAUDARI. 1. Merito igitur laudatur urbanitas expetiturque a plerisque urbanorum ac facetorum hominum consuetudo ac familiaritas et, quia tractandis rebus atque administrandis ratio recta praesidet, cuius maxime amica est veritas, proinde, a quibus ea colitur, ii et commendantur ab omnibus et summo habentur in pretio. Ad hoc autem tum veri tum iucundi studium motusque circa ea animorum atque affectus moderatio

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e dignità; e se anche lo si potesse fare, forse per breve tempo, tuttavia la stessa natura alla fine ritorna al suo proprio stato. Perciò sono incolpate ed accusate di solito, e non ingiustamente, l’incostanza della vita e la leggerezza dei costumi.

VI IL DESIDERIO DI QUIETE E DI RICREAZIONE È PER NATURA INSITO NELL’UOMO. 1. Innanzi tutto, poiché la vita umana è piena di fatiche e di travagli, sia del corpo che dell’animo, si cercano per questo dopo le fatiche un ristoro nel quale lo spirito si ricrei, ed uno svago in mezzo alle afflizioni. Seguendo infatti la norma della natura siamo spinti verso il riposo e verso il piacere. Infatti furono istituiti da re e da repubbliche ben governate, e particolarmente dai Romani, dominatori del mondo, giochi di vario genere, assistendo ai quali sia il popolo intero sia le autorità potessero ricrearsi dalla fatiche quotidiane e dalle attività pubbliche e private intraprese, dal momento che sia gli zappatori, sia i cavapietre si scambiano scherzi8 al fine di trarne piacere, e quando questi mancano alleviano la fatica e leniscono le pene col canto. Per cui giustamente e secondo natura quel famoso cavaliere romano e insieme poeta dolcissimo affermò: Le gambe incatenate, ma nella fatica lui canta.9

VII A GIUSTA RAGIONE SONO LODATE L’URBANITÀ E LA SCHIETTEZZA. 1. A giusto titolo, dunque, si loda l’urbanità e dai più è ricercato un rapporto di familiarità con gli uomini urbani e faceti; e poiché nel trattare e nel gestire gli affari presiede la retta ragione, di cui l’amica più stretta è la schiettezza, per questo chi la osserva è oggetto di lode e di grande stima da parte di tutti. Ma quando a questa propensione verso la schiettezza si aggiunge quella verso la piacevolezza, all’impulso e alla tendenza dell’animo verso di esse si aggiungono la moderazione e il cosiddetto 1017

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, VIII

ubi accesserit eaque quae mediocritas dicitur, existent illico quae et viris bonis et civibus ingenuis digna, et suo etiam utraque nomine vocata est virtus: altera quidem quae susceptorum laborum honestum sit levamen relaxatioque maxime laudabilis a curis ac molestiis, altera vero quae hominem ipsum ita constituat, ut per eam constet humana conciliatio vigeatque in civitate fides, penes quam actionum nostrarum omnium ac negociationum vinculum existat ac promissorum dictorumque observatio. Quod ita esse nobis innuit Christus et deus idem et homo, cum veritatem se se esse professus est. 2. Verum cum ipsis e virtutibus aliae versentur aut in eroganda pecunia aut in obeundis periculis, aliae in moderandis voluptatibus aut in reddendo quod suum est cuique, aliisque atque aliis aliae, nomineque singulae appellentur suo, hae quidem duae, quae tum veritatem in dicendo tum leporem sequuntur, circa orationem tantum operam suam conferunt verbaque sibi perinde ac materiam subministrant; et alteri quidem, quae relaxationem quaeritat ab laboribus ac molestiis, maiores nostri nomen fecere urbanitati et, qui ea praeditus esset, nunc urbanum dixere, nunc vero aut facetum aut comem.

VIII UNDE URBANI DICTI SUNT AC FACETI. 1. Et urbanos quidem vocavere, quod ii oratione uterentur et cive et eo qui in urbe conversaretur digna, cum viventium in agris et vita esset agrestior et sermo etiam qui rus referret rusticanaeque consuetudinis tum mores tum etiam locutionem ac gestus; facetos vero, quod in congressionibus collocutionibusque domesticis, familiaribus item ac popularibus in sermonibus, verba cum iucunditate facerent cumque audientium voluptate ac recreatione. Etenim apud priscos illos verbum ‘facio’ maxima in usurpatione fuit loquendi, quando et ‘foedus facere’ et ‘pacem’ et ‘bellum’ et ‘insidias’ et ‘ludos’ et ‘delicias’ et ‘iocos’ et ‘verba facere’ dicebant aliaque etiam plurima diversi quoque generis; et qui

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principio del giusto mezzo, emergeranno le virtù degne sia degli uomini buoni, sia degli onesti e nobili cittadini – e l’una e l’altra virtù sono state chiamate col loro nome appropriato – l’una perché rappresenta l’onesto sollievo dalle fatiche intraprese e il lodevolissimo ristoro dagli affanni e dalle noie, mentre l’altra perché forma l’uomo in modo che grazie ad essa l’umana convivenza si mantenga salda e sia vigorosa nella comunità urbana la lealtà, sulla quale si fondano l’impegno che vincola tutte le nostre azioni e attività, e l’osservanza delle promesse fatte. Che sia così ce lo ha indicato Cristo, uomo e dio insieme, quando fece professione di essere egli stesso la verità.10 2. Del resto, mentre fra le stesse virtù alcune risiedono nel distribuire danaro o nell’affrontare i pericoli, altre riguardano o la moderazione nei piaceri o l’attribuzione del suo a ciascuno,11 e altre ancora le azioni più svariate, ed ognuna ha il suo proprio nome,12 queste due virtù che mirano a conseguire sia la schiettezza sia la grazia nel parlare svolgono la loro funzione solo nel discorso e assumono come materia le parole. A quella delle due che mira al sollievo dalla fatiche e dagli affanni i nostri avi assegnarono il nome di urbanità, e chi l’avesse posseduta sarebbe stato chiamato ora «urbano», ora, invece, facetus e comis.13

VIII ORIGINE DELLA DENOMINAZIONE DI «URBANI» E «FACETI». 1. Certamente gli «urbani» furono definiti così perché adoperavano un linguaggio degno di un cittadino o di chi frequenta l’ambiente della città,14 mentre erano più rustiche sia la vita sia la maniera di esprimersi degli abitatori dei campi, e rivelavano il comportamento, l’accento e i gesti dell’uso campagnolo. I «faceti» furono inoltre così definiti per il fatto che nelle riunioni e nelle conversazioni private, e anche in quelle di carattere intimo e amichevole, parlavano con amabilità incontrando il piacevole divertimento di chi li ascoltava. Questo perché era frequentissimo presso gli antichi l’uso del verbo «fare», come si vede nelle locuzioni «fare un’alleanza», «far pace», «far guerra», «fare insidie», «fare giochi», «far cose divertenti», «fare scherzi», «far parole» e in molte altre anche di genere diverso; e chi parlava con eleganza e ricchezza di pa1019

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, IX

eleganter ac copiose, facundos, et tum facundiam tum facunditatem dicendi vim: quibus in vocibus temporis illius poetae, quantitati uti consulerent, tertiam literam geminarunt. Nam, ne a fatu dictus sit facundus, tertia repugnat litera; ne ve a fando, plura simul obstant. Itaque, qui verba facerent serendis in sermonibus cum audientium oblectatione ac dicendi lepore, facetos eos dixere et comes, ad haec et festivos et lepidos nec minus libenter etiam salsos.

IX DE LEPIDIS, FESTIVIS ET SALSIS. 1. Quanquam autem hi ipsi, quos nominavimus, eodem continentur genere suntque inter se cognati et familiae pene eiusdem, differunt tamen inter se. Quocirca ostendendum videtur, in quo ab alio alius iudicetur differre; neque indigna sane neque inutilis inquisitio, cum sit omnino nihil tam fugiendum in disserendo ratiocinandoque quam ne confusio incertitudoque exoriatur e verbis aliqua, neque aliud magis sequendum quam ut distinctio adhibeatur selectioque et verborum et rerum. Tentabimus igitur, quoad, fieri poterit et res ipsa tulerit, secernere eos inter se, ut quid commune invicem habeant, quid item disiunctum, aperte intelligatur. Ac materia quidem ipsa communis est, oratio scilicet ac verba et item finis ac propositum. Quaeritur enim pariter ex dictis oblectatio ac voluptas. Nanque, ut in carminibus nostris adolescentes lusimus, lepos levando est ab labore dictus, partim mutatis partim contractis literis. Itaque lepidus is videtur, qui suavitate dicendi teneritudineque quasi quadam delectat et verborum et rerum, ut apud Terentium: Aedepol te, mea Antiphila, laudo et fortunatam iudico, dum huic formae studuisti, mores ut essent consimiles;

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role lo chiamavano «facondo», e chiamavano l’arte del dire «facondia» e «facondità».15 In questi vocaboli i poeti di quel tempo raddoppiarono per esigenze di quantità la terza lettera.16 Infatti la terza lettera esclude che facundus possa farsi derivare da fatum; a farlo derivare da fari si opporrebbero molte ragioni insieme. Perciò coloro che «facevano» parole intrecciando discorsi con il diletto di chi ascoltava e con la grazia dell’espressione furono definiti «faceti» e comes, ed inoltre «giocosi», «scherzosi» e, non meno volentieri, anche «piccanti».

IX SCHERZOSI, FESTOSI, PICCANTI. 1. Sebbene poi quelle stesse tipologie che abbiamo nominate siano comprese in una medesima categoria e siano fra loro legate quasi da vincoli di familiarità, sono tuttavia fra loro differenti. Perciò mi sembra opportuno dimostrare in che cosa si ritenga consistere la differenza fra l’una e l’altra; né di certo si tratta di un’indagine inopportuna ed inutile, dal momento che non c’è nulla che si debba assolutamente evitare nel discorso e nel ragionamento quanto l’insorgere di confusioni e incertezze, e non dobbiamo seguire altro obiettivo con maggiore determinazione, se non quello di operare una distinzione e una cernita fra le parole e i concetti. Tenteremo insomma, fin tanto che sarà possibile e lo consentiranno i fatti reali, di distinguere tra loro le varie tipologie, in modo che s’intenda chiaramente qual sia l’elemento che hanno in comune, e qual sia quello che le distingue. Ed è certo che sono comuni in primo luogo la materia, il linguaggio ovviamente e le parole, così come sono comuni il fine e lo scopo. E infatti, come da giovani abbiamo detto scherzando nei nostri componimenti poetici, lepos deriva il suo nome dal fatto che «solleva» dalla fatica, in parte mutando, in parte riducendo le lettere.17 Pertanto lepidus è colui che reca diletto con l’amabilità del parlare e con una certa tenerezza di parole e di pensieri, come si legge in Terenzio: Veramente ti ammiro, Antifi la, e fortunata ti reputo, perché ti sei data da fare per rendere i tuoi modi [in tutto simili a questa tua bellezza;18

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omnia ibi in gratiam puellae et cum lepore dicuntur; et apud Plautum: Cum ego antehac te amavi et mihi amicam esse crevi, mea Gymnasium, et matrem tuam, tum id mihi hodie aperuistis, tuque atque haec: soror si mea esses, qui magis potueritis honorem ire habitum, nescio, ut meus est animus fieri non posse arbitror; ita, omnibus relictis rebus, mihi frequentem operam dedistis et eo vos amo et eo magnam a me inistis gratiam.

Tantopere autem dicendi olim lepos datus est laudi, ut inde primus ille, qui post idem genti cognomen reliquit, cognominatus sit Lepidus. 2. Atque ut inter sapores suaves quidam tantum sunt, quidam et suaves simul et salsi, sic etiam et dicta alia tantum lepida, alia lepida pariter ac salsa, quemadmodum ratio ipsa fert aut dicendi aut respondendi, ut cum Pompeius, Ciceronem illudens, quanquam vultu fortasse hilariore dixisset, interrogans: «Gener ubi est tuus?» ibi Cicero, qui amarum atque aculeatum inesse quiddam verbis illius intelligeret, reddidit illi in respondendo par: «Ubi et socer est tuus». Erat enim Caesar belli suscepti et dux et auctor, quem Dolabella sequebatur. Itaque et, qui aderant, suavitate eos atque extemporalitate responsi affecit et suavitati salem adiunxit, ut ipse quidem arbitrer utrunque, et Ciceronem et Pompeium, ex eo in risum conversos. Atque eiusmodi quidem dicta dicuntur salsa et qui iis utuntur ipsi quoque salsi. Lepidis itaque suavitas tantum inest dictis, salsis etiam acumen, quando salsus sapor est ipse quidem acutior. Inesse autem eiusmodi dictis acrimoniam docet etiam apud Terentium illud ipsum, de quo gloriatur ille: Eon, Strato, es ferox quia imperium in belluis habes?

Illud autem, etsi salsum admodum, non caret tamen oscenitate:

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tutto è detto con gentilezza e con celia verso la ragazza; e in Plauto: Da un po’ di tempo, per Polluce, ho capito di esserti affezionata e di [averti amica, cara Ginnasia, te e anche tua madre, ma solo oggi me lo avete dimostrato, tu e lei: se fossi mia sorella, come avresti potuto usare maggiori riguardi, non lo so, penso sicuramente che non poteva farsi di più; così, messo tutto da parte, vi siete dedicate a me con tanta assiduità ed è per questo che vi voglio bene e che riscuotete da me tanta riconoscenza.19

A tal punto, poi, la lepidezza nel parlare fu apprezzata, che il famoso capostipite della famiglia che prese il suo nome fu soprannominato «Lepido».20 2. E come tra i sapori alcuni sono dolci, altri invece dolci e piccanti, allo stesso modo alcuni detti sono solo lepidi, altri lepidi e piccanti secondo quel che richiede la stessa ragione, in caso di battuta o di risposta, come per esempio quando Pompeo, prendendosi gioco di Cicerone, sebbene pronunciasse con un atteggiamento forse troppo ilare una domanda: «Dov’è tuo genero?», allora Cicerone, che aveva intuito come nelle sue parole ci fosse qualcosa di aspro e pungente, gli rese la pariglia rispondendo: «Lì dove sta tuo suocero».21 Perché Cesare era capo e fautore della guerra intrapresa e Dolabella era al suo seguito. Così riuscì a colpire i presenti con la gradevolezza e l’immediatezza della risposta, e seppe aggiungere la mordacità alla gradevolezza, tanto che io credo che entrambi, Cicerone e Pompeo, si mettessero a ridere per questo motivo. E tali battute si chiamano piccanti e coloro che le adoperano uomini «piccanti» anche loro vengono chiamati. Così nelle battute lepide è presente solo la gradevolezza, mentre in quelle piccanti anche l’acume pungente, dal momento che il sapore piccante è anche più acuto. Che poi questo sapore piccante sia presente in espressioni di tal genere, lo dimostra anche quel famoso motto che leggiamo in Terenzio, e del quale quest’ultimo si vanta: Disgrazia, Stratone, feroce, che hai sulle belve il dominio.22

Quel detto, invece, anche molto piccante, non manca tuttavia di oscenità: 1023

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Lepus tute es et pulpamentum quaeris.

Plautinum vero hoc et salsum et lepidum et cive etiam ingenuo dignum: Speravi ego istam tibi parituram fi lium, verum non est puero gravida sed insania.

3. Veniamus ad festivos, qui mini videntur a fando dicti, vetustate temporum immutante literas. Festis enim diebus mos fuit et benigne hilariterque affari populum et in ludis, qui in honorem deorum fiebant, oblectare eos, qui divinas ad res convenerant, blande eos appellando atque accipiendo comiter. Quanto autem studio diebus iis festis oblectamenta quaererentur, indicio sunt et ludi et tibiae et tubae et cantus et choreae et lectisternia et templorum apparatus ac theatrorum et porticuum et viarum et ipsa etiam fercula, ut, qui illis in ludis, sacrificiis, pompis, ferculis in popularium ac convenarum gratiam iucunde se haberent eaque et excogitarent et loquerentur, quae ad iucunditatem facerent ac laetitiam, merito ii festivi vocarentur. Adhibent praeterea festivi in iocando aeque ac ludendo dicendoque varietatem permultam, quae sermones maxime condiat, ut quae in cessationibus animorumque relaxatione praecipue exigatur. Ludi enim ac festi dies, etsi in honorem deorum, cessationis tamen gratia potissimum fuere inventi. Indicio sunt apud Graecos nostrosque actiones, sive comoediarum sive tragoediarum: in iis enim et histriones mimique et musici et gladiatores exhiberi soliti, venationes item et pugnae navales. Itaque festivi varietatem admiscent plurimam in dicendo, ludendo, delectando.

X DE COMIBUS. 1. Iam vero comis viri studium eo etiam spectat, dicendo ut delectet pariatque audienti iucunditatem. Eius tamen consilium est, quae a se

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Tu sei una lepre e cerchi la polpa.23

Questo motto di Plauto, per la verità, è insieme piccante, lepido e anche degno di un cittadino onorato: Ho atteso che costei ti generasse un figlio, ma ella non è gravida di un bambino, ma di una follia.24

3. E veniamo ai «festosi», i quali, a mio avviso, traggono il loro nome dal verbo fari attraverso mutamenti che il lungo spazio di tempo ha provocato nelle lettere. Era infatti consuetudine nei giorni di festa parlare al popolo affabilmente e allegramente, e durante i giochi che si celebravano in onore delle divinità dilettare i partecipanti ai riti religiosi rivolgendosi loro gradevolmente e accogliendoli con cortesia. Con quanto impegno si cercassero poi passatempi in quei giorni di festa, lo indicano i giochi, i flauti e le trombe, i canti, le danze, i banchetti,25 il magnifico addobbo dei templi, dei teatri, dei portici e perfino le tavolate, tanto che coloro i quali tra quei giochi, sacrifici, parate, mense si comportavano in modo gradito verso la popolazione e i forestieri, ed escogitavano discorsi capaci di indurre ad una spensierata allegria, a buona ragione venivano defi niti «festosi». Inoltre i festosi adoperano una gran varietà di accorgimenti nello scherzo, nel gioco e nel motteggio per colorire il più possibile la conversazione, poiché essa è richiesta nei momenti di riposo e di sollievo dell’animo. I giochi e le feste, infatti, anche se dedicati agli dei, furono tuttavia istituiti specialmente per il riposo. Lo dimostrano presso i Greci e presso i nostri 26 le rappresentazioni sia delle commedie, sia delle tragedie, nelle quali si esibiscono istrioni, mimi, musici, gladiatori, le scene di caccia e le battaglie navali. Così i festosi introducono nel parlare, nello scherzare, nel dilettare, una grande varietà di trovate.

X I CARATTERI AFFABILI. 1. Orbene, la disposizione della persona affabile mira anch’essa a dilettare attraverso le parole e a procurare il piacere di chi ascolta. Il suo proposito, tuttavia, consiste nel far che i suoi discorsi non soltanto 1025

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dicantur, non ut delectent modo, verum etiam ut sint grata, nec solum verba, verum etiam res ipsae quae dicuntur, quippe cuius studium sit gratificari atque in gratiam loqui audientium. Itaque et ornatum rebus adiungit praestatque quod Terentianus ille desiderat: Ornato munus verbis, quantum potes

et in eo est maxime ut verba etiam ipsa resque, quae a se dicantur, gratiam prae se ferant; itaque a comendo, hoc est ornando, dictus. Puellae nanque placere ornatu praesertim amatoribus student illisque ex eo gratiores fieri. Vide, quaeso, quibus verbis, quam etiam comptis, quam gratis item sententiis Aeneam alloquatur apud Virgilium Evandrus: Aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum Finge deo rebusque veni non asper egenis.

Non dubitavit Livius post sermonem illum a Marcello habitum adversum nolanum Bancium, qua in collocutione multa in commendationem, multa de beneficentia populi romani dixerat deque futura benevolentia et opera in illum sua, non dubitavit, inquam, haec dicere: «Ea verborum comitate devinxisse sibi iuvenem». Comitatem appellavit quod undequaque in gratiam illius Marcellus esset locutus. An non, quod in convivio coenisque grata omnia convivis esse debeant ac praesertim sermones, translatum est verbum etiam ipsum ad coenas, ut comiter accepti et convivio et hospitio dicantur, quod et verba admodum grata sermonesque et frons eliam serena epulis accesserit? 2. Omnino vero comis viri oratio, quo grata sit atque iucunda et lepida, versatur magna e parte in fabellis referendis: in iis enim et oblectationi maxime amplus conceditur locus et verborum ornatui; suntque omnino comitate praediti enarratores iucundissimi et in conviviis et in circulis collocutionibusque sive inter paucos sive multos. Qua quidem e re Ioannes Boccatius maximam sibi laudem, apud doctos pariter atque indoctos homines, comparavit centum illis conscribendis fabulis, quae hodie in hominum versantur manibus. Hoc idem graece conatus est Lu-

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dilettino, ma che riescano anche graditi, sia per le parole, sia per gli argomenti oggetto della conversazione, poiché è suo desiderio compiacere e parlare per il gradimento di chi ascolta. Aggiunge così ornamento ai concetti e compie quel che richiede il famoso verso di Terenzio, adornerai quanto tu puoi il dono con le parole;27

ed è sua intenzione in particolar modo che anche le parole e i fatti da lui esposti mettano in evidenza la grazia; perciò comis deriva da comere, che significa «ornare». Infatti le fanciulle si adoperano per rendersi attraenti mediante l’ornamento specie agli occhi degli innamorati e divenire più gradevoli al loro cospetto. Esamina, ti prego, con quali parole, con quali garbati e leggiadri pensieri Evandro si rivolga ad Enea in Virgilio: Osa, straniero, sprezzare le ricchezze ed anche tu degno di un dio t’immagina, e vieni non aspro nel povero regno. 28

Non esitò Livio, dopo il celebre discorso tenuto da Marcello dinanzi a Bancio di Nola, in cui aveva molto elogiato il popolo romano e parlato della sua liberalità, della futura benignità e della propria azione in suo favore, non esitò, dico, a esprimersi in questi termini: «Conquistò il giovane col garbo delle parole».29 Chiamò comitas ciò che Marcello aveva detto per ingraziarselo. O forse non può essere che, siccome nel convito e nelle cene tutto deve essere gradito ai convitati e specialmente devono esserlo le conversazioni, la stessa parola sia stata trasferita alle cene, onde si dice che sono stati accolti comiter in un convito o in un ricevimento, per il fatto che al banchetto siano state aggiunte parole e conversazioni particolarmente gradevoli oltre al volto sereno? 2. Ma in genere il discorso di una persona affabile, affinché risulti gradito, piacevole e spiritoso, deve consistere in gran parte nel raccontare storielle leggere, perché in queste trovano ampio spazio il diletto e l’ornamento delle parole, e vi sono generalmente narratori dotati di affabilità, amabilissimi sia nei banchetti, nei circoli pubblici e nelle conversazioni private, sia fra poche persone, sia fra molte. Per questa ragione Giovanni Boccaccio si guadagnò molta stima fra i dotti, ma anche fra i non dotti, per aver raccolto insieme quelle cento novelle che oggi corrono nelle mani di tutti. La stessa cosa cercò di fare in lingua greca Lucia1027

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cianus. Innuere autem hoc ipsum, quod dicimus, Plautus videtur, cum ait in Milite glorioso: Mihi ad enarrandum hoc argumentum est comitas, si ad auscultandum vestra erit benignitas.

3. Quae autem et qualis sit comitas, Ovidius in commutationibus illis formarum explicandis plurimis in locis ostendit, praecipue vero locus is declarat, qui est de Vertunni conversione in aniculam. Cuius hic particulam inserere placuit, idque voluptatis tantum gratia varietatisque ostendendae: Rege sub hoc Pomona fuit, qua nulla Latinas Inter hamadryadas coluit studiosius hortos, Nec fuit arborei sludiosior altera foetus Unde tenet nomen: non silvas illa nec amnes, Rus amat et ramos felicia poma ferentes. Nec iaculo gravis est, sed adunca dextera falce Qua modo luxuriem premit et spatiantia passim Brachia compescit, fixa modo cortice lignum Inserit et succos alieno praestat alumno; Nec sentire sitim patitur bibulaeque recurvas Radicis fibras labentibus irrigat undis.

Quibus dictis haud multo post transit ad Vertunni amores atque ait: O quoties habitu duri messoris aristas Corbe tulit verique fuit messoris imago, Tempora saepe gerens freno religata recenti.

Hisque aliisque varie eleganterque explicatis, vertit illum in anum et blande et illecebrose loquentem, quippe quae, Innitens baculo, positis per tempora canis, Assimulavit anum, cultosque intravit in hortos, Pomaque mirata est «tantoque peritior, inquit, Omnibus es nymphis, quas continet albula ripis. 1028

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no.30 Anche Plauto sembra far cenno proprio a ciò che stiamo dicendo, quando afferma nel Miles gloriosus: Nel narrare questa vicenda userò affabilità se da parte vostra vi sarà benevolenza nell’ascoltarla.31

3. Che cosa sia, poi, l’affabilità e quali i suoi caratteri, lo dimostra Ovidio in molti passi, quando illustra le famose metamorfosi, e lo spiega particolarmente in quel passo in cui parla della trasformazione di Vertunno in vecchietta.32 Di tale passo mi è piaciuto inserire qui una piccola parte, per dare un saggio di piacevolezza e di varietà: Sotto il suo regno viveva Pomona, di cui nessuna fra le latine Amadriadi coltivò con maggior cura i giardini; né un’altra ebbe maggior cura dei frutti degli alberi da cui prende il nome: ella non le selve né i fiumi ama, ma la campagna e i rami che producono pomi abbondanti. Né la sua mano è appesantita dallo strale, ma dalla falce adunca con cui ora comprime l’eccessivo rigoglio e gli spazianti in largo rami riduce, ora nella corteccia incisa le marze inserisce e fornisce succhi all’estraneo rampollo; non permette che sentano la sete e le ricurve fibre irriga dell’assetata radice con acque correnti.

Detto ciò, passa non molto dopo agli amori di Vertunno e dice: Oh quante volte vestito da duro mietitore le spighe portò nella corna e parve davvero un mietitore, spesso portando le tempie legate con fieno recente.33

Esposte queste cose ed altre con varietà ed eleganza, lo fa trasformare in una vecchia che parla in modo dolce e allettante, perché ella appoggiandosi ad un bastone, disponendo sulle tempie i bianchi capelli si fi nse una vecchia ed entrò nel giardino coltivato, e rimase ammirato dei frutti. «Tanto più brava – disse – tu sei delle altre ninfe che Albula tiene sulle sue rive. 1029

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XI

Salve, virginei flos, intemerate pudoris» Paucaque laudatae dedit oscula, qualia nunquam Vera dedisset anus; glebaque incurva resedit, Suspiciens pandos autumni pondere ramos. Ulmus erat contra speciosa nitentibus uvis, Quam socia postquam pariter cum vite probavit «At, si staret, ait, caelebs sine palmite truncus Nil praeter frondes, quare peteretur, haberet. Haec quoque, quae iuncta vilis requiescit in ulmo, Si non iuncta foret, terrae acclinata iaceret. Tu tamen exemplo non tangeris arboris huius?».

Vides quam et delectet et comiter ludat et variet rem ac dictionem et verbis innitatur ornatis ac maxime suis. Vero de hac ipsa comitate post huberius.

XI DE BLANDIS. 1. Eorum vero qui blandi dicuntur, etsi eadem videtur esse materia, finis tamen ubique non est idem; nec sola delectatio ac iucunditas quaeritur, verum potius utilitas, quale illud est: Nunc obsecro te, Milphio, hanc per dexteram perque hanc sororem levam perque oculos tuos perque meos amores perque Adelphasium meam perque tuam libertatem;

alibi irae delinitio aut morositatis, alibi doloris indignationisque, alibi illectio ad turpem voluptatem atque in appetitiones proprias. Non pectinem eburneum Plautus, non caseum molliculum, non monedulam praetermisit inter blandiendum. Atque illa quidem amantium sunt, non facetorum hominum. Itaque servi familiaresque iratis blandiuntur dominis, patribus filii, nutrices puerulis, captatores iis quibus nec liberi ulli nec legitimi sunt haeredes. Quocirca blandos in eorum numero,

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Salve, fiore inviolato di virgineo pudore», e dopo averla lodata le diede pochi baci, quali mai avrebbe dato una vecchia; e curva sedé su una zolla guardando i rami pendenti carichi dei pesi d’autunno. Un olmo sorgeva di fronte, bellissimo per i turgidi grappoli d’uva, e dopo che l’ebbe lodato con la vite compagna: «Ma se il tronco – disse – fosse vedovo, privo dei tralci, non avrebbe nulla, tranne le fronde, da cercare. Anche questa vite, che si adagia sull’olmo cui è unita, se non fosse unita, giacerebbe reclinata per terra. Pur tu non sei toccata dall’esempio di questo albero?»34

Puoi ben vedere l’affabilità con cui diletta, gioca e varia l’argomento e l’espressione, fondandosi su parole ornate e appropriate. Ma di questa affabilità si parlerà dopo più ampiamente.

XI I LUSINGATORI. 1. Di coloro che vengono definiti «lusingatori», sebbene sia comune la materia, il fine35 non è in ogni caso lo stesso; né quel che si cerca è soltanto il diletto e il piacere, ma piuttosto l’utilità, come dimostra il passo seguente: Ora ti prego, Milfione, per questa mia destra e per questa sorella a sinistra e per gli occhi tuoi e per i miei amori e per la mia Adelfasia e per la tua libertà.36

In altri casi si cerca così di attenuare o di frenare l’ira, in altri di spingere ad un turpe piacere o soddisfare i propri desideri. Plauto non trascurò, nelle lusinghe, di metterci ora un pettine di avorio, ora del formaggio tenerello, né una piccola gazza. Si tratta di cose da innamorati, non da uomini faceti. E così i servi e i domestici lusingano i padroni adirati, i figli fanno la stessa cosa con i padri, le nutrici con i piccolini, i cacciatori di eredità con quelli che non hanno né figli né eredi legittimi. 1031

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XII

qui oblectationem tantum quaerant urbanis ex allocutionibus, habendos non esse Iuvenalis etiam docet. Proditum quoque est a scriptoribus Helvium Pertinacem Augustum blandum potius quam benignum fuisse habitum, quod verbis quidem alliceret homines essetque affabilis admodum, coeterum re ipsa non modo non liberalis, verum etiam sordidus.

XII DE URBANIS ET FACETIS. 1. Reliquum est, de urbanis ut dicamus ac facetis. Et quoniam urbanitas non ad iocos tantum ac festivitatem dicendique leporem pertinet, quod in ea quidem virtute potissimum laudatur, verum ad virtutes quoque alias, quae et viro et cive ingenuo dignae sunt, videtur alia quaerenda virtus quae propria magis sit solumque id complectatur ac respectet quod ad iocos tantum animorumque relaxationem spectet. 2. Nam et urbanus dictus est, quod urbis servet sciatque ac retineat mores, quando adversus illi est qui e contrario ruris sequatur, non urbis institutiones; indeque agrestis vocatus ac vitium id a rure rusticitas, ut ab urbe urbanitas dicta. Nam et qui seniori assurgit praetereunti et qui magistratum ab domo deducit in curiam et qui praeteriens salutat, urbanitate utitur. Facetus vero ex eo nullo modo est dicendus. Video populariter atque a viris minime indoctis affabiles quosdam vocari, qui et ipsi urbanitate quidem utantur. Nam et in accipiendis hospitibus et in adventu peregrinorum, in primis etiam congressibus ac salutationibus, et blande affantur ac comiter et hospitaliter alloquuntur; iidem amice quoque et salutant et compellant et summa cum iucunditate congrediuntur. 3. Sed nos eum quaerimus qui parte ex omni munus ipsum impleat, qui e iocis suavibusque e dictis oblectationem tantum quaerat ac recreationem post labores, qui et salem habeat in dicendo et quae ipse dicit tanquam illo condiat, qui leporem admisceat, qui verba apta idonea

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Per questo anche Giovenale insegna che i lusingatori non devono essere annoverati fra coloro che si propongono soltanto di dilettare con ameni discorsi.37 Tramandano inoltre gli storici che Elvio Pertinace Augusto era ritenuto persona attraente, più che generosa, per il fatto che allettava gli uomini con le parole, ed era molto affabile, ma nella realtà non solo non era generoso, ma anzi era sordido.38

XII PERSONE DOTATE DI URBANITÀ E DI SPIRITO. 1. Rimane ora da parlare delle persone dotate di urbanità e di spirito. E poiché l’urbanità non riguarda soltanto gli scherzi, la giovialità e lo spirito impiegati nel parlare, cosa particolarmente apprezzata nell’ambito di quella virtù, ma anche altre virtù degne dell’uomo illustre e del cittadino onorato, sembra opportuno cercare un’altra virtù più specifica che comprenda e riguardi solo ciò che attiene agli scherzi e al ristoro dell’animo. Infatti l’uomo urbano è così definito perché osserva, conosce e custodisce le usanze della città, dal momento che gli si oppone chi segue le usanze della campagna, non della città, per cui è chiamato «campagnolo», mentre il difetto è chiamato «rusticità» da rus, come da urbs deriva «urbanità». 2. Infatti chi si leva in piedi al passaggio di un anziano o accompagna un magistrato dalla sua dimora alla curia, e chi, passando, saluta, dà prova di possedere «urbanità». Ma non per questo lo si può chiamare uomo di spirito. Vedo che dalla gente comune e anche da uomini tutt’altro che incolti vengono chiamati anche affabili coloro che usano urbanità. Sia, infatti, quando ricevono ospiti, sia quando arrivano forestieri, ed anche all’inizio delle riunioni e nelle visite di cortesia si rivolgono loro con dolcezza e con maniere cortesi e ospitali; e li salutano inoltre e rivolgono loro la parola amichevolmente, e quando s’incontrano usano grandissima giovialità. 3. Ma la nostra ricerca riguarda chi sia capace di adempiere perfettamente al compito specifico, chi attraverso scherzi e motti piacevoli persegua solo il diletto e il sollievo dopo le fatiche, chi abbia arguzia nel parlare e quasi condisca di arguzia le sue parole, chi vi infonda dello spirito, chi faccia uso di parole convenienti, appropriate, acconce e adatte allo 1033

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XII

concinnata iocisque accommodata usurpet, vultumque illis adiungat ubi opus est ac gestum, qui fabellis narrandis recitandisque iocosis ac ludicris rebus et curas sedet et deliniat molestias, qui non discedat urbanitatis e finibus aut e cive in rusticum atque agrestem transeat, ex ingenuo in servum aut servo persimilem, ni forte res ipsa ita tulerit; qui minime volens offendat dictis, nisi lacessitus, idque tamen urbane; qui et temporis et loci et audientium et sui ipsius et quam gerit personae et aetatis et negociorum et publicae privataeque letitiae habeat ac tristitiae moerorisque rationem idque cum primis curet, in singulis ut retineat modum, ne et verba profundat et iocos; qui denique summo id studio videat, ne, cum alios in risum provocat, ipse ab astantibus risui habeatur trivioque dignior iudicetur quam honestorum atque ingenuorum hominum audientia ac consessu; demum etiam qui intelligat, perinde ut cessatio omnis quiesque conceditur relaxandi gratia utque reditus ad labores ac negocia non sit gravis, sic iocos, dicta, sales, lepores facetiasque concedi, ne vitam cogitationesque nostras omnis studiaque in iis collocasse aut in ocio desidiaque aut in marcescentia potius nos appareat. Hunc, ni fallor, quando, qui et qualis comis sit, qui etiam urbanus ac festivus, explicatum est, maiores nostri facetum vocavere. 4. Nam urbanus, ut diximus, plura, quae urbanae consuetudinis morumque civilium sunt, complectitur, perinde ut etiam comis; at festivus minime quidem omnia, quae virtuti huic conveniant quaeque inesse ei debeant qui iocis dictisque iucundioribus usurus sit cum mediocritate et gratia. Quam in opinionem propendere videtur Cicero, cum ait duo esse genera facetiarum. Habemus igitur nomen eius qui tali sit mediocritate ac virtute praeditus; coeterum virtutis atque habitus ipsius nomen hactenus proditum est nullum, quod quidem sit proprium ac suis limitibus terminatum. Nam etsi rerum scriptores et comitatem usurpant

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO PRIMO, XII

svago, e vi aggiunga l’espressione e il gesto quando è il caso, chi narrando storielle e raccontando fatti giocosi e burleschi attenui gli affanni e addolcisca le pene; chi inoltre non si discosti dai confini dell’urbanità o da essere uomo civile si tramuti in un rustico e in un selvaggio, da uomo libero in servo o in qualcosa di simile ad un servo, a meno che l’argomento di per sé non lo consenta; chi volontariamente non offenda in alcun modo con le parole se non provocato, e lo faccia tuttavia urbanamente; chi sia accorto nel tener conto del tempo e del luogo opportuni, degli ascoltatori, della propria persona e del ruolo che riveste, dell’età, dell’attività che svolge, se si tratti di un momento di felicità pubblica e privata o di un momento di tristezza e di afflizione, e si preoccupi in primo luogo di osservare la misura in ogni cosa per evitare di eccedere nelle parole e negli scherzi; chi infine si adoperi con il massimo impegno a che, facendo ridere gli altri, non diventi egli stesso oggetto di derisione per i presenti e venga giudicato più triviale di quanto lo consenta il delicato udito di persone nobili e onorate. La nostra ricerca mira, in conclusione, a definire la figura di chi comprende che, come ogni riposo e ogni quiete sono concessi per ristorarsi e per evitare che il ritorno alle fatiche e all’occupazione riesca pesante, così sono autorizzati gli scherzi, i motti di spirito, i frizzi, le arguzie, le facezie, in modo tale da non far sembrare che abbiamo identificato la vita, tutti i nostri pensieri e i nostri ideali con questi svaghi, o con l’ozio e l’inoperosità, o piuttosto con la depravazione.39 Se non mi sbaglio è questo il tipo umano che i nostri antenati chiamano «faceto», poiché quale sia il tipo affabile e quale il suo carattere, quale sia il tipo dotato di urbanità, quale il tipo gioviale lo abbiamo già spiegato. 4. Infatti la persona dotata di urbanità comprende in sé molte qualità che sono proprie del comportamento cittadino e delle consuetudini civili, come anche la persona affabile; la persona festiva, invece, non è affatto dotata di tutti i caratteri che si addicono a questa virtù, e che devono essere posseduti da chi è disposto a servirsi con temperanza e con grazia di scherzi e motti di spirito. Verso questa opinione sembra propendere Cicerone, quando afferma che due sono i generi di facezie.40 Lo abbiamo dunque un nome per designare la persona che sia dotata della moderazione propria di questa virtù; ma nessun nome appropriato e capace di definire i giusti limiti è stato finora tramandato per definire l’abito di questa virtù. Infatti, sebbene gli stoici usino termini come comitas e 1035

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XIII

et urbanitatem, tamen, ut dixi, parum sunt omnino propria. Quia vero cognata haec essent et necessitudine sua coniuncta, iccirco illis usi videntur. Nos vero licet non absque rubore, neque enim licentiosi haberi volumus, tamen, quod in acie cum periculo versamur, tentabimus illud noviter deducere: quod in plurimis et Cicero e nostris aliique non pauci servavere et Aristoteles inter Graecos etiam non quadam sine libertate, etsi maxima tamen cum utilitate legentium. 5. Ac primum quidem minime ut a modesto deducimus modestiam, sic a faceto facetiam, quando facetiae ipsae dicta quidem sunt iucunda et lepida, nequaquam vero habitus aut virtus. Verum ut sanctitatem a sancto et ab honesto honestatem castitatemque a casto, sic a faceto facetitatem deducemus, ut facetitas ipsa sit virtus eademque faceti viri habitus; forsan non omnino etiam displicuerit facetudo, subducta syllaba, ut a sordido sorditudo, quae Plautina deductio est. Nam neque maiores illi nostri aut castitudinem reformidarunt aut moestitudinem. Quid si ut moestities, sic etiam dicatur faceties? Sed nos haec ipsa ita tradimus, ut qui nullo modo velimus regulam hac in parte praescribere; sit enim sua cuique libertas usurpandi nominis; verum ideo hoc facimus, ut aperte magis intelligatur habitus ipse qui sit et quo etiam quis nomine ac proprio et tantum suo vocitandus. Constituimus itaque sive facetitatem, sive facetudinem facetiem ve, habitum et, qui eo sit habitu ornatus, facetum. Sed ad alteram quoque partem verborum transeundum est, ut, quae in ea versetur mediocritas, lucide etiam intelligatur.

XIII DE VERACITATE. 1. Quemadmodum autem virtutis huius, de qua pauca locuti sumus, sive comitatis urbanitatis ve sive facetudinis, proprium munus est atque officium sedare molestias, in cessationibusque ac in relaxatione a negociis iucundum aliquid quaerere ad reficiendos animos, sive in ipsis quoque laboribus ac negociis interque molestias reficere eos, quo vegetiores ipsi

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urbanitas, tuttavia, come ho già detto, essi sono scarsamente appropriati. Ma poiché essi sono affini e strettamente collegati, sembra giusto che se ne siano serviti. Noi però, non senza rossore – giacché non vogliamo far la figura di chi abusa – tenteremo di coniare etimologicamente un neologismo: un procedimento che fra i latini Cicerone e non pochi altri osservarono, fra i Greci Aristotele, sia pur con qualche libertà ma con grandissima utilità da parte dei lettori. 5. Innanzitutto non è affatto vero che, come dall’aggettivo «modesto» ricaviamo il termine «modestia», così da «faceto» dobbiamo ricavare «facezia», dal momento che le «facezie» sono propriamente motti scherzosi e di spirito, ma non designano l’abito della virtù. Eppure, come da «santo» facciamo derivare «santità», da «onesto» «onestà» e da «casto» «castità», così da facetus dovremmo far derivare facetitas, in modo che la «facetità» costituisca l’abito virtuoso dell’uomo faceto. Forse non dispiacerebbe del tutto neanche il termine facetudo,41 «facetudine», con una sillaba in meno, come da «sordidus» deriva «sorditudo», che è invenzione di Plauto.42 Né del resto i nostri illustri antenati ebbero timore di usare vocaboli come castitudo o moestitudo.43 Che cosa ci sarebbe di strano se si dicesse faceties,44 così come si dice moestities? Ma noi riferiamo questa nostra ipotesi senza volere in questa trattazione prescrivere una regola fissa; ad ognuno la libertà di scegliersi il nome che vuole. Facciamo così perché si comprenda meglio e con maggiore chiarezza quale sia la natura intrinseca dell’abito morale relativo e con quale nome chi lo possiede debba essere chiamato. Abbiamo stabilito dunque che l’abito di questa virtù debba denominarsi facetitas, o facetudo, o faceties, mentre chi ne sia fornito «faceto». Ma è ora di passare ad un’altra categoria di vocaboli, per far capire chiaramente il giusto mezzo in cui la facetitas consiste.

XIII LA SINCERITÀ.45 1. Di questa virtù, dunque, su cui abbiamo detto qualcosa, intendo l’affabilità, l’urbanità e l’abito della facezia, il compito peculiare e la funzione consistono nel lenire gli affanni, cercare un che di piacevole nei momenti di riposo e di svago dalle occupazioni al fine di ricreare lo spirito, ristorarlo perfino nel bel mezzo delle fatiche e delle occupazioni, 1037

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fiant longeque valentiores, sive pervincendis aut tolerandis laboribus difficultatibusque, sive leniendis doloribus atque molestiis, qui finis ei virtuti est constitutus, sic, cum eadem ipsa oratio ac sermo vel praecipuum sit vinculum retinendae societatis, ad quam colendam nati atque educati sumus, coetusque ipsius una sociati et ampliandi et conservandi, sic, inquam, alterius virtutis, cuius etiam initia quaerimus, proprium munus est veritatis studium ac cultus. 2. Loquimur autem de veritate hoc in loco, non illa quidem quae a physicis quaeritur aut mathematicis quae ve versetur circa certitudinem syllogismorum in ipsisque disputationibus, quae sunt de rerum natura deque disciplinis atque scientiis hominum ac facultatibus, verum de veritate ea, quae nihil in sermonibus atque in oratione, nihil etiam in moribus inesse fictum, fallax, fucatum indicet, nihil quod simulatum, adulatorium, mendax, gloriosum, vanum quodque supra vires appareat supraque facultates ipsas aut veri fines excedat captus ve nostri terminos; quam assecuti qui sint retineantque et in dicendo et in tractandis rebus domesticisque in consuetudinibus, ii veri dicuntur, et virtus ipsa veritas, ni fortasse proprie magis veraces illi, virtus autem ipsa veracitas, ut veritas sit rei ipsius, veracitas vero ea utentis habitus. Ac nihilominus et verum fuisse hominem Catonem dicimus et quod summa etiam in eo inesset veritas, Sibyllas quoque veras et vates etiam atque haruspices veros. Haec vero a nobis eo consilio dicta sunt, quo distinctius intelligatur, quaenam res ipsae sint et quales. Tertia quoque quaedam virtus, si Aristoteli credimus, in eadem hac versatur materia, quae amicitia ab ilio dicitur, de qua quoniam his in libris dicendum nihil decrevimus, de duabus his virtutibus, et facetitate et veritate, tantum disseremus ac primo quidem de veritate deque oppositis ei viciis.

XIV DE ADULATORIBUS. 1. Admodum autem veritati adversatur lucri studium atque habendi cupiditas. Itaque huiusmodi hominum una est cura totique in eo ipsi sunt, quo adulando rei suae consulant familiari; et, quasi verborum mer-

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nonché fra gli affanni, per riacquistare energie e diventare più efficienti sia nel superare o tollerare le fatiche, sia nel sedare dolori e affanni, che è il fine assegnato a quella virtù. Analogamente, poiché proprio il discorrere e il conversare rappresentano un vincolo specifico per rinsaldare la società, al cui fine siamo nati e cresciuti, collegati insieme proprio per allargare e custodire quel rapporto, analogamente – dico – il compito specifico dell’altra virtù, di cui ricerchiamo i princìpi, è l’ossequioso rispetto della verità. 2. Ma in questo caso parliamo della verità, non certo di quella che ricercano i fisici e i matematici, e che riguarda la certezza dei sillogismi e la disputa sulla natura delle cose e sulle discipline, le scienze e le facoltà umane; parleremo invece di quella verità che riveli l’assenza di ogni finzione, di ogni adulazione, di ogni bugia, di ogni vanto, di ogni vanità; e che appaia al di sopra delle forze e delle facoltà stesse o ecceda i confini del vero o i limiti della nostra capacità intellettiva. Coloro che l’hanno conseguita, questa sincerità, e l’osservano sia nel parlare, sia nel trattare gli affari e nella pratica familiare, sono definiti «sinceri», e la virtù in sé è definita «sincerità», come se con il termine di «veridicità» si volesse definire la sostanza, con l’altro di «sincerità» si volesse definire l’abito di chi la mette in pratica. E nondimeno diciamo che Catone fu uomo veridico e che in lui vi era somma sincerità;46 anche le Sibille diciamo che erano veridiche, e veridici i profeti e gli aruspici. Abbiamo detto questo con l’intenzione di far capire con maggiore chiarezza l’essenza e la natura dei concetti. Anche una terza virtù, se dobbiamo credere ad Aristotele, riguarda la stessa cosa che da lui è chiamata «amicizia»;47 ma poiché non abbiamo previsto che se ne discuta in questi libri, parleremo soltanto di queste due virtù, della facetitas e della veritas, e prima della veritas e dei difetti che le si contrappongono.

XIV GLI ADULATORI. 1. Nemiche principali della verità sono la smania di guadagno e l’avidità. Perciò uomini di tal fatta hanno una sola preoccupazione, e sono totalmente presi dall’interesse di procacciarsi una fortuna mediante l’adulazione; e, quasi facendo mercato delle parole, usano in ogni occa1039

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caturam faciant, oratione ubique utuntur secunda et blanda; hocque sibi vitae genus delegerunt ad ampliandam rem domesticam: periculosa sane ac maxime pestilens hominum consuetudo ac familiaritas, quorum quia primatum virorum principumque ac regum praecipue plenae sunt aulae, inde adulatores dicti; qui dum placere et gratificari tantum student, veritati apud dominos aures obstrudunt atque ad illorum vultum libidinemque servilem in modum omnia loquuntur, nam et «dulos» graece servus est. Iidem alio sunt nomine assentatores ab assentiendo dicti; quod eorum cogitationes atque consilia in id solum intendant, id ipsi tantum agant, sibi ipsis ut prosint, secuti terentianum illud: Ais, aio; negas, nego.

2. Quibus hominibus quod plerunque solis, qui res moderantur publicas, suas patefaciunt aures, hinc et videmus et audimus et legimus eorum res frequentissime in praeceps rapi turbarique ac misceri repente principatus ac regna. Quae res nostris quoque temporibus clariores sunt quam ut exemplis indigeant. Huius autem generis hominum plures quidem sunt species; nesciam tamen sint ne omnes adulatorum in numero habendi, quando, ut Aristoteles queri etiam videtur, singulis, sive virtutibus sive viciis, certa neutique propriaque insunt nomina. Itaque et lucri et compendiorum tantum gratia adulantur non pauci: quidam captandae solum aurae ac favoris in populo atque inter cives, alii quod ita a natura comparati sint usuque etiam confirmati, ut ipsa tantum blanditione capiantur eaque, avicularum in modum, se se oblectent, quam vel maximam etiam voluptatem vel solam potius statuant.

XV DE CAPTATORIBUS. 1. Eorum igitur, qui pecuniarium secunda ex oratione sibi quaestum constituerint, duplex cum sit genus, et illorum qui tum captatores dicuntur, in quibus late quidem regnat ambitio et levitas, tum qui adulatores communi tamen nomine vocitantur, captatorum quidem ipsorum stu-

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sione un linguaggio untuoso e pieno di lusinghe. Hanno scelto questo genere di vita per aumentare i loro averi ed è pericoloso e pestilenziale il rapporto di familiarità con questi uomini, designati col nome di adulatori: ne sono particolarmente piene le sale dei palazzi nobiliari, principeschi e regali. Costoro, desiderosi soltanto di rendersi accetti e graditi, chiudono le orecchie alla verità presso i signori e tutto dicono in modo servile, per assecondare la voglia che si legge sul loro volto; e infatti in greco dulos48 significa «servo». Sono definiti anche con un nome diverso, «assentatori» da «assentire»,49 perché i loro pensieri e i loro propositi hanno un unico obiettivo, e loro stessi agiscono al solo fine di procurarsi un vantaggio, come in quel passo di Terenzio: Tu dici sì, io dico sì; tu dici no, io dico no.50

2. E poiché i governanti tendono le orecchie solo a questa specie di uomini, perciò noi vediamo, sentiamo e leggiamo che la loro fortuna spessissimo è travolta dalla rovina e che regni e principati d’improvviso vengono sconvolti e distrutti. Vicende come queste anche ai nostri tempi sono troppo evidenti per aver bisogno di esempi. Sono poi molte le specie di questo genere di persone; non saprei tuttavia se tutte quante debbano essere annoverate fra gli adulatori, dal momento che, come sembra lamentare lo stesso Aristotele, ogni singola specie di virtù o di vizio ha un nome determinato, ma per nulla appropriato.51 Così non pochi sono quelli che adulano solo per trarre lucro e profitto; alcuni lo fanno per accattivarsi la fama e il favore nel paese e nella città, altri perché la natura li ha fatti – e la consuetudine ha rafforzato questa loro tendenza – in modo tale da esser sedotti soltanto dalle lusinghe, e da esserne allettati, alla maniera degli uccelletti, considerandole il più grande piacere, o piuttosto il solo.

XV I PROFITTATORI. 1. Di due specie sono quelli che cercano un profitto mediante un linguaggio compiacente: alcuni sono definiti captatores e sono quelli nei quali albergano ampiamente l’ambizione e la frivolezza, altri, che solitamente vengono chiamati «adulatori», hanno lo stesso intento degli ap1041

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dium est, non dictis modo sed conferendis muneribus, captare animos ac voluntates illorum, praesertim quibus aut certi minime sint haeredes aut eorum eiiciendorum ex haereditate spes adest. 2. Quod genus late diffunditur non maximis inhiantium modo fortunis, verum patrimoniis etiam minimis. Dicti igitur a captando, quo in verbo et fraus inest et maius etiam habendi studium, quippe cum ipsi non verbis modo, verum etiam donis conviviisque grassentur, aucupum morem atque allectationes secuti. Eorum enim captiosa sunt omnino obsequia fraudisque atque insidiarum plena; adversum quos merito et dentes acuunt et gladios stringunt satyrarum scriptores; sed nobis hac satis in parte fuerit vicii genus innuisse. Quantopere autem veritati horum obsit hominum oratio atque obsequium, abunde quidem manifestum est. 3. Sunt quoque quos ambitio honorisque studium, minime vero pecuniae cupiditas, trahat ad assentandum, levitate quadam tantum duce, dum videri quam esse ipsi malunt, solaque et capiuntur et pascuntur aura: qua in re seque suasque res omnis videntur collocasse, plebeiorum etiam ad hominum opinionem omnia referentes. Ac superius quidem vicium captatio, et qui ea utuntur captatores; huius autem proprium ac maxime suum nomen existit nullum, levitas tamen est ac vanitas sane maxima et homines ipsi perquam leves ac vani, dum umbra capiuntur rerum magisquam rebus ipsis. Atque hoc quidem vicium potest ratione alia ad ambitionem referri, qua de re alibi quoque a nobis dictum est. Quod si captationem ipsam duplicem fecerimus, et eorum quos cupiditas habendi trahit et quos popularis aurae atque ambitionis studium, ut alteri pecuniae, alteri popularis aurae captatores dicantur, fortasse non male distribuisse iudicabimur, quando etiam sunt qui inter loquendum disserendumque etiam verba captent, qui quidem ipsi dicantur captiosi et fraus ipsa captiuncula. 4. Verum ad adulatores redeamus quique iidem assentatores sunt, neque alio quidem nomine inter se discernuntur. Coeterum studium id eo-

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profittatori, quello cioè di accattivarsi, non solo con la parola ma anche con doni, la simpatia e la benevolenza di coloro che o non hanno eredi certi o, avendoli, c’è la speranza che li escludano dall’eredità. 2. Questa genia, che aspira avidamente non solo alle grandi fortune, ma anche alle più esigue sostanze, si va ampiamente diffondendo. Il loro nome, dunque, deriva da captare, prendere, approfittare, vocabolo che esprime in latino contemporaneamente il senso della frode e quello di una smodata brama di possedere, perché i mezzi di cui costoro si servono per rapinare non consistono soltanto in parole, ma anche in doni e banchetti, a somiglianza della caccia e degli adescamenti. Assolutamente equivoco è, infatti, l’ossequio che dimostrano, pieno di fraudolenti insidie, per cui fanno bene ad aguzzare contro di loro i denti e a brandire le spade gli scrittori di satire.52 A noi basta in questa parte della trattazione avere accennato sufficientemente a questo difetto. Quanto poi le parole ossequiose di costoro siano contrarie alla verità, risulta abbastanza chiaro. 3. Vi sono anche di quelli che vengono indotti all’adulazione non da brama di ricchezza, ma da ambizione e dal desiderio di procurarsi onori, guidati soltanto da una certa fatuità, giacché preferiscono sembrare piuttosto che essere, e si fanno conquistare dal favore popolare e di esso solo si pascono; a raggiungere questo scopo sembra che siano completamente impegnati, riponendo ogni loro interesse e sacrificando tutto all’opinione perfino di gente plebea. E mentre il vizio prima descritto si chiama captatio e coloro che ne sono affetti si chiamano captatores, non esiste un nome appropriato per questo vizio; e tuttavia consiste in fatuità e vanità massime, e le persone che ne sono affette sono fatue e vuote, dal momento che si fanno conquistare dall’ombra delle cose più che dalle cose stesse. Per altro questo vizio può essere connesso con l’ambizione, di cui abbiamo già parlato in altra occasione. Che se abbiamo distinto la captatio in due categorie, quella propria di chi è attratto da brama di ricchezza e quella di chi è smanioso di favore popolare e di successo, tanto da definire gli uni approfittatori di danaro, gli altri approfittatori di consenso, forse non saremo mal giudicati per aver proposto questa distinzione, dal momento che esistono anche di quelli che nella conversazione e nella disputa cercano di «captare» anche le parole per cui sono denominati «capziosi», mentre l’inganno è denominato «cavillo». 4. Ma torniamo agli adulatori: anch’essi sono «assentatori»,53 né si distinguono fra loro con altro nome. Inoltre il loro obiettivo è quello di far 1043

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rum est, ex adulationibus rem facere ac peculium, ut, dum verbis opsequuntur, dum oratione secunda primatum ac principum res consiliaque extollunt, dum eorum admirantur facta, dicta, consilia, mores, gestus, et, ut Iuvenalis inquit, ubi Trulla inverso crepitum dedit aurea fundo,

domesticam rem adaugeant amplificentque patrimonium. Quorum hominum studiis dominantium, ut dixi, aures plerunque oppletae sunt, dum iis se se regendos permittunt. Quo efficitur, ut veritas videri possit eorum inimica, praesertim ubi qui rerum potiuntur adolescentes ipsi fuerint vel aetate annisque vel etiam moribus ac rerum usu. Horum igitur omnium studium est atque propositum, adulando atque in gratiam loquendo rebus ipsos suis consulere hisque artibus atque consiliis rei familiari prospicere. Quod dum consequantur, non modo nulla e parte molesti esse volunt, verum singula laudant dictisque et factis quibusque assurgunt; quin, quae maxime fortasse ridenda sint, et admirantur illa et in coelum ferunt verbis quoque ipsis, oris gestum adiungentes et corporis totius habitum. Regem aliquem capies,

inquit ille apud Iuvenalem ad magni illius rhombi aspectum, Aut de temone Britanno Excidet Arviragus: peregrina est bellua, cernis Erectas in terga sudes?

5. Itaque, quid in maioribus illi ipsi assentatores facturi essent negociis consultationibusque, coniicere ex his facile quidem possumus. His accedit maxime vanum genus hominum, quorum studium tantum est loquendi in aliorum gratiam atque ad illorum ipsorum vultum atque opinionem orationem suam seque ipsos componere, iisdemque in omnibus morem gerere seque suaque dicta sermonesque ad haec ipsa tantum instituere. Quorum quidem consilium terentianum quoque est illud et meta quasi quaedam, ad quam se ipsos instruunt,

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danaro con l’adulazione, accrescere gli averi ed ampliare il patrimonio, usando parole di ossequio, assecondando col discorso il potere dei nobili e dei principi, esaltandone le imprese, i detti, i pensieri, la vita, gli atti, e, come dice Giovenale, quando il pitale d’oro diede un rimbombo dal fondo capovolto,54

aumentano e accrescono le sostanze familiari. Delle insistenze di costoro sono generalmente piene, come ho detto, le orecchie dei governanti, quando questi ultimi si lasciano guidare da loro. Donde avviene che la verità può considerarsi loro nemica, specialmente quando coloro che prendono il potere sono giovani d’età o d’esperienza. L’impegno e il proposito di tutti costoro sono rivolti a fare il proprio interesse adulando e parlando per compiacere, e a fare i propri interessi e provvedere agli agi familiari mediante queste arti. E per conseguir questo, non solo cercano di non essere di noia ad alcuno, ma dicono bene di ogni cosa e per ogni detto ed ogni fatto si pompano, ed anzi, specialmente di fronte a ciò che forse andrebbe deriso, se ne mostrano ammirati e lo esaltano con le loro parole fino al cielo, aggiungendo l’espressione del volto e l’atteggiamento di tutto il corpo. Catturerai qualche re

dice quel personaggio in Giovenale alla vista di quel gran rombo,55 oppure dal carro britanno cadrà Arvirago; viene l’animal da lontano, tu vedi le pinne erte sul dorso?

5. Pertanto ci è facile immaginare che cosa avrebbero fatto quegli stessi adulatori in affari e deliberazioni di maggiore importanza. A costoro si aggiunge quella categoria di sciocchi, la cui precipua occupazione consiste nel parlare per compiacere altrui e nel conformare il volto e le opinioni a quelle di tutti, nell’adottare tale comportamento in ogni occasione e nell’orientare la propria esistenza, le proprie parole e i propri discorsi verso queste precipue finalità. La loro massima, quasi il modello cui conformarsi, è quel detto di Terenzio: 1045

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obsequium amicos, veritas odium parit.

Quod dictum quanquam latius fortasse patet, tamen maxime ad eos referendum qui voluptatem solam suis e dictis quaeritant; quam ad adipiscendam se se omni arte instituunt ac dicendi studio solumque eorum est propositum, dominantibus ut placeant et, quibuscum versantur, eos ut delectent, iis blandiantur et illorum arte ut omni aures demulceant voluptatis gratia, demum omnia. Hicque illorum est finis ac propositum.

XVI DE LASCIVIS. 1. Qua in re quoniam nec modum nec mensuram tenent ullam, lascivire eos necesse est, ut qui neque in iocando neque in oblectando delectum habeant aut rationem aliquam, verum qui et verbis et iocis et fabellis referendis nimium ipsi serpant atque inter iocandum explicandumque dilabantur alio atque alio. Quocirca lascivi sunt vocati et vicium ipsum lascivia; nimis enim profundunt se se ad ioca dictaque omnia, ad quae dilapsi nec lasciviunt tantum nimiique in illis sunt, verum petulantes, osceni et, quod turpissimum est, impuri. Minime autem verebimur hoc ipsum genus partiri eorum, qui ad voluptatem tantum atque in gratiam loquantur comparandae tantum voluptatis causa. Sunt enim qui ipsi quidem minime lasciviant serventque in iocando delectum atque in dicendo; verum in hoc a recto atque honesto abeunt, quod voluptatem sibi proposuerunt, vile sane pretium, pro quo tamen assequendo et veritati obstant et ab hominis recedunt dignitate, siquidem, quo instrumento quaque naturae dote praediti sumus cum excellentia animalium coeterorum, eo ipsi pro re maxime sordida belluarumque magis quam hominum propria abutuntur. 2. Neque enim finis eorum est in laborum requiete molestiarumque relaxatione, ut iucunditatem aut quaerant aut afferant, quo et tranquillent audientium animos ac suos et refocillent eos a praeteritis defatigationibus viresque renovent ad easdem rursus obeundas, verum quod

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l’ossequio genera amici, la verità odio.56

Ciò che si è detto, sebbene forse troppo lungo, tuttavia si adatta molto bene a coloro i quali dalle parole cercano di ricavare solo piacere e per conseguirlo si adoperano con ogni arte ed ogni sforzo, ed hanno come unico proposito quello di far cosa gradita a chi ha il potere, nonché di deliziare coloro con i quali sono in relazione, di blandirli, di sedurre con ogni mezzo le loro orecchie al fine di procurare piacere. Ed è questo il loro fine ed il loro intento.

XVI LA LASCIVIA. 1. Poiché in tale comportamento non osservano né modo né misura, è inevitabile che sconfinino nel lascivo, come quelli che nello scherzo e nel divertimento non adottano un criterio o un principio razionale, ma piuttosto si diffondono sia nel parlare, sia nello scherzare e nel raccontare storielle, e scivolano di qua e di là quando scherzano e raccontano. Perciò sono chiamati lascivi, ed è denominata lascivia il vizio relativo; troppo, infatti, si diffondono in scherzi e motti di ogni genere, scivolando nei quali non solo sono licenziosi e smodati nell’adoperarli, ma diventano anche sfrontati, osceni, e – quel che è la vergogna maggiore – impudichi. Ma non avremo alcuna remora a distinguere persone di questo genere da quelle che parlano solo per divertire e per compiacere, col solo fine di assecondare. Alcuni, infatti, non sono affatto lascivi e osservano un certo criterio nello scherzare e nel parlare; ma in questo si allontanano dalla giusta linea dell’onestà, nel fatto che si propongono un giovamento, un profitto certamente vile, per conseguire il quale vanno contro la verità e si allontanano dalla dignità umana, in quanto fanno cattivo uso di quello strumento e di quella dote naturale di cui siamo forniti al di sopra di tutti gli altri animali, per conseguire uno scopo estremamente basso e più consono a quello degli animali che degli uomini. 2. Il loro scopo infatti non è il rasserenamento dalle angosce e il sollievo dalle noie, in modo da cercare e arrecare gioia, e dare inoltre tranquillità all’animo di chi li ascolta, oltre che al proprio, ristorarli dalla passate fatiche e rinnovare le forze per affrontarne di nuove, ma agiscono 1047

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a natura atque ab habitu ita quidem instituti ad ea ipsa sunt, ut neque ab desidia ignaviaque longius absint. Atque haec quidem videntur esse assentatorum genera.

XVII DE INSULSIS ET PROFUSIS. 1. Sunt ex hoc etiam numero qui, dum oblectare student, maxime aures audientium offendant, tum insulse loquendo tum profundendo et res et verba, nec delectu habito nec modo aut mensura adhibitis. Itaque taedii genus hoc ac molestiarum veteres dicebant hominem occidere, cum eiusmodi homines in cunctis et multi essent et insulsi ineptique ac cum primis importuni, ut non inconvenienter a ranarum similitudine sint qui eos coaxatores vocitent, quod coaxare eos quam loqui magis existiment, ut qui non modo non mulceant aures, verum ad impatientiam usque obtundant.

XVIII DE CONTENTIONIS. 1. Adulatorum studiis maxime adversi videntur contentiosi quidam homines, quorum ea est natura, id etiam studium, ut, non modo non loquantur in aliorum gratiam neque gratificentur ipsi aliis, sed contra ut adversentur et ubique et in quibusque neminemque vereantur dicendo offendere; quin et serant ipsi sponte studioseque contentiones et ab aliis satas accipiant laetenturque iis et fovendis et exercendis; quibus etiam vita ipsa vel molesta futura sit, ni in cunctis vel dentes imprimant vel infigant aculeos, ut ad contentiones, dissidia rixasque atque altercationes nati prorsus videantur. Et, quam alii a natura concessam elocutionem exercent in conservanda hominum societate, in conciliandis amicitiis, in solandis demulcendisque molestiis, laboribus ac moeroribus aliorum, ea ipsi in adversum utantur vel abutantur potius ad odia contrahenda litesque excitandas ac serenda discordiarum semina. Hos et contentiosos vocavere et rixatores et alio atque alio nomine.

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così per il fatto che questo è il loro abito naturale, questa è la formazione ricevuta, di non tenersi troppo lontani dall’ozio e dall’ignavia. E queste pare che siano specie di adulatori.

XVII INSULSI E CHIACCHIERONI. 1. Si annoverano fra costoro quei tali che, mentre si sforzano di arrecare diletto, finiscono per offendere gravemente l’udito di chi li ascolta, sia dicendo sciocchezze, sia sciorinando una gran quantità di fatti e parole senza criterio e senza adoperare modo e misura. Perciò gli antichi dicevano che questo particolare genere di noia e di fastidio uccide l’uomo, giacché di persone di questo genere ve n’erano molte, insulse e sciocche e particolarmente importune, tanto da far dire non senza ragione a qualcuno, con una similitudine che si riferisce alle rane, che quelli sono dei gracidatori,57 in quanto sembrano gracidare piuttosto che parlare, come chi non solo non delizia l’udito, ma lo tormenta fino all’esasperazione.

XVIII GLI ATTACCABRIGHE. 1. All’estremo opposto degli adulatori sembrano collocarsi gli attaccabrighe, la cui propensione naturale è tale, che non soltanto essi non parlano per compiacere altrui, ma contraddicono chiunque e in ogni occasione, né temono di offendere alcuno con le loro parole; ché, anzi, son proprio loro a fomentare litigi con istintivo zelo e a recepire e tener vivi i litigi fomentati da altri; per loro sarebbe perfino noiosa la vita se non potessero addentare tutta la gente e conficcarvi i propri aculei, tanto da sembrar nati con lo scopo precipuo di provocare litigi, dissidi, risse ed alterchi. E così, di quell’arte del parlare che la natura concede ad alcuni affinché l’adoperino per rafforzare la solidarietà fra gli uomini, per crearsi amicizie, per consolare e alleviare gli affanni o le fatiche e i dolori altrui, di quell’arte essi si servono, o piuttosto ne abusano, per accumulare odi, far nascere liti e gettare i semi della discordia. Costoro sono stati denominati ora litigiosi, ora rissosi e hanno ricevuto altri svariati nomi. 1049

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2. Vicium autem, etsi est fortasse innominatum, quid tamen prohibeat rixationem appellare ac contentiositatem, ut contentionem rerum esse dicamus ac rixam, vicium vero ipsum perversumque illum habitum tum rixationis appellatione tum contentiositatis designemus? Odiosum sane genus hominum et muscarum maxime simile, ut nati hi omnino videantur ad turbas, vexationes, inquietudinem vitaeque ad universae turbationem ac taedia, quod Plautus indicavit in servi illius persona: decretum est mihi quasi umbra, quoquo ibis tu, te persequi; quin, aedepol, si in crucem vis pergere, sequi decretum est.

3. Horum duplex mihi videtur esse partitio: eorum una qui id student, ut commoda utilitatemque inde sibi comparent; illorum altera qui voluptatis tantum gratia utque invidentissimae suae naturae ac perversissimis cogitationibus morem gerant. Eorum autem utrum genus longe sit perversius, iudicatu difficile videri iure quidem potest; utrumque tamen perversissimum. Montium adolescens ipse novi Branchatium qui, generis ac familiae contempta vel repudiata potius dignitate, totum litibus se se tradiderit; ac satis scio lites quasdam ab actoribus destitutas sive ob inopiam rei familiaris ad eas prosequendas seu, quod male essent coeptae, pretio mercatum, quo, uti convenerat, exoluto, prosecutum sumptibus suis litigia? in hocque vitam suam egisse omnem; ex eadem item familia alterum mirifice controversiis assuetum, quin omnino illis addictum, ut, cum aliquando ab Antonio Panhormita, iucundissimo homine, per risum interrogaretur «quo nam modo cum causis?», responderit bene sibi atque e sententia in omnibus successisse easdemque in rem suam terminatas, duas tamen aut tris in longum a se se ea ratione protrahi, quod aliter ocio immarcesceret illasque eo a se studio reservatas, ut haberet in quo oblectaretur pasceretque animum. Vide hominis ingenium, qui litigia controversiasque sibi voluptatem statuerit? Sed nobis hac in

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2. Ma per quanto riguarda il vizio relativo, sebbene sia rimasto forse senza una denominazione, quale impedimento ci sarebbe a definirlo rissosità e litigiosità, in modo da poter usare i vocabolo «contesa» e «rissa» per definire il fatto in sé e poter chiamare invece il vizio specifico e l’abito perverso col nome sia di rixatio sia di contentiositas? Si tratta certo di una specie di uomini particolarmente odiosi e molto simili alle mosche,58 da sembrar nati apposta per provocare disordini, noie, inquietudini, turbamenti e noie a tutto il mondo; questo carattere Plauto additò nella figura di un servo: ho deciso di perseguitarti come un’ombra, dovunque tu vada; anzi, davvero, se vuoi arrivare fi no alla croce ho deciso di seguirti.59

3. Questo genere di persone mi sembra che si possa ripartire in due categorie: da una parte quelle che agiscono in quel modo per trarne un vantaggio e un utile, dall’altra quelle che tengono questo comportamento per il piacere che ne provano e per assecondare la loro natura malevola e i loro malvagi disegni. Quale delle due categorie sia più infame, sembra certo difficile da giudicare con equità: entrambe sono, comunque, scelleratissime. Io ho conosciuto da giovane Brancaccio Monti, il quale, ripudiata con disprezzo la dignità della sua stirpe, si dedicò tutto a far liti; e mi risulta che arrivò a finanziare alcune controversie che erano state abbandonate dai contendenti sia per la scarsezza di risorse che ne impediva la prosecuzione, sia perché era stato sbagliato intraprenderle, e, pagata la somma stabilita, si prestò a portarle a termine a sue spese, trascorrendo tutta la vita con questo impegno. E ho conosciuto un altro tipo della stessa famiglia straordinariamente abituato alle liti, anzi del tutto schiavo di esse al punto che, quando una volta quell’uomo amabilissimo che era Antonio Panormita gli chiese scherzosamente «come va con le cause?», rispose che andavano bene per lui e tutte erano riuscite secondo i suoi desideri, che tutte si erano concluse a suo favore, ma che tuttavia due o tre di esse aveva deciso di portarle per le lunghe, altrimenti sarebbe marcito nell’ozio, e che se le era riservate col preciso intento di avere qualche cosa di cui dilettarsi per soddisfare lo spirito. Guarda un po’ l’indole di quest’uomo, che ha fatto dei litigi e delle controversie 1051

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parte loquendum neutique est iudicialibus de contentionibus: tantum studia volumus contentiosorum quorundam hominum ostendere. Itaque hos ipsos litigiosos seu litigatorios potius quis vocaverit et controversos. Nam litigiosas res proprie magis dicimus. 4. Contentiosos autem illos volumus qui maxime adversentur adulatoribus et, quantum hi loquuntur in omnium gratiam, tantum illi nemini parcant studeantque prorsus offendere: quos siquis inciviles vocaverit, ne ille mea sententia vera ab appellatione recesserit; quando autem res ipsa intelligitur, nolumus de verbo nimio plus esse soliciti. Laurentius Vallensis in grammaticis, rhetoricis dialecticisque ita et scripsit et disputare est solitus, ut minime videretur velle praecipere, nec appareret tam contendere illum de veritate proprietateque aut docere velle quam maledicere obiectareque vetustis scriptoribus atque obloqui: itaque Ciceronem vellicabat, Aristotelem carpebat, Virgilio subsannabat, quippe qui propalam sit asseverare ausus, sive Pindarus quispiam auctor is nomine suo fuerit sive alio, de hoc enim ambigitur, qui homericae libros omnis Iliados non multos admodum in versus contractos latine convertit, qui propalam sit, inquam, asseverare ausus Pindarum eum Virgilio anteferendum. Est autem carminis illius principium: Iram pande mihi Pelidae, diva, superbi, Tristia qui miseris iniecit funera Graiis.

5. Tali igitur iudicio hominem ingenioque tam sive retroverso sive praepostero, quippe qui maximis quibusque ringeret auctoribus, uni tantum Epicuro assurgeret, quam ob communem utilitalem contendere aut cognitionem dicas atque altercari? qui nec aliud velit, curet, studeat quam ut detrahat quibus minime par est ac maledicat? quando, qui cum Laurentio familiarius vixerunt, affirmant illum eo nequaquam consilio in grammaticis scripsisse ac dialecticis, quo doceret disciplinasque ab ignoratione vendicaret atque a sorde, verum ut malediceret obloquendoque detraheret de fama atque auctoritate rerum scriptoribus, tum illis qui exemplo sunt ad scribendum aliis propter antiquitatem maie-

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un mezzo di godimento. Ma in questa sede noi non dobbiamo trattare affatto di contese giudiziarie; vogliamo soltanto mostrare quale sia l’occupazione prediletta di alcune persone inclini ai contrasti. In effetti qualcuno avrebbe potuto chiamarli «litigiosi» o piuttosto litigatorii e anche controversi;60 perché riserviamo il vocabolo «litigioso» agli argomenti che suscitano liti. 4. Definiamo invece «contenziosi»61 coloro i quali sono tutto il contrario degli adulatori, e quanto questi ultimi parlano per ingraziarsi tutti, tanto quelli non risparmiano nessuno e sono pronti ad offendere: e se si volessero definire «incivili» non ci si allontanerebbe, a mio parere, dalla denominazione precisa; ma poiché il concetto è di per sé comprensibile, non vogliamo preoccuparci della parola più del necessario. Lorenzo Valla ebbe a scrivere e fu solito disputare su argomenti di grammatica, retorica, dialettica, ma non sembrava che volesse dettar precetti, né pareva che volesse discutere sul vero e proprio significato delle parole o ammaestrare, quanto dir male degli antichi scrittori e rivolgere loro obiezioni e critiche:62 e così punzecchiava Cicerone, strapazzava Aristotele, scherniva Virgilio, osando affermare apertamente, sia che l’autore il quale tradusse in latino tutti i libri dell’Iliade di Omero riducendoli a pochi versi si chiamasse proprio Pindaro, sia che avesse un altro nome – la cosa è incerta – che quel tale Pindaro andava preferito a Virgilio. L’inizio di quell’opera poetica era questo: Mostrami, o diva, l’ira di quel superbo Pelide, che inflisse tristi lutti ai miseri Greci.63

5. Dunque un uomo con questo gusto e con una mente così stravolta e degenere, che ringhiava ai più grandi autori e si inchinava solo davanti ad Epicuro,64 per quale utilità comune e per quale fine conoscitivo diresti che discute e polemizza? Egli che nient’altro vuole, di nient’altro si preoccupa e a nessun’altra cosa presta il suo impegno se non a denigrare e a diffamare coloro che non se lo meritano? Poiché quelli che ebbero maggiore familiarità con Lorenzo affermano che egli scrisse su argomenti di grammatica e di dialettica non certo per insegnare e per affrancare dall’ignoranza e dallo squallore quelle discipline, ma per dir male e, ingiuriando, sminuire la fama e l’autorità degli storici, sia di quelli che sono d’esempio agli altri nello scrivere, grazie alla vetustà e autorevolez1053

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statemque dicendi ac praecipiendi, tum illis ipsis qui tunc viverent; qui ne dubitaverit ipse quidem dicere profiterique palam habere se quoque in Christum spicula. Sed nobis propositum minime est detrahendi homini maxime studioso, quem senem adolescens ipse noverim, cumque e Roma se Neapolim contulisset ad Alfonsum regem, et inviserim etiam reverenter pro illius meaque aetate et plures post congressiones maxime familiares, ita ab eo discesserim, uti ex eo de me nisi pleno atque amico ore locutus fuerit nunquam. Sunt ex his igitur quos non tam contentiosos dicas quam insectatores cum singulorum tum etiam humani generis, quod de Timone traditur, neque veritatis ipsius cultu et gratia, sed quod ita quidem sint a natura instituti atque ab assuetudine confirmati et moribus.

XIX DE VERBOSIS. 1. Praeter hos in utroque genere quos peccare dicimus delabique in excessum, sive adulando sive contendendo rixandoque, sunt qui verbosi dicuntur viciumque ipsum verbositas. Hi, dum placere student et grati esse, minime quidem aut placent aut voluptatem afferunt; quin molestiam potius ac taedium pariunt defatigationis ac satietatis plenum, decepti iudicio rerumque simul ac verborum acervationibus, ut nescias, ex eo quod aures vel offendunt vel exatiant, sint ne contentiosis potius quam insulsis annumerandi. Verum contentiosi id agunt, ut nemini parcant parumque omnino offensitare alios aut curent aut caveant; verbosis vero propositum est ac consilium oblectandi, modum tamen dum minime retinent, dum delectum adhibent nullum, in castra transeunt adversariorum apparentque transfugis similiores. Itaque verbosi et initio et inter dicendum subinde delectant, nec odio ipsi habentur, sed recusantur eorum sermones magisquam fugitantur. At contentiosi ubique offendunt et odio eos boni omnes prosequuntur ab illisque abhorrent audiundis, quos et maledictis quoque insectantur.

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za dello stile e dell’ammaestramento, sia di quelli stessi che erano ancora viventi; egli che non esitò neppure a dire e a dichiarare apertamente che aveva qualche freccia anche per Cristo.65 Ma non è affatto nostro proposito farci detrattori di uno studioso così grande, che io stesso ho conosciuto da ragazzo quando, vecchio, da Roma si trasferì a Napoli presso re Alfonso,66 e che ho visitato anche con rispetto data la mia e la sua età, congedandomi da lui, dopo parecchi incontri estremamente familiari, senza che da parte sua siano state pronunciate sul mio conto se non parole cordiali e amichevoli. Tra costoro infine vi sono alcuni che tu non tanto definiresti litigiosi, quanto veri e propri persecutori, sia di persone singole, sia di tutto il genere umano – si dice questo di Timone –,67 e non per culto e rispetto della verità in se stessa, ma perché così li ha forgiati la natura e come tali si sono consolidati attraverso il loro abituale comportamento.

XIX I VERBOSI. 1. Oltre costoro che, secondo quanto abbiamo detto, cadono in errore e scivolano nell’eccesso in entrambi i casi, quando adulano come quando litigano e rissano, vi sono i cosiddetti verbosi, il cui vizio si chiama verbosità. Costoro, mentre cercano di riuscire piacevoli e rendersi graditi, non riescono affatto a piacere né ad arrecare diletto, anzi generano piuttosto fastidio e una noia spossante e stucchevole, confondendosi la mente per le cose e le parole che affastellano insieme,68 fino a non farti capire, per il fatto che o offendono o saziano l’udito, se debbano essere catalogati tra i litigiosi, piuttosto che tra gli insulsi. Ma i litigiosi si comportano in modo da non risparmiare nessuno, da non preoccuparsi affatto di offendere gli altri continuamente, laddove i verbosi si propongono consapevolmente di dilettare, e tuttavia non osservando la misura, non adottando alcun criterio di scelta, passano nel campo avversario e rassomigliano piuttosto a disertori. Perciò i verbosi all’inizio, e mente parlano, in un primo momento fanno piacere, e non si rendono odiosi, ma i loro discorsi non vengono recepiti, più che essere evitati. Non avviene così ai litigiosi, che offendono sempre, per cui gli uomini onorati li detestano e non sopportano di starli ad ascoltare, e per giunta li coprono di maledizioni. 1055

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XX DE LOQUACIBUS. 1. Sunt qui vicium hoc loquacitatem dici malint et illos ipsos loquaces, in quo non est cur eos impediamus; tamen loquaces nos a verbosis differre hoc ipso volumus, quod verbosi versentur in iis quae iucunditatem prae se ferant inque illis ipsis in quibus locum habeat facetudo et comitas. At loquaces eos esse contendimus, quorum studium minime sit quale est aut facetorum urbanorumque aut contentiosorum ac molestorum hominum, quippe cum et dicendi infinitate capiantur et, dum loquantur dumque exultent campo equisque, ut dici solet, ac viris, aliud nihil aut quaerant aut curent aut sibi propositum habeant; quibus quidem servandis in diversa etiam vicia incurrant.

XXI DE NUGATORIBUS. 1. His ipsis haud multum etiam videntur differre nugatores, quorum narrationes inopes quidem rerum sint, «nugaeque, ut Horatius inquit, canorae». Coeterum vanitate illi verborum atque aggestione magis peccant, hi rerum; uterque tamen et confunduntur in dicendo et nimii sunt, nullum cum delectum adhibeant; indeque maxime etiam molesti uterque, quando uterque inepti sunt maximeque inconsiderati. Horum haud multum dissimiles sunt qui garruli dicuntur, quorum sermo et molestus est et nimius. Obtundunt autem tum vanitate rerum tum inanitate verborum, quibus in omnibus et nimii sunt et importuni valdeque indecentes. Vicium autem ipsum garrulitas ab avibus ductum, neque enim cessant et in iisdem assiduo versantur vel potius interstrepitant. Verum attigisse haec satis fortasse hoc in loco fuerit, cum ea sive vicia sive virtutes minime sint aut ad veritatem, de qua dicturi sumus, aut ad comitatem urbanitatem ve referenda. Loquaces enim videri magis possunt tacitur-

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XX I LOQUACI. 1. Taluni preferiscono definire questo vizio «loquacità» e chi ne è affetto «loquace», né abbiamo da muover loro alcuna obiezione. Tuttavia a nostro parere i loquaci si differenziano dai verbosi per il fatto che questi ultimi trattano argomenti che hanno qualcosa di piacevole e nei quali c’è posto per l’arte della facezia e per l’affabilità. Sosteniamo invece la denominazione di loquaci per coloro che non hanno affatto la medesima tendenza dei faceti e degli spiritosi, o dei litigiosi e molesti, per il fatto che vengono trascinati da una loquacità senza limiti e, pur di parlare e pur di caracollare in campo aperto, come si suol dire, non chiedono altro né si preoccupano di altro o si propongono altro; anzi per seguire questi vizi incorrono in altri diversi.

XXI I CHIACCHIERONI. 1. Da costoro non si differenziano molto – così mi pare – i chiacchieroni, i cui discorsi sono privi di consistenza e, come dice Orazio, «ciance canore».69 Per altro i loquaci peccano di più per vacuità e cumulo di parole,70 questi per vacuità e cumulo delle cose che dicono; gli uni e gli altri si diffondono nel parlare e giungono all’eccesso, perché non hanno alcun criterio di scelta; è per questo che entrambi i tipi sono oltremodo molesti, essendo estremamente sciocchi e sconsiderati. Non molto diversi da loro sono i cosiddetti «garruli», il cui discorso riesce anch’esso molesto e smodato. Essi sono poi un vero tormento sia per la fatuità degli argomenti, sia per la vacuità delle parole, perché in ogni cosa sono esagerati, inopportuni e assai sconvenienti. Il vizio come tale è stato poi definito «garrulità», vocabolo tratto da quel che si dice degli uccelli, perché non la smettono mai e insistono continuamente, o piuttosto fanno insieme un gran chiasso, sempre sullo stesso tono. Ma forse sarà sufficiente, in questa sede, aver solo accennato a queste cose, perché esse, sia per quel che riguarda i vizi, sia per quel che riguarda le virtù, non si riferiscono alla vera essenza di cui intendiamo parlare, alle doti o dell’affabilità o dell’urbanità. Può infatti sembrare che i loquaci 1057

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XXII

nis adversari, taciturnitasque ipsa loquacitati; de quibus dicere his in libris minime propositum est nostrum.

XXII DE TACITURNIS. 1. Illud tamen non praetermittemus, taciturnitatem mediocritatem esse quandam, loquacitatem excessum; parte vero ex altera, qui tacendo excedant, eos esse sine nomine; neque enim aut ubi aut quantum aut quomodo aut quid oporteat, dum tamen taceant, pensi quicquam habent, et siquid quandoque, musitant potius quam loquuntur. Sed musitatio ex ore innutuque constat ac superciliis non minus quam verbis et plerumque occulta est gigniturque interdum e metu aut reverentia, non nunquam pudore aut stupore, non raro simulatione; ut eorum adversarii videantur qui obganniunt potiusquam qui loquaces sunt. Sed quaerere haec ipsa distinctius hoc, ut dictum est, loco nostri non est propositi. Quam ob rem qui mediocritatem hac ipsa in re, de qua disputatio est, sequantur quique ipsi sint, perquiramus. Cum enim contentiosi atque assentatores e regione pene sint constituendi atque ex adverso collocari debeant, medium quidem inter hos ipsos perquirendum est, etsi nomen mediocritatis eius minime est proditum et contentiositatem et adulationem extrema verius dicimus quam opposita, quippe quae a medio recedant. 2. Itaque mediocritas ipsa quaerenda nobis est. Aristoteles vero, quanquam innominatam graece tradat, putat tamen illam et retinere, quae utrinque oporteat, ac servare et ratione eadem reiicere, quae et ubi et quomodo opus fuerit, atque omnino repellere, ut etiam existimet hanc ipsam mediocritatem amicitiae maxime esse similem. Qua in parte si aliquantum fortasse immorabimur veritatis ac rei ipsius indagandae gratia, sat confidimus te, quod humanitatis est tuae proprium, vicio id minime esse daturum.

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siano piuttosto il contrario dei taciturni, e l’essere taciturno il contrario dell’essere loquace; ma non è per niente nostro intento discutere di tali categorie in questi libri.

XXII I TACITURNI. 1. Tuttavia non trascureremo di precisare che l’essere taciturni rappresenti un giusto mezzo, l’essere loquaci un eccesso; ma d’altra parte quelli che esagerano nel tacere non hanno un nome che li definisca; infatti, pur di tacere non si preoccupano di dove, di quanto, del modo in cui occorre farlo, di che cosa occorre tacere, e se talora qualcosa interessa loro, borbottano piuttosto che parlare. Ma il borbottare71 è fatto di atteggiamenti e di cenni non meno che di parole, e per lo più è celato e nasce talvolta da timore o da riverenza, in certi casi da timidezza o da sbigottimento, non di rado da simulazione; a tal punto che sembrerebbe dover contrapporre loro quelli che brontolano piuttosto che i loquaci. Ma non è nostro intento addentrarci con distinzioni troppo minuziose in questa materia. Perciò continuiamo la ricerca per individuare coloro che nel campo su cui verte questa discussione seguono una giusta via di mezzo. Poiché i litigiosi e gli adulatori, infatti, vanno collocati quasi frontalmente in settori fra loro contrari, bisogna individuare il punto intermedio fra le due categorie, anche se il nome di quel giusto mezzo non lo abbiamo ricevuto dalla tradizione e definiamo la litigiosità e l’adulazione due posizioni estreme più propriamente che due posizioni opposte, dal momento che sono lontane dal giusto mezzo. 2. Insomma è proprio il giusto mezzo l’oggetto della nostra indagine. Aristotele, a dire il vero, sebbene lo lasci senza nome in greco, ritiene tuttavia che esso consista nel mantenere e serbare quel che è necessario dall’una e dall’altra parte, e parimenti nel rigettare e respingere quel che è necessario e quando e come si conviene, tanto da considerare questo giusto mezzo assai simile all’amicizia.72 E se noi indugeremo forse un po’ di più nell’indagare l’essenza di questo giusto mezzo, siamo abbastanza sicuri che tu, per quel senso di umanità che ti contraddistingue, non la considererai una mancanza.

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XXIII

XXIII DE DELECTU, QUI ET QUALIS SIT. 1. Et poetae et scriptores rerum, tum humanarum tum naturae, voces rebus ipsis adiiciunt, unde dictae sunt adiectivae, quibus proprietates appellationesque et declarant explicantque et etiam finiunt. Nam hominem cum dicunt animalem esse et rationalem et mortalem, hominem ipsum finiunt et quae substantia sit eius declarant. Quid? cum poetae et placidam dicunt quietem et arma horrentia et fertilem Ausoniam, non ne et armorum et quietis et agrorum qualitatem indicant? Et cum humilem Italiam et campos iacentes et colles supinos, an non situm innuunt ac posituram? Et ubi ingentis artus mariaque patentia, quid nisi amplitudinem signare volunt ac magnitudinem et membrorum et pelagi? Eadem ratione qui de moribus scribunt, oportet ut vocibus adiectis actiones nostras, quae mores ac virtutes constituunt, terminent. 2. Terminantur autem actiones ipsae perficiunturque, si, qui agunt, et sicuti oportet et quando oportet quantumque etiam oportet, agant modumque in cunctis retineant; ne ve aut nimia sit eorum opera aut remissior minimaque utque et loci meminerint et personarum ac rerum etiam ipsarum. Quae qui servant, hi dicuntur agendis rebus delectum adhibere. Delectu enim illa continentur omnia, quibus actiones ipsae virtutesque perficiuntur. Etenim quemadmodum consultationem ipsam sequitur electio confirmatumque consilium ac propositum, sic, postquam elegimus incipere suscepimusque agendum aliquid, sequitur e vestigio delectus, hoc est ut deligamus, inter ea quae ad agendum offeruntur, et tempus quod sit opportunum actioni susceptoque negocio et locum idoneum et viam quae tenenda sit, cum plures offerri soleant.Ad haec multi cum indigeant, ut de liberalitate exemplum proponamus, deligendum est quibus potissimum daturi simus; cumque non universa sit pecunia eroganda, ne fons ipse liberalitatis exareat dandoque aliis plurima liberis desimus, parentibus, uxori nepotibusque, quantum etiam iis ipsis, quibus daturi sumus, singillatim sit erogandum.

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XXIII LA DISCREZIONE E LE SUE CARATTERISTICHE. 1. Sia i poeti, sia gli scrittori di scienze umane e di scienze fisiche aggiungono ai sostantivi alcuni vocaboli che vengono per questo definiti «aggettivi»,73 per mezzo dei quali ne chiariscono, ne spiegano e ne precisano il peculiare significato. Quando infatti dicono che l’uomo è un animale razionale e mortale, definiscono l’uomo in sé e chiariscono la sua essenza. Non è così? Forse che i poeti, quando definiscono placida la quiete e orribili le armi e fertile l’Ausonia non denotano la qualità delle armi, della quiete e dei campi? E quando dicono «umile Italia» e «campi piani» e «colli declinanti in dolce pendio» non accennano forse alla disposizione del luogo? E quando dicono «smisurate membra» e «vasti mari», che cosa vogliono significare se non l’ampiezza e la grandezza delle pianure e del mare?74 Per la stessa ragione conviene che coloro che scrivono intorno ai problemi morali definiscano le nostre azioni, le quali rappresentano il costume etico e la virtù. 2. Ma le azioni stesse trovano la loro perfezione e il loro completamento se coloro che le compiono, le compiono nel modo, nel tempo e nella misura convenienti e rispettano in tutto la giusta misura, e se il loro operato non è smodato né troppo dimesso e meschino, ed è tale che tenga conto del luogo, della persona e della circostanza. Chi osserva queste norme può ben dirsi che agisce con discrezione. Nella scelta, infatti, sono racchiuse tutte le qualità che rendono perfette le azioni virtuose.75 Ché, come la scelta segue alla riflessione, alla decisione e al proposito, così, come scegliamo di intraprendere un’azione e ci accingiamo ad eseguirla, subito segue la scelta, cioè la necessità di scegliere, fra tutte le possibilità di azione che si offrono, il luogo idoneo e il modo da tenere, essendo molteplici le strade possibili. E inoltre, poiché sono molti i bisognosi – per proporre un esempio tratto dalla liberalità –,76 è d’uopo scegliere verso chi soprattutto intendiamo essere generosi; e poiché il danaro non va speso tutto per evitare che la fonte stessa della generosità s’inaridisca e che a forza di donare agli altri in gran quantità veniamo meno ai nostri figli, genitori, moglie e nipoti, è d’uopo scegliere anche la quantità che si debba singolarmente destinare a coloro che intendiamo beneficare.

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XXIII

3. Quo in delectu praecipue etiam videndum est, rationem uti habeamus et negocii et eius ipsius, quicum habenda res est, et urbis et civilium tum legum tum consuetudinum ac propriae praesertim personae quaeque alia recta ipsa ratio tenenda monstraverit, ne in aliquo agentes peccemus. Neque enim tantummodo a nobis peccabitur, si aut nimii erimus aut astrictiores in erogando, ut in quo coepimus exemplo persistamus, verum etiam si liberales in eos fuerimus, qui minime digni sunt liberalitate aut si, quibus conferenda praesens est pecunia, quod domestica extremaque laborent egestate, equestri eos praerogativa exornaverimus aut si, quibus opus est opera, eos verbis iuverimus persequemurque consiliis ac monitis. 4. Igitur haec ipsa mediocritas, de qua nunc disserimus, versatur potissimum in habendo delectu, ne aut ad nimiam declinemus verborum gratificationem, quae levis sit ac vana, ubi forte opus esset commonitione oporteretque verbis gravioribus maximeque accomodatis retrahere amicum vel acrius etiam obiurgare, aut, ubi indulgentius fortasse agendum esset, ut in nuptiis atque in publicis ludis, afferre in mensam atque ad choreas supercilium et publicam laetitiam velle aut sermone minus suavi aut fronte obducta contristare hilaritatemque inficere iurgiis atque contentionibus. «Quid, inquit ille, in theatrum, Cato severe, venisti?» Intelligebat enim alium hilaritudinis locum esse debere, alium severitatis. Non hoc ista sibi tempus spectacula poscit:

diversa omnino haec est persona; monet enim, omissa rerum inanium picturaeque inspectione, rei maxime seriae quae instaret praevertendum esse. Quem locum animadvertens Cicero, turpe esse dixit valdeque viciosum, in re seria convivio dignum aut delicatum aliquem inferre sermonem.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO PRIMO, XXIII

3. Nell’operare questa scelta bisogna anche particolarmente tener conto sia del caso specifico, sia della persona con cui si ha a che fare, della città e delle leggi e consuetudini civili, e specialmente della propria persona e di tutti quegli altri elementi che il giusto criterio mostrerà doversi osservare per non cadere in errore quando agiamo. Né infatti cadremo in errore soltanto se nel distribuire saremo o esagerati o troppo avari, tanto per rimanere nell’ambito dell’esempio col quale abbiamo cominciato, ma anche se saremo generosi verso chi non se lo merita, o se insegneremo del titolo di cavaliere persone alle quali bisogna invece elargire immediatamente danaro in quanto versano nella miseria più nera, o se gioveremo a parole e incalzeremo con consigli e ammonimenti persone che invece hanno bisogno di aiuto concreto. 4. Pertanto questo giusto mezzo del quale discutiamo consiste principalmente nell’avere discrezione, per evitare che ci abbandoniamo ad un’eccessiva liberalità di parole, priva di consistenza ed utilità, laddove forse ci vorrebbe un avvertimento e bisognerebbe riprendere l’amico con parole un po’ severe e molto appropriate, o anche rimproverarlo con una certa asprezza; oppure per evitare, in circostanze in cui bisognerebbe forse comportarsi con un po’ di cordialità, come in occasione di nozze o di feste pubbliche, che si porti a tavola e nei festini un viso scuro rattristando la letizia generale o con un discorso poco piacevole o con la fronte corrugata, e si sciupi la gioia con litigi e contese. «Perché – disse quel tale – sei venuto a teatro, austero come sei, Catone?».77 Capiva bene, infatti, che uno deve essere il luogo dove ridere, altro quello dove essere austero. L’ora presente non richiede cotesti spettacoli.78

Completamente diverso è l’atteggiamento in questo caso; la Sibilla avverte, infatti, che bisognava prestare attenzione piuttosto alla situazione molto seria che incombeva, trascurando di soffermarsi ad osservare immagini vane. E Cicerone, esaminando questo argomento, disse che è vergognoso e certo disonesto in una situazione seria intervenire con un discorso frivolo o adatto ad un banchetto.79

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XXV

XXIV AD CONSEQUENDAM MEDIOCRITATEM OPUS ESSE DELECTU. 1. Qui igitur mediocritati huic daturus est operam, ne aut in gratiam loquens recedat a medio profundatque se se in assentationem atque obsequium aut, dum seria sequitur, delabatur in adversum acerbasque ad contentiones modo refragratoris personam modo rixatoris induens. Huic delectus cum primis habendus est et rerum et temporum et locorum et personarum, quo virtutem maxime laudabilem ac publice privatimque et apud cives peregrinosque aeque spectatam consequatur. Ex hoc itaque Aristoteles mediocritatem eam amicitiae perquam similem esse putat, quando, qui eiusmodi virtute est praeditus, et cives amplectatur et exteros et aequales atque inferiores, et quibuscum vivendi consuetudinem frequentat et quibus nulla prorsus necessitudine est coniunctus; quin eodem quoque erga eos afficietur studio qui in honoribus constituti sunt ac magistratibus primumque in populis locum optinent.

XXV DE CENSURA SERRANDA IN GRATIFICANDO ET COMMONENDO. 1. Hoc autem tale est ut, cum opus fuerit, gratum se se illis exhibeat in sermonibus conversationibusque in eisdemque appellandis atque invisendis, in salutationibus, deductionibus reductionibusque atque assurrectionibus; denique ut omni e parte gratus esse illis studeat et, quantum par est, in illorum gratiam ac commendationem loqui ac modo res eorum laudare proque loco ac tempore commendare dicta, probare consilia, sententias, actiones, studia, opera, vitae genus efferre: eaque cuncta cum delectu ac ratione. Contra haec, ubi labi aliquem viderit, peccare, decipi, parum prudenter rebus suis consulere aut nimium sibi ipsi tribuere, discedentem ab honesto delabentemque ad ostentationem ac vana consilia captantemque popularis auras et, ut Severus Alexan-

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XXIV NECESSITÀ DI UN CRITERIO DI SCELTA PER CONSEGUIRE IL GIUSTO MEZZO. 1. Chi dunque intenda impegnarsi per conseguire questa giusta misura al fine di non discostarsi dalla posizione media o parlando in modo da compiacere e profondendosi in adulazioni e ossequi, o, mentre osserva la serietà, scivolando nell’estremo opposto e in aspri litigi, e assumendo ora veste del contestatore, ora del rissoso, costui, fra le prime cose, deve possedere la capacità di discernere circostanze, tempi, luoghi e persone, in modo da poter conseguire la virtù più pregevole e più apprezzata in pubblico come in privato, presso i concittadini come presso i forestieri. Per questo dunque Aristotele considera quella via di mezzo molto simile all’amicizia,80 dal momento che, chi è dotato di una tale virtù, stringe in un medesimo abbraccio concittadini e forestieri, uguali e inferiori, gente con cui intrattiene rapporti consueti di vita e gente cui non è legato da nessun intimo legame; anzi sentirà il medesimo affetto verso coloro che rivestono alte cariche e che occupano il primo posto nelle comunità.

XXV NECESSITÀ DI OSSERVARE UN LIMITE NEL MOSTRARSI COMPIACENTE E NELL’AMMONIRE. 1. Ma questo comportamento consiste nel rendersi loro gradito,81 quando ce ne fosse bisogno, nei discorsi e nelle conversazioni, nel rivolgere la parola e nel far visita alla gente, nel salutarla, nell’accompagnarla, nel riaccompagnarla e nel levarsi in piedi dinanzi; infine nel darsi da fare per essere in ogni senso ben accetto e nel parlare, per quel che è giusto, secondo il suo gradimento e in suo onore lodando le sue opere ed elogiando le sue parole a tempo e luogo, approvando le sue decisioni, i suoi pensieri, le sue azioni, il suo impegno, le sue iniziative, il suo genere di vita: tutto ciò va fatto con discrezione e criterio. Al contrario, quando si vedrà qualcuno sbagliare, mancare, ingannarsi, provvedere con poca prudenza alle sue cose o concedersi troppo allontanandosi dall’onestà e scivolando verso l’ostentazione o verso vani propositi, e cercare di accattivarsi il favore popolare, e, come Alessandro Severo usava dire, vendere 1065

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der usurpabat, vendentem fumos, et loco suo et tempore et verbis maxime accommodatis commonefaciet illum, etiam auctore Christo optimo maximo, studebitque ab inceptis aut inutilibus aut parum honestis retrahere iis verbis, exemplis, consiliis, ut monitoris recti, viri boni, civis benevolentis, reprehensoris quandoque lenis, blanditoris non nunquam comis, consiliarii ubique prudentis et integri, institutoris interdum et probi et sapientis personam suscipiat. 2. Forsitan et locus et tempus et res ipsa aliquando tulerit, ut increpatoris etiam acerbi aut inclamatoris agrestis, non ut molestiam afferat, verum ut, ubi retinere suavioribus illum verbis nequit aut dictis exemplisque aut probabilibus suasoriisque rationibus, deterreat inclamando austerius, proponendo etiam turpitudinem, infamiam periculaque tum rerum honorisque tum vitae quoque ipsius. Videamus quibus dictis Hannibalem, etiam efferatis moribus ducem, Maharbal verberet, «Nimirum, o Hannibal, non omnia tibi dii dedere: vincere scis, victoria uti nescis». Forsan autem haec ipsa increpatio acerbitasque hunc ipsum, de quo disputamus, minime decuerit; nihilominus eiusmodi esse debet, ut, dum prodesse possit, dum iuvare dictis suis atque commonitionibus, sibi proponat potius, recte admonendo prudenterque consulendo, in molestiam esse aliquam incidendum quam, tacendo aut loquendo in gratiam assentandoque in turpitudinem, honorisque iacturam ac famae pati amicum, familiarem, civem, hospitem, addam et peregrinum, incurrere. Itaque Terentianum illum dictum, nihil humani a me alienum puto,

nequaquam videtur ab hoc ipso, quem adumbramus, alienum. 3. Est apud Sallustium commonefaciens Iugurtam Micipsa rex gravissima hac vel paterna potius oratione: Parvum te, Iugurta, amisso patre, sine spe, sine opibus in meum regnum accepi, existimans non minus me tibi quam liberis, si genuissem, ob beneficia carum fore; neque ea spes falsum me habuit. Nam, ut alia magna et egregia tua facta omittam, novissime rediens Numantia meque regnumque meum gloria honoravisti, tuaque virtute nobis Romanos ex amicis amicissimos fecisti. In Hispania nomen familiae nostrae renovatum est. Postremo, quod difficillimum inter mortales est, gloria invidiam 1066

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fumo,82 a tempo e luogo, il comportamento virtuoso consiste nell’ammonire con parole opportune e ben dosate, come anche Cristo Dio insegna, e cercar di distoglierlo da imprese inutili o poco oneste con quelle parole, con quegli esempi e consigli che consentano di far assumere l’aspetto del retto consigliere, dell’uomo onesto, del cittadino benevolo, di quando in quando del critico mite, qualche volta del lusingatore affabile, sempre del consigliere prudente ed integro, talora del precettore probo e saggio. 2. Forse il luogo, il tempo e la circostanza stessa comporteranno talvolta che si assuma la veste del censore austero e di chi rampagna aspramente, non per arrecare noia, ma per distogliere con voce severa chi non si può trattenere con parole blande e con motti ed esempi o con ragioni probabili e persuasive, mettendo anche in evidenza la vergogna, l’infamia e i pericoli che deriverebbero sia alle ricchezze, sia alla carica, sia perfino alla vita. Consideriamo le parole con le quali Maarbale rampogna Annibale, primo anche nell’efferatezza: «Di certo, Annibale, non tutto gli dei ti hanno dato: puoi vincere, ma non sai usare la vittoria».83 Forse, però, quella stessa aspra rampogna potrebbe convenir poco alla persona di cui trattiamo; nondimeno essa deve essere tale da proporsi di incorrere in qualche fastidio ammonendo rettamente e consigliando con saggezza, pur di giovare, pur di essere utile con le sue massime e i suoi ammonimenti, piuttosto che, tacendo o parlando per compiacere, e approvando l’immoralità, tollerare che l’amico, il familiare, il concittadino, l’ospite e – aggiungerei – il forestiero incorrano nella perdita dell’onore e della buona fama. Così nel famoso passo di Terenzio: Nulla che sia umano ritengo che sia alieno da me;84

e niente di umano sembra essere tanto alieno dalla figura di cui tracciamo il profilo. 3. Si legge in Sallustio un avvertimento fatto dal re Micipsa a Giugurta con questo discorso severissimo, o piuttosto da padre: Piccino ancora, Giugurta, orfano di padre, privo di speranze, privo di beni, ti ho accolto nel mio regno, ritenendo che per i miei benefici sarei stato caro a te non meno che ai figli che ho generato io. E non mi sono ingannato. Infatti, per tralasciare altre tue grandi e nobili imprese, recentemente, di ritorno da Numanzia, hai onorato di gloria me e il mio regno e 1067

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vicisti. Nunc, quoniam mihi natura finem vitae facit per hanc dexteram, per regni fidem moneo obtestorque, te, ut hos, qui tibi genere propinqui, beneficio meo fratres sunt, caros habeas; neu malis alienos adiungere quam sanguine coniunctos retinere. Non exercitus neque thesauri praesidia regni sunt, verum amici, quos neque armis cogere neque auro parare queas: officio et fide parantur. Quis autem amicior quam frater fratri? aut quem alienum fidum invenias, si tuis hostis fueris? Equidem ego vobis regnum trado firmum, si boni eritis; sin mali, imbecillum. Nam concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur. Coeterum te his, Iugurta, qui aetate et sapientia prior es, ne aliter quid eveniat, providere decet. Nam in omni certamine, qui opulentior est, etiam si accipit iniuriam, quod plus potest, facere videtur. Vos autem, Adherbal et Hiempsal, colite et observate talem hunc virum, imitamini virtutem et enitimini, ne ego meliores liberos sumpsisse videar quam genuisse.

4. Quales igitur admonitiones in eiusmodi rebus ac negociis esse debeant, locus hic Sallustii nos docet. Nec minus docet apud Livium Scipio in maxime amica et sapienti illa ad Masinissam allocutione, qua nihil gravius, nihil amicius ac, si rem ipsam introspicias, nihil accomodatius; ne ve aliqua in parte dignitati aut suae aut Masinissae deesset post Sophonisbae interitum, nunc solatur illum, nunc leviter castigat; post, etiam advocata concione, regem appellat eximiisque ornatum laudibus, aurea corona, aurea patera, sella curuli, scipione eburneo, toga item picta palmataque tunica donat additque et verbis honorem; quamvis autem, ut decoro reique praesertim ipsi satisfiat, severior non nunquam assumenda videatur persona. Quid tamen comem deceat in commonefaciendo, Plautus docet in Philoxeni illius persona:

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con i tuoi meriti mi hai reso i Romani, da amici, amicissimi. Nella Spagna si è rinverdita la rinomanza della mia famiglia. Infine hai vinto l’invidia con la gloria, che è la cosa più difficile fra gli uomini. Ora, poiché la natura pone fine alla mia vita, per questa destra, per la lealtà che si addice a un re, ti ammonisco e ti scongiuro di aver cari costoro che ti sono congiunti per nascita e che ti sono fratelli per opera mia; non circondarti di estranei invece di conservarti fedele ai congiunti per sangue. Non gli eserciti né le ricchezze sono le difese di un regno, ma gli amici, che non si possono costringere ad esserlo con le armi né si possono acquistare col danaro; essi si acquistano con i benefici e con la lealtà. E poi chi più amico di un fratello per il fratello? Quale estraneo potrai trovare fedele se ai tuoi sarai stato nemico? Io da parte mia lascio un regno solido, se sarete onesti; se invece sarete disonesti, debole. Nella concordia infatti prosperano anche le piccole cose, nella discordia vanno in rovina anche le più grandi. Ma spetta a te, Giugurta, superiore per età e per saggezza, prima che a costoro, fare in modo che nulla accada diversamente. Infatti in qualunque contesa chi è più potente, anche se riceve un’offesa, tuttavia, poiché è più forte, sembra che sia lui il provocatore. Voi però, Aderbale e Iempsale, rispettate e venerate un tale uomo, imitate la sua virtù e sforzatevi di fare in modo che non sembri che io abbia adottato figli migliori di quelli che ho generato.85

4. Di che genere, dunque, convenga che siano gli avvertimenti in tali circostanze, ce lo insegna questo passo sallustiano. E non meno esemplare è l’insegnamento che in Livio dà Scipione in quel famoso discorso rivolto a Masinissa,86 estremamente benevolo e sapiente, del quale non c’è nulla di più profondo, nulla di più benevolo e, se vai al fondo delle cose, nulla di più appropriato; per non venir meno in alcun punto alla dignità sua e di Masinissa, dopo la morte di Sofonisba, ora lo consola, ora lo rimprovera senza durezza; poi, convocata pure l’assemblea, lo proclama re e dopo averlo onorato con straordinarie lodi gli dona una corona aurea, una coppa d’oro, un seggio curule, uno scettro eburneo; infine gli fa dono di una toga ricamata e di una tunica ornata di palme e aggiunge alle parole l’onore; e tuttavia, onde soddisfare al decoro e specialmente alla circostanza, sembra talvolta che si debba assumere una maschera più severa. Quanta cortesia, comunque, sia conveniente adottare nell’ammonire, lo insegna Plauto nel famoso personaggio di Filosseno:

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DE SERMONE, LIBER PRIMUS, XXV

Eia, Lyde, leniter qui saeviunt sapiunt magis. Minus mirandum est illec aetas siquid illorum facit quam si non faciat. Feci ego istec itidem in adolescentia.

5. Igitur quoniam hic ipse vir circa voluptates versatur ac molestias, quae inter conversandum usuveniunt, illud omnino praestabit, hinc molestus ne sit, illinc ut oblectet probetque probanda modeste et graviter pro re ac loco sitque in alloquendo gratus atque periucundus, non tamen ut aut omnem refugiat molestiae respectum vereaturque ne, recte monendo ac suadendo honesta, parum forte placeat, aut undecunque gratiam ut inire velit assentando impudenter; quin eum se se geret utrunque, ut referat tum ad honestatem tum ad utilitatem, quae tamen honestate non sit vacua. Et quod meretriculae servare audent in re impudica, non servabit in re maxime honesta et utili vir, qui sibi proposuit ubique gratus esse seque in omni vita hominumque consuetudine mediocritatem velle sequi, tum in commendando ac loquendo in gratiam, tum in continendo ab iis quae parum laudanda videantur aut in iis improbandis retinendo modum ac mensuram? Nam quanquam eius studium est, ut sit maxime gratus atque etiam utilis, negliget tamen leviorem interdum offensiunculam, quae posset ex commonefactione proficisci, dum prosit multum. «Satis nunc», inquit apud Plautum, credo, soror, ornatam te tibi viderier; sed ubi exempla conferentur meretricum aliarum, ibi tibi erit cordolium, siquam ornatam melius forte aspexeris.

6. Non verita est illa sororem paulisper offendere, dum ei prodesset multum ad cultum atque ornatum, utque inter alias excelleret, quae pariter quaestum facerent. Novimus ipsi et temperantem et mediocritatis huius studiosum hominem qui, cum sermo aliquis allatus esset in quo retineri a se modum posse diffideret, sensim e concilio se subtraheret sub aliquam honestam causam. Quoniam autem nullum hic aspernatur

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Suvvia, Lido, quelli che se la prendono con calma hanno più giudizio. C’è meno da meravigliarsi se a quell’età fa di queste cose che se non le facesse. Io in gioventù ho fatto lo stesso.87

5. Pertanto, poiché lo stesso uomo viene a trovarsi in mezzo ai diletti e in mezzo alle molestie che sogliono presentarsi nella conversazione, farà bene attenzione a che in un caso non risulti molesto, nell’altro a che sappia dilettare e render accetto ciò che può esserlo, con moderazione e ponderatezza secondo la circostanza ed il luogo, e sia nel parlare gradevole e particolarmente amabile, non tanto, tuttavia, da rifuggire ogni considerazione che susciti molestia, e da temere di riuscir poco piacevole nell’ammonire rettamente e nel persuadere a serbare una condotta onesta, o da volersi rendere ben accetto a chiunque adulando spudoratamente; che anzi si comporterà in ambedue i casi in modo da non discostarsi dall’onestà o dall’utilità, purché non sia, tuttavia, priva di onestà. E ciò che le prostitute osano osservare nel loro vergognoso mestiere, non dovrà osservarlo in una operazione estremamente onesta e utile quell’uomo che si sia proposto di essere in ogni circostanza gradito e di voler perseguire per tutta la vita e nella consuetudine con gli altri una via di mezzo, sia nell’elogiare, sia nel compiacere, sia nel tenersi lontano da ciò che sembra poco degno di lode, o nel riprovarlo serbando modo e misura? Infatti, sebbene il suo intento sia quello di essere soprattutto gradevole e anche utile, non tenga conto tuttavia qualche volta di una piccola e piuttosto lieve offesa che possa discostarsi da una semplice ammonizione, pur di essere molto utile. – Ora – dice un personaggio di Plauto – credo, cara sorella, che ti parrà di essere ben vestita. Ma quando si farà il paragone con le altre cortigiane, allora a te verrà un colpo, se per caso ne vedrai una meglio agghindata.88

6. Non esitò ad offendere un pochettino la sorella, pur di darle un grande aiuto sul modo di curare il suo abbigliamento, per farla eccellere fra le altre che facevano lo stesso mestiere. Noi stessi conosciamo un uomo moderato e attento a conseguire questa giusta via di mezzo, il quale, quando era introdotto un discorso nel quale diffidava di poter conservare la moderazione, impercettibilmente si ritirava dalla conversazione adducendo una qualche valida scusa. Ma poiché quest’uomo non 1071

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genus hominum, quod ita sit a natura usuque institutus, quippe cuius studium sit gratificandi notis ignotisque, summis atque infimis, meminisse eum oportet aliam cum cive, aliam cum hospite aut peregrino rationem a se sequendam esse, cum amico quam cum ignoto, cum ignobili quam cum eo qui sit honesto loco natus educatusque maxime liberaliter. Qua in re delectum eum adhibebit, ut cuique quantum sat est tribuat, seu in gratiam loquatur ac commendationem seu, dum commonefaciendo prosit, in molestiam ut incurrat aliquam, quanquam studium eius illud est praecipuum, gratiam ut verbis ineat, offendat vero in conversando neminem; atque ut in illud maximum omnino studium confert adiungitque operam, ita ab altero praecipue cavebit, quantum tamen honestas simul utilitasque dictabit. Qua quidem ratione ab utroque, et assentatore et contentioso, mutuabitur sibi quantum satis est, atque ut oportet et decet; quaeque parum decuerint neque honesta erunt minimeque conducibilia, ea pro loco ac tempore repudiabit. Et res tamen et locus ac tempus ipsum, non nunquam etiam persona, illud exigent, ut peregrino quam civi, plebeio quam nobili, plusculum sit aliquid tribuendum. Cavendum tamen ubique ne, dum in gratiam alterius loqui volumus, alterum in iram atque odium provocemus.

XXVI VIRTUTEM EAM NON ESSE AMICITIAM SED ALIAM QUAMPIAM SINE NOMINE. 1. Virtutem vero hanc non esse amicitiam, quamvis sit ei non parum similis, illud docet, quod amici officium est in amicum, quodque mutuus inter amicos est amor, mutuum etiam studium, mutua utilitatum collatio expetitioque gratificandi, quodque amicus est alter ergo, ut omnes consentiunt. At hic ipse, quem suo sine nomine esse dicimus, non movetur in peregrinum advenam, summum vel infimum civem, notum igno-

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disprezza alcuna categoria di persone, dal momento che egli è disposto per natura e consuetudine in tal modo che il suo compito precipuo sia quello di compiacere a persone note e ignote, a quelle di alto e di basso rango, è opportuno ricordare che deve seguire un genere di comportamento con il concittadino, un altro col forestiero e con lo straniero, uno con la persona di basso rango sociale e un altro con chi è di nobile casata ed è stato educato con la massima larghezza. In tale circostanza adotterà una discrezione tale, da assegnare ad ognuno quanto basti, sia che parli per compiacere e per lodare, sia che, pur di giovare ammonendo, incorra in qualche espressione spiacevole, sebbene il suo intento precipuo sia quello di entrare nelle grazie con le proprie parole e non offendere nessuno durante la conversazione; e come dà tutto il suo impegno e tutte le sue forze per questo scopo, così si guarderà in modo particolare dal fare l’opposto, nella misura richiesta, tuttavia, dall’onestà e dalla utilità. Per questo egli attingerà al comportamento dell’adulatore e del rissoso quanto a lui basta e, nella misura in cui è necessario e conveniente; e quelle cose che poco converranno e non risulteranno oneste e scarsamente vantaggiose, egli le respingerà a seconda del luogo e della circostanza. E tuttavia l’opportunità, il luogo e la circostanza, e qualche volta anche la persona, esigeranno che si conceda al forestiero un pochettino di più che al concittadino, al plebeo più che al nobile. E dobbiamo pure guardarci dal suscitare l’ira e l’odio in una persona, mentre vogliamo, parlando, ingraziarcene un’altra.

XXVI QUESTA VIRTÙ NON È L’AMICIZIA, MA UN’ALTRA CHE NON HA NOME. 1. Che questa virtù di certo non sia l’amicizia, sebbene le sia un poco simile, lo testimoniano il fatto che la dimostrazione d’affetto di un amico si rivolge all’amico e che l’amore tra amici è reciproco, reciproca anche la simpatia, reciproca l’offerta di aiuto e il desiderio di fare un piacere, e il fatto, infine, che l’amico è un altro te stesso, secondo una comune opinione. Ma il tipo d’uomo al quale diciamo che manca un nome specifico non si rivolge verso un forestiero, verso un cittadino illustre o di bassa condizione, verso una persona nota o sconosciuta, in virtù di un 1073

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tum ve, benevolentiae atque amoris mutuique ipsius gratia, sed naturali quadam commotione, quodque ita suapte natura institutus sit eumque se se ipse, assuescendo comparaverit, ut qui gratus esse omnibus velit, molestus vero nulli aut impudenter contentioseque adversari; quin ut assentari minime vult recusatque altercari ac rixas serere, sic media inter utrumque officia inter omnes exercere nititur, humanitatis praecipue memor generisque hominum studiosus eorumque societatis et insiti a natura officii. 2. Quo fit, idem bonus ut sit vir, civis probus, homo hominis amicus, gratus ac iucundus et simul cunctis publice et privatim singulis, molestus vero nemini; quique in conversationibus vitaque sociabili eum se se geret, ut lenibus pariter gratus sit ac severis, iucundis aeque ac tristibus, mansuetis item ac duriusculis; praestabitque adversum singulos id quod Horatius praecipit: Sed pater ut gnatis, sic nos debemus amicis, Si quod inest, vicium non fastidire: strabonem Appellat poetum blandus pater.

XXVII QUAE AD HABITUM HUNC INNOMINATUM PERTINEANT. 1. Omnino igitur huiusmodi habitu qui est praeditus, ita loquetur in gratiam, ut in impudentiam aliquam nullo modo incidat aut parum modestam commendationem ac laudem. Quod si quandoque deflectendum sit a linea, illud servabit quod ii, qui rapida ac maiora tranant flumina, in obliquum trahi se tantisper ut sinant, dum ea ratione ad alteram ferantur ripam, cum velle adversum ire contentius sit non modo diffìcile, verum etiam temerarium longeque periculosissimum. 2. De quo idem illud iure dici poterit, quod de Empedocle ridet Horatius; rursusque ita aliquando adversus contendet eaque modestia et lenitate aut refragabitur aut parum aliquid probabit, ut exemplo illorum, qui dirigere virgulam aut flagellum incurvum volunt, et sensim et molliter retorquendo dirigere illud studeant, ne, maiorem dum afferre vim volunt, flagellum ipsum frangant. Quid enim imprudentius quam, dum studes bene facere, id agas, ut obsis? Adversatio enim immodesta 1074

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reciproco rapporto di benevolenza e di amore, ma di una, direi quasi, affettuosità. 2. Ne consegue che debba essere un uomo virtuoso, un cittadino onesto, una persona amica del prossimo, gradito e ben accetto a tutti in pubblico e in privato, e non sgradevole ad alcuno; e tale che in conversazione e in società si comporti in modo da essere ugualmente gradito alle persone dolci e a quelle severe, a quelle gioviali e a quelle tristi, a quelle miti e a quelle durette; e debba mostrarsi verso ognuno come insegna Orazio: Ma come il padre coi figli, dobbiamo noi far con gli amici, se c’è qualche difetto, non dobbiam disgustarcene, strabico il caro padre lo chiama, se è guercio.89

XXVII CARATTERI DI UNA QUALITÀ NON ANCORA DENOMINATA. 1. Chi ha acquisito una tale qualità, saprà usare le parole per rendersi gradevole, a tal punto da non incorrere assolutamente in alcuna sfrontatezza o in elogi e in lodi che pecchino per misura. Che se talvolta dovrà allontanarsi dalla giusta linea, bisognerà che si attenga all’accorgimento che usano coloro che attraversano fiumi impetuosi e in piena, e si lasciano condurre obliquamente per quel tanto che basta per essere così trasportati sull’altra sponda, giacché il voler andare contro corrente con troppa audacia è non solo difficile, ma anche temerario e oltremodo rischioso. 2. Su questo punto si potrà dire giustamente ciò che dice ridendo Orazio di Empedocle;90 talvolta invece contrasterà e opporrà resistenza oppure non approverà qualcosa con quella tale moderazione e dolcezza, seguendo l’esempio di coloro che vogliono raddrizzare un virgulto o un ramo ricurvo e cercano di renderlo diritto torcendolo a poco a poco e gradatamente, per evitare che, a voler usare una forza eccessiva, si spezzi. Che cosa può esserci, infatti, di più insensato, che agire in modo da produrre danno, cercando di far bene? Infatti l’opposizione sfrenata e poco accorta genera ora uno sdegno e una indignazione nascosta, ora

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et parum prudens iram nunc occultam parit atque indignationem, nunc manifestum odium, saepe etiam repentinum excitat impetum; id quod incivilis et parum experti est hominis: quod quantopere sit evitandum Antisthenis factum docet. Illud itaque praecipue Iuvenalis attendendum est dictum: Venit et crispi iucunda senectus, Cuius erant mores qualis facundia, mite Ingenium: maria ac terras populosque regenti Quis comes utilior, si clade et peste sub illa Saevitiam damnare et honestum ferre liceret Consilium? Sed quid violentius aure tyranni, Cum quo de pluviis aut aestibus aut nimboso Vere locuturi fatum pendebat amici? Ille igitur nunquam direxit brachia contra Torrentem.

3. Itaque hic ipse Crispus, maximus et civis et senator, in ipso adversandi atque in gratiam loquendi genere sic quidem continuit, ut a rapiditate fluminis illius trahi se in obliquum pro re ac tempore permiserit, quod servans saevissimi monstri rabiem; etsi difficulter, praeteriit tamen. Sed desinamus iam in hac ipsa mediocritate indaganda huberiores velle videri aut acutiores, cum, et in gratificando et in obsequendo aut commonefaciendo ac tum modeste adversando tum obsequendo pudenter, satis illud fuerit, delectus si adhibeatur, de quo abunde admodum dictum est. Vides iam quae mediocritas haec ipsa sit et qualis; quodque apud Graecos est ignominis, ut minus mirum videri possit, si sua apud Latinos appellatione careat, quando qui de iis Latine scripserit, perscrutando ea et quae ac quales virtutes ipsae sint, indagando Aristoteleo praesertim more, aut nullus in hunc usque diem extitit aut eius scripta ad nostra haec tempera param pervenere.

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una chiara avversione, spesso suscita anche un inaspettato furore; e questo è proprio dell’uomo rozzo e poco civile: e quanto questo difetto sia da evitare lo dimostra la storia di Antistene.91 Pertanto è particolarmente necessario prestare attenzione a quanto dice Giovenale: Ed anche di quel Crispo arrivò la gioconda vecchiaia, ch’ebbe i costumi pari alla facondia, ancor mite l’indole: a chi reggeva i mari, le terre e le genti, quale miglior compagno, se sotto tal peste o flagello lecito fosse stato scacciar la ferocia e un onesto consiglio addurre? Ma chi più fiero di un simil tiranno all’orecchio fu mai, con cui, quando pure un amico parlasse di piogge e di caldo e di nembi primaverili, gli sovrastava la morte? Ei dunque non spinse mai i remi contro corrente.92

3. E questo stesso Crispo, autorevole cittadino e senatore, anche nello stile dell’opposizione e dell’ossequio eloquente si contenne in modo da lasciarsi condurre obliquamente secondo la circostanza e il momento, poiché controllando la rabbia di quel crudelissimo mostro, sia pure con difficoltà, poté comunque sfuggire. Ma in questa indagine sul giusto mezzo dobbiamo evitare di apparire troppo prolissi o troppo sottili dal momento che nel ringraziare, nel compiacere, nell’ammonire e nel fare opposizione pacatamente e nel rendere ossequio con garbo, sarà sufficiente fare uso di quella discrezione di cui si è parlato abbastanza. Vedi ormai quale sia questo giusto mezzo e quali siano le sue caratteristiche, e come presso i Greci sia privo di nome, tanto da non poter sembrare strano se presso i Latini manchi di una sua denominazione, dal momento che non è ancora esistito chi ne abbia, fino ad oggi, trattato in lingua latina, indagando tali problemi e affrontando l’indagine sulle virtù e la loro essenza, soprattutto con il metodo aristotelico; oppure i suoi scritti non sono giunti affatto ai nostri giorni.

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XXVIII DE COMITATE. 1. Coeterum recte inquirenti ac perscrutanti acutius, quae virtutis huius partes sint ac munera, apparebit fortasse eam esse comitatem, de qua non pauca haud multo ante dicta sunt a nobis, quando comitas ipsa communis est ad omnes, non ad paucos: ad exteros ignotosque, non tantum ad cives et cognitos ac familiares, neque modo ad aequales atque eiusdem ordinis, verum ad ignobiles atque in excelso gradu constitutos; versaturque in verbis ac collocutionibus, studetque oblectare atque in gratiam loqui, minimeque molestiam afferre, neque ab honesto recedit atque utili. 2. Livius quoque, alios ut praeteream scriptores, satis aperte pluribus in locis nobis ostendit comem virum suavem esse in consuetudinibus ac familiaritatibus et facilem admodum ac lenem dantemque operam ut, quibuscum familiaritatem exercet atque consuetudinem, gratiam sibi eorum sic conciliet, ut tanquam influat in ipsorum animos. Itaque videamus, obsecro, quid hic ipse Livius de Marco Valerio Corvino loquatur: Non alius militi familiarior dux fuit omnia inter infimos militum haud gravate munia obeundo. In ludo praeterea militari, cum velocitatis viriumque aequales certamina ineunt, comiter facilis; vincere aut vinci vultu eodem nec quenquam aspernari parem qui se offerret.

3. Agnosce facilitatem eius ad cedendum minimeque esse contentiosum vultum insuper qui indicio esse potest, quibus etiam uteretur verbis, ad haec et communitatem tantam illam quidem, ut dux ipse militem non aspernaretur quenquam concertatorem in iaculando, equitando, in cursu se exercendo. Praeterea consideremus eiusdem etiam auctoris verba de Lucio Papirio Cursore: «Sensit peritus dux quae res victoriae obstaret: severitatem miscendam comitate». Atqui proprium est et comis et eius, cuius appellationem quaerimus, reiicere a se austeritatem, retinere lenitudinem, et obsequi potius quam repugnare, et cedere magis quam

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XXVIII L’AFFABILE CORTESIA. 1. E se uno indaga rettamente ed osserva in profondità gli elementi e le funzioni di questa virtù, gli risulterà chiaro come essa consista nella cortesia, della quale qualcosa abbiamo detto non molto avanti,93 dato che la cortesia si adopera comunemente verso tutti e non verso un numero ristretto di persone: verso gli estranei e quelli che non si conoscono, non solo verso i concittadini, i conoscenti e i familiari, né soltanto verso coloro della stessa età e della stessa categoria sociale, ma verso i più umili e coloro che occupano i più alti livelli della società; e si manifesta nei discorsi e nei colloqui, cerca di riuscire piacevole e di manifestarsi in modo da compiacere, da non offendere minimamente; e non si allontana mai né dall’onesto né dall’utile. 2. Anche Livio, per non parlare di altri scrittori, si mostra abbastanza chiaramente in molti passi come l’uomo cortese sia caro nelle relazioni e nei rapporti di amicizia e si comporti tanto affabilmente da meritare la simpatia di coloro di cui gode l’amicizia e la familiarità, e giunge quasi ad insinuarsi nel loro animo. Difatti osserviamo, di grazia, cosa dice proprio Livio di Marco Valerio Corvino: Nessun comandante ebbe mai maggior dimestichezza con i propri soldati, sostenendo con gli infimi e senza difficoltà tutte le fatiche. Inoltre, nelle esercitazioni militari, quando fra coetanei si gareggia nella corsa o nella lotta, era cortese ed affabile; vincitore o vinto, con il medesimo atteggiamento, nessun disprezzo per qualsiasi avversario si presentasse.94

3. Osserva la sua disponibilità così priva di acredine, e osserva il volto, che ne può ben essere un segno, osserva le parole che usava, ed inoltre la sua socievolezza così grande che, pur essendo un comandante, non rifiutava alcun soldato come competitore nello scagliare giavellotti, nel cavalcare e nell’esercitarsi a correre. Consideriamo inoltre le parole dello stesso autore su Lucio Papirio Cursore: «L’accorto comandante intuì quale impedimento si opponesse alla vittoria: capì che doveva attenuare la severità con un po’ di cortesia».95 Ed è proprio dell’uomo cortese e di colui che stiamo cercando di definire, rinunciare alla severità, conservare la mitezza, compiacere piuttosto che contrastare ed essere remissivo 1079

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in contentionem prorumpere aut iurgia. Animadvertamus quoque quae et de Volumnio idem dicit: «Volumnium provinciae haud poenituit, multa secunda prelia fecit, aliquot urbes hostium vi cepit, praedae erat largitor et benignitatem per se gratam comitate adiuvabat». 4. Hoc illud est, quod paulo ante retulimus, verbis honorem addere, quo videlicet maiorem inde gratiam sibi a militibus compararet: quod quidem virtutis est huius proprium quaerere. Sed nec illud negligamus, quod de Quinto Fabio tradit: inita illum cum Samnitibus pugna, vocasse ad se Maximum filium et Marcum Valerium tribunos, nominatimque utrumque pari comitate nunc laudibus nunc promissis honerasse. Quid magis consentiens ad gratiam ineundam, quod mediocritas haec nostra quaeritat? Nam et de Marco Marcello, ut diximus, refert accitum ad se Bancium Nolanum benigne appellasse. Cuius enim virtutis, nisi huius, benignae sunt appellationes? Militaria ei facinora retulisse, quae a civibus ob invidiam sibi minime indicata erant. Quid accomodatius ineundam ad benevolentiam? Non posse tamen obscura esse, quae romanis in castris fortiter gererentur, adiisse illum et multa et gravia pericula pro dignitate populi romani. Cannensi in pugna non ante abstitisse prelio quam prope exanguem, ruina oppressum superincidentium virorum, equorum, armorum. Et honesta et gravia allectamenta ad demerendam gratiam, ad contrahendam benevolentiam ex commemoratione rerum strenue gestarum. Postque assurgentem illum Bancii fortitudini rebusque ab eo egregie gestis «macte virtute esto» cum dixisset, hortatum refert, secum inde ut esset frequentius: futurum ei apud se omnem honorem atque omne pretium cum dignitate atque emolumento. Credendum est his dictis et vultum et totius corporis gestum convenientem accessisse. Nam cum primis gestus gratiam sibi conciliat et, quod ingeniosissimus poeta inquit, Super omnia vultus Accessere boni.

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piuttosto che aggredire o litigare. Consideriamo ciò che lo stesso Livio dice di Volumnio: «Volumnio non ebbe a rammaricarsi della provincia; combatté con esito positivo parecchie volte, prese di forza alcune città nemiche. Largo dispensatore della preda, univa alla generosità, di per se stessa ben accetta, la cortesia».96 4. Questa di cui ora abbiamo parlato è quella accortezza che consiste nel rendere onore con le parole per attirarsi una maggiore simpatia da parte dei soldati: cercare questo è compito proprio di questa virtù. Non dobbiamo trascurare neppure quello che Livio dice di Quinto Fabio: iniziata la battaglia con i Sanniti, egli chiamò a sé il figlio Massimo e i tribuni Marco e Valerio e, chiamandoli per nome tutti e due li colmò, con pari cortesia, di lodi e di promesse.97 Per entrare nelle grazie di qualcuno, che cosa può esserci di più adatto, se non ciò che richiede questo giusto mezzo di cui parliamo? E di Marco Marcello Livio riferisce che dopo aver chiamato a sé Bancio di Nola gli si rivolse con benignità.98 A quale virtù, se non a questa, appartiene il rivolgersi a qualcuno con fare benigno? Gli riferì le imprese militari che dai cittadini per invidia gli erano state taciute. Che cosa può esserci di più idoneo per accattivarsi la benevolenza? Gli disse che non potevano tuttavia passare inosservati gli atti di valore che venivano compiuti nell’accampamento romano; che egli aveva affrontato molti e gravi pericoli per l’onore del popolo romano. Nella battaglia di Canne non aveva cessato di combattere se non quando era quasi dissanguato, oppresso dal disastro degli uomini, dei cavalli e delle difese che cadevano. Sono belli e dignitosi i mezzi che si possono usare per guadagnarsi il favore, per ottenere la benevolenza ricordando le imprese eroiche. E dopo aver detto «sia gloria al tuo valore» esaltando l’eroismo di Bancio e le nobili azioni da lui compiute, riferisce che lo esortò ad essere in seguito più frequentemente vicino a lui: egli avrebbe potuto avere, stando insieme a lui, ogni onore e ricompensa con dignità e profitto. Bisogna credere che a queste parole si aggiungessero l’espressione del volto ed una adeguata mimica di tutta la persona. Infatti in primo luogo il gesto procura simpatia e, afferma un ingegnosissimo poeta, soprattutto del volto si aggiunse l’atto benigno.99

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5. Quocirca haec ipsa omnia cum ad comitatem Livius referat cumque propria sint mediocritatis huius, de qua tam multa diximus, quis dubitet comitatem eam appellare, cum ex omni parte comitas ea complectatur ac sibi vendicet quae mediocritatis huius propria esse dicimus, quando et in gratiam loquitur et commendat et laudat et hortatur et mulcet et monet et amice consulit omniaque cum delectu, neque ab honestate recedit, neque utilitatis eius obliviscitur quicum orationem habet et cuius inire studet gratiam, idque hac solum ratione ac via? Eadem quoque, ut est summe facilis, benigna, lepida, accomodans se se omnibus et civibus et exteris, sic omni studio cavet ne offendat, ne molesta sit, ne in contentionem incidat, altercationes, iurgia: tantum denique in gratiam intenta et in eorum tum iucunditatem tum commoda, cum quibus ipsa versatur; non ita tamen ut refugiat molestiam aliquando subire sive aurium sive animi, pudenter tamen ac permodeste, dum prosit, dum, quod impetrare ipsa nititur, retrahat ab inhonesto ac parum utili aut etiam damnoso maleque tum dignitati tum rei domesticae conducenti. Itaque et moderanter et accommodate apud Plautum agit cum domino servus: Numquid tu, quod te aut genere indignum sit tuo facis aut inceptas facinus facere, Phedrome? Num tu pudicae cuipiam insidias locas aut quam pudicam esse oporteat? Ita tuum conferto amorem semper, si sapis, ne id quod amas, populus si sciat, sit probro; semper curato ne sis intestabilis: quod amas, ama testibus praesentibus. Nemo ire quenquam publica prohibet via.

6. Quid? quod et comitatis et mediocritatis huius materia et quidam quasi campus, in quo versentur, eadem ipsa est atque una: collocutiones videlicet, appellationes, congressiones, sermones, consuetudines, conversationes, salutationes, visitationes, confabulationes conventionesque in coenis, in nuptiis, in ludis, in rebus tum iocosis tum ad vires refocil-

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5. Di conseguenza, poiché Livio riferisce tutti questi concetti alla cortesia e poiché essi appartengono a questo giusto mezzo, di cui abbiamo parlato così a lungo, chi può esitare a definire cortesia questa virtù, se è vero che la cortesia comprende in tutto e per tutto quelle caratteristiche e rivendica a sé ciò che diciamo essere proprio di questo giusto mezzo, dal momento che riguarda il parlare piacevolmente, elogiare, lodare, esortare, blandire, ammonire e consigliare amichevolmente, e tutto con discrezione senza discostarsi dall’onestà, né perdere di vista l’utile di colui con il quale si parla ed al quale si cerca di riuscire simpatici, e farlo in questa sola maniera? Inoltre se da una parte è estremamente accessibile, benigna, garbata, adatta a tutti i concittadini e agli stranieri, dall’altra usa ogni cautela per non offendere, per non nuocere, per non incorrere nei contrasti, negli alterchi, nelle risse: essa è insomma protesa solo verso la piacevolezza e verso la gioia ed il piacere di coloro con cui si è in rapporto; non senza evitare comunque di incorrere talvolta in offese rivolte alle orecchie o al cuore, tuttavia con riserbo e molta moderazione, pur di giovare, pur di distogliere (e questo si sforza di raggiungere) da ciò che è disonesto e poco utile o anche dannoso e controproducente per il decoro e l’interesse privato. Pertanto, con moderazione e con molto garbo in Plauto un servo si rivolge al padrone: E che fai, forse incominci a compiere qualche azione indegna di te o della tua condizione sociale, Fedromo? Vorresti insidiare una donna per bene o che deve essere onesta? Se hai accortezza, amerai sempre in modo che non ti procuri vergogna l’oggetto del tuo amore, se diventa di pubblico [dominio; cercherai sempre di non essere un eunuco: quando ami, ama senza rimetterci i testicoli. Nessuno impedisce ad alcuno di camminare sulla pubblica strada.100

6. Dunque? La materia della cortesia e di questa giusta misura, ed in un certo senso l’area in cui queste si applicano, è una e sempre la stessa: quella dei colloqui, delle apostrofi, degli incontri, dei discorsi, delle relazioni di amicizia, delle conversazioni, dei saluti, delle visite di cortesia, delle chiacchierate e degli incontri a cena, delle feste nuziali, dei 1083

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landas ac repellenda taedia. Sed maluerint fortasse aliqui mediocritatem hanc innominatam iacere; nos vero nequaquam ii sumus qui, cum contentionem ac rixationem vicium esse censeamus, velimus hac praesertim in parte contentiosi videri atque altercatores: satisque fuerit virtutem hanc ipsam, etiam innominatam, quae et qualis sit, ostendisse.

XXIX DE POPULARITATE. 1. Illud vero praetereundum non est, popularitatem vocari hanc ipsam mediocritatem quosdam malle, quando popularitas comitatem quandam erga populares facilitatemque praesefert, ut videatur virtus esse illorum potius, qui in alto sunt gradu constituti quique adversum inferiores se se faciles admodum gerant exhibeantque affabiles; quam fuisse in Augusto principe traditum est. Sed ea fortasse non minus perspicitur in actionibus, favore, suffragiis quam in oratione ac verbis, quanquam et popularitas comitate condienda est. Ad haec popularitas studium habet populi ac multitudinis multique ob eam populares dicti ac factiosi habiti, ut videri possit adversari eidem contrarium erga nobilitatem studium: quod in Appio Claudio fuit, ut de Mario taceamus ac Sylla contrariisque utriusque studiis. Habet praeterea popularitas applicationem illam suam erga populum popularesque atque illorum res tantummodo. At comitas, delectu adhibito, eadem quoque est adversus exteros atque alieni generis homines, et natura et habitu et ratione ita dictante.

XXX DE HUMANITATE. 1. Nec desunt qui humanitatem eam dici malint. Verum nec humanitas adversatur contentionis ac rixarum studio, nec qui humanus est contentioso ac rixatori est adversus; est tamen comis vir etiam perhuma-

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giochi sportivi, delle occasioni in cui si scherza per ritemprare le forze e per scacciare la noia. Ma forse alcuni preferirebbero che questo giusto mezzo restasse senza nome; noi però, dal momento che condanniamo il contrasto e la rissa, non vogliamo assolutamente apparire litigiosi e polemici, specialmente in questa trattazione: basterà mostrare qual sia questa virtù, sia pure priva di un nome, e quali siano i suoi caratteri.

XXIX LA POPOLARITÀ. 1. Non si può non accennare al fatto che questo giusto mezzo alcuni preferiscono definirlo popolarità, poiché la popolarità comporta una certa cortesia e disponibilità verso gli umili, tanto che essa sembra la virtù specifica di chi occupa posti di rilievo nella società e di chi verso i più umili si comporta e si dimostra alla mano ed accessibile; si dice che avesse questa dote l’imperatore Augusto. Ma forse essa si percepisce nelle azioni, nel favore, nei suffragi non meno che nel discorso e nelle parole, per quanto anche la popolarità debba essere accompagnata dalla cortesia. Inoltre la popolarità contiene in sé l’amore verso il popolo e la folla, e molti, in conseguenza di questa virtù, furono chiamati populisti e ritenuti faziosi, tanto che può sembrare che ad essa si opponga la tendenza contraria a cercare l’appoggio della nobiltà: ebbe questa tendenza Appio Claudio, per tacere di Mario e Silla e delle loro opposte passioni politiche. Inoltre la popolarità esercita la sua azione esclusivamente sul popolo, sui plebei e sui loro interessi. Invece la cortesia, agendo con discrezione, è sempre identica anche con gli stranieri e con coloro che appartengono ad un diverso gruppo sociale, poiché così richiedono il carattere, l’educazione, il giudizio.

XXX L’UMANITÀ. 1. Non mancano di quelli che preferiscono definirla umanità. Ma né l’umanità contrasta con la tendenza agli scontri e alle risse, né chi è umano rappresenta l’opposto del litigioso e del rissoso; tuttavia un 1085

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nus, etsi non pauci humani quidem ipsi sunt, nequaquam tamen comes. Nemo tamen comis, quin idem ipse sit humanus. Agit comiter familiaris meus Antonius Galateus, dum, quod ingenium est eius quique etiam habitus, quoscumque habet obviam, gratificari iis studet salutando perhumane, appellando benigne, congrediendo hilariter, iocando urbane, arridendo familiariter, offerendo grate operam suam et facilem et minime importunam. Quo fit ut, quemadmodum maximam in congressu affert iucunditatem ac delinimentum, sic post digressum maximum quoque relinquat sui desiderium delinitionemque animi quandam cum requiete ac voluptate: quod suaves praestare sorbillationes consuevere, uti os ac buccam, quod hodie dicunt, suavem relinquant, satietate omni prorsus repulsa et epularum et coenae. 2. Exhibet se quacumque in actione ac vitae genere humanum Ioannes Pardus, quod et philosophiae studium, quod in eo summum est, exigit et natura eius exposcit; nihil superbe agit, nihil arroganter; in incessu, in sermone, in consuetudine aequalem se cunctis exhibet; aegre fert ubi in quempiam agi viderit insolentius, fert gravate et amicorum et civium adversos casus; solatur moerentes, laborantibus qua potest succurrit, adest, opitulatur, operam suam confert; astat ubique comes ei mansuetudo ac facilitas, studium tamen loquendi in gratiam vix ullum; nulla obsequendi, quemadmodum nec contendendi, proclivitas; oratio eius suavis et placida, quae tamen nullum prae se ferat studium ineundae gratiae propriique compendii; abstinet autem sic a gratiloquentia, ut maledicentiam prorsus detestetur ac contentiones. 3. Quocirca a comitate non uno modo differt humanitas. Etenim, qui aliorum moveatur damnis, incommodis, captivitate, orbitate, inopia, exilio malisque aliis, humanum hunc dicimus, nequaquam in hoc tamen comem. Itaque aliud est comis viri officium, aliud humani. Inest tamen utrique quaedam quasi communitas vivendi quacumque in actione ac negocio, sive eam facilitatem vocare volumus sive tractabilitatem. Non desunt tamen qui, quam comitatem ipsi vocari non iniuria fortasse dicimus, civilitatem eam appellari malint, quod virtus ea sit maxime hone-

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uomo cortese è profondamente umano, mentre non pochi sono sì umani ma non cortesi. Nessuno però è cortese senza essere anche umano. Si comporta cortesemente il mio amico Antonio Galateo quando, secondo il proprio carattere e comportamento, cerca di rendersi gradito a tutti quelli che incontra, salutandoli cordialmente, rivolgendo loro la parola amichevolmente, trattenendosi con loro in modo gaio, scherzando con garbo, sorridendo familiarmente, offrendo il proprio aiuto volentieri, senza farsi pregare e senza riuscire noioso.101 Ne consegue che, quando lo s’incontra, si avverte un senso di gioia e di conforto, e dopo che si è allontanato rimane di lui anche un grandissimo desiderio oltre ad un ricordo misto di serenità e di piacere: sono soliti produrre lo stesso effetto certi squisiti sorbetti, che lasciano un senso di dolcezza sulle labbra, e in quella che oggi si chiama la bocca, eliminando del tutto il senso di sazietà procurato da un banchetto o da una cena. 2. Umano si dimostra in ogni azione e momento della vita Giovanni Pardo, poiché lo richiede lo studio della fi losofia che in lui è grandissimo, e lo esige la sua stessa indole.102 Non agisce mai con superbia, né arroganza; nel camminare, nel parlare, nei rapporti con gli altri si mostra alla pari con tutti; si rammarica se vede che qualcuno viene trattato con insolenza, si addolora per le avversità degli amici e dei concittadini; consola gli afflitti, soccorre come può quelli che soffrono, li aiuta, li sostiene, offre la propria collaborazione; sempre sono inscindibili in lui la mitezza e l’affabilità, ma gli manca quasi del tutto la tendenza a parlare per compiacere; egli è privo di qualsiasi inclinazione all’ossequio e parimenti alla contesa; la sua eloquenza è gradevole e pacata, ma tale da non mostrare minimamente l’intenzione che egli voglia guadagnarsi la simpatia degli ascoltatori o cercare un proprio tornaconto; l’eloquenza interessata gli ripugna, fino a odiare la maldicenza e le contese. 3. Perciò l’umanità differisce per varie ragioni dalla cortesia. Difatti definiamo umano ma non cortese chi non resta insensibile alle sciagure degli altri, ai loro disagi, alla prigionia, alla perdita delle persone care, alla miseria, all’esilio e ad altri mali. Il comportamento di chi è cortese è diverso da quello di chi è umano. Tutti e due hanno comunque una sorta di comportamento comune in ogni atto e occupazione, sia che vogliamo chiamarla affabilità, sia trattabilità.103 Non mancano poi quelli che preferiscono chiamare civiltà quella che noi forse non a torto chiamiamo cortesia, poiché tale virtù è degna soprattutto di un cittadino onesto; e seb1087

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sto cive digna; ac tametsi adversum peregrinos exterosque ius extendat suum, tamen ducere potiore a re appellationem volunt. Qua ratione, qui eam assecuti sint, civiles et ii dicantur. Quorum opinioni minime quidem adversaremur, si civiles ipsi non minus in actionibus rebusque versarentur aliis, quae civiles et dicuntur et habentur, quam in verbis congressionibusque atque in gratiam conserendo sermones suos. Igitur cum et qui et quales adulatores sint atque assentatores abunde explicaverimus, qui item contentiosi ac rixatores, mediusque inter utrosque habitus qui sit et qualis ostenderimus, ad veraces transeamus et ad eam verborum partem, quae aut veritatis studiosa est unius, aut contra mendacii, de qua in sequenti libro disseremus.

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bene estenda il suo dominio verso forestieri e stranieri, vogliono tuttavia che tragga il suo nome dal suo significato più vero.104 Per questo quelli che la conseguono debbono essere chiamati anch’essi «civili». Non ci opporremmo alla loro opinione, se tali persone civili si dedicassero alle altre azioni e faccende, che sono dette e ritenute civili, non meno che alle parole, alle conversazioni ed alla composizione dei discorsi finalizzati al conseguimento della simpatia. Poiché abbiamo spiegato esaurientemente chi sono e quali caratteristiche abbiano gli adulatori ed i lusingatori, ed anche i litigiosi e gli attaccabrighe, e poiché abbiamo mostrato il modello di comportamento intermedio tra questi due tipi, passiamo a parlare delle persone che si esprimono con sincerità e di quella categoria di parole che verte sulla sola verità o, al contrario, sulla menzogna, di cui tratteremo nel libro seguente.

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LIBER SECUNDUS

I DE OSTENTATIONE ET SIMULATIONE. 1. Veritati autem huic, quae in sermone versatur civilique in consuetudine atque in hominum vita, illinc adversa obsistit fronte ostentatio, nequaquam ex aequo seque resque suas metiens, cum aut affingat sibi maiora quam quae re ipsa sint et quam ingenium ferat ac facultates, aut falsa omnino de se praedicet aliaque quam sint eaque praeclara admodum magisque ac magis narratu atque honoratu digna: vicium sane levissimorum hominum seque ipsos decipientium idque etiam conantium, ut alii quoque decipiantur. Quid enim est aliud simulare quam sub veritatis specie velle decipere? Hinc vero adversatur dissimulatio; utque illa supra verum et loquitur et se se effert, sic huius est studium aut dissimulare quae insunt aut deiicere ea infraque verum elevare ac deprimere.Itaque ut veritati mendacium, sic mendax adversatur veraci veracitatique mendacitas. Sed verax unus ipse quidem dumtaxat est et simplex, mendax vero duplex. Nam e numero mendacium alii, ut dictum est, ostentatores sunt ac simulatores, alii dissimulatores; de quibus post.

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LIBRO SECONDO

I OSTENTAZIONE E SIMULAZIONE. 1. Alla sincerità usata nella conversazione, nel rapporto civile e nella vita, da una parte si oppone l’ostentazione, la quale consiste nel non misurare con equità se stessi e le proprie cose, o figurandosi cose maggiori di quel che siano nella realtà e di quanto le capacità naturali dell’ingegno possano produrre, oppure vantando di sé cose assolutamente false e diverse da quelle che sono, straordinarie e ben più degne di essere narrate e celebrate: difetto di uomini veramente molto leggeri, che ingannano se stessi e che tentano di fare in modo che vengano ingannati anche gli altri. Che cos’altro è simulare se non voler ingannare sotto l’apparenza della verità? Dall’altra parte si oppone la dissimulazione; e come la prima parla e si esalta al di là del vero, così l’intenzione della seconda è quella di nascondere la realtà o abbassarla o sminuirla e deprimerla al di sotto del vero. Pertanto come alla verità si oppone la menzogna, così il menzognero si oppone al verace e la mendacia alla sincerità. Ma l’uomo verace è solamente uno e semplice, mentre il mendace è doppio. Infatti nel novero dei mendaci alcuni, come si è detto, sono ostentatori, altri dissimulatori; di questi parleremo dopo.

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II DE VERACIBUS. 1. Nunc de veracibus, quos nihil refert si veros aliquando vocaverimus, tametsi verax ab habitu ac consuetudine suoque ab instituto veritatem profitetur eamque ubique sequitur estque moribus ac sermone, hoc est factis dictisque ita constitutus, cum tamen verus dici quis possit ex aliquo dicto sententiaque qui tamen mentiri plerumque sit solitus.In actione igitur omni vitaque universa cum laudetur veritas, vituperetur mendacium, efficitur, ut veracitas virtus sit, mendacitas vero vicium, siquidem improbatur vicium, commendatur e contrario virtus. Nec vero veritatis studium inesse cuiquam potest absque summa etiam probitate, perinde ut nec sine improbitate mendacitas. Igitur qui veraces, iidem et viri et cives probi sunt; ex adverso mendaces improbi.Saneque non maximis tantum aut mediocribus in actionibus inque minus gravibus sive sermonibus sive congressionibus ac sive seriis sive iocosis in rebus veracitatis elucescit studium ac vis, verum etiam in minimis quibusque, ut veritatis studiosi et tanquam professores de minutissimis quibusque ac maxime levibus non aliter sint soliciti quam pudicissimae matronae de honestatis ac pudicitiae fama, nec de continentia tantum pudorisque commendatione deque motibus ac verbis singulis, verum etiam de levissima oculorum inflexione deque incessu, qui forte mollior iudicari posset, aut de manuum agitationibus atque oris habitu liberiore. 2. Et vero alia ratione nequaquam praestare illud poterit ut, quod Aristoteles dicit, et vita et sermone verax sit, quod necesse est, assuetudo praestet habitusque ita comparatus, ut veritas ipsa, et ubicumque opus est et quocumque in sermone minimaque quaque in actione, oculis semper obversetur eius; neque aliud aut studiosius meditetur aut potius esse censeat magisque perpetuum aut constitutum habeat quam nullo pacto veritatis e via deflectere deque veri delabi curriculo. Sequitur igitur veritatis studium virtus ea, quae suo nomine est veridicentia, et qui ea utuntur veridici, unde et qui vera vaticinantur, sive vates sive harioli,

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II LA GENTE SINCERA. 1. Ora parliamo degli uomini che sono sinceri, che non importa se talvolta chiameremo veritieri, sebbene chi è sincero dica la verità per abito e consuetudine e per un suo principio, la osserva in ogni caso ed è nei costumi e nella conversazione, cioè nei fatti e nei detti, conformato a questo modo, mentre veritiero non può dirsi per una parola o un pensiero chi per lo più ha l’abitudine di mentire. Poiché dunque in ogni azione della vita viene lodata la verità, mentre è biasimata la menzogna, ne deriva che la sincerità sia una virtù, mentre la mendacità un vizio, se è vero che il vizio è riprovato, e al contrario è esaltata la virtù. Ma il desiderio della verità non può risiedere in qualcuno senza che egli abbia anche un’eccellente onestà, così come non può esserci mendacia senza disonestà. Ordunque coloro che sono sinceri sono anche uomini e cittadini onesti; all’opposto i mendaci sono disonesti. E certamente non soltanto nelle più importanti azioni o in quelle modeste e nei discorsi o negli incontri meno gravi e nelle occasioni o serie o scherzose brilla la predilezione e la forza della sincerità, ma anche nelle più piccole, così che coloro i quali amano e per così dire professano la verità si preoccupano delle cose più minute e delle più insignificanti, non diversamente da come le signore pudicissime si preoccupano dell’onestà e della fama di pudicizia, e non solo di osservare la continenza e custodire il pudore, di ogni movimento e di ogni parola, ma anche del più leggero movimento degli occhi e dell’andatura, che potrebbe forse essere giudicata troppo frivola, ovvero della gesticolazione, e dell’espressione troppo sfacciata del volto. 2. Altrimenti non potrà avvenire, come dice Aristotele, che si sia sinceri nella vita e nella conversazione;105 poiché è necessario che la consuetudine e l’abito così acquisito facciano in modo che la verità, dovunque si richieda ed in qualunque discorso ed in qualunque azione, la più piccola, sia sempre presente davanti agli occhi dell’uomo che voglia esser sincero, ed egli non pensi con maggiore impegno o non ritenga che sia preferibile e non consideri più stabile e solida altra cosa se non il non allontanarsi in nessun modo dalla via della verità, e il non scantonare mai dal cammino del vero. Segue, dunque, all’amore della verità, quella virtù che è chiamata propriamente veridicentia, e coloro che la praticano, «veridici», per cui coloro che vaticinano il vero, i vati o gli indovini, sono chiamati 1093

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dicti sunt veridici pariter ac veriloqui. Quanquam autem in iis, quae supra sunt a nobis dicta, satis praefati sumus hac nos in parte hocque in tractatu minime loqui ea de veritate, quae in inquirendis versatur rerum ac naturae causis aut de iure iniuriaque ac sive forensibus in negociis sive physicis mathematicisque inquisitionibus, tamen id ipsum iterum testatum volumus. 3. Itaque illiusmodi quidem vero falsum opponi dicimus, huic autem mendacium potius. Qui enim sua in opinione fallitur ac sententia, non statim ipse mendax est, aut id agit ut decipiat; et qui mentiendi studio tantum peccat, vanus magisquam fallax est aut deceptor. Sequitur praeterea veridicentiam benedicentia, cum sit probi viri benedicere sitque veridicus et ipse maxime probus ac bonus et vir et civis. Nec profecto, si detrahendum aliquando flagitio fuerit, verax ipse parcet veritati; ita tamen ut ne maledicendi aut detrahendi studio id agere videatur, verum ut honestas vigeat in civitate ipsaque simul libertas, commune civium omnium bonum, proculque repellatur flagitium atque improbitas. Contra vero mentientium hominum comes esse consuevit maledicentia, quando mendaces existunt plerumque maledici pariter ac nugatores. Nanque ut lucrentur, ut vanitatem patefaciant suam, necesse est perperam multa ut dicant et fingant atque, ut comici inquiunt, garrulose deblatterent; quorum sunt e numero nebulones, nugigeruli, blatterones, veteratores et id genus vanissimorum hominum ac maxime servilium. 4. Veri igitur ipsius studiosus et tanquam professor, in vita omni et in actione quacumque ac sermone, qualis est veritas, talem ipse personam assumet, quippe qui etiam in iis, in quibus forte nihil referret, ne vel tantulum quidem e via deflexerit, nedum ut a linea digrediatur veri; maioribus in rebus ac negociis quin tenorem ubique suum servabit rectaque ad metam proficiscetur, ut qui mendacium, nugas veterationesque ubique fugiat detesteturque perinde ut rem maxime turpem summeque indignam recto et bono viro. Etenim prima veracium cura est recti atque honesti. Itaque et a turpitudine, quae honestati adversatur, et ab insinuatione atque obliquitate, quae a rectitudine est aliena, abhorreat necesse est.Quando autem virtus omnis gratuita est ac per se expetitur veracitasque ipsa est cum primis etiam laudabilis ac percommoda et retinendae

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indifferentemente veridici e veriloqui.106 Sebbene poi nella trattazione che è stata da noi svolta precedentemente abbiamo sufficientemente premesso che in questo trattato non parliamo di quel vero che riguarda le cause forensi o le ricerche fisiche e matematiche, vogliamo tuttavia che ciò sia precisato di nuovo. 3. Diciamo pertanto che il falso si oppone a quel vero, la menzogna invece piuttosto a quest’ultimo.107 Chi infatti si sbaglia nella sua opinione e nel suo pensiero, non è senz’altro un mendace o lo fa con l’intenzione di ingannare; e chi pecca soltanto per il desiderio di mentire, è più un uomo vano che un fallace e un ingannatore. Inoltre la virtù del dir bene deriva dal dire la verità,108 poiché dir bene è proprio dell’uomo onesto e l’uomo veridico è uomo e cittadino estremamente onesto e buono. Né certamente, se talvolta dovrà denigrare un misfatto, l’uomo sincero trascurerà il vero; lo farà, tuttavia, in modo tale che non sembri ch’egli lo faccia per desiderio di dir male o di denigrare, ma perché l’onestà fiorisca nella città e con essa la libertà, bene comune di tutti i cittadini, e vengano respinte lontano l’ingiustizia e la disonestà. Al contrario compagna degli uomini menzogneri suole essere la maldicenza, dal momento che i mendaci sono per lo più maldicenti e chiacchieroni. Infatti per ottenere un vantaggio, e scoprire la loro vanità, è necessario che dicano e che inventino moltissime cose e, come dicono i comici, ciarlino mormorando; fra questi vi sono i fannulloni, i venditori di chiacchiere,109 i ciarloni, gli astuti e il genere di uomini estremamente vani e servili. 4. Chi ama e quasi professa il vero in tutta la vita, in ogni azione ed in ogni discorso, assumerà un atteggiamento tale quale richiede la verità, come chi non si sia allontanato nemmeno un pochino dalla via, nonché dal tracciato del vero anche in quelle cose nelle quali forse non importerebbe nulla far questo; anzi nelle circostanze e negli affari di maggior conto conserverà sempre il suo consueto comportamento, e si dirigerà per la retta via verso la meta, come chi fugga sempre la menzogna, le ciarle e le malignità e le detesti come la cosa più turpe e più indegna dell’uomo giusto e onesto. Pertanto dalla turpitudine che si oppone all’onestà, come dall’insinuazione e dalla ambiguità, che è aliena dalla rettitudine, deve necessariamente aborrire. Poiché poi ogni virtù è gratuita e viene ricercata per se stessa, e la stessa sincerità prima di ogni altra cosa è lodevole e assai utile alla conservazione e all’ampliamento della società umana, non c’è da meravigliarsi del fatto che i veraci siano 1095

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et amplificandae hominum societati, nimirum veraces ipsi propter solam veritatem veri sunt ipsius studiosi; eamque tum propter se ipsam colunt, tum quod vinculum eam humanae societatis vel maxime tenax esse intelligunt, ad quam colendam natos se esse sciunt. 5. Quia vero de veritate nunc illa loquimur, quae potissimum in sermone versatur atque oratione ac tum in laudando deque se atque de aliis praedicando tum in improbandis ac reprehendendis turpibus, veracis viri officium est vera et cognita de se nequaquam dissimulanter sed libere atque aperte, ubi opus fuerit, loqui nihilque supra quam suum est sibi aut arcessite affingere aut subductim detrahere; modeste tamen omnia. Evitabit insinuationes flexusque verborum, non detorquebit iter a linea, nihil simulanter dicet aut dissimulanter, aperte quidem cuncta sineque iniuria. Erit autem sermo eius nequaquam aut affectatus aut lubricus, neque rancescet ille quidem, neque spurcabitur prorsusque alienus erit a fuco, infractione, effoeminatione, mollitia; talis denique, qualem serenitatem esse nocturnam requirimus, in qua nihil turbidum, nihil ventosum, neque quod vel aestum afferat vel gelu; qualis profecto serenitas est verna, quae nullo modo cum offendat, quod suavissimum tamen est, rorem effundit ad omnem germinationem quam maxime utilem ac felicem. 6. Qui igitur talis erit, ut de se rebusque suis vera tantum et qualia sunt praedicet, nimirum idem hic non erit a se ipso alienus ac diversus in explicandis ac referendis aliorum rebus, quas ita referet atque explicabit in circulis, in conciliis, in coenis conventibusque, ut minime in gratiam loqui videatur atque inservire auribus, sed veritatis unius studio et causa. Ac, nescio etiam, quomodo videtur hic ipse veridicus, de se dum dicit, si quippiam sibi rebusque suis subduxerit, dum ne dissimulandi gratia, de modestia vel merito laudandus; quin, modo tamen modeste, si quid laudandis ac referendis aliorum rebus ornatus addiderit, ut virtutis laudatori, ut recte factorum commendatori videtur assurgendum: in quo naturam imitatur ipsam, quae ornatus quoque ac cultus nunquam videtur oblita. Namque ut in enarrandis suis, ubi fuerit parcior, dum ne id fiat cum dissimulatione, commendatur ut modestus, sic videndum est ne, si disserendis alienis fuerit constrictior, detur id invidentiae.

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amanti del vero per la sola verità; e non solo la coltivano per se stessa, ma anche perché comprendono che essa è il vincolo più tenace della società umana, a sostenere la quale sanno di essere nati. 5. Ma poiché ora noi trattiamo di quella verità che riguarda soprattutto la conversazione e il discorso, sia nel far le lodi e nel parlare pubblicamente di sé e degli altri, sia nel riprovare e riprendere i disonesti, il dovere dell’uomo verace è quello di dire ciò che è vero e ciò che conosce di sé assolutamente senza dissimulazione, ma liberamente e apertamente quando lo richiederà la circostanza, e di non arrogarsi meriti inventati o detrarseli al di là del giusto, tutto comunque con moderazione. Eviterà l’insinuazione e il giro di parole, non devierà dal tracciato, non dirà nulla con simulazione e con dissimulazione, e tutto dirà apertamente e senza offesa. Il suo discorso non sarà affettato o sciatto, non sarà sgradevole né squallido, e sarà assolutamente alieno dall’imbellettamento, dalla svenevolezza, dall’effeminatezza, dalla mollezza; tale infine, quale si richiede che sia la serenità di una notte, nella quale manchi ogni traccia di tempesta, di vento, o incomba un caldo eccessivo o il gelo; qual è certamente la serenità primaverile, che non arrecando alcun danno versa la rugiada, che è tuttavia la cosa più gradevole, estremamente utile e feconda ad ogni germoglio.110 6. Chi dunque sarà tale da dire di sé e delle sue cose soltanto la verità, quale essa è, non potrà essere ovviamente incoerente con se stesso nel raccontare e riferire le cose altrui, e le riferirà e le racconterà nei circoli, nei raduni, nelle cene e negli incontri in modo che non sembri assolutamente che egli parli per ottenere favore e che egli cerchi di compiacere, ma soltanto per l’amore e la causa della verità. Ma, non so come, sembra che l’uomo veridico debba lodarsi per la sua modestia e i suoi meriti quando parla di sé, se sottrae qualcosa a sé ed alle sue cose, purché non lo faccia con il fine di dissimulare; anzi, purché lo faccia modestamente, se nel lodare e riferire le cose altrui vi aggiunge dei fregi, sembra che si debba fargli onore per il fatto che è uno che loda la virtù, che sostiene le azioni oneste: nel far questo egli imita la stessa natura, la quale non sembra mai dimenticarsi dell’ornamento e dell’abbellimento. Infatti come nel raccontare le proprie cose, quando si dimostra piuttosto moderato, purché ciò non avvenga per dissimulazione, è stimato per il fatto di essere moderato, così bisogna badare a che non venga attribuito a malanimo, se nell’esporre le cose altrui si dimostri parsimonioso. 1097

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7. Optat Cicero, ut laudum expetentissimus, exornari res suas a Luceio, videlicet cupit illas amplificari adiungique iisdem ornatum ac nitorem. Quis accusaverit Ciceronem, si idem cupiat, quod natura nobis ipsa exemplo est, cupere ut debeamus? Tamen verecundius cum Luceio suo cumque rebus a se gestis egisset, si illum ita rogasset, ut historici officio fungi vellet naturaeque ipsius exemplum sequi illique inhaerere.Sanctus fuit vir Hieronymus et perbeatus ut Christianus et deo maxime carus, Rufinus tamen pati illum minime potuit, cum ut Ciceronianum male se habitum referret. Quis autem non vel magnam eloquentiae laudem Hieronymo etiam indulgentissime concesserit? Tamen a Ciceroniano dicendi genere, si ob hoc ipsum male fuit habitus, et a simplicitate illa attica Ciceronis amica tantum abest, ut oratio quidem Hieronymi appareat conquisitior nimioque elaborata studio, id quod non solum verba, verum etiam ductus ipse orationis praeseferat. 8. Quintus Fabius ille cunctator ex iis, quae apud Livium ei respondentur a Scipione, fuit fortasse nimius iis edisserendis, quae adversus opinionem transferendi ex Italia in Africam belli facere videbantur; itaque iudicatus a quibusdam ob invidentiam magisquam ob veritatem ipsam ea disseruisse: quod, ne iudicari de se possit, verax, omni studio vir cavebit. Alexander Augustus parce admodum ac breviter de rebus a se contra Parthos gestis in senatu retulit et, quamvis summam victoriae non dissimulanter expressisset, datum tamen est illi modestiae, quod diceret minime opus esse referendis illis magniloquentia. Non pepercit veritati Alexander hic, consuluit tamen modestiae imperatoriae. Caesar in terrore illo formidabili adventantium Germanorum forsan infra verum, minime tamen praeter tempus de hostium virtute locutus est, eam deprimendo apud milites, pluraque de legione decima sibi persuadere ostendit quam re ipsa sibi persuadebat. Nequaquam itaque aut se ipsum decepit aut milites, verum imperatoriae satisfecit prudentiae. Quo fit, ut veritas ipsa, quod pudicis etiam matronis concessum est, quod etiam sacerdotibus in publica laetitia sacrisque solennibus, patiatur aliquando sibi cultum adiici, decentem tamen, quamvis nequaquam perpetuum, sed pro tempore.

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7. Cicerone, estremamente desideroso di lodi, mostra il desiderio che le sue gesta vengano abbellite da Luceio, cioè desidera che vengano magnificate e che ad esse venga aggiunto ornamento e splendore.111 Chi potrebbe accusare Cicerone, se egli desidera una cosa, che la natura stessa ci è d’esempio a dover desiderare? Tuttavia si sarebbe comportato con maggiore discrezione con il suo Luceio e con le azioni da lui stesso compiute, se gli avesse chiesto di assolvere all’ufficio di storico, di seguire l’esempio della stessa natura e di aderirvi strettamente. Fu un sant’uomo Gerolamo, beatissimo nel senso cristiano e assai caro a Dio, eppure Rufino non poteva tollerarlo per il fatto che, come lui stesso dichiarava, si era comportato male per essere stato seguace di Cicerone.112 Ma chi non sarebbe così indulgente verso Girolamo da esaltarlo fino alle stelle per la sua eloquenza? Eppure dallo stile ciceroniano, se proprio per questa ragione fu mal considerato, e dalla semplicità attica, cara a Cicerone, tanto si allontana, che la prosa di Gerolamo appare piuttosto ricercata ed elaborata con eccessivo studio, come dimostrano non solo le parole, ma perfino la costruzione del discorso. 8. Quel Quinto Fabio il temporeggiatore, secondo la risposta che nel testo di Livio gli viene data da Scipione,113 fu forse eccessivo nell’esporre ciò che sembrava opportuno fare, contro l’opinione di trasferire la guerra dall’Italia in Africa; e perciò qualcuno ritenne che egli avesse parlato per amor di polemica più che per amor di verità: cosa dalla quale l’uomo sincero si dovrà guardare con ogni sforzo, perché non possa dirsi questo di lui. L’imperatore Alessandro espose in senato le gesta compiute da lui contro i Parti con molta modestia e brevità,114 e sebbene avesse parlato senza dissimulazione del risultato della vittoria, gli fu attribuito a modestia l’aver detto che non fosse assolutamente necessaria la magniloquenza per riferire quelle cose. Questo Alessandro non tralasciò la verità, e tuttavia provvide a conservare la moderazione di un generale. Cesare, di fronte a quel formidabile terrore per l’arrivo dei Germani, parlò forse del valore dei nemici al di sotto della verità, e tuttavia per nulla fuori tempo, minimizzandola presso i soldati, e mostrò di avere un’opinione della decima legione maggiore di quella che in effetti aveva.115 Pertanto non ingannò se stesso o i soldati, ma soddisfece alla prudenza di un generale. Perciò avviene che la verità, cosa che è concessa anche alle matrone pudiche, ai sacerdoti in occasione di una festa pubblica e nelle solennità sacre, permetta talora che le si aggiunga un ornamento, che sia però adeguato, per quanto non perpetuo, ma limitato nel tempo. 1099

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9. Omnino igitur veracis viri proprium est non simulate aut dissimulate de se ipso loqui, non obscure aut insinuanter minimeque oblique, verum aperte, palam, directe, liberaliter, quod etiam est magnanimi, nihilque, quod sibi non insit aut rebus suis, adiungere aut, quod ex parte desit, per simulationem affingere. Eritque oratio eius ut ab omni iactatione vacua, sic nullo pacto nimia quae ve satietatem audienti afferat; careat supercilio, sit tamen severa et gravis, atque ita tamen gravis, ut veritati ac gravitati suo loco sit adiuncta comitas; sit dispositio et ordo ipse compositus accommodataque explicatio. Nanque, ut sit ea sive arcessita sive fucata, nihil est quod tam veritatem ipsam inficiat; rerum denique amplificatio ita temperata, ut appareat cupere se extolli eam ab auditoribus magisquam ut ipse velit esse rerum suarum praedicator atque, ut hodie usurpant, praeco. Praecipue vero erit in dicendo brevis et candidus quique disposite atque ordinate prosequatur quae dicenda suscepit. 10. At in laudandis alienis, dum ne id fiat inserviendo auribus, magisquam ut veritatem sequatur eamque ut approbet; et maior erit atque huberior et oratio eius ornatior magisque magnifica et plena, quo et virtus operae accipiat suae pretium et coeteri incitentur exemplo. Summa tamen cura videndum erit ne, dum habenis utitur laxioribus, metam transiliat, quo vicio infecti sunt panegyricorum maxime scriptores, qui pleraque arcessita partimque non vera aut ficta afferunt, ut erubescendum etiam videatur sive lectoribus illorum sive auditoribus. Quando autem tenerrima quaedam res est veritas, eius ipsius professor illum in cunctis, quae ad eam explicandam spectaverint, modum retinebit, ut neque apud quosque neque quocunque aut loco aut tempore aut in circulo neque quoque in conventu, concilio, coetu neque iisdem ubique verbis aut vultu eodem putet sibi licere de ea habere sermonem aut eandem retinere rationem, cum aut locus aut tempus aut rerum status eiusmodi esse possit, ut tacere aut magis conducat aut contra obsit de se rebusque suis aut alienis loqui liberius oreque magis pleno, sitque non nunquam confugiendum ad exprobationem collatorum beneficiorum, minime tamen exprobrandi gratia, sed quod necessitas ita ferat: quod imperato-

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9. Dunque è proprio dell’uomo verace parlare di se stesso senza simulazione e dissimulazione, senza oscurità o insinuazioni116 ed in modo non ambiguo, ma aperto, chiaro, diretto, generoso, cosa che appartiene anche all’uomo magnanimo, e di non aggiungere nulla che egli e le sue cose non abbiano effettivamente, o di non inventare, attraverso la simulazione, nulla che in parte gli manchi. Ed il suo discorso, come sarà privo di ogni vanteria, così in nessun modo eccessivo o tale da recar noia a chi ascolta; sia privo di cipiglio, ma sia severo e grave, e tuttavia grave in modo tale, che alla verità ed alla gravità si aggiunga, al momento opportuno, la giovialità; che la disposizione e l’ordine siano convenienti e l’esposizione adeguata. E infatti, se la verità è ricercata e imbellettata non vi è nulla che possa macchiarla tanto; infine l’amplificazione sia temperata in modo che appaia che si desideri che essa venga esaltata dagli ascoltatori, piuttosto che si voglia far l’esaltatore e, come oggi si usa dire, banditore dei propri meriti. Ma specialmente sarà breve e limpido nel parlare, e tale da seguire con ordine preciso tutto ciò che si è assunto il compito di esporre. 10. Ma nel lodare le cose altrui, purché ciò non avvenga per adulare più che per seguire la verità e attestarla, potrà essere più largo e generoso, e il suo discorso più ornato, magnifico e grande, affinché la virtù riceva l’apprezzamento che merita, e gli altri vengano incitati dall’esempio. Con estrema cura tuttavia bisogna che badi a non oltrepassare il limite, mentre tiene un po’ sciolte le briglie, vizio cui sono soggetti soprattutto gli scrittori dei panegirici, i quali riferiscono per la maggior parte cose arzigogolate, in parte non vere o immaginate, in un modo che se ne debbano vergognare sia i lettori sia i loro ascoltatori. Poiché poi la verità è una delle cose più preziose, chi la professa serberà, per quel che riguarda la sua esposizione, una tale misura da non pensare che sia lecito a lui, presso ciascuno o in ogni luogo o in ogni tempo o in un circolo e in un incontro, in un consiglio, in un gruppo, parlarne sempre con le medesime parole e con il medesimo atteggiamento, o tenerne sempre la medesima considerazione, poiché o il luogo o il tempo o la situazione possono esser tali che convenga di più tacere o sia controproducente parlare di sé, delle proprie cose e delle cose altrui con troppa libertà e con troppa larghezza, e sia necessario, in qualche caso, limitarsi alla lode dei benefici dati, non tuttavia al fine di rimproverare, ma perché lo richiede la necessità: una norma che solitamente osservano i generali, quando o 1101

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res servare solent, dum aut fugam sistere volunt militum, aut minus eos obedientes seu parum promptos habent ad imperata facienda atque ad obeunda munia, aut dum decumare illos aut aliis suppliciis afficere aut ignominia volunt. 11. Quaeri potest hac in parte, an veraci huic sit permissum aut verum quandoque subticere aut aliquid, quod nequaquam ita se habeat, subsimulare atque effingere. Magna est vis temporis ac rerum, non minor personae ipsius, quam quis gerit. Fingunt nunc multa, nunc contra celant in adversis ac periculosis casibus sapientes tum rerum publicarum temperatores tum duces exercituum, multa peritissimi medici periculosissimis in morbis, non pauca sacerdotes quique praedicatores dicuntur, quo rebus adiungant auctoritatem; nec tamen illi ex eo aut mendaces habentur aut minus veridici, quando neque propositum eorum est aut mentiri aut fallere, verum et prodesse ea ratione et pericula avertere: quod omnino prudentium est hominum munus atque officium. Nesciam tamen, quomodo perpetuitas illa veritatis retinendae maximum in mentibus atque in voluntatibus ipsis hominum locum obtinet in omni actione et causa. 12. Tribuit hoc nobis Innocentius Octavus Pontifex Maximus in componenda dissensione inter ipsum et Ferdinandum regem Neapolitanorum. Nam commonefacientibus quibusdam eum cardinalibus cavendum esse, ne a Ferdinando, quod esset, ut ipsi volebant, parum firma fide, compositis post rebus, frustra haberetur: «At, inquit, neutique falsos nos habuerit Iovianus Pontanus quicum de concordia agitur; neque enim eum veritas destituet ac fides, qui ipse nunquam veritatem deseruerit aut fidem». Sed a nobis hac ipsa de re abunde, admodum disputatum est iis in libris, quos de obedientia scripsimus. Quam ob rem, his de veracitate veracibusque explicatis, hoc est de mediocritate ipsa, ad extrema quaeque contraria ei sunt dicunturque vicia transeamus.

III DE MENDACIBUS. 1. Adversatur igitur mediocritati huic, quam veracitatem appellare placuit, mendacitas, cuius et excessus existit quidam et defectus; atque

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vogliono frenare la fuga dei soldati, o li vedono poco obbedienti o poco pronti ad eseguire i comandi e ad affrontare i doveri, o quando vogliono decimarli117 o punirli con supplizi o con l’ignominia. 11. A questo punto si potrebbe chiedere se a quest’uomo sincero sia permesso tacere talvolta la verità o simulare118 un po’ ed inventare qualcosa che non stia proprio così. Grande è l’importanza del tempo e della circostanza, non minore quella del ruolo che ciascuno ha. Ora inventano molte cose, ora al contrario le celano nei casi sventurati e pericolosi gli uomini saggi, sia che dirigano la vita pubblica, sia che guidino gli eserciti, e molte cose inventano e celano medici espertissimi nelle più pericolose malattie, non poche i sacerdoti e coloro che si chiamano predicatori, per aggiungere autorità ai loro argomenti; e tuttavia non sono per questo ritenuti mendaci o poco veridici, dal momento che il loro proposito non è quello di mentire o ingannare, ma di giovare in quel modo e stornare i pericoli, che è il compito e il dovere proprio degli uomini prudenti. Non saprei tuttavia dire come la costanza nel serbare la verità tenga nella mente e nella volontà degli uomini un posto importantissimo in ogni azione ed in ogni circostanza. 12. Ci ha offerto questo esempio il Pontefice massimo Innocenzo VIII durante la composizione della lite fra lui e Ferdinando re di Napoli.119 Infatti, poiché alcuni cardinali gli facevano presente che bisognava guardarsi per evitare che, una volta stipulato l’accordo, venisse ingannato da Ferdinando, poiché era, come essi ritenevano, di poco salda fede: «Ma – disse – non vi considererà falsi Giovanni Pontano con il quale trattiamo la pace. La verità e la lealtà infatti non potranno abbandonare chi non ha mai abbandonato la verità e la lealtà». Ma abbiamo discusso abbondantemente di questo argomento in quei libri che abbiamo scritto sull’obbedienza.120 Per cui, fatta questa esposizione intorno alla sincerità e agli uomini sinceri, cioè al giusto mezzo, passiamo agli estremi che gli si oppongono e si chiamano vizi.

III I MENZOGNERI. 1. A questo giusto mezzo, che ci è piaciuto chiamare veracitas, sincerità, si oppone la mendacia, rispetto alla quale esiste un eccesso ed un 1103

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excessus quidem ipse suo nomine est ostentatio, quod iam diximus. Sunt tamen qui iactantiam malint, alii qui arrogantiam. Sed haec ipsa arrogantia magis versatur circa honorum nimiam munerumque civilium affectationem quam in veri dictione atque usu, quippe cum arrogantes, per vim praeterque quam suae ipsorum ita partes ferant, arrogent sibi supra merita ultraque natales suos atque actiones ac vitae genus; neque enim captus sui rationem habent. Itaque arrogantes ipsi quidem violenti sunt, qui vero sibi plus in dicendo de se suisque de rebus tribuunt atque assumunt quam quod re est vera atque ex merito assumendum: hi nequaquam violenti habendi aut impotentes, verum mendaces, vani, futiles, leves. Quocirca arrogantia accedit ad superbiam atque elationem, ostentatio ad vanitatem potius inanemque quandam rerum suarum sive persuasionem sive ascriptionem, quando verbum ipsum arrogo, unde arrogantia deducitur, violentiae quidem est atque elationis, ostentatio autem vanitatis atque inanis cuiusdam umbrae dictio, quasi videri sibi inesse velit quod nullo modo insit; et arrogans quidem hoc agit conaturque, ut re ipsa talis sit, qualis videri vult; ostentator vero, tantum ut videatur atque appareat.

IV DE IACTATORIBUS ET OSTENTATORIBUS. 1. Nam qui iactantiam excessum hunc potius dici atque esse volunt, in eo labuntur, quod, ostentatio cum plerunque vana sit, iactantia ipsa ad superbiam ubique est aut ad stoliditatem referenda; in levitate vero parum omnino differunt; et ostentatio quidem affingit sibi aut quae nulla prorsus e parte insunt aut maiora ea quam sint facit. At iactator etiam in iis, quae vera sunt, referendis atque extollendis est nimius peccatque in eo vehementer, quod nec modum servat nec mensuram nimisque fastidii et gestu et verbis, et contentione est immoderatior. 2. Quo in toto fere genere Aiax peccat apud Ovidium, quando et quae dicit vera illa ipsa sunt atque adeo quidem magna, ut magnificari affingendo eis aliquid nullo modo necesse esset, et singula quidem erant

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difetto; l’eccesso è, a volerla chiamare con il suo proprio nome, l’ostentazione. Vi è tuttavia chi preferirebbe chiamarla iattanza, altri che preferirebbero chiamarla arroganza. Ma questa arroganza riguarda piuttosto l’aspirazione eccessiva agli onori ed alle cariche civili, che non l’uso di dire il vero, per il fatto che gli arroganti con violenza e al di là di quel che comporti la propria condizione, si arrogano un vanto al di sopra dei loro meriti, al di là del livello sociale, delle azioni compiute e del genere di vita che fanno; non tengono conto infatti dei loro limiti. Pertanto gli arroganti sono dei violenti. Invece coloro che nel parlare di sé e delle proprie cose si attribuiscono e pretendono di più di quel che sia nella realtà e di quel che si debba pretendere in base ai meriti, non debbono considerarsi violenti o sfrenati, ma mendaci, vani, ciarlieri e leggeri. Perciò l’arroganza si applica alla superbia e all’ambizione, l’ostentazione piuttosto alla vanità e alla vacua opera di persuasione e di imposizione di ciò che loro appartiene, poiché la stessa parola «arrogare», donde si ricava «arroganza» è un modo di denominare la violenza e la superbia, mentre l’ostentazione è un modo di denominare la vanità e la vacuità di un’ombra, quasi uno voglia far vedere di avere quel che assolutamente non ha; e l’arrogante si sforza per essere nella realtà quale vuol sembrare, mentre l’ostentatore si sforza soltanto di sembrare e di apparire.

IV MILLANTATORI E OSTENTATORI. 1. Chi ritiene che questo eccesso121 sia piuttosto quello chiamato iattanza, cade nell’errore di pensare che mentre l’ostentazione è vana, la iattanza vada riferita comunque alla superbia ed alla stoltezza. La loro differenza invece è molto piccola per quel che riguarda la frivolezza; anche l’ostentazione s’immagina ciò che non esiste affatto o fa le cose maggiori di quel che sono, ma il millantatore si mostra eccessivo e si comporta molto male anche nel riferire ed esaltare ciò che è vero, perché non serba né modo né misura, mostra troppo disdegno con il gesto e con le parole ed è poco moderato nella contesa. 2. Nel complesso di questo genere è compreso il peccato di Aiace in Ovidio, poiché le gesta da lui narrate sono vere e talmente grandi che non sarebbe assolutamente necessario magnificarle aggiungendovi qual1105

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notissima Graecorum ducibus ac senatui; tamen quod insolentius ea ab ilio dicantur, quod nimis indignanter dictum videatur: Agimus, pro Iupiter, inquit, Ante rates causam et mecum confertur Ulysses,

quodque et ore et manibus et toto corpore, ut mos est indignantium, insolenter iactabatur, potest iactantiae iure ipso argui atque accusari, nequaquam tamen aut ostentationis aut fortasse arrogantiae. 3. Quo fit, ut iactator ipse nimius sit aut immoderatus, sive vera dicat sive parum vera atque arcessita, cum ostentator nequaquam sit ipse iactatu nimius, sed parum omnino dictis verus atque ex eo vanus magisquam aut superbus aut arrogator. Haec autem dicuntur a nobis non detrahendi recentioribus quibusdam scriptoribus, verum docendi studio, cum praesertim de veritate ipsa sit quaestio.

V PLURA ESSE MENDACIUM GENERA. 1. Mendaces igitur, cum eorum propositum sit mentiri, alii quidem honoris mentiuntur adipiscendi gratia, alii vero comparandae pecuniae. Sunt quibus mendacium ipsum pretium est ipsaque mentiendi voluptas perquam suavis est eorum fructus: quod genus maxime vanum iudicandum est. Videntur autem huiusmodi homines ab illo ipso, ad quod geniti a natura sunt, quam longissime discessisse, cum ad gravitatem geniti simus et ad constantiam ac firmitatem omnes nec, ut Cicero ait, quicquam sit turpius vanitate. Iure igitur vani appellati sunt, cum eorum cogitationes ac voluntates prorsus inanes sint fluxaque consilia, vicium vero ipsum vanitas, quando propositum ipsum futile est, leve, inane, vacuum: quae omnia vanitatem et quidem summam indicant. Quam autem ridicula haec ipsa sit vanitas, ea fingens quae nusquam sint, ea mentiens

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che invenzione, e ogni cosa era assai nota ai capi e al senato dei Greci; tuttavia, poiché vengono da lui esposte con una certa insolenza, poiché sembra si dica con troppo sdegno, trattiamo, oh Giove, – disse – l’affar davanti alle navi e Ulisse con me si confronta,122

e poiché si agitava eccessivamente con il volto, con le mani e con tutto il corpo, come fanno coloro che sono indignati, può giustamente esser tacciato e accusato di millanteria, non tuttavia di ostentazione o magari di arroganza. 3. Ne consegue che il millantatore è eccessivo e smodato, sia che dica cose vere, sia che dica cose poco vere e inventate, mentre l’ostentatore non è affatto eccessivo nel vantarsi, ma poco veritiero nelle parole e perciò vano più che superbo e arrogante.123 Ma diciamo queste cose non per riprovare alcuni scrittori moderni, ma per amore dell’insegnamento, specialmente perché la questione riguarda proprio la verità.

V LE NUMEROSE SPECIE DI MENZOGNERI. 1. Dei menzogneri, poiché il loro proposito è quello di mentire, alcuni mentono per ottenere una carica, altri per procacciarsi danaro. Vi sono alcuni per i quali la stessa menzogna costituisce la ricompensa e il piacere stesso di mentire rappresenta per loro il più gradevole profitto: di questo genere di persone va considerata soprattutto la vanità. Uomini di questa fatta, poi, sembra che siano i più lontani da quel fine per il quale sono stati generati dalla natura, poiché tutti siamo stati generati per la dignità, per la costanza e la fermezza, e non c’è nulla, come dice Cicerone, che sia più turpe della vanità.124 Giustamente dunque sono denominati vani, poiché i loro pensieri e i loro desideri sono del tutto vacui e le loro intenzioni incerte, il vizio poi si chiama vanità, poiché il loro proposito è futile, leggero, inutile, vacuo: tutte queste cose rivelano vanità, grandissima vanità. Quanto sia ridicola questa vanità, che finge ciò che proprio non esiste, che mentisce inventando cose che non po-

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quae fieri aut esse nequeant, Umber noster comicus docuit in milite ilio ostentante victorias suas: sexaginta hominum millia uno die evolaticorum manibus occidi meis

et, quo sermo eius vanior appareret, subdit: Viscum legioni dedi fundisque eos prosternebant, ut folia farfari. Quid multa? quos visco offenderant, tum crebri ad terram decidebant, quasi pira; ut quisque ceciderat, eum necabam, indita per cerebrum pinnula, sic quasi turturem.

Quid his evanidum magis? Quam igitur vani per se ipsi sint mendaces huiusmodi, quam ridiculi et contemptibiles, quis non videt? 2. Atque hac quidem ratione poetas omnis ridiculos ac despicabiles forte quis dixerit. Non esse autem despiciendos, verum admirandos potius illud docet, quod Aristoteles et Homeri et aliorum poetarum auctoritate in maximis quibusque rebus utitur et poetarum dieta pleraque habita sunt pro oraculis, cum mendaces ipsi atque ostentatores nugentur ac garriant magisquam fingant sitque fabula ipsa inventa non vanitatis gratia, verum ut arte ea homines vel deterrerentur a viciis, ut cum Lycaonem in lupum fingunt ob crudelitatem maxime efferatam conversum, vel incitarentur ad virtutes, cum Castorem, Pollucem, Herculem in coelum translatos decantitant. Aesopi fabula exemplum vitae esse potest illis praesertim, quos contigit obscuriore in loco aut nasci aut educari et vivere. At Homeri poema virtutem esse sanctissimus vir Basilius iudicat. Nihil enim poeta ille neglexit, quod tum heroicas tum civiles ad virtutes pertineat. 3. Quid porro ad pietatem, religionem, tolerantiam, fortitudinem, quid item ad declarandam rerum humanarum incostantiam fortunaeque varietatem, quod non Aeneae virgiliani res declarent? ut etiam illorum

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trebbero avvenire o essere, lo dimostra il nostro comico umbro, nella figura di quel soldato che ostenta le sue vittorie: In un giorno sessantamila uomini alati ho ucciso con le mie mani,125

e per far apparire più vano il suo discorso aggiunge: Ho dato alla legione il vischio e li stendevano con le fionde, come foglie di farfaro. Per farla breve, chi colpivano col vischio l’un dopo l’altro cadeva per terra, come una pera; come uno cadeva, lo uccidevo, trafittogli il cervello con una piccola penna, come fosse a una tortora.126

Che c’è di più fatuo di queste parole? Chi non vede, dunque, quanto siano vani in sé i menzogneri di tal fatta, quanto ridicoli e spregevoli? 2. E chi non chiamerebbe per queste ragioni i poeti tutti ridicoli e spregevoli? Ma che essi non vadano disprezzati, bensì ammirati, lo dimostra il fatto che Aristotele si serve dell’autorità di Omero e di altri poeti negli argomenti più importanti, e che i detti dei poeti furono nella maggior parte tenuti in conto di oracoli, mentre i mendaci e gli ostentatori chiacchierano e ciarlano più che immaginare, e la favola è stata inventata non per vanità, ma perché per opera di quell’arte gli uomini si allontanino dai vizi, come ad esempio quando i poeti rappresentano Licaone mutato in lupo per la sua efferatissima crudeltà,127 o perché siano spronati alle virtù, come quando i poeti ripetono nei loro canti che Castore, Polluce ed Ercole furono elevati al cielo. La favola di Esopo può rappresentare un esempio di vita, specialmente per coloro cui tocca o nascere o crescere e vivere in una condizione piuttosto modesta. Ma il santissimo Basilio ritiene che il poema di Omero rappresenti la virtù.128 Nulla infatti ha dimenticato quel poeta che si riferisca alle virtù eroiche e civili. 3. Inoltre che cosa c’è che possa rivelare la pietà, la religione, la sopportazione, la fortezza, e inoltre l’incostanza della vita umana e la varietà della fortuna, che non rivelino le azioni dell’Enea virgiliano? Sicché è possibile nella sua opera conoscere chiaramente, anche di coloro che 1109

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qui diem obiere, quae praemia sint cuique pro meritis constituta aut rursus poenae, liceat apud illum plane noscere. Et Horatius ait de Homero: Qui quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non, Plenius ac melius Chrysippo et Crantore dicit.

Itaque mendaces hi quidem inanes sunt ac vani, quando eorum finis ac propositum est vanitas et quidem moralis eaque apertissima vanitas; at poetae habiti sunt admirabiles divinique. Delectando enim et per blanditias in animos hominum influendo, conati sunt eos ad generosissima quaeque ab maxime foedis ferisque atque a belluarum oppido quam similibus moribus retrahere abducereque a silvis. 4. Quocirca ob hoc ipsum studium putatus est Orpheus silvas cantu traxisse post se animaliaque illas incolentia, et Amphion rupes ac saxa. Quid igitur inter fictiones intersit, publicae utilitatis atque humani generis instituendi gratia susceptas, et eas quae solam ob vanitatem, non modo vetustissimi poetae docent, verum etiam praedicatores huius nostri temporis, quibus familiare quidem est prudentissime excogitata quaedam et ficta in exemplum adducere. Verum de hac ipsa mendacitate satis. Quantum enim veritas ipsa laudatur estque in pretio, tanto est magis ridicula ostentandi vanitas fallaxque ementiendi studium.

VI QUID ARISTOTELES HAC DE RE SENTIAT. 1. Totum autem hoc genus, de quo suscepta nobis disputatio est, Aristoteles tradit in sermonibus versari atque in actionibus, ad haec, quod ostentatores simulanter affingant sibi quae ipsis nequaquam insint aut maiora quam re ipsa illa sint, etiam in fictionibus arcessitisque fucationibus. Hos ipsos autem homines ostentatores esse ait proprioque nomine ‘alazontas’, qui apud Plautum sunt gloriosi; at quos ‘irones’ vocat, eos aut inficiari aut dissimulare quae ipsis insint, aut ex iis sibi multum detrahere eaque, quae vera sunt, dissimulando minuere; horum vero medium

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son morti, da una parte i premi stabiliti a ciascuno in ragione dei meriti e dall’altra le pene. E Orazio parlando di Omero afferma: Egli che sia, o non sia, bello, utile, turpe più chiaramente e meglio di Crisippo e di Crantore dice.129

Perciò questi menzogneri sono vacui e vani, in quanto che loro fine e loro proposito sono la vanità, una vanità nel comportamento, anzi la più manifesta vanità. I poeti invece furono ritenuti mirabili e divini: dilettando infatti ed entrando negli animi degli uomini attraverso gli allettamenti, hanno cercato di strapparli dai più tristi e feroci costumi, tanto simili a quelli delle bestie, e a portarli fuori dalle selve verso le più nobili mete. 4. Perciò mosso da questo impegno si ritenne che Orfeo trascinasse con il canto dietro di sé le selve e gli animali che le abitavano, e che Anfione trascinasse le rupi ed i sassi. Quale differenza dunque ci sia fra le finzioni assunte per pubblica utilità e per istruire il genere umano e quelle che sono assunte solo per vanità, lo insegnano non solo i poeti più antichi, ma anche i predicatori contemporanei, ai quali è cosa familiare addurre come esempio cose escogitate ed immaginate con molta saggezza. Ma su questa mendacità può bastare. Quanto infatti è lodevole e pregevole la verità, tanto più è ridicola la vanità dell’ostentazione e la fallace predisposizione a mentire.

VI IL PENSIERO DI ARISTOTELE SU QUESTO ARGOMENTO. 1. Complessivamente, poi, il genere del quale abbiamo affrontato la trattazione riguarda secondo Aristotele la parola e l’azione, e inoltre, poiché gli ostentatori si creano per via di simulazione qualità che non hanno o se le creano maggiori di quel che siano in realtà, anche le finzioni e i trucchi ricercati. 130 Questi uomini, egli dice che sono ostentatori e li chiama con il nome appropriato di alazontes,131 e son quelli che in Plauto sono chiamati «vanagloriosi»,132 ma quelli che chiama irones, dice che non riconoscono o dissimulano le qualità che hanno oppure se le riducono di molto e, vere come sono, le sminuiscono per via di dissimulazione; 1111

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‘alitheuticon’, hoc est, et vita et sermone veracem esse, quaeque et quanta sibi insint profiteri illisque nihil aut fando demere aut adiicere rebus suis; atque haec quidem ipsa consuesse fieri aut nullius aut alicuius rei gratia. Esse autem unumquemque perinde ac sunt eius dicta factaque ac vita omnis, praeterquam si rei cuiuspiam dimoveatur gratia. Mendacium vero ipsum per se et turpe esse et opprobriosum, secus autem verum ipsum et honestum et laudabile. 2. Itaque veracem hominem, quod medium teneat, quasi aequipensatorem quendam merito laudari; contra mendaces utrosque, et qui ostentatores sint et qui ironici, vituperabiles, ostentatores tamen amplius. Esse igitur veracem qui et vita et sermone, hoc est factis dictisque, veritatem tueatur et colat talisque habitu existat ac consuetudine; exque eo probum illum virum esse utpote veritatis oppido quam studiosum etiam in minimis quibusque, atque hoc est magis in maximis iisdemque seriis rebus, quippe qui abhorreat a mendacio ducatque illud quidem per se ipsum fugiendum: quod etsi commendatione dignum est ac laude, tamen, quae veracis hominis modestia est, suapte eum natura propensiorem putat ad subducendum de veritate quippiam, cum superlationem omnem atque immoderantiam invidiosam existimet atque odio dignam. Ac de verace quidem haec ab illo traduntur. 3. E mendacibus vero qui, nullius rei gratia sed ob ipsam tantum mendacii voluptatem, maiora quam quae sunt sibi per simulationem rebusque affingant suis, pravum illum quidem suapte natura esse atque a probitate alienum, quae veracium hominum comes sit: ni enim ita esset, mendacio nequaquam gauderet; coeterum vanum potius videri quam malum. At qui, honoris gloriae ve ac famae gratia, ostentandis rebus suis iisque falso ac simulanter arcessendis, veri fines egrediatur adiiciatque supra quam res ipsae se se habeant, illum non ita quidem vituperatione dignum; at qui pecunia captus ementiatur, hunc procul dubio turpiorem. 4. Mendaces enim omnes ab electione existere atque ab habitu: et qui ostentatores ut vani mendacio laetentur, et qui honore et gloria capiantur velintque inter alios videri excellere, quique item pecuniis inhient reique domesticae compendiis utque sibi prosint ac suis. Consuesse autem ea

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e afferma che il giusto mezzo fra questi opposti è l’«alitheuticon»,133 cioè l’uomo verace nella vita e nella conversazione, il quale riconosce le sue qualità nella misura in cui le ha, e non vi toglie o vi aggiunge nulla con la parola; e soggiunge che si suol fare questo o senza alcuno scopo o per qualche scopo. Ciascuno d’altra parte è quel che sono le sue parole, le sue azioni e tutta la sua vita, tranne che non si muova per uno scopo particolare. Ma la menzogna è di per se stessa turpe e obbrobriosa, diversamente dalla verità che è onesta e lodevole. 2. Pertanto l’uomo verace, che tiene il giusto mezzo, viene giustamente lodato come uno che pesa con equità, mentre i menzogneri, tutte e due le specie, quella degli ostentatori e quella degli ironici, sono biasimevoli, ma gli ostentatori lo sono di più. È dunque sincero chi nella vita e nella conversazione, cioè nei fatti e nei detti serba e onora la verità, e sia tale per abito e consuetudine; dalla qual cosa deriva che è un uomo onesto perché amantissimo della verità anche nei minimi particolari, e perciò ancor più nelle cose molto importanti e serie, giacché aborre dalla menzogna e ritiene che essa debba essere evitata per se stessa. Ma anche se questo comportamento è degno di elogio e di lode, tuttavia Aristotele ritiene che, data la moderazione dell’uomo verace, questi sia persona per sua natura più propensa a detrarre qualcosa dalla verità ritenendo ogni iperbole ed ogni immodestia sgradita e odiosa. Questi sono i pensieri da lui tramandati sull’uomo verace. 3. Ma chi fra i mendaci s’inventa qualità maggiori di quelle che ha ed aggiunge alle proprie qualità cose inventate mediante la simulazione senza alcuno scopo, ma solo per il piacere di mentire, è a suo parere disonesto per natura ed alieno dall’onestà, la quale è compagna degli uomini veraci: se ciò non fosse non godrebbe della menzogna; altrimenti parrebbe un uomo vano piuttosto che immorale. Ma chi supera i limiti della verità ed esagera al di là di come le cose stanno realmente, per raggiungere onore, gloria o fama, ostentando le proprie cose e forzandole con falsità e simulazione, non lo considera così degno di biasimo; ma considera senza dubbio più turpe chi mente allettato dal denaro. 4. I mendaci tutti sono tali per scelta e per disposizione, sia gli ostentatori che vanamente si dilettano della menzogna, sia coloro che sono allettati dall’onore e dalla gloria e vogliono eccellere fra gli altri, sia coloro che aspirano al denaro, al proprio profitto per l’utilità propria e dei familiari. Sogliono poi attribuirsi, inventando, cose che ritengono possa1113

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sibi affingere, quae latere quidem posse eaque haud palam fieri arbitrentur, ut qui, cum e medicina aut divinatione aliquid modo attigerint, et medendi tamen et divinandi maximam se peritiam assecutos gloriantur profitenturque ea se tenere, quae sint earum artium abditissima, deque se ipsis magna cum ostentatione ac iactantia praedicant.

VII DE IRONICIS. 1. De ironicis vero ac dissimulatoribus haec sentit. Esse ex iis qui minora de se rebusque suis dicant, aut ea prorsus inficientur ac dissimulent, in quibus iidem ipsi praestent sintque ea praeclara ac magis magisque nobilitata, nullo modo tamen emolumenti causa aut pecuniae, verum ut insolentiam devitent ac tumorem: cuiusmodi fuisse Socratem refert. Esse item alios qui parva ac minuta quaedam, ea tamen plane cognita, dissimulent, dum minimis quibusdam e rebus, sive elevandis sive dissimulandis, laudem aucupantur; ex eo contemptibiles fieri esseque despiciendos. Quin etiam hanc ipsam interdum ‘ironiam’ ostentationem prorsus esse quandam iudicat, qualem fuisse Lacedaemoniorum vestitum dicit; etenim ut excedentem arrogationem, sic attenuationem nimiam ad ostentationem esse referendam. Itaque modeste qui utantur ironia in iis ipsis, quae manifesta sint atque in promptu, urbanos eos videri gratiamque quandam inter cives promereri, indeque iucundos esse atque admodum gratos. 2. Quod autem ostentatio ipsa turpior per se sit ac viro probo indignior, inde ostentatores; quique ea simulant, quae nullo modo insint, idque contendunt, ut inesse credi ea velint, atque ultra verum seque resque verbis magnificant atque extollunt suas quam qui ironici sunt suaque dissimulanter inficiantur aut ea deducunt, veracibus utique magis adversari. Atque haec quidem in hanc traduntur sententiam a peripateticae sectae constitutore. Nos vero, institutum nostrum secuti, in bis iisdem diffusius versabimur magisque aliquanto explorate. Et aliud esse simulare dicimus, aliud dissimulare. Simulamus enim quae nullo modo vera sunt, quaeque ipsi nec fecerimus nec dixerimus, quaeque nec serva-

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no rimaner nascoste e non venire alla luce, come ad esempio coloro che, avendo appreso qualcosa dalla medicina o dalla divinazione, si gloriano di avere conseguita una grandissima abilità nel medicare e nel divinare, dichiarano di possedere i segreti più nascosti di quelle arti e celebrano di sé grandi cose con ostentazione e iattanza.

VII L’IRONIA. 1. Sugli ironici ed i dissimulatori questo è il pensiero di Aristotele:134 vi sono di quelli che minimizzano quando parlano di sé e delle proprie cose, non le riconoscono affatto e le dissimulano in modo da eccellere in esse e farle risultare eccellenti ed ancor più illustri, e tuttavia non per ottenere vantaggi o danaro, ma per evitare l’eccesso della superbia: tale era Socrate, secondo lui. Vi sono altri che dissimulano alcuni piccoli meriti, di scarso valore e tuttavia ben noti, minimizzandoli e dissimulandoli pur di ottenere il riconoscimento per cose da nulla; di conseguenza Aristotele li reputa disprezzabili e spregevoli. Anzi pensa che talvolta questa stessa «ironia» è senz’altro un’ostentazione, come lo era il vestito dei Lacedemoni; infatti, come va riferita all’ostentazione l’attribuirsi meriti eccessivi, così ad essa va riferita l’eccessiva sottovalutazione. Pertanto coloro che usano l’ironia a proposito di quelle cose che sono manifeste e visibili a tutti, si rivelano urbani ed ottengono un certo consenso fra i cittadini. 2. Poiché l’ostentazione è di per se stessa più turpe e più indegna dell’uomo onesto, perciò gli ostentatori e coloro che simulano qualità che non hanno e si sforzano di far credere di averle, coloro che magnificano ed esaltano sé e le proprie cose al di là del vero, sono assolutamente all’opposto di chi dice il vero più di coloro che sono ironici e con dissimulazione non riconoscono i propri meriti o li sminuiscono. In questo senso svolge la sua trattazione il fondatore della scuola peripatetica. Ma noi, seguendo il nostro principio, ci dilungheremo maggiormente su questo argomento e in modo un poco più preciso. E affermiamo che una cosa è «simulare» e un’altra cosa è «dissimulare». Simuliamo infatti quelle cose che non sono assolutamente vere e che noi né abbiamo fatto né abbiamo detto e che non pensiamo nemmeno; al contrario dissimu1115

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re in animo habeamus; contra dissimulamus quae ipsa quidem dicta aut facta sint, perinde ac nec dicta fuerint nec facta, aut non quemadmodum quoque animo consilio ve aut fecerimus aut dixerimus. 3. Qua ratione Sallustius Catilinam cuiusque rei simulatorem esse dixit ac dissimulatorem, cum tamen et simulare et dissimulare non nunquam prudenti viro sit permissum, ut qui Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem.

Singula enim ad finem sunt ipsum referenda. Sed hac nos in parte de simulatione ac dissimulatione illa loquimur, quae mendacium respectat, utque ementiendo fallat recedatque a veritate profitenda. Itaque simulatores ostentatorum necessarii sunt atque affines, dissimulatores ironicorum: simulant nanque ostentatores, dissimulant ironici; alteri affingunt, ementiuntur, arcessunt, quae non sunt simulantes; alteri subtrahunt, minuunt, inficiantur, verum ipsum dissimulantes. Utcumque tamen se res habeat, diversum est utrisque consilium: illi enim quod quaerunt, ea id ratione assequi volunt, ut fingant et vultum et verba et consilia et res ipsas, non nunquam tristitiam, dolorem, lacrimas aut contra hilaritatem, laetitiam, voluptatem; hi quae vera sunt, ut aut omnino inficientur, aut plurimum illis demant.

VIII DE QUATUOR GENERIBUS OSTENTATORUM. 1. Triplex est igitur ostentatorum, ut dictum est, genus qui in simulationibus versantur: alii enim sunt quibus mendacium sit ipsum mentiendi auctoramentum, quo in vicio plane regnat vanitas; alii quibus ea e re proposita sit honoris famae ve consecutio, ostentant enim seque et sua, quo honores, magistratus, dignitates, sacerdotia assequantur, quod studium non vacat ambitione; sunt qui ampliandae rei familiari hac ratione dent operam, quod vicium ab avaritia ducit ortum. Sed nec verebimur quartum quoddam iis genus adiicere hominum illorum qui, cum dissentionibus gaudeant ac discordiis, partim affingendo veris falsa partim

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liamo quelle cose che sono state dette e fatte davvero, fingendo che non siano state né dette né fatte, o che non lo siano state con quell’intenzione con la quale o le abbiamo dette o le abbiamo fatte. 3. Perciò Sallustio disse che Catilina era simulatore e dissimulatore di ogni cosa,135 mentre tuttavia è permesso all’uomo saggio talora di simulare e dissimulare, come chi simula con il volto la speranza, soffoca nel cuore il dolore profondo.136

Ogni cosa va infatti riferita al suo fine. Ma in questa parte della trattazione noi parliamo di quella simulazione e dissimulazione che riguardano la menzogna e mirano ad ingannare mentendo e ad allontanarsi dall’enunciazione della verità. Pertanto i simulatori sono strettamente affini agli ostentatori, i dissimulatori agli ironici: infatti gli ostentatori simulano, gli ironici dissimulano; gli uni aggiungono, mentiscono, inventano simulando ciò che non è, gli altri detraggono, minimizzano, sminuiscono dissimulando la verità. Tuttavia, comunque stia la cosa, sono diverse le loro intenzioni: gli uni, infatti, per conseguire quel che cercano contraffanno il volto, le parole, le intenzioni e le circostanze stesse, talvolta la tristezza, il dolore, le lacrime o al contrario l’allegria, la letizia, il piacere; gli altri disconoscono del tutto quel che è vero, o lo minimizzano troppo.

VIII LE QUATTRO SPECIE DI OSTENTATORI. 1. Tre sono dunque, come si è detto, le specie di ostentatori che praticano la simulazione: vi sono alcuni per i quali il frutto del loro mentire consiste nella menzogna stessa, un vizio nel quale regna assolutamente la vanità; altri che da questo si ripromettono il conseguimento dell’onore o della fama, e infatti ostentano sé e le proprie cose per conseguire cariche politiche, magistrature, posti di rilievo e cariche sacerdotali, atteggiamento non privo di ambizione; vi sono alcuni che si adoperano in questo senso per ampliare il patrimonio, un vizio che trae origine dall’avidità. Ma non temeremo di aggiungere a queste un’altra specie di uomini, quella di coloro che, godendo di contrasti e discordie, in parte aggiungendo 1117

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subtrahendo ac nunc demendo nunc accumulando aut dicta factaque ipsa interpretando perperam, id agunt, ut cives inter se committant serantque odia atque inimicitias: qui morbus ad naturae pravitatem morumque perversitatem est omnino referendus. Quae enim civili in congregatione hominumque societate maior accidere pestis potest, quando, ad eam colendam cum instituti a natura simus, contra ad evertendam arte hac fingendique ac fallendi studiis innitimur? Hos commissores latino et suo verbo vocare possumus, viciumque ipsum commissionem. 2. Quin horum quidem e numero aliis propositum est hac via atque his artibus magnos se se ac potentes aliorum e contentionibus ac dissidiis facere, dum et miscent et interturbant omnia. Quod malum Romae latius se se diffudit Pompeii maxime ac Caesaris, item Antonii atque Octavii tempestatibus. Aliis vero nullum omnino propositum est ampliandae dignitatis locique in civitate maioris assequendi: tantum id curant, student, meditantur, contentiones ut exuscitent ac dissidia, perversitate quadam naturae ducti, quippe qui seditionibus tantum laetentur civiumque inquiete ac turbulentia.

IX DE SUSURRONIBUS. 1. His accedant, si placet, et susurrones, quibus etsi eadem haec voluptas est, nihilo tamen minus auribus quoque et ipsi inserviunt, quo aliquod inde emolumentum et coenas saltem et vultus bonos, ut dici solet, reportent: servile sane genus hoc hominum, nec depravatis modo, verum etiam sordentissimis moribus. Utque prioribus illis magna praeclaraque obversantur ante oculos, ita posterioribus his minuta quaedam ac sordida. Nec vero inficias ibimus et virtutes et vicia ita quidem misceri inter se atque contundi, ut quaedam nunc ad hoc nunc ad illud vicium, quaedam tum ad hanc tum ad illam referri virtutem possint. Nam et insimulatores et falsi accusatores, de quibus nihil est dictum, mendaces quidem ipsi sunt: mentiuntur enim; iidem tamen ipsi alia quidem ratione iniusti habendi sunt, alia vero invidentes atque avari, dum et nocere

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falsità a verità, in parte omettendo, e ora attenuando, ora esagerando o perfino interpretando falsamente detti e fatti, fanno in modo che i cittadini si litighino fra loro e seminino odi e zizzanie; questo è un morbo che deve essere assolutamente attribuito alla malvagità della natura ed alla perversità dei costumi. Quale calamità maggiore può succedere, infatti, nella comunità civile e nella società umana, se formati come siamo dalla natura per coltivarla, ci sforziamo invece per sovvertirla con quest’arte e con questa disposizione a fingere e ad ingannare? In latino, con un vocabolo appropriato, possiamo chiamare costoro commissores e il vizio possiamo chiamarlo commissio.137 2. Anzi nel novero di costoro alcuni hanno il proposito, in questo modo e con queste arti, di farsi grandi e potenti attraverso contese e discordie, sconvolgendo e turbando tutto. Questo male si diffuse molto largamente a Roma, specie al tempo di Pompeo e di Cesare, di Antonio e di Ottavio.138 Altri invece non hanno alcun proposito di sollevare la loro dignità e di conseguire nella città un posto maggiore: soltanto di questo si preoccupano, a questo fine si impegnano e tramano, per suscitare contese e discordie, trascinati da una certa perversità di natura, poiché si dilettano soltanto delle sedizioni, dell’agitazione e della turbolenza dei cittadini.

IX I MORMORATORI. 1. Si aggiungano a costoro, se si vuole, anche i mormoratori, i quali pur avendo questo medesimo piacere, non di meno cercano anch’essi di compiacere per ricavarne un vantaggio, almeno qualche cena e, come si suol dire, un buon viso: genere di uomini del tutto servili e dai costumi non solo depravati, ma anche vilissimi. E come gli occhi dei primi si rivolgono a cose grandi ed eccellenti, così gli occhi dei secondi a cose meschine e dappoco. Ma non negheremo che le virtù ed i vizi si mescolino e si confondono a tal punto che alcune azioni ora possono riferirsi ora a questo, ora a quel vizio, altre ora a questa, ora a quella virtù. Infatti anche i calunniatori e i falsi accusatori, dei quali non si è detto nulla, sono veramente dei menzogneri: e infatti mentono; tuttavia essi stessi per un verso devono considerarsi ingiusti, per un altro 1119

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aliis student, etiam quibus minime debeant, et illorum quieti ac divitiis invident; indeque conantur ipsi locupletiores fieri. 2. Nero ac Domitianus, Augusti, simulationes suas fictosque vultus ac verba composita ad crudelitatem plerunque convertere. Ferdinandus, Neapolitanorum rex, magnus et ipse fuit artifex et vultus componendi et orationis, in quem ipse usum vellet. Nam aetatis nostrae Pontifices Maximi fingendis vultibus ac verbis vel histriones ipsos anteveniunt. Ptolemaeus ille, qui postea in Nilo periit, a Caesare ita discessit, ut etiam lacrimaretur ostentans se desiderium absentis eius vix esse passurum; qui tamen, ubi ad exercitum atque ad suos transiit, bellum e vestigio multo acerrimum excitavit. Itaque non temere nostris a maioribus Alexandrini habiti sunt aptissimi atque in primis solertes ad simulandum atque fallendum.

X DE FUCATIS ET ILLECEBROSIS LENOCINATORIBUS. 1. Et quoniam hanc, ut diximus, partem diffusius prosequimur, ex hoc etiam sunt ordine qui fucata oratione utuntur, quos tamen videas non tam mentiri velle quam veritatem ipsam artificio quodam verborum aut obtegere aut illi ipsi loquendi artificio ornatum quasi quendam adiungere, sive ut vicium aliquod contegant sive ut fucum illinant veritati. Fucatae nanque orationis non una est ratio, et alii aliam ob causam fuco ipso utuntur orationis. Sunt enim ex iis qui lenocinentur ut illiciant, quod est lenonum, inducantque quos captant ad ea quae ipsi cupiant verborum lenociniis, hoc est oratione ficta et illecebrosa admodum. 2. Itaque eiusmodi homines illecebrosos dicimus magisquam fucatos, quamvis illecebrositas non careat fuco, quando omnem verborum compositionem, quae ex eo adhibetur quo aut verum occulat aut fictum quippiam vero adiiciat aut tanquam comat quod dicitur ac res et verba lenit, fucum dicimus. Nam et fuco puellae utuntur, quo aut formosae magis appareant aut ut, quod inest deformitatis, aut omnino

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malevoli ed avidi, desiderando essi di nuocere agli altri, anche a coloro cui assolutamente non dovrebbero, e cercando di danneggiare la loro tranquillità e le loro sostanze; e in questo modo si sforzano di diventare essi stessi più ricchi. 2. Gli imperatori Nerone e Domiziano rivolsero per lo più alla crudeltà le loro simulazioni, l’espressione finta del volto e le false parole. Ferdinando, re di Napoli, fu anch’egli un grande maestro nell’atteggiare il volto e il discorso al fine che egli voleva. Nei nostri tempi i Pontefici massimi nel fingere l’atteggiamento del volto e il tono delle parole superano perfino gli istrioni. Tolomeo, che in seguito morì nel Nilo,139 quando si allontanò da Cesare giunse fino a piangere, mostrando che non avrebbe potuto sopportare la sua mancanza; e poi, invece, quando tornò all’esercito e passò ai suoi, suscitò subito una guerra violentissima. Pertanto non senza ragione dai nostri antenati gli Alessandrini140 furono considerati molto abili e più di tutti pronti a simulare ed ingannare.

X ALLETTAMENTI E LUSINGHE DELLA SEDUZIONE.141 1. E poiché, come abbiamo detto, ci stiamo un po’ dilungando nella trattazione di questa parte, a questa categoria appartengono anche coloro che usano truccare il discorso; essi, tuttavia, ti accorgi che non tanto vogliono mentire, quanto coprire la verità con un certo artificio verbale o aggiungere a quello stesso artificio del discorso quasi un ornamento, sia per nascondere un difetto, sia per coprire con un abbellimento la verità. E infatti non c’è una sola maniera di truccare un discorso: lo fanno alcuni per una ragione e altri per un’altra. Vi è infatti tra loro chi alletta per adescare, cosa propria dei lenoni, e induce coloro che riesce a conquistare a far ciò che vuole con la seduzione delle parole, cioè con un discorso falso e tutto pieno di lusinghe. 2. Perciò gli uomini di questo genere si chiamano lusingatori piuttosto che truccati, sebbene la lusinga non sia priva di trucco, dal momento che chiamiamo trucco ogni composizione che adoperi un mezzo per occultare la verità o per aggiungere alla verità qualcosa di finto o cercar quasi di acconciarla,142 come si dice, in modo da rendere più gradevoli i pensieri e le parole. Infatti le fanciulle usano il belletto o per apparire più belle 1121

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tegant aut ex parte minuant. Itaque ut sermo horum illecebrosus, sic fucatus illorum. Quae vicia a simulatione proficiscuntur omnia atque a dissimulatione.

XI DE PRODITORIBUS. 1. Perniciosissimum autem simulatorum genus itemque dissimulatorum sunt proditores, quippe qui simul et simulant et dissimulant, tametsi neque simulatores habendi sunt aut dissimulatores magis quam supremum in modum infidi, iniusti, impii, immanes, truculenti; societatum, amicitiarum, rerum pubblicarum, populorum, regnorum omnisque probitatis, iuris item divini atque humani, eversores profligatoresque virtutum omnium: per quos nequaquam stat, quo minus humana consortio funditus tollatur atque intereat.

XII DE FALLACIBUS. 1. Hi tamen simul omnes fallacium comprehenduntur numero, quippe cum mendaces sint omnes. Nemo autem mendax, quin idem sit fallax, ac si non qui ob vanitatem mentiuntur, et hi se se ipsos praecipue fallant. Cum primis autem hoc ipso ex ordine accusandi sunt illi quidem qui, cum maxime, ut Cicero ait; fallunt, id tamen agunt, ut viri boni esse videantur. De quibus merito dicitur quod est apud Plautum: Lupus est homo homini, non homo.

Horum non modo ficti vultus verbaque, verum etiam vestitus, incessus, capitis ac cervicis tum demissio tum inflexio, oculorum deiectio in humum atque infixio, summum silentium, rarissima in publicum proditio. Iidem quaeritant solitudines, versantur in locis potissimum sacris, quin etiam oris colorem arte deformant. Nullum est autem vitae aut genus aut ordo, in quo vel non paucos eiusmodi invenias. E sacerdotibus

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o per nascondere del tutto o ridurre in parte un difetto che hanno. Così come il discorso di costoro è seducente, il discorso di quelli è imbellettato. Questi vizi nascono tutti dalla simulazione e dalla dissimulazione.

XI I TRADITORI. 1. Costituiscono il più dannoso genere di simulatori e di dissimulatori i traditori, poiché essi simulano e dissimulano insieme, sebbene non debbano essere considerati simulatori o dissimulatori più che estremamente infidi, ingiusti, empi, disumani, truculenti; eversori delle società, delle amicizie, degli stati, dei popoli, dei regni e di ogni onestà, e così del diritto divino ed umano, e dissipatori di ogni virtù: per causa loro la società umana non può non essere divelta dalle fondamenta ed andare in rovina.

XII GLI INGANNATORI. 1. Tutti costoro tuttavia sono compresi nel novero degli ingannatori, perché tutti sono menzogneri. Non c’è alcun menzognero che non sia anche ingannatore, come se coloro che mentono per vanità non fossero anche in particolare ingannatori di se stessi. Primi fra tutti in questa categoria devono essere bollati coloro che, soprattutto quando ingannano, come dice Cicerone, lo fanno in modo da sembrare uomini buoni.143 Di loro giustamente si dice quel che è scritto in Plauto: L’uomo è lupo, non uomo, per l’altro uomo.144

La loro finzione non si limita al volto e alle parole, ma comprende il vestire, l’andatura, l’abbassare e l’inchinare la testa ed il collo, il tenere abbassati e fissi gli occhi al suolo, il massimo silenzio, il rarissimo apparire in pubblico. Essi inoltre cercano i luoghi solitari, si aggirano preferibilmente in luoghi sacri, anzi deformano ad arte il colorito del volto. Non vi è poi genere o livello di vita, nel quale non potresti trovare 1123

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tamen illisque, quos hodie religiosos dicimus, plurimi hoc vitio infecti sunt; quo morbo affectos etiam philosophos insectatur Iuvenalis.

XIII DE HYPOCRITIS. 1. Quibus quidem omnibus Christiani, graecos secuti scriptores, fecere nomen hypocritis. Eorum autem omnium idem est propositum, ut quod ipsi minime sint, id habeantur atque appareant. E quibus alii in id intendunt, ut lucrentur victumque inde sibi huberiorem parent maioremque reverentiam utque habeantur in honore vendicentque sibi apud populum sanctitatis opinionem existimenturque deorum frui colloquiis ac praesentia. De quibus tamen parcius loquar, ne, dum vicium ac simulationem insector, velle videar religioni detrahere. Itaque huic parti finem facio, si rem tamen maxime ridiculam prius retulero. 2. Adolescentibus nobis, puer haud malae indolis a patre missus est literarium in ludum. Is, quo patri appareret literis deditior sensimque patrem diverteret ab incoepto, dum veretur, ne vehementiorem ob operam in aegritudinem filius ipse incideret, e fabae polline tenuissimum in modum contritae coepit mane sibi vultum afflatim inspergere, magna arte adhibita. Quod dum aliquot a fi lio continuatur diebus, animadvertit pater os eius subflavescere atque, illi metuens, an bene se, an satis valide haberet, sciscitatur; respondet ille et bene et valide; ac tum vehementius multo quam ante literis incumbit, multum noctu vigilat, matutinus e lecto surgit, totumque se se ad libros convertit ac nihilominus singulis diebus plusculum e polline in faciem insufflat atque non ita multo post languere se simulat. Quo cognito, pater vetuit illum ex eo ad grammaticum proficisci: malle enim filium sibi illiteratum vivere quam, ob causam literarum, in tenera eum aetate amittere. Quod puer igitur simulando effecit, an non efficiet et religiosus et senex, praesertim sub speciem bonitatis ac sanctimoniae? 3. Videas quosdam, cum nulla non parte corporis contaminati sint, praeseferre summam continentiam; alios qui, cum sint languori ac de-

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perfino un buon numero di persone simili. Fra i sacerdoti tuttavia e coloro che oggi chiamano religiosi, moltissimi sono infetti da questo vizio; Giovenale riconosce anche i filosofi malati di questo morbo e li colpisce con la sua satira.145

XIII GLI IPOCRITI. 1. A tutti costoro i Cristiani, seguendo gli scrittori greci,146 dettero il nome di ipocriti. Ché tutti hanno il medesimo proposito, quello di essere considerati e di apparire per quello che non sono affatto. Fra loro alcuni sono tesi a ricavare denaro e a procacciare con questo comportamento una più opulenta condizione di vita e maggior rispetto, ad esser tenuti in onore, ad assicurarsi presso il popolo la fama di santità e ad esser stimati capaci di godere del colloquio con la divinità e della sua presenza. Di costoro tuttavia parlerò di meno, perché non sembri che, perseguitando il vizio della simulazione, io voglia sminuire la religione. Pertanto pongo fine a questa parte, ma raccontando prima una storiella ridicola. 2. Quando eravamo giovani, un ragazzo di indole non cattiva fu mandato dal padre a scuola. Per farsi vedere dal padre troppo dedito allo studio e allontanare a poco a poco il padre dall’impresa con il timore che il figlio cadesse malato per la fatica troppo pesante, cominciò a spargersi il volto la mattina, usando grande arte,147 con la farina delle fave tritate in modo sottilissimo. Poiché il figlio continuava per più giorni a far questo, il padre si accorse che il suo volto impallidiva e, temendo per lui, gli chiese se si sentisse abbastanza bene; quello risponde di star bene ed in salute; e poi si applica allo studio con molta maggiore lena di prima, veglia molto di notte, si leva la mattina presto dal letto e si rivolge interamente ai libri, e nondimeno ogni giorno spruzza sulla faccia un pochino di farina e così non molto dopo finge di essere malato. Saputo ciò, il padre gli vietò di andare dal maestro: preferiva infatti che il figlio gli rimanesse vivo e illetterato, che perderlo nella tenera età a causa dello studio. Adunque, ciò che il ragazzo ottenne con la simulazione non otterrà un vecchio religioso, specie sotto l’apparenza della bontà e della santità? 3. Ne potresti vedere alcuni mostrare un’estrema moderazione quando invece in nessuna parte del corpo sono puri; altri che, pur essendo 1125

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sidiae dediti, fortitudinem et quandam quasi vivendi rusticitatem simulent; hos mirificam integritatem, cum sint corruptissimi; illos eximium in deum cultura, cum ab omni clam abhorreant pietate; nonnullos lacrimari, cum in miserabilem aliquem inciderint ac miserari eum hacque arte occulere animi saevitiam nefariasque cogitationes; haud paucos, quorum avaritiam atque occultas foenerationes abscondat simulata liberalitas erogataeque inter mendicantes atque in triviis stipes. Plurimorum perversa consilia artisque dolosissimas obvelat templorum quotidiana frequentatio, aut obtegit nequissimas insusurrationes vivendi humilitas quaedam, aut multum in circulis silentium, aut coram ficta quaedam de singulis benedicentia. Itaque rarissimi illi quidem sunt, ad quos non penetret simulatio. 4. Quodque flagitiosissimum est, ad permulta verisimilius simulanda nunc religionis adhibent vincula nunc affinitatis amicitiae ve. Quae si persequar, an erit aliud quam velle iras hominum in me ac malevolentiam provocare? Itaque satis nobis esse potest haec attigisse, quae et inquirenda diligentius et accusanda liberius sacerdotibus relinquimus, qui ea ab confitentibus quotidie intelligunt, ac praedicatoribus, quorum est officium coram atque in templis de iis liberius disserere maioreque cum licentia. 5. Nec tamen hoc in loco fabella nobis deerit eaque divulgatissima: fuisse in parte Italiae Iannem quendam, proavorum nostrorum temporibus, qui inter pastores assiduus agrestisque alios diversaretur; eum autem consuesse die, cum aut aries feroculus offerretur aut vitulus, vitabundum fugitare eum contremiscereque ad illius aspectum; atque hac ratione ridiculum se se inter pastores facere; noctu vero profundissimos saltus ingredi ausum atque ex armenti vegetum quemque, sive bovem sive taurum, apprehensum cornibus resteque illigatum secum trahere tractumque sociis tradere deducendum ad fora mercatusque, ubi eum venalem facerent. Iure igitur [Umber] meus [mihique] pernecessarius [A. Colotius Bassus, vir et doctus pariter et iucundus], usurpare consuevit: nec Aquinatem Thomam nec Joannem Scotum plures reliquisse auditores doctrinaeque suae sectatores quam Jannes hic, cui factum sit agnomen a vitellis, imitatores reliquit ac discipulos.

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dediti all’indolenza ed all’ozio, simulano fortezza e quasi una certa rigidità di vita; questi che simulano una meravigliosa integrità, pur essendo corrottissimi, quelli che simulano una straordinaria devozione verso Dio, pur tenendosi lontani in privato da ogni forma di pietà. Ne potresti vedere parecchi piangere quando incontrano un miserabile, commiserare e nascondere con questa astuzia la crudeltà dell’animo e i pensieri nefandi; non pochi, la cui avidità ed occulte nefandezze vengono nascoste dalla liberalità simulata e dalle elemosine distribuite fra i mendicanti nei crocicchi. La quotidiana frequenza delle chiese copre le perverse intenzioni e le ingannevolissime arti di moltissima gente, o una certa umiltà di vita o il profondo silenzio nei circoli o il dir bene di ciascuno con fi nzione davanti a tutti nascondono maligne mormorazioni. Pertanto sono assai rari coloro nei quali non si insinui la simulazione. 4. E ciò che è più nefando, per simulare moltissime cose con maggiore verisimiglianza, ora usano i legami religiosi, ora quelli della parentela e dell’amicizia. Se mi metterò a perseguitare questi vizi, sarà altro che voler provocare contro di me l’ira e l’odio degli uomini? Pertanto ci può bastare aver toccato questi vizi, che lasciamo alla ricerca più diligente ed all’accusa più aperta dei sacerdoti, i quali li apprendono quotidianamente da coloro che si confessano, e a quella dei predicatori, il cui dovere consiste nel parlare con una certa libertà e con una certa licenza di fronte a tutti e nelle chiese. 5. E tuttavia a questo punto non ci mancherà una storiella, per giunta assai diffusa: in una parte dell’Italia viveva un certo Gianni, al tempo dei nostri nonni, il quale abitava continuamente fra i pastori e gli altri uomini di campagna; e soleva di giorno, se gli si presentava un ariete un po’ feroce o un vitello, fuggire scansandolo e tremare alla sua vista; e per questo si era reso ridicolo fra i pastori; ma di notte osava entrare nel più profondo dei boschi e afferrare i capi più vigorosi dell’armento, fosse un bue o un toro, dalle corna, legarlo con la fune, trascinarlo con sé e, dopo averlo trascinato, consegnarlo ai compagni per portarlo alla piazza e al mercato, dove metterlo in vendita. Giustamente dunque un mio caro e intimo amico,148 soleva dire che né Tommaso d’Aquino né Giovanni Scoto avevano lasciato più discepoli e seguaci della loro dottrina di quanti imitatori e discepoli ha lasciati questo Gianni, il quale ebbe come soprannome de’ Vitelli.

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XIV DE MERCATORIBUS. 1. Transeamus ad mercatores, quorum non pauci sunt quos parum iuvet lucrari; nec multum ipsi possint proficere, nisi, ut Cicero ait, admodum mentiantur; quin et mendacio addunt iurisiurandi religionem, nec verbis solum, verum etiam scriptis annotationibusque dum, qui pannus italicus est aut hispanus, gallicum eum ementiuntur aut britannicum, quoties genus panni aliquod maiori est in pretio; idem in linteis servant ac sericis. Qui equorum, qui mularum mercaturam exercent, compungunt et equos et mulas eius generis notis, de quo maxima est opinio. Itaque vix aliquod genus est mercis, in quo non primum sibi locum mendacium pepererit; potissimaque apud mercatores laus est scire et multum et caute fingere. Quo effectum est, ut fides mercatoria, quae antea maxime habebatur integra, nunc fluxa sit admodum ac fragilis. 2. Hannibal insidiis maxime ac fraude grassatus est. Quotusque est hodie praesertim dux imperatorque exercitus, qui non fraude nitatur insidiosisque consiliis? Caesar, cum in Africam venisset, dicitur cunctatior factus ad conserendas manus propter dolos Afrorum hominum. Itaque simulatio rerum verborumque atque consiliorum in omni artium genere ac negotiorum facultatumque praecipue regnat, quasi non etiam in disciplinis: quod sophismata ipsa docent, ut iam veritas non in abdito atque in puteo delitescat, ut Democritus dictitabat, verum sophistarum laqueis praepedita ac fallaciis prodire in lucem atque in libertatem nequeat. Iam vero pontificum, regum, dominorum ac principum hominum aulae ac domus, utque hodie dicuntur, curiae simulationibus ac fallaciis mendacissimisque susurrationibus iisdemque nocentissimis infectae sunt, ut videatur veritas ab illorum regiis exterminata; neque bonus quisquam habeatur curialis atque aulicus, nisi qui et mentiri admodum et pro loco ac tempore vultum fingere ac lenocinari scierit. Quo effectum est ut, quae maximorum virorum domus est, sit eadem simulationis ac mendacii.

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XIV I MERCANTI. 1. Passiamo ora ai mercanti, tra i quali non pochi sono quelli che non si accontentano di guadagnare; e non potrebbero guadagnare molto se non, come dice Cicerone, mediante molte menzogne;149 anzi alla menzogna uniscono la sacralità del giuramento e non solo con la parola, ma anche con dichiarazioni scritte, quando fanno passare per francese o britannico un panno dell’Italia o della Spagna, quando un tipo di panno ha un pregio maggiore; fanno la stessa cosa con il lino e con la seta. Quelli che esercitano il commercio dei cavalli e delle mule, imprimono su cavalli e mule un marchio, che è valutato molto. Pertanto quasi non esiste qualità di merce, in cui l’inganno non abbia un’importanza primaria; e il maggior merito presso i mercanti consiste nel saper simulare molto e con astuzia. Ne è derivato che la credibilità dei commercianti, che prima era considerata la più integra, ora abbia perso consistenza e si sia molto indebolita. 2. Anche Annibale agì soprattutto con inganni e con frode. Quale comandante e condottiero di esercito esiste oggi, che non faccia affidamento sull’inganno e sui piani fraudolenti? Si dice che Cesare, giunto in Africa, divenne più esitante nell’attaccare battaglia a causa degli inganni delle popolazioni africane.150 Pertanto la simulazione della realtà, delle parole e dei pensieri domina soprattutto in ogni genere di attività, di occupazioni e di professioni e poco manca che non esista anche nelle scienze: lo dimostrano gli stessi sofismi, tanto che la verità non si nasconde in concetti sconosciuti o dentro un pozzo, come spesso ripeteva Democrito, ma impigliata nei lacci fallaci dei sofisti non può liberarsi e venire alla luce.151 E in verità le corti e le case e, come le definiscono oggi, le curie dei pontefici, dei re, dei signori e dei principi sono corrotte da finzioni, da falsità e da maldicenze bugiarde ed estremamente dannose, tanto che la verità sembra essere bandita dalle loro regge. Nessun uomo di curia o di corte è ritenuto valido se non sa mentire, lusingare e adattare il volto alle occasioni e alle circostanze. Da ciò deriva che la casa degli uomini più potenti è anche quella della finzione e della menzogna.

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XV DE DISSIMULATORIBUS. 1. Dissimulatorum studium longe ab his diversum est moresque item alii. Hi enim, quae insunt quaeque dicta aut facta sunt, aut parte ex omni inficiantur aut de iis multum detrahunt deque vero, quantum possunt, deducunt. Itaque quam illi dant operam, ut veris ficta affingant ac falsa, tam hi ex adverso in id intendunt, ut vel prorsus abnegent quae vera sunt, quod dissimulatoris est proprium, aut vehementius imminuta ut elevent. Nesciam tamen, quomodo saepenumero qui dissimulator est, sit item diversa tamen ratione simulator. Nam et Iunius Brutus sapientiam dissimulavit et, cum minime esset stultus, eum se se gessit moresque eos induit ut brutus a civibus vocaretur proindeque idem hic et simulator dici et dissimulator potest. Illud tamen interest, quod hic inficiatur, ille affingit. Sunt igitur dissimulatores quidem huiusmodi. Alexander, postquam ab Hammone rediit, Iovis se se esse fi lium voluit: quid hac ostentatione insolentius? Scipio, cum audiret Iovis quoque se et haberi et dici filium, iis dictis aures ea cum modestia adhibere est solitus, ut inficiari id nullo modo videri aut posset aut vellet. 2. Audio de maioribus natu sacerdotes quosdam, quique ab ordine Fratres dicuntur quique post obitum inter sanctos relati fuere decreto Romanorum pontificum, cum viverent, interrogatos an vera essent quae de ipsis ferrentur miracula, solitos respondere: deum esse, qui et ipse miracula faceret et bonis viris eorundem faciendorum vim infunderet. Quae, cum modestia quaedam potius quam inficiatio dici possit, videtur dissimulationis quaedam species, ad virtutem tamen referenda, cum modestiae sit civilisque cuiusdam sive urbanitatis sive tractabilitatis plena; qua Socratem praecipue fuisse usum legimus. Qua e re eiuscemodi homines a maioribus nostris dicti sunt ironici; effectumque est, ut ironia species quaedam sit virtutis, de qua post dicemus.

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XV LA DISSIMULAZIONE. 1. Completamente diversa da quella dei mercanti è l’inclinazione dei dissimulatori, come è differente anche il loro comportamento. Costoro infatti negano del tutto o riducono in gran parte e, per quanto è loro possibile, rimuovono dalla verità le cose che sono, che sono state dette e fatte. Pertanto come quelli fanno di tutto per aggiungere invenzioni e falsità al vero, così questi al contrario mirano a negare del tutto ciò che è vero, il che è proprio del dissimulatore, o ad innalzare eccessivamente cose insignificanti. Non so come, tuttavia, spesso chi è dissimulatore è anche per diversi motivi simulatore. Infatti anche Giunio Bruto dissimulò la saggezza e, pur non essendo per nulla sciocco, si mostrò tale e seguì una condotta di vita tale, da essere dai concittadini definito «bruto» e perciò può essere considerato sia simulatore, sia dissimulatore.152 Tuttavia la differenza sta nel fatto che uno nega, l’altro inventa. Di tale natura sono perciò i dissimulatori. Alessandro, dopo che tornò da Ammone, volle essere considerato figlio di Giove:153 niente di più arrogante di una tale ostentazione. Scipione, sentendo dire di essere ritenuto e definito figlio anche di Giove, dette solitamente ascolto a quelle dicerie con tale modestia da non potere o voler far apparire che lo negasse in alcun modo.154 2. Sento dire dai più anziani che certi sacerdoti, che sono chiamati Frati per l’ordine cui appartengono,155 e che dopo la morte, per decisione dei pontefici romani, furono annoverati tra i santi, mentre erano in vita, interrogati se fossero veri i miracoli che si narravano sul loro conto, solevano rispondere essere Dio in persona a compiere i prodigi e a trasmettere agli uomini onesti la forza di compierli. Questo atteggiamento, potendosi definire una forma di modestia piuttosto che una negazione, sembra una specie di dissimulazione, da riferirsi però alla virtù, essendo piena di modestia e di civile urbanità e affabilità; di essa leggiamo che faceva uso soprattutto Socrate.156 Per queste ragioni gli uomini di questo tipo sono definiti ironici dai nostri antenati; ne deriva che l’ironia è una forma di virtù, e di essa parleremo in seguito.

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DE SERMONE, LIBER SECUNDUS, XVI

XVI DISSIMULATORUM PLURA ESSE GENERA. 1. Sunt autem dissimulatorum genera quaedam, eaque perniciosissima in civitatibus ac populis, cum alios videas, qui sub liberalitatis speciem ipsi quidem sint largitiosi hacque ratione studeant clientelis, quibus cives alios opprimant seque efficiant quam potentissimos; alios, qui, dum publica negotia resque civitatis maxime difficiles atque erumnosas diligentissime pariter ac fortissime obeunt maximisque pro patria se se obiectant periculis, clam regno studeant; illos, qui suscipiendis miserorum patrociniis ac popularium causis, factionibus clanculum dent operam; hos eroganda inter pauperrimos atque egentissimos quosdam stipe, quo sub speciem minutissimae ac vulgatissimae erogationis foenus occulant ac cives, advenas, peregrinos clam excarnificent. 2. Disserentem Mediolani de religione deque hominum moribus Bernardinum, quem merita ipsa inter divos retulerunt, adibat saepius hortabaturque mercator quidam, ut multus esset in abominando foenore: laborare enim urbem ipsam nimio plus eo morbo. Itaque dum Bernardinus mores vitamque exquirit hominis, comperit perditissimum eum esse foeneratorum omnium illudque agere, quo, coeteris deterritis, liberior ipsi uni foenerandi relinqueretur provincia. Horum igitur omnium perinde ut turpe est admodum ac perniciosum urbibus genus, sic etiam multiplex est ac diversum. Videre etiam licet, ut inquit Cicero, plerosque non tam natura liberales quam quadam gloria ductos, ut benefice videantur facere multa, quae proficisci ab ostentatione magis quam a voluntate videantur. Talis autem simulatio vanitati coniunctior quam aut liberalitati aut honestati. 3. Quod idem dicere de iis liceat, qui appetitum voluptatis occultant honorumque dissimulant cupiditatem, quippe qui ostentatores videantur magis quam temperati ac continentes. Cognitum ipsi habemus hominem iurisconsultum, iure iniuriaque corradentem undique summaque pressum avaritia, deque deo ac religione Christiana male omnino qui sentiat; diebus tamen fere singulis, sive pro templo sive pro domus suae foribus, mane mendicantibus compluribus de manu numulum sin-

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XVI ESISTONO PIÙ CATEGORIE DI DISSIMULATORI. 1. Esistono d’altra parte alcune categorie di dissimulatori, e sono dannosissime a città e paesi. Ne puoi incontrare alcuni, infatti, che sotto l’apparenza della liberalità sono corruttori e con questa tattica si procurano delle clientele allo scopo di opprimere altri cittadini e rendersi quanto più possibile potenti; altri che, mentre diligentemente ed eroicamente attendono ad attività pubbliche e soprattutto ai difficilissimi e faticosi compiti di governo e si espongono ai più grandi pericoli per la patria, di nascosto aspirano al potere; alcuni che, mentre prendono le difese dei miseri e dei ceti popolari, si dedicano di nascosto ad attività sediziose; altri distribuiscono l’elemosina ai poveri e ai bisognosi per poter intanto, sotto l’apparenza di un’elargizione spicciola e diffusa, nascondere l’usura e spolpare di nascosto concittadini, stranieri e forestieri. 2. Si recava spesso da Bernardino, elevato al rango di santo dai suoi stessi meriti, quando a Milano parlava sulla religione e sulla morale, un mercante che lo esortava a diffondersi molto nel parlar contro l’usura:157 la città, infatti, era eccessivamente oppressa da quel male. Così Bernardino nell’indagare sulla vita e le abitudini dell’uomo venne a sapere che era il più corrotto di tutti gli usurai e faceva questo affinché, terrorizzati gli altri, il campo dell’usura rimanesse più libero, ma per lui soltanto. La categoria degli usurai, come è vergognosissima e dannosa per le città, così è anche molteplice e varia. Si può vedere anche, come dice Cicerone,158 che parecchi non sono liberali per vocazione naturale, ma per un certo desiderio di gloria, tanto da far pensare che le molte buone azioni che compiono derivano dall’ostentazione più che dalla volontà. D’altra parte una tale simulazione è più vicina alla vanità che alla liberalità e all’onestà. 3. La stessa cosa si può dire di quelli che nascondono la brama del piacere e dissimulano la brama di onori per il fatto che sembrano più millantatori che moderati e continenti. Abbiamo notizie di un giureconsulto che, oppresso da ogni parte da un grandissimo bisogno di denaro, si arricchisce con mezzi leciti ed illeciti e che ha in sommo disprezzo Dio e la religione cristiana; tuttavia quasi tutti i giorni, la mattina, o davanti al tempio o dinanzi alla porta della propria abitazione dà di propria mano un’offerta a molti mendicanti per nascondere in questo modo sia la 1133

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gulatim praebere, qua ratione et avaritiam celet et animum a religione prorsus alienum. Qua cogitatione ac facto quid perditius dicas ac perversius? Sub sanctitatis autem ac continentiae opinione, quantum mali foveret frater Hieronymus Ferrariensis, ex ordine beatissimi ac maxime sancti viri Dominici, declaravit nuper populus ipse, quem subduxerat, florentinus, cuius decreto morte, et quidem acerbissima, atrocissimisque cruciatibus excarnificatus est. 4. Itaque vicium hoc dissimulationis late quidem patens est ac perpauci quidem sunt, quemcumque sive civium ordinem sive sacerdotum aut principum inspicias, in quo non invenire Suffenum possis, ne Valerii Catulli sive scomma sive maledictum aspernari videamur. Qui igitur dissimulatorum sint conatus, studia, proposita, iam videtis. Sub Ferdinando Neapolitanorum rege agebat Caietae in coenobio Gerardus quidam, qui septimum in diem cibo abstinere consuevisset ac potu, indeque sanctus habebatur ac deo carus. Venerabatur illum populus, utque eum adorarent, frequentes ad eum finitimis conveniebant ex oppidis; tantam hanc hominum opinionem coenobitae adaugebant propter munera quae templo offerebantur. Misit ad eam rem perspicendam Ferdinandus Masium Aquosam, et perspicacem et abunde expertum virum, cuius etiam fides esset quam perspectissima. Is dies noctisque cum illo septem eodem simul in cubiculo cum egisset summa cum vigilantia et cura, comperit tandem et capitis illum et stomachi pituita laborare nimiaque de humectatione, quo e vicio appetendi cibi vis illa consopita iaceret ac pene extincta; esseque sive ieiunium illud sive abstinentiam ad morbum malumque corporis habitum referendam, vanosque illos esse rerumque religionis ostentatores, qui persuadere conarentur genios, hoc est Angelos, victum ad illum quotidianum ferre ciboque divino pascere. 5. Sub Alfonso rege, Ferdinandi huius patre, eandem hanc abstinentiam cum ostentaret alius quidam, cuius nomen e memoria excidit, adhibitaque esset cura, ne quid esculenti potusque ad illum inferretur, compertum postea est sub speciem nocturni luminis, erat enim hibernum tempus, victitare interim illum e candelis nocturni luminis causa sumministratis, quae e succaro cinnamoque constarent atque e gallinarum pectoribus minutissime contusis, sevo tamen super illito.

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sua avidità sia il suo animo tutt’altro che pio. Che cosa si può considerare più perverso e corrotto di questa intenzione e di questo comportamento? Quanto male covasse, sotto le apparenze dell’onestà e della santità, frate Gerolamo di Ferrara, dell’ordine di san Domenico,159 uomo beato e santo, lo ha smascherato di recente lo stesso popolo fiorentino, che egli aveva raggirato, e per decreto del quale fu messo al supplizio con una morte crudelissima e con atroci sofferenze. 4. Pertanto questo vizio della dissimulazione è ampiamente diffuso e sono molto pochi, qualunque categoria di concittadini, di sacerdoti e di principi si esamini, quelli nei quali non si trovi un Suffeno, per ricordare sia i sarcasmi, sia l’invettiva di Valerio Catullo.160 Già potete vedere, dunque, quali siano gli scopi, le occupazioni e gli obiettivi dei dissimulatori. Sotto il re Ferdinando di Napoli in un convento di Gaeta viveva un certo Gerardo,161 che era solito digiunare ogni sette giorni e perciò era ritenuto venerabile e diletto da Dio. Il popolo lo venerava e per adorarlo vi si recavano in molti dalle città vicine, tanta era la credenza della gente, che i monaci fomentavano per i doni che venivano offerti al convento. Ferdinando, per rendersi conto della situazione, mandò Masio Aquosa, uomo intelligente ed esperto oltre che di provatissima fedeltà.162 Questi, dopo aver trascorso insieme a lui sette giorni e sette notti nella medesima camera con la massima attenzione e diligenza, alla fine scoprì che era affetto da raffreddore, dissenteria e scialorrea,163 e che a causa di questa malattia il suo appetito languiva o era quasi spento; che sia il digiuno sia l’astinenza erano da attribuirsi ad una malattia e ad una cattiva condizione fisica, e che erano bugiardi e simulatori di cose sacre quelli che tentavano di dare ad intendere che dei puri spiriti, cioè gli angeli, gli portassero il pasto quotidiano e che lo nutrissero di cibo divino. 5. Sotto il re Alfonso, padre dello stesso Ferdinando, un altro, il cui nome non ricordo, che ostentava questa stessa astinenza e aveva provveduto a non farsi portare niente da mangiare e da bere, con il pretesto del lume notturno, giacché era inverno, si nutriva, come si scoprì in seguito, di candele portate per l’illuminazione notturna, fatte di zucchero e cannella e di pezzi di pollo sottilmente tritati, ma spalmate di sego sulla superficie.

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XVII DISSIMULATIONEM ALIQUANDO ESSE OSTENTATIONEM. 1. Quid, quod interdum dissimulatio et ipsa quidem ostentatio quaedam est, cuiusmodi esse generis Aristoteles Laconicum arbitratur vestitum? Sub illa nanque modicitate delitescere elationem ac superbos spiritus. Qua de re parcius loquor propter sanctissimos heremitas patresque illos et tanquam fundatores christianae religionis: Paulum, Antonium, Malchum, Sabam, Onofrium aliosque post hos innumerabiles, in iisque tot post seculis Franciscum, quorum paupertas, continentia, simplicitas, sanctitas, vita omnis denique visa est nobilitasse hominum imbecillitatem maximeque languescentis eorum roborasse conatus. Tali igitur sub modicitate ac vestitus sorde non pauci olim philosophiae professores pessima quaedam exempla prodiderunt. Utque de aliis taceam, Neronis Augusti temporibus, Publius Egnatius Stoicam professus est sectam, quo maiorem sibi fidem, in accusandis tum civibus aliis tum etiam senatoribus, compararet. Utinam ne aetate etiam nostra sub hac quoque specie atque habitu turpiora magisque profana admitterentur. 2. Videas hodie quosdam minutissima ac sordidissima quaedam vel obstinate dissimulare, quod ea ad virtutem ipsi, ut sunt animo imbecille admodum atque abiecto, referant publicamque ad commendationem. Quocirca dissimulant ea, dum e dissimulatione ac reticentia magis magisque commendatum iri ea existimant; qui meo quidem iudicio non degeneres modo atque abiecti, verum nullius esse videantur pretii deque coetu prorsus hominum eiciendi. Commendabatur religiosis ex his quidam, quod ieiunia traduceret ternis tantum cariculis ac nucibus aquaeque ciathulo; cumque antistes id ex eo sciscitaretur, sat ipsi scimus tantum hoc illum respondisse, demisso vultu, voce quam maxime depressa et languida: miserum se peccatorem esse. Quid dissimulantius, imo quid inanius atque, apud recte sentientes, contemptibilius? Risit antistes hominis inanem ostentationem et, ut aliam insisteret viam, quae ad coelum ferret, commonuit. 3. Iacobus Zanes negociator Venetus, multa amplaque negotia Neapoli cum administraret cerneretque Gasparem Ravennianum singulis diebus sub matutinum tempus visitare templa, interesse rebus divinis, sacraque dum celebrarentur, intentissimum illum esse legendis Davidi-

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XVII LA DISSIMULAZIONE È TALVOLTA OSTENTAZIONE. 1. Che si deve dire del fatto che qualche volta la dissimulazione è una forma di ostentazione, di cui Aristotele ritiene che si rivestissero gli Spartani?164 Infatti sotto quella falsa modestia si nascondevano l’arroganza e la superbia. Di questo parlo con un po’ di moderazione per rispetto ai santissimi eremiti, ai padri e, in un certo senso, fondatori della religione cristiana: Paolo, Antonio, Malco, Seba, Onofrio165 e altri innumerevoli che son venuti dopo, e tra loro dopo tanti secoli Francesco,166 la cui povertà, continenza, semplicità, santità e l’intera vita insomma sembrò aver riabilitato la debolezza degli uomini e soprattutto aver rinvigorito le loro deboli forze. Dunque sotto una simile apparenza di povertà e squallore di abbigliamento non pochi fi losofi hanno dato pessimi esempi. Come, tralasciando gli altri, ai tempi dell’imperatore Nerone, Publio Egnazio167 professò la dottrina stoica per avere maggior credito nell’accusare altri cittadini e senatori. Volesse il cielo che in questo nostro tempo, sotto questa stessa veste ed apparenza, non venissero commesse azioni ancora più turpi ed empie. 2. Si può vedere oggi come alcuni dissimulino perfino ostinatamente certe cose minute ed insignificanti, perché, vili e spregevoli come sono, vogliono spacciarle per virtù e per azioni degne di pubblica lode. Di conseguenza le dissimulano pensando di poter essere lodati ancora di più attraverso tale dissimulazione e reticenza; essi, però, a mio parere, sono non soltanto dei degenerati e degli abietti, ma sembrano uomini di nessun valore e meritevoli di essere esclusi dal genere umano. Uno di questi religiosi veniva lodato perché digiunava nutrendosi solamente con tre fichi secchi168 e tre noci e con una brocca d’acqua; al priore che gli chiedeva la ragione di ciò, sappiamo bene che, abbassando il viso e con voce bassa e dimessa, rispose solo questo, di essere un povero peccatore. Che cosa di più falso, anzi di più vano e, per coloro che pensano rettamente, di più spregevole? Il priore derise l’inutile ostentazione dell’uomo e gli consigliò di percorrere un’altra via che lo portasse in cielo. 3. Il mercante veneto Jacopo Zane, conducendo molti e importanti affari a Napoli, quando si accorse che Gaspare Ravennate ogni mattina si recava in chiesa, partecipava alle cerimonie religiose e, mentre venivano celebrati i riti, era intento a leggere attentamente i salmi di David, con1137

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cis psalmis, captus imo deceptus, ut re ipsa docuit, viri moribus, non parvam illi pecuniae summam credidit administrandam, de qua post, ratione habita, lucrum compendiaque partirentur, ut mercatorum mos esset. Gaspar, accepta pecunia, cum advenisset reddendae rationis tempus, risui Iacobum habuit, quippe qui non pecuniam modo abnegaverit, verum ignorare se illum dixerit; cumque Iacobus mercatoribus ab aliis accusaretur: «Non me, inquit, Gaspar decepit, sed Gasparis libellus lectioque illius suspiriosa». 4. Itaque vix aliqua vitae species est, ad quam se se dissimulatio non insinuet, quod non ita multis post annis frater Franciscus Hispanus docuit. Is quamvis rudis atque indoctus, tractus tamen audacia atque ambitione, pulpitum ascendere est ausus tantoque sive fastu sive temeritate, palam ut asseveraret: praedicare se de religione christianisque de rebus, docente ac dictante Angelo; cuius admonitu et futura quaedam praediceret et, qui cum divis in coelo e mortuis agerent, qui rursus apud inferos cruciarentur, sciret ac proferret. Denique cum Ferdinando persuadere arte nulla aut ratione posset, ut Iudaeorum gentem esterminaret e regni finibus, exemplo Ferdinandi patruelis Hispaniarum regis, Tarenti cum ipse ageret, commentum hoc iniit: e plumbo tabulam, divi Cataldi nomine clanculum a se inscriptam, haud Tarento procul in sacello semidiruto sub parietem occuluit; quam triennio post eruendam curavit, corrupto sacerdote, cui diceret in somnis astitisse sibi Cataldum, monstrantem quo in loco tabella esset abdita commonentemque, uti cum populo supplice collegioque sacerdotum iret ad effodiendam illam; quam effossam curaret ad regem deferendam, communicandam ab eo uni tantum viro, quem e suis optimum nosceret ac maxime fidum; deum enim iratum illi futurum clademque ac calamitatem immissurum, ni, quod in tabula scriptum esset, et cautum a rege praestaretur. Scriptum vero ipsum per ambages quasdam ac latebricosa verba eo spectabat, uti Iudaeorum exterminatio indicaretur. Rex, accepta tabula, deprehendit fraudem; qua deprehensa, minime Franciscum ad eam legendam secum adhibuit, arbitratus eum interpretaturum verba in eam sententiam; dissimulavitque rem ipsam summa cum taciturnitate ac prudentia. At Franciscus, re cognita, furore percitus, quod tantum commentum falsum eum habuisset, non populo, non regi, vix ipsi Cataldo publicis peper-

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quistato anzi ingannato, come di fatto dimostrò, dai costumi di quell’uomo, gli affidò l’amministrazione di una non piccola somma di denaro, dalla quale poi, fatto il calcolo, si sarebbero divisi i profitti e i guadagni, secondo l’usanza dei mercanti. Gaspare, preso il denaro, quando giunse il momento di dar conto, si prese gioco di Iacopo, poiché non solo non gli restituì i soldi, ma disse anche di non conoscerlo; e Iacopo, accusato dagli altri mercanti disse: «Non fu Gaspare ad ingannarmi, ma il libretto di Gaspare e la sua lettura piena di sospiri». 4. Quasi non esiste aspetto della vita, nel quale non si insinui la dissimulazione, come dimostrò non molti anni dopo frate Francesco Ispano.169 Questi, quantunque rozzo e ignorante, spinto tuttavia dall’ardire e dall’ambizione, osò salire sul pulpito con tale arroganza e temerità da sostenere apertamente che predicava la religione ed il culto cristiano sotto l’insegnamento e l’ispirazione dell’Angelo; e che per consiglio di quest’ultimo prediceva il futuro e, delle persone morte, era in grado di rivelare quelle che erano in cielo con i Santi e quelle che invece erano tormentate nell’inferno. Infine, non riuscendo con nessun espediente e in nessuna maniera a convincere Ferdinando a cacciare i Giudei dal regno sull’esempio del cugino di Ferdinando, re della Spagna, quando stava a Taranto ebbe questa trovata: nascose una tavoletta di piombo, da lui di nascosto incisa con il nome di san Cataldo,170 sotto il muro di una cappella quasi completamente distrutta e non lontana da Taranto; tre anni dopo fece abbattere il muro, dopo aver corrotto il sacerdote, dicendogli che Cataldo in sogno gli si era avvicinato e gli aveva indicato in quale punto fosse nascosta la tavoletta e lo aveva esortato ad andare con la popolazione in preghiera e con il collegio dei sacerdoti a tirarla fuori; e tiratala fuori a farla portare dal re e a darne notizia solo ad un uomo che conoscesse essere il migliore dei suoi e il più fedele: l’ira divina lo avrebbe perseguitato lanciandogli contro flagelli e disgrazie, se il re non avesse scrupolosamente eseguito ciò che era scritto sulla tavoletta. Questo scritto in verità, attraverso parole misteriose ed oscure, mirava a prescrivere la cacciata dei Giudei. Il re, ricevuta la tavoletta, scoprì l’inganno; e scopertolo non chiamò Francesco per leggerla, ritenendo che avrebbe interpretato le parole in quel senso, e dissimulò tutto il fatto con la massima discrezione e prudenza. Ma Francesco, venutolo a sapere, irritato per il fatto che il re avesse capito un inganno di questa fatta, nelle prediche pubbliche non risparmiò né il popolo né il re e quasi neppure lo stesso Cataldo; e si infiammò a tal punto che quasi tutti in Ita1139

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cit in praedicationibus; in tantumque excanduit, ut Italia ferme omnis ipseque in primis romanus Pontifex de tabulae huius fuerit inventione solicitus atque anxius. Itaque vicii huius vis adeo occulta et potens est, neque omnino animadversa, ut non modo interdum in ostentationem se se convertat, verum etiam in spiritus superbissimos execrabilemque animorum impotentiam. 5. Quanquam autem Aristoteles recte putat veraci ostentatorem magis adversari longiusque ab illo digredi utpote deteriorem, non minus tamen difficile est ab his ipsis cavere, cum eorum morbus vix appareat, ostentatio vero ipsa se se patefaciat: id quod nomen etiam ipsum declarat. Velle autem haec ulterius prosequi nec utile esse ducimus nec necessarium viderique abunde satis potest plane nos ostendisse, quot et quae genera sint species ve eorum omnium atque in quibus versentur differant ve aut conveniant quique sint tum mendaces tum veri simulatoresque ac dissimulatores. Nam de ironicis alibi expressius disputabitur. Quoniam autem prudentia dux est ac magistra actionum humanarum omnium moraliumque virtutum, illud non videtur praetereundum prudentiam ipsam pro loco, tempore, negotiis, administrationibus, periculis proque persona quam geremus, tum exigere tum etiam praecipere, uti nunc simulemus, contra nunc dissimulemus, nunc veritatem occulamus, nunc quae vera nullo modo sunt et fingamus et asseveremus. Quae res efficit ut, fingere interdum, simulare, dissimulare, inficiari, celare, ostentare, demere, accumulare, dum tamen prudentia id exigat, dandum sit virtuti. 6. Sunt et actiones ipsae ad finem referendae. Nam et Solon publicae rei gratia furorem simulavit et Brutus, de quo diximus, stultitiam; et sapientissimi rerum publicarum administratores in maxime periculosis casibus hilaritatem fingunt; quae autem adversa, celant, quae ficta et laeta, efferenda in publicum curant. Nec medici sanandis aegris, quo illos habeant obtemperantiores magisque abstinentes, non et ipsi multa se se dubitare, aut eventura praeter opinionem fingunt, aut contra vel optimam illis pollicentur spem, licet ipsi de illorum salute nullam prorsus spem habeant, praesertim in pestilentibus ac desperatis morbis. Denique nullo ab hominum genere, nullis ab administratoribus plura aut simulantur aut dissimulantur quam ab exercituum ducibus rerumque administratoribus bellicarum: quarum rerum tum latinae graecaeque historiae tum barbarae repletae sunt exemplis.

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lia, e primo fra tutti il Pontefice romano, rimasero turbati ed angosciati dal ritrovamento di quella tavoletta. Dunque la forza di questo difetto è così nascosta e grande, né del tutto disapprovata, che non solo talvolta diventa ostentazione, ma anche sfrenata superbia ed esecrabile arroganza. 5. Quantunque Aristotele abbia ragione di pensare che l’ostentatore si opponga più direttamente al verace e si allontani maggiormente da lui, per il fatto che è peggiore,171 non meno difficile tuttavia è guardarsi da costoro, dal momento che il loro difetto appare appena mentre l’ostentazione si dichiara da sé, come dice appunto il nome stesso. Non riteniamo utile voler continuare a trattare più oltre di queste cose, né ci sembra necessario, dal momento che abbiamo dimostrato abbondantemente e con chiarezza quanti e quali siano i generi e le specie complessive, e in che cosa consistano o differiscano o concordino, e chi siano da una parte i bugiardi dall’altra i simulatori e i dissimulatori della verità. Infatti si parlerà altrove espressamente dell’ironia. Poiché invece la prudenza è guida e maestra di tutte le azioni umane e delle virtù morali, non ci sembra di dover tralasciar di dire che la stessa prudenza esige e comanda che ora simuliamo, ora dissimuliamo, ora nascondiamo la verità, ora fingiamo e sosteniamo ciò che in nessun modo è vero in rapporto al luogo, al momento, alle occupazioni, alla condotta, ai pericoli e al ruolo che sosteniamo. Questo dimostra che fingere, simulare, dissimulare, negare, nascondere, ostentare, sminuire, esagerare, purché lo esiga la prudenza, debba essere attribuito a virtù. 6. Le azioni devono considerarsi in riferimento al loro fine. Infatti Solone nell’interesse dello Stato simulò la pazzia e Bruto, del quale abbiamo parlato, la stoltezza; e i più saggi amministratori dello Stato, soprattutto nei momenti difficili, fingono euforia; le avversità, si preoccupano di nasconderle, mentre provvedono a propagandare le buone notizie inventandole e gli avvenimenti lieti. Ed i medici nel curare gli ammalati, per averli più obbedienti e più astinenti, fingono di avere molti dubbi, oppure di temere imprevisti, anche se pensano il contrario, oppure danno ai pazienti ottima speranza, anche se essi non sperano per niente nella loro guarigione, e ciò specialmente nelle malattie contagiose ed inguaribili. Infine nessuna categoria di uomini, nessun amministratore simula e dissimula più dei comandanti degli eserciti e di quelli che hanno il governo delle cose militari: e di ciò sono ricche di esempi da una parte la storia latina e greca, dall’altra la storia degli altri popoli. 1141

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I UNDE DUCTAE SINT FACETIAE AC FACETUDO. 1. De facetudine igitur dicturi, quam mediocritatem esse quandam primo libro ostendimus, ne a nobis ipsis desciisse videamur, ab origine quidem ipsa nominisque exordiemur deductione. Verbum ipsum ‘facio’, unde ‘facetiae’ ductae sunt, apud priscos illos et Latinos et Romanos homines in maxima fuit frequentissimaque usurpatione. Itaque et ‘pacem’ et ‘bellum’ et ‘foedus’ et ‘inducias facere’ dixerunt et ‘delicias’ et ‘ludos’ et ‘nuptias’ et ‘convivia’ et ‘abortum’ et ‘domum’ et ‘templa’ et ‘porticum’ et ‘nomina’ et id genus pene innumerabilia; in his autem et ‘verba facere’ et ‘versus’ et ‘orationem’ et ‘iocos’. 2. Indeque, qui in comitiis, in consultationibus, in senatu, in concionibus verba cum gravitate facerent cumque dignitate et copia, ‘facundos’ dixere et virtutem eam ‘facundiam’, ut iam diximus; quam Plautus, quo romanam locupletaret linguam, etiam facunditatem appellavit a faciunda videlicet oratione; qui vero in circulis, congressionibus, conviviis communibusque in sermonibus ac consuetudinibus ad iocunditatem solum animorumque recreationem cum moderatione et gratia, ‘facetos’, quin etiam dicta ipsa appellavere ‘facetias’; habitum vero reliquere innominatum, quem nobis appellare tum ‘facetudinem’ ac ‘facetiem’ placuit tum etiam ‘facetitatem’.

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LIBRO TERZO

I DONDE DERIVANO I TERMINI DI FACETIAE E DI FACETUDO. 1. Accingendomi dunque a parlare della qualità dell’uomo faceto, che nel primo libro abbiamo dimostrato consistere in un giusto mezzo, perché non sembri che ci distacchiamo dai nostri stessi princìpi, cominceremo proprio dall’origine e dall’etimologia del nome. La parola facio, donde deriva facetiae presso gli antichi latini e Romani fu di grandissimo e frequentissimo uso.172 E così dissero «far pace», «far guerra», «fare un patto» e «fare una tregua», e «far cose piacevoli», «fare dei giochi», «far nozze», «far conviti», «fare un aborto», «fare una casa», «fare un tempio», «fare un portico», «far nomi», e quasi innumerevoli frasi dello stesso genere; fra queste anche «far parole», «far versi», «fare un discorso», e «fare degli scherzi». 2. Di conseguenza, coloro che nei comizi, nelle consulte, in senato, nelle adunanze facevano discorsi con serietà, dignità ed eloquenza, furono definiti «facondi», e fu definita «facondia» tale virtù, come abbiamo detto. Plauto per arricchire la lingua romana la chiamò anche «facondità»,173 evidentemente dal «fare» un discorso; mentre coloro che discorrevano nei circoli, negli incontri, nei conviti, nelle conversazioni pubbliche e private solo per il piacere e il ristoro dell’animo, con moderazione e piacevolezza, li definirono «faceti», e chiamarono anche i detti stessi «facezie»; ma senza denominazione fu lasciata la qualità, quella che noi abbiamo voluto chiamare sia facetudo e faceties, sia anche facetitas.

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II FACETUDINEM VIRTUTEM ESSE. 1. Virtutem autem hanc esse illud praecipue docet, quod in sermonibus congressionibusque ineundis, in habenda item oratione sive ad multos sive ad paucos popularibusque in concionibus, et laudamur, ubi mediocritatem servaverimus, et vituperamur, cum secus. Quod si mediocritas ea est, ut quidem est, inter duo uti extrema constituatur oportet. Quae igitur ea sint, quaerendum est diligentius. Nec mutus igitur opponetur faceto, quippe cum mutus non solum non facetus esse, verum minime queat fari. Qua e re nequaquam etiam opponi ei potest qui aetate sit infans, cum hic ipse infans non sit locutione cassus, verum adhuc inhabilis ad bene exacteque loquendum; itaque neque infantia adversabitur facetudini. Parte ex alia multo ei minus adversa erit loquacitas, de qua supra est dictum, quod vicium in sermone ipso ipsaque in loquendi serie generalem quendam locum habet magis quam in iocis ac dicteriis: labitur enim in excessum non iocandi, verum implicandi sermonis blacterandaeque orationis gratia. 2. Cum igitur circa iocos sermonisque iucunditatem ac leporem circaque urbanitatem ac comitatem versari facetum dicamus, si rusticitatem ei opposuerimus, parum fortasse rei ipsius significantiam adimplebimus, cum rusticitas ipsa rectius opponatur urbanitati ipsaque urbanitas sit facetudinis sive pars quaedam sive species; sin illepiditatem, idem erit peccatum, quod illepiditas adversa tantum est lepori, qui dictorum comes est ac facetiarum; multo etiam minus opponenda illi est insuavitas, quippe cum suavitas ipsa in saporibus quoque versetur inque attactu et risu et gustatione; et a nobis libris quidem superioribus non pauca dicta sint, e quibus iudicari possit et quid quaeratur et quale. Quaerimus enim, cum ad laborem hinc nati simus, illinc ad relaxationem cumque iucunda sint nobis amica, tristia vero inimica ac permolesta, et requietem inter labores ac cessationem et a molestiis curisque gravioribus relaxationem, quandamque quasi vacuitatem.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, II

II LA FACETUDO È UNA VIRTÙ. 1. Che questa sia una virtù, lo dimostra specialmente il fatto che nell’avviare conversazioni e incontri, e anche nel tenere un discorso a molti o a pochi e nelle assemblee popolari, non solo siamo lodati quando serbiamo la giusta misura, ma siamo biasimati nel caso contrario. E se essa è una giusta misura, come lo è, necessariamente deve collocarsi come fra due estremi. Quali siano gli estremi bisogna che si ricerchi con molta attenzione. E dunque non si potrà opporre il muto al faceto, perché il muto non solo non può essere faceto, ma non può neanche parlare. Per la qual cosa non gli si può opporre in alcun modo chi sia per età «infante»,174 perché costui non è privo della parola, ma ancora inabile a parlare bene e con esattezza; pertanto nemmeno la «infanzia» sarà considerata l’opposto della facetudo. Dall’altra parte molto di meno le sarà opposta la «loquacità», della quale si è parlato di sopra, perché questo vizio si riscontra generalmente nella conversazione e nel corso del parlare, più che negli scherzi e nei motti: scivola infatti nell’eccesso non per scherzare, ma per avviluppare la conversazione e per ciarlare. 2. Poiché dunque diciamo che l’uomo faceto si muove nell’ambito degli scherzi, della piacevolezza e della lepidezza della conversazione, nell’ambito dell’urbanità e della giovialità, se le opporremo la «rustichezza», troppo poco forse spiegheremo il concetto, perché la «rustichezza» più giustamente si oppone alla finezza urbana e la stessa urbanità è parte o specie della facetudo; se le opporremo la mancanza di lepidezza,175 anche questo sarà un errore, perché la mancanza di lepidezza è soltanto contraria alla lepidezza, che è compagna dei motti e delle facezie; molto di meno le si dovrà opporre la sgradevolezza perché la sgradevolezza riguarda anche i sapori, il tatto, il riso e il gusto; e da noi nei libri precedenti non poche cose sono state dette, dalle quali partire per giudicare il significato essenziale di ciò che cerchiamo. Infatti, poiché da una parte siamo nati per la fatica, dall’altra per il riposo, e poiché le cose piacevoli ci sono amiche, le tristi nemiche e fastidiose, cerchiamo la quiete e il riposo in mezzo alla fatica e il rilassamento dalle molestie e dagli affanni più gravi, e quasi una vacanza.

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, III

3. Cum igitur qui sint urbani, qui comes lepidique, qui item aut blandi aut festivi sit a nobis abunde ostensum; et quid et quantum et qua etiam via differant inter se, nimirum genus aliquod esse oportet quod ab his ipsis constituatur; ut quemadmodum contingit in avaritia, plures enim avarorum sunt species, quod cum de liberalitate ageremus plane aperuimus, sic illorum quoque non una est consideratio qui iocis utuntur delectanturque verborum iucunditate ac lenociniis. Itaque qui omnes iocandi partes cum mediocritate fuerit consecutus, hunc quidem, ut ab omni parte in hoc ipso genere absolutum, facetum esse volumus, ut qui omnem complexus sit avaritiam, avarum; quanquam et avaros et facetos etiam dicimus qui partem fuerint aliquam assecuti sive facetudinis sive avaritiae, quippe cum et species insit generi et genus mutuo in species distribuatur. Quocirca habitum ipsum, quamvis novo quidem, non improprio tamen nomine, uti superius explicatum est, appellandum ducimus. His autem hunc in modum expositis, pro nostra consuetudine institutoque, ab ipsis tanquam incunabulis facetum instituemus, nihil omittentes eorum quae conducere remque ad ipsam explanandam magis magisque facere intelligantur.

III DE PRINCIPIIS ET CAUSIS VIRTUTIS HUIUS. 1. Principio res nostrae omnes positae sunt in motu; motus autem ipse trahit nos ad agendum; actio vero suapte natura est laboriosa. Causae vero, quae ad agendum nos trahunt, et utiles sunt et voluptatem prae se ferunt: naturaliter enim et utilia appetuntur et iucunda. Itaque et utilia et iucunda appetitionibus proposita sunt nostris. Et utilia quidem ipsa vix assequimur sine labore atque insudatione. Labor vero actioque omnis cum non sit absque defatigatione, tum cessationem requirit refocillationemque quasi quandam inter agendum tum requietem, postquam ad finem perventum fuerit. Itaque et in progressione rerum recreatio quaeritur et in exitu quies. Recreationes autem ipsae ac refocillationes quietesque tum e rebus constant, ut cum eventus ipsi rerum felices sunt atque e sententia, tum e verbis dictisque, cum ea iucunditatem afferunt ac delinitionem et dicendo et audiendo; contra molestiam, tristitiam, moestitudinem, ubi et acerba fuerint et erumnosa animumque ipsum 1146

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, III

3. Poiché dunque è stato abbondantemente da noi mostrato chi siano gli «urbani», chi i «cortesi» e i «lepidi», e così chi siano i «lusinghieri» e i «giocondi», e in che cosa, in che misura, in che modo differiscano tra loro, è evidente che ci debba essere un genere che li comprenda tutti; come avviene nel caso dell’avarizia, che sono più di una le specie di avari, cosa che abbiamo chiarito trattando della liberalità,176 così anche non si fa un’unica considerazione di coloro che usano gli scherzi e si dilettano del piacere e del lenocinio delle parole. Pertanto chi abbia assunto nella giusta misura tutte le specie di scherzo, riteniamo che sia uomo faceto per il fatto che da ogni lato è perfetto in questo genere, come chi abbia assunto ogni specie di avarizia, riteniamo che sia avaro; quantunque chiamiamo avari e faceti anche coloro che abbiano assunto qualche aspetto della facetudo e dell’avarizia, poiché la specie fa parte del genere e il genere a sua volta si distingue in specie. Per questo la qualità essenziale di questa virtù pensiamo che si debba denominare con un vocabolo, quantunque nuovo tuttavia non improprio, come sopra si è spiegato. Dopo questa esposizione, definiremo la figura dell’uomo faceto secondo il nostro metodo e il nostro principio partendo quasi dai suoi primi fondamenti, non omettendo nessuna di quelle cose che si pensa possano giovare e contribuire a rendere più chiaro il concetto.

III PRINCÌPI E FONDAMENTI DI QUESTA VIRTÙ. 1. In primo luogo tutte le nostre cose hanno origine dal moto; e il moto stesso ci spinge ad agire; ma l’azione per sua stessa natura è faticosa. Le occasioni, che ci spingono ad agire sono l’utilità e la prospettiva del piacere, perché naturalmente le cose utili e piacevoli vengono appetite. Perciò l’utile e il piacevole sono posti come oggetto dei nostri appetiti. E difficilmente conseguiamo l’utile senza lavoro e senza sudore. Ma poiché ogni lavoro come ogni azione non è senza fatica, richiede o un’interruzione e quasi un ristoro nel corso dell’azione, e il riposo quando si sia giunti alla fi ne. Pertanto non solo nello svolgimento del lavoro si richiede la ricreazione, ma anche il riposo alla fine. Ma la stessa ricreazione e ristorazione e riposo constano sia di fatti, come quando gli stessi avvenimenti sono felici e corrispondono al desiderio, sia di parole e frasi, 1147

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conficientia. Quocirca non e rebus solum, verum etiam e dictis tum utilia manant tum etiam iucunda. Manant autem e rebus utilia ac iucunda, ut cum res ipsae fructum nobis afferunt et cum profectu pariter iucunditatem, aut cum voluptatem tantummodo. Manant item e dictis pariter, ut cum apud praetorem amicus nobis adest in causa apud iudicem patrocinioque suo causam tuetur paritque ex ea tum utile tum iucundum. Quid enim victoria iucundius? 2. Sed nos hac in parte de iis tantum dictis ac verbis rationem habemus, quae communi in consuetudine animorum relaxationem quaerunt atque ab labore remissionem ipsisque a molestiis. Quocirca dictiones huiusmodi nostrae, quae in contrahenda vita hominumque versantur societate, aut rigidae ipsae sunt, rusticanae, acerbae nimisque agrestes animosque ipsos et perturbant et gravius etiam afficiunt, nedum ut recreationi adversentur quae naturaliter et sponte nostra quaeritur; aut cum delectare illae quidem student, id potius agunt ut, iocandi mediocritate relicta, aut turpe oscenumque aliquid aut parum consideratum atque ingratum eorum qui audiunt auribus infunditant, quod ruborem afferrat, aut stomachum moveat, aut nos ad eius qui dicit ac dictorum eius irrisionem ac contemptum inducant. 3. Utrumque sane viciosum, quippe cum agrestis ille ac rigidus naturae ipsi adversetur quae, cum relaxationem a labore quaerat, ipse contra molestiis eam praegravet; hic scurrilis atque oscenus, cum honestas a natura rationeque ab ipsa proposita nobis sit, et illam dictis suis foedet et se, dum iucundum exhibere debet ac gratum, ridiculum potius apud audientes efficiat ac contemptibilem cogatque auditorem, civilibus praeditum moribus atque ingenuum, ad demittendum os atque oculos in humum ad auresque avertendas ob dictorum oscenitatem dicentisque ipsius aut convitiationem aut impudentiam garrulitatemque. Utrimque enim ita peccatur, ut alter mediocritatem defugiat, alter illam praegrediatur cum indecentia atque astantium irrisione. Et hunc, qui de moribus scripsere, scurram vocitant, qui graece est ‘bomolochus’ habitumque scurrilitatem; illum vero alterum rusticum, nam graece est ‘agrios’ defectumque ipsum rusticitatem. De quibus deque habitu me-

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quando apportano piacere e sollievo e quando si pronunciano e quando si ascoltano; al contrario portano fastidio, tristezza e mestizia quando sono amare e offensive oppure tali da abbattere l’animo. Perciò, non solo dalle cose fatte, ma anche dalle cose dette possono scaturire utilità e piacevolezza, quando ad esempio i fatti stessi ci arrecano un vantaggio e quando con il profitto anche un piacere, o quando ci arrecano soltanto piacere. Scaturiscono inoltre anche dalle parole, quando ad esempio presso il pretore sta con noi un amico in un processo giudiziario e con il suo patrocinio difende la causa procurando sia l’utile che il piacevole. Che c’è infatti di più piacevole di una vittoria? 2. Ma noi in questa trattazione teniamo conto solo di quei detti e di quelle parole che cercano il rilassamento degli animi nella vita comune, e lo svago dalle fatiche e dalle noie. Perciò espressioni di questo genere, che riguardano il legame di vita e l’umana società o sono rozze, rustiche, acri e troppo agresti, e perturbano gli animi e li angustiano anche, nonché opporsi alla ricreazione, che è un obiettivo naturale e istintivo; oppure quando cercano di dilettare, lo fanno piuttosto in un modo che, abbandonata la giusta misura dello scherzo, fanno arrivare alle orecchie degli ascoltatori qualcosa di turpe e di osceno o di poco ponderato o di sgradevole, che provochi il rossore o faccia disgustare, o ci induca alla derisione o alla disapprovazione di colui che li pronuncia e dei suoi motti stessi. 3. L’uno e l’altro sono dei difetti, poiché la persona selvatica e rozza è contraria alla natura, ché mentre quest’ultima richiede il rilassamento dal lavoro, quella invece l’aggrava con le noie; la persona scurrile e oscena, mentre dalla natura e dalla ragione ci è stato proposto come compito il decoro, non solo può insozzarlo con i suoi motti, ma dovendo presentarsi come piacevole e gradevole, può avvenire che si renda piuttosto ridicola e spregevole presso chi l’ascolta e costringa l’ascoltatore, se è fornito di educazione civile e nobiltà di costumi, ad abbassare a terra il volto e gli occhi e volgere altrove le orecchie per l’oscenità dei detti e per l’oltraggiosità177 o l’impudenza e la garrulità del motteggiatore. Dall’una e dall’altra parte si commette un errore: uno si allontana dal giusto mezzo, l’altro lo oltrepassa con la sconvenienza, provocando la derisione dei presenti. Gli scrittori morali chiamano questo tipo di uomo buffone, quello che in greco si dice bomolochus,178 e chiamano «buffoneria» la qualità relativa; chiamano rustico l’altro tipo (in greco si dice «agrios») 1149

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dio antequam dicimus, non temere pauca quaedam praefabimur, quae cognitu digna quidem sunt atque in ipso explicandi ingressu iure suo edisserenda.

IV CONCILIABULA INTER CIVES FIERI AUT UTILIS AUT IUCUNDI GRATIA. 1. Quod homines igitur natura sunt ipsa sociabiles atque in unum conveniunt tuendae rei tum publicae tum privatae gratia, hinc quoque, tametsi de utilitate minime agitur, congregantur tamen una nunc pauci admodum nunc complures, tum ut naturae ipsi morem gerant ac rerum necessitati, tum ut susceptorum delinitionem laborum inveniant ac molestiarum. Itaque conciliabula ipsa conventusque alias utilitatis, alias relaxationis tantum fiunt gratia; quibus in ipsis ridicularia utique quaeritantur sedationesque animorum ac vitae difficilioris recreatio, quin etiam defatigationum ipsarum sive intermissio sive soporatio quasi quaedam. His itaque, sive conventibus ac conciliabulis civiumque sive paucorum sive multorum communioni et coetui sive etiam convictui atque consessioni, propter refocillationem ioca proposita sunt verborumque relaxamenta et privata quaedam, ut ita dixerim, spectacula dicteriaque theatralia. Omnem autem et colloquendi et congrediendi et dicendi sive affabilitatem festivitatemque atque urbanitatem sive comitatem, leporem iucunditatemque, quae in iis exerceatur deque iisdem manet profluatque ex dicendo, ad ioca prorsus dictaque iocularia atque ad facetias identidem referenda ducimus.

V TRIPLEX ESSE IOCANDI GENUS. 1. Iocandi autem in eiusmodi tum conciliationibus tum coronis triplex genus statuimus: et quod servile maximeque degenerans est, quales servorum sunt ioci, qualis etiam affabilitas eo hominum genere digna, ut: «Gymnasium flagri, salveto» «Quid ais, custos carceris?» «O catenarum

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e «rustichezza» il difetto relativo. Prima di parlare di costoro e della virtù che è nel mezzo, non senza ragione faremo alcune considerazioni preliminari, che debbono essere note e giustamente esposte all’inizio della trattazione.

IV LE RIUNIONI CHE AVVENGONO FRA I CITTADINI PER UTILITÀ O PER DIVERTIMENTO. 1. Poiché dunque gli uomini sono per natura stessa socievoli e si riuniscono per ben custodire la vita pubblica e privata, di qui deriva anche che si raccolgono, sebbene non si tratti affatto di utilità, ora in pochi ora in parecchi, sia per assecondare un bisogno naturale, sia per trovare un sollievo dalle fatiche intraprese e dalle noie. Pertanto le riunioni e gli incontri talora si fanno per utilità, talora solo per rilassarsi; vi sono ricercati particolarmente gli scherzi,179 le cose capaci di acquietare gli animi e ricrearli da una vita un po’ difficile, anzi l’interruzione o qualche assopimento180 delle stesse fatiche. In questi incontri, in questi ritrovi, oppure in un raduno di pochi o di molti cittadini o anche quando si pranza insieme e ci si siede insieme, per ristorarsi vengono fuori degli scherzi e dei discorsi ricreativi, spettacoli – per così dire – privati e buffonerie181 da teatro. Ogni piacevolezza, gaiezza, ogni arguzia o giovialità, ogni grazia e giocondità della conversazione e dell’incontro e del parlare, che in quei ritrovi si svolge, che da essi scaturisce e che sgorga dal parlare, riteniamo che si debba riferire agli scherzi, ai detti piacevoli e alle facezie.

V IL TRIPLICE GENERE DEGLI SCHERZI. 1. Degli scherzi, che avvengono in tali riunioni e circoli, possiamo definire tre generi: uno è quello «servile» ed estremamente depravato, al quale appartengono gli scherzi dei servi, e così anche l’affabilità di questa specie di gente, come ad esempio: «Ginnasio della frusta, statti bene», «Che fai di bello, carceriere?», «O allevatore di catene», «O pia1151

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colone», «O virgarum lascivia» et: «Nunc me illuc ducis, ubi lapis lapidem terit? Ubi vivos homines mortui incursitant boves?» et: «ut miser est homo qui amat!» «imo vero, hercle, qui pendet multo miserior» et: «noctem tuam et vini cadum», quorum quidem dictorum et graecae et Latinae comoediae sunt perplenae; et quod inter rusticos versatur urbanisque a moribus alienos homines, siquidem horum iocis ac dictis ut alibi ruditas quaedam inest atque ineptitudo, sic alibi illiberalitas ingenuo viro nullo modo digna, utque ex Casina Plauti depromantur exempla: «Dum gladium quaero ne habeat, arripio capulum. Sed cum cogito, non habuit gladium, nam esset frigidus» «Eloquere». «At pudet». «Num radix fuit?» «Non fuit». [«Num cucumis?» «Profecto, hercle, non fuit quicquam holerum, nisi, quicquid erat, calamitas profecto attigerat nunquam. Ita, quicquid erat, grande erat».

Singula dicta rus olent et in ore villici et in ore item matronae, quae et ipsa rusticabatur iocandi gratia. 2. At quod sequitur non caret illiberalitate: Illa haud verbum facit et saepit veste id qui estis. Ubi illum saltum video obsaeptum, rogo ut alterum sinat adire.

Quod dictum, quamvis illiberale, haud tamen illiberaliter expressum, sed verbis quidem suis ac rusticanis. Quale etiam et illud: fundum alienum arat, familiarem incultum deserit.

3. Tertio autem generi liberalitas inest ac suavitas illa, honestae iucunditatis comes, tantumque ab rusticitate remota quantum rusticanis a moribus urbani absunt, tantumque ab servilitate aliena quantum ab ingenuitate atque a libertate servitus; et huiusmodi quidem ioci materia

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cere delle verghe», e «Ora mi fai andare dove la pietra si strofina contro la pietra? Dove i buoi morti assalgono gli uomini vivi?» e «com’è sventurato l’uomo che ama. Anzi, per Ercole, chi è appeso è molto più sventurato», e «quanto vorrei una nottata con te e un orcio di vino».182 Di queste espressioni sono cariche le commedie greche e latine; e quel che si tratta fra rustici e fra uomini alieni dai costumi urbani, se è vero che nei loro scherzi e motti risiedono da un lato una certa rozzezza e sconvenienza, dall’altro una scortesia per nulla degna di un uomo onorato, come negli esempi che si possono trarre dalla Casina di Plauto: Mentre cerco, nel timore che abbia la spada, afferro l’impugnatura. Ma ora che ci ripenso, non aveva la spada, perché sarebbe fredda «Parla». «Ma mi vergogno». «Forse era radicchio?» «No». [«Forse era cocomero?» «Certamente, perdio, non era qualche erbaggio. A meno che, qualunque cosa fosse, una sciagura non l’aveva colpita. Così, qualunque cosa fosse, era grande».183

Ogni espressione puzza di campagna e sulla bocca del villano e sulla bocca della matrona, che anch’essa faceva la villana per scherzare. 2. Ma quel che segue non manca di cafonaggine: Quella non fa parola e copriva d’un velo quella parte per cui voi siete [donne. Quando mi ricordo che quel passo è inaccessibile, chiedo se mi permette [di accedere da un altro.

Questo motto, per quanto sconveniente, non è tuttavia espresso in modo scortese, ma con le parole rustiche appropriate. Come anche quell’altro: ara il campo di un altro, mentre lascia incolto quello di famiglia.184

3. Al terzo genere appartiene la gentilezza e l’amabilità compagna dell’onesta allegria, ed è tanto lontana dalla rustichezza quanto gli uomini urbani si allontanano dai costumi rustici, ed è tanto aliena dal carattere servile, quanto la servitù dalla nobiltà e dalla signorilità. Scherzi

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sunt, in qua tum facetudo versatur ut genus tum ut species eiusdem festivitas, lepos, comitas, urbanitas: cuique ab affandi suavitate nomen est affabilitati.

VI IN IOCANDO ADHIBENDUM ESSE DELECTUM. 1. Ipsa autem ioca nimirum alia senum sunt, alia iuvenum, alia eorum qui magistratum gerunt pretioque dignam personam, alia privatorum; habentque haec ipsa, ut fructus pomaque, sua quoque tempera, sua etiam loca; nec carent auditorum consideratione ac considentium: nequaquam enim omnia omni aut tempore aut loco aut quacunque in audientia ac consessu decent. Itaque non digna solum esse debent dictu, verum etiam auditu: quaeque neutique aut ridiculum faciant dicentem aut contemptibilem aut quae molestia afficiant auditorem, cum ex iocis relaxatio quaeratur, minime vero taedium aut molestia, siquidem ipsis in consessionibus ac circulis hominumque congregatione, quae ad recreationem animorum familiaremque ad affabilitatem sit, et loqui consessores ipsos usuvenit et audire per vices quasi quasdam. Is igitur a dicente delectus iocorum dictorumque habendus est, ut et suam tueatur et astantium personam, nec non et aetatis et temporis et loci et rerum ipsarum ipsiusque civilitatis. 2. In primis vero honesti decorique ratio habeatur, ut, quod in epulis exigitur, nec insulsa sint ioca nec nimis salsa; quaeque nec ieiuna sint ac macrescentia neque crassa nimis stomachoque prorsus ingrata: nanque ut ea conviciis careant ac maledicentia abhorreantque ab invehendo, hoc quoque civilibus et legibus et institutis cautum est vindicaturque nunc suppliciis nunc mulcta. Quod quid est aliud quam abuti velle iocis? Qui cum inventi sint ad refocillationem, eos quis, obsecro, convertat, nisi rixator quispiam, ad odia, simultates, contentiones ac tumultus? Quae quidem ipsa et tenenda et sequenda sunt faceto, perinde ut recta dictat ratio eiusque alumna prudentia, ut et quid, et quantum decet, et quo-

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di questo genere sono la materia sulla quale opera la facetudo, il genere insieme con le sue specie, che sono la festività, la grazia, la giovialità e l’urbanità: ad essa è stato attribuito il nome di affabilità dal verbo affor.185

VI NELLO SCHERZARE VA USATA LA DISCREZIONE. 1. Quanto agli scherzi, poi, è evidente che alcuni sono propri dei vecchi, altri dei giovani, altri di coloro che esercitano una carica pubblica e occupano un posto di prestigio, altri di privati. Questi scherzi hanno, come i frutti e i pomi, i loro propri tempi, i loro luoghi appropriati, né prescindono dalla considerazione degli ascoltatori e di chi sta seduto insieme, poiché non tutto sta bene in ogni circostanza o in ogni luogo, o qualunque sia il pubblico e il carattere dell’incontro. Pertanto non devono essere degni soltanto di essere pronunciati, ma anche di essere ascoltati, e tali da non rendere in alcun modo ridicolo o spregevole chi li pronuncia, e dar noia all’ascoltatore, poiché dagli scherzi si cerca di ottenere il rilassamento, non il tedio o la noia, se è vero che nei raduni, nei circoli e negli incontri fra persone, che mirano alla ricreazione degli animi e all’affabilità amichevole, si usa che coloro che stanno seduti insieme si parlino e si ascoltino reciprocamente. Da parte di chi motteggia deve essere operata una scelta degli scherzi e dei motti, in modo da salvaguardare la propria persona e quella degli astanti, e tener conto anche del momento, del tempo, del luogo, delle circostanze e della propria condizione di cittadino. 2. Ma prima di tutto si tenga conto dell’onestà e del decoro, in modo che, come si richiede in un pranzo, gli scherzi non siano né insulsi né troppo salaci; e che non siano né magri e macilenti,186 né troppo grassi e del tutto sgradevoli allo stomaco: e infatti, che siano privi di ingiurie e di maldicenza e che aborriscano dall’invettiva, è stato disposto anche attraverso leggi e norme civili, e la punizione consiste ora in supplizi ora in una multa. Che altro sarebbe ciò, se non voler abusare degli scherzi? Essendo stati inventati per il ristoro, chi, vi prego, potrebbe rivolgerli all’odio, alle inimicizie, alle contese e alle gazzarre, se non un attaccabrighe? Queste norme devono essere osservate e seguite dall’uomo faceto come dettano la giusta ragione e la prudenza sua alunna, in modo che 1155

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modo, et quo tempore, quoque item loco, et apud quos, quaeque item alia delectum comitantur ad hamussim, ut dici solet, cuncta perpendat dirigatque ad normam.

VII DE ALTERO EXTREMO, ID EST RUSTICITATE. 1. His itaque explicatis, primo de iis dicendum videtur quae in defectu versantur: quem habitum rerum scriptores moralium rusticitatem libenter appellavere, neque improprie sane neque inconsiderate, cum teneritas ipsa iocandi civilis admodum res sit; contra rusticorum hominum sive rigiditas sive iocandi fuga atque horror inhumanus ille quidem, ab omnique iucunditate aversus. Nam et homo ad risum sponte sua instinctus est atque ad iocum refocillationis gratia, perinde atque agendi gratia ad severitatem et laborem. Neque enim a philosophantibus non et apte et secundum naturam homo risibile animal est dictus, quemadmodum et equus hinnibile, mugibile autem bos. Ad haec quota laborum est susceptio, quae non et quietem respectet, et antequam ad exitum, qui ipse finis quidam est, pervenerit, et recreationem desideret et intermissionem quandam, per quam post ad laborem ipsum susceptumque ad opus resurgat robustior novatorque quasi quidam coeptam iam resumat actionem?

VIII AGRESTITATEM POTIUS QUAM RUSTICITATEM OPPONENDAM ESSE FACETUDINI. 1. Sed, nesciam quomodo, rusticitas vim ipsam parum omnino implet eaque convenientius urbanitati opponitur, quae species quaedam est, quam facetudini, quae genus ipsum repraesentat; ipsaque rusticitas in iocis versari potius rusticanis videtur, perinde ut in urbanis urbanitas, quam ut facetiei sit opponenda. Neminem tamen ab opinione sua suaque a sententia deterremus, dum tamen aequo patiatur animo facetudini nos

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egli rifletta su tutto e tutto diriga secondo la norma, calcolando esattamente a regola d’arte – come si suol dire –187 che cosa convenga e quanto, e come, e quando, e ancora dove, e presso chi, nonché tutte le altre cose che accompagnano la scelta.

VII L’ALTRO ESTREMO, CIOÈ LA RUSTICHEZZA. 1. Dopo questa spiegazione, mi sembra innanzi tutto che si debba trattare delle caratteristiche riguardanti il difetto; i trattatisti morali hanno chiamata volentieri questa qualità «rustichezza», e non certo impropriamente né sconsideratamente, poiché la delicatezza dello scherzo è cosa molto civile, mentre la durezza o la fuga dallo scherzo degli uomini rustici e la loro rozzezza disumana sono contrarie ad ogni piacevolezza. Infatti l’uomo per natura è incline al riso e allo scherzo al fine di ristorarsi, come è incline alla serietà e alla fatica ai fini dell’azione. E infatti dai fi losofi l’uomo è definito opportunamente e secondo natura animale capace di ridere, come il cavallo è capace di nitrire, il bue di mugghiare.188 Inoltre, quale impresa di lavoro è così piccola, da non richiedere anche il riposo, e che, prima di giungere all’esito, in cui consiste il fine, non richieda la ricreazione e una certa interruzione, attraverso le quali risorgere poi al lavoro stesso e all’opera intrapresa con maggior lena e come fosse un restauratore189 riprendere l’azione già iniziata?

VIII LA SELVATICHEZZA PIÙ CHE LA RUSTICHEZZA VA CONTRAPPOSTA ALL’ABITO FACETO. 1. Ma, non so come, il termine di «rustichezza» risponde ben poco al concetto e si oppone più adeguatamente all’urbanità, la quale è una specie, che non alla facetudo, la quale rappresenta proprio il genere; e la rustichezza sembra riguardare piuttosto gli scherzi rusticani, come l’urbanità gli scherzi urbani, più che opporsi alla facezia. Ma non intendiamo distogliere nessuno dalla sua opinione e dal suo parere, purché si accetti che noi opponiamo l’agrestitudo («selvatichezza»)190 alla facetudo 1157

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agrestitudinem opponere ac faceto agrestem, id quod aristotelicum fortasse verbum magis innuit et Horatius e nostris, cum ait: Rusticitas agrestis et inconcinna gravisque.

Ad rusticitatem enim addidit et agrestem et inconcinnam et gravem ut, agrestem dicens, rigiditatis vim rusticitati adiungeret et, incultam ac gravem agrestitudinem vocans, declararet qualis ipsa esset. 2. Itaque ut a forti fortitudo est deducta, sic, ab agresti agrestitudinem deducentes, hanc ipsam facetudini opponemus; qua ratione id efficitur, ut agrestitudo ipsa et rustica sit admodum et inconcinna perque quam gravis ac molesta, perinde ut e regione facetudo est urbana admodum et undique concinnata eademque perquam suavis et grata. Quis enim inficias eat, rura qui inhabitent et colant, rusticos appellandos, perinde ut qui urbem incolant, urbanos? At agri cum a cultu humano plerumque propter finium vastitatem squalescant magisque a feris frequententur quam ab hominibus, inde agrestitas ipsa feris similior quam hominibus; et feras res Graeci ‘agrias’ vocant. Quocirca agrestitudinem, vel si fortasse magis te agrestitas delectaverit, extremum alterum facetudinis esse volumus.

IX DE AGRESTI ET AGRESTITUDINE. 1. Agrestis autem proprium est viri, tum abhorrere a dicendis facetiis atque a iocando, tum etiam ab audiendis quae cum iucunditate dicantur. Quam ob rem huiusmodi hominum consuetudines difficiles sunt et parum gratae vitaque eorum tristior nec omnino sociabilis, ut videantur cum natura ipsa parum consentire, quae, ut somnum dedit animalibus ad recreationem sensuum omnium, sic tribuit homini et locutionem, non ad utilitatem modo conciliationis atque ad eam conservandam, verum etiam ad recreationem laborum ac molestiarum, quae plurimae contingunt in vita agenda atque in gerendis rebus. Est autem agrestitatis ipsius

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e il selvaggio al faceto, cosa cui forse accenna piuttosto l’espressione aristotelica e Orazio fra i nostri, quando dice: La rusticità del selvatico è sconveniente e disgustosa.191

Alla rustichezza aggiunse anche «selvatica» e «sconveniente» e «disgustosa», così da aggiungere, dicendo selvatico, al concetto di rustichezza quello di rozzezza, e chiarire, chiamandola selvatichezza grossolana e disgustosa, di che natura essa sia. 2. Pertanto come da «forte» deriva «fortezza», così, facendo derivare selvatichezza da selvatico, la opporremo alla facetudo; in tal modo avviene che la selvatichezza sia molto rustica e sconveniente, molto disgustosa e sgradevole, come di contro la facetudo è molto urbana e d’ogni parte conveniente, e per giunta molto piacevole e gradevole. Chi infatti potrebbe contestare che coloro che abitano e coltivano la campagna debbano chiamarsi rustici, così come debbano chiamarsi urbani coloro che abitano la città? Ma poiché le selve per lo più, per la vastità dei confi ni, rimangono incolte dalla mano dell’uomo e sono frequentate più dalle bestie che dagli uomini, perciò la selvatichezza è più simile al comportamento delle bestie che a quello degli uomini; anche i Greci chiamano le cose feroci agrias. Perciò riteniamo che la agrestitudo, o se vi piace di più la agrestitas, costituisca l’estremo che si oppone alla facetudo.

IX IL SELVATICO E LA SELVATICHEZZA. 1. È proprio dell’uomo selvatico avere avversione a dir facezie e a scherzare, e anche a udire quei motti che si pronunciano con piacevolezza. Per la qual cosa il rapporto con uomini del genere riesce difficile e ben poco gradevole, e la loro vita è piuttosto triste né assolutamente socievole, tanto da sembrare che essi si accordino poco con la stessa natura, la quale, come ha dato il sonno agli animali per la ricreazione di tutti i sensi, così ha attribuito all’uomo anche la parola, non solo per l’utilità di conciliarsi il favore e conservarlo, ma anche per la ricreazione dalle fatiche e dalle noie, che toccano in gran numero a chi conduce la vita e svolge la propria attività. Ma della selvatichezza è compagna una certa 1159

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comes ruditas quaedam incivilis ac male accepta, nec minus et morositas. Eiusmodi enim homines non modo circa iocos et dicta, verum etiam circa consuetudines ac facta difficiles sunt parumque omnino accomodantes aliis aut indulgentes: duri ipsi quidem, acerbi, inconditi atque ab omni genere urbanitatis alieni, ut ex omni fere vitae parte agrestes sint iudicandi. Qui siquando in dictum prorumpant aliquod, homines enim sunt quibus natura nec risum negavit nec iocum, tametsi hac in parte manci prorsus sunt ac deficientes, eorum tamen dicta aut rusticana quidem erunt, incondita, rudia aut maledica, conviciosa et tanquam a morositate profecta, quaeque aut lacessant aut mordicent aut ita sordescant, ut risui habeantur atque contemptui.

X [DE FATUIS, INSULSIS ET INCONDITIS.] 1. Horum quoque sunt e numero qui tum fatui dicuntur tum insulsi: quorum quidem dicta non modo salem non habeant, verum in eo deficiant, ut risum nullo modo pariant; quem ubi forte pepererint, id accidet non e dicendi suavitate, verum ab insulsitate potius ipsa quae ridiculos illos reddat ac despicabiles. Insulsi autem ac fatui pene iidem sunt; differunt tamen, quod insulsorum sale quidem ioci careant, cum salsi tamen ipsi esse cupiant; fatuis vero natura ab ipsa parum concessum sit id ipsum assequi posse, perinde ut holeribus quibusdam quibus negatum est condimentum accipere, quod quamvis non nunquam accipiant, nihilominus incondita tunc quoque appareant, unde et iidem inconditi dicuntur, quando incondita atque insulsa absque sapore sunt.

XI [DE INEPTIS.] 1. His adiungas licet etiam ineptos quosdam, quorum tamen dicta forsan ipsa per se delectarent; sunt tamen parum apte inconcinniterque aut sine delectu pronuntiata. Sed inepti nomen ad multa ac diversa pertinet; nam et risus et gestus et vestitus ineptus dicitur, nedum ut ineptus aut sermo dicatur aut iocus. Hi autem ipsi, quod neque in dicendo 1160

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rozzezza incivile e sgradevole, oltre che la caparbietà. Uomini di questo genere non solo nei confronti degli scherzi e dei motti sono scontrosi e ben poco disposti ad accordarsi e a consentire con gli altri: sono duri, scortesi, grossolani e alieni da ogni genere di urbanità, tanto da essere giudicati quasi per ogni verso della vita selvatici. E se talora prorompono in qualche detto (perché sono persone alle quali la natura non ha negato né il riso né lo scherzo, sebbene per questo verso sono manchevoli e limitati), i loro motti tuttavia saranno rustici, sconvenienti, rozzi o maligni, offensivi, e quasi nati dalla scontrosità, e tali da provocare o mordere, o esser vili a tal punto da suscitare riso e disprezzo.

X [I VANESI, GLI INSULSI E GLI SCIPITI.] 1. Al novero di costoro appartengono anche coloro che sono denominati ora vanesi ora insulsi: i loro detti non solo non hanno sale, ma hanno il difetto di non suscitare affatto il riso; e quando per caso lo provocheranno, ciò accadrà non per la piacevolezza del loro dire, ma piuttosto per l’insulsaggine che li rende ridicoli e spregevoli. Gli insulsi e i vanesi poi son quasi identici; differiscono tuttavia, perché gli scherzi degli insulsi son privi di sale, mentre vorrebbero esser sapidi; ma ai vanesi dalla natura stessa non è stato concesso per niente di riuscire a conseguire ciò, come ad alcuni legumi ai quali è negato ricevere il condimento, e se talora lo ricevono, nondimeno appaiono sconditi anche allora, per cui son detti scipiti, dal momento che le cose scondite e non salate sono insipide.

XI [GLI INCONCLUDENTI.] 1. A costoro si possono aggregare anche alcuni inconcludenti, i cui detti tuttavia forse per sé dilettano; sono tuttavia pronunciati in modo «poco adatto» (ineptus), sconvenientemente e senza criterio. Ma la denominazione di ineptus riguarda molte cose diverse; infatti si dice ineptus il riso, il gesto e il vestito, nonché si dice ineptus il discorso e lo scherzo. Costoro, poiché né nel dire né nello scherzare osservano il tempo o il 1161

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XII

neque in iocando aut tempus aut locum aut dignitatem servant suam, inepti inde vocati; ex eo etiam inepti pictores, poetae item inepti, qui dignitatem minime suam retineant in pingendo ac describendo. Itaque ineptitudo neutique dictorum est ac iocorum tantum, verum ad plura refertur ac diversa. Quo fit ut, in utendis quoque iocis ridicularibusque, qui a dignitate discedunt ac persona ipsoque ab decoro ac tum a rerum ac temporum tum vero a locorum atque audientium delectu observationeque, et ipsi inepti dicantur: quid enim vetat rem eandem alias ob causas aliam atque aliam habere rationem?

XII DE TRIVIALITATE. 1. Nam neque ruditas solum in hoc versatur vicio neque tantum rigiditas, fatuitas insulsitasque, sed trivialitas quoque quaedam; eaque non in ridicularibus modo, verum etiam in seriis ac gravibus rebus. Existit autem trivialitas circa popularia et pervulgata quaedam eaque etiam sordida. Itaque et apud doctos homines et versatos inter urbis atque aulae mores ridiculo, qui eiusmodi sunt, habentur ac despicatui. Sunt enim eorum dicta non modo frigida sententiaeque pene aniles, verum etiam rancentes et, pene dixerim, marcidae. 2. Sunt ex his quoque qui, dum iocari student, ruptare eos verba potius dicas foetereque illorum dicta ac confabulationes: quod tamen vicium nunc ad rusticitatem quidem referre possis nunc vero ad scurrilitatem. Sed scurrae id ipsum et quaeritant et affectant, ut videmus histriones in comoediis; labuntur enim volentes ad excessum, cum rustici quandoque studeant ipsi quidem velle iocari, verum ita in hoc deficiunt, ut ruptare eos dicas magis quam iocari; habent tamen et hi aliquando auditores sui studiosos. Quocirca Horatius propter tempora, ut arbitror, et aulam illam Augusti ridet quaedam apud Plautum, quae frigida tunc haberentur forsan et ruptatilia. Sed nos, dum vicia defectusque hac in parte diligentius exquirimus, nimii fortasse sumus. Quocirca qualis hic ipse habitus sit, quales qui eo sint praediti hactenus explicatum sit. Hinc ad diversum et huic contrarium vicium, quod de excessu profluit, transeamus.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XII

luogo o la propria dignità, sono chiamati sciocchi; per ciò anche sono inepti i pittori, sono inepti i poeti che non conservano la loro dignità nel dipingere e nel rappresentare. Pertanto la ineptitudo non appartiene solo ai motti e agli scherzi, ma si riferisce a cose diverse. Perciò chi anche nell’adoperare scherzi e buffonerie non tien conto della dignità della persona e del decoro, sia della scelta del quando, sia del dove e di coloro che lo ascoltano, anche lui è definito ineptus; chi ci vieta infatti di tenere un conto diverso della medesima cosa, ora per una ragione, ora per un’altra?

XII LA TRIVIALITÀ. 1. Certo non soltanto la rozzezza rientra in questo difetto, né soltanto la durezza, la vacuità e l’insulsaggine, ma anche una certa trivialità; ed essa non si rivela solo nelle buffonerie, ma anche nelle cose serie e importanti. Esiste però una trivialità che si manifesta negli atti del popolo e del volgo, ed essa è anche sordida. Pertanto presso gli uomini dotti e a contatto con la vita della città e della corte, gente di questo genere si espone al ridicolo e al disprezzo. Infatti non solo i suoi motti sono freddi e i suoi pensieri vecchiotti, ma anche rancidi192 e, direi quasi, marci. 2. Vi è fra questa gente anche chi, mentre si sforza di scherzare, diresti che piuttosto erutti parole e che i suoi detti e le sue conversazioni puzzino; questo difetto si può riferire ora alla rustichezza, ora alla buffoneria. Ma i buffoni questo cercano e a questo tendono, come vediamo fare agli istrioni nelle commedie; scivolano infatti volentieri verso l’eccesso, quando talora cercano di scherzare da cafoni, ma a tal punto vengono meno su questo punto, che si direbbe che vomitino più che scherzare; hanno tuttavia anche loro talvolta degli ascoltatori che li seguono con favore. Perciò Orazio, tenendo conto – come penso – dei tempi e della reggia famosa di Augusto, ride di alcune cose di Plauto, che forse allora potevano risultare fredde e tali da provocare il vomito.193 Ma noi, ricercando in questa parte i vizi e i difetti con troppa cura, rischiamo di essere eccessivi. Perciò basta la spiegazione fatta intorno a questo comportamento e a coloro che lo hanno. Di qui passiamo al vizio contrario, che scaturisce dall’eccesso. 1163

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XIII

XIII DE ALTERO EXTREMO, HOC EST SCURRILITATE. 1. Scurrilitatem eam maiores nostri, ut dictum est, vocavere et, qui ita sit affectus, scurram. Atque hic quidem nequaquam accusandus videatur, quia delectare dictis suis ac iocis consessores studeat et tanquam recreare a curis ac solicitudinibus, verum ex eo quod nec modum in iis retinet nec mensuram; dumque iocari queat ac risum movere, hinc honestatis modestiaeque digreditur e via, illinc vellicat astantes ac molestia afficit et perturbat potius quam delectet aut recreet, ut finis eius nequaquam sit refocillare facetiis ac iucundis dictis, sed quovis modo risum movere; dumque delectet, parum omnino curat alios lacessere ac suggillare. 2. Itaque facetudinis e curriculo digressus ac decori ipsius delectusque, de quo paulo est ante dictum, oblitus, delabitur ad oscenitatem, dicacitatem, spurcitiam, siquidem scurrarum ipsorum non una est species, de quibus singillatim ordineque dicemus suo. Cum enim ipsi a iocandi ac dicendi excessu rapiantur, huic uni tantum student; et alii quidem, relicta prorsus mediocritate, decorique ipsius ac temporis locique et item personae immemores, id tantum quaerunt, ut et videantur et iudicentur faceti, in quo, ut dixi, nihil omnino pensi habentes, vanitate quadam ducti, nomen vix ipsi suum ac certum habent; alii qui videri velint tum oblectare tum etiam vellicare ac mordicus petere, sive ultioni studentes sive ut maledicant molestiamque ingenerent, cum natura sint ab ipsa incommodantes, sive ut inde timeantur lucrumque ex eo referant, et hi quidem dicaces viciumque ipsum dicacitas; alii vero qui nequaquam molesti videri aut mordaces velint, nec quo oblectent per se, verum, dum placent, fructum ut inde aliquem referant hique arrisores appellari fortasse possunt, cum vultu quam verbis ut placeant magis dent operam, vicium autem ipsum arrisio; alii contra, his ut displiceant, illis ut placeant, aliis ut gratificentur, alios ut derideant summo contendunt studio, hique derisores, et habitus ipse derisio iure suo vocabitur. Sunt quibus curae sit oscenitas, hoc est dicta parum modesta, eaque nec verecunda nec proba quaeque impudentiam prae se ferant et a modestis auditoribus

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XIII

XIII L’ALTRO ESTREMO, CIOÈ LA SCURRILITÀ. 1. I nostri avi la chiamarono, come si è detto, scurrilità e chi vi sia incline scurra. E non sembra che costui debba riprovarsi perché si sforza di dilettare con i suoi motti e i suoi scherzi e quasi di ristorare dagli affanni e dalle ansie, ma per il fatto che non osserva in essi né modo né misura; e mentre può scherzare e muovere il riso, da una parte si allontana dalla via dell’onestà e della moderazione, dall’altra provoca gli astanti e arreca noia e perturba piuttosto che dilettare o ricreare; infatti il suo fine non è quello di ristorare con facezie e detti piacevoli, ma quello di muovere il riso in qualunque modo; e pur di dilettare, gli importa poco di provocare gli altri e di offenderli. 2. Pertanto, discostatosi dal cammino della facetudo, e dimenticandosi del decoro e della discrezione della quale si è detto precedentemente, scivola verso l’oscenità, la mordacità, la bruttura, se è vero che non ci sia una sola specie di buffoni; e ne tratteremo singolarmente e ordinatamente. Lasciandosi trarre all’eccesso nello scherzare e nel motteggiare, sono dediti soltanto a questo; e alcuni, abbandonato assolutamente il giusto mezzo, e dimenticandosi perfino del decoro, e del tempo e del luogo e così della persona, cercano solo questo, di sembrare ed esser giudicati faceti, e nel far questo, come ho detto, non hanno alcuna ponderatezza, lasciandosi portare da una certa vanità; costoro non hanno appunto un nome appropriato e determinato; vi sono altri, che vogliono sembrare di arrecar diletto, o anche di stuzzicare e assalire con morsi, sia perché desiderosi di ferire, sia per ingiuriare e arrecare noia, poiché sono per natura fastidiosi, sia per esser temuti e riportarne un vantaggio; costoro sono i mordaci e mordacità è il loro vizio; vi sono altri, che non vogliono in alcun modo sembrare molesti o mordaci, né mirano a dilettare in sé, ma a ricavare un frutto dal piacere che offrono; costoro possono esser forse chiamati arrisores,194 perché si danno da fare per rendersi piacevoli con il volto più che con le parole, ed il loro vizio si può chiamare arrisio; altri al contrario dedicano tutto il loro sforzo a dispiacere ad alcuni, a piacere ad altri, a compiacere alcuni, a deridere altri, e costoro si chiameranno «derisori» e giustamente la loro attitudine si chiamerà «derisione». Vi sono alcuni che hanno interesse per l’oscenità, cioè per i motti poco castigati, e inoltre né costumati né onesti, e tali da rivelare impudenza, e da far 1165

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XIV

non sine rubore audiantur oculorumque demissione, cum verba ipsa sint oscena ac res ipsae saepenumero osceniores: quod vicium ab Oscis, id est antiquisissimis Campaniae populis, manasse volunt, unde hodie quoque vindemiarum temporibus hoc ipsum vicium ipsaque oscenitas regnare apud Campanos videtur. 3. Quosdam non tantum oscena, verum etiam spurca capiunt estque eorum studium spurcari, hoc est impuris et iocis et dictis diffluere, ut non iucunditas eos moveat, sed turpitudo potius ipsa tum rerum tum verborum intemperata ac deformis explicatio; ipsi spurci vocati viciumque ipsum spurcitia. His accedunt maligni quidam, naturaque etiam ab ipsa ad maledicendum proclives, ad detrahendumque habitu atque exercitatione confirmati; quorum dicta non pungant modo, verum et urant et pustulas inducant atque carcinomata, nec careant aut veneno aut aperta petulantia morsibusque viperinis. Videbuntur autem hi ipsi duplici fortasse appellatione usurpandi: alterique petulantes, alteri vero ampullosi, ut petulantes magis declinent ad oscenitatem atque intemperantiam, ampullosi ad maledicentiam ac detractionem, quorum dicta vetusti ampullas nominarunt. Erit autem alterius habitus petulantia, alterius nomen ampullositas, utrumque a natura ipsa rei ductum. Haec autem fere scurrarum videntur esse genera; quorum deformatissimi quidem sunt qui apud principum mensas inque dominantium aulis versantur, non modo rei familiaris ampliandae gratia, quod tolerabilius quidem videatur, verum ut ventri satisfaciant atque ebrietati: hique facile quidem in omnem turpitudinem dilabuntur gulae ac ventris studio; graeco nomine nunc ‘parasiti’ vocati nunc ‘sicophantae’, viciumque ipsum ‘parasitatio’ ac ‘sicophantia’.

XIV LONGIUS DISTARE A MEDIO AGRESTEM QUAM SCURRAM. 1. Abest autem agrestis a mediocritate multo quidem quam scurra longius, quod huic modus tantum deest ac mensura, illa quidem quae mediocritatem gignit, quam ubi sectari voluerit atque ad illam regredi, facile ipse quidem facetus erit. At agrestis ex omni profecto parte adeo

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XIV

arrossire e chinare gli occhi alle persone castigate che li ascoltano, perché le parole sono oscene e gli stessi argomenti spesso più osceni ancora: questo vizio si vuole derivato dal nome degli Osci,195 ossia degli antichissimi popoli della Campania, onde ancor oggi al tempo della vendemmia proprio questo vizio e l’oscenità sembra che regnino presso i Campani. 3. Alcuni non solo sono conquistati dalle oscenità, ma anche dalle sozzerie ed il loro intento è quello di dir sozzure, cioè diffondersi in scherzi e motti sconci, tanto da mostrare che non la piacevolezza li muova, ma piuttosto la turpitudine sfrenata e l’espressione scomposta di pensieri e parole; essi sono chiamati sozzi e il loro vizio sozzeria. A costoro si aggiungono alcuni maligni, per natura proclivi alla maldicenza, rafforzati nell’abituale esercizio della denigrazione, i cui detti non solo pungono, ma bruciano e producono bolle e cancro, né mancano di veleno o di aperta arroganza e di morsi viperini. Sembrerà dunque che a costoro debba essere attribuito un duplice nome: gli uni sono petulanti, mentre gli altri ampollosi, dove i petulanti piegano di più verso l’oscenità e l’intemperanza, gli ampollosi alla maldicenza e alla calunnia, perché gli antichi nominarono ampullae i loro detti. La qualità dell’uno sarà poi petulanza, il nome dell’altro l’ampollosità, tutti e due tratti dalla stessa realtà. Queste dunque sono pressappoco le specie di buffoni: sono i più turpi invero quelli che vivono presso le mense dei principi e nelle regge dei signori, non solo per ampliare le loro ricchezze, che sembrerebbe in verità più tollerabile, ma per soddisfare al ventre e all’ubriachezza: costoro facilmente scivolano in ogni genere di turpitudine per il desiderio di soddisfare la gola e il ventre; con nome greco ora si chiamano «parassiti» ora «sicofanti», e il vizio «parassitismo» e «sicofantìa».

XIV IL SELVATICO È PIÙ DISTANTE CHE NON IL BUFFONE DAL GIUSTO MEZZO. 1. L’uomo selvatico si allontana dal giusto mezzo molto più del buffone, poiché a costui manca soltanto il modo e la misura, quella qualità cioè che dà luogo al giusto mezzo, cosicché quando vorrà seguirla e tornare ad essa facilmente egli potrà essere faceto. Ma il selvatico non c’è

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XV

deficiens est, ut nullo pacto accedere ad mediocritatem queat, aut illam assequi, quippe cui omnia simul desint. Inter haec igitur vicia virtus ipsa, de qua loquimur, sic constituta est, ut alterum illum qui agrestis dicitur ab se repellat tanquam fugientem a medio quique revocari ad illud aut nullo modo possit aut sit omnino difficillimum, alterum vero ut scurram, oscenum, spurcum ad se se revocet perinde ut longius a signis digressum ipsaque ab mediocritate; quam circa virtutem quidem omnem versari moralem, vel mediocritatem ipsam potius virtutem esse satis inter omnes constat, qui recte quidem philosophati sunt.

XV DE FACETIS. 1. Est igitur faceti hominis proprium in dictis factisque, in seriis ac iocis, in dicendo atque audiendo quae ad recreationem spectent animorumque relaxationem, in convictibus consessionibusque atque in congressibus ipsisque in circulis atque hominum coronis collocutionibusque, mediocritatem sequi; e qua id assequitur, ut facetus ipse iure suo et sit et habeatur, eoque se se vestiat habitu, quam facetudinem vocari diximus; quo de habitu ipse sibi nomen desumat, ut qui sub Caesare, sive eques sive pedes, militarit miles dictus est Caesarianus, qui sub Pompeio Pompeianus aut sub Mario Sylla ve sive Marianus sive Syllanus. Habitus enim ipse ipsaque insignia militem quidem ostendunt, cuius videlicet sit factionis; in agendo vero actiones ipsae civilem atque urbanum hominem. Nam et ioculatio et dictorum familiaris iucundaque invicem usurpatio actiones quidem sunt, moresque et ipsae nostros determinant, ut a facetis dictis iocisque suavioribus dicamur faceti, a scurrilibus scurrae, ab agrestibus agrestes, perinde ut a nimio pecuniae studio atque habendi cupiditate avari, ab usu mediocri et recto liberales, ab diffluentia vero ac dissipatione diffluentes atque effusi. 2. Facetorum igitur hominum ea est mediocritas, ut delectum, de quo diximus, cum primis servent. Servabunt autem illum, si personae propriae auditorumque, loci item ac temporis dignitatem retinuerint, ut neque in dicendo iocandoque procaces fuerint, petulantes, immodici,

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XV

dubbio che sia difettoso in ogni senso, a tal punto che in nessun modo può avvicinarsi al giusto mezzo, o conseguirlo, perché a lui mancano tutte quante le doti. Collocata fra questi vizi, dunque, la virtù della quale parliamo, è tale da respingere, quasi in fuga, dal giusto mezzo colui che si chiama selvatico e che al giusto mezzo non può essere richiamato in modo alcuno, o è difficilissimo che lo sia, mentre richiama a sé l’altro, ossia il buffone, l’osceno, lo sconcio come uno che si sia discostato un po’ troppo dal tracciato e dal giusto mezzo. Che in questa virtù consista tutta la morale, e che anzi il giusto mezzo perfino si identifichi con la virtù è ben noto a tutti coloro che hanno fatto della buona filosofia.

XV I FACETI. 1. È proprio dell’uomo faceto dunque osservare il principio del giusto mezzo nei detti e nei fatti, nelle cose serie e scherzose, nel dire e nell’ascoltare ciò che ha come scopo la ricreazione ed il rilassamento degli animi, quando si è insieme a tavola, quando si è insieme e ci si riunisce, nei circoli, nei raduni e nelle conversazioni; in virtù di questo giusto mezzo avviene che l’uomo faceto sia tale, e tale sia ritenuto, e si vesta di quell’abito, che abbiamo detto chiamarsi facetudo; e da questo abito egli giustamente ricava il suo nome, come chi ha militato sotto Cesare come cavaliere o fante è chiamato cesariano, chi ha militato sotto Pompeo pompeiano o sotto Mario o Silla mariano o sillano. lo stesso abito e le stesse insegne rivelano il soldato, cioè indicano a quale truppa appartenga; nell’agire le azioni stesse rivelano l’uomo civile ed urbano. Infatti lo scherzare e l’uso amichevole dei detti piacevolmente scambiati sono azioni, e definiscono il nostro comportamento, in modo che per i detti faceti e gli scherzi piacevoli siamo chiamati faceti, per le buffonerie buffoni, per le maniere selvatiche selvatici, così come avari per l’eccessivo desiderio di danaro e la cupidigia di possedere, liberali per il comportamento moderato e corretto, spreconi e smodati per lo spreco e la dissipazione. 2. Il giusto mezzo dunque nel caso degli uomini faceti consiste nell’osservare anzitutto la discrezione di cui abbiamo trattato. La osserveranno, se sapranno rispettare la condizione della propria persona e degli ascoltatori, del luogo e del tempo, in modo da non essere procaci nel 1169

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XVI

intempestivi, osceni, spurci, ampullosi neque in audiendo aut detestabuntur iucunde ac concinne dicta aut aures avertent a lepide atque urbane pronuntiatis, utque, dum mediocritatem assequi ipsam nequeunt, ne rusticentur ne ve efficiantur insulsi, rancidi, hircosi, quorum etiam dicta culinam oleant.

XVI DE DICTORUM IOCORUMQUE DIVERSITATE. 1. Ipsa autem dicta ac ioca, quae ad relaxationem pertinent, ut generaliter de iis loquamur, nequaquam uniusmodi quidem sunt, licet ad refocillationem curarum spectent ac requietem, siquidem alia sponte sua atque ex tempore profluunt, alia tanquam provocata atque excita extrinsecus in responsionibus sunt posita, ut cum Cneus Pompeius salse aculeateque, sicuti ante diximus, interrogavit: «Ubi gener est tuus, Cicero?», non minus argute ac morsiculate ab illo responsum est: «ubi et socer est, Pompei, tuus». Eiusdem est generis responsum ab homine redditum viatore: nec agreste nec illepidum, salsum tamen; cum enim, offenso pede ad lapidem, crus fregisset imploraretque opem a praetereuntibus respondissetque ex illis maior natu quispiam: «Deus tibi ipse et opem et suppetias ferat», tum ille subdidit: «Nec dei nec coelitum cuiuspiam e numero auxilium, hominis tantum hac praetereuntis peto». 2. Utriusque autem generis diversae admodum sunt species, quippe cum dicta ipsa alia sub increpationis speciem risum moveant, quale Plautinum illud: «iste quidem gradus subcretus est cribro pollinario»; itemque: «vicistis cocleam tarditudine»; alia quae e difficultate peragendae rei ac frustratione deliniant auditorem, quale illud: «himbrem in cribrum geras»; aut quae ex annominatione, ut: «Ecquid is homo scitus est?» «Plebiscitum non aeque est scitum»; et: «hic equus non in arcem, veram in arcam faciet impetum». 3. Sunt quae ab probrositate pariant iucunditatem, quale hoc:

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVI

motteggiare e nello scherzare, petulanti, smodati, sconvenienti, osceni, sozzi, ampollosi, e, nell’ascoltare, non detesteranno i detti piacevoli ed eleganti, né distoglieranno le orecchie dalle parole pronunciate con spirito ed urbanità, in modo da evitare che, incapaci di conseguire il giusto mezzo, si comportino da cafoni o diventino insulsi, rancidi, fetenti,196 e i loro detti puzzino di cucina.

XVI DIVERSITÀ DI MOTTI E DI SCHERZI. 1. I motti e gli scherzi, che hanno come scopo la distensione, per parlarne in generale, non sono tutti dello stesso genere, sebbene riguardino il ristoro dagli affanni e il riposo, se è vero che alcuni scaturiscono spontaneamente e improvvisamente, altri, quasi provocati e sollecitati da un’occasione esterna, consistono in risposte, come quando Cneo Pompeo chiese in maniera arguta e pungente, come prima abbiamo detto:197 «Dov’è il tuo genero, Cicerone?», e con non minore arguzia e mordacità l’altro rispose: «Lì dove è tuo suocero, Pompeo». Dello stesso genere è la risposta data da un viandante; una risposta non selvatica né priva di spirito, ma frizzante; infatti, urtato il piede ad una pietra e rottosi una gamba, chiedeva aiuto ai passanti, e avendogli risposto uno di loro di età piuttosto avanzata «Dio ti porti aiuto e soccorso», soggiunse: «Non chiedo l’aiuto di Dio né di alcun santo, ma soltanto di un uomo che passi di qui». 2. A ciascuno di questi due generi appartengono specie assai diverse, poiché fra i detti alcuni muovono il riso sotto forma di rimprovero, come in quel luogo di Plauto:198 «Questo vostro modo di camminare è stato setacciato con il crivello della farina»; e così: «Avete vinto la lumaca con la vostra lentezza»; altri che dilettano l’ascoltatore riferendosi alla difficoltà o inutilità di un’azione: «raccogli la pioggia in un crivello»; oppure usando un bisticcio di parole, come in «Che dici, è scitus quell’uomo?», «Un plebiscito non lo è di più»;199 e: «Questo cavallo non attaccherà una fortezza, ma una cassaforte».200 3. Vi sono detti che producono il piacere attraverso la vergogna, come questo:

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XVII

Noctu in vigiliam quando ibat miles, tum tu ibas simul, conveniebat ne in vaginam tuam machaera militis?

aut a cavillatione, ut: «Cistella hic mihi adolescens evolavit», «in cavea latam oportuit»; aut ab illusione, ut cum ille dixisset: «vox ad auris advolavit», tum alter: «Nae, ego infelix fui, qui non alas intervelli: volucrem vocem gestito»; interdum ex perplexitate verborum, ut: «non ex uxore natam uxoris filiam»; alibi ex retorsione maledicti, ut: «Ve tibi!» «hoc testamento servitus legat tibi», et retorsit maledictum et testatorum usus est similitudine ac verbis; et: «eos asinos praedicas vetulos, claudos, quibus subtritae ad foemina iam erant ungulae», «ipsos, qui tibi subvectabant rure virgas ulmeas»; nonnunquam ex verborum novitate, ut Quid istae quae vesti quotannis nomina inveniunt nova? tunicam rallam, tunicam spissam, linteolum caesicium, indusiatam, patagiatam, calthulam aut croculam, supparum aut subminiam, ricam, basilicum aut exoticum, cunatile aut plumatile, cerinum aut gerrinum, gerrae maximae! cani quoque ademptum est nomen: vocant Laconicum,

iucundissima sane tum effictio nominum tum innovatio muliebrium vestimentorum, ex ore praesertim servi subdoli ac veteratoris, aliquando ex cautione, ut: «cave, sis, cum filia mea copulari hanc, divertunt mores virginis longe a lupae»; aut ex contemptu atque aspernatione, ut: «haec negat tuam esse matrem». «Ne fuat, si non vult: equidem, hac invita, tamen ero matris filia».

XVII DE LOCIS UNDE DUCUNTUR DICTA AC FACETIAE. 1. Habent igitur ridicularia, quaeque dicta vocantur ac facetiae, locos suos, unde deducantur, quemadmodum et argumenta apud dialecticos;

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVII

Di notte, quando il soldato andava a far la guardia, tu vi andavi assieme, forse nella tua vagina si infi lava la spada del soldato?

o attraverso il cavillo come quest’altro: «Caro ragazzo, una mia cestella se n’è volata via», «bisognava chiuderla in gabbia»; oppure attraverso il gioco dell’allitterazione, come allorché uno disse: «una voce è volata al mio orecchio», e l’altro: «Certo, sono stato io, disgraziato, che non le ho svelto le ali; vado portando in giro una voce volante»; talora attraverso la ripetizione delle parole, come in «non è nata da sua moglie, la figlia di sua moglie»; altra volta attraverso la ritorsione di una maledizione, come in «Guai a te!», «questo la servitù ti lascia per testamento»; ritorse la maledizione e usò la similitudine e le parole dei testamenti; e in «Vai vantando quegli asini vecchi, zoppi, ai quali ormai le unghie erano consumate fino ai femori», «quelli che ti trasportavano dalla campagna le verghe di olmo»; talora attraverso la novità delle parole, come in: Che sono codesti nomi nuovi che s’inventano ogni anno per il vestiario? Tunica velata, tunica foderata, faldiglia di frastagli, il sottogonnino, il blusettino, la rancia e la fiorrancia, la verdicchina o la broccatina, la cerambrata e le più grandi minchionerie. Anche al cane si è attribuito un nome: lo chiamano Laconia.

Piacevolissima invenzione veramente, e innovazione di vestiti femminili, specialmente sulla bocca di un servo subdolo e scaltro; talora attraverso un’espressione di prudenza: «Sta accorto, ti prego, a metter insieme questa con mia figlia, i costumi di una vergine divergono assai da quelli di una lupa»; o attraverso l’indifferenza e il disprezzo: «Costei nega di essere tua madre», «Non lo sia, se non vuole: e infatti, anche se non vuole lei, io sarò figlia di mia madre».

XVII I CAMPI SEMANTICI DAI QUALI SI TRAGGONO MOTTI E FACEZIE.201 1. Hanno dunque le ridicolaggini e i cosiddetti motti e facezie i loro luoghi topici donde vengono ricavati, come gli argomenti presso i dialet1173

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in quibus ostendendis si aliquantum versabimur, nam ut omnia colligamus esset profecto laboris magis affectati quam necessarii, videbitur fortasse non omnino alienum, praesertim cum a maioribus nostris pars haec non fuerit omnino neglecta. Puer florentinus et argutus et perurbanus, adductus ante sacerdotem cardinalem iocandi gratia, multa cum facete admodum nec minus etiam scite dixisset sacerdosque ipse, ad amicum qui astabat conversus, susurrasset huiusmodi pueros consuesse, ubi ad aetatem pervenissent robustiorem, ingenio subcrassescere, «Nae, inquit, o bone cardinalis, puerulum te oportuit scitum fuisse admodum». Dictum itaque in se puer in sacerdotem retorsit magna cum auditorum hilaritate et risu. Est apud Plautum dictum et salsum et bene argutum: Prodigum te fuisse oportet in adolescentia, quia senecta aetate mendicas malum.

Locus hic ipse quidem in ipsa rerum natura constitutus est, siquidem initio qui sunt prodigi, necesse est eos, effusa prodigenter pecunia, tandem egere. 2. Antonius Panhormita, suavis admodum vir, interrogatus, ad rem uxoriam iucunde concorditerque agendam quibus nam maxime opus esse duceret, sumpto argumento a frequentia molestiarum ac magnitudine quae in vita contingerent coniugali, duobus tantum opus esse respondit: vir ut aurium surditate teneretur, uxor vero ut oculis esset capta, ne altera videlicet inspiceret quae a marito intemperanter fierent plurima, alter ne audiret obgannientem assiduo domi uxorem. Nicolaus Porcinarius, praetor admodum severus, tris cum torsisset eadem de causa reos adductusque esset quartus ad funem, interrogavit, quo is esset nomine; respondit illico reus sibi nomen esse Sextodecimo. Demiratus Nicolaus raritatem cum esset nominis, subdidit ille: «A re ipsa reique ipsius eventu nomen mihi hoc optingit, praetor; nam cum tres illi quaternatim, hoc est duodecies, funiculo ante me contorti sint, nimirum sextadecima mihi tortura sortito obvenit». Quo quidem dicto delectatus ille a supplicio temperavit. Et facete et extemporaliter sumptus est iocan-

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tici; se nel mostrare questi luoghi ci intratterremo alquanto (e infatti raccogliere ogni cosa costituirebbe una fatica più pedante che necessaria) non sembrerà forse del tutto fuori posto, specialmente perché dai nostri avi questa parte non è stata del tutto trascurata. Un ragazzo Fiorentino arguto e assai spiritoso, condotto davanti ad un cardinale per far ridere, disse molte cose con molto spirito e con non minore arguzia; e poiché il sacerdote, rivoltosi ad un amico che era presente, aveva sussurrato che ragazzi del genere di solito, giunti ad un’età più matura, diventano grossolani, «Certo – disse lui – o buon cardinale, tu da ragazzino devi essere stato molto arguto». E così il ragazzo ritorse contro il sacerdote ciò che era stato detto contro di lui con grande ilarità e riso degli astanti. Vi è in Plauto un detto piccante e molto arguto: Devi essere stato prodigo nella giovinezza giacché nella vecchiaia vieni a mendicare un guaio.202

Questa specie di arguzia è fondata sulla stessa natura umana, se è vero che coloro i quali inizialmente son prodighi, necessariamente, dopo aver sperperato con prodigalità il danaro, alla fine si riducono ad uno stato di bisogno. 2. Antonio Panormita, uomo molto piacevole, interrogato su che cosa ritenesse indispensabile prima di ogni altra cosa per tenere un piacevole e concorde rapporto con la moglie, prendendo lo spunto dalle numerose e grosse noie che s’incontrano nella vita coniugale, rispose che sono indispensabili soltanto due cose: che l’uomo sia menomato per la sordità e la donna sia invece priva degli occhi, evidentemente perché l’una non veda le moltissime intemperanze del marito, e l’altro non oda il continuo brontolio della moglie in casa.203 Nicolò Porcinari, un pretore molto severo,204 avendo fatto torturare tre rei per la stessa colpa, quando il quarto fu condotto alla fune, gli domandò quale fosse il suo nome; il reo rispose lì per lì di chiamarsi Sestodecimo. Siccome Nicolò si meravigliava della rarità del nome, quello soggiunse: «Questo nome, o pretore, mi tocca per la circostanza stessa dei fatti; poiché quei tre prima di me sono stati torturati alla cordicella quattro volte per uno, cioè dodici volte, non fa meraviglia che la tortura che mi tocca sia la sedicesima». Divertito da questo motto il pretore gli risparmiò la punizione. Con spirito oltre che

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di locus ab enumeratione torturarum, quae posset et animum movere et iram temperare. 3. Puella et modesta et catula, cum ab muliere quadam iracunda atque annosa non solum amaris, verum etiam impudentibus incesseretur dictis: «Quando, inquit, ut video, abundas annis, mulier, pudorisque egena es admodum, te hortor, ut huiusce sumas aliquid alicunde mutuum». Locus sumptus a consuetudine eorum qui, cum pecuniae egeant, illam sumunt mutuam. Homuncio et dicaculus ipse quidem et coronis assuetus, ingressus domum, conspicatur uxorem amatori implexam, cuius ex humeris nudata cruscula, pedes autem calceolati dependerent; tum ille: «O mea, inquit, uxorcula, ut benefacis, ut rei familiari utiliter consulis! hac enim ratione toto anno ne par quidem calceolorum ipsa conteres, nullique rei futura est tibi necessaria sutoris opera». Et huius quidem ioci sedes in utilitate collocata est. 4. Cossentinus civis, callidus admodum ac versutus, questus est apud equitum praefectum subreptam sibi noctu fuisse equam, quam clam quidem praefectus ipse surripi iussisset. Responsum est illi a praefecto atque imperatum, ut in ea conquirenda nihil omitteretur diligentiae et operae; coeterum, quo illa clam extra oppidum incognita alio traduceretur, et freno instrui et phaleris ornari splendidioribus eam iussit; quae cum paulum modo extra portam processisset coenosumque incidisset in locum, corruit resupinato corpore cognitaque est a domino, qui illic forte observabat. Is itaque comparatis statim subligaculis, quas, ni fallor, hodie bracas vocant, statim ad praefectum rediens: «Ego, inquit, heri et precatoris personam apud te et supplicis gessi, hodie vero et adiutor advenio et consiliarius. Ecca tibi subligacula, quibus uti posthac tuto poteris ad equas a furtis vindicandas sexumque obtegendum». Dicti huius sedem constitutam esse in instrumento et ornatu parum idoneo, quis non videt praetoriaque in turpitudine? 5. Ludovicus, Galliae rex, Caroli eius pater qui paucis ante annis regnum neapolitanum armis occupavit, filiam collocaverat Aureliensi Ludovico. Ea cum deformis esset ac parum venusta atque patre coram forma eius a viro praeter modum commendaretur, sensit socer inesse ge-

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con immediatezza l’opportunità dello scherzo fu tratto dal conteggio delle torture, che avrebbe potuto toccare l’animo e placare l’ira. 3. Una fanciulla pudica e accorta, poiché veniva tormentata da una donna irosa e vecchia non solo con parole amare, ma anche spudorate: «Poiché – disse – come vedo, sei carica d’anni, o donna, e tanto bisognosa di pudore, ti esorto a prenderne un po’ in prestito da qualche parte». L’argomento è tratto dalla consuetudine di coloro che, avendo bisogno di danaro, lo prendono in prestito. Un ometto un po’ mordace e abituato a frequentare i circoli, entrato in casa, vede la moglie abbracciata al suo amante, dai cui omeri pendevano le gambe nude e i piedi con i calzari; allora lui: «O cara mia mogliettina – disse – come fai bene, come provvedi utilmente alla famiglia! in questo modo infatti per tutto un anno non consumi nemmeno un paio di calzari, e non avrai assolutamente bisogno del lavoro del calzolaio».205 L’argomento di questo scherzo appartiene al campo dell’utilità. 4. Un cittadino di Cosenza, molto abile e scaltro, si lamentò presso il comandante della cavalleria per il fatto che gli era stata sottratta di notte la cavalla che lo stesso comandante aveva ordinato di sottrarre di nascosto. La risposta del comandante fu che nella ricerca di essa non si tralasciasse né diligenza, né fatica; dall’altro canto il comandante ordinò che essa di nascosto, senza farla riconoscere, fosse condotta altrove fuori della città, fosse fornita del freno e ornata di splendidi fi nimenti; ma quando la cavalla si spinse un po’ fuori della porta e capitò in un luogo fangoso, precipitò con il corpo all’indietro e fu riconosciuta dal padrone, il quale stava lì per caso a guardare. Egli, dunque, procuratesi subito delle fasce, quelle che, se non mi sbaglio, oggi chiamano «brache», immediatamente tornando dal comandante disse: «Io ieri recitai presso di te la parte di chi prega e supplica, ma oggi vengo come collaboratore e consigliere. Ecco a te le fasce, delle quali in seguito ti potrai servire con sicurezza per recuperare le cavalle rubate e coprire il sesso». Chi non vede che il fondamento di questo motto risiede in un arnese e ornamento poco conveniente, chi non vede che esso risiede nella turpitudine del comandante? 5. Luigi, re di Francia,206 padre di quel Carlo che pochi anni fa occupò con le armi il regno di Napoli, aveva dato in moglie la figlia a Luigi d’Orléans. Poiché ella era brutta e poco aggraziata, e di fronte al padre la sua bellezza veniva esaltata dal marito oltre i limiti, il suocero pensò 1177

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neri verbis spicula, quae quo retunderet, ab obliquo gladii aciem obiecit et: «Hoc, inquit, laudibus istis adiice: uxorem tuam pudicissimae esse matris filiam». Erat enim constans opinio Aureliensis matrem parum pudice se se habuisse, quippe quae, priore viro mortuo, familiari eius nupsisset, quicum, vivo illo, se se immiscuerat. 6. Meis e tribulibus quispiam abunde comis, cum hospes vociferantem diutius uxorem eius rixantemque cum ancillis parum aeque ferret, conversus ipse ad hospitem: «Ecquae, inquit, amice impatientia est tua? duos et triginta annos huius clamores diesque ac noctes aequissime ipse perfero, tu vero ne dieculae quidem sextantem ferre eam potes?» Quo dicto et hospitem leniit et uxorem ab ira ad risum convertit; quae iocandi occasio ab incusatione sumpta est atque ab exemplo. Diverterat aliquando familiaris quidam meus, peregre iter faciens, ad meritoriam; apposita est ei coena omni e parte holitoria; vinum item dilutissimum, omnia demum administrata parcissime. Postquam autem coenavit, iussit vocari ad se medicum ad mercedem capiendam; igitur caupo cum respondisset: «Ecquid, malum, in viculo maxime agresti medicum requiris?», ibi ille: «Num ne, o bone, te te ipsum ignoras? quo sit igitur merces operae suae par, medici pretium accipe, non cauponis, quando ut aegrotum me pavisti in coenula». Ab irrisione et contemptu deductum est dictum. Eiusdem est generis quod subiicio. 7. Homo hispanus, vasto admodum, nedum procero corpore, praetereuntem nanulum irridebat: conversus itaque ad eum nanulus, percontatur quo ipse esset nomine. Cum respondisset Rodoricillo sibi nomen parentes fecisse, tum ore quam maxime prompto nanulus: «Atqui, inquit, parentes istos tuos maxime omnium mendicos fuisse oportet, qui, in tanta nominum copia, in te appellitando tanta inopia laboraverint». Subdiderim et aliud non iniucundum ex eodem fonte. Diverterat ad meritoriam Pyrrhiniculus Vasco atque, apposita mensa, anaticulum versabat in lancibus perbelle unctum atque halliatum. Ingreditur repente ad illum viator hispanus, iniectisque in anaticulum oculis: «Potes, inquit, o amice, advenientem comiter amicum accipere?». Ibi tum Pyrrhiniculus, quo

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che nelle parole del genero ci fossero delle punte, per smussare le quali gli oppose il filo della spada di traverso e: «Aggiungi questo – disse – alle lodi: che tua moglie è figlia di una madre castissima». Era infatti ferma opinione che la madre dell’Orléans si fosse comportata in modo poco pudico, perché, morto il primo marito, aveva sposato un suo familiare con il quale era stata insieme quando lui era vivo. 6. Uno dei miei vicini, abbastanza gioviale, poiché il suo ospite non poteva sopportare sua moglie, che parlava continuamente e litigava con le domestiche, rivoltosi al suo ospite: «Cos’è – disse – o amico questa tua mancanza di sopportazione? Io sopporto benissimo da trentadue anni le sue grida giorno e notte e tu non la puoi sopportare nemmeno la sesta parte di una giornata?» Con questo detto non solo fece calmare l’ospite, ma fece anche passare la moglie dall’ira al riso; questa occasione di scherzo è tratta dal campo dell’accusa e dell’esempio. Un mio caro amico, molto cortese, durante un viaggio in paese straniero, aveva preso alloggio in una locanda; gli fu portata una cena tutta a base di legumi; anche il vino era molto annacquato ed infine tutto era somministrato con molta parsimonia. Dopo aver cenato, ordinò di far venire da lui un medico a ricevere il conto; avendogli l’oste risposto: «E che, diamine, in un paesino di campagna tu cerchi un medico?», lui allora: «Carissimo, non conosci dunque te stesso? Perché dunque il pagamento sia adeguato alla prestazione, ricevi la paga di un medico, non quella di un oste, dal momento che nella cenetta mi hai nutrito come un malato». Il detto fu ricavato dalla derisione e dal disprezzo. Dello stesso genere è quello che ora sottopongo. 7. Uno spagnolo molto grosso di corpo, nonché alto, prendeva in giro un nanetto che passava; perciò il nanetto rivolgendosi a lui gli chiede il nome. Quello rispose che i genitori gli avevano dato il nome di Rodricello, e allora il nanetto con estrema prontezza di parola disse: «Eppure i tuoi genitori dovevano essere i più pezzenti di tutti se, in tanta abbondanza di nomi, nel darti un nome hanno sofferto tanta miseria». Vorrei aggiungere un altro motto, non privo di piacevolezza, tratto dalla medesima fonte. Aveva alloggiato in una locanda il guascone Pirrinichio, e quando gli fu preparata la mensa era disposta nel piatto una piccola anitra ben unta e condita. Si avvicina ad un tratto a lui un viandante spagnolo e, ficcati gli occhi sull’anatra, disse: «Potresti, o amico, accogliere gentilmente un amico che viene da te?» Allora Pirrinichio gli chiede 1179

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nomine ipse esset, exquirit. Audenter ille ac iactabundus: «Alopantius, inquit, Ausimarchides Hiberoneus Alorchides». «Pape, tum Pyrrhiniculus, quatuor ne avicula haec heroibus et quidem Hispanis? Absit iniuria: ea Pyrrhiniculo satis est uni; minutos enim decent minuta». 8. Idem hic, de quo dixi, familiaris, aliquando peregre proficiscens, in cubile incidit ab cimicibus simul plurimoque a pulice insessum. Itaque ubi paulum modo quievisset, excitatus ab illorum aculeatissimis demorsiunculis, evocato caupone, petiit falcem sibi ab eo afferri. Cum ille, quam ad rem opus ea esset, percontaretur, «Qua, inquit, excidam senticetum, quod mihi nocte hac excidendum locasti». Sentes et spinas ad cimices transtulit ac pulices, cubile autem ad senticetum. Alfonsus, Hispaniae citerioris itemque Neapolitanorum rex, venationi cum esset admodum deditus percontareturque Antonium Panhormitam sciscitabundus, qui Neapoli essent nobiles viri venandi studiosi, siqui item scriptores de natura canum aliquid prodidissent: «Nae, tu, inquit, rex ad latus habes rerum harum omnium prudentissimum virum, ne aliunde quaerites, quippe qui annos supra quadraginta cum hoc genere animalium sit ita conversatus, ut noctis quoque ipsas cum canicula cubitaverit. Hic tibi et canum naturas describet et illorum instituendorum artes». Erat autem is eques Neapolitanus, quem honoris gratia ne nominaverim cumque his dictis surrisisset Antonius, indicavit sub caniculae nomine uxorem illius significari, mulierum omnium clamosissimam pariter ac rabiosissimam. Quod dictum et Alfonsum et qui circum stabant omnes maximum in risum extemporalitate ipsa provocavit, ut illic per iocum ac festivitatem enarrata fuerit historia coniugalis sive vitae sive captivitatis. 9. Obversabatur ante oculos Ludovico Pontano, sui temporis iurisconsultorum praestantissimo, litigator mirifice importunus, cui et nasus esset simior et barba admodum promissa et hispida. Cum hic igitur Ludovicum salutasset ac de more percontatus esset, ut valeret ipse ac familia, ut salvi essent quos amaret domestici, canes illi duos venaticos, egregie etiam phaleratos ac copulatim iunctos, dono dedit. Ad ea Ludovicus et recte valere suos omnes respondit et gratias egit de canibus ac statim ore quam maxime renidenti: «Tu vero, inquit, mi hirquicule, ut pacate, ut sa-

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come si chiama. Quello con sfrontatezza e vanto rispose: «Alopanzio Ansimarchide Iberionio Alorchide». «Oh Dio – disse allora Pirrinichio – questo uccellino per quattro eroi e per giunta spagnoli? Scusami ma esso basta appena per il solo Pirrinichio; ai piccoli infatti convengono cose piccole». 8. Quello stesso, del quale ho già detto, in viaggio una volta in un paese straniero capitò in un giaciglio occupato insieme da cimici e da moltissime pulci. Così quando poco dopo si addormentò, svegliato dai loro pungentissimi morsetti, chiamato l’oste, gli chiese di portargli una falce. Poiché quello gli chiedeva a che cosa gli servisse: «Per tagliare – disse – il pruneto che questa notte mi hai dato da tagliare». Egli trasferì metaforicamente pruni e spine in cimici e pulci, ed il letto in pruneto. Alfonso, re della Spagna Citeriore ed anche di Napoli, poiché era molto dedito alla caccia ed interrogava Antonio Panormita per sapere quali fossero a Napoli i galantuomini amanti della caccia, e se alcuni scrittori avessero pubblicato qualcosa sulla natura dei cani: «Certamente tu, o re – disse – hai a lato l’uomo più informato di tutte queste cose e non devi cercarlo altrove, perché egli da oltre quarant’anni ha vissuto con questo genere di animali, tanto che perfino di notte si corica con una cagnetta. Costui ti descriverà la natura dei cani e l’arte di educarli». Si trattava di un cavaliere napoletano, che io non vorrei nominare per rispetto, e Antonio, avendo riso a queste parole, indicò che sotto il nome della cagnetta intendeva dire della moglie di lui, una donna che schiamazzava e si arrabbiava quant’altra mai. Questo motto fece scoppiare in grandi risate Alfonso e tutti coloro che gli stavano attorno per l’improvvisa battuta, sicché per scherzo e divertimento fu narrata la storia della sua vita, ovvero della sua cattività coniugale. 9. Si aggirava davanti agli occhi di Ludovico Pontano,207 eccellente giureconsulto ai suoi tempi, un uomo litigioso straordinariamente importuno, il quale aveva il naso piuttosto camuso e la barba molto cresciuta ed ispida. Avendo costui dunque salutato Ludovico e chiesto, secondo la consuetudine, come stesse lui e la sua famiglia, se stessero in buona salute i domestici che amava, gli diede in dono due cani da caccia per di più eccellentemente ornati di borchie e legati insieme. A queste domande Ludovico rispose che tutti i suoi stavano in buona salute, lo ringraziò dei cani e subito aggiunse con il volto il più possibile sorridente: «Ma tu, mio caro piccolo caprone, con quanta tranquillità, con quanta sicurezza 1181

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lubriter tuo cum grege, qui lupis illum, abductis canibus, incustoditum reliqueris?». Vides quam belle, quam urbane in barbara ac nares iocatus sit atque in gregem destitutum. Federicus, rex Neapolitanorum, usus est magistro epistolarum, utque hodie dicunt secretario, Vitho Pisanello. Is erat capillo crispo, qualis Aethiopibus esse solet. Forte inter Federicum et Prosperum Columnam, exercitus eius ducem, sermo inciderat de hominum applicationibus naturaeque ipsius signis quibusdam eorumque observatione. Cumque in referendis illis Federicus dixisset, fieri vix posse, cui crispus erat capillus, quin idem aut musicus esset aut depravata ac parum costanti mente, tum Prosper: «Per Christum, inquit, o rex, Vithulus hic quidem tuus haudquaquam musicus est». Argute admodum atque aculeate; namque ex adversatione sequebatur laborare illum mentis infirmitate ac perversitate animi. 10. Valentinum scortillum efflictim cum amaretur ab adolescente parum pecunioso peteretque ille ab ea noctem praesensque deesset pecunia ac noctis pretium de quo, fidei suae tamen ut staret, rogabat in triduum persolvendo, tum ea, nudato femore: «An tibi, inquit, mercimonium hoc videatur fidei tantum accredendum?». Ibi adolescens, nudato e vagina sua capulo, confestim subdidit: «Num nam mercatori huic fides adhibenda non est sua?» Ioci huius sedes in translatione collocata est, a mercatoribus sumpta, innititurque consimilitudini. Rodoricus Carrasius, ut sunt plerique Valentini cives, tum senes tum iuvenes, amoribus dediti ac deliciis, licet octogenarius iam exercebat se se ad tibiam; praeteriens ante eius fores Rebolleta, homo cum primis suavis ac facetus: «Quis, inquit, o pueri, hic ad choreas instituitur?». Cum respondissent Rodoricum dare operam choralistio: «Nae, inquit, Rodoricus nuntium ab orco accepit ludos apud manes apparari ac festos dies». Dicendi ac ridendi argumentum omne ab annositate ductum. Quibus igitur e locis dicta ipsa deducantur quibusque in sedibus collocata sint ex iis, quae dicta sunt, facile est intelligere. 11. Perinde autem ut natura ipsa terrae agrorumque diversitatem ingenerat succi ac saporum, sic locorum quoque positura nunc dicteriorum acumen gignit nunc salsitatem aut leporem; alias autem alius atque

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te la spassi con il tuo gregge, che lo hai lasciato incustodito ai lupi portando via i cani?» Vedi con quanta eleganza, con quanto spirito scherzò sulla sua barba e il suo naso e sul gregge abbandonato. Federico, re di Napoli, si valse come cancelliere, e, secondo il termine oggi in uso, come segretario di Vito Pisanello. Questi aveva i capelli crespi come di solito li hanno gli Etiopi. Era sorta per caso fra Federico e Prospero Colonna,208 capo del suo esercito, una discussione sulla inclinazione degli uomini, su alcuni connotati naturali e sulla loro osservazione. E poiché nel parlarne Federico aveva detto che non era possibile che uno che avesse i capelli crespi non fosse o un musico o un uomo dall’indole depravata e poco costante, allora Prospero: «Per Cristo – disse – o re, questo tuo Vitolo209 non è certamente un musico». Un motto molto arguto e pungente; e infatti dalla contrapposizione derivava che quello fosse malato di mente e avesse un animo perverso. 10. Poiché una sgualdrinella di Valenza era amata appassionatamente da un ragazzo poco danaroso, e lui le chiedeva una notte dicendo che non aveva a disposizione il danaro e il prezzo della notte, ma che l’avrebbe pagata dopo tre giorni, e le chiedeva di stare tuttavia alla sua parola, allora lei, denudata la gamba disse: «E a te potrebbe bastare che questa merce ti venisse data soltanto a credito?» Allora il ragazzo, scoperta la capocchia dal fodero suo, subito aggiunse: «E forse a questo mercante si può non far credito?» Il fondamento di questo scherzo risiede in un traslato tratto dal linguaggio dei mercanti, e si basa sull’analogia. Rodrigo Carrasio, come la maggior parte dei cittadini di Valenza, che, sia da vecchi sia da giovani, son dediti agli amori e ai piaceri, quantunque già ottuagenario, si esercitava a suonare il flauto; passando davanti alla sua porta Rebolleta, un uomo fra i più simpatici e faceti: «Chi è – disse – o fanciulli, costui che si prepara alla danza?» Avendo essi risposto che Rodrigo si dedicava all’arte del flauto:210 «Certamente – disse – Rodrigo ha ricevuto un avviso dall’aldilà, che presso i defunti si allestiscono giochi e feste». L’intero argomento del motto e del riso fu derivato dal tema della vecchiaia. Da ciò che è stato detto è facile dunque comprendere quali siano i luoghi dai quali i motti vengano fatti derivare e quali i loro fondamenti. 11. Così come poi la natura della terra e dei campi genera una diversità di succhi e di sapori, così anche la disposizione degli argomenti genera ora l’arguzia dei motti, ora la loro mordacità o lepidezza; in alcuni 1183

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alius tum iucunditatis condimentum tum iocandi voluptatem ac delicias; neque unius quidem aut generis aut modi. «Iam dudum, inquit ille apud Plautum, sputo sanguinem», refertur ei statim a collocutore: «Resinam ex melle Aegyptiam vorato». Item alibi: «dic mihi: solent ne tibi oculi unquam duri fieri?» «Quid? tu locustam esse censes, homo ignavissime?». Quid his ridiculosius? Quid illo autem lepidius? «Is odos demissis pedibus in coelum volat. Eum in odorem coenat Iupiter quotidie». «Odor demissis pedibus?» «Peccavi insciens …quia demissis naribus volui dicere».

Quid hoc? quam est populare ac simplex! «Hae oves volunt vos» «Prodigium hoc quidem est: humana cum nos voce appellant oves». Contra quid illo argutius? «Quin fles?» «Pumiceos oculos habeo»; et alibi: «genus nostrum semper siccoculum fuit». Non ne et illud suavissimum? «Hodie me in ludum recepi literarium, ternas scio iam». «Quid ternas?» «Amo». Et illa quoque cum primis ad risum alliciunt. «Quisquis homo huc venerit pugnos edat». «Apage, non placet me hoc noctis esse, coenavi modo». Et: «gestiunt pugni mihi». «Si in me exerciturus, quaeso, in parietem ut primum domes». Item: «Amphitryo, redire ad naves melius est nos». «Qua gratia?» «Quia domi nemo daturus est prandium advenientibus». «Qui tibi nunc istud in mentem venit?» «Quia enim sero advenimus». «Qui?» «quod Alcmenam ante oculos stare saturam intelligo». Itaque pro natura locorum, unde ducuntur, dicteria ipsa qualitatem sortiuntur ac saporem. 12. Ipsae autem sedes constitutae sunt tum in rebus tum in verbis; in verbis, quale hoc: «Ut valentula est! pene me exposuit cubito». «Cubitum ergo ire vult»; et: «Num medicus, quaeso, es?» «Imo aedepol una litera plusquam medicus», et: «Advenisti, audaciae columen, consutis dolis». «Imo consutis tunicis advenio, non dolis»; in rebus, ut

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casi un argomento, in altri casi un altro offre il condimento all’ilarità e il dilettoso piacere allo scherzo; né è unico il genere come il modo. «Già da un pezzo – dice quel famoso personaggio in Plauto – sputo sangue», e subito gli viene risposto dal suo interlocutore: «Divorati la resina d’Egitto col miele».211 Così altrove: «Dimmi: gli occhi non ti diventano mai fissi?», «E tu credi che io sia una locusta, poltrone che sei?»212 Che c’è di più ridicolo di questi motti? E che c’è d’altra parte di più lepido di quel passo famoso: «L’odore a piedi in giù vola al cielo. Giove ogni giorno cena a quell’odore». «L’odore a piedi in giù?» «Ho sbagliato senza saperlo …perché a naso in giù volevo dire».213

Che ne dici? Com’è popolare e semplice! «Queste pecore vogliono voi. – Questo è il prodigio: quando con voce umana ci chiamano le pecore».214 Di contro, c’è cosa più arguta di quel passo? «Perché non piangi? – Ho gli occhi di pomice»; e in un altro luogo: «Il nostro genere fu sempre un pochino secco».215 E non è piacevolissimo anche quell’altro esempio? «Oggi mi sono raccolto nello studio delle lettere, ne so già tre. – Come tre? – Amo».216 Anche queste altre battute fra le prime inducono al riso: «Qualunque uomo viene qui mostri i pugni. – Dio mi guardi, non mi va di mangiare di notte e ho cenato poco fa», e ancora: «Ho prurito alle mani. – Se pensi di fartelo passare su di me, va’ piuttosto a scaricarti sul muro»; inoltre: «Anfitrione, è meglio se ce ne ritorniamo sulla nave. – E perché mai? – perché a casa nessuno ci darà da mangiare. – E come ti viene in mente questo? – perché siamo arrivati tardi. – E da cosa lo capisci? – Vedo Alcmena che mi sta davanti a pancia piena».217 Pertanto a seconda della natura dei luoghi donde sono tratti, i motti acquistano qualità e sapore. 12. Gli stessi siti possono poi riguardare ora eventi, ora parole; parole, come in questo caso: «Accidenti, com’è forzutella! Mi ha quasi steso con una gomitata». «Sei forse un medico, tu?» «no, purtroppo, ho una lettera in più per poter essere medico», e «sei venuto, culmine d’impudenza, con un tessuto di imbrogli». «Anzi, vengo qui col solo tessuto di tunica, non di imbrogli».218 Possono riguardare eventi, come in questo caso:

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XVII

«Si neque hic neque Acheronti sum, ubi sum?» «nusquam gentium.»

Item: Ait se obligasse crus fractum Aesculapio, Apollini autem brachium. Nunc cogito, utrum me dicam ducere medicum an fabrum?

Et Non placet mihi coena quae bilem movet.

Quid? quod loci quidam constant ipsi quidem e rebus ac verbis una immistis, quale est hoc: Credo alium in aliam belluam hominem vortier. Ille in columbam, credo, leno vortitur, nam in columbari collum haud multo post erit.

13. Pro locis igitur proque rebus ac verbis dicta ipsa succulenta sunt. Hinc alia, ut dictum est, salem habent; alia leporem; alia aut mordicant aut vellicant; quaedam vero titillant; alia prima fronte risum movent; alia, diutius versata, relinquunt in animo sedationem quasi quandam. Sunt quae ruborem afferant, quae contra animum erigant aut moneant aut dehortentur. De quibus singulis velle minutatim disserere licet supervacaneum videatur, cum eorum admonuisse satis quidem videri possit, tamen, si aliquantum etiam in iis versabimur, nec tibi quidem nec, si qui forte alii rerum harum lectores futuri sunt, ingratum fore arbitramur.Illud tamen satis liquet in verborum concinnitate ac vi plurimum quidem repositum esse, sive ad delectandum molestiasque lepore tantum ipso sedandas sive ad vulnerandum saleque illinendas plagas sive ad retorquenda iacula relinquendam ve suspitionem absconditi risus ac ioci notae ve pudendae, tum cicatrices inurendas tum mentis ipsius clam quidem cruciandae acerrimos morsus torturasque gravissimas.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVII

«Se non mi trovo né qui, né all’Acheronte, dove sono?» [«In nessun posto del mondo».219

Così ancora: Dice di aver fasciato la gamba fratturata ad Esculapio, e poi il braccio ad Apollo. Ora che ci penso, non saprei dire se mi sta prendendo in giro un medico o un artigiano.

E ancora: Non mi piace la cena che mi provoca la bile.

E che dire del fatto che alcuni luoghi constano di cose e parole mescolate insieme, come in questo caso: Io ci credo che un uomo si trasformi in una bestia, un altro in un’altra. Quel lenone in colomba credo che si stia trasformando. Difatti fra non molto il collo sarà in una colombaia.220

13. A seconda degli argomenti dunque, e a seconda dei fatti e delle parole, i motti sono pieni di sugo. Perciò alcuni, come si è detto, hanno del sale; altri della grazia; altri o mordono o pungono; mentre alcuni solleticano; altri a prima vista muovono il riso; altri ripensati a lungo, lasciano nell’animo una sorta di pace. Vi sono di quelli che provocano rossore, quelli che invece fanno sollevare l’animo, oppure lo fanno riflettere o lo sconsigliano. Quantunque sembri inutile voler discutere minuziosamente di queste singole specie, poiché potrebbe sembrare sufficiente accennarne soltanto, tuttavia se un po’ vi ci tratterremo, riteniamo che non sarà sgradito a te, né ai lettori futuri, se ce ne saranno altri lettori di questi scritti. Questo è tuttavia abbastanza chiaro, che nell’eleganza e nella forza delle parole risiede un grandissimo potere, sia per dilettare e placare le noie con la sola piacevolezza, sia per colpire e mettere del sale sulle piaghe, sia per ritorcere le frecciate o per lasciare nascosto il sospetto di un riso e di uno scherzo, o di un marchio vergognoso, ora per imprimere cicatrici, ora per infliggere morsi durissimi e pesantissime torture. 1187

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XVIII

XVIII DE VALERII MARTIALIS POETAE DICTIS. 1. Valerius Martialis, artificiosissimus epigrammatum scriptor, ita in iis quidem iocatus est, ut frequentius carpat quam delectet, tametsi e demersione ipsa delectatio quoque paritur. Ad haec dictis eius partim occultissima quaedam insunt spicula, partim verba quae non solum a faceto sint aliena verum aut oscena ipsa admodum scurriliaque aut maxime ampullosa et acida, quod quidem hispanicum est. Nam etsi Hispani cum primis sunt facetiarum studiosi, tamen si populares respexeris ac plebeios gentis eius homines, invenies eorum iocos non tam propendere in lusum ac delicias quam in summorsiones, magisque spectare in invectivas et subsannationes quam in risum voluptatemque e iucunditate conceptam, quae in facetis viris tenerrima quidem est. Sunt tamen dicta eius in universum arguta suptiliterque conquisita; abstrusae sententiae eaedemque rarae, salsae, aculeatae; inventio vero maxime acuta; verba autem praecipue accomodata, quaeque non prima tantum facie atque in ipso explicatu lectorem alliciant atque auditorem, verum quae in eius animo relinquant tacitam quandam quasi subtitillationem. 2. Nihilo tamen minus in iis non pauca quidem animadvertas, quae digna prorsus sint facetis ac temperatis civibus retineantque decorum illud, quod virtutis huius, de qua praecipimus, maxime est proprium, quale illud quod et iucundum simul et salsum est risumque venuste pariter atque honeste movet ac vel in ore etiam matronae non dedecet: Unguentum, fateor, bonum dedisti Convivis, here, sed nihil scidisti. Res salsa est bene olere et esurire. Qui non coenat et ungitur, Fabulle, Hic vere mihi mortuus videtur.

Est et illud quoque eiusdem generis in Caecilianum: Quicquid ponitur hinc et inde verris: Mammas suminis imbricemque porci

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVIII

XVIII I MOTTI DEL POETA VALERIO MARZIALE. 1. Valerio Marziale, finissimo autore di epigrammi, scherzò nei suoi versi in modo da pungere più spesso che non dilettare, sebbene lo stesso diletto venga prodotto anche dal punzecchiamento. Inoltre nei suoi motti risiedono in parte alcune nascostissime punte, in parte parole che non soltanto sono aliene dall’uomo faceto, ma o sono molto oscene e scurrili o estremamente «ampollose» e acide, che è proprio del carattere spagnolo. Infatti, sebbene gli Spagnoli siano fra i primi amanti delle facezie, tuttavia, a considerare la gente del popolo e i plebei di quel paese, troverai che i loro scherzi non tanto propendono al gioco ed al divertimento, quanto alla punzecchiatura, e sono rivolti più alle invettive e allo scherno che al riso e al piacere che si trae dall’ilarità, la quale nel caso degli uomini faceti è molto gradita. Tuttavia i suoi motti sono generalmente arguti e di una sottile ricercatezza; i suoi pensieri astrusi e anche rari, salati, pungenti; ma l’invenzione è estremamente acuta; le parole poi sono particolarmente acconce e tali che non solo a prima vista e nel momento dell’interpretazione avvincono il lettore e l’ascoltatore, ma sono tali da lasciare nel suo animo quasi un segreto prurito. 2. Non di meno non poche se ne potrebbero scoprire che siano senz’altro degne di cittadini faceti e moderati e che conservino il decoro proprio di quella virtù della quale trattiamo, come quell’epigramma famoso, piacevole e insieme piccante, che muove il riso in modo grazioso ed onesto e che non sarebbe sconveniente nemmeno sulla bocca di una signora: Un buon unguento, lo confesso, tu hai donato ieri agli invitati, ma non hai tagliato nulla per loro. È una cosa piacevole profumare e morire di fame. Ma chi non cena e si unge di profumi, o Fabullo, mi pare veramente un morto.221

Anche quell’altro epigramma contro Ceciliano è dello stesso genere: Ogni piatto servito tu lo afferri: tettine di scrofa, orecchio di porco, 1189

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XVIII

Communemque duobus attagenam, Mullum dimidium lupumque totum, Murenaeque latus femurque pulli Stillantemque alica sua palumbum. Haec cum condita sunt madente mappa, Traduntur puero domum ferenda: Nos accumbimus ociosa turba. Ullus si pudor est, repone coenam. Cras te, caeciliane, non vocavi.

Itemque et aliud undique et suave et bellum: Quod fronte selium nubila vides, rufe, Quod ambulator porticum terit serus, Lugubre quiddam quod tacet piger vultus, Quod pene terram tangit indecens nasus, Et dextra pectus pulsat et comam vellit: Non ille amici fata luget aut fratris, Uterque natus vivit et precor vivat, Salva est et uxor sarcinaeque servique, Nihil colonus villicusque decoxit. Moeroris igitur causa quae est? Domi coenat.

3. Et hoc quoque quod subdam, licet admodum mordax, plenum tamen est venustatis ac leporis, quippe quod sive lectum sive auditum mirifice delectat exhilaratque tum legentem tum etiam qui audit: Garris in aurem semper omnibus, cinna, Garris et illud, teste quod licet turba. Rides in aurem, quereris, arguis, ploras; Cantas in aurem, iudicas, taces, clamas. Adeo ne penitus sedit hic tibi morbus, Ut saepe in aurem, cinna, caesarem laudes?

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVIII

una porzione per due di gallinella selvatica, mezza triglia e una spigola intera, fi letto di murena e coscia di pollo, colomba gocciolante di salsa. Quando tutto ciò è ben avvolto in una tovaglia unta, lo passi al tuo servo perché lo porti a casa: e noi restiamo là senza più nulla da fare. Se hai un minimo di pudore, restituisci la cena. Non ti ho invitato a mangiare domani, Ceciliano.

E così quell’altro in ogni senso piacevole e carino: Se vedi Selvo con la fronte rannuvolata, o Rufo, se a forza di camminare consuma il portico fi no a sera, se il volto pigro nasconde qualcosa di lugubre, se il suo brutto naso tocca quasi terra, se si batte il petto con la destra e si strappa i capelli: egli non piange la morte di un amico o di un fratello, tutti e due i suoi figli vivono e prego che vivano, salva è la moglie, salvi sono il mobilio e i servi, nessun danno gli hanno fatto il colono e il villano. Dunque qual è la causa della sua tristezza? Cena a casa.

3. Anche questo epigramma che introdurrò, sebbene molto mordace, tuttavia è pieno di grazia e di spirito, per il fatto che diletta straordinariamente sia quando è letto, sia quando è udito e fa divertire non solo chi legge, ma anche chi ascolta: Chiacchieri sempre nell’orecchio a tutti, o Cinna, chiacchieri nell’orecchio anche di ciò che si può dire alla presenza della folla. Ridi nell’orecchio, ti lamenti, rimproveri, piangi; canti nell’orecchio, giudichi, taci, gridi. A tal punto si è insediata dentro questa malattia, che spesso, o Cinna, loderesti Cesare parlando nell’orecchio?222

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Summe autem urbanum hoc et lepidum: Spectabat modo solus inter omnes Nigris munus horatius lacernis, Cum plebs et minor ordo maximusque Sancto cum duce candidus sederet. Toto nix cecidit repente coelo: Albis spectat horatius lacernis.

4. Profluunt autem haec dictorum genera fonte ex eo, qui non una quidem et tenui manat scatebra; verum huberiore quae decurrat ac praeterlabatur rivo, nec paucis dictum ipsum constat verbis, verum compluribus. At illud et breve et mordax et perquam salsum, oscenum tamen, nec conventu honestorum virorum dignum: Os et labra tibi linguit, manuela, catellus: Non miror, merdas si libet esse cani.

Quod dictum non tamen res ipsae quam verba scurrile efficiunt atque degenerosum. Est et illud eiusdem generis, minus tamen oscenum: Quod fellas et aquam potas, nil, lesbia, peccas. Qua tibi parte opus est, lesbia, sumis aquam.

At illud neque oscenum neque honesta hominum consessione indignum: Formosam faciem nigro medicamine velas, Sed non formoso corpore laedis aquas. Ipsam crede deam verbis tibi dicere nostris: “Aut aperi faciem vel tunicata lava”.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVIII

Quest’altro epigramma è estremamente spiritoso e lepido: Fra tutti solo guardava in vesti nere lo spettacolo Orazio, mentre la plebe, la classe minore e la maggiore sedeva vestita di bianco con il sacro capo. Improvvisamente cadde la neve dal cielo: e Orazio guarda lo spettacolo in veste bianca.223

4. Sgorgano poi queste specie di motti da una fonte che non promana da una sola e semplice scaturagine, ma da una scaturagine che scende scorrendo in un torrente piuttosto gonfio, né lo stesso detto consta di poche, ma di numerose parole. Al contrario quell’epigramma breve, mordace e molto piccante, osceno tuttavia, non è degno di un raduno di uomini onesti: Il volto e le labbra ti lecca, Manuela, il cagnolino; non mi meraviglio se al cane è permesso mangiare la merda.224

Questo detto è reso scurrile e ignobile, tuttavia non dall’argomento, ma dalle parole. Anche quell’altro è dello stesso genere e tuttavia meno osceno: Non fai male, Lesbia, a baciare il membro e poi a bere acqua: ti lavi dove ne hai bisogno.225

Invece quell’altro non è né osceno né indegno di un onorato consesso di uomini: Tu veli il bel volto con un nero impiastro, ma non importuni l’acqua con il tuo bel corpo. Credimi, la dea stessa ti dice con le mie parole: «O apri il volto o lava i vestiti».226

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5. Sunt apud eundem poetam dicta, et quidem non pauca, quibus sub velo abscondita insint spicula, eaque peracuta, quale hoc: De nullo quereris, nulli maledicis, Apici: Rumor ait linguae te tamen esse malae.

Itemque: Versiculos in me narratur scribere Cinna; Non scribit, cuius carmina nemo legit.

In hoc vero manifesta apparet se seque ostentat mordacitas: Credi virgine castior pudica, Et frontis tenerae cupis videri, Cum sis improbior, massiliane, Quam qui compositos metro tibulli In stellae recitat domo libellos.

Et in hoc item: Nulli, Thai, negas; sed si te non pudet istud, Hoc saltem pudeat, Thai: negare nihil.

Illa vero videri possunt fortasse etiam iure suo frigida: Omnis, quas habuit, Fabiane, Lycoris amicas Extulit; uxori fiat amica meae.

Item: Millia misisti mihi sex bissena petenti: Ut bissena feram, bis duodena petam.

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5. Nello stesso poeta vi sono motti, e non pochi, nei quali sotto un velo si nascondono frecciate, e molto pungenti, come questa: Non ti lamenti di nessuno, non maledici nessuno o Apicio: e tuttavia la fama dice che hai una mala lingua.

E così: Si dice che Cinna scriva dei versetti contro di me; non scrive, uno le cui poesie non le legge nessuno.227

Ma in questo epigramma appare manifesta e si rivela la mordacità: Desideri che ti si creda più casta di una vergine pudica, e di apparire con la fronte pura, mentre sei peggiore, o Massimiliano, di colui che con il metro di Tibullo recita nella casa di Stella i libretti da lui composti.

E così in questo epigramma: Taide, tu non ti neghi a nessuno e se non ti vergogni di ciò vergognati almeno di questo, o Taide: che non neghi niente. 228

Ma altri epigrammi possono forse giustamente sembrare freddi: O Fabiano, Licori tutte le amiche che aveva le ha sepolte; oh se fosse amica di mia moglie.

E così: Mille me ne hai mandati, rispondendo alla mia richiesta, per ottenerne dodici, ne chiederò ventiquattro.229

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At hoc cum primis ridiculum, tametsi minime vacuum est oscenitate: Infantem secum semper tua Bassa, Fabulle, Collocat, et lusus deliciasque vocat; Et, quod mireris magis, infantaria non est. Ergo quid in causa est? Poedere Bassa solet.

Illud vero, prima fronte quanquam est perfamiliare ac facetum, latet in eo tamen et maledicentia accusatioque impotentiae: Hospes eras semper, Matho, Tiburtini: Hoc emis. Imposui: rus tibi vendo tuum.

6. Eiusmodi sunt igitur Martialis dicta, ut pleraque multum habeant salis nec minus fellis atque ampullosi proque loco et iocentur et delectent, interdum ruborem inducant magis quam risum; alia vero quae non pruritum tantum exciant aut titillatum, verum etiam petulantiam prae se ferant lususque parum omnino modestos. Persaepe autem verecundari ita nescit, ut vel aperte scurretur, nec solum invidere sicophantis videatur ac parasitis, verum etiam mimis. Adeo autem cuncta haec complexus est genera estque in iis ita frequens et multus, ut aliis in eiusmodi iocis ludendi praeripuisse videri velit materiam. A nobis autem cum mediocritas parte in hac quaeratur defugianturque extrema, alia dictorum tum genera quaerenda sunt tum species, quae facetorum sint omnino propria. Utque Valeri huius dicta, parte quidem non exigua, institutioni huic nostrae parum consentiunt, sic et Marci Ciceronis quaedam etiam explodenda, quippe quae oratori magis conveniant, ad victoriam causae comparandam, quam ad eam animorum relaxationem, quae a nobis cum honestate ac dignitate quaeritur, cuiusque insita est hominibus a natura appetitio. Itaque quid et quomodo Cicero de iis sentiat, a nobis praetereundum non est.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XVIII

Invece questo epigramma è fra i più spiritosi, sebbene non sia privo di oscenità: Fabullo, la tua Bassa porta con sé un fanciullo e lo chiama «gioia mia», «tesoro mio»: ma, fatto strano, non ama i bambini. Dunque? Bassa ha l’abitudine di tirar peti.230

Ma quest’altro epigramma, quantunque a prima vista sia molto amichevole e faceto, nasconde tuttavia in sé riprovazione e accusa di prepotenza: O Matone, tu eri sempre mio ospite nella villa di Tivoli: ora l’hai comprata. Ti ho imbrogliato: hai comprato una campagna già tua.231

6. I detti di Marziale son dunque tali da avere nella maggior parte molto sale e poco fiele, sono eccessivi e in certe circostanze possono riuscire scherzosi e piacevoli, talvolta producono rossore più che riso; alcuni son tali che non solo suscitano il prurito e il solletico, ma rivelano anche sfacciataggine e un divertimento ben poco onesti. Molto spesso poi non si vergogna, lui, perfino di fare apertamente il buffone, e di sembrare non solo un emulo dei delatori e dei parassiti, ma anche dei commedianti. A tal punto poi ha abbracciato tutti questi generi, rivelandosi in essi così ricco e abbondante che sembra voglia portar via agli altri la possibilità di scherzare allo stesso modo. Ma poiché in questa trattazione si cerca da parte nostra il giusto mezzo e si evitano gli estremi, bisogna ricercare altri generi ed altre specie di motti che siano del tutto appropriati agli uomini faceti. E come i motti di questo Valerio, e non in piccola parte, si accordano poco con questo nostro insegnamento, così bisognerebbe respingerne anche alcuni di Marco Cicerone232 per il fatto che convengono più all’oratore al fine di ottenere la vittoria della causa, che non a quel rilassamento dell’animo che noi richiediamo debba essere accompagnato dall’onestà e dalla dignità, verso le quali negli uomini è stata infusa la tendenza dalla natura. Pertanto non dobbiamo trascurare che cosa pensi e come si esprima Cicerone a riguardo.

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DE SERMONE, LIBER TERTIUS, XX

XIX DUO ESSE SECUNDUM CICERONEM FACETIARUM GENERA. 1. Legitur autem apud eum duo esse genera facetiarum: alterum aequabiliter in omni sermone fusum, alterum peracutum et breve; illamque cavillationem a veteribus appellatam, alteram vero hanc dicacitatem; utramque tamen levem rem esse, quando lene prorsus sit risum movere. Nihilo tamen minus in causis multum persaepe lepore ac facetiis, Antonio auctore, profici. In neutra vero artem ipsam quippiam habere loci, quando in illo genere perpetuae festivitatis ars non desideratur. Naturam enim ipsam fingere homines et creare imitatores et narratores facetos, et vultu adiuvante et voce et ipso genere sermonis; in altero vero nihil prorsus artem habere quod praestet, cura ante illud facete dictum emissum haerere deberet quam cogitari potuisse videatur sitque in celeritate positum ac dicto.

XX CIRCA DICTA FACETIASQUE INVENIENDAS ARTEM PLURIMUM VALERE. 1. His igitur in hunc tenorem inter disserendum explicatis, res ipsa nos hortatur, et estendere artem in dictis quoque ac facetiis multum habere loci, et exercitationem studiumque plurimum in his valere. Primum enim quod in omni actione ac virtute exigitur, id quoque inter iocandum utendisque facetiis servandum esse, uti delectus habeatur rerum, locorum, personarum, auditorum, temporum, fortunae item, atque eventuum: haec enim ad retinendam atque assequendam mediocritatem cum primis exiguntur. Ipsa vero mediocritas non virtutes solum constituit, quae morales didicuntur, verum etiam eloquentiam quaeque graece est rethorica habuitque tam multos ac maximos auctores et latine et graece. Igitur si elocutio, quae constat e verbis atque oratione, in praecepta redacta est habeturque de ea ratio, et facetudinis quoque ratio habenda est tradique de ea praecepta possunt: qua enim in re versatur ratio, in

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XIX DUE SONO SECONDO CICERONE I GENERI DI FACEZIE. 1. Si legge nella sua opera che i tipi di facezia sono due: uno diffuso equamente in un intero discorso, l’altro molto acuto e breve; il primo dagli antichi fu chiamato cavillatio, l’altro invece dicacitas; entrambi tuttavia sono cosa leggera, perché è cosa assolutamente leggera muovere il riso. Nondimeno nelle cause, secondo il parere di Antonio,233 assai spesso si ottiene un gran vantaggio con l’arguzia e le facezie. Ma in nessuna delle due ha luogo propriamente l’arte, dal momento che nel genere della giovialità prolungata non viene richiesta l’arte, poiché la natura stessa forma e crea gli uomini imitatori e narratori faceti, con l’ausilio del volto, della voce e perfino del modo di parlare; mentre nell’altro genere l’arte non ha nulla da fornire, poiché il detto faceto dovrebbe essere già espresso prima che sembri essersi potuto pensare, ed esso si fonda sulla prontezza del motteggio.

XX PER TROVARE MOTTI E FACEZIE HA MOLTA IMPORTANZA L’ARTE. 1. Fatto dunque un chiarimento in questo senso nella discussione che stiamo tenendo, il tema stesso ci induce a far vedere non solo come l’arte nei motti e nelle facezie abbia una parte notevole, ma anche come l’esercizio e l’applicazione siano molto importanti in queste cose. In primo luogo, infatti, ciò che si richiede in ogni azione e in ogni virtù bisogna che sia osservato anche nello scherzare e nell’usare le facezie, e cioè l’operare una scelta dell’opportunità, dei luoghi, delle persone, degli ascoltatori, dei tempi e anche della condizione e della situazione: questi infatti sono i principali requisiti per conservare e conseguire il giusto mezzo. Ma il giusto mezzo non solo è a fondamento delle virtù che si dicono morali, bensì anche dell’eloquenza e di quella che con termine greco si dice retorica e ha avuti tanti grandissimi autori in lingua latina e greca. Ordunque se l’elocuzione, che consta di parole e di frasi, è stata ridotta in regole e vi è di essa una scienza, anche della facetudo può esservi una scienza e su di essa possono trasmettersi degli insegnamenti. In quella 1199

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ea quoque et institutio locum habet, cum et oratores ipsi dicant et lusus iocique facetorum vocentur etiam, a dicendo, dicta cumque eloquenter etiam dicendi sive peritia sive ars sive doctrina usu comparetur observationeque multaque et in litibus controversiisque et in senatu popularibusque concionibus exercitatione eaque maxime frequenti ac meditata. 2. Quo fit, ut facete quoque dicendi regula sit aliqua, quemadmodum et bene et maledicendi, hoc est laudandi et vituperandi. Non ne autem si dicta ipsa pleraque sunt in celeritate posita et ante quidem emittuntur quam cogitari potuisse videantur, non ne, inquam, contingit et hoc quoque in orandi exercitatione ac peritia? Principia enim haec ipsa, et loquendi oratorie et dicendi facete ac tum ridendi et hilarescendi tum dolendi ac lacrimandi, in natura posita sunt ab eaque proficiscuntur; quibus postea ratio ipsa modum quendam, ac certum eum quidem, adhibet; ut, quod de amore Ovidius inquit, Et quae nunc ratio est, impetus ante fuit,

etiam ad haec ipsa trasferri recte possit. 3. Nam et leges modum statuere funeribus et ludis simul ac conviviis et conclamandis quidem funeribus praeficae praeponi consuevere: illis vero tum ludorum rationem qui haberent tum qui essent convivendi periti. Quin convicia, obiurgia contentionesque immoderatae quaedam mulctis, quaedam suppliciis coercentur; famosis quoque de libellis leges sunt editae ac plebei scita. Igitur et in facetudine utenda dictisque temperandis modus quoque si repertus est, an id profecto mirum? an et de dicteriis ridiculariisque ac iocis praecepta tradi nullo modo poterunt? neque ulla erit eorum tradendorum sive ars sive doctrina, quae mediocritatem et doceat et ostendat, qua ea sit via et assequenda et retinenda, ut si principia sunt naturae, modus tamen ac mensura ratione tempere-

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materia, infatti, su cui si sviluppa una scienza, ha luogo anche un insegnamento, perché anche gli oratori «dicono», e i giochi e gli scherzi degli uomini faceti sono chiamati anch’essi, da «dire», «detti», e perché anche l’abilità o l’arte o la scienza del dire eloquentemente si acquista con l’esperienza, con l’osservazione e con l’intenso esercizio nelle cause, nelle controversie, nel senato e nelle pubbliche assemblee, e con un esercizio soprattutto assiduo e meditato. 2. Avviene così che anche del dir facezie esista una norma, come anche del dir bene e del dir male, cioè del lodare e del biasimare.234 Non è vero che se i detti per lo più risiedono nella prontezza e vengono espressi prima di quanto sembri che possano essere stati pensati, non è vero, dico, che anche questo avvenga nel quadro dell’esercizio e dell’esperienza dell’oratore? Infatti questi stessi princìpi e del parlare eloquentemente e del dire in modo faceto e del rallegrarsi come dell’addolorarsi e del piangere, risiedono nella natura e da questa scaturiscono; nell’impiego di questi princìpi, poi, la ragione adopera una misura, una determinata misura; sicché quel che Ovidio dice sull’amore, quel che ora è ragione, impeto prima fu,235

anche a queste cose può essere giustamente riferito. 3. Infatti non solo le leggi hanno stabilito una regola per i funerali, per i giochi ed insieme per i conviti, ma si diffuse l’abitudine che le prefiche precedessero i funerali piangendo la morte del defunto. E si aveva non solo chi si prendesse cura di organizzare i giochi, ma anche un esperto dei conviti. Anche le liti, le offese e le contese smodate sono frenate, alcune con multe, altre con punizioni; e sono state promulgate leggi e ordinanze sui libelli diffamatori. C’è dunque di che meravigliarsi se nell’uso delle facezie e nel serbare la misura dei motti si sia trovata una norma? e non potranno in alcun modo trasmettersi dei precetti sul motteggio, sulle buffonerie e sugli scherzi? e non vi potrà essere, di questa trasmissione di precetti, un’arte o una scienza che insegni e dimostri in che modo si debba conseguire e conservare la giusta misura, cosicché, se i princìpi sono della natura, il modo e la misura vengono tuttavia regolati dalla ragione e dall’i-

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tur atque institutione? Nam et pedum incessus, civili quidem homine dignus, regulam suam habet; est et sua quoque gestus temperatio ac lex. 4. Erit igitur et iocandi suus, atque ingenuo homine dignus, modus ac temperamentum. Nam si facetudo virtus est quaedam eaque mediocritas, ut probatum iam est, ea ut institutione constet ac praeceptis necesse est, cum praesertim nos nequaquam oratoriam quaeramus urbanitatem, verum moralem quaeque ad animorum refocillationem conducat eamque honestam ac laudabilem. Natura quoque nos docet uti argumentationibus, quarum tamen permulta extant praecepta; estque illarum sive ars sive doctrina atque eruditio et magistra et iudex illa quae ‘logice’ dicitur, nostro autem nomine tum disserendi ratio tum disertiva. Ipsorum autem argumentorum ut sunt sedes, quae dicuntur loca, eaque cognitio appellatur tum localis ac de locis tum topica, graeca appellatione, sic etiam dictorum ac facetiarum propriae sedes sunt eaeque admodum certae, quas si, praeter quae dicta sunt, diligentius pervestigaverimus inque formam, etsi non absolutam, aliquam tamen redegerimus, non pigebit huius sive laboris sive studii. Nam et futuros vaticinamur, qui de iis sint suptilius atque enucleatius diserturi.

XXI ALITER ORATORIBUS AC COMICIS, ALITER INGENUIS CIVIBUS FACETIARUM LOCOS QUAERENDOS ESSE. 1. Itaque nec ut Martiali aut Plauto nec ut Ciceroni quaerendae nobis sunt facetiae sive earum loci et quasi regiones. Mediocritatem enim quaerimus quae habitum faceti constituit, non quo aut spectatoribus risus moveamus, aut aucupemur plausum carminisque commendatione, aut quo iudices capiamus ac lepore facetiisque in nostram trahamus sententiam, verum quo urbane ac festive relaxemus animos. Inventa enim et constituta sunt concilia, conventus, circuli ac coronae tum ad utilitatem et communem et privatam, tum etiam ad iucunditatem relaxandosque ab labore ac curis animos. Tametsi loci ipsi sunt communes et, quod Cicero

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struzione? Infatti anche il procedere dei piedi, quello degno di un uomo civile, ha la sua regola; ed anche il gesto ha la sua legge che lo governa. 4. Vi sarà anche una misura ed una moderazione proprie e degne di un nobiluomo nello scherzare. Poiché, se la qualità dell’uomo faceto è una virtù, e quindi un giusto mezzo, come ormai è stato provato, necessariamente deve comportare un insegnamento e dei precetti, specialmente perché noi non ricerchiamo l’arguzia oratoria, ma quella morale, che porta al ristoro degli animi ed è onesta e lodevole. La natura ancora ci insegna ad usare i ragionamenti, sui quali tuttavia esistono moltissime regole; e l’arte e la dottrina di quei ragionamenti, e la scienza, maestra e arbitra, è quella che si chiama «logica», ma con nome latino scienza della dissertazione ovvero del discorso. Ma come ci sono le sedi proprie di questi ragionamenti, che si chiamano «luoghi», e la loro conoscenza si chiama ora «locale»236 e cioè dei luoghi, ora «topica», con il nome greco, così anche dei detti e delle facezie ci sono le sedi appropriate, e molto ben definite; se le investigheremo con molta cura, al di là di quel che è stato detto, e riusciremo a ordinarle, anche se non in una forma assoluta, almeno in una qualche forma, questa fatica e questo impegno non riusciranno incresciosi. Giacché prevedo che vi saranno coloro che di questi argomenti discuteranno in maniera più sottile ed organica.

XXI GLI ARGOMENTI DELLE FACEZIE VANNO RICERCATI IN UN MODO PER GLI ORATORI ED I COMICI IN UN ALTRO PER I CITTADINI ONORATI. 1. Pertanto le facezie ovvero la loro topica, e come a dire le regioni che a noi tocca cercare, non sono uguali a quelli di Marziale o di Plauto o di Cicerone. Infatti cerchiamo il giusto mezzo che definisce l’attitudine dell’uomo faceto, non per muovere il riso negli spettatori o per andare a caccia di applausi e per elogiare un componimento poetico, oppure per conquistare i giudici e attirarli al nostro parere con lo spirito e le facezie, ma per far rilassare gli animi con l’arguzia e la festevolezza. Sono stati inventati ed istituiti i raduni, gli incontri, i circoli e i crocchi sia per l’utilità pubblica e privata, sia anche per il piacere e il rilassamento degli animi dalle fatiche e dalle preoccupazioni. E se i luoghi sono comuni e, 1203

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dicit, quibus e locis ridicula ducuntur, ex iisdem graves possunt duci sententiae, idem nos quoque sentimus: posse deduci quoque et quae dicta in spurcitiam delabantur atque scurrilitatem et quae in leporem atque urbanitatem; alteri enim loci et rebus et verbis modum statuunt, alteri in risum propendent atque scurrilitatem. Modus igitur his accedere potest ac ratio, quo scurrilitas omnis absit iocantibus: quod officium delectus est proprium tum in rebus tum in verbis. 2. Verum oscenitas plerumque est in verbis, scurrilitas in utrisque potius, siquidem scurrile habetur, quem minime debeas, eum dictis lacessere, quando, ut est apud Ciceronem, quae cadere possunt in quos nolis, quamvis sint bella, sunt tamen ipso genere scurrilia. Nimis igitur salse dicta aculeataque, atque in quos minime conveniat, scurrilia et ipsa sunt. Possunt tamen et faceti homines in consessionibus coronisque, ut qui referant quidem dicta emissaque ab aliis, non ut qui ex se se dicant ingerantque in quempiam, quandoque et mordacia afferre in coetum, quasi ea in memoriam reducant idque exempli gratia, non tamen mordaciter, scurriliaque minime scurriliter, scilicet ut verbis parcatur et gestibus: quod in referendis fabellis praecipue usuvenit, ut, quae in illis insint turpia, explicentur non turpiter, interdum vero innuantur potius quam dicantur.

XXII DIVISIO IN IOCOS, DICTA, RIDICULA, FABELLAS. 1. Quae quo expressius a nobis ostendantur, ea partiemur in iocos, in dicta, in ridicula ac fabellas; totum autem ipsum genus est iocari. Ioca vero et dictis constant et ridiculis et fabellis; ac dicta quidem alia lepida, alia salsa sunt, alia et salsa simul et lepida, alia oscena, dicacia eaque non unius generis, alia brevia atque ex uno tantum verbo, alia e pluribus constituta. Sunt contra inepta quaedam, insulsa, fatua, illepida, frigida:

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come dice Cicerone,237 dai luoghi donde si ricavano le facezie possono ricavarsi anche pensieri gravi, anche noi pensiamo questo, che possono ricavarsi sia quei motti che scivolano nella bruttura e nella scurrilità, sia quelli che rientrano nello spirito e nella fine arguzia; una parte dei luoghi infatti stabilisce una misura ai pensieri e alle parole, l’altra propende al riso ed alla scurrilità. Si può dunque ad essi applicare la misura e la ragione, perché da coloro che scherzano sia lontana ogni scurrilità; questo è propriamente il compito che spetta alla discrezione sia nei pensieri, sia nelle parole. 2. Ma per lo più l’oscenità risiede nelle parole, la scurrilità piuttosto in ambedue, se è vero che è considerata cosa da buffoni provocare con motteggi chi non va provocato, poiché si legge in Cicerone che i motti che possono toccare chi non vorresti, per quanto siano piacevoli, son tuttavia naturalmente scurrili. I motti dunque troppo salati e pungenti, e lanciati contro coloro che non è conveniente colpire, sono anch’essi scurrili. Possono tuttavia anche gli uomini faceti, nelle riunioni e nei crocchi, se si trovano a riferire motti pronunciati da altri, non se li pronuncino come cosa propria lanciandoli contro qualcuno, pronunciare talora motti mordaci in pubblico, quasi richiamandoli alla memoria o adducendoli come esempio, ma non tuttavia in maniera mordace, e possono pronunciare motti scurrili, ma non in modo scurrile, in modo cioè da contenersi nelle parole e nei gesti. Questo avviene specialmente quando si raccontano novelle: si narra in modo non turpe ciò che in esse vi è di turpe, e talora si accenna piuttosto che dire espressamente.

XXII DISTINZIONE FRA SCHERZI, MOTTI, BUFFONERIE, NOVELLE. 1. Perché l’esposizione di questa materia sia più chiara, faremo una suddivisione in scherzi, motti, buffonerie, novelle. Tutto quanto il genere è dello scherzo, ma gli scherzi constano di motti, buffonerie e novelle; e dei motti alcuni sono lepidi, altri piccanti, altri piccanti e insieme lepidi, altri osceni, mordaci e non allo stesso modo, altri brevi e composti di una sola parola, altri di più parole; vi sono al contrario alcuni motti sciocchi, insulsi, scemi, privi di spirito, freddi: ve ne sono dunque di varie specie. 1205

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itaque multimoda ipsa quidem sunt. Ridicula quoque non unius sunt naturae: alia enim faceta sunt, alia vero minime. Itaque species haec indagationi huic nostrae minus congruit, quippe qui relaxationem quaeramus, quae facetudinis est alumna. 2. Fabellae iucundissimae ipsae sunt atque ad omne facetiarum genus accommodatae locisque omnibus congruunt, si non fortasse temporibus, quanquam et temporibus et item personis, si delectus accesserit; quarum duplex est genus: unum quod sumptum est a mutis animalibus in exemplum; quales Aesopicae fere sunt fabulae et earum similes, aut a rebus minime sentientibus ut ab herbis, arboribus, lapidibus, ut quae in senatum romanum introducta fuit contentio ventris adversum coetera corporis membra, ut quae de Phocione refertur adversus exactores pecunia, viritim conferendae ad sacros quosdam ludos Athenis publice institutos; alterum quod, sive fictum sive verum, vel ut vetus tamen versatur in ore hominum vel ut novum refertur. 3. His, ni forte displicuerit, addam quas aniles dicunt fabulas, quales sunt quae narrantur ad cunas atque infantulorum vigilias; nam et hae quoque, ubi res ipsa tulerit, afferre iucunditatem possunt. Ponenda quoque videntur in hoc ipso genere fabellarum carmina et quae amatoria sunt et quae sive ludunt ad citharam aut tibiam sive ad virtutem hortantur; afferunt enim quoquo modo delectationem auditoribus. Nam quid dicendum est de explicationibus historiarum? Qua enim e re maior voluptas afferri honeste potest quam e relatione rerum gestarum? Itaque persaepe etiam seria relaxationem in consessibus inducunt et laborum et curarum. Sed hoc fonasse ad facetudinem minime spectaverit, etiam si spectet ad recreationem. De quibus ipsis deinceps quidem dicemus, etiam exemplis propositis.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO TERZO, XXII

Le buffonerie, anch’esse non sono di una sola natura: alcune infatti sono facete, altre non lo sono affatto; pertanto questa specie si confà poco a questa nostra indagine, perché andiamo in cerca del rilassamento che nasce dall’arte della facezia. 2. Le novelle sono assai piacevoli e adatte ad ogni genere di facezia e convengono a tutti i luoghi, se non a tutti i tempi, sebbene anche a tutti i tempi potrebbero convenire ed anche a tutte le persone, se si applicasse la discrezione; di esse sono due le specie: una che è stata tratta dal mondo dei muti animali, per fornire un esempio, come potrebbero essere le favole di Esopo e simili, o dal mondo degli esseri inanimati, come erbe, alberi, pietre, ad esempio la contesa che fu introdotta nel Senato romano fra il ventre e le altre parti del corpo, quella che si racconta su Focione238 contro gli esattori del danaro che doveva essere sborsato da ciascuno per alcuni giochi sacri istituiti ad Atene con pubblico decreto; l’altra specie è quella delle storielle, inventate o vere, sia che vadano sulla bocca degli uomini sin dal tempo antico, sia che vengano narrate come nuove. 3. A queste, se non dispiacerà, aggiungerò quelle storielle, che si attribuiscono alle vecchiette, come sono quelle narrate presso la culla e durante la veglia dei bambini;239 infatti anche queste, in certe occasioni, possono apportare diletto. Sembra che si debbano inserire anche in questo genere di storielle le canzoni, sia quelle d’amore sia quelle che si cantano al suono della cetra o del flauto, oppure che esortano alla virtù; apportano infatti comunque un diletto agli ascoltatori. E che bisogna dire della narrazione delle storie? Da quale cosa può provenire infatti un piacere maggiore che dalla esposizione delle gesta? Pertanto spesso anche gli argomenti seri apportano nei raduni il rilassamento dalle fatiche e dalle preoccupazioni. Ma questo forse potrebbe riguardare in maniera assai ridotta l’arte della facezia, anche se riguarda la ricreazione. Di queste cose parleremo in seguito, proponendo anche degli esempi.

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LIBER QUARTUS

I. [PROOEMIUM.] 1. Ioci igitur suapte natura iucunditatem pariunt, ab eadem enim ducuntur voce: sunt enim a iuvando detractis literis. Hi, ubi hilariusculi fuerint, remissiores tamen, et curas sedant et animos tranquillant; itaque astantes afficiunt suavitate lepiditate et ea, quae proprie tum iucunditas dicitur, tum hilaritudo vocata est; ubi vero vehementiores fuerint, excitant etiam risum, qui alias ad hilaritatem quidem tantum spectat meramque animi refocillationem, alias ad irrisionem atque contemptum. Irrisio vero ac despicientia oriuntur tum a turpitudine aliqua deformitateque morum corporis disciplinae habitus consuetudinis aut facti dicti ve cuiuspiam ac tum patriae tum maiorum cognatorum affinium amicorum sodalium; nam quod et indignationem quandoque ac perturbationes etiam intemperatiores afferre soleant, facetudini ac relaxationi videtur omnino contrarium; alias ab ineptitudine insulsitate frigiditate despectum ingenerant. 2. Quod autem haec ipsa ioca dictis constant, versantur enim in verbis ac rebus, hinc dicta ipsa alias brevia sunt atque unius interdum verbi, alias fusa verborum plurimorum magisque continuum in tractum ducta quaeque nec risum ubique moveant, tum quia saepenumero e contrario pariunt admirationem tum quia nec res nec verba eiusmodi sunt virium,

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LIBRO QUARTO

I [PROEMIO.] 1. I «giochi» dunque per loro natura generano giocondità, e infatti le due voci hanno la medesima etimologia, perché derivano da «giovare» con l’elisione di qualche lettera.240 Questi scherzi, quando sono un pochino più allegri, e piuttosto rilassati tuttavia, acquietano le preoccupazioni e rasserenano gli animi; e così infondono nei presenti dolcezza, piacevolezza e quella che propriamente si chiama ora giocondità, ora allegrezza; ma quando sono piuttosto forti, suscitano anche il riso, che in alcuni casi riguarda soltanto l’allegria e il puro ristoro dell’animo, in altri casi la derisione e lo spregio. La derisione e il disprezzo sono originati da qualche sconcezza e bruttezza morale, fisica, riguardante l’educazione, il comportamento, le abitudini, ovvero da un’azione commessa o espressione pronunciata, o del luogo di origine, sia risalenti agli antenati, ai parenti, agli affini, agli amici, ai colleghi; infatti, poiché provocano talvolta l’indignazione e un turbamento anche piuttosto forte, sembrano cosa assolutamente contraria alla festevolezza e al rilassamento; altre volte generano sdegno per la sconvenienza, l’insulsaggine e la volgarità. 2. Ma poiché questi scherzi constano di motti (riguardano infatti parole e concetti), di qui deriva che i motti stessi in alcuni casi sono brevi e talora di una sola parola, in altri casi composti di moltissime parole e piuttosto protratti in una tirata continua e tali da non muovere comunque il riso, sia perché spesso al contrario producono la meraviglia, sia perché né le parole né i concetti hanno tale efficacia, e chi li pronuncia 1209

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DE SERMONE, LIBER QUARTUS, I

nec qui dicit idoneus est ad risum excitandum. Quod autem collocutiones congressusque ipsi nostri constant allocutoribus ac responsoribus ipsaeque allocutiones plerunque sunt ab initio ignotae, iccirco partes respondentis quod extemporales sunt, dum arguta sint responsa appareantque repentina et improvisa, pariunt etiam cum iucunditate admirationem ac laudem dictisque ipsis addunt plurimum gratiae ac leporis. Inductiones vero fabellarum atque recitationes, quod iis natura delectetur, mirifice etiam sedant animum et tanquam defatigatum sordentemque sudore in balneis lavant deterguntque lavatum. Est enim magna in illis vis ad quancumque persuasionem actionemque, nedum ad relaxationem, sedandasque ad molestias ac curas. 3. Quod igitur in natura soli ac terrarum usuvenit, alia ut alibi et nascantur et coalescant, idem in dictis quoque contingit ac ridiculis, ut diversis ex locis diversa deducantur sive dicta sive ridicula. Quo fit, ut quoties naturae regionum sint cognitae sedesque e quibus deducuntur facetiae, materia ipsa praebita sit ac sumministrata etiam affatim iocari volentibus. Itaque nec natura deerit arti nec ingenium ab arte destituetur atque observatione; observatio enim pedetentim in praecepta redigitur, ars autem praeceptis constat. Quae si quibusdam in rebus ad summum atque absolutum non pervenit nec penitus consummata est, quod aut ipsarum rerum infinitas quaedam est aut quod tum negligentia est in causa tum rerum difficultas tum etiam quia pervenisse ad aliquam cognitionem satis quidem videatur et movendi quidem risus peritia levior videatur perque satis sit oratori, qua orator, et urbano bomini, qua civis est, ex hac ipsa observatione tantum esse consecutum, ut et movere ex se pro loco ac tempore risum queat et animorum refocillationem parere hac ipsa via, quam facetia munierint ac lepores solersque iocandi cognitio, non quae oratoris sit propria sed faceti. Qua de re libro hoc ipsi disserimus.

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO QUARTO, I

non è adatto a far ridere. Ma poiché i nostri colloqui e incontri comprendono da una parte coloro che rivolgono la parola, dall’altra coloro che rispondono, e le parole che vengono indirizzate sono all’inizio sconosciute, perciò il compito di chi risponde, giacché si fonda sull’improvvisazione, purché le risposte siano argute e appaiano repentine e immediate, generano l’ammirazione e la lode insieme con la piacevolezza e aggiungono ai motti stessi molta gradevolezza ed umore. L’inserimento di storielle e racconti, poiché se ne ha naturalmente piacere, calmano l’animo in modo straordinario e si potrebbe dire che lo lavino in un bagno quando è stanco e sporco di sudore e lo asciughino dopo averlo lavato.241 Essi hanno una grande efficacia nel persuadere a qualsiasi azione, nonché nel rilassare e nel calmare le irritazioni e gli affanni. 3. Ciò che avviene dunque nella natura del suolo e del terreno, che alcune piante nascono e crescono in un luogo, altre in un altro, la stessa cosa capita anche nel caso dei motti e degli scherzi ridicoli, che da luoghi diversi vengano tratti motti e scherzi.242 Cosicché quando si è conosciuta la natura delle regioni e il luogo243 dal quale provengono le facezie, anche la materia è disposta e pronta a sufficienza per chi voglia usare lo scherzo. E così né la natura verrà meno all’arte, né l’ingegno sarà abbandonato dall’arte e dall’esperienza; l’esperienza infatti a poco a poco si organizza in precetti, e l’arte consta di precetti. Che se in qualche caso non giunge al culmine della perfezione e ad un affinamento estremo, ciò dipende dal fatto che nella realtà delle cose in certo qual modo un termine non esiste, oppure entra in funzione ora la trascuratezza, ora una reale difficoltà, e sembra davvero sufficiente averne solo qualche conoscenza: la capacità di muovere il riso può sembrare infatti cosa di lieve importanza, ed esser sufficiente all’oratore aver conseguito soltanto attraverso l’esperienza la capacità di essere oratore, all’uomo civile quella di essere cittadino, in modo da poter da se stesso a tempo e luogo far ridere244 e procurare il ristoro degli animi attraverso la via aperta dalle facezie, dalle lepidezze e dalla bravura di saper scherzare; non mi riferisco alla bravura propria dell’oratore, ma a quella propria dell’uomo faceto. In questo libro discuteremo di questo argomento.

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DE SERMONE, LIBER QUARTUS, II

II ARTEM NATURAE CONIUNCTAM PLURIMUM VALERE AD FACETUDINEM. 1. His itaque hunc in modum explicatis, sensim quidem atque exemplis propositis, ostendamus artem naturae coniunctam id praestare ut, quod turpe est suapte natura atque oscenum, id dicatur nec turpiter nec oscene. Quod artis esse quis neget? Perinde enim ut sterilibus in arboribus insitionis arte utuntur agricolae, quo foecundas illas atque hortenses efficiant e silvaticis, sic faceti homines, arte adhibita ac translationibus usi, rem naturaliter turpem dictis honestant et quod ipsum per se oscenum est in lepidum vertunt ac facetum. 2. Id autem est huiusmodi. Reguli cuiusdam aula inquinabatur nefandis puerorum amoribus atque huiusce generis libidine. Forte igitur ex aulicis quispiam aestivo tempore in cubiculo quiescebat sub meridiem spirantibus zephyris, quorum afflatu, quibus ille intectus erat linteolis, detegebatur pudendas ad partes corporis. Forte igitur ea praeteriens Rodoricus Hispalensis, vir et suavis et qui aulicorum mores notos haberet, cum animadverteret cucurbitulam quasi quandam pendere ad illius ramices, “mirum ne, inquit, videatur grandiusculam eam esse, quae in sterquilinio coaluerit?” Videtis ne ars ingenio comitata quid praestiterit? Adhibita enim translatione virilis membri in cucurbitulam, primo verbum honestavit, deinde rem turpem honestis vocibus et expressit et accusavit, eadem translatione usus. Cucurbita enim fimo saturata mirifice grandescit. Quo etiam verborum honestamento turpem illius usum in re venerea expressit et ridiculum fecit. 3. Haec igitur artis sunt, quae in hac ipsa parte locum quoque suum optinent, si qui facetiis dant operam artis ipsius oblivisci noluerint. Nam si facetudo mediocritas quaedam est, sine arte, id est absque prudentia et artificio, perveniri ad illam nequit. Idem hic Rodoricus, cum vidisset ingredientem florentinum hominem in regis atrium, in quo pueri regii se se exercebant ad pilam, “macte, inquit, fide ac mercatura vir; arcem hane ingressus, ad eius portam, credo, pugiunculum de more reliqueris et atrium ingressurus, ne legem quoque atrii ignores, ante eius hostium

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO QUARTO, II

II L’ARTE UNITA ALLA NATURA È MOLTO EFFICACE PER OTTENERE L’ATTITUDINE DELL’UOMO FACETO.245 1. Dopo questa spiegazione, mostreremo man mano e proponendo degli esempi che l’arte unita alla natura può fare in modo che ciò che per sua natura è turpe ed osceno, venga espresso in modo né turpe né osceno. Chi potrebbe negare che sia questo il merito dell’arte? Come infatti gli agricoltori usano l’arte dell’innesto sugli alberi sterili, in modo da renderli fecondi e adatti al giardino da selvatici che erano, così gli uomini faceti, adoperando l’arte e usando i traslati, rendono onesta con le parole una cosa naturalmente turpe e quel che è per se stesso osceno lo mutano in piacevole e faceto. 2. Un esempio può essere questo. La corte di un barone era insozzata dal turpe amore per i fanciulli e da vizi del genere. Per caso un cortigiano riposava nel suo letto nella stagione estiva sul meriggio mentre spirava una brezza, al cui soffio venivano scoperte le parti vergognose del corpo dal lenzuolo con il quale si copriva. Si trovava a passare Rodrigo di Siviglia, uomo simpatico e che conosceva bene i costumi dei cortigiani, e vista come una piccola zucca 246 appesa al suo ramo, disse: «Parrebbe strano forse che sia così grandicella, 247 dal momento che è cresciuta nel letame?» Non vedete che cosa sia riuscita a fare l’arte accompagnandosi all’ingegno? Adoperando infatti un traslato e mutando il membro virile in una zucchina, prima di tutto aggraziò la parola, poi espresse e biasimò una cosa turpe con parole decorose, usando il medesimo traslato. La zucca infatti, saziandosi di concime, s’ingrandisce enormemente. Inoltre aggraziando in questo modo le parole rappresentò il suo turpe costume nell’atto venereo e lo rese ridicolo. 3. Queste sono le prerogative dell’arte, che in questa parte della trattazione ottengono anch’esse un loro posto, se coloro che si dedicano alle facezie non vogliono dimenticarsi proprio dell’arte. Infatti, se la qualità dell’uomo faceto consiste in un giusto mezzo, non è possibile pervenirvi senza l’arte, ossia senza giudizio e senza tecnica. Il medesimo Rodrigo, visto un fiorentino entrare nell’atrio della reggia, nel quale i fanciulli del re si esercitavano alla palla: «Viva la lealtà e la mercatura – disse – o uomo; entrato nell’arco, alla sua porta, credo, hai lasciato al solito un pugnaletto e prima di entrare nell’atrio, per non ignorare anche la legge 1213

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DE SERMONE, LIBER QUARTUS, II

et tentigo tibi relinquenda est”. An potuit honestius et turpitudinem indicare et ludere cum mercatore pudentius? 4. Haec igitur ipsa, ut dixi, artis sunt, quae plurimum apud ingeniosum hominem ad consequendam retinendamque mediocritatem est praestitura. Artis quoque ipsius est et invenire et considerare locis e quibus dicta ipsa ridiculaque deducantur. In priori igitur dicto locus praebitus est a translatione, in secundo a rei similitudine, quemadmodum et hoc quod subiicio. Pepererat infantulum Paschasii Decii nurus, arcis neapolitanae praefecti, utque de more est et congratulatum una et visitatum accesserat idem, de quo dictum est, Rodoricus. Itaque ingressus ipse cubiculum, in quo conquiescebat puerpera, comperit hinc Paschasium confectum senio, innisum baculo ac languescentem, illinc e fumiliaribus quempiam perinde ac bovem nimia de obesitate iacentem in scrinio, itemque alterum eo ingenio praeditum, parum qui ab asello iudicaretur differre. Progressus igitur ad cubile, ubi infantulus vagiebat, pedes exosculatus est eius conversusque ad astantes, “an, inquit, praesaepe ingressus, in quo et asinus et bos recumberet seniorque una Iosephus, non et ipse ad Christi pedes exosculandos progrederer?” Potuit ne ars ingenioso suffragata homini commodiore uti atque appositiore similitudine, ut quae ridicula non esset res, illam ex arte maxime ridiculam efficeret? 5. Est apud Plautum ex ore et pudicae et permodestae mulieris dictum eadem e translatione atque officina haustum, quod etiam supraposui in re quidem uxoria, quae suapte natura perpudenda quidem dictu est: Fundum alienum arat, familiarem incultum deserit;

quod etsi risum non moverit, ostendit tamen ars ipsa quid valeat. Habemus igitur locos duos maxime nobiles et translationis et similitudinis, qui satis quidem aperte vel confirmare possunt vel testificari, praetorio etiam in iudicio, artem quoque vel maximum in his locum sibi vendicare posse, ni hominum defuerit industria laborque ille pertinax, rerum om-

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO QUARTO, II

dell’atrio, davanti all’ingresso devi lasciare anche la libidine».248 Avrebbe potuto più correttamente alludere alla turpitudine e scherzare con maggior pudore con un mercante? 4. Queste, come ho detto, sono prerogative dell’arte, la quale in un uomo ricco d’ingegno è capace di offrire moltissimo per raggiungere e conservare il giusto mezzo. Anche e proprio all’arte appartiene il trovare e riflettere da quali luoghi si debbano trarre i motti e gli scherzi. Nella prima battuta dunque il luogo fu offerto dalla metafora, nella seconda dalla similitudine,249 come anche questa che ora espongo. La nuora di Pascasio Decio, capo della rocca di Napoli, aveva partorito un bambino, e secondo l’usanza era andato a congratularsi e insieme a farle una visita quel Rodrigo di cui ho parlato. E così, entrato nella camera da letto, nella quale riposava la puerpera, trova da una parte Pascasio consumato dalla vecchiaia, appoggiato su un bastone e infiacchito, dall’altra uno della servitù che giaceva su di una cassetta per l’eccessiva obesità, come un bue, e un altro fornito di un’intelligenza tale da poter essere giudicato ben poco differente da un asinello. Avvicinatosi dunque al letto, dove il bambino vagiva, gli baciò i piedi e rivoltosi ai presenti esclamò: «Entrando nel presepe, nel quale giacciono l’asino e il bue, e sta con loro il vecchio Giuseppe, non dovrei anch’io avvicinarmi e baciare i piedi di Cristo?» Avrebbe mai potuto l’arte, sostenendo un uomo d’ingegno, usare una similitudine più adatta ed opportuna, sino a rendere estremamente ridicola una cosa che non era ridicola, attraverso un’abile trovata? 5. In Plauto vi è un motto pronunciato dalla bocca di una donna pudica e assai costumata, tratto anch’esso dalla metafora e dal medesimo laboratorio, e che ho introdotto anche prima in un argomento riguardante le mogli, un motto che in sé è veramente molto pieno di pudore a pronunciarsi: Ara il fondo di un estraneo, e lascia incolto quello familiare.250

Che, anche se non muove il riso, mostra tuttavia la potenza dell’arte. Abbiamo dunque due luoghi molto importanti, quello della metafora e quello della similitudine, che abbastanza chiaramente possono assicurare e testimoniare, perfino in un processo davanti al pretore, che anche l’arte può rivendicare un posto perfino grandissimo in queste cose, se non viene meno l’operosità dell’uomo e quella pertinace fatica che fa 1215

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DE SERMONE, LIBER QUARTUS, III

nium expugnator. Quocirca locos etiam alios percenseamus, qui admonere nos et artis possunt et observationis, quae artem ipsam constituere est solita.

III DE INVENIENDIS DICTORUM AC RIDICULORUM LOCIS. 1. Quoniam autem quos locos appellamus, ii sedes dictorum sunt ac ridiculorum, e quibus ioci, ac si ibidem lateant, extrudendi sunt, ad alias iam regiones proficiscamur, quo palam fiat artem quoque in illis non parum valere. Sedentibus nobis pro foribus nostris disserentibusque his ipsis de rebus, facti sunt obviam inter se agrestes duo, alter albenti pilleo eoque grandiore intectus caput, alter nudatis pedibus ac plantis. Atque hic quidem e vestigio verbis in illum illatus, “quanti, inquit, fungulus iste?”, pilleum videlicet irridens. Ille, sublato statim supercilio, conversis mox ad pedes eius oculis, respondit: “Quanti calceoli tui ac denariolo pluris?” Statim omnes in risum conversi sumus. Igitur alter a pilleo admonitus est excitusque a natura eaque duce tantum, alter etiam ab arte adiutus, quae illum admonuit pedum excalciatorum. Itaque locus lacessentis videtur a vestitu oblatus, respondentis ab arte repraesentatus atque ab opposito. Alter enim erat intecto capite atque a superiore corporis parte, alter nudatis pedibus, quae pars inferior est corporis. Non rideas modo, verum etiam dirumpare, cum apud Plautum dicentem illum audias in Trinumo: Pol hic quidem fungino est genere: capite se totum tegit?

2. Eodem tempore, cum staret forte nobis e regione sutor senex, et quidem sordidus admodum senex, cui ad nasum pendebat pituita grandiuscula quidem ac pellucida, praeteriens homullus dicaculus et ipse, “pannis tamen atque annis obsitus” ut ille inquit apud Terentium io-

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vincere ogni cosa. Perciò esaminiamo anche altri luoghi, capaci di farci riflettere sull’arte e sull’osservazione, la quale si solito costituisce il fondamento dell’arte stessa.

III DEL MODO DI TROVARE I LUOGHI DA CUI TRARRE MOTTI E FACEZIE.

1. Ma poiché i cosiddetti luoghi comuni sono le sedi che contengono i motti e gli scherzi, dalle quali vanno estratte, anche se vi si celano, le facezie, passiamo ad altri argomenti, perché sia chiaro che neanche in essi l’arte ha poca importanza. Mentre sedevamo davanti alle nostre porte e discutevamo proprio di questi argomenti, s’incontrarono due uomini di campagna, uno con il berretto bianco, un po’ troppo grande, che gli copriva la testa, l’altro con i piedi e le piante nude. E costui, rivolgendo all’altro d’un tratto la parola disse: «Quanto sta questo funghetto?»,251 evidentemente burlandosi del berretto. L’altro, sollevato subito il sopracciglio, rivolti gli occhi tosto verso i suoi piedi, rispose: «Lo stesso prezzo dei tuoi stivaletti più una monetina».252 E tutti scoppiammo subito in una risata. Ordunque l’uno fu sollecitato dal berretto e indotto dalla natura e solo dalla sua guida, l’altro fu aiutato anche dall’arte, la quale fece sì che si accorgesse dei piedi scalzi.253 Così il luogo della provocazione sembra offerto dal vestiario, quello della risposta parimenti dall’arte e dalla contraddizione. L’uno infatti era con il capo coperto e nella parte superiore del corpo, l’altro a piedi nudi, che è la parte inferiore del corpo. Non solo ti verrebbe da ridere, ma perfino scoppieresti dal ridere udendo in Plauto quel tale che dice nel Trinummus: Per Polluce, costui appartiene al genere dei funghi: con la testa si copre [interamente.254

2. Nello stesso periodo, stando proprio di fronte a noi un vecchio ciabattino, un vecchio in verità molto sudicio, cui pendeva dal naso un muco un po’ grosso e trasparente, un ometto che passava, anch’egli un po’ mordace,255 «e tuttavia carico di panni e di anni»256 come dice quel 1217

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candique opportunitatem nactus, “perpulchrum, inquit, adamanta et pretiosum!”. Tum alter: “Et anulo tuo dignum”. Tali igitur tamque inexpectato responso, ars ne an natura, an simul iunctae iocari urbanius potuerint nesciam. Ille enim iocatus est, sumpta occasione senili ab aetate, quae pituitosa est; hic vero ab eo, quod adamantes includi anulis sint soliti. Sumpsit urbanissime Plautus etiam alibi iocandi opportunitatem a tempore; nam cum dixisset servus apud lenam de amatore: “Quam tibi sospitalis fuit”, tum lena, “mortuus est, inquit, qui fuit; qui est vivus est”. Iocabantur aliquando vel rixabantur potius ex iis duo, quos maiores nostri appellitabant nebulones: et alteri quidem Asello factum est nomen, quod ob linguae intemperantiam et pugnis saepe contusus et verberibus ac fustibus honeratus perinde ac asinus esset; alteri vero Ventritio, quod patrimonium pene omne pitissando compotandoque in ventrem congessisset. Prior igitur Ventritius inter conviciandum: “Quantum, o amice Aselle – paulo enim ante et pugnis caesus et quernis etiam fustibus percussus fuerat – quantum, inquam, aeris inest tibi in crumena vectura ex hodierna?” Ad quae confestim Asellus: “Quantum tibi in ventriculum influxit villi hesterna e vindemia?”Itaque eiusmodi sive dicta sive ridicula et multum habent fellis et maxime apposita sunt ad movendum risum plurimumque in iis pollet natura, tametsi nominum tum interpretatio tum formatio videtur ad artem prorsus referenda. 3. A diverso quoque sensu eorum, quae dicuntur, ioci et quidem maxime ridiculares depromuntur; ut cum ille inquit in Menechmis: Magna cum cura illum curari volo,

tum medicus: Quin suspirabo prius sexcentum dies, ita ego illum cum cura magna curabo.

Ille diligentiam curationis exigit, hic medici personam sustinens, quod aegre admonitionem ferret quodque cura molestiam quoque ani-

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tale in Terenzio, trovando l’occasione di scherzare disse: «Bellissimo e prezioso diamante!». L’altro allora: «e adatto ad un tuo anello!» Non saprei se l’arte oppure la natura, o entrambe insieme avrebbero potuto scherzare con maggiore garbo che con una tale e così inaspettata risposta. Quegli infatti pronunciò il motto prendendo occasione dall’età senile, che abbonda di muco; questi prendendo spunto dal fatto che i diamanti si sogliono incastonare negli anelli. Anche altrove Plauto colse a tempo l’opportunità di scherzare con molto spirito; avendo detto un servo ad una ruffiana riferendosi all’amante: «quello che è stato il tuo salvatore»; la ruffiana rispose: «È morto chi lo è stato; è vivo chi lo è».257 Scherzavano talvolta, o piuttosto rissavano fra loro due di quelli che i nostri antenati chiamavano fannulloni: all’uno era stato dato il nome di Asinello, perché a causa dell’intemperanza della lingua era spesso pestato dai pugni e caricato di botte e bastonato come un asino; all’altro invece era stato dato il nome di Ventrizio, perché si era gettato nel ventre quasi tutto il patrimonio degustando vino e facendo bisboccia.258 Per primo dunque Ventrizio tra le ingiurie: «Quanto, o amico Asinello – poco prima infatti era stato preso a pugni ed anche percosso con un bastone di legno di quercia – quanto danaro, dico, ci hai nel borsellino per il trasporto di oggi?». A queste parole subito Asinello: «Quant’è il vino che ti si versò nel ventre dalla scarsa vendemmia di ieri». Tali motti o scherzi, come si vogliono chiamare, hanno molto fiele e sono molto adatti a muovere il riso, e in essi ha una grande forza la natura, sebbene la traduzione e la formazione dei nomi sembra riguardare in tutto l’arte. 3. Alcuni scherzi, e in verità assai ridicoli, vengono ricavati anche dal senso diverso attribuito a ciò che si dice; come quando quel tale dice nei Menechmi: Voglio che sia curato con grande cura;

e allora il medico: Anzi io sospirerò più di seicento volte al giorno, così potrò curarlo con grande cura.259

L’uno richiede l’attenzione nella cura, l’altro che sostiene la parte del medico, mal sopportando la raccomandazione, poiché cura significa an1219

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mique afflictionem significat, suspiraturum se se obtulit; suspiria enim exagitati ac parum quiescentis animi sunt signa. 4. Forte viator florentinus, ut ventricosus admodum sic etiam perquam salsus, cum per urbem Senas iter faciens porta exiret, quae Romam ducit, ac sublato palliolo popam ostentaret et praegrandem et tumidam, atque ibi tum quispiam e portae custodibus per iocum ac risum dixisset: “Sapit homullus hic, qui neutique pone, sed prae se manticam sibi apposuit”, tum ille ore quam maxime renidenti, “an tu, inquit, aliter per latronum fines ac sicariorum securus rebus cum tuis incesseris?” Quid autem mage lepidum aut salsum magis? Iocandi autem locus in dicto priori sumministratus est a corporis sive habitu sive deformitate; in posteriori a morum turpitudine ac rapiendi impotentia et studio. Adminiculata vero est in posteriori plurimum quidem ars, quae illi suggessit ea, quae cernantur oculis, diligentius custodiri ac cautius. Nam quod tueamur nos nostraque naturali quidem inest a studio; quo nam autem modo quaque fiat via, id artis potius est. 5. Nobis adolescentulis, cum Italiae res maxime florerent vigeretque rei bellicae honos Italicos apud duces multique ob strenuitatem ac rei militaris disciplinam haberentur in pretio, in iisque Antonellus esset Foroliviensis, qui tamen mercennariam exerceret militiam singulisque pene aut bienniis conductorem mutaret atque ante finitum prius stipendium ad alium transiret conductorem, commendareturque in senatu florentino, quod sagax admodum esset, impiger, manu promptus perque laboriosus, tum Cosmus, “et, quod maximum in eo est, subdidit, etiam antelucanus”. Hoc dictum ab arte totum profectum est atque a transfugiorum illius observatione; peperit autem risum, quia tanquam obliquo e loco atque ex insidiis repente proruperit. 6. Referre erat mihi solitus inter confabulandum Erricus Pudericus, senex maximi usus summaeque iucunditatis, neapolitanum civem, cuius ipse nomen ob familiae respectum ac liberorum obticebat, nam propudiosus erat morboque laborabat infami, convenisse genuensi cum mercatore ac praefinisse rei frumentariae summam quandam certam ad diem neapolitanum in litus comportandam. Itaque in praetoris conspectu, cum ab actorum magistro pacta ipsa conventionesque de ritu adnotarentur praetorii, ex iis, qui tum aderant, testibus inclamasse quempiam, quasi e loco quodam abdito, nec licere nec fas esse uxores absque vi-

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che la pena e la sofferenza dell’animo, si propone di sospirare; infatti i sospiri sono i segni di un animo turbato e poco sereno. 4. Per caso un viandante fiorentino,260 che aveva un pancione ma era anche molto spiritoso, passando per caso per la città di Siena e uscendo dalla porta che conduce a Roma, sollevato il mantello mostrò il suo ventre assai grande e gonfio.261 Allora uno dei custodi che era lì disse per gioco e per ridere: «È un dritto quest’omiciattolo, che dietro non porta proprio nulla, e davanti si è messa la bisaccia». Allora quello con un viso quanto mai sorridente disse: «E tu te ne andresti altrimenti per terre di ladri e di assassini sicuro?». C’è motto più spiritoso o piccante? La possibilità di scherzare nel primo motto fu offerta dal comportamento o dalla deformità del corpo; nel successivo dalla disonestà morale e dalla sfrenata tendenza alla rapina. Fu di molto sostegno nel secondo motto l’arte,262 che consigliò a quel tale di custodire con diligenza e prudenza le cose che stanno sotto gli occhi. Infatti, proteggere noi stessi e le nostre cose, ci deriva da un istinto naturale; mentre con quali modi e mezzi farlo è opera piuttosto dell’arte. 5. Quando eravamo ragazzi, e le condizioni dell’Italia erano estremamente floride, la gloria militare dei condottieri italiani era molto viva e molti erano quelli che venivano apprezzati per il valore e la scienza militare, fra i quali Antonello da Forlì,263 che tuttavia esercitava il mestiere di mercenario e quasi ogni due anni cambiava committente passando ad un altro prima di portare a termine il servizio. Essendo costui esaltato nel senato fiorentino per il fatto di essere molto bravo, attivo, pronto di mano e instancabile, Cosimo soggiunse: «e, quel che è il suo pregio maggiore, è molto mattiniero». Questo motto proviene interamente dall’arte e dall’aver osservato le diserzioni del condottiero; provocò poi il riso, perché proruppe improvvisamente, quasi da un luogo nascosto e da un’imboscata. 6. Durante i nostri colloqui Errico Poderico264 era solito raccontarmi che un cittadino napoletano, che non nominava per rispetto della famiglia e dei figli, poiché era un uomo turpe affetto da un vizio infame, s’accordò con un mercante genovese e decise di far trasportare sulla costa napoletana una grande quantità di frumento un determinato giorno. E così al cospetto del pretore, mentre i patti e le convenzioni venivano annotate dal notaio secondo le norme d’ufficio, uno dei testimoni presenti esclamò, balzando fuori quasi da un luogo nascosto, che non fosse lecito 1221

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rorum consensu quippiam omnino transigere, quod eae sui iuris non essent. Dictum sane non mordax modo summeque aculeatum, verum illi ipsi, in quem inferretur, mirifice erubescendum, quippe qui palam propudii notaretur morbique perpudescendi. 7. Iocandi locum hunc ars ipsa magis quam natura sibi adinvenit ex lege sumptum constitutisque e civilibus. In eundem quoque hunc ab matrona perurbana dictum extat generis eiusdem; quae ab illo vocata in iudicium cum praetore coram ipsa sisteret, “quid mirum, inquit, bone praetor, aut praeter consuetum homo hic facit, si foemellam me eiicere paterno ex agello studet, qui mulieres pene omnes munere iam eiecerit suo bellumque iis indixerit?”. Omnino igitur nota haec a morum turpitudine inusta est atque ab infamia usquequaque abominanda ad artemque prorsus referenda, cum abominandum scelus mulier honestis, quoad potuit, verbis innuerit quibusdamque quasi signis, qua significatione rem tueri suam nitebatur, cum oppressam se ac circumventam intelligeret. 8. Marinus Branchatius, eques neapolitanus, quique propter dicacitatem et multus esset et invector acerrimus adversum literatos homines, prandente aliquando Ferdinando rege, cuius mensam assiduus inodorabatur, craterculus ei cum esset oblatus vernatii quam suavissimi illumque et ipse labellatim hausisset, interrogatus ab rege qua nam Bacchus is locutus esset lingua, respondit “Oppido quam literata”, vinum ex eo commendans. Tum compotor, ibidem qui aderat, “quid tu, inquit, Marine, tantum literis impartire, adversum literatos ipsos qui tam impotenter atque assiduus inveharis?” Cumque e vestigio illi responsum esset ab non insulso homine inter pares eiusdemque rei studiosos plerumque odium verti atque inimicitias, ibi tum adolescens apprime ingenuus quique vinolentiam eius nosset, “nec ad rem, inquit, ista faciunt nec suntnecessaria, cum hos inter literatos nullus profecto sit Marino aut similis aut par”. Primum dictum a genere oblatum est, ab ipsis videlicet literis; secundum dictum illatum est sive ab eodem genere ductum sive a specie; tertium autem universa complexum est, cum primas ei concederet inter literatos, hoc est vinosos. Quid his dicas artificiosius?

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che le mogli senza il consenso dei mariti stipulassero un contratto perché esse non sono indipendenti. Un motto, questo, non solo mordace e molto pungente, ma tale da far arrossire colui contro il quale era diretto, perché davanti a tutti era accusato d’infamia e di un vizio vergognoso. 7. Uno scherzo di questo genere è stata l’arte più che la natura a inventarlo, assumendolo dal campo della legge e dalla costituzione civile. Contro quella stessa persona esiste un motto dello stesso genere pronunciato da una signora molto spiritosa. Ella, chiamata da lui in giudizio, standole il pretore davanti, disse: «Che cosa di strano fa quest’uomo, o buon pretore, o fuori del consueto,265 se si sforza di cacciare me, femminetta,266 dal campicello paterno, lui che ha cacciato via quasi tutte le donne dal suo ed ha dichiarato loro la guerra?». Questo marchio dunque è stato impresso senz’altro dalla vergogna morale e dall’abominevole infamia e deve essere attribuito senz’altro all’arte, giacché la donna accennò con parole decorose, quanto poté, ad un’abominevole scelleratezza, e quasi con allusioni, per mezzo delle quali cercava di difendere il suo patrimonio, facendo capire di essere stata sopraffatta e circuita. 8. Marino Brancaccio,267 cavaliere napoletano, che non solo era eccessivo nel motteggio, ma anche molto pungente contro i letterati, una volta mentre il re Ferdinando, gli odori della cui mensa usava sentire268 con assiduità, pranzava, essendogli stata offerta una coppa 269 di vernaccia 270 della più deliziosa, e avendola lui sorseggiata con le labbra, interrogato dal re sulla lingua nella quale aveva parlato Bacco, rispose: «letteratissima», volendo così lodare il vino. Allora uno che era lì e che beveva con lui: «Come mai tu, o Marino – disse – attribuisci tanta importanza alle lettere, quando poi inveisci violentemente e continuamente contro i letterati?». Ed essendogli stato risposto immediatamente da un uomo non sciocco che per lo più fra uomini pari, studiosi della stessa materia, sorgono odi e inimicizie, allora un giovane molto dabbene e che conosceva la sua passione per il vino: «Queste considerazioni né fanno al caso né sono necessarie dal momento che nessuno certamente fra i letterati è simile o pari a Marino». Il primo motto venne fuori dal genere, e cioè dall’argomento delle lettere;271 il secondo motto fu ispirato sia dallo stesso genere, sia dalla specie;272 mentre il terzo abbracciò tutto quanto, giacché concedeva a lui il primo posto tra i letterati, cioè tra gli ubriaconi.273 Che cosa potresti indicare di più artisticamente elaborato di questi motti? 1223

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9. De eodem quoque sic refertur. Occupata Campania ab Carolo octavo, Gallorum rege, cum Alfonsus minor, Neapolitanorum rex, cum Ferdinando filio ac Federico fratre in Siciliam ob metum tam violenti exercitus traiecisset, nec Marinus eos comitatus iam esset, demiratus hoc quispiam ac sciscitabundus quaeritabat quaenam huius esset rei causa, tum adolescens eadem ex aula, argutus ille quidem atque admodum lepidus, “an non, inquit, is est Marini usus, ea in potando atque in convivendo exercitatio, ea etiam vis ac peritia comessandi, ut Gallicas reformidare debeat lagenas aut gentis eius lancibus terga vertere?”. Perbelle dictum, nedum salse. 10. Sedes autem ipsa iocandi et quasi argumentatiuncula posita est in usu atque peritia quando in artificio quocunque, auctore etiam Aristotele peritissimo eius cuique adhibenda fides est atque auctoritas tribuenda. Sunt multa quoque verba duos sensus, ut Quintilianus quoque inquit, significantia, quae et amplum et patentem praebere possunt iocantibus campum, in quo et ars non exiguum ius exercet maxime in respondendo, siquidem, prolato verbo ingenioque lacessito et provocato, statim ars convertit se se ad implorandum auxilium ab altero quidem verbi ipsius sensu; ut cum Mercurius dixisset apud Plautum: “Malam a me sibi rem arcessit iumento suo”, confestim Sosia subdidit: “Non enim ullum habeo iumentum”. Itaque duplicitas sensus, arte iuvante, iocandi locum ei praebuit; cumque alibi dixisset: “Geminum dum quaeris, gemes”, ipsa literarum ac syllabarum similitudo et quasi collusio iocandi locum exhibuit. Atque in huiusmodi praecipue vocibus prima quidem occursio tota est naturae, secunda vero ad artem potius referenda: eius enim est et deducere voces et quaerere earum structuram et comparare eas atque inflectere; quam alliterationem alibi vocavimus, cum de poetarum numerispraecepta traderemus. 11. Ea quoque, quae insunt a natura ac dicuntur propria, ut “pastum quaerere”, ut “prolem appetere”, ut “hinnire ac mugire” atque eiusmodi alia, iocantes mirifice adiuvant; ut cum ludens apud Plautum servus dixisset: “Boves bini hic sunt in crumena” alterius servi e vestigio menti occurrit colludere et ipsum posse ab pascendi cupiditate, quae a natura bubus inest; itaque iocabundus subdidit:

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9. Ancora dello stesso personaggio si racconta questo. Occupata la Campania da parte di Carlo Ottavo, re di Francia,274 essendo Alfonso II, re di Napoli,275 passato in Sicilia insieme al figlio Ferdinando e al fratello Federico per paura di un esercito così selvaggio, poiché Marino non era più al loro séguito, un tale si meravigliò di questo e cercava d’informarsi su quale ne fosse la ragione. Allora un ragazzo della stessa corte, in verità arguto e pieno di spirito, disse: «Il costume di Marino, la sua pratica nel bere e nel pranzare, l’impegno e la perizia nel gozzovigliare, 276 son forse tali da dover temere le bottiglie dei Francesi o volger le spalle ai piatti di quella gente?» Magnifico motto, nonché piccante. 10. Il fondamento dello scherzo e per così dire la piccola argomentazione di cui consta dipende dall’esperienza e dall’abilità, dal momento che in ogni operazione d’arte, come insegna anche Aristotele,277 bisogna prestar fede e attribuire autorità a chi ne sia il più esperto. Vi sono anche molte parole che hanno un duplice significato, come dice anche Quintiliano,278 il quale può offrire a chi intende scherzare un campo ampio e aperto, poiché, pronunciata una parola e stuzzicato e provocato l’ingegno, subito l’arte si rivolge a cercare aiuto all’altro senso della stessa parola; come quando Mercurio disse in Plauto: «Quest’uomo cerca guai da me con il suo somaro»; e subito Sosia soggiunse: «Ma io non ho bestie da soma».279 E così la duplicità di senso, con l’aiuto dell’arte, gli offrì il campo da cui trarre lo scherzo; e avendo detto altrove: «Mentre cerchi il gemello, gemi»,280 la stessa somiglianza delle lettere e delle sillabe e quasi il loro ingannevole gioco offrì l’occasione per lo scherzo E specialmente in voci di questo genere la prima cosa che viene in mente è dovuta interamente alla natura, la seconda va piuttosto riferita all’arte; è suo compito infatti la derivazione delle parole, indagare sulla loro composizione, metterle a confronto e modificarle: questa l’abbiamo chiamata altrove allitterazione, quando esponevamo le norme metriche.281 11. Anche le espressioni che si fondano sulla natura, e si chiamano proprie, come «chiedere il pasto», come «desiderare la prole», come «nitrire e muggire» e molte altre del genere, aiutano straordinariamente chi scherza; come quando in Plauto, avendo detto un servo per burla «Due buoi son qui nel borsellino», all’altro servo venne subito in mente di poter scherzare anche lui partendo dalla brama di pascere, che i buoi hanno per natura; e così soggiunse scherzando:

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Emitte sodes, ne fames enecet, inire pastum.

Quis autem neget artis hoc esse, tametsi, natura repugnante, ars ipsa parum per se omnino in multis potest? 12. Ambigua quoque, quaeque aliam atque aliam interpretationem recipiunt, maxime exposita sunt iocantibus, ut cum servus apud Plautum et graviter et gratulanter domino dixisset Gaudeo tibi mea opera liberorum esse amplius,

(filium enim herilem in infantia amissum recuperaverat), illico, nactus herus iocandi opportunitatem, respondit iocabundus: “Etenim non placet; nihil moror, aliena mihi opera fieri plures liberos”. Quod enim ille dixerat gratulatus, sua quod opera atque industria filium invenisset, in alium ac libidinosum sensum interpretatus herus, ioco materiam praebuit. 13. Contraria quoque inter se et ipsa occasionem iocis praebent, ut in Amphitryone cum dixisset Mercurius: Dextera vox aures, ut videtur, verberat;

ex adverso contulit Sosia: Metuo, vocis ne vice hodie hic vapulem.

Et “verbero” enim et “vapulo” invicem contraria sunt, perinde ut “ago” et “patior”. 14. Datur etiam iocis locus ab interpretatione scripti, cum illud est ambiguum, etiam Cicerone exemplum afferente, in altercatione Scauri ac Rutilii de ambitu; cum in eius tabulis ostenderentur hae quatuor literae, A. F. P. R. et Scaurus interpretaretur: “Actum fide publica Rutilii”, Rutilius autem: “Ante factum post relatum”, ibi C. Canium, equitem Romanum, qui Rutilio aderat, exclamasset: “Verum illarum literarum sensum esse, hunc scilicet: Aemilius fecit, plectitur Rutilius”. Quod dictum

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Suvvia, lanciati a mangiare, perché la fame non ti ammazzi.282

Chi potrebbe negare che questa sia opera dell’arte, sebbene, quando la natura si oppone, l’arte può fare ben poco da se stessa? 12. Anche le parole ambigue,283 e quelle che ammettono varie interpretazioni, sono molto adatte per chi vuole scherzare, come quando un servo in Plauto disse al padrone con gravità e manifestando la sua gioia: Ho piacere che per opera mia tu abbia un figlio di più.284

Infatti aveva recuperato il figlio del padrone, smarrito nell’infanzia, e lì per lì, trovata il padrone l’occasione di scherzare, rispose scherzosamente: «E infatti non mi piace; non ci vuol altro che per opera altrui divengano più numerosi i miei figli». Ciò che quel tale aveva detto rallegrandosi per il fatto di aver trovato il figlio per opera sua, interpretandolo in un altro senso, in senso libidinoso, offrì materia allo scherzo. 13. Anche le ambiguità 285 offrono occasione agli scherzi, come quando Mercurio disse nell’Anfitrione: A quanto sembra, la voce vi bussa da destra alle orecchie;

e Sosia rispose in senso opposto: Temo che in vece della voce oggi qui debba buscarle.286

Verbero e vapulo (bussare e buscare) infatti sono in antitesi, come «agire» e «subire». 14. Si dà anche luogo allo scherzo con l’interpretazione di uno scritto, quando esso è ambiguo, e anche Cicerone ne porta un esempio nella disputa fra Scauro e Rutilio poiché sul registro del secondo apparivano queste quattro lettere, A. F. P. R., e Scauro le interpretava: «Atto eseguito con la fiducia pubblica di Rutilio», mentre Rutilio: «Anteriormente fatto poi riferito», allora Caio Canio, cavaliere romano, che era dalla parte di Rutilio esclamò che il vero senso di quelle lettere era vero, e cioè questo: «Aemilius l’ha fatto, il punito è Rutilio».287 Questo motto Cicerone ritie-

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acutum esse vult Cicero et concinnum. Non caruit igitur nec magistro nec arte huiusmodi interpretatio. 15. Consuevere duci etiam ab admonitionibus ac consiliis dicta admodum etiam faceta, quale Granii iliud apud Ciceronem. Cum malo patrono, qui vocem in dicendo obtudisset, mulsum frigidum bibendum consuleret illeque “si id fecero, perdam vocem” respondisset, tum Canius “melius, inquit, quam reos”. 16. Datur etiam iocandi locus a consentaneis moribus, cuius exemplum extat etiam apud Ciceronem. Cum enim Scaurus non nulla laboraret invidia, quod sine testamento Pompeii cuiusdam locupletis hominis bona possideret funusque quoddam duceretur, tum C. Memius dixisse fertur et acute et perbelle: “Quin vides, o Scaure, mortuus enim rapitur, si potes esse possessor?” 17. Ducuntur etiam ioci et salsi et belli admodum ab responsore in eo ipso genere, quo usus est quis prior, utque Ciceroniano utamur exemplo: adolescentulus Q. Aquilius male de se audivit; is grandior iam et consularis, factus obviam festivo homini Aegilio, qui videbatur mollior quamvis nec esset, muliebri usus est nomine, quo illum vellicaret: “Quando, inquit, Aegilia, ad me veneris cum tua colu et lana?”. Reddidit statim Aegilius, vel retorsit potius: “Non pol, inquit, audeo; nam me ad famosas vetuit mater accedere”. Quid magis artificiosum quam telum idem retorquere et ex eodem genere dictum eiusdem fellis reiaculari ac repercutere? Est et hoc generis eiusdem. Neapolitanus quidam civis et ipse male de se quoque audiebat; sub vesperum itaque ad fores eius accessit iuvenis et ipse propudiosus nec satis bene de se audiens, cumque clausas illas inveniret et esse illum intus intelligeret, accommodata vocula maxime mollem in modum atque ad rimulas, “o mea, dixit, Iacoba, cur non te te mihi cupientissimo ad fores exhibes?” Tum ille eodem vocis usus lenocinio: “Quia suas te te ad fores paratissimus expectat Ambrosius”. 18. Manant et a re non expectata et ab eo, quod est ex non sperato, non illepide neque non admodum belle dicta ac diversis quidem modis, praecipue autem a nominis aut verbi vel derivatione vel definitione; ut, cum in senatu ageretur de agris publicis deque lege Thoria et premere-

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ne che sia acuto ed elegante. Non mancò dunque né di maestro né di arte una tale interpretazione. 15. Sogliono trarsi dei motti anche assai faceti dagli ammonimenti e dai consigli, come quello di Granio presso Cicerone. Poiché consigliava ad un cattivo patrocinatore, che nel parlare aveva la voce rauca, di bere un mulso freddo, quello rispose: «Se lo farò, perderò la voce». Allora Canio disse: «Meglio la voce che gli imputati».288 16. Offre un luogo allo scherzo anche la conformità dei modi, di cui c’è anche un esempio in Cicerone.289 Poiché infatti Scauro era tormentato parecchio dalla maldicenza per il fatto che senza testamento era in possesso dei beni di un certo Pompeo, un riccone, e passava un funerale; allora Caio Memio pronunciò, a quanto si dice, un motto acuto e assai fine: «Perché non vedi, o Scauro, se puoi appropriarti dei beni, giacché il morto viene portato via?». 17. Si ricavano anche scherzi piccanti e molto fini da parte di chi risponde, riprendendo lo stesso genere usato da chi ha parlato per primo; e per usare un esempio di Cicerone:290 un ragazzino, Quinto Aquilio, aveva cattiva reputazione; quando fu cresciuto ormai e godeva delle prerogative consolari, incontrato Egilio, un uomo allegro, che sembrava troppo effeminato sebbene non lo fosse, usò un nome femminile, per stuzzicarlo: «Quando, o Egilia – disse – verrai da me con la conocchia e la lana?» Egilio subito gli restituì la battuta, o piuttosto la ritorse: «No – disse – per Polluce, non oserei; perché mia madre mi ha proibito di accostarmi a quelle che hanno cattiva fama». Che cosa vi è di più conforme all’arte, che rilanciare lo stesso strale e restituire e ribattere un motto analogamente velenoso, dello stesso genere? Anche l’esempio seguente appartiene alla stessa specie. Un cittadino napoletano aveva anch’egli una cattiva reputazione; sul vespro venne dunque alla sua porta un giovane anch’egli svergognato e che non aveva una buona reputazione, e trovandola chiusa e capendo che l’altro stava dentro, con una vocetta adatta in modo molto carezzevole e a ritmo disse: «O mia Giacoma, perché non ti mostri sulla porta a me che ardo dal desiderio?». Allora quello, usando lo stesso vezzo nella voce: «Perché alla sua porta ti aspetta, prontissimo, Ambrogio». 18. Provengono da un fatto inaspettato, e da quel che si chiama imprevisto, alcuni motti non poco spiritosi e molto fini, ricavati in modi diversi, ma specialmente dall’etimologia o dalla spiegazione di un nome o di un verbo; come quando nel Senato si discuteva dell’agro pubblico 1229

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tur Lucilius ab iis, qui a pecore eius depasci agros publicos et de legedicerent, “non est, inquit Appius, Lucilii pecus illud; erratis; liberum enim esse puto, quod qua lubet pascitur”. Est eiusdem generis, nec minore quidem gratia, Charitei dictum non incelebre. Cum enim Neapoli iactaretur numus belli tempore adulterata materia querereturque e notis eius quispiam, quod nesciret iam quid haberet, tum ille, vultu quam maxime ad iocum accommodato, “est, inquit, diis immortalibus quod gratias agam gratulerque amicitiae nostrae; tandem enim hominem inveni et amicum quidem bominem et vere divitem, quando divitis est hominis nescire quid habeat”. 19. Habet quoque concessio et locum et leporem suum. Id autem est, quod Cicero inquit: “Ut facete concedas adversario id ipsum, quod tibi ille detraxit”; quale illud Coelii. Cum enim ei quidam, malo genere natus, diceret indignum esse suis maioribus, “at hercule, respondit, tu tuis dignus”. Simile est familiaris nostri [Colotii Bassi, viri] admodum iucundi. Cum enim iocum obiiceretur ab amico, quod nimia ventris eius esset parsimonia, “gratulor liberalitati tuae, respondit, quod plura multo des ipse quam accipias”. Laborabat enim ille saepissime ventris profluvio. Ingeniosa sunt haec omnia, non minus tamen artificiosa singulaque locos habent suos, e quibus defluunt. Et peracuta sunt et perquam concinna quae ex collatione personarum deducuntur. Deperibat adolescentulus magno loco natus puellam nobilitate summa excellentique et forma et pudicitia; cumque inter preces ac blanditias respondisset illa: “Scito te Lucretiam invenisses”, hic ille: “Experiere te et Tarquinium comperisse”. Proverbia quoque dictorum in usum adducuntur habentque vim ridiculi. 20. Marinus Tomacellus, de quo paulo ante mentionem feci, functus est compluris annos summa cum laude munere oratorio sub Ferdinando, rege Neapolitanorum; cumque satis longo post tempore quam promissum ei fuisset ab Antonello, epistolarum magistro, satis esset factum, gratulabundus mihi per epistolam respondit: “Bene habet: elephanti partum vidimus”. Cumque aliquando compertum habuisset Paschasium Decium, quaestorem regium, secum egisse liberaliter in salario persolvendo – erat enim Paschasius maxime attenuatus – ad me rescripsit: “Optime actum est: foenicem iam vidimus”. Ab commemoratione etiam

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e della legge Toria e Lucilio era incalzato da coloro che dicevano che i campi pubblici erano pascolo delle sue greggi anche in base alla legge: «Non è di Lucilio – disse Appio – quel gregge; vi sbagliate; ritengo infatti che sia libero, perché pasce dove vuole».291 È della stessa specie, e non meno gradevole, un motto di Cariteo292 non poco famoso. Infatti, poiché a Napoli in tempo di guerra era diffuso del denaro fatto di materia falsa ed un suo conoscente si lamentava perché non sapeva a quanto ammontassero i suoi averi, lui allora, con il viso atteggiato straordinariamente allo scherzo: «è il caso – disse – che io renda grazie agli dei immortali e mi rallegri della nostra amicizia; finalmente ho trovato un uomo, amico veramente e veramente ricco, poiché è ricco e non sa quanto possiede». 19. Ha anche il suo luogo e la sua piacevolezza il tema della «concessione». È quel genere cui allude Cicerone quando dice: «Concedi scherzosamente all’avversario ciò che egli ti ha tolto»;293 di questo genere è l’esempio di Celio. Poiché un tale, di spregevole origine, gli diceva che era indegno dei suoi antenati, lui rispose: «Ma in verità tu sei degno dei tuoi». È simile l’esempio di un nostro amico [Colocci Basso] molto spiritoso.294 Accusato per burla da un amico dell’eccessiva parsimonia del suo ventre, «mi congratulo – disse – con la tua liberalità, giacché dai molto più di quanto ricevi». Infatti quel tale spessissimo era tormentato dalla diarrea. Tutti questi esempi sono acuti, non di meno conformi all’arte, e hanno i loro propri luoghi, da cui scaturiscono. E sono particolarmente acuti ed eleganti quelli che derivano dal confronto delle persone. Un ragazzino di nobile famiglia si struggeva per una fanciulla di eccellente nobiltà e straordinaria bellezza e onestà; avendo ella risposto fra le preghiere e le lusinghe: «Sappi di aver incontrato una Lucrezia», lui allora: «E tu sperimenterai di aver trovato un Tarquinio».295 Anche i proverbi vengono destinati ad uso di motti ed hanno una carica umoristica.296 20. Marino Tomacelli, di cui ho fatto menzione poco prima, coprì per molti anni con somma lode l’ufficio di oratore sotto Ferdinando, re di Napoli; e poiché dopo parecchio tempo da che gli era stato promesso da Antonello,297 capo della cancelleria, fu remunerato, pieno di gratitudine mi rispose con una lettera: «tutto bene, abbiamo visto il parto dell’elefante». E avendo una volta scoperto che Pascazio Decio, regio questore, si era comportato con liberalità verso di lui nel pagare il salario – infatti Pascazio era molto misurato –298 mi scrisse: «Ottimamente: abbiamo visto testé la fenice».299 Anche dalla citazione di un verso celebre 1231

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versus cuiuspiam celebris poetaeque maxime noti manant facetiae et argutae et gratae. Consederant mecum meis pro foribus idem hic Marinus et Petrus Compater, homo iucundissimus, magna senectute tres, cano capite omnes, nullis dentibus, multis tamen ac prope tercentenis annis. Praeteriens igitur adolescentulus demiratus cum esset tris annosos vetulos, albentibus capillis, maxime hilari vultu et iocari cum praetereuntibus et arridere salutantibus, hic Marinus in ipsa illa adolescentis admiratione tanto cum lepore virgilianum effudit illud: Tercentum nivei tondent dumeta iuvenci,

ut risum non tenuerint, senem qui audierunt eo in consessu tam opportune, adeo praeter expectationem ac perquam concinne modulantem. Isque confestim risus ingeminatus est, nam derisui cum haberetur a nobis qui praeteribat iuvenis, obeso corpore, obesiori ingenio, maxime obesis moribus, tum a festivissimo et perquam concinno iuvene Petro Summontio et festive admodum et pervenuste iniectum est virgilianum aliud, quanquam dimidiatum, e Georgicis: …longamque trahens inglorius alvum,

ut protractus risus fuerit in Charitei adventum, qui animadvertens senum trium tam aequalem canitiem, “quid, inquit, hic ad fores? an inalgescere cupitis, cum alpes videamus nivibus oppletas undequaque concanescere?” 21. In primis igitur ferax est locorum campus materiaque maxime opulenta subministrandis iocis, ut recte Quintilianus dixerit: “Si species omnis persequi velimus, nec modum reperiemus et frustra laborabimus”. Neque enim minus numerosi sunt loci, ex quibus dicta quam illi, ex quibus eae, quas sententias vocamus, ducuntur neque alii. Itaque et sententiae ipsae, quae suapte natura graves sint et sapientes, si ridiculum in modum iactatae fuerint, risum etiam ipsae pariturae sunt; ut, cum Franciscus Puccius, vir in studiis his nostris eminens, deridere vellet hominem seditiosum ingenioque minime quieto, qui in corona quadam

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e di un poeta molto noto provengono facezie argute e piacevoli. Si erano seduti con me davanti alla mia porta quel medesimo Marino e Pietro Compatre, uomo piacevolissimo, tre uomini di avanzata vecchiaia, tutti canuti, senza un dente, ma con molti anni, quasi trecento. Un ragazzetto che passava, dunque, fermatosi a vedere con meraviglia i tre annosi vecchietti, con i capelli bianchi, con il volto estremamente allegro scherzare con i passanti e rispondere ridendo a chi li salutava, Marino vedendo la meraviglia del ragazzo con tanto spirito pronunciò quel verso famoso di Virgilio: Trecento bianchi giovenchi stanno radendo il pruneto,300

tanto che non trattennero il riso coloro che udirono il vecchio che in quel cerchio recitava il verso con tanta opportunità, inaspettatamente e in modo molto elegante. E subito quel riso si raddoppiò, perché mentre il giovane che passava era da noi fatto segno di derisione, con il corpo grosso, la mente più grossa ancora, il comportamento estremamente grossolano, da parte di Pietro Summonte, un giovane di carattere assai allegro e raffinato, fu lanciato con molta giovialità e grazia quell’altro verso virgiliano, sebbene tronco, tolto dalle Georgiche: …e senza gloria traendo il lungo lor ventre,301

tanto che il riso fu protratto fino all’arrivo di Cariteo, il quale accorgendosi della così eguale canizie dei tre vecchi: «Perché – disse – state qui davanti alla porta? Volete forse raffreddarvi,302 giacché vediamo le alpi coperte di neve diventar tutte bianche303 da ogni parte?» 21. Prima di tutto dunque è fecondo il campo dei luoghi comuni ed è abbondantissima la materia capace di fornire scherzi, sì che Quintiliano ha detto304 giustamente: «Se vogliamo tener dietro a tutte le specie, non troveremo il limite e faticheremo invano». Né infatti sono meno numerosi i luoghi dai quali si ricavano i motti, di quelli dai quali si traggono quelle che chiamiamo sentenze. Pertanto anche le sentenze, che per loro natura sono serie e sagge, se si trattano in modo ridicolo, possono ben provocare il riso; come quando Francesco Pucci,305 uomo molto in vista in questi nostri studi, volle deridere un uomo turbolento e di indole per nulla tranquilla, che si era fermato in un crocchio di persone: «Ecco – 1233

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constiterat, “ecce, inquit, concordia parvae res crescunt”. Cum etiam idem hic deridiculum facere vellet, bona qui patria obliguriisset, iniecit sententiam hanc: “Parsimonia rei familiaris, eae demum divitiae magnae sunt”; cumque suis ex auditoribus somniculosum aliquem notare vellet, rorem antelucanum vocitabat. 22. Itaque hominum industria et ars, de qua hic noster est sermo, etiam quae gravia fuerint ad ridicula saepe transfert, ut, negare qui voluerit arti suum esse locum comparandis ridiculis dictisque funditandis, nulla ratione id possit, quando gravia etiam ac sententiosa dicta, ubi arte usus quis fuerit, ac tum temporum tum personarum delectu adhibito, ad iocum traduci soleant ac risum, et persaepe quae ipsa per se ridicula non sunt, belle tamen agitata rideantur. Itaque et quod dictorum ridiculorumque ac facetiarum regiones sint amplissimae quodque in iis ars quoque vel multum etiam valeat, abunde a nobis ostensum videtur et exemplis etiam comprobatum.

IV NEQUE ADVERSUM MISEROS NEQUE POTENTES VIROS UTENDUM ESSE RIDICULIS. 1. Hinc ad alias quoque observationes transeamus, quae plurimum convenire videantur ad facetudinem, hoc est ad eam quam in iocis quaerimus mediocritatem, quodque in delectu fere mediocritas ipsa collocata sit; cuiusmodi vero id, et quale sit, ostendendum relinquitur. Cum praesertim Cicero, de oratore agens oratoriisque muneribus, dicat nec insignem improbitatem nec rursus miseriam rideri statuatque in iocando moderationem retinendam esse et Umber quoque noster dicat facile esse miserum irridere, quocirca et miseris parcendum est, in quibus locus esse misericordiae debeat, ni fortasse superbia maledicentia incontinentia praecipites eant, et a potentibus etiam viris et quibus publica res in manu est continendum. 2. Est enim periculosum perque temerarium lacessere eum, qui gladium strictum habeat possitque proscribere, ad haec et scurrile babeatur

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disse – con la concordia le piccole cose crescono».306 E ancora, volendo deridere chi aveva dilapidato307 i beni paterni, lanciò questa sentenza: «La parsimonia negli affari domestici, è questa la grande ricchezza»;308 e quando voleva indicare uno dei suoi ascoltatori che era sonnolento, lo chiamava rugiada mattutina. 22. Ordunque l’operosità e l’arte degli uomini, su cui verte il nostro discorso, trasferisce spesso verso il ridicolo quello che è serio, talché, chi volesse negare che l’arte abbia una sua parte nel fornire detti piacevoli e nel diffondere i motti, in nessun modo lo potrebbe fare, poiché anche i detti gravi e sentenziosi, quando si sappiano usare con arte e con un criterio nella scelta del luogo e delle persone, sovente si tramutano in burla e riso, e molto spesso quelle cose che in sé non sono ridicole, trattate tuttavia con grazia fanno ridere. Con ciò mi sembra che abbiamo mostrato abbondantemente e provato anche con esempi che i campi che comprendono motti, burle e facezie sono veramente ampi, e che in essi l’arte ha in particolare molto valore.

IV NON SI DEVE RIVOLGERE LA BURLA AI MISERABILI E AI POTENTI. 1. Di qui passiamo anche ad altre considerazioni, che sembrano riguardare moltissimo la qualità dell’uomo faceto, cioè passiamo a parlare di quel giusto mezzo che cerchiamo negli scherzi e del fondamento dello stesso giusto mezzo, che consiste in una scelta; rimane da chiarire il suo carattere, la sua essenza. Specialmente perché Cicerone, discutendo dell’oratore e dei compiti dell’oratore,309 dice che né la più infame malvagità né a sua volta la miseria sono oggetto di riso e prescrive che nello scherzare si conservi la moderazione e anche il nostro conterraneo umbro310 dice che è facile deridere un misero, e perciò bisogna risparmiare i miseri, verso i quali deve adoperarsi la misericordia, a meno che per caso non precipitino a causa dell’arroganza, della maldicenza e dell’incontinenza, e bisogna anche astenersi dal deridere i potenti, quelli che hanno in mano lo Stato. 2. È infatti pericoloso e assai temerario provocare chi ha la spada in pugno e ha la facoltà di far bandire; inoltre potrebbe ritenersi e sarebbe 1235

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ac sit lacessere eum qui ab omnibus ametur, et maximis atque infimis aeque carus sit atque acceptus. Quae enim mediocritas esse potest, ubi prudentia munus minime retineat suum? Quid rursum imprudentius quam eorum in se iram provocare, in quorum nutu posita sit hominis vita, quando ut a derisu, quod ait Quintilianus, haud procul abest risus, sic ab ira potentis haud longe abest sanguinolentia ac vis? Qua e re efficitur, ut quemadmodum oratoria urbanitas parum frequens esse debet minimeque in causis earumque actionibus frequentata, sic et facetiarum usus rarus ac maxime temperatus nec quotienscunque locus patuerit ad iocandumpoteritque, ut Cicero inquit, dictum aliquod dici, dicere id necesse ducamus. 3. Ut enim in re omni modus retinendus est, si probari actiones nostras volumus, sic etiam in iocando. Utque etiam seriis, quae ad usum spectant, quaedam tamen regula normaque a ratione constituta est, sic iocosa, quae ad iucunditatem, freno etiam quodam sunt tanquam praesaepibus alliganda. Si enim iocosa probantur relaxationis gratia, non eo probari debent, quo alteri obsint ac molestiam afferant, quod nec viri boni nec civis probi officium est, cum facetum hominem et bonum eundem virum et civem item probum esse dicamus. Nec enim ad maledicentiam descendendum ullo modo est, aut sponte aut ex provocatione, nisi cum honestas ratioque id permiserit. Quocirca dicacitas neutique tam amica est facetudini tamque coniuncta quam est comitas, cum dicta pleraque salsa sint ac suo nomine sic appcllentur ridiculaque ipsa haudquaquam semper grata, comitas vero a temperamento vix recedat. Itaque facetum hominem aspersum comitate plurima esse oportet, quod facetuidinis ipsius condimentum est.

V QUAE SERVANDA SINT FACETO. 1. Ipsarum autem facetiarum duo cum sint genera reque alterum tractetur ac non nunquam tanquam fabella narretur aliqua, alterum dicto, in utroque modus retinendus est faceto idque diligenter videndum,

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da buffoni provocare chi è amato da tutti, ed è caro e accetto ai più grandi e ai più umili. Quale moderazione vi può essere, quando la prudenza non conserva affatto la sua funzione? Che cosa d’altra parte vi è di più imprudente che provocare contro se stessi l’ira di coloro dal cui cenno dipende la vita dell’uomo, dal momento che come dalla derisione, a quanto dice Quintiliano,311 non è lontano il riso, così dall’ira del potente non è molto lontana la violenza sanguinaria?312 Ne consegue che come l’arguzia oratoria deve essere poco frequente e non deve esser per nulla adoperata nelle cause e nei discorsi che vi si fanno, così anche l’uso delle facezie deve essere raro ed estremamente moderato, né ogni volta che si offrirà l’occasione di scherzare e ci sarà, come dice Cicerone,313 la possibilità di pronunciare un motto, dobbiamo ritenere che sia necessario farlo. 3. Come infatti in ogni cosa bisogna conservare la moderazione, se vogliamo che le nostre azioni siano approvate, così anche nello scherzo. E come anche alle cose serie, che riguardano il bisogno, dalla ragione è stata posta una regola e una norma, così gli scherzi che riguardano la piacevolezza devono esser trattenuti da un freno, quasi recintati. Se infatti le cose scherzose vengono approvate per il rilassamento, non devono essere approvate per il fatto che nuocciano ad altri e apportino fastidio, perché questo non è compito né di un uomo buono né di un cittadino onesto. E infatti non deve in alcun modo degradarsi fino alla maldicenza, o spontaneamente o in seguito ad una provocazione, a meno che non lo permettano l’onestà e la ragione. Perciò la mordacità non è affatto compagna e congiunta dell’uomo faceto come lo è la giovialità, poiché i motti per lo più sono «piccanti» e sono così chiamati con il loro proprio nome, e gli scherzi stessi non sono per nulla sempre gradevoli, mentre la giovialità è difficile che si allontani dal giusto mezzo. Perciò l’uomo faceto deve essere asperso di molta giovialità, che è il condimento della sua stessa attitudine faceta.

V NORME CHE DEVE OSSERVARE L’UOMO FACETO. 1. Poiché sono due i generi di facezie, e l’uno consiste in un fatto e talvolta è quasi narrato a mo’ di una storiella, l’altro in un motto, nell’uno e nell’altro bisogna che conservi un equilibrio l’uomo faceto e badi 1237

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ne dum alterum cavet, in insulsitatem incidat pariatque ipse audientibus derisum. Non ab re autem putat Cicero mendaculis aspergi oportere praesertim fabellas, quod oratori conducant, cuius finis est iudicem ad benevolentiam suam trahere. Facetum quoque nequaquam dedecuerit eiusmodi aspersio, tametsi mendacia fugienda sunt, quippe cum ornatus hic quasi quidam adhibeatur non fraudis gratia sed delectationis et honestae et naturalis.

VI DICTORUM SALSORUM DUPLEX ESSE GENUS. 1. Sed mihi videtur, quod salsum est, dupliciter partiendum: et in quod molestum sit odiosumque atque in rixam spectet ad contentionem, et quod delectet ac familiariter iocetur; ut hoc sit omnino iocosum et liberale, mordax illud ac dentatum. Nam servile quomodo conveniat homini ingenuo? Generis utriusque haec erunt exempla: Scipio ille maior, in mensa cum accubuisset ac de convivarum more corona capiti eius esset imposita eaque et bis et ter rumperetur aegreque fortasse id ferret, tum P. Licinius Varus “noli mirari, inquit, parum si convenit: caput enim magnum est”. Et laudabile et honestum, ut Cicero ipse putat: cum enim salsum videri possit, dentem tamen non imprimit. Simile et illud. Invitatus cum esset Franciscus Pudericus ad prandium appositaque esset ei altilis haud bene assa, conversus ad eum qui pullum deartuabat, “importune, inquit, accubuimus, neque enim ad prandium vocati sed ad coenam fuimus”. Liberale prorsus ac concinnum. Crassus in Parthos proficiscens ad Deiotarum in Bithyniam divertit, novam tunc urbem aedificantem; itaque in eum iocatus, quod esset senectute iam confectus, “duodecima, inquit, diei hora novam urbem aggrederis”; ad quae Deiotarus, nam et Crassus erat sexagenario maior, “nec tu, respondit, o Crasse, satis matutinus in Parthos proficisceris”: uterque perquam familiariter ac iucunde, neque ut lacesserent, verum ut iocarentur.

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attentamente a non cadere nell’insulsaggine, mentre si guarda dal difetto opposto, e a non provocare la derisione di chi lo ascolta. Ma non inopportunamente pensa Cicerone che bisogna spruzzare specialmente le storielle di piccole bugie, perché giovano all’oratore, il cui fine è trarre il giudice alla benevolenza verso di sé.314 Anche all’uomo faceto in nessun modo sarà sconveniente una tale spruzzata, sebbene vada evitata la bugia, per il fatto che questo che è quasi un ornamento viene adoperato non in vista dell’inganno, ma per un diletto onesto e naturale.

VI I DUE GENERI DI MOTTI PICCANTI. 1. Ma a me sembra che il motto piccante si possa dividere in due generi: quello che riesce fastidioso e odioso e riguarda la rissa e la contesa, e quello che diletta e consiste in uno scherzo fra amici; per cui quest’ultimo è assolutamente piacevole e benevolo, l’altro è mordace e fornito di punte. Come potrebbe adattarsi ad un uomo nobile una cosa ch’è propria del basso ceto? Ecco alcuni esempi dell’uno e dell’altro genere: Scipione, il maggiore, era sdraiato alla mensa e gli era stata messa sul capo una ghirlanda come si fa ai commensali; ma poiché la ghirlanda si rompeva, e la prima e la seconda volta, né lui pareva disposto a sopportarlo, Publio Licinio Varo disse: «non ti meravigliare se non si adatta bene: perché la testa è grande». Motto lodevole e onesto, come ritiene lo stesso Cicerone:315 mentre infatti potrebbe sembrare piccante, non morde tuttavia. Gli rassomiglia quest’altro. Invitato a pranzo, Francesco Poderico,316 poiché gli era stato portato un pollo non ben arrostito, rivoltosi a chi lo spolpava disse: «non è stato opportuno sederci a tavola, perché evidentemente non a pranzo siamo stati invitati, ma a cena». Motto benevolo ed elegante. Crasso, in viaggio contro i Parti, fece una sosta da Deiotaro in Bitinia, che stava edificando allora una nuova città; e così, prendendosi gioco di lui, perché era ormai sfatto dalla vecchiaia: «All’ultima ora del giorno – disse – ti metti a edificare una nuova città»; a queste parole Deiotaro, giacché anche Crasso aveva più di sessant’anni,317 rispose: «E tu, o Crasso, non intraprendi molto di buon’ora la guerra contro i Parti». L’uno e l’altro si espressero molto cordialmente e con molta giovialità, e non per provocare, ma per scherzare. 1239

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2. At haec, quae subdam, vel uncum praeferunt, quando et scindunt et rapiunt. Barnabas Barolitanus iudicatus est de fide christiana parum pie sentire. Itaque aliquando cum hiaret deque more tamen christiani hominis crucem pollice ad os designaret, tum Masius Aquosa, qui et iocosus homo esset et peracutus, ut Siculus, atque illi notus, “quid hoc, inquit, Barnaba, qui cruce os quasi carcerem obsignaveris, ne daemon ille malus tuo se e pectore proripiat?”. Quid hoc salso salsius? his enim verbis ut male de Deo sentiens coarguitur. Accubuerat ad mensam Petrus Summontius, cumque pransus iam esset, sacerdos satis importune ad mensam se se ingessit; vixque accubuerat, cum ad ministrum conversus, statim “sitio, inquit, misce, puer”. Tum Petrus, “atqui, inquit, non putassem praeterita nocte tua te cum commatercula delicias fecisse”. Pupugit enim illum acerrime ex hoc, quod mane sitiant multum qui se in Venerem noctu resolverint. Haud dissimile multum est in Ciceronem illud: “Mirum anguste si sedeas, duabus qui sellis sedere sis solitus”.

VII ALTERA DIVISIO SALSORUM DICTORUM. 1. Est et alia salsorum divisio, ut alterum dicax sit, verumtamen non urbanum sed rusticanum aut servile potius; alterum autem, quod urbanam educationem referat. Nanque apud Ciceronem Antonius Crassum dicit venustissimum esse atque urbanissimum, pari quoque modo gravissimum atque severissimum. Posterioris generis exempla sunt haec: ostentabat Pomponius et quidem iactanter vulnus ore exceptum in seditione sulpitiana; quod ipse tamen passum se pro Caesare pugnantem gloriabatur. Ibi Caesar et salse admodum et urbanissimum in modum, “nunquam fugiens respexerit”, inquit. Itaque et momordit illum Caesar et ab urbanitate non recessit. 2. Alumnus quidam meus non inurbane educatus, cum obiiceretur ei, quod pater araret, “at mater, respondit, tua hubera locat”. Itaque in

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2. Gli esempi che sottoporrò, mostrano perfino le unghie, perché lacerano e strappano. Il barlettano Barnaba fu ritenuto di sentimenti poco devoti nei confronti della fede cristiana. Perciò una volta che stava in adorazione e secondo l’uso cristiano faceva il segno della croce col pollice sulle labbra, Mario Aquosa,318 che era uomo scherzoso e molto arguto, siculo qual era, e suo amico: «perché mai – disse – Barnaba, hai fatto sulla bocca un segno di croce, come su di un carcere, per evitare che il perfido demonio ti scappi dal petto?». Quale motto più piccante di questo? Con queste parole viene riprovato per essere miscredente. Si era seduto a tavola Pietro Summonte, e quando ormai aveva pranzato, un sacerdote abbastanza inopportunamente si presentò a tavola; e si era appena seduto quando, rivoltosi al servitore, subito disse: «fanciullo, ho sete, mesci». Allora Pietro: «Eppure non avrei creduto che la scorsa notte te la fossi spassata con la tua commarella». Lo punse davvero molto duramente, basandosi sul fatto che coloro che di notte si sciolgono in amore, al mattino hanno molta sete. Non è molto diverso quel motto lanciato contro Cicerone: «Mi meraviglio se è stretto il tuo posto a sedere, perché di solito siedi su due poltrone».319

VII SECONDA DIVISIONE DEI DETTI PICCANTI. 1. Vi è un altro modo di dividere i detti piccanti, e consiste in questo, che un motto può essere mordace, e tuttavia non civile ma piuttosto conforme a gente rozza e di basso livello sociale; mentre un altro può essere tale da rivelare un’educazione civile. E infatti in Cicerone Antonio dice che Crasso era piacevolissimo e spiritosissimo, e parimenti serissimo e rigidissimo.320 Del secondo genere son questi gli esempi: Pomponio ostentava e per la verità con troppo vanto la ferita ricevuta sul volto nella rivolta di Sulplicio, e che egli tuttavia si vantava di aver subìto combattendo per Cesare. Allora Cesare con molta arguzia e in modo assai civile disse: «quando uno fugge stia attento a non voltarsi mai indietro».321 Così Cesare lo punse e non si allontanò dalla finezza cittadina. 2. Un mio allievo educato in modo abbastanza civile, poiché gli si rimproverava che il padre faceva l’aratore, rispose: «Ma mia madre prende in fitto i tuoi campi». E così, quantunque in occasione di un’insolen1241

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re quamvis conviciosa non minus tamen urbane respondit quam salse. Prioris vero generis haec erunt. Contendebant homunculi duo, cumque alter perpupugisset hoc dicto alterum: “Verba tua neutique mihi bene olent”, tum alter: “Quod videlicet loqui a tergo consuesti”. Spurce nimis et serviliter, quale plautinum illud: “Obturat ne inferiorem gutturem?” Hoc vero perquam rustice; nam dicenti cuipiam inter lacessendum: “Caprinum bibe, quo pulmones refrigeres”, tum alter: “Tuum si sequar exemplum, hircinum potius demulserim”. Sed haec, quae rusticana dicimus ac servilia, pleraque oscena sunt et scurrilia. Exemplum est: Regii stabuli magister famulos increpabat, equile immundum quod esset; tum unus ex iis: “Videlicet enitescere stabulum vis, quo stabulariorum ipse nuptias celebres”. Eiusmodi haec et spurcantur et civilium conventu hominum omnino indigna sunt et ab ore auribusque facetorum atque ingenuorum hominum procul repellenda.

VIII VULTUM ESSE DICTIS IPSIS ACCOMMODANDUM ET GESTUM ET VOCEM. 1. Summo autem studio id videndum, quo dictis ipsis vultus accedat et, qua opus est, gestus quoque sit accommodatus ac perquam concinnus. Secus enim dicteria non modo gratiam suam non retinent, sed is qui dicit apparet etiam absurdior; ut, si non fiat ex eo ridiculus, efficiatur tamen parum gratus habeaturque haudquaquam sive politus civis sive satis sodalitii studiosus. Quodque de vultu praecipimus deque gestu, in voce etiam servandum ducimus, nam et ipsa inflexiones ac modulos suos habet. Permulta enim tum inepta apparebunt tum frigida, haec illis si defuerint, quae suapte quidem natura lepida sunt et bella. Id tamen considerandum aliam rationem esse debere facetorum atque ingenuorum hominum, aliam mimorum ac theatralium ludionum, in quibus interdum oscenitas ipsa spurcatioque cum scurrilitate ac petulantia non commendetur modo, verum etiam, si abfuerint, desideretur.

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za, rispose in modo non meno civile che mordace. Al primo genere appartengono questi esempi: due ometti stavano litigando, e poiché l’uno aveva punto profondamente l’altro con un motto come questo, «Le tue parole mi danno un cattivo odore», l’altro rispose: «Evidentemente perché hai l’abitudine di parlare da dietro». Sozzo e servile, questo motto, come quello di Plauto: «Forse che ottura la gola inferiore?».322 Ma questo detto è molto rozzo; infatti a chi diceva fra le provocazioni: «Bevi il latte di capra, per rinfrescare i polmoni», l’altro: «Se dovessi seguire il tuo esempio, dovrei piuttosto lisciare quello del capro». Ma questi motti che chiamiamo rozzi e servili, generalmente sono osceni e scurrili. L’esempio è questo: il capo delle stalle del re sgridava i servi perché la stalla dei cavalli era sporca; allora uno di loro: «Evidentemente vuoi che la stalla luccichi, perché tu possa celebrare le nozze con gli stallieri». Motti come questi non solo insudiciano, ma non sono degni di una società di persone civili e devono essere respinti dalla bocca e dalle orecchie delle persone distinte e facete.

VIII IL VOLTO DEVE ESSERE ADATTATO AI MOTTI, COME ANCHE IL GESTO E LA VOCE. 1. Con estrema attenzione bisogna poi vedere che il volto si adatti ai motti e che, dove è necessario, anche il gesto sia proporzionato e perfettamente acconcio.323 Altrimenti i motti non solo non conservano la loro gradevolezza, ma colui che li pronuncia appare anche sciocco; di modo che, se per questo non diventa ridicolo, riesce tuttavia poco gradevole e non è considerato per nulla un cittadino colto o ben disposto alla conversazione. Quel che abbiamo insegnato riguardo al volto e al gesto, riteniamo debba serbarsi anche nella voce; infatti anch’essa ha le sue inflessioni e le sue modulazioni. Moltissimi motti appariranno infatti ora sciocchi ora banali, se mancheranno loro queste qualità, che per loro natura sono piacevoli e belle. Tuttavia va considerata una cosa, che un conto si deve fare degli uomini faceti e onorati, un altro dei mimi e degli istrioni del teatro, nei quali talvolta perfi no l’oscenità e la sozzura insieme alla scurrilità e all’insolenza non solo è elogiata, ma anche, se dovessero mancare, desiderata. Perciò coloro che saranno 1243

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Quocirca in his ipsis immoderatiores qui fuerint nimiique imitatores mimorum potius e numero habendi sunt quam facetorum theatroque ac spectaculis magis digni.

IX MIMICA ET THEATRALIA PARUM FACETIS CONVENIRE. 1. Nec vero imitatio tantum ipsa, dum nimia quidem sit, fugitanda est, verum etiam dicta quaedam, quae mimica sint potius aut parasitica quam ingenua consessionibusque ac sermonibus, de quibus dicimus, male convenientia, qualia haec ex Plauto quaeque alia eorum similia: qui edistis, multo fecistis sapientius, qui non edistis, saturi fite fabulis;

item: dum ludi fiunt, in popinam, pedissequi, irruptionem facite.

Delectant haec populum suntque mirum in modum auribus popularium apta et ad invitandum risum et ad detinendum spectatores in subselliis, seu ne satietate afficiantur seu dum pati nequaquam possunt spectandi moram. Quid illud quam festivum, quam ridicularium? “Vin noctuam afferri, quae “tu tu” usque dicat?” Et: “Assum apud te eccum”. “At ego elixus sis volo”. 2. Delectant haec mirifice: quid enim histrionica popularius? Ac fieri quidem potest, ut quandoque, quanquam rarenter, in ore tamen ingenui ac faceti viri commendentur haec eadem, quae suapte natura omnino tamen dedeceant. At hoc et populare admodum et theatricum: digitos in manibus non habent. – quid iam? – quia incedunt cum anulatis auribus.

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troppo smodati in queste occasioni devono annoverarsi fra gli eccessivi imitatori dei mimi, piuttosto che fra i faceti e ritenersi più che altro degni degli spettacoli teatrali.

IX LE AZIONI MIMICHE E TEATRALI POCO SI ADATTANO ALL’UOMO FACETO. 1. E non soltanto l’imitazione, quando è eccessiva, deve essere evitata, ma anche alcuni motti che sono piuttosto adatti ai mimi e ai parassiti che agli uomini dabbene, e poco convenienti agli incontri324 e alle conversazioni, di cui discutiamo, come questi motti tratti da Plauto e altri simili a questi: Voi che avete mangiato, avete agito molto più sapientemente, voi che non avete mangiato, saziatevi di favole;325

e così anche: Finché durano i giochi, fate irruzione nell’osteria, miei servi.326

Piacciono al popolo queste cose, e sono straordinariamente adatte alle orecchie del volgo, a suscitare il riso e a trattenere gli spettatori sui sedili, o quando si vuole evitare che si annoino, o quando non riescono in alcun modo a sopportare il ritardo dello spettacolo. Che dire di quel motto, così piacevole, così scherzoso?: «Vuoi farti portare una civetta che dica sempre “tu, tu”?»327 E ancora: «assum (arrostito) sono da te, eccomi». «Ma io ti voglio lesso».328 2. Questi motti piacciono straordinariamente: infatti che cosa è più popolare dell’arte istrionesca? E può invero accadere che talora, sebbene raramente, anche sulla bocca di un uomo onorato e faceto questi stessi motti siano consigliati, mentre per loro natura sono assolutamente sconvenienti. Ma questo è molto adatto al popolo e al teatro: Non hanno dita nelle mani. Perché mai? perché vanno in giro con gli anelli alle orecchie.329 1245

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Et illud: “Perpetuon valuisti?” “Varie.” “Caprigenum hominum non placet mihi neque pantherinum genus” Haec, inquam, quaeque huiusmodi sunt, vel suavissimum esse condimentum videri ac iure quidem possunt relaxationum earum, quas ipsi quaerimus quaeque, ut quaeramus, natura ipsa et hortatur et commonet.

X E SILENTIO INTERDUM RISUM GIGNI. 1. Dicere vix quidem ausim, dicam tamen nec parum quidem libenter: etsi facetus vir in dictis responsisque decenter versatur, ad iocum quidem honestamque ad relaxationem ac quietem accommodatis, tamen ipse quandoque vidi mirificum excitari risum suavissimamque gigni recreationem e silentio respondentis, quod sive motus quispiam oculorum concinnus sequatur ac decens sive manuum digitorum ve sive dentium subsannatio gesticulatio ve aliqua sive innutus quispiam extemporaneus sive e loco abitio praeter expectationem, quae contemptus ac irrisionis significationem habeat. Etenim aliquando loquaculus quidam Hieronymum obtundebat Carbonem, suavissimi ingenii virum, atque, ubi multa ingentem verborum in cumulum congessisset, petebat sibi ab eo ad singula responderi, illum vero [memini] ad omnia quidem siluisse conversumque ad astantes dixisse: “Magnum ranarum proventum hic annus attulit”. Garriebat alius quispiam [nostra in porticu]; quem ferre [Albericus Pudericus, Francisci nostri filius], cum non posset, nullo dato responso, manu sublata monuit nasum ut emungeret; quo e signo mirificus inter astantes exortus est risus. 2. Et illud quoque Tristani Caracioli perquam iucundum et bellum. Cum enim homo, parum in loquendo temperatus nulliusque in rem publicam operae aut officii, frequenti in conventu nobilium virorum dixisset ei: “Malos rei publicae ministros habemus”, tum ipse, averso ab illo statim ore ac discessuro similis, “nuntium, inquit, habemus, o cives, adventantium peregre gracculorum. Ego rus eo, ne segetibus iam pullulantibus damno sint”. Hortabatur homo minime malus Petrum Compatrem ad uxorem ducendam. Has inter adhortationes qui pone eum stabat iuvenis argutius cum sternuisset, nihil ipse respondit. Tum

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E quell’altro: «Come stai? Sei stato sempre bene». – «In modo vario». «Non mi piace la razza caprina degli uomini né quella delle pantere».330 Questi motti, dico, e quelli dello stesso genere, possono riguardarsi, e giustamente, come un piacevolissimo contorno di quel rilassamento che cerchiamo e che la natura stessa ci esorta e ci invita a cercare.

X TALORA IL RISO NASCE DAL SILENZIO. 1. Oserei dirlo appena, comunque lo dirò e non poco volentieri: anche se l’uomo faceto si dedica come si conviene alle battute e alle risposte, quelle certo adatte allo scherzo e all’onesto rilassamento e riposo, tuttavia io ho visto talora sprigionarsi un riso straordinario e nascere una piacevolissima rianimazione da una risposta data col silenzio accompagnato o da un acconcio e adeguato movimento degli occhi, delle mani o delle dita, oppure da una smorfia coi denti, o da una gesticolazione o da un cenno331 immediato o dall’andarsene via inaspettatamente, cosa che di per sé significa dispregio e derisione. E infatti una volta un chiacchierone importunava Gerolamo Carbone, uomo di piacevolissimo carattere, e, quando ebbe raccolte molte cose in un enorme cumulo di parole, gli chiedeva che gli rispondesse a ogni singola cosa; ma quello stette zitto senza rispondere a nulla e rivoltosi ai presenti disse: «Quest’annata ci ha portato rane in abbondanza». Un altro ciarlava (sotto il nostro portico); e non potendolo sopportare [Alberico Poderico, figlio del nostro Francesco],332 senza dar risposta, sollevando la mano gli consigliò di soffiarsi il naso: al qual segno fra i presenti si levò una straordinaria risata. 2. Anche l’esempio di Tristano Caracciolo333 è molto divertente e bello. Poiché infatti un uomo poco moderato nel parlare e con nessuna attività o carica pubblica, aveva detto a lui, in un affollato convegno di nobili, «Abbiamo cattivi amministratori dello Stato», lui allora, rivolto il viso altrove e come uno che stesse per andar via: «Abbiamo avuto notizia, o cittadini, dell’avvicinarsi delle cornacchie dall’estero. Io vado in campagna, per evitare che rechino danno alle messi che già germogliano». Un uomo non malvagio esortava Pietro Compatre a prender moglie. Durante queste esortazioni un giovane che stava dietro di lui starnutì maliziosamente, ma lui non rispose. Allora quello: «Che diamine! Non 1247

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ille: “Quid, malum, et amico et honesta suadenti non respondes?” Ad ea tum Compater “nec mihi, inquit, nec uxori male auspicaturus sum. Cum enim e duobus coniugium, ut scis, constet, hispani quidem augures, ubi unum sternutamentum tantum fuerit, et malum illud et portentosum profitentur: meis igitur nuptiis infelix absit auspicium”. Facetus itaque vir potest e silentio quoque gratiam sibi comparare ab auditoribus.

XI QUAE SERVANDA SINT IN RISU PROVOCANDO. 1. Provocandi autem risus hilaritatisque excitandae vel praecipua causa est, cum is qui dicit sive lacessitus sive lacessens prior ve aut posterior iocatus ipse quidem minime riserit, ut quaerendum fortasse a doctis sit viris, cur tantopere ad commovendum conferat risum dicentis confirmatus vultus verbaque eius cum severitate et pondere. In repercutiendo autem docere exemplum hoc potest, quanti sit id ipsum, quod nunc dicimus. Vexabat bello florentinum populum Alfonsus, Neapolitanorum rex, atque in primo quidem adortu expugnarat Rencinum, satis tenue oppidum. Ibi primum ad nuntium civis quidam illatus in Cosmum, qui tum princeps erat administrandae rei publicae, “quid hoc, inquit, Cosme? periimus amisso Rencino”, tum Cosmus, vultu maxime sedato et forti, verba illius despicatus, “per Christum, inquit, rogatus edoceas: qua nam in parte agri nostri Rencinum situm est? nam quod te excruciat amissum oppidum, mihi haudquaquam satis cognitum est, sit ne illud florentinae ditionis”. Risit prudens et cautus senex, vultu maxime imperterrito et despicaci, garrulantis illius meticulosum dictum perque degenerantem orationem. 2. Extat exemplum quoque [A. Colotii] in lacessentem deque dictione met sua prorumpentem in cachinnos; nam cum hiscentem illum [Colotius] cerneret, “hia, inquit, hia, mea monedula: en [adest mater] cum lumbriculo, quae tibi pappam dabit”. Nec vero dicta et ipsa dicentis ipsius risu vultuque non etiam aliquando exhilaranda videantur. Veruntamen quae belle dicuntur ac cum severitate et, pene dixerim, erudite dicuntur, tametsi risum non movent, plerunque laudari nihilominus solent; contra irrideri saepius et sperni quae cum risu emittuntur dicentis, sive is prior

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rispondi ad un amico che ti consiglia delle cose oneste?». Allora il Compatre rispondendo disse: «Non intendo augurare un male né a me né a mia moglie. Poiché infatti il matrimonio si fa in due, come sai, gli auguri spagnoli, se si verifica un solo starnuto, lo definiscono sfavorevole e mostruoso: dunque stia lontano un infelice auspicio dalle mie nozze». E così l’uomo faceto anche dal silenzio può cattivarsi la simpatia degli uditori.

XI REGOLE DA OSSERVARE NEL PROVOCARE IL RISO. 1. La condizione più adatta a provocare il riso e a suscitare l’ilarità si verifica quando colui che pronuncia il motto, sia che sia stato provocato sia che egli per primo provochi o risponda allo scherzo, non ride affatto, cosicché forse i dotti si chiederanno perché contribuiscano tanto a muovere il riso il volto impassibile e le parole pronunciate con serietà e posatezza. Per quanto riguarda il ribattere, poi, l’esempio seguente può dimostrare quanto sia importante proprio quello che ora diciamo. Alfonso, re di Napoli, tormentava con la guerra il popolo fiorentino, e al primo assalto aveva espugnato Rancino, un castello di ben poco conto. Al primo annuncio un cittadino, scagliandosi contro Cosimo, che allora era il primo nel governo della città, disse «Che cosa è mai avvenuto, Cosimo? Siamo rovinati ora che abbiamo perduta Rancino». Allora Cosimo, con volto straordinariamente calmo e fermo, non dando peso alle sue parole, disse: «per Cristo, ti prego fammi sapere: in quale parte del nostro territorio è situata Rancino? Poiché il castello che ti angusti di aver perduto, io non so affatto se sia sotto la giurisdizione di Firenze». Derise il vecchio saggio ed accorto, ma con il volto assolutamente imperterrito e sdegnoso,334 la battuta meschina di quel ciarliero e la sua vile espressione. 2. Rimane anche un esempio [di Angelo Colocci] contro uno che lo provocava e scoppiava in risate in seguito a ciò che egli stesso diceva; infatti vedendolo a bocca aperta, disse: «Apri la bocca, apri la bocca, gazza; ecco c’è tua madre con un lombrichetto che ti darà la pappa». Eppure talora sembra che i motti vadano ravvivati dal riso e dal volto di chi li pronuncia. Nondimeno, quelli che vengono pronunciati con finezza e serietà, e direi quasi con sapienza, anche se non muovono il riso, per lo più sono apprezzati; mentre spesso si deridono e si spregiano i motti pronunziati 1249

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dixerit sive posterior. Itaque vultus ille severus reique accommodatus in hoc dicendi statu rideri vix potest, risus autem derideri plerunque et potest et solet; nam suapte natura risus expositus est derisui. Nec vero mirum hoc videri cuiquam debet, quando sedes ipsa ridendi collocata est, ut apud doctos constat; in deformitate aliqua corporis aut vitio aut in turpitudine morum actionumque earum, quae aut animi solius sunt aut utriusque, corporis scilicet atque animi, aut eorum etiam, quae fortuita vocantur suntque in eventu posita. 3. Itaque eorum quae movendo risui apta sunt, alia in natura sunt posita, alia in eventu: quorum omnium animus cum sit observator visque illa rationalis homini naturaliter insita et ab habitu confirmata atque ab observatione, id praestandum est, ut ad insitam vim aptitudinemque artem quoque adiungamus, quae naturae ipsius imitatrix est. Quid autem perfectum, quod non idem et naturae conveniat et eruditioni? Quocirca facetum hominem volumus et naturae ipsi inniti et arti atque observationi, id est praeceptis consiliisque atque admonitionibus a ratione profectis. Nec vero hac in parte artem ut quaestuosam aliquam intelligimus aut manu comparatam, verum institutionem ingenuo homine dignam: quam qui sequatur, hunc ipsum necesse est, quacunque in actione, sive severa et gravi sive iucunda et lepida, convenientem retinere mensuram seque secundum eam metiri, perinde ut recta dictet ratio. 4. Nec vero ii sumus, qui hac in dissertione aut oratoriam respiciamus aut theatralem, verum mediocritatem sequimur libero homine dignam, quam quaerendam a fortissimis etiam viris, natura ipsa duce, decernimus illisque praesertim qui res publicas moderantur. Quibus enim animorum relaxatio quaerenda magis est, aut ab quonam hominum genere honestius etiam desideratur quam ab iis, qui in assiduis maximis periculosissimisque versantur laboribus rerumque multiplicibus difficultatibus ac curis? Quo fit, ut plerique negociosissimorum hominum publicisque in administrationibus obrutorum et sint hodie et fuerint maxime facetiarum appetentes ac studiosi. Cicero dat primas Caesari partes in hoc ipso genere virtutis. Quis autem Caesare bellicis in rebus maior? Quis Cicerone in toga? ut non iniuria fortasse dictum sit ab eo: “Cedant arma togae”.

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con il riso da parte di chi li pronunzia, sia che abbia parlato per primo, sia che abbia parlato per secondo. Pertanto, il volto severo e adattato alla circostanza in questa particolare situazione relativa al dir motti difficilmente diventa oggetto di riso, mentre per lo più il riso può e suole essere deriso; perché per sua natura il riso è esposto alla derisione.335 E ciò non deve meravigliare nessuno, dal momento che il fondamento del riso è collocato, come i dotti sanno bene, in una deformità del corpo o nel vizio o nella turpitudine del comportamento, e in quella delle azioni che o appartengono al solo animo o a tutt’e due, al corpo e all’animo, o ancora in quella degli avvenimenti che si chiamano fortuiti e dipendono dal caso. 3. Perciò delle cose che sono adatte a muovere il riso, alcune dipendono dalla natura, altre dal caso: e poiché di tutte quante sono osservatori l’animo e quella facoltà razionale insita per natura nell’uomo, e rafforzata dall’abito dell’osservazione, bisogna fare in modo da aggiungere alla facoltà e alla disposizione innata anche l’arte, che è imitatrice appunto della natura. Che c’è di perfetto, che non corrisponda insieme alla natura e all’educazione? Perciò sosteniamo che l’uomo faceto si fonda sull’arte e sull’osservazione, cioè sulle regole, sui consigli e sulle raccomandazioni provenienti dalla ragione. Né con questo discorso intendiamo per arte un’arte lucrosa o acquisita mediante il lavoro manuale, ma un’educazione degna dell’uomo nobile: e se uno lo segue, necessariamente in ogni azione, sia severa e grave sia piacevole e scherzosa, conserverà la misura conveniente e si commisurerà ad essa, come prescrive la giusta ragione. 4. Né abbiamo l’intenzione di considerare in questa dissertazione la qualità perfetta dell’oratore e dell’uomo di teatro, ma perseguiamo quella degna di un uomo libero, che stabiliamo doversi ricercare anche dagli uomini più attivi, come indica la stessa natura, e specialmente da quelli che dirigono lo Stato. Da chi infatti dev’essere più ricercato il rilassamento dell’animo, o da quale genere di uomini è desiderata una cosa più onesta se non da coloro i quali vivono fra continue, grandissime e pericolosissime fatiche, fra molteplici difficoltà e affanni? Perciò avviene che la maggior parte degli uomini più impegnati negli affari e immersi nella pubblica amministrazione sono oggi e sono stati straordinariamente desiderosi e dediti alle facezie. Cicerone attribuisce il primo posto a Cesare in questo genere di virtù.336 Ma chi è maggiore di Cesare nell’arte militare? Chi maggiore di Cicerone come uomo di pace? Sicché forse non ingiustamente fu detto da lui: «Le armi cedano alla toga».337 1251

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5. Sed nec praetereantur imperatores alii maximorumque bellorum exanclatores. Igitur et maximus dux Hannibal facetiis plurimum delectatus est, sive in dicendo sive in respondendo; cuius illud extat dictum in Gisconem maxime quidem salsum. Is enim cum romani exercitus ad Cannas miraretur multitudinem, aegre id ferens Hannibal in illum sic iocatus est, ut despicabilem etiam militibus suis faceret, “quanto, inquiens, mirabilius est, o Gisco, in tanto hominum numero, qui tuo isto vocetur nomine, esse neminem”. Nec minus etiam iocis huiusmodi libenter Iugurta usus legitur, tametsi cum illo rebus gestis minime comparandus. Neque genere in hoc ab iis superatus est Ponti rex Mithridates. Nam Augusti Caesaris dicta plura fortasse referuntur quam aut Caesaris aut regis alicuius. 6. Alfonsus item rex tempestate sua quem non vicit aut dicendo aut, cum dicerentur, applaudendo urbanis atque facetis iocis aut prosequendis facetis viris et muneribus et beneficiis? An non laus haec ipsa olim Atheniensium praecipua fuit eaque in Demosthene, summo et oratore et cive desiderata? 7. Nostro tempore trium est praecipue in Italia populorum, perusinorum senensium florentinorum. Hispaniae regum aula hac a virtute et institutione cumprimis commendatur. Gentes vero extremas non tam barbaras ac feras ipsa feritas vocari facit quam sermo ipse rudis agrestisque et oratio ab omni iucunditate ac lepore prorsus aliena. Itaque ut salsum quod non est, insulsum id dicimus, quod vero infacetum minime ingenuo viro dignum, sic facetos in verbis quidem iucundis versari ac lepidis, quae ioca dicuntur, volumus; fontes vero ipsos, e quibus facetiae manent, e factis fluere, quae qui insectentur, dicaces. Placet autem Marco Fabio dicacitatem sermonem esse cum risu aliquos incessentem sive in rebus sive in verbis. 8. Itaque ridicularia esse dicimus, quae risum movere habeant; dicta, quae salem; qui, si cum asperitate fuerit atque offensione, ad dicacem dicta ipsa referenda sunt, etsi risum exciunt; sin cum lepore sineque offensione, aut si offensiuncula ipsa levior fuerit quadamque cum gra-

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5. Ma non si devono passare sotto silenzio altri condottieri, che sopportarono guerre grandissime. Ordunque Annibale, uno dei più grandi condottieri si dilettò moltissimo delle facezie, sia nel lanciare i motti sia nel rispondere; di lui rimane quel detto, veramente molto piccante contro Giscone. Poiché infatti costui si meravigliava del gran numero di soldati che formava l’esercito romano presso Canne, mal sopportando ciò Annibale lo prese in giro in modo da renderlo disprezzabile anche presso i suoi soldati, dicendo: «Qual meraviglia, o Giscone, che in così gran numero di uomini non vi sia nessuno che si chiami con questo tuo nome». Si legge che non adoperò meno volentieri questo genere di scherzi Giugurta,338 anche se costui non può essere paragonato a quello per le imprese militari. Né in questo genere fu superato da loro Mitridate re del Ponto.339 Certo i motti che si riferiscono sul conto di Cesare Augusto340 sono forse più numerosi che non quelli di Cesare o di un altro re. 6. Il re Alfonso, al tempo suo, chi non superò o nel dir motti, o, quando venivano detti, nel replicare con scherzi fini e faceti, o nell’onorare gli uomini faceti con doni e benefici?341 Non fu questa una gloria specifica degli Ateniesi e quella che si sentiva mancare in Demostene, sommo oratore e cittadino? 7. Nel nostro tempo essa appartiene specialmente a tre popoli in Italia, ai Perugini, ai Senesi, ai Fiorentini. La corte dei re di Spagna viene segnalata soprattutto per questa virtù e per questo costume. Le genti più lontane non tanto le fa chiamare barbare e feroci la stessa ferocia, quanto il linguaggio rozzo e agreste e il parlare assolutamente alieno da ogni piacevolezza e spirito. Perciò, come chiamiamo insipido ciò che non è salato, e diciamo insulso ciò che è assolutamente indegno di un uomo distinto, così sosteniamo che uomini faceti son quelli che si dedicano a quei detti piacevoli e spiritosi, che si chiamano scherzi; e che le fonti stesse, dalle quali scaturiscono le facezie, derivano da azioni stigmatizzate da coloro che chiamiamo motteggiatori. Marco Fabio342 è dell’opinione che il motteggio sia una conversazione accompagnata dal riso, che assale qualcuno sia nelle cose che fa, sia nelle parole che dice. 8. Sicché chiamiamo «buffonerie» quei motti che hanno la capacità di muovere il riso; «detti» quelli che hanno del sale; se questo è accompagnato da asprezza e offesa gli stessi detti vanno riferiti all’uomo mordace, anche se suscitano il riso; se poi sono accompagnati dalle piacevolezze senza offese, o se la piccola offesa è piuttosto leggera, con grazia e af1253

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tia et familiaritate, ad facetum, quem ingenuum quidem esse volumus. Quocirca eiusmodi dicta commendationem potius atque approbationem quandam quam risum ingenerant. 9. Fabellas vero facetorum quodammodo proprias esse volumus; nam et faceti maxime comes sunt eorumque familiarissimas eas esse superiore libro ostensum est; enarrantur enim eae plerunque sine offensione et, quod laudabilissimum est, cum gratia etiam summa. Delectant enim et tum risum suavem quidem illum et gratum inducunt tum approbationem doctorum, ut licet fictae et sint et intelligantur, tamen ad seria videantur inventae. Nugae vero omnino leves futiles inanes vanae; quocirca ab hoc toto genere repellendae, ut ne nugaces quidem salsi esse possint ridiculariaque ipsa derisum potius quam risum afferant, ubi nugis infecta fuerint. 10. Itaque tum dicta, quae salsa videlicet atque aculeata, tum ridicularia forum theatra plebeios homines ipsaque spectacula rixas conviciaque generaliter pertingunt; nam praeterquam quod habent spicula ac felle scatent, pleraque oscena sunt scurrilia perque amara aut rusticana rudia incondita, parum urbe digna, non raro etiam servilia. Quae vicia ingenuitatem non modo dedecent, verum turpissime illam notant ac labefaciunt; quocirca aliter in dicace considerantur ridiculo mimico histrione sicophanta rusticano servo, aliter in homine ingenuo quique risum iocumque ex mediocritate quaerat, quae et iucunditatem ratione hac afferat et curarum refrigerationem. Ingenuum autem hominem eundemque facetum non modo levem esse nolumus, verum etiam, qualis Crassus orator refertur, et severum et gravem exigimus; vel si natura ab ipsa iucundus fuerit, ne tamen iucunditas ipsa aut insulsa sit aut prorsus ridenda. Rarior, ut est apud Iuvenalem, usus voluptatem commendat, frequentia enim plerunque satietatem gignit. 11. Quam ob rem nimia dictorum frequentatio ususque maior ridiculorum isque immoderatus et, pene dixerim, coacervatus fugiendus est; non solum enim affert satietatem, verum nimiam ob frequentiam

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fabilità, vanno riferiti all’uomo faceto, che sosteniamo essere un uomo distinto. Perciò detti del genere generano apprezzamento e approvazione più che generare il riso. 9. Sosteniamo che le storielle sono in certo qual modo proprie dell’uomo faceto; perché gli uomini faceti sono estremamente affabili e come si è mostrato nel libro precedente le storielle sono a loro assai familiari; si narrano infatti per lo più senza recare offesa e, ciò che rappresenta il pregio maggiore, con un effetto di estrema gradevolezza. Infatti dilettano e producono non solo quel tal riso veramente piacevole e gradevole, ma anche l’approvazione dei dotti, per il fatto che, sebbene siano finte e si riconoscano per tali, tuttavia sembrano escogitate per un fine serio. Sono invece ciance le storielle leggere, futili, inutili, vane, per cui devono essere escluse dal genere complessivo di cui parliamo, al punto che nemmeno i burloni possono considerarsi faceti e le stesse buffonerie provocano la derisione piuttosto che il riso, quando sono inquinate dalle ciance. 10. Pertanto sia i motti, quelli, s’intende, che sono frizzanti e pungenti, sia le buffonerie generalmente riguardano la piazza, i teatri, gli uomini plebei e perfino gli spettacoli del circo, le risse e le baruffe; perché, oltre al fatto che hanno le loro punte e son piene di fiele, sono nella maggior parte oscene, scurrili e molto sgradevoli o rustiche, rozze, grossolane, poco degne della città, non di rado anche di basso livello. Questi difetti non solo sono poco convenienti alla signorilità, ma la contaminano sozzamente e la sciupano; perciò di un uomo mordace, buffo, di un commediante, di un istrione, di un sicofante, di un contadino e di un servo si fa una certa considerazione, del signore che cerchi il riso e lo scherzo attraverso la giusta misura, la quale arreca con questo criterio piacere e refrigerio dalle preoccupazioni, si fa una considerazione diversa. Ma l’uomo distinto e per giunta faceto non deve essere, a nostro parere, leggero, anzi, come si dice che fosse l’oratore Crasso,343 richiediamo che sia severo e grave; o se è gioviale per natura, che la sua giovialità non sia però insulsa o addirittura ridicola. Raramente, come è detto in Giovenale, la consuetudine esalta il piacere, perché la frequente ripetizione spesso genera la nausea. 11. Per la qual cosa l’eccessiva frequenza di motti e il troppo uso di scherzi, un uso poco moderato e, direi quasi, un accumulo deve essere evitato, non solo perché annoia, ma perché l’uso frequente degli stessi motti fa perder loro ogni pregio e valore e li rende diffusi fino ad incon1255

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dicta ipsa sordescunt fiuntque vilia et vel ad despicientiam pervulgata. Quocirca modus et in iis quoque adhibendus est, ne sordescat ioculatio, quae, ni temperata fuerit, transitura sit in garrulitatem nugationem sicophantias, ut, qui eiusmodi sint, magis despiciantur sintque aliis contemptui quam ut ipsi delectent. Erit igitur dictorum quoque ac ridiculorum tum comes tum magistra prudentia; qua remota, quid est quod suo in genere assequi commendationem queat? 12. Et dicta et ridicula et facetiae e verbis constant et vultu et gestu et voce, pro loco videlicet ac tempore, dignitateque accommodatis. Coeterum loca ipsa, unde ducuntur, posita sunt in factis, quae dicentes non verbis modo, verum etiam gestibus insectantur. Hoc autem ideo contingit, quod facta ipsa sint turpia. Turpitudo autem et rideri solet et accusari, quando suapte natura irridenda est, ut, cum quis ab obesitate tardiore incessu graditur, ibi quispiam dixerit: “Nimirum navis ipsa honere gravata est suo”. Et ridiculum dictum est et iocandi locus existit a rei ac facti deformitate; ut cum quispiam vinosus incessitur, quod nimis atrox sit miles adversus exenterandas cupas. Hoc igitur dictum a facto est deque morum turpitudine depravataque e materia dolatum. 13. Nec vero ioca ipsa non quandoque e dictis quoque ac verbis deducuntur, quare sedes eorum ibidem quoque sunt collocatae; cuius rei exemplum est apud Ciceronem. Cum enim orator quidam protulisset: “Sputatilia”, adversarius, quasi attonitus verbi novitate ignorantiaque, “sputa, inquit, o iudices, quid sit scio, tilia vero nescio, ex eo autem insidiae verendae”. Patet igitur ioculorum sedes in factis dictisque constitutas esse, qualia permulta a nobis demonstrata sunt; nec enim dictis quam factis minus apparantur. Partes autem respondentis videntur praestabiliores esse, quando et difficiliores; potuit enim qui lacessit praemeditatus dicta quasi e domo secum afferre ac tanquam ex improviso aggredi, cum illi extemporalitas sola subsidio sit. Quo igitur responsa minus expectata, ex eo vehementius movent praestabilioraque ob id iudicantur.

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trare il dispregio. È questo il motivo per cui anche nel caso dei motti bisogna usare la moderazione, affinché non perda valore il motteggiare che, se non è temperato, trapassa nella chiacchiera inutile, nella ciancia, nel mestiere dei sicofanti, cosicché coloro che son fatti a questo modo non vengono tenuti in nessun conto e riscuotono da parte degli altri il dispregio, piuttosto che esser loro a dilettare. Sarà dunque anche dei motti e degli scherzi compagna e maestra la prudenza; tolta questa, che cosa rimane che nel suo genere possa ottenere l’approvazione? 12. I motti, gli scherzi e le facezie constano di parole, di atteggiamenti del volto, di gesti e di toni di voce adatti s’intende al luogo, al tempo e al ruolo delle persone. Del resto gli stessi ambiti, da cui provengono, riguardano le azioni, che i motteggiatori non solo scherniscono con le parole, ma anche con i gesti. Ma ciò avviene perché tali azioni sono turpi. E la turpitudine suole essere schernita e accusata, poiché per sua natura è degna di essere derisa, come quando uno cammina con passo troppo lento a causa dell’obesità, e c’è chi dice: «Non mi meraviglio, la nave è appesantita dal suo carico». Non solo fa ridere il motto, ma l’occasione dello scherzo sorge dalla sconcezza di un fatto o di un’azione; come quando si punzecchia un ubriacone dicendo che è un soldato troppo atroce nello sventrare le botti. Questo motto è fabbricato sulla base di un’azione e della turpitudine di un comportamento, ed ha per materia la depravazione. 13. E in verità gli stessi scherzi talora vengono ricavati anche da cose dette e parole pronunciate, per cui anche lì è collocato il loro fondamento; ce n’è un esempio in Cicerone. Avendo infatti un oratore pronunciato la parola sputatilia, l’avversario, quasi stupito della novità della parola e dell’ignoranza, disse: «O giudici, io so che cosa siano gli sputi, ma non so cosa siano i “tilia”, e perciò bisogna temere un’insidia».344 È chiaro dunque che il fondamento degli scherzi risiede in ciò che si fa e in ciò che si dice, com’è stato da noi dimostrato abbondantemente; né vengono apprestati più in base a cose dette che a cose fatte. Il ruolo di chi risponde sembra poi più importante, essendo anche più difficile; può infatti chi provoca portare per così dire da casa i suoi motti, dopo averli preparati, e aggredire quasi all’improvviso, mentre all’altro l’estemporaneità soltanto gli è d’aiuto. Quanto meno dunque le risposte sono attese, tanto più fortemente colpiscono e quindi più eccellenti vengono giudicate.

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14. Responsa vero ipsa duplici modo partienda sunt: in ea quae aut diluant tantum, aut quae vel acriter mordeant. Sunt et mista compositaque, ut duo illa simplicia sint, tertium vero hoc conglutinatum. Primi exemplum est: Pallas Stroctius, Florentia pulsus a factione medica, fertur dixisse in fuga: “Incubare nos oportet, o viri, et ingenio et viribus, quo patriam ab dominatu unius liberemus”. Quae cum relata essent Cosmo, respondit: “Pauca haec Pallanti referenda: non posse alitem incubare quae et nidum amisisset et plumis spoliata sit”. Quo dicto et minas irrisit et verbum verbo diluit ae belle iocatus est. 15. Exemplum secundi: inter congrediendum homo non inurbanus irriserat alium eiusdem ordinis hominem, cum, qui suo nomine Foeniculus esset, eum Ferriculum salutasset. Tum ille, vultu quam maxime verbis apposito, “et tu vale, inquit, Furacule”. Videtis quo adversarium ictu percussit quamque etiam gravissime? Est et tertium genus exemplo suo confirmandum, quod est huiusmodi, nam et diluit et mordicus etiam abripit. Erat ad divae Mariae templum extra Capuam dies nundinalis; convenerant de more ibidem molti mortales. Erant in diversoriis pisces maiusculi et assi et elixi in lancibus expositi. Forte mercatores duo, alter ut montanus rerum maris inscius percontabatur, qui nam tam novae magnitudinis piscis esset, qui ad uncum pendebat. Ibi alter, qui esset litoralis, irridenti perquam similis respondit: “Cacomerdilis”. Ibi tum ille, qui se se irrideri sensisset, “hui, inquit, quanta est nominum varietas! hic idem piscis meos apud Marsos suo nomine est sterquicomedis”. Uterque quidem oscenus, at responsor cum primis mordax. 16. Sunt etiam responsa quaedam minime salsa, valde tamen ridicula, qualia plautina haec. Cum enim alter dixisset e collocutoribus: “Terrestris coena est – multis holeribus”, confestim alter: “Curato aegrotos domi”. Et hoc item. Cum enim dari sibi dragmam servus cuperet et alter respondisset: “Quid nam dragma facere vis?”, illic alter: “Restem volo mihi emere, quo me faciam pensilem”. Illud vero non tam ridiculum quam probatione dignum et sapiens iudicandum. Nam cum senex dixisset grande se honus ferre alterque respondisset interrogans, quid nam

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14. Ma le stesse risposte devono essere divise in due parti: quelle che soltanto contestano, e quelle che mordono facendolo anche con durezza. Vi sono pure quelle miste e composite, sicché le prime due specie sono semplici, la terza è complessa. Un esempio della prima specie è questo: Palla Strozzi,345 scacciato da Firenze dalla fazione medicea, si racconta che dicesse durante la fuga: «Bisogna che noi coviamo, o uomini, il nostro ingegno e le nostre forze, per liberare la patria dal dominio di un solo». Riferite a Cosimo346 queste parole, egli rispose: «Bisogna riferire a Palla queste poche parole: non può covare un uccello che ha perduto il nido ed è stato spogliato delle piume». Con questo detto si beffò delle minacce, rispose per le rime347 e scherzò magnificamente. 15. Esempio della seconda specie: durante una disputa un uomo non privo di spirito aveva preso in giro un altro della stessa classe perché aveva salutato come «Ferricolo», chi si chiamava propriamente «Fenicolo».348 Il nome della persona ricalcava quello del finocchio. L’altro allora, con il volto adattato perfettamente alle parole, «salute anche a te, disse, Furacolo». Vedete con quale colpo ferì l’avversario e con quanta durezza? Vi è una terza specie da definire con un esempio appropriato, che è del medesimo tipo, perché insieme risponde a tono e assale con i denti. Era il giorno del mercato, presso il tempio di S. Maria fuori Capua; come al solito erano convenute lì molte persone. Sulle bancarelle vi erano pesci piuttosto grossi e arrostiti e lessi esposti sui piatti. Si trovavano per caso due compratori: l’uno, montanaro, che non conosceva le cose di mare, chiedeva che pesce fosse quello di tanta grandezza che pendeva da un uncino. Allora l’altro, che abitava sul mare, quasi a prenderlo in giro rispose: «Cacomerdile». Quello allora, che si accorse di essere preso in giro, «Ah – disse – che varietà di nomi c’è! Questo stesso pesce nella regione dei Marsi349 ha il nome di sterquicomedo».350 L’uno e l’altro furono osceni, ma chi diede la risposta soprattutto mordace. 16. Vi sono delle risposte per nulla piccanti, e tuttavia molto scherzose, come questa di Plauto: «È una cena di terra – con molti legumi», e l’altro subito: «Curali, i malati che hai in casa». Così questa. Desiderava un servo che gli si desse una dramma; avendo l’altro risposto: «Che cosa mai vuoi fare con una dramma?», lì per lì rispose: «Mi voglio comperare una fune, per impiccarmi».351 Quest’altra risposta non tanto è scherzosa quanto degna di approvazione e da giudicarsi saggia. Infatti poiché un vecchio aveva detto di sopportare un gran peso, e un altro gli 1259

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id esset honeris, tum senex retulit: “Annos Octoginta quatuor; eodem accedit servitus sudor sitis”. 17. Responsa igitur multo maiorem prae se ferunt ingenii vim insitamque a natura acrimoniam, cum ea sint extemporalia ferantque secum etiam admirationem, cum appareant repentina minimeque praemeditata. Quae igitur et qualia ioca sint, ridicula dicteria fabellae, quae sint oratoris, quae faceti hominis, quae vero mimica theatralia parasitica, quae et quot responsorum genera et quibus quaeque a locis ducantur, satis id explicatum est; nec minus aperte etiam declaratum quae a nobis quaeruntur, ea ad virtutem tantum spectare quae mediocritas quaedam est, ad animorumque pertinere relaxationem ac tum ad laborum recreationem relaxationemque tum praecipue quidem molestiarum. Quocirca ad alia quoque transeamus.

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aveva risposto chiedendogli di quale peso si trattasse, allora il vecchio soggiunse: «Ottantaquattro anni; si aggiungono a questo la servitù, il sudore, la sete». 17. Le risposte dunque mostrano in misura maggiore la forza dell’ingegno e l’acutezza infusa dalla natura, per il fatto che sono estemporanee e attirano anche la meraviglia, poiché appaiono immediate e per nulla premeditate. Dunque è chiaro abbastanza quali e di che specie siano i giochi, i motti scherzosi, le storielle, quale sia il tipo dell’uomo faceto, quali siano i tipi del commediante, dell’autore di teatro, del parassita, quali e quanti siano i generi di risposte e da quali luoghi ciascuno si estragga; né è stato meno apertamente chiarito che i requisiti da noi richiesti mirano soltanto alla virtù, che è un giusto mezzo, riguardano il rilassamento dell’animo, il ristoro e il rilassamento sia dalle fatiche, sia specialmente dai fastidi. Perciò possiamo passare anche ad altro.

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LIBER QUINTUS

I 1. Primum igitur faceti videtur officium fugitare offensiones petulantias subsannationes sicophantias oscenitates atque id genus plurima, quae honestati quidem adversantur animorumque ipsorum et post labores et inter ipsas quoque insudationes refocillationi. Quod autem plurima inter iocandum accidunt, quae aut turpia sint aut parum omnino decora, sive factu dictu ve sive gestu aut voce, id etiam diligentissime praestandum est ab eo, illa ut et dicantur et referantur, quin etiam fiant nullo modo turpiter minimeque indecenter, verum his in cunctis rectam sequetur rationem quaeque ab illa dictantur et benesta et decora. 2. Hoc autem ideo praecipimus, quod ea fere solum ridentur, quae, ut Cicero inquit, vel sola vel maxime notant designantque deformitatem aut turpitudinem aliquam; quae ut dicantur referanturque haudquaquam turpiter aut parum decenter, id vero summo studio praestandum est ingenuo viro. Quod quia difficile est praestare, iccirco virtus haec in iis versari a nobis dicitur. Servare enim honestum in magna morum corruptione ac dicendi licentia, id vero quam difficillimum; iccirco maxime etiam dedecorosum et turpe aliter se gessisse.

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LIBRO QUINTO

I [PREMESSA.] 1. Anzitutto mi sembra che il compito dell’uomo faceto sia quello di evitare offese, insolenze, dileggi, calunnie, oscenità e moltissimi atti dello stesso genere, che contrastano in effetti con il decoro e perfino con il ristoro richiesto dall’animo dopo il lavoro ed anche durante le fatiche. Ma poiché nello scherzare insorgono tante di quelle cose che o sono turpi o assai poco decorose, negli atti o nelle parole come nel gesto o nella voce, bisogna anche che egli con molta attenzione osservi questo principio, che esse siano dette e riferite, ed anche fatte, assolutamente senza turpitudine e senza alcuna indecenza; ma in tutto questo egli seguirà la rettitudine e quelle norme da essa prescritte come oneste e decorose. 2. Questo precetto voglio darlo perché fanno ridere, come dice Cicerone,352 forse solo quelle cose che si limitano a sottolineare e a far notare una bruttura o una vergogna, che fanno questo soprattutto e perché queste cose si dicano o si riferiscano senza incorrere nella turpitudine o nell’indecenza, è necessario che il gentiluomo metta un grandissimo impegno. E data la difficoltà di far ciò, ho ragione di dire che questa operazione costituisce una virtù. Difatti è veramente cosa difficilissima serbare la dignità quando i costumi sono molto corrotti e il linguaggio è licenzioso; ed è perciò anche indecoroso e turpe comportarsi altrimenti.

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II [DEFINITIO VIRTUTIS HUIUS.] 1. Domitii Marsi extat apud Quintilianum opinio urbanitatem virtutem esse quandam in breve dictum coactam aptamque ad delectandos movendosque homines in omnem affectum, maxime idoneam ad resistendum vel lacessendum, prout quaeque res et persona desiderat. Quae definitio nobis parum idonea visa est. Cur autem ita visum sit, aperiemus. Principio si urbanitatem pro ipsa iocandi virtute Domitius accipit, a veri cognitione longe aberrat, cum urbanitas, ut superiore libro ostendimus, rusticitati opponatur, nec genus sit verum species. Deinde urbanitas non in dictis solum consideratur, verum urbanis etiam in moribus ac consuetudinibus. Ad haec cum dicit ad resistendum vel lacessendum, verba haec videntur solum spectare ad ea quae oratoris sunt, minime vero ad illa quae ad relaxationem spectant, propter quod virtus haec et laudatur et in maximo habetur honore apud occupatissimos et laboriosissimos sive cives sive civitatum rectores. Quod autem dixit in omnem affectum, quanquam id non improbamus, videtur tamen de oratoria tantum innuere, non de hac ipsa virtute quam facetudinem vocavimus quaeque ipsa moralis ac civilis virtus est, nedum oratoria ac forensis seu senatoria. 2. Qua e re efficitur, ut et vera et certa definitio virtutis huius sit: mediocritatem eam esse quandam iocandi et verbis et gestibus accommodatis ad laborum molestiarumque ac curarum doloris quoque honestam et suavem relaxationem, ingenuo viro dignam. Igitur cum in universum multa a nobis disputata sint, multa etiam exempla tradita circa iocandi genus omne, dehinc ingenuarum facetiarum exempla trademus, carptim tamen, ne multitudine sordescant ipsa; quibus referendis delectum adhibebimus, quemadmodum adhiberi oportere supra praecepimus iis dicendis. Prius tamen de urbanitate Quintilianus quid sentiat, quando ipse domitianae huius opinionis relator est, aperiemus. Putat igitur venustum esse, quod cum gratia quadam dicatur ac venere; salsum autem in consuetudine ait pro ridiculo tantum accipi, non quod utique id sit, quanquam et ridicula esse oportet salsa, et Cicero, quod salsum sit,

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LA CONVERSAZIONE, LIBRO QUINTO, II

II [DEFINIZIONE DI QUESTA VIRTÙ.] 1. In Quintiliano è riportata l’opinione di Domizio Marso circa l’urbanitas:353 essa è una virtù racchiusa in una breve espressione, capace di dilettare e di condurre gli uomini ad ogni sentimento, e si addice magnificamente alla difesa come all’attacco, secondo l’esigenza di ogni circostanza e di ogni persona. Questa definizione ci è sembrata ben poco adeguata. E spiegheremo perché. Anzitutto, se Domizio assume l’urbanitas come la virtù dello scherzo in sé, si allontana di gran lunga dalla verità, poiché l’urbanitas, come abbiamo mostrato nel libro precedente, si oppone alla rozzezza, e non è un genere, ma una specie. In secondo luogo, l’urbanità non va considerata solo nel parlare, ma anche nel comportamento e nelle abitudini che possono essere «urbane». Inoltre, quando dice «alla difesa come all’attacco», queste parole sembrano riguardare soltanto l’operazione di chi parla, ma per nulla quel che concerne il ricrearsi, onde questa virtù viene lodata e tenuta nel più grande onore da chi vive fra grandi occupazioni e attività, semplici cittadini o governanti che siano. Quanto poi all’espressione «ogni sentimento», quantunque non la rigettiamo, sembra tuttavia che alluda soltanto all’arte del dire, non a quella virtù che abbiamo chiamata facetudo, e che è virtù morale e civile, non solo dell’oratore e di chi parla nel foro o al Senato. 2. Ne consegue che la vera e precisa definizione di questa virtù è la seguente: essa è una via di mezzo nello scherzare, con parole e gesti adatti ad alleviare in modo onesto e gradevole la fatica, le noie e le preoccupazioni, ed anche i dolori, uno svago degno di un gentiluomo. Adunque, essendo stata ampia la discussione sui concetti generali e anche molti gli esempi addotti intorno al genere complessivo dello scherzo, ora addurremo esempi di facezie oneste, per saggi, per evitare che nel gran numero perdano la loro evidenza; nel riportare questi esempi useremo la discrezione, come abbiamo avvertito di sopra che bisogna fare nel dire le facezie. Prima tuttavia spiegheremo il pensiero di Quintiliano sull’urbanitas,354 poiché questa opinione di Domizio egli si è limitato a riferirla. Orbene il suo pensiero è che sia amabile quel che si dice con una certa grazia e leggiadria; mentre afferma che nell’uso comune il mordace viene assunto come ciò che soltanto fa ridere, non che ciò sia in ogni caso, quantunque i detti mordaci necessariamente facciano ridere, e Cicerone 1265

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ait esse Atticorum; urbanitatis vero nomine significari sermonem praeferentem in verbis et sono et usu proprium quendam gestum urbis, ut sumptam e conversatione doctorum tacitam eruditionem, denique cui contraria sit rusticitas. 3. Ac mihi quidem videntur rhetoricae facultatis scriptores et rusticitatem et urbanitatem circa verba tantum gestusque illa comitantes versari velle; ac si non rusticum sit illotis manibus accumbere in mensa nec cedere natu maioribus aut magistratibus in via non decedere aut illis non assurgere nec salutare quos, iter faciens, obvios habueris, contra servare haec omnia neque urbanum hoc sit neque ad urbanitatem referendum. Quocirca urbanitas – quod distinguendum erat eloquentiae scriptoribus – partim in iocis versatur ac ridiculis urbe dignis coetuque civilium atque ingenuorum hominum, partim in factis ac moribus, quos cives retineant quique in urbe versati sint conversationibusque civilibus. Quo fit, ut Cicero, cum urbis mores et admiraretur et sequendos duceret, ad Rufum familiarem scribens dicat: «Urbem, mi Rufe, cole et in ista luce vive». 4. Itaque quod olim esset ‘atticum’ – qua e re, id est ab humanitate morumque suavitate, Pomponius ille clarissimus vir agnominatus est Atticus – id, ab urbe Roma post, dictum est urbanum, ut asperi mores difficiles morosi inconditi rustici dicti sint, et Caius Marius, a parum cultis moribus ac vitae duritia quodque nullas vivendi sequeretur amoenitates, habitus est rusticanus. Contra qui humanitate praediti essent suavibusque ornati moribus atque institutis ut urbani et laudati sunt et culti. Quid? quod stultos etiam vocavere, quos urbano a cultu institutisque usuque ab humano et civili alienos esse intellexere. 5. Igitur vetustas omnis iocum id accepit, quod esset serio adversum; cuius opinioni Horatius etiam assentitur inquiens: Sed tamen omisso quaeramus seria ludo.

Ludum enim pro ioco posuit. Quo fit ut, qui iocantur seria tantisper relinquant, dum refrigerationem concipiant aliquam a seriis ac laboriosis

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dica che è proprio degli Attici la mordacità;355 ma che con il nome di urbanitas s’intende un’espressione che dimostri nelle parole, nel suono e nel modo un atteggiamento proprio della città, come una segreta finezza tratta dalla conversazione dei dotti, alla quale in definitiva si contrappone la rustichezza. 3. E a me pare invero che i trattatisti della retorica pensino che la rozzezza e l’urbanitas riguardino soltanto le parole e i gesti che le accompagnano; come se non fosse cosa rustica sedere a tavola con le mani sporche e non cedere il passo per la strada ai più anziani o alle autorità o non alzarsi in piedi dinanzi a loro, né salutare quelli che s’incontrano durante il viaggio, e non fosse invece cosa urbana e da riportarsi all’urbanitas osservare tutte queste maniere. Perciò l’urbanitas – distinzione che avrebbe dovuto essere fatta dai trattatisti dell’arte del dire – riguarda in parte gli scherzi e la comicità degna della città e della cerchia degli uomini civili e nobili, in parte le azioni e i costumi appartenenti ai cittadini e cioè a coloro che hanno pratica della città e della civile conversazione. Perciò Cicerone, ammirando i costumi cittadini e ritenendo che si debbano seguire, dice in una lettera indirizzata all’amico Rufo: «Caro Rufo, abita in città e vivi in questa luce».356 4. Così quel che una volta era designato come «attico» – per cui Pomponio, il famosissimo personaggio, fu soprannominato Attico, appunto per la umanità e dolcezza del carattere – poi si disse «urbano» dall’Urbe, cioè Roma, come i costumi aspri, scontrosi, fastidiosi, grossolani son chiamati «rustici» e Caio Mario fu tenuto per «rusticano» per il comportamento poco raffinato e la durezza della vita, e per il fatto che non perseguiva alcuna piacevolezza di vita.357 Al contrario coloro che erano forniti di umanità e si distinguevano per la dolcezza dei costumi e dell’educazione ricevono lode e stima come uomini urbani. E che dire ancora? Chiamavano perfino stolti quelli che apparivano estranei all’educazione cittadina e alla consuetudine dei rapporti umani e civili. 5. Adunque tutta l’antichità considerò scherzo ciò che si oppone alla serietà; di questa opinione è anche Orazio quando dice: Ma tuttavia lasciando il gioco cerchiam cose serie.358

Ha usato il termine gioco per quello di scherzo. Perciò avviene che coloro che scherzano lasciano un tantino da parte le cose serie, pur di 1267

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rebus, ut iocatio ipsa ab ingenuis viris omnino suscipiatur recreationis gratia, quae tamen nec ab honestate recedat nec ab ingenuitate. Quid enim urbanum esse potest ac facetum, quod non idem ingenuum? aut qui iure laudari, praeterquam si honestum? Quocirca in omni actione et vita, delectu adhibito et rerum et personarum itemque et locorum et temporum, iocandi hilaritas haec ac modestia magnopere laudatur nullumque omnino civilis vitae genus dedecet, cum etiam in principibus viris non commendetur solum, verum etiam desideretur. 6. In iocando autem ludendisque facetiis duo potissimum cavenda: unum, ne in miseros iocemur, praeterquam si petulantes fuerint, superbi, contumaces. Quid enim inhumanius quam irridere eum, cuius commoveri et angi miseriis debeas? Alterum, ne eos dictis incessamus, quorum maior sit auctoritas ac vis, unde eos tibi inimicos facias. Quid enim imprudentius quam potentium iras in se se provocare, dictis eos lacessentem? Eadem quoque animadversione fugiendum, ne aut populum universum aut factionem aliquam ordinem ve aut nationem totam lacessamus aut disciplinas artesque laudabiliores aut studia. Quo quid esse potest stultius aut quid inconsideratius quam uno dicto integram in se se civitatem irritare? Franciscus Philelphus, et graece et latine Mediolani cum profiteretur, praedicantem Bernardinum, qui post obitum ob merita inter divos relatus est, dicto aculeatiori ita pupugit, ut ex eo omnem eorum ordinem, qui Minores Fratres dicuntur, non in se modo, verum in omnis literatos armaverit exindeque insectari studia haec humanitatis ordinis eius praedicatores nunquam publice privatimque desierint. 7. Dum Demosthenes nec Philippo parcit et Alexandrum nunc ut puerum ridet, nunc ut adolescentulum contemnit, quam prudenter rebus suis consuluerit, vitae eius testis est exitus. Cum animadvertisset Augustus equitem Romanum bibentem in spectaculis praeter morem dignitatemque eius ordinis misissetque ad eum qui sub obiurgationis speciem diceret: «Ego si prandere velim, domum iverim», tum illum memoriae

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ottenere un qualche refrigerio dagli impegni seri e faticosi, onde perfino lo scherzo viene esercitato da uomini assolutamente onesti al fine della ricreazione, sempre che questa non si disgiunga dal decoro né dall’onestà. Vi può essere infatti qualcosa di urbano e di faceto, che non sia anche onesto? O come potrebbe lodarsi a buon diritto qualcosa se non conforme al decoro? Perciò in ogni azione della vita, quando si è usata la discrezione nella scelta degli argomenti, delle persone, e così anche dei luoghi e dei tempi, questa giovialità, questa leggerezza dello scherzo vengono molto apprezzate e non sono per nulla sconvenienti ad alcun livello della vita civile, giacché anche nei prìncipi non solo viene approvata, ma anche richiesta. 6. Nello scherzare e nel divertirsi con le facezie bisogna guardarsi soprattutto da due errori: primo quello di prenderci gioco degli infelici, tranne che non si tratti di persone insolenti, superbe, arroganti. Che c’è di più disumano che deridere uno, per le cui sventure dovresti commuoverti e angustiarti? Secondo, di non aggredire con le tue battute coloro che hanno un’autorità e una potenza superiori, in modo da farteli nemici. Quale maggiore imprudenza di quella di attirarti l’ira dei potenti, pungendoli con le tue facezie? Bisogna anche evitare, con la medesima attenzione, di non colpire tutta una popolazione o una fazione, una classe, uno stato intero, oppure le scienze e le arti degne di un certo rispetto o gli studi. Sarebbe questa la cosa più sciocca perché non c’è nulla di più sconsiderato che attirarsi addosso l’ira di tutto uno Stato con una sola battuta. Francesco Fidelfo,359 quando insegnava greco e latino a Milano, colpì con una battuta un po’ troppo pungente Bernardino durante le sue prediche,360 quel Bernardino che dopo la morte fu santificato per i suoi meriti, in un modo tale da sollevare in armi tutto l’ordine dei cosiddetti Frati minori con quella battuta, e non solo contro di lui, ma contro i letterati tutti, sicché da quel momento i predicatori di quell’ordine non la finirono più di perseguitare gli studi letterari in pubblico come in privato. 7. Quanto fosse accorto Demostene nel preservare la sua condizione al tempo in cui non risparmiava Filippo e rideva di Alessandro come di un bambino oppure lo sprezzava come un ragazzino, lo dimostra la conclusione della sua vita.361 Accortosi Augusto che un cavaliere romano beveva durante gli spettacoli oltre i limiti concessi alla dignità della sua classe, gli mandò a dire in forma di rimprovero: «Io, quando ho voglia di pranzare, me ne vado a casa». Quello allora, si racconta, rispose con 1269

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proditum est respondisse et modeste et perquam ingenue nequaquam Augustum timere, locum in orchestra si reliquerit, illum ne recuperet. Quo responso et minax Augusti dictum facete diluit et principis a se iram per iucunditatem avertit, habita et temporis et loci et personarum ratione. Itaque abstinendum est a principibus. Quin si qua concepta est ira, suavioribus dictis placanda est, quod Tarentini illi iuvenes praestitere; nam convicti cum essent, quod multa inter coenandum licentius de rege Pyrrho locuti essent ratioque maledictorum reposceretur, tum unum ex iis iocabundum dixisse proditum est memoriae: «Nunquid, o Pyrrhe rex, hoc mirare et querere? per Herculem ipsa te in coena confecissemus, ni lagena nos destituisset ». Quo dicto, ut et urbano et ingenuo profecto ab nomine, omnis e vestigio ira dissoluta est. 8. Accusatus iuvenis quispiam, quod in mensa intemperantius locutus esset adversus sacerdotem vocatusque ob id in iudicium atque interrogatus a iudicibus, «si eodem, respondit, pacto rursus in coena me invitavero, vel duodecim quoque Apostolos insectabor fustibus». Statimque inter iudices, exorto risu cognitoque vini vicio, ab illis absolutus est; poena tamen a sacerdote irrogata, uti quatriduum vino abstineret. Genus hoc facetiarum et ingenuo viro dignum est et inter egregios cives relatu atque auditu, quando et obiecta dissolvit et offensione caret; nec delectat solum, verum summa quoque cum laude fert secum audientium approbationem. Id tamen videndum, ne dicta ipsa aut frigida sint aut absurda, quae ve imprudenter excidant, ex quo stultitiae accusemur. Gregarius quispiam furti accusatus, dum iram se se praetoris lenire putat, «equidem, inquit, o praetor, artibus his hero me placere intelligebam». Quid his stultius? nanque hero dum dicit studere se ut obsequatur, illum calumniatus est. Alius eiusdem ordinis in horto deprehensus, cum vapulans deprecaretur, «non mihi, inquit, poma surripui, verum asello meo». Quid hoc frigidius? Habent igitur generis huius dicta suas ac necessarias cautiones. 9. Utque ad humilis abiectosque ac miserabiles redeamus, quid indignius quam miserum irridere? Colas quidam Siculus et naturae et fortu-

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garbo e in modo molto signorile che Augusto non temeva certo del fatto che, lasciando il posto nell’orchestra, potesse non recuperarlo più.362 Con questa risposta non solo stemperò la minaccia contenuta nella facezia di Augusto, ma allontanò da sé l’ira del principe con il suo umorismo, tenendo il dovuto conto del tempo, del luogo e delle persone. Perciò bisogna astenersi dal toccare i prìncipi. Anzi se hanno concepito un sentimento d’ira, bisogna cercare di placarli con parole gradevoli; un esempio di ciò offrirono quei giovani di Taranto accusati di avere scherzato un po’ troppo sul re Pirro durante la cena.363 Poiché si chiedeva conto dei loro insulti, si racconta che uno di loro disse scherzosamente: «E di che, o re Pirro, ti meravigli e ti lamenti? Per Ercole, nella cena ti avremmo perfino distrutto, se la botte non ci fosse venuta meno». In virtù di questa battuta, poiché era venuta fuori da un uomo spiritoso e di pregio, tutta l’ira subito sfumò. 8. Fu accusato un giovane di aver parlato a tavola con troppa libertà contro un sacerdote, e chiamato in giudizio per questo reato ed interrogato dai giudici, rispose: «se così un’altra volta mi capiterà di godermela in una cena, perfino i dodici Apostoli assalirò con i miei colpi». E subito sprigionatasi una risata fra i giudici e riconosciuto che la colpa era del vino, fu da loro assolto; e tuttavia gli fu data dal sacerdote la pena di astenersi per quattro giorni dal vino. Questo genere di facezie è degno di una persona nobile e anzi è bene che fra cittadini egregi si riferiscano e si ascoltino tali facezie, poiché dissipano le accuse e non hanno l’effetto di offendere; e non solo dilettano, ma si attirano perfino l’approvazione degli ascoltatori con uno straordinario plauso. Bisogna però vedere che le battute non siano fredde oppure stonate,364 o tali da venir fuori senza accorgimento, per cui ci possano accusare di stoltezza. Un soldato, accusato di furto, pensando di mitigare l’ira del pretore nei suoi confronti, disse: «In verità, o pretore, con queste arti io pensavo di riuscir gradito al mio signore». Nulla di più sciocco! Perché dicendo di sforzarsi di assecondare il signore, non fece che calunniarlo. Un altro della stessa classe, sorpreso in un giardino, lamentandosi di essere castigato, disse: «Non ho sottratto le mele per me, ma per il mio asinello». Che c’è di più insulso. Le facezie di questo genere esigono dunque necessariamente una certa cautela. 9. E per tornare alle persone umili, vili e sventurate, non è la cosa più indegna deridere un poveraccio? Un certo Cola, siciliano, rimasto privo 1271

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nae bonis destitutus, cum nobili ab adolescente importune irrideretur, «ne tu, inquit, me irrideas, inferior enim sum quam ut rideri merear, cuius tamen sors deplorari ab summis atque infimis iure debeat; haud multum tamen aberit, cum bonis ipse exutus omnibus, mecum et fortunam tuam lugebis et mendicabis in patria»; quod non multo post contigit. Habent enim impia et intestabilia tum facta tum dicta deum ipsum ulctorem. Aliquando etiam miserabilium e numero ac mendicantium existunt qui dicaces sint ac maxime ipsi quidem ad movendum risum idonei; de quibus dici iure possit Horatianum illud: «Foenum in cornu gerit». Hi igitur ipsi irritati notas maxime cicatricosas relinquunt immorsionum suarum; ut cum dicaculus quidam lippo insultaret mendicanti, quod ad scrupum pedem offendisset, «at non offendit pedem tuarum ad limen aedium nocte praeterita adulter, domo cum abesses»; quod quidem et factum erat et ille id minime ignorabat. Quocirca nequaquam committendum, ratione ut aliqua huiusmodi hominum generis sive imprecationibus sive maledicentiae te exponas. 10. Dictorum autem genera facimus duo: unum, quod risum tantum moveat, alterum, quod approbationem. Movent igitur risum non modo acute ac venuste dicta, sed non nunquam stulte iracunde timide seu dicta seu facta. Efferbuerat Alfonsus minor in famulum stabularium, itaque vocato architriclino iussit illi vinum decimum in diem adimi. Risus illico excitatus est ab astantibus, qui scirent stabularium illum abstemium; quod etsi Alfonso notum erat, ira tamen memoriam praepedierat. Idem Alfonsus, cum fugientem cerneret ab hostium incursu calonem interrogaretque: «Quo fugis?», exterritus ille «umbram, respondit, quaerito». Risit tum Alfonsus ut ignave loquentem atque e consternatione illique tabernam vinariam ostendit, «eccam, inquiens, quam quaeritas umbram». Idem pro tribunali ius cum diceret ac stultior ad eum quispiam accessisset clamitans, clementiae uti suae memor esset in iure dicundo, percontatus tum ipse, quod nam officium praestari a se posset facilitatis atque clementiae, tum ille, «Clementia, inquit, uxor mea cubito me hac nocte e lecto exposuit et maledictis extra domum prosecuta est. Ego apud te iniuriarum ago». Difficile dictu est qui risus toto foro exorti fuerint.

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di beni di natura e di fortuna, poiché veniva deriso insistentemente da un giovinetto della nobiltà, disse: «smettila di deridermi, perché la mia condizione è troppo bassa perché io meriti di essere deriso, quando invece la mia sorte dovrebbe essere commiserata dai grandi e dagli umili; ma non mancherà molto che anche tu, privato di tutti i beni, pianga con me la tua sfortuna e vada mendicando nella tua patria»: e questo avvenne non molto dopo. Le azioni e le parole empie e detestabili hanno un vendicatore in Dio stesso. Talora anche fra i miserabili e i mendicanti spuntano alcuni motteggiatori, anche molto capaci di muovere il riso; di loro si può ben dire, come dice Orazio, «porta il fieno sulle corna».365 Quegli stessi, dunque, che vengono stuzzicati, lasciano i segni delle cicatrici dovute ai loro morsi;366 come quando ad esempio un tale che voleva fare lo spiritoso insultava un mendicante cisposo, perché era inciampato ad una pietra: «ma non inciampò alla soglia di casa tua – disse il mendicante – la scorsa notte l’adultero, quando tu non c’eri». E questo era avvenuto veramente, e lui lo sapeva bene. Perciò non bisogna commettere l’errore di esporsi per un motivo qualsiasi alle offese o agli insulti di uomini del genere. 10. Dividiamo i motti in due generi: nel primo includiamo quelli che muovono soltanto il riso, nel secondo quelli che suscitano l’approvazione. Muovono dunque il riso non solo i detti arguti e spiritosi, ma parecchie volte le parole e i gesti stolti, irosi, timidi. Alfonso II si era acceso contro un garzone di stalla, e così, chiamato il maestro di tavola comandò che gli si togliesse il vino per dieci giorni. Lì scoppiò una risata fra gli astanti, che sapevano che lo stalliere era astemio; questo ad Alfonso era noto, ma l’ira gli aveva offuscata la memoria. Lo stesso Alfonso, scorgendo un servo che fuggiva dal nemico di corsa gli chiese: «dove fuggi?», e quello atterrito rispose: «vado cercando l’ombra». Rise allora Alfonso perché si accorse che parlava nello stordimento, sotto l’effetto della paura, e gli mostrò un’osteria dicendo: «Ecco l’ombra che vai cercando». Ancora lui, mentre in tribunale amministrava la giustizia, avvicinatosi uno sciocco gridando che si ricordasse della sua clemenza nel giudicare, chiese quale servigio potesse offrirgli con la sua generosità e clemenza; allora quello disse: «Clemenza, mia moglie, stanotte mi ha buttato dal letto con una gomitata e mi ha inseguito con i suoi improperi fin fuori casa. Io ricorro a te per l’offesa ricevuta». È difficile a dirsi quante risate si sollevarono nel foro.

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11. Haec igitur sive dictorum sive facetiarum genera, etsi in facetum hunc nostrum minime cadunt dicendo, usuveniunt tamen referendo inter confabulandum in circulis atque consessionibus. At quae approbationem adducunt et dictu et relatu digna sunt addecentque utroque modo facetum; ut apud Plautum, cum percontaretur alter, «quo pacto potis et nupta et vidua esse eadem», respondit alter: «Quod adolescens nupta sit cum sene». Dictum minime ridiculum, quod tamen sententiae loco probationem inducat. Quale etiam Ciceronis illud: cum dicentibus sero eum in castra ad Pompeium venisse respondit: «Minime vero sero, quando nihil hic paratum invenio». 12. Huiusmodi enim sive dicta sive responsa magis probantur ut concinne ut graviter ut prudenter atque ex tempore et ad rem ipsam accommode dicta quam ut ridicule, cum saepenumero admirationem quoque ingenerent in animis audientium. Cuiusmodi etiam illud Augusti Caesaris: nam cum auctio bonorum fieret equitis romani, qui plurimo aere alieno pressus esset atque undique a creditoribus circumventus iussissetque ex illis culcitram sibi tantum cubicularem emi, mirati cum essent, quibus id negocii ab Augusto dabatur, «an non ea, inquit, habenda a nobis est alliciendum ad somnum culcitra, in qua ille, qui tantum deberet, capere somnum potuerit?» Non igitur dicta omnia risum movent, cum haec ipsa horumque similia approbationem tantummodo secum ferant. 13. Risus vero ipse aut e nobis ipsis petitur aut ex aliis aut e rebus ipsisque ex eventis. E nobis igitur risus petetur, cum aliqua tanquam subabsurda dicentur, non tamen subabsurde, aut gestus quidam parum erunt compositi atque ob id ridiculi, cum tamen neque ipsi per se neque res ipsae nostrae sint ridiculae. Est apud Plautum in Casina senex, qui villico ancillam tradere in uxorem studeat, cum ipse tamen voluptatem ex ea sibi quaereret. Itaque quo risum poeta excitaret inter spectatores, errantem inter loquendum illum inducit: «Nam cur, senex inquit, non ego id perpetrem quod coepi, ut nubat mihi – illud quidem volebam – nostro servo villico?» Subabsurdum atque aberrantem illum parumque in verbis consistentem facit, quo risum inde excitet.

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11. Battute o facezie come queste, anche se non capita affatto di dirle al nostro uomo faceto, gli può avvenire di riferirle durante le chiacchierate nei circoli e nelle riunioni. Ma quelle che portano l’approvazione sono degne di essere pronunciate e riferite e si addicono all’uomo faceto per tutti e due i versi; così in Plauto,367 uno domanda: «come può essere che una maritata e una vedova siano la stessa persona?» L’altro risponde: «perché quando era ragazza ha sposato un vecchio». Battuta niente affatto ridicola e che tuttavia, data la circostanza in cui la frase è pronunciata, suscita il consenso. Dello stesso tipo è anche la facezia ciceroniana,368 quando egli rispose a quelli che dicevano che era venuto tardi nell’accampamento dalla parte di Pompeo: «non è tardi affatto, poiché qui non vedo che sia pronto nulla». 12. Tali battute o risposte sono approvate perché ben acconce, efficaci, avvedute, tempestive e adatte alla circostanza, più che per il fatto di far ridere, giacché spesso infondono anche l’ammirazione nell’animo degli ascoltatori. Di questo stesso genere è quella famosa battuta di Cesare Augusto. In occasione di una pubblica asta dei beni di un cavaliere Romano, che era oppresso da moltissimi debiti e assiepato dai creditori, aveva fatto comperare per conto suo fra quei beni solo un guanciale per dormire; e poiché coloro che ricevevano l’incarico da Augusto si meravigliavano, disse: «non dovrei forse avere, per attirare il sonno, quel guanciale, sul quale lui, così pieno di debiti, ha potuto prender sonno?» Non tutti i motti dunque muovono il riso, giacché questi che abbiamo visto e altri simili a questi ottengono soltanto il consenso. 13. Ma il riso viene fatto scaturire o dalla nostra persona o da quella degli altri o dalla situazione e dagli avvenimenti in sé.369 Da noi stessi verrà ricavato dunque il riso, quando si dirà qualcosa piuttosto assurda, non tuttavia in modo assurdo, oppure quando i gesti saranno poco composti e perciò ridicoli, a patto però che non siamo ridicoli noi né le nostre cose. In Plauto vi è, nella Casina,370 un vecchio, che desidera dare in moglie la sua ancella ad un contadino, mentre cerca di ottenere le grazie di lei. Cosicché, per suscitare il riso fra gli spettatori, il poeta lo rappresenta mentre si aggira parlando tra sé: «E perché – dice il vecchio – io non porto a termine la mia impresa, e non la faccio mia sposa – questo è quello che volevo dire – cioè del mio fattore?»371 Gli fa dire cose un po’ assurde, sballate e poco coerenti, per farne scaturire il riso.

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14. Gregorius Typhernas, quo praeceptore graecis in literis usus sum adolescens, ad forum accesserat rerum venalium, dumque rusticano cum homine non potest de mercimonio convenire, sermone enim cum illo nimis composito utebatur, ibi ego, qui rem perpendissem, conversus ad rusticum, «o bone, inquam, homo, ex hac omni summa quantum ipse vis decorticari?», quod a me dictum est pro demi. Tum ille, verbo hoc et suo et rusticano cum voluptate audito, renidenti similis aspernatusque Gregorium meque de amoenitate complexus, «tu, inquit, sapide adolescens, universo de pretio quantum tibi visum fuerit decorticabis». Tum ego: «De cumulo isto tuo vel granulum exgranulabo». Rursum ille in risum abiens, «pro arbitrio, inquit, exgranulabis». Ad ea ipse: «Novem igitur tibi granula argenteola crassula atque haec quidem tantum immanuabo». «Immanuabis, inquit, quam primulum». Hac igitur ratione, composito pretio, transacta res est; qui vero aderant omnes in cachinnos resoluti sunt. Feci igitur me ridiculum, hoc est rusticanum, quo agrestis hominis mollirem duritiem. 15. Quaeritur autem ex aliis risus, ut cum Cicero de genero suo, qui exigua esset statura, dixit: «Quis, obsecro, generum meum ad gladium alligavit?». Item de Quinto fratre, qui et ipse brevi esset statu corporis, cum vidisset imaginem eius maioribus lineamentis ad pectus usque depictam, «profecto, inquit, frater meus dimidius maior est quam totus». Antonius [Galateus], praetereuntem passu maiore ac frequentiore claudum quempiam cum videret, «cui nam, inquit, divo sacer hic dies est, o campanator, adeo nam frequens tintinnis?». Itaque et a nobis et ab aliis, plurimis etiam modis, iisque maxime diversis, risum excimus. Militabat sub Alfonso eques, cui nomen erat Rostro. Hic tegmento capitis, quod hodie birretum vocant, utebatur rubro atque in cristam porrecto; forte et excubias pro castris agebat. Cum igitur Alfonsus noctu munus suum obiret, in eum et ob cristam et ob nomen iocatus, «quando, inquit, o galle, matutinum cantabis?» Ad ea ille, «male, inquit, matutinatur qui vespernam non gustavit». Quo quidem ioco delectatus Alfonsus vestitu illum donavit etiam diversicolore, quo gallum et crista et appellatione et varietate coloris toto etiam corpore referret. Sed immorari hac in parte, exemplis amplificandae eius gratia afferendis, omnino videtur importunum.

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14. Gregorio Tifernate,372 che ho avuto come precettore nello studio delle lettere greche da ragazzo, era andato in piazza del mercato, e poiché non riusciva a intendersi con un contadino sul prezzo della merce (usava infatti con lui un linguaggio troppo compito), allora io, che avevo ben esaminato la situazione, mi rivolsi al contadino e dissi: «buon uomo, da tutta questa somma quanto vuoi scorticare?»;373 questa parola fu usata da me in luogo di «togliere». Allora lui, udito con piacere questo vocabolo, che era del suo gergo contadinesco, quasi sorridendo, trascurando Gregorio e abbracciandomi dalla gioia, disse: «tu, giovane intelligente, potrai sgranare dal prezzo quanto ti sembrerà opportuno». Allora io: «Da questo tuo mucchio almeno un granello sgranerò». Allora quello scoppiando a ridere: «sgranerai – disse – secondo come ti piace». A queste parole io dissi: «Nove granelli di argento belli grossi, e questi soltanto t’immanuerò».374 «Me li immanuerai ben prestino». In questo modo, convenuto il prezzo, l’affare fu fatto; gli astanti tutti scoppiarono in risate. Io dunque mi resi ridicolo, cioè rusticano, per ammorbidire la durezza dell’uomo di campagna. 15. Si ricava il riso dalla persona altrui, invece, in casi come quello di Cicerone, il quale disse di suo genero, che era di piccola statura: «Chi, di grazia, ha legato mio genero alla spada?»375 Così a proposito del fratello Quinto, che era anche lui di bassa statura, avendo visto un suo ritratto con le fattezze ingrandite che lo riprendeva fino al petto, disse «è certo che mio fratello a metà è più grande che tutto intero». Antonio, vedendo un tale che lo sorpassava, con un passo più lungo e più veloce, pur essendo zoppo, esclamò: «a quale santo è consacrato questo giorno, campanaro,376 giacché è così pieno di scampanellate?»377 E così suscitiamo il riso traendolo da noi e dagli altri, in numerosissimi modi e molto diversi. Sotto Alfonso militava un cavaliere, che si chiamava Rostro. Costui usava un copricapo, che oggi si chiama berretto,378 rosso e allungato a forma di cresta. Una volta si trovava a fare la guardia dinanzi all’accampamento. Alfonso, mentre attendeva al suo compito di notte, prendendosi gioco di lui per la cresta e per il nome, disse: «o gallo, quando canterai il mattutino?» E lui: «male – disse – canta il mattutino379 chi non ha gustato la cena del vespro». Divertito da questa battuta scherzosa Alfonso gli donò un vestito, e per giunta variopinto, perché potesse riprodurre il gallo nella cresta, nel nome, e anche con tutto il corpo nella varietà dei colori. Ma non mi sembra opportuno trattenermi su questa parte della trattazione, riportando esempi per amplificarla. 1277

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16. Reliquum est, ne partem eam inexemplificatam relinquamus, quae tum a rebus ipsis risum quaerit tum ab eventis. Qua autem via risus ab iis, quae eveniunt, comparetur Cicero docuit, in Vatinii consulatum iocatus, cum paucorum admodum dierum fuisset: «Magnum, inquit, ostentum anno Vatinii factum est: illo enim consule, nec bruma nec ver nec aestas nec autunnus fuit». Docuit et Vatinius ipse, in Ciceronis verba iocatus. Nam cum gloriaretur Cicero se rei publicae humeris ab exilio reportatum, «unde ergo tibi varices», Vatinius intulit. Nec minus apud Plautum servus pro ancilla suppositus in cubili, cum a spectatoribus risum captans dixit: Mihi quidem aedepol insignite facta est iniuria: duobus nupsi, neuter fecit quod novae nuptae solet.

17. Extat etiam Catonis dictum admodum facetum; cui renuntiatum cum esset Albidii, civis Romani, qui sua bona per luxum atque ingluviem consumpsisset, domum, quae una illi esset reliqua, incendio conflagrasse, «ut belle, inquit, Albidius proterviam fecit», alludens ad sacrificium, in quo mos erat, quicquid reliquiarum superesset ex epulis, in ignem id coniici. Extat eodem hoc etiam in genere Valerii Martialis et bellum et cultum epigramma ad Faustinum amicum: Lotus nobiscum est, hilaris coenavit, et idem Inventus mane est mortuus Andragoras. Tam subitae mortis causam, Faustine, requiris? In somnis medicum viderat Hermocratem.

18. Elicitur etiam rebus ab ipsis risus multipliciter quidem, quando rerum ipsarum et multiplex et varia et pene infinita supellex est. Itaque et maximam et perquam idoneam iocantibus praebent materiam, sive ioci sint ipsi liberales atque ingenui, sive serviles aut rusticani, sive theatro detur opera mimicisque spectaculis. Conabimur itaque quantum memoria nobis ex diutina lectione sumministrabit quantumque ipsi ingenio assequi poterimus, pro materia, qua de agitur, exempla diversi

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16. Rimane ora solo il compito di non lasciare senza esemplificazione quella parte che riguarda il riso che si fa scaturire dalle situazioni e dagli eventi. In che modo si possa far sprigionare il riso dalle cose che accadono lo ha mostrato Cicerone scherzando sul consolato di Vatinio,380 per il fatto che era durato pochissimi giorni: «Un grande prodigio – disse – è accaduto nell’anno di Vatinio: sotto il suo consolato, non c’è stato inverno, né primavera, né estate, né autunno». E lo ha mostrato anche Vatinio, scherzando sulle parole di Cicerone. Ché, vantandosi Cicerone di essere stato riportato dall’esilio sulle spalle della Repubblica, aggiunse Vatinio: «E le varici allora da dove ti son venute?» Né diversamente avviene in Plauto, quando il servo, messosi al posto dell’ancella nel letto, dice suscitando il riso negli spettatori: Mi hanno fatto, diamine!, un grande torto, dei due che ho sposati, nessuno ha fatto quel che si fa a una novella sposa.381

17. Si ricorda anche di Catone un motto assai faceto;382 quando gli annunciarono che era andata in fiamme la casa di Albidio, un cittadino Romano che aveva consumato con il lusso e la gola i suoi beni ed era quella l’unica cosa rimastagli: «ma come ha fatto bene Albidio – disse – dovendosi mettere in cammino», alludendo al sacrificio, nel quale si usava di gettare nel fuoco tutto quello che avanzava dal banchetto. Ci rimane anche, dello stesso genere, un epigramma di Valerio Marziale, grazioso ed elegante, diretto all’amico Faustino: Si è lavato con noi, ha cenato allegramente, e poi è stato trovato morto il giorno dopo, Andragora. Vuoi sapere, Faustino, la causa della morte improvvisa? Aveva visto in sogno il medico Ermocrate.383

18. Si fa scaturire il riso anche dalla realtà delle cose, in molti modi, poiché molteplice e vario e quasi infinito è il loro numero. Pertanto offrono amplissima materia e assai idonea a chi vuole scherzare, sia che si tratti di scherzi fini e signorili, sia di vili e rozzi, che ci si dedichi al teatro o agli spettacoli farseschi. Ci sforzeremo perciò, per quel tanto che la memoria ci potrà fornire in virtù della lettura quotidiana, e per quel tanto che potrò ottenere con la mia ricerca personale, di mostrare 1279

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generis variaeque ioculationis afferre, dignitate tamen servata. Philosophamur enim, vel philosophice potius ludimus, non ea tamen licentia, ut histrioniis sicophantiisque locus detur in scriptis his nostris ullus. Rerum autem appellatione et negocia et artes et ministeria opificiaque et praedia et supellectilem censumque et id genus externa omnia intelligi volumus. Vido Grammaticus, quem ego adolescentulus Perusiae audivi senem iam, retinentem tamen dignitatem institutore dignam, fuerat iunior in editiore domus parte cum ancilla deprehensus a discipulo atque eo quidem in statu, ut, cum discipulus magistro illudens dixisset repente ad primam deprehensionem «Omnis homo currit», non discedens a grammatica dialecticaque disciplina, praeceptore quoque ab ipso momento eodem responsum fuerit: «Praeter me volantem», statura, videlicet considerante in quo deprehensus esset. Res igitur ipsa et discipulum admonuit et doctorem iisdem sensibus simul ludere eandemque in sententiam iocari. 19. Thomas Pontanus, nobilissimus rhetor, habebat in deliciis catellam, cui Lusculae erat nomen; ea cum vidisset ancillulam cum hero ludentem deliciosius, in eam mordicus illata est; qua de re, cum illa quereretur ad herum respondissetque ille ioculabundus amorem tenebris gaudere atque inde vulgo caecum dictitari, tum illa «atqui putabam, retulit, de nomine ipso Lusculam caecam esse». Erant Lucio Manlio pictori deformiores liberi; quod cum animadvertisset, qui apud eum coenitabat, Servilius Geminius dixissetque «Quid hoc, Manli, quod nequaquam similem in modum et pingis et fingis?», ille subdidit illico: «Quid mirum, qui in tenebris fingam, pingam in luce?». M. Cicero, cum audisset Pompeium in bello ilio Macedonico militem Gallum, Caesaris e castris qui ad eum transfugisset, civitate donasse, «perbellum, inquit, hominem, qui Gallis alienam promittat civitatem, cum nostram nobis non possit reddere». Iocabundus quispiam, vel tentabundus potius, cum dixisset – nam de somniis coram Alfonso rege erat disceptatio – nocte praeterita somniasse dono se ab rege accipere sacculum aureis gravidum, ibi tum Alfonsus: «An ignoras adhibendam somniis fidem christiano ab homine nullam esse?». 20. Est Ioviano Pontano, qui de his disserit, Eugenia fi lia eaque sine liberis; cumque aliquando ea suis e scriniolis protulisset imagunculas

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esempi diversi di vari tipi di scherzi a seconda della materia trattata, cercando tuttavia di osservare il decoro. Perché facciamo della fi losofia, o meglio ci divertiamo con la filosofia, ma non con tale libertà da dar posto, in questi nostri scritti, a istrioni e parassiti. Intendiamo con il nome di «cose» le attività, le arti, gli uffici, i lavori, i beni immobili e i mobili, i guadagni e tutti i beni esterni del genere. Il grammatico Vidone,384 da cui andai a scuola da ragazzo a Perugia, quando era già vecchio, ma conservava ancora la dignità propria di un insegnante, da giovane era stato sorpreso da un discepolo nel piano superiore della casa assieme ad una servetta, e in una posizione tale che il discepolo, burlando il maestro, disse subito non appena lo vide: «Ogni uomo corre»,385 non allontanandosi dal campo della grammatica e della dialettica. Immediatamente venne la risposta anche da parte del precettore: «tranne me, che volo»; e si riferiva evidentemente alla posizione in cui era stato sorpreso. Dunque fu la materia a suggerire al discepolo e al maestro di giocare con il medesimo concetto e scherzare sulla medesima frase. 19. Tommaso Pontano,386 famosissimo retore, si deliziava con una cuccioletta che aveva nome Luscola; questa, vista la servetta divertirsi un po’ troppo con il padrone, le diede un morso; la servetta si lamentava con il padrone e poiché lui rispose motteggiando che l’amore gode dell’oscurità ed è per questo che il volgo lo chiama cieco, disse di rimando: «Eppure credevo, dal nome, che Luscola fosse cieca». Il pittore Lucio Manlio aveva dei figli un po’ deformi; essendosene accorto uno che a cena sedeva accanto a lui, Servilio Geminio, disse: «Come mai, Manlio, avviene che dipingi e scolpisci in modo assolutamente diverso?» E l’altro soggiunse all’istante: «Che c’è da meravigliarsi, se io scolpisco nell’oscurità, mentre dipingo alla luce?»387 M. Cicerone, sentito dire che Pompeo nella guerra macedonica aveva donato la cittadinanza ad un soldato gallo, che dal campo di Cesare era passato dalla sua parte, disse: «Che bel tipo! Promette ai Galli la cittadinanza altrui, mentre a noi non può restituire la nostra». Un tipo scherzoso, o piuttosto intraprendente, aveva detto (si stava discutendo dei sogni alla presenza del re Alfonso) che la notte passata aveva sognato di ricevere dal re in dono un sacchetto pieno d’oro; allora Alfonso: «Forse non sai che un cristiano non deve prestar fede alcuna ai sogni?» 20. Gioviano Pontano, autore di questo trattato, ha una figlia di nome Eugenia, senza figli; e poiché ella una volta mise fuori dai suoi cassetti 1281

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quasdam venustissime effigiatas, «quanto, inquit, melius, o filia, et patri et viro et tibi ipsi consultum esset, si harum similes aliquas ex utero tuo proferres!» Altera eius filia Aurelia eaque natu maior, amisso Paulo marito, cum a patre ad alterum virum torumque hortaretur secundum, «quin tu, inquit, pater, non et nuptias secundas inis?» «Quia, respondit, nullam matri tuae similem me reperturum confido». «Id ipsum, respondit, me me versat, pater; quod mihi placiturum Paulo aeque similem sperem neminem». Haec ipsa, cum vix duodecim annorum filiam marito despondisset, iubente Federico rege, eaque a viro parum pro aetate atque urbanis moribus deliciose tractaretur, interrogataque quam nam uxorie filiola cum marito ageret, «mihi, inquit, mortuus est coniux, filiae vero nullo modo vivus». 21. Haec vero ipsa responsa, quamvis risum non afferant, afferunt tamen approbationem. Atque ea quidem de causa in medium illa attulimus, uti ex hoc quoque genere quae in utranque partem et risus et approbationis proferri possent, praeteriisse minime videremur. Ioannes Pardus, non minus urbanus consessor quam eruditus philosophus, consederat in aula principis. Constiterat ei ad latus iurisconsultus vestitu serico, vultu quam maxime severo, oculis in humum coniectis, qui post multum silentium, corona non ineptorum hominum circumstante, voce quam maxime canora atque in tonum sublata, coepit excantare magis quam dicere. Hic Pardus, «ut e concavo, inquit, ac vacuo e loco sonitus hic depromitur». Vix ullum unquam tantus risus prosecutus est dictum. 22. Bernardus Vitalis, vir multi usus ac maxime compositis moribus, interrogabatur a Federico rege quid nam esset causae, cur in vescendo alosa pisce oculari uteretur vitro. Respondit: «Nequaquam ipse miraris, o bone rex, legentem me amicorum epistolas, quibus legendis nullum immineat periculum, vitro uti, at demiraris usum ocularium in edendo maxime spinoso pisce sentibusque tam spissis atque acutis, quibus singulis insit vel strangulatorius gladius». Ibi adolescentulus licentiosior, «quid, inquit, o Vitalis, uteris ne specillis istis tuis, ubi cum uxore lu-

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alcune immaginette dipinte con molta grazia, le disse: «quanto avresti fatto meglio, figlia mia, e per tuo padre, e per tuo marito e per te stessa, se avessi messo fuori dall’utero tuo delle figure simili a queste!» L’altra sua figlia, Amelia, maggiore di lei, perduto il marito Paolo, poiché veniva esortata dal padre a prendere un secondo marito passando a seconde nozze, rispose: «E perché, padre, non affronti anche tu le seconde nozze?»; «perché – rispose lui – sono sicuro di non trovare nessun’altra simile a tua madre». «Lo stesso pensiero – rispose lei – ho anch’io; non ho alcuna speranza che ci possa essere qualcuno che mi piaccia in tutto simile a Paolo». Lei stessa, poiché la figlia che aveva maritata ad appena dodici anni per ordine di re Federico, era trattata con troppo poco affetto dal marito, rispetto all’età e alla sua fine educazione, quando le domandarono come andassero i rapporti coniugali fra la figlioletta e il marito, rispose: «a me è morto il coniuge, ma mia figlia non ce l’ha vivo affatto». Orbene queste risposte, per quanto non provochino il riso, ottengono il consenso. 21. E per questa ragione le abbiamo riferite, perché non si dica che abbiamo trascurato anche di questo genere quegli esempi che potrebbero pronunciarsi in un senso e nell’altro, ossia per ottenere il riso e l’approvazione. Giovanni Pardo, conversatore spiritoso non meno che colto fi losofo, era seduto nella sala del principe. Era al suo fianco un giureconsulto con un vestito di seta, con il volto atteggiato alla più profonda serietà, con gli occhi rivolti in terra. Dopo molto silenzio, attorniato da una corona di uomini non privi di spirito, con voce canora ed elevata di tono quanto più era possibile, cominciò a cantare, più che a parlare. Allora Pardo disse: «questo suono qui viene tratto quasi da un luogo concavo e vuoto». È difficile che un riso così forte abbia mai accompagnato un’altra facezia. 22. A Bernardo Vitale,388 uomo di molta esperienza e di carattere posato, il re Federico chiedeva quale fosse la ragione per cui nel mangiare un’alosa389 usasse gli occhiali. Rispose: «Non ti meravigli, caro re, del fatto che uso gli occhiali nel leggere le lettere degli amici, quando in questa lettura non incombe alcun pericolo, e ti meravigli invece se uso gli occhiali nel mangiare un pesce assai spinoso e pieno di punte così spesse e acute, in ognuna delle quali vi è quasi una spada che taglia la gola». Allora il ragazzo, un po’ impertinente, disse: «E che, o Vitale, usi forse queste tue lenti quando ti diverti con tua moglie?», «No – rispose 1283

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sitas?». «Quin, inquit, uxoris naso ea admoveo, quo mercimonium illi meum crassius vegetiusque appareat». Quid aut festivius aut in re licentiore venustius? 23. Prosequebatur quidam mirificis Gallos laudibus, summa celeritate Alpes Apenninumque transgressos paucissimis diebus, in Campaniam contendisse magnis pedestribus atque equestribus copiis; ibi homo, qui aegrius fortasse id ferret, dissimularet tamen, «at, inquit, multo id admirabilius Federicum, tam brevi, e rege remigem factum esse», siquidem spoliatus regno pauculas in triremes se se receperat, quibus post ad Ludovicum regem in Galliam est delatus. Iis in copiis manus quaedam fuit nec exigua nec male strenua, cuius insigne esset cochlea. Hac e manu cum fama esset non paucos Romae, tumulto exorto, caesos suoque sanguine Florae campum cruentasse, hic Chariteus, «quid nunc, inquit, dicent enniani isti: Cochleas herbigenas, domiportas, sanguine cassas?

24. Erat sermo porticu sub nostra de usu resinae vinaceae quodque ea summo studio conquireretur a mercatoribus. Erant qui dicerent Campaniam inopem eius esse, quod vina haberet et tenuiora et permultum acida. Idem tum Chariteus, quo solet tum suo illo lepore tum summa ingenii dexteritate, «si busta, inquit, Gallica perscrutari curae sit mercatoribus, nullam eius generis resinae regionem feraciorem hac invenerint». Ferdinandus rex aegerrime ferebat, ubi quos aut binos aut ternos vidisset deambulantes quique suas invicem res suaque consilia inter deambulandum conferrent; quod cum aliquando Pompa parasitaster deprehendisset, «vin, inquit, o rex, aut magnam tibi molestiam adimere aut non exiguum deambulationibus ex iis compendium comparare? Portorium iis constitue perinde ut e piscationibus mercimoniorumque invectionibus persolvendum. Mihi crede, dives inde vectigal exegeris». Idem rex commendabat novi portorii excogitatorem. Erat autem vectigal huiusmodi: stipendia qui de regio acciperent aerario, pro singulis centenis aureis quatuor annuos in aerarium ut referrent. Ad ea Ferrandus Gevara, qui tum aderat, eques maxime festivus et comis, «at ego, inquit,

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l’altro – anzi le avvicino al naso di mia moglie, perché il mio affare le appaia più grosso e più vegeto». Che c’è di più piacevole o di più gradevole, anche se in un argomento piuttosto licenzioso?» 23. Un tale esaltava i francesi con magnifiche lodi, poiché avevano attraversato con la massima celerità le Alpi e l’Appennino in pochissimi giorni ed avevano marciato fino in Campania con grandi milizie di fanteria e cavalleria; lì un uomo, che forse non riusciva a sopportare ciò, e tuttavia non voleva darlo ad intendere disse: «ma è molto più mirabile il fatto che Federico, in così poco tempo, da re sia diventato remigante», perché spogliato del regno si era rifugiato su alcune poche triremi, dalle quali poi fu trasportato in Francia presso il re Luigi.390 Fra quelle milizie vi era una schiera né insignificante né priva di coraggio, la cui insegna era una chiocciola. Poiché si diceva che non pochi di questa schiera a Roma, scoppiato un tumulto, furono trucidati e con il loro sangue si bagnò il Campo di Flora,391 allora Cariteo, citando quei famosi versi di Ennio, «E ora – disse – potranno recitare quei famosi versi di Ennio: Chiocciole nate sull’erba, con addosso la casa, ed esangui».392

24. Si discuteva sotto il nostro portico393 dell’utilità della resina dell’uva e del fatto che essa fosse molto richiesta dai mercanti. C’era chi diceva che la Campania non è povera, perché il vino che ha è piuttosto leggero e molto acido. Allora lo stesso Cariteo, con quella sua grazia abituale e con estrema bravura d’ingegno disse: «Se i mercanti avessero cura di scrutare i sepolcri dei Galli, non troverebbero alcun’altra regione più fertile di resina di questo genere».394 Il re Ferdinando riusciva a nascondere il suo disappunto quando vedeva la gente passeggiare a due a due o a tre a tre, e comunicarsi le proprie cose e darsi i consigli durante la passeggiata; e poiché una volta il parassita Pompa se ne accorse, disse: «O re, vuoi toglierti un grande fastidio oppure procacciarti un non esiguo profitto dalle loro passeggiate? Stabilisci una gabella per loro, come quella che deve essere pagata dai pescatori per il trasporto delle merci. Credimi, ne ricaverai una ricca entrata». Fu proprio il re ad elogiare chi aveva escogitato la nuova gabella. L’imposta consisteva in questo: chi riceveva uno stipendio dalle casse regie, doveva versare all’erario per ogni cento una moneta d’oro. Di fronte a questa proposta Fernando Gevara,395 che allora era presente, cavaliere assai spiritoso e gioviale disse: «Ma io, o re, per 1285

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o rex, quo apud te commendatior multo sim, id tibi consilii dederim, nobis omnibus, quos et pascis et vestis, ut et victum eripias et vestitum. Mihi crede, nullum sive mari sive terra nec maius nec utilius excogitari a quoquam hoc ipso vectigal poterit». 25. Est ridiculum et lepidum Valerii Martialis illud: Potor nobilis, Aule, lumine uno Luscus Phryx erat alteroque lippus. Huic dicit medicus, bibas caveto: Vinum si biberis, nihil videbis. Ridens Phryx oculo, valebis, inquit. Misceri sibi protinus deunces, Sed crebros iubet. Exitum requiris? Vinum Phryx, oculus bibit venenum.

26. Est et hoc iocosum ac suave: Raucae cortis aves et ova matrum Et flavas medio vapore Chias Et foetum querulae rudem capellae Nec iam frigoribus pares olivas Et canum gelidis holus pruinis De nostro tibi rure missa credis? O quam, Regule, diligenter erras! Nil nostri, nisi me, ferunt agelli. Quicquid villicus Umber aut colonus Aut Thusci tibi, Thusculi ve mittunt, Aut rus marmore tertio notatum Id tota mihi nascitur Subura.

27. Marinus Tomacellus Romae agebat, quo tempore inter Ferdinandum Aragonensem et Andegaviensem Ioannem de regno neapolitano erat certamen, quod totam in se Italiam converterat. Favebat partibus andegaviensibus Atrebas Cardinalis. Itaque nuntius allatus cum esset Ioannis copias fugatas, Atrebas Marino obviam factus, «quid vanitatis, inquit, per ora hominum sparsum audio? milites Gallos fugatos esse». Ad ea Marinus, «minime quidem fugatos, nam ne fugere possent, ad unum captos 1286

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essere molto più degno di lode presso di te, ti darei questo consiglio, che a tutti noi, cui tu dai da mangiare e da vestire, tolga il vitto e il vestiario. Credimi, nessuna imposta per terra o per mare potrà mai escogitarsi da parte di qualcuno più grossa e più utile». 25. Fa ridere anche quell’epigramma spiritoso di Valerio Marziale: Bevitore eccellente, Aulo, d’un occhio cieco era Frisso e cisposo nell’altro. Gli dice il medico, sta attento a bere: se berrai vino non vedrai mai più. Frisso ridendo disse addio all’occhio. Subito si fa mescer dei quartini, l’uno dopo l’altro. Come andò a finire? Vino frisso, veleno beve l’occhio.

26. Anche questo è scherzoso e piacevole: Volatili rauchi di cortile e uova di chioccia, fichi di Chio per poco caldo gialli, il rozzo parto della querula capretta, olive guaste per il freddo, legumi bianchi per le fredde brine credi mandate a te dai nostri campi? come ti sbagli a perfezione, Regolo. Solo me porta il campicello mio. Quanto il fattore o il contadin dell’Umbria ti mandano, o i toscani o i tuscolani, o il campo segnalato da marmi, tutto mi nasce in tutta la Suburra.396

27. Viveva a Roma Marino Tomacelli397 al tempo in cui tra Ferdinando d’Aragona e Giovanni d’Angiò c’era nel regno di Napoli una contesa398 che aveva attirato l’attenzione di tutta l’Italia. Il cardinale Atrebate sosteneva il partito degli Angiò. Orbene, giunta la notizia che le milizie di Giovanni erano state messe in fuga, Atrebate fattosi incontro a Marino disse: «Quale sciocchezza sento diffusa sulla bocca della gente? Che i soldati francesi siano stati messi in fuga». E Marino gli rispose: «no, 1287

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omnis esse», respondit. Tum Atrebas: «Tu quidem, Marine, versutior es quam pro brevitate corporis»; cui Marinus: «At tu quidem, o Atrebas, minus es multo et verus et probus quam pro proceritate ista tua». 28. Faustus, Lucii Syllae filius, compertum cum haberet sororem suam eodem tempore adulteris duobus dare operam, Fulvio uni, fullonis filio, alteri Pompeio, cui cognomen esset Maculae, eaque accusaretur a familiaribus, quod uno tempore duos haberet, Maculam et fullonem, amatores, tum ipse, quasi vix id crederet, «miror, inquit, sororem meam habere maculam, cum eadem fullonem habeat». Lanii cuiusdam Neapolitani, Ditis nomine, uxor erat de se ipsa liberalior quam pudicam deceret. Dicaculus quispiam, cum eam per iocum diceret carnem minoris vendere, «quid mirum, subdidit Franciscus Puccius, quae ditem lanium habeat coniugem?». 29. Ex iis igitur quae dicta sunt, ne nimii hac in parte videamur, facile quidem apparet risus unde oriri soleant: sive a nobis petantur sive ab aliis sive a rebus ipsis rerumque eventis. Quo autem secundum philosophorum sententiam apposite magis loquamur, sunt enim tria bonorum genera: aut ridentur in nobis corporis sive deformitates sive vitia aut animi aut quae externis sunt e rebus quaeque ab evento contingunt. Iocabatur persaepe in semet ipsum Federicus Urbinas, quod oculo altero captos esset, Nicolaus Picininus, quod pede uno minus validus; uterque belli dux, alter maxime strenuus, alter summe cautus; et hic et ille admodum facetus, Urbinas quidem ornatus literis multaque praeditus eruditione, Picininus vero ut qui ad grammaticum profectus nunquam fuerit. Ille igitur nunquam non in iocando elegans atque urbanus, hic, qui cuperet esse urbanus, cum tamen praestare vix id posset. 30. Dicentem audivi saepius Antonium Panhormitam nunquam se magis in initio deiectum animo, in exitu autem maiore cum hilaritate risisse quam cum obviam Nicolao factus illique ut duci fortissimo, ut Mediolanensis rei administratori, et assurrexisset summissius et de more etiam reverentius salutasset, illum igitur, ut qui et subblandiri Antonio cuperet et suaviore etiam sermone complecti, «dispeream, dixisse, o An-

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non sono stati messi in fuga; difatti perché non fuggissero, sono stati catturati ad uno ad uno». Allora Atrebate: «Tu, o Marino, sei veramente più furbo di quanto si possa immaginare dalla piccolezza della statura»; e a lui Marino: «Mentre tu, o Atrebate, sei molto meno leale e onesto di quanto si possa immaginare da codesta tua altezza». 28. Fausto, figlio di Lucio Silla,399 venuto a sapere che sua sorella nello stesso tempo teneva due amanti, uno Fulvio, figlio di un lavatore, l’altro Pompeo, soprannominato Macchia, poiché ella era accusata dai familiari di averne due contemporaneamente, Macchia e il Lavatore, allora, quasi non potesse crederci disse: «Mi meraviglio che mia sorella abbia una macchia, quando possiede un lavatore». Un macellaio Napoletano, di nome Ricco, aveva una moglie più generosa di se stessa di quanto convenisse ad una donna pudica. Poiché un motteggiatore un po’ impertinente diceva per scherzo che ella vendeva la carne a prezzo inferiore, Francesco Puccio intervenne dicendo: «E che c’è da meravigliarsi, dal momento che aveva per marito un macellaio ricco?» 29. Da quanto ho detto dunque, e non voglio parere eccessivo nel trattare questa parte, appare facilmente donde scaturiscono le risa: possono trarsi da noi stessi o dagli altri, o dalle cose stesse o dai casi che avvengono. Ma per parlare più opportunamente secondo il pensiero dei filosofi, vi sono tre generi di beni: in noi sono oggetto di riso le deformità o i vizi del corpo o dell’animo, oppure le cose che appartengono alla realtà esterna o che avvengono accidentalmente.400 Scherzava spesso su se stesso Federico d’Urbino, perché aveva un occhio offeso, Niccolò Piccinino401 perché era poco stabile su un piede; tutti e due condottieri militari, l’uno di eccezionale valore, l’altro di estrema scaltrezza; e l’uno e l’altro assai faceti, l’Urbinate invero ornato di cultura letteraria e provvisto di molta dottrina, mentre il Piccinino no, perché non era mai andato a scuola da un grammatico. Il primo, dunque, quando scherzava non mancava mai di essere elegante e fine, il secondo desiderava essere fine, ma non poteva farcela. 30. Ho udito spesso Antonio Panormita dire che mai gli era accaduto di essere dapprima più abbattuto, e di ridere alla fine con maggiore ilarità, di quando una volta si era imbattuto in Niccolò e lo aveva salutato con una certa riverenza, come si usa, trattandosi di un condottiero fortissimo, governatore dello stato milanese. Questi dunque, desiderando di lusingare Antonio e accoglierlo con parole gradevoli disse: «possa 1289

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toni, ni oculis me me captum velim, quoties te intueor», ad ea se quanquam consternatum dixisse: «Nam quem, o imperator eximie, quem nam, quaeso, tuarum rerum observantiorem me me uno aut inveneris aut facinora qui tua et vehementius admiretur et maioribus atque huberioribus prosequatur laudibus?», ibi tum illum, in risum conversum, statim subdidisse blandientem quidem, quamvis blandiri parum posset aut sciret, «quoties, inquit, te te ipsum considero tanta cognitione praeditum, tot tantisque animi bonis clarum atque illustrem, me autem contra meamque ignorantiam rursus reputo, odi te ut adversarium, veneror ut scientem». Conatus est vir, qui per omnem aetatem militiam exercuisset, velle esse urbanus: praestitit quod potuit, fortasse etiam plus quam cupiit, dum se se ignorantem professus, illum ut doctum et rerum multarum peritum pariter et admiratur et colit. In alio igitur homine haec ipsa, ut imprudentius dicta, iudicari stulta possent, quae, si mentem dicentis respicias, laudem non ei minorem afferunt quam qua ipse Antonium exornare contendebat. 31. Quocirca dicta quaedam, si imprudenter excidant, ut stulta et ridentur et condemnantur; sin simulanter, venusta habentur ac lepida. Interdum vero, perinde ut in Picinino, magis voluntas dicentis inspicienda est quam ea ipsa quae dicuntur. Secutus ego aliquando cum essem Alfonsum, Ferdinandi fi lium, sub cuius ac patris auspiciis Federicus exercitum ductabat ingressusque cum essem praetorium, in quo praefecti omnes consedissent, et assurrexit mihi Federicus et tacere omnes iussit, «en adest, inquiens, magister: videtis quantum inter utrumque intersit». Dubites tamen quae maior aut honoratio fuerit aut commendatio. Hic et prudens et sciens praestitit mihi non minus quam voluit; ille, quanquam ignorans, adnisus tamen praestitit forte in Antonium plus etiam quam studuit. 32. Dicta igitur pleraque imprudenter ubi exciderint, merito stulta sunt habenda; ubi vero simulata fuerint, et venusta et faceta; sed et temporis tamen et loci et rerum ipsarum, cum primis vero personae, ratio habenda est. Denique risus ipsi vel gestu excitantur vel dicto. Accedet autem gratiae plurimum dictis ipsis, ubi severitas quasi quaedam vultus dicenti affuerit; quod maxime exigitur in iis, quae spiculata sunt

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morire, o Antonio, se non voglio cecarmi gli occhi quando ti vedo»; e lui, quantunque costernato gli rispose: «E infatti, o gran generale, chi mai, ti prego, chi potresti trovare che rivolga maggiore attenzione, di quanto faccia io, alle tue imprese, o che ammiri le tue gesta con maggiore slancio e che le esalti con più grandi e più piene lodi?» L’altro allora, scoppiato a ridere, soggiunse subito, cercando di lusingare, sebbene non potesse o non sapesse ben farlo: «Ogni qual volta penso che tu sei provvisto di tanta sapienza, che sei famoso e illustre per tante e tali virtù d’animo, e rifletto invece sulla mia ignoranza, ti odio come un avversario, e ti venero come un saggio». L’uomo che per tutta la vita aveva esercitato l’arte militare, cercò di essere fine: offrì quel che poteva, forse anche di più di quel che desiderava, dichiarandosi ignorante, onorando e ammirando l’altro come dotto e fornito di grande scienza. Nel caso di un altro uomo queste stesse parole potrebbero giudicarsi stolte, perché dette con un po’ di sconsideratezza, mentre, se si guarda all’intenzione di chi le pronuncia, non gli recano una lode minore di quella con la quale egli stesso si sforzava di onorare Antonio. 31. Perché alcune espressioni, se sfuggono con un po’ di sconsideratezza, suscitano il riso e vengono riprovate come stolte; se invece son dette con simulazione, sono ritenute graziose e spiritose. Ma talora, come nel caso di Piccinino, bisogna considerare più l’intenzione di chi parla che l’espressione in se stessa. Una volta, quando ero al seguito di Alfonso figlio di Ferdinando, sotto i cui ordini, e di quelli del padre, Federico guidava l’esercito, una volta che entrai nel pretorio, dove erano seduti tutti i capi, Federico si levò verso di me e fece tacere tutti dicendo «ecco qui il maestro: vedete quanta differenza c’è tra l’uno e l’altro».402 Potresti dubitare tuttavia di quale fosse maggiore, l’atto di omaggio o l’elogio. Questi con piena consapevolezza mi offrì non meno di quanto volesse; quello invece, quantunque ignorante, sforzandosi tuttavia dimostrò forse nei confronti di Antonio anche di più di quanto intendeva fare. 32. Ordunque per lo più le parole, quando sfuggono inavvertitamente, sono considerate stolte; quando invece sono simulate, meritano di essere considerate graziose e facete; e tuttavia bisogna tener conto del tempo, del luogo e delle circostanze, ma in primo luogo della persona. Infine il riso stesso viene suscitato o dal gesto o dalla parola. Moltissima grazia si aggiungerà poi alle parole, quando chi le pronuncia manterrà quasi una certa severità nel volto; cosa che soprattutto si richiede in quel1291

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aculeosque infingunt. Nam dicacitatem illam scurrilem atque oscenam maxime alienam non a faceto solum, verum etiam ab urbanis et comibus esse volumus; nec tantum autem verbis, verum etiam a rerum significationibus abesse oscenitatem oportere Marcus Cicero ostendit, cum ait putare se facetias quidem in narrando consistere, dicacitatem vero in faciendo?

III LASCIVA DICTA NON DECERE FACETUM NEC CONTUMELIOSA. 1. Quoniam autem tum dicta tum ridicula ipsa aut lasciva sunt aut iucunda aut contumeliosa aut lenia, acerba ve, ita quidem tenendum censeo in convictibus congressionibus quotidianoque in sermone vix unquam principem virum ac graviorem gerentem personam decere lasciviam, quae tamen in homuntionibus ipsis humilique in loco constitutis commendari passim solita est, quippe quibus dignitas minime obstet aliqua nullusque aut respectus aut locus. At ioci hilares iucundi grati quique animum honeste recreent vel etiam sacerdotibus conveniunt, quod praedicatores usurpatissime in dicendo servant. Contumeliosa non carent intemperantia atque iniustitia adversanturque recreationi. Eiusdem naturae videntur esse aspera atque amara, quippe quae et inimicitias excitent et causas afferant civilibus contentionibus. Denique summo id studio evitandum, salsum ne dictum praeferamus amicitiae ac tranquillitati, ne ve pluris faciamus dictum quam amicum et notum hominem.

IV CUIUSMODI ESSE DEBEANT FABELLARUM EXPOSITIONES. 1. Fabellarum vero enarrationes universaque earum expositio, res ipsa, cuius gratia fabellae sunt inventae, hortari nos debet ut cultae sint elegantes venustae concinnae, verbis maxime accommodatis sententiisque cum primis lepidis ac conditis, tum voce ac vultu perquam convenientibus. Narrare solebat avia mea Leonarda, celebris memoriae matrona, Podagram aliquando sub mulierculae speciem peregrinantem 1292

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le parole che sono frecciate e infiggono punture. Infatti riteniamo che il motteggiare scurrile e osceno sia assolutamente alieno non solo dall’uomo faceto, ma anche dalle persone civili e cortesi; né soltanto dalle parole, ma anche dal significato deve essere lontana l’oscenità; lo dimostra Marco Cicerone, quando dice che a suo parere le facezie consistono in una narrazione, mentre la mordacità in un’azione.403

III LASCIVIE E VILLANIE NON SI ADATTANO ALL’UOMO FACETO. 1. Ma poiché le facezie sono o lascive o piacevoli o oltraggiose o miti oppure aspre, così penso si debba tener fermo, che nelle riunioni conviviali e nel colloquio quotidiano ad un principe e ad un personaggio importante non si conviene la lascivia, che tuttavia si accetta di solito in uomini comuni e appartenenti a umili condizioni, perché nel caso loro non fa ostacolo alcuna considerazione di decoro o il riguardo o l’opportunità. Ma gli scherzi ilari, piacevoli, gradevoli e capaci di ricreare lo spirito si convengono perfino ai sacerdoti, usanza assai seguita nel parlare dai predicatori. Le villanie non son prive di intemperanza e di ingiustizia e sono contrarie allo svago. Della stessa natura sembrano essere i motti aspri e amari, perché suscitano inimicizie e procurano occasioni per le contese civili. Infine con estremo impegno bisogna evitare di preferire un frizzo all’amicizia e alla tranquillità, per evitare di far più conto di un motto che d’un amico o di un conoscente.

IV REQUISITI DELLA NARRAZIONE. 1. La ragione stessa per cui sono state inventate le favole deve esortarci a far sì che la narrazione delle favole e tutta quanta la loro esposizione sia nel complesso elegante, spiritosa, aggraziata, condotta con parole estremamente adatte e con pensieri innanzitutto piacevoli ed ornati, e inoltre con voce ed espressione le più convenienti. Mia nonna Leonarda, celebre signora, soleva narrare che una volta la Gotta,404 girovagando 1293

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in rusculum divertisse eamque, ubi vidisset casulas inertissime aedificatas, obsitas araneis, squalidas situ atque illuvie marcidas, conversam ad pedissequas dixisse: «Apagete a me hospitium hoc sentum informe foetidum fumosum tetrum, apagete diversorium, in quo quid intueare praeter marras bidentes rastros agrestiumque ferramentorum diversa genera aut boum asinarumque stercoramenta sive suum excrementa ac capellarum? Itaque valere iubeo et villas et tegetes tam sordentis; urbs nobis et ocia sunt quaerenda, urbs, quae ocium foveat, ocia, quae urbana sint atque deliciosa»; illatamque ad primum urbis ingressum in fabri ferrarii officinam dixisse: «Nil mihi cum incude et malleo», in domum inde aliquanto ab ea remotiorem, cuius ante vestibulum choreae agitarentur atque convivia ibique interrogasse, cuius nam aedes eae essent, responsum illico ocii eas esse inhabitarique ab hominibus desidiosis somnoque et vino marcentibus, e vestigio itaque domum ingressam vultuque quam maxime hilari dixisse: «Haec domus, haec patria est»; cumque solicitudinem ac laborem ante fores videret satagentes, iussisse procul eas abigi et curas inde exulare, cum primisque sobrietatem atque abstinentiam. Haec avia ipsa nobis pueris referebat et vultu et voce et membrorum assensu, qualis fabulantem deceret ad bonos mores puerilem animum ad negocia laboresque invitandum. 2. Narrare quoque solita est Christiana mater, cum noctu adolescentulus lectitarem ad candelam, extitisse patrem familias, cui gemini essent filii, morientemque illum tum supellectilem multam illis reliquisse tum olei non mediocrem summam, quo nocturna uterentur ad opera tenebrasque evigilandas; alterum itaque ex iis in conviviis ac coenis oleum consumpsisse exque eo brevi in inopiam redactum, alterum vero dedisse operam literis, oleoque nocturnis in lectionibus usus quod esset, pervenisse ex eo ad summas divitias; coeptum igitur cantari per urbem de utroque huiuscemodi carmen: Hic oleum et se perdit, dum ad candelas coenitat. Ille arcam et se ditat, dum ad lucernas lectitat.

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sotto l’aspetto di una donnetta, aveva cercato alloggio in un piccolo podere e che, quando vide casupole edificate in maniera assai semplice, piene di ragnatele, squallide per la noncuranza e fradice per la pioggia, rivoltasi alle serve disse: «Allontanate da me questa dimora di spine, brutta, fetida, affumicata, tetra, allontanate questo alloggio, nel quale non si può vedere altro che marra, bidenti, rastrelli e vari generi di ferri di campagna o letame di buoi e di asini o escrementi di porci e di capre. Perciò addio case rustiche e stuoie tanto sozze. Dovremo cercare gli ozi della città, la città che favorisce l’ozio, l’ozio che è la delizia della città». Ed entrata nell’officina del fabbro ferraio, appena all’ingresso della città, disse: «Non ho nulla a che fare con l’incudine e il martello»; recatasi poi in una casa un po’ più distante, dinanzi al cui vestibolo si celebravano danze e conviti, e chiesto di chi fosse quell’abitazione, le fu risposto che era la casa dell’ozio e che vi abitavano uomini infingardi e immersi nel sonno e nel vizio. Entrata in casa, con volto assai giulivo disse subito: «Questa è la mia casa, questa è la mia patria»; e vedendo davanti alla porta l’Affanno e la Fatica darsi da fare, ordinò che andassero via, lontano, e che fossero bandite di lì le preoccupazioni, e prime fra tutte la sobrietà e l’astinenza. Questo racconto ci faceva, quando eravamo fanciulli, nostra nonna atteggiando il volto, la voce, il movimento delle braccia come si conveniva ad un novellatore che mirasse ad avviare l’animo del fanciullo ai buoni costumi, alle occupazioni e al lavoro. 2. Anche mia madre Cristiana soleva narrare, quando da ragazzo leggevo, di notte, al lume di candela, che vi era un padre di famiglia, il quale aveva due figli. Morendo, costui aveva lasciato loro molte suppellettili e una modesta quantità di olio, perché la utilizzassero nei lavori notturni e per illuminare l’oscurità. Uno di loro consumò l’olio in conviti e cene e perciò in breve si ridusse in povertà; l’altro si dedicò alle lettere e poiché aveva usato l’olio nelle letture notturne raggiunse un sommo grado di ricchezza; si cominciò pertanto nella città a cantare sul conto dei due una canzone come questa: Uno consuma l’olio e se stesso, cenando a lume di candela; l’altro arricchisce lo scrigno e se stesso, leggendo alla lucerna.

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3. Eiusmodi igitur fabellae, cum sint ad bonos mores institutae atque ad recreandos animos, et delectare debent et prodesse; proderunt autem, si ab auditoribus gratis animis acceptae fuerint; accipientur autem periucunde et grate, si enarratio ipsa ornata et comis fuerit, si oratio suavis et nitida, vultus autem gestusque dicentis rebus ipsis accommodatus.

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3. Storielle del genere, per essere composte al fine di educare ai buoni costumi e di ricreare lo spirito, devono dilettare e giovare; ma gioveranno, se riusciranno anche ad essere gradite agli ascoltatori; saranno accolte con molto piacere e gradimento, se la narrazione stessa sarà aggraziata e affabile, se la prosa sarà dolce e limpida, se ancora il volto e il gesto del narratore saranno conformi all’argomento.

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LIBER SEXTUS

I QUALIS ESSE DEBEAT VIR FACETUS. 1. Erit igitur facetus is, quem nunc instituimus, in iocando suavis et hilaris, vultu placido et ad refocillandum composito, in respondendo gratus ac concinnus, voce nec languida nec subrustica, virili tamen et laeta, in motu urbanus quique nec rus indicet nec nimias urbis delicias, a scurrilitate abhorrebit uti a scopulo, oscenitatem ad parasitos et mimos relegabit, salibus ita utetur ac mordacibus dictis ut, nisi provocatus ac lacessitus, nec remordeat nec revellicet; ita tamen ut nunquam ab honesto recedat ab eaque animi compositione, quae ingenui hominis est propria. 2. Fuit Antonius Panhormita admodum urbanus, Thomas vero Pontanus etiam salsus. Hic cum sensisset procaciori e dicto infixum sibi dentem, «ego mihi, inquit, vulnus obligabo, dum te interim petulantiae poeniteat tuae»; ille vero: «Quod os ipsum impure loquitur, id tutemet, ne aures ipsae audiant, obturato»: uterque et sapienter et pro dignitate, nec a faceti discessit officio. Erit igitur facetus vir sui compos dictorumque moderator quique ubique consideret sermonem suum ad recreationem spectare; et quamvis ipse et sciat et possit esse salsus ac mordax, tamen genus hoc sive dicacitatis sive aculeationis oratoribus relinquet quique defensitationibus dant operam salsique esse malunt quam faceti. Nam ab

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LIBRO SESTO

I PROFILO DELL’UOMO FACETO. 1. Ordunque quell’uomo faceto, che ora andiamo definendo, sarà gradevole e gaio nello scherzare, avrà il volto sereno e disposto a dar sollievo, sarà simpatico e garbato nel rispondere, con una voce né sdolcinata né rozza, ma virile e giuliva; nel muoversi sarà civile in modo da non tradire né rusticità campagnola né eccessiva raffinatezza cittadina, si terrà lontano dalla buffoneria come da uno scoglio, lascerà l’oscenità ai parassiti e ai mimi, userà le arguzie e le parole mordaci, in modo da non mordere o pizzicare se non per rispondere a chi lo provoca o lo stuzzica; in modo da non discostarsi mai dall’onestà e dalla compostezza dell’animo, che è propria di un uomo nobile. 2. Antonio Panormita era molto fine, ma Tommaso Pontano anche frizzante. Costui, essendosi sentito mordere da un’espressione piuttosto ardita disse: «Io mi legherò la ferita, perché tu ti penta della tua insolenza»; e quello: «Poiché è la bocca che parla in modo poco casto, tu otturala per evitare che le orecchie ascoltino»: tutti e due si comportarono in modo saggio e dignitoso e non deviarono dal compito dell’uomo faceto. L’uomo faceto sarà dunque padrone di sé e moderatore delle sue parole, tale da considerare in ogni occasione che il suo discorso riguarda la ricreazione; e per quanto egli sappia e possa essere frizzante e mordace, tuttavia lascerà questo genere di causticità o di punzecchiatura,405 come vogliamo chiamarlo, agli oratori e a coloro che si dedicano alle difese e che preferiscono essere frizzanti piuttosto che faceti. Perché sarà del 1299

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histrionicis mimicisque intemperamentis erit prorsus alienus, multo autem maxime parasiticis ab oscenitatibus et verborum et significationum. 3. Erit idem multum etiam comis, cum, ut initio diximus, comitas potissimum in fabellis versetur suavibusque in enarrationibus ac colloquiis; habebit peritiam multam, multam item memoriam tum eorum, qui faceti sunt habiti, tum facetiarum ipsarum, quarum relationes multum habent gratiae apud audientes: quibus servandis, delectu quoque adhibito, mediocritatem retinebit eam quae virtutem hanc, de qua sermo est, constituit. Quia vero nec semper dicta ipsa responsa ve risum movent, verum saepenumero approbationem eamque non nunquam cum admiratione, iccirco idem ipse abundare debet sententiis iisque gravioribus ac generosis itemque exemplis atque historiis, versibus itidem gravissimorum poetarum, quos subinde in medium proferet pro natura rerum, quae in sermone versantur. Quodque dictu quidem ridiculum videri potest, non erit ignarus etiam anilium fabellarum, quae pro loco quidem ac tempore et gratae sunt et audientiam sibi comparant, cum etiam animos ipsos auditorum sive fessos sive exatiatos denuo invitent atque ad audiendum alliciant. 4. Quocirca non in circulis tantum et coronis, sive consessionibus ac convictibus, verum etiam in concionibus cumque maioribus de rebus agitur, facetus vir id etiam praestabit, ut iucundis ac suavibus sive dictis sive sententiis proverbiisque sive etiam fabellis et astantes ad se audiendum trahat et urbane eos comiterque appellatos deliniat et, pene dixerim, lenocinetur suavioribus fabellarum explicationibus aut exemplorum adductione, quae cum primis gratae sint exhilarentque auditorium. Postremo autem sic habeto faceti hominis orationem ubique multum gratiae habere oportere, ut ne gravissimis quidem in rebus sui ipsius obliviscatur, sitque ita facetus, ut severitatis quoque meminerit, adeo autem severus, ut sciat laborum comitem esse debere quietem ac ludum aliquem, honestum tamen ac commendatione dignum.

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tutto alieno dalle intemperanze degli istrioni e dei mimi, e nel modo più assoluto dalle oscenità dei parassiti, fatte di parole o di gesticolazioni. 3. Sarà ancora molto affabilmente cortese, poiché, come abbiamo detto all’inizio, alle favole, alle narrazioni e ai colloqui piacevoli si adatta soprattutto l’affabilità; avrà molta esperienza, ed anche molta memoria e di quelle persone che sono ritenute facete, e delle facezie stesse, inquantoché a raccontarle si ottiene molto successo presso gli ascoltatori: serbando queste norme, usando anche la dovuta discrezione, conserverà quel giusto mezzo su cui si fonda la virtù nella quale consiste il sermo. Ma poiché né sempre i motti e le risposte muovono il riso, ma spesse volte muovono l’approvazione, talora unita all’ammirazione, perciò l’uomo faceto deve abbondare di sentenze e per giunta elevate e nobili, e così di esempi storici, di versi di poeti importanti, da poter mettere fuori a seconda dell’argomento della conversazione. E, ciò che può apparire ridicolo a dirsi, non sarà ignaro nemmeno delle favole proprie delle vecchiette, le quali, a tempo e luogo, riescono gradite e suscitano l’attenzione dell’uditorio, perché rinnovano l’interesse degli ascoltatori, quando sono stanchi o stufi, e li inducono all’ascolto. 4. Perciò non solo nei circoli e nei crocchi, oppure nelle adunanze e nei conviti, ma anche nelle conferenze quando si tratta di argomenti di maggiore importanza, l’uomo faceto farà in modo da trarre gli astanti ad ascoltarlo, con la piacevolezza dei suoi motti, dei suoi pensieri, dei suoi proverbi e anche delle sue favolette, e da cattivarseli rivolgendosi loro con finezza e giovialità, e direi quasi in modo da blandirli con l’esposizione, che riesce ancora più piacevole, di favolette o con l’aggiunta di esempi, che più di ogni altra cosa riescono graditi e fanno rallegrare l’uditorio. Infine sappi che il linguaggio dell’uomo faceto in ogni occasione è necessario che abbia molta piacevolezza, sì ch’egli non si dimentichi di sé perfino nelle cose più gravi, e sia così faceto da ricordarsi anche della serietà, e d’altra parte così serio da sapere che compagni della fatica debbono essere il riposo e il gioco, un gioco tuttavia onesto e degno di essere apprezzato.

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II QUALIA FACETORUM DICTA RESPONSAQUE ESSE DEBEANT. 1. Qualia vero facetorum tum dicta tum responsa esse debeant, ex iis paucis quae subiicimus, facile apparebit. Franciscus Aelius; non in studiis modo his nostris summa cum celebritate versatus verum etiam civilibus in actionibus ac negociis, cum videret sacerdotem excomptum admodum atque expansiore capillo soleisque incedentem editioribus, tunicis quoque laxioribus atque in plurimos sinus complicatis pallioque inundante, conversus ipse ad eos qui secum constiterant, «an, inquit, ignoratis quam exculti essent pensiles Semiramidis reginae hortuli?». Idem cum vidisset gallos milites calciamentis uti pedum, taurinorum in vestigiorum speciem, «ubi, inquit, horum sunt taurorum cornua?». Cumque gallicus quispiam ex auditoribus, et ipse quoque facetus, subdidisset: «In manibus hi gerunt cornua», quod telum scilicet e manibus nunquam mitterent, ibi Aelius: «Horum igitur veruta halabardaeque sunt cyathi». 2. Extat eius sive dictum sive responsum catum admodum: funem qui ducerent, eos prae se quidem oculos, pone vero vestigia movere. Petrus Summontius, de quo supra mentionem fecimus, nam praeter summam literarum cognitionem summe etiam iucundus est et comis, cum animadvertisset matronam et forma et cultu praecellentem, oculis tamen lascivioribus et pene amatores vorantibus, «quid, inquit, segnes non et nos ad amplexum eius componimus?» Est et illud eiusdem maxime facetum; nam vocatus ad coenam a sacerdote, cum vinarius promptor nusquam compareret, «quid moramur, inquit, quin cantemus illi mortualia?». Idem cum intelligeret cives non paucos occupatos in laudandis pomeriis neapolitanis, quae a Federico rege promovebantur, in mediis laudationibus interstrepitans, «ve, inquit, pomariis». Quod quidem secutum est: plerique enim horti vastitatem acceperunt propter muros fossasque circumductas. 3. Actius Syncerus, rari vir ingenii magnaeque nobilitatis et ipse quoque admodum facetus, cum in conspectu Federici regis esset inter physicos quaestio, quid praecipue conferret oculorum perspicuitati, aliique foeniculi afflatum dicerent, alii vitri usum aliique item aliud, «at ego, inquit, invidiam aio». Obstupuerunt hoc dicto adeo medici, ut ab audi-

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II CARATTERE DEI MOTTI E DELLE RISPOSTE. 1. Come debbano essere i motti e le risposte degli uomini faceti, apparirà facilmente dalle poche cose che esporremo. Francesco Elio,406 versato non solo in questi nostri studi, nei quali ha riscosso grandissima rinomanza, ma anche nelle azioni civili e nelle attività pratiche, vedendo un sacerdote molto attillato e con i capelli piuttosto lunghi, che camminava con scarpe un po’ troppo alte, con vestiti piuttosto larghi pieni di fittissime pieghe ed un mantello ondeggiante, rivoltosi a quelli che si erano fermati con lui, disse: «non sapete com’erano ben coltivati i giardini pensili della regina Semiramide?»407 Lo stesso Elio, vedendo alcuni soldati francesi usare calzari tali da ricalcare le peste dei tori, disse: «e dove sono le corna di questi tori?» E siccome un francese, di quelli che stavano a sentire, faceto anche lui, soggiunse: «Le corna, loro le hanno in mano», evidentemente perché non lasciavano mai le spade, allora Elio: «quindi giavellotti e alabarde sono le loro coppe».408 2. Si ricorda un suo motto o meglio una sua sentenza assai arguta: che coloro che comandano muovono davanti gli occhi, e indietro i piedi. Pietro Summonte, del quale abbiamo parlato prima, poiché oltre ad avere un’immensa cultura letteraria è anche scherzoso e gioviale, accortosi che una signora, assai notevole per bellezza ed eleganza, aveva gli occhi troppo voluttuosi e quasi pronti a divorare gli amanti, disse: «perché, pigri che siamo, non ci prepariamo anche noi ai suoi amplessi?» Anche quest’altra è molto scherzosa: invitato a cena da un sacerdote, poiché il distributore del vino non si faceva vedere: «perché – disse – tardiamo a cantargli l’inno funebre?» Ancora lui, osservando che non pochi cittadini si affannavano ad esaltare i pomerii409 napoletani, che dal re Federico venivano fatti allargare, facendo sentire la sua voce in mezzo alle lodi disse: «poveri pomari!» E infatti questo si avverò: la maggior parte dei giardini subirono una devastazione a causa delle mura e dei fossati tracciati intorno. 3. Azio Sincero,410 uomo di raro ingegno e di grande nobiltà, anch’egli molto faceto, poiché alla presenza del re Federico era sorta una disputa fra i fisici, su quale mezzo contribuisse di più alla perspicacia della vista, e alcuni dicevano l’esalazione del finocchio, altri l’uso delle lenti e altri altro ancora, «ma io – disse – affermo che sia l’invidia». A tal punto 1303

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toribus derisui haberentur. Tum ipse: «An non invidia maiora ac pleniora omnia videri facit? Quid autem oculis magis praesentaneum quam ut vis ipsa aspiciendi maior reddatur atque vegetior?»; protulitque statini ovidianos illos versus: Fertilior seges est alienis semper in agris Vicinumque pecus grandius huber habet.

Idem interrogatus ab amico, quid de Marini Minervae negociis haberet certi, respondit: «Quod apud forum cum uxore litigaret»; cumque ille: «Quid, malum, ex te audio, cum uxore hic ut litiget, qui eam in Brutiis multos ante annos viduam reliquerit?», tum Actius rursum: «Quae nam, malum, ignorantia ista est tua, qui nescias Marinum, repudiata priore, nuper uxorem duxisse podagram?» Movit repente, qui adessent, omnium risum, cum pro lecto ad forum alluserit, ubi perpetua est litium agitatio, pro uxore ad podagram, quae illi usque in cubili adesset et comes et socia, nec quiescere eum pateretur. 4. Poetus Fundanus, quem audeo dicere Musarum in hortulis adolescere, cum audiret familiarem hominem de pedum dolore heiulatus mittere nec posse illos compescere, accurrit ad clamores, «ecquid, inquiens, alii de itinere queruntur assiduo laboribusque quam plurimis, de perpetua negociorum inquietudine alii, tu, pro deum atque hominum fidem, de quiete quereris atque ocio? Quod si tibi molestum est, exurge age ac peregre proficiscere». Quid quaeris? de lepore dolor in risum conversus est. 5. Audio Romanum Thamyram – Romanum dico et patriam linguam et disciplinas artisque Romanas referentem – audio, inquam, Thamyram, cum esset ab Antonio Cicuro, noto ac benevolente homine, qui blaesus tamen esset, salvere iussus illeque blaesuriens pro Thamyra «salve, dixisset, o Tumule», respondisse – cum tamen et ipse blaesum pariter se se effingeret – «et tu haue, o Cucule». Blaesa illa salutatio fuit admodum ridicula, multo tamen ridiculosior gestus ipse, blaesionem effingens. Etenim meus hic Thamyras, quanquam pudentissimus, tamen solenni die celeberrima in pompa animadversum cum esset Pontificem Maximum

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rimasero stupefatti i medici a questa risposta, che furono oggetto di derisione da parte di chi stava ad ascoltare. Allora lui: «Come? L’invidia non fa vedere tutto più grande e più grosso? Quale mezzo dunque potrebbe essere più efficace per la vista, di quello per cui la stessa facoltà di vedere divenisse maggiore e più vigorosa?»; e subito aggiunse quei versi di Ovidio: Più fertile è sempre la messe nei campi altrui, e il gregge del vicino ha più abbondanza di latte.411

Interrogato da un amico, su che cosa sapesse intorno agli affari di Marino Minerva,412 rispose: «che vicino al foro litigava con la moglie»; e poiché quello: «che ti sento dire, diamine, come potrebbe litigare costui con la moglie, quando nel Bruzio l’ha lasciata vedova tanti anni fa?», Azio di rimando: «quale ignoranza è la tua, diamine! Non sai che Marino, ripudiata la prima moglie, ora ha preso in moglie la gotta?» Suscitò subito il riso di tutti gli astanti, avendo al posto del letto alluso scherzosamente al foro, dove in continuazione si trattano le liti, al posto della moglie alla podagra, che gli era sempre vicina in camera come compagna, e non gli permetteva di stare in pace. 4. Peto Fondano,413 che a quanto sento dire cresce nei giardini delle Muse, sentendo che uno dei servitori emetteva alti lamenti per il dolor di piedi, e non riusciva a contenerli, accorse alle grida dicendo: «E che, alcuni si lamentano di camminare continuamente e della troppa fatica, altri dell’eterna inquietudine provenienti dalle faccende pratiche, tu, in fede degli dei e degli uomini, ti lamenti della quiete e dell’ozio? Che se ti riesce molesto, orsù, alzati e vattene fuori». Vuoi saperne di più? In seguito alla facezia, il dolore si mutò in riso. 5. Sento dire che il romano Tamira414 – dico romano perché parlava la lingua patria e rivelava cultura e costumi romani – sento dire, dicevo, che Tamira, salutato da Antonio Cicuro, uomo ben conosciuto e dabbene, ma che era balbuziente, avendogli quegli risposto balbettando, invece di Tamira: «salve, o Tumolo», rispose – fingendo di essere allo stesso modo balbuziente – «salute anche a te, o Cuculo». Quel saluto balbettante fu molto ridicolo, e tuttavia fu molto più ridicolo il vezzo per imitare il balbettamento. E infatti questo mio Tamira, sebbene fosse molto verecondo, tuttavia in una solennità, durante un’affollatissima 1305

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coniecisse in puellam oculos, quae tenerrimae esset aetatis ac formae, mirarenturque qui in id intenti essent tum petulantes Pontificis Summi oculos tum iocos puellae mutuos, «desinile, inquit, obsecro, mirari Papae pupam hanc placere cupere; scit enim piper ab eo sub peplo ferri, nec ignorat Papa pupae penum piperi conservando comparatum». Nescias quid facetius. 6. Et morum suavitate et studiis his nostris abunde notus est praestantissimis quibusque viris Suardinus Bergomas; is domi cum haberet convivas iussissetque de more, exemptis dapibus, bellaria afferri, tum e convivis aliquis, «cui bellum, inquit – ad bellaria alludens – facturi sumus?»; tum ipse, «vinariae, inquit, cellae»; «bene habet, respondit, etenim sitimus»; «agite, pueri, tum ipse, Setinum approperate». Rursus ille: «Bello ex hoc quae spolia nobis futura?»; ad ea Suardinus: «Spoletina, pueri, in aciem proferte». Tertium ille, cum phaleratos commendaret pomoram canistros, «ne parcite, pocillatores, ne ve falernis abstinete»; cumque quartum ille subdidisset: «En munera laetitiamque die», tum ipse, sublato manu utraque charcesio, canere coepit: Cecubum prelo domitum Caleno Sit meae lenis requies senectae.

7. Hacque ratione a modestissimis viris comiter traducta est coena. Docuit igitur Suardinus qui ve ioci, quae ve dicta facetum deceant in coena praesertim, ut quae et iucunda et comis esse debeat ingenuisque convivis digna, non tamen hac ut in parte ferculorum ratio tradatur, sed iocorum tantum ac facetiarum. Celebrabantur a Ferdinando rege Hippolytae nurus atque Alfonsi filii nuptiae apparatu splendidissimo. Erat dies decursionis hastatae flagrabantque sub sole cuncta. Convenerant autem mortales omnis generis ad spectandum; cumque plurimi ludorum essent laudatores vel plerique omnes admiratores potius, in media lau-

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processione, perché ci si era accorti che il Pontefice Massimo aveva lo sguardo rivolto verso una ragazza, assai tenera di età e di bellezza, e coloro che erano fissi a guardare la cosa si meravigliavano di vedere non solo gli occhi del Pontefice guardare sfacciatamente ma anche lo sguardo della ragazza corrispondere loro maliziosamente, disse: «cessate, vi prego di meravigliarvi che al Papa piaccia concupire questa pupa; lei sa infatti che lui sotto il peplo porta il pepe, e il Papa non ignora che il granaio della pupa è stato apparecchiato per conservare il pepe». Non si potrebbe immaginare una battuta più faceta. 6. Per la piacevolezza del carattere e per l’eccellenza di questi nostri studi è abbondantemente noto a ciascuno il bergamasco Suardino;415 egli, avendo a casa dei convitati e avendo ordinato, come si fa di solito, alla fine del pranzo ordinò di portare a tavola i bellaria,416 allora uno dei convitati disse: «a chi dobbiamo fare la guerra?», scherzando sulla parola «bellaria»; allora lui: «alla cantina», disse; «va benissimo – rispose l’altro – giacché tutti abbiamo sete; orsù allora, ragazzi avvicinatevi a quel di Sezze». E di nuovo lui: «Quali saranno le spoglie che riporteremo da questa guerra?» Al che Suardino rispose: «quelle di Spoleto, ragazzi, movete all’attacco». La terza volta, elogiando i canestri di frutta decorati: «non risparmiate, o bevitori, non rinunciate al Falerno»; e soggiungendo la quarta volta «Ecco le offerte e le letizie del giorno»,417 egli stesso, sollevando con l’una e l’altra mano la tazza, cominciò a recitare: Il Cecubo premuto dal torchio di Cales sia il sollievo della mia vecchiaia.418

7. In questo modo fu condotta allegramente la cena da parte di uomini moderatissimi. Insegnò dunque Suardino quali sono gli scherzi, quali i modi che si addicono ad un uomo faceto specialmente durante la cena, perché essa deve essere piacevole e gradevole e degna della nobiltà dei convitati; ciò non significa tuttavia che in questa parte della trattazione si debba esporre la regola delle portate, ma solo quella degli scherzi e delle facezie. Venivano celebrate con splendido sfarzo dal re Ferdinando le nozze della nuora Ippolita con il figlio Alfonso. Era il giorno della scorreria dei lancieri e tutto bruciava sotto il sole. Era accorsa gente di ogni genere allo spettacolo, e poiché erano moltissimi a lodare i giochi, anzi quasi tutti ne erano ammirati, in mezzo alla folla che approvava e 1307

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dantium frequentia et plausu exclamavit Teutonicus: «O valeant ludi, in quibus nemo bibit!» Nesciam an alias tanta in multitudine dictum ullum tanto cum risu acceptum fuerit, praesertim ex ore germanici hominis. 8. Philopomenes, Acheorum dux, praecipue inter graecos clarus, erat diversurus ad hospitium veteris amici. Quo cognito, iussit hospes apparari quae necessaria essent alia ab uxore, dum interim ipse obsonium appararet. Haec inter Philopomenes solus, ut ipsa res ferebat, ad hospitium properat; quem venientem hospita, dum ut solum ut deformem ut qui nihil ornatus haberet eximii, arbitratur mulier ex administris esse aliquem, qui herum praeveniret; cum esset de adventu Philopomenis mirifice solicita, etiam blandienter rogavit eum, se uti adiutaret ad dominum comiter accipiendum. Tum Philopomenes, ut erat perhumanus, cognito mulieris errore, confestim, securi accepta, e cuneo coepit ligna findere coquendam ad coenam. Hospes interim domum regressus, cum animadverteret Philopomenem findendis lignis malleo incumbere, «pro Iupiter, inquit, quid hoc, Philopomene? pro pudor deorum atque hominum, quid agis, dux maxime?» vultumque de dolore simul ac pudore demisit. Ad ea Philopomenes, maxima cum iucunditate, «pro deformitate, inquit, oris, totius corporis poenas luo ». Voluit ipse met praebere de se et risum hospiti et sibi ipsi ridiculus esse. Res sane festivo ac faceto nomine digna quaeque, quo rarior, eo etiam fuerit facetior. 9. Alfonsus rex, quem liberalissimum aetas nostra experta est, cum homini de se bene merito de manu praesentem pecuniam tribuisset, «amabo, inquit, hoc age, ne thesaurarius hoc resciscat meus»; cumque ille subdidisset: «Tu ne, o rex, quaestorem vereris?», «vereor, inquit, ne hac e causa de coenis mihi altero tantum demat». Studebat Alfonsus liberalitatem eam occultam esse; cognito denique accipientis ingenio, fecit se deridiculum, dum, ne illum parvifaceret, vult videri. Eundem in Philopomenem cum iocaretur aliquando Titus Flaminius deformitati corporis eius illudens diceretque vultu quam maxime iocoso et hilari: «Quid hoc, Philopomene? cum pulchras manus, crura etiam perquam pulchra habeas, quod ventrem ipse non habeas?», ad ea Philipomenes eadem cum hilaritate et vultu: «Quid, o Romanorum imperator eximie,

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applaudiva, un tedesco esclamò: «Al diavolo i giochi nei quali nessuno beve». Non saprei se in altra occasione un motto pronunciato i mezzo a tanta folla, specie dalla bocca di un germanico, sia stato mai accolto con tante risate. 8. Filopomene, capo degli Achei, famosissimo fra i Greci,419 andava a fare una visita ad un vecchio amico presso la sua abitazione. Venutolo a sapere, l’ospite ordinò alla moglie di preparare le altre cose necessarie, mentre lui intanto preparava il companatico. Durante questi preparativi Filopomene si avvicina da solo all’abitazione, come comportava la circostanza; vedendolo venire la padrona di casa, poiché era solo e brutto, senza alcun segno particolare di distinzione, crede, la buona donna, che si tratti di un servo mandato avanti dal padrone; essendo molto ansiosa dell’arrivo di Filopomene, gli chiese anche con belle maniere di aiutarlo ad accogliere il signore con cortesia. Allora Filopomene, gentilissimo com’era, riconosciuto l’errore della donna, presa una scure a cuneo, cominciò subito a spaccare la legna per cuocere la cena. Intanto l’ospite, tornato a casa, vedendo Filopomene curvo spaccare la legna con la mazza: «Per Giove – disse – che significa, Filopomene? O vergogna degli dei e degli uomini, che fai, grande condottiero?», e abbassò il volto per il dispiacere e insieme per la vergogna. A queste parole Filopomene, con grande ilarità rispose: «per la bruttezza del volto, faccio pagare la pena a tutto il corpo». Volle così far ridere l’ospite di sé e scherzare su se stesso. Battuta degna d’un uomo di spirito e faceto, e tanto più faceta quanto più rara. 9. Il re Alfonso, di cui l’età nostra ha conosciuto l’estrema liberalità, avendo dato personalmente di mano sua del danaro ad un uomo che aveva acquistato dei meriti nei suoi confronti, disse: «ti prego, fa che non lo venga a sapere il mio tesoriere»; e avendo lui replicato: «E tu, o re, temi un tesoriere?», disse: «temo che per questa ragione mi tolga dalle cene altrettanto». Cercava Alfonso di far rimanere nascosta quella sua liberalità; ma conosciuta l’intelligenza di chi riceveva, fece ridere di sé, volendo far vedere di non tenerlo in poco conto. Poiché verso quello stesso Filopomene una volta Tito Flaminio scherzava ironizzando sulla bruttezza fisica, e diceva con il volto più che mai scherzoso e gioviale «Come mai, Filopomene, avendo delle belle mani, delle gambe anche assai belle, non hai il ventre?», Filopomene con la medesima giovialità e il medesimo atteggiamento del volto rispose a queste parole: «E che dire, 1309

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cum egregios pedites, strenuos maxime equites habeas, quod pecuniam minime habeas?» Nam et Flaminius persaepe inopia rei pecuniariae laborabat, quemadmodum Philopomenes exiguitate ventris ac medii corporis gracilitate. 10. Facetissime etiam Themistocles adversus filium, matris favore atque auctoritate quaedam exposcentem; nam ad matrem eius conversus, «Graecis quidem, o uxor, inquit, Athenienses imperitant, ipse ego Atheniensibus, tu autem mihi, tibi vero ipsi filius praescribit». Non probabat Cneus Pompeius in Tusculano aedificatam a Lucullo villam, quod ea aestivae quidem inhabitationi accommodatissima cum esset, hibernae tamen parum omnino prospectum fuisset; ad quae iucundissime magnaque cum festivitate Lucullus, «num tibi, inquit, Pompei, quam grues, quam ciconiae minus habere cordis videor, qui nesciam pro temporibus habitationem mutare?» Et illud quoque ab eodem concinniter ac iocose. Cum enim dispensator rei familiaris ab eo accusaretur, quod parciorem parasset coenam et ille respondisset, «quod solus quidem coenaturus esses, non putabam lautiore apparatu opus esse», ibi ipse vultu quam maxime festivo: «An ignorabas apud Lucullum ipsum coenaturum esse Lucullum?» 11. Facetum admodum etiam Catonis illud, quanquam dicacitate non caret. Nam maritimum civis quispiam fundum cum vendidisset, quod esset ventri ac luxui summum in modum deditus, hoc cognito, quod eius ingenium Catoni perspectum esset, statim inquit: «Per Herculem, nimis miror hominem hunc quam mare plus etiam pollere»; videlicet quod ille per luxum atque gulam absorpsisset, quod mare fluctibus vix allideret. Est eiusdem Catonis dictum; quanquam sapiens, tamen quod etiam facetum dicas. Filius enim eius, matre mortua, cum mulierculam ad patris cubiculum saepicule itantem torvius aliquando inspexisset idque Catoni esset significatum, confestim alteram despondit uxorem; quod intelligens filius patrem precabatur ignosceret sibi, siquid per incuriam peccasset. Tum ipse, «nihil, respondit, eiusmodi est in causa, nisi quod tui similes patriae plures relinquere cives cupiam». Illud vero Marci Ciceronis et acutum admodum et facetum. Quidam enim cum ei dixisset: «Tu ne istud aetatis virgunculam duxisti?», «cras, respondit, mulier erit».

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o eccelso generale Romano, del fatto che con tutti quei fanti eccellenti che hai, con tutti quei cavalieri dei più valorosi, non hai il becco d’un quattrino?» E infatti Flaminio spesso per mancanza di danaro si trovava in difficoltà, come Filopomene per l’esilità del ventre e la gracilità della parte centrale del corpo. 10. Con molto spirito anche Temistocle rispose al figlio,420 che chiedeva alcune cose con il favore e l’appoggio della madre; infatti rivoltosi alla madre, «Gli Ateniesi, moglie mia – disse – comandano sui Greci, io sugli Ateniesi, tu su di me, ma tu a tua volta ricevi ordini da tuo figlio». Gneo Pompeo non approvava che nel territorio di Tuscolo Lucullo avesse fatto edificare una villa,421 perché mentre era assai adatta ad un soggiorno estivo, troppo poco tuttavia si era pensato al soggiorno invernale; a questa osservazione Lucullo rispose con molto spirito e con grande giovialità: «dunque ti sembra che io abbia minore accortezza delle gru e delle cicogne, che non sappia cambiare abitazione a seconda del tempo?» Anche questa battuta fu fatta da lui con garbo e umorismo. Poiché l’economo, accusato di aver preparato una cena troppo frugale gli rispose «giacché dovevi cenare da solo, non pensavo che fosse necessario apparecchiare più sontuosamente”, lui con il volto oltremodo gioviale: «non sai che da Lucullo cenerà Lucullo?» 11. È molto faceta anche quella battuta di Catone,422 sebbene non sia priva di causticità. Un cittadino aveva venduto un fondo sul mare perché era dedito alla gola e ad un lusso straordinario; saputo questo, poiché Catone ben conosceva la sua indole, disse subito: «Per Ercole, mi meraviglio assai che quest’uomo sia più potente ancora del mare»; intendendo dire evidentemente che era stato capace di ingoiare attraverso il lusso e la gola quel che il mare con i suoi flutti riusciva appena a percuotere. Vi è un altro motto dello stesso Catone, che si potrebbe dire anche faceto, sebbene sia saggio. Suo figlio, morta la madre, poiché una volta aveva scorto una donnina andare spessino in camera di suo padre, e ciò fu riferito a Catone, subito costui sposò un’altra donna; vedendo ciò il figlio pregava il padre che lo perdonasse, se aveva commesso un errore per sconsideratezza. Allora lui: «Non c’entra – rispose – nulla di tutto questo, se non che desidero lasciare alla patria più cittadini simili a te». Ma è molto acuta e faceta la battuta di Marco Cicerone.423 Ad uno che gli diceva: «E tu hai sposato una verginella di questa età?”, rispose: «Domani sarà donna». 1311

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12. Iulia, Augusti filia, Marci Agrippae uxor, cum intellexisset suis e consciis mirari quosdam, quod liberi eius tam essent Agrippae similes, «desinant, inquit, mirari, quando ipsa nunquam nisi navi plena vectorem tollo». Hoc, quanquam facete responsum, significatione tamen oscenitatis minime caret. Emerat Alcibiades canem rarae magnitudinis non exiguo pretio, nec multis post diebus et caudam illi mutilari et per urbem liberum abire iussit. Hoc viso, cum omnes rem ut ineptam mirarentur ac stolidam, alii deridere Alcibiadem, qui id fecisset, alii etiam ut stultum eum animique parum omnino compositi accusare, esse e familiaribus atque amicis qui obiurgarent; quo cognito, Alcibiades in risum versus, «at mihi, inquit, hoc facto perbelle perque opportune consultum est: cum enim scirem atheniensem populum assiduo de me rebusque obloqui de meis ac maledicere, commento hoc, dum ineptam hanc materiam ridiculamque ei maledicendi trado, impudentioribus a maledictis, quibus me quotidie discerpunt, et illum averti et me etiam liberavi». 13. Atheniensis Anitus, vir et dives et splendidus, paraverat amicis convivium rogaveratque Alcibiadem, eorum uti numero se adiungeret; cumque recusasset, domum se Alcibiades recepit, vino ibi liberalius indulgens; atque, hoc facto, cum servis profectus atque in Aniti coenaculum irrumpens, iussit abaci ornatum dimidiatum ipsum quidem a servis rapi, in quo permulta essent ex auro atque argento vascula, atque ad se impetu eodem ferri. Quod factum a conviviis acriter cum incesseretur, ibi Anitus, «quin, inquit, Alcibiades, toto cum de hoc abaco pro arbitrio ei facere ius esset, liberalissime mecum egit, quod dimidium mihi eius integrum reliquerit». Publius Syrus, cuius multae extant praeclaraeque sententiae, interrogatus quid podager quispiam ad solem constitutus ageret, perquam belle respondit ac perargute: «Aquam calfacit». Idem quoque interrogatus, quod nam ipse molestum esse ocium duceret, «pedum podagricorum», respondit. 14. Delectant autem haec tum dicta tum responsa, nam et lacessunt neminem et oscenitate carent, nec indigna sunt ingenuo homine sive dicendo sive audiendo, nec in referendis fabellis non venustant narrationem ipsam universamque explicationem. Gonnella, sive fabulator facetissimus sive ioculator maxime comis, interrogatus aliquando a Nicolao

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12. Giulia, figlia di Augusto, moglie di Marco Agrippa, avendo inteso che alcuni dei suoi familiari si meravigliavano come mai i suoi figli fossero così simili ad Agrippa disse: «La finiscano di meravigliarsi dal momento che io non allontano mai un passeggero se non quando la nave è piena».424 Questa risposta, quantunque faceta, tuttavia per il suo significato non è affatto priva di oscenità. Alcibiade aveva comprato un cane di rara grandezza a non poco prezzo e dopo non molti giorni gli fece tagliare la coda e lo fece andare libero per la città. Visto ciò, mentre tutti si meravigliavano della cosa come insulsa e sciocca, alcuni deridevano Alcibiade per quel che aveva fatto, altri lo accusavano di essere stolto e di avere la mente poco equilibrata, vi era fra i familiari e gli amici chi lo biasimava; saputo ciò Alcibiade, scoppiando in una risata, disse: «Ma io quello che ho fatto l’ho bene e opportunamente vagliato: sapendo infatti che il popolo ateniese sparla continuamente di me e delle mie cose e ne dice male, con questa invenzione, mentre gli offro un argomento così insulso e ridicolo per dir male di me, ho distolto lui e ho liberato me stesso dalle più impudenti maldicenze con le quali giornalmente mi straziano».425 13. L’ateniese Anito, uomo ricco e splendido, aveva preparato agli amici un convito e aveva chiesto ad Alcibiade che si aggiungesse al loro gruppo; Alcibiade rifiutò e poi si ritirò a casa, e lì si abbandonò al vino con una certa larghezza; ciò fatto, uscito con i servi e irrompendo nella sala da pranzo di Anito, ordinò ai servi di portar via metà delle suppellettili della tavola, fra cui vi erano vasetti d’oro e d’argento, e di portarle a casa sua con la stessa veemenza. Poiché dai convitati questa azione veniva duramente deplorata, allora Anito: «Anzi – disse – giacché era suo diritto fare quel che voleva di questa tavola, Alcibiade si è comportato con me in modo assai generoso, lasciandomene intatta la metà». Publio Siro,426 di cui rimangono molti motti famosi, interrogato su che cosa facesse un gottoso accomodandosi al sole, rispose in modo assai squisito ed arguto: «Riscalda l’acqua». Egli ancora, interrogato su quale fosse l’ozio fastidioso, rispose: «quello dei piedi gottosi». 14. Orbene, queste battute e queste risposte dilettano, perché non stuzzicano nessuno e son prive di oscenità, non sono indegne di un uomo onorato, sia che le pronunci sia che le ascolti, e inoltre quando si narrano le storielle aggraziano il racconto e tutta quanta l’esposizione. Gonnella,427 sia che vogliamo considerarlo un novellatore spiritosissimo 1313

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Marchione Ferrariensi, quarum nam sive artium sive facultatum in urbe Ferraria maior esset numerus, confestim: «Quis id dubitet medicorum maiorem esse numerum?» Tum Nicolaus: «O inanem hominem et urbis huius artium artificumque ignorantissimum, quippe cum vix duo tres ve ad summum Ferraria medicos habeat, sive cives sive externos». Ad ea Gonnella: «O principem maioribus rebus deditum, qui ob eas urbem suam suosque cives ignoret penitissime». Tum Nicolaus: «Quid, si hoc falsum, quod ipse asseris?» Tum Gonnella: «Quid, si ego verus?» Ibi sive poena sive mulcta ex compacto ei, qui vanus inventus esset, constituta. Igitur insequenti die sub auroram Gonnella pro templi astans foribus, obvoluto pellibus ore ac gutture, interrogantibus qui in templum ingrediebantur, quo nam morbo laboraret, respondebat singulis: «Dentium dolore», singulis etiam remedium aliquod dolori praebentibus, quorum ipse et nomina conscribebat et remedia. Atque hac ratione urbem perrectans perscrutandoque remedia, singulos, qui obviam fierent, percontatus, supra trecentos homines medicinam dolori tradentes notavit in tabella. Quo facto, regiam ingressus, qua hora Nicolaus prandebat, se se obtulit involutis et ore et cervicibus, ingentem dolorem simulans. Nicolaus, astu viri parum cognito, cum intelligeret illum haud bene valere a dentibus, «hoc, statim inquit, remedium, Gonnella, adhibe: laudabis Nicolaum, e vestigio enim sanus eris». His Gonnella acceptis, domum regressus tabulam instruit, remedia illa remediorumque auctores continentem, ac primo loco Marchionem ascribit, inde alios atque alios, delectu adhibito. Tertio die quasi sanus atque a dolore liber, nudata gula ac cervicibus, principem adit, docet quae conquisita et comprobata fuerint, mulctam ab ilio expostulat atque in ius illum se se adacturum minatur atque his dictis tabulam Marchioni legendam exponit. Ibi Marchio primum inter medicos locum se se obtinere conspicatus, inde alios atque alios primates viros, a risu continere nequiens seque victum confessus, pecunia illi ut solveretur imperavit. 15. Princeps idem Nicolaus equi Gonnellae huius caudam, quo in loco stabulabatur, clanculum novacula abscindi iussit. Ille, hoc percepto, asellis, qui eodem in stabulo nutriebantur, particulam labiorum superio-

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o un buffone estremamente faceto, interrogato una volta da Niccolò marchese di Ferrara, su quale fosse la più numerosa fra le arti e le facoltà nella città di Ferrara, subito rispose: «Chi potrebbe dubitare che il numero maggiore è quello dei medici?» Allora Niccolò: «O uomo sciocco, che non sai assolutamente nulla delle arti e dei maestri di questa città, poiché appena due o tre in tutto sono i medici che ha Ferrara, tra cittadini e stranieri». A queste parole Gonnella: «O principe dedito a impegni maggiori, che a causa di essi non conosce la sua città e i suoi cittadini, assolutamente». Allora Nicolò: «Come può essere, se è falso quello che asserisci?» Allora Gonnella: «Come può essere, se io dico il vero?» Allora di comune accordo si stabilì una pena o una multa per chi fosse risultato bugiardo. Dunque il giorno seguente sul far dell’aurora Gonnella, in piedi davanti alle porte del tempio, con il viso e la gola ravvolti in pelli, a coloro che entravano nel tempio e gli chiedevano che malattia avesse, rispondeva a ciascuno: «Dolor di denti», e quando gli indicavano anche un rimedio, di ciascuno egli scriveva il nome e i rimedi. E in questo modo strascinandosi per tutta la città e ricercando i rimedi, interrogando a uno a uno tutti coloro che incontrava, annotò sulla tavoletta oltre trecento uomini che indicavano una medicina per il dolore. Fatto questo, entrato nella reggia, nell’ora in cui Niccolò pranzava, gli si fece incontro con la testa e il viso avvolti, simulando un grande dolore. Niccolò, senza accorgersi dell’astuzia dell’uomo, vedendo che egli non stava bene per i denti: «Questo – disse subito – è il rimedio, Gonnella, adoperalo: loderai Niccolò e immediatamente sarai sano». Accolti questi consigli Gonnella, tornato a casa, prepara la tavola che contiene il nome dei rimedi e gli autori di essi, e in primo luogo annovera il Marchese, poi altri e altri ancora, operando una scelta. Il terzo giorno, quasi guarito e libero dal dolore, con la gola e il collo scoperti, si presenta dal Principe, gli riferisce le notizie raccolte e gli chiede il pagamento del pegno e lo minaccia di tirarlo in giudizio, e detto questo fa leggere al Marchese l’elenco. Allora il Marchese, dapprima scorgendo il suo nome inserito nella lista dei medici, poi quello di altri e altri ancora, tutti nobili, non potendo trattenersi dal ridere e confessando di aver perduto, ordinò che lo si pagasse. 15. Lo stesso principe Niccolò diede ordine di tagliare di nascosto con un rasoio la coda al cavallo di questo stesso Gonnella, nella stalla dove stava. Quello, accortosi della cosa, rase il pelo in una piccola parte del labbro superiore agli asinelli che venivano allevati nella stessa stalla. Ac1315

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rum abrasit. Delatus apud principem non excusavit factum, rogavit tantummodo damnum uti aestimaretur ipsiusque ad conspectum deligati ducerentur, quo aestimatio ipsa aequius fieri posset. Primo itaque loco reste ducebatur Gonnellae equus, caudae vix frustum motitans; subsequebantur aselli suo ordine illigati. Qui ut ante illius conspectum stetere resque ipsa oculis omnium exposita est atque animadversa, nec princeps ipse nec quisquam ex iis, qui aderant, fuit quin risu dirumperetur. Tum Gonnella: «Nec tu, princeps, in solio constitutus nec quisquam e iudicibus, quamvis gravis ac severus, ad hoc ipsum spectaculum tenere risum potuit: tu ne asinos, tu ne bestiolas has a risu continueris, dum equum tam ipsis familiarem decaudatum contuentur?» Quo audito, iteratus est risus Gonnellaque ipse absolutus commendatusque ut facetorum omnium princeps suavissimarumque facetiarum artifex suavissimus. 16. Idem tamen ipse aliquando irrisus ac delusus dicitur etiam a mulierculis: ut cum, iter faciens per Umbriam perque agrum treviensem, animadvertisset puellulam prandentem in via residentemque in lapide ac, despoliato porro, complicantem spolia illa in epistolae speciem complicataque in os ingerentem dixissetque, ac si puellam rideret: «Ad quem nam, o scitula, literas istas complicatas mittis?», tum illa, irrisione viri cognita, exhilarato vultu, «obsignandas eas anui, respondit, mitto», dextera etiam anum significans. Cumque haud multo post puellae alteri obviam factus esset, quae capellas pastum duceret, dixissetque tentabundus: «En tibi, o bellula, argenteolum, petroselinum mihi si denudaveris», accepit illa conditionem atque argenteum statimque, apprehensa capella annicula caudaque eius sublevata, «en, inquit, vide atque inspecta, quod optasti, holusculum». Huius tamen generis multa sunt qui arbitrentur a Gonnella ipso efficta, quo ridiculum se se quacunque ratione faceret audientibus. 17. Mariotta, Antonii Rebatti mercatoris florentini uxor, nec insulsa quidem matrona nec parum comis, virum cum intelligeret noctu per urbem vagari solicitandis scortillis, intranti ei fores domesticas astitit in summis scalis, accensa facula nudatisque pudendis; qua ille re inspecta, cum inclamasset: «Quid, o quid, Mariotta, hac opus est facula? quid nudatione?», tum illa: «Quo plane inspiceres, an hic tantum tibi insit quantum satis esset, ne alibi quaeritando labores». Sed genera haec, sive lu-

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cusato presso il principe non negò il fatto, soltanto chiese che si facesse la stima del danno e che fossero condotti al suo cospetto gli asini scelti per tale ufficio, affinché la stima potesse avvenire con maggiore equità. Perciò in primo luogo fu condotto con la corda il cavallo di Gonnella, che moveva appena il suo mozzicone di coda; seguivano gli asinelli legati e messi in fi la. Non appena furono al cospetto del principe, e tutta la questione fu esposta e chiarita agli occhi di tutti, non ci fu nessuno fra i presenti che non scoppiasse a ridere. Allora Gonnella: «Né tu, o principe che siedi sul trono, né qualcuno dei giudici, per quanto serio ed austero, ha potuto trattenersi dal ridere alla vista di questo spettacolo: e tu pensi di riuscire a trattenere dal ridere gli asinelli, queste bestiole, nel vedere un cavallo, a loro così affine, privato della coda?» Udito ciò si ripeté la risata e Gonnella fu prosciolto ed elogiato come il primo fra tutti gli uomini faceti, piacevolissimo inventore di piacevolissime facezie. 16. Tuttavia si dice che egli fosse talora deriso e preso in giro anche dalle donnicciole: come quando, mentre compiva un viaggio attraverso l’Umbria e il territorio di Trevi, vista una fanciulla che pranzava sulla strada e sedeva su una pietra e che, sbucciando un porro, ne piegava la buccia a mo’ di una lettera e così piegata la portava in bocca, le disse, come a far ridere la fanciulla: «A chi, bella, mandi questa lettera così piegata?» Quella, accortasi che l’uomo la prendeva in giro, rispose: «la mando a farla sigillare dalla nonna», indicando l’ano con la destra.428 E non molto tempo dopo, incontrata un’altra fanciulla che portava le caprette al pascolo, le disse per tentarla: «Ecco, bellina, una moneta d’argento, se mi scoprirai il tuo prezzemolino»; quella accettò la condizione e la moneta e subito, presa una capretta di un anno e sollevatale la coda: «Ecco – disse – guarda e osserva la verduretta che desideravi». Si ritiene che siano molte le facezie del genere, inventate dallo stesso Gonnella per rendersi buffo e far ridere, in qualunque modo, gli ascoltatori. 17. Mariotta, moglie del mercante fiorentino Antonio Rebatto, era una signora non sciocca e abbastanza scherzosa: accortasi che il marito di notte andava in giro per la città stuzzicando le sgualdrinelle, quando lui entrò nella porta di casa si mise in piedi in cima alle scale con una fiaccola accesa e il grembo nudo. A questa vista lui esclamò: E che, che bisogno c’è, Mariotta, della fiaccola? Che bisogno c’è di denudarsi?» Allora la donna: «Perché tu veda chiaramente, se qui c’è tanto quanto ti basta, e non ti dia pena a cercarlo altrove». Ma questi generi di burla o 1317

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dendi si ve iocandi, non carent turpitudine et ingenuo parum digna sunt homine, risum tamen movent dum in circulis referuntur. Quale illud est rusticani cuiusdam, non insulsi tamen homuntionis; cum enim equo ferretur ad nundinas strigoso ac perlongo intrantemque eum in oppidum vir iocabundus sciscitaretur, quanti venderet panni decempedam, ipseque eo dicto petitum se intelligeret, statim ex equo descendit sublataque equi cauda podicem illius ostendens, «ingredere, inquit, o amice, tabernam, neque enim illiberaliter habeberis emesque mercatu bono». 18. Quales igitur faceti esse debeant, qualia etiam facetorum tum dicta tum responsa, quae allata sunt a nobis exempla decere abunde possunt. Quoniam autem ipsis e facetiis ac ioculationibus recreatio quaeritur ac remissio a laboribus molestiisque, ne huic quoque rei parte ex aliqua desimus, lectio ipsa relatioque tum lepidorum versuum tum dialogorum plurimum quoque conferet ad refocillandos animos, quin historiarum quoque quae avertant auditores, dum attente quidem audiuntur, a curis cogitationibusque gravioribus. Scribendarum fabellarum Luciano, Ioanni item Boccatio an aliud fuit consilium quam ut lectores pariter atque auditores delectarent? Idem et Poggio plurimis colligendis quae urbane dicta essent cumque festivitate et risu itaque de iis libros etiam fecit Latine scriptos. 19. Vitae quoque praestantissimorum virorum, tum graecis tum latinis ab auctoribus mandatae literarum monumentis, continent tum salsa tum venusta, quae ad relaxationem conferant, quae versata in circulis interque conviventes habeant demulcere curas et tanquam lenocinari molestiis nostris. Nam praeter ea, quae ad hilaritudinem spectent ac iocum, multa iis continentur lectionibus, quae aliis atque aliis rationibus animos demulceant inducantque eam, quam ipsi quaerimus, relaxationem. Cuius rei paucis his admonuisse satis fuerit. 20. Illud vero minime omittendum, quod ad relaxationem audientiamque retinendam non parum sibi et ornatus et adiumenti facetus vir comparabit recitandis iis sive dictis sive responsis sive fabellis, quas ipse ab aliis acceperit. Ac licet ea ipsa, cum dicerentur, essent sive salsa et aculeata nimis sive oscena et spurca, poterit tamen referre cum modestia; quo efficietur, viciis ut iis careant, qualia nunc ipsi referimus. Fuit e senatoribus Petri, Aragoniae regis, Queraldus quidam, tum ore foedo

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di scherzi non sono privi di turpitudine e sono poco adatti ad un uomo onorato, e tuttavia muovono il riso quando vengono riferiti in società. Come quel motto di un contadino, un ometto tuttavia non sciocco; mentre cavalcava per andare al mercato su un cavallo smunto e lungo lungo, all’entrata della città un uomo per scherzare gli chiese a quanto vendesse dieci piedi di panno, e voleva intendere con quelle parole di essere stato assalito. L’altro scese a terra e sollevata la coda del cavallo, mostrando il suo ano disse: «Entra, amico, nella taverna, ché non sarai trattato senza generosità e farai acquisti a buon mercato». 18. Gli esempi da noi riportati possono sufficientemente dimostrare come debbano essere gli uomini faceti, come debbano essere i motti e le risposte degli uomini faceti. Ma poiché dalle facezie e dalle buffonerie si cerca la ricreazione e il rilassamento dalle fatiche e dai fastidi, per evitare, anche su questo versante della trattazione, di venire meno in qualche parte, diremo che la lettura e la recitazione di versi spiritosi e di dialoghi contribuisce moltissimo alla ricreazione degli animi; e vi contribuirono anche le letture storiche, capaci di distrarre gli ascoltatori, quando vengano attentamente ascoltate, dalle sofferenze e da più gravi pensieri. Luciano429 nello scrivere dialoghi, e così Giovanni Boccaccio, quale altra intenzione avevano se non quella di dilettare insieme lettori e ascoltatori? E ancora Poggio, nel raccogliere i motti pronunciati con arguzia, con festività e riso; perciò compose anche dei libri di facezie scritti in latino. 19. Anche le vite di uomini illustri, affidate ad opere letterarie da autori greci e latini, contengono motti ora piccanti ora spiritosi, che contribuiscono a far rilassare, che circolano in società e fra i commensali hanno la capacità di alleviare le pene e quasi consolarci delle noie che abbiamo. Infatti, oltre a quei motti che mirano all’allegria e allo scherzo, in quelle letture sono contenuti molti detti, che in modi diversissimi dilettano l’animo e infondono quella distensione, che è quella che cerchiamo. E basterà aver ricordato in poche parole questo genere di scritti. 20. Ma non bisogna trascurare questo, che per ottenere la distensione e dilettare l’uditorio l’uomo faceto non acquisterà poco pregio e favore riferendo battute, risposte e storielle, quelle che egli stesso ha ascoltato dagli altri. E sebbene esse, quando venivano pronunciate, fossero troppo piccanti e pungenti oppure oscene e sozze, potrà tuttavia riferirle con moderatezza; avverrà così che saranno prive di quei difetti che ora riportiamo. Fra i senatori di Pietro, re d’Aragona, vi era un certo Queraldo,430 1319

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tum reliquo corpore parum composito, tamen qui summa comitate esset praeditus maximisque in negociis exercitatus. Is missus aliquando ad regem Africae, fuit ab illo in coenam adhibitus, quam nostrum in morem rex ipse apparari iussit editioribus in scannis; Afri enim in solo super tapetis discumbunt. Coenitaverunt complures simul. Rex, qui et ipse comis esset et iocandi studiosus, iussit clam ossa colligi omnia eaque ad pedes Queraldi, illo nesciente, coniici. Finita igitur coena, cum, aulae magistri iussu, mensae essent sublatae appareretque ossium cumulus, tum quispiam a rege submissus, «quid hic, inquit, ossium video? lupus profecto hic coenitavit, non homo». Tum Queraldus ad regem conversus, «mihi, inquit, o rex, cum lupis fuit in coena negocium, quando luporum est et carnem et ossa simul abrodere. Quod comessatores isti tui fecere; ego vero, ut homo ut conviva comis, carnes absumpsi, ossa in humum abieci, in canum pastum atque oblectamentum». Haec igitur dictio, ut mordax, tum pupugit, at relatio, ut iucunda, nunc delectat. 21. Idem Queraldus, quo regem delectaret, adhibitus ab illo in cubiculum, in quo constrata essent omnia serico atque exasperatis acu purpuris nullusque relictus esset locus in quo sine nota posset inspui, fieretque illi proximus regiis e famulis quispiam ore foedo atque impuro, e vestigio excreabundus os illius sputo inspurcavit, qui, sublata statim voce, regem appellavit. Hoc cognito, Queraldus, «ego, inquit, iucundissime rex, apparatus tui nitorem admiratus, ne aliqua illum parte contaminarem, nullum cum alium, praeter illius os, immundum relictum locum atque spurcosum cernerem, in illum excreatum profudi, quasi a te ob id servatum, quo nitor tibi tuus salvus esset». Actio quidem ipsa sordida tunc fuit et contumeliosa, at relatio perbella. In eadem legatione quidam e regis aula factus ei obviam, in deformitatem eius illatus, «quid, inquit, Petrus rex portenti ad nos misit?», ad ea ipse confestim, «sciebat, inquit, Petrus ad quem me mitteret»; nam et rex ille deformior erat. 22. Haec ipsa et dictio et responsio habent in dicendo spicula, at in referendo salem ac ioculationem propter promptitudinem respondendi ac maledicti reiectionem tantopere inexpectatam. Parasito cuidam apposita cum esset in mensa vulva suilla deridiculi gratia, tum ille, sublatis pudi-

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brutto di faccia e poco ben formato nel resto del corpo, e che pure era dotato di estrema giovialità ed esperto nei più importanti affari. Inviato una volta presso il re dell’Africa, fu da lui tenuto a cena, e lo stesso re fece preparare la cena su sedie piuttosto alte, secondo la nostra usanza, perché gli africani sogliono adagiarsi per terra sui tappeti. Vi erano insieme molti convitati. Il re, che era anch’egli gioviale e disposto allo scherzo, ordinò di raccogliere di nascosto le ossa e di gettarle ai piedi di Queraldo senza che egli se ne accorgesse. Finita dunque la cena, quando per ordine del maestro di sala le mense furono tolte e venne fuori il mucchio di ossa, allora un tale dietro istigazione del re disse: «Che quantità di ossa vedo mai? Si vede che qui ha cenato un lupo, non un uomo». Allora Queraldo, rivolgendosi al re: «Io – disse – ho avuto a che fare con dei lupi durante la cena, perché è proprio dei lupi rosicchiare insieme carne ed ossa. Questo hanno fatto i tuoi commensali: ma io, da uomo, da convitato cortese quale sono, ho preso la carne e ho buttato a terra le ossa, per il pasto e il piacere dei cani». Questo detto, per essere mordace, allora punse, ma il racconto, per il fatto di essere piacevole, ora diletta. 21. Lo stesso Queraldo, per far divertire il re, invitato nella sua camera, nella quale tutto era coperto di seta e di porpora sbalzata con lavoro d’ago, e non era rimasto alcun luogo dove si potesse sputare senza recare oltraggio, come gli si avvicinò uno dei servi del re, brutto e sozzo di faccia, subito espettorando gli imbrattò la faccia con uno sputo, e quello subito, a voce alta, invocò il re. Visto ciò, Queraldo disse: «Io, graziosissimo re, ammirando lo splendore del tuo arredamento, per non sciuparlo in alcuna sua parte, e vedendo che nessun altro luogo, all’infuori della sua faccia era rimasto di immondo e di sporco, lanciai lo sputo su di lui, credendo che tu lo avessi appositamente serbato, perché il tuo splendore ti rimanesse intatto». L’azione certo in se stessa fu ignobile, ma il racconto assai gradevole. Nella stessa ambasceria uno della corte reale, fattoglisi incontro per colpire la sua bruttezza disse: «Che cosa mostruosa ci ha mandato Pietro?» E lui subito: «Sapeva Pietro a chi mi mandava». Infatti quel re era piuttosto brutto anche lui. 22. Una battuta come questa e la relativa risposta hanno delle punte quando vengono pronunciate, ma quando vengono riferite hanno dello spirito e un che di scherzoso per la prontezza della risposta e per la restituzione inaspettata dell’offesa. Ad un parassita era stata portata sulla mensa, per prenderlo in giro, una vulva di scrofa; lui, sollevato il vestito 1321

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bunda e corporis parte vestibus, nudato bacillo, illum in quadram iniecit; cumque esset inclamatum a comessoribus, immurmuravit inquiens talis carnes cultrum talem exigere. Quod quidem actu foedum, oscenum responsu, at relatu, pro loco tamen atque auditoribus, non iniucundum. In hoc autem ipso iocandi genere comis est admodum ac periucundus A. Colotius noster, tum propter insitam ei a natura perraram quandam in dicendo hilaritatem tum propter egregiam literarum peritiam rerumque multarum usum. Quo fit, ut in explicandis fabellis, in epigrammatis comicorumque poetarum dictis referendis ac lusibus, mirifice delectet. Quibus in rebus cum primis habenda est pudoris ratio limitesque ipsi verecundiae aut parum aut nihil prorsus transgrediendi. Locus tamen et tempus et auditorum personae non nunquam paulo licentius indulgere solent iis qui verba faciunt. 23. Matrona Mediolanensis, e familia pervetusta et nobili, quaeque aliquando cum amatoribus lusisset, fuerat a sacerdote solicitata, qui e Fratrum Minorum esset ordine. Ea coram solicitanti in hanc sententiam respondisse traditur: se non posse non multum illi quidem debere ex eo, quod amaretur; coeterum aegre se illud ferre, quod ab eo eius aetatis esse iudicaretur, cum non esset, in qua quod reliquum esset, ut reliquiosum quidem ac male olidum Fraterculorum tunicis sudore ac paedore infectis subiiceretur. Quod responsum per urbem cum percrebuisset ipsaque a gravibus quibusdam viris ac sibi perquam familiaribus interrogata, serenitate quadam oris rem omnem confessa esset, licentior illa festivaque explicatio visa est non solum non ademisse aliquid pudori, verum addidisse multum comitati atque inter notos et amicos gratiae. 24. Galeatius Pandonus, Ioannis Andegaviensis partes secutus, cum aliis non paucis in carcere ac squalore complures annos Ferdinando a rege est habitus; coeteri in vinculis assiduo maledicere lamentari moerore confici, ipse contra iocari ridere paedorem in delicias verbis convertere, nihil illo iucundius esse, denique eam ob rem in pugillatum descendere. Quod Ferdinando renuntiatum cum esset, liberari eum e carceribus statim iussit liberatumque honesto salario est prosecutus. Ille ad mortem usque Ferdinandi sic vixit, ut quae plurima in carcere teterrime passus

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dalla parte vergognosa del corpo, scappucciata la verga, la infi lò nel pezzo di carne; e poiché i convitati si misero a gridare, rispose loro borbottando che tale carne richiedeva un tale coltello. Questa è una sconcezza per quanto riguarda l’atto, un’oscenità per quanto riguarda la risposta, ma a raccontarsi, tenuto conto del luogo e degli ascoltatori, non è spiacevole. In questo genere di facezie è molto spiritoso e divertente il nostro Antonio Colocci sia per una rarissima dote infusa in lui dalla natura, quella di essere brioso nel parlare, sia per l’eccellente perizia letteraria e l’esperienza molteplice. Perciò avviene che nel narrare le storielle, nel riferire epigrammi, motti e scherzi di poeti comici riesce particolarmente gradito. In queste cose in primo luogo va tenuto conto del pudore e bisogna che i limiti della decenza vengano o appena appena trasgrediti, o non vengano trasgrediti affatto. Talvolta tuttavia il luogo, il tempo e la persona degli ascoltatori concedono di solito un po’ più di licenza a chi pronuncia i motti. 23. Una signora di Milano, di famiglia molto antica e nobile e che qualche volta si era divertita con gli amanti, era stata molestata da un sacerdote, dell’ordine dei frati minori. Si dice che ella rispondesse in questi termini a colui che la molestava: che non poteva non sentirsi molto debitrice verso di lui dal momento che riceveva il suo amore; ma che si dispiaceva di essere da lui ritenuta di un’età (mentre non lo era), nella quale quel che fosse rimasto, come un rimasuglio puzzolente, dovesse essere coperto dalla tunica macchiata di sudore e di sudiciume dei fraticelli. Questa risposta corse per la città e alla domanda di alcuni uomini importanti suoi intimi amici, ella confessò tutto con volto sereno; il racconto piuttosto libero e piacevole che ella fece sembrò non solo che non sottraesse alcunché al pudore, ma che aggiungesse molto alla giovialità e alla simpatia dei conoscenti e degli amici. 24. Galeazzo Pandono, che aveva seguito il partito di Giovanni d’Angiò, con non pochi altri fu tenuto in un sordido carcere per molti anni dal re Ferdinando; e mentre gli altri in catene continuamente lanciavano maledizioni, si lamentavano e si lasciavano sopraffare dalla tristezza, egli scherzava, rideva, trasformava con i motti lo squallore in divertimento, non vi era nessuno più piacevole di lui, e infine per questa ragione finiva per fare a pugni. Quando ciò fu riferito a Ferdinando, questi ordinò che fosse subito liberato dal carcere, e dopo averlo fatto liberare lo dotò di una dignitosa indennità. Quello visse fino alla morte di Ferdinando, 1323

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esset, ea omnia inter enumerandum in risum converteret ac iocum. Cum igitur quae ad facetudinem spectent quaeque ad facetum instituendum a nobis explicata sint, reliquum est uti pauca quaedam de ironicis dicamus, ne pars haec tanquam inculta a nobis relictaque videatur.

III DE IRONICIS. 1. Et Aristoteles, virtutum moralium disputator solertissimus, et graeci scriptores plerique omnes tradunt Socratem fuisse ironicum, quodque dissimulantia eiusmodi a modestia proficisceretur, inde effectum est, ut genus quoddam dissimulationis sit ad virtutem referendum, quando eius, qui ea utitur, nequaquam illud est aut consilium aut finis, quo aut fallat ipse quidem nugetur ve aut lucrum inde sibi comparet, verum ut ostentationem defugiat tumoremque vitet, ab insolentia vero sic recedat, ut intra modestiae ac verecundiae fines potius diversetur. De eo enim, in quo quis praestat, cum demit sibi particulam vel de se ita quidem loquitur, ut videri nolit aut insolescere ex eo aut non existimare tantum se profecisse quantum aliorum fortasse sit iudicium, utrumque profecto modestiae est, non tergiversationis aut fraudis; qua tamen in re medium quoque retinendum est. Nam velle id, quod inest, nimium attenuare, id finitimum est inficiationi. 2. Vehementior enim extenuatio non minus fortasse in ostentationem intendit quam arrogatio illa insolens ac vanitatis socia. De cuius principiis, quia multa iam tradita sunt a nobis, reliquum est de hac ipsa ironia, quae virtus est et a multis socratica est agnominata, quae necessaria visa sunt uti praecipiamus. Agnominabimus itaque libenter socraticam sive dissimulationem sive ironiam, quo notius appareat alia dissimulationis genera turpia esse quaeque condemnentur digna, sicuti iam docuimus, cum in pluris eam distribuimus partes, hoc vero ipsum genus et honestum esse et ad virtutem referendum.

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trasformando in riso e scherzo, quando le raccontava, tutte le moltissime e terribili sofferenze che aveva subito in carcere. Avendo ora noi esposto tutto ciò che riguarda l’arte della facezie e la formazione dell’uomo faceto, rimane da dire qualcosa sull’ironia, perché non sembri trascurata questa parte della trattazione.

III L’IRONIA. 1. Sia Aristotele, il più attento trattatista delle virtù morali, sia la maggior parte degli scrittori greci riferiscono che Socrate usava l’ironia,431 e poiché tale dissimulazione aveva il suo fondamento nella moderazione, è accaduto che un certo genere di dissimulazione venga riportato alla virtù, dal momento che l’intenzione e il fine di chi l’adopera non è assolutamente quello di ingannare o di celiare oppure di procacciarsi del guadagno, ma quello di rifuggire dall’ostentazione, di evitare l’esagerazione, e di allontanarsi invece dall’arroganza in modo tale da rimanere piuttosto entro i confini della moderazione e della discrezione. Quando infatti uno, a proposito di ciò in cui eccelle, o si sottrae una piccola parte del merito che ha, o parla di sé in modo tale da non voler sembrare di insuperbirsene, oppure di non ritenere che la sua superiorità sia tanta, quanta forse gli altri stimano che sia, tutte e due le azioni sono certamente frutto di moderazione, non di ambiguità o di malizia; e tuttavia anche in questo bisogna mantenere il giusto mezzo. Infatti voler minimizzare troppo un merito reale è cosa molto simile all’ipocrisia.432 2. Un ridimensionamento troppo accentuato, infatti, non mira forse all’ostentazione meno che quella superbia arrogante che è compagna della vanità. Su questi princìpi è stata già ampia la nostra trattazione; rimane da impartire le nozioni necessarie relativamente a questa ironia, che è una virtù e da molti è stata chiamata «socratica».433 La chiameremo dunque volentieri ironia o dissimulazione socratica, perché sia più chiaro che altri generi di dissimulazione sono turpi e degni di condanna, come già abbiamo mostrato quando abbiamo fatto le varie distinzioni, mentre questo genere è onesto e deve essere riportato nell’ambito della virtù.

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IV DEFINITIO. 1. Quo igitur Socratica haec, quae et qualis sit, magis appareat, eam sic terminabimus, quaedam ut sit mediocritas pro loco quidem ac tempore proque personae dignitate dissimulandi ea, quae nobis insunt et in quibus praestamus, sine ostentatione et fraude ac sine lucro. Nam nec Socraticus hic dissimulator pecuniae inhiat ac lucris nec ut demittendo seque et sua altius efferat ncque ut inaniter mentiatur aut decipiat. Eritque elevatio ac demissio ipsa sic modesta et prudens, ut neque quod inest prorsus inficiatur, perinde ut nihil externum affingit exornat ve se se iis quae sua non sunt, utque ab ingenuitate nullo modo recedat, sed in ea ipsa dissimulantia potius id praestabit, quod liberali dignum homine iudicetur. Hos igitur intra fines socratica haec modestia versabitur iuraque constituet sua; nam si mediocritas est, modum necesse est retineat ac temperationem, aliter enim aut in fraudem declinabit mendacium ve ac veri abnegationem voluntariam aut in ostentationem elatam illam quidem ac superbientem, perinde ut de vestitu laconico Aristoteles iudicat. 2. Ac primo quidem loco quaerendum videtur, an aetatem omnem ac qualemcumque vitae partem deceat dissimulantia, omnem ne etiam personam, sive is filius sit familias sive pater sive cum magistratu sive privata liberaque publicis a muneribus. Cuius quidem rei prudentia ipsa iudex erit et ea ratio, quae iure suo recta agnominatur. Senex tamen quam iuvenis adolescens ve ad retinendum modestiam, quam requirimus, ut prorsus magis est idoneus, sic minus facilis ac lubricus ad incurrendum in ostentationem aut in deceptionem ac fraudem propter longiorem vitae usum animumque magis confirmatum adversus inconstantiam ac levitatem, tametsi adolescentulos non nunquam videmus optime constitutos, senes contra perquam immoderatos. Sed nescio quomodo in sene ironiam hanc, id est elevationem, bene ante actae vitae rerumque gestarum minus admiramur, in iuvene vehementius; fortasse quod aetas haec promptior est ad ostentationem seque resque suas magnifìcandas; ab utroque tamen habendus est ante oculos habitus ille laconicus.

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IV DEFINIZIONE. 1. Perché dunque questa ironia socratica si riveli meglio nella sua essenza, la definiremo in questo modo: essa rappresenta il giusto mezzo nel dissimulare, in rapporto al luogo, al tempo e alla dignità della persona, le qualità che sono in noi e nelle quali eccelliamo, senza ostentazione e malizia, e senza mira di profitto. Infatti questo dissimulatore socratico né aspira al danaro o al profitto, né abbassandosi deve cercare di sollevare sé e le proprie cose oppure deve mentire o ingannare vanamente. La riduzione434 come la diminuzione devono essere così moderate e sagge, che il merito reale non venga intaccato, così come nessun elemento esterno può aggiungersi o dare maggior pregio a doti che non si posseggono, e che l’uomo non si allontani in alcun modo dall’onestà, ma proprio nel dissimulare faccia piuttosto quel che possa essere giudicato degno di una persona di nobili sentimenti. Entro questi limiti si manterrà questa moderatezza socratica e stabilirà le sue norme; infatti, se è moderatezza, è necessario che mantenga l’equilibrio e la temperanza, altrimenti o piegherà verso la malizia o la menzogna e la deliberata negazione della verità, oppure verso l’ostentazione soverchia e piena di superbia, come si vede nel giudizio di Aristotele nei riguardi dei costumi degli Spartani.435 2. E in primo luogo sembra ci si debba chiedere se la dissimulazione convenga ad ogni età e a qualunque stagione della vita, e anche ad ogni persona, che sia figlio o padre di famiglia, che abbia una carica pubblica o sia un privato libero da impegni di stato. A dare un giudizio sarà la stessa saggezza e la ragione, che giustamente viene chiamata «retta». Tuttavia a conservare la moderazione che richiediamo, come l’anziano è ben più adatto di quanto non siano il giovane o il ragazzo, così è anche meno pronto e corrivo ad incorrere nell’ostentazione o nell’inganno e nella malizia per la più lunga esperienza di vita che ha, e per l’animo più saldo verso l’incostanza e la leggerezza, sebbene talora vediamo ragazzi perfettamente educati e invece vecchi molto smodati. Ma non so come in un vecchio che abbia trascorso onestamente la vita e abbia ben operato, sentiamo di ammirare di meno questa ironia, ossia questo modo di rimpicciolire, mentre in un giovane molto di più; forse perché in questa età si è più proclivi all’ostentazione e ad esaltare sé e le proprie cose; tuttavia l’uno e l’altro devono tenere davanti agli occhi l’esempio del costume spartano. 1327

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3. Ac, ne nostris a disciplinis discedamus, Iulius Pomponius, exactissimus aetatis nostrae grammaticus romanaeque vetustatis perpensor quam maxime diligens, nobilitatem generis ita dissimulavit – cum e familia esset sanseverinia, quae haudquaquam exiguae parti Lucaniae imperitaret ac Brutiae – ut neque ipse genus fateretur, et cum illis, quibus notum id esset, ita loqueretur, ut videri posset nobilitatem contemnere. Cognitionem vero rerum plurimarum, quae in eo erat non mediocris, ita prae se tulit, ut docens ipse vetustosque auctores interpretans declararet, qui et quantus in docendo esset atque in interpretando; coeterum in conventibus familiarique in consuetudine ac sermone mirum est quam verecunde nedum modeste de se aut sentiret aut loqueretur, cumque aliis plurimuna tribueret, in se ipsum maxime parcus erat. 4. Contra vero Laurentius Vallensis, multae vir doctrinae ingeniique in primis acuti, popularibus in congressibus ac literatorum circulis ostentandae disciplinae iudicatus est fuisse studiosior, ne dicam parum modestus, ut iis in circulis multo appareret diligentior quam in libris ipsis, quos scriptos reliquit; cumque non pauca in dialecticis adinvenisset adversus horum temporum artis eius magistros, eo se se efferebat, palam ut diceret nullam esse logicam praeter laurentianam. 5. Albertus vero cognomento Magnus, qui multa posteritati physicis in rebus ingenii sui reliquit monumenta, in ultima senectute cum studiosis a viris consuleretur, respondere plerunque est solitus: «Quaerite Albertum in libris»; adeo non modo non prae se ferebat tot annorum studia lucubrationesque, sed memoriae videri volebat timere, cum tamen et memoria optime valeret et obversarentur ei ante oculos physicae inquisitiones etiam iuvenilium annorum. 6. Antonius Panhormita, qui obliteratam nedum languescentem in Italia poeticam restituit in antiquam pene formam, cum a studiosis persaepe hominibus de perveteri dubitataque sive poetae aliqua sive oratoris interrogaretur sententia, quadam etiam cum frontis hilaritudine ac si memoriae diffideret, «ite, respondebat, ad Iovianum»; adeo etiam senex et primarius vir in Alfonsi regis aula, quod saepenumero docuisset, scire se dissimulabat. Itaque quem nunc fructum colligit, dissimulatione ex ea colligit.

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3. E, per non allontanarci dalle nostre materie di studio, Giulio Pomponio, fra i più perfetti grammatici dei nostri tempi e studioso fra i più attenti dell’antichità romana, dissimulava la sua nobiltà di stirpe – era discendente della famiglia Sanseverino, che dominava una parte non esigua della Lucania e del Bruzio – in modo tale da non lasciar intravedere la sua provenienza, e con quelli che la conoscevano parlava in modo da poter sembrare che disprezzasse la nobiltà. Ma rivelava la conoscenza, che possedeva in misura non modesta, di moltissime materie in modo tale, che quando insegnava e commentava gli autori antichi, manifestava la sua qualità e la sua grandezza come maestro ed interprete; fra l’altro nelle riunioni, nelle relazioni amichevoli e nella conversazione fra amici, è cosa straordinaria considerare con quanta discrezione nonché modestia si giudicava e parlava di sé, e come, mentre attribuiva molti meriti agli altri, era molto misurato riguardo a sé. 4. Al contrario Lorenzo Valla, uomo di grande dottrina e soprattutto d’ingegno acuto, fu ritenuto troppo acceso nell’ostentare la sua scienza nei convegni pubblici e nei circoli letterari, e non dirò troppo poco modesto, tanto che in quei circoli pareva che si impegnasse molto più di quanto facesse negli stessi libri che ha lasciati scritti; e poiché aveva fatto non poche scoperte nel campo della dialettica contro i maestri contemporanei di quell’arte, si vantava a tal punto da affermare pubblicamente che non vi fosse altra logica che quella di Lorenzo. 5. Alberto, soprannominato Magno,436 il quale ha lasciato ai posteri molti documenti del suo ingegno nel campo della fisica, alla fine della vecchiaia, quando veniva consultato dagli studiosi, per lo più rispondeva: «Cercate Alberto nei libri»; a tal punto non solo non vantava gli studi e i lavori di tanti anni, ma voleva far sembrare che temesse della propria memoria, mentre invece conservava un’ottima memoria ed erano presenti davanti ai suoi occhi perfino le ricerche fisiche degli anni giovanili. 6. Antonio Panormita, che restituì quasi all’antica forma in Italia la poesia dimenticata nonché quasi morta,437 quando veniva interrogato dagli studiosi, e avveniva spesso, su un passo antico e controverso di un poeta o di un prosatore, con una certa ilarità sulla fronte, come se diffidasse della sua memoria rispondeva: «andate da Gioviano»; a tal punto, anche se vecchio e uomo di prim’ordine nella reggia di Alfonso, faceva finta di non saper quello che tante volte aveva insegnato. Perciò il frutto che ora raccoglie, lo raccoglie da quella dissimulazione. 1329

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7. Hae igitur socraticae sunt dissimulationes et honestae et laudabiles, non ut ostentent, non ut lucrum inde aliquod capiant, praeter honestam illam animi conscientiam in se ipsa sibi congratulantem perfruentemque bonis suis; quem tamen fructum eumque maxime huberem admirata posteritas ipsa reddit. Haec est illa despicientia sui ipsius tam liberalis, ut liberalitate ex ea, ne dicam elevatione, rerum suarum tantos colligat redditus, ut centuplum inde summa etiam cum hubertate accipiat. Detrahebat sibi Socrates de cognitione rerum, de scientia, non ut abnegaret quod in luce expositum erat, sed ut alios invitaret ad humanitatem ac modestiam; neque enim videri volebat insolescere ob multarum rerum peritiam. Franciscus Aretinus, genere nobilis, doctrina eximius, aetate provectior, cui romana non parum debet lingua, inter ipsos, quos habebat, doctrinae sectatores ita se gerere est solitus, ut post traditam institutionem minores semper inter illos partes quam quae suae essent, susciperet. Itaque non solum sibi quod suum non esset nullo modo arrogabat, verum demebat de proprio et in loquendo et in conversando cum familiaribus. 8. Nec vero quamcumque ad interrogationem sive iocando sive seriis utendo hic ipse ubique erit ironicus ac dissimulans. Nam nec vir fortis quocumque in periculo fortitudine ac robore suo utetur illudque obibit, nec urbanus et comis in funere iocatur et ad risum invitat dictis suis astantes, delectus sed adhibendus rectaque illa ratio consulenda. Franciscus Pudericus, grammaticum cum commonefaceret cuperetque illum minus excandescere erga discipulos temperantiusque illos verberare, vocatum illum ad se huiusmodi aggressus est dictis: «Quid hoc, amabo, quod aliorum quidem grammaticorum discipuli suis de institutoribus queri consuevere, ferula quod nimis saeviant, te vero ipsum incusant, quod nec irasci scias nec scuticula ferire?». Itaque dissimulanter dum loquitur, grammatico ruborem induxit. 9. Mater mea Christiana, de me admodum puero cum esset solicita sciretque me assiduum agere apud grammaticum primasque ferre inter condiscipulos partes nec laudare coram vellet, alibi his adoriebatur: «Quid, o fili, de te audio? quod hodie superatus e ludo discesseris in themate latinis verbis explicando»; alibi: «At ego mellitum tibi edulium

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7. Questi modi di dissimulare alla maniera socratica sono onesti e lodevoli, perché non sono rivolti all’ostentazione, non a ricavarne alcun profitto, tranne la buona coscienza dell’animo che si compiace con se stesso e gode delle sue proprie virtù; questo frutto però, e in misura esuberante, lo rende la posterità con la sua ammirazione. Questo è quel disprezzo della propria persona così generoso, che da quella generosità, per non dire da quella sottovalutazione, delle proprie cose si ricava tanto profitto, da ottenere in cambio il centuplo, e con estrema abbondanza. Socrate cercava di sminuire il suo merito nel campo delle conoscenze e della dottrina, non per negare ciò che era pienamente manifesto, ma per invitare gli altri alla civiltà e alla modestia; non voleva infatti apparire arrogante per la molteplice esperienza di cultura che aveva. Francesco Aretino,438 di famiglia nobile, di eccellente dottrina, d’età un po’ avanzata, al quale non poco deve la lingua romana, fra gli stessi seguaci che aveva del suo insegnamento si comportava solitamente in modo che dopo impartita la lezione assumeva sempre fra loro una posizione minore di quella che gli spettava. Perciò non solo non si attribuiva in alcun modo quel che non era suo, ma cercava di detrarre qualcosa al proprio merito nel parlare e nel conversare con gli amici. 8. Ma non dovrà quest’uomo essere ironico e dissimulatore in ogni occasione, a qualunque domanda, sia che scherzi sia che faccia sul serio. Poiché il prode in ogni pericolo userà il suo coraggio e la sua forza e vi andrà incontro, né l’uomo civile e gioviale si mette a scherzare ad un funerale invitando al riso gli astanti con i suoi motti, ma bisogna usar discrezione e osservare un giusto criterio. Francesco Poderico, volendo ammonire un grammatico perché desiderava che non si arrabbiasse con i discepoli e che li battesse con un po’ di moderazione, fattolo chiamare lo assalì in questo modo: «Per quale ragione, ti prego, i discepoli degli altri grammatici di solito si lamentano dei loro maestri perché son troppo crudeli con la bacchetta, mentre l’accusa che fanno a te è quella che non sei capace di adirarti né di usare la frusta?» E così, parlando con dissimulazione, fece arrossire il grammatico. 9. Mia madre Cristiana, che prendeva viva parte alla mia vita quand’ero fanciullo, e sapeva che io ero pieno di zelo a scuola ed ero il primo fra i condiscepoli, non volendomi lodare apertamente, si rivolgeva a me ora con queste parole: «Che sento dire di te, figlio mio? Che oggi te ne sei andato da scuola vinto nello svolgimento del tema di latino»; ora con 1331

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paraveram, quod sperarem te victorem literaria e concertatione rediturum: redis victus? Quod igitur tibi paraveram ad eum sum, qui te vicit, missura». His igitur atque aliis mater gaudium dissimulabat, dum laudare puerum me coram omnino defugit socraticamque per dissimulationem hortabatur ad perdiscendas literas. Quin etiam prudens haec dissimulantia plurimum secum fert momenti et in laudando et in vituperando. [Antonius Panhormita], cum irridere vellet philosophantium e classe quempiam, quem honoris causa haud nomino, perinde atque admirabundus, dicebat: «Hic decimo post anno quicquid profecit, primo quidem studiorum die profecit». Horatius etiam poeta insectandis viciis atque irridendis ineptiis magnopere est socraticus. 10. Quid quod Hannibal eodem irrisionis genere lusit Antiochum regem? Cum enim rex suas illi ostentaret copias et numero peringentes et armis egregie instructas, percontanti satis ne eae adversus Romanos essent, respondit se satis esse arbitrari, tametsi Romani admodum avari essent. Vide, obsecro, quam socratice ignaviam illius riserit. Eadem arte summis extulit Scipionem laudibus. Nam cum esset, ut traditum est memoriae, sermo inter eos de ducum excellentia dixissetque Hannibal primo sibi videri statuendum loco Alexandrum Macedonem, secundo Pyrrhum Epirotam sibique assereret tertium intulissetque Scipio: «Quid si te non vicissem?», tum ille, «vel me, respondit, omnibus censerem praeferendum». Itaque per hos quasi cuniculos iterque dissimulatum pervenit ad exquisitam illam ac maxime celebrem laudem. Iulia Augusti filia, Marci Agrippae uxor, hac etiam via paternam a se avertit reprehensionem. Nam cum animadvertisset patrem Augustum permoleste tulisse, quadam quod in pompa excultiore ornatu luxuque indulgentiore processisset dieque insequenti matronali solum more culta patri se ostendisset ab illoque mirifice esset laudata, quod in eam formam ornata incederet, tum illa, ut erat ad dissimulandum instructa, verbis his hesternum luxum deprecata est luxusque increpationem a se avertit inquiens: «Heri me viri oculis exornavi, hodie patris». 11. Multum itaque has ad res sive in laudem spectent sive in accusationem, sive in respondendo sive in iocando, ipsa valet dissimulatio,

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queste: «Ma io ti avevo preparato un bel dolce, perché speravo che saresti ritornato vincitore dalla gara di cultura: te ne torni vinto? Quello che avevo preparato per te lo manderò a chi ti ha vinto». Con queste parole e con altre parole mia madre dissimulava la gioia, evitando assolutamente di lodarmi quand’ero fanciullo, e attraverso la dissimulazione socratica mi esortava a imparare le lettere. Che anzi questa saggia dissimulazione ha moltissima importanza e nella lode e nel biasimo. [Antonio Panormita],439 volendo prendere in giro un tale della classe dei filosofanti, che non nomino per rispetto, come se fosse pieno di ammirazione diceva: «Costui, tutto il profitto che ha fatto in dieci anni, lo ha fatto nel primo giorno di studio». Anche il poeta Orazio è molto socratico nel perseguitare i vizi e nel ridere delle insulsaggini.440 10. Che dire del fatto che Annibale con lo stesso genere di derisione si prese gioco del re Antioco?441 Quando il re gli mostrò le sue milizie, immense per numero e assai ben equipaggiate, e gli chiese se bastassero contro i Romani, rispose che a suo parere bastavano, sebbene i Romani fossero molto avidi.442 Vedi, ti prego, come derise alla maniera socratica la sua inefficienza. Usando la stessa arte elogiò straordinariamente Scipione.443 Infatti, discutendo fra loro, a quanto è stato tramandato, sulla eccellenza dei condottieri, e avendo detto Annibale che gli sembrava che Alessandro il Macedone dovesse collocarsi al primo posto, al secondo Pirro d’Epiro mentre attribuiva a sé il terzo posto, poiché Scipione intervenne dicendo «E se non ti avessi vinto?», egli rispose: «Riterrei di dover essere io anteposto a tutti». E così attraverso queste – per così dire – vie sotterranee, attraverso un cammino nascosto pervenne a quella così rara e celebre gloria. Giulia, la figlia di Augusto, moglie di Marco Agrippa, anche in questo modo riuscì a stornare da sé il rimprovero del padre.444 Infatti, accortasi che il padre Augusto si era dispiaciuto del fatto che ella in una solennità era uscita in pubblico con un abbigliamento troppo raffinato e lussuoso, il giorno seguente si mostrò al padre vestita soltanto in modo adatto ad una matrona, ed essendo stata lodata straordinariamente da lui perché si presentava in quella foggia, allora, pronta com’era a dissimulare, con queste parole deprecò il lusso del giorno precedente e stornò da sé il rimprovero d’aver ecceduto nel lusso dicendo: «Ieri mi addobbai per gli occhi di mio marito, oggi per quelli di mio padre». 11. Pertanto in queste circostanze, sia che riguardino la lode, sia che riguardino l’accusa, sia nel rispondere, sia nel celiare, è molto impor1333

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ratione duce et comite. Petrus Compater, cuius mors senectuti meae ingens nuper vulnus inflixit, vir utique ad omne genus facetiarum maxime appositus, cum praetereuntem conspicaretur abunde locupletem hominem, maxime tamen attenuatum, «hic, inquit, multa dando factus est divitior». Idem cum videret compluribus cum satellitibus incedentem militarem hominem eundemque purpuratum, «nimirum hic, inquit, hoc cum ornatu et clientela ad aram proficiscitur a diis veniam impetraturus quaeque per vim rapinamque abstulit templo arisque oblaturus». 12. Consederat Laudivius compluribus cum literatis Antonianam ad porticum, utque erat ingenii literarumque ostentator oppido quam gloriosus, cum recitasset versus quosdam a se in laudem editos Bartholomaei Rovarellae, sacerdotis cardinalis, «quo, inquit, sciatis versiculi hi nostri quantopere Bartholomaeum delectaverint: iis ipse auditis, confestim de manu quidem aureolos quinquaginta mihi dinumeravit». Aderat ibi homo qui et levitatem eius nosset et Bartholomaei magis strictas atque attenuatas quam parcas erogationes esse. Is itaque ore quam maxime composito, «per Petrum, inquit, et Paulum, adiurarim brevi Laudivium Pontificem Maximum futurum, cum in eum sacerdotes, avarissimum genus hominum, tam sint liberales; macte ingenio, Laudivi, versus quam plurimos et conde et ede: facile hoc scribendi genere pontificatum tibi comparaveris». Quae potuit esse insinuatior irrisio et inanissimi simul hominis et inertissimi poetae? Atque haec quidem ironia agnominari irrisoria recte potest; nam nec socratica prorsus est, cum aut parum aut omnino nihil demat imminuatque et tamen a modestia non recedat. Utuntur autem ea et oratores et poetae non sine urbanitate. 13. Thomas Pontanus per urbem deambulans, interrogatus a viatore an cancellarius esset Perusinus, respondit se viatorem esse impudentique interrogationi eius hac ratione illusit. Actius Syncerus, cum irridere verbosum hominem honeste vellet, conversus ad astantes, «homo hic, inquit, a muto parum abest». Quid? quod haec ipsa dissimulantia maximam quandoque vim habet laudationis, ut cum familiaris noster Suardinus Suardus in convento literatissimorum hominum commendare

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tante la dissimulazione, quando è guidata e accompagnata dalla misura. Pietro Compatre, la cui morte ha poco fa inflitto un duro colpo alla mia vecchiaia, e che era uomo straordinariamente disposto in ogni occasione ad ogni genere di facezia, vedendo passare un uomo molto ricco, e tuttavia assai magro, «costui – disse – è diventato più ricco donando molto». Ancora lui, vedendo un militare che procedeva con moltissimo seguito e per giunta ornato di porpora; «Evidentemente – disse – costui con gli ornamenti e la clientela va all’altare per chiedere a Dio perdono e per offrire al tempio e all’altare quello che ha sottratto con la violenza e la rapina». 12. Lodivio si era seduto con molti letterati presso il portico di Antonio, e ostentatore quanto mai vanitoso qual era del suo ingegno e della sua cultura, dopo aver recitato alcuni versi da lui composti in lode del cardinale Bartolomeo Rovarella,445 esclamò: «Perché sappiate quanto siano piaciuti questi nostri versetti a Bartolomeo, quando li ha uditi, subito di sua mano mi ha contato cinquanta monete d’oro». Era presente un uomo che conosceva la sua vanità e sapeva anche che le spese di Bartolomeo erano ristrette e limitate, più che parche. Perciò con il volto quanto mai impassibile esclamò: «Per Pietro e Paolo, avrei giurato che in breve Lodivio sarebbe diventato Pontefice Massimo, dal momento che i sacerdoti, che sono la razza più avara, sono così generosi verso di lui; viva il tuo ingegno, Lodivio, componi e pubblica versi quanto più possibile: con questo genere di scritti ti procurerai facilmente il pontificato». Quale derisione poteva essere più insinuante nei confronti di un uomo assai vanesio e insieme poeta assai insulso? Questa ironia in verità si potrebbe giustamente denominare «irrisoria»; perché non è assolutamente socratica, dal momento che non toglie né sminuisce minimamente e tuttavia non si tiene lontana dalla moderazione. Se ne servono oratori e poeti non senza finezza. 13. Tommaso Pontano, mentre passeggiava per la città, quando un viandante gli chiese se fosse un cancelliere di Perugia, rispose di essere un viandante, e in questo modo si burlò della sua inopportuna domanda”. Azio Sincero, volendo con belle maniere burlare un uomo verboso, rivoltosi agli astanti disse: «Quest’uomo si differenzia molto poco da un muto». E che dire ancora? Questa stessa dissimulazione talora ha una grandissima efficacia nella lode, come quando il nostro amico Suardino Suardo446 in un’accolta di uomini dottissimi, volendo esaltare l’attività 1335

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industriam vellet assiduitatemque adolescentis cuiuspiam in literis, «hic, inquit, adolescens a Musis aversus est adeo, ut etiam noctes in choreis absumat ac palestris». Contra cum vituperare hominem maxime sordidum vellet, «homo hic, inquit, domi habet nitelarum omnium magistrum sordiumque censorem». 14. Uticensis autem Cato licet ipse in explicanda animi sui sententia apertus admodum ac liber esset, tamen, surdaster cum haberetur, saepenumero ac si non audisset, quorundam dictis nihil omnino respondebat. Itaque dissimulandi genus illud socraticum ut ad modestiam referendum est, sic hoc ipsum Catonis ad prudentiam sapientissimumque vivendi usum ac rationem. Nec vero pauci hoc dissimulationis genere non a maledictis modo se tutantur, dum, tanquam non audissent, illis non respondent, verum etiam a malefactis, dum, aliter etiam quam dictum est, se se accepisse fingunt. 15. Adolescens quidam vocatus ad testimonium dicendum in causa furto subreptae lanae, sumpta occasione a luna, quae biduo ante deliquium passa esset, dissimulavit se audisse de lana, itaque de luna respondit. Nanque interrogatus a iudicibus de lanae surreptione, sublatis in coelum oculis, «per, inquit, coelum ipsum iuro, iudices, perque dei potentissimum numen, qui omnia nutu suo temperat, nunquam me dedisse operam astrologiae neque unquam me audisse, qua ratione lunae surreptio fieret»; addidit et iis fatua quaedam dicta. Quibus versi in risum iudices arbitratique rudioris illum ingenii esse ac prosecuti eum cachinnis, abire e conspectu perinde ac fatuum permiserunt. Ille igitur ratione hac a dicendo testimonio liber evasit. 16. Praetor neapolitanus per urbem summiserat satellites, Focillum quendam qui caperent, furti suspectum. Ii percontati de eo cum essent Erricum Pudericum, equitem neapolitanum, isque illum sciret proxima delituisse in taberna, «at, inquit, Facellam scitote domum illam, quae est ante oculos, paulo ante ingressum» – est enim Neapoli Facellarum familia pervetusta et nobilis –; dumque illi monstratam ingrediuntur domum, interim facultas data est Focillo praetoris satellites evadendi. Itaque, dum se fingit Erricus pro Focillo Facellam audisse, fugae illius consuluit.

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e lo zelo di un ragazzo nello studio delle lettere disse: «Questo ragazzo è così avverso alle Muse, che trascorre anche le notti nei balli e negli esercizi». Al contrario, volendo biasimare un uomo molto sordido disse: «Quest’uomo ha in casa il maestro di ogni splendore e il censore di ogni lordume». 14. Catone l’Uticense poi, sebbene nell’esprimere il suo pensiero fosse molto aperto e libero, tuttavia, poiché era ritenuto un po’ sordo, spesso non rispondeva affatto alle battute di alcuni, come se non avesse udito. Perciò, come quel genere di dissimulazione socratica va riportato alla moderazione, così questo di Catone alla prudenza e ad una consuetudine e metodo di vita di grande saggezza.447 Né sono pochi quelli che con questo genere di dissimulazione non solo si difendono dalle maldicenze, non rispondendo ad esse, facendo finta di non aver udito, ma anche dalle azioni offensive, fingendo di aver sentito diversamente da come è stato detto. 15. Un ragazzo, chiamato a testimoniare in una causa riguardante un furto di lana, prendendo il pretesto dalla luna, che due giorni prima aveva subìto un’eclissi, fece finta di non aver udito nulla riguardo alla lana, e rispose sulla luna. E infatti, interrogato dal giudice sul furto della lana, alzati gli occhi al cielo disse: «Giuro sul cielo stesso, o giudici, e sul più potente degli dei, che governa tutto con il suo cenno, di non essermi dedicato mai all’astrologia, né di aver mai udito in qual modo avvenga il furto della luna»; aggiunse a queste parole anche alcune sciocchezze. Per cui i giudici, scoppiati a ridere, credendo che fosse d’indole troppo rozza e facendolo segno di risate, gli consentirono di allontanarsi dal loro cospetto come se si trattasse di uno sciocco. Egli dunque in questo modo riuscì a liberarsi dal dovere di testimoniare. 16. Il pretore napoletano aveva mandato di nascosto per la città le guardie per acciuffare un certo Focillo, sospetto di furto. Avendo chiesto di lui ad Enrico Poderico, cavaliere napoletano, costui, sapendo che si era nascosto nella taverna vicina, disse: «Dovete sapere che in quella casa Facella, che è davanti ai vostri occhi, è entrato poco fa» – infatti a Napoli la famiglia Facella è antica e nobile –; e mentre quelli entravano nella casa loro indicata, a Focillo si offrì la possibilità di sfuggire alle guardie del pretore. E così Poderico, fingendo di aver udito Facella invece di Focillo, favorì la sua fuga.

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17. Constans etiam fama est divum Franciscum; dum inter homines ageret, lepusculum canes fugitantem, quo salvum faceret, delatum illum metu ad pedes eius cepisse atque intra tunicae sinistram manicam, quae laxior esset, immissum abscondisse; cumque venatores facti obviam percontarentur qua lepus transisset, dextera levam designans, «scitote, respondit, viri, hac illum minime transisse». Igitur vir sanctissimus dissimulatione ea usus est, quo a canum dentibus lepusculum liberaret; quem postea eductum e manica abire liberum permisit. Quod etsi fortasse in exemplum fictum est, tamen et similia quandoque accidisse in rebus hominum palam est. Et hae quidem dissimulationes licet facto magis constent quam dicto, tamen a dicto ut male accepto initium ducunt et causam. 18. Omnino autem rerum publicarum moderatores quique populis praesunt ac nationibus, animadvertere vel perpendere potius examinatissime quidem debent, qua et via et fronte dissimulatione hac utantur, siquidem eorum dicta sententiaeque et altius penetrant in animos audientium et latius tum dicta tum responsa significationes extendunt suas aliique atque alii diversis ea modis interpretantur; ut cum Iacobus Caldora cogitabundus inter deambulandum immurmurasset Capuam Roma quidem minorem at Carthagine maiorem fuisse, tum unus ex iis, qui aderant, suspicatus agitare animo Iacobum Capuae obsidionem, confestim id Campanis significavit, quod haud multo post Iacobi consiliis incommodi plurimum attulisse constat. 19. Quocirca principibus viris rerumque publicarum administratoribus, et ubi et qua via et apud quos Socratica hac utantur dissimulatione, etiam atque etiam considerandum est. Ferdinandus, Alfonsi fi lius, patre mortuo, interrogatus a familiaribus amicisque an aerarium relictum esset ei a patre abunde amplum, dum illud dissimulanter extenuat, regulos pene omnes optimatesque civitatum regni ad rebellionem invitavit. Pro tempore tamen ac loco ipsa extenuatio non parum adiicit ad auctoritatem existimationemque. Qua quidem arte Federicus Urbinas saepenumero magna cum prudentia utebatur; nam nec raro quidem nec occulto, aliquando etiam in propatulo, hosti se imparem dicebat partisque suas minores profitebatur, quo, verbis iis hosti significatis, imprudentiorem illum minusque cautum redderet. Quo fit, ut haec ipsa

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17. È unanime la fama che san Francesco, quando viveva fra gli uomini, per salvare un leprotto che cercava di sfuggire ai cani, poiché per la paura era finito tra i suoi piedi, lo prese e lo nascose nella manica sinistra della tunica, che era piuttosto larga; e poiché i cacciatori venendogli incontro gli chiedevano in quale direzione fosse andata la lepre, indicando con la destra la sinistra, «sappiate – rispose – o uomini, che non è passata di qua».448 Dunque il santissimo uomo usò quella dissimulazione per liberare il leprotto dai denti dei cani; poi, trattolo fuori dalla manica lo lasciò andar via. E sebbene forse questa storia sia stata inventata per dare un esempio, tuttavia è noto che talora avvengono cose simili nella vita. Queste dissimulazioni in verità, ammesso che consistano più in un’azione che in un motto, tuttavia traggono origine e occasione da un’espressione verbale che si finge di aver male intesa. 18. I governanti degli stati, poi, e coloro che reggono popoli e nazioni devono assolutamente considerare o piuttosto riflettere con estrema attenzione, in qual modo e con quale atteggiamento adoperare questa dissimulazione, se è vero che le loro parole e i loro pensieri penetrano più profondamente nell’animo degli ascoltatori e più ampi significati assumono motti e risposte, e alcuni vengono interpretati in un modo, altri in un altro; come quando Giacomo Caldora,449 stando sopra pensiero mentre passeggiava, aveva mormorato che Capua era sì più piccola di Roma, ma più grande di Cartagine, e uno dei presenti, sospettando che Giacomo preparasse nell’animo l’assedio di Capua, subito lo annunziò ai Campani, la qual cosa, non molto dopo, si sa che apportò molto danno ai disegni di Giacomo. 19. Perciò i prìncipi e gli amministratori degli stati debbono considerare più e più volte in che modo e di fronte a chi usare questa dissimulazione socratica. Ferdinando, figlio di Alfonso, morto il padre, interrogato da familiari e amici se l’erario gli fosse stato lasciato dal padre abbastanza ricco, mentre cercava di attenuarne la consistenza con la dissimulazione, invitò alla ribellione quasi tutti i baroni e gli aristocratici delle città del regno. Tuttavia a tempo e luogo opportuni la stessa attenuazione non poco aggiunge all’autorità e alla stima. Di quest’arte si serviva spesso Federico d’Urbino con grande prudenza; infatti né raramente né nascostamente, talora anche di fronte a tutti, diceva di non essere pari al nemico e confessava che il suo schieramento era minore, per rendere il nemico più imprudente e meno cauto, quando queste parole gli fossero state riferite. Perciò 1339

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omnia ratione metienda sint arteque temperanda, quando ratio ea, quae a Peripateticis iure quidem recta dicitur, actiones in utranque partem nostras defi nit. 20. Res autem ipsa et docuit et assiduo docet non in voce solum ac verbis, verum etiam in vultu gestuque ironiam locum ac ius suum retinere, ut cum aliud dicimus, aliud innuimus, aliud vultu, aliud manu significamus. Hinc apud Persium: O Iane, a tergo quem nulla ciconia pinxit.

Nam et contemptus ac derisiones quaedam gestu magis ac signis fiunt et maxima sunt ex parte ironicae, cum tamen voce laudem videantur afferre. Nam et praetereuntes sive cives sive peregrinos, postquam eos blande familiariterque salutavimus, aut manuum gestu aut oris irridere consuevimus, ut salutatio ipsa omnino fuerit ironica ac ridicularia. Quid? quod verba quaedam maxime sunt ad ironiam idonea, quale est verbum ‘vale’ et ‘vive’ aliaeque salutandi voces; indeque inductum est, ut saepenumero ab eruditissimis etiam scriptoribus ea verba malam dicantur in partem, ut illud terentianum: valeant qui inter nos dissidium volunt;

et tibullianum illud: O valeant silvae deficiantque canes.

Item apud Virgilium: «Vivite, silvae»; et apud Valerium Catullum: Cum suis vivat valeatque moechis.

An non servi interdum ac nequam et scelerati homines verbis dictisque foedis ac contaminatis sibi male dicunt invicemque conviciantur ac detrahunt, cum ipsa tamen detractio laudationis in se vim habeat ac speciem congratulationis quasi cuiuspiam?

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tutte queste cose debbono essere misurate dalla ragione e guidate dall’arte, dal momento che la misura, che dai Peripatetici viene detta a ragione «giusta», è quella che definisce le nostre azioni in un senso e nell’altro. 20. L’esperienza stessa ha insegnato e continuamente insegna che non solo nella voce e nelle parole, ma anche nel volto e nel gesto l’ironia ha la sua sede e il suo dominio, come quando diciamo una cosa, ma ne accenniamo un’altra, facciamo intendere una cosa con il volto, un’altra con la mano. Di qui in Persio: O Giano, che nessuna cicogna tinse sul dorso.450

Infatti il disprezzo e la derisione avvengono talvolta più con il gesto e con i cenni, e nella maggior parte dei casi sono ironici, quando sembra che con la voce rivolgano una lode. Per esempio i passanti, cittadini e forestieri, dopo che li abbiamo salutati affettuosamente e amichevolmente, li deridiamo di solito con il gesto della mano o con una smorfia, sicché lo stesso saluto riesce del tutto ironico e buffo. E come? Alcune parole non sono particolarmente adatte all’ironia, come la parola «salute», e «statti bene» e altre espressioni di saluto; onde spesso dai più colti scrittori quelle parole vengono usate in senso negativo, come si vede in quel passo di Terenzio: Tanti saluti a coloro che vogliono il dissidio tra noi;451

e in quell’altro passo di Tibullo: Tanti saluti alle selve e scompariscano i cani.452

Così in Virgilio: «Statevi bene, selve»,453 e in Valerio Catullo: Stia bene e in salute con gli adulteri suoi.454

E non è vero che talvolta i servi e gli uomini tristi e scellerati con parole ed espressioni sozze e volgari si offendono e s’ingiuriano e si calunniano a vicenda, mentre nella stessa denigrazione c’è un’intenzione laudativa e l’idea di un complimento? 1341

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21. De ironia igitur socraticaque dissimulatione hactenus. Absoluta est, ut arbitrar, de sermone disputatio communique oratione ac familiari praecipueque pars ea, qua requies quaeritur relaxatioque a laboribus ac molestiis. E qua quidem explicatione liquido apparet quae vicia sint inter colloquendum fugienda sermonesque domesticos, quae contra mediocritates complectendae. 22. Tu vero…, sic habeto ad honestas voluptates relaxationesque a curis ac negociis nihil tam conferre quam sermones illi conferunt collocutionesque, quae de deo habentur divinisque de rebus: id, quod nuper Petrus Compater moriens declaravit. Paulo enim antequam animam ageret, multa cum de deo deque animorum disseruisset aeternitate, sic denique ad astantes nos, quos valere iubebat, conversus et tanquam ultimo in actu constitutus, lingua etiam hebescente, dixit omnes quidem sermones inter notos atque amicos esse suavissimos, illos vero multo suaviores, quorum materia deus esset. Quocirca nos ipsos exhortatus prius, post etiam per deum ipsum obtestatus rogabat, uti, amicitiae memores quoties conveniremus, nostra omnis oratio a deo inciperet desineretque in deo.

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21. Sull’ironia e sulla dissimulazione socratica dunque fin qui può bastare. È stata svolta completamente, a mio parere, la trattazione dell’arte della conversazione e del parlare in società e fra amici, e specialmente quella parte che riguarda la ricerca del riposo e del rilassamento dalle fatiche e dai fastidi. Da questa esposizione facilmente appare quali siano i difetti da evitare durante il colloquio e la conversazione domestica, quali invece le norme di moderazione da considerare. 22. Ma tu…455 sii certo di questo, che nessuna cosa contribuisce al piacere onesto e al rilassamento dalle sofferenze e dalle occupazioni, quanto la conversazione e il colloquio che si tengono sulla divinità e sugli argomenti sacri; lo ha dimostrato poco tempo fa, morendo, Pietro il Compatre. Poco prima che spirasse, infatti, avendo discusso molto su Dio e sull’eternità dell’anima, così infine, rivolgendosi a noi che eravamo presenti con un saluto, e quasi recitando l’ultimo atto, con la lingua che per giunta s’indeboliva, disse che tutte le conversazioni fra conoscenti e amici sono piacevolissime, ma molto più piacevoli quelle che hanno come argomento la divinità. Perciò dapprima esortandoci, poi anche chiamando Iddio a testimone ci chiedeva che, tutte le volte che ci incontrassimo, memori dell’amicizia, ogni nostro discorso cominciasse da Dio e finisse in Dio.

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Appendice Lettere di Giovanni Pontano

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Lettere Nota introduttiva, testo e note a cura di ANNA GIOIA CANTORE

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Nota introduttiva

Le innumerevoli lettere che Giovanni Pontano inviò a nome suo o dei reali di Napoli sono senza dubbio quelle di un protagonista della politica aragonese in Italia dagli anni d’oro di Ferrante al declino del Regno, segnato da Ferdinando II. Eppure, nonostante la sua scrittura epistolare, per il solo fatto di essere testimonianza di un duplice registro linguistico e, di conseguenza, stilistico, latino da una parte, volgare dall’altra, dia forma ad una svolta radicale nel genere dell’epistola, l’umanista non si è preoccupato di realizzarne una raccolta organica. Tra il Quattro e il Cinquecento le sue lettere circolarono, quando circolavano, in maniera limitata e, comunque, disordinata, tanto che, ad esempio, la prima lettera nota, tra quelle appartenenti alla sfera privata del Pontano, datata 1° gennaio 1460 e indirizzata a Pietro Salvatore Valla e Giovanni Ferrer (1),1 fu inserita a mo’ di cornice letteraria, insieme all’ultima all’epoca conosciuta, quella al Sannazaro del 13 febbraio 1503 (60), in appendice alla stampa napoletana dei dialoghi Actius, Aegidius e Asinus e delle due egloghe Coryle e Quinquennius che l’affezionatissimo discepolo del Pontano, Pietro Summonte, pubblicò nel 1507 per i tipi dello stampatore tedesco Sigismondo Mayr. 2 Lo stesso Summonte che pure, subito dopo la scomparsa del Pontano, fattosi nominare dalle figlie dell’umanista custode e depositario degli autografi di tutte le opere del maestro, per il timore che l’incuria delle due donne avrebbe potuto disperderli, e che, com’è noto, curò la stampa di tutte le opere pontaniane inedite tra il 1505 e il 1512, non si dette pena, esattamente come il suo maestro, di raccogliere, custodire e pubblicare anche le sue lettere.3 1349

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Soltanto a partire dal XIX secolo l’epistolario del Pontano ha intrapreso la strada di una pubblicazione meno occasionale rispetto a quella dei secoli precedenti. Questa, però, ha costituito un privilegio spettante innanzitutto alle lettere ufficiali che l’umanista, in qualità di segretario dei reali napoletani, compose in gran numero. Si sono così succedute le edizioni del Volpicella, del Trinchera, del Gabotto, del Fossati,4 che hanno rintracciato fondi assai cospicui di lettere pubbliche negli Archivi di Napoli e di Milano. Nel tempo, la ricerca presso gli Archivi di altre città, come Mantova, Modena, Firenze, ha portato alla luce a più riprese sempre nuove lettere, come, da ultimo, è capitato al Figliuolo, che, pur riproponendo 144 lettere già edite, ha aggiunto alla nostra conoscenza dell’epistolario pontaniano un patrimonio di ben 403 lettere inedite.5 Queste edizioni discontinue e varie hanno dato vita ad un quadro particolarmente complesso, nel quale ha cercato di mettere ordine Maria Luisa Doglio, per la prima volta nel 1973, quando, in coda all’edizione di cinque lettere inedite del Pontano, ha fornito l’elenco delle lettere pontaniane stampate dagli inizi del Cinquecento ad allora, aggiornandolo poi nel 1994.6 Da allora il quadro dell’epistolario del Pontano si è andato costantemente arricchendo di nuove scoperte e pubblicazioni, tanto che oggi, superando di poco il numero delle 1500 lettere, lo si potrebbe considerare pressoché completo. Di queste riproponiamo di seguito il testo delle lettere a firma esclusiva dell’umanista rinviando, di volta in volta, alle fonti, edite o manoscritte, e alla relativa Bibliografia. Preferiamo parlare di lettere a firma esclusiva dell’umanista piuttosto che di lettere private in quanto, se la presenza, accanto alla firma del Pontano, di quella del re per il quale l’umanista fu segretario, sancisce a tutti gli effetti la natura ufficiale di una lettera, non si può certo dire che esista un criterio analogo per affermare quando una lettera privata sia realmente tale. E se tra le lettere private del Pontano possiamo collocare con assoluta certezza quelle inviate ai suoi amici letterati (Antonio Panormita, Egidio da Viterbo, Suardino Suardo, Jacopo Sannazaro),7 o quella, bellissima, ad Eleonora d’Aragona del 15 aprile 1490 (29), in cui l’umanista piange il suo dolore per la perdita dell’amatissima moglie, qualche dubbio subentra, invece, a proposito di quelle lettere che, pur portando la sola firma del Pontano, sono state scritte per occasioni pubbliche. 1350

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Specchio delle problematiche storico-politiche del tempo quali queste lettere sono, è difficile dire se Pontano le abbia scritte di sua iniziativa – come, del resto, la presenza della sua sola firma lascerebbe supporre – o, magari, su richiesta del re, soprattutto a seguito della sua nomina a primo ministro. Sembra comunque delinearsi con straordinaria chiarezza, anche solo attraverso la lettura delle epistole, una biografica continuata del Pontano; perché, in fondo, l’epistolario ha tutta l’aria di essere lo scartafaccio di un romanzo: il suo e quello della dinastia aragonese. Vicenda editoriale Le lettere del Pontano che, dal 1461 al 1495, «circolavano manoscritte nella varie corti d’Italia e non solo d’Italia»,8 fino a tutto il Cinquecento hanno avuto una limitata circolazione. Nel 1574, trascorsi ormai settant’anni dalla sua scomparsa (1503),9 Giovanni Sambuco, archeologo e umanista ungherese che aveva studiato in Italia,10 offrì ad Aldo Manuzio il giovane, per una nuova edizione delle sue Epistolae clarorum virorum (1556), alcune lettere di dotti italiani, e, tra le altre, alcune autografe del Pontano.11 Dobbiamo, però, aspettare gli inizi dell’Ottocento perché ci si interessi nuovamente alle epistole pontaniane. All’epoca, infatti, si trovava ancora a Napoli, appartenente alla ricchissima biblioteca del bibliofi lo Luigi Serra, duca di Cassano, una raccolta manoscritta realizzata tra il XVI ed il XVII secolo ed intitolata «Alcune minute di lettere et lettere di Ioanni Pontano per diversi Signori, estratte dal libro ... de’ registri che si conservano nell’Archivio», copia, presumibilmente, delle minute originali andate perdute. Il duca mise questa copia, nota proprio come codice Cassano-Serra, a disposizione degli eruditi del tempo: Michele Tafuri ne pubblicò una sola (30); Agostino Gervasio le ricopiò tutte, ad eccezione di quella edita dal Tafuri, nell’attuale manoscritto XXVIII 4 dell’Oratoriana di Napoli;12 Francesco Colangelo, ne pubblicò la parte più importante nelle biografie del Pontano e del Sannazaro.13 Il codice poi esulò in Inghilterra, venduto nel 1859 da Guglielmo Libri alla British Library dove è oggi conservato con segnatura Additional 22818,14 mentre il resto della biblioteca del duca, ricca di edizioni quattrocentesche, era stata acquistata, nel 1819, da George John Earl Spencer, visconte di Essex.15 Fu Emilio Nunziante, durante una sua breve dimora a Londra, a rintracciare tra i manoscritti della biblioteca londinese la suddetta copia di cui, 1351

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nel 1886, fornì un’edizione della parte ancora inedita: egli scrive infatti che «tra i manoscritti del British Museum, i quali ebbi agio di esaminare durante una mia breve dimora a Londra, l’Additional 22,818, dal titolo così ghiotto: Lettere di Joviano Pontano, era naturale che avesse punta la mia curiosità. Appena che l’ebbi in mano, la mia curiosità si accrebbe anche di più nel leggere l’avvertenza dell’Auction Catalog».16 Sempre nel codice il Nunziante leggeva l’informazione che «esso fu comprato dai solerti Rettori del British Museum nella vendita della collezione Libri». Da chi lo avesse acquistato il Libri, Nunziante non seppe dirlo, ma non aveva dubbi nell’affermare che il «codice avesse fatto parte della biblioteca del Duca di Cassano, Luigi Serra».17 Anche lo storico Camillo Minieri Riccio aveva realizzato una copia del Cassano-Serra, copia della quale poté servirsi ancora il Percopo, ma poi perduta e, probabilmente, finita presso gli eredi. Emilio Nunziante ignorava l’esistenza di questa copia, come, del resto, anche di quella che aveva realizzato Agostino Gervasio. Questo manoscritto, insieme al XIII D 27 della Biblioteca Nazionale di Napoli,18 riporta anche l’inizio (fino alla parola «infensissimus») della lettera apocrifa inviata dal Pontano a Francesco Caracciolo.19 Erasmo Percopo, non potendo accedere al manoscritto londinese, si servì proprio della copia del Gervasio per pubblicare, nel 1907,20 le lettere edite con poca accuratezza dal Colangelo,21 e non edite affatto dal Nunziante, che, sfortunatamente, distrusse la sua copia del codice Cassano-Serra.22 Basandosi dunque sulla lezione del Gervasio, Percopo pubblicava: 4 lettere a Ferdinando I, rispettivamente del 7 maggio 1490 (30), 26 aprile 1492 (41), giugno 1492 (43) e 30 giugno 1492 (44); la lettera a papa Innocenzo VIII datata 20 ottobre 1491 (35); la lettera a Giovanna d’Aragona del 1 gennaio 1492 (36); la lettera ad Alfonso, duca di Calabria, del 1 gennaio 1492 (37); la lettera a Virginio Orsini del 12 gennaio 1492 (38); la lettera ad Alfonso II del 23 luglio 1494 (51); la lettera a Ferdinando II del 9 febbraio 1495 (52). Il Percopo però escludeva dalla pubblicazione delle Lettere tutte le epistole presenti nella copia sfornite della firma dello scrittore. Accertatosi della paternità pontaniana, lo studioso tornò a pubblicare le rimanenti nel 1926:23 due lettere di Ferdinando I rispettivamente a Carlo VIII, del 23 ottobre 1489,24 e a Giacomo Pontano, nipote di Giovanni, del 22 luglio 1492;25 due lettere di Alfonso II rispettivamente a Giovan Francesco Sanseverino, conte di Caiazzo, successiva 1352

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al 25 gennaio 1494,26 e a Luigi Palladino, del 28 aprile 1494;27 la lettera di Alfonso II e Giovanni Pontano all’abate Benedetto Ruggio del 26 marzo 1494;28 due lettere di Ferdinando II rispettivamente al re e alla regina di Spagna, successiva al 23 gennaio 1495,29 e a papa Alessandro VI del 21 settembre 1495.30 Intanto, nel 1884, lo storico della filosofia Francesco Fiorentino, incuriosito dall’epistolario di Egidio da Viterbo «sì per la non breve dimora fatta a Napoli tra la fine del secolo decimoquinto, e i primi anni del sestodecimo; sì per essere stato legato ai fondatori della nostra Accademia pontaniana, ed averne fatto parte egli stesso»,31 pubblicava la corrispondenza tra Pontano ed il monaco agostiniano. Essa consta di 3 lettere, due inviate dal Pontano rispettivamente in data 13 dicembre 1500 (56) e 7 gennaio 1501 (57), ed una inviata da Egidio il 3 novembre 1500.32 Credendo perduto il codice conservato nella biblioteca del convento di San Giovanni a Carbonara (oggi invece individuato nel manoscritto V F 20 della Nazionale di Napoli),33 il Fiorentino si basava sulla sola lezione dell’epistolario di Egidio conservato nel codice 1001 (R 6. 16) della Biblioteca Angelica di Roma,34 dove le due lettere del 1500 vengono posticipate all’anno successivo. Datazione, questa, accolta anche dalla Doglio,35 ma non dal Percopo,36 né, tanto meno, dalla Voci Roth che dell’agostiniano ha curato l’edizione critica dell’Epistolario.37 Sempre nel 1907, il Percopo dava notizia di una lunga epistola in latino de amore di cui riportava solo il titolo, l’incipit e parte dell’explicit.38 La lettera, all’epoca attribuita al Pontano, secondo lo studioso sarebbe stata scritta dall’umanista, quando ancora era molto giovane, in risposta ad una di Guiniforte Barzizza sullo stesso argomento. Le poche righe da lui riportate gli erano state trascritte dall’abate Luigi Narducci, un tempo bibliotecario della Civica di San Daniele del Friuli. Né il bibliotecario all’epoca in carica, né il professore Luigi Suttina, amico del Percopo, poterono aiutarlo nell’opera di trascrizione della lettera per la lunghezza della stessa. Il Percopo non potè giovarsi neppure dei mezzi di riproduzione fotografica necessitando, questa operazione, di un prezzo all’epoca eccessivo: più di un centinaio di lire!39 Il curioso caso di omonimia avrebbe erroneamente condotto alla falsa attribuzione della lettera al nostro umanista anche il Pirri che, nel 1912, la pubblicava in appendice ad un suo saggio su Tommaso Pontano e il giovane Gioviano,40 e, più tardi, la stessa Doglio, che, recuperato il testo della lettera, si proponeva 1353

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di pubblicarlo a tempo debito.41 In realtà la lettera fu scritta sì da un Giovanni Pontano, ma dal giovane umanista bergamasco omonimo del segretario aragonese, come ha chiarito una volta per tutte Claudia Corfiati, che nel 2008 ha pubblicato il lungo testo dell’epistola.42 La lettera fu inviata in risposta a quella di un altro giovane umanista, il Barzizza appunto, col quale il Pontano si era cimentato nella quaestio tutta letteraria che la Corfiati riassume in questi termini: «se convenga all’uomo saggio innamorarsi o sposarsi».43 Il Percopo pubblicava, inoltre, la lettera inviata ad Antonio Panormita il 6 maggio del 1463 (2) di cui aveva ricevuto una copia dall’amico Tammaro De Marinis, dopo averla controllata alla c. 113v del Vat. lat. 337,44 contenente le Epistolae diversorum illustrium virorum ad dominum Antonium Panhormitam autografe del Beccadelli.45 In realtà si tratta di una lettera dallo scarso valore in cui il Pontano, scrivendo dall’accampamento regio al suo amatissimo Panormita, lo aggiornava a proposito di un certo invio di denaro a favore del figlio di questi, Tonio, ma è l’unica che si sia conservata del Pontano al Panormita. Recuperava, invece, la lettera del 12 ottobre 1493 a Ferdinando I (46) dai Collecta, o più comunemente Notamenta, del giureconsulto Antonio Afeltro considerato dal Percopo il miglior codice di Notamenti che conoscesse.46 La lettera ad Alfonso II dell’11 luglio 1494 (50) fu pubblicata per la prima volta da Carlo Rosselli del Turco,47 come diretta a Massimiliano re dei Romani, secondo la lezione del Magliabechiano XXV, P. 3, 10 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenz;48 successivamente anche dal Percopo,49 con le varianti dei manoscritti 2312 della Biblioteca Riccardiana di Firenze50 e Sessoriano 235 della Nazionale di Roma. Dall’Ambrosiano E. 30 inf.51 è tratta la lettera diretta a Suardino Suardo del 31 dicembre 1502 (59) pubblicata per la prima volta dal De Nolhac e poi dal Percopo.52 La lettera inviata dal Pontano al Sannazaro nel 1503 (60), ricopiata nel manoscritto 3261 della Österreichische Nationalbibliothek 53 che contiene le opere antiche scoperte dal Sannazaro e da lui trascritte (i Carmina di Ausonio, l’Halieuticon di Ovidio, il Cynegeticon di Nemasiano e quello di Grazio Falisco), già pubblicata dal Summonte in appendice alla sua edizione delle opere pontaniane del 1507,54 fu poi riedita dal Tallarigo, dal Percopo e, in ultimo, dal Vecce.55 E sempre il Percopo ci offriva notizia di una lettera autografa del Pontano, senza indirizzo né data, che doveva trovarsi, secondo il vecchio 1354

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catalogo della Biblioteca Estense di Modena, nel cod. Estense 835, terzo volume di una preziosa raccolta di lettere messe assieme, in ordine alfabetico, dal Tiraboschi, raccolta di cui, al momento, non vi è traccia. Percopo sospettò che si trattasse della stessa lettera, sempre senza indicazione di data, che, scritta e firmata dal Pontano di sua mano, si trovava tra quelle autografe nella collezione di Egidio Francesco Succi in Bologna.56 Sempre nella sua edizione delle lettere pontaniane del 1907, il Percopo inseriva tra le apocrife una lettera inviata dal Pontano al Panormita su di un codice di Orazio, posseduto un tempo dal Guarino, poi sperduto e ritrovato a Firenze da Gioviano.57 Il Guarino possedette realmente un codice oraziano che, insieme a quello del Vittorino, formò intere generazioni di umanisti. Il codice di Vittorino sarebbe rimasto per dieci anni nelle mani di Gregorio Correr, per poi passare in quelle del Filelfo che lo avrebbe restituito al proprietario solo sul finire del 1440. Quello del Guarino, invece, da lui stesso collazionato con un altro codice oraziano e, sul finire del 1439, ancora in possesso del Veronese che ne chiedeva la restituzione a Carlo Marsuppini, sarebbe poi passato, stando a ciò che dice la lettera, nelle mani del Pontano.58 La lettera fu illustrata e pubblicata da Carlo de’ Rosmini che dichiarava di averla ricevuta «per gentil dono del sign. don Michele Arditi, cavaliere gerosolomitano, accademico ercolanese ecc.», insieme ad un’altra del Corcino (?) al Pontano, la quale non pubblicò «per amore di brevità».59 Il Percopo non si preoccupò neanche di andarla a recuperare ritenendola certamente apocrifa. In quest’ultima, fra le altre cose, l’umanista prega il Panormita di mandargli il codice autografo degli Erotemata di Guarino: «Erotemata Guarini optimi praeceptoris nostri autographa certa et correctissima tibi mitto [...]». Il Sabbadini, che, inizialmente, aveva creduto autentica quella lettera, si convinse poi della sua falsificazione, dimostrata, del resto, sin dal 1826, dal Tafuri. Dal canto suo, il Percopo non aveva dubbi nel considerare questa lettera, insieme a quelle del Pontano al Caracciolo60 e del Caracciolo al Pontano,61 come proveniente dalla «Collezione di lettere pontaniche», posseduta, nel principio del sec. XIX, dall’archeologo leccese Michele Arditi (1746-1838) e poi dal suo discendente Carlo Luigi, di Presicce, ed inaccessibile agli studiosi italiani, tanto che il Percopo si lamentava del fatto che al Mommsen e al Gothein fu possibile, per tramite del Viola, studiare la lettera del Pontano al Caracciolo, ma a lui no.62 Le due lettere riguardanti l’orazione a Carlo VIII63 furono pubblicate da 1355

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Torraca e Viola64 con la confutazione degli argomenti addotti dal Morandi e dal Tallarigo contro il racconto del Guicciardini e l’autenticità di quelle lettere. Che Pontano, in qualità di primo ministro e, quindi, di persona più autorevole del Regno, abbia recitato un’orazione dinanzi a Carlo VIII pare ormai cosa certa, ed è anche facile collocare l’episodio al momento della consegna di Castel Capuano. Altrettanto facile è ipotizzare che tanto la consegna delle chiavi quanto la pronunzia del discorso avvennero in pieno accordo con Ferrandino e che, quindi, il fedele Pontano non si sia macchiato affatto di tradimento. Sulla base di quali elementi questa orazioncella d’occasione abbia acquisito lo spessore di un’orazione ufficiale pronunciata dall’umanista nella cattedrale di Napoli il 12 maggio del 1495, non è lecito saperlo. Eppure fu proprio uno storico dall’autorevolezza del Guicciardini a far sì che l’episodio assumesse questi toni e che, cosa ben più grave, l’indiscussa fedeltà del Pontano nei confronti della corona aragonese ne uscisse compromessa per sempre.65 L’autenticità – ormai, ricordavamo, fuor di dubbio – e, soprattutto, il reale spessore dell’orazioncella hanno rappresentato argomenti a lungo discussi dagli storici e dagli studiosi del Pontano. Ed il Percopo non ebbe alcun dubbio nel considerare le due lettere in questione, come, del resto, tutte le composizioni degli accademici pontaniani, contenute nella raccolta dell’Arditi, contraffazioni dell’erudito napoletano Gian Vincenzo Meola. E alla domanda che si poneva il Torraca alla fine della sua confutazione: «chi e per qual fine le avrebbe foggiate?» il Percopo rispondeva senza alcun dubbio che si era trattato del «Meola, povero, per venderle al ricchissimo Arditi»,66 dolendosi altresì del fatto che tanti intellettuali si fossero ostinati nel voler prestar fede alle carte arditiane. Tra le lettere apocrife, il Percopo inseriva anche l’Epistola in qua de lapide, quem philosophorum vocant, agitur67 tratta dal Capponiano 58 della Biblioteca Vaticana, una miscellanea alchimistica del Seicento,68 dove viene detta di «Johannis Pontani summi philosophi». La lettera fu certamente composta da un alchimista timoroso di essere perseguitato e che scelse Pontano per l’attribuzione della lettera da lui redatta per la somiglianza da lui intravista tra l’alchimia e l’astrologia giudiziaria, di cui Pontano si era occupato in qualche sua opera.69 Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, intanto, erano apparse le corpose edizioni di epistole pubbliche a firma, anche, di Giovanni Pontano, edizioni che, pur con i limiti dei criteri editoriali e filologici 1356

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dell’epoca, rappresentano, nella stragrande maggioranza delle missive, l’unica fonte sopravvissuta ai bombardamenti che, in occasione del secondo conflitto mondiale, colpirono la città di Napoli distruggendo il materiale d’Archivio. Luigi Volpicella70 pubblicava 56 istruzioni indirizzate da re Ferdinando ad ambasciatori, agenti e funzionari del Regno dal 19 novembre 1486 al 10 maggio 1488. Gli originali Libri Istructionum, che si conservavano nell’Archivio del Regno di Napoli, fra i copiari della Cancelleria aragonese, mancavano sin dal XVI secolo quando, però, era stata realizzata una copia del secondo, mentre del primo, presumibilmente, la copia non fu mai realizzata oppure andò perduta. Nella Biblioteca Nazionale di Napoli si conservano due esemplari, o della copia suddetta o di altre copie che si produssero parallelamente, i codici XV B 17 e XIV A 14; il primo fu donato alla biblioteca da Camillo Minieri Riccio, mentre il secondo era già in possesso dalla stessa biblioteca.71 Le istruzioni qui contenute vanno dal 10 maggio 1486 al 10 maggio 1488, e sono in tutto 111. Fu la Società napoletana di Storia Patria, costituita nel 1842 da Carlo Troya, ad affidare a Scipione Volpicella l’incarico di una prima pubblicazione del materiale documentario. Il progetto, però, non fu portato a compimento nonostante i due tentativi intrapresi: l’uno nel 1847 interrotto già l’anno seguente quando la Società di sciolse; l’altro quando una decina d’anni dopo il Museo di Scienze e Letteratura, per i cui tipi Volpicella stava curando un’edizione corredata di note, cessò le sue pubblicazioni periodiche. In un terzo tentativo, la Società pensò di affidare l’incarico a Luigi, figlio di Scipione Volpicella. Come afferma egli stesso, nella prefazione alla sua pubblicazione, che è del 1916, ai due codici menzionati, egli ne aveva aggiunto un terzo, che aveva «avuto la ventura di scovare in Napoli nella biblioteca della famiglia Taccone di Sitiziano», per gentile concessione del marchese Giuseppe.72 Nonostante ciò, aveva ugualmente deciso di esemplare la sua edizione sul codice XV B 17, «come del pari si era fatto nelle precedenti ristampe».73 Nella seconda metà del XIX secolo era, invece, stata la volta del Codice Aragonese, pubblicato dal direttore generale degli Archivi napoletani, Francesco Trinchera, e contenente centinaia di lettere sottoscritte dal nostro umanista.74 L’opera, in tre parti, pur testimoniando solo tre volumi originali della Cancelleria aragonese, intitolati Registri exterorum, 1357

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piccolo avanzo di tanti altri Registri perduti, ha messo comunque in salvo dal bombardamento tedesco che colpì Napoli ed il suo Archivio nel 1943 una straordinaria mole di materiale documentario e, tra di essa, più di 600 lettere a firma del Pontano. Esse, datate dall’ottobre del 1491 al gennaio del 1494, confluiscono nel secondo volume dell’opera, diviso, a sua volta, in due parti: la prima, pubblicata nel 1868, contiene 275 lettere sottoscritte dal segretario Pontano; la seconda, pubblicata nel 1870, ne contiene altre 352. Si tratta di lettere spedite in nome del re a principi e Stati stranieri, ad ambasciatori napoletani, private persone e plenipotenziari di vario genere in terre straniere, che fanno luce sugli eventi intricati di questi anni del regno di Ferdinando I, e gettano luce sugli eventi che sfociarono nell’invasione di Carlo VIII. Al 1893 risale la pubblicazione di Ferdinando Gabotto il quale, già nella primavera del 1890 pubblicava su di un periodico settimanale fiorentino, «Vita Nuova»,75 3 lettere inedite del segretario napoletano in nome di Ippolita Sforza, duchessa di Calabria,76 che sarebbero poi confluite nell’edizione delle 146 lettere sottoscritte dal Pontano e ritrovate nell’Archivio di Stato di Milano. Tra queste soltanto due, a firma di Ferrante, risalgono al primo periodo di servizio dell’umanista: una datata 5 luglio 1461,77 l’altra 8 agosto 1462;78 segue un manipolo di lettere scritte tra il 1475 e il 1482 a nome di Ippolita Sforza; le rimanenti arrivano sino al 1494 anche se, per lo più, ricoprono il biennio 1482- 1484. Felice Fossati, infine, pubblicava nel 1907 venti lettere rintracciate nell’Archivio di Milano e risalenti agli anni 1480-1484.79 Più di recente, invece, Alfonso Paolella80 ha pubblicato 13 lettere conservate nel fondo Fusco81 della Biblioteca Nazionale di Napoli. Allo studioso, «resta del tutto ignoto il motivo della trascrizione, da parte del Fusco, di questi documenti», in origine conservati nei registri Collaterale Curie della Cancelleria Aragonese con la segnatura «Curie 2 olim IV dal 1494 al 1496 ... I documenti, non pubblicati dalle Fonti Aragonesi, sono quasi tutti conservati nel fascicolo 6 della busta XII che raccoglie non solo lettere integrali e frammenti di lettere o riassunti a firma del Pontano, ma anche 6 trascrizioni di documenti redatti nel febbraio-marzo 1495, ovvero durante il dominio di Carlo VIII».82 Delle 13 lettere, 6 sono quelle inedite: di queste, 4 sono a nome di Alfonso II; una dell’8 giugno 1494 è diretta al tesoriere di Calabria Ultra,83 un’altra dell’8 luglio 1494 al capitano di Sulmona,84 l’altra del 17 gennaio 1358

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1495 a Carlo d’Aragona,85 l’ultima del 22 gennaio 1495 al conte Luigi da Capua;86 le altre due sono a nome di Ferdinando II, quella del 26 gennaio 1495 alla contessa di Nola,87 e quella dell’8 febbraio 1495 al tesoriere di Calabria Citra.88 Anche le lettere di questa copia già edite sono ripubblicate dal Paolella perché, come egli stesso ci dice, rispetto alle riproduzioni dell’Ottocento, ha voluto ripristinare quella patina linguistica del Quattrocento che in alcune edizioni moderne è andata perduta per ritocchi più o meno raffinati.89 Della lettera del 17 luglio 1494, indirizzata da Alfonso II al Consiglio di Otranto,90 era stato pubblicato solo un frammento dal Barone91; ancora il Barone pubblicava, per intero, altre due lettere di Alfonso II del 20 ottobre 1494, una al conte di Alife, Pascasio Diaz Garlon,92 l’altra al maestro della Zecca, Gian Carlo Tramontano.93 Un’altra lettera del 23 ottobre 1494, anch’essa del re al maestro della Zecca, era stata invece pubblicata dal Bianchini.94 Ancora il Barone trascrisse parzialmente la lettera del 30 ottobre 1494 di re Alfonso II a Camillo Pandone;95 mentre pubblicò per intero un’altra lettera, del 27 gennaio 1495, di Ferdinando II allo stesso Pandone, che però era stata già pubblicata dal Reumont nel 1857 e dal Tallarigo nel 1874.96 L’ultima lettera pubblicata dal Paolella, seppure non indicata come inedita e priva di altra indicazione, è del 13 febbraio 1495, indirizzata dal re Ferdinando II all’abate Antonio dell’abbazia di San Benedetto di Salerno.97 L’ultimo gruppo di lettere a firma anche del Pontano, ma sfuggite al regesto compilato dalla Doglio, è costituito da 18 lettere appartenenti al carteggio «d’indole familiare che i membri della dinastia aragonese di Napoli ebbero, durante la seconda metà del secolo XV, con i capi della casa de’ Medici».98 Queste lettere sono state pubblicate tra il 1940 ed il 194199 dal Pontieri che le aveva rintracciate nel fondo Mediceo Avanti il Principato nel corso di una sistematica ricerca del materiale documentario avente a che fare con la congiura dei baroni contro Ferrante. Benché irrilevanti ai fini della ricerca che stava conducendo, tale corrispondenza parve assai preziosa al Pontieri perché colmava delle importanti lacune dei fondi della Cancelleria aragonese dell’Archivio di Stato di Napoli, che, di lì a qualche anno, sarebbe andato incontro al suo tragico destino. Ma ritornando ad anni più recenti, Maria Luisa Doglio, nel 1973, rinviene nel manoscritto 19 della Biblioteca Nazionale Braidense100 e pubblica 1359

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5 lettere inedite del nostro umanista: la lettera di Alfonso, duca di Calabria, e Giovanni Pontano a Ludovico Sforza dell’8 agosto 1483;101 le due lettere di Ferdinando I e Giovanni Pontano a Giangaleazzo Maria Sforza rispettivamente del 4 aprile 1490102 e del 3 luglio 1491;103 la lettera di Ferdinando I e di Giovanni Pontano a Simonetto Belprat del 13 settembre 1491;104 e, infine, quella di Alfonso II e Giovanni Pontano a Giangaleazzo Maria Sforza del 25 gennaio 1494.105 Nel 1980 sarà invece la volta di Liliana Monti Sabia, che pubblica, previa segnalazione di Giuseppe Billanovich, un importante documento della Bodleian Library, segnato MS. Don. c. 42,106 cc. 41-42, e pervenuto in quella biblioteca solo qualche anno prima, nel 1972, donato dai ‘Bodley’s American Friends’.107 Benché privo di intestazione, luogo di composizione, data e firma, la Monti Sabia, non ha dubbi nell’attribuirlo alla mano dell’anziano Pontano. Si tratta della bozza di una lettera che Giovanni Pontano compose a nome degli Eletti di Napoli non oltre il 12 maggio 1503, e destinata a Luigi XII (61). La paternità pontaniana del documento fu già riconosciuta dall’anonimo che, nel sec. XVI, sull’ottavo inferiore sinistro del verso della c. 42, bianca, annotò Pro Neap. ad Regem Gallorum Ponts. E quasi cinque secoli dopo, sempre al Pontano tornava ad attribuirla Albinia de la Mare, nel Catalogo della mostra di autografi di umanisti italiani tenuta nella Bodleian Library nel dicembre 1974,108 due anni dopo che essa era entrata a far parte dei suoi manoscritti. Dopo una eclissi di secoli, la lettera era già riapparsa in circolazione nel catalogo dell’asta di Sotheby del 25 giugno 1968.109 Essa deve aver fatto parte della collezione messa insieme nella prima metà del sec. XVII da Sir Edward Dering, antiquario ed uomo politico del Kent (1598-1644), ed essere stata venduta poi dagli eredi, con altri manoscritti di tale collezione, in una delle quattro aste tenutesi a Londra, nel 1858, 1861, 1863 e 1865, e quasi certamente nell’ultima, del 13 luglio 1865, in quel lotto 942 in cui era descritta un’altra lettera del Pontano, indirizzata ad Alfonso II il 13 ottobre 1493.110 In quell’occasione essa dovette entrare a far parte della raccolta di Sir Thomas Phillipps, che a tale asta effettuò molti acquisti: sicuramente, con la biblioteca del Phillipps, essa fu poi messa all’asta da Sotheby nel giugno 1968. Tuttavia, sul margine della c. 41r si legge un’annotazione, di mano ottocentesca, «Lot 751», che fa sospettare che essa sia stata oggetto anche di una vendita all’asta diversa da quelle dei manoscritti Dering e Phillipps. Poiché solo due anni dopo l’asta 1360

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Phillipps la lettera venne comprata dai ‘Bodley’s American Friends’ è molto probabile che tale indicazione si riferisca ad un’asta precedente, quella dei manoscritti Dering del 1865.111 Appena due anni dopo la stessa Monti Sabia, tornava a pubblicare altre due lettere inedite del Pontano a Jacopo Antiquari, tratte dal cod. V B 42 della Nazionale di Napoli,112 manoscritto del XV sec. contenente due opere in prosa del Pontano: il De fortitudine e il De obedientia.113 Sul verso della prima carta del codice (il cui recto è bianco) si trovano due lettere indirizzate entrambe a Jacopo Antiquari e datate rispettivamente 7 maggio 1487 (20) e 28 gennaio 1488 (26), immediatamente di fronte all’inizio del De fortitudine, che si legge sul recto della c. 2. Nonostante le lampanti difformità di scrittura tra una lettera e l’altra, la Monti Sabia, le ritiene entrambe vergate dalla mano del Pontano.114 Nel 1999 Michele Rinaldi,115 pubblicava una lettera del Pontano a Filippo Strozzi «il Vecchio» dell’11 settembre 1464 (3), contenuta in un codice della Bibliothèque Nationale de France segnato Nouvelle Acquisition Latine 1520,116 ampia miscellanea che contiene epistole di vari umanisti. Alla c. 75rv, incollata su di un listello inserito nel margine sinistro della legatura, si legge la lettera in questione, vergata di mano del Pontano e realmente spedita. Ma parecchie delle lettere del Pontano sono state rinvenute anche negli archivi di molte città. Fonti inesauribili di scoperte, gli archivi custodiscono materiali inediti spesso difficilmente accessibili agli studiosi, ai quali, il più delle volte, le lettere scoperte devono essere segnalate dagli archivisti stessi. E così, nell’Archivio di Stato di Mantova sono state recuperate le lettere: a Ippolita Sforza del 18 maggio 1482 (5), pubblicata da Giuseppe Coniglio; a Ferdinando I del 23 agosto 1482 (7), pubblicata sempre dal Coniglio;117 3 a Francesco Gonzaga, rispettivamente del 12 giugno 1491 (34), pubblicata dalla Doglio,118 del 27 maggio 1500 (54), pubblicata dal Percopo che ricevette la lettera da Alessandro Luzio, direttore dell’Archivio di Mantova,119 e poi dalla Doglio,120 e, infine, del 13 novembre 1500 (55), pubblicata da Luzio e Renier,121 ma prima, per loro concessione, da Soldati nell’introduzione ai Carmina pontaniani, dal Percopo, dall’Oeschger e dalla Doglio;122 3 a Carlo de Ruggiero, rispettivamente del 7 febbraio 1492 (40), del 24 gennaio 1494 (47), e del 25 gennaio 1494 (48), tutte pubblicate dal Figliuolo.123 1361

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Nell’Archivio di Stato di Milano, da dove la ripubblica Figliuolo, correggendo la copia dell’Archivio di Stato di Mantova, l’unica nota al Coniglio, è stata reperita la lettera a Ferdinando I del 23 agosto 1482 (7) e quella a Ludovico il Moro del 31 luglio 1483 (11), edita pure dal Figliuolo.124 Nell’Archivio di Stato di Firenze si conservano invece le lettere: a Filippo di Matteo di Simone Strozzi dell’11 marzo 1483 (8), pubblicata dal Figliuolo;125 a Lorenzo de’ Medici del 12 marzo 1483 (9), pubblicata dal Percopo;126 ad Alfonso, duca di Calabria, del 26 febbraio 1482 (4), pubblicata dal Percopo;127 a Gian Giacomo Trivulzio del 26 agosto 1486 (19), pubblicata dal Figliuolo;128 il documento inviato, il 31 luglio 1492, da Pontano, Taverna e Valori ai rispettivi signori di Napoli, Milano e Firenze, pubblicato dal Figliuolo;129 a Dionigi Pucci del 3 luglio 1494 (49), pubblicata da Rosselli del Turco130 e poi dal Percopo;131 una bozza d’accordo tra Napoli, Roma e Firenze in relazione alla situazione di Città di Castello, risalente al 2 marzo 1484 e firmata da Giovanni Pietro Arrivabene oltre che dal Pontano, pubblicata dal Figliuolo.132 Anche l’Archivio di Stato di Modena conserva numerose lettere inviate dal Pontano: 6 a Nicolò Bendedei, rispettivamente il 23 luglio 1483 (10), il 4 agosto 1483 (12), il 14 agosto 1483 (13), il 18 agosto 1483 (14), il 6 novembre 1483 (15) ed infine l’11 aprile 1484 (18), tutte pubblicate dal Percopo;133 3 ad Ercole I d’Este, rispettivamente il 6 novembre 1483 (16), il 17 novembre 1483 (17) e il 4 maggio 1492 (42), tutte pubblicate dal Percopo;134 6 ad Eleonora d’Aragona, rispettivamente il 20 gennaio 1489 (27), il 22 dicembre 1489 (28), il 28 maggio 1490 (31), il 24 maggio 1491 (33), conservata nella sezione Carteggio Principi Esteri, come ci informa il Figliuolo, che, tuttavia, non ne pubblica il testo essendo la lettera completamente in cifra,135 il 28 gennaio 1492 (39), il 3 luglio 1492 (45), anche in questo caso tutte pubblicate dal Percopo,136 ad eccezione della lettera del 24 maggio 1491 edita dal Figliuolo. Nel 1986 Piergiacomo Pisoni, archivista del Palazzo Borromeo di Isola Bella, segnalava a Liliana Monti Sabia, la presenza, presso quell’Archivio, con la collocazione Autografi, Lettera P, n. 13, ma proveniente dagli Archivi Estensi, di una lettera del Pontano inviata ad Eleonora d’Aragona il 15 aprile 1490 (29).137 Si tratta di una delle più struggenti tra le lettere private del Pontano, che ringraziava la duchessa per l’epistola consolatoria da lei ricevuta in occasione della morte della tanto amata moglie Adriana.138 La prima parte della lettera è lo sfogo senza remore 1362

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di un uomo che ha perduto la compagna di una vita e che guarda, spaventato, alla prospettiva della solitudine che incombe su di lui. Se, infatti, sarà possibile lenire il dolore, il peso della solitudine non farà altro che crescere con gli anni. È solo compiendo un enorme sforzo, dunque, che Pontano accetta gli incoraggiamenti della duchessa, rimettendosi alla volontà di Dio. Ma nella seconda parte della lettera, distinta anche materialmente dalla prima attraverso un rigo lasciato in bianco, l’uomo privato cede il posto al personaggio pubblico, al primo ministro tenuto ad informare dettagliatamente la duchessa sulle cose di corte. La lettera ha permesso altresì di fissare con assoluta certezza l’anno della nascita del Pontano (prima fissato al 1422, 1424, 1426) al 1429: vi si legge infatti «essendo già de XLI anno».139 Nell’Archivio privato Orsini di Roma è stata invece rinvenuta la lettera inviata a Virginio Orsini il 16 aprile 1491 (32), pubblicata da Pasolini e poi dal Percopo.140 Da ultimo, la ricerca d’archivio ha portato Bruno Figliuolo, a pubblicare nel 2012 la Corrispondenza che, pur riproponendo 144 delle 146 lettere già edite dal Gabotto e tutte custodite nell’Archivio di Stato di Milano,141 9 già edite dal Coniglio e conservate a Mantova,142 una dal Prizer conservata nell’Archivio di Mantova,143 17 dal Fossati,144 5 dalla Castaldo,145 3 da entrambi146 custodite nell’Archivio di Milano, una dell’Archivio di Stato di Modena edita dal Figliuolo, stesso,147 18 già edite dal Pontieri148 e una dal Cattana149 dell’Archivio Mediceo Avanti il Principato, una del fondo Dieci di Balia dell’Archivio di Firenze già edita dallo Scorza,150 una dell’Archivio di Stato di Mantova già uscita nel Codice Aragonese,151 aggiunge alla nostra conoscenza dell’epistolario pubblico pontaniano un patrimonio di ben 403 lettere inedite, divise tra Archivi di Siena, Mantova, Milano, Modena, Biblioteca Nazionale di Francia e Archivio fiorentino tra i fondi Mediceo Avanti il Principato, Signori, Strozziane, Dieci di Balia, Otto di Pratica.152

NOTA AL TESTO Di seguito viene riproposto il testo delle lettere a firma esclusiva di Giovanni Pontano. Di ogni lettera vengono fornite le indicazioni del mittente e del destinatario, i dati cronotopici, le intestazioni e le formule di saluto finali, oltre ad un breve sunto del contenuto. A queste indicazioni 1363

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seguono le fonti, manoscritte e a stampa, e, infine, la Bibliografia:, nella misura in cui è stato possibile reperirla. La versione delle lettere riportata è quella attestata dalle edizioni più recenti, in caso di mancanza di originale, o dagli originali, qualora questi siano ancora consultabili. Per le lettere pubblicate dagli anni Settanta in poi a cura di Liliana Monti Sabia, Lucia Gualdo Rosa, Bruno Figliuolo, ed altri, si è preferito riproporre il testo con l’indicazione dello scioglimento delle abbreviazioni che è stato uniformemente indicato dalle parentesi quadre. Le stesse sono state adottate per segnalare eventuali lacune meccaniche, mentre le parentesi uncinate per racchiudere integrazioni congetturali. Si è ritenuto, per l’impossibilità di adottare un criterio univoco tra le edizioni più e meno datate, di adottare la grafia “u” per il solo suono vocalico e non anche per quello consonantico. Si precisa che, tra questi emendamenti, gli unici frutto di un mio intervento personale sono quelli riguardanti la edizione percopiana delle lettere di seguito riproposte. Nel caso di queste lettere, inoltre, si è proceduto ad una, seppur minima, normalizzazione della punteggiatura ma non della grafia nella convinzione che un intervento in questa direzione avrebbe contribuito ad aggiungere un’ulteriore patina a quella che fu la versione originaria del testo della missiva. ANNA GIOIA CANTORE

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Nota bibliografica

SIGLE ABI AOR ASF ASF, MAP ASM ASMn, AG ASMo ASMo, CPE

Archivio Borromeo di Isola Bella Archivio privato Orsini di Roma Archivio di Stato di Firenze Archivio di Stato di Firenze, Mediceo Avanti il Principato Archivio di Stato di Milano Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga Archivio di Stato di Modena Archivio di Stato di Modena, Carteggio Principi Esteri

A F1

Roma, Biblioteca Angelica, ms. 1001 (R 6. 16) Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechiano XXV, P. 3, 10 Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 2312 London, British Library, Additional Manuscript 22818 Napoli, Biblioteca Governativa dei Girolamini, XXVI 4 Napoli, Biblioteca Governativa dei Girolamini, XXVIII 4 Napoli, Biblioteca Nazionale, V B 42 Napoli, Biblioteca Nazionale, V F 20 Napoli, Biblioteca Nazionale, X B 2 Napoli, Biblioteca Nazionale, XIII D 27 Oxford, Bodleian Library, MS. Don. c. 42 Paris, Bibliothèque Nationale de France, Nouvelle Acquisition Latin 1520 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Sessoriano 235

Fr L G1 G2 N1 N2 N3 N4 O P2 R

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V5 W

Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 3372 Wien, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 3261

ABBREVIAZIONI SPAGNOLI = BAPTISTAE MANTUANI CARMELITAE, Omnia opera, Bononiae, per Benedictum Hectoris, 1502. CALENZIO, Opuscula = ELISII CALENTII, Opuscula, Romae, per I. de Besicken, 1503. PONTANO = I. I. PONTANI Actius, Aegidius, Asinus, Coryle, Quinquennius, Neapoli, S. Mayr, 1507. PONTANO, Opera = I. I. PONTANI, Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis, in aedibus Aldi et Andrea soceri, 1519, voll. I-III. ALBINO = G. ALBINO, Lettere, istruzioni ed altre memorie de’ re Aragonesi dalle quali si conferma quanto narra Giovanni Albino ne’ quattro libri della storia qui davanti stampati e si supplisce ciò che vi manca, a cura di O. ALBINO, in JOHANNIS ALBINI LUCANI, De gestis Regum Neapolitanorum ab Aragonia qui extant libri quatuor, Neapoli, apud I. Cacchium, 1589 (poi Napoli, Gravier, 1769). TAFURI = M. TAFURI, Notizia intorno alla vita di Gabriele Altilio, premessa a G. ALTILIO, Epitalamio, a cura di M. TAFURI, Napoli, Stamp. Simoniana, 1803. COLANGELO, Sannazzaro = F. COLANGELO, Vita di Giacomo Sannazzaro poeta e cavaliere napolitano, Napoli, Trani, 1819. COLANGELO, Pontano, = F. COLANGELO, Vita di Gioviano Pontano, Napoli, Trani, 1826. TALLARIGO = C. M. TALLARIGO, Giovanni Pontano, e i suoi tempi, Napoli, presso D. Morano librajo-editore, 1874, voll. I-II. ROSSELLI DEL TURCO = C. ROSSELLI DEL TURCO, Giovanni Gioviano Pontano, «Rivista Universale», n. s., XXVI (1877). FIORENTINO = F. FIORENTINO, Egidio da Viterbo ed i pontaniani di Napoli, «Archivio Storico per le Province Napoletane», IX (1884), pp. 430452, poi in ID., Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, Tip. D. r. Università, 1885, pp. 251 ss. (rist. anast., Sala Bolognese, Forni, 1982, e Napoli, Vivarium, 1994). 1366

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NOTA BIBLIOGRAFICA

NUNZIANTE = E. NUNZIANTE, Alcune lettere di Joviano Pontano, «Archivio Storico per le Province Napoletane», XI (1886), pp. 518-553 (poi Napoli, Giannini, 1886, pp. 529-549). DE NOLHAC = P. DE NOLHAC, Les correspondants d’Alde Manuce, Materiaux nouveaux d’histoire littéraire (1483-1514), Roma, Imprimerie Vaticane, 1888. PASOLINI = P. D. PASOLINI, Caterina Sforza, Roma, Loescher, 1893, voll. I-III. PERCOPO, Un memoriale = E. PERCOPO, Pontaniana. III, Un memoriale del Pontano, ad Alfonso II d’Aragona (1494), «Studi di letteratura italiana», III (1901), pp. 199-207 (poi Napoli, Giannini, 1902). LUZIO-R ENIER = A. LUZIO-R. R ENIER, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, «Giornale Storico della Letteratura italiana», XL (1902), pp. 289-333. SOLDATI = G. PONTANO, Carmina, a cura di B. SOLDATI, Firenze, Barbèra, 1902, voll. I-II. PERCOPO, Lettere = E. PERCOPO, Lettere di Giovanni Pontano, a principi ed amici, «Atti della Accademia Pontaniana», s. II, XII (1907), pp. 1-83. PERCOPO, Nuove lettere = E. PERCOPO, G. Pontano. Nuove lettere a principi e amici, «Atti della Accademia Pontaniana», s. II, XXI (1926), pp. 187-220. OESCHGER = I. I. PONTANI, Carmina, a cura di J. OESCHGER, Bari, Laterza, 1948. CONIGLIO = G. CONIGLIO, La partecipazione del regno di Napoli alla guerra di Ferrara (1482-1484), «Partenope», I (1961), pp. 53-74, poi in ID., Scritti minori da ricerche archivistiche, Napoli, Giannini, 1988, pp. 105142. MAURO = I. SANNAZARO, Opere volgari, a cura di A. MAURO, Bari, Laterza, 1961. FUIANO = M. FUIANO, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, 1: I ludi literari, «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., XVIII (1969), p. 206 DOGLIO, Cinque lettere = M. L. DOGLIO, Cinque lettere inedite del Pontano, «Lettere italiane», XXV (1973), pp. 215-225. DOGLIO, Una lettera = M. L. DOGLIO, Una lettera inedita del Pontano, «Lettere italiane», XXVI (1974), pp. 233-236. 1367

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LETTERE

MONTI SABIA, Estremo autografo = L. MONTI SABIA, L’estremo autografo di Giovanni Pontano, «Italia medioevale e umanistica», XXIII (1980), pp. 293- 314. CALENZIO, Poemata = ELISII CALENTII, Poemata, a cura di M. de NICHILO, Bari, Adriatica, 1981. MONTI SABIA, Due lettere = L. MONTI SABIA, Due lettere del Pontano, a Jacopo Antiquari, «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., XXXI (1982), pp. 1-19. MONTI SABIA, Una lettera = L. MONTI SABIA, Una lettera inedita di Giovanni Pontano, a Eleonora d’Este, «Italia medioevale e umanistica», XXIX (1986), pp. 165-182. VECCE = C. VECCE, Iacopo Sannazaro in Francia. Scoperte di codici all’inizio del XVI secolo, Padova, Antenore, 1988. EGIDIO DA VITERBO = E. DA VITERBO OSA, Lettere familiari, a cura di A. M. VOCI ROTH, Romae, Institutum historicum Augustinianum, 1990, voll. I-II. DOGLIO, Il “dichiarar per lettera” = M. L. DOGLIO, Il “dichiarar per lettera” del Pontano, in Miscellanea di studi critici in onore di Pompeo Giannantonio, II 1, Letteratura meridionale, «Critica letteraria», XXIII, 88-89 (1995), pp. 5-32, poi in EAD., Lettera come manifesto. Il «dichiarar per lettera del Pontano, in EAD., L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epistolare tra Quattro e Seicento, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 29-48. R INALDI, Un’inedita = M. R INALDI, Un’inedita lettera del Pontano, a Filippo Strozzi «il Vecchio», «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., XLVIII (1999), pp. 419-429. DE RUGGIERO =M. G. DE RUGGIERO, Il poetico narrare di Elisio Calenzio, umanista del Quattrocento Napoletano, Salerno, Palazzo Vargas edizioni, 2004. FIGLIUOLO, Un documento = B. FIGLIUOLO, Un documento e tre lettere inedite di Giovanni Pontano, in Atti della giornata di studi per il V centenario della morte di Giovanni Pontano, a cura di A. GARZYA, Napoli, Accademia Pontaniana, 2004, pp. 45-52. R INALDI, Gli ultimi giorni = R. R INALDI, Gli ultimi giorni di Giovanni Pontano, «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., LIII (2004), pp. 57-67. PAGLIAROLI = S. PAGLIAROLI, L’Erodoto del Valla, in Valla e Napoli. Il dibattito filologico in età umanistica, Atti del convegno internazionale, 1368

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Ravello, Villa Rufolo, 22-23 settembre 2005, a cura di M. SANTORO, Pisa- Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 2007, pp. 113-128. FIGLIUOLO, (Pen)ultime = B. FIGLIUOLO, (Pen)ultime lettere inedite di Giovanni Pontano, in Suave mari magno... Studi offerti dai colleghi udinesi a Ernesto Berti, a cura di C. GRIGGIO e F. VENDRUSCOLO, Udine, Forum, 2008, pp. 77-83.

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LETTERE

1 GIOVANNI PONTANO A PIETRO SALVATORE VALLA E GIOVANNI FERRER. Napoli, 1 gennaio 1460. Pontano riassume la vicenda editoriale della traduzione di Erodoto e fornisce un giudizio stilistico sull’opera, rimasta incompiuta alla morte del suo autore, Lorenzo Valla, che l’umanista ricorda con particolare affetto. Fonti ed Edizioni: PONTANO, c. 260; PERCOPO, Lettere, pp. 25-26; FUIANO, p. 206; parzialmente in PAGLIAROLI, pp. 116-117. Bibliografia: G. MANCINI, Vita di Lorenzo Valla, Firenze, Sansoni, 1891, pp. 321323; PERCOPO, Lettere, p. 10; PAGLIAROLI, pp. 117-118; R. MATTHIAS, Pontano’s Virtues, Aristotelian Moral and Political thought in the Renaissance, Bloomsbury, London, 2017.

Jovianus Pontanus Petro Salvatori Vallae et Joanni Ferrario salutem. Etsi verecundia mea vix dignum esse arbitror, ut alieno labori meum nomen inscribam, tamen Petro Salvatori Vallae153 et Joanni Ferrario154 aliquid a Joviano postulantibus, difficile dictu esset non concedere. Efflagitastis enim, ut quoniam Halicarnassei Herodoti historiis mirum in modum delectaremini, quas nuper Laurentius Vallensis in latinum convertisset, sed morte praeventus, incepto operi ultimam nequiverit manum 1371

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LETTERE, 1

imponere, id brevi saltem testarer epistola, ne tantus labor a quo susceptus fuerit, id posteris esset incognitum. Feci itaque non invitus, ut rogatu vestro eruditissimi hominis famae consulerem, quem et vivum amavi et mortuum etiam lacrimis sum prosecutus. Huius autem suscepti operis ratio haec fuit: quod cum ille Neapolim se aliquando contulisset salutandi regis Alfonsi gratia, cui multos ante annos esset cognitus et de rebus Persarum et Graecorum multus inter eos sermo esset exortus, rogatus est a studiosissimo principe, ut Herodotum, quem ea diligentissime complexum esse sciret, sibi latinum redderet. Quod cum ille regi, de se benemerito ac honesta praesertim petenti, non denegasset, ne operam suam, ut erat pollicitus, omnino praestaret, immatura mors effecit. Quo mortuo, rex libros eos, ut erant, Roma sibi deferendos curavit, et in bibliotheca sua diligenter asservari iussit. De hac autem tota conversione, quod meum sit iudicium, novistis. Mallem enim unumquemque sua, quam aliena ad nos afferre. Equidem et Ciceronem existimo, si viveret, gravato id animo esse laturum, si quis Oratorem suum graece loqui faceret, et Demosthenem stomachaturum, si quae ipse attice scripsisset, alia quispiam lingua eloqui vellet. Quod autem ad Herodotum ipsum attinet, sane id est, ut existimem tanti viri ingenium, non parum omnes admirari debere, qui res tam varias, ac tanta diligentia conquisitas, ea suavitate artificioque explicaverit, ut nihil omnino sit, quod eius laudibus recte detrahi possit; nisi forte id aliquis calumniari velit, quod nonnulla apud eum ita legantur, ut ficta, quam facta potius esse videantur. Quae culpa non magis scriptoris, quam temporum illorum est existimanda; quam ego vel potissimam reor esse causam, cum novem ille Musarum nominibus libros suos inscripserit, quasi ipsa operis inscriptione apud posteros id testatum relinquere cuperet. Nam et temporibus non omnino repugnari potest, et Musis aliquanto etiam liberius, ut scitis, loqui concessum est. Sed de hoc licet alii quoque suum afferant iudicium; nihil enim obsisto. Satisfeci, ut opinor, cupiditati vestrae, quod si brevior fortasse sum, quam erat vestrum utriusque aviditas, id occupationibus meis attribuatis. Ad haec, et Laurentii nostri et Herodoti ipsius laudes maiores multo sunt, quam ut eas brevis epistola complectatur. Reliquum est, ut vos ad legendas historias adhorter, ex quibus, si animi quaeratur voluptas, non est unde maior percipi possit; si vitae commoditas, haud ferme invenietur, ubi plura melioraque exempla reperiantur. Valete. Neapoli, kalendis januariis MXXXXLX. 1372

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LETTERE, 3

2 GIOVANNI PONTANO AD ANTONIO PANORMITA.155 Accampamento regio, 6 maggio . Dall’accampamento di Ferrante I, Pontano aggiorna il Panormita a proposito di un certo invio di denaro a favore del figlio di questi, Tonio. Fonti ed Edizioni: V5, c. 113v; PERCOPO, Lettere, p. 27. Bibliografia: P. DE NOLHAC, La bibliothèque de F. Orsini, Paris, Vieweg, 1887, p. 223; PERCOPO, Lettere, p. 10; RESTA, L’epistolario del Panormita cit., pp. 232-233.

Jovianus Pontanus Antonio Panhormitae salutem. Antoni pater, redit ad te Tonnus156 tuus castrensibus laboribus et his nostris curialibus molestiis abunde et supra modum dafatigatus, quamquam nullus, ut tibi subserviat, laboribus videatur posse defatigari: ex eo nosces quanta cum difficultate acta sint omnia, ut in accipienda pecunia facilius a te transigantur caetera. Meum consilium fuit ut Tonnus licteras a Nicolao Antonio157 ad generum eius158 ac Summarie nomine deferret, sed is Beneventum se contulit. Tu in hoc, ne fugitiva ista pecunia alium sibi herum comparet, capies quod sapientius et utilius videbitur consilium. Bene vale cum uxore et liberis.159 E castris regis, in agro campano, VI maii .

3 GIOVANNI PONTANO A FILIPPO STROZZI. Accampamento regio presso il Sinello,160 11 settembre 1464. Pontano dichiara di aver accluso alla presente il lasciapassare di cui lo Strozzi gli muoveva richiesta solo il giorno prima. Lo aggiorna sui possedimenti acquisiti da«messer Jacobo», con ogni probabilità Jacopo Carafa, informandolo, altresì, della 1373

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LETTERE, 4

partenza, sin dalla mattina dell’11, alla volta di Roma del gran camerlengo Iñico d’Avalos161 e del duca di Amalfi, Antonio Piccolomini,162 per presentare obbedienza, in nome del re, al neo eletto papa Paolo II succeduto a Pio II.163 Lo mette infine al corrente del naufragio della galea del priore di Roma, appartenente alla flotta che Pio II aveva allestito per il sogno della crociata antiturca, ma che fu disarmata a Venezia quando il papa morì. Fonti ed Edizioni: P2, c. 75rv; RINALDI, Un’inedita, p. 427. Bibliografia: RINALDI, Un’inedita, pp. 420-426.

Philippo carissimo heri recevi la l[ette]ra v[ost]ra p[er] la pate[n]te del passo la qual ve mando con la p[rese]nte. Anteheri hebbi l[ette]ra da messer Jacobo come haveva havuta la possession[e] del castello et de la terra co[n] singular amor[e] del pop[u]lo et boni hom[in]i, hogi li ho rescripto in diretro; se cosa alcuna posso co[m]mandatemi. Questa matina è partito el Co[n]te Camerlingo et luj, inseme col duca de Amalfi, s[err] anno domeneca che’l Papa se i[n]corona ad darli obedientia i[n] nom[e] de Re. De q[ue]ste galer[e] del Papa q[ue]lla del P[ri]or[e] de Roma è andata in traverso v[er]so Termule, multi so[n]no annegati; l’altr[e] hanno corso no[n] so dove. Reco[m]mandom[i] ad vuj, de campo p[re]sso l’Asenella, XI septe[m] br[e]. V[este]r Pontan[us].

4 GIOVANNI PONTANO AD ALFONSO D’ARAGONA. Spirano, 26 febbario 1482. Pontano mette al corrente il duca di Calabria sui generosi interventi disposti da Ludovico Maria Sforza a favore del duca di Ferrara Ercole d’Este, di Federico Gonzaga oltre che di Alfonso stesso. Pontano parla altresì dell’incarico affidatogli dallo Sforza: recarsi a Lodi per aspettare lì Niccolò de Nigri col denaro.

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LETTERE, 4

Fonti ed Edizioni: ASF, MAP, XLVIII, n. 337, c. 352; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 202-203 (erroneamente datata 26 ottobre 1483). Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Illustrissimo Signore mio. Io dissi alla Vostra Excellentia che la venuta mia qua era superflua, perché con una littera omni cosa averia havuta da[lo] Signor Lodovico che avesse adomandata, et così è seguito, perché, avanti la mia venuta, havea provisto di quatro mila ducati per li fanti et per la famiglia, et l’incresce che per tale causa se abbino perduti né 3 né 4 dì. Al signor Duca di Ferrara manda gioie per mille ducati e al signor Marchese164 farà tale provisione che sarà ben contento, e non è per manchare in cosa che li sia possibile et è per isforzarse ultra vires ha mandato Nicolò de Nigri per pigliare denari, et ha ordinato a me che vada ad aspettare a Lodi per pigliarli, cioè per aspectare lì Niccolò colli denari predetti. Epperò non bisongna perdere giornate all’andare all’impresa. Trovai hieri sera Ambrosio Ferreri a Lodi: disseli delle bombarde ferrarese; scrisse a Cremona che fussero condocte da Canneto a Cremona e poste in acqua. El Signor Duca di Bari è etiam scripto, sollecitando; la crudele non si è possuta deisvitare. Io non so donde si proceda: altri scrive e dice male di Voi, altri del Signor Lodovico sopra l’impresa, biasimando l’uno e l’altro. Così sòle intervenire in queste grande imprese: imperò la ragione e lla prudentia bisongna che prevaglie. El primo dì, che fu venerdì, feci 40 miglia, el secondo, cioè sabato, ne feci 54, arrivando a Lodi, e lì seppi come il Signor Duca di Bari era andato a Trevigli, et ogi l’ò ritrovato in campo ad Spirano presso a Lorano. Io domattina anderò a Lodi per ubidire al Signor Lodovico. Raccomandomi alla Excellentia Vostra. De campo ad Spirano, die dominico 26, hora 22. Illustrissimi Domini Vestri Servus Pontanus.

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LETTERE, 5

5165 GIOVANNI PONTANO AD IPPOLITA MARIA SFORZA. Pereto, 18 maggio 1482. Pontano riferisce dettagliatamente alla duchessa le prime strategie di guerra messe in atto dall’esercito di Alfonso nella campagna romana all’indomani dello scoppio della cosiddetta guerra di Ferrara. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 2189 (copia); CONIGLIO, pp. 111-113. Bibliografia: FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 78 (n. 4).

Ill[ustrissi]ma madama mia. Lo Ill[ustrissi]mo S[igno]re vostro consorte fine in mo ha preparate legne et ad uno tanto foco bisognava fare grande apparato como se è facto de gente da cavallo et da pede; è ben vero che per essere state le gente desperse non cossì facilmente se sono possute radonare maxime per esserse data la imprestanza in li lochi diversi cioè in Napoli et ad Atri et per la militia de Tuscana primo da poy de Otranto li soldati essendo per la longa absentia retornati a la casa è stato alquanto duro retraherli cossì presto da le loro stantie et per Dio gratia ja è venuto el tempo dopo tanto apparato de legna accedere foco et suffiare multo bene. Lo apparato è questo che lo numero de li fanti intra quello che è in le terre de S[igno]ri Colonnisi, lo quale se radunarà in campo pervenuti che siamo in la campagna de Roma et quello che mo è in campo et che infra quattro o cinco dì arrivarà adiungarà et passarà 5000 fanti, non intenda la Ex[cellen]tia V[ostra] paghe ma fanti, lo numero de li homini d’arme erriverà et avanzarà alcuna cosa de mille et duecento homini d’arme et per la declinatione facta dal S[ignor] de Camerino al canto del Papa et da misser Cola Cayetano non se è implito lo numero de li mille et cincocento homini d’arme, numerandose etiam li soldati remasti in terra de Otranto et de Bari, me per Dio gratia el quale may ha abandonate le iuste et ragionevele imprese del S[ignor] Re per la solertia et virtù del Ill[ustrissi]mo S[ignor] V[ost]ro consorte con multo minore exercitio se haverà facto quello che se farrà. Sono hoge in campo trentatrè squadre, quelle de Colonnesi, Prospero166 conte et altri soldati, che sono ad Marino et per 1376

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LETTERE, 5

quelle terre sono sey, sonone in camino che vengono a la sfilata et de hora in hora arrivano quindice che è puro un bello et digno exercito bene ad cavallo de gente exercitata et per la maior parte homini veterani et non gridano Chesa Chiesa, ma ferro ferro, né havemo alcuno capo che habia pagura de andare in pichardia, ma omne uno de questi conducteri va con la spata avante cossì como pò andare con la fronte apta et libera. Io non vidi may la maiore allegria, omne uno se persuade andare ad legar presoni, cossì como soccederà. Se V[ost]ra Ex[cellen]tia me demanda dove sono li inimici, responderò a la Valcha, hanno messo per strechato el Tevere, sono multo occupati in verità alle fazione del campo, cioè ad andare ad guardare la casa del conte Hieronymo ad omne strepito che in Roma ne sono multo spisso et grande et se penza ad altro che andare in campo ad Marino o ad Cave et per la prima mossa loro hieri fecero un digno testimonio de li facti loro. Era venuto el S[ignor] Virginio ad fare tagliare el ponte de Roviano et andava videndo li passi et el paese con circa LX balestreri ad cavallo et a alcuni homini d’arme, eodem tempore el S[ignor] Duca era andato ad provedere lo loro de campo in l’abbatia de Subiaco con tre squadre et bono numero de fanti et de cavalli legeri et alcuni turchi et a la prima scoverta et viduta, doe terre de la abbatia Marano et Lausta mandaro li sindici offerendoli lo recepto et victualie et promettendo non receptare né dare victualie ad gente del papa, le quale ipso S[igno]re benignamente acceptò et mandò in ciaschuna de quelle certi balestreri. Stando in questo fo nunciato che li inimici erano per volere combactere Roviano castello del fratello del duca de Malfi et re vera ipsi non erano tanto gagliardi che volessero fare tale impresa, ma erano per lo facto del ponte sopradicto. Subito el S[ignor] Duca li mandò ad trovare da alcuni de questi homini d’arme de casa soa legeri et con alcuni Turchi investeremo doe squadre de balestreri et de homini d’arme mesticati, frapporone parechie et parechie multo bene a la turchesca, alcuni tornarono senza brazo, altri con brazi che poco tenevano; si uno passo non li havesse salvati tutti venevano ad fare reverentia a le bandere; non se possecteno traversare, puro quattro ne foro pigliati, li altri andorono la maior parte senza balestre et senza lanze, che le haveano jectate per fugire più destramente a retrovare el loro conductero, el quale imperò non se volse trovare a la impresa ma subito se tirò indereto presso ad uno suo castello quel che tutti li altri conducteri del conte Hieronymo faranno perché è fama chel S[ignor] Duca porta de multi capisti per 1377

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LETTERE, 6

intitulare alcuni del ducato de Piccardia. Questo fo lo evento de heri in lo primo auspicio et fo dì annunciato da uno astrologo et però dicate al S[ignor] Re che como questa profetia de heri fo vera seranno etiam le altre, le quale predicono sua victoria. Un altra terra chiamata Camerata mandò statim in campo li sindici et cossì faranno li altri, questo gridare de ferro ferro ha sturditi li villani et lo infocare de Cerrito167 et del burgo de Trevi. Madonna mia Ill[ustrissi]ma questa impresa tenetela per venta, ipsi medesmi se teneno per spazati, non hanno né iustitia né capi, né pedi boni, gente de mille vescovati et favoriti de epsi et prelati, che may senterono scoppo de bombarda et Chiesa, Chiesa che vol dire fuge, fuge, fuge. Hogi per la piogia non se è levato el campo; domani se andrà intra lo terreno de l’Abbatia, idest infra lo terreno nostro, lo quale heri fo guadagniato. Io non dico spero, né me persuado, ma affirmo et iuro a la Ex[cellen]tia V[ostra] che questa impresa è guadagniata. Recomandome a la Ill[ustrissi]ma S[ignoria] V[ostra]. De campo infra Pereto et Uricula.168 XVIII maii 1482. Cel[situdi]nis V[estre] servus Pontanus.

6 GIOVANNI PONTANO A MAZZEO FERRILLO. Grottaferrata, 13 giugno 1482. Pontano aggiorna Mazzeo Ferrillo sulle condizioni dell’esercito e sull’andamento delle operazioni d’assedio a Roma. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 802, Napoli. Il testo della lettera è di difficile lettura.

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LETTERE, 7

7169 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. Gaeta, 23 agosto 1482. Pontano si dilunga nella dettagliata descrizione della battaglia di Campomorto del 21 agosto 1482. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 2189, c. n. n. (copia); ASM, Sforzesco 240, Napoli, c. n. n. (copia); CONIGLIO, pp. 125-128 (n. 2) da ASMn; FIGLIUOLO, (Pen)ultime, pp. 79-81, che corregge la copia di ASMn con quella di ASM, ignota a Coniglio. Bibliografia: FIGLIUOLO, (Pen)ultime, pp. 77-78.

Sua maestà, per la via de mare et de terra da Neptunno, advisai la vostra maestà in brevissime parole del caso sequito. Per questa li farò intendere summariamente come el fatto è passato. Lo campo de la maestà vostra se levò adì 20 da Civita Divina,170 perché li inimici havevano provisto alogiarsi la matina a dui miglia a presso, et in loco che ne tollevano la via de le victualie. El signor duca, cum grande discretione, la nocte fece carigare le bombarde et aviarle. La matina se caricharono li cariaçi, et ala levata del sole se commenzareno ad aviare ditti cariagii cum tre squadre: ciò è Vicino Ursino et messer Teodoro.171 Poi el campo se aviò tuto, et a tre hore de dì se calò al piano, et coli ordeni soi se conduse ad presso Sancto Petro in Forma. Li inimici, vedendo levare el campo nostro, non andarono al loco deliberato, ma alogiarono vicino al campo, donde era partito el nostro, atteso che li alozamenti erano stati brusati. Alogiato el campo, lo signor duca fece aconzare dui passi, donde li inimici possevano venire. Lo dì sequente, la matina, non volse se andasse ad sacomanno né per victuarie, fi n che non havea noticia deli inimici; et fece stare el campo in arme. Era uno bon pezo de dì quando se hebbe adviso che li inimici s’erano levati; et venne la prima nova che traversavano per essere primo de nui ad Neptunno. El signor duca, che era fora del campo, mandò ad fare carigare li cariagii et ordinare che andasseno ad Neptunno, per prevenire li inimici. Mandò lo duca de Malfe cum Candida et messer Taliano172 cum due squadre ad provedere li alogiamenti, et certo numero de fanti. Ipso restò cole 1379

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squadre in battaglia. Interim, sopraveno li cavali ligeri de li inimici, che venevano primi. Fureno ale mane cum li nostri, et qui se comenzò apicchare, per forma che seguì el fatto d’arme, durando più de 5 hore, et anche forsi 6. Como fusse, la maestà vostra lo intenderà dal signor duca. Brevemente dirò questo: che lo signor duca per doe volte rebutò li inimici, per forma che ‘l conte Ieronimo173 cum octo squadre se tirava indreto, et sempre dal canto nostro se hebbe la meglio. Et non creda la maestà vostra che sia stata battaglia de Tagliani. Sono morte più de mille persone, et forsi mille cinquecento cavali: tanti che è cosa in[…]osa. De le squadre de la guardia, pochissimi sono che non siano feriti. Lo signor duca, Dio lo ha aiutato, che stete cinque hore intra li springarde et balestreri da cavalo, che erano circa CCCC; dui cavali li fureno guasti; sempre ipso fu el primo ad vetare el passo dove era la strecta bataglia et la fronte deli valenti homini. In fi ne, li inimici ad uno altro passo fecero una furia de fantaria, che quilli, che eranno pochi et strachi, non posseteno sustentare. Et cum la fantaria vennero octo squadre grosse e fresche, et forono causa che li nostri fureno rebuttati, et non posseteno sustenere più. Li inimici sono stati 43 squadre; altri dicono 50. Le nostre squadre non sono state più di 36. La fantaria de li inimici son state V mila, senza li commandati de Beletri, Cora, Seza174 et altri lochi de campagna. Lo signor duca non se possete prevalere ultra de VIII cento fanti, per haverne mandati ad Marino et lassate per altre terre de’ Colonesi, et per haverne mandati con li cariagii. Quando li inimici urtareno l’ultima volta, fecero tanta furia che quelli, li quali restavano de li nostri, fureno portati uno pezo quasi in aere, et inter li altri el signor duca. Pure, ad uno passo del campo se rehebbero alcun tanto; et lo duca, non correndo ma ad bon modo, se redusse tuta via, quando tramezato quando rebutando quilli li venevano ad presso. Et così se condusse fi ne vicino ad Neptunno. El duca de Amalfi175 se spinse fora per la strada, incontro, et don Taliano dedero cavalo frescho al signor duca, et rebutàno quelli che lo seguitavano. Et così arivò ad Neptunno, salvo dela persona, imperò uno poco tochato al naso de uno traverso de lanza. Ieronimo Ursino sempre lo acompagnò, et Alezio Turcho.176 Ieronimo infi ne, per defendere el signor duca, remase presone. Alexio sempre lo intornigiò, et etiam alcuni altri. Li cariagii tuti erano salvi a Naptunno. Passarano circa XX homeni d’armi ad dare dreto; don Taliano li investiò et pigliòli quasi tuti. Li 1380

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cariagii pigliareno la via de Teracina per la marina, salvi et securi dali inimici, ma li ribaldi mulateri et sacomanni, per fare male comenzoreno ad tagliare le corde, et sono la maior parte robbati. Le bestie sono salve, le robbe male manegiate, maxime da chi non ha havuti boni famigli. Dicono essere stati presi el duca de Melfe, lo Rosseto,177 Vicino Ursino et Ieronimo Ursino. Imperò non se pô sapere certo deli altri, perché dicono ad Ardea esserne salvati, et per via deli boschi. Et de continuo tornano soldati. Non sarò più prolixo; solo subiungerò como lo signor duca, per non stare in mane de vilani ad Neptuno, con lo protonotario et don Prospero, la matina se mise in mare fine ad Asture.178 Li inimici quella sera allogarano pro maiori parte dentro in Veletri, et altri in campagna, senza tende. Deli ianizzari molti sono morti, et dela fantaria deli inimici. Recomandomi ala maestà vostra. In Gaeta ad hore 22, adì XXIII augusti.

8 GIOVANNI PONTANO A FILIPPO STROZZI. Ferrara, 11 marzo 1483. Pontano assicura il suo interlocutore di aver parlato con Lorenzo de’ Medici, per ordine del duca di Calabria, e di essere stato rassicurato sulla sua intenzione di esaudire una certa richiesta di Selvaggia Gianfigliazzi, moglie dello Strozzi. Fonti ed Edizioni: ASF, Carte Strozziane, Serie III, filza 133, c. 112 (originale); FIGLIUOLO, Un documento, p. 48. Bibliografia: FIGLIUOLO, Un documento, p. 46.

Domine Philippe, dicate ad madama Salvagia como, per ordinatione del signor duca, io parlai al magnifico Lorenzo del facto suo, et lui me respose molto gratamente; et che tornato in Fiorenza farria tutta quella 1381

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necessaria opera per la qual madamma Selvaggia fosse satisfacta del desiderio suo. Recomandome sempre ad voi. Ferrarie, XI martii 1483. Lo vostro Jo[anne] Pontano.

9 GIOVANNI PONTANO A LORENZO DE’ MEDICI. Ferrara, 12 marzo 1483. Il Pontano ricorda al Magnifico la faccenda di Cristoforo di Andreoni d’Alife circa il commercio della lana a Firenze, di cui l’umanista gli aveva già parlato a Ferrara, incaricato da Alfonso duca di Calabria per compiacere il conte d’Alife, Pascasio Diaz Garlon. Il Garlon è anche protettore dell’Andreoni che, Pontano ricorda, aspira a quell’ufficio da circa sei anni. Fonti ed Edizioni: ASF, MAP, XXXII, doc. 81, c. 83; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 197-198. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 188-189.

Magnifice domine, domine mi singularissime. Non stimando che Vostra Magnificentia partisse sì presto, non replicai altramente con Quella. La facenda de Christoforo de Andreoni de Alife179 circa lo offitio de l’Arte de la lana di questa inclita cità de Fiorenza, secundo li parlai in Ferrara et ad mi era stato imposto per lo Illustrissimo Signor Duca,180 ad complacentia de messer Pasquale,181 devessi intendere la dispositione de questa cosa, secondo la promissione pare dicto Christoforo habia havuta, già son circa sei anni, de dicto officio; et l’anno passato intendo li fo data per Vostra Magnificentia bona speranza. Et, non havendo pigliata con Quella qua alcuno appuntamento, m’è parso scriverne ad Vostra Magnificentia, Quella pregando ad complacentia del Signor Duca et de Messer Pasquale, ad instantia del quale dicto offitio dice fo promesso al dicto Cristoforo et anche ad mia singulare complacentia vogliate venire al desiderio de dicto Christoforo 1382

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ad doverli concedere dicto officio, chè in verità monstra essere assai affectionato de Vostra Magnificentia et da lui haverete bona opera, perché è consueto exercitarse in offitii, et lui è de bona natura. Quello facendo ne satisfarete al signor Duca et ad messer Pasquale, et io ve ne restarò obligatissimo. Lo officiale presente intendo che è circa al fine: possendose havere inmediate post presentem me serria carissimo, pur essendo facta altra provisione, ve piaccia ordinare che detto Christoforo habia la electione per lo primo tempo che non sia occopato, ad ciò che lui possa intendere ad che tempo haverà ad conseguire tale officio, per possere provedere al facto suo tra questo mezo. Facendo provisione de dicta elezione, ve piaza mandarla in mano mia, perché dicto Christoforo spisso have ad conferire con me, chè in niuno loco lui la porria havere più al suo proposito. De tutto ve piaza respondermi. Offerendome al piacere de Vostra Magnificentia. Ex Ferrara die XII martii 1483. Magnificentie Domini Vestri servitor Io[annis] Pontanus.

10 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI.182 Milano, 23 luglio 1483. Pontano chiede al Bendedei di aggiornare il duca Ercole a proposito dello svolgimento della guerra di Ferrara che, per il momento, procede a loro favore. Fonti ed Edizioni: ASMo, dalla raccolta di lettere (n. DCCCXXXIII-V), ordinata alfabeticamente, il cui secondo volume contiene la lettera; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 198-199. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Domino Nicolae, frater optime. Confortàti, da parte mia, lo Illustrissimo Signor Duca et li dicate che tutte cose vanno benissime et ad votum. Qua è venuto messer Pierfran1383

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cesco Vesconte et porta optimi designi, et non bisognia che nui confortemo altri ad comenciare el joco, ma nui simo stimulati. Sonno in ordine quarantasei squadre, et quattro se aspettano. Lo numero de li fanti omne dì cresce. La venuta del Signor Duca183 giornalmente è stata tanto grata che non se porria dire più. Questa sera, o domatina, el Signor Duca andarà ad Monza, dove tutte gente sonno drizate. «Hic sunt omnia tranquillissima». Lo Signor Roberto184 voleva fare certa forteza sopra Ad[d]a a la ripa sua. Per m[essere] Verzellino li fo mandato a dire que desisteret, per essere contra le conventione et antiqui capitoli, et sic destitit. De poi ha rechesto volere andare in castello facto sede de m[essere] Verzellino, pur che lì vada m[essere] Piero de Posterra, m[essere] Baptista Vesconte et lo conte Joan Bonromei. Mandando qua m[essere] Verzellino sopra questa cosa, li è stato dicto responda che se lui vole essere servitore de quisto stato, mandi uno suo con le conclusioni de quillo che domanda al Signor Duca de Calabria, dal quale li serà resposto, et de que m[esser] Verzellino, data questa resposta, tolla via omne altra premura, et con questa conclusione è stato remandato el suo cancellero. El Signor Roberto con tutte gente è dal canto de là: de qua stanno circa mille fanti in una fortificatione multo debile et poco apta ad multo fortificarse. Nui attendemo ad expedirne hoggi de qui. Demani seremo ad Monza, dove tutte queste genti han facto capo; postdemani se andarà per lo Signor Duca ad proveder certo loco: deinde, col nome de S. Giorgio, se passarà avante como meglio sarà iudicato. Parteciparete queste cose con m[esser] Joanpiero mio,185 et li darete l’alligata litera directa ad Monsignor nostro, che venga. Recomandomi ad tutti doi et regratiovi de quella lettra. Mediolani, 23 julii 1483. Vester Joannis Pontanus.

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11 GIOVANNI PONTANO A LUDOVICO MARIA SFORZA. Lurano, 31 luglio 1483. Pontano aggiorna Ludovico il Moro a proposito delle decisioni belliche prese dal duca di Calabria nel corso della guerra di Ferrara. Fonti ed Edizioni: ASM, Sforzesco 329, Ferrara (originale); FIGLIUOLO, (Pen) ultime, p. 81. Bibliografia: FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 78.

Illustrissimo signore mio. Inteso quanto vostra illustrissima signoria me scrive che li facia intendere, levandosi le gente venetiane da Lacoscuro, se le gente de lo signore duca hano in alchuna parte ad diminuirse, respondo per lo presente mezo scriversi che, essendo partiti li Colioneschi, subito venga qua el signor Antonio con tuti li Feltreschi. Et al partire del signore duca di Ferrara fo rasonato et concluso che, secundo mancavano Venetiani da Lacoscuro, se mancassi etiam le gente da Ferrara, ei venessero al loco dela diversione. È ben vero che ‘l signore duca de Ferrara resta asai mal contento dela partita de’ Feltreschi, per la fama de li Suiceri et de molte squadre del duca de Loreno186 date da’ Venetiani. Non de manco, el signore duca li fa intendere queste fame essere false, et volere che omnimo li Feltreschi vengano. Et così comanda ad Iacobello Papacoda, per forma che non ce serà repplicatione. Dicto Iacobello è rimaso con carico de tute quelle gente. Racomandomi ala excellentia vostra. Data de campo a Luna, ultimo iulii 1483. Excellentie vestre deditissimus servus Iohannes Pontanus, secretarius.

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12 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI. Bariano, 4 agosto 1483. Pontano lo aggiorna sulle vicissitudini belliche. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 199-200. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Messer Nicolò mio, qua se è debattuto de campigiare alcuna grossa terra in questo Bergamaschio. Infine è parso de no, per non dar tempo a l’inimico de reforzarse et che poi prohibisse l’aptitudine ad fare le cose che sono de più importantia, et che danno in l’elmo ad Venetiani. Sì che presto serrimo in Brexana. Fiorentini con el colorato pretexto de Sena, non mandano, et multo poco respondeno al concepto ch’el stato de Milano havea facto de loro. El conte Jerolimo187 se vede anhelar ad Pesaro, et va differendo el venire. L’usso suo è stato quisti dì con nui con multo bone parole. Retornato poi in Milano, ha facto intendere che ‘l Conte non pò partire per defecto de danari: nova pratica et non intesa. El Signor Duca188 li ha resposto che mai a lui è stata facta parola de tal cosa, et, per benché tal pagamento specte al Signor principe, perché el Duca non ha notizia de’ soi capitoli et pagamenti, tamen non resterà per Sua Signoria fare el dovere. In fine, se vedrà che ‘l Signor principe quale è stato lacerato da ognuno, e quello che vene libero et senza sua particularitade, pur se attende, qaunto è possibile, ad possere tirare qua li gente fiorentine et ecclesiastiche. Quel che sia stato scripto ad Marino189 in Fiorenza et ad messer Anel190 lo in Roma, averete veduto per le copie mandate ad messer Ioanpiero Arrivabene. Se ha nova che ‘l Signor Marchese191 vene in qua et nui andemo verso lui, perché volemo essere soi vicini più presto che sia possibile. El stato de Milano va con grandissima promptitudine ad ogne cosa, et non se manca ad cosa del mondo. El Signor Roberto, como heri se hebbe adviso, è ad Ponte Oglio. Messer Francisco Sicco se giongerà con nui, quando habiamo passato Soncino. So’ tutto vostro, et vogliate recoman1386

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darme in gratia de questo Excellentissimo Signore, el quale, spero, che presto serrà fora de la potissima parte de soi affanni, et non se attende ad altro. Hogi non simo levati de qui per aspetarsi da Milano el Commissario deputato al governo de questi lochi guadagnati et per dare ordine ad provederli. De Campo Abariano, die IIII augusti 1483. È ordinato che reste messer Alberto Visconte col suo colonello et 3 cento fanti. El vostro Joannis Pontanus.

13 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI. Quinzano d’Oglio, 14 agosto 1483. Che il Bendedei conforti il suo signore a proposito del favorevole svolgimento dell’impresa bellica. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 200-201. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 47 (n. 47).

Domine Nicolae optime. Questa matina havemo adviso da messer Jeronimo Sperandeo192 ch’è presso el Signor Marchese de Mantua, como quilli de Asola haveano aviso ad Castelromano et Aquanera, ville de ipso Signor Marchese, et che haveano brusati 78 fenili et VIII case et preso bestiame assai et presoni, imperò li presoni haveano liberati et che in la carestia era stato el proveditore de Asuli, et lui faceva poner foco, et che ‘l Signor Marchese havea scripto ad ipso proveditore, imperò havea facti passare certi cavalli legeri et homini d’arme che tagliassero ad pezi quanti ne trovavano. Questo ve scrivo, ad ciò intendate che da ogne canto Dio adiuta questo Signore et fa succedere quelle cose, le quale con industria non se ponno optenere. 1387

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Domane se andarà in campo ad S. Gervasi, el Signor Marchese serà ad Seniga, secundo li è scripto. Fin qua è allargato tanto el paese, che havemo fino ad hogi XXVIII terre de Bresiano, et sonnoce de bone terre et de importantia. El Signor Roberto193 si è retirato ad Macalo, VI miglia presso Brexa. L’abbate194 scrive da Milano el Signor Lodovico esser contento dare a la Stellata vetuaria per mille persone. Non me allargo in questa parte, remettendomi ad quel che scrive messer Iacomo Trotto.195 Passano le gran fortune et veneno le tranquillitati; passano le intermitate et torna la sanità. Ad questo Illustrissimo Signore è tempo che torne la sanità et tranquillità, et già Dio così inspira. El papa ha scripto ad Florentini et provisto pro forma che cessano le suspitioni de Sena, sì che omnia fluunt ex sententia. Simo necessitati, venuti li ecclesiastici, fare doi campi et satisfarassi al voto de questo Illustrissimo Signore, al quale la fortuna già comenza ad mostrare el volto sereno, et però sia de bono animo: deus et homines pugnant pro eo. El stato de Milano va virilmente et ex omni latere se procede con amore et con forze. Dite al Signor Duca che per l’andata ad Torchiara io so’ chiamato da Messer Ioaniacobo Sanpaulo per le bone opere che feci et quando l’altro dì andai ad Milano che arrivai in doi dì, feci tale opere che le cose sono in questi termini, quali si vedono, non per mio saper parlare, ma perché ognuno sa che so’ homo netto et non farria ribalderie. Conforta el Signore et dili che ha vinto liberamente la mala fortuna et li inimici, et quando se fa è a la salute et per lo stato suo. Io vorria posser fare cosa che l’importasse, et quando accada, non farrò altramente che per lo Signore Duca. De Campo de Quinzano, 14 augusti 1483. Vester Joannis Pontanus.

14 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI. San Gervasio Bresciano, 18 agosto 1483. Gli aggiornamenti sulla guerra che il Pontano fornisce al Bendedei in questa lettera sono di carattere molto tecnico. 1388

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LETTERE, 15

Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 201-202. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Domine Nicola optime, Loisi de Terzago196 et abbate Rugio son venuti qua per havere dal Signor Duca197 alcune squadre demandate dal Signor Lodovico per damnificare in lo Bergamasco, parendoli che con quelle se facesse bona fazone, et anco standose in dubio del Marchese de Monferrato. Circa questa parte el Duca ha resposto che prima se veda certo la via che ‘l Marchese pigliarà. Circa lo damnificare Bergamo et voler campigiar Romano et Martinengo al Duca, per mo, non pare, perché, essendo con XV o XX squadre in campo ipso Duca de Bari o el Signor Roberto198 sempre el poria andare ad trovare per essere presso ad XV et andaria con tutti li soi et, però, per mo non pare. Ma de qui ad dui campi se vedrà el motivo del Signor Roberto, perché, volendo pervenire la via de veronese, et arrivati che saranno li ecclesiastici in campo, allora se porrà fare uno designo, et, non movendose, bisogna fare un altro. È stata una lunga discussione. El Duca, infine, se è resoluto in questo et ha remandati li predicti dubiosi. Bene ha declarato che per recogliere migli et vini in Ciara de Ada, et damnificare le terre adverse, è contento mandare uno colonello. La summa del respondere è stata questa. E castris da Sanctum Gervasium, 18 Augusti 1483. Vester Ioannis Pontanus.

15 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI. Ostiglia, 6 novembre 1483. Il Pontano si rivolge al Bendedei presentandogli la missiva (la lettera successiva con la stessa data) con la quale spera di convincere Ercole a concedere la grazia a dei poveri uomini, essendo stati già impiccati cinque di quei malfattori ed essendo stato risarcito il grano da essi rubato. 1389

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LETTERE, 16

Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 203. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Domine Nicolae frater. De natura mia non è usare presuntione. Non de manco a li amici non se pò denegare la interpositione et lo intercedere per ipsi. Pregove, dunqua, strectissimamente vogliate porgere la inclusa supplicatione199 a l’Illustrissimo Signore et Quella da mia parte supplicare che, in mio beneficio et gratia, voglia havere recomandati quelli poveri homini, et essendo stati impiccati cinque de quelli malefactori, se digii fare remissione a li altri, essendo stato restituto et pagato el danno facto ad quilli citadini del grano robbato. Io non posso negare la mia intercessione; et reputarò ad singulare beneficio da sua Celsitudine quando per mio amore li use gratia et clementia. Vogliate per mio amore pigliarne fatiga in supplicare. Et non ve sia tedio responderme de quanto seguirà. So’ vester, De Campo ad Hostia, VI novembre 1483. Vester frater Joannis Pontanus.

16 GIOVANNI PONTANO A ERCOLE D’ESTE. Revere, 6 novembre 1483. L’invito alla grazia si rinnova con la richiesta al duca di ascoltare quanto ha da dirgli il cancelliere estense Giosia degli Achilli. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 204. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, p. 189.

Illustrissimo Signor mio. In questi dì, essendo venuto Iosia a la Concordia, li parlai et imposi da mia parte supplicare Vostra Excellentia per l’officio de Rivera, et, però, supplico Quella de dicto officio, non voglia disponere altro fi n1390

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ché dicto Iosia li abia par[lato]. Recomandomi in gratia et mercè de Quella. De Campo ad Revere, . Illustrissimi Domini Vestri deditissimus servus Ioannis Pontanus.

17 GIOVANNI PONTANO A ERCOLE D’ESTE. Revere, 17 novembre 1483. Pontano invita il duca ad esprimergli la sua opinione circa l’opportunità di un suo intervento diretto in campo. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 204-205. Bibliografia: FINZI, Re, baroni, popolo cit., p. 174.

Illustrissimo Signor mio. Quelle cose de Brexana vanno assai con pericolo, perché l’inimici sonno da 37 squadre et fanti domilia, li nostri ponno anco essere più de loro; ma dubito del capo che li manca et forse non se intendaranno inseme come serria el bisogno. Chiamano el Signor Duca de qua; et non seria al proposito de le cose vostre el suo andare; et per questa causa el recusa: pur la instantia è gran cosa, maxime dove va de l’honore. Supplico, dunqua, la Excellentia Vostra voglia per deviar questa cosa scrivere qua opportunamente et dire el suo bisogno et toccare de la presentia qua del Signor Roberto et che de là el Signor Lodovico pò satisfar con la sua persona etc. Io non ho mancato in questa parte et el Signor sta in proposito de non andare. Tamen, come ho dicto, la instantia el poria piegare. Vostra Excellentia come prudentissima lo confirmarà col suo scrivere. Perdoneme se uso presumptione. Dio el sa, che scrivo con fede, et ad Lei humilmente me recomando. Ad le ville de Revere, XVII novembre 1483. Illustrissimae Signorie Vestre servus deditissimus. Ioannis Pontanus. 1391

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LETTERE, 18

18 GIOVANNI PONTANO A NICOLÒ BENDEDEI. Cremona, 11 aprile 1484. Il Pontano desidera che il beneficio al Bondéno rimasto vacante venga concesso a Carlotto, figlio di Andrea Maffei. Chiede, pertanto, al Bendedei di sostenere presso il suo signore la candidatura. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 205. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, pp. 190-191.

Messer Nicolò, fratello honorando. Messer Maffeo me scrive como, essendo vacato un certo beneficio senza cura al Bondeno, el vicario lo aveva conceduto et invistito Carlotto, figlio de dicto Messer Andrea, secundo ipso messer Andrea distintamente ve informarà per sua littera de questa cosa. Al scriver del quale me remicto per non saper io pontalmente como la cosa sia proceduta, et pertanto ve prego in loco de mia grandissima obligatione vogliate intercedere con lo Illustrissimo Signor Duca che voglia favorir la causa del dicto messer Andrea, et quanto in essa, et farli gratia de dicto beneficio et quando ce intervenesse controversia, como è solito in li beneficii, voglia per mio amore adiutarlo con lo presidio suo, et non permettere che li sia facto torto. Questa sarà ad me una gratia speciale, stringendo vui che vogliate operare in questa facenda, secundo so’ certo che per mio amore farete. Preterea Balduzo, patre del dicto misser Andrea, me ha scripta la inclusa littera. Vogliate farli quello bene che ve sarà possibile in quello che ipso domanda. Et ad vui me offero et recomando. Cremona, XI Aprilis 1484. Vester Ioannis Pontanus.

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19 GIOVANNI PONTANO A GIAN GIACOMO TRIVULZIO. Roma, 26 agosto 1486. Pontano dà notizia dell’arresto dei baroni congiurati contro Ferrante, avvenuto a Napoli il 13 agosto. Fonti ed Edizioni: ASF, Dieci di Balia. Responsive, 37, c. 107 (copia); FIGLIUOLO, Un documento, pp. 48-49. Bibliografia: FIGLIUOLO, Un documento, p. 46.

Molto magnifico signor mio. Io non scrivo al signor duca, per havere voluto ch’el reverendissimo monsignor Ascanio ipso ne habia l’honore. Heri, essendo ad mensa con nostro signore, venne Bernardino da Luna con lettere da Napoli, in le quali si conteneva che, essendo arrivate quelle lettere vostre et mie, la maestà del re aveva detenuti in castello el secretario, Francisco Copula,200 Pou et messer Anello201 con mogliera et figliolo, quali erano in castello ad fare sponsalitii etc. Volse sua santità che subito andassi ad monsignor di Napoli et ad monsignor di Sancto Agnolo a dire questa cosa; et così feci. Et che tornasse poi cenare con sua santità alla vigna; et così feci. Ricordasse vostra signoria che scripsi alla duchessa che tacesse, et che con mia mogliera andasse in castello, et facessero in segreto chiamare il re. Et che si tacesse non era senza misterio, idest che quelli non fuggissero, audita pace. Recordase vostra signoria più dì è che li dissi avanti uno mese li faria intendere una trama che havea mossa. Deo gratias. Se li avisi delli Castigliani et di monsignor Ascanio fussero stati prima, la cosa era spacciata. Dicate al signor duca che scriva ad monsignore di Sancto Agnolo una lettera di sua mano, quale meritano le opere di quello. Al facto di Serzana si è dato bono modo, et così al breve delle impositione etc. Raccomandami ad vostra signoria.

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LETTERE, 21

20 GIOVANNI PONTANO A JACOPO ANTIQUARI.202 Napoli, 7 maggio 1487. Il Pontano annunzia all’Antiquari l’invio di una copia del suo trattato De fortitudine. Fonti ed Edizioni: N1, c. 1v; MONTI SABIA, Due lettere, pp. 14-16. Bibliografia: MONTI SABIA, Due lettere, pp. 16-17; M. SIMONETTA, La tragedia di Napoli: Pontano e gli Aragona, in ID., Rinascimento segreto. Il mondo del Segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano, F. Angeli, 2004, p. 228.

Viro praestantissimo et optimo Jacobo Antiquario secretario ducali Antiquari optime, salve multum. Videbis Fortitudinem, quam Troianus Jur[is] Cons[ultus] ad te deferet. Noli irridere ineptias nostras, tametsi eo consilio illam ad te mitto, non ut irrideas tantum, verum etiam ut excachinneris. Vale, optime homo. Neapoli VII Maii 1487. V[este]r Jo[annes] Pont[anus].

21 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNI ALBINO.203 Napoli, 18 giugno 1487. In tono scherzoso Pontano aggiorna Giovanni Albino su alcuni fatti di Stato, senza tralasciare scherzose allusioni a Virginio Orsini.204 Fonti ed Edizioni: ALBINO, pp. 341-342; PERCOPO, Lettere, p. 28. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8.

Venerabili domino meo, domino Joanni Albino, regio consiliario. 1394

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LETTERE, 22

Domine Albine abbas, voi havete fatta bona opera: siate ben gagliardo, per che, ad mio iudicio, riportareti honore. Al Signor Re ho facto intendere le opere di quelli tre cardinali, et io primo, più mesi so’, ne li feci accenno, et del facto del Prencipe di Salerno205 se n’ha lo stomaco pieno. Fare lo deposito in banco se iudica non essere expediente, perché pareria fossemo tenuti pagare, et nos negamus. La stantia in Roma di monsignor de Ursinis206 non pò essere né di maior autorità, né fructo, che è. Però attenda ad palazegiare. Di’ al signor Virginio, che ‘l suo natifrago,207 quando tornasse verso Roma, non pò passare, salvo per lochi di sua factione o soi; et che farria bene provedere, che al passare li fosseno facte careze. Sua Santità me intende: non li occupe la trippa tanto li pensieri, che lassi da canto l’officio de la testa. L’offerta de le squadre e galere è stata opportuna cosa: voi sete savii, fate imperò che non siano più le voci che le nuce. Ad quello homo de li debiti del magnifico Lorenzo è facta la debita provisione. Io ve tengo per valente homo et di sano stomacho: sappiateve conservare l’appetito et non magnate troppo, né vogliate tanto reposarve al sono del mortaco, che non vedate como se piste la salza. Recomannomi ad la Santità Vostra. Neapoli, 18 junii . Vester Pontanus.

22 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNI ALBINO. Napoli, 24 giugno 1487. Pontano continua ad alludere in maniera scherzosamente irrisoria a Virgino Orsini – contestato in qualità di grasso e di guelfo – al quale prospetta tempi difficili non appena sarà rientrato a Roma il temibile Giuliano della Rovere.208 Fonti ed Edizioni: ALBINO, pp. 345-347; PERCOPO, Lettere, p. 29. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8. 1395

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LETTERE, 22

Messer Albino mio, lo signor Virginio è valente homo senza dubio; ma io ho mala opinione de tutti li grassi, et tanto più de ipso, per essere guelfo, che comunemente sono parabolani et lo facto loro va in fumo. Bona colera ce vole, che accenda foco et rescalde el grassume, che è già refredato. Aspetto infra pochi dì intendere: «Urso alla tana, Urso alla tana»; e questo serà manco de tre dì de poi che quillo amico serrà tornato ad Roma, che ve trattarà tutti come meritate; et tu, Albino, serai uno de li primi, che te intanarai. Fate multo del gagliardo, et fine mo, quanti site, non havite bastato ad cogliere uno petrosillo da l’orto. Voi dicete che quello amico è malato. Guardative che, una nocte, travestito et con pochi cavalli non lo habiate in Roma et in Castello de Santo Angelo; et non ve dia de scorregiate ad tutti. Quanto serria meglio, che il vostro Chiappino209 reparasse ad questo, et, per quello che ipso può fare, facesse guardare con le debite cantele li lochi onde ha da passare travestito o non travestito: deveria pensare al Vitellesco.210 Dicate da mia parte che ‘l sangue de li guelfi è sangue de frettelle. Se ce torna ad Roma, vederite che non ce bastaranno né Ursi, né Medici: ha lo modo et li passi et li homini apti ad ciò. Io non so che mi dire altro, se non che me vergogno essere guelfo per suo respetto, et quando non venisse fatto de coglierlo ad quisti passi, per sentimento che ne havesse, volete mai, or guadagno che seria, che non tornasse a Roma per timore et andare de fora come scacciato. Io non vorria più bella caccia che questa, perché serria fatto lo tutto, essendo ipso inpagorito de non tornare. Et con questo sbigottimento sequeriano poi mille cose, le quale mo non se vedeno, et allora veneriano de se medesme. Resvegliateve, pultroni de feccia, et per volere reposarve poi, non ve rincresca dare un poco de fatica alla trippa. Io ve voglio male de morte, et però non dico: valete. < Napoli> 24 junii 1487.

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LETTERE, 23

23 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNI ALBINO. Napoli, 30 giugno 1487. Pontano aggiorna con toni scherzosi Giovanni Albino su alcune faccende di Stato. Fonti ed Edizioni: ALBINO, pp. 350-351; PERCOPO, Lettere, p. 30. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 40.

Magnifico domino fratri honorando Joani Albino, regio consiliario. Signor messer l’abbate, voi sete troppo savii et troppo valenti homini, et però site desdegnosi: con vostra bona ventura regulate la còlera. Per niente ho voluto fare intendere al Signor Re, che demandate licentia. Sta forte et non te lassare vencere da praticoze et parolette. Al signor Virginio io non voglio bene, né ad guelfi soi pari. Attendate ad far foco, poi che la carne è già in pignata. Noi stamo qua reallagrati: lo breve è venuto queta matina et la nova che Aruger211 sia legato ad Bologna. Andati pur avanti et habiate bon tamborino, perché noi danzaremo al vostro sono. Al signor Jacovo Conte212 è scripto se fermi ad le sue terre et aspecte altro mandato. Io solicitarò le botte del vino per medicare, per via del Duca de Calabria, la podagra del vostro grassinaro. Albino mio, nulla lettera né lingua parla meglio che le opere proprie. Mo uno anno, fuimo revocati: voi vedeste quanto se fece! El facto da poi regula ad le parole di altri. Retine constantiam et amplitudinem animi. Recomandame al Signor tuo, ma più mio per respetto de la guelfatione. Neapoli, ultimo junii 1487. Vester Joannes Pontanus.

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LETTERE, 25

24 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNI ALBINO. Napoli, 2 luglio 1487. Il contenuto della lettera è analogo a quello delle precedenti indirizzate dal Pontano a Giovanni Albino. Fonti ed Edizioni: ALBINO, p 351-352; PERCOPO, Lettere, p. 31. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 40.

Magnifico viro domino Joanni Albino, regio consiliario, plurimum dilecto. Domine Albine, non respondo ad vostre lettere altrimente, salvo che: chi sta bene, non se mova. Le ho mostrate al Signor Re. Lo adviso particolare haverreti già havuto de la tornata di Francesco de Altavilla et di quello altro amico;213 et ad bocca serà parlato sopra la paczia del guelfo,214 che ha li piedi falsi et pur vole andare. Recomandomi ad Sua Paternità di Caserta.215 Neapoli, 2 julii 1487. Vester Pontanus.

25 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNI ALBINO. Carinola, 19 luglio 1487. Pontano aggiorna con toni scherzosi Giovanni Albino su alcune faccende di Stato. Fonti ed Edizioni: ALBINO, p 373; PERCOPO, Lettere, p. 31. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8.

Venerabili domino abati Joanni Albino regio consiliario: Bracciani, apud dominum Virginium de Ursinis. 1398

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LETTERE, 26

Messer l’abate mio, io non dubito che le cose se assettarando et le demonstratione de Nostro Signoro non me deterrent, quoniam Laurentii et Virginii opera omniu feliciter cessura sunt. Vos instate viri et tela in unum congerite. Nui de qua facimo el fatto nostro et facimolo bene. Tutte forteze et terre del Duca de Melfe216 et de li altri sono havute senza una minima difficultate. Lo Principe217 con quelle gente de Puglia tirrarà verso Apruzo a li lochi deputati. In lo porto de Napoli sono da circa 20 galere. De le quale hormai parte se desarmarando. Recomandome a la Santità Vostra. Caleni, 19 julii 1487. Vester Pontanus.

26 GIOVANNI PONTANO A JACOPO ANTIQUARI. Napoli, 28 gennaio 1488 Pontano ha ricevuto la lettera e il libro che l’Antiquari gli aveva fatto recapitare, non dal Bottoni,218 ma da parte di Simonotto Belprat.219 Nella chiusa annuncia il prossimo invio di altre sue opere. Fonti ed Edizioni: N1, c. 1v; MONTI SABIA, Due lettere, p. 17. Bibliografia: MONTI SABIA, Due lettere, pp. 17-18.

Pontanus Antiquario suo sal[utem]. A Troiano nec litterarum tuarum nec librorum aliquid accepi. Neque [e]n[im] amici aut boni viri officio functus est. Nuper autem Belbrati opera et litteras et Tacitum accepi. De quo tibi vel maximas gratias ago. Spero aut[em] fore, si per occupationes licuerit, ut brevi aliud ad te de moribus opus mittam, et haud multo post aliud de stellis earumque significationibus, ne fortasse existimes Musis me bellum indixisse. Benevale, optime et sapientissime homo. Neapoli XXVIII Januarii 1488.

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LETTERE, 27

27 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Napoli, 20 gennaio 1489. Umilmente il Pontano dichiara che non sarebbe stato affatto necessario, da parte della duchessa, ringraziarlo per averla messa al corrente sulle nozze tra Isabella d’Aragona e il duca di Milano, Giangaleazzo Sforza. La informa altresì sulle condizioni di salute di alcuni esponenti della casa reale napoletana. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 206-207. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, p. 189.

Illustrissima et Excellentissima Domina. Post humilem comendationem. Inteso quanto Vostra Illustrissima Signoria me scrive per le sue del primo del presente, rengraziandome de quello questi iorni passati per la Maestà del Signor Re fo avisata de li sponsalitii de la Illustrissima madamma Duchessa de Milano,220 et de l’essere andata al suo Illustrissimo Consorte etc. Respondo, et non senza erubescentia, non esser stato necessario usar con me, sua creatura et servitore, tante gratie et simile humano scrivere, perché deve essere certissima che et per la innata servitù che li ho et per omne altro respicto debitamente so’ obligatissimo: non solum in sì piccola cosa de advisarla spisso de le cose occorrente, ma in qualunca altra grande adaptarme servirla et farle cosa grata. De le cose occorreranno a la jornata multo volentera et de bona voglia operarò, sia advisata et con tale diligentia che spero satisfarò al suo desiderio, et non altramente che faria messer Baptista221 o altro suo ambasiatore fosse qua, et de questo ne stia Vostra Signoria de bona voglia. Quello che Bartholomeo de’ Cavaleri, cancellero de Vostra Signoria, ha reportato de Spagna, ho facto intendere a la Maestà del Signor Re con dextreza et per essere la cosa de la natura che è, se governerà con quella secretanza et silentio che la Excellentia Vostra me ha accinnato: advisandola che la prefata Maestà me ha resposto essere state dicte ancora ultra quello dicto Bartholomeo ha portato, cose non de manco male natura che quello è stato dicto ad lui: quale con discretione et prudenzia bisogna per adesso comportarla quel che sia de tale aviso, ve ne rendo gratie assai. 1400

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LETTERE, 28

De novo non ce occorre cosa digna de aviso, exepto che la Maestà del Signor Re con la serenissima Regina et la Illustrissima Infante222 stanno benissimi per gratia de Dio, et stati insieme alcuni jorni ad Puzolo. Heri la Maestà predicta per suo piacire andò ad Casale de Principe, et fra brevi dì ritornarà ad Puzolo et a la predicta Maestà reginale. Lo Illustrissimo Signor Duca de Calabria continua el suo camino in Calabria, dove è andato per providere quelle marine per le cose potessero succedere del Turco, perché, come Vostra Signoria pò pensare, per essere de la infidelità et mala natura che lo homo non se pò fidare de ipso. Lo Illustrissimo Signor Principe de Altamura 223 è andato in Puglia ad visitar la mogliera et per retrovarse al baptismo del suo Illustrissimo figliolo nuovamente li è nato. Li Illustrissimmi Principi de Capua 224 et don Petro225 stanno bene et omne dì se spera che il prefato Illustrissimo don Petro habia ad perseverare in meglior convaliscentia. Altro non me occorre, se non che continuo me recomando in la gratia et mercè de ipsa Vostra Illustrissima Signoria. Neapoli, XX Januari 1489. Di Vostra Illustrissima Signoria. Humilissimo servo Joanne Pontano.

28 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Napoli, 22 dicembre 1489. Pontano riferisce alla duchessa l’impossibilità, da parte del duca di Calabria, di accogliere la richiesta di permanenza, presso la corte aragonese, del conte Aiello.226 Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 209.

Ad la illustrissima et excellentissima Madonna Duchessa de Ferrara. Illustrissima et excellentissima Madonna, Berardino, quando fo qua, me fe’ intender lo desiderio de Vostra Illustrissima Signoria circa lo re1401

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LETTERE, 29

star del conte de Agello. In principio hebbi in tal materia poca audienza, maxime dicendo lo Illustrissimo Signor Duca de Calabria che lo restar li serria multo dannoso circa le cose sue famigliari. De poi intendendose la indispositione del ditto conte, ho oprato secondo quello vederà per la inclusa copia, la quale voglia Dio che arrive ad tempo. Recommandome ad Vostra Illustrissima Signoria. Neapoli, 22 decembre 1482. De Vostra illustrissima Segnoria humilissimo servo. Joanne Pontano.

29 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Nola, 15 aprile 1490. Pontano, nella prima parte della lettera, ringrazia la duchessa per l’epistola consolatoria che da lei ha ricevuto in occasione della morte (1 marzo 1490) di sua moglie Adriana Sassone e si abbandona ad una struggente confessione di dolore che il peso della solitudine rende più insopportabile. Nella seconda aggiorna Eleonora sulle faccende di Stato e sulle condizioni del resto della famiglia. Fonti ed Edizioni: ABI, Autografi, Lettera P, n.13, proveniente dall’ASMo; MONTI SABIA, Una lettera, p. 182. Bibliografia: MONTI SABIA, Una lettera, pp. 165-181; FINZI, Re, baroni, popolo cit., p. 185; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 48 (n. 41).

Ill[ustrissi]ma et Ex[cellentissi]ma Madonna mia. La Ex[cellen]tia V[ost]ra se è recordata de me suo infimo servitore in questo mio doloroso casu: donde tanto più la sua consolatione me è stata grata et li ne resto con perpetua obligatione. Attenderò ad accomodarme con li S[uoi] recordii, perbenché l’affanno sia grave, essendo già de LXI anno et con lo corpo mal disposto et senza havere in casa persona che le tocche de me, salvo uno figlio senza donna: et so’ tanto occupato quanto se vede. Pur me andarò mitigando lo più che porrò; et perbenché lo 1402

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dolore se habbia ad mitigare, crescendo li anni et la indisposizione crescerà p[iu e] el desiderio della compagna perduta et non serrà però chi soccorra alle necessitate mie. Pur passarò como Dio me darrà però chi soccorra alle necessitate mie. Pur passarò como Dio me darrà el modo. Ad me per certo, per quanto tocca ad me, non me posseva succedere più incommodamente che me è successo: non però perderò la patientia et tolerantia; et quantunqua non sia per perderla, non però resta che non [inten]da multo bene in quanto mala dispositione la senectu mia sia r[emissa]. Dio imperò sia laudato de tutto. La Ex[cellen]tia V[ostr]ra in le cose che occorreranno servase de me como de suo servo. Lo conte de Agello227 è stato benveduto in questa sua tornata. Lo S[igno]or Duca de Calabria è andato al Bagnolo.228 Lo S[igno]or Re è venuto in Nola per la caccia del piano de Parma 229 et passa assai bene dela podagra che in dì passati l’offendette. Lo S[igno]or don Federico è al stato suo.230 Lo doctore che va ad Milano per le cose della duchessa, chiamato messer Julio de Scortiatis,231 heri partette. Recommendome humilmente ad V[ostra] Ill[ustrissi]ma S[ignoria]. Nole XV aprilis 1490 De V[ostra] Ill[ustrissi]ma S[igno]ria humilissimo servo Io[anne] Pontano.

30 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. Napoli, 7 maggio 1490. Il Pontano dà le dimissioni da ministro del re perché tassato, secondo lui ingiustamente, di venti ducati mensili sul reddito della Cancelleria che dirigeva e col quale pagava i suoi dipendenti. Il re ha propinato queste «pillole medicinali» al Pontano proprio nella ricorrenza della sua nascita.

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LETTERE, 30

Fonti ed Edizioni: L, c. 4; TAFURI, pp. XXI-XXIII (n. 15); parzialmente in COLANGELO, Pontano, pp. 71-72; parzialmente in TALLARIGO, I, pp. 266-267; PERCOPO, Lettere, pp. 32-34. Bibliografia: COLANGELO, Pontano, pp. 66-73; NUNZIANTE, p. 525 (n. 2), p. 530; PERCOPO, Lettere, p. 6; S. MONTI, Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Gioviano Pontano, «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., XII (1963), pp. 225-252: 225; FINZI, Re, baroni, popolo cit., p. 229; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, pp. 40-41; J. H. BENTLEY, Politica e cultura nella Napoli Rinascimentale, Napoli, Guida editori, 1995, pp. 144-145; G. VITALE, Sul segretario regio al servizio degli Aragonesi di Napoli, «Studi Storici», ILIX/2 (2008), pp. 293-321: 311-314.

Sacra Maestà, io nacqui nel dì d’hoggi, et in tal dì, secondo l’antica consuetudine, se soliva la matina ringraziare Dio, e lo resto del dì attendere a piacere. Vostra Maestà hoggi, senza precedenza de’ sciroppi, me ha dato medicina in pillole per esser Quella prudente, per benché non sia officio di principi fare esercitio di medicina. Ho prese le pillole molto volentieri, existimando che un tal Prencipe, pigliando officio di medico verso un suo fidelissimo servo et affectionatissimo ministro, non possa essere senza consideratissimo misterio. E con questa opinione ho preso le pillole a fine della mia sanitate, la quale resulta dalla desistenza e renunziatione di questo offitio di segretario. Io l’anno passato, per mezzo del conte de Alifi,232 supplicai Vostra Maestà che all’entrata d’agosto se provedesse d’altro segretario. Detto conte me rispose non volere fare ambassata alcuna, dipoichè io quella l’impose. Vostra Maestà con queste pillole me ha dato facultate de parlarli liberamente, et domandarli licenza di tal officio, perché lo medico, che dà la medicina, presuppone etiam, che dopo la medicina, se faccia lo cristero. Le pillole medicinali date da Vostra Maestà sono li 20 ducati da assignare al detto conte ogni mese. Lo cristero è, ch’io mi vada a stare con li miei libri, e ch’un altro faccia quest’officio, che lo farà più riccamente de me, e potrà dare al fisco più de 20 docati al mese, et, a capo di tempo, ce darà la roba sua tutta e la vita. Se questi 20 ducati sono quattro per cento, se fa conto che la cancelleria guadagna cinquecento docati al mese. Vostra Maestà vedrà per l’inclusa lista, che li quattro mesi passati, gennaro, febraro, marzo et aprile, si è guadagnato molto lontano da tale conto, et ogni mese se può vedere. Sicchè, chi ha fatto tale tassa non può essere, salvo homo di poco considerato vedere. Ma io non mi lamento di tali tassatori; mi meraviglio di Vostra Maestà che prima non 1404

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habbia voluto sapere da me qual sia il provento della cancelleria. Imperò mi emendo, e dico Vostra Maestà haverlo fatto come prudente medico, che, dopo le pillole, io usi questo cristero de domandarli licenza, e così fo. La Signoria di Venezia distribuisce 12 mila docati l’anno in cancelleria. Quando Vostra Maestà volse ordinare la cancelleria, si fecero liste per 7 mila docati. Io ne pigliai carico di governare li scrivani di provento; e così l’ho governato, e do a tutti del mio. A tiempo di messer Antonello233 ogni anno se davano capitanie alli scrivani, iudicati e mastrodatti e beneficii, et arrobbavasi li popoli, e lo primo rabbato era re Ferrando. A tempo de questo tristo e sventurato Pontano non se danno in cancelleria offitii, né se rubbano popoli né re, e bisogname esser tributario del sudor mio al fisco. Ringraziata sia Vostra Maestà delle pillole e del cristero; e Dio faccia di bene a quello che ve ha dato questo consiglio e ricordate questa ricetta. Deo gratias, gratias, gratias. Questa sera ho detto a questi scrivani, che non stiano più a mia requesta, ma che aspettano avere da Vostra Maestà, la quale provederà de chi habbia a passarle. Ben attenderò a lettere de stato, finchè Vostra Maestà me dirrà chi ha da supplire in questo loco, e questo tanto farò, quanto sieno passati quattro o cinque dì dal dì d’hoggi, perché poi resignarò il sigillo al conte d’Alife, il quale da parte de Vostra Maestà me lo diede, e manderò li registri e scritture in Castello. Questo è l’effetto delle pillole e del cristero, id est della mia sanità, della recuperazione della quale bacio piedi e mani a Vostra maestà. Lassamo la medicina. Vostra Maestà ha fatti Essa tutti li suoi ministri, et a tutti ha dato, me non ha fatto Essa, perché me son fatto io, da me medesimo. Anche Vostra Maestà me abbattette in li tempi passati, e fece conto di me, come s’io fossi un menchionaccio ignorante et inesperto. Né a me me ha dato, ma io ho ben dato ad Esso et al figliuolo, e Voi lo conoscete, e se non lo velete cognoscere, non è però ch’io non dica il vero. Li feudi, li castelli, le provisioni, le rendite, le donationi che aspettavano i miei servitii (non però che li spettassi io), son questi, che del sudore mio sia tributario al fisco de venti docati il mese, ciò a quindeci, a dudici et deciotto per cento; che gli altri delle robe e danari de Vostra camera non pagano, salvo quattro. Et quando detti vinti docati non habbiano a servire al fisco, ma ad altri che si sia, io non nacqui tributario ad alcuno. Sono ben stato servidore de’ grandi prencipi e per loro gratia, e non per mio merito; così come ho a loro ben servito, così l’ho etiam ben ricordati, qualche volta sono acquetati alli miei consigli. Non delibero, né crediate 1405

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Voi, che sete savio, possente e vecchio, ch’io in quest’ultima jostra del vivere habbia ad essere tributario, né lo credono Vostri figlioli, né nepoti, e con giustizia, non dico con forza. Io non dubito andare a starme alla mia masseria,234 sicuro senz’armi e senza guardia. Nostro Signore Iddio doni a Vostra Maestà in questo exercitio miglior ministro di me. Bacio li piedi a Quella. Napoli, 7 maggio 1490.

31 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Napoli, 28 maggio 1490. Pontano prega la duchessa di non voler prestar fede a quanti abbiano messo in giro la voce che sia stato lui a raccomandare Andrea Maffei dell’Aquila. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 209-210. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, p. 189.

Illustrissima et Excellentissima Madonna. Chi ha referito ad Vostra Illustrissima Signoria che messer Andrea Mafeo per mia opera ha optenuta la pretura de l’Aquila, io non sapria altro che responderle salvo che la pretura de l’Aquila ad questi tempi non se concede ad foresteri, ma ad persone bene fidate et vaxalle. Sì che, non havendo optenuta tal pretura, non so como se habia ad imputare ad me quel che non è in facto, né da me fo mai posto in pensero. De la venuta de messer Andrea et de sua mogliera non fo’ lo auctore, ma ben è stato ipso favorito da le bande de là et se havesse havuto modo da vivere in la sua patria, non credo havesse mutato paese. In Napoli io non li ho chiamati, né per me ce veneranno. Altra volta messer Baptista Bendedeo235 me parlò de questa cosa. Lui sa quel che per me li fo resposto. Messer Andrea da le bande de Lombardia ha havute tante lettere favorabile che me persuado optenerà alcuno officio verso Basilicata o Principato, né io in questo se li dano qualche favore, credo havere ad de1406

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spiacere ad Vostra Illustrissima Signoria, la quale etiam de questo me possa advisare et deve pensare a la etate dela quale io so’ ministri et officiali che la Excellentia Vostra non haveriano facto male ad redure in memoria che Messer Andrea per necessità non havesse ad mutare paese, perché, finchè ne ha havuto modo, non è andato implorando lettere, né favori per venir de qua et sappia Vostra Illustrissima Signoria, como non so’ stato amico né promotore del suo venire, né per mia causa è venuto in la terra. Io me studio per omne via servire ad Vostra Illustrissima Signoria né receverò de ciò grato né gratia. Serria pur honesto che ad torto non me fusse imputato quello non è o che non fusse data tanta fede ad chi me vole mando ad dosso. Io non mancarò servirLa in cosa che possa in omne occasione et ad Quella humilissimamente me recomando. Neapoli 28 Maii 1490. De Vostra Illustrissima Signoria humilissimus servus Joannis Pontanus.

32 GIOVANNI PONTANO A VIRGINIO ORSINI. Napoli, 16 aprile 1491. Il Pontano, in tono faceto e scherzoso, raccomanda alle cure dell’Orsini un suo caro amico residente a Napoli, il senese Giacomo Tolomei.236 Fonti ed Edizioni: AOR; PASOLINI, II, pp. 395-396 (n. 4); PERCOPO, Lettere, p. 34. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p.8.

Illustrissimo et excellentissimo Signor mio, se bono amico ho in Napoli, è messer Jacobo Ptolomei, il quale volendo andar a li bagni de San Philippo,237 se è consigliato con me del camino haveva da fare per essere ipso odiato et passar suspecto per le terre de la ecclesia. Io, confidando in la illustrissima Signoria Vostra, ho pigliato carco farlo passar ad salvamento, et lo ho consigliato facia lo camino de Tagliacozzo, dove se retrovarà la prima setemana de mayo. Et però prego la illustrissima Signoria Vostra ad quel tempo mandar quattro o cinque balisteri di li soi 1407

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che li faciano compagnia et lo conducano ad salvamento in quel de Sena, et talvolta venerà ad retrovar la Signoria Vostra, la quale sia certa ch’ultra lo obbligo imporrà ad me, farrà piacere ad uno homo da bene. Quando io non meriti questa gratia, la merita ipso messer Jacobo per aver tre cose simili ad voi: ciò è la persona, ch’ambo site de grassonia; per haver l’uno e l’altro li pedi falsi; et per essere tutti doi col capo grosso. Altre similitudine non voglio toccar, poi che la trinitate convene intra voi, ad la quale l’uno et l’altro poco crede, et questa sia la quarta similitudine. Recomandone ad la Signoria Vostra. Neapolis, XVI aprilis 1491.

33 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. , 24 maggio 1491. Il testo della lettera è completamente in cifra. Fonti ed Edizioni: ASMo, CPE, busta 1245/1, c. 36. Bibliografia: FIGLIUOLO, Un documento, p. 46.

34 GIOVANNI PONTANO A FRANCESCO II GONZAGA. Napoli, 12 giugno 1491. Pontano riporta con un lungo inserto sotto forma di discorso diretto la reazione positiva di re Ferdinando alla richiesta del Gonzaga di recarsi in visita a Napoli. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG, B. 807 (autografa); DOGLIO, Una lettera, pp. 234-235. Bibliografia: DOGLIO, Una lettera, pp. 233-234. 1408

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Multo illustre et ex[cellen]te S[ign]or mio. Havendo recevuta la Vostra de’ IIII et considerato bene el tenore de quella, subito, come spectava al mio offitio, la communicai con la Maestà del S[ignor] Re, la quale hebbe non piccola satisfactione videndo che Vostra Ill[ustrissima] S[ignoria] me havea liberalmente scripto et liberalmente recercato de meglio intendere la mente de quella circa el suo venire. Et tenendo Sua Maestà la l[ette]ra in manu, me dixe: – Noi ne recordamo multo bene più et più volte havere familiarissimamente rasonato con li homini del S[ignor] Marchese et con altri de la affectione che li portamo et havemo portato a li soi antecessori, et essendone etiam da quelli introducto nel rasonamento che ipso Marchese haveria desiderato de visitarne, haverli resposto che la visitatione et venuta sua ne saria stata gratissima, como de proprio figliolo, per viderlo presentialmente et accarizarlo et farlo participe de li solazi nostri de qua, maxime de le caccie, et per monstrareli, in omne manera che ne fosse stato possibile, l’amore quale li portamo, da patre propriamente, dolendone etiam che li tempi non fossero de tale natura che consentessero al reciproco desiderio del Marchese et nostro et ad possere usar seco nel visitare et nel recevere quella liberalità de animo che noi havessimo voluto, per li respecti et cause in dì passati in parte toccate per l[ette]ra con la Duchessa nostra figliola, inteso che hebbimo dal dicto Marchese esserse presa deliberatione de venire et già havere tolta licentia de la S[igno]ria de Venetia.238 Et non ce recresce per cosa alcuna havere scripto a la Duchessa, essendo ad noi figlia et ad lui matre,239 quel che li scripsemo, perché amando paternalmente como amamo el S[ignor] Marchese, non ce haveria parso satisfare al paterno amore et offitio nostro verso quello quando non li havessimo, essendo li tempi quali sonno, facto intendere tucto quello che in tale materia ne occurreva. Né ce pentimo, anco ne retrovamo multo ben contenti, havere scripto quel che si scripse et facti intendere li respecti quali ne movevano ad tale scrivere, perché lo amore qual li portamo cossì ne suase et indusse ad scrivere, et como è dicto per tal causa simo benissimo contenti haverlo scripto. Non de manco essendo el S[ignor] Marchese de la consideratione et prudentia che certamente è et havendo pur visto de le cose italiane assai et tenendo presso el consiglio qual tene, remectemo in la discretion et videre suo la electione del tempo circa el suo venire, lassando al iudicio suo lo eligere et lo exequire quello che meglior li parerà. Questo pur volimo si persuada et tenga per 1409

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certissimo: che sempre che deliberarà de venire, serà veduto, recevuto et accarizato da amatissimo et carissimo figliolo et venerà ad casa de suo patre, perché in tal gradu noi li simo et lui ne deve reputare, et cossì voi Pontano liberamente li scriverete –. Per satisfare al debito mio et maxime per obedire a la Ex[cellen]tia Vostra, ho perscrutato meglio qual sia el parere de la Maestà del S[igno] re Re in questa materia et in quella sententia et parole che Sua Maestà me ha resposto, io respondo a la Vostra Ex[cellen]tia, la quale comprende due cose principale in la dicta resposta: cioè che ‘l S[igno]re Re ha parlato et parla con amore et con rasone et che finalmente remecte ad la Ex[cellen]tia Vostra el tucto de questa occurentia, ad la quale io infinite volte me recommando. In Napoli, XII Junii 1491. Illustris et ex[cellen]tis D[ominationis] V[estrae] servitor humilissimo Jo[annis] Pontanus.

35 GIOVANNI PONTANO A INNOCENZO VIII. Capua, 20 ottobre 1491. Pontano, che ha avuto sempre col pontefice rapporti di reciproca stima ed affetto, insiste perché Innocenzo VIII acconsenta all’accordo con il re di Napoli, concluso poi effettivamente, per opera dell’umanista, il 27 gennaio 1492. Fonti ed Edizioni: L, c. 5v; G2, cc. 154v-155v; COLANGELO, Pontano, pp. 74-76; TALLARIGO, I, pp. 233-234; PERCOPO, Lettere, p. 35. Bibliografia: COLANGELO, Pontano, pp. 73-74; NUNZIANTE, pp. 521, 530; PERCOPO, Lettere, p. 7; BENTLEY, Politica e cultura cit., p. 196; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 38.

Beatissimo Padre, io desidero vedere la Santità Vostra in riposo e tranquillità di mente, et in quella somma dignità, che specta al Sommo Pontefice et anco conviene al bisogno del popolo christiano. Se queste 1410

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cose fossero in effetto, non se desiderariano; ma sono desiderate, perché mancano alla Santità Vostra, e per qual causa li mancano, già s’intende. Voglia dunque Vostra Santità disponersi ad eseguirle dal canto suo, perché non è però, salvo cosa molto facile e degna dell’humana e pacifica natura Sua. Ogni stato, benchè picciolo, cerca di assettare le cose sue, etiam che si mostri difficoltoso: quanto più il Sommo Pontefice si deve a questo studiare? Napoli si può dire essere la Vostra patria, vogliatela abbracciare; abbracciando quella, retirarete nel Vostro seno e sotto il Vostro mantello li Signori che la regono e correranno al seno apostolico di buona voglia. In questo io non ho veduto mai difficoltà da se, ma ben d’altronde è stata procurata, e già se vede, e l’esperienza l’ha fatto noto. Non è prudenza non revedersi in fine et rimettersi nel dritto camino; e retirarete altri: questo è proprio officio di sommo pontefice. Io so’ un povero hominello, e lo conosco, e saperia readrizzare il retto camino, e però con più caldo animo ce conforto la Santità Vostra per iudicare Quella sapientissima e di recto giuditio. Io ho male gambe. Vostra Santità non le ha però migliori, e però a simile pedature devono rincrescere le trasmanti del recto et necto camino. Vadasi, dunque, per via piana, netta et dilettosa, et quando li piedi siano riposati, riposerà etiam il resto del corpo, che è portato da quelli. Basando li Vostri beatissimi piedi, mi raccomando alle divine beneditioni della Santità Vostra. In Capua, li 20 di ottobre 1491.

36 GIOVANNI PONTANO A GIOVANNA D’ARAGONA. Roma, 1 gennaio 1492. La lettera riguarda la pace tra Ferrante d’Aragona e papa Innocenzo VIII, le cui trattative da parte del Pontano, iniziate nel dicembre, si sarebbero concluse il 27 gennaio del 1492.

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Fonti ed Edizioni: L, c. 8v; G2, cc. 158v-159r; COLANGELO, Pontano, p. 79; TALLARIGO, I, pp. 236-237; PERCOPO, Lettere, p. 36. Bibliografia: NUNZIANTE, p. 523, p. 532; PERCOPO, Lettere, pp. 6-7; BENTLEY, Politica e cultura cit., p. 197; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 40; VITALE, Sul segretario regio cit., p. 319.

Sacra Maestà, le lettere che io mando di qua, so che tutte sono mostrate ad la Maestà Vostra, e però, licet non sia necessario questo mio scrivere, per mia sodisfatione ho pur voluto scrivere la presente, et farli etiam con questa sua particolar noto il suspetto mio. Qual è questo, che, differendo el Signor Re la resoluzione e ponendose in altre et altre consultatione, io haverò apparecchiato legne siche ad chi è in ordine ad poner foco. Io so quello che altri prattica, et le lettere di Francia et di Milano lo disignano. Quello pratticano molti cortesani, parte lo so, parte lo conietturo. Se Luise da Casalnovo240 torna con dubietate et consultatione, el facto de altri è in pede. Io non voglio, né debbio volere salvo quello, che vuole el Signor Re. Pur voglio esser escusato, come fidele et integro ministro, d’haver fatto la presente a Vostra Maestà, alla quale humilissimamente mi raccomando. In Roma, primo gennaro 1492. Di Vostra Maestà humilissimo servo che basa Vostri pedi. Joanne Pontano.

37 GIOVANNI PONTANO AD ALFONSO D’ARAGONA. Roma, 1 gennaio 1492. Con toni quasi arroganti, Pontano incita il duca di Calabria ad acconsentire all’accordo col pontefice. Suo padre, infatti, istigato dai «procuratorelli» della corte, avversari del ministro, non si decideva a firmare, dichiarandosi insoddisfatto delle condizioni poste dall’umanista, troppo vantaggiose, a parer suo, per il pontefice.

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Fonti ed Edizioni: L, c. 9; COLANGELO, Pontano, pp. 77-78; TALLARIGO, I, pp. 235-236; PERCOPO, Lettere, pp. 36-37. Bibliografia: COLANGELO, Pontano, pp. 76-77; NUNZIANTE, pp. 522- 523, p. 533; PERCOPO, Lettere, pp. 6-7; BENTLEY, Politica e cultura cit., p. 197; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, pp. 41-42; SIMONETTA, La tragedia di Napoli cit., p. 229; VITALE, Sul segretario regio cit., p. 310; BIANCARDI, La chimera di Carlo VIII cit., p. 128.

Illustrissimo Signor mio, credo essere venuto in fastidio al Signor Re Vostro Padre per lo scrivere, che li ho facto, fuori del mio officio, imperò ben conveniente alla natura et costumi miei. Farò, con quest’una e non più (la quale voglio sia comune al Singor Principe don Federico) simile opera, et ultimato scrivere è questo che alle illustrissime Signorie Vostre. Et lo mio scrivere è questo. Io Ve ho rendute le cose Vostre meglio che forsi non se sariano pensate o desiderate; et se volete o non esserne dicognoscenti, el’è pur così. Tucto il mondo ce è stato adverso, et pur si è venuto al Vostro. Voi possete dalle lettere venute et per le opere delli grandissimi adversarii questo vedere et iudicare. Io dubito del Duca di Calabria, de don Federico e del Padre Loro, mio Signore, che ancora anderanno spizzicando et trovaranno qualche copirchiola. In nome del Vostro diabolo habbiate l’animo grande: un poverhuomo, ch’è Joanni Pontano non ha paura d’Europa e Voi havete paura di non retrahere dall’accordo del papa più assai di quello, che mo non vedete né pensate. Con lo Vostro scrivere da Napoli, con le Vostre cautele de’ procuratorelli mi havete havuto ad mortificare. Come Luise241 torna, che ad me bisogna replicare, mi vengo con Dio. E per mostrare che io sono stato homo, et Voi non quelli che devete, mostrarò li capitoli ad alcuno, acciò che io ritorni con mio honore; et non credate che con le Vostre repliche io voglia ponermi più ad battaglia. Se vi rincresce lo mio scrivere, tal si sia di Voi. Così specta fare ad Joan Pontano. Io vedo et sento quanto v’à in la tornata de Loisi. Recomandome alle Vostre illustrissime Signorie. In Roma, lo primo di gennaro 1492. Di Vostra illustrissima Signoria humilissimo servo Joanne Pontano.

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38 GIOVANNI PONTANO A VIRGINIO ORSINI. Roma, 12 gennaio 1492. Da Roma Pontano aggiorna Virginio Orsini a proposito della vicenda dei dieci ambasciatori ascolani dimostrando tutta la sua disponibilità nei confronti di questi ultimi nonché il desiderio che la faccenda venga risolta al più presto. Fonti ed Edizioni: L, c. 9v; G2, cc. 159v-160v; NUNZIANTE, pp. 533-535; PERCOPO, Lettere, pp. 38-39. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 8.

Illustre et excellente Signor mio. Se in le cose di questi oratori ascolani 242 io mi son portato bene, lo rimetto al testimonio di messer Bartolomeo vostro de Bracciano. Vero è che, vedendoli io inesperti, qualche volta l’ho parlato per contrario del lor parere; massime sopra certi articoli e resposte. Et se avessero facto ad mio sinno, è un mese che le cose loro serriano assectate. Et in fine, vedendo essi el facto loro, se sono pur reducti ad quello che da principio fo da mi recordato, et pur imperò ultra la dilatione del tempo hanno in qualche cosa difficoltato il fatto loro. Et tanto monsignor de Theano,243 quanto etiam l’oratore della Signoria di Fiorenza sono concursi al medesimo parere. Questo ho voluto toccare per una lettera che hebbi hieri dal Signor Re con copia de una lettera de Ferrante.244 Per mi infine non si mancherà al bisogno delle cose loro. Et quando non ce fusse mai el respecto de la Maestà del Re, c’è el respecto che ho di servire la Signoria Vostra. Havendo inteso lo restante de la illustrissima Signoria Vostra a Cornopoli et de l’excellente signor conte, ad Ripa,245 et parendome cosa dannosa a le cose, che se trattano, et che tal stantiare da ogni banda accresceva sospetto et che le prattiche de li soldati inseme con la vicinità poriano producere inconvenienti da la natura, come m’è parso confortare la Santità di Nostro Signore ad fare audare lo signor conte ad le stantie sue di lontano, levandose totalmente dalla Ripa et contorni, perché el simile si farria da la Signoria Vostra; et così ho scritto alla Maestà del Signor Re. Et perché la Santità di Nostro Signore scrive al signor conte 1414

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in lo tenor predecto, prego et conforto Vostra Illustrissima Signoria a levarse anco essa et ad intenderse con il signor conte, al tempo et al modo de levarse et andare via l’uno et l’altro ad un tempo e de continente, perché Ascoli et el paese ne sentirà grande alleviamento, togliendosi assai cause di suspitione e de scandali: et tanto la mente del Sommo Pontefice, quanto del Signor Re ne resteranno reposate et fora d’affanno. Et a questi ambasciatori che so’ qua si darà un adiumento molto favorevole e non manco ad noi altri, che affatigamo per l’acconcio loro. Confortoce l’illustre Signoria Vostra quanto possibile me è, et a quella infinite volte me raccomando. E sappia che hieri el signor Joan Jordano246 me mandò un presente regio: XI cegnali, quattro caprii et un cervo de una singolar grandezza! Habia pacientia el padre, se el figliolo è più magnifico. In Roma, 12 gennaro 1492. Di Vostra illustre Signoria humile servitore Joanne Pontano.

39 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Roma, 28 gennaio 1492. Pontano riferisce ad Eleonora le ultime novità circa la conclusione dell’accordo tra Ferrante ed il pontefice, accordo di cui persino il papa ha dato notizia presso il Collegio cardinalizio. Il Pontano raccomanda altresì alla duchessa di riferire queste notizie alla regina d’Ungheria. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 210. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, p. 189.

Illustrissima et Excellentissima Madonna. Ad li XXIIII del presente piacque ad la Santità de nostro Signore voler fare commissione con meco como mandatario de la Maestà de Vostro patre per lo accordio et capitulation facta in le differentie et contrasti de li anni passati, et col nome de Dio et con summa et gratissima 1415

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concordia se concluse. Donde a la prefata Santità parse dover heri fare declarationi et publicationi a li Reverendissimi Cardinali in consistorio et così col nome de Dio se fece et publicò. Per satistar, dunqua, al mio officio con la presente ne do notitia a la Illustrissima Signoria Vostra ad ciò ne facia comunicatione co’ l’Illustrissimo et Excellentissimo suo consorte et con soi Illustri figlioli con quella consolatione et allegrezza che la filiale affectione rechede. Do simile notitia ad la Serissima Regina de Ungaria con la alligata. Piaccia ad Vostra Illustrissima Signoria dirizarla, havendo modo alcuno, perché io qua, in Roma, non ho modo alcuno de posser con fede mandarla. Recomandomi humilissimamente a la Vostra Illustrissima Signoria. In Roma, 28 de gennaio 1492. De Vostra Illustrissima Signoria humilissimo servo. Joanne Pontano.

40 GIOVANNI PONTANO A CARLO DE RUGGIERO. Roma, 7 febbraio 1492. Pontano aggiorna il de Ruggiero sulla pace stipulata, proprio il 7 febbraio, tra Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 2190, c. n. n. (copia); FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 82. Bibliografia: FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 78.

Magnifico messer Carlo, hogi, col nome de Dio, in Camera Apostolicha se sonno stipulati li capituli de la concordia, cum interventione de molti prelati et generose persone, et maxime de li reverendissimi cardinali Santo Petro in Vincula, Benevento et Sancta Anastasia.247 È stato etiam stipulato et publichato uno matrimonio de una naposcella de la santità de nostro signore cum lo marchese de Giraci, nepote del signor re.248 Avanti heri furono rebenedicti Asculani et licentiati loro oratori, et hanno havute loro bulle et brevi. Sì che, cum la gratia del nostro Signore Dio, 1416

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tute quelle cose per le quale io venni qua sonno expedite votivamente. Et perhò io de qui a pochissimi dì me ponerò in retorno. Ben dico questo: che la distantia del signor in Puglia è stata causa de differire questa conclusione uno mese, per la tardità del consultare et aspectare resposte. Poterete fare note le cose predicte a quello serenissimo principe et al suo prestantissimo Senato. Raccomandomi a vostra magnificentia. Rome, VII februarii 1492. Vester Johannes Pontanus.

41 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. Napoli, 26 aprile 1492. L’argomento trattato nella lettera è, ancora una volta, quello della pace tra Ferrante I ed Innocenzo VIII.249 Con toni il più possibile persuasivi Pontano ricorda a Ferrante come la delicatissima empasse politica, che la morte di Lorenzo de’ Medici ha comportato, renda urgentissimo l’accordo. Fonti ed Edizioni: L; G2, cc. 165r-169v; parzialmente in TAFURI, p. XLVI; parzialmente in COLANGELO, Pontano, pp. 82-83; parzialmente in TALLARIGO, I, pp. 268-269; NUNZIANTE, pp. 538-543; PERCOPO, Lettere, pp. 39-43. Bibliografia: NUNZIANTE, pp. 524-525; PERCOPO, Lettere, pp. 6-7; DE FREDE, L’impresa di Napoli di Carlo VIII cit., p. 72; FINZI, Re, baroni, popolo cit., p. 115; BENTLEY, Politica e cultura cit., p. 198; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, pp. 40, 42; G. FERRAÙ, Il tessitore di Antequera. Storiografia umanistica meridionale, Roma, nella sede dell’Istituto, 2001, pp. XLIV, 42, 114, 116; SIMONETTA, La tragedia di Napoli cit., p. 229; VITALE, Sul segretario regio cit., pp. 296 (n. 7), 309 (n. 43), 318.

Sacra Maestà, essendo Voi prencipe savio et tanto experto, non è altro che presumptione, o, per parlar più pronto, temerità la mia volerve ricordare, et in li fatti Vostri, quali Voi sete soliti ben misurare, darve conseglio o vero sollecitarvi. Et per benché invero sia così, non è però falso che quello, quale per habito et natura è dato, ad alcuno volerglilo tollere sia quasi impossibile. Io non potria mutar natura de ricordare 1417

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alli Signori mei quello mi pare sia loro bene; così come etiam non so mutare me medesmo di astinerme di dar a quelli impaccio o spese in li mei bisogni, etiam che sia nel grado mio ben povero. L’uno et l’altro è in me vitio; ma come io ho patientia in non affannarve in le mie necessitate; così Voi habbiate patientia, etiam che sia cosa dispare da signore ad ministro, in intendere quel che mi occorre in li fatti Vostri, e che è con amore e con fede. Vostra Maestà cognosce et ha provato le differentie col Papa esserli affannose non senza suo danno et infamia; et, per contrario, lo stare bene con li pontifici esserli stato con utile et reputatione. Quanto più lo conoscete, tanto più Ve è carco non prosequire quelle cose che sono per darvi comodi et honori, et so che comenzate ad esserne imputato. Et chi dice che sete venuto mal volentieri all’accordo et che me havete disgratiato per questo. Chi dice che è Vostro naturale scordarvi de le altre circunstantie, poiché havete fatto il fatto Vostro. Queste macule non sono da riceverle nel Vostro mantello, quale solete portare polito et gloriarvene. Se havete forse qualche secreto recordo da alcun gran mastro, io non lo so; ma dico questo che li gran magistri de Italia sono stati e sono malcontenti del bono essere Vostro con la Sedia Apostolica. Se vedetene la indispositione del Papa, tal consiglio non lo laudo, perché tanto più se deveria accelerare da Vostra Maestà ad arresettarse con questo Pontefice con ogni degna demostratione, per havere poi l’altro più persuaso ad accarezzarvi et a volere la amicitia et bona fi lialità Vostra. Se è perché lo differire, come spesso allegate, Ve voglia portare utilità, questo non è di quelli casi, che, poiché è una volta deliberato, se debia aspettare più ultra a chi lo differire potria portare danno, e non è senza dar aptitudine de mal dire a chi se ne diletta et lo va cercando. Lorenzo è morto, 250 tanto più dovete studiarve ad guadagnare el Papa per haverlo solo. Lodovico se è dimostrato Vostro inimicissimo; et lo Papa de presente se mostra tale verso esso; et vedete che tacitamente lo ha interdicto. Non sapete cognoscere el tempo, perdonateme; non fate bene; non voglio però sapere delli Vostri motivi più ultra di quel che volete Voi. Una volta fui causa di saccheggiare el signor Roberto,251 mo’ so stato potissima causa di fare intertenere el cappello al Maliacensi.252 Se dopoi che io son tornato, Vostra Maestà, senza rispetti frivoli in una tanta cosa, me havesse spacziato et remandato in Roma, io haverria 1418

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facto cose che Voi non le pensavate, et le cose di Milano non Vi darriano tanti affanni. Io non ho voluto sollecitare oltre el dovere, perché non voglio essere cardinale, né voglio dal Papa né da Voi cosa alcuna. Ad un homo licterato, come ad me, che el Duca de Baro me chiama fi losopho, basta et deve bastare, senza altri premii, che doe et tre volte ho tenute le cose de Italia in expeditione et effecto delle operatione et agitatione mie. Questa satisfatione d’animo me basta, et, per benchè lo pasto et cibo delli principi sia la gloria , non Ve rincresca; se io, per merito delle lettere et della mia integrità, vi dico deverme bastare questa cibatione de bona et laudabile fama. La quale, dall’altro canto, è piena di bisogni et de egestate: non che me manca il pane, el quale mai me mancò, né è per mancare, né mai Ve ne darò affanno, perché so’ contento de questa mia conscienza. Deliberaste de mandare el Prencipe253 et voleste fosse così scritto per Italia. Perché non ci date ordine? Lo tempo è passato. Vostra Maestà sarria escusata, quando ci havesse dato alcun principio. Ma ad Roma se parla, anco se disparla (come havete veduto per lettera de Jacobo254) di questo indugiamento, et io lo so per altra via. Se lassate per qualche denaro (el che io non credo), grande avaritia sarria la Vostra, che in cose non tanto importante, anco simulate at apparenzose, havete dispeso el mondo; et in queste cose di tal natura guardate tanto ad minuto. E state in la major opulentia he foste mai! Se alcuni altri rispetti Vi moveno, pensate et anteponete li maiori rispetti, et che sete stato spennato et capponato da tuct’i prencipi de li christiani; et mo’ che possete essere gallo, non volete galleggiare. L’anno passato, ad maio, foste riscosso di quattromila ducati, fosti tirato alle pazzie de Ascoli; et, perdonateme, se io non fosse stato, se serria più oltre saltato. Ricordateve de quello che el Duca de Baro Ve ha facto in le cose de Scotia et de Ungheria;255 state mo anxio del facto della Regina et ogni cosa pende dal Papa, et doi benedecti beneficii Ve teneno, che ancora Ve porranno fare sudare. Genovesi Ve assassinano, et andate temporiggiando e comportando con essi. Lo Papa se studia de compiacervi in ogni effecto, et Voi non lo volete compiacere de una minima cosella. Havete respecto a certi huomini che Ve servono, et a Voi non volete servire. Et quando ben mirarete, dirrà Vostra Maestà: lo Pontano cerca questo o per riscoterne in provisione o per ritornare ad Roma et farsi prelato.256 1419

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Io non Ve domando cosa alcuna, né ad Roma voglio tornare. Recordove che sappiate conoscere el facto Vostro et de li Vostri successori. A me è stata già tolta ogni reputatione, che ad un povero pare mio se potesse togliere: non posso repararce: sia con Dio. Dirrà etiam Vostra Maestà che, essendo io ministro, non debbia curare più ultra. El credito mio non è stato solamente per essere Vostro ministro; ma per essere io da me tale, che me ho guadagnato credito et opinione, per dir loro naturale et contra natura, et però è molto duro. In altri accordii de Vostra Maestà se sono dati contadi, terre et provisioni; et recordateve bene del contado de Solito, del contado de Santo Valentino, del contado de Cariate et del Duca de Urbino, et de tante provisioni in Genova et de tante conducte, de tant’altre spese etc. L’accordio facto per me contro la opinione d’ogni uno, non Vi è costato né ducati, né contadi, né denari, né conducte: e s’è alla Vicaria, quando se cassa un processo, se paga pur qualche decina de carlini. Furno li ministri Vostri in tempi passati, messer Anello lo fortunato, messer Antonello d’Aversa, lo consigliero inrefragabile, el conte di Mataluni:257 certamente tutti homini degni e ben remunerati. Fecero assai bene in Vostro servitio, ma in effetto fecero per loro. Rencresceme numerare el conte de Mataluni con l’altri; ho voluto contare Francesco Coppula et messer Impoù.258 Nullo di loro gran maestri ha fatto quel che forse ho facto io, solo et abandonato, et come io l’ho fatto, Voi lo sapete et remettome al Vostro iuditio. Perdonateme, imperò, cento volte sete stato venduto et ali bisogni Vostri ciascun delli predecti se trovarono ricchi et Voi povero. Aspecto un dì che me sia facto el processo del ben fare, et non ho che perdere, et ciascuno di loro havea robba de centomila docati al manco. Et aspecto di rispondere alli processatori egregiamente et senza advocato. Cognosco et ridome che me havete sospecto in le cose di Benevento, dando fede ad uno che havete carcerato. Non possendo prendere altro remedio, non apartene a me dire altro, salvo che Vostra Maestà faccia secondo la prudentia Sua ricerca. Quanto ad me, povero et fidel ministro, tocca, non cessarò mai de servirve et fare quanto possa un piccolo, imperò incorrupto, ministro. Vostra Maestà, come savia, come experta, come principal nel facto Suo faciane quello li parerà, perché la sapientia Sua dà speranza et certezza che non possa fare salvo bene. Da me Vostra Maestà in queste cose non haverà più affanno alcuno in lettere né in parole, et Quella supplico me voglia perdonare, se con la presente 1420

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per pura servitù et fideltà. L’ho scripto tanto liberamente. Del che la Vostra bontà me ha data fidutia. 26 aprile 1492. Di Vostra Maestà humilissimo servo Joanne Pontano.

42 GIOVANNI PONTANO A ERCOLE D’ESTE. Napoli, 4 maggio 1492. Se nella lettera del 28 maggio 1490 Pontano si difendeva, al cospetto di Eleonora d’Aragona, dalle accuse di aver voluto favorire in qualche modo Andrea Maffei, ora, proprio a suo beneficio, si rivolge al consorte di Eleonora, il duca di Ferrara. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, p. 211.

Illustrissimo et Excellentissimo Signor mio. Essendo venuto de qua messer Andrea Mafio sopto l’ombra mia, so’ necessitato ad interponerme per lui in tutte sue cose. De la qual cosa so non despiacere ad la Illustrissima Signoria Vostra per esserli quello bon subdito et haverse demonstrato in li offitii, quali per multi anni passati li ha dati. Supplico, dunqua, la Illustrissima Signoria Vostra che per comodità del dicto messer Andrea et in mia singular gratia, li voglia concedere la exemptione de’ comandamenti et servitii personali per li soi lavoratori, quali lavorano in sue possessioni, et darli quella immunitate che hanno li soi vicini, tanto de servitii personali quanto etiam de bariselli. Del che Vostra Illustrissima Signoria ad me faria gratia specialissima et ultra li altri beneficii da Quella ad me facti, adiungerò questa gratia, la qual reputarò per primaria et ad Quella me recomando. Neapoli, IIII mai . De Vostra Illustrissima Signoria humilissimus servus. Joannis Pontanus.

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43 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. . Pontano aggiorna il suo re a proposito dei chiarimenti, avuti appena il giorno prima, circa le trattative di intesa tra Roberto Sanseverino, figlio di Antonello, principe di Salerno,259 e Franceschetto Cibo,260 figliuolo di Innocenzo VIII. Fonti ed Edizioni: L, c. 10v; G2, cc. 160v-163r; NUNZIANTE, pp. 535-537; PERCOPO, Lettere, pp. 43-45.

Sacra Maestà, parseme hieri deverme chiarire co’l’ Episcopo de Urbino,261 se la instantia circa el figliolo del Principe di Salerno262 et del stato per lo signor Francesco263 era per tentare; e se possevamo, quasi per via extra-ordinaria, retrahere alcuna cosa più; e che questi doi capi fossero principali et de tal substantia, che senza essi non s’havesse a concludere. E però li feci lo parlare infrascritto: «Monsignore, io venni qua principalmente per lo respecto vostro, havendome mio nepote264 fatto intendere, quanto voi venevate ben a l’effetto delle differentie, né altramente io sarria venuto, né lo signor Re m’haveria mandato, atteso che noi de là sappiamo le voluntate et manere di questa corte, e sono più de quelli, quali se pascono de scandali, che habbiano voluntate de estirpare le zizanie. La mia venuta fo etiam repentina, et solo parse de venire resoluto alle materie delle differentie, le quale erano note, et Jacobo per sue lettere le haveva toccate apertamente. In questa parte da me vi è stato risposto, et parlato resolutamente et con conclusione e la Santità di Nostro Signore ne è restata contenta. Dal canto vostro si è poi venuto ad altre prepositioni et quesiti, et quanto alla istantia per li episcopi assai è stato risposto a proposito, et se qualche cosetta in tutto non vi satisfè, per questo io non mancherò de assettarli, et pigliarò etiam qualche securtà del mio Signore, acciò che le cose minime non guasteno le massime; et in queste parte de beneficii non bisogna insistamo altramente. Voglio esser chiaro da voi, se li doi capi predetti sono tucti ambodoi tentativi, et per vedere se possete retrahere alcuna cosa più, o se tutti doi l’havete per principali e de substantia; o se havete per substantiale 1422

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el facto del Signor Francesco e ponete avante l’altro per far calar noi da questo; perché io da questi doi capi sto admirato, per mai non essere stato accennato né parlato ad Jacobo. Et dico questo, che quando Jacobo ne hevesse toccato, presertim del figlio del Prencipe, mai Sua Maestà me haverria mandato cqua, et io ve ho detto questa essere cosa impracticabile, et che per cosa del mondo non scriveria al Signor mio. Quanto al signor Francesco, lo Signor Re, quando fu al tempo, venne libero et favorabile a le cose, et io altre volte ve l’ho spacificato, e se messer Ioanpero Arrivabene allora ci fosse stato in lo loco che è mo, non serria lassata passare tale ventura senza pigliarla e tenerla ben stretta. Quel che si sia, quando queste cose siano assectate, et che li piaceri et benefitij crescano de dì in dì più, allora el tempo mostrerà deversene entrare in practica. Al presente non mi pare sia tempo, né io alla mia partenza sapea venire a tal articulo, perché me ne sarria chiarito, et forse con questo et l’altro articulo et con le altre cose che sono state adiunte alle differentie principali, haveriano inducta la Maestà del Re a far altro pensiero che il mandarmi cqua. Et avante lo mio venire ne havria data chiarezza alla Santità di Nostro Signore. E però, Monsignore mio, voglio chiarire la qualità delli doi capi predecti, e fatemi apertamente nota la importantia loro: ben ve certifico, che io de tale doi materie non so’ per parlarne altramente, che como ho parlato. Né al Signor Re arderia de scriverne; et se vui et io per questi doi capi ne volemo tirare addosso la esclusione di questa unione, non facemo bene. Io non sono venuto per andar cercando avantaggi, ma per componere le differentie: quelle sono composte; se con le accidentali volemo guastare le substantiali, non bisognava ad me venire, né voi confortare Nostro Signore a demandarne. Haveremo, infine, dato posto a chi poi saltarà su ad guastarla et scandelazarle più che non so’ state per lo passato». Resposeme: «Questi doi capi esser substantiali e che quello del figliolo del Prencipe si riferiva ad quello del Signor Francesco, perché la cosa del Signor Francesco se posseva differire, et quest’altra haveva da venire in la conclusione per andarci l’honore di Nostro Signore e che non s’erano fatto intendere da principio questi doi capi, perché, essendosi tirato il Papa ad mandare per me, quando quelli capi delle differentie fossero notificate al Signor Re, pareva bastasse, et poi in consequentia delle altre circostantie se haveria a bocca rasonato di questi». 1423

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Per mi fu replicato ad l’uno et l’altro capo: «Et ad lo re non haverlo scritto da principio copiosamente, certificandolo, che Vostra Maestà mai mi haveria mandato, quando li fusse stato da principio posto avante». El parlare et reparlare fu longo, et con reposo, et io me son sforzato con lo Pontefice et con lo Episcopo procedere con tali modi, che mai si possa dire essersi per m[…] data causa ad disturbo maxime ad […]

44 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. Roma, 30 giugno 1492. Un Pontano quasi sfrontato e certamente ben consapevole di quanto i suoi servigi siano indispensabili a Ferrante reagisce con sdegno alla decisione presa dal re di affiancargli degli esperti in legge. Fonti ed Edizioni: L; G2, cc. 163v-165r; COLANGELO, Pontano, pp. 79-81; TALLARIGO, I, pp. 237-239; NUNZIANTE, pp. 537-538 (sino ad «alcuno»); PERCOPO, Lettere, pp. 45-46. Bibliografia: NUNZIANTE, pp. 525-526; FINZI, Re, baroni, popolo cit., pp. 62-63; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 43; FERRAÙ, Il tessitore di Antequera cit., p. 116; VITALE, Sul segretario regio cit., pp. 310-311.

[…] Io me ho riso che è stata levata de la mia minuta quella parte dove dice, che tra Vostra Maestà e lo presente Papa arano state cause de più amicitie, che con altro papa. Questi del Papa non ce volevano quella parte, perché el Papa era punto acteso che da lui era processo l’offendere et data causa ad inimicitia et differentia; et io mai la volsi levare. Vostra Maestà l’ha fatto levare. Col nome d’Iddio, non bisognava prendere anxietà, salvo cassare. Io ho scritto a Vostra Maestà che io haveva facto notare un mio scrivano, acciò fossero doi al contrahere. Dolme che Vostra Maestà non adverta lo mio scrivere et me scrive con tanta instantia, che pare io non sia di questo mundo. L’altra volta se io havesse contrahito con doi notari, la 1424

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causa Vostra andava in perditione. Non so’ dottore, ma alli dì miei non me hanno gabbato dottori, né mi gabbaranno mo; et perché mo è altro tempo, io ando col mio notare. Non ce è bisogno de certo e non ce ne fate spesa, che è superfluo. Parme di vedere che sia stimato per uno che mai habbia visto acto alcuno. Sia con Dio: pur son vecchio et ho perduto li denti ad stimar carte et libri. Questi Vostri savij, se mai cacciassero li piedi del Reame, se advederiano chi sono. Messer Colantonio di Capua et messer Antonio d’Alexandro,265 excellenti dottori, non anco hanno facto quello, che ho facto io senza legge; manco lo farria nullo dell’altri che sono in Napoli et mai cavaro li piedi di fora. Io non mi lasserò del mio recto camino; ma, a dire il vero, me ni è data pochissima causa, che ogni dì me sono dati novi mastri, e non de manco me è gratissimo et reputolo per ben facto et ad me resulta honore, che poi le practiche de uno discipulo prevalano alli mastri. Tornando a casa, delli affanni d’hoggi, questa sera ne ho havuto restoro col ridere che ho fatto. Io non dico che Vostra Maestà non veda li fatti Suoi, atteso che però io mando le minute; ma basta acconciare et non volere fare tanto dell’anxio: che sia troppo, et dove basta dire: «Fate così». In una medesma sententia mi havete di questa cosa scripto due lictere, una de mano de Jannello,266 l’altra di mano del scrivano, con molti motivi et punti viridichi. Et, in vero, quando si fecero li primi mandati, se fossero stati communicati et ben digesti, et pensata la parte sua et quella del compagno, non bisognava venire a queste tante dubbietate. Dolme che per volere coprire l’amici, so’ da quelli percosso, che, in vero, non è ben facto. Era io contento ponere la fama mia ad baracto con le grammatiche de contado, come dicono qua, et mo ne recevo questi merti. Et anco de questo me riderò, et, scrivendo la presente, mi ne rido; né credate che scriva con collera: parlo ben libero, come è mia usanza, et so’ contento de me medesmo, né cerco riputatione con minuire quella delli altri. Cerco bene et fantastico ogni dì di megliorare li facti Vostri, et par che Vostra Maestà me ne voglia disviare. Vostra Maestà, perché è sapientissima, potrà usare altri homini, che non pensaranno tanto, et faranno megli li facti Vostri et anco li loro, che non ho facto, né fo io. Baso li Vostri pedi. In Roma, 30 junii 1492. De Vostra Maestà humilissimo servo Joanne Pontano.

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45 GIOVANNI PONTANO A ELEONORA D’ARAGONA. Roma, 3 luglio 1492. Il Pontano mette al corrente la duchessa sui provvedimenti da prendersi contro il Turco, per i quali il nostro ha dovuto, nel maggio del ’92, tornare a Roma. Fonti ed Edizioni: ASMo, vol. cit.; PERCOPO, Nuove lettere, pp. 211-212. Bibliografia: PERCOPO, Nuove lettere, p. 190.

Illustrissima et Excellentissima Madama. Mando ad Vostra Illustrissima Signoria le alligate copie ad ciò che Quella intenda le occorrentie circa li motivi turcheschi.267 Io ho solicitato che per la Santità de Nostro Signore se facessero le provisioni opportune, atteso non essere veresimile che ‘l Turco con la persona, con tanto exercito, con armata, con metalli da colar bombarde se sia conferito in Albania per domare la Cimarra, che sono appena VII casali in li lochi asperrimi; al che bastariano 10mila persone, et anco octo o X fuste ad ciò non se potessero salvare in mare. Ulterius se è facta et fa mirabil preparation de biscocto per ponerlo in mare. Vostra Illustrissima Signoria se dignarà participare con la Excellentia de l’Illustrissimo suo consorte. Recomandomi infinitevolmente. Non ho perduto tempo circa li bisogni de la Serenissima Regina Vostra sorella.268 Rome, 3 iulii 1492. De V[ostra] Ill[ustrissi]ma S[igno]ria deditissimo servo. Joanne Pontano.

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46 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO I D’ARAGONA. Aversa, 12 ottobre 1493. Pontano mette in guardia Ferrante dalle minacce che incombono su di lui da molteplici fronti, il papa, Venezia, Firenze, dando poi al sovrano tutta una serie di consigli sulle strategie da tenere con ciascuno dei nemici individuati. Fonti ed Edizioni: Dai Collecta o, più comunemente, Notamenta, del giureconsulto Antonio Afeltro, secondo N3, c. 282; TALLARIGO, I, pp. 274-282; PERCOPO, Lettere, pp. 47-51. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, pp. 4-5; FINZI, Re, baroni, popolo cit., p. 158; BENTLEY, Politica e cultura cit., pp. 200-201; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 47 (n. 34); SIMONETTA, La tragedia di Napoli cit., p. 230; F. CASCONE, ‘Antivenire’, la battaglia nelle lettere di Giovanni Pontano, in La battaglia nel Rinascimento meridionale. Moduli narrativi tra parole e immagini, a cura di G. ABBAMONTE, J. BARRETO, T. D’URSO, A. PERRICCIOLI SAGGESE e F. SENATORE, Roma, Viella, 2011, pp. 395-405: 396-397.

[…] il che non trattaria, essendo in lega co’ ‘l Papa e Venetiani, se quelli non fussero consentienti. E quanto tocca a’ Fiorentini, ve site possuto declarare de la volontà loro in due potissime cose, ciò è, in la denegatione de la intelligentia co’ ‘l Papa et in lo disusare de la Vostra lega con lo colore della robba de Francia, anco con dimandare il Vostro consenso di mandarve diece squatre contra. Dimanda certamente detestabile etiam nell’inferno. Sì che l’Italia tutta è congiurata contro la potenza e stato Vostro. Il fine perché lo fanno, a mio giuditio, è questo: imperò l’uno fine è universale di tucti; l’altro particolare d’alcuni. L’universale è che loro non chiamano in Italia il re di Francia per essere troppo grande e di troppo terribile ombra; ma il duca de Loreno,269 il quale ve lo sbatteranno in contra. E posto che haveranno questo ostacolo dentro lo reame, giudicano che haverete da tribular per parecchi anni; e loro staranno securi et in consolatione, parendoli haver fatto assai. Et a questo fine concorrono principalmente Fiorentini, sì per le cose hanno patute per le guerre fatte da Vostro padre e da Voi, sì per essere de natura francesi. E 1427

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già mi par di vedere Piero270 far pensiero che il banco de’ Medici habbia da esser la tavola, in la quale se conteno tutti li dinari, che saranno mandati da Francia in Italia, e che li panni de la prestanza habbiano da uscire dal fundico suo. Venetiani giudicano Vostra Maestà haverli guastato in Italia molti e grandi loro designi; e però ve vorriano in affanno, tenendo per certo che o da Voi o dal Duca de Loreno s’habbiano a megliorare de conditione in questo Regno, massime che, essendo che per vie indirette le sono state tolte tutte le mercantie di Puglia, di Bari et Otranto. Et se non fusse il timore del Turco, haveriano già mostrato risentirnesi per altri modi; ma assai se sono risentiti, essendovesi colligati contra, e mandato per gente per offendervi. Del Papa non voglio dire altro, solo che de natura poco ve ama; e fa stima ingrandire più don Goffredo271 con le guerre Vostre, e di ritrovar meglior conditione, che il principato di Squillace, o con Voi o co’ ‘l Duca de Loreno. E questo basti quanto al fine universale di tutti li potentati congiurati. Vengamo all’altro. Il fine particolare è quello del Duca di Bari,272 il quale ha incitati co’ ‘l fine sopradetto; ma all’intrinseco attende al suo, il quale, havendo havuto un figliuolo da la mogliere, e, pensando in quello, pensa due cose: cioè, di lassarlo signore e sicuro e de esso vivere etiam securo, e confere senza risguardo, e giudica non possere esequire li soi disegni, eccetto con la Vostra roina totale; non dico io con impacciarve e darve affanno, ma con roinare in tutto il Vostro stato e Voi. Il che cerca de conseguire con buttarvi in casa il Duca de Loreno et il Prencepe de Salerno, e con mezo loro ribellarve il Reame; e, quando le cose siano in questi termini, farse largo in Milano. Del che Venetiani se ne rideranno, perché non aspettano altro che dissentione in quello stato, esistimando che ‘l Duca di Bari non possa fare sì quietamente né tanto alla assicurata, che non segna divisione per quello stato. Si che il fine del Duca di Bari è questo; e, per mandarlo a conclusione, cerca di complire il suo disegno con ruinarve con la guerra del Duca de Loreno, et si sforzarà di fare ben presto, giudicando che con la celerità habbia a reparare all’inconvenienti, quali potriano seguirli addosso quando Vostra Maestà se sia reveduta e che seguisse qualche disegno a lui contrario: chè in vero lui ben vede, che co’ ‘l tempo, receveria qualche grande adversità per l’una o per l’altra via, havendo li adversarii che ha, ma confida ne la celerità de spacciarve presto. E già in questi dì messer Antonio Stanga 273 ha detto a messer Dionisio274 che germe saria per poco tempo, e se in lo reame non sono baroni 1428

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grossi, nge sono universitati e popoli grossi, che subito si ribellaranno. Queste cose lui le ha dalli judicii e disegni che si faranno in Milano et in casa di monsignor Ascanio,275 idest del Papa. E già dicono in pubblico che poneranno il principe di Salerno in Calabria con la armata, la quale, mediante Genoa e le altre galere, faranno sempre che vogliano, e faranno rebellione in Napoli; et a questo hanno posto a stantiare in lochi insoliti tanti soldati a li confini del Reame; e massime quelli che sono stantiati in lo terreno de Spoleti appresso la Negra, 276 che de lì a Cascia non sono più di sette, otto o nove miglia; e quando siano a Civita di Cascia, sono tre miglia appresso Civita Reale, ciò è 22 miglia dall’Aquila: tutto questo camino a la repentina et in un punto preso da qualche tradimento, se fa in un dì et in una notte, a non essere sentito. Sì che li disegni de chi cerca roinarve, sono di fra presto. E già se lo persoadeno. E perché cognoscono Vostra Maestà incredula, parte tarda al provedere, tanto più se sforzaranno accelerare. Pensate ancora che il nome de’ Venetiani, che siano in lega contraria, darà grande aiuto a la celerità che loro pensano usare; che quando habbia dato in Calabria et in Abruzo, e sia qualche fama o vera o falsa de’ Venetiani, farà un gran contrapeso a li animi de li mali contenti, et anco de li timidi. E però Vostra Maestà, veduto il fine di quelli Ve hanno congiurato contra e li mezi che cercano usare, trovarà li contrari rimedii, li quali sono dui: lo antivenire e lo divertere. Lo antevenire sarà causa che non vi trovaranno sprovisto, e li guastarrite loro designi, e ritardarete la loro celerità, in la quale, al mio giuditio, è posta ogni speranza loro, e toglierete tutto lo Reame; ma sono bene assai in quale sia provintia vogliate considerare. De lo divertere io non voglio parlare, perché, come Vostra Maestà me disse l’altro dì in presenza del signor Duca e del Prencepe de Capua,277 non tocca a me lo provedere, massime che in questa materia di diversione bisognaria parlare de provisione; e, come dice Vostra Maestà, lo fare e pensar tocca ad Essa. Sì che non parlerò de provisione da farse, remettendomi a la sapientia Vostra, per benchè hyeri ne fusse parlato puro assai con lo signor Prencepe de Altamura.278 Dapoi le cose predette venerò a la parte del cardinale a Vincola,279 la quale importa non solo assai, ma troppo. E però è da pensare che con lui sono da servare tali modi, che non se desperi e che ve possate servire di’ esso, massime circa la parte de la divisione. Li modi, a mio giuditio, sono questi: che se li dica come dela volontà del Papa se ne vederà de1429

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claratione per Natale et anco prima; perché, mandando qua don Giuffredo, se declara il Papa non malignare. E, stando Vostra Maestà co’ ‘l Papa bene, nge starà anco la signoria sua, perché, seguendo il parentato con effetto, seguirà la securtà d’esso cardinale e lo suo tornare in corte, e de dì in dì la sua auttorità crescerà. Quando non segua il parentato, sarà chiaro come la luce e con il Papa s’ha da vivere con altri termini: e però se li può dire che esso cardinale contenga li amici ben confortati e bene disposti. Pense e dispona quello sia da fare in evento che il Papa maligne, e che sia da seguire non solo in li fatti di Corte di Roma e de lo Collegio, ma etiam da fore; e per li mezzi oportuni e per questa via darli ben da pensare, perché in questa forma se li dà speranza mostrare fare caso di lui, e lo fare eccitare a quello, che è suo naturale. E quando habbia a seguire desidio, ve lo trovate preparato et in ordine; e pensate che a tali homini non è da farli rafredare il sangue, ché andannosenne in Francia o altri lochi per Italia; e, venendo il Principe di Salerno, lui come disdegnato da Vostra Maestà, e come amico suo e de’ Francesi, tornaria al verso suo con tutto l’odio del Papa, con il quale etiam farà stima di trovar rimedio. Di questa materia fu ragionato hieri, e, Giovannello280 ne troverà fatta relatione a Vostra Maestà, e però ommetterò alcune particolaritate, che molto ben ‘nge accaderiano. Di Re di Francia non voglio parlare; il quale pensa ingannare e sforzare il Duca di Bari e tutta Italia; che quando poi il Duca de Loreno habbia messo foco e soffiatogi bene, esso allhora venirà, e trovarà di farsi brascia per lesso e per arrosto. Non voglio anco parlar del Re di Spagna, il qual fa stima, che questa Vostra invasione habbia a durare, e che voi impoverate e mancate in questo, e poi dare addosso a’ Vostri figli; pendando infra tanto soccedere cose che possa farlo, non guardaranno a capitoli fatti co’ ‘l re di Francia. Voglio ben parlare di Vostra Mestà, perché nge va lo Vostro reame, et anco lo stato mio, che è una casa et una possessione; et a me monta per lo mio reame, e però parlerò per l’interesse mio liberamente e senza coperta. Vostra Maestà è solita in l’altre guerre non moversi così presto. Non dicate che V’ha renduto buon conto per esser andato fin al sangue; e se lo direte, et io Vi risponderò che né grado né gratia a Voi; ma alle altre cose di fuora, che sono state in Voi. E se Voi in questa congiurazione de tutta Italia volete servare simili modi, parlerò libero, non fate bene: perché in Italia non havete quello che havete havuto altre volte. Francia Vi viene addosso; Spagna Vi tiene in mano, aspettando il tempo; e lo Duca di 1430

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Bari pur tuttavia prattica etiam con Todeschi, li quali sono poverissimi. Non vogliate servare li soliti costumi; e tanto state più solerte, vedendo lo Papa con tanto nuovi cardinali. Lo buon parlare con questi oratori è buono; lo scrivere è migliore; ma lo ottimo è lo fare e dare ad intendere che V’avvedite e state a casa. Il Fiorentino apertamente se ride de alcuni Vostri ragionamenti, e il Milanese vi beffa. Perdonateme, che nge ve etiam il mio reame: non vi lassate né beffare, né irridere. Non fui mai trasportato, né anco lo consiglio a Vostra Maestà; ma dico che a lo buon parlare aggiungate li fatti, e che mostrati essere homo di fatti più che di parole. E più volte lo havete mostrato. In li grandissimi pericoli buono aiuto è la corazza; ma lo animo fa lo tutto: mostrate lo animo Vostro e non Vi noca la vecchiezza, che raffredda il sangue. Per Italia se dice che la fortuna V’have aiutato; ma che Voi havete mancato a la ventura vostra. La ventura sole essere fatta come la pelle, che all’ultimo è forte a scorticar la coda. Sete vecchio, e tutta Italia, Francia e Spagna Vi sono congiurate contra, e non v’aiutaranno; e lo Turco Vi correrà addosso, come fanno le mosche all’infermo. Sicchè al ben dire aggiungate lo fare, che vol dire ben provedere. Non vi fate pecora, perché li porci diventaranno lupi. Non fidate tanto in Dio, perché non te aiuta senza te in li casi, dove l’huomini se ponno aiutare. Non vogliate all’ultimo darve tutto a fortuna, perché sole ingannare, e puro li huomini hanno in bona parte lo libero arbitrio. De li cento huomini fortunati, in fine più de li novanta sono male terminati. Questo caso è lo maggiore che habbiate havuto per le mani: vogliate pensarci; ché, se ci pensate, trovarete molti rimedii a provedere, purché Voi vogliate; se non ci pensarete, manco provederete, e, se aspettarete, lo tempo Ve potrà impedire, et che non provediate, per trovare evacuato. E guardate al proverbio nnovo: «Dopo vendegna, imbuto», e al proverbio vecchio: «Tardo è serrare il sacco, quando è vacuato il fondo». Vostra Maestà non mi perdone, s’io erro; incolpine che Ve voglio bene; e voglione a me, e che dubito perdere il mio reame, che consiste in una casa et in una massaria; e però manco sarà da perdonare a Voi in la perdita di tanto Reame. E se non Vi move lo Pontano, movavi lo Papa chi è, e chi è lo Duca di Bari, e chi è la regina di Castella.281 Non voglio dire d’altri e de li mali contenti del Reame. Bascio li Vostri piedi. In Aversa, 12 octobris 1493. Di Vostra Maestà humilissimo servo Joanne Pontano. 1431

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LETTERE, 48

47 GIOVANNI PONTANO A CARLO DE RUGGIERO. Napoli, 24 gennaio 1494. Pontano mette al corrente Carlo de Ruggiero sul miglioramento delle condizioni di salute del re Ferrante. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 2189, c. n. n. (copia); FIGLIUOLO, (Pen)ultime, pp. 82-83.

Domine Carole, l’altro dì lo signore re tornao da Pezolo,282 et portao uno poco de catarro; lo quale, augumentandoli uno poco per la mutatione del tempo, la maestà sua in questa mattina have pigliata un poco de cassia, et per la gratia del nostro signore Dio have ben operato, et have molto allegerito lo catarro. A me parso darvine notitia per lo presente. A vostra signoria me racomando. Neapoli, XXIIII ianuarii 1494. Vester Iohannes Pontanus.

48 GIOVANNI PONTANO A CARLO DE RUGGIERO. Napoli, 25 gennaio 1494. Pontano annunzia l’appena avvenuta scomparsa del re Ferrante. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG 2189, c. n. n. (copia); FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 83.

Signore messer Carlo, el signore re spirò hoggi ad hore 17, fuora de l’opinione de ciascuno, perché fu suffocatione. El presente re se ritrova in castello. Subito fece parlamento ben digno cum li oratori, attese a consolare la signora regina et, cum grandissima consolatione de ognu1432

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no, sonando le XVIIII hore, exio de castello, acompagnato da oratori e zentilhomini, et cavalcò per Napoli; dove se dimonstrò grandissima satisfactione d’ognuno; et fu tanta la frequentia del populo e gente per le strate, che pose tre hore a tornare in castello. Fu a lo archiepiscopato, secundo è da consuetudine, acceptato da lo archiepiscopo.283 Andò al’altaro et fu lecta la electione solita in tale caso da lo archiepiscopo. Andò in mezo al’oratore venetiano e milanese, apresso il fiorentino,284 in mezo il principe don Federico et principe de Capua;285 quale, tornato fu in Castellonovo, fo dal signore re novo declarato duca de Calabria. Et doppo dicta maestà parlò molto domesticamente cum li oratori, et poi s’è atteso a le altre cose, et al dare modo a le exequie. Le cose nostro signore Dio le dricia. Racomandomi a la signoria vostra. Neapoli, XXV ianuarii 1494. Vester Iohannes Pontanus.

49 GIOVANNI PONTANO A DIONIGI PUCCI. Palena, 3 luglio 1494. Pontano mette al corrente Dionigi Pucci sul numero di galee giunte al porto di Napoli. Fonti ed Edizioni: ASF, MAP, XLV, n. 360, c. 376; ROSSELLI DEL TURCO, p. 483; PERCOPO, Lettere, p. 51.

Magnifico messer Dionisio, secondo le lettere se hanno da Napoli, lunidì ad notte, che fu l’ultimo, andarono al Signor don Federigo dal porto di Napoli due galee; martidì ne arivorno cinque con fra Leonardo, e la notte andarono via. Aspettavasi de hora in hora la galea del Rujno, la galea dei Lipari, la galea di Policastro, et due altre; et l’ordine è tale, che, come arrivano loro, è dato lo fornimento e vanno via. Pecuta etiam è partita con li bombardi. Sicché col Signor don Federigo, fatto calcolo col Basilisco e con lo Scorpione, feranno quarantadue galee. Questo adviso 1433

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se hebe heri de Napoli. De Roma per la mutazione de le poste heri non se fu adviso alcuno. Raccomandomi alla Signoria Vostra. De campo, al piano de Palena, III julii 1494. Al comando della Vostra Magnificentia Joanne Pontano.

50 GIOVANNI PONTANO . Palena, 11 luglio 1494. Ora che le soldatesche francesi hanno già iniziato a calare in Italia, Pontano consiglia ad Alfonso II di tentare di prendere Genova, futuro quartier generale della flotta francese, da terra più sicuramente che non via mare. Intanto, sarebbe stato opportuno curare le relazioni diplomatiche soprattutto col papa. Fonti ed Edizioni: F1, Fr, R. Da F1 il Gervasio trasse una copia, ora in G1; ROSSELLI DEL TURCO, pp. 653-655 (da F1 come diretta a Massimiliano re dei Romani); PERCOPO, Un memoriale, pp. 203-207 (con le varianti degli altri due manoscritti, ma come diretta ad Alfonso II d’Aragona); ID. Lettere, pp. 52-54. Bibliografia: PERCOPO, Un memoriale, pp. 199-202; ID. Lettere, p. 5; FINZI, Re, baroni, popolo cit., pp. 166-167; BENTLEY, Politica e cultura cit., p. 203; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 43; CASCONE, ‘Antivenire’, la battaglia nelle lettere cit., p. 397.

Sacra Maestà, li ministratori del stato fiorentino confortano la Maestà Vostra personale per Italia, foro del Vostro Regno, non perché volessero che Ve agumentasse maiore autorità, né potenza; ma, secondo il mio iudicio et li accenni loro, per retirare el Duca di Baro col brutto, poi che non si è possuto col bello. Et persuadome questo essere il desiderio et disegno loro, et che, con destrezza del parlar loro et anco con tirare il Signor Virginio286 a qualche ragionamento, da farsi per ipso Signor Virginio, persuadono etiam el Papa a questo designo. Credome etiam che l’uno et l’altro vanno così retenuti alle cose de Genua, per non trascorre1434

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re la cosa tanto avanti, che non potessero poi venire a questo designo. E non vorriano Fiorentini, che Vostra Maestà havesse lo stato de Genua ad suo arbitrio et vederve tanto grande, che etiam per mare ve havessero da temere per quella via; et che Genuesi, loro inimici, havessero tali spalle quali sono le Vostre. La natura de’ Fiorentini e del Papa ditta così, et li segni se ne vedono. Resta che la Maestà Vostra mostri non intenderli; tamen sempre rasonare et muoversi in li Suoi rasonamenti per forma, che quelli si persuadano Voi non havere altro desiderio né disegno che di possere ritornare con lo stato de Milano ad quello che era primo; et che il Papa, Fiorenza, Milano e Napoli siete tutti una cosa. Et questo sì ad effetto che, in vero, Vostra Maestà non cerca altro, contenta della sua sorte; sì per tirare ipsi a fare virilmente per consequirse questo fine, che è loro medesimo. Persuadome che forse forse il Papa Ve parlerà de questo accordo o chiamamola reductione alla unità de primo; et quando el Papa non Ve ne parli, parleretene Voi etiam in presentia di quelli cardinali, perché ne reporterete iustificatione e laude; et venerà in testimonio di tutta Italia, et darete fede all’oste et potrete dire al Papa et cardinali: «Non ho Io pigliate le armi volontario, ma coatto da altri; non per offendere, ma per defendere; non per Me solo, ma per la reputazione d’Italia, in mano et governo de Italiani, non de Tramontani». De questo parlare ne resulteranno due desiderabili cose: laude grandissima, et che parerà Voi diate alli Fiorentini et al Papa questo cibo, il quale ipsi riceveranno, cioè di aver Voi preparato, quando el Duca de Baro voglia tornare all’ufizio, quale doveva essere el suo, de starsi in pace et con securtà in lo stato, in ch’è; et adiungere la terza cosa che, essendo Voi reputato bellicoso, se lo leveranno de fantasia, chè non siete con l’arme, salvo come provocato, et per reportar securtà circa le cose Vostre. Ma voltamo carta, e mesuramo etiam el fatto nostro, come altri mesura el suo. Guardamo che questo praticar de spingere le genti avante, et cercare col brutto redurre el de Baro, non habbia ad essere di natura, che el Duca de Baro resti pure in tali termini che omni dì ne habbia a poner timore, e farne stare con li pensieri vacellanti: et non fa per noi avere a restare in questi termini, ché già s’è veduto Fiorentini e Milano sempre aver iocato de calci nostra parte. Questa dubietà, a mio iudicio, le ha da tollere. Genua, quale, stando in potere di Milano, sempre ne sarà il loco d’una mosca che non Ve lascerà dormire con quiete. Fiorentini lo conoscano; e pure che ipsi potessero rivenire a quella unione, non vorriano che Vostra Ma1435

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està avesse autorità in Genua. Resta, adunque, che Vostra Maestà, avendo il Cardinale,287 havendo messer Obiecto288 et gli altri, tenga modo che quelli omnino lo faccino; et quando non si possa mostrare in Genua, pona quelli 289 in tal grado in quella Riviera, che Genua non sia in potere del Duca di Baro ad tenervela per mosca. Che se una volta in quella Riviera entra zezania, el Duca de Baro non ne la caverà così presto, ed uno scandalo accenderà l’altro, lontano di casa vostra. E utile vi sarà spendere centomila ducati per mandare la mosca al Duca di Baro. Porriasi dire: questa è una via da far andar Genua in poter del Re di Francia. Ad me pare che mo ce sia troppo; ma, quando venissino successi de darse a’ Franzesi, in tal caso Fiorentini e ‘l Papa veneranno con la borsa aperta ad spendere con Voi, accioché il Re di Francia non ne sia patrone; ché con Provenza et Genua si occuperia questi mari, e principalmente Piombino. Jeri l’oratore fiorentino290 me disse: «El Duca de Baro tutte quelle marine ha convocate; ma pure questa armata retenerà che non possano far danno per mare». Queste parole mostrano il desiderio de’ Fiorentini. Donde noi, andando et intrando col desiderio loro, vedamo disporne exire con nostro grandissimo piacere o delle galee arrivate et che vanno via. Perché a certe parole che ieri pur disse il fiorentino, compresi lui credere che Vostra Maestà non potessi armare più galere: dicendo quelle venti, con l’altri legni, stando per li mari a Livorno, non lasceranno dannificare da l’armata contraria. Vostra Maestà ha inteso dire, et anco sperimentato, che Fiorentini sono sconciaioco, et la natura loro sempre è questa. Ho voluto tollere le cose sopradicte sì per lo colloquio de haverse col Papa, si perché vedamo far qualche cosa, e che non restemo pur in pratica dell’aspetto, et fosse tale che la mosca restasse pur a turbarne il sonno. Fiorentini credo Vi vogliano bene, e lo Papa, ma quando Voi foste loro cittadino, cercheriano di non darve io gioco vinto; et se è veduto che, ogni venti anni, per non comportar li loro cittadini, fanno sbanditi, e conturbano la patria loro. Vostra Maestà, sopra questo mio parlare, farà il Suo savio pensiero, se il pensiero, andando con li fatti, sarà tanto più utile; et sarà meglio accompagnato. Baso li Vostri piedi. In campo a Palena, die 11 julii, 1494. Della Vostra Maestà humil servo Jo[anne] Pontano.

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51 GIOVANNI PONTANO AD ALFONSO II D’ARAGONA. Carsoli, 23 luglio 1494. Le cattive previsioni del Pontano a riguardo della sciagurata impresa navale di Genova non tardano ad avverarsi, ma i suoi consigli e le strategie da lui suggerite non basteranno ad evitare il disastro. Fonti ed Edizioni: L, c. 22; G2, cc. 176r-179r; NUNZIANTE, pp. 549-551; PERCOPO, Lettere, pp. 54-55. Bibliografia: DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 43; SIMONETTA, La tragedia di Napoli cit., p. 231; VITALE, Sul segretario regio cit., p. 296 (n. 7).

Sacra Maestà, questa nova dell’armata genovesca induce Vostra Maestà ad necessità di mandare in Terra di Lavoro diece squadre, o manco, per sicurtà di quelle marine. Se le mandate così repentinamente per le fame che si spandeno fora del Reame, dando infamie a Voi, authorità alli nemici, dentro lo Reame adiongono sospitione, respecti et pensamenti alli sudditi, delli quali sempre ne è una parte o di vile animo o di mala volontà, né ad l’una né ad l’altra di queste nature è da dare pasto. Non mandandole per li casi fortuiti et repentini, non è ben facto, e massime non conviene a Vostra Maestra, la quale sempre è solita prevedere et provedere ante el tempo. Per satisfare a tutte queste parte inzieme compitamente ci è un solo modo, cioè l’andata di Vostra Maestà, la quale, con coloro di la guardia soa et di la sua consuetudine, poria menarse alcuna squadra, et così se provederia al bisogno, schifarasse l’infamia et la reputatione, et Vostra Maestà poria attendere alla sanità sua et ad le provisione necessarie; le quale dalli ministri non se ponno fare con quella diligentia et perfectione, con la quale se fanno da Vostra Maestà. Et una volta provaste dove Ve portò l’opera delli ministri. Della quale natura fo l’andata Vostra a casa dalle bandi di qua, non da infamia alcuna, perché veniste per parlare al . L’havete parlato. Resta che Ve ni tornate, havendo satisfatto al bisogno et lassando ad li confini tante squadre. Et quando aspectassevo necessità d’armata inimica d’andarvene, saria con grande infamia et mancamento d’honore, parendo essere 1437

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cacciati. Inziemi con le cose predicte, Ve dà honesto colore a l’andare questo facto di Colonnesi.291 El quale, acconciandose, Ve exclude di necessità di stare più di qua; non se acconciando, potete andare con colore di lassare qua lo exercito in ordine, dove Voi, finché non siano facti l’apparatorii rasonati, non site più necessarii et fare intendere al Papa che andate ad accelerare le provisioni come sopra, et preparare in quattro dì quello che molti ministri non fanno in quattro settimane, lassando esso Papa securo con questo esercito et con lo signor Virginio, et vedendo el Vostro Reame securo, havendo la Vostra persona in Terra di Lavore, et provedendo a le cose necessarie contra Colonnisi. Et con questo mantenerete el popolo più contento, maxime andando Vostra Maestà, al suo tornare, verso S. Germano, et lassando llà, o da presso, la gente che con Voi veneranno, et volteggiando verso Gaeta et derizzandose le bombarde rasonate, perché lo Papa tutto pigliarà al disigno et grato suo. Et così, con honesta reputatione et discrettione, se satisfarà ad ogni digna parte, et facciano Colonnisi quello se vogliano, Vostra Maestà se trovarà ad ogni Vostro proposito. E per seguire questo, conforto Quella ad fare venire tanto più presto lo signor Virginio et concertare con esso quello sia da fare, et offerirli la Maestà Vostra ad l’impresa, quando siate ben disposto; e quando no, ad Gaeta, o ad Fundi, o ad Terracina. Et per niente negaria non volere andare, anco me ne mostraria desideroso e gagliardo: et per queste ultime practiche mostraria ben del disdignato et grandissima collera. Questo me occorre. Vostra Maestà è savia provedere, come li parerà, et lo sangue Vostro farà vergognare Virginio de molte cose che altramente non se vergognaria. Io iudico che Virginio habbia convertito Piero,292 e però quello non respondè niente al facto di Colonnisi, et forsi fingerà de le cose non vere, per indurre, per queste, Vostra ad quella impresa. Recordateve, che el Papa, per condurve ad l’impresa, sempre diceva che venerà l’armata et portarà la gente di Colonnisi nel Reame; et mo’, ogni dì, è con Taverna293 per insuspettirve. Non scrivo più prolisso. Baso li Vostri pedi. In le Celle, 23 di julio 1494. Di Vostra Maestà, humilissimo servo Joanne Pontano.

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52 GIOVANNI PONTANO A FERDINANDO II D’ARAGONA. Napoli, 9 febbraio 1495. Al giovane re Ferrandino, succeduto inaspettatamente al padre fuggito in Sicilia, il ministro consiglia di resistere con piccoli scontri piuttosto che con uno campale. Fonti ed Edizioni: L, c. 25; G2, cc. 180v-184r; COLANGELO, Sannazzaro, pp. 185191; PERCOPO, Lettere, pp. 56-58, che la rivede su G2. Bibliografia: NUNZIANTE, pp. 527-528, p. 551; PERCOPO, Lettere, p. 5; FINZI, Re, baroni, popolo cit., pp. 160, pp. 171-172; BENTLEY, Politica e cultura cit., pp. 203204; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, pp. 43-44; FERRAÙ, Il tessitore di Antequera cit., pp. XLIV, 126, 203; SIMONETTA, La tragedia di Napoli cit., p. 232; BIANCARDI, La chimera di Carlo VIII cit., p. 537, 542; CASCONE, ‘Antivenire’, la battaglia nelle lettere cit., pp. 397-400.

Sacra Maestà, le invasioni longinque, et senza precedente iniurie, quale incurre soleno intervenire per la vicinità, quando uno prencipe confina con l’altro, preveneno da movimenti celesti, come designano per comete e per grande coniunctione di stelle, quale è questa invasione al Vostro Padre et ad Voi facta, per ben che Vostro Avo prima, e poi Vostro Padre se l’habbiano procurate per li avari et violenti loro portamenti. Et così el cielo adopera secondo la materia disposta. Et quando il cielo non trova resistentia inferiore, tira le cose al curso suo, come fa di un fiume, repentinamente ingrossato di piovia et d’acqua adventitie, quando non sia provisto alle ripe et ad le argini. La piovia Vi è venuta adosso, et tale, che havete il maior Re del mondo adosso. L’impero è grandissimo, et tucta Italia li ha data via et habilità. Tocca solo a Voi lo resistere: tanto lo dovete fare più virilmente, quanto tutta et sola la speranza e provisione è in Voi. Francesi sono gente impetuosa et disordinata generalmente, e non ponno durare alle necessitate campestre per lungo tempo. Quanto hanno trovate per Italia le cose più ad loro proposito, tanto più sono per cadere in disordine, comenzano ad trovare l’opposito, quale che non hanno trovato fin qua. Specta a Voi mostrare che ne trovano più che non hanno existimato; e tanto dovete inanimarve ad questo, quando Vo1439

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stro Padre ha facto ad se et alle cose Vostre maior mancamento. In le infirmitate li medici savii se studiano ad doi cose sole: una ad cavare li mali humori, cioè l’inimici della sanità, l’altra ad mantenere la substantia, et vedere per mezzo delli medicine cacciare li mali humori. Lo mantenere de la substantia sono li denari, li quali non Ve mancaranno, quando si veda che Voi sete per cacciare l’inimici et che usate animo qual dovete et che se spera. Li medici Vostri è la spada; con li nostri soldati mostrate che Voi sete per volere sanare. Et usare l’opera de li medici è in Voi; fatelo dunque. In le infirmitati pestifere et di mala natura subito se ricorre ad dare medicina o con poco e senza nulli siroppi, perché lo defferire porta morte, e lo intertenere per una tal via repentina et contrariosa ad la infirmità porta salute; et quando non si proveda per questa via, la infirmità o subito porta ad morte, o riduce una infirmità lunga che, a poco a poco stentando, infine consuma. Re di Francia è nel nostro Reame con favore del stato ecclesiastico et terrore de nostri populi. Ad lui cresce l’opinione, provedendo a poco et maturamente; ad Voi manca l’opinione et le forze, le quali, mancando ad Voi, cresceno ad esso. Per lui non fa tentare la fortuna della spada, perché li successi soi sono spingendo con tempo, e non ponendose in pericolo, chè co’ ‘l tempo senza pericolo guadagna el Reame, e Voi lo perdete. Ad esso è ogni cosa in adiuto, ad Voi in contrario, salvo la spata. Et quando pur li adiuti Vostri vengano, potriano essere come ad li infermi la distillatura del pullo dopo la diffidatione de li medici. Pensate etiam che non possiate mantenere per molto tempo li exerciti terrestri et pedestri. Al Re di Francia la victoria dà denari, ad Voi li toglie; et cossì le viectuvarie. Ogni dì sete per peiorare conditione, et né Spagna, né Milano ponno essere, salvo tardi, ad presidiarve; et con lentezza Voi li retardarete, con severità li provocarete et tirarete. Cesare in le sue infirmitate sempre ricurse ad li facti d’arme, con li quali se tirò etiam con li adversarii in suo favore. Havete boni capi, boni soldati, sapete il paese. L’inimici non l’hanno, vengono novi: non li lassate rivedere. In le giostre chi al primo colpo riceve una gran botta nell’elmo, o stordito se esce dalla giostra, o dipoi con tal stordimento non fa cosa buona. Se Voi in principio li date una buona rebuttata di cento cavalli et duecento fanti, sono spacciati per l’odio se hanno tirato ad se in Italia, et perché questi popoli perderanno l’opinione de loro, et lo convertiranno in Voi. Tale è la natura della moltitudine. Dimidium facti, qui bene coepit, habet:294 questo è proverbio et è in lo facto Vostro. Con 1440

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uno piccolo facto d’arme victorioso, Re de Francia è spacciato: el Papa e le terre ecclesiastiche li mancaranno, essendo state da loro assassinate; li Vostri popoli tucti si confirmaranno, né ardiranno quelli di Apruzzo per passare in Puglia, la quale passata è la Vostra destructione. Non dico io, che pigliate facto de arme: quel che non specta ad la peritia Vostra fora del loco et de opportunità, ma dico che con la Vostra sagacità li provocate, et tirate ad qualche disordine, et ad questo invigilate ogni dì, dandovi riputatione: quia bella constant fama; et con tale fama ne conserverete li popoli et li exerciti. Et, ad mio juditio, per la penuria de le victuarie, de la ignoranza del paese, per esser gente che lo tirano ad dissordine, Voi li darete un dì scaccomatto; e, quando sia ben scacco del cavallo e de l’alfi le, Voi haverete vinto. Guardatevi dal temporegiare, perché adesso fa per li Francesi, non per Voi, dar tempo. Cresce modo di denari et ad Voi manca; cresceli reputazione et ad Voi manca; molti pensaranno de tradirve, che non pensano di tradire Re di Francia. Si che è da fare alcuna cosa subito dignamente, et ad ciò Ve excito: quel che possete fare con prudentia, industria et laude, non dico però che Voi ve lassate tirare da l’adversario, o da necessità ad facto de arme, né che vogliate temerariamente tentare la fortuna; ma dico che con astutia, con solertia, con stratagemme, cercate con ogni arteficio tirarli ad loco o partito disvantagiato, et all’hora usare la spada; et la fortuna. Et in questo deveno essere tutti li Vostri pensieri. Tali modi servò Anibal, tali Cesare, tali novamente il duca Francesco, Vostro Avo.295 E pensate, che non possete durare troppo contro tanta potentia, e che Vi è bisogno usare animo et ferro, et non con una rocta universale, in la quale la fortuna sole essere periculosa et dubia; ma con una impressione gagliarda, da poco numero de fugati et morti. Procurati con astutia e cautela, Ve guadagnare la victoria del Reame, perché ogni poco contrapeso è per fare ruinare el Vostro inimico, povero, lontano dal suo paese et odiato da tucta Italia, et da li soi, che sono venuti mal volentieri ad questa impresa. Baso li Vostri pedi. Et parlo con quello animo, che mi dà la natura et la ragione, non però che l’età senile ci consenta. Sed vincit amor patriae laudumque immensa cupido.296 In Napoli, 9 febbraro 1495. Di Vostra Maestà humilissimo servo Joanne Pontano.

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53 GIOVANNI PONTANO A GIOVAN BATTISTA SPAGNOLI. Napoli, 1 giugno 1499. Il Pontano promette all’umanista Battista Spagnoli di accontentare la sua richiesta di dedicare una sua opera al Gonzaga. Fonti ed Edizioni: SPAGNOLI, c. 11; COLANGELO, Pontano, pp. 188-189 (monca e scorretta); PERCOPO, Lettere, pp. 58-59. Bibliografia: TALLARIGO, I, p. 340; PERCOPO, Lettere, p. 9; MONTI, Il problema dell’anno di nascita cit., pp. 236-237; F. SENATORE, Pontano e la guerra di Napoli, in Condottieri e uomini d’arme nell’Italia del Rinascimento, a cura di M. DEL TREPPO, Napoli, Liguori, 2001, pp. 279-309: 297.

Joannes Jovianus Pontanus Baptistae Carmelitano, philosopho nobilissimo, salutem plurimam dicit. Et initae Romae memor sum amicitiae et ingenii tui excellens vis, momentis pene singulis, id efficit ut doctrinae vel summaet cum admiratione meminerim tuae. An ejus ego obliviscar, quem latinae musae non memorabilem modo, verum maxime et admirabilem, et nostris faciunt et futuris facturae sunt seculis? Et quamquam senes memoriae imbecillitate laboramus omnes, virtus tamen tua, quaeque in te est eximia rerum cognitio, vel confirmare quidem atque augere in nobis insitam illam a natura vim potest, qua et meminimus et reminiscimur. De principe vero tuo illustrando, bonam tibi promettere voluntatem possum; verum quid promittat, cui nihil omnino est, quod det, in penu? Non deero tamen virtutibus fortissimi ac magnanimi Ducis. Quod autem ad vitae reliquum attinet, utar tuo, id est religiosissimi ac sapientissimi viri consilio, atque eo libentius quam fortuna ipsa vix habet, quod de coetero in me feriat. Cum ne id quidem in me iuris habeat, ut de ipsa querar, quamvis ereptis honoribus, magistratibus, liberis, summa cum iniuria atque insolentia. Sed utatur illa iure suo, quominus autem utar ipse meo: nunquam id efficiet. Mitto ad te degustantiunculas ex Historia mea quasdam, quae aures fortasse non omnino tuas offendent. Tu paucis ex iis coniicere poteris reliqua. Est mihi in manibus, De poeticis numeris deque 1442

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historiae lege dialogus, De magnanimitate liber, De stellis volumen abunde magnum; item De fortuna; quibus absolvendis, vel expurgandis potius, do operam; quorum post index ipse futurus es. Bene vale ac religionem cole, in qua et beatus nunc vivis, et ex ea post ad deos migrans, cum illis aevo fruiturus es sempiterno. Neapoli, kalendis juniis 1499.

54 GIOVANNI PONTANO A FRANCESCO II GONZAGA. Napoli, 27 maggio 1500. Congratulandosi col marchese per la nascita del suo primogenito Federico, Pontano coglie occasione per annunciargli che è intento alla limatura del De hortis Hesperidum, al marchese dedicato. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG, B. 808 (autografa); PERCOPO, Lettere, p. 59; DOGLIO, Una lettera, p. 235. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, pp. 8-9; FERRAÙ, Il tessitore di Antequera cit., p. 84.

Al molto illustre et multo excellente Signore, el Signor Marchese de Mantua. Multo illustre et molto excellente Signoria, congratulome quanto so et posso con la illustrissima Signoria Vostra de la virile prole novamente ad quella nata et li rendo imortale gratie de l’adviso che me n’ha per sue littere dato. Nostro Signor Dio done gratia tale al padre et al figlio che vivano chon felicità et gloria, continuando tutta via de ben in meglio, como è el desiderio de ciaschun che ama et venera la gloriosa Casa de Gonzaga. Recomandome infinite volte a la Vostra Excellentia, a la quale fo intendere che attendo tutta via a la emendatione del libro ad Quella dedicato, De hortis Hesperidum.

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LETTERE, 55

In Napoli, a dì 27 de maio 1500. De Vostra illustrissima et excellentissima Signoria devotissimo servitore Joanne Pontano.

55 GIOVANNI PONTANO A FRANCESCO II GONZAGA. Napoli, 13 novembre 1500. In risposta ad un probabile caldeggiamento da parte del Gonzaga, che aveva insistito per avere l’opera promessa qualche mese prima, il Pontano ricorda come le cose d’ingegno abbiano bisogno di una lunga limatura. Fonti ed Edizioni: ASMn, AG, B. 808 (autografa); LUZIO-RENIER, p. 301, ma prima, per loro concessione, da SOLDATI, I, p. XVII (n. 1); PERCOPO, Lettere, p. 60; OESCHGER, p. 459; DOGLIO, Una lettera, p. 236. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, pp. 8-9; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 44.

Illustrissimo et Excellentissimo Signore. Ad me non occorre altro, salvo recomandarme infinite volte ad la Vostra Illustrissima Signoria, ad la qual io so’ deditissimo per la Excellentia Sua et per la gloria de’ soi maiori. Ho alcune cose dedicate al Vostro nome, ma le cose de ingenio hanno bisogno de multa et longa limitatione, però la Vostra Excellentia habia patientia: culte quando siano, faranno honore ad lei et a l’auctore, quando vadano inculte succederia el contrario. Iterum me recomando ad la Excellentissima Signoria Vostra. Neapoli, XIII Novembris 1500. Di Vostra Illustrissima Signoria deditissimo servitore Jo[anne] Pontano.

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LETTERE, 56

56 GIOVANNI PONTANO AD EGIDIO DA VITERBO.297 Napoli, 13 dicembre 1500. Pontano risponde, ricordando la probità e la serietà della sua vita, ai bonari rimproveri mossigli da Egidio, in una epistola del novembre 1500, per non aver fatto alcun cenno, nel suo recente De fortuna, alla provvidenza divina e all’immortalità dell’anima. È dispiaciuto per lo straripamento del Tevere. I napoletani sentono la mancanza di Egidio e ne desiderano il ritorno. Fonti ed Edizioni: N2, nn. 189-191; A, c. 169; FIORENTINO, pp. 440-441 (erroneamente datata 1501), non su N2 (fino ad allora ignoto agli studiosi), ma su A;298 PERCOPO, Lettere, pp. 60-61, su N2; EGIDIO DA VITERBO, I, pp. 113- 115. Bibliografia: FIORENTINO, pp. 441-442; PERCOPO, Lettere, pp. 10-11; EGIDIO DA VITERBO, I, p. 63.

Joannes Jovianus Pontanus Aegidio salutem dicit. Bene habet, minime ipsi absumus. Nam et litteras tuas dum lego, mecum ipse loqueris, et cum tibi respondeo, presens tete alloquor, simulque congressi una etiam verba conferimus, qui presentie fructus quidem est quam suavissimus. Quid autem in amicitia optatius quam presentia uti mutuisque congressionibus? Aut quid amicitiam ipsam magis testatur aut constituit, quam assidua sermonis familiaritas orationisque communicatio? Bene habet igitur, nam presentes ipsi sumus, et presentie ipsius muneribus fruimur, utimurque officiis. Sed tu velim desinas eorum mihi mentionem facere, quibus vel ineptie meae sunt cordi vel ignorantia parum est cognita. Qua in re quid aliud tibi respondeam quam quod Egidius, ut vir bonus, consuevit benedicere, ut verax autem a natura non recessit? Non quod mentiri didicerit, sed quod ut christianus et sacerdos, ut Augustinianus nimium in credulitatem propensus est atque fidem. Ut enim predicatorum eximius credi sibi in maximis atque divinis vult rebus, sic ipse aliis nimium credit, vel concedit potius, in amici presertim laudibus doctrineque commendatione. Qua in re eo etiam est propensior, quod se me alterum, ut quidem est, cum dicat, audit nimirum libenter laudes (ut hominum ingenium 1445

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est) suas. Desina igitur his posthac moribus dissuere velle amicitiam nostram. Peccavi, corrigo unitatem, uni enim sumus et voluntate et cogitationibus, addam et expetitionibus ac rerum humanarum despicientia. Quod autem ingravescentis me etatis admones, dicam libere quid sentio. Primam quidem hominis etatem mortalem eam esse nominandam, quo tempore id quod e celo, id est a Deo, divinum in nos influxit, assuesceret mortalitate ab ipsa infici suaque ab excellentia declinare, postremam vero immortalem, quo rursum tempore divina illa pars, confecto iam itinere, regredi in celum incipiat. Itaque facile patior ab Egidio meo, a me scilicet ipso, in etate [im]mortali immortalitatis me ipsius admoneri, id quod volens et sponte ipsa mea iam ago, acturus etiam libentius tali presertim admonitore ac consiliario. Quod vero ad me scribis, vel presens potius ac coram dicis, tecum esse non posse, in quod, obsecro, erratum, o bone Egidi, in quod, inquam, erratum adeo pronus incidis? An secum non est Egidius, qui assiduus cum Deo est, qui de Deo semper cogitat, Deum ubique et queritat, etiam inventum mortalibus ostendit, accedendique ad illum viam aperit, iterque maxime certum docet? Inundationes Tyberinas fero quam egerrime propter communia incommoda. Scias tamen agros quoque Campanos sataque fere omnia sub lacunis desedisse, ut future annone charitates sint non mediocriter extimescende. Sed claudenda est epistola, ne divinis a cogitationibus misteriisque ab illis suis Egidium sevocem. Itaque sic habeto desiderium tui Neapolitanos cepisse universos, mirifice vero tum litteratos tum patritios. Ad alias quasdam epistole tue partes nihil dicam, de iis enim quia presentes ipsi sumus coram rationem habebimus. Unus tamen ut absens te et rogabo et obtestabor, ut memineris Augustini te in verba iurasse, Mariani optimi et disertissimi viri 299 memorie vel omnia quidem a te ipso deberi. Recte vale, atque in divinis sive sermonubus sive predicationibus regna. Neapoli, Idibus Decembribus MD.

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57 GIOVANNI PONTANO AD EGIDIO DA VITERBO. Napoli, 7 gennaio 1501. Pontano invia ad Egidio un suo vecchio inno per Sant’Agostino, insieme ad alcune affettuose righe di dedica. Fonti ed Edizioni: N2, nn. 189-191; A, c. 169; FIORENTINO, p. 438; PERCOPO, Lettere, p. 62; EGIDIO DA VITERBO, I, pp. 116-117. Bibliografia: FIORENTINO, p. 438; PERCOPO, Lettere, pp. 10-11; EGIDIO DA VITERBO, I, p. 63.

Iohannes Pontanus Egidio salutem dicit. Scripsi annis superioribus non pauca de divorum nostrorum laudibus. Cum autem Augustini laudum lectio ad Egidium presertim spectet, eos ad te versiculos mitto, quos ut Augustinianos ab homine Augustiniano scriptos, in ocio cumque a predicationibus vacaveris non invitus (ut mihi persuadeo) leges. Scias denique me tuum esse velque supremum in modum a Pontano desiderari non ut revisas, quo si minime in predicationibus propter surditatem uti potero, utar profecto hortensibus in deambulationibus, in quibus, ubi minus dicentem audiero, licuerit et me expostulare altiorem vocem et te liberius inclamare. Bene et tecum et cum Christo vale. Neapoli, VII Idus Ianuarias MDI.

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LETTERE, 58

58 GIOVANNI PONTANO A LUCIO GALLUCCI. . La lettera diretta a Lucio Gallucci, figlio dell’umanista Luigi Gallucci, noto come Elisio Calenzio,300 è un elogio e un rimpianto dell’amico perduto (1501) che il Pontano non aveva potuto dimenticare, come credeva il figliuolo. Fonti ed Edizioni: CALENZIO, Opuscula, cc. 4v-5v; PERCOPO, Lettere, pp. 62- 63; CALENZIO, Poemata, p. 155; DE RUGGIERO, p. 285. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, p. 12; DE RUGGIERO, pp. 54-57.

Et quid mellita ista adulatione inniteris, Luti? Adeo ne me ingratum putas, ut illius oblitus sim, cum quo a puero tanta consuetudo mihi fuerit, ut nulla maior esse potuerit: et ita aliquandiu vixerim, ut neque cubiculum, neque mensa, neque litterarum studia sequestrarent. Credebas ad me ire Calentium tanquam peregrinum et incognitum? Falleris. Deum maximum testor neminem mortalium esse, cui prodesse mallem. Sed res eius in portu navigat: adeo se ad aeternitatem composuit, ut ventum sit ad summum. Perlegi ad Pudericum, sive, ut ipse ait, Hiaracum Epistolas oppido quam breves et iucundas. Perlegi ad Colotium nostrum Carmina, antiquam illam dicendi maiestatem provocantia. Quid si De regibus appulis libellum ad Actium Sincerum extrema contigisset manus? Cultiorem profecto et diligentiorem haberemus neminem. Suavi vir ingenio et perhumanus fuit; qui longe plura praestaret quam primo fuerit aspectu pollicitus. Virgiliani carminis adeo inspector acutus, ut cum Compatre,301 nostri ordinis viro, in Virgiliomastigas defensorem acerrimum substineat in libellis meis. Noram, enim, illum florem iuventae, illam vim animi effeci equidem; ut quoad possim amicos pari prosequar officio. Denique, mi Luti, gratulor tibi patrem; gratulor Colotio talem diebus nostris praeconem contigisse. Quid de Centone ad Campanum rescripsit Elisius me certiorem redde. Solimenum302 ne credas vivere. Vale.

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59 GIOVANNI PONTANO A SUARDINO SUARDO. Napoli, 31 dicembre 1502. Il Pontano dà al Suardo indicazioni utili al fine dell’edizione aldina delle opere pontaniane, la cui cura era stata affidata dal nostro proprio al letterato bergamasco. Fonti ed Edizioni: M, c. 29; DE NOLHAC, pp. 36-37; PERCOPO, Lettere, pp. 63-65; OESCHGER, pp. 460-461. Bibliografia: PERCOPO, Lettere, pp. 11-12; L. MONTI SABIA, Una schermaglia editoriale tra Napoli e Venezia agli albori del secolo XVI, «Vichiana», VI (1969), pp. 319-336: 320-323; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 44.

Messer Suardino carissimo, con summa satisfactione del mio animo ho recevuta la vostra de septe del presente ad li 26. Responderò brevemente ad le parti necessarie. Et primo resto con summa obligatione ad messer Andrea Navigerii che ne ha[bbia] voluto tanto egregiamente honorare con li soi suavissimi versiculi; veramente con sua benigna supportatione, ha non poco transportato; ma la bona affectione è de tal natura che con difficultà se contene intra li soi confini. So tutto suo; recomendateme ad la sua bontà, [et] li dicate dolcemente che non se voglia ingannare circa le cose mie, [le] quali, perbenché siano de homo studioso, pur sono commune et populare. Non serrò ingrato quanto in me serrà de tale testificatione. Quanto al mag[nifi]co Baduer ne voi possete fare altro né io. Restove obligatissimo del facto; per lo advenire fate quello ve serrà possibile; dolme per li posteri, più che per causa mia. Al mag[nifi]co messer Marco Antonio […]303 non ve ne sia affanno recommendarli me et questa recuperatione del libro. Messer Michel de Porto con meco multi anno sono che uso grandissima humanità […] intra lo epigramma In somnis et Promissum mihi. Lo epigramma che comenza Baianas intrat inter Cum mollis et Comptis Altilius. Terzo, Tecum si liceat inter Sunt gratae in tenebris et Et noster quoque.304 Possete attendere ad la stampa de la Urania liberamente. 1449

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Le Hesperide mandarò poi in Venetia a messer Alto Romano bene emendate et qualche altra cosa. Voi non solo site da me nominato in quello dialogo, ma etiam in altri lochi, perché ve voglio bene et meritatelo. Intitulatione de li Hendecasyllabi è questa: Ioannis Ioviani Pontani ad Marinum Tomacellum equitem Neapolitanum liber incipit. Se alcuno vole fare alcuna epistola per la stampatione et servirsene, ad me è summo piacere et ho caro el faciate voi. Tucta la Academia et io principalmente, et volesse Dio la aetà comportasse che alcuna fiata ce potessemo revedere. Io sempre de questa optima voluntà verso me serrò ben recordevole. Et in Venetia et in Bergomo salutate li agnati et parenti et fateli intendere che so tutto loro, perbenché sia al verde deli mei anni. In Napoli, oltimo decembre 1502.

60 GIOVANNI PONTANO A JACOPO SANNAZARO. Napoli, 13 febbraio 1503. La lettera parla della scoperta fatta dal Sannazaro di opere latine, quasi tutte nuove, dell’antichità in cinque codici dei secoli IX e X. Fonti ed Edizioni: W; PONTANO, c. 260; ID. Opera, III, c. 299 e nelle varie stampe cinquecentesche; TALLARIGO, II, pp. 578-579; PERCOPO, Lettere, pp. 65-66; MAURO, pp, 401-402; VECCE, p. 57; RINALDI, Gli ultimi giorni, p. 59 (n. 12). Bibliografia: PERCOPO, Lettere, pp. 12-13; VECCE, pp. 56-61; DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 44; RINALDI, Gli ultimi giorni, pp. 59-60.

Pontanus Syncero animi firmitatem d[icit]. Quae ad Pudericum305 scripsisti, ea me mirificum in modum delectarunt. Sunt, enim, plena pietatis tuae erga vetustatem ac diligentiae. Quocirca vel aventissime expecto videre Ovidianos illos pisciculos in Euxino lusitantes Maeotideque in palude. Quod, vero, ad Venationem 1450

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attinet, visus est mihi vates ille lepidus, numerosus et cultus, deque eo (si recte memini) fit ab Apollinare mentio in Hendecasyllabis. Rutiliani illi versiculi enodes sunt et nitidi: cultus vero ipse peregrinus, potius quam urbanus, ne dicam arcessitus. Sed de his omnibus cuius erit iudicium rectius, aut probatius, quam tuum? Ego (ut dixi) mirifice expecto ovidianos illos elopes, nobis incognitos praesertim sub quadragesimale ieiunium. Tu vale, et in isto voluntario exilio, sen potius peregrinatione, dignam nobilitate tua fortitudinem retine. Neapoli, idibus februariis MCCCCCIII.

61 ELETTI DI NAPOLI E GIOVANNI PONTANO A LUIGI XII. Napoli, non oltre il 12 maggio 1503. Nella lettera, a nome degli Eletti della città di Napoli, dopo aver denunciato a Luigi XII la inadempienza dei governatori francesi che avevano ridotto la cittadinanza alla fame e non si erano preoccupati affatto di ricostruire le difese necessarie a resistere all’attacco del Gran Capitano, Pontano allega un documento – andato perduto – in cui notifica in forma ufficiale al re di Francia le ragioni che costringeranno i Napoletani ad arrendersi a Gonsalvo di Cordova. Fonti ed Edizioni: O, cc. 41-42; MONTI SABIA, Estremo autografo, pp. 312- 314. Bibliografia: MONTI SABIA, Estremo autografo, pp. 293-311; FINZI, Re, baroni, popolo cit., pp. 183-184; BENTLEY, Politica e cultura cit., pp. 146-147.

Summo cum dolore Civitatis universae civiumque singulorum haec scribimus, Christianissime Rex, praesertim adventante hoste cum exercitu victore multisque armatorum millibus ad urbem nostram obsidendam. Dolet Civitas omnis, queruntur cives singuli, quod incuria, negligentia ac desidia gubernantium praesidumque vestrorum Urbs ipsa sit maxima e parte sine menibus, sine fossis, sine munitionibus, sine defensoribus rebusuqe aliis ad hostes propulsandos opportunis, praecipue 1451

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vero sine annona reque frumentaria. [L]amentamur, etiam angimur, affligimur publice privatimque quod profligatis ac caesis duobus exercitibus vestris, altero in Calabria, amisso duce eius, domino Albignini, paucis superstitibus ex tanta copia, altero in Apulia, Vicerege caeso, plurimis interfectis, reliquis fugatis, dum expectantur reliquiae exercitus, qui superfuerunt e clade cum duce ipsorum domino de Alegro, destituta Neapoli, Nola, Aversa, Capua, fugam adhuc continuant. Nos igitur dum provisiones expectamus opportunas a Gubernatoribus et praesidibus Vestrae Maiestatis, dum illos hortamur ad arma praeparanda, ad urbem tuendam, ad munitones faciendas, universa nobilitate et populo nomen vestrum Christianissimum implorante, fidelitatem, obedientiam, vires facultatesque communes et privatas fideliter ac fortiter offerente, praesides ipsi, hoc est Nicolaus Joannes magnus Cancellarius, Landulfus Demians magnus Camerarius, generalis item Thesaurius, ultimo a Maiestate Vestra missus, praetor quoque ac rector administrandae iustitiae ceterique omnes consiliarii administrique, relicta urbe, in Castellum Novum atque in naves occulte raptimque confugerunt neque acclamationes, admonitiones precesque nostrae retinere illos potuere, nihil prius aut potius habentes curantesve, quam ut bona resque quisque suas salvas facerent, alii quidem in Castello Novo, alii vero in navibus quae in portu sunt. Quin imo diebus superioribus, cum ipsi quidem soliciti de re frumentaria essemus, deque fossis ac muris reficiendis evocavissemus multitudinem quandam agrestium nostris e casalibus ac villis ad munitiones faciendas, statim illi a purgandis fossis ab iisdem Vestris paesidibus extracti fuere, invitis nobis, adhibitique ad opera sua cuiusque, non urbis, sed ad privata commoda, non Maiestatis Vestrae statusque regii, sed pro utilitate uniuscuiusque praesidum ipsorum. Praeterea, cum ab oppidis propinquis, in quibus erat aliqua frumenti copia ac farinae, compor[tari] exinde iubsissemus intra Neapolim bonam partem, omnem illam copiam sibi assu[mp]sere et in Arcem Novam contraxerunt, civibus ipsis ac praesertim plebe fame laboran[tibus], ut salma una farinae ducatis septem sit vendita. Praecessores nostri civita[tis] electi, Christianissime Rex, mensibus superioribus et per litteras et per nuntios hortari sunt saepi[us] Viceregem absentem in Apulia et coram atque in praesentia illique et nos ipsi horta[ti] fere quodie sumus Gubernatores ipsos illique item ipsi electi et nos pariter su[mus] quotidie adhortati Gubernatores ac praesides, ut cognita inopia rei frumentariae providerent et 1452

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vecturis navalibus et aliis rationibus super annona comportanda extrinsecus. Quin etiam, cum praecessores nostri nosque ipsi diversis cum mercatoribus contraheremus super apportando frumento demumque cum Cola Anello deventum esset ad pactum, iisdem ipsis Gubernatoribus annuentibus, de convehenda re frumentaria in urbem, neque ab illo satisfieret, deque tanta ac tali re questi saepius apud illos essemus, aures omnimo occlusere, quodque deterius est, a navigiis ac biremibus domini de Alegro et castellani Arcis Ovi et aliorum praefectorum Gallicorum fuerunt saepius interceptae naviculae frumentum deferentes neque unquam adduci potuere uti frumenta dominis restituerunt aliaeque res ablatae utque mare tutum redderetur a triremibus, quae hic aderant. Quin ipsae quoque triremes ad praedam ac lucrum intentae advenientes naves spoliabant et palam et occulto. Quo effectum est ut mercatores ac navigiorum domini fuerint ab omni frumentaria importatione deterriti. Illud non praetermittemus, Christianissime Rex, quod audita strage exercitus Calabriensis statim per litteras ac nuntios opportunos Viceregem in Apulia non modo commonefecimus, verum etiam illum obtestati sumus ac protestati, ne ullo pacto proelio cum hoste decerneret, sed in loca tutiora se reciperet, donec a Maiestate Vestra, quae potentissima esset, mari terraque praesidia mitterentur. Demum cum saepius et orari et obsecrati praesi[des] ipsi essent, ut darent operam muris reparandis qui diruti essent fossisque renovandis atque evacuandis, nullis precibus ut hoc facerent adduci potuere, dum rebus tantum propriis student, obliti et rerum Maiestatis Vestrae et civitatis huius, quae regni caput est, et munerum atque officiorum suorum; quam tum incuria et desidia, tum rerum propriarum studio atque cupiditate civitas haec eo perducta est, ut nos omnes, viros, mulieres, senes, impuberes, divina et humana omnia in praedam hosti obiecerint nihilque hodie habeamus quo tueri urbem possimus, aut saltem paucos per dies hostilem impetum continere. Satis etiam compertum habemus, dum nos ipsi oratores nostros apud Maiestatem Vestram agentes his de rebus deque aliis necessariis certiores per litteras facimus, nostras litteras fuisse eorundem praesidum opera interceptas retentasque ac provisum occulto ne oratoribus redderentur, quo Maiestas Vestra nullam de his omnibus haberet cognitionem. Quocirca redacti sumus ut inviti, nolentes commiserantesque fortunas nostras, dum quotidie ad urbis portas habemus feciales atque araldos, direptionem, caedes, incendia et alia mala comminitantes, quae 1453

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multa regni huius oppida calamitosissime passa sunt, coacti inquam sumus, ut publice lamentantes, indolentes, clamitantes, Gubernatores praesidesque ipsos in Castello Novo inclusos requireremus, commonefaceremus optestaremurque, nec non palam in scriptisque protestaremur de neglecta administratione, de urbis cura ab eis abiecta, deque illorum circa defensionem postergatione, quodque urbem deseruissent, quod nos ad famem compulissent, quod tandem civitatem civisque sine annona, sine menibus, sine armis, munitionibus, defensoribus, fossis, publicis ac regiis praesidiis destituissent eoque nos omnes ignavia sua perpulissent, ut aut perituri omnino simus, diripiendi, caedendi, vituperandi, exurendi ab ingruentibus hostibus simus, aut relicto coronae Vestrae nomine, ducis hostium arbitrio voluntatique civitatem bonaque nostra omnia vitamque permissuri. Quod Christianissimae Maiestati Vestrae lacrimantes, dolentes, publice privatimque nos afflictantes significamus his litteris et nostro et civitatis nomine. Quae omnia ut Maiestas Vestra particularius intelligat, mittimus ad eam protestationis ipsius exemplum atque contextum, quo series omnis actae rei continetur. Datum.

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Introduzione 1 E. PERCOPO, Vita di G. Pontano, ITEA, Napoli 1938, e L. MONTI SABIA, profilo biografico, in L. MONTI SABIA e S. MONTI, Studi su Giovanni Pontano, Messina, Centro Interdipartimentale di Studi Umanistici, 2010, I, pp. 1-31. In particolare sull’anno di nascita e la data di morte, cfr. ibid., pp. 33-81. Sul giorno della morte cfr. M. DE NICHILO, I Viri illustres del cod. Vat. Lat. 3920, in «Roma nel Rinascimento», Roma, 1997. Disponiamo ora della voce del DBI a cura di Bruno Figliuolo che ha aggiornato le conoscenze attraverso testimonianze documentarie ed epistolari. 2

Forse l’ultimo scritto di Pontano. La dedicatoria a Consalvo sostituiva l’originaria prefazione ad Antonio Guevara, conte di Potenza: vd. qui la Nota al testo del De fortuna.

3

Il dialogo Antonius, qui raccolto, è la testimonianza più significativa della nascita e del programma dell’Accademia pontaniana, che nel secolo successivo susciterà perfi no l’opposizione del governo spagnolo per il suo atteggiamento d’indipendenza nei confronti del potere politico. Cfr. G. VILLANI, La corte aragonese e l’accademia pontaniana, in Storia della letteratura italiana, dir. E. M ALATO, Roma, Salerno editrice, 1996, vol. III, pp. 763-766; ID.,

Umanesimo napoletano, ibid., pp. 709-726; S. FURSTENBERG-LEVI, The Accademia Pontaniana, 2016. 4 Cfr. F. TATEO, Pontano poeta, 2018 (Il poeta della natura e la natura del poeta, pp. 232-241). 5

Per qualche indicazione sul significativo percorso della poesia pontaniana si rimanda all’introduzione di F. TATEO, Pontano poeta.

6

Cfr. l’edizione comprendente le liriche e i poemi, J. J. PONTANI, Carmina, 1902, e le edizioni dell’intera lirica, I. I. PONTANI, Carmina, 1948. Per le opere singole confronta la Nota bibliografica all’Introduzione generale. 7

Vd. F. TATEO, Traduzione, divulgazione, scelta lessicale nella prosa umanistica, 2011, pp. 65-70.

8

Cfr. soprattutto G. M. CAPPELLI, Dalla maiestas alla prudentia, 2016.

9 Il De rebus coelestibus, la cui prima stesura, in dodici libri, risale al 1495 circa, sarà pubblicato a cura dello stesso Summonte nel 1512. 10

Cfr. B. SOLDATI, La poesia astrologica del ’400, 1906 (ristampato con prefazione di C. Vasoli, Firenze 1986), che riguarda soprattutto l’opera poetica di argomento astrologico di Pontano, l’Urania e i Mete-

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NOTE

INTRODUZIONE

ororum libri, risalente ad anni precedenti.

pubblicazione (Charon, Antonius, presso Mattia Moravo, Napoli, 1491; Actius, Aegidius, Asinus, presso Sigismondo Mayr, Napoli, 1507). Cfr. le mie note marginali a una nuova edizione dei dialoghi, Sul genere e l’ordinamento dei dialoghi di Giovanni Pontano, 2013, pp. 603-616.

11

Cfr. F. TATEO, La storiografia umanistica, 1987; L. MONTI SABIA, Pontano e la storia. Dal De bello Neapolitano all’Actius, Roma 1995; G. FERRAÙ, Il tessitore di Antiquera. Storiografia umanistica meridionale, Roma 2001. Continuo a ritenere valida, per la composizione del De bello Neapolitano, l’indicazione che si ricava dalla famosa lettera a Battista Spagnoli del 1499 (E. PERCOPO, Lettere di Giovanni Pontano a principi e amici, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXXVII, pp. 5-86: 58-59), in cui Pontano, inviando all’amico degustatiunculas della sua opera storica e citando le altre opere che ha ancora fra le mani, fa pensare che si riferisca ad opera recentemente compiuta, senza che si possa escludere una più lunga gestazione, tanto più che la conclusione, con il giudizio non tutto lusinghiero sul Re, presuppone la morte di Ferdinando (1494), il ritiro del segretario dalla vita politica e forse anche un discreto lasso di tempo dell’impresa storiografica dalla vicenda narrata, secondo le consuetudini storiografiche, quando non si tratti di opera encomiastica. Il mancato ricordo della guerra d’Otranto, che invece viene citata nelle parole conclusive, per ricordare il Duca di Calabria che ne fu il vero protagonista, può convalidare la tarda composizione di una storia che non comprendeva gli anni di quell’evento. 12

Il trattato De immanitate, sarà edito insieme col De fortuna (cfr. IOANNIS IOVIANI PONTANI, De immanitate, 1970).

13

Sul senso del De hortis Hesperidum, cui ci riferiremo, cfr. F. TATEO, Astrologia e moralità in G. Pontano, 1960, pp. 103-118. 14 F. FIORENTINO, Egidio da Viterbo e i pontaniani di Napoli, in Il risorgimento filosofico nel Quattrocento, ristampa anastatica con prefazione di E. Garin, Napoli, 1994, pp. 251-274. 15

Va corretto il tradizionale ordinamento dei dialoghi dovuto alla data della loro

pp. XV-XVI

16

Alla prima parte, che contiene i trattati morali, IOANNIS IOVIANI PONTANI, Opera omnia soluta oratione composita, Venetiis, in aedibus Aldi et Andreae Soceri, 1518, seguono la seconda parte, datata 1519, che contiene De aspiratione, Dialogi, De sermone, De bello Neapolitano, e la terza, con la stessa data, contenente le Commentationes in centum sententiis Ptolemaei, i De rebus coelestibus libri, il Liber de Luna imperfectus. 17

Dialogus qui Charon inscribitur. Dialogus qui Antonius inscribitur, [Neapoli], per Mathiam Moravum, 1491; Actius de numeris poeticis et lege historiae. Aegidius multiplicis argumenti. Tertius dialogus de ingratitudine, Neapoli, ex officina Sigismundi Mayr Alamani, 1507. Tale ordine è ancora conservato nell’edizione critica del Previtera, 1943.

18

Sulla cronologia della composizione, al di là delle indicazioni di E. PERCOPO, Vita di G. Pontano cit., cfr. S. MONTI, Ricerche sulla cronologia dei Dialoghi, 2010. Sulle ragioni della composizione e della pubblicazione cfr. C. CORFIATI, Dialoghi con la storia?, 2016, pp. 1-12. 19

Vd. TATEO, Tradizione e realtà, 1968, pp. 223-318 (Il dialogo morale). Anche per l’informazione bibliografica e l’orizzonte tematico, vd. D. M ARSCH, The Quattrocento dialogue: classical Tradition and humanist innovation, Harvard University Press, 1980; Le dialogue, ou les enjeux d’un choix d’écriture, sous la direction de Ph. Guérin, Presses Universitaires de Rennes, Campus de la Harpe, 2006; Les États du dialogues à l’âge de l’Humanisme, sous la direction de E. Buron, Ph. Guérin, C. Lesage, Presses Universitaires de Rennes, Tours, 2015.

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pp. XVI-XX

INTRODUZIONE

NOTE

LEONIS BAPTISTAE A LBERTI, Momus, Édition critique, Bibliographie et Commentaire par P. D’Alessandro et F. Furlan, Introduction de F. Furlan, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2016, pp. 97-115. Non mancano indizi della diretta consultazione del Momus da parte di Pontano, che fra l’altro faceva lamentare a Caronte di incorrere nelle meschine argomentazioni dei dialettici (captiunculis, Charon, 17), usando lo stesso vocabolo di Alberti quando Caronte viene ripreso da Gelasto per il fatto di usare anche lui i cavilli di cui era vittima (Momus, 55). Per un’ampia ricerca sul tema specifico, cfr. L. GERI, A colloquio con Luciano di Samostata, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 119-164. Sulla fortuna di Luciano vd. D. MARSH, Lucian and the Latins: humour and humanisme in the early Renaissance, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1998.

1975. Ma, nonostante la diversità dell’argomento, l’Asinaria di Plauto, cui rimandano anche alcune preziose scelte lessicali, non dovette essere estranea al concepimento del dialogo pontaniano, come ovviamente il grande esempio delle Metamorfosi apuleiane, che sono all’origine della moderna mitizzazione del singolare animale: vd. l’ampia rassegna storica e critica di N. ORDINE, La cabala dell’Asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, premessa di I. Prigogine, Prefazione di E. Garin, Milano, La nave di Teseo, 20173.

20

21

Dante è del resto direttamente citato (IV 19), anche se per rimproverarlo scherzosamente assieme a Platone di non aver previsto la reincarnazione delle anime. La funzione di Minosse e di Caronte ricalca chiaramente il reimpiego delle due figure mitiche nella Commedia.

22 Soprattutto il valore satirico del Charon fu rilevato dai critici che primi contribuirono a riscoprire i dialoghi di Pontano nel primo Novecento: vd., oltre E. PERCOPO, Vita di G. Pontano, 1928, pp. 222-225, V. CIAN, La satira, Milano, 1945, I, pp. 465-8. 23 Charon, IV 3, 5. Ma l’identità del tiranno, o dei due tiranni, è incerta. Per la datazione del dialogo vd. anche Charon, IV 11. 24

Un termine ante quem potrebbe essere la citazione del Panormita, morto nel 1471, come ancora vivente (Charon, XI 46, n. 41).

25

Vd. Charon, XII 49.

26

Cfr. Charon, II 4.

27

Per questo aspetto rimane fondamentale R. CAPPELLETTO, La «lectura Plauti», 1988. Rimando ai miei interventi: Il linguaggio comico, 1973; Il lessico dei comici,

28

La lettura tradizionale del dialogo, tuttavia, fondandosi soprattutto sulla presentazione che ne fa Pietro Summonte come di una satira contro l’ingratitudine e sulla indicazione di quell’ingrato fatta da Camillo Porzio (vd. qui la Nota introduttiva al dialogo, mette soprattutto in risalto il carattere satirico della bizzarra invenzione. V. Cian concludeva con la pagina dedicata all’Asinus il primo volume sulla satira, ma non vi riconosceva quel particolare umorismo cui abbiamo accennato e del quale soprattutto diremo. Si veda già C. PREVITERA, La poesia giocosa, 19532. Una novità, anche rispetto al metodo, ha costituito la lettura tendente a ricondurre i vari momenti del dialogo a un tema ricorrente e quasi sotteso, esplicito nelle battute iniziali che si riferiscono a un argomento geografico, il quale coinvolge la percezione umanistica dell’orbe e in particolare delle regioni settentrionali dell’Oceano con allusioni anche metaforiche, in toni umoristici e non, al motivo del «viaggio», rovescio terreno dell’indagine planetaria dell’Urania: Cfr. E. H AYWOOD, «Iter asinarium». Per una nuova interpretazione dell’Asinus pontaniano, 2003. 29 R. SABBADINI, Storia del Ciceronianismo, 1885, prende in considerazione con favore alcuni neologismi del Charon e dell’Antonius, discutendo la posizione rigida che Pontano assumerebbe nel libro II del De aspiratione, contro Leonardo Bruni a pro-

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NOTE

INTRODUZIONE

posito dell’anomalo conio di coincidentia. In realtà Pontano non solo aveva sostenuto nell’Antonius anche teoricamente la possibilità di derogare alla rigidità dei grammatici, ma nei trattati morali e scientifici non mancherà di proporre neologismi di carattere dotto e di accogliere novità del linguaggio tecnico, pur segnalandone talora la stravaganza, e si comporterà con una certa disinvoltura soprattutto nel De sermone. Cfr. ora J. L. CHARLET, Vers un dictionaire du latin humaniste, 2008, che registra una serie di neologismi pontaniani generalmente tratti dal De sermone. Su tutta la questione cfr. TATEO, Ciceronianismus, 1994.

36 Cfr. R. CAPPELLETTO, La «lectura Plauti», 1988.

30 V. ROSSI, Il Quattrocento, nella «Storia letteraria d’Italia», Vallardi, Milano 1938, pp. 490-49. Circa il metodo pontaniano nell’inventio della lingua latina della conversazione, cfr. F. TATEO, G. Pontano e la nuova frontiera, 2006. Vd. in particolare M. DE NICHILO, Lingua e stile nell’Asinus, 2006, dove appunto agli opportuni rilevamenti lessicali si aggiunge l’analisi degli artifici retorici nella costruzione dei periodi e del colloquio, quali fra gli altri la ripetizione in funzione comica, della «dialogicità», delle scelte stilistiche in funzione dell’effetto scenico. 31 In Modernità dell’Umanesimo, Salerno, Edisud, 2011, pp. 110-113. Ho segnalato questi luoghi dei Dialoghi, cit., pp. 67-70, 146-147. 32 Ne ho scritto in G. Pontano e la nuova frontiera, 2006, pp. 11-78. 33

Cfr supra, nota 10.

34

Cfr. la Nota al testo all’Actius per quel che riguarda le fasi della composizione del dialogo, oltre al ruolo del Summonte nella trasmissione del testo. 35

Sulla «fonte» di questa insolita scena, sviluppo e deformazione di un antico documento giuridico che avrà una certa fortuna nel sec. XVI, anche in seguito al suggerimento pontaniano, cfr. la nota 24 ad Actius 2.

pp. XX-XXVIII

37

Sulla cancellatura di un lungo passo di questo genere sul ms. vergato dal Summonte e rivisto da lui e dal Pontano, fra i §§ 66-67, cfr. PONTANO, Actius, 2018, p. 46 n. 5 e pp. 293-294 (Appendice II), dove è riportato il testo cancellato. 38

G. PONTANO, Ecloga III, Maeon, in TAPontano Poeta, p. 203.

TEO,

39 Per la biografia dell’umanista è ancora utile il classico E. PERCOPO, Vita di G. Pontano, 1938 (fluttuante rimane tuttavia la datazione di alcune opere, mentre la data di nascita concordemente accolta è quella del 1429). Per la determinazione della data di morte vd. M. DE NICHILO, La data di morte di Giovanni Pontano, in ID., I viri illustres del cod. Vat. Lat. 3920, Roma, Roma nel Rinascimento, 1997, pp. 147-184. 40

Sulla prefazione originaria pervenuta attraverso la copia di un ms. marciano, cfr. la Nota al testo al De fortuna, e il testo in Pontano, De fortuna, 2012, Appendice I, pp. 344-349.

41

Se poi pensiamo che la trattatistica rinascimentale cui appartengono il Principe, come anche le Prose del Bembo e il Cortegiano del Castiglione, risponde al criterio ciceroniano secondo il quale la delineazione ideale dell’oratore perfetto da lui descritto non si potesse trovare nella realtà, l’illusione potrebbe riguardare anche, con una diversità di timbri, ogni immagine esemplare, ossia ogni trattazione che intenda raffigurare perfettamente un ruolo, quello del politico, o del poeta, o del cortigiano. La letteratura didattica e critica è piena di illusioni. Il poeta perfetto, in particolare, è un’illusione se Petrarca, il migliore di tutti, il modello ottimo secondo la tesi classicistica del petrarchismo, qualche difetto lo ha pure lui. Infatti Cicerone aveva trovato molti «facondi» ma nessun «eloquente», né – voleva dire – avrebbe potuto trovarlo.

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pp. XXX-XXXI

INTRODUZIONE

NOTE

Aio del primogenito di don Federico, ricordato da Antonio Galateo per aver partecipato ad una discussione con Andrea Matteo Acquaviva presso il futuro re Federico intorno alla questione geologica delle terre e dei mari (Epistola III), e, sempre insieme all’Acquaviva, fra gli amici di Pontano nell’epistola per la morte del figlio Lucio (Epistola XIII). Era nipote di Innico Guevara, venuto in Italia al seguito di Alfonso il Magnanimo e nominato conte di Ariano e Marchese del Vasto. Morì nel 1513, essendo nato nel 1454.

fortuna la felicità con un bene civile, concorda preliminarmente proprio col pensiero di chi ritiene utile la buona fortuna alla felicità (De fortuna, I I 1). Ma vd. anche I 25, 2, dove la felicità è identificata con la virtù ed è comunque considerata un ornamento che la completa, secondo un’ottica riconducibile all’etica ciceroniana.

42

43

Non va dimenticata tuttavia la statura culturale di Consalvo, che negli anni successivi fu favorevole alla pubblicazione delle opere, non solo del Pontano, ma del Sannazaro e del Cariteo.

44

De fortuna, II XVIII 2.

45

Cfr. ora l’edizione a cura di E. FENZI, Rimedi all’una e all’altra fortuna, Napoli, La scuola di Pitagora editrice, 2009, p. 184-185.

46

L’argomento, presentato da Petrarca come nuovo rispetto alla trattazione di Seneca, sviluppava in realtà in senso nuovo una questione che anche Tommaso aveva discusso respingendo l’identificazione della buona fortuna con la felicità, che poteva risultare dal testo aristotelico: «Et dicit quod, quia felicitas indiget bona fortuna, quibusdam visum est quod idem sit felicitas et bona fortuna: quod tamen non est verum. Quia ipsa superexcellentia bonorum fortunae est impeditiva felicitatis, inquantum scilicet aliqui per hoc impediuntur ab operatione virtutis, in qua consistit felicitas» (TOMMASO D’AQUINO, Sententia Ethicorum, lib. 7 l. I. 13 n. 11 «E dice che, avendo la felicità bisogno delle buona fortuna, a qualcuno è sembrato di poter identificare la felicità con la buona fortuna. Infatti l’eccesso di beni di fortuna sono un impedimento alla felicità, in quanto ovviamente alcuni ne vengono impediti dall’esercizio della virtù, in cui consiste la felicità»). Pontano, identificando nel De

47 Vd. la prefazione al libro I del De remediis (PETRARCA, Rimedi, cit.) pp. 76-77. Ho ricordato la novità dichiarata da Petrarca rispetto a Seneca trattando de L’Alberti fra il Petrarca e il Pontano, 2007. 48

Per il testo e le molteplici implicazioni dottrinali, cfr. C. SALUTATI, De fato et fortuna a cura di C. Bianca, Firenze, Olschki, 1985. La trattazione della fortuna in quanto casus, fortuitum, è confinata nel brevissimo Tractatus IV (De casu quid sit et quod sit aliquid et quod fortuitis actibus se permisceat), pp. 211-213. Il Salutati discute il rischio di attribuire la buona fortuna a Dio, perché anche la cattiva fortuna dovrebbe essergli attribuita, eppure propende a riconoscere nella buona fortuna la mano divina anche quando essa nasca da un impetus: «quid esse potest ipsa bona fortuna nisi divina benignitas que nos impellit et movet?» («Che cosa può mai essere la buona fortuna se non la benevolenza divina che ci spinge e ci fa muovere?», III 3, p. 132). In effetti la fortuna è ricondotta al fato, e ne è difesa l’esistenza proprio in quanto riconducibile a Dio anche nei casi che appaiono fortuiti. 49

In Fatum et fortuna, dove si vuol mettere in evidenza l’aiuto offerto in varia misura dall’industria alla salvezza dell’uomo destinato a cadere nel fiume, non si sfugge alla considerazione di un momento assolutamente imponderabile, che è quello della caduta, indipendente dall’ordine che segue il corso degli eventi: «ho appreso che il Fato non è altro che il corso degli eventi nella vita degli uomini e che esso si svolge secondo un proprio ordine e cammino. Ho compreso poi che la Fortuna è più benevola con coloro che cadono nel fiume dove

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NOTE

INTRODUZIONE

ci siano a sostegno assi intere o addirittura una nave. Ho compreso tuttavia che la Fortuna è severa con quelli di noi che sono caduti nel fiume nel momento in cui era necessario invece restare a galla sulle onde impetuose nuotando costantemente», L. B. A LBERTI, Le intercenali, a cura di Ida Garghella, Napoli, ESI,1998, pp. 29-34 (34), p. 34.

re secondo la sua volontà, non tratte da ordine alcuno; solleva questo, abbassa quell’altro, ora distribuisce onori a troppa gente, ora la copre di vergogna; dà il regno ad uno, e poi lo fa andare in carcere; chi mette ad un alto livello da dove possa esser guardato con ammirazione, lo colloca poi, mutando faccia, nel luogo più basso, in modo che appaia con disonore. Per cui, se ti fosse gradito, vorrei che parlassimo un poco insieme della volubilità con la quale ha sconvolto quasi innumerevoli esseri del genere umano, per tacere dei nostri concittadini» (trad. da Le Pogge, cit., p. 65).

50

Cfr. L. B. A LBERTI, Theogenius, a cura di F. Tateo (testo di C. Grayson, Bari, Laterza, 1960), in La prosa dell’Umanesimo, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato), 2004; F. TATEO, Referenti topici e fonti del Theogenius, in Alberti e la tradizione. Per lo «smontaggio» dei «mosaici» albertiani, Atti del Convegno internazionale del Comitato nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, Arezzo 23-24-25 settembre 2004, a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi, Edizioni Polistampa, Firenze 2007, pp. 545-559 (edito nel 2009). 51

Poggio fa esplicito riferimento al suo dialogo precedente sulla condizione del principe: vd. il proemio alle Historiae de varietate fortunae, in Le Pogge. Les ruins de Rome, De varietate fortunae livre I, texte établi et traduit par J.-Y. Boriaud, Introduction et notes de Ph. Coarelli et J.-Y. Boriaud, Les Belles Lettres, Paris, 1999, p. 7. Cfr. POGGIO BRACCIOLINI, De infelicitate principum, edizione critica a cura di D. Canfora, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Edizione nazionale dei testi umanistici, 1998. Pontano ribalterà le considerazioni pessimistiche di Poggio sullo status del principe (cui ho accennato in Tradizione e realtà, 1967, pp. 270-275), quando concepirà ripetutamente la dimostrazione delle virtù come illuminata dalla dimostrazione dei vizi e dei mali «contrari». 52

«È così come tu dici, Antonio – dissi io –, non solo grandissima l’iniquità della fortuna e malvagio il suo modo di decidere, ma anche frequente la sua mutazione, sicché le cose dei mortali sembrano gira-

pp. XXXI-XXXIV

53

«Penso che la lettura di questi libri non vada trascurata, perché potranno avvertirti, per quanto tu sia superiore in tutte le doti dell’animo e dell’ingegno, che la cosa più sicura è quella di non esporsi e di agire con moderazione in quelle cose in cui la fortuna è più forte della ragione e del consiglio». Trad. da Le Pogge, cit., p. 9.

54

«Navem frumento onustam mercator e portu solvit eo ubi novit annonae caritatem, fisus vento secundo, qui leviter stabat; ideoque sperans in portum quamprimum se perventurum. Usus validiore vento citius quam putarat pervenit, frumento quanti voluit vendito, incolumis rediit; huic profecto, qui et celerrime iter confecit, et caro vendidit, ut superioribus [nel caso di Alessandro e di Cesare] favisse fortunam; sed non aristotelicam, cum omnes certo consilio suscepto, nihil insperato, nihil praeter intentionem sint consecuti» (Le Pogge, cit., p. 55; «Un mercante salpò dal porto con la nave carica di frumento, per dirigersi dove sapeva essere alto il prezzo dei viveri, confidando in un vento favorevole; sperando perciò di giungere in porto al più presto. Avendo usufruito di un vento più forte, arrivò più velocemente di quanto avesse pensato, e venduto il frumento al prezzo che voleva ritornò incolume; certamente a lui, che compì il viaggio il più velocemente possibile, e che vendette a caro prezzo, la fortuna fu favo-

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pp. XXXIV-XXXV

INTRODUZIONE

revole come a quelli di cui abbiamo parlato precedentemente [Alessandro e Cesare]; ma non la fortuna aristotelica, poiché nessuno di costoro, avendo avuto un proposito, l’ha conseguito insperatamente e al di là dell’intenzione»). Poggio attribuisce ad Aristotele il concetto di Fortuna come «caso», che prescinde dal proposito e dallo sforzo umano, cioè il concetto che sosterrà Pontano interpretando il concetto pagano in modo esclusivo. 55

«existimatur esse maior et ordinatior quaedam divina vis volvens et versans res humanas pro libidine, nihil a se firmam, nihil tutum praebens» (Le Pogge, cit., p. 55).

56

De fortuna, I XXII 12 e nota relativa.

57

«Potestne igitur earum rerum, quae nihil habent rationis quae futurae sint, ulla esse praesentio? Quid est aliud fors, quid fortuna, quid casus, quid eventus, nisi cum sic aliquid cecidit, sic evenit, ut vel non cadere atque evenire potuertit? Quo modo ergo id, quod temere fit caeco casu et volubilitate fortunae, praesentiri et praedici potest. Medicus morbum ingravescentem ratione providet, insidias imperator, tempestates gubernator; et tamen hi ipsi saepe falluntur, qui nihil sine certa ratione opinantur», CIC., Div., 2, 6, 18 («Può dunque esservi conoscenza anticipata di avvenimenti il cui arrivo non si può spiegare razionalmente? Che altro è in effetti la sorte, la fortuna, il caso, l’accidente, se non qualcosa che è accaduto così, che è avvenuto così, cosicché avrebbe potuto non accadere e avvenire, o avrebbe potuto accadere e avvenire in modo diverso? Il medico prevede un aggravamento della malattia, il comandante prevede l’imboscata del nemico, il timoniere il cattivo tempo, e le loro previsioni sono fondate sulla ragione, e tuttavia costoro spesso si sbagliano, perché le loro previsioni non sono fondate che sulla ragione»).

58

CIC., De fato, 15.

59

Ibid., 17.

NOTE 60

In Pontano predomina il concetto di bene esterno come oggetto di piacere e come successo (l’onore pur contemplato da Aristotele). La Retorica aristotelica contiene anche la defi nizione di ciò che s’intende per «bene» (1, 5-6; 1360b-1363b), argomento preliminare nel trattato pontaniano, che tuttavia si discosta dal discorso che in quel luogo svolge il fi losofo greco, il quale identifica il bene con ciò che è desiderato di per sé, senza altro fi ne, ma per collegarlo in defi nitiva con la felicità e con la virtù. La distinzione fra beni esterni e felicità, che in defi nitiva si oppongono, era esplicito nella Politica (7, 1; 1323b) e implicito in tutta la trattazione dell’Etica Nicomachea.

61

Questa posizione, come si vedrà nel corso del trattato, corrisponde con quella del Tetrabiblios tolemaico col quale è possibile trovare anche qualche puntuale riscontro; del resto va ricordato che l’opera tolemaica, soprattutto nella sua più tarda riduzione, aveva accompagnato Pontano sin dal suo noviziato astrologico.

62

L’idea della necessità dei beni esterni per la felicità sembra ricalcare la Grande Etica, 2, 8, 1206b («[…] la maggior parte pensa che la vita felice sia quella fortunata o non priva di fortuna, e forse a ragione; infatti non è possibile essere felici senza i beni esteriori, tra i quali la sorte è la principale»), ma si differenzia dal pensiero aristotelico quando quest’ultimo distingue nettamente in sede di Etica la felicità dal possesso di beni esterni, che riguardano l’utilità. È noto che la correzione della rigidità etica, in quanto propria dello stoicismo, è svolta da Cicerone a proposito della riflessione sul sommo bene nel De finibus bonorum et malorum.

63

Il libro De bona fortuna, largamente usato da Tommaso, appartiene all’Aristoteles latinus ed è opera di Guglielmo di Moerbeke. Vd. L. BIANCHI, Christian Readings from Aristotle the Middle Ages to the Renaissance, Brepols, Turnhout, 2011. Per

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NOTE

INTRODUZIONE

ulteriori informazioni cfr. PONTANO, La fortuna, 2012, p. 35, nota 34. Pontano cita ripetutamente l’esposizione di Tommaso (vd. soprattutto De fortuna, II 19).

68

64

Lo stesso titolo dell’opera di Poggio torna nell’opera storiografica di un umanista napoletano come Tristano Caracciolo, che illustra parimenti il gioco tragico della fortuna, la quale travolge l’uomo dopo averlo sollevato al culmine del successo, ma preferisce sviluppare biografie come più adatte ad una ricostruzione storica veritiera, piuttosto che narrazioni di vicende ispirate al modello dell’opus oratorium, e considera la sfortuna soprattutto come «infamia» che lo storico ha il compito di correggere, trasformando la vituperatio dei posteri, in cui sono incorsi alcuni sfortunati, in celebrazione delle loro virtù umane. Si tratta di un modo notevole di recuperare la tragicità storiografica di Tacito e il modello critico della Vita di Agrippa, rispondendo in un modo diverso da quello pontaniano alla sciagura politica dei tempi.

65

Eppure, se cogitanti mihi saepenumero del De oratore diventa mihi cuncta versanti, il discorso ciceroniano sull’ozio e sulla tranquillità come rimedio alla perdita dell’optima respublica in cui il negotium poteva spendersi senza pericolo e l’ozio con dignità, ritorna in Petrarca soltanto nel subordinato ricordo di coloro che hanno trovato refrigerio, appunto come Cicerone, nell’ozio e nella solitudine («[…] quod multis etiam claris viris iactatis inter curarum fluctus huius portus quesitum remedium recordabar»). Ma il concetto principale, introdotto con un forte e quasi anomalo sed iniziale («sed michi cuncta versanti» – così comincia l’opera – facendo ricordare il sed iniziale di Off. 1, 30), sembra proporre la propria esperienza come essenzialmente diversa.

66

PETRARCA, Rer. memor., I 1(«cum id solum temporis vixisse videar, quod otiosus et solus vixi»).

67

(A. TORRE, Petrarcheschi segni della memoria, Pisa, Edizioni della Normale, 2007).

pp. XXXVI-LI

Al fondo di questo sforzo costruttivo vi è la predilezione per la struttura binaria, la quale non si coglie immediatamente nello schema proposto da Billanovich (cit., Introduzione, pp. CXXIX-CXXX), il quale si attiene piuttosto alla successione dei capitoli così come vengono enunciati, mentre al di là del proposito di un’ordinata trattazione Petrarca evita le divisioni scolastiche e preferisce il ragionamento discorsivo, che dipende anche dal genere di materiale aneddotico di cui via via dispone.

69

Cfr. G. PONTANO, I libri delle virtù sociali, 1998.

70

CIC., De or., 1, 16, 70.

71

G. PONTANO, Antonius, 16.

72

CIC., Or., 19, 65 sgg. Ma il bene dicere di Quintiliano emergerà, con riferimento all’arte della poesia e della prosa, nel «bene scrivere» del Bembo: cfr. PIETRO BEMBO, Le prose della volgar lingua, II XVIII, in Opere volgari, a cura di M. Marti, Firenze, Sansoni, 1961, p. 341. Si è riconosciuto che fra i dialoghi del Quattrocento, quelli del Pontano si avvicinano di più agli sviluppi della grande dialogistica del Cinquecento, cfr. C. DIONISOTTI, Introduzione a P. BEMBO, Prose e Rime, Torino, 1960, pp. 12-13. 73

Sulle ragioni teoriche della fi lologia pontaniana e sulle sue note linguistiche, semantiche e grammaticali, cfr. NAUTA, Philology as philosophy, 2011.

74

Sull’intera problematica dello scontro fra sostenitori di Cicerone e sostenitori di Quintiliano, cfr. J. MONFASANI, Episodes of Anti-Quintilianism in the Italian Renaissance: Quarrels on the Orator as a Vir Bonus and Rhetoric as the Scientia Bene Dicendi, in «Rhetorica», X, 2 (1992), pp. 119-138, dopo una puntuale storia della questione riconosce in modo convincente nella posizione presa da Pontano quella di Matteo Collazio, autore di uno scritto De fine orationis in Quintilianum pro M. Cicerone et omni antiquitate (1477), ripreso più tardi in un De

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pp. LI-LXXI

INTRODUZIONE

NOTE

rhetorice fine del 1486, cioè negli stessi anni della composizione dell’Antonius.

sci», De fortuna, I XXXIX 4), che figura nelle moderne rassegne di storia dell’estetica: cfr. A. PLEBE, Origini e problemi dell’estetica antica, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, Milano, Marzorati, 1968, pp. 21, 71.

75

CIC., De or., 2, 14, 61.

76

Vd. Actius, 198: «Utriusque etiam, oratoris ac poetae, officium est movere et flectere auditorem».

77

Cfr. Antonius, IV 13-25.

78

CIC., Or., 23, 78.

79

Ibid., 28, 99.

80

Sulla difesa di Virgilio e la critica di Gellio e Macrobio cfr. G. FERRAÙ, Pontano critico, 1983, che ricorda il Valla fra i sostenitori della superiorità di Pindaro. 81

MARC DERAMAIX, Tamquam in acie, 2011.

82

Cfr. M. DERAMAIX, Excellentia et admiratio dans l’Actius, 1987, pp. 171-212. 83

Sulle cognizioni metriche di Pontano, cfr. G. M ARTELLOTTI, Critica metrica del Salutati e del Pontano, 1970, pp. 352-372. 84 Sul senso del De hortis Hesperidum, cui ci riferiremo, cfr. F. TATEO, Astrologia e moralità, 1960. 85

Sulla religiosità del Sannazaro, che spiega in parte l’affidamento a lui anche di questa sezione dell’Actius (§ 6 sgg.), cfr. TATEO, Tradizione e realtà, 1967, pp. 11-109, e qui la Nota introduttiva all’Aegidius.

86

Cfr. De fortuna, I XXII 1.

87

La prefazione originaria si conclude con questo altro neologismo (si pensi a eventitius) che sarà frequente nel libro II e intende defi nire l’opera casuale della fortuna, ma con una prevalente attenzione ai suoi inattesi esiti favorevoli.

88

Vd. De fortuna, III 6 (Fortunam fato famulari).

89 90

De fortuna, proemio, 3.

È significativo che Pontano abbia valorizzato per il discorso sulla poesia una sentenza («non temere visum est poeticis in rebus ingenio tribuenda esse omnia, poetaeque fortunam omnem, hoc est dignitatem atque excellentiam ab ingenio profici-

91

Certo, il paradosso contenuto nell’argomento fi nisce con l’attenuarsi, quando si pensi che il discorso si svolge trasformando l’arbitrarietà della natura in una nostra ignoranza delle ragioni per cui essa agisce in un modo non decifrabile, ma con suoi propri criteri. C’è chi vede in maniera eccezionale – ci racconta la storia – e chi non vede affatto, né qualcuno s’immagina di chiedere alla natura ragione di quello che fa; essa tende al meglio, ma la materia è fonte di diversità e di difetto: «Contendit itaque natura ad perfectionem rei cuiusque motu et ordine suopte. Quaeque vitiosa proveniunt, de materie proveniunt diversitate ac vitio, non naturae».

92

Circa la «exuperantia poetarum» e l’emozione come superamento anche del livello retorico più alto, di cui Pontano parla nell’Antonius di fronte alla poesia dei grandi spettacoli della natura e delle battaglie, nonché circa il rapporto fra admiratio ed ingenium, che rasentano il principio del furor, pur senza toccare il limite dell’irrazionalità, come a proposito di questa eccezionale riflessione nel De fortuna, rimando a quanto ho scritto in Umanesimo etico di Giovanni Pontano, 1972. Sui fondamenti retorici della poetica pontaniana cfr. G. FERRAÙ, La critica di Pontano, 1983. Ma vd. anche M. R INALDI, «Nec vero terrae ferre omnes omnia possunt», 2018, sull’origine celeste della divinazione naturale e dell’ispirazione poetica. 93

Non va smarrita un’osservazione sottile riguardante la linguistica e la poetica, quando nel proemio del libro terzo (De fortuna, proemio, 5) Pontano attribuisce alla fortuna la scelta poetica fra due vocaboli, giacché in un verso dell’Eneide (3, 461) in luogo di moveri Virgilio avrebbe potuto scegliere

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NOTE

INTRODUZIONE

doceri ottenendo il medesimo significato, ma non una migliore espressione. Un’analoga osservazione Pontano aveva introdotto nell’Actius, per bocca di un interlocutore, a proposito di una scelta verbale che implicava l’effetto metrico, citando la sua stessa Lepidina, e rivelandoci un suo intervento redazionale (Lepidina, 4, 103; Actius 104), come esempio di impulso felice del poeta.

plus historico quam oratori licentiae datur», Rhetor., cit., p. 515 («Allo storico più che all’oratore è concessa molta più libertà nei vocaboli e nelle innovazioni, sia nel caso singolo che in quello più ampio»).

94

Vd. TATEO, La bella scrittura del Bembo, 1983; Cfr. D’ASCIA, La retorica di Giorgio Trapezunzio, 1989. 95

Vd. il prologo di A. PANHORMITAE, Liber rerum gestarum, Regis, a cura di G. Resta, Palermo, Centro di Studi fi lologici e linguistici siciliani, 1968, p. 157, e il proemio di L. VALLAE, Gesta Ferdinandi Regis Aragonum, Padova, ed. O. Besomi, 1973, pp. 3-8. Una traduzione italiana dei due testi è in F. TATEO, La letteratura umanistica, Palermo, Palumbo, 1989, pp. 157-159 e 139-143. Cfr. M. R EGOLIOSI, Lorenzo Valla e la concezione della storia, in La storiografia umanistica, Messina, Sicania, 1992, II, pp. 549-571; G. A LBANESE, Le forme della storiografia letteraria nell’Umanesimo italiano, in La letteratura e la storia, a cura di G. E. Menetti e C. Varotti, prefazione di G. M. Anselmi, Bologna 2007, l, pp. 3-55. 96

Cfr. B. STASI, Apologie umanistiche della «historia», Bologna, CLUEB, 2004, soprattutto pp. 69-184 (Tra retorica e poetica).

97

Cfr. Studi su Bartolomeo Facio, a cura di G. Albanese, Pisa, 2000.

98

Cfr. supra, nota 11.

99

Cfr. TATEO, I miti, 1990, pp. 170-172.

100

Per la questione, oltre che per la fortuna del tema, cfr. D. CANFORA, La controversia di Poggio Bracciolini e Guarino Veronese su Cesare e Scipione, Olschki, Fienze 2001.

101

«Livius in plurimis oratori similior est, Sallustius historicis tantum legibus ubique videtur addictus», Actius, 124.

102

«Verborum quoque ac innovationum cum in singulis, tum in pluribus multo

pp. LXXII-LXXVIII

103

«Quare illos insanire credendum est, qui magna voce audent praedicare Ciceronem si historiam conscribere voluisset, T. Livium exaequare non potuisse», ivi, p. 518 («Perciò si deve credere che siano pazzi quelli che a gran voce vanno dicendo che se Cicerone avesse voluto scrivere di storia, non avrebbe potuto uguagliare T. Livio»).

104

Particolare attenzione alla brevitas rivolse Pio II, ma in un senso alquanto diverso, che prevedeva una netta adesione, nella riflessione teorica e nella pratica, al modello cesariano e al «dilucide denotare» e «apertissime demonstrare», che non corrispondono a un modello come quello sallustiano. Ne ho scritto in Modelli stilistici nell’opera di Enea Silvio Piccolomini, in Enea Silvio Piccolomini uomo di lettere e mediatore di culture, Atti del Convegno internazionale di Studi (21-23 aprile 2005), a cura di M. A. Terzoli, Schwabe Verlag, Basel, 2006, pp. 131-148. Del resto lo stesso Pio II si defi niva scrittore nudus, aridus, e Paolo Cortesi lo defi niva pressus come storico, riconoscendogli soprattutto il merito di usare tante «parole» quante erano le «cose» che diceva. Anch’egli si rassegnava, insomma, – per così dire – come il Panormita e il Cesare criticato da Cicerone, alla funzione riduttiva di scrivere per altri che avrebbero sviluppato i commentarii. 105

Trapezunzio cita una volta la celeritas, quasi come un carattere occasionale del discorso storico; «celeritatis nullam habebit curam, nisi ne dormiens et somniculosa oratio videatur», Rhetoricorum libri V, Lugduni, 1547, p. 513.

106

Trad. dal De bello Neapolitano, in I. I. PONTANI, De bello Neapolitano et de sermone, Neapoli, ex officina Sigismundi Mayr, 1509.

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pp. 21-25

CARONTE

Caronte 1

La tradizione mitica colloca entrambi, insieme a Radamanto, fra i giudici dell’Ade per la saggezza dimostrata in vita, secondo la leggenda, l’uno come re di Creta, l’altro come re di Egina. Minosse, già ricordato da Omero come giudice nel regno dei morti, ha nella Commedia di Dante il compito di destinare le anime nel loro cerchio.

2

Potrebbe trattarsi del diminutivo, non attestato in latino classico, di trochus, il cerchio usato come gioco dai ragazzi; ma quale diminutivo di trochus nel ms. del De aspiratione Pontano indica trochiscus (trochisus secondo il testo, errato, dell’Aldina (PONTANI, Opera, ed. Manuzio, 1919, c. 39v), che è un diminutivo e significa propriamente «pallina», «pillola», «pallottola». Di trochulus, coniato da Pontano col normale suffisso dell’ipocorismo latino, erano in uso i derivati volgari «troccola» e «trocisco».

3

Popolo della Tessaglia di cui fu re Achille. Pontano segue il mito secondo il quale Giove concesse al re Eaco che, dopo una pestilenza, il paese fosse ripopolato mediante la trasformazione delle formiche (myrmidones) in uomini.

4

Si riferisce ai riti in cui è adoperato l’incenso (thus) e ai sacrifici in cui venivano scrutate le viscere degli animali (exta). Il riferimento ai sacrifici pagani allude naturalmente alle pratiche esterne e rituali di ogni religione. Ma il codice di Plauto postillato da Pontano porta il segno dell’attenzione rivolta a un giudizio simile contenuto nel prologo del Rudens (vv. 22-24; cfr. R. CAPPELLETTO, La “Lectura Plauti” di Pontano, 1988, p. 97); donis, hostiis diceva Plauto, concludendo con l’inutilità delle opere e delle spese, laddove Eaco elenca le «opere» dovute a Dio in senso cristiano. 5

Questi fenomeni, come si è visto, aiuterebbero a collocare cronologicamente il dialogo.

NOTE 6

Nel senso particolare di «sostenersi» mediante il vitto, non, come in questo caso, nel senso generico di «vivere», victito è usato da Plauto (Captivi, 83: «victitant suco suo»). La scelta pare in funzione del linguaggio concreto di Caronte, che fa della speranza un cibo; di qui anche il participio passato di spero, nel senso dell’oggetto desiderato, che al neutro ne fa un efficace e insolito sinonimo di spe («nutrirsi si speranza»).

7 Collybum o Collybus è propriamente il prezzo del cambio in un’operazione bancaria. Secondo il mito chi entrava nell’Averno doveva dare un obolo al re degli Inferi per il trasporto. 8

Se il riferimento non vuol essere generico, come suppone anche S. Monti che fa tuttavia qualche plausibile ipotesi (Ricerche sulla cronologia, pp. 259-260), l’identità del tiranno potrebbe corrispondere a quella di Filippo Maria Visconti, che oltre tutto aveva un difetto fisico ricordato dal personaggio qui descritto (ma la data della morte, 1447, sarebbe lontana dalla presumile data di composizione del Charon, o di Sigismondo Malatesta, morto nel 1468, cioè in una data compatibile con l’indicazione temporale data dal nocchiero infernale (pur essa in realtà generica: modo, «poco tempo fa»). Se superiamo la difficoltà di questa indicazione temporale, e teniamo presente che Pontano parla di un personaggio violento e litigioso «alla ricerca di un regno», si potrebbe pensare, oltre alle proposte del Monti, al condottiero di ventura Niccolò Piccinino, che Pontano ebbe occasione di ricordare altrove con parole ostili, e che morì dopo essere stato sbaragliato dallo Sforza nel 1444, o al figlio Jacopo Piccinino, che devastò il territorio umbro, fu mal visto per la sua slealtà e fu messo a morte da Ferrante nel 1465. Sul probabile calco da Luciano e da Seneca, cfr. Dialoghi, a cura di Geri, cit., p. 124, n. 6. 9 Sta per anulum; la doppia consonante potrebbe alludere ad un vezzo dialettale sulla bocca di Caronte.

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NOTE

CARONTE

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anche con esempi strani, riguarda la ricerca della verità.

Erebus (herebus secondo la princeps, anche se smentita dal trattato De aspiratione) è dio dell’oscurità, divinità infernale, invocata appunto nel regno dei morti.

11

Senza l’h e senza la n fi nale del nominativo il nome di Caronte (Charon) cambia significato. Il sofista formula un sillogismo difettoso e ingannevole. L’equivoco presuppone il parlato, e la pronuncia latina che non avverte l’aspirata, per cui non è da escludere che la lezione della princeps vada corretta, come fa Previtera, in Caro.

12

La forma contratta per deturbaverim appartiene al colorito della lingua del nocchiero.

13

In latino il nominativo dei due vocaboli ambigui (palus -udis, palus -i) è identico.

14

Sillogismo ingannevole, fondato sul significato ambiguo di palma, la palma della mano e il remo.

15

Si riferisce alle esemplificazioni fatte nella scuola elementare, e quindi sarcasticamente alle recenti scuole di dialettica.

16

Diminutivo non attestato di superstitiosus, che a sua volta si presenta in una forma anomala (supersticiosus), dovuta all’oscillazione frequente del tipo otium ocium. Nella scrittura pontaniana inoltre si verifica spesso un’ambiguità fra le lettere c e t.

17

Allude alla Resurrezione di Cristo e ai miracoli evangelici. Perciò Pontano farà dire ad Eaco saggiamente che queste cose incredibili sfuggono alla ragione umana, e comunque sono utili alla religione. Nel De principe Pontano ricorda come Alessandro asserisse l’utilità della superstizione per il governo, e l’idea può essere presa come una manifestazione di realismo politico preludente al Machiavelli. In realtà la complessiva tendenza ironica del dialogo e la sostanziale condanna della superstizione non fa escludere che si tratti già qui di un paradosso.

18

Si riferisce agli strani sillogismi, di cui Caronte si era meravigliato come di cose folli. La dialettica, di cui si fa esperienza

pp. 25-29

19

Perché siamo nell’aldilà, dove le sciocchezze umane non contano più.

20

Espressione colloquiale, presente nei comici, ma ripresa anche da Cicerone e Svetonio.

21

iuxta mecum è ridondanza tipica del linguaggio quotidiano: iuxta, come preposizione, si costruisce normalmente con l’accusativo.

22

Minosse aveva condannato il tiranno ad una sorta di Antinferno, che per gli antichi era una sofferenza prescritta a coloro che non avevano avuto ancora sepoltura, essendo morti per violenza. Dante attribuisce questa pena particolare nell’Inferno a coloro che non avevano preso mai partito, rifiutati da Dio e dal diavolo, nel Purgatorio a quelli che avevano tardato a pentirsi. Qui, con saggezza pagana, Minosse ha relegato il tiranno fuori dell’Inferno per evitare che continui a usare le medesime arti che usava da vivo.

23

Cioè spontaneamente, e quindi sfrontatamente, senza vergogna. In questo caso costituiva un’aggravante.

24

Il fiume infernale che dava l’oblio. Chi non aveva bevuto da quella fonte e non aveva quindi preso ancora posto nel vero e proprio regno infernale errava senza meta.

25

È la prima versione della morte di Pitagora riferita da Diogene Laerzio, Le vite dei Filosofi, 7, 39-40. Egli sarebbe morto mentre stava con i suoi conoscenti a Catania nella casa di Milone, l’atleta suo seguace. La casa, infatti, fu data alle fiamme per invidia da uno di coloro che non erano stati accolti nella sua scuola, o dagli abitanti della città che temevano il sorgere della tirannide. 26

Allude all’apostolo Tommaso che, secondo il Vangelo, toccò le piaghe di Cristo per poter credere alla sua resurrezione (N. T., IOHAN., 20).

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pp. 31-41

CARONTE

NOTE

Ricorda la discesa agli inferi di Cristo, che liberò i giusti colpevoli soltanto di non averlo conosciuto in vita.

LETTO, La “Lectura Plauti”, cit., pp. 76, 171).

27

28

Aristotele, originario di Stagira, maestro della fi losofia peripatetica, così detta dal Peripato, il Liceo di Atene dove si svolgeva il suo insegnamento.

29 Platone, solo in parte recepito dalla filosofia aristotelica. 30

Cioè la tendenza dell’uomo ad obbedire alle passioni, senza il freno della ragione, provocò la condanna di uomini giusti, come Pitagora (vd. supra, n. 22) e Socrate, che eseguì da se stesso la condanna a morte bevendo il veleno.

31

Gli ebrei giusti non ebbero il coraggio di difendere Cristo durante la sua vita, ma quando nell’aldilà lo videro che andava a liberare le anime buone dei non credenti, lo seguirono perché non erano più oppressi dal peso del corpo (erano solo anima, Manes).

32 Nel Caronte di Luciano il nocchiero infernale si vanta di conoscere i versi di Omero e di poter rispondere a Mercurio, che fa una dotta citazione, con gli stessi versi del poeta greco che ha imparato accompagnandolo nel regno dei morti («MERC. E da dove hai appreso queste cose, se stai sempre sulla barca? CAR. Quando lo presi sulla barca, lo sentivo recitare i versi», LUCIANO, I dialoghi e gli epigrammi, trad. di L. Settembrini, a cura di D. Baccini, Roma, Casini, 1962, p. 167). 33

Sulla gratuità della virtù cfr. SENECA, Lettere a Lucilio, 7, 69, 5, pur in altro contesto («I vizi ti sollecitano con l’offerta di una ricompensa, qui, nel ritiro della solitudine si deve vivere gratuitamente», hic tibi gratis vivendum est).

34

Diceva Marziale (5, 84, 1) che tristemente il fanciullo lascia il gioco delle noci per tornare dal maestro. Come tipico gioco dei bambini quello delle noci era citato anche da Svetonio (Aug., 83). A Plauto risale invece la menzione successiva dei trastulli

infantili (Capt., 1002-1003: cfr. R. CAPPEL35

È molto probabile che Pontano avesse in mente quel passo ciceroniano in cui entrambi sono citati come modello di una vecchiaia avanzata ma ancora disponibile all’apprendimento (CIC., Sen., 8, 26); Marco Porcio Catone, detto il censore, morto più che ottantenne (234-149 a.C.), dichiarando di acer imparato il greco da vecchio, ricorda i versi in cui Solone, il grande legislatore della democrazia ateniese, vissuto ottant’anni (640-560 a.C.), diceva di invecchiare imparando ogni giorno qualcosa («se cotidie aliquid addscentem … senem fieri»). Qui invece i due famosi esempi di moralità e saggezza, scelti per rappresentare parallelamente i Greci e i Romani, sono citati come esempi del limite massimo cui può giungere lo sviluppo morale e intellettuale dell’uomo. 36

Il verbo laboro («sforzarsi di») è costruito con l’infi nito come più spesso presso i poeti (scire laboro). Si riferisce all’inutile sforzo degli astronomi di misurare le distanze celesti e di numerare le stelle.

37

Si riferisce agli alchimisti, coloro che con arti magiche cercavano di trasformare i metalli in oro.

38

Il nome, coniato alla maniera greca (pyr+chalcus), designa la funzione, attribuita al personaggio infernale, di imprimere un marchio a fuoco, come si usava fare sul corpo degli schiavi e dei detenuti.

39

La forma latina anomala, cuivisque per cuiusvisque, che fonde quique con quivis, è la lezione riportata dall’ed. Moravo e dall’Aldina. Il genitivo cuivismodi per cuiusvis modi è invece attestato. 40

Pietro Busuluro, di Tarragona. Tesoriere di Afonso il Magnanimo. In Parth., I XXIV 17, Pontano, rivolgendosi all’amico Giulio Forte per confessare la leggerezza e la caducità della produzione poetica cui era costretto, opponeva i tempi attuali dominati dalla corruzione dell’alto funzionario ara-

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NOTE

CARONTE

gonese alla serietà dei tempi in cui viveva Catone, e non si meravigliava che ormai fossero esaltati gli «scellerati» Tarragonesi. Per lui la pena sarà più grave, anzi più infamante, di quella inflitta agli altri, perché si aggiungerà la rasura dei capelli. La data della sua morte non dovrebbe essere di molto anteriore a quella dei personaggi nominati subito dopo, i cui termini cronologici sono utili per definire la data di composizione del Charon, anteriore alla morte del Panormita (1471), nominato come ancora vivo.

nità: Afrodite avrebbe accecato Erimanto, Tiresia era stato accecato da Pallade per aver visto, per caso, la dea nuda. La restituzione della vista sembrerebbe evocare un aneddoto evangelico.

41

Luigi Scarampi, patriarca di Aquileia, morto nel 1465. Originario della famiglia veneziana dei Trevisan, svolse la carriera ecclesiastica e politica al seguito di Eugenio IV e di Niccolò V, e godé anche del favore di Alfonso il Magnanimo, che gli fece attribuire cariche ecclesiastiche nel Regno di Napoli. Morì nel 1465.

42

Giovanni de Mella, nato in CastigliaLeòn a Zamora, insegnò all’Università di Salamanca e venne in Italia per partecipare in qualità di vescovo e teologo al Concilio di Firenze del 1439. Creato cardinale da Callisto III nel 1456, morì nel 1467.

pp. 41-45

47

Un esempio divenuto famoso poteva essere Momo, personificazione del Sarcasmo (e per la sua malignità relegato fra i mortali), al quale recentemente Leon Battista Alberti aveva dedicato un’opera satirica, in cui compariva anche Caronte, andato a visitare la terra sulla scia del dialogo lucianeo.

48

Fiume della Laconia che scorre presso Sparta, famoso appunto per questa usanza spartana.

49

Mito sconosciuto, forse inventato da Pontano sulla base dei tanti amori di Giove e della fama delle donne tarantine. Di una tarantina, secondo il racconto dell’Antonius (VI 70) che raccoglie le lamentele della moglie, si sarebbe innamorato lui stesso.

50

Ambiguo riferimento ai sacerdoti della religione moderna.

51

43

Il vento freddo del Nord, cui si riferisce Virgilio in Georg., 1, 93; II, 316. Plinio lo chiama Aquilone (Hist., 2, 47, 46, § 119).

44

52 Acheruns -untis è la normale forma latina, con suffisso etrusco. La forma qui adoperata è latinizzazione della forma volgare (Acheronte).

Il Caronte di Luciano è un dialogo fra Mercurio e Caronte, salito lui invece sulla terra per informarsi della vita degli uomini. Mercurio sembrerebbe professare la dottrina epicurea della condizione felice degli dei, separati dalla vita umana.

45

Habitus fuit per habitus est è del latino volgare. Si riferisce a Cristo, figlio di Dio, disceso in terra. Ma Caronte mescola insieme la religione pagana, con i tanti dei preposti a funzioni diverse ed opposte, e la religione cristiana con i santi protettori, cui si attribuiscono funzioni analoghe.

46

Si riferisce a Prometeo, dio del fuoco, ad Esculapio, dio della medicina, a Marte, dio della guerra; alla Pace, divinizzata, fu dedicato un altare a Roma da Augusto, e alla celebrazione della pace era dedicato il tempio di Giano. Vari sono, nella mitologia, i casi di accecamento da parte di divi-

53

Diogene di Sinope, il famoso rappresentante della fi losofia cinica, che sosteneva una totale adesione alla natura.

54

Evidente gioco etimologico fra il nome del pesce (mergus) e il suo immergersi ed emergere sulla superficie dell’acqua. L’affi nità etimologica è forse solo apparente.

55

Cratete di Tebe, fi losofo cinico seguace di Diogene, quindi indifferente ai beni e ai bisogni, sostenitore della vita randagia propria dei cani, rigidamente conforme alla natura, avrebbe gettato a mare le sue ricchezze; cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, 6, 5, 85-93. Pontano escogita per

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pp. 45-49

CARONTE

NOTE

lui una sorta di contrappasso, desidera nell’inferno l’oro che nella vita ha gettato via.

62

56

I seguaci di Aristotele; il nome deriva dal Peripato, viale per il passeggio situato nel giardino dell’edificio adiacente al Liceo, il tempietto dedicato ad Apollo Licio, dove si discorreva di fi losofia. Nell’Ethica Nicomachea (4, 1) Aristotele discute dell’uso del danaro, un argomento ripreso da Pontano nei libri sulla liberalità, beneficenza, splendore, magnificenza e ospitalità (cfr. PONTANO, I libri delle virtù sociali, 1998). Le Panatenee erano feste che si tenevano annualmente ad Atene.

63

57

67

Si riferisce al punto più discusso della Repubblica di Platone, la comunione dei beni e delle donne. Qui si allude alla licenziosità dei costumi germanici (cfr., di Poggio Braccionini, la famosa epistola a Niccolò Niccoli che descrive i bagni di Baden come segno di intatta innocenza). 58

Si riferisce alla Politica di Aristotele, che prende le distanze dalla Repubblica di Platone, ed è a fondamento dell’etica civile.

59

Allude ai seguaci medievali di Aristotele, i cui libri erano comunemente più letti di quelli originali del maestro.

60

Tali generalmente gli Umanisti consideravano i Franchi, i Germani, citati successivamente, e certo anche gli Anglosassoni, presso i quali fioriva la Scolastica.

61

Nei libri di Aristotele sono state rilevate, infatti, posizioni contrastanti e problematiche circa l’immortalità dell’anima. Nel De anima (in parte pseudoaristotelico), che conclude la riflessione aristotelica sull’argomento, la dottrina dell’anima come forma del corpo, suo perfezionamento (entelechia), presuppone l’estinzione dell’anima con la morte del corpo. Ma nello stesso trattato la questione dell’essenza dell’anima, separabile dal corpo, è ambigua, tanto da indurre i teologi cristiani a vedervi asserita l’immortalità.

Allude alle Scuole aristoteliche germaniche e francesi, specie parigine, in cui dominava l’arte dialettica. Cioè dai Latini, dagli Italiani: si riferisce alla differenza del metodo scolastico in Italia da quello delle scuole francesi e germaniche.

64

Un dialettico capzioso, pedante.

65

Fraticelli erano chiamati a Napoli quei religiosi dell’ordine francescano che seguivano e imponevano la nuova scolastica, basata su cavilli dialettici.

66

Si riferisce all’uso di anteporre fra’ («frate») al nome dei religiosi. Cioè sillogizzando.

68

Il latino scin è forma colloquiale, già in uso nel latino antico, per scisne («non sai?»). 69

Si riferisce al romanzo di Apuleio, Asinus, dove il protagonista, Lucio, si trasforma in asino per via di una bevanda magica. Popolarescamente Caronte identifica l’autore dell’opera con il suo personaggio.

70

A Lucio sarebbe rimasto, dopo la nuova metamorfosi in uomo, che era poi un miracolo di redenzione religiosa ottenuto con un rito purificatore, un segno delle caratteristiche asinine (particolare comico che non ha riscontro nel libro di Apuleio), le orecchie e le sopracciglia (nel descrivere la trasformazione in asino Apuleio aveva detto della trasformazione della bocca, delle narici, delle labbra, e delle orecchie, «cresciute in modo esagerato e ricoperte di ispidi peli», Metam., 3, 24).

71

Non dipende dal testo di Apuleio, dove invece Lucio, divenuto asino e sistematosi nella stalla, rifiuta inizialmente il cibo: continua la libera evocazione della leggenda apuleiana.

72

Il verbo subrudo -is non è attestato, ma è analogo a una serie di composti con sub-. Il vocabolo latino è rudo -is, ma non è usato da Apuleio a proposito del suo «asino», mentre Pontano lo usa nel suo Asinus.

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NOTE

CARONTE

73

lino bianco i giorni fausti e con uno nero i giorni nefasti cfr. PERS., Sat., 2, 1. Che l’uso risalisse ai Cretesi è accennato da HOR., Carm., 1, 36, 10: «Cressa ne careat pulchra dies nota» («affi nché al giorno non manchi un segno cretese»).

Il metodo della dialettica consisteva appunto nell’impostare correttamente le divisioni e le defi nizioni.

74

Nei Proverbi biblici (17, 11) si legge una massima analoga: «sempre il cattivo è in cerca di litigi»).

75

Attributo proprio del dio Mercurio, i calzari alati, le ali ai piedi.

76

pp. 49-59

84

Subaudire è un raro vocabolo apuleiano usato nel senso di «udire un parlare sommesso» (Met., 5, 19).

Cfr. la riflessione sull’ozio nelle prime battute del dialogo: lì si parla dell’otium onesto come forma di negotium, qui dell’otium come rilassamento dalla fatiche del negotium, su cui insisterà Pontano nel De sermone.

La tradizione mitica faceva di Mercurio il protettore dei ladri (cfr. HOR., Carm., 1, 10. 7-8).

77

87

Affiora un ricordo personale di Pontano, originario dell’Umbria. 78

Pontano si diverte ad inventare neologismi botanici, che ricordano un vezzo scientifico, attribuendoli ad una lingua in uso fra i morti. Qui halatiles deriva da halo («spirare fragranza»). Anche l’aggiunta di un aggettivo che indica la specie (ferrugineae, «di color rosso cupo») fa parte del vezzo botanico. 79

La curiosità di Caronte mette in evidenza la stramberia dei nomi botanici nell’aldilà.

80

Questo nome è ricavato dal verbo albico (o albicor), che i poeti usano per indicare il biancore prodotto dal riflesso della luce su una superficie umida: cfr. Umida albicantis loca litoris (CAT., 62, 87), prata canis albicant pruinis (HOR., Carm., 1, 4, 4).

81

Roratilis è neologismo, ricavato da roro (versare rugiada); Plinio e Apuleio hanno roratio, che significa «caduta della rugiada».

82

È fatto derivare da moereo («versar lacrime»). Il vocabolo boccacciano qui usato nella traduzione non corrisponde a quello latino inventato da Pontano, ma ne evoca il diminutivo e la leggera sfumatura ironica. Il nome ricorda il dolore di Apollo per aver fatto morire involontariamente Giacinto, da lui amato (OV., Met., 10, 162-219). Cfr. PONTANO, Lyra, VIII 19. 83

Per l’uso latino di segnare con un sasso-

85

Tardiusculus è una forma di diminutivo attestata nei comici.

86

Uomo al servizio di un magistrato.

88

Si rivolge al dio Mercurio, cui la tradizione mitica attribuiva per la sua abilità l’invenzione delle arti (cfr. M ARZIANO CAPELLA, Le nozze di Mercurio e Filologia), identificandolo con la figura mitica di Ermete Trismegisto, nome greco del dio egiziano Thot, al quale si attribuivano scritti ermetici e in particolare il Corpus Hermeticum e l’Asclepius, tradotti da Marsilio Ficino e divenuti nel Rinascimento il fondamento dell’Ermetismo, dottrina delle verità occulte e della loro interpretazione. 89

Si riferisce certamente al più funesto e famoso dei terremoti che colpirono il regno di Napoli, quello del 5 e e 30 dicembre del 1456. Ne tratta Giannozzo Manetti iniziando il trattato De terraemotu dedicato ad Alfonso il Magnanimo: «Due nuovi e singolari terremoti, serenissimo principe, che ebbero la durata di sessanta giorni continuati, sotto i tuoi felici e fortunati tempi, nell’anno 1456 dell’era cristiana, si produssero a metà dell’inverno» (una ricognizione di molteplici terremoti minori è in S. MONTI, Ricerche sulla cronologia, in Studi su G. Pontano, cit., p. 774).

90

Usato da Gellio (2, 23, 3) per ottenere il superlativo con tono esclamativo, oppido quam compare nell’edizione Moravo del Charon nella forma unita, forse in analogia con perquam di cui è un sinonimo e con

1472

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pp. 61-77

CARONTE

altre forme pontaniane quali imprimis, quamprimum, immodum). 91

La cometa periodica di Halley apparve nel giugno del 1456, in concomitanza con l’anno del famoso terremoto.

92

Cfr. De fortuna, I XXXVIII a proposito degli uomini naturalmente fortunati: «fortuna dormientis advigilat» («la fortuna veglia sui fortunati anche quando essi dor mono»). 93

Nel Timone Luciano adopera un argomento simile, quando fa dire al personaggio che la povertà, esercitando a dure fatiche, spinge mediante la necessità a lavorare e a riporre in sé le speranze della vita. Qui è Mercurio che riconosce nella povertà (egestas) la molla dell’azione, ma ricorre anche all’altro argomento secondo cui la conoscenza del futuro come necessario toglierebbe agli uomini la volontà di agire. Questo argomento viene discusso nel Caronte di Luciano, dove Mercurio dice che la conoscenza del tempo della morte toglierebbe agli uomini ogni slancio di agire, considerando come positiva la speranza, anche se vana, mentre Caronte rimprovera agli uomini la vana speranza, un tema per altro ripreso nel Charon (cfr. supra, II 3). 94

L’argomento sarà riproposto e discusso da Pontano nel De fortuna (II 21, III 6-7) e nell’Aegidius (VIII 46-57) a proposito della possibile identificazione fra fato e fortuna, quando la fortuna è concepita soprattutto come dipendente dalla non conoscenza del futuro da parte di chi ne è coinvolto.

95

Le scuole universitarie di fi losofia, di teologia e di scienza, dove predominava la dialettica aristotelica.

96

Le feste in onore della Magna Mater, la dea Cibele, a cominciare dal 4 aprile.

97 98

HOR., Epist., 1, 2, 14.

Pituita è la forma classica, che indica la malattia dei gallinacei consistente nell’ispessimento dell’epitelio della lingua.

NOTE 99

La lezione contorsit, che porta tutta la tradizione, è smentita dalla forma degli altri verbi correlati, anche se non è improbabile in Pontano una tale irregolarità, o l’intenzione di distinguere un caso molto ipotetico da un caso consueto e quindi sentito come reale.

100

Si riferisce agli ex voto donati alle chiese dai fedeli per aver ottenuto una grazia e qui ricondotti alla superstizione.

101

Il giorno di san Martino ricorre l’11 novembre.

102

Descrive una versione del gioco popolare e antico della «cuccagna», che si svolgeva nelle piazze in giorni di festa.

103

Cfr. PLUTARCO, Ant., 70, dove si narra che il famoso misantropo invitò gli ateniesi, che volessero impiccarsi al fico che egli aveva nella sua casa, a farlo subito perché lo avrebbe spiantato per costruirsi un’altra casa, dando anche notizia della sua sepoltura, e delle lapidi apposte. Vissuto alla fi ne del secolo V a.C., aveva usato male le sue ricchezze e si era ridotto in miseria; la sua misantropia è famosa per il dialogo di Luciano a lui intitolato e per il ricordo di Cicerone (Am., 87, Tusc., 4, 25, 27).

104

Il raro aggettivo carnificius, non carnificinus, è presente in Plauto (Most., 55); quaestum facere carnificium equivale a «fare il mestiere del carnefice, del boia».

105

Adinvenio è un raro composto, per il semplice invenio.

106

Ricavato da recutitus (re – cutis – itus), che significa «circonciso», recutiri significherà «essere circonciso» e si riferisce all’uso ebraico della circoncisione.

107

Cratete di Tebe, già nominato (vd. supra, V 15).

108

L’appellativo di cynicus, derivante della setta fi losofica cui apparteneva, deriva da κύων («cane»). Cfr. supra, V 14. Diogene Laerzio (Le vite dei filosofi, 6, 40) racconta che Platone lo aveva chiamato «cane», e che egli rispose: «Giustissimo; infatti io torno

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NOTE

CARONTE

sempre da quelli che mi hanno venduto». Pontano presenta in maniera stravagante e ironica un Diogene che rifiuta l’appellativo preferendo quello di «pescecane».

e vivere in povertà. Era un modo di evitare di soccombere alla fortuna. Pontano insiste invece sul suo disprezzo del danaro come esempio di vita infelice che rende infelici gli altri.

109

Pontano allude anche qui a un aneddoto su Diogene narrato da Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, cit., riducendone il senso al ricordo di un’importuna stravaganza (ma cfr. L. MONTI SABIA, Un ignoto codice, in Studi su G. Pontano, p. 966, che fa valere la differenza fra «bipedem pennatam» [gallina] della princeps e «bipedem pennatum» [gallo] della prima redazione testimoniata ms.). In effetti l’aneddoto raccontava che Diogene aveva portato nella scuola di Platone un animale pennuto a due zampe, dopo averlo spennato, per dimostrare errata la defi nizione platonica dell’uomo come «bipede senza piume». Anche la stravagante facezia del consiglio dato a Diogene da parte di Platone di esercitarsi nella scuola dei gladiatori, giacché mostrava di avere muscoli adatti, e il sillogismo con cui Diogene si scarica dalla punizione riservata agli uomini, essendo un cane, arieggiano il passo del biografo greco, stravolgendolo in mere battute per dileggiare il cinico. 110

Di un incontro fra Alessandro e Diogene, che viveva in una botte, aveva ancora raccontato Diogene Laerzio, senza questi risvolti farseschi e volgari che si adattano alla figura del fi losofo nel contesto infernale. La volgarità serve a ricordare con disprezzo le moderne bombarde. Ancora un riferimento ironico alle moderne armi da fuoco ci sarà nel poemetto fi nale dell’Antonius (Sertorius, vv. 547 sgg.). 111

Interturbo è un composto usato dai comici e dalla tarda antichità. 112

Uso anomalo del participio passato expiscatum in senso passivo (il verbo è attestato come deponente).

113

Diogene Laerzio racconta (Le vite, 6, 86-93) che Cratete cinico fu convinto da Diogene a gettare in mare tutti i suoi averi

pp. 79-87

114

L’avarizia nel senso classico di brama dei beni terreni è attribuita tradizionalmente al clero e allo Stato della Chiesa, come la litigiosità partigiana che favorisce la tirannide, di cui si parla in seguito, era considerata congenita al sistema comunale.

115 Reguli venivano denominati i baroni o i signori di territori minori all’interno del Regno. 116

Si riferisce all’occupazione della Grecia da parte dei Turchi in seguito alla caduta di Costantinopoli (1453).

117

Il breve tragitto fra l’Epiro, la moderna Albania, e la Puglia sarà infatti attraversato da un’armata turca dopo quasi quindici anni; la caduta di Otranto in mano dei Turchi e la cosiddetta guerra di Otranto, alla quale parteciperà anche Pontano, è del 1480-81.

118

Regione illirica tra l’Istria e la Dalmazia. I Turchi avevano dunque già raggiunto i confi ni dell’Istria.

119 Nel De fortuna Pontano insisterà sulla costanza delle rivoluzioni celesti e sulla diversità e imprevedibilità degli eventi. Il concetto era raffigurato nella Commedia dantesca (Inf., VII) con la ruota della fortuna che gira costantemente, ma apportando effetti diversi, soprattutto nell’avvicendamento di regni, la translatio imperii, cui qui si allude. 120

I nomi dei grammatici sono immaginari, ma in Pedanus si può ravvisare la medesima radice di «pedante»; vedremo come il nome venga, ancora scherzosamente, collegato al poeta Tibullo, nato a Gabii da una famiglia che aveva possedimenti nella zone di Pedo, fra Tivoli e Preneste. Manicellus è stato identificato (cfr. E. PERCOPO, Vita di G. Pontano, p. 225) con Antonio Mancinelli (1452-1505), pedagogo e grammatico, che insegnerà nel-

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pp. 87-91

CARONTE

NOTE

le Studium Urbis dal 1486 al 1490-1491, ma aveva partecipato con un suo commento all’edizione virgiliana del 1471 e studiò anche Donato e i Distica Catonis, chiosò le Elegantiae di Lorenzo Valla redigendone anche una versione scolastica e ottenne la stima di Pomponio Leto (Cfr. R. SABBADINI, A. Mancinelli, saggio storico letterario, Velletri, 1878 e la voce del Diz. bogr. d. Italiani, redatta da C. MELLIDI (vol. 68, pp. 450-453).

erudita, dà una versione degradata della vicenda epica, trasformandola in una vicenda parimenti mitica, ma di livello comico.

121

Queste prime parole ricalcano, nel ritmo, il primo endecasillabo di un carme di Catullo («Fhaselus ille quem videtis, hospites», 4, 1).

122

Simulacrum (immagine di una divinità o di un personaggio illustre) per umbra vuol essere un elevamento di tono, forse anche ironico, da parte di Mercurio: si tratta di un volgare grammatico.

123 Uso raro del supino in funzione fi nale: espressione plautina. 124

Il cadus è un recipiente, un tipo di orcio, per il vino; cfr. VERG., Aen., 1, 195.

131 Era uno dei figli di Nauplio, re dell’Eubea e ritenuto inventore delle lettere. Anche in questo caso la notizia mitica assume una veste faceta. 132

La lettera ψ è traslitterata nella stampa secondo la lettura latina. Pontano negli autografi non usa le lettere greche, che vengono generalmente supplite dall’editore.

133

Litterator ha un’accezione negativa rispetto a litteratus, e designa il grammatico pedante.

134

Ancora un nome di persona inventato, ma con la radice nau di «nave», per dimostrare l’informazione minuta e vana del grammatico.

135

Ironia sulla preoccupazione del grammatico di insistere sulla veridicità della testimonianza.

136

Altro tipo di vaso per conservare il vino, fornito di due manici.

Ermes, corrispondente al latino Mercurio, era figlio di Maia, a sua volta figlia di Atlante, quindi nipote di Atlante (cfr. HOR., Carm., 1, 10, 1: «Mercuri, facunde nepos Atlantis»). Il grammatico sfoggia le sue conoscenze mitologiche e letterarie.

127

137

125

Il re siculo che accolse i Troiani in viaggio per il Mediterraneo nel racconto di Virgilio.

126

Il sextariolum è un piccolo vaso, boccaletto, contenente una misura di liquido equivalente a circa mezzo litro.

128

Il grammatico si vanta di conoscere perfi no il nome del vinaio di Enea, che Virgilio ovviamente non nomina. Il nome è coniato sulla base della radice greca di «vino» (οἶνος).

129

Matematico greco del II sec. a.C., Ipparco di Nicea è famoso per la precisione con cui ha calcolato la durata dell’anno in 365 giorni e sei ore, e si è avventurato nel calcolo della distanza della terra dalla luna.

130

VERG., Aen., 7, 1-4. La storiella del grammatico che confuta la notizia virgiliana con un altro esempio di presunzione

In realtà Orazio era figlio di un coactor, ossia un esattore delle pubbliche aste, come si ricava dalla biografia oraziana di Svetonio. Famoso è invece l’elogio del vino da parte di Orazio.

138

Si riferisce al ben noto incipit del De bello Gallico («Omnis Gallia divisa est in partes tres») e alla oscillazione di tris-tres, che si trova nei testimoni dell’opera.

139

Il carrus, donde carro in volgare, è un veicolo proprio dei Galli, citato da Cesare; currus è la carrozza usata dai Romani, con cui si denominava il carro trionfale.

140

In Tibullo (1, 6, 82) propriamente senex era detto in generale, non in riferimento ad una vecchietta (anicula).

141

La tradizione vuole che Lucrezio fosse

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NOTE

CARONTE

affetto da follia a causa di una bevanda afrodisiaca (poculum amatorium).

re con equità la posizione pontaniana di fronte agli eccessi normativi, si veda come nell’Antonius il Panormita critichi i rilievi fatti a Virgilio, eppure non manchi di osservare la scarsa purezza del latino adoperato da uno straniero come Macrobio e riprovi le correzioni lessicali, morfologiche e sintattiche subite a Roma dal personaggio di Suppazio, non per l’intransigenza da cui pervenivano, ma perché fondate sulla scarsa conoscenza della latinità. Sui limiti della fi lologia di Pontano, che nell’Actius fa prevedere una sorta di criterio stilistico, vd. qui la Nota introduttiva e la parte del testo dedicata all’etimologia, che fa ricordare questa scena del Charon, e che rivela la diffidenza pontaniana per l’accanimento grammaticale, nonostante un sostanziale interesse verso la scienza grammaticale.

142 LUCR., 5, 717 («né è possibile che si vada muovendosi in assenza di luce»). In realtà potis è aggettivo indeclinabile. In luogo di quia, trasmesso da tutta la tradizione nota, il quod della citazione pontaniana potrebbe considerarsi la lezione del testo di cui disponeva Pontano, o indotta dal riferimento al corpus celeste di cui si sta parlando. 143

Cioè avrebbe dovuto usare una bacchetta o una sferza (ferula), non un ramo d’ulivo (oleagina virga), ma si riferisce ovviamente all’uso lessicale di virga per ferula, che sarebbe impreciso.

144

Si diceva che Mercurio fosse nato in una caverna sul monte Cillene, a sud dell’Arcadia. Il grammatico sfoggia ancora le sue conoscenze mitologiche. La risposta di Mercurio, che si rivolge al grammatico come «dio d’Arcadia» ha un senso ironico, connesso con la fama della regione greca come terra di pastori e di asini (nel dialogo Asinus sarà richiamata questa fama che aveva la regione, quando il personaggio Pontano impreca contro l’asino ingrato e lo manda al diavolo «con tutta l’Arcadia»).

145 Anche grammatista assume un significato denigratorio al posto di grammaticus, ed ha un senso ironico il fatto che Teano si dichiari da se stesso grammatista. Un’accezione negativa ha anche il successivo grammaticunculi, diminutivo non attestato nella tradizione. L’individuazione, in un luogo della polemica fra Poggio e Valla e nella consuetudine delle schermaglie grammaticali attestate anche nell’ambiente dell’accademia napoletana, dello spunto da cui muoverebbe questa farsesca parodia (cfr. la nota di G. Ferraù, Pontano critico, Messina, 1983, pp. 13-14), mette in evidenza da parte di Pontano certamente la condanna della rigidezza normativa, ma si direbbe soprattutto dell’esagerazione e distorsione del metodo da parte dei pedissequi seguaci del Valla. Per valuta-

pp. 91-93

146

In effetti addiscere in Cicerone ha un senso particolare («imparare di più e meglio»). Ma si veda come, per ostentare un linguaggio quotidiano, Pontano faccia usare ai suoi personaggi verbi composti di uso comico o tardoantico (cfr. precedentemente adinvenio).

147 Anche l’uso dell’infi nito perfetto invece del presente fa parte del latino colloquiale, che Teano usa, e Pontano forse ammette contro il giudizio dei puristi. 148

In effetti l’uso dell’imperfetto in questo caso è più vicino alla consuetudine del volgare; ma il latino ammette sia il perfetto, sia il piuccheperfetto, sia l’imperfetto.

149

Grammatico latino dei secc. V-VI d.C., autore di Institutiones grammaticae, e qui citato come autorità somma nella disciplina.

150

Ora la lite si riaccende sulla contrapposizione di forme entrambe plausibili e testimoniate, l’imperfetto e il piucheperfetto del verbo servile.

151

Le esclamazioni, sull’ipotetica scena, dovrebbero essere accompagnate dalle botte, se Mercurio invita subito i contendenti a non venire alle mani, fornendo una sorta di didascalia per la scena.

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pp. 93-97

CARONTE

NOTE

L’etimologia qui ricordata è quella che dà ISID., Orig., 16, 3, 1. La successiva etimologia di petra, che sarebbe femminile perché la pietra subisce il calpestio del piede, è invece fantastica: Isidoro annota solo che è parola greca.

ma analoga a hello -onis («sprecone») e simili, ma risente anche del suffisso volgare nella formazione degli accrescitivi.

152

153

Tale verbo (che significa propriamente «star per cadere») può considerarsi sinonimo di labor -eris (scivolare). L’intervento di Mercurio è ambiguo, tanto da farlo attribuire al grammatico da M. Campodonico (vd. PONTANO, L’Asino e il Caronte, Lanciano, Carabba, s. d., p. 125). Il dio in effetti corregge l’etimologia isidoriana dicendo un’altra sciocchezza, perché difficilmente attribuibile all’autore. Pontano sembra voler confutare la stessa presunzione di defi nire le etimologie con superficialità, non sembra voler attribuire a Mercurio la sua esatta versione. Comunque l’intervento di Mercurio ha l’aria di essere una sua riflessione, rivolta a se stesso o al pubblico secondo un modulo che è già nella commedia plautina.

154

Gli Osci erano gli antichi abitatori, gli autoctoni, del territorio napoletano.

155

Così era conosciuta la zona in cui aveva casa Pontano, ora Via dei Tribunali, n. 362 (cfr. F. FERRAIOLI, Il palazzo del Pontano in Via dei Tribunali, in «Il rievocatore», 39, 4-7, 1970, pp. 1-11). È il primo accenno al luogo dove si svolgevano le riunioni dell’Accademia e dove s’immaginano ambientati i dialoghi di Pontano. Il Panormita è ricordato qui come ancora vivente. 156

In realtà in latino sono attestati sia curso -as, sia cursito -as, ma di regola, mentre curso è normalmente fatto derivare dal supino di curro -is (cursum), la formazione di cursito è anomala, perché presuppone un supino cursitum. Ma quello del grammatico è ovviamente un cavillo. 157

Epistolutia, non attestato nella tradizione latina, corrisponde al diminutivo volgare «epistoluzza» o «epistoluccia».

158

Grammatico -onis non è attestato; è for-

159

Severino Boezio, il consigliere del re goto Teodorico e autore del De consolatione philosophiae.

160

In realtà nemmeno la Boezia esiste, a meno che non si voglia mettere sulla bocca del grammatico un altro errore, Boezia per Beozia (regione della Grecia).

161 In latino redibeo senza h, invece di redhibeo, quantunque composto di habeo, respige l’h (secondo PONTANO, De aspiratione, f. 12v-13r) perché la d, inserita per evitare lo iato, non ammetterebbe l’aspirazione dopo di sé. 162

La precisazione che si trattasse di un alto prelato compare nella stampa, ma non nel ms. Cuomo, che presumibilmente contiene una redazione precedente. Più che all’intenzione, da parte di Pontano, di nascondere il nome di un personaggio determinato (cfr. L. MONTI SABIA, Un ignoto codice, in Studi su G. Pontano, p. 970), che sarebbe strano non si rivelasse in una prima stesura, si potrebbe pensare alla voluta insistenza sulla colpevolezza delle alte cariche ecclesiastiche. Si veda infatti come un patriarca, pontefici e cardinali, un antistes sono citati intenzionalmente come sacerdoti di un certo grado corrotti (cfr. supra, IV 11, VIII 29-30, infra XII 49).

163

Animula è un raro diminutivo, ma presente in PLAUT., Cas. 134, Men., 361, in analoghe situazioni erotiche.

164

Ricalca il volgare «cocollato», vestito con la «cocolla» («saio», «tunica», abito dei monaci); «cucullato» assumerà in seguito, come in Giordano Bruno, un senso dispregiativo. Cucullus è già nel latino classico un cappuccio di foggia antica.

165

Il verbo, che significa soltanto «comportarsi alla maniera dei Greci», assume evidentemente un senso peggiorativo in rapporto con ganea, la «bettola» (ganeo è il crapulone). Il cambiare ordine e con-

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NOTE

CARONTE

vento al fi ne di ingannare era attribuito in Masuccio Salernitano al frate ingannatore della novella successivamente imitata.

la ricercata versione latina si distingue per certi particolari dal racconto in lingua volgare.

166

169

Plauto usa più volte ventriosus, ma i codici plautini, almeno per quel che riguarda il ms. autografo di Pontano (Vindob. Lat. 3168), hanno ventricosus, riportato come notevole in margine dallo stesso Pontano (R. CAPPELLETTO, La “Lectura Plauti” di Pontano, pp. 90-91) e da lui usato anche nel De sermone. Sulla possibilità che si tratti comunque di una scelta pontaniana cfr. F. Tateo, in Sul latino degli Umanisti, p. 60.

167

Cfr. De aspiratione, f. 24v, che rimanda a Varrone per la vocale aspirata di onus. 168

Il racconto riprende la famosa novella di frate Alberto (Boccaccio, Decameron IV 2), riducendola nella misura, ma insistendo sull’aspetto erotico, e blasfemo, come la versione latina permetteva. Allo stesso Boccaccio si era rifatto Masuccio Salernitano nella terza novella, dedicata proprio a Pontano, della sua famosa raccolta (vd. Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di S. S. Nigro, Bari, Laterza, 1979, pp. 19-30). La novella era fra le prime quattro composte e divulgate fra il 1450 e il 1457, mentre la raccolta dell’intero Novellino, con la relativa dedica ai personaggi della corte aragonese, fu messa insieme negli anni 1470-1471, quindi dopo la composizione del Charon, ma prima della sua pubblicazione. In Masuccio il raggiro operato dal frate sviluppa con maggiori particolari il racconto boccacciano nella parte che riguarda la malignità dell’ingannatore e la vanità della ragazza che subisce l’inganno offrendovi il destro e prendendovi gusto, e rispetto al Boccaccio indugia di più sui tratti erotici e blasfemi (c’è perfino la celebrazione di una messa). In Pontano i particolari erotici, con la progressione dell’approccio e la sua versione quasi rituale, diventano il corpo del racconto, dove il motivo satirico antifratesco è esplicitato nell’ambigua battuta finale sul cinismo e sull’ipocrisia dell’assoluzione (che ha oltre tutto una sfumatura faceta), e

pp. 97-103

Il composto collaudare è verbo piuttosto frequente in Terenzio e Plauto.

170

In latino capiunda per capienda; la forma arcaica si adatta al linguaggio rituale che usa il religioso in questa occasione.

171

È l’unico riscontro puntuale che possiamo trovare, al di là della somiglianza complessiva della scena, con le parole di Masuccio: «postosi dinanzi in ginocchioni».

172

Dei diminutivi qui usati, per un effetto erotico, castigatulus non è attestato, brachiolum è in CAT., 61, 181, virguncula con valore erotico è in Petronio (Satyricon 18, 20). 173

La metafora erotica sulla bocca della giovane sembra più un eufemismo che un’allusione oscena, quale viene recepita invece da chi ascolta il racconto. Nell’Asinus, V 28, l’insistenza sulla metafora, il contesto e i vocaboli usati («vorrei arare il campo con te di giorno insieme con la tua mogliettina») hanno un’intenzione maliziosa e oscena.

174

Che i giudici dell’aldilà assolvano in base all’assoluzione data da un ecclesiastico immorale, è un pesante giudizio sulla dottrina e sulla prassi stessa dell’assoluzione e remissione dei peccati, che costituirà il senso della prima scena dell’Actius, espresso dal personaggio di Sannazaro in forma anch’essa dissimulata come una facezia (solo i preti, a pagamento, possono assicurare il posto in paradiso).

175

L’ombra, dopo aver preso il «credimi» di Caronte per «accreditare», «dare», scherza sull’ambiguo senso di ludere, «ingannare» e «giocare», quindi con i dadi o con le carte, e mostra di prendere il talis di Caronte come riferimento ai «dadi» usati nel gioco.

176 Le parole alium («altro») e seres (da sero -is, con supino sertum, «intrecciare», della stessa radice di sermo) sono comica-

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pp. 103-115

CARONTE

NOTE

mente confuse con halium («aglio») e sero -is («seminare»). Il gioco verbale, elemento consueto nella farsa, soprattutto nel caso dei due verbi equivoci solo nel presente indicativo, è ovviamente intraducibile in volgare, anche utilizzando, come abbiamo fatto, il verbo italiano «asserire», che fonicamente richiama quello latino.

connessione col discorso iniziale sulla fortuna, cfr. PONTANO, Dialoghi, a cura di L. Geri, p. 247.

177

L’ombra fi nge di aver sentito Martem («Marte») per artem («arte»). Il verbo exerceo si adatta anche al vocabolo «Marte», metafora di «guerra» dal nome del dio.

178

La forma del verbo rapio viene presa per l’ablativo plurale di rapa, nome di un ortaggio comune.

179

Ablativo di sus -suis («porco»), confuso col suae precedente.

180

Doveva trattarsi in effetti di un attore comico o di un buffone, che si prendeva gioco dei prìncipi presso i quali viveva e dai quali era mantenuto. Ma lui, facendo appunto il buffone, fi nge di prendere la parola Istrio per l’aggettivo di Istria (Istrius, «istriano»).

185

La segnalazione del luogo plautino dal quale certamente dipende Pontano («muscast meu pater, nil potest clam illum haberi», PLAUT., Merc., 161; cfr. CAPPELLETTO, La “Lectura Plauti”, p. 92) non risolve la difficoltà di questo passo, dove il personaggio confessa di essere fastidioso come una mosca, provvisto di aculei, quali sono le sue parole, e di essere considerato tale da tutti: una tautologia, non presente nel testo plautino («mio padre è una mosca, non è possibile che si nasconda»). Si potrebbe avanzare l’ipotesi che si tratti di un personaggio difficilmente identificabile dal nome di «Mosca». La storia fiorentina conosce il personaggio famoso di Mosca dei Lamberti, il seminatore di discordie che Dante pone nell’Inferno e che corrisponde ai caratteri di questa ombra. Un carattere del genere, che parla per creare zizzania, è incluso da Pontano fra i contentiosi (De sermone, I XVIII).

181 Nel De magnificentia, 7 e 9 (I libri delle virtù sociali, 1999, pp. 176-181) Pontano mostrerà come sia risibile da parte di un borghese o di un principe non sufficientemente provvisto di danaro edificare dimore sontuose.

186

182 L’avverbio nunquam è usato in modo anomalo, per rinforzare l’interrogativa num; corrisponde al mai intensivo del volgare nell’interrogativa diretta («non … forse», «forse non … mai»).

187

183

L’ombra usa il vocabolo regula (la legge, la norma), non regulus, che era nella domanda. La risposta è tale da equiparare re e baroni a «norme» in senso negativo, quasi «leggi opprimenti, legami». Il dativo plurale latino è identico per entrambi i generi.

184 Per la possibilità, in effetti difficile, di identificare in Alberti questo personaggio mediante puntuali riscontri, data la genericità della dottrina stoica professata, e la

L’edizione Moravo porta cabronibus, corretto nel corso della tradizione secondo la forma classica (si tratta della vespa crabro). Ma la forma del tardo latino, carabro -nis, consiglia di conservare la lezione anomala o di correggerla in carabronibus. Si riferisce alla pratiche magiche di trasformazione della materia.

188

Nel testo latino i due cori delle anime dannate e delle anime innocenti si diversificano per lo schema ritmico non in tutto perspicuo, sia che lo riteniamo fondato sulla metrica latina (cfr. Haig Gaisser, p. 361, n. 68), sia che, come ci sembra più probabile, vada ricondotto alla metrica accentuativa della lirica mediolatina in uso nei canti ecclesiastici, dove il numero delle sillabe può variare in ragione del ritmo musicale. In entrambi è evidente la bipartizione di ogni verso, con una cesura al mezzo, ma nel primo i versi sono costituiti generalmente da due quinari di cui il primo è o sdruc-

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NOTE

ANTONIO

ciolo, o piano, o sostituito da un quaternario equivalente. Nel secondo è regolare la coppia di quaternari nei primi tre versi di ciascuna strofa, e la composizione del verso conclusivo equivalente ad un endecasillabo con il primo emistichio sdrucciolo come i versi analoghi del primo coro.

5

pp. 131-135

Allude in genere all’ironia adoperata da Socrate nei dialoghi platonici, quando mette in difficoltà i portatori di opinioni che egli intende confutare, facendolo riconoscere allo stesso interlocutore. Ma qui si allude anche al carattere probabilistico dei dialoghi socratici, nei quali spesso manca una vera e propria soluzione univoca del problema.

6

Antonio 1

Il personaggio del «forestiero» è presente in alcuni dialoghi platonici e ricorrerà in alcuni dialoghi di Torquato Tasso. Qui l’interesse per il Portico di Antonio da parte di un forestiero siciliano si deve forse all’origine siciliana di Antonio Beccadelli, detto il Panormita per la sua nascita in Palermo.

2

Pietro Golino, detto il «Compatre generale», nato forse nel 1431 a Napoli, autorevole amico di Pontano e membro della sua Accademia. Fu nominato da Ferrante luogotenente, fu presidente della Sommaria, morì nel 1501. Pontano lo ricorda nella dedica del libro II dei Tumuli e in Parth., I XXVI, Tum., II XIX, Hendec., I IX, II XVIII.

3

È significativo che la prima battuta del dialogo costituisca un senario giambico, che è il metro dei dialoghi delle commedie latine. La lingua di Plauto e di Terenzio è a fondamento delle parti colloquiali dei dialoghi pontaniani.

4

L’Accademia (Porticus, a somiglianza di quella platonica) diretta da Antonio Beccadelli, il Panormita, che si riuniva sotto i portici in via dei Tribunali (cfr. Charon) vicino alla casa di Pontano, come si rileva alla fi ne del dialogo. L’abbandono del luogo all’aperto da parte degli accademici, alla fi ne del dialogo, per rifugiarsi in casa di Pontano situata nelle vicinanze, potrebbe celebrare la trasformazione dell’Accademia Antoniana in Accademia Pontaniana, come fu poi denominata l’Accademia napoletana.

Il Panormita era morto nel 1471, che è ovviamente il termine post quem della composizione del dialogo (nel Charon il Panormita sembra essere ancora vivo), mentre è inutile voler stabilire se Pontano intendesse far risultare la scena del dialogo avvenuta a ridosso della morte del maestro, essendo stato scritto, come fanno pensare alcuni indizi, alcuni anni più tardi.

7

Su questo argomento, che implica l’etica, Pontano scriverà i trattati che sviluppano le virtù aristoteliche, ma in particolare alla fortuna (fortuitos casus) dedicherà il trattato, concluso nel 1501, De fortuna, in cui l’interpretazione teologica qui adombrata viene, se non propriamente respinta, velata dal proposito di discutere il problema razionalmente, senza riferire a Dio ogni evento (cfr. TATEO, La prefazione originaria, 2008). 8

L’argomento era stato già trattato in Charon VIII e tornerà in Aegidius VIII, dove per bocca di Giovanni Pardo viene esposta la tesi secondo cui la volontà è libera in ciò che riguarda soltanto l’animo.

9

Il pellicano (in latino propriamente pelecanus) è un uccello divenuto simbolo religioso della caritas per la sua consuetudine di nutrire i figli col suo sacrificio, e quindi di Cristo crocifisso; qui potrebbe rappresentare, in versetti probabilmente costruiti immaginariamente sul modello degli scongiuri popolari, il santo protettore di Polignano, cittadina pugliese sulla costa adriatica che ha ancora attualmente come patrono il santo raffigurato come guerriero che uccide il demoniaco drago. Ma la vicinanza con paelex, da cui paelecatus, che si riferisce al concubinaggio,

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pp. 135-137

ANTONIO

NOTE 16

farebbe pensare ad un epiteto scherzoso, allusivo del furore erotico provocato dal verme velenoso, cui san Vito porgerebbe il rimedio. Sulla possibilità di interpretare il nome come «scacciacani» (pellere, canes) cfr. PONTANO, I dialoghi, a cura di L. Geri, p. 280). Il testo latino è una serie di dimetri, trocaico il primo, giambici gli altri, sul modello dei ritmi della lirica mediolatina, conclusa da un esametro. Il primo dimetro corrisponde ad un ottonario volgare piano (cfr. i cori fi nali del Charon), gli altri a settenari volgari sdruccioli.

17 Pontano gioca sull’affi nità fonica di Osci, gli antichi Opici stanziati nell’odierna Campania, e obscaenus (o obscenus), che si riferisce all’impudicizia (da ob e caenum, «sporcizia»). Ma gli antichi Osci erano pur famosi per la licenziosità delle loro rappresentazioni popolari.

10

18

Si riferisce alla ben nota siccità, di cui soffre la Puglia al tempo della canicola, forse sulla base di HOR, Epod., 3, 16 («vapor / siticulosae Apuliae»). Comunque Pontano si riferisce ad una zona meridionale più ampia della regione attuale che porta quel nome, secondo la tradizione antica e medievale.

La traduzione dell’esclamazione latina per Priapum cerca di riprodurne il senso in un’espressione dialettale moderna. Il nome del dio della fecondità alludeva infatti ai genitali di cui il dio nelle raffigurazioni era ben dotato.

Era proverbiale il comportamento dei seguaci della scuola cinica, per la quale la virtù consiste nel vivere secondo natura, ossia nella condizione di vita più elementare: di qui la fama di non provar vergogna nel mostrarsi nudi (cfr. nel Charon l’incontro con Diogene e Cratete).

19

Il motivo umanistico della stoltezza degli uomini, che raccoglie l’atteggiamento classico nei confronti del volgo, già compare in Charon VIII.

Medico dotto, capostipite di una famiglia catanese di chirurghi, specializzati nelle operazioni al naso, al labbro e all’orecchio con lembi prelevati dalla cute del braccio. Viene ricordato iperbolicamente come il dio della medicina, Esculapio; ma l’iperbole e l’antonomasia hanno una connotazione ironica.

13

Il morso della tarantola, insetto della specie dei ragni diffuso nell’Europa meridionale, fu ritenuto nella tradizione popolare la causa di talune manifestazioni fisiopariche e di un diffuso fenomeno patologico chiamato «tarantismo». La cura era affidata alla pratica di musiche e balli caratteristici specialmente della Puglia meridionale, anche contemporanea. Del sostantivo admorsus si ha la sola testimonianza di SYMM., Ep., 1, 15.

20

14

22

11

Nel testo latino il Compatre continua a riferire il pensiero del Panormita con discorso indiretto.

12

La scelta del verbo cupio per dire «volere», dipende dal senso erotico che si vuol dare agli effetti della tarantola, in linea con la tradizione, ma anche dalla ricerca di un bisticcio (cuperet-caperet).

15

Il tardo latino conosce concubinatus e concubitalis, non concubitarius.

L’affluenza nel napoletano dei mercanti catalani, già iniziata sotto la dominazione angioina (cfr. l’invettiva dantesca contro l’avidità dei Catalani e il favore accordato loro dal re di Napoli, Dante, Paradiso, VIII 77) si era intensificata sotto gli Aragonesi.

21

Una polemica simile contro la corruzione venuta nel Regno dalla Spagna è nel De educatione di Antonio Galateo (cfr. B. CROCE, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, Laterza, Bari, 1968, pp. 112-125). Quello che Pontano chiama convictus era in realtà un rito cruento descritto da Erodoto (Storie, 4, 70-71), col quale gli Sciti sancivano il giuramento: quelli che stringevano il giuramento e i più illustri al loro seguito bevevano da una coppa nella quale era stato versato il sangue dei contraenti.

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NOTE

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Lo stesso Pontano ricorderà il rito nel De conviventia (proemio e cap. VII).

31

23

Non risulta questo uso cartaginese, a meno che Pontano non si riferisse genericamente agli arabi dell’Africa settentrionale e avesse notizia di un «giuramento del ripudio» presente nel diritto musulmano (cfr. Encyclopedia of Islam, Leiden, Brill, 1960-2005, si vd. Kasam di J. Pedersen).

24

L’apostrofe del viandante può riferirsi semplicemente al fatto che coloro che si rivolgevano a lui erano seduti, o erano abitualmente seduti, cioè sedentari; ma sessores è usato da CAT., 37, 8 («ducentos irrumare sessores») forse con riferimento alla pratica delle prostitute di sedere davanti al bordello (cfr. M ARZ., 4, 50, 2; Priaperia, 36, 5).

25

Si ripete sintatticamente la forma della battuta precedente, con un leggero effetto comico per la forzatura grammaticale: l’ombra non è propriamente, come il sole rispetto al caldo, causa del fresco. Avrebbe dovuto dire in umbra. La traduzione non può rendere la sfumatura. Ma anche nello «star freschi» può nascondersi un’allusione scherzosa.

26

Propriamente «son tutti bagnati», ma il verbo in FRONT., De fer., 3, 6 (A225), significa metaforicamente «essere ubriaco».

27 La locuzione redde vicem è presente in testi poetici (OV., Am., 1, 6, 23; Met., 14, 36); qui l’ordine delle parole obbedisce ad un’esigenza di ritmo prosastico (itaque redde vicem equivarrebbe all’emistichio di un quinario). 28

Il bisticcio verbale, tipico dello stile comico, riprende invero un polyptoton dello stile familiare di Cicerone (Epist. ad Fam., 15, 4, 7).

29

Si ricava da ciò che è detto successivamente che secondo una leggenda i galli generassero un serpente ogni sette anni.

30

Tipica locuzione dei comici latini per dire «è spacciato».

pp. 137-143

La tradizione riporta concordemente exciperet, riferendo il verbo (se non è un errore) alla presunzione della donna di onorare il re più di ogni altro, eccedendo nel gesto di sollevare appena il vestito, che vedeva fare (id agere). Previtera corregge in exciperent, riferendo quo maxime modo alla proposizione precedente. 32

Il vocabolo, nuovo in latino e qui usato in senso dispregiativo, è attestato nella forma grecizzare fra Quattro e Cinquecento nel volgare dei canti carnascialeschi, solo in seguito nell’italiano colto. La desinenza arcaica -is per -es nell’accusativo plurale, in uso anche nel tardo latino, appartiene al colorito volutamente sostenuto di questo bando del sovrano diretto al popolo. 33 Il vocabolo (nostras, -atis), raro nel senso particolare di «simile a quello della nostra regione», «proprio della nostra regione», «nostrale», si diffuse nel tardo latino nel senso generico di noster. Qui è anche usata la forma dell’accusativo plurale in -is (cfr. nota precedente). 34

«Ottima è l’acqua», Pindaro, Olimpica, 1, 1. Il testo greco, che generalmente Pontano nei manoscritti trascrive con lettere latine, nell’edizione Moravo compare, ma senza accenti.

35 In Retorica 1, 7 (1364a) Aristotele in realtà cita la massima di Pindaro a proposito di un ragionamento sul maggiore o minore pregio di ciò che è raro e di ciò che è copioso e pur importante. 36

È la prosecuzione del testo di Pindaro: «e l’oro sfolgora qual fuoco ardente nella notte più di ogni altra eccellente ricchezza».

37 L’aggettivo graecanicus, usato da Varrone e da Svetonio, ha qui un senso dispregiativo. 38

Il participio suffarcinatus è usato da Apuleio (Metam., 9, 8) nel senso di «ingrassato», e tuttavia Pontano poteva aver presenti i versi plautini che riguardavano i Greci («tum isti Graeci palliati, capite

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pp. 143-149

ANTONIO

NOTE

operto / qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis», PLAUT., Curc., 288289), ma la forma del diminutivo, che accentua il valore comico, è tutta pontaniana.

vo. In HOR, Sat., 1, 8, 46, il verbo è accostato a displodo («displosa sonat quantum vesica, pepedi»), come qui a explodo.

39

Gran consigliere e maestro razionale della Gran Corte di Napoli, affidò il figlio Francesco al Pontano che lo inserirà come interlocutore nell’Actius. Accademico pontaniano, ebbe familiarità col Sannazaro, col Galateo e col Cariteo.

40

Riguardano forse la ricerca di uno stile non aulico, né oratorio, la forma contratta del passato remoto ripetuta a distanza ravvicinata con un effetto di omoteleuto, ma anche l’ordine delle parole, con l’oggetto (me) dopo il verbo.

41

La nostalgia per i tempi del re angioino Ladislao, figlio e successore di Carlo III di Angiò-Durazzo che tenne il Regno di Napoli dal 1400 alla morte (1414), rappresenta un fatto interessante durante la dominazione aragonese. Ciò riguarda ovviamente uomini anziani come il Poderico, ma non è un caso che certa intellettualità umanistica torni nostalgicamente alla tradizione angioina dopo la caduta degli Aragonesi, come Iacopo di Costanzo, che nella sua Storia del Regno di Napoli insiste sulla cortesia dei tempi angioini: il riferimento era soprattutto a Ladislao passato nella memoria come perfetto cavaliere.

42

In luogo di plenioris morbo l’edizione Moravo portava laevitate (cioè «debolezza» intestinale), ma un emendamento del Summonte, attribuito allo stesso Pontano in calce all’edizione dei tre dialoghi successivi pubblicati nel 1507, sembra corrispondere meglio al senso dell’aneddoto, ricalcando Celso («morbus, qui in intestino pleniore est», 4, 21, 1), in cui laevitas si riferisce invece alla dissenteria (2, 1, 8 e 22; 2, 7, 28).

43

Al linguaggio scurrile appartiene il latino expederet, verbo composto di nuova formazione da pedo, quest’ultimo usato da Orazio e da Marziale, ma come intransiti-

44

Ecquae, insolito femminile di ecquis, forma rara, usata al maschile e in funzione di pronome interrogativo, non di aggettivo, da Cicerone per esprimere stupore o incredulità (Part. orat., 64; leg., 2, 58). Comunque ecquis è ben presente in Plauto.

45

Forma usata prevalentemente dai comici latini, ma in funzione interrogativa; qui equivale a paululum.

46

Forma contratta per levaverit: propriamente «dopo esserti spalmata»; il vocabolo è ricercato per ottenere il bisticcio con laverit (cfr. Charon, XII).

47

Città spagnola dell’Aragona, che ebbe stretti rapporti con il Regno di Napoli (il recente papa Callisto III, 1455-1458, e successivamente Alessandro VI ne erano originari). Qui indica probabilmente la provincia di cui Valenza è capoluogo.

48

L’argomento del distico ricorda il tema mitico di Titone non spregiato da Aurora nonostante gli anni, la canizie e le rughe: PROP., 2, 18, 5-8: «Quid mea si canis aetas candesceret annis, / Et faceret scissas languida ruga genas? / At non Titoni spernens Aurora senectam […]». 49

Anche questo elogio della donna per essere degna di Giove o pari a Giunone a sua volta degna di Giove ricorre in Properzio (1, 13, 29; 22, 6).

50

In Virgilio rasserenare il cielo è opera di Giove («coelum tempestatesque serenat», Aen., 1, 255); ma la funzione intransitiva del verbo di nuova formazione (asserenasco), già segnalato da R. Sabbadini nella Storia del Ciceronianismo, avrà un corrispondente italiano in «asserenare» usato in senso assoluto da L. Alamanni (vd. BATTAGLIA, GDLI, I, p. 759), che pur imita Poliziano («’l ciel tutto asserenò d’intorno»). 51 CIC., div., 1, 24, 9, narra che dopo la presa di Sagunto parve ad Annibale in so-

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NOTE

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gno di ricevere l’ordine di assalire l’Italia, poi parve a lui di vedere «beluam vastam et immanem» devastare ogni cosa e di ricevere dallo stesso dio, che ordinava di procedere subito, la spiegazione: «vastitatem esse Italiae». Un racconto simile ricorre in LIV., 21, 22, 8 («vastitatem Italiae esse»), che parla di un serpente, laddove Cicerone parlava di una belva «circumplicata serpentibus», e attribuiva la notizia a Sileno, studioso della vita di Annibale.

CALENTII Poemata, a cura di M. de Nichilo, Bari, Adriatica, 1981; S. Foà, si vd. Calenzio Luigi, in DBI, vol. 51, pp. 743-745.

52

La historia si oppone all’immaginazione del somnium, ed equivale a «realtà».

53

Due verbi composti, di nuova formazione, alla maniera dei comici (far rumore con i denti, emettere suoni come nitriti; ma hinnio è «nitrire» e hinnus è il mulo).

54

Verbo di nuova formazione fatto derivare da titio -onis, «tizzone», come il prossimo è fatto derivare da candelabrum. 55

Il verbo exosso, già presente nella lingua latina, viene qui adoperato certamente in un significato diverso dal nostro «disossare» (o «spolpare», togliere la lisca al pesce), corrispondente al valore del verbo latino. Ma in effetti ex equivale talora il nostro dis-, e ha spesso anche un valore intensivo (exardesco).

56

Deierare è un raro composto di iuro («giurare»), ma è usato prevalentemente dai comici latini.

57 Traduce una forma di infi nito futuro passivo, rara nel latino classico. 58 Elisius Gallutius, ossia Luigi Calenzio, nato a Fratta in Terra di Lavoro, compì a Napoli gli studi giuridici; precettore di Federico, il futuro ultimo re di Napoli, lo seguì a Taranto, dove nel 1485 scrisse una Laus Tarenti. Partecipò alla guerra d’Otranto. I suoi opuscoli furono pubblicati a cura di A. Colocci nel 1503 presso J. Besicken, morì fra il 1502 e il 1503. Cfr. L. MONTI SABIA, L’humanitas di Elisio Calenzio alla luce del suo epistolario, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli», 11, (1964-1968), p. 175-251; ELISII

pp. 149-151

59

Nato a Venezia agli inizi del sec. XV, intraprese la carriera ecclesiastica, fu a più riprese a Roma, presso Niccolò V, Pio II e Paolo II; nel 1455 seguì Teodoro Gaza a Napoli, dove scrisse un’orazione per esortare Alfonso alla guerra contro i Turchi, ma vi ritornò nel 1471, in cerca di una più stabile sistemazione. In questi anni frequentò, come dimostra proprio questo dialogo, le riunioni dell’Accademia, e Pontano lo ricorda anche negli Hendec., II III. Ma la sua inquietudine, la ricerca di una sede favorevole e le polemiche in cui frequentemente incorreva (a Roma si scontò con Lorenzo Valla) lo indussero ad una varia dimora (Bologna, Firenze, Pisa). S’impegnò in traduzioni dal greco ed ebbe fama di esperto in astrologia; aveva infatti frequentato il poeta Basinio da Parma alla corte di Sigismondo Malatesta, e a Napoli Lorenzo Bonincontri, cultori di astrologia. L’amicizia con Pontano fu dovuta anche a questo comune interesse. Cfr. R. SABBADINI, A. C., in «Nuovo Archivio Veneto», n. s. XXXI (1916), pp. 376-433, e R. CONTARINO, Contrario Andrea, in DBI, vol. 28, pp. 537-339. 60

La forma arcaica con l’h del verbo aveo («star bene»), usato raramente e solo nelle formule di saluto, ha probabilmente sulla bocca del Compatre un’inflessione aulica, dato il contesto della sua battuta.

61

La formula usata (opulenter salvum) non era consueta e quindi soggetta alla critica dei grammatici.

62

Ossia privo di scrupoli grammaticali.

63

Nel testo latino l’ordine delle parole è del linguaggio quotidiano.

64

Il Compatre sottolinea la particolarità del diminutivo catelli, con cui Antonio avrebbe inteso distinguere i piccoli cani litigiosi e attaccati alle briciole, dai «cuccioli» (catuli) e dai «cagnolini», il cui diminutivo ha più di solito un senso vezzeggiativo.

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pp. 151-159

ANTONIO

NOTE

65 La forma contratta admoris per admoveris è del linguaggio familiare.

10-12), per cui limitava al «bene dicere» il compito dell’oratore.

66 Il latino conosce il verbo oscito, oscitor, («sbadigliare»), il sostantivo oscitatio («noia»), l’avverbio oscitanter («in modo indolente»), da cui potrebbe derivare oscitantius (forma regolare sicuramente usata nell’Actius), l’aggettivo oscitans («indolente»); la lezione oscitatius, tramandata dalla princeps, presupporrebbe un valore attivo di oscitor («far sbadigliare»), dal quale proverrebbe un oscitatus col significato di «che fa sbadigliare», «noioso», e oscitate («in modo da far sbadigliare»), di cui osctatius è il comparativo.

77 All’efficacia di mostrare al giudice e al pubblico le cicatrici dell’imputato, come argomenti della persuasione, si riferiscono sia CIC., De or., 2, 28, 124, sia lo stesso QUINT., Inst. 6, 1, 21. Pontano rileva che tali argomenti fanno parte integrante dell’orazione, in quanto actio, una delle cinque parti dell’arte oratoria, e non avrebbero efficacia senza la dictio.

67 Cfr. Q UINT., Inst., 10, 1, 109 («in quo totas vires suas eloquentia experiretur»). 68

Ibid., 10, 1, 112.

69

Ibid., 2, 16, 7 («divina M. Tulli eloquentia»).

70

Ibid., 2, 15, 5; cf., CIC., Inv., 1, 5, 6.

71

BOEZIO, De differentiis topicis, IV, (Migne, PL, 64, 1208). 72 Gli entimemi (enthymemata) sono anch’essi dei sillogismi, ma non completi, perché sottintendono l’enunciazione dei principi universali su cui si fonda il ragionamento sillogistico. 73

QUINT., Inst., 2, 15, 38.

74

«Officium autem eius facultatis videtur esse apposite ad persuasionem, fi nis persuadere dictione», CIC., De or., 1, 5, 6.

75

Oblatratoribus: nei comici latini è attestato solo il femminile oblatratrix (P LAUT., Mil., 681); oblatrator è attestato in Sidonio Apollinare, autore cristiano di Epistole, non sappiamo quanto presente a Pontano. 76

Questa critica alla teoria che faceva della persuasione il fi ne dell’oratoria, dal momento che si persuade anche con altri mezzi, era mossa principalmente da Quintiliano (Inst., 2, 15, 6-9), il quale però aggiungeva l’altra secondo la quale, essendo l’oratore esposto alla fortuna, potrebbe non raggiungere quel fi ne (ibid.,

78

CIC., Orat., 15, 47: «non enim declamatorem aliquem de ludo aut rabulam de foro, sed doctissimum et perfectissimum quaerimus» («non andiamo infatti alla ricerca del declamatore di scuola o dell’avvocatuccio di tribunale, ma dell’oratore coltissimo e dotato di ogni perfezione»). La distinzione era tuttavia anche in Quintiliano, che distingueva anche lui, propriamente, la declamazione dalla vera orazione (Quint., Instit. orat., 10, 2, 12).

79

Riprende letteralmente il testo ciceroniano con qualche variante: «inter officium et fi nem hoc interest, quod in officio, quid fieri, in fi ne quid effici conveniat, consideratur», CIC., De inventione, 1, 5, 6. Il «compito» riguarda ciò che debba fare, il «fi ne» ciò che debba cercar di realizzare. A Pontano interessa ridurre la distanza fra Quintiliano che insiste sul compito («bene dicere») e Cicerone che aggiunge la precisazione del fi ne, perché intende chiarire che si tratti solo di una maggiore o minore adeguatezza della defi nizione.

80

Aristotele distingueva, in riferimento all’etica, fra il fi ne ricercato per se stesso e il fi ne che rimanda a sua volta ad un fi ne ulteriore, per poi defi nire il fi ne ultimo, il sommo bene (Eth. Nic., 1, 2). Il «bene dicere», considerato come fi ne per sé, quindi sommo, non terrebbe conto del fi ne specifico dell’oratore, che è quello di persuadere il giudice.

81

QUINT., Inst. orat, 2, 14, 2.

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NOTE

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82

che Cicerone usa con refertus il genitivo, ma raramente, come gli scrittori posteriori. Pontano si riferisce probabilmente alla posizione rigida dei grammatici sulla base dell’evidente preferenza espressa da Valla.

Ibid., 2, 15, 5, già precedentemente citato.

83

CIC., Inv., 1, 5, 6, già precedentemente citato.

84 QUINT., Inst., 8, 3, 11-13 (quod non insidietur codd).

92

85

Il sostantivo labyrinthus e l’aggettivi labyrintheus traslitterano il vocabolo greco. Il sostantivo di nuova formazione, labyrinthiplexia (la forma labirinth- della princeps deriva da una consueta incertezza pontaniana nell’uso della y (vd. successivamente sybilla (altrove sibilla) invece di sibylla. 86

La dottrina platonica, quella pitagorica di Virgilio e quella cristiana di Dante concepiscono l’espiazione e la redenzione fi nale dell’anima, ma quella pitagorica anche il ciclo degradante della trasmigrazione. L’eccezionalità della sorte dei grammatici consisterebbe, ironicamente, nell’impossibilità di espiare la loro colpa. Anche nel Charon, II 3, Pontano aveva immaginato una punizione simile per il tiranno condannato a non poter entrare nemmeno nell’inferno per espiare, come le anime degli insepolti secondo la concezione pagana.

87

Per la defi nizione del concetto giuridico di status vd. CIC., Top., 25, 93, e Part., 29, 102, e QUINT., Inst., 3, 6, 4. Status equivale a constitutio (CIC., Inv., 1, 8, 10) citata successivamente. 88 LIV., 3, 63, 10 (erroneamente Pontano cita il libro quarto). 89

Ibid., 5, 28, 4 (la princeps porta iuste con tutta la tradizione).

90

Ibid., 3, 68, 1.

91

In realtà la tradizione grammaticale (cf. il Lexicon di Forcellini) riconosce raro, ma non inesistente l’uso del genitivo con impleo. Lorenzo Valla in Elegantiarum latinae lnguae III XXXIII, a proposito di impleo e refercio, assieme a vocaboli analoghi come plenus, impletus, vacuus, mostra solo esempi di costruzione con l’ablativo, semplice o preceduto da de; e tuttavia ricorda

pp. 159-173

CIC., Inv., 1, 8, 10.

93

QUINT., Inst., 3, 6, 4-5. Tutto il cap. 6 è dedicato allo status. Sulla questione che vede schierati da una parte i sostenitori di Cicerone, dall’altra quelli di Quintiliano, cfr. qui la Nota introduttiva. 94 QUINT. Inst. orat., 3, 6, 6. Il suono non sarebbe l’urto dei corpi, ma l’effetto di quell’urto («non enim sonus est confl ictio, sed ex confl ictione»). 95

La differenza specifica nella logica aristotelica è ciò che caratterizza una specie distinguendola da tutte le altre appartenenti allo stesso genere. QUINT., Inst., 5, 10, 57, spiega il rapporto fra genere e specie ricorrendo alla famosa defi nizione dell’uomo animale mortale e razionale. 96

QUINT., Inst., 3, 6, 10.

97

Ibid., 3, 6, 11; CIC., Top., 92.

98

QUINT., Inst., 3, 6, 16.

99

Ibid., 3, 6, 20.

100

Lo usano fi losofi e teologi al posto di res. Cfr. L. VALLA, Repastinatio totius dialecticae cum fundamentis philosophiae, vol. I, 2, 2-16; ID., Repastinatio dialectice et philosophie, ed. G. Zippel, Padova, Antenore, 1982, vol. I, 11-15. 101

Vocabolo di nuova formazione, composto con il verbo carpo («criticare»), come il successivo virgiliomastiga, composto con il verbo mastigo («frustare», corrispondente al greco μαστιγόω), che allude a un’indegna violenza da parte dei critici di Virgilio. I vocaboli sono comunque formati secondo l’uso dei comici e intendono mettere in ridicolo i grammatici, forse anche richiamando nella sferza un oggetto che fa parte del mondo servile (mastigia è in Plauto il furfante che merita la frusta). Ma cfr. SERV. ad Verg. Egl., 2, 23.

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pp. 173-179

ANTONIO

NOTE

102 Claudio Claudiano, vissuto alla fi ne del terzo secolo d.C., nativo forse di Alessandria, greco di lingua ma poeta in lingua latina di liriche d’occasione e poemetti, scrisse fra l’altro un poemetto mitologico, al quale Pontano qui si riferisce (De raptu Proserpinae, 1, 163-165) sul mito di Proserpina rapita in Sicilia da Plutone, dio dell’Ade.

è usato in latino solo in riferimento al cavallo, quando accorda le zampe per trottare. Il poemetto sulla guerra di Sertorio, che chiude l’Antonius, accoglie ripetutamente glomero e agglomero in relazione alla palla di fuoco (glomus) che anima tragicamente lo scontro (vedi vv. 569, 614, 625, 655).

103

109

VERG., Aen., 3, 570-577.

104

Aulo Gellio, erudito latino del secondo secolo d.C., raccolse in venti libri, appunti e citazioni desunte dalla lettura di testi fatta nelle sere d’inverno in una villa dell’Attica (Noctes Atticae). Pontano si riferisce ai versi che, stando a quanto racconta Gellio, secondo l’opinione del «fi losofo» Favorino, in effetti un sofista del I sec. d.C. che ebbe come uditore il grammatico latino, sarebbero stati solo abbozzati, più che compiutamente composti da Virgilio. Il discorso di Elisio con molta fi nezza critica riconosce invece in quello che sembra un abbozzo uno stile particolarmente attento al sublime della rappresentazione artistica. Il giudizio su quei versi di Virgilio corrisponde a quel che dice Macrobio, scrittore latino di origine greca, vissuto fra il quarto e quinto secolo d.C., nei Saturnales, 5, 17, 7.

105

Pindaro, poeta greco (520-440 a.C.), autore di odi in onore dei vincitori ai giochi panellenici (Olimpiche, Pizie, Istmiche, Nemee) descrive l’eruzione dell’Etna nelle Pizie (1, 40).

106 Sonitus è il suono fragoroso che proviene da un urto, da uno scoppio, da qualcosa che si frange rumorosamente. Ma per indicare la «rottura» che provoca il fragore Pontano userà fractio, che è vocabolo del latino ecclesiastico. Al rumore della fractio rimanda anche confragosus (propriamente «scabroso»), usato nella rara accezione di sinonimo di fragosus. 107 Il significato di glomeratio è ricavato da glomus, glomerare, e quindi riferito alla formazione di un «glomo», di una «palla», di un gomitolo di fumo; mentre il vocabolo

108

GELL., 17, 10, 18.

In realtà le ragioni attribuite a Gellio sono quelle che Gellio attribuiva a Favorino, e Pontano ricalca nel discorso di Elisio il testo di Gellio.

110 Allusione all’Ars poetica di Orazio (Ars., 359: «quandoque … dormitat Homerus» («talvolta Omero sonnecchia») e al titolo del libro di Gellio. 111 Si riferisce alla figura retorica dello zeugma, più evidente nei versi citati successivamente, dove succinctus regge correttamente parva trabea, ma non è appropriato a quirinali lituo, per il quale bisogna sottintendere un altro verbo e un diverso complemento (ad es. quirinalem lituum gerens). Qui candente favilla, che appare come complemento di qualità di nubem, in realtà sarebbe oggetto di un sottinteso emittentem. 112

VERG., Aen., 7, 187-188.

113

Nome coniato su fabarius, il villano produttore di fave.

114

Il vocabolo usato nella tradizione latina per l’esplosione del sottosuolo era eruptio (da erumpo), CIC., Nat., 2, 38, 96; ma anche il raro e postclassico eructatio valeva per i fenomeni del sottosuolo. La forma usata da Pontano eructatio, eructare (nella traduzione di Pindaro) è influenzata dall’uso metaforico virgiliano di eructo nel caso della lava e dell’arena (VERG., Aen., 3, 576; Georg., 1, 70). Cfr. invece nel Sertorius le forme tramandate di rupto ed erupto, che potrebbero accogliersi come frequentativi, tuttavia non attestati, di rumpo ed erumpo. 115

Gellio, 17, 10, 9, riporta i versi dell’ode pindarica, Pyth., 1, 21, ma non la traduzione che Pontano qui attribuisce a lui, men-

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NOTE

ANTONIO

tre cita i versi virgiliani (Aen., 3, 570-577) che andrebbero comparati a quelli di Pindaro e che parrebbero solo abbozzati: cfr. Il dialogo di Antonio, p. 114, n. 60). Anche Macrobio (Sat., 5, 17, 7), nel comparare i versi di Pindaro con quelli di Virgilio, osserva da parte di quest’ultimo un tentativo più che una resa perfetta dello spettacolo vulcanico.

126 Vocabolo arcaico e postclassico (da defeco o defaeco) riferito al perfezionamento, alla rifi nitura.

116 Il raro vocabolo exuperantia (propriamente exsuperantia), usato da Cicerone per indicare la superiore virtù malvista dal popolo (Tusc., 5, 36, 105) perviene forse a Pontano dallo stesso Gellio, che accosta exuperantia e fiducia (audacia), 4, 18, 1, e l’attribuisce allo splendor e all’altitudo, 14, 1, 12. Sul senso che assume nella poetica di Pontano cfr. qui la Nota introduttiva.

128

117

Glomeratio è un neologismo che designa l’effetto della formazione di glomi.

118 La lira e la tuba figurano come simboli dei due generi rispettivi della lirica e dell’epica. Succino, «accompagnare col canto», riferito preferibilmente al canto pastorale, si distingue da persono, che riguarda il canto alto dell’epica. Ma qui il verbo assume probabilmente il significato originario di «accordarsi»: il canto di Virgilio non si accorda con quello di Pindaro, il quale non abbandona mai il registro lirico. 119

Il poeta epico per eccellenza dei Latini, Virgilio.

120

Entrambi i vocaboli exanhelo e fumigatio, fatti derivare rispettivamente da anhelo e fumigo per accrescere il senso meraviglioso dell’immagine, non sono attestati. 121

In realtà Virgilio usa l’accusativo greco cratera (Aen., 3, 525) per craterem.

122

Si riferisce alla metafora di «bocca» usata per cratere del vulcano.

123

VERG., Georg., 1, 472-473.

124 I D., 125

Aen., 3, 575-577.

Il vocabolo defecatus per «raffi nato» compare nel commento di Servio a VERG., Georg., 1, 110.

pp. 181-189

127

VERG., Aen., 3, 578-582. La lezione motet (cong. da moto) ricorre in alcuni codici virgiliani; altrove ricorrono le lezioni mutat, motat (entrambe segnalate da Servio) e mutet, quest’ultima accolta nelle edizioni correnti. Gellio aveva accusato Virgilio di essere eccessivo e gonfio (insolentior … tumidior), più di Pindaro, che pur era stato giudicato eccessivo e gonfio. Termine usato tradizionalmente per indicare un malore del corpo; qui ovviamente è variante, con una sfumatura più dispregiativa, di tumor effettivamente usato in riferimento allo stile.

129

In latino il verbo corrispondente prorumpo è usato eccezionalmente come transitivo. In effetti gli storici chiamati in causa lo usano ma in senso neutro (CAES., Gall., 5, 15; TAC., Hist., 4, 34). Che Pontano, chiamando in causa gli storici, tenesse in mente l’esempio, pur rarissimo, di GELL., 12, 22 (prorumpit per prorumpitur), si può ipotizzare dal momento che aveva forse presente il capitolo di Gellio in cui si raccontava di Sertorio e della cerva a lui cara. 130 Il raro sostantivo (attactum) viene usato per dire come il fuoco sfiorasse le cose quasi senza toccarle. Lo aveva usato Virgilio (Aen., 7, 350), per dire che il serpente di Aletto si insinuava nel petto di Amata nullo attactu, senza essere percepito. 131

Gellio, 17, 10, 14-15 aveva detto «crasse et immodice», «duriter et ἀκύρως», cioè senza autorevolezza. 132

Si riferisce alle branche principali della fi losofia teoretica, che riguarda la conoscenza mediante i sillogismi, e la fi losofia pratica, che riguarda il fi ne morale dell’azione.

133

Si tratta della colata lavica del 1301, ricordata da Pontano sia nel De bello Neapolitano, sia nel Meteororum liber, vv. 998 sgg. (cfr. S. MONTI, Ricerche sulla cronologia, in

1488

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pp. 189-193

ANTONIO

NOTE

Studi su G. P., pp. 797-801). I cento anni o poco più sono un’indicazione approssimativa e non possono servire per la datazione dell’Antonius o per la determinazione del tempo del presunto svolgimento del dialogo, essendoci altri più evidenti, sia pur sempre approssimativi, punti di riferimento (cfr. Il dialogo di Antonio, 2015, p. 124, n. 79).

tività o un atto generalmente riprovevole (latrocinium, lenocinium).

134

144 Cfr. Aen., 7, 483-486, 496-497. Dopo aver parlato del cervo caro ai Latini, Virgilio racconta come Ascanio, per desiderio di gloria, lo ferisse con una freccia.

Sono i famosi faraglioni.

135

Liquefactio è una rara forma del tardo latino corrispondente al termine volgare.

136

Il vocabolo moderno «bombarda» è tradotto, per analogia con la funzione che ha la bombarda di lanciare palle di fuoco, in tormentum, lo strumento con cui si lanciavano frecce o palle di pietra. Un’allusione è già nel Charon.

137 Il composto exaudio, che significa propriamente «udire chiaramente», «porger l’orecchio per udire» è usato per il semplice audio. 138

Carlo II d’Angiò, o Carlo III d’AngiòDurazzo, re di Napoli. Le ipotesi formulate, anche su un eventuale confusione fra i due da parte di Pontano, non portano a nulla di più che alla data presunta cfr. supra, n. 133.

139 MACR., Sat., 5, 17, 2. Cfr. VERG., Aen., 7, 475-510, che narra la futile causa della guerra, l’uccisione del cervo caro a Silvia e la rivolta dei coloni. Per Macrobio lo stesso Virgilio, accorgendosi della futilità della causa, avrebbe esecrato la reazione popolare. 140 Il sostantivo praesumpto -onis, assente nell’antichità, ricalca forme di peggiorativo. Praesumptor -oris è usato da Tertulliano (Poen., 6) in riferimento al «presuntuoso». 141 Sobrius («non ubriaco» e quindi «saggio») è usato in senso antifrastico («tutt’altro che saggio») con ironico riferimento anche al fatto che nelle feste saturnali che Macrobio celebra il grammatico si è ubriacato. L’ironia continua con acutissimus. 142 Neologismo coniato sull’analogo praedominium, con un suffisso che indica un’at-

143

L’espressione, che ricalca quella latina, che ha originariamente il senso di «massacrare», è usata da L. Pulci per «far preda» riferito ai falconi, e da A. Caro proprio in riferimento agli atti di pirateria (BATTAGLIA, GDLI, II, p. 783).

145

Pontano usa un vocabolo del tardo latino (abactor) nel senso specifico («ladro di bestiame») annotato da Isidoro (Orig., 10, 14), ma implicito anche nel verbo classico abigo, da cui il moderno «abigeato». 146

Aen., 7, 287 («saeva Iovis coniunx»).

147

Ibid., 7. 325 (ciet codd.).

148

Aletto; cfr. Aen., 7, 341 («Gorgoneis Allecto»).

149

Moglie del Re Latino, madre di Lavinia (cfr. Aen., 7, 343), favoriva le nozze della figlia con Turno, re dei Rutuli.

150

Cfr. Aen., 7, 630-636 («Tela novant, Atina potens Tiburque superbum»). Atina era città del territorio laziale.

151

Ibid., 7, 647 sgg. Mezenzio, guerriero degli Osci, fiancheggiatore di Latino, si oppone ad Enea.

152

Ricalca l’antica massima: «Parva saepe scintilla magnum excitavit incendium»; cfr. Lucrezio, 5, 609 («videmus accendere ex una scintilla incendia passim»), e Curzio Rufo, 6, 3, 11 («parva saepe scintilla contempta excitavit incendium»). Ma la massima, ripresa da Dante (Par., I 34) ha proprio favilla, come in Pontano. Il momento più drammatico del Sertorius si ispirerà al diffondersi dell’incendio alimentato dal vento (vv.566-573). 153 JUV.,

7, 70-71, nel richiamare la necessità che il poeta sia fornito di quanto ha bisogno, ricalca lo stesso VERG., Aen., 7, 447 («tot Erinys sibilat hydris»).

1489

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NOTE

ANTONIO

154

165

Ibid., 5, 815-824, 881-883.

166

HOM., Od., 10, 1 sgg.

Si riferisce sia alla scelta dei vocaboli, sia alla parlata, sia alla scrittura. Pontano ribalta il giudizio di Macrobio, rimandandolo ai modelli della buona prosa latina.

155

M ACR., Sat., 5, 17, 4.

156

Queste frasi censurate di Macrobio ricorrono nella prefazione al libro I dei Saturnales (4, 7, 11, 12) e in un passo successivamente citato (5, 13, 31-32).

157

M ACR., Sat., Prefazione, 11.

158

Pontano scherza sulla somiglianza fra Saturnalia e satur, che hanno origini diverse, satus, la semina di cui Saturno era dio, e satur («sazio»). 159

CIC., Tusc., 1, 1, 1 («sapientius invenisse» aveva detto Cicerone riferendosi alla filosofia, ossia «qualcosa di più profondo»).

160

Si attribuivano a Orfeo, mitico cantore collocato alle prime origini della poesia antica, una Teogonia rapsodica, probabile compilazione dei secoli II-III d.C., frequentemente citata dai neoplatonici, e un rifacimento degli Argonautica di Apollonio Rodio, quindi invenzioni mitologiche ritenute anteriori ad ogni altro modello.

161

La leggenda di Castore e Polluce, i cosiddetti Dioscuri, figli di Zeus che sotto forma di cigno si unì con Leda, annoverava una versione nella quale i due erano nati da due uova generate da Leda e contenenti l’uno Polluce ed Elena, l’altro Castore e Clitennestra, perché Leda si era unita anche con Tindaro.

162

L’Idra di Lerna, il mostro nato da Tifone ed Echidna, fu vinta da Ercole in una delle sue famose fatiche.

163

Durante la famosa impresa degli Argonauti Giasone si fece aiutare da un esercito di guerrieri nati dai denti di un serpente, che egli conservava nell’elmo, e una volta seminati, si trasformarono in altrettanti uomini armati (cfr. OV., Met., 7, 128-140).

164

HOM., Il., 18, 468-616. Efesto, su richiesta di Teti, madre di Achille, fabbricò le nuove armi per l’eroe.

pp. 193-199

167

VERG., Aen., 4, 176-177. I versi virgiliani che defi niscono il montare della Fama sono seguiti, in M ACR., Sat., 5, 13, 31, da quelli che dovrebbero esserne il modello e che in Omero si riferiscono alla dinamica della contesa («essa dapprima piccola sorge, ma dopo nel cielo / fissa il capo e per terra procede»): HOM., Il., 4, 442-443. 168

Macrobio, Saturnales, 5, 13, 31-32. Cfr. HOM., Il., 4, 442. Il testo del passo di Macrobio è citato da Pontano con qualche variante rispetto a quello tradizionale, in incrementum succrescere era fra la espressioni non pure fatte notare poco prima da Pontano. 169 VERG., Aen., 2, 605-606 («namque omnem, quae nunc obducta tuenti / mortalis hebetat visus tibi et umida circum / caligat, numem eripiam»). 170

L’accostamento di Giulio Cesare ed Alessandro Magno risale alle Vite parallele di Plutarco, mentre la frase attribuita ad Alessandro riprende lo scrittore latino della storia di Alessandro, CURZIO RUFO, 3, 8, 7: «fama bella stare», «la guerra è in funzione della fama». Ma in un altro luogo parla direttamente il re: «fama enim bella constant», Ibid., 8, 8, 15.

171

Si riferisce all’esito della seconda guerra punica.

172

Maometto II, sotto il quale la conquista turca si spinse fi no alla sponda orientale dell’Adriatico. Non vi è alcun accenno alla guerra otrantina (1480-1482), che scosse notevolmente il Regno di Napoli, e il sultano appare citato come vivente, mentre la sua morte favorì la fi ne dell’impresa turca in Italia. Questa circostanza può assumersi come un termine ante quem della composizione di questo dialogo.

173

Teodoro Gaza, umanista greco stabilitosi in Italia nel 1438, e in frequente relazione con la cultura napoletana, morì nel 1475. La notizia favorisce ovviamente

1490

Pontano.indb 1490

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pp. 199-207

ANTONIO

NOTE

la datazione del dialogo Antonius a pochi anni dopo questa data.

potrebbe essere sanata emendando in non absque).

174

HOM., Il., 5, 4.

186

175

VERG., Aen., 9, 732-33.

187

176

Ibid., 10, 270-271 (ac vertice per a vertice). 177

Cfr. M ACR., Sat., 5, 13, 35.

178

Ibid., 5, 13, 36.

179

VERG., Aen., 8, 620.

180

Cfr. VERG., Aen., 8, 616 («arma sub adversa posuit radiantia quercu»). 181

M ACR., Sat., 5, 13, 36 e vd. VERG., Aen., 8, 620.

182

VERG., Aen, 7, 785-788. .

183

Ibid.., 7, 783-784.

184

M ACR., Sat., 5, 13, 38. Cfr. Aen., 1, 254256; 4, 222 sgg.; 9, 104-106. 185

VERG., Aen., 10, 101-103 (quiescit: silescit codd.). In realtà Macrobio faceva un paragone con Omero e rilevava che mentre il poeta greco aveva collocato i versi sull’autorità di Giove che fa tacere gli dei nel primo libro, Virgilio lo colloca nel decimo (sero, ossia tardi), dopo aver detto per ben tre volte che per rispetto di Giove l’Olimpo taceva. Ma lo stesso Macrobio aveva detto che l’intervento autoritario di Giove, il quale poco prima aveva parlato senza alcun ossequio del mondo («qui locutus sit paulo ante sine ullo mundi totius obsequio»), avveniva dopo lo scontro fra le dee, avvenuto paulo ante il suo intervento autoritario per far tacere gli dei. Ciò avveniva invece in Omero all’inizio del poema. Al cavillo di Macrobio Pontano risponde con un cavillo, quasi che il critico latino cogliesse Virgilio in contraddizione e non tenesse conto della diversità delle circostanze. Egli però, spostando le parole di Macrobio ed eliminando il «paulo ante», fa dire a Macrobio qualcosa che pare errato e che nel testo pontaniano suona come una contraddizione, «qui loqueretur sine tumulto et absque mundi obsequio» (che

Ibid., 10, 112-115.

Caio Giulio Igino (64 a.C.-17 d.C.), autore di Fabulae. Vd. fr. 7 Ferraioli (GELL., 16, 1-5).

188

GELL., 10, 16, 1-5.

189

Gellio in realtà riporta le ragioni addotte dallo stesso Igino contro l’errore che avrebbe commesso Virgilio facendo pronunciare da Enea il nome della città di Velia (Cfr. VERG., Aen., 6, 364-365), colonia fondata dai Focesi nel VI sec. a.C., cioè molto dopo il viaggio di Enea. 190

Si tratta sempre delle accuse rivolte a Virgilio da Igino (fr. 9 Fun.), e riportate da Gellio (10, 16, 11-12), per errori attribuiti alla mancata revisione del poema da parte dello stesso poeta, come la presunta contraddizione fra VERG., Aen., 6, 122, dove Enea, per sostenere il suo desiderio di visitare l’Ade da vivo, ricorda la visita che Teseo fece nell’Ade insieme a Piritoo, tornando sulla terra per merito di Ercole, ed Aen., 6, 617-618, dove la Sibilla accenna al pianto eterno di Teseo nell’Ade. In realtà in Aen., 6, 128-131, la Sibilla, rispondendo ad Enea, si limita a dire della difficoltà di visitare l’Ade da vivi, mentre in 6, 393, Caronte racconta di aver trasportato nell’Ade Teseo e Piritoo senza contraddire l’argomentazione rivolta da Enea alla Sibilla, anzi avvalorando la versione della loro discesa nell’Ade ancor vivi. La confutazione di Igino, svolta da Pontano, che distingue la visita nell’Ade di Teseo dalla sua morte e difende Virgilio dall’accusa di contraddizione anticipa di molto chiose moderne (cfr. F. GIANNOTTI, in VIRGILIO, Eneide, con trad. di A. Fo, Torino, Einaudi, 2012, p. 703). 191

Figlio di Teseo, falsamente accusato presso il padre da Fedra di aver cercato di sedurla, fu punito con la morte per volere dello stesso padre.

192

È sempre Igino che critica Virgilio secondo quanto riferisce Gellio, 10, 16, 14

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NOTE

ANTONIO

(«Item in his versibus errasse Vergilium dicit»), d’accordo con lui. Il personaggio evocato in questi versi con ille è, correttamente, il celebre generale Lucio Emilio Paolo, che nella battaglia di Pidna (168 a.C.), durante la terza guerra macedonica, sconfisse Perseo, detto Eacide perché vantava la discendenza da Achille. Igino, ritenendo che Virgilio avesse inteso riferirsi con ille del v. 838 allo stesso Lucio Mummio (Achaicus), ricordato correttamente da Virgilio ai vv. 836-837 (citati da Pontano successivamente) con uno stesso ille, e che l’Eacide del v. 839 fosse Pirro che aveva combattuto contro Curio Dentato nel 275, proponeva di espungere il v. 839 (ipsumque Eaciden…) come un errore che Virgilio avrebbe eliminato, se avesse potuto correggere fi no in fondo il poema. Mummio, cui Virgilio si era riferito precedentemente, console nel 146 a.C., distrusse Corinto conquistando la Grecia, dove i Romani stabilirono la provincia di Achaia, vendicando Troia, da cui i Romani si sentivano discendenti e celebrò il trionfo sul Campidoglio dopo aver sconfitto gli Achei.

guerra macedonica, e celebrò il trionfo nel 168 a.C.

193

VERG., Aen., 6, 838-840.

194

Della famiglia degli Eacidi, discendente di Pirro figlio di Achille. Nei versi virgiliani l’Eacide è, come si è detto, Perseo, che aveva le stesse pretese di discendere da Achille, e fu sconfitto a Pidna nel 168 da Lucio Emilio Paolo, mentre Igino intende quel Pirro che invase l’Italia vincendo i Romani ad Eraclea, combatté conto Manlio Curio Dentato, console romano, e fu sconfitto a Benevento nel 275 a.C.

195

Il passo riproduce il testo di Gellio, 10, 16, 15-16 con qualche lieve varante (per eosdem homines; eius belli ducem).

196

Andrea Contrario prende atto che Gellio riferisce, senza contestarle, le critiche di Igino alla confusione che farebbe Virgilio tra persone e tempi diversi.

197

Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, vinse Perseo a Pidna nella terza

pp. 207-211

198

PROP., 4, 11, 39-40. La nostra traduzione cerca di rispondere al testo riportato da Pontano (che concorda con il cod. Groninganus, collazionato a Napoli dal Pucci, Vat. Lat. 3273, e sul quale si è riconosciuta la mano di Pontano), il quale collega quique … proavus e considera Achille vocativo. I due versi, che presuppongono «Invoco – parla Cornelia – a testimoni le ceneri degli antenati e…» intendono nominare due antenati di Cornelia, l’uno discendente di Achille, l’altro distruttore della discendenza di Achille, ma la loro tradizione è molto tormentata fi no ad una recente proposta di espunzione per la loro incongruità (ed. P. Fedeli, Bautz, 2005, pp. 1332-1334). L’ed. C. Hosius (Lipsiae, 1932) ha proavi … Achilli / …proavus … Achille», l’ed. D. Paganelli (Paris, 1947) proavi …Achilli /… proavo …Achille, l’ed. E. A. Barber (Oxonii, 1953) proavo … Achilli / … proavo … Achille. 199

Sempre nel libro sesto dell’Eneide, dove Anchise predice la storia romana e le gesta della discendenza di Enea.

200

Fabio Massimo, famoso avversario di Annibale (VERG., Aen., 6, 845); Claudio Marcello (ibid., 855), conquistò Siracusa (212 a.C.) e combatté contro gli Insubri (222 d.C.); gli Scipioni sono il vincitore di Annibale (Africanus) e il distruttore di Cartagine (Aemilianus). 201 VERG., Aen., 6, 836-837. Cfr. supra, n. 192. 202

Ossia i Romani, che figurano come vendicatori di Troia, distrutta dall’esercito greco. Cfr. supra, n. 192. 203

Allude al catalogo dei capi accorsi in aiuto di Enea, contenuto nel libro decimo dell’Eneide, vv. 163-212, e dei re accorsi in aiuto di Turno (ibid., 7, 641-817).

204

Il catalogo delle forze greche che partecipavano alla guerra di Troia è in HOM., Iliade, 464 sgg.

1492

Pontano.indb 1492

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pp. 211-219

ANTONIO

205

Cfr. M ACR., Sat., 5, 15. Pontano mostra la diversità degli obiettivi nell’osservazione del medesimo topos dell’epica.

206

Perché patria dello stesso Virgilio.

207

Cfr. SVET., Jul., 57.

208

Si riferisce all’obiezione di M ACR., Sat., 5, 15, 6-7.

209

Antonio risponde all’obiezione M ACR., Sat. 5, 15, 10-12.

di

210

HOR., Epist. 2, 1, 50-51, raccoglie la voce dei critici che esaltavano Ennio come un altro Omero, nonostante la sua arcaicità («Ennius, et sapiens et fortis et alter Homerus, / ut critici dicunt, leviter curare videtur»).

211

L’equiparazione di Omeo e Virgilio, ciascuno come sommo nella propria lingua, era stata asserita da QUINT., Inst., 10, 1, 85, ed era ripresa da Giorgio Trapezunzio nei Rhetoricorum libri.

212

Nome e cognome di formazione comica, anche per la ripetuta terminazione, che corrisponde al peggiorativo volgare in -accio. Iuratius richiama probabilmente la figura dello Iurator, colui che giura in tribunale, frequente nei comici latini, mentre Suppatius fa pensare ad un composto, per altro non attestato nella tradizione, che rinforza patior («sopportare», «esser paziente»).

213

Superlativo non attestato, palesemente esagerato anche per il polyptoton (cordecordatissime); cordate («saggiamente») è usato dai comici latini; corde uti equivale a sapere, «star bene di mente, di animo».

NOTE 217

Gioca con l’affi nità fonica dei vocaboli (Sena, senile).

218

Pisa, città etrusca, secondo una tradizione si diceva fondata da Pisa, città greca dell’Elide, presso Olimpia.

219

Diversamente che a Siena, dove non era rimasto nulla di antico.

220

Ancora una paronomasia (corium, «cuoio», cor, «cuore»), con l’intenzione di mettere in antitesi la durezza del cuoio, e forse la sua esteriorità, con la qualità contraria, interiore, del cuore. L’antitesi viene ripresa successivamente con l’opposizione fra cordatum e seditiones, odia.

221

Si riferisce alla caduta di Pisa sotto il dominio di Firenze nel 1406.

222

Probabile allusione al famoso «Volto santo», crocifisso in legno che si trova nella navata sinistra del duomo di Lucca. La figura di Gesù, di fattura bizantina, impressa sulle monete di Lucca, ha una barba lunga che farà chiamare «barbone» il conio più grosso che se ne fece nel sec. XVI. Ciò potrebbe spiegare come Pontano abbia parlato di una fattura grossolana. Già Dante aveva citato il Santo Volto in un contesto comico (Inf., XXI 48) nel caso di una similitudine sarcastica.

223

Si riferisce alla festa religiosa dell’8 settembre, durante la quale avveniva l’ostensione del Sacro Cingolo.

224

Si riferisce alla Gallia Cisalpina, il settentrione d’Italia, prevalentemente governato da regimi principeschi.

225

Oppido è un avverbio usato dai comici latini per formare il superlativo degli aggettivi.

Il 26 dicembre 1476 Girolamo Olgiati e Gian Andrea Lampugnani pugnalarono in una congiura il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza.

215

226

214

La formula non ha attestazione antica, ma ricorda una formula di cortesia («come stai», cfr. n. 24); ma l’interlocutore assumerà cor nel suo significato letterale, e opporrà cor («cuore») a «caput» («testa»).

216

Nota il cumulo di superlativi, proprio della cordialità colloquiale.

Immagine biblica del mostro che rappresenta l’avversario del Signore N. T., Apoc., 13.

227

Telamone, famosa città portuale, situata sulla costa della Toscana.

228

Campo dei Fiori, famosa piazza romana, luogo adibito a mercato.

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NOTE

ANTONIO

229

244

Il ponte per antonomasia, quello che porta a Castel Sant’Angelo; già Dante lo cita come luogo rinomato di Roma e affollato di pellegrini.

230

La forma del verbo latino non è perrecto, ma perrepto, frequentativo di perrepo, usato dai comici appunto nel senso di andare in giro per i luoghi della città. Poiché la singolare forma si ripete in seguito (70), si può pensare che Pontano ritenga di usare il frequentativo di pergo, «proseguire».

231

Il sostantivo latino litterator indica il grammatico che insegna gli elementi della grammatica, quindi anche il grammatico modesto ma saccente: vd. GELL., 18, 9, 2 («alter litterator fuit, alter litteras sciens»).

232

Cioè i verbi incoativi in -esco.

pp. 219-225

È molto probabile un riferimento a L. Valla, che nelle Elegantiae, I, 2, 2, scriveva, riguardo a fictio: «frico, frictum, fricatio, non frictio». Ma lo stesso Valla scriveva: «sectio tamen crebrius reperitur, quam secatio».

245

Ma Prisciano riteneva che per ragioni eufoniche («euphoniae gratia») la forma internecio derivasse dalla sottrazione della t, che hanno invece le forme internectio e internecti (Inst., IV 7; Keil, Gramm. Lat., II, p.122). Per questa questione, che andrebbe approfondita in relazione alle fonti, ma che interessa venga ripresa nell’Actius proprio per le implicazioni «estetiche», cfr. TATEO, La nuova frontiera, 2006, p. 32. 246

Cfr. n. 244.

247

234

CIC., Parad. 3.

CAES., Gall. 7, 30. 1. La congiunzione et assume un valore negativo per effetto del neque precedente. Così la congiunzione ac nel passo successivo.

235

VERG., Ecl. 8, 80-81.

248

236

Ibid., 4, 28.

237

COL., 2, 17, 3.

233

L’ablativo. In realtà proprio ocio marcescere è attestato in LIV., 35, 35, 9.

238

PLIN., Hist. 11, 96 (41), 218; «humore serescit» è la lezione accolta da A. Ernout e R. Pépin (Le belles Lettres), contro «frigore serescit» (ed. Rackmann, London, 1938); ma serescit («diventa siero») proviene alle edizioni moderne da E. Barbaro (Castigationes Plinianae, Romae, 1492-1493), laddove i codd. generalmente portavano fervescit.

239

CIC., Phil., 12, 9, [4]. Forse Pontano omette il numero della fi lippica e dà il numero del cap. quale a lui risultava. 240 I D.,

Am., 21, 78.

Ibid., 7, 30, 3; forse il grammatico pretendeva che si dicesse ex contrario, come si legge in CIC., De or., 2, 43, 182.

249

Ibid., 7, 26, 4. Si sostiene la possibilità di usare de con l’ablativo in luogo dell’accusativo dell’oggetto con verbi che significavano «annunciare», «aggiungere», «chiedere».

250

CAES, Gall., 5, 41, 4.

251

Ibid., 5, 3, 5.

252

Ibid., 1, 32, 2.

253

Ibid., 4, 7, 5.

254

Ibid., 6, 5, 4.

255

CIC., Her., 3, 20, 33. Pontano cita tradizionalmente come opera di Cicerone la Rhetorica ad Herennium.

Si riferisce al Senato, organo supremo della Repubblica veneta.

256 CAES., Gall., 5, 44, 1. Essendo due le persone, la regola vorrebbe che ad uno dei due ci si riferisse con uter, e invece è latino corretto usare anche in questo caso quinam.

243

257

241

Velitrae, città dei Volsci, celebrata come patria di Augusto.

242

Terracina, già Tarracina, l’antica Anxur, città del Lazio, situata a 58 miglia da Roma sulla via Appia.

Ibid., 7, 32, 7. La regola vorrebbe utriusque invece di cuiusque.

258

QUINT., Inst., 10, 1, 87; quisque sta per

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pp. 227-233

ANTONIO

uterque. Quintiliano si riferiva a Emilio Macro, poeta amico di Virgilio e Ovidio e al famoso autore del De rerum natura. 259

CAES., Gall., 4, 14, 3.

260

Sono segnalate le forme del femminile e del neutro, perché queste ricorreranno, in posizione inversa, nelle due citazioni successive (SALL., Cat., 5, 7; CAES., Gall., 1, 53, 4), mentre duo e duae riguardano tutti e tre i generi, essendo duo valido per il maschile e per il neutro (infatti la norma non varrebbe soltanto, ovviamente, per i due esempi che saranno citati, ma anche per il maschile). Tuttavia nel secondo esempio Pontano non segue la lezione generalmente tramandata («utraque … periit»), che riguarda appunto il caso in cui utraque, singolare femminile, è seguito dal verbo al singolare, ma riporta il plurale femminile seguito dal verbo al plurale. In questa frase è in parte travisato anche il nome del re (Boctionis per Voccionis).

261 LATT., Inst., 1, 6, 14; coeteris sarebbe errato perché in rapporto con «tutte» le altre sibille dovrebbe usarsi col superlativo. Lucio Celio Firmiano Lattanzio, retore africano del III-IV secolo d.C., fu precettore del figlio di Costantino. 262

CAES., Gall., 4, 3, 3.

263

Gli esempi di Plinio il Giovane sono tratti dalle Epistole, 2, 17, 15 e 9, 33, 4.

264

L’obiezione dei grammatici si riferisce, probabilmente, all’uso di instruo invece che instituere per «istruire».

265

QUINT., Inst., Prooem., 23; 2, 5, 1.

266

L’obiezione dei grammatici riguarda l’uso di dimittere, proficisci, conterere per dimittendum, proficiscendum, contererendum: Pseudo-Cicerone, Rhetor. ad Herennium, 3, 8, 30; Sallustio, Catilinaria, 4, 1; Quintiliano, Instit. orat., 3, 6, 9; ibid., 3, 6, 10. 267

Evidentemente aveva ricevuto un pugno che gli aveva lasciato una ferita; «buono» il grammatico in senso antifrastico.

NOTE 268

Cittadine della Campania, fra Roma e Napoli.

269

Una scienza, un sapere contadinesco, rozzo, non cittadino. Alla dea Pallade si attribuiva l’invenzione dell’ulivo.

270

Conspicatissimo è superlativo da conspicatus, participio di conspicor, che è frequente nei comici per conspicio; qui assume inusualmente il valore passivo di conspicabilis («visibile»).

271

Percunctor è forma più arcaica e rara di percontor, usata da Livio, Sallustio e Plauto. 272

Nigricantem è participio di nigrico, attribuito da Plinio al colore di alcune piante, invece del più comune nigrans.

273

Victito è forma usata particolarmente da Plauto. Allusione al mestiere di fattucchiera con cui si procurava da vivere.

274

Vitruvio Pollione, architetto romano, autore del famoso trattato sull’architettura, visse nel primo secolo a.C. Si riferisce a una località in provincia di Frosinone.

275

Si riferisce all’interpretazione, per così dire, epicurea della comunione dei beni e delle donne sostenuta da Platone nella sua Repubblica ideale. Il principio era ovviamente condannato dall’etica, ma qui prudentemente e scherzosamente accolto come modello di libertà, più che di libertinismo.

276 La Haec del testo latino (da haece) per hae appartiene alla lingua dei comici. 277 Viene evocato il sogno della ninfa Hyas, una delle Hyades, che Ennio all’inizio degli Annales racconta di aver avuto con gli auspici di Romolo e Remo. 278

L’avverbio inundanter, da inundo per verità non usato nel senso traslato dell’eloquenza, come nel volgare, è di nuova formazione.

279

Ricorda con una più esplicita ironia, anzi con sarcasmo, l’osservazione dei giudici infernali sulla cultura di Caronte acquisita attraverso la frequentazione dei

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NOTE

ANTONIO

dotti trasportati nell’Ade («vis institutionis», Charon, III 9).

niugali e per il triste ricordo della morte nell’Ecl. II (Meliseus) e nei Tumuli, II 24.

280

291

I Catalani, venuti a Napoli col favore degli Angioni, erano famosi per l’avidità (cfr. Dante, Par., VIII 77).

281

Predicatore che Pontano ricorda anche nel De sermone per la sua insopportabile eloquenza.

282

Scherza sul consiglio di portare almeno un lupo appresso per difendersi dai cani feroci, evidentemente gli uomini violenti che infestano la zona, facendo notare che la compagnia di un lupo sarebbe più pericolosa per il suo asinello.

pp. 235-241

Cfr. supra, V, nota 230.

292

Vocabolo frequente nei comici per ancilla. Si trova anche nell’uso volgare. 293

Il testo intende riprodurre con la spezzatura mimetica l’emozione della pronuncia. La ex che precede exclamare nella princeps manca nelle edizioni di Basilea ed ha indotto qualche editore a eliminarla. Ma cfr. il medesimo accorgimento nell’Asinus (I 1).

Per questa novella cfr. POGGIO, Facezia 100 [101].

294 Pisatiles, aggettivo senza senso, vuol essere solo un errore, come si spiega successivamente. Per le ipotesi cfr. l’edizione di Haig Gaisser, p. 375, n. 169.

284

295

283

Il verbo cachinnor, generalmente intransitivo ma usato transitivamente da Apuleio, come qui, è in questo caso rinforzato insolitamente da ex, per ottenere una forma più popolaresca o un significato intensivo.

285

Lutatius è fatto derivare scherzosamente da lutus, «fango».

286

Potrebbe essere questa un’espressione utile a comprendere la metafora del titolo del dialogo Asinus, la ricerca del vero sapiente fallisce e conduce a diventare un asino.

287

Parafrasi della famosa distinzione fatta da CIC., De or., 1, 21, 94, fra «facondo» ed «eloquente» («disertos cognosse me non nullos, eloquentem adhuc neminem»). 288 Il figlio di Pontano, destinatario delle famose Neniae, le «ninne nanne» in forma di epigrammi incluse nel libro II del De amore coniugali. 289

Alla leggera zoppicatura, contratta a causa di una caduta, Pontano tornerà ad accennare, ancora scherzosamente, nell’Aegidius (II 2), quando i suoi visitatori lo riconosceranno da lontano anche per la camminata.

290

La moglie di Giovanni Pontano, Adriana Sassone, figura nella sua opera soprattutto come dedicataria del De amore co-

Ancora un errore lessicale dovuto alla sprovvedutezza o confusione della donna, se non si tratta di un’erronea lettura di hirquitulus, che compare nel De sermone, III XVII, per apostrofare scherzosamente un tale che aveva la barba ed il naso di un caprone. In questo caso il diminutivo, più che una forma scherzosa, sarebbe una litote ironica da parte della moglie gelosa e infuriata. Mi sembra meno probabile che si tratti di una deformazione di hirquitallus, il ragazzo vicino alla virilità accostato al capro per la libidine. 296

Il vocabolo latino corrispondente, non attestato, è fatto derivare da evomio («vomitare»). I versetti dovrebbero far vomitare la bile; vomitorius è l’aggettivo usato da Plinio in relazione alle piante che provocano il vomito.

297

Cfr. CIC., Tusc., 1, 5, 10: «triplex apud inferos Cerberus». Il mostro infernale aveva tre teste, ma anche le Furie, o Erinni, o Eumenidi del verso successivo richiamano il numero fatidico di tre. I versetti, come quelli iniziali di questo stesso dialogo (I 2), seguono prevalentemente il modello dei ritmi mediolatini: sono in sostanza tre coppie di quinari sdruccioli equivalenti a tre endecasillabi sdruccioli, chiusi da un esametro.

1496

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pp. 241-249

ANTONIO

NOTE

Per la superstizione che considera lo sputo un modo di scongiurare un malanno cfr. GELL., 2, 19, 6, il quale riporta tre versi del Triphallus di Nevio.

tea desiderata da Polifemo è diffuso nella poesia latina e volgare e nell’iconologia del Rinascimento: cfr. per la narrazione del mito soprattutto OV., Met., 13, 738-897, Poliziano, La giostra, I CXV-CXVIII. Ma ad una Galatea che fugge è dedicata proprio un’ode saffica di Orazio (Carm., 3, 27). Il motivo qui svolto, di Galatea raggiunta da Polifemo vincitore che riesce a rapirle un bacio, è inedito. Il mito conosce le inutili smanie del Ciclope, e lo stesso Pontano in due saffiche della Lyra (XIII, Polyphemus ad Galateam; XVI Polyphemus a Galatea spretus conqueritur in litore) segue la tradizione dell’infelice amore del Ciclope. Cfr. F. TATEO, Pontano poeta, 2018, pp. 154-167.

298

299

Probabile allusione a un dialogo di Poggio Bracciolini, An seni sit uxor ducenda, e comunque ad un genere letterario diffuso sulle noie del matrimonio e sul prender moglie. In Poggio l’intransigente Niccolò Niccoli sostiene che la vita matrimoniale va comunque evitata da parte del sapiente.

300

Il latino classico conosce il verbo offirmo («ostinarsi», «perseverare»), l’aggettivo offirmatus e l’avverbio offirmate; offirmatio, usato poi da Pontano anche nei trattati morali, è del latino ecclesiastico.

301

Il senso traslato del vocabolo nutriculus è generalmente negativo: cfr. in particolare, per questo luogo, causidicorum nutricula di Giovenale (7, 148).

302

Il verbo dormiscere è una forma insolita per dormire (da dormio); Terenzio e Plauto hanno edormiscere, che qui successivamente viene usato nel senso proprio di «svegliarsi».

303

Epigramma in distici elegiaci. Il tema del trucco che non aggiunge nulla alla bellezza è in Properzio (1, 2); ma è un motivo dell’etica borghese: cfr. il secondo libro della Famiglia di Leon Battista Alberti. Ma in un’elegia dell’Eridanus (II XIII) Pontano si rivolge ad una Telesina per sostenere la bellezza del cultus e bandire come rozza la simplicitas («rustica simplicita sibi sit»), che invece è esaltata altrove (ibid., II XV). Vd. anche ibid., II IX, dove a Telesina non è necessario il rossetto, ma basta che dalla bocca non esca alcuna parola se non gradevole. Telesina si chiama la donna che fa innamorare Francesco Poderico (ibid., II XXX). Il nome corretto secondo l’uso popolare (il patronimico latino è telesius) richiama la città di Telese, nel territorio napoletano. 304 305

Epigramma in endecasillabi faleci.

Ode saffica formata da strofe di tre endecasillabi e un adonio. Il tema di Gala-

306

Il genere lirico latino recuperato dalla recente poesia umanistica.

307

HOR., Sat., 1, 3, 1-3 («è vizio dei cantori di non indursi mai a cantare fra gli amici quando sono pregati, ma se non vi sono spinti non la smettono mai»).

308

È un componimento bucolico che ricalca la seconda ecloga virgiliana, dove Coridone si rivolge ad Alessi, sia per la forma di monologo, sia per il motivo dell’invito amoroso mediante l’offerta di doni, divenuto consueto anche nella poesia volgare.

309

Ibid., 1, 3, 1-3 («è vizio dei cantori di non indursi mai a cantare fra gli amici quando sono pregati, ma se non vi sono spinti non la smettono mai»).

310

Nome ricorrente nella prima e nell’ottava ecloga virgiliana.

311

Nome inusitato nella poesia bucolica, ricorrente nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.

312

Ninfe delle valli boscose.

313

Aracne, la fanciulla della Lidia, esperta nel tessere, che osò sfidare Atena.

314

Si riferisce ad oggetti preziosi di moda, consistenti in piccoli animali rimasti chiusi nei fossili.

315

Il raro frequentativo di moveo (motant) ricorre due volte nelle Ecloghe virgiliane

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NOTE

ANTONIO

(5, 5 e 6, 28), riferito alla cima delle querce e agli Zefiri.

(siciliano e poi meridionale) minchia, che in effetti deriva dal latino tardo mincla, a sua volta derivato da mentula.

316

Nome di cane, adatto ad un cane lupo (lycos in greco è il lupo).

317

Alla virtù della dissimulazione, riferita all’esempio del Panormita che si schermiva dall’essere consultato come un maestro, si riferisce un aneddoto del De sermone, VI IV 6.

318

La regione al di qua delle Alpi era notoriamente la sede della letteratura canterina, e di lì Pontano fa discendere l’uso delle narrazioni popolari nelle pubbliche piazze e nei mercati.

319

Allude alla scena solenne creata dal cantore quando sale sul pulpito e fa sedere gli spettatori. La scena sarebbe stata oggetto di riso da parte di Antonio. Le due parti del poemetto che segue, in esametri epici, sono precedute dalla presentazione da parte della maschera (vv. 1-43, 259-294) nei senari giambici della commedia latina, i quali, per via della metrica quantitativa, variano di lunghezza. Nella traduzione qui è usato l’endecasillabo sdrucciolo che imita il senario giambico nel ritmo e l’endecasillabo italiano che corrisponde nella tradizione letteraria al metro epico latino.

320

I numeri delle note al poemetto che seguono rimandano al numero del verso latino, e riguardano soprattutto le reminiscenze virgiliane più rilevanti, con il riferimento all’Eneide (numeri del libro e del verso senza la sigla dell’opera virgiliana, laddove per le Georigiche, per le Ecloghe e per la Ciris ricorrono le sigle G, E, Ci). Un più particolare riferimento al modello virgiliano è in Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio cit. 38-39. Il cantastorie corregge ironicamente, facendolo così rilevare, l’equivoco da lui stesso creato usando mentulum, insolito diminutivo di mentum («mento»); sennonché menta, da cui farebbe invece derivare mentula (il «membro virile») per distinguerla da mentulum, non esiste né in latino, né in volgare, ma evoca il dialettale

pp. 249-253

43. L’incipit, con quell’autem, che sembra inserire l’episodio in una sequenza narrativa, mentre in realtà distingue epicamente la figura di Sertorio, ha riscontro in un contesto diverso dell’Eneide (Illae autem, paribus quas fulgere cernis in armis, 6, 826, le anime dei guerrieri nei campi elisi); auratis fulgens armis ricalca direttamente la presentazione di Mezenzio e di Turno, cioè i due nemici dei Troiani, aere caput fulgens, 10, 869, fulgebatque … aureus, 11, 490, ma anche fulgebat in armis 11, 769 (riferito al sacerdote Cloreo) e fulgentem armis, 11, 854 (riferito ad Arrunte). Nella memoria di Pontano non è da escludere perfi no insignibus armis / agmen et aurato fulgebat, 10, 171, riferito all’intera schiera del torvo Abbante. Con Ipse autem si presenta la figura di Ariovisto, il nemico di Cesare (Caes, Bell. Gall., 1, 31), e lo stesso incipit usa Manilio, autore degli Astronomica noti a Pontano, per iniziare la sezione che vede il mondo occupare un grande spazio nel cielo (Ipse autem … mundus, 1, 539-540). 44. Un medesimo senso avevano la similitudine delle formiche che si raccolgono (agmina cogunt, 4, 406) come i Troiani per ripartire dopo la sosta a Cartagine, e l’inizio dello scontro fra Pallante e Lauso (Agmina concurrunt … addensent acies, 10, 431-432), che Pontano ha evocato con una variante del raro verbo virgiliano (equitem addensat, invece di addenset); e cfr. acies … in praelia cogit, 9, 463. Michele Marullo Tarcaniota era nato a Costantinopoli e morirà a Volterra nel 1500. Poeta latino e soldato di ventura, visse anche a Napoli frequentando l’Accademia pontaniana. Scrisse quattro libri di Epigrammi e gli Hymni naturales, dove riesuma gli dei antichi dietro l’ispirazione di Giorgio Gemistio Pletone. 45. Hernicus: nome patronimico; gli Ernici abitavano nel Lazio fra gli Equi e

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pp. 255-259

ANTONIO

NOTE

i Volsci. A meno che non venga evocato il nome di Herricus Pudericus, accademico pontaniano.

92. Viene ricalcato conicit inque sinum praecordia ad intima subdit, 7, 347, con una locuzione uguale nella stessa giacitura (praecordia ad intima) e viene invertita la posizione del verbo (subdit) con il sinonimo exegit, che prende il posto iniziale di conicit.

47. Esempio di un verso costruito mediante l’accostamento di due emistichi virgiliani, dove «expediunt» e «ruit indignata» hanno la medesima giacitura metrica e la medesima funzione logica: [arma] / expediunt 1, 177-178, [vita] fugit indignata [sub umbras], 11, 831.

93. Il modulo è ripetuto in Virgilio: iterum atque iterum, 8, 527; iterumque iterumque, 2, 770. 94. nervo stridente sagitta, 5, 502.

51. Marius è il nome del famoso generale romano, Gaio Mario, vincitore della guerra contro Giugurta. Severus è il nome proprio portato da vari personaggi romani, fra cui due imperatori; qui il nome potrebbe ricordare il poeta Cornelio Severo del tempo di Augusto ricordato da Quintiliano e da Ovidio.

97-98. [Mezentius] talibus infit, 10, 860. È ricalcato il concetto di ille, satum quo te mentiris Achilles, 2, 540, posto sulla bocca di Priamo che inveisce contro Pirro che gli ha ucciso il figlio, comportandosi diversamente da Achille, del quale si vantava di essere figlio, mentendo, giacché dimostrava di essere così diverso.

77. Romana propago, 6, 870. La stirpe di Pontano viene così nobilitata da questa reminiscenza virgiliana, che appartiene al discorso fatto da Anchise ad Enea, per profetizzare la grandezza della stirpe discendente da Romolo.

101. L’immagine pontaniana del capo del guerriero che si piega lasciando un varco al colpo avversario è debitrice di due luoghi virgiliani; dell’uno, appartenente ad una tenera scena materna, ricalca non il senso ma la giacitura metrica (tereti cervice reflexa, 8, 633), dell’altro, simile perché riguarda la stessa scena truce di guerra, ma senza il particolare del capo «reclino» del guerriero che implorava il suo uccisore (reflexa / cervice orantis, 10, 535-536) per la preghiera, non riproduce l’enjambement che in Virgilio aveva una forte motivazione emotiva.

82. Ricorda vagamente insieme acuta cuspide contos, 5, 208, e certo … ictu 12, 490; ma pugnax non è di Virgilio, che usa pugnator. Il nome di Corvinus, che richiama il poeta ed ecclesiastico Leonardo Corvino, originario della provincia di Salerno, è citato in un elenco di poeti dal Sannazaro (Eleg., I XI 27-28) accanto ad Altilio, Compatre, Marullo, Cariteo, anch’essi presenti nel Serorius fra i letterati amici dell’autore, ma ricorre più avanti (v. 141) con diverso equipaggiamento di armi (una scimitarra, harpe, invece di una lancia, contus). Cfr. L. MONTI SABIA, Il Bellum sertorianum, cit., in Studi su G. Pontano, pp. 736-737, per un’ipotesi che chiarirebbe il disguido mediante il confronto con un apografo di questa parte dell’Antonius, e G. PONTANO, Il dialogo di Antonio e il canto di Sertorio, 2015, pp. 220-221 n., le riserve sulla utilità dell’apografo in questo e nel caso del v. 352 riguardante Camillus.

102. Il verbo hio -as, che propriamente significa «aprire la bocca», ed è usato da Virgilio nel senso proprio, è caricato del senso lato di «lasciare scoperto», «aprire un varco» riferito alla celata. Questo verso ricalca la conclusione dell’episodio della morte di Mezenzio (undantique animam diffundit in arva cruore, 10, 908), dove diffundo assume il senso metaforico di «effondere» (l’anima, la vita), restituendo a diffundo il senso proprio di «versare» (il sangue), che lo stesso verbo conserva in Virgilio in luoghi che Pontano dovette avere presenti per vari aspetti: la forma passi-

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NOTE

ANTONIO

va (funditur ater ubique cruor, 11, 646), l’accenno alle armi sporcate di sangue (sparso late rigat arma cruore 12, 308), la bocca colpita del verso 100 (vomit ore cruorem, 10, 349, G 3, 516).

tiene presente in questo luogo ([tela] partim galea clipeoque resultant, 10, 330), come farebbe pensare la presenza di clypei … clypeis, il cui scontro (impacti) sostituisce l’urto delle frecce su elmi e scudi.

108. Il verbo latino succidite è usato da Virgilio poche volte nel senso proprio di «tagliare da sotto», quindi un tronco o le biade o un fiore (come nella famosa similitudine relativa a Eurialo di 9, 435), succidite sta per il semplice caedite. Cfr. infra, v. 128, la variazione concidit.

170-5. Cfr. la polemica, in questo stesso dialogo, sulla validità della descrizione virgiliana dell’eruzione dell’Etna §§ 26-37.

121. en accipe è una locuzione del linguaggio parlato, perciò presente nelle Bucoliche (E 6, 69), che qui assume anche un senso di violenza; ma nell’Eneide «“en” ait et iaculum attorquens emittit in auras» è riferito a Turno che dà il segno per la battaglia (9, 52). 141. Corvinus: soprannome presente nella gens Valeria, ricorda il cognome del re d’Ungheria legato alla famiglia aragonese; harpe sta per arma in genere, ma è propriamente la «scimitarra» ed è vocabolo estraneo a Virgilio; harpe, la spada falcata, non è vocabolo virgiliano (cfr. v. 189). 152. Variusque … Hiensal: è ricordato un Quinto Vario, tribuno della plebe, originario di Sucrone, città spagnola, il cui fiume omonimo ricorre nella vita di Sertorio di Plutarco; Hiempsal è il nome di uno dei figli di Micipsa, re di Numidia. 153. Marmarides … Maharbal; Marmarica, regione fra Egitto e Siria, patria di Mahar (nome coniato su quello successivo di Maharbal, un noto ufficiale di Annibale) può indicare genericamente l’Africa. 166-7. Anche in questo caso la posizione del medesimo verbo, che analogamente rappresenta l’eco, ricalca quella virgiliana di consonat omne nemus strepitu collesque resultant, 8, 305; vocisque offensa resultat imago G 4, 50. Ma in Virgilio resulto ha il senso diverso di «rimbalzare» (le frecce che inutilmente colpiscono elmi e scudi rimbalzando) in quel verso che Pontano

pp. 259-267

177. suffossus equus: suffuso revolutus equo dum colligit, 11, 671; ma suffosso è la lezione riconosciuta da Servio nel famoso commento, e che Pontano avrebbe potuto tenere presente. Mo ha suffosus. 186-187. Catilina, … Syllanum genus: non è ovviamente il famoso autore della congiura, ma in questa guerra anche lui muore combattendo eroicamente. L’appartenenza alla stirpe di Silla non ha alcun fondamento, ma i «sillani» erano stati cacciati da Sertorio e i rapporti di amicizia fra Catilina e Silla sono ricordati da Plutarco (Vita di Silla, 32). 207. Qui e al v. 218 viene ripresa l’analoga allitterazione di vertit vestigia tergo, 10, 646 (cfr. verrit vestigia cauda, G 3, 59), ma con l’ordine metrico di ad sonitum vestigia torsit, 3, 669, e in verbo vestigia torsit, 6, 547, dove torsit equivale a vertit, ma in un altro contesto semantico. 210. incoctum: metafora stravagante; carnem incoctam è in Gellio (10, 15, 12) quella dura. 223. Petreius: un Marco Petreio, luogotenente di C. Antonio, sbaragliò i seguaci di Catilina ed è ricordato da Sallustio, Cat., 59-60, prima che venga narrata la morte eroica del ribelle. Ma qui Petreio e Catilina sono dalla stessa parte. 227. La ripetuta collocazione, in Virgilio, della stessa forma verbale alla fi ne del verso (concusso vertice nutat, 2, 629; sublimi vertice nutant, 9, 682) può aver avuto un ruolo nella memoria pontaniana, specie se si pensa che in entrambi i casi sono tronchi di alberi, orni e querce a ondeggiare, assimilati alle travi di cui è costituito il ponte.

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pp. 269-275

ANTONIO

NOTE

235. ruptabat arenas: eructat harenam, 6, 297. Il testo della princeps ha ripetutamente la forma rupt- invece di ruct- (ruptabat, eruptant, eruptantem, Sert. 235, 248. 587); cfr. nota 114 al testo. Non è da escludere una reminiscnza di ruptis … caminis della scena dell’eruzione dell’Etna (3, 580) nella ricerca di un verbo altrettanto colorito in gara con la metafora virgiliana di eructo.

ancella di Diana, la dea munita dell’arco come il fratello Apollo. Imitando un modulo epico Pontano immagina che la notizia della guerra sia stata data alle Muse da Pirene istruita dalla sua signora divina.

237. Coribante era chiamato il sacerdote della dea frigia o di Cibele.

302. Gabriele Altilio, poeta e membro dell’Accademia pontaniana, introdotto come interlocutore dell’Actius a trattare di storiografia. Virgilio cominciava il catalogo con Mezenzio accompagnato dal figlio Lauso.

262. noctu atque interdius: interdiu non è del vocabolario virgiliano e appartiene all’uso prosastico; interdius è la forma arcaica usata a bella posta nel discorso dell’istrione, mentre si legge interdiu in Antonius IV, come nel luogo di Gellio discusso da Pontano. 266. experirier: la forma arcaica di experiri si adatta al linguaggio del cantastorie. 271. carchesiis: sono le tazze con due manici; la voce è usata da Virgilio in riferimento a libagioni nel rito religioso. 284. edormiscat: voce non virgiliana per «smaltire col sonno»; cfr. ut edormiscam hanc crapulam, PLAUT., Rud., 586. Per vinosus Homerus vd. HOR., Epist. 1, 19, 6. 291. expergiscere: verbo non virgiliano, ma in uso presso i comici e nel linguaggio familiare; cfr. in particolare PLAUT., As., 249 (nunc te melium exspergiscier, «è meglio che ti svegli») e CIC., Att., 2, 23, 3 (expergiscere), che Pontano può aver tenuto presenti per il suo imperativo nelle parole dell’istrione che apostrofa lo spettatore assonnato. 298 et meministis enim, divae, et memorare potestis: 7, 645; 9, 529; un’invocazione alle Muse, per ottenere l’ispirazione prima di affrontare il difficile catalogo degli eroi e delle loro truppe che partecipano alla guerra. 299 Pyrene, che Silio Italico (3, 420) ricorda come figlia di Danao, amata da Ercole e condotta sui Pirenei che presero la denominazione da lei, è nel Sertorius

302-448. La lunga rassegna delle truppe e dei guerrieri della parte romana corrisponde a quella delle truppe italiche venute in soccorso di Latino contro Enea.

303. Nursia mater: Pontano attribuisce all’amico, effettivamente nato in Lucania, una madre nata a Norcia, in Umbria, vicina alla sua Cerreto. 306. Evoca la favola di Romolo e Remo allattati dalla lupa. 315. Actius: il ben noto nome accademico di Iacopo Sannazaro; la sua apparizione ricorda Pirro (telis et luce coruscus /aena, 2, 470) e insieme i giovani Rutuli (purpurei cristis iuvenes auroque corusci, 9, 163). 317. Il tema dei pomi dorati, le arance, che risplendono nel giardino delle Esperidi, collocato ai piedi del monte Atlante, ad ovest dell’Africa settentrionale, sarà sviluppato da Pontano nel De hortis Hesperidum e connesso proprio col Sannazaro, di cui il tardo poema pontaniano celebrerà il giardino napoletano famoso per gli agrumi portati in Italia da Ercole. Ma già nell’Urania Pontano narra il viaggio di Mercurio che, memore dell’atlantica madre Maia, si dirige verso i campi delle Esperidi, dove rifulge quel frutto (Hesperidumque / rura videre parans fulvumque in frondibus aurum, I 111-112, «preparandosi a vedere i campi delle Esperidi e il fulvo oro che è nelle sue fronde»). Le Esperidi, «Ninfe del Tramonto», sono chiamate pomicolae («coltivatrici di pomi») in Urania, III 459, e i loro orti sono ricordati per i riflessi dorati ancora

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NOTE

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in Urania, V 583-584: «Insignisque auro et pomis radiantibus hortos / Hesperidum» («i giardini delle Esperidi, famosi per i pomi raggianti d’oro»).

to numida citato da Sallustio, Iug., 108, 1, l’aggettivo patronimico rimanda ad una potente tribù africana, abitante del moderno Fezzan.

321. L’equipaggiamento questa volta ricorda quello di Enea, stellatus iaspide fulva / ensis erat, 4, 261-262, dove iaspis è un hapax virgiliano.

376-378. tritonia Birse: Tritonia Pallas, nella stessa giacitura metrica, è Pallade nata nella regione del lago Tritone, in Africa; qui si riferisce al fatto che l’eroina è cara a Pallade. La statura della guerriera, che sovrasta tutti, ricorda Ipse inter primos praestanti corpore Turnus / vertitur arma tenens et toto vertice supra est (7, 783-784).

326. Dalle peltae lunatae di Virgilio (gli scudi a forma di mezza luna) attribuite due volte alle Amazzoni (lunatis … peltis, 1, 490; 11, 663), Pontano ricava il verbo luno -as capovolgendo la forma passiva (pelta lunat, lo scudo è a forma di luna), e richiamando anch’egli la foggia delle Amazzoni. 327. Nelle Georgiche era il mare che si gonfiava (maria alta tumescunt, G 2, 479). 331. In Virgilio lo stivale (pero è usato solo in questo luogo) copre le impronte del piede destro, mentre quelle dell’altro sono nude (vestigia […] crudus tegit altera pero 7, 690); in Pontano lo stivale copre le ginocchia, ma tegit è anticipato lasciando che l’emistichio, pur con una variazione lessicale, abbia lo stesso ritmo. 333. Dardanius puer: Ganimede, discendente di Dardano fondatore di Troia, mentre ancora giovinetto custodiva le mandrie presso Troia fu rapito da Giove in forma di aquila e trasferito sull’Olimpo, dove divenne il coppiere degli dei. 335. Per rappresentare la scena in cui il giovinetto cerca di svincolarsi dagli artigli dell’aquila, Pontano ricorre alla similitudine virgiliana in cui l’aquila cerca di afferrare il serpente che si divincola: illa [Aquila] haud minus urguet obunco / luctantem [draconem] rostro, 11, 755-756. 341. Compater: Pietro Golino, l’accademico pontaniano più volte presente nei dialoghi e nei Carmina. 363. acinacis: la corta sciabola usata dai Medi e Persiani non appartiene al lessico virgiliano. 364. Aspar garamas: nome di un lega-

pp. 275-283

391 sgg. La vicenda evoca il ritrovamento di Romolo e Remo abbandonati e miracolosamente ritrovati dal pastore e affidati alla moglie. 402. Gerionisthenidem: vocabolo di nuova formazione (discendente da Gerione, il mitico re Gerione di Spagna il cui corpo era triplo fi no alle anche, ucciso da Ercole). Cfr. genere Geryonaceo, PLAUT., Aul., 554. La clava con cui Birse uccide il discendente di Gerione ricorda la clava con cui Ercole uccise Gerione. 407. Ricorda l’episodio di Giuturna, la Ninfa che si sostituisce all’auriga di Turno (Iuturna virago, 12, 468), sostituendo il nome con un vocabolo equivalente. 408. Hernicus: gli Ernici erano un popolo del Lazio stanziato fra gli Equi e i Volsci. 425. Puttius ricorda Francesco Pucci, il grammatico fiorentino, allievo di Angelo Poliziano; frequentò l’Accademia pontaniana, e Pontano lo introdusse come interlocutore nel dialogo Aegidius. La sua origine fiorentina è ricordata dal nome del padre, personificazione del fiume Arno. Ricorda Mezenzio che si rivolge con un discorso analogo ai compagni, in questo caso «esultanti» (hortatur ovantis, 11, 13): «Maxima res effecta, viri» corrisponde al «vicimus» di Putius. 442. pugnamque retractet: Pontano trovava in Virgilio retracto con l’accusativo nel senso di «ritrattare»: (dicta retractent,

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NOTE

12, 11) o di «impugnare», «maneggiare» (ferrumque retractat, 7, 694 ferrumque retractant, 10, 396), mentre in forma assoluta nel senso di «indietreggiare», nel passo famoso in cui Enea invita Turno a confrontarsi (quid iam, Turne, retractas?, 12, 889); pugnam retractare («rifiutare il combattimento») equivale a «ritirarsi».

(telum) e verbo (rupit) ricalcano puntualmente il modello.

462. Sertorio incita i suoi invitandoli a vedere Ponzio che infuria (insultat) sul campo, come Venere incita Giove con lo stesso argomento (cernis ut insultent Rutuli Turnusque feratur, 10, 20).

509. È ancora presente l’episodio di Eurialo e Niso (ocius adducto torquens hastile lacerto, 9, 402), ma l’espressione in Virgilio si ripete (11,561) nello scontro fra Metabus e Camilla.

464. omnis spes Danaum … Palladis auxiliis semper stetit, 2, 162-163; spem si quam ascitis Aetolum habuistis in armis, 11, 308. L’incitamento di Sertorio, tuttavia, ha un senso diverso: «come sempre, non potete aver fiducia che nelle vostre armi».

514. Gabriele Altilio, già nominato al v. 302. A lui sarà attribuito (v. 522) un atteggiamento ripetuto da Virgilio per Polifemo, per Ercole e per il cinghiale preso nella rete e pur minaccioso, in una similitudine relativa a Mezenzio (demtibus infrendens, 3,664; 8, 230; 10, 718 ).

469. undis … unda: spumea semifero sub pectore murmurat unda 10, 212; qua vada non spirant nec fracta remurmurat unda 10, 291. La reminiscenza pontaniana potrebbe riguardare entrambi i versi virgiliani non solo per il ritmo del secondo emistichio, ma anche perché entrambi terminano con re-murmurat unda. Il composto remurmuro ricorre in Virgilio solo questa volta. Mariotti ha suggerito di emendare in Pontano undis con vadis, pensando che Pontano intendesse imitare più strettamente il secondo verso di Virgilio, laddove è più probabile ritenere che se ne volesse in parte distinguere creando una ridondanza non estranea al suo stile. 502. iugulo haut inscius accipit ensem / undantique animam defundit in arma cruore, 10, 907-908. Pontano ha presenti i versi fi nali del canto che narra la cruenta uccisione di Mezenzio, ma ha spostato all’inizio del verso accipit creando un forte iperbato, e ha sostituito ensem con cornum, iugulo con per guttura, e ha variato animam defundit, ricalcando l’unico luogo dell’Eneide che adotta spiramentum (9, 580, [sagitta] spiramenta animae letali vulnere rupit), con un’espressione dove soggetto

504. Ricorda insieme Euneo che «vomita» sangue (sanguinis ille vomens rivos cadit, 11, 668) e Remo, che Niso uccide nel sonno, il cui busto «sussulta» nel sangue (truncum reliquit / sanguine singultantem, 9, 332-333).

523. Segnitio: il nome, che potrebbe ricondursi ai Segni, popolo della Gallia celtica, tornerà certamente con una connotazione comica nella scena iniziale dell’Actius, dove non può che accostarsi all’aggettivo segnis (pigro). 525. Cossus è un nome presente nell’Eneide, 6, 841, dove designa un console del quinto secolo, che uccise in combattimento il re di Veio. 530. L’offesa rivolta a Licon di non essere discendente di Marte, come si vantava di essere, in risposta all’ironica apostrofe di «generose», capovolge la «nec vana fides» con cui Didone attribuisce a Enea l’origine divina. La concisa ed efficace formula di Pontano (mentitum genus) non ha riscontro in Virgilio. 542-3. Oltre il raro omoteleuto (movebat-agebat), va notata la paronomasia signasegnis sostenuta dalla medesima giacitura metrica. 546. Una madre troiana aveva concepito Aceste dal fiume Criniso (Troia Criniso conceptum flumine mater / quem genuit, 5, 38-39); un verso delle Georgiche suggerisce

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NOTE

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la fantasiosa sostituzione del fiume con i soffi del vento (hibernis … flatibus Euri, G 2, 339).

no ancora il territorio napoletano, dove la tradizione mitologica collocava le Sirene; ambitiosa: vocabolo non virgiliano.

569-570. fl amma / pervolitat: lumen … / … pervolitat, 8, 22-24, in una similitudine, dove il guizzare della luce riflessa dall’acqua in catini di bronzo è paragonata al volgersi dell’animo di Enea a pensieri diversi; è l’unica occorrenza virgiliana di pervolito, e Pontano ne coglie l’espressività evidenziando il verbo in un enjambement. Ma nel primo verso si avverte, appena, un’eco dell’eruzione dell’Etna esaminata nel corso dell’Antonius: Aetna … saxa … glomerat, 3, 571-577.

602. Anche Virgilio, all’inizio del poema, usava lo stesso verbo per indicare la preferenza di Giunone per Cartagine rispetto al suo luogo di origine (posthabita Samo, 1, 16).

587. ruptantem: la forma latina, usata anche da Virgilio, è eructo; nell’Eneide è Acheronte che riversa la rena nel Cocito (Cocyto eructat harenam, 6, 297), ed è l’Etna che erutta macigni (interdum scopulos / erigit eructans, 3, 575-576).

613 deliterant: insolita forma, forse dovuta a ragioni metriche, tramandata dalla princeps, per delituerant.

590. Ricordando due luoghi in cui Virgilio parla del lavoro dei Ciclopi (versantque tenaci forcipe massam, 8, 453; versantque tenaci forcipe ferrum, G 4, 175), e un luogo in cui parla dell’estrazione della freccia dal corpo (prensatque tenaci forcipe ferrum, 12, 404), Pontano riusa una giuntura virgiliana, (tenaci forcipe), ma variando e spostando l’oggetto (metallum … exceptum), e riferendosi piuttosto al rumore che fa il metallo infuocato temprato nel recipiente che contiene l’acqua, presente anche questo nel passo sul lavoro dei Ciclopi (stridentia tingunt / aera lacu, G 4, 172-173). 596. bisseptem: formazione nuova, in analogia con bissextus, e con tutt’altro significato. Per Aufidius cfr. Plut., Sert., 13, dove Fufidio, creatura di Silla e originario della Betica, viene abbattuto da Sertorio. 599-601. Anche Virgilio cita le piane irrigate dal Sarno, fiume della Campania, presso Pompei (quae rigat aequora Sarnus, 7, 738), ma Pontano rinuncia alla metafora virgiliana che paragona le distese di terra a quelle del mare; i recessus Sirenum ricorda-

pp. 293-303

606. Pontano amplia una medesima situazione dell’Eneide, quando Antore, ucciso da Enea, dulcis moriens reminiscitur Argos, 10, 782 (unica occorrenza virgiliana di reminiscor). 607. Arnum Fesulas florentiaque: alludono all’origine fiorentina di Ursidius.

614. Il ripetuto uso traslato virgiliano del colorito verbo glomero è alla base di questa scelta pontaniana, che tuttavia non imita, propriamente, nessun luogo in particolare (glomerantur apes G 4, 79; glomerantur aves 6, 311; si glomerat ferens incendia ventus, G 2, 311; glomerari pulvere nubem / prospiciunt Teucri, 9, 33-34; [Aetna] liquefacta saxa sub auras cum gemitu glomerat, 3, 576-577). 622. All’origine di cervice reclina c’è Ovidio (inque sinu posita iuvenis cervice reclinis, Met., 558), ma la situazione è quella espressa in Virgilio con vari altri vocaboli: cervicem inflexam posuit, 3, 631 (Polifemo per il vino); inque umeros cervix collapsa recumbit, 9, 434; reflexa / cervice, 10, 535-536; ad terramque fluit devexo pondere cervix, G 3, 524; caput inflexa lentum cervice recumbit, Ci., 449. 646-647. Nell’Eneide Turno era avis atavisque potens, 7, 56; Enea sbalza a terra Murrano, che si vantava dei suoi antenati (atavos et avorum antiqua sonantem / nomina, 12, 529-530). 697-698. In Virgilio il verbo luno è usato solo al participio, per indicare gli scudi a forma di mezzaluna (lunatis peltis 11, 663;

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pp. 303-321

L’ASINO

NOTE

1, 490); cfr. invece Ov., Am., 1, 1, 23 (lunavit fortiter arcum). La stessa azione del lancio della freccia è però descritta da Virgilio in un modo che Pontano dovette avere presente (sagittam / deprompsit pharetra cornuque infensa tetendit / et duxit longe, 11, 858-860), se ricorre a quel luogo virgiliano per descrivere la curvatura dell’arco (donec curvata coirent / inter se capita, 11, 860-861).

la celebrazione con il vino, ricorda l’aestas siticulasa dei Priap. 64, 3, dal momento che è nominato il mese estivo come maestro del bere.

699. fulxere: per fulsere, da fulgo, o fulgeo, in analogia con reluxi da reluceo. 700. affixa reluxit: l’allitterazione tutta pontaniana e la variazione del soggetto (la freccia infuocata, non la fiamma) non nascondono l’imitazione della stessa forma verbale collocata in una forte posizione conclusiva metrica e sintattica (fl amma … subiecta reluxit, G 4, 385) cfr. supra, v. 585, barba … reluxit.

4 In Virgilio pulverulenta è l’estate (Georg., 1, 66), ma in PROP., 3, 14, 7 l’atleta femminile una volta giunta al traguardo. 5 Il significato attribuito al verbo ductandum da Pontano non è perspicuo e comunque non comune in riferimento specifico al boccale di vino. In questo caso sembra che egli voglia usare una forma frequente in Plauto per duco, che nel senso di «bere», «sorbillare» è in Orazio («pocula Lesbii duces», Carm. 1, 17, 21). Successivamente al frequentativo ductito, anch’esso usato dai comici nel senso comune di «condurre», sembra attribuirsi il valore di «bere», forse «bere d’un sorso» per effetto dell’avverbio ductim, associato a liquores (PLAUT., Curc., 109). Vedi oltre labellatim ducere. 6

L’asino 1

La pace fra Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona re di Napoli fu stipulata nel 1486 dopo una lunga trattativa condotta fra luglio e agosto da Pontano per conto del re di Napoli. Si concludevano le ostilità dovute alle macchinazioni del Pontefice per porre sul trono di Napoli Renato di Lorena d’accordo con un gruppo di baroni ai quali dové aggiungersi lo stesso segretario del Re, Antonello De Petruciis.

2

La forma di diminutivo grandiusculo, usato dai comici latini (grandiuscula è invero un hapax di TER., And., 814), potrebbe essere qui riferito al Poeta veramente «grande» con valore antifrastico. Ed è una vanteria scherzosa da parte di Pontano, che interpreta l’ammirazione popolare. Cfr. conturbatiusculus, 12).

3

L’aggettivo siticulosa è usato per le terre aride (siticulosa è l’Apulia per HOR., Epod., 3, 16). Qui la stravagante attribuzione dell’aggettivo alla «pace» che favorirà

Pa … pa … pax: scandisce le sillabe, quasi a dire «sì, è vero, proprio la pace», o balbetta per l’affanno. Ma pax in posizione esclamativa è nel fi nale di una commedia plautina (PLAUT., Stich., 772), accanto a papae, che fra poco ritroviamo nell’Asinus.

7

dies hic: il giorno famoso di san Lorenzo, 10 agosto.

8

L’aggettivo usato nella latinità era cauponius (non cauponarius). Cauponaria e cauponarius, sostantivi, erano l’ostessa e l’oste.

9 Forse con la metafora eloquente occidente … sole l’oste si riferisce alla decadenza dei tempi moderni nel Regno, oltre che della sua osteria. 10

Per Tu … habe cfr. PLAUT., Amph., 928 («valeas, tibi habeas res tuas»). 11

Euhyus: Euhius (cfr. LUCR., 5, 754), Euius o Evius è soprannome di Bacco, connesso con l’esclamazione di gioia euoe. Nell’autografo Pontano aveva scritto Euchius; ma come, per la sua origine greca, nella forma autografa non ha ragione di essere ch, così nella forma adottata dalla princeps non ha ragione di essere la y. Ma

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NOTE

L’ASINO

Pontano potrebbe essersi successivamente corretto, sebbene con una forma anch’essa non attestata.

21 Anche l’avverbio vocalissime è un’invenzione, probabilmente derivata da vocaliter (A PP., Met. 1, 22).

12 Se caupona era usato in latino anche nel senso specifico di chi conduce un’osteria, cauponor (da cui cauponantium) s’incontra solo nel senso generico di mercanteggiare, o esercitare un mestiere. L’autografo aveva compotantium («di chi beve»).

22 Il comparativo di nivosus (nivosius) non è attestato.

13 Il verbo hilaro significa propriamente «render giocondo», ma in questo caso ha valore intransitivo e, costruito col dativo paci, fa attribuire al verbo l’accezione di «dedicare in segno di gioia». 14

Per ductandum vd. nota 5.

15

hudum: è la forma grafica adottata da Pontano per udus, perché ricondotta a humidus (De aspir., in PONTANI, Opera omnia soluta oratione composita, Venezia, 1519, III, f. 27v). 16

Canis o canicula era la gettata più sfortunata nel gioco dei dadi, in questo caso dei tali, non delle tesserae.

17

È estate, quando infuria la canicola; l’oste scherza sul simbolo della canicola, dicendo anche successivamente che la canicola, cioè la «cagnetta», ha latrato, si è fatta sentire con i suoi effetti negativi.

18

Una gettata peggiore era considerata quella in cui si ripeteva lo stesso numero (iterum … allatravit).

19 sies: forma arcaica e frequente in Plauto per sis. Si addice al livello comico del personaggio; lo stesso si dica per conficiare. 20

La lezione latina (buccinatius) è forma stravagante (avverbio di grado comparativo fatto derivare da bucinatus, e quindi da bucino, «suonare la tromba») coniata per completare con una seconda ripetizione la scherzosa paronomasia. Buccina e derivati per bucina non è di uso classico, ma è attestato nelle epigrafi (CIL, 6, 315, 66). Si potrebbe, usare un’analoga forma stravagante come «trombettescamente» (vd. PONTANO, L’Asino e il Caronte, 1918, p. 21).

pp. 321-327

23

Con sceleratissimos homines si riferisce ai baroni della rinomata congiura del 14851586. Nell’autografo compare precedentemente uno scambio di battute fra il banditore, chiamato eques (cavaliere) e l’oste: «EQ. Captus Antonellus Petrucius a secretis, captus Franciscus Coppola e thesauris, atque ab omni regio censu. CAU. Quid? capti? EQ. Capti iam, ut rei capitis, ut patriae hostes, ut maiestatis convicti» («Sono stati incarcerati Antonello Petrucci, segretario, e Francesco Coppola, tesoriere e addetto a tutte le entrate del re». «Come? catturati?» «Ormai sono in carcere, scoperti come colpevoli di delitto capitale, come nemici della patria»). I nomi dei due uomini insigni sono scomparsi nella stampa, probabilmente già eliminati da Pontano quando ha dato al dialogo un assetto e un senso diversi (cfr. Nota introduttiva). 24

L’esclamazione pape è nota ai lessici latino-medievali (donde il famoso verso dantesco, Inf., VII 1) e si legge nel luogo plautino che Pontano ha presente (cfr. nota 6) e che ha evidenziato, trascurando il dittongo, in margine al suo ms. plautino (cfr. CAPPELLETTO, La «lectura Plauti», p. 96).

25

I baroni del Regno sono detti proceres, il vocabolo antico che designava la classe degli aristocratici.

26

Nella prima stampa si legge la forma opiperas, confermata dall’autografo, per opiparas, la consueta forma latina.

27

In commessationes la doppia m, che porta la stampa, corrisponde alla forma usata nell’autografo. Comissatio (o comessatio) era, propriamente, l’orgia che accompagnava le feste di Bacco; il sostantivo sembra qui incrociarsi con comedo, comesor, che si riferiscono al «mangiare».

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pp. 327-331

L’ASINO

NOTE

Saper parlare greco, corsico ecc. (graece … creticae) è una metafora per riferirsi a chi beve il vino greco, corsico ecc.

da haurio, è coniato sul modello di labellatim.

28

40

30 Il neologismo delibatim deriva da delibatio, il primo assaggio di un cibo.

Il vocabolo fastus, qui assunto nel senso che avrà il vocabolo volgare che da esso deriva, è propriamente il «fastidio» e il disgusto che si ha verso persone e cose per superbia e alterigia.

31

41

29

Casorianum è il vino di Casoria, località presso Napoli.

Accordato col neutro aurum, potatile non è vocabolo né di tradizione latina, né di uso volgare, mentre il precedente fusilis è attestato, ma non per le bevande; quindi non si spiegherebbe ut dicunt. Ma potatilis può equivalere a potabilis, derivato dal participio in analogia con fusilis.

faustum … gerunt corrisponde al volgare «sentire la puzza sotto al naso».

32

43

Il neologismo labellantim è coniato su labellum in uso fra i comici latini per labrum.

33

Testimoniata anche dall’autografo, invece del corretto olfactu, olfatu è la forma preferita da Pontano; nell’italiano antico è presente olfato.

34

Di auresco, «prendere il colore dell’oro», si conosce una rara occorrenza (VARR., LL, 7, § 83).

35

Il neologismo labellatu è coniato sul modello semantico di haustu.

36

Geryones: il mostro dalle tre teste, figlio di Calliroe, abitante nell’isola di Erizia, al di là dell’Oceano (perciò proveniente dall’Atlantico, «hospes atlantice»). L’oste prima accoglie il forestiero con un appellativo eroico, che ricorda la leggenda di Ercole, successivamente si rifà all’altro mito di Atlantide, l’isola felice immaginata al di là dell’Oceano. Per il senso di queste citazioni geografiche, cfr. H AYWOOD, «Iter asinarium», p. 734-739. 37

Il vezzeggiativo cadillus, da cadus («orcio»), non ha attestazioni antiche.

38

sublibare: il composto di libo, non testimoniato, è in relazione col successivo haustillatim, che si riferisce alla discrezione raffi nata del piccolo sorso con cui va bevuto quel vino prezioso.

39

Il neologismo haustillatim, che deriva

42

Hiberni: gli abitanti della lontana Irlanda, la Thyle dei Romani. Vd. PETRRACA, fam. 3, 1, che la colloca al di là della Britannia. Su l’«ultima Thule» cfr. H AYWOOD, «Iter asinarium», p.738. Il pontefice Innocenzo VIII era famoso per il nepotismo, su cui insisterà il Porzio nella storia della congiura dei Baroni, aggiungendo che fu il primo a farlo sfacciatamente, forse ricordando proprio il dialogo pontaniano. La battuta successiva, che Pontano mette sulla bocca del forestiero, è perfi no al limite del blasfemo.

44

Leonardum … Nicolaum: la via dei pellegrini diretti a Gerusalemme passava dalla Puglia, dove si trovano le chiese di San Leonardo di Siponto e di San Nicola di Bari).

45

In questa e nella battuta successiva, che la riprende, l’autografo adotta nella ripetizione del vocabolo una grafia diversa (cenam … coena, coena … cena), mentre la princeps uniforma. È improbabile l’opinione di Monti (L’Asinus nei fogli autografi, p. 859, n. 2), secondo il quale «la duplice alternanza […] è certamente intenzionale», nonostante la sottile ipotesi di uno scherzo grafico. Non c’era bisogno di introdurre uno scherzo ben poco percepibile nella recitazione cui il dialogo sembra far riferimento, dove il testo è già un gioco fondato sull’equivoco e sulla ripetizione. Il linguaggio colloquiale conosce bene questa formula espressiva (in questo caso la ripetizione per indicare «una vera cena»), né si può dimenticare la famosa differenza fatta da CAT., 13, 1-4 («Cenabis bene […]

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NOTE

L’ASINO

si tecum attuleris bonam atque magnam cenam», «la cena sarà buona se ne porterai tu una abbondante e buona»), fra il «cenar bene» e il semplice «cenare». Inoltre l’intenzionale differenza grafica implicherebbe la simmetria, nella domanda dell’oste, fra le due forme che indicherebbero la semplice cena e il banchetto sontuoso.

era stato segretario di Ferrandino, a suo tempo suo discepolo (cfr. la voce di F. NICOLINI, DBI, vol. 2, pp. 565-566).

46 L’aggettivo bibax («avido di bere») rimanda a GELL., 3, 12, 1-2, il quale dice di trovare più frequentemente questa forma, analoga al corrispettivo edax («avido di cibo»), che non l’equivalente bibosus, pur ricordate insieme da P. NIGIDIO FIGULO, Commentarii grammatici. 47

Somnulenta è vocabolo apuleiano, A PP., Met., 1, 26.

48 Non è attestato il verbo potisso -as per poto. 49

Nell’autografo il testo continua (cfr. MONTI, l’Asinus nei fogli autografi, pp. 880881 e G. PONTANO, Asinus, Roma, 2014, p. 73, nota 50) con un passo incompleto, contenente una citazione ripresa al § 17, l’invito rivolto da Altilio a Sincero di alleviare il cammino raccontando qualcosa e la risposta di Sincero, che invita ad approfittare della bellezza del luogo per riposare. Nell’autografo si legge discumbatis («farvi dormire» rivolto evidentemente agli stranieri), in luogo di discumbant («farli dormire»), più corretto ora che il forestiero ha fatto notare all’oste che gli stranieri non lo capiscono. Ma l’espressione di una comica ignoranza da parte dell’oste potrebbe essere voluta, e quindi la correzione essere una normalizzazione dell’editore. 50

Gabriele Altilio (1440 ca-1501), rinomato poeta dell’accademia napoletana, scrisse in latino una famosa elegia per le nozze di Isabella d’Aragona (1480); Pontano lo introdusse anche nel dialogo Actius e gli dedicò il De magnificentia, Antonio Galateo gli dedicò il De podagra ricordando la malattia che lo angustiava nei tardi anni; ma aveva seguito Alfonso II in guerra ed

pp. 331-335

51

Accademico pontaniano, Giovanni Pardo, originario dell’Aragona e grande amico del Cariteo, viene introdotto da Pontano anche nel dialogo Aegidius a sostenere le ragioni della fi losofia aristotelica. A lui Pontano dedicò il De conviventia. Conoscitore di greco e di latino, autore di versi in lingua italiana, latina e castigliana, di cui non è rimasto quasi nulla, fece parte della cancelleria aragonese di Napoli dal 1486 e dovette concepire, se non scrivere effettivamente, un poema sulla congiura dei Baroni, come si ricava da incerti accenni del Cariteo nella Canzone X, 53-60 (Le Rime del Chariteo, a cura di E. PERCOPO, Napoli, 1892, II, p. 131). Sarà ricordato da Pontano per la sua autorevolezza in fatto di filosofia nel De fortuna, II 18, dove Summonte ha sostituito sull’autografo il suo nome con quello di Antonio Galateo, che compare nella stampa (cfr. qui la Nota al testo). 52

Chariteus: Benedetto Gareth, detto Chariteus; vd. l’Introduzione a Le Rime del Chariteo, cit., I, pp. LIII-LIV.

53

Le Muse abitatrici dell’Elicona, monte della Beozia (Aonia), e le ninfe del Sebeto, fiume simbolico di Napoli, sono nemiche della sconcezza.

54

Usanza attribuita alla Roma arcaica; cfr. CIC. Rosc. Am., 35, 100.

55

La barca di Caronte è generalmente detta cymba (o cumba; vd. VERG., Aen., 6, 303, e PONT., Charon, 8), ma in PLAUT., Rud., 75, 163, 165, 173, 366, 368, ricorre scapha, cui Pontano ha aggiunto un suffisso peggiorativo (scaphariam). Cariteo, pur di non giungere all’età del rimbambimento, preferirebbe morire e aiutare Caronte a spingere (exercere) la barca.

56

La frase interrotta (manca una forma verbale simile a proripis, «dove ti precipiti») ricalca i modi della rappresentazione teatrale.

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pp. 335-345

L’ASINO

57

asinarium: vocabolo del linguaggio rustico nel senso di «asinaio» (CATO, RR, 10, 1; 11, 1; VARR., RR, 1, 18, 1). L’aggettivo corrispondente è usato qui nei §§ 7, 30. 58 me agit: nella risposta il verbo ago (prima adoperato nel senso di «far la parte di», «comportarsi come») è usato intenzionalmente con accezione diversa («mi spinge», quasi «mi fa trottare»). 59 L’espressione actum est de («è fi nita per»), usata dai comici, viene rinforzata con la connotazione comica di un composto di nuova formazione (transactum), dove trans- corrisponde al volgare stra-. 60

In latino qui cum, forma usata dai comici per quo.

61

Flamen: non è chiaro di quale fi nimento si tratti. CAMPODONICO, L’Asino e il Caronte, p. 43, e GERI, Pontano, Dialoghi, p. 563. traducono con «pennacchio», ma per i lessicografi fl amen (anche filamen) era la benda che portava sul capo il sacerdote chiamato Flamen. 62

omnia … consequi: sembrerebbe un proverbio, ma forse Cariteo si riferisce solo ad un’espressione del linguaggio comune per dire «essere fortunati»; tuttavia la formula sortito obtigit ricorre in PLAUT., Merc.,

136 e in HOR., Epod., 4, 1. 63

subblandiatur: il raro composto di blandior è usato da PLAUT., As., 185, ma quando parla delle carezze fatte da un uomo ad un animale («catulo meo subblanditur novos amator»). 64

repagulum: il latino conosce solo il plurale repagula -orum (in PLAUT., Cist., 649, sono le sbarre che impediscono l’entrata). 65 ex asino et in asino: forse riecheggia in questa affettata ripetizione una formula del ragionamento dialettico, dato anche il presente riferimento alla dottrina pitagorica. 66

Domitius Marsus, autore di epigrammi al tempo di Augusto, citato per la sua mediocrità: vd. OV., Pont., 4, 16, 5 e M ART., 2, 71, 3.

NOTE 67

Quintus Cornificius, poeta latino incluso fra i neoteroi (cfr. OV., Trist., 2, 436) e preso di mira in CAT., 36. La scelta di questi oscuri poeti da paragonare all’asino ha evidentemente un’intenzione ironica, perché annulla l’apparente esaltazione dell’asino come pari ad un poeta.

68

Con oculatissimum Pontano si riferisce agli occhi che ornano le penne di pavone di cui è formato il fl abellum; il superlativo, per indicare insolitamente i numerosi elementi ornamentali, ha un’inflessione comica.

69

Crassum: Lucio Crasso, grammatico e studioso di antichità, fu maestro del giovane Sannazaro.

70 Vergilius … solitus: allude alla tradizionale notizia antiquaria dell’ubicazione napoletana della villa e della tomba di Virgilio. Cfr. D. COMPARETTI, Virgilio nel Medioevo, a cura di G. Pasquali, Firenze, La Nuova Italia, 1941, pp. 49-52. In particolare sulla tomba di Virgilio, posta fra Napoli e Pozzuoli, vd. la Vergilii vita di Tib. Claudio Donato (Vitae vergilianae, rec. I. Brummer, Lipsia, 1969, p. 89); ai possedimenti di Virgilio nel territorio nolano allude GELL., 6, 20, e alla loro incerta ubicazione si riferisce la Cronica di Partenope. Il passo ha anche un evidente senso metaforico sull’ascesa virgiliana. 71

Urania: il poema astrologico in sei libri, che Pontano compose fra il 1476 e 1479, ma tornerà a rivedere.

72

Talassius o Talasius (ovvero Talassio -onis) era il grido nuziale romano; quindi simboleggia le stesse nozze. Nel De aspir., f. 41v, il vocabolo è incluso fra quelli che cominciano per Th.

73

Laberianum illud: In M ACR., Sat., 2, 7, 11, era attribuito a Publilio Siro, non a Laberio che veniva invece citato precedentemente, il verso «comes facundus in via pro vehiculo esse». Cfr. supra, nota 49 e Nota al testo.

74

Il custode degli arcani è chiamato arca-

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NOTE

L’ASINO

narius con un neologismo coniato sull’analogo arcarius, custode dell’arca, del tesoro, tesoriere (o asinarius, qui ricorrente).

dell’uso pontaniano di traslitterare, talora non grecizzante, come in cimba per cymba. Lo stesso Pontano potrebbe aver usato la forma grecizzante nel ms. perduto.

75

Faselio: nome coniato su phaselus o phaseolus, che è il «fagiolo», ma anche la «fava». La corrispondenza con il volgare farebbe propendere per la prima soluzione. CAMPODONICO, L’Asino e il Caronte, 1918, p, 55, rende la forma latina con «Fagioli», mentre la declinazione del nome autorizza a tradurre «Fagiolone», che in volgare è una varietà di fagiolo, ma grammaticalmente è un accrescitivo che adotta un suffisso latino, creando una forma insolita, qual è appunto phaaselio -onis. Non è da escludere il modello di caupo -onis, che indica un mestiere popolare, e di nebulo -onis, che ha un senso peggiorativo.

76

La congiunzione (coitus) della luna con il sole equivale al novilunio (cfr. PLIN. H. N. 2, 9, 6 § 44). 77

81

Ricevere la cittadinanza romana col cognome di «Asinii» equivale ad essere trasformati in asini.

82 Delicium è forma non consueta per deliciae (ma è in PHAEDR., 4, 1, 8; in MART., 7, 50, 2; nella Copa pseudo-virgiliana, VERG., Cop., 26). 83 Arion, da cui Arionicus, si chiamava il cavallo di Adrasto, il quale partecipò alla guerra contro Tebe e fu salvato dal suo velocissimo cavallo. 84

Se i rumori dell’asino sono deliziosi come versi, e hanno un loro ritmo, la denominazione di un verso, in questo caso il verso di sette piedi (Septenarium), può designare sarcasticamente uno di questi rumori articolati.

Observatio è la parola tecnica che riguarda la professione dell’astrologo.

85

78

Detrimenta è una metafora per indicare il calare delle fasi lunari, come i damna lunae di HOR. Carm., 4, 7, 13.

86

79

87

La voce fragella testimonia l’uso volgare di «fragello» per «flagello», ma quest’ultimo significa propriamente «sferza» (pur designando particolarmente in botanica quel ramo sottile «con diversi internodi e foglie spesso ridotte, che striscia sul terreno», BATTAGLIA, GDLI, VI, p. 59); «fuscello» è invece il vocabolo più affi ne a quel che intende Pontano («rametto di legna secco»), il quale però interpreta subito dopo la voce, ch’egli dice d’uso corrente, come derivata da refringo, perché designerebbe i rami destinati ad essere «tagliati».

80 Cyllarus si chiamava il mitico cavallo di Polluce (vd. VERG., Georg., 3, 89). L’aggettivo Cyllarinus, che ricorre successivamente, è ovviamente un’invenzione scherzosa. Non parlerei di autentico errore (MONTI, l. c.) a proposito della forma usata da Pontano nell’autografo che possediamo, ma

pp. 345-351

La Musa del bel canto, quindi del ritmo e della metrica. Nelle commedie e nelle tragedie antiche è prevalentemente usato il senario giambico. Amabo è molto frequente in Plauto nel senso stesso di te oro, quaeso. Il seguito della battuta potrebbe intendersi anche come un’esclamativa (cfr. ed. PREVITERA, p. 302; ma la princeps porta il segno dell’interrogativa, che del resto si accorda con l’uso di ut.

88

Subcodaneas è voce forse coniata sul modello di subbasilicanus (PLAUT., Capt., 815), e si segnala per la sua stravaganza e il registro realistico (anche coda per cauda concorre a tale effetto), nonostante che l’uso latino dei composti con sub- sia generalmente quello di attenuare metaforicamente il significato. La nostra versione del vocabolo in italiano («sottocaudali»), che è l’unica possibile per non perdere la stravaganza del latino e usare un vocabolo attestato, ha il limite di riprendere un termine tecnico zoologico, pur non improprio

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pp. 351-357

L’ASINO

NOTE

nel discorso pontaniano che vuol essere realistico, ma dotto.

prolungata, insistente, e in questo caso anche noiosa.

89

95

L’espressione latina (post … pluviae) corrisponde ad un proverbio in volgare, «tanto tonò ch’e’ piovve» (Proverbi toscani, a cura di G. CAPPONI, Firenze, 1853); cfr. L. PULCI: «Piove al fin, quando sì spesso tuona».

90

Il raro vocabolo calcitro -nis è in PLAUT., Asin., 391, ma riferito ad un uomo «rumoroso», mentre in Col., 2, 2, il giovane cavallo (iuvencus) è calcitrosus. Pontano ha presente A PP., Met., 8, 25, dove l’asino, in vendita, è presentato come «non mordacem nec calcitronem», e tale da rivelare sotto la pelle di un asino una natura umana. Altrove Apuleio dice che il servo, per accontentare il padrone, «voluptates eius instruebat» (ibid., 10, 17), che Pontano varia in «ludum ego hero … instituo». Qui l’asino, che il padrone vorrebbe educato e umano, scalcia. Successivamente l’autore mostra di ricordare PLAUT., Cap., 877: «abi in malam rem, ludis me», ma usa ludere nel senso di «fare qualcosa per gioco», «dare uno spettacolo»; il garzone, poi, allude sarcasticamente, con il significato originario di applaude («batti [le mani]») ai calci che in effetti l’asino sferra. 91 È evidente che complexum vada assunto in senso antifrastico, poiché l’assalto dell’asino non può essere un abbraccio. 92

L’espressione quo… evasurae sint, che ha un corrispettivo in volgare, «dove vadano a finire», è appunto un modo di dire del latino classico; ma quo evadat è presente in PLAUT., As., 51, ripreso dal linguaggio familiare da CIC. Att., 14, 19, quorsum evadat). 93 Asiniorum familia: gioca sull’ambiguo significato del nome. La gens Asinia, importante nella Roma antica, è numerosa per la grande presenza attuale degli «asini» nelle città. 94

L’aggettivo exclamabundus, di nuova formazione è coniato sul modello del tardo cantabundus (PETR., 62, 4) e del più diffuso moribundus. Il suffisso indica un’azione

egisti: nota l’indicativo nell’interrogativa indiretta dipendente da vides quid. Il costrutto è attestato, ma Pontano lo usa perché non appartiene allo stile sostenuto.

96

Su questa qualità dell’asino (pervicacia), che riprenderebbe la rappresentazione dei forestieri nordici del § 10, cfr. H AYWOOD, «Iter asinarium», p. 739.

97

Il composto deblandior, come la forma derivata col suffisso -tor (deblanditorem), non hanno attestazioni antiche.

98 Tepidiusculus è diminutivo insolito nella tradizione latina, ma coniato analogicamente a quelli fatti derivare dal comparativo neutro degli aggettivi. È sottintesa aquam, che invece viene esplicitata successivamente. 99

inungam: corrisponde ad una forma antica volgare. La forma corretta del verbo è in latino inunguo.

100

Arabia eudaemion è l’Arabia felix dei Latini.

101

Derivata da una delle forme meno consuete del participio di lavo (lotus), lotura è vocabolo usato da PLIN., NH, 34, 13, 33 §128 e da MART., 2, 52.

102

La prima parte del proverbio è in effetti molto frequente anche nella tradizione letteraria italiana, ma successiva a Pontano, con qualche variante (perde panno e sapone, il sapone e la fatica, il tempo le parole e i passi): cfr. BOCCIONE-M ASSOBRIO, Dizionario dei proverbi, cit., pp. 174, 474, 556. Ma vd. anche ERASMO, Adagia, III, 3, 39, «asini caput ne laves nitro». La seconda parte corrisponde ad un motto già espresso in altri contesti (vd. supra, nota 81, Charon, V 17 e Antonius, V 68).

103

Lo stravagante accostamento fra «Arcadia» e «asini» non è perspicuo, a meno che il mitico paese greco, simbolo ideale largamente riconosciuto del mondo pastorale, non venga qui assunto genericamente

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NOTE

L’ASINO

come il luogo della vita rustica cui appartengano sia l’asino sia la cura delle piante cui si è riferita la scena e che l’umanista ora abbandona. Su questa linea H AYWOOD, «Iter asinarium», pp. 744-745, ha interpretata l’esclamazione come un intenzionale ritorno all’Urania.

112

104

Cfr. nota 72.

105

Caselio -nis è ovviamente una formazione nuova, scherzosamente coniata sul modello di faselio -nis; lo stesso autore spiegherà che tale nome deriverebbe da caseus («formaggio») e precisamente dal parmigiano. Ma il contadino vorrà far valere, furbescamente, ma sempre evocando la confusione popolare fra le parole, l’etimologia da «casa» È inutile cercare un corrispettivo italiano, che potesse permettere il gioco successivo fondato sull’equivoco fra caseus e casa.

106

et ratio e causa designano la spiegazione etimologica, un concetto dotto scherzosamente attribuito al contadino.

107

Uxorio: anche in questo caso bisogna pensare ad una forma stravagante come uxorio -onis.

108

I Robertini con impressa la figura del giglio sono le monete coniate ai tempi del re Robero d’Angiò.

109

libellam: qui funge da diminuivo di libra (misura di peso, ma anche «bilancia», quindi «bilancetta»), ipocorismo del linguaggio popolare. Pontano invita il contadino a controllare il peso delle monete. In realtà il vocabolo aveva assunto un diverso significato («monetina di argento»).

110

In latino vin’, forma colloquiale per vis

ne. 111

Da meridior, che significa riposare nell’ora meridiana, derivano meridiatio, la siesta, quindi meridiator (neologismo) dovrebbe propriamente indicare chi usa fare la siesta, mentre qui il vocabolo, in funzione di predicato, indica, come meridianus, soltanto chi fa qualcosa nell’ora meridiana, quasi «trascorrendo il meriggio».

pp. 357-361

Il personaggio Pontano, che sta per chiedere la contropartita, viene a questo punto interrotto, più che lasciar sospeso il discorso, come farebbero pensare i puntini sospensivi introdotti dalle edizioni moderne. La parola fi nale si confonderebbe con un vocativo di coquus (coque); così si spiega l’interruzione del contadino con la confusione verbale tipica della farsa. 113 A questo punto la princeps muta da Faselio in Caselio il nome del personaggio che introduce le battute, né c’è ragione di non attribuire all’autore l’iniziativa della sostituzione. Si realizza una sorta di travestimento, sia pure verbale, che il personaggio di Pontano accetta, rivolgendosi a Faselione col nuovo nome. 114 Poetulus (propriamente paetulus), è aggettivo singolare usato da CIC., N. D., 1, 29, 80, nel senso di «ammiccante» (paetus è lo sguardo amoroso attribuito a Venere). 115

Pontano gioca sull’equivoco fra senio, ablativo di senium -ii, la «vecchiaia», la «decrepitezza» (senio confectus lo aveva defi nito il contadino), ma anche il «vecchio» (seguendo un uso preclassico a me senio egli dice di sé), e il nominativo senio -onis, il numero sei dei dadi, quindi «sei Alfonsini», che sono monete coniate sotto il re Alfonso il Magnanimo.

116

La voce latina crispella molto probabilmente traduce, con un vocabolo non attestato nel latino antico, la voce volgare «crespina» («acconciatura, diffusa nel secolo XV, consistente in una reticella d’oro o d’argento con ricami di seta e di perle che si poneva sui capelli lisci e la treccia a mo’ di cuffia» (BATTAGLIA, GDLI, vol. III, p. 964).

117

È attestato l’aggettivo bracteatus -a -um («ornato di lamine», bracteae o bratteae) e il sostantivo bratteola («fogliolina d’oro», cfr. qui § 13), che nell’aggettivo bracteatulas usato da Pontano appaiono quasi contaminati. 118

calceas: così nel testo della princeps, mentre l’ed. di Previtera porta calceos, che

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pp. 361-383

AZIO

NOTE

è il vocabolo latino usato per i «calzari». La calcea, da cui deriva «calza», è del latino medievale. Del resto il vario colore si riferisce più propriamente alle calze.

metafora, che si riferiva nella sua intenzione al congiungimento, dei due sessi nella figura classica dell’ermafrodito.

119

L’autore scherza sulla parola pernulas («prosciutti»), che il contadino confonde con penulas («cappe»): un giuoco di parole che nella traduzione italiana è difficile riprodurre, tranne che nel modo in cui qui si è tentato. Dall’intenzione di favorire l’equivoco dipende anche l’uso del plurale di penula.

120 Il verbo interstringo, usato nel senso di «spremere» o «premere», e da PLAUT., Aul., 659, riferito alla gola, denota una ricerca di colore in linea con l’eccentrico, ed erotico, vezzeggiativo precedente (tumidiusculis). 121 Il vezzeggiativo putula, non testimoniato, deriva dall’aggettivo putus («puro», «perfetto»). Ovviamente la scelta del vocabolo deriva anche dall’allitterazione che se ne ottiene col vocabolo successivo. 122

delicium; Pontano ha già usato delicium in riferimento all’asino, ora lo usa in riferimento alla donna, questa volta con evidente inflessione erotica. Il neutro è attestato nel diminutivo deliciolum («cocco»).

123

La forma surrigo -is qui usata (surrigat) è alternativa a surgo, ma qui ha un insolito senso attivo. Non è documentata la metafora oscena di paxillus («palo», «cavicchio»), vocabolo raro ma per lo più attinente al linguaggio agricolo.

124 Fermentilla è un nome stravagante riconducibile a fermentum, la sostanza che fa crescere la pasta, coniato con un comune suffisso di nomi femminili e popolani (p. es. Petronilla).

126

Il testo latino ha a questo punto uno dei più estrosi neologismi potaniani, hederesco, attaccarsi come fa l’edera, accentuato dalla paronomasia col verbo precedente.

127

La forma corretta del vocabolo latino è brassica, e non ne è attestato il diminutivo (brassiculis). De brassicis è un lungo capitolo del trattato catoniano sull’agricoltura (CATO, RR, 165), dove si espongono le virtù terapeutiche delle varie specie di cavoli, ma non i rimedi alle malattie della pianta. La formula magica attribuita a Catone dal contadino (catonianum carmen), che usa l’aggettivo patronimico coniato sull’uso volgare (catonianus per catonius) sembra ancora aggiungere una nota per sottolineare la rusticità corriva alla stregoneria.

128

Come erucula (diminutivo di eruca), così averunco per averrunco (da cui averuncandis) sono forme pontaniane. Anche in questo caso è perseguito il bisticcio verbale.

129

Ricalca il vocabolo latino, lumbifragium, attestato una volta (PLAUT., Amph., 454).

130

Foemella (per femella, come l’usuale foemina per femina) proviene da un singolare vocabolo usato da Catullo (55, 7).

131

Pardo attribuisce a Pontano la consuetudine di vita espressa nel famoso detto di Scipione, riportato da Cicerone («nunquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esset», CIC., Off., 3, 1, 1). L’attività intellettuale riscatta l’ozio e lo assimila al negocium, anzi ne fa un maggiore negocium.

125

È probabile che Pontano trovi l’occasione di alludere con hermafrodito al titolo di un famoso libro di epigrammi di Antonio Panormita, discusso per la sua licenziosità, forse semplicemente per fare una citazione dotta e prendersi gioco dell’ignoranza del contadino. Tuttavia questi sarà in grado di spiegare la sua fantasiosa

Azio 1

Soprannome contadinesco coniato sulla base di caepa, «cipolla», quindi «cipollaio»; per caeparius, nome comune («ortolano»), vd. Lucilio (201, 10).

1513

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NOTE

AZIO

2

7

Da segnitia, («lentezza»), quindi il cognome equivarrebbe a «tardone»; ma nella traduzione si è preferito conservare la forma latina del tema e usare il suffisso popolare del volgare corrispondente a quello latino.

3

Caulis è il torsolo del cavolo; caulita è formato col suffisso di un patronimico (discendente da un cavolo). È il notaio che legge il testamento che sta preparando per Segnizzo.

4

Spatularius è la lezione dell’autografo, riprodotta nella copia summontiana, ma su quest’ultima corretta di mano dello stesso Summonte, sul margine, in sarcularius. Entrambi i vocaboli, che denominano il relativo mestiere, sono assenti nel latino antico, ma spatula è attestato in latino come attrezzo di legno per uso medico (CELS., 8, 15, 3) e «spatola» nel volgare del Quattrocento come attrezzo per maciullare il lino. È probabile che Pontano volesse riferirsi a quest’ultimo mestiere, mentre Summonte tenesse presente il sarculum (per sarculum e sarriculum, cfr. § 146 e n. 500), ben più noto come attrezzo contadino («zappa»; in PLIN., N., 18, 184, si trova anche sarculatio). Di fronte a un inesistente spatularius, testimoniato proprio nelle prime righe dell’autografo da cui copia, il Vat. Lat. 5984, egli in prima istanza lo copia tal quale nel Vat. Lat. 2843, ma nella revisione propone in margine sarcularius. Summonte deve aver corretto con un vocabolo ritenuto più plausibile, evitando, se è consentito supporlo, un eventuale derivato da spatule -es usato da Terenzio Varrone nelle Menippeae quale corrispondente del greco σπατάλη (lussuria). 5 Il Sarno è un fiume della Campania, presso Pompei; indica qui la zona di provenienza di Caulita. 6

Nigella è soprannome romano, ma qui può anche alludere, con un vezzeggiativo rustico, al colore scuro della pelle (Brunetta). Pignatia è forma latinizzata, analoga a Egnatia, dal nome di una pentola in uso nel Mezzogiorno d’Italia, la pignatta.

p. 383

Il cognome di Segnizzo deriva da funus, e allude con un vezzeggiativo ad un destino funesto.

8

Proveniente da Acerra, paese montano dell’interno, a circa venti chilometri da Napoli.

9

Voce coniata maldestramente dal villano sulla base di posteritas, male intesa come se riferita alla parte posteriore della casa; egli si preoccupa che il contratto di vendita non comprenda tutta la casa.

10

La lettura dell’atto da parte del notaio si interrompe per l’intervento di Segnizzo.

11

Ancora una volta il villano non intende il vocabolo e crede che sia un errore per una voce simile che lui conosce, democula, e che è in realtà un sofisticato neologismo che il padre avrebbe inventato per ricordare un infortunio avvenuto nel prender possesso dell’abitazione (composto da demo -is, «togliere», «sottrarre», quindi «perdere», e oculus, «occhio»).

12

Nome fatto derivare forse dal raro genitivo sueris (citato da Festo) di sus -suis, il «porco». Tuttavia l’autografo aveva dapprima un suberatus (evidentemente da suber, la corteccia del sughero, come l’aggettivo, questo sì attestato, subernus) corretto in sueratus (sull’autografo non sono attestate altre mani, ma certo il manoscritto è passato dalle mani di Summonte copista). Più avanti lo stesso nome assumerà la forma di Sueranus (cfr. infra nota 25).

13

Avverbio non attestato, ma derivato da un verbo arcaico e raro, averrunco, che riguarda la rimozione religiosa di un cattivo augurio.

14

È la lezione dell’autografo (dove anzi si legge un veturbio corretto in vetuverbio), riprodotta dalla copia summontiana, nella quale di mano del Summonte è corretta in proverbio. La forma è ovviamente uno sproposito del contadino, il quale crede che questo sia il vocabolo che designa il proverbio, per il fatto di essere un detto «antico». Leon Battista ricorda in un

1514

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pp. 383-387

AZIO

contesto didascalico serio, la medesima norma della tradizione: «Sarà situato non bene quel campo a cui stia di petto il fiume» (Villa, in Id., Opere volgari, a cura di C. GRAYSON, Bari, Laterza,1960, vol. I, p. 359). La forma doveva essere ovviamente, nell’inventiva pontaniana, uno sproposito del contadino che sta parlando davanti al notario e sta lamentando sulla base di un proverbio che la casa messa in vendita sia lungo un fiume, e crede che questo sia il vocabolo per designare il «proverbio», che è appunto un detto «antico», come in realtà il contadino non avrebbe mai potuto decodificare. 15

«Te la venderà garantendotene il possesso»: termine giuridico.

16

Fuas è forma arcaica per sis; il contadino intende esprimersi perfi no in modo aulico.

17

Nome e cognome ricalcano in latino le forme volgari «peluccio», piccolo pelo (pilus), e «rossello», «un po’ rosso» (rufus).

18 Si riferisce al nome di Pilutius; il pelo è fastidioso. 19 Il nome proviene da hordeus, orzo, il cognome da panis e coctus, pancotto. 20

Il nome proviene da cochlea, lumaca, chiocciola, e dal verbo surripio -is, sottrarre, con evidente riferimento alla ruberia. Infatti il commento del villano si riferirà al pericolo che si nasconde sotto nome e cognome, come spiegherà subito dopo: come la lumaca, uno che porta questo nome consumerà tutto il suo e per buona parte dell’anno, vivendo poi di furto.

21

Il nome deriva da lardum (lardo) con un suffisso che corrisponde al volgare -azzo (quindi «lardazzo»), e il cognome dall’aggettivo fabarius (che riguarda le fave). Si riflette nel nome la qualità del personaggio, ben unto e ricco di frumento (triticum).

22

Forse Pontano s’inventa una forma arcaica di mus -ris, il topo (plur. moires), come quella di moirus per murus.

NOTE 23

Crumeram per crumenam (se tale lettura, confermata dall’edizione a stampa, è certa), è aggiunto nell’interlinea dalla mano di Pontano nella copia del Summonte, dove prima era scritto, come nell’autografo, «tuum in granarium», (granarium è metafora contadina per indicare la borsa che conserva il danaro). Ciò dimostra l’intenzione dell’autore, ancora nella fase della revisione, di accrescere il colore popolaresco usando un vocabolo consueto in Plauto per indicare il borsellino, non saprei se per errore o volutamente deformato.

24

Canterii sono i travicelli che sostengono il tetto, e quindi ben canteriatum è il tetto che ha un buon sostegno, mentre asserulatum, che ripete lo stesso concetto, non è forma attestata, poiché il vocabolo che designa la trave o il palo di legno è asserculum, non asserulum fatto derivare da asser con un diverso suffisso del diminutivo. Il riferimento alla cisterna ben fatta e al fabbro Averuncone derivano sicuramente da un testo giuridico antico che riguardava la stipula di un testamento e di un contratto di vendita, che fu edito nel sec. XVI e che Pontano dovette avere fra le mani manoscritto: cfr. R. COOPER, Rbelais’ Edition of the Will of Cuspidius and the Roman Contract of Sale (1532), in «Etudes rabelaisiennes», 1977, pp. 59-70. 25

A breve distanza l’autografo, seguito dalla copia summontiana, riprende il nome derivato da sus con una variante (Sueranum) della stravagante formazione; Suerato e Suerano sono l’uno il nonno del venditore, l’altro del compratore.

26 Neologismo, come il successivo duillabo. Il notaio invita il compratore a versare il danaro contando le monete ad una ad una. Il villano vuol contarle a due per volta. 27

Gli «ami» propriamente si dicono in latino hami (da hamus; hamatilia sono semmai gli arnesi forniti di amo), le reti si dicono retia (da rete; ma retiarius è chi combatte con la rete). I due vocaboli sono

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NOTE

AZIO

formati analogicamente, con un suffisso che generalmente riguarda nella versione volgare i mestieri (-arius > -aio).

38

28

Nota il gioco verbale evincet … vinciet; il primo verbo (evinco) è un termine giuridico, «recuperare con decisione giudiziaria», il secondo (vincio) si riferisce all’impegno con cui viene legata la parte avversa.

29

Bacem corrisponderebbe al volgare «bacino» o bacinella (vaso di argilla e concavo); cofinos ricalca la forma dialettale di «cofano»; riscum, unico dei tre vocaboli attestato in latino, è una rara occorrenza di riscus, usato da Terenzio (Eun., 4, 6, 16) per indicare la «cassa», il «forziere».

30

La voce latina triplumbatus è di nuova formazione.

31

Il latino dice è forma arcaica per dic e vuole arieggiare il dialetto.

32

Stravagante denominazione, di sapore popolaresco, di un dio inesistente. Era il soprannome di Asconio, un antico grammatico, e nella forma Pedanus rimandava all’antica cittadina laziale di Pedum, richiamata da Pontano in Charon, XI, come patria di Tibullo, in un luogo faceto del dialogo, dove uno dei grammatici irrisi aveva nome Pedanus.

33

Paolo Prassicio, fratello del più noto Luca, fi losofo, di cui nel 1520 fu pubblicata ad Aversa, presso l’editore Antonio De Frizis, una Impugnatio contro Agostino Nifo in difesa delle lettere contro le armi (cfr. F. TATEO, Le armi e le lettere in una disputa fra Agostino Nifo e Luca Prassicio, in Sapere e/è potere. Discipline, Dispute e professioni nell’Università medievale e moderna, Bologna, 1990, vol. I, pp. 85-99).

39

Giovanni Pardo, già interlocutore nella scena quarta dell’Asinus (cfr. nota relativa).

40

Pietro Golino, detto il Compatre generale (1431 ca-1501), autorevole membro dell’Accademia pontaniana, già interlocutore nella prima scena dell’Antonius (vd. nota 51).

41 Francesco Poderico, figlio di Errico personaggio dell’Antonius, consigliere e maestro razionale della Gran Corte di Napoli; fu allievo di Pontano. 42

Pietro Summonte, lettore di retorica nello Studio napoletano (1453-1526). Si occupò della stampa di opere di Pontano, di Cariteo e dell’Arcadia di Sannazaro e figura come dedicatario in alcuni dei loro componimenti lirici. Ricordato anche nelle Epistole di Antonio De Ferrariis Galateo, ci ha lasciato, fra i pochi scritti che gli si attribuiscono, un carme sulla Disfida di Barletta.

Ripetizione popolaresca; in realtà cauponor (trafficare) non è verbo attivo, ma è qui costruito con l’oggetto interno, «condurre una taverna».

43

34

44

Altro nome stravagante di un dio campagnolo, derivato da verres, il porco maschio non castrato, o il cinghiale.

pp. 387-391

Gabriele Altilio, già interlocutore nella scena quarta dell’Asinus (cfr. nota relativa).

Scrofarius per «porcaro» è neologismo peggiorativo.

45

35

Nota nel latino sicce il raddoppiamento del suffisso rafforzativo, di uso raro.

Ferrando Gennaro. nominato abate nel 1484 e morto alla vigilia dell’invasione di Napoli da parte di Carlo VIII.

36

46

Nel ms. del Summonte i due ultimi nomi figurano in margine, scritti dopo la cancellatura di due altri nomi, che si recuperano dall’autografo, Franciscus Putius e Ioannes Musephilus, che non intervengono nel corso del dialogo, secondo il testo tramandatoci.

37 Il latino agier è forma arcaica per agi (infi nito presente passivo di ago).

Gli ordini dei Predicatori, quello dei Francescani e quello dei Domenicani.

47

Si riferisce al passaggio delle Alpi da parte di Carlo VIII e allo sconvolgimento degli stati italiani. L’anno in cui questo avvenne, il 1494, può considerarsi un terminus post quem della composizione del dialogo.

1516

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pp. 391-403

AZIO

48

Nel testo latino il secondo cum, inserito nella trascrizione da Summonte, ma non cancellato nelle revisioni di V, dove si legge solo una proposta di espunzione, e accolto dalla stampa, modifica la sintassi del periodo collegando questa con la frase successiva. Si potrebbe pensare, piuttosto che a un errore di trascrizione da parte del copista, ad una sua interpolazione, riconosciuta dall’autore nella revisione, e dal Summonte ribadita nella stampa.

49 I mss. Portano desiderio … tuo, l’ediz. summontiana voluntati … tuae, che sembra dovuto all’intenzione di attenuare il senso di «bisogno». 50

L’autografo aveva affuerit (f. 323r), mentre nella copia summontiana (f. 6r) una mano non identificabile ha riscritto, ricalcando e non permettendo di leggere bene la scrittura precedente, adfuerit (e tuttavia Previtera legge adstiterit di mano di Pontano), che non riflette comunque l’ortografia pontaniana. La stampa ha tramandato astiterit, che forse era già la lezione della trascrizione originaria, non fedele, di Summonte. La precedente citazione dell’Aurora di Pontano allude ai vari luoghi in cui il poeta dell’Urania aveva segnato l’ora mattutina col sorgere dell’Aurora.

51

Imprimis nei mss.; la stampa porta la forma classica in primis.

52 Dopo migravimus e prima di Ego statim nella tradizione a stampa si legge «eo desiderio teneri, in vitam illam remigrandi quae animae cum corpore est communis. Atque his dictis, iisdemque conniventibus oculis ac superciliis, quasi abiens salutaret, discessit». Il personaggio Azio riferisce il messaggio rilasciatogli in sogno da Fernando Gennaro, secondo cui le anime nulla bramano di più che ricongiungersi col loro corpo. È difficile non riconoscere l’impegno posto da Summonte nell’attenuare un pensiero non propriamente eretico, ma che può ben sembrare tale, e che Pontano non si sarebbe mai preoccupato di rimaneggiare in senso ortodosso. Cfr. la Nota al testo.

NOTE 53

La lezione dell’autografo è conniventibus oculis (con gli occhi chiusi, o semichiusi), ma Summonte nella trascrizione si fa guidare probabilmente da GELL., 2, 1, 2, il quale dice di Socrate che era solito non chiuder mai gli occhi la notte (inconnivens). La in, non cancellata nelle revisioni di V, non ricompare tuttavia nella stampa.

54

Cfr. CIC., Rep., 6, 29 (Pontano ha presente le parole conclusive del Somnium Scipionis). 55

In effetti Cicerone riferisce (Tusc., 1, 19) che i Romani non facevano distinzione fra anima e animus, l’uno propriamente il soffio vitale, l’altro la forza dello spirito, e accoglie l’opinione, per altro errata, che il secondo vocabolo derivi dal primo. Comunque è documentabile che Cicerone preferisca dire animus, anche lì dove parla dell’immortalità dell’anima e della separazione dell’anima dal corpo (Tusc., 1, 79).

56

Cfr. il precedente intervento di Prassicio (12). Sull’obiettivo polemico nelle pagine dedicate alla costruzione di plenus, etsi, quanquam, e sull’uso di instar e nedum, dove sarebbe preso di mira Lorenzo Valla, cfr. G. M ARTELLOTTI, Critica metrica, cit., p. 371, nota 39. 57 TER., Eun., 1, 2, 25. In questa e nelle due frasi ciceroniane successivamente citate plenus è costruito con il genitivo, non con l’ablativo come l’aveva costruito Paolo Prassicio (§ 14: plena oraculis, visionibus). 58

ENN. (cfr. CIC., Cato (sen.), 1, 1).

59

CIC., Fam., 9, 22, 4.

60

Ibid., 16, 14, 1. Qui, e negli esempi successivi, lo stesso Cicerone usa l’ablativo, ma lo usano anche Tacito e Plinio.

61

CIC., Att., 3, 14, 1; Fam., 10, 16, 1.

62

TAC., Dial., 33, 25 (paratiorem codd.).

63

TAC., Hist., 1, 2, 1 (ma plenum è lezione recente; opimum codd.); 1, 2, 3. 64

PLIN., Nat., 5, 1, 9.

65

Cfr. CIC., Div., 1, 50 (dove però il testo

1517

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NOTE

AZIO

ciceroniano vulgato ha «plenus officii»), e Att., 8, 9a, 2 «hoc teras [i.e. monstrum] horribili vigilantia celeritate diligentia est plenum» (dove plenum è di una parte della tradizione).

83

66

SALL., Hist., 55, 1, 1.

67

CIC., De or., 46, 158.

68

Il «capricorno»; in realtà in Lucrezio, che usa il genitivo, si legge aegocerotis, che è la forma greca (dal nominativo aegoceros). Qui il Compatre difende la forma latinizzata aegoceron, -ntis. Analoga verrà considerata la forma Minonis (da un nominativo Minon in realtà non attestato).

69

L’indicativo, qui anomalo trattandosi di una interrogativa indiretta, risulta da una correzione di mano di Pontano, il quale avrà voluto evitare il ripetersi della stessa forma a breve distanza. Nell’autografo aveva scritto sit, riprodotto nella prima stesura di V. La stampa ribadisce il sit.

70

GERM., frg. 4, 158 (Aegocero codd.).

71

CIC., Att., 1, 19, 6.

72

Ibid., 6, 7, 2.

73

Cic., Fam., 9, 14, 4 (Dolabella codd.). Il corretto Dolabellam di A diventa Dolobellam in V, ma senza che alcuna revisione lo corregga, e passa con quest’ultima forma in Su.

74

Ibid., 13, 22, 1.

75

Ibid., 9, 3, 1.

76

CIC., Ac., 1, 4, 13; 1, 8, 30.

77

CIC., De or., 2, 1, 1; 2, 52, 210.

78

SALL., Iug., 3, 2.

79

LIV. 26, 48, 5; id., 29, 30, 4.

80

TAC., Germ., 29, 4; id., Dial., 34, 14. Nella costruzione di «quantunque» (quanquam) e di «anche se» si deve tener conto del fatto che in italiano tali congiunzioni non hanno l’alternativa che Pontano sostiene per il latino.

81

CIC., Att., 10, 16, 6; 9, 7a, 1.

82

LIV., 29, 30, 4.

pp. 405-417

PLIN., Nat., 9, 58.

84

Fragella, propriamente fl agella; l’autografo e la copia summontiana hanno fragella, mentre Su ha il normale fl agella. Ma fragella è anche in Asinus, VI, e riflette il volgare «fragello». 85

VERG., Aen., 2, 15-16.

86

CIC., Att., 16, 5, 5 (Tiro codd.); Or., 14, 44 (Nam et codd.); Brut., 51, 191 (omnium milium illum codd.; centum milium Camerarius). Antimaco di Colofone era un poeta contemporaneo di Platone, autore di una Tebaide. Cicerone riferisce in realtà una notizia data da Demostene: Antimaco era stato criticato per aver citato, fra tanti, Platone. 87

VERG., Aen., 2, 185-186.

88

CIC., Fam., 9, 6, 4 (Tusculanenses codd.).

89

VERG., Aen., 6, 865 (ipso codd.).

90

PLIN., Pan., 81, 1.

91

CIC., Off., 2, 20, 69; ma si ratta di un’interpolazione di mano di Summonte su una nota marginale di Pontano, che fa presumere appartenere allo stesso Cicerone gli esempi citati successivamente, che invece sono tratti ancora dal Panegirico di Plinio: 52, 5 e 37, 4; «et apud» è la lezione della princeps, seguita da Previtera. 92

HOR., Ars, 343; Epist., 2, 2, 99. Col punto si segnava sulla tavoletta di cera l’espressione del voto.

93

Si riferisce all’intelletto attivo che per Aristotele è separato (De anima, 5, 3) ed è necessario all’atto della conoscenza. La similitudine con la luce celeste che illumina le cose fa pensare all’interpretazione di Alessandro di Afrodisia che identifica l’intelletto agente con Dio.

94 È vocabolo usato da LUCR., 3, 734; 4, 337 (contages -is, «contatto»), che ha assunto un significato negativo nella voce «contagio» in riferimento all’epidemia. La voce greca sympathia si riferisce invece all’armonia fra le parti del cosmo, che permette anche il contatto fra il sensibile e l’invisibile.

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pp. 417-427

AZIO

NOTE

95 CLAUD., De VI cons. Hon., praef. 3-4, 7-10 (sopor codd.).

stampa ha rimediato con questa plausibile aggiunta («boni auctores tradunt»). In effetti la massima di Silla è dedotta dall’episodio.

96 Cfr. LUCR., 4, 987-1057, dove si parla delle sensazioni provocate dal sogno, che uomini e animali hanno nel sonno. Il testo di questa frase contiene qualche anomalia che Mariotti (Per lo studio dei dialoghi del Pontano, cit., p. 280) ha cercato di sanare sostituendo accidere con accipere. Ma l’autografo portava in prima redazione accidunt, che è perfettamente regolare, mentre la correzione in accidere dell’autografo, fi nito in V, potrebbe essere una svista dell’autore, il quale però potrebbe aver sottinteso videmus (o nobis videtur), che si ricava dal precedente videmur. 97

Dell’atrabile, l’umore nocivo circolante nell’organismo, scrive Aristotele a proposito del sonno e della veglia nei piccoli trattati di storia naturale (457a-457b).

98

Si riferisce a quello che dice Agostino nel De civitate Dei (VII-X) sulle capacità dei veggenti, pur discutendo la veridicità degli oracoli, nonché alla dottrina teologica dei sogni e delle visioni, e in genere ai fi losofi, o meglio ai dialettici e forse ai sufisti (disputaces homines), segnalando la novità del vocabolo, che riconduce all’uso di coniare vocaboli nuovi nella tradizione platonica dell’Accademia. Il riferimento a quest’ultima non è occasionale, perché la cosiddetta Accademia di mezzo aveva accentuato la critica nel senso dello Stoicismo ed aveva fama di eccessiva acutezza. È importante per Pontano che i sogni venissero accolti anche da fi losofi molto critici e sottili oltre che dai credenti. Disputaces è forgiato sul tipo di loquaces ed ha forse, analogamente, una sfumatura negativa.

99

Plutarco nelle Vitae riferisce la tendenza di Silla a credere alle premonizioni dei sogni (Silla, 27). Nella revisione di V Summonte ha tentato in un primo momento di integrare la proposizione oggettiva, che dava la notizia tramandata da Plutarco, con tradunt, per evitare che dipendesse da neque defuere qui arbitrati sint; nella

100

Si riferisce a Giovanni Pontano, che altre volte designa semplicemente come Senex il maestro dell’Accademia.

101

Cfr, Antonius, 13, dove è tramandata la lezione oscitatius in un cotesto molto simile («quid oscitatius videas», «che potresti vedere di più atto a far sbadigliare?»). Qui la lezione tramandata, che è quella corretta, è confortata dall’autografo.

102 VERG., Aen., 1, 3 («[…] molto per terra sbattuto e pel mare profondo»). 103 Il sostantivo collisio, non solito in relazione con le lettere, ma connesso col verbo collido, che Quintiliano usa trattando dell’armonia (Inst., 9, 4, 37) per indicare lo scontro fra consonanti simili che procura stridore, viene riferito in questo caso all’incontro che avviene fra più vocali che si ripercuotono e si raddoppiano (u, i, e). Il verso è per altro esemplare di quella ripetizione di consonanti che Pontano per primo chiamerà allitterazione. 104

VERG., Aen., 1, 5 («soffrì anche molte in guerra fatiche a fondar la cittade»). 105

Inclinativae chiama Pontano le enclitiche anche nell’autografo (Cfr. PRISCIANO, in Keil, Grammatici latini, III, p. 466, 1-3); ma cfr. infra nota 125.

106

VERG., Aen., 6, 167 («le battaglie affrontava, padrone del corno e dell’asta»). 107

VERG., Georg., 1, 482 («Eridano re dei fiumi»). 108

L’uso pontaniano anomalo nella grafia del vocabolo (dyssyllabicis per disyllab-), nelle sue varietà morfologiche, è attestato dall’autografo di questo dialogo e dagli interventi, di mano del Pontano, sulla copia del Summante, il quale riproduce più volte l’uso dell’autore, ma talora se ne discosta. Nella stampa è tuttavia usata la forma corretta (cfr. Nota al testo).

1519

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NOTE

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109

121

VERG., Aen., 1, 33(«era di tanto peso fondare la stirpe romana»).

110

Ibid., 1, 18 («se lo permettono i fati, or già la dea il sogno accarezza»).

111

Ibid., 7, 724 («curru iungit Halesus equos [Turnoque ferocis]» codd.; «Aleso attacca i cavalli al cocchio»). Iungit Alesus equos, senza curru con cui s’inizia il verso virgiliano presupponendo la cesura dopo Halesus, equivale ad un emistichio di quinario elegiaco.

112

VERG., Aen., 12, 165 («con le mani vibrando due aste dal ferro ben largo»).

113

Ibid., 9, 552.

114

Ibid., 10, 503 («tempo verrà per Turno»), 815 («raccolgono i fi li le Parche»).

115 CAT., 64, 4-7 («Quando giovani scelti, vigor dell’esercito argivo, / il vello d’oro ai Colchi strappar bramando, osarono / esplorar con la nave le salse distese del mare / coi lignei remi le acque profonde, cerulee, solcando»). 116

pp. 427-439

Ibid., 4, 1-2.

122

Ibid., 2, 310-313. In Virgilio il modulo del v. 313 si ripete (11, 192). Pontano intende far notare la variazione delle lettere che dà luogo ad una paronomasia (clamor clangor) e la variazione del complemento di specificazione, prima con due, poi con tre sillabe, nonché la successione di quattro bisillabi del verso precedente, ognuno dei quali fa sentire un suo accento, anche se freta non ha un accento ritmico essendo costituito da due brevi; perciò forse Pontano attenuerà la sua affermazione con pene. Successivamente farà notare la durezza della sillaba cla e l’ispidità della fi nale in or, per via soprattutto della r, oltre al suono cupo (obscuritas) delle fi nali in um del modulo composto da due elementi (copulatio). 123

VERG., Aen., 2, 314.

124

Ibid., 1, 87. I suoni cupi sono dati dalle vocali u e o.

125

Cfr. supra, nota 105. Tale denominazione delle enclitiche compare in V anche in questa seconda occorrenza, dove però una correzione la muta in inclinante, che è la lezione della princeps e dell’ed. Previtera.

VERG., Aen., 11, 378. («è sempre grande, Drance, la gloria che acquisti parlando»). Nell’autografo la forma dell’aggettivo è sempre dyssyllabicus, riprodotto da V e corretto da V1, mentre per la forma sostantivale è adoperato generalmente dyssyllabus (o dyssyllabum).

126 VERG., Georg., 1, 85. Interstrepo è un verbo di nuova formazione, che può riferirsi al riecheggiare del crepitio.

117

127

VERG., Aen., 6, 313.

128

Ibid., 6, 330.

129

Ibid., 1, 92.

VERG., Aen., 5, 80 («Salve, mio santo padre, e ceneri sante che invano / foste salvate»).

118

Ibid., 7, 647-648 («Primo dà inizio alla guerra, fiero, dai liti tirreni / Mezenzio, spregiatore degli dei ed arma le schiere»); «agminaque armet» è dunque un esempio di collisio, annullata invece da agminaque et armat. Il termine collisio è esplicitato subito dopo come assultus vocalium.

130

Ibid., 1, 66-67; 2, 650; 6, 469; 1, 50. Al centro dell’ultimo verso Pontano segnalerà tre disillabi, secum dea corde.

131

Ibid., 9, 36-39. Questi e i versi successivi risuonano qua e là nel Sertorius.

132

Ibid., 10, 730-744.

133

VERG., Aen., 2, 1-3. («Tacquero tutti, e i volti tenevano intenti guardando, / sin che dall’alto suo scanno così incominciò il padre Enea: / un indicibil dolore, mi fai ricordare, o regina»).

Il vocabolo latino fluctuatio è la varietà nella collocazione degli accenti, ottenuta evitando di dipsorre dattili e spondei nella stessa sede del verso, in modo da avere serie di versi con ritmo vario.

120

134

119

VERG., Aen., 6, 1-2.

PONT., Urania, ed. a cura di B. Soldati,

1520

Pontano.indb 1520

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pp. 439-447

AZIO

NOTE

Firenze, Barbèra, 1902, I, p. 129 (4, 426428); il passo riguardava la costellazione equatoriale della Balena (Pistrix).

forse soprascrive una a appena visibile, tanto da poter giustificare la lezione della princeps. La divisione dell’enclitica è comunque dell’uso pontaniano.

135 Ibid., 4, 434-438 (nell’ed. Soldati Hic unco). 136

Ibid., 4, 450-454.

137 Ibid., 5, 581-587. Il passo riguarda le terre soggette allo Scorpione e a Marte, e cioè la Mauritania, cui appartengono i luoghi citati. Per vastata feris di V e Ora iubis (in luogo di Arva fame) vd. l’apparato dell’ed. Soldati. 138 Ibid., 5, 602-607. Il passo riguarda le terre soggette al Cancro e alla Luna. Per Cinyps, fiume della Libia, Pontano adotta la grafia Cynips, come attestano l’autografo, il ms. del Summonte e il testo dell’Urania. 139

Pontano cita due versi della sua Urania, 4, 312-13 («osando sé alle vergini del mare anteporre e la sua, / bellezza ostentando, armar le sorelle marine»), ma nella forma non defi nitiva («alle vergini osando del mare anteporsi e la propria / bellezza ostentando»); riporta successivamente quella defi nitiva. La precedente redazione non compare nella prima stesura del ms. dell’Urania adoperato dal Soldati (Vat. Lat. 2837).

140

Aristotele, che non tratta specificamente di questa qualità dell’elocuzione, discute però dei generi di elocuzione e della distinzione fra prosa e verso nella Rhet., 3, 8-9 (1408b-1410b) e nella Poetica, specialmente dove si occupa della chiarezza (22; 1458a-1459a).

141

Nel Meteororum liber (v. 1356) il verso compare nella forma successivamente riportata, mentre l’autografo pontaniano (Vat. Lat. 2838) testimonia soltanto, come redazione precedente, Et laticem de marmoreis stillare columnis. 142

VERG., Aen., 5, 13 («Ahimè, che enormi nuvole occuparono l’atmosfera»); qui nam: quianam codd.; ma l’autografo porta quid nam seguito da V, mentre V1 cancella d e

143

VERG., Aen., 1, 87 («segue un clamore di gente e uno stridore di corde»). 144

Ibid., 1, 444-445 («la testa di un focoso cavallo: la gente sarebbe / stata grande guerriera e per secoli vittoriosa»). La dea Giunone aveva fatto rinvenire ai Cartaginesi la testa di un cavallo focoso, segno della grandezza futura del popolo; vd. l’intero passo citato successivamente. Qui il testo pontaniano non è chiaro, perché pare che voglia riferirsi ad uno solo dei due versi citati (versus huius) e ai tre versi precedenti del testo virgiliano, citati successivamente, e che si concludono appunto con bisillabi accentati (ma anche il primo emistichio si conclude con bisillabi accentati). In realtà disyllabicis dovrebbero essere le dictiones, non gli accenti. Di qui l’incertezza della traduzione.

145

Per la storia testuale di questo vocabolo e la sua ortografia vd. supra, nota 108.

146 VERG., Aen., 1, 141-145 («Nel mezzo alla città c’era un bosco felice per l’ombra, / lì prima dall’onde sbattuti e da una burrasca i Fenici / scavar trovando il segno dalla regina Giunone, / la testa di un focoso cavallo: la gente sarebbe / stata grande guerriera e per secoli vittoriosa»). Cfr. n. 144. 147

VERG., Aen., 1, 58 («Non facendolo i mari, la terra ed il cielo profondo […]»). 148

Ibid., 1, 96 («Soccomber toccò, o eroe del popolo dauno, Tidide»).

149

Ibid., 1, 333 («erriam col vento, orribili qui ci sospinsero i flutti»).

150

La posizione di huc nel verso virgiliano, con l’anastrofe della congiunzione, crea una pausa artistica, che si perderebbe spostando lo iato e riducendo l’effetto della pausa per via della congiunzione.

151

VERG., Aen., 1, 104 («Frangonsi i remi, allora altrove si volge la prora»)

1521

Pontano.indb 1521

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NOTE

AZIO

152

165

Ibid., 1, 405 («e dea verace sembrava, al passo, lui vista la madre»).

153

Ibid., 1, 1, 428-429 («piazzano le fondamenta, ed altri immani colonne / tagliano dalle rupi, per scene future ornamento»).

154

Ibid., 1, 524 («per tutti i mari dai venti portati infelici Troiani / [preghiamo]»).

pp. 447-453

Per collisio cfr. nota 98. Lo scontro e l’incontro delle vocali, che producono lo iato, sono denominati con due termini, contusio e concursus, di cui solo il secondo è attestato in riferimento alla lingua (cfr. CIC., Or., 77; QUINT., Inst., 9, 4, 33).

166

155

La concisio è propriamente la divisione di una sententia in brevi membri: cfr. CIC., Part., 6, 19. Qui Pontano si riferisce alle parti del verso delimitate dalla cesura.

156

167

Ibid., 1, 599 («per le sventure sfi niti, e d’ogni cosa anelanti»).

Ibid., 1, 99 («dov’Ettor fero soggiace all’eacide freccia, ove il grande [Sarpedone]»).

157

Ibid., 7, 648 («[entra in campo] / lo spregiator degli dei Mezenzio armando le schiere»).

158

Ibid., 1, 448 («[il tempio] /cui le soglie di bronzo coi gradini salivan, connesse / eran di bronzo le travi»).

159

Ibid., 5, 422-423 («e delle grandi membra mostrò le giunture, e la faccia / anche e i muscoli»).

160

Ibid., 7, 160-161 («E già, fatto il percorso, i tetti Latini e le mura / alte vedean»).

161

VERG., Georg., 2, 69-70 («Ma s’innesta al fecondo noce l’irsuta erica / e pur sterili i platani producono meli feraci»). Le edizioni moderne hanno «et fetu nucis arbutus horrida» (vd. l’ed. Hirtzel, Oxonii, 1900), mentre gran parte degli editori seguono il cod. Mediceo, «et nucis arbutus horrida fetu»: la lezione riportata da Pontano non è attestata. Sulla base della sua lezione Pontano farà notare lo iato fra horrida ed et. In realtà l’ultima sillaba del verso, ipermetro, viene assorbita dalla prima del verso successivo.

162 VERG., Aen., 3, 5-6 («E una flotta sotto la stessa /Antandro e sui colli dell’Ida frigia allestiamo»). 163

VERG., Georg., 2, 224-225 («Tale è quella che ara la ricca Capua e la piaggia / accanto al monte Vesuvio»).

164

Cfr. GELL., 6, 20, 1. Virgilio avrebbe mutato successivamente Nola in ora.

Sono così denominate le cesure quando cadono dopo il terzo, dopo il settimo, dopo il nono mezzopiede; la forma tritimemeris per tritemimeris è comune ai nostri manoscritti e alla stampa.

168

Dei tre termini che Pontano introduce per defi nire la figura metrica dell’elisione, solo explosio ha una, sia pur rara e non tecnica, attestazione; ademptio ed extrusio sono fatte derivare dai verbi corrispondenti ademo -is, extrudo -dis («toglier via»).

169

CIC., Or. 23, 77; 45, 152. Cfr. nota 165.

170

Il verbo complodo, dal quale Pontano fa derivare complosio, termine corrispondente allo «iato», quando le due vocali non si congiungono nella lettura (dialefe), indica propriamente il battito delle mani nell’applauso. Il corrispondente termine del tardo latino, derivato dal verbo greco boáo, era usato in questo senso da grammatici come Marziano Capella. 171 VERG., Georg., 281(«tre volte si sforzarono di porre l’Ossa sul Pelio»). 172

VERG., Aen., 3, 211 («nel grande Ionio»).

173

Cfr. nota 170.

174

Cioè nei testi dove ricorrono parole derivate dal greco, in quanto in greco è più consentito lo iato senza sinalefe.

175 VERG., Georg., 1, 437; Aen, 1, 617, Ecl., 2, 24. 176 VERG., Aen., Prooem., 1 («quell’io che un tempo»; 2, 26 «Tutta la Teucria dunque si sciolse in un lungo pianto»; 1, 55 «essi sdegnandosi con un grande brontolio del monte»).

1522

Pontano.indb 1522

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pp. 453-459

AZIO

177

NOTE

Il verbo solido -as, da cui Pontano ha derivato l’indicativo solidesco, con significato medio, è un verbo attivo («reder solido»).

186

178

187

VERG., Aen., 4, 12; 2, 77.

179

Ibid., 1, 520 («dopo che furo entrati»); 1, 44 («lui che spirava col petto trafitto»); 5, 181 («e lui che cadeva i Teucri…»). 180

ENN., Ann., 10, 33 (Valmaggi).

181

Cfr. CHAR., in Keil, Gramm. Lat., I 112, 5 («sat pro satis» e «sed pro sedum»), Cfr. infra nota 473.

VERG., Aen., 1, 189 («E proprio i duci che il capo alto levavan per primi»). Il successivo fl accescere è usato in CIC., Brut., 93. VERG., Aen., 1, 49 («, o darìa inoltre, supplice, offerte in onore sull’are»).

188

La lezione dell’autografo (consonando), trascritta in V, viene modificata forse da Summonte in forma di proposta (con non è cancellato, ma soltanto sottolineato).

L’iscrizione tombale, collocata sulla lapide fra l’immagine del fanciullo morto e della madre, è riportata nel CIL, IX 2045 (=1807). Circa l’interesse di Pontano per le iscrizioni antiche, delle quali aveva compilato anche un repertorio, e l’utilizzazione dell’epigrafia per la storia della lingua latina, cfr. G. GERMANO, Il De aspiratione di Giovanni Pontano, 2005, pp. 215-268.

189 VERG., Aen., 1, 58 («Non lo facesse, i mari, la terra ed il profondo del cielo»). Nell’autografo Pontano aveva scritto et maiore, Summonte aveva trascritto etiam maiore, che hanno entrambi un senso, perché si limitano a rinforzare il comparativo; ma la cancellatura di etiam (V1), è forse dovuta all’apparente ridondanza (quoque etiam) e risale forse alla revisione di Pontano che interviene in quel luogo per aggiungere fit. Il verso è già citato al § 55.

183

190

182

L’epitaffio, di cui Pontano riporta le due frasi che contengono parole in cui non comparirebbe la m fi nale, proviene dalla città di Telese, presso Benevento, ed è riportata nel medesimo volume del CIL al n. 2272 (= 4892). Le tre iscrizioni dicono rispettivamente: «fato infelice avrei dovuto morire io per prima», «la madre Olimpia sconvolta eresse questo monumento», «io, chiamata Apollonia, racchiusa in questo sepolcro, avuto in sorte un solo marito, ho serbato la castità. La povera madre Olimpia, fuori di sé, ha fatto costruire questo monumento». Nell’epitaffio l’ordine delle due frasi citate è inverso (sulla natura metrica dell’epitaffio e su una probabile ragione dell’inversione da parte di Pontano, cfr. M ARIOTTI, Per lo studio dei dialoghi del Pontano cit., p. 279).

184

LUCR., 6, 877 (gelum codd.) 2, 388 (cornum codd.).

185

Il fenomeno dell’espulsione della s s’incontra per esempio in LUCR, 4, 1022; 1028; 1035, in un libro che certamente Pontano aveva presente perché ad esso fa implicito riferimento (cfr. § 33).

Questo passo, compresi alcuni degli esempi riportati di seguito, ripete con qualche piccola variante nel testo e nella scelta esemplificativa, un passo precedente (cfr. § 55). Nella copia summontiana (f. 34rv), che seguiva regolarmente l’autografo (c. 350rv), risulta espunta tutta la parte ripetitiva, ma ripristinato, sembra dallo stesso Pontano, questo passo (At in quarto … Virgiliani illi, con gli esempi che seguono).

191 VERG., Aen., 1, 142 (sic ait codd.); 1, 428-429; 1, 405-406; 1, 524; 1, 599 (exhaustos è la lezione vulgata, contro exhaustis delle Schedae vaticanae); 1, 99. 192

Ibid., 4, 665-666 («sale il clamore fi no alle alte dimore»).

193

Ibid., 5, 106-107 («la fama ed il nome di Aceste illustre / i vicini avea richiamato»).

194

Ibid., 5, 110-111 («i tripodi sacri nel mezzo, le verdi corone e le palme, / compenso ai vincitori»).

195

Ibid., 4, 358-359 («l’ho visto in manifesta luce entrar nel porto», portus: muros codd.)

1523

Pontano.indb 1523

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NOTE

AZIO

196

204

CLAUD., De raptu Proserpinae, 1, 3252 (conubio: conubiis codd.; movet: vocat codd.; arcto: aucto codd.; vibrasset: vexasset codd.; pensis: fusis cod.); baratro per barathro, Thisiphone per Tisiphone sono la grafia di A e V. Il passo di Claudiano si caratterizza per la profusione dell’enjambment, la continuatio, di cui successivamente si evidenzia l’uso moderato in Virgilio. 197

VERG., Aen., 1, 34-54; me ne è dell’uso pontaniano. Nota nel commento successivo la similitudine del saccheggio (populabundus è il saccheggiatore), con il bisticcio regionem-rationem.

198

In seguito per questa figura introdurrà il termine di alliteratio.

199

VERG., Aen., 1, 41 («per il crimine e l’ire soltanto di Aiace Oìleo»).

200

Ibid., 1, 52, 56.

201

Ibid., 1, 44, 53. I due versi, di cui il primo presenta un troncamento (illum expirantem) e il secondo nessuno iato (e quindi nessun legamento), contengono quattro spondei, e gli spondei danno stabilità al verso. Di qui il nuovo senso tropologico del verbo stabilio, precedentemente usato, in contrapposizione al volo e alla corsa (praetervolo, excursio).

202

Quattro volte, ossia nei quattro versi di seguito citati.

203

Usando il maschile, il testo latino si riferisce in modo anomalo, con i successivi senos, quinos, quaternos, ternos, alle dictiones bisillabiche, di cui si è mostrato il pregio. Ma il genere maschile, su cui Mariotti (p. 279) propone di intervenire emendando, è attestato dall’autografo oltre che dalla copia summontiana e dalla stampa; sicché piuttosto che una svista l’anomalia potrebbe considerarsi dovuta all’equivalenza fra dictio disyllaba e disyllabus, e quindi derivare da un accordo ad sensum. È invece opportuno eliminare l’integrazione di ut operata nella stampa, ma non richiesta dalla simmetria.

pp. 463-473

VERG., Aen., 1, 12; 1, 159 (secessu codd.); 7, 45; Georg., 4, 418; Aen., 11, 522; 8, 1; 6, 1; 4, 1. 205

VERG., Aen., 7, 1; 601; 3, 147.

206

Ibid., 1, 105; 2, 170; 2, 250; 10, 2 (in questo caso il dattilo non precede immediatamente il monosillabo).

207 LUCR., 2, 615 («e si sono scoperti ingrati verso i genitori»; sint codd.) Lucrezio va contro la norma collocando al quinto piede uno spondeo. 208 VERG., Aen., 1, 444 (monstrarat codd.); 2, 112; 4, 461; 2, 151; 4, 9. 209

Ibid., 4, 47; 3, 156; 6, 187.

210

Ibid., 4, 224; 11, 16; 12, 48.

211

Ibid., 6, 546 («Va, gloria nostra va, godendo di fati migliori»).

212

Ibid., 3, 59; 1, 417; 6, 835; 3, 11; 6, 76; 5, 237; 9, 541; 4, 543.

213

SALL., Iug., 51, 1.

214

VERG., Aen., 2, 125; 1, 649.

215

Ibid., 2, 102; 2, 68; 2, 11.

216

Ibid., 2, 389 («scambiam gli scudi e [a noi] le divise daunee [adattiamo]»).

217

Ibid., 2, 414-415.

218

Ibid., 2, 474; 1, 502.

219

Ibid., 1, 282 («i Romani signori del mondo e stirpe togata»).

220

Ibid., 3, 690-691 («Ripercorrendoli indietro, dei lidi già scorsi narrava / l’Achemenide»).

221

Ibid., 3, 82.

222

CAT., 64, 356 («Correte, fusi, correte, la trama tessendo traete»). 223

HOR., Ars, 388.

224

VERG., Georg., 1, 29-30 («o dio dell’immenso mare tu venga e i marinai [te soltanto adorino]»). 225

Il § 75 è nel Vat. Lat. 2843 un’aggiunta nel mg. inferiore del f. 44v, tutta di mano di P, e conserva la grafia impropria dyssyll- (cfr. Nota al testo). La preposizione, che del resto

1524

Pontano.indb 1524

16/07/2019 13:07:44

pp. 473-487

AZIO

NOTE

risponde alla simmetria del testo latino, pur potendosi omettere, è in realtà difficilmente leggibile, confusa con la finale di inde.

dagli accenti metrici. Sull’ordine delle parole nel testo latino alla fi ne del paragrafo, cfr. apparato e Nota al testo dell’ed. 2018.

226

245

LUCR., 1, 3.

VERG., Aen., 2, 255; 6, 423; 2, 389; 6, 159; 1, 642.

246

Ibid., 1, 113.

247

Ibid., 1, 939.

228

248

Ibid., 1, 29; ai per ae è desinenza arcaica.

VERG., Georg., 1, 30.

227

VERG., Georg., 2, 128; VERG., Aen., 2, 45; 3, 133; 11, 16.

249

VERG., 5, 755; 2, 13; 1, 87; 7, 337 (funereasque codd.).

Ibid., 1, 240; superfluens, ossia superflua o ridondante era -du-, che fa aumentare di una sillaba impedita.

230

250

229

Ibid., 2, 7; 7, 208; 7, 791.

231

Ibid., 6, 164; 8, 648; 5, 580 (ma discrimine nullo non appartiene a questo verso; altrove Virgilio dice nullo discrimine, e in fi ne verso discrimine tanto o parvo); 3, 216217; 2, 114 (suspensi Eurypilum … Phoebi / mittimus codd.); Georg., 4, 511; Aen., 2, 9. 232

LUCR., 1, 162.

233

VERG., Aen., 1, 500.

234

Ibid., 8, 54. Pallantis … Pallanteum di A (f. 360rv; §77) diventa Palantis … Palanteum in V (f. 46r), dove viene emendato forse da P limitatamente al primo nome, per distrazione o per altra ragione che non è dato sapere (cfr. la nota al testo in Actius, 2018); e comunque l’editore uniformerà i due nomi con la scempia riproducendo V. 235 236 237 238

VERG., Aen., 12, 83. Ibid., 3, 549 (antemnarum codd.). LUCR., 2, 821. VERG., Georg., 1, 356.

HOR., Sat., 1, 6, 4. In questo verso al contrario imperitarint per imperitaverint riduce il numero delle sillabe.

251

VERG., Aen., 1, 72; 6, 393, 447; Georg., 4, 270. 252

VERG., Aen., 10, 1.

253

Ibid., 6, 489.

254

Ibid., Aen., 6, 639.

255

VERG., Georg., 3, 344.

256

VERG., Aen., 3, 111; 3, 707 (inlaetabilis codd.). Per quel che riguarda le precedenti citazioni, in 12, 858 i codd. danno in effetti «telum immedicabile torsit»; in 1, 708 «tempestatibus actis» o «actus» (la variante actas non è attestata); in 1, 726: «lychni – aureis». 257

PETR., Sat., 123.

258

Invece di imperator, ingredi, impeditus.

259

VERG., Aen., 11, 252; Georg., 2, 493.

260

VERG., Aen., 7, 410; 6, 838.

261

Ibid., 2, 549.

262

Ibid., Aen., 10, 822.

263

Ibid., 6, 287.

264

Ibid., 8, 103.

265

Ibid., 3, 248.

266

Ibid., 5, 492.

267

Ibid., 6, 393.

268

Ibid., 11, 659.

239

Ibid., 1, 357-359 (horridus: aridus codd.). 240 241

Ibid., 3, 499. Ibid., 5, 1-7 (Elissae codd.).

242

Ibid., 2, 509-524 (iuvenilibus: iuvenalibus codd.). 243 244

Ibid., 2, 675.

Nove sono gli accenti del verso, perché ogni parola ha un suo proprio accento tonico che concorre alla numerositas, la ricchezza, l’intensità del ritmo, a prescindere

269

Ibid., 10, 794; un espediente artistico è il distacco della preposizione in dal verbo inligatus per far tornare il verso.

1525

Pontano.indb 1525

16/07/2019 13:07:44

NOTE

AZIO

270 LUCR., 6, 1264. Questi ultimi due versi citati non contengono vocaboli lunghi alla pausa, ossia alla fi ne del verso, ma l’effetto degli accenti è supplito dal numero maggiore di vocaboli brevi.

285

271

VERG., Aen., 2, 427. Le prime due sillabe di servantissimus formano uno spondeo, il resto è un dattilo completo che copre la quinta sede.

273

LUCR., 1, 547; 1, 574 (sunt igirur solida pollentia codd.); 1, 1027 (tandem deveniunt codd.).

274

VERG., Georg., 4, 448.

286

Ibid., 2, 61. Il quinto dattilo, di cui si parla successivamente, e che arricchirebbe di un accento il verso, comprende la et, mentre Pontano nell’autografo, seguito da V e dalle edizioni, non conclude il verso, integrato da Previtera.

287

VERG., Aen., 2, 48; 7, 466; Georg., 2, 123.

288

VERG., Aen., 2, 483.

289

Ibid., 2, 125.

290

Ibid., 2, 104; 4, 461.

272

HOR., Sat., 1, 1, 100 (divisit medium codd.).

pp. 489-503

291

Ibid., 2, 23; 2, 30; 2, 338; 2, 473; 8, 216; 4, 172; 3, 101(vocet codd.; ma vocat è in A e V); Georg., 4, 157.

Ibid., 2, 292; 2, 301 (condicione et erunt et crescent vique valebunt codd.).

292

LUCR., 1, 732.

275

293

VERG., Aen., 7, 526.

294

Ibid., 4, 95 (duorum est codd.); 3, 43.

LUCR., 5, 1092.

276

I piedi si intrecciano quando la parola supera la misura del piede e occupa parte del piede successivo.

277

Sciolti sono i piedi che non si collegano con gli altri per via di una parola comune. Solutio è appunto tale fenomeno.

278

VERG., Aen., 3, 697 (loci veneramur codd.).

279

VERG., Aen., 1, 41 («per la colpa di uno solo»); 3, 461 («Questo è quanto è permesso a noi»). Dopo unius (trisillabo) ed haec (monosillabo) il primo piede è concluso, nn si lega al secondo piede con una voce a cavallo dei primi due piedi.

280 LUCR., 5, 1092. Il primo piede è composto di sillabe che formano uno spondeo e quindi lo occupano interamente. 281

VERG., Aen., 4, 553; 8, 693. Nei due versi citati sono legati sia illa suo che Tanta mole, mentre nel verso precedente, cioè quello di Lucrezio, la duplice mancanza di legame è fra fulmen e detulit e fra detulit e in. 282

295

Ibid., 2, 111; 3, 77 (immotamque coli codd.); 6, 172; 6, 346.

296

Ibid., 2, 691 («da’ infi ne un aiuto, padre, e questi presagi conferma»; atque haec, quarto piede, non è soggetto ad alcun legamento.

297

Ibid., 3, 74 («delle Nereidi alla madre ed a Nettuno Aegeo»). Sono tutti spondei, anche il quinto piede, e vi sono due leganmenti (matri et, Neptuno Aegeo).

298

In questo caso (contrariamente alla princeps) l’autografo aveva il verso desino costruito con l’ablativo in un’aggiunta interlineare dell’autore, come anche altrove (§§ 46, 90).

300

VERG., Aen., 3, 191.

301

Ibid., 1, 696; 2, 84; 3, 252; 3, 70.

302

Ibid., 1, 719 (insideat: lezione testimoniata da alcuni codici virgiliani, contro insidat); 3, 11.

Ibid., 6, 791; hic est e quem promitti sono a cavallo fra due piedi.

303

283

304

Ibid., 11, 445. Lo iato cui si riferirà successivamente è in Illi haec.

284

Ibid., 10, 879.

Ibid., 3, 207; 2, 605; 6, 802; 2, 353.

299

Ibid., 7, 458; 7, 319.

Explosio è il legamento metrico fra una parola che termina per m e la parola seguente che comincia con una vocale.

1526

Pontano.indb 1526

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pp. 503-511 305

AZIO

VERG., Aen., 2, 250.

306

VERG., Georg., 1, 357 («[le onde del mare] incominciano ad agitarsi e a gonfiarsi [e incomincia a udirsi] sugli alti [monti.] un arido [fragore]»). 307

VERG., Aen., 2, 242 («O patria, o Ilio casa degli dei, e in guerra famose / dei Dardanidi mura»). Si riferisce allo spondeo in seconda sede (O patria o divum), che frena la serie die dattili, e forse al troncamento in Ilium et.

308

VERG., Aen., 6, 186 (forte precatur codd.).

309

Ibid., 6, 310; il terzo piede (aut ad), nel quale fra l’altro cade la cesura, è sciolto dal quarto (terram) è il primo ad essere slegato, poiché è slegato anche il dattilo successivo (gurgite). 310

La complosio riguarda il fenomeno contrario all’explosio (cfr. nota 331); lo iato allora dà luogo quasi ad un urto, ad uno scontro, non essendoci l’espunzione di una delle due vocali. 311

Pontano dichiara la sua iniziativa di denominare alliteratio la literarum allusio, il gioco consistente nella ripetizione di una lettera. Precedentemente aveva usato il termine retorico più consueto per indicare la ripetizione di lettere in parole diverse, annominatio (§ 68). Un esempio di uso pontaniano dell’allitterazione è in PARENTI, Pontano o dell’allitterazioni, 1975. 312

VERG., Aen., 1, 295; 3, 183; 2, 84; 5, 866; 1, 124; 4, 526. 313

LUCR., 6, 719-20 («in senso avverso i soffi al suo fluire / spirano»). 314

CIC., Brut., 38, 142; De or., 2, 72, 295.

315

PLAUT., Poen., 358 (pectas codd.; plectas non manca nella tradizione).

NOTE 319

Ibid., 11, 627.

320

VERG., Aen., 4, 460-461.

321

LUCR., 2, 103.

322

VERG., Georg., 1, 74:

323

LUCR., 1, 326.

324

Ibid., 2, 645; 5, 779; 6, 1188.

325

VERG., Georg., 1, 357.

326

VERG., Aen., 10, 820; 6, 187; 5, 580; 1, 739. 327

Ibid., 6, 76.

328

Ibid., 3, 145; 2, 43-44.

329

Ibid., 1, 12-13; 9, 3-4; 4, 422-423; 7, 602603.

330

VERG., Aen., 1, 35; 9, 323; 8, 621; 4, 489; 4, 415; 6, 93; 5, 731. 331

Ibid., 2, 250; 4, 174; 9, 37; 5, 27; 8, 694; VERG., Georg., 2, 13. Sono tutti esempi in cui avviene uno scontro (concursus) fra le sillabe per via della vocale fi nale e iniziale di parole contigue. Più avanti si useranno i termini di concursatio e conflictatio, che riguardano propriamente l’elocuzione. 332

Ibid., 3, 606; Georg., 1, 281; Aen., 3, 128 (certamine codd.); 5, 261.

334

Ibid., 3, 607; 5, 804; 3, 665; 3, 678 (ferentis codd.); 6, 552.

335

Ibid., 5, 143; 9, 50; 10, 306; 9, 181; 8, 596, 402; 11, 614 (perfractaque codd.); 10, 877, 784-785; 12, 733 (Fugit ocior Euro codd.).

336

317

CIC., Brut., 31, 119; 31, 121.

318

VERG., Aen., 6, 506; 9, 60; LUCR., 1, 728.

Ibid., 8, 89; 9, 443.

337

Ibid., 1, 418; VERG., Georg., 1, 191; Aen., 8, 446.

338

VERG., Aen., 9, 506.

339

Ibid., 7, 466. L’allusio, ossia il gioco della ripetizione, si riferisce alla v e alla t.

340

316

VERG., Aen., 2, 125; 10, 503; 8, 239, 318; 9, 66; 8, 393; 3, 656; 11, 351; 6, 462; 11, 284; 4, 604.

VERG., Aen., 9, 691-692.

333

VERG., Aen., 3, 690 (retrorsus codd.).

341

QUINT., Inst. 3, 8, 29, usa il termine conflictatio per indicare la lotta (deformis et incommoda) della moltitudine fra i motivi con cui, a proposito del genere deliberativo, deve cominciare l’orazione sull’edifica-

1527

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NOTE

AZIO

zione di un teatro, l’istituzione dei giochi, come l’utilità, l’onore, etc. Qui il termine sembra equivalere a quello di collisio, con un accenno alla varietà del contrasto.

fetto concentrato che una frase del genere produce.

342

VERG., Aen., 9, 812, 318 (lora codd.), 388; 2, 672; 7, 500, 9, 50.

343

LUCR., 3, 20 («la neve solidificata dalla brina indurita»).

358

pp. 513-521

VERG., Aen., 10, 821-822.

359

Ibid., 8, 63; 6, 457, 498; 3, 714; 2, 566; 7, 16; 6, 404.

360

Ibid., 8, 620-622 (vomentem: minantem codd.).

344

VERG., Aen., 7, 811.

361 Nel senso di «brevemente» paucis («in poche parole») è nell’uso di Plauto.

345

VIRG., Georg., 1, 85.

362

346

Per discrezione Pontano non avrebbe forse voluto che Pardo, l’interlocutore di turno, citasse come esemplari i suoi versi fra quelli di Virgilio.

347

Personaggio dell’omonima ecloga di Pontano, divisa in sette Pompae. Si riferisce alla Pompa 4, 103. Il testo della Lepidina, citato in un’aggiunta marginale dallo stesso autore del ms. summontiano (f. 57r), porta ipsa invece di inepta, che risulta da una correzione di mano di Summonte, e corrisponde effettivamente al testo tramandato nell’edizione aldina (1505). Molto probabilmente qui recuperiamo la lezione precedente della Lepidina, che del resto risponde meglio all’intenzione di Pontano di mostrare un verso in cui la tarditas della lettura metrica (recuperando ipsa, genua va letto come tre sillabe distinte costringendo a sostare con la voce a causa dello iato) corrispondesse al senso.

348

VERG., Aen., 7, 466.

349

Ibid., 10, 743-744.

350

Ibid., 5, 115; 6, 652.

351

Ibid., 9, 116-117.

352

Ibid., 4, 551.

353

Ibid., 3, 211; 4, 413.

354

VERG., Georg., 4, 132.

355

VERG., Aen., 2, 102.

356

VERG., Georg., 1, 437.

357

In latino infundibulum, che consiste propriamente nell’imbuto per versare i liquidi, si riferisce metaforicamente all’ef-

VERG., Aen., 1, 44 («lui che sputava fiamme dal petto ch’era trafitto»); traicio (da cui traiecto) infatti equivale a transfigo (da cui transfixo). 363

VERG., Aen., 1, 50 («Tali cose volgendo del cuore infiammato la dea»); succendo è sinonimo di infl ammo. Questa e le due citazioni successive appartengono allo stesso luogo virgiliano: vv. 51 («luoghi d’austri furenti fecondi»), 52 (Viene in Eolia: qui nella vasta caverna il re Eolo), 56-57 («Al sommo del forte siede Eolo / con lo scettro e addolcisce gli animi e tempera l’ire»). Al v. 51 foetus («fecondato») sarebbe una metafora per plenus, al fi ne di ottenere l’allitterazione. 364

Il presente venit ha la prima sillaba breve, mentre il perfetto venit avrebbe la prima sillaba lunga: lo iato che con i due monosillabi avrebbe fatto sostare la lettura è quello che si creerebbe fra il terzo e il quarto piede.

365

Anche la punteggiatura dell’autografo sconsiglia di supporre la caduta di un verbo dopo perficiet ac (Mariotti propone un’integrazione del tipo di perpoliet); Pontano si riferisce invece a due qualità, da una parte l’arte che insieme all’ingegno porta a termine i pregi poetici, dall’altra la cura assidua e diligente che li perfeziona. 366

Una correzione di mano del Summonte propone di sostituire tecum dell’autografo e della copia vaticana (ossia «parlando al tuo cospetto») in tibi, che sembra dire altro, in quanto Azio interlocutore del dialogo dice a cospetto di tutti, e quindi

1528

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pp. 521-527

AZIO

NOTE

ad alta voce, una cosa che andrebbe detta sottovoce in presenza di uno come Pardo, trattandosi di una critica rivolta a Cicerone e Ovidio. Che l’arte vada nascosta, si dice subito dopo che è giusto nell’arte forense.

in relazione con la caverna. Di qui il verbo caveo, che significa appunto «guardarsi».

367

Cicerone e Ovidio, proprio loro che sono i più accurati nell’arte, non vogliono che l’arte si avverta.

368 VERG., Ecl., 5, 49: «tu nunc eris alter ab illo» («sarai secondo dopo di lui») dice Menalca al giovane Mopso augurandogli una fama che lo collochi subito dietro, o perfi no alla pari, del divino poeta Dafni. 369

VERG., Georg., 3, 11.

370

HOR., Carm., 3, 30, 1-2.

371

Ov., Met. 15, 871-872 (poterit ferrum codd.). Pontano affronta successivamente un tratto particolare della sua poetica, che comporta da una parte l’esplicita consapevolezza del poeta di far opera meravigliosa, dall’altra il riconoscimento da parte del lettore, il quale deve approfondire la lettura per cogliere le bellezze in cui consiste la meraviglia. E l’opera d’arte è tale nella sua forma conclusiva, sicché il poeta non deve scoprirsi nello sforzo che affronta per compierla. Pontano userà il verbo effigio -as («lituras effigiat») del tardo latino, per i più consueti effingo -is, effigo -is.

372

Beccadelli, il Panormita.

373

QUINT., Inst., 1, 7, 20.

374

Pontano aveva precedentemente asserito che la lingua latina fu così detta dal Lazio («…Latium, a quo latina dicta est lingua»), poi è intervenuto su V per attribuire l’asserzione ad alcuni. ISID., Orig., 9, 1, 6, distingue quatto lingue latine, la Prisca, parlata dai più antichi popoli italici, la Latina, parlata sotto il re Latino dai Tusci e dagli altri nel Lazio, la Romana e la Mixta, e comunque fa derivare la denominazione di «latino» dal re che regnò nel Lazio. 375

Il fatto che si riguardassero (cavebant) dal caldo e dal freddo e che si proteggessero con una certa cautela (cautius) era messo

376

Cavissa sarebbe stato chiamato il procedimento col quale ci si doveva difendere (cavisse è l’infi nito perfetto di caveo).

377

In effetti caussa è attestato insieme a causa. Ma l’etimologia qui sostenuta presuppone che caussa abbia tre sillabe e che la u derivi dalla v di cavissa con la perdita della vocale i, prima di formare il dittongo au. Per la doppia s cfr. QUINT., Inst., 1, 7, 20. In effetti l’etimologia è sconosciuta. 378

Limitatamente alla derivazione di caupona (la taverniera o la taverna) da caupo, cfr. PRISC., in KEIL, Gramm. Lat., II, 146, 12; cauponam, cauponem e cauponari sono l’osteria, l’oste e l’esercizio del suo mestiere, ricevere o servire nell’osteria. 379 In Virgilio fornix è infatti la grotta, mentre assume usualmente i significato di arco, di porta a volta. 380

Vocabolo arcaico: «attingere completamente», vuotare (il «vino» in Plauto), ma anche «completare, sopportare».

381

L’aggiunta, di mano di Summonte, vuol essere un elogio del maestro per la sua eccezionale erudizione. Pontano aveva già accennato indirettamente, tramite la citazione devota degli accademici, alla propria autorevolezza, ma l’aggiunta in questo caso sembra più un omaggio alla sua memoria.

382 Cfr. ISID., Orig., 5, 36 («ad eadem loca siderum redit»). Per la radice am cfr. FEST., 16. 383

Cioè «n».

384

È il corso d’acqua. Per amnis cfr. VARR., L., 5, 28.

385

I due vocaboli significherebbero «rodere intorno» e «roso intorno». Per ambulo cfr, ISID., Orig., 12, 7, 4; per ambesus cfr. PRISC., in KEIL, Gramm. Lat., II, 29, 21. 386 Cfr. ISID., Orig., 5, 36 («anulus, quasi annuus, id est circulus»). 387 Cfr. Ibid., Orig., 11, 2, 28 («anus autem appellataa multis annis quasi annosa»).

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NOTE

AZIO

388

pio … baculum … quo homines innituntur», scipione è il bastone su cui gli uomini si appoggiano); capio -onis è la «presa», per cui manucapio è il possesso.

Significa «di un anno», o «primaticcio».

389

Vocabolo forse originariamente composto di hiems.

390

Verbo non attestato.

391

Più attestato nella forma perennare, ossia «durare a lungo».

401 Chi è «debole» (imbeillus) si appoggia sul bastone. 402

392

Cioè «tirare, far fatica, durare». Exanniculo è invece un ipotetico termine di passaggio.

393

Cioè «venivano portate, trascinate». L’affi nità di via e vehiculum è già in ISID., Orig., 15, 16, 4. Cfr. Papias, «via est quae vehiculo utitur». Cfr. VARR., R. R., 1, 2, 14 («quod ea vehendo teritur») e ISID., Orig., 15, 16, 4 («a vehiculorum incursu»). 394

La dimora rurale e il villaggio.

395

Il vocabolo latino deriva propriamente da vieo.

pp. 527-535

Cioè a stento, con difficoltà.

403

La denominazione della «debolezza» (imbecillitas) deriverebbe dal costume di una persona debole e malata. La mutazione delle lettere si riferirà al suffisso (-itas) che sostituisce la desinenza dell’aggettivo imbecillus. 404

Il nome di historia deriva dal vocabolo greco istoría, «indagine», «ricerca».

405 Il genere epidittico (demonstrativum), concernente la celebrazione o il suo contrario, la denigrazione. 406

Il viaggiatore e ciò che egli porta con sé per il viaggio.

Il genere di oratoria che ha come scopo la persuasione e quindi il giudizio, o in tribunale o nella pubblica assemblea.

397

407

396

L’abitatore della villa, ma anche chi ne sovrintende il lavoro (cfr. VARR., R.R. 1, 2, 14; ISID., Orig., 9, 4, 33).

398

Da vicus derivano in effetti i vocaboli che indicano colui che è nato nello stesso villaggio, la vicinanza, il vicinato e l’avverbio che significa «villaggio per villaggio». Per vicus cfr. VARR., L 5, 145; ISID., Orig., 15, 2, 12. 399

Il bastone (baculum; cfr. ISID., Orig., 20, 13, 1, che lo fa derivare da Bacco, perché vi si appoggia nel camminare chi è ubriaco), infatti, è quasi un mezzo per camminare, andare per «via», ma viaculum è vocabolo insolito, spiegato successivamente con scipio, la verga o la canna.

400

Altro nome per indicare il bastone, ma anche il bastone del comando, lo scettro, fatto qui derivare dal «prendere» (capio) con la mano. Cfr. M ACR., Saturn., 1, 6, 26 («patrem luminibus carentem pro baculo regebat», Cornelio fu detto Scipione perché guidava il padre cieco facendo le veci di un bastone), e ISID., Orig., 18, 2, 5 («sci-

Si riferisce alla citata defi nizione quintilianea della storia (QUINT., Inst., 10, 1, 31): «est proxima poetis et quodammodo carmen solutum».

408

In realtà in prima stesura («diversa tamen splendescant claritate»), il tamen si riferiva alla diversa personalità dei due autori presi a modello, pur ottimi entrambi, successivamente il tamen riguarda il fatto che ognuno dei due è l’ottimo nel rispettivo stile e che vanno imitati entrambi. La cancellatura del primo tamen, ritenuto superfluo, è stata preceduta da una sottolineatura che indicava un dubbio e che potremmo attribuire allo stesso autore.

409

Cioè in Livio, che più si accosta ai modi del poema epico.

410

Secondo Cicerone un Sallustio avrebbe tradotto i versi sulla natura di Empedocle, fi losofo greco del quinto secolo a.C. (CIC. Q. fr, 2, 11, 5: «virum te putabo si Sallusti Empedoclea legeris; hominem non putabo»), ma certamente non si tratta del Sallustio storiografo (cfr. MÜNZER , Sallustius,

1530

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pp. 537-549

AZIO

«RE», I A, 2, 1980, coll., 1912-1913). Cicerone tradusse in latino il poemetto didascalico sui Fenomena di Arato, poeta greco del terzo secolo a.C. 411 LIV., Praef, 1 («Facturusne operae pretium sim si a primordio urbis res populi Romani perscripserim nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim», «Se io stia per comporre un’opera che valga la pena comporre, raccontando la storia del popolo romano dai primordi della città, né lo so bene, né se lo sapessi oserei dirlo»); le prime parole citate possono leggersi metricamente come l’emistichio di un esametro. Quintiliano ricorda che l’incipit, il quale si concludeva con sim, fu corretto in «Facturusne sim operae pretium», con esito meno efficace (Ist., 9, 4, 74). 412 L’incipit del Bellum Iugurtinum di Sallustio è infatti un esametro con un raro spondeo al quinto piede. 413

SALL., Iug., 5, 1.

414

VERG., Aen., 1, 3.

415

LIV., 21, 1, 1.

416

VERG., Aen., 7, 45-48.

417

SALL., Iug., 5, 4 (amicitia: amicitiam codd.; cfr. l’uso pontaniano dell’ablativo in casi analoghi: «desinit in monosyllabo»).

NOTE 428

LIV., 21, 33, 6.

429

LIV., 21, 37, 2.

430

Questo e i tre passi successivi provengono dal racconto drammatico del viaggio fatto da Enea a Didone: VERG., Aen., 3, 191-193; 214-218; 414-419; 571-577. In particolare il primo riguarda la tempesta che colse i Troiani non appena preso il largo, il secondo l’arrivo alle Strigoni e l’incontro con le arpie, il terzo e il quarto l’approdo in Sicilia col ricordo di due catastrofi naturali, il distacco delle terre che diede luogo allo stretto e l’eruzione dell’Etna. A quest’ultima parte Pontano rivolse particolare attenzione perché è il suo punto di riferimento nella celebrazione della poesia virgiliana nel suo Antonius, dove il poemetto conclusivo risente molto, nella descrizione dello scontro bellico, dell’arte virgiliana nella descrizione della catastrofe.

431 LIV., 21, 1, 2 (ancepsque codd.); 21, 2, 2 (in animo codd.); 21, 7, 8; 21, 43, 12 (uno fulgure codd.). 432 LIV., 22, 5, 5; 27, 4, 4; 21, 10, 3; 21, 10, 11 (facesque: facemque codd.); 21, 46, 6; 22, 50, 10; 23, 5, 8. 433

CIC., De or., 2, 14, 61. Alla completez-

za della frase ciceroniana, che dice «quasi alia», Summonte provvederà in seguito inserendo quasi (§ 138).

418

SALL., Cat., 6, 1.

419

VERG., Aen., 1, 12-33.

420

LIV., 21, 1, 3.

421

SALL., Iug., 17, 1.

422

VERG., Aen., 1, 530-531.

423

LIV., 21, 45, 8.

424

LIV., 21, 58, 4.

Di Anziate, scrittore di Annali dell’epoca di Silla, non parla Cicerone. Q. Fabio Pittore è noto come scrittore di Annales pontificum, la prima forma di storiografia latina, ed è più volte ricordato da Livio come fonte non certa. Per Celio e Sisenna vd. infra note 512 e 513.

425

LIV., 21, 32, 7.

435

426

LIV., 21, 32, 8.

427 LIV., 21, 28, 10. Il passo citato successivamente, una concione in discorso indiretto, 21, 30, 2-10, ha dei salti e delle varianti rispetto alla tradizione (coli Alpes: Alpes quidem habitari, coli; coltores has ipsas Alpes; caput orbis terrarum, codd.).

434

Le opere storiche di Sallustio risalgono al 42-40 a.C. circa. Cicerone era morto il 43 a.C.

436

CAT., 64, 52 (fluentisono …litore codd.), che è l’unico ben attestato fra i vocaboli stravaganti or ora citati.

437

Si riferisce alla spettacolarità dell’attraversamento delle Alpi da parte di Anni-

1531

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NOTE

AZIO

bale, quale Livio non poteva non mettere in evidenza, e in particolare all’ingegnosa trovata per rendere meno dure le rocce (LIV., 21, 37, 2).

451 Ricalca l’espressione di CIC., Or., 45, 153. Vasta è la lettera che ha un suono più ampio, con una sfumatura di osticità, complicatezza, orrore, come la x. Axilla è l’ala e Ahala è il nome di una famiglia romana (gens Servilia), che Pontano nel De aspiratione dice di aver letto in un’iscrizione antica (cfr. GERMANO, Il De aspiratione, p. 230).

438

Si riferisce al discorso di Annibale ai soldati quando si apprestava a scendere in Italia: LIV., 21, 43-44.

439

HOR., Ars., 361 («ut pictura poesis»).

440

Le tre ultime locuzioni ricorrono effettivamente in SALL., Iug., 60, 2, 1; 2, 2; 51, 1, 7. La prima è forse ricostruita sul ricordo vago di «tubicen simul omnis signa canere» (ibid., 99, 1).

441

SALL., Iug., 17, 5 (arbori codd.).

442

VERG., Aen., 9, 603-613 (frangitque: mutatque codd.: convectare: comportare codd.). 443

SALL., Iug., 18, 1.

444

Ibid., 89, 4.

445

VERG., Georg., 3, 146-150.

446

SALL., Iug., 100, 5; 101, 11. La penultima frase rischiava dunque di confondersi con un esametro, mentre le precedenti dello spesso Sallustio (Catil., 60, 1; Iug. 99, 2; 98, 2) contengono il ritmo dattilico dell’esametro. 447 LIV., 21, 1, 2. Pontano si riferisce al gioco delle anastrofi, che in effetti capovolgono il ritmo nelle clausole, mentre è meno evidente l’effetto diverso di neque rispetto a et haud. 448

Quinto Roscio Gallo, famoso attore, elogiato come eccellente nel suo genere in CIC., De or., 1, 28, 130, dove si tratta della performance dell’oratore.

449

Riprende lo stesso passo ciceroniano già citato (§ 132), ma Summonte questa volta è intervenuto per integrare l’espressione secondo il testo di CIC., De or. 2, 14, 61.

450

Ad Antonio Panormita si fa risalire l’attenzione fondamentale alla grammatica nella trattazione delle humanae litterae e nella formazione culturale.

pp. 549-557

452

Aggiunta di mano del Summonte, che sembra intesa a far prendere le distanze da parte di chi parla da questa soluzione. La correzione, sempre di mano di Summonte, del precedente cum fiat in si fiat, potrebbe essere in relazione con questa aggiunta. Cfr. QUINT., Inst., 1, 4, 15, che registra l’uso latino della x. 453

Cfr. in Antonius, 4, l’uso ambiguo e scherzoso di un vocabolo come sessor.

454

Avverbio col significato di «giù», in fondo. Pessumdare significa «mandare in rovina».

455

Evastant (guastano) è correzione di mano del Summonte di un precedente evastavimus. Probabilmente Summonte, cui possono attribuirsi anche le interpolazioni precedenti (a quibusdam, ut quidam volunt), intende far escludere al Compatre che il gruppo dei pontaniani condivida questa posizione grammaticale.

456

È appunto la massa, il cumulo, ma anche il pane, la focaccia. Sulla derivazione di massa cfr. PRISC., in Keil, Gramm. Lat., 1, 561.

457

Il vocabolo elixare del tardo latino vale «lessare». In realtà non deriva da liquo, che significa «sciogliere».

458

Sono citati di seguito nomi che contengono una l e che costruiscono il diminutivo ampliando quella lettera in una x: «palo», «velo», «poco», «tallone», «mascella».

459

Cfr. QUINT., Inst. 1, 4, 16.

460

Etimologia che non ha fondamento.

461

La serie di aggettivi deverbali che segue deriva dai rispettivi verbi, che signifi-

1532

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pp. 557-561

AZIO

NOTE

cano amare, navigare, piegare, ferire, riparare, piangere, revocare.

gnificano plebe, buca per piantare, trave, calcagno, piatto, rocca) avrebbero avuta anticamente la forma più ampia che ora compare negli altri casi. Ma plebes è testimoniato in Ennio e Lucilio, e oscilla fra terza e quinta declinazione (PRISC., in KEIL, Gramm. Lat., II, 343, 10), scrobes (propriamente scrobis), è presente in età classica (laddove scrobs ha una citazione in PRISC., in KEIL, II, 168, 6). Trabes, nom. sing., è nella Medea, ENN., Trag. 209 (Jocelyn), cit. in P RISC., II 320, 18 (cfr. VARR, L., 7, 33).

462

VERG., Georg., 1, 93.

463

Altri poeti non esitarono a usare questo aggettivo; infatti l’aggettivo, frequente in latino, è evitato da Virgilio che usa exitialis.

464

Non esitarono a usarlo nemmeno i prosatori (lo usano infatti Plinio, Svetonio, Apuleio, Tacito), i quali dovrebbero usare con parsimonia le metafore.

465

L’uomo che scherza (e non del quale si ride), il cavallo che nitrisce, l’animale capace di sentire. Nell’ultimo caso si allude all’autorità di Lucrezio, che in realtà usa sensibilis in senso attivo per riferirsi in genere agli elementi sensibili (ex sensilibus, 2, 902), e in senso passivo nel significato di «appena percettibile» (4, 775).

466

VERG., Georg., 3, 311; 1, 494.

467

CIC., Orat., 51, 170. Cicerone si riferiva alle parole pronunciate nel discorso (infracta et amputata). Ci aspetteremmo quod … fractum, ma se l’abbreviazione del pronome è incerta, quella della desinenza del participio è inequivocabile.

468

Da quod a inficiatur seguiamo la prima stesura di V (vd. Nota al testo dell’ed. 2018). 469

L’ultimo verbo non è attestato.

470

I vocaboli, disposti in ordine alfabetico a prescindere dal prefisso, significano: «abitare, imbevere, passeggiare, bere, inzuppare, incidere, incutere, imporre, indurre, aderire, vi è, scorrere, portare, portar dentro, voracità, aprir la bocca, gettare, urtare, giocare, immettere, mutare, nato, entrare nuotando, crescere, inorridire, percuotere, spingere, inquinare, cercare, precipitarsi, irretire, instillare, istruire, proteggere, torcere, bruciare, trovare, invadere». In realtà il prefisso, che può valere anche «contro» o «dentro», non attribuisce in tutti i casi citati un valore intensivo.

471

I nominativi di questi vocaboli (che si-

472

Un nuovo simbolo per designare il suono doppio, la x.

473

Cicerone aveva usato il termine decurtata per le parole accorciate, private di una parte terminale (Or., 53, 178).

474

Il significato di questi vocaboli è: «feccia, gregge, duce, re, disponibile a comperare o comperabile, disponibile a vendere o vendibile, minaccioso».

475

Il grasso, l’adipe. Seguono le preposizioni, congiunzioni, avverbi e nomi che in latino avevano originariamente un suono più ampio.

476 La forma arcaica donicum è nei comici e l’arcaico lacte è attestato da NON., 483,1 (nelle glosse a Plauto), e nella forma lact da VARR., L., 5, 104; sedum è in realtà composto di se (da set) e dum; sic deriva da seic, che successivamente si è rafforzato in sicce. 477

HOR, Sat. 1, 6, 49.

478

PROP., 2, 9, 1-2.

479

Cfr. ISID., Orig., 15, 2, 43 («Dictae autem tabernae quod ex tabulis lignisque erant constructae»). 480

Cfr. Ibid., 11, 1, 132 («dictus venter quod per totum corpus vitae alimenta transmittat»).

481

Cfr. Ibid., 11, 1, 34 («Vultus vero dictus, eo qod per eum animi voluntas ostenditur»).

482 Cfr. Ibid., 10, 163 («Lotus, lautus, id est mundus»).

1533

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NOTE

AZIO

483

Qualche anno più tardi, nel De fortuna, II I 2, Pontano riprenderà questa etimologia.

491 Postes sono i battenti delle porte; il vocabolo non è in relazione col verbo pono, come qui si ipotizza.

484 Cfr. COLUM., 1, 24, il quale in effetti attesta che in Campania la terra nera è chiamata pulla, e che diversamente che in altre regioni qui è scivolosa e grassa («in aliis regionibus nigra terra, quam pullam vocant, ut in Campania, est laudabilis, in his pinguis, lubrica melius respondet»). Sembra che Pontano colga l’occasione per confutare un’opinione che non condivide personalmente sulla qualità della terra campana («ut quidam perperam arbitrantur», come alcuni ritengono a torto).

492 Per il vocabolo testis viene qui offerta un’etimologia ingegnosa, «sto dalla parte tua, o sto a tuo favore», mentre esso va ricondotto alla stessa radice di testimonium.

485 In realtà columna e columen hanno la medesima radice cel di eccello. Segue una serie di vocaboli di cui si indica analogamente la provenienza nominale (a columine) o verbale (a pascendo) e quindi la forma più antica (quae fuit). 486

Il vocabolo ferriculum, è usato da Seneca e Petronio.

487 Si sarebbe pervenuti a discrimen attraverso discernimen, forma tuttavia non attestata ma regolarmente derivata da discerno. Attestato è invece tegimen come forma poetica e postclassica. Nel testo latino a proposito di queste ultime occorrenze, come avviene talora nel paragrafo precedente, è omessa la particella a che indica la derivazione e in modo sintetico viene indicato il vocabolo e il suo equivalente arcaico. 488

In realtà prosa deriva da prorsa oratio, il discorso diritto, difi lato; oratio producta dice ISID., Orig., 1, 38; promissus vale propriamente «lungo», detto dei capelli e della barba. 489

Il verbo meditor non ha ovviamente alcuna parentela con itare, frequentativo di eo -is (andare), ma ha relazione con altri frequentativi come cogito e agito («pensare» e «muovere»).

490

Il vocabolo che indica il «feto» è in realtà connesso con la radice di foecundus (o fecundus).

493

pp. 561-563

Cfr. CIC., Orat., 45, 153.

494

L’etimologia corretta riconduce cliens (il cliente) a clueo, forma arcaica corrispondente al greco κλυω (audio, o «mi sento chiamare») e si riflette nell’accostamento dei due vocaboli in un luogo di PLAUT., Men., 574-577 (cfr. il commento a Virgilio di SERV., Aen., 6, 609). Ma l’etimologia da colere («coltivare, rispettare») qui proposta e riferita all’antica costituzione romana, fa stranamente eco a due versi successivi del luogo plautino citato, in cui il dovere del cliente è rovesciato («qui nec leges neque equom bonum usquam colunt, solicitos patronos habent», «chi non rispetta le leggi e la giustizia, trova protettori solleciti»). 495

I vocaboli castus e castitas («casto» e «castità») riconducono a «castigare» (punire), non a claudo (chiudere). Vedi in seguito la stessa etimologia utilizzata per castella nel senso di «dighe».

496

Di ignota origine, il vocabolo casterium designa il luogo della nave dove si ripongono i remi (NON., 2, 128), usato da PLAUT., As., 519.

497

Il ricordo va alla disavventura dei Romani, che sconfitti dai Sanniti furono costretti a umiliarsi passando sotto le forche «caudine».

498

In effetti dius, antica forma di divus («divino», «celeste») è alle origini di dies.

499

Clades, affi ne a calamitas, e forse collegata con la radice di -cello (testimoniato solo nei composti come percello), nei dizionari etimologici si trova talora accostata in effetti a gladium.

500

Vocabolo riferibile alla stessa radice di sterno («stendere»). Per il successivo sar-

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pp. 563-575

AZIO

NOTE

culum cfr. il primo paragrafo dell’Actius, nota 4.

Celio Antipatro (II sec. a.C.), ricordando in effetti le parole di Catulo, che correggeva Antonio, secondo il quale egli aggiunse allo stile storico una maggiore sonorità (De or. 2, 13, 54). Cfr. CIC., Brut., 26, 102, dove Antipatro è detto «luculentus».

501

Sarculum è in rapporto con sarrio («sarchiare»), ma VARR., L., 5, 134, lo fa derivare da un incrocio con sero («seminare»); nuper sta per novum – per. 502

Tale etimologia è già in ISID., Orig., 5, 38, 1. 503

Abbiamo qui la conferma dell’uso pontaniano di seculum senza dittongo. La doppia consonante in secculum, relligio, relliquiae, proppagine, avrebbe fatto allungare con conseguenze metriche la vocale che precede, la quale sarebbe poi rimasta lunga. 504

Cioè la riduzione di sequeculum in seculum. 505

L’accostamento etimologico fra l’avverbio saepe e il sostantivo saepes («siepe») o il verbo saepio («assiepare») ha qualche sostegno, ma è ritenuto improbabile. Anche palam («apertamente») ed e vestigio («immediatamente») sono ricondotti ad un’origine contadina per via della «pala» e delle impronte degli animali (vestigia), Cfr. infra nota 509 circa l’etimologia di vestigium. 506

Gli originari significati relativi al lavoro di campi sarebbero stati trasferiti al lavoro letterario.

507

Originariamente «aratura», poi anche «composizione».

508 Significa «pascere insieme», e non è in realtà affi ne a compescere, che deriva da compes, la «catena» che lega i piedi. 509

Vocabolo proveniente dal campo del lavoro agricolo, viene usato anche nelle scuole dei fi losofi («investigare»). In realtà vestigium, vestigo, derivano dal greco stichos, che è la «linea», il «fi lare».

510

Cfr. CIC., De or. 2, 12, 52; Leg., 1, 2, 6.

511

Pisone, Fabio Pittore e Catone sono insieme nominati in CIC., De or., 2, 12, 51.

512

Pontano rileva che Cicerone non avrebbe avuto maggiore considerazione di Lucio

513

Lucio Cornelio Sisenna, vissuto fra il secondo e primo secolo a.C., scrisse una Historia, che esponeva in particolare gli avvenimenti dalla guerra sociale (90 a.C.), alla fi ne della dittatura di Silla (80 a.C.). Vd. CIC., Brut., 64, 228, dove è stimato per la dottrina e per la politica, non per la pratica forense. 514

De or., 2, 13, 54. Cfr. supra, nota 512.

515

SALL., Iug., 95, 2 («parum mihi libero ore locutus videtur»). 516

CIC., De or., 2, 15, 62 (nequa … nequa simultas: qne quae … ne quae simultatis codd.; le frasi ciceroniane sono interrogative dipendenti da quis nescit).

517

HOR., Ars, 335.

518

CIC., Brut., 17, 66.

519

Per la brevitas cfr. soprattutto CIC., De or., 2, 80, 326. 520 CIC., De or., 1, 21, 94, dove si distingue fra l’eloquens e il disertus («disertos cognosse me nonnullos, eloquentem adhuc neminem»). 521

Di Ammiano Marcellino, storico latino del sec. IV d.C., rimane una parte, riscoperta nel sec. XV, dei trentuno libri che scrisse continuando l’opera di Tacito.

522

HOR., Ars, 23 («Denique sit quod vis: simplex dumtaxat et unus»); Orazio raccomanda che l’opera sia semplice e unitaria, di qualsivoglia genere.

523

SALL., Iug., 6, 1.

524

Ibid., 7, 4.

525

LIV., 21, 4, 3 (gerendum: agendum codd.; vigiliarum: vigiliarumque codd.; confecto: conserto codd.) Altro esempio, oltre quello precedente di Sallustio, di come le parti si armonizzino talmente, che

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NOTE

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il discorso sembra costruirsi da sé. Il riferimento mitologico ad Anfione, figlio di Giove, che eletto re di Tebe eresse le mura della città trascinando le pietre col suono della cetra donatagli da Mercurio, era già in Orazio (cfr. Ars., 394-396; Carm. 3, 11, 1-2) applicato all’armonia nella creazione letteraria.

ne sallustiana conseguita mediante molte virtù del discorso; ma allo stesso tempo, paragonando Erodoto a Livio, elogia di quest’ultimo la varietà e la capacità di adattarsi alle circostanze più varie. La citazione di Quintiliano non sembra confortare propriamente la distinzione dei caratteri, nella comune grandezza, che qui Pontano intende sostenere.

526

Il medaglione di Catilina, che cominciava dicendo che fu uomo di grande valore intellettuale e fisico, ma di indole malvagia e corrotta («fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque», SALL., Cat., 5), è tutto in negativo, mentre quello di Livio precedentemente citato è tutto un elogio. 527

CIC., Brut., 75, 262.

528

Pontano introduce un raro vocabolo, involvolum, di uso plautino (PLAUT., Cist., 729), che designa il verme o il bruco che si ravvolge nelle foglie degli alberi. Anche il verticosus precedente («pieno di vortici»), detto del mare e del fiume, è insolito come qualità della scrittura. 529

pp. 577-595

536

SALL., Cat., 11, 6 – 12, 2 (ii milites codd.; relicui codd.; animos fatigant codd.; ne illi [cfr. ed. Reynolds, Oxonii, 1991], temperarent codd.; imperium: virtus codd.; malivolentia codd.; ubi luxuria: luxuria codd.; nihil moderati: neque moderati codd.).

537

SALL., Iug., 8, 2.

538

SALL., Cat., 6.

539

LIV., 21, 10, 2.

540

SALL, Cat. 51-52.

541

LIV., 21, 4; Sall., Iug., 6; Cat., 51-52.

542

Ibid., 25, 38, 5.

543

SALL., Cat., 35, 1-4 (si tratta della lettera di Catilina a Quinto Catulo).

SALL., Iug., 51, 1 (ibi resistere codd.).

544

Ibid., 50, 2 (atque loco sicuti monte codd.).

545

LIV., 21, 4; SALL., Iug., 6; Cat., 5.

530

531

SALL., Cat., 59, 2 (montis et ab dextera rupe aspera, octo … relictarum … in subsidio artius collocat. Ab iis centuriones omnis lectos … codd.). Il ms. e le stampe portano Aquila con l’iniziale maiuscola, mentre si tratta dell’aquila d’argento di cui era dotata ogni legione. Le frasi precedenti evocano espressioni ricorrenti.

532

SALL., Cat. 31, 1-2 (cuiquam – fidere: quoiquam – credere codd.).

533

Ibid., 31, 3 (rogitare omnia pavere, ed. Reynolds, Oxonii, 1991).

534

Ibid., 60, 2 (concurritur – omittuntur: concurrunt pila omittunt codd.; timide: timidi codd.).

535

QUINT., Inst. 10, 1, 101-102, loda la «immortalem … velocitatem» della narrazio-

Livio (25, 12, 4-7) riferisce il contenuto del carmen del poeta Marcius, che prediceva la sconfitta di Canne.

546 Sallustio, nel raccontare la misera fi ne di Lentulo (Cat. 55, 6), ricorda che quel patrizio, della nobilissima famiglia dei Cornelii, aveva esercitato a Roma il potere consolare («consulare imperium Romae habuerat»); qui il testo («de imperio debendo») si discosta dalla fonte dando un senso diverso («sul dominio che doveva toccare alla famiglia»). 547

SALL., Iug., 48, 3-4.

548

LIV., 22, 28, 3-6 (detegendis per tegendis è la lezione di un gruppo di codici liviani).

549

SALL., Iug., 92, 5 (planiciem: ceteram planitiem codd.).

550

Ibid., 114, 1-2.

551

LIV., 39, 48, 6-49, 1-5 (et causas et; Philo-

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pp. 599-619

AZIO

NOTE

poemen; Coronen; attenuatis; cognitumque; in valle [inita valle, ed. Haereus] portant codd.).

563

552

564

SALL., Cat. 61, 7-9.

553

SALL., Iug., 53, 8 – 54, 1 (detrectant; pro praeda fore codd.). 554 LIV., 22,7,1-3 (illa nobilis: nobilis; diversis itineribus: aversis itineribus; mille: duo milia codd.; ma le due ultime lezioni sono attestate nella tradizione). 555

Ibid., 21,56, 7 (senserint: sentirent codd.). 556

Ibid., 21,57,1-2 (urbem: urbem Romanam codd.; arcesserentur: arcessantur codd.).

557

Ibid., 24, 16, 14-18 (Milites: militesque; conspectis militibus: complecti milites; Graccum: Gracchumque; epulari: ut epulari; vescebanturque codd.). L’oscillazione nella forma del nome del tribuno è in un passo autografo di Pontano (V, f. 92v). 558 Ibid., 32, 4, 4-5 (sic immensa: sic universa codd.). La forma Thaumati per Thaumaci, quest’ultima usata da Livio, risale ad un’aggiunta autografa di Pontano. La radice del nome rimanda al vocabolo greco che designa la meraviglia. 559 SALL., Iug., 93, 1-6 (animadvertit: animum advortit codd.; animum … loco: animum invadit et forte in eo loco codd.; deinde inflexa codd.; castelli … describit: in castelli planitiem pervenit codd.). 560 LIV., 34, 1, 1-7 (T. Romulius manca nella tradizione; tulerat per tulerant e convenerant per conveniebant rispecchiano la lezione di un gruppo di codici liviani). 561 Ibid., 35, 11, 6-8 (At deest; stationibus: stationibus hostium codd.; deformes. Ipse: deformis ipse codd.), in un’aggiunta di mano dell’autore. 562 SALL., Cat., 55, 3 (quattuordecim: duodecim codd; vincta: iuncta codd.; vincta è scritto chiaramente da Pontano, cui si deve l’aggiunta autografa, f. 93r; incultu codd.).

SALL., Cat. 36, 4-5 (et rem publicam: remque publicam codd.; senatus: senati codd.). SALL., Iug., 94, 6 (ex virtute: ex culpa codd.). «Ex virtute» non ha senso, se consideriamo la frase successiva. Qui Sallustio mette in evidenza come perfi no i suoi errori militari possano giovare alla vittoria di un condottiero.

565

LIV., 23, 18, 13 (maiusque codd.).

566

Ibid., 23,16,16.

567

Ibid., 26, 22, 14 (graviores: aut principes graviores temperatioresque codd.).

568

Ibid., 30, 20, 7 (se quoque: in se quoque codd.).

569

Ibid., 21, 49, 1-2 (insulam: ad insulam codd.; Volcani codd.; aestus maris: aestus codd.).

570

Ibid., 21, 60, 1.

571

Viene trasferita alla historia quello che Cicerone attribuisce all’oratio «cum omnis ex re atque verbis constat oratio» («poiché il discorso consta di contenuto e parole»), De or., 3, 5, 19.

572

Sui tre generi di discorso e sul dimostrativo, o epidittico, in particolare, cfr. QUINT., Inst., 3, 4, 14; CIC., Inv., 1, 5, 7.

573 Cfr. CIC. Brut., 75, 262. Dopo aver lodato lo stile dei Commentarii di Cesare perché nudi, recti, venusti, privi di ogni ornatus e rivestimento, modello di brevitas, Cicerone aveva accennato all’intenzione di Cesare di offrire solo una base d’informazione agli storici futuri:«Sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui illa volent calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et inlustri brevitate dulcius» («Ma volendo che altri, che volessero scrivere di storia, avessero a disposizione donde poter attingere, fece cosa forse grata agli incapaci che vorranno arricciar con i ferri quella materia, mentre distolse dallo scrivere le persone sagge; nella storio-

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NOTE

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grafia, infatti, non c’è nulla di più gradevole che la brevità pura e luminosa»).

580

CIC., De or. 1, 16, 70.

581

HOR., Ars 372-373.

574

Su Tacito e Curzio Rufo, collocati dal Panormita accanto a Svetonio in una triade più modesta di quella più illustre costituita da Livio, Sallustio e Cesare, ma al di sopra dei compilatori di storie universali, quali Orosio, Eutropio e Lampridio, vedi A. PANORMITA, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, a cura di G. Resta, Palermo, 1968, proemio, pp. 66-67. 575

Pompeo Trogo, storico latino del sec. I a.C., originario della Gallia, scrisse 44 libri di Historiae Philippicae, di cui ci sono giunti solo frammenti.

576

Dei dieci libri della Storia di Alessandro Magno di Quinto Curzio Rufo, vissuto nel sec. I d.C. sono andati perduti i primi due libri e parte degli altri. Delle opere di Tacito Pontano conosceva la Germania, il Dialogus de oratoribus e l’Agricola, Le altre opere, Historiae e gli Annales, sono pervenute comunque incomplete.

577

Si riferisce alla trattazione precedente di Actius-Sannazaro, che si era fondata quasi esclusivamente su esempi virgiliani, e in particolare alla teoria che egli aveva all’inizio esplicitamente enunciata, secondo cui «unus hic de nostris poeticarum virtutum instar est omnium, ac maxime numerorum» (Actius, 65).

578

In V Prassicius hic è coperto da un cartellino su cui è scritto, forse con grafia di Summonte ma certamente non di Pontano, Poetus hic (cioè Franciscus Poetus); e tuttavia l’edizione summontiana porta Prassicius hic. Si tratta probabilmente di una proposta di sostituzione posteriore alla stampa: cfr. TATEO, Per l’edizione critica, p. 148, n. 9, e per altre ipotesi poco convincenti di MONTI, Per la storia del testo dell’Actius, in Studi su G. Pontano, pp. 909945: 934-945. Cfr. qui, Nota al testo. Noi abbiamo voluto evitare le ipotesi.

579

Sostituito nel ms. da Poetus con lo stesso accorgimento suddetto. Così in seguito.

pp. 619-629

582

Una celebrazione della singolarità del poeta è in un famoso passo ciceroniano (CIC., Arch., 18).

583 Come commotio corrisponde al movere, fra le funzioni dell’oratore, così flectio al flectere («piegare»); ma il sostantivo flexio non è normalmente riferito nella latinità, come il verbo corrispondente, all’effetto persuasivo della retorica. 584

Cattivi poeti per antonomasia: Bavio, poeta dei tempi di Virgilio, citato generalmente con Mevio come detrattore di Virgilio (VERG., Ecl., 3, 90); Massimiano, poeta elegiaco del secolo V a.C. (le sue elegie furono erroneamente pubblicate sotto il nome di Cornelio Gallo) considerato ignobile per barbarie e oscenità. 585

Apollo.

586

Cfr. il famoso sonetto di Gianbattista Marino, che non è escluso che possa riferirsi a un’autorità come quella pontaniana, e comunque ad una tradizione critica che in Pontano ha un forte impulso: «È del poeta il fi n la meraviglia /dico dell’eccellente».

587

Vedi nota 577.

588

Già citata ai §§ 50-51.

589

VERG., Aen., 7, 41-45.

590

Ibid., 7, 512-517. Cfr. PONTANO, De ortis Hesperidum, II 537: «Audiit et Triviae longe lacus, audiit et Nar» («L’udì anche il lago di Trivia, l’udì anche la Nera»).

591

VERG., Aen., 7, 518. Cfr. PONTANO, ivi, II 537: «Ac trepidae matres pressere ad pectora natos» («E trepide le madri strinsero al petto i figli»). 592

VERG., Aen., 7, 454-455.

593

Ibid., 7, 458.

594

Ibid., 7, 351-352.

595

Ibid., 3, 216.

596

Ibid., 3, 37-38.

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pp. 629-659 597

Cfr. supra, nota 578.

598

Cfr. ibid.

599

Cfr. supra, § 195.

600

VERG., Aen., 9, 120 e 122.

601

Ibid., 1, 657-660.

EGIDIO

NOTE 623

Riguarda ancora l’Eneide (per es. 4, 376-377).

L’asimmetria, che appartiene al testo tramandato da V, e che si è voluta rilevare e correggere (cfr. S. M ARIOTTI, Per lo studio dei dialoghi di Pontano cit., p. 971, nota 3), può essere conservata se «poetico decori» s’intende non come un genitivo partitivo errato, ma un dativo (da decus -oris) dipendente da defuit.

603

624

602

VERG., Aen., 1, 81-83.

604

Comparativo di un insolito avverbio derivato da excogitatus, la forma excogitatius non è attestata.

605

Cfr. VERG., Aen., 3, 707.

606

Di queste due metafore la prima è in VERG., Aen., 1, 224, la seconda in VAL. FL., 1, 429.

607

VERG., Aen., 1, 105.

608

Ibid., 1, 86.

609

Ibid., 3, 564-565.

610

Ibid., 1, 403-404.

611

Ibid., 1, 692-694

612

Sul ms. il nome è sostituito da Francisce Poete mediante il solito cartellino incollato. Cfr. nota 578. 613

Sostituito da Poeto. Cfr. nota preced.

614

Si riferisce alle Georgiche virgiliane, che trattano dell’agricoltura, ma includono squarci mitologici. 615

Cfr. § 138 e nota 435.

616

Omerico, nel senso generico di epico, di alto livello stilistico.

617

VERG., Aen., 6, 887.

618

Ibid., 1, 81; 9-503-504.

619

Ibid., Aen., 7, 446-451.

620

Cfr. PLUT., Sol., 8.

621

Astrologo ellenistico stimato da Firmico Materno, su cui vd. M. R INALDI, “Sic itur ad astra”, Loffredo, Napoli, 2002, pp. 37, 168.

622

Si riferisce ai poeti theologi, i primi poeti ai quali si deve la scoperta dell’unico dio, di cui parla Boccaccio in Genealogia deorum gentilium, XV 8.

L’autore del De rerum natura e l’autore degli Astronomica. Cfr. L’accenno fatto precedentemente agli autori greci di cose astrologiche e ai latini che li imitarono.

Egidio 1

Suardino Suardo, bergamasco, un amico al quale Pontano aveva dedicato il libro VI del De rebus coelestibus, e fece avere una copia dell’Aegidius assieme a quella dei tre poemi Urania, Meteororum libri, De hortis Hesperidum, prima dell’agosto 1502, quando Aldo Manuzio, avendole viste, chiese all’autore il permesso di pubblicarle nella dedica delle opere di Stazio fatte uscire appunto in quella data. Allo stesso Suardo alla fi ne di quell’anno Pontano inviò copia di altre sue opere poetiche, smarrita, con una lettera di Manuzio. Cfr. E. PERCOPO, Vita di G. Pontano, Napoli 1938, p. 102, e L. MONTI SABIA, Manipolazioni onomastiche del Summonte in testi pontaniani, in Studi su G. Pontano, cit., pp. 195-214. 2

Francesco Peto, figura nella seconda scena dell’Actius, in sostituzione, con Suardino Suardo, dei nomi di Pucci e Mesefi lo, per mano del Summonte. Per la sostituzione dei nomi di Peto e Suardo, alla fi ne dell’Actius, a quelli di Poderico e Prassicio, non accolta dall’edizione e probabilmente spuria, cfr. qui le nota al testo dell’Actius. A Peto e Suardo il Summonte dedica l’edizione dell’Actius ringraziandoli per l’interesse mostrato verso la pubblicazione delle opere di Pontano e ricordandoli per la visita fatta al maestro dell’Accademia.

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NOTE

EGIDIO

3

Si riferisce all’edificio munito di portici che era la casa di Pontano nell’odierna via dei Tribunali. Cfr. Antonius, I.

11

4

12 Pietro Compatre (cfr. Actius, 4) morì il 17 novembre 1501, come è detto nell’epigrafe posta dalla stesso Pontano nella propria cappella (cfr. G. A LISIO, La cappella Pontano, in «Napoli nobilissima», 3 (1963), pp. 29-35.

La chiesa di San Giuliano, protettore dei pellegrini, era situata fuori Porta Capuana, sulla strada di Aversa (cfr. CESARE D’ENGENIO CARACCIOLO, Napoli sacra, Napoli 1623, p. 642.

5

L’epigrafe è apposta sulla cappella, l’edificio quadrangolare di stile rinascimentale fatto erigere da Pontano al termine dell’odierna via dei Tribunali nel 1492.

pp. 659-665

Meno defi nibili sono questi vini provenienti da località vicine del territorio napoletano.

13

La forma arcaica di ablativo qui, era usata solitamente in congiunzione col cum.

14

6

Cfr. Antonius, VI, dove questo particolare emerge con qualche autoironia.

Forma arcaica è anche cuiates nam per qui nam; cuias -atis, è forma usata da Cicerone nelle epistole e da Plauto.

7

15

I due versi sono dello stesso Pontano, poeta e filosofo come lo chiama Suardo, ma il primo è manipolazione di VERG., Aen., 6, 376 («desine fata deum flecti sperare precando»), mentre il secondo sembra ispirato a HOR., Carm., 1, 9, 9 («permitte divis cetera») e comunque riprende, in una versione religiosamente corretta con allusione alla provvidenza, il senso del De fortuna. 8

Le noci mollusche sono una varietà di noci, ma qui l’aggettivo si riferisce sia alle pesche (persica poma), sia alla varietà di «pomi» della specie tarantina, di cui non c’è nessuna attestazione. Macrobio però, autore ben noto a Pontano, ricorda la confusione fra tarentinus e terentinus (Sat., 3, 18, 13), che fa chiamare «tarentine» le noci così morbide da rompersi facilmente (in realtà «terentine», da terenus che significa «molle» in lingua sabina, sarebbero lana e noci), e fa dire a Orazio (Sat., 2, 4, 34) «molle Tarentum», che Taranto si vanta della sua mollezza. Era diffusa la fama che i Romani apprendessero il lusso dai Tarantini, e tarantino significa «profumato».

9

Il diminutivo penulus, da penus, che designa propriamente la provvista, non è attestato.

10

Virgilio ricorda in Georg., 2, 95 i vini di Rieti (raetica) e più volte Orazio il vino «cecubo», proveniente da una località paludosa del Lazio meridionale.

Il riferimento sembra riguardare la tomba di Varrone, che è stata individuata nei resti di un edificio disposto fra il teatro e l’anfiteatro attribuiti alla magnificenza dell’erudito romano, e conosciuto come luogo della villa di Varrone (CIC., Phil., 10, 106): cfr. F. COARELLI, Le mausolée de Varron a Casinum?. Une hypothèse d’identification, in «Revue des études latines», 75 (1998), pp. 92-102. Un busto di Varrone fu fatto collocare da Asinio Pollione nella biblioteca pubblica di Roma. Questo luogo pontaniano dimostrerebbe già ipotizzata ai suoi tempi, e discussa, la notizia archeologica. 16

Si riferisce alla leggenda delle Sirene, collegate con Napoli, cui originariamente una delle sirene, Partenope, avrebbe dato il nome. Il riferimento alla Muse è invece un complimento alla moderna Napoli, città dove prospera la poesia (cfr. I. SANNAZARO, Arcadia, X-XII). 17 CIC., De finibus, 5, 18, 49 (il primo verso compare nella tradizione con qualche variante: cfr. HOM., Od., 12, 189. 18

Si riferisce alla successiva spiegazione in prosa del testo omerico.

19

VERG., Georg., 2, 475-482.

20

Si riferisce alla mitica ninfa (patulcius era propriamente un soprannome di Giano o di Giunone), che avrebbe coltivato i

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pp. 665-681

EGIDIO

NOTE

campi dove ora sorgeva la villa di Pontano, Antiniana. Il poeta allude al suo poema georgico, De hortis Hesperidum, che trattava appunto della coltivazione degli agrumi.

morte è espresso con un vocabolo (deliquatio) non attestato dalla latinità classica.

21

Mariano Pomicelli da Genazzano, Padre generale degli Agostiniani, nato a Genazzano nel 1459, aveva studiato a Perugia e a Padova sotto la protezione del Cardinal Capranica. Eccellente predicatore, si distinse a Siena e a Firenze e fu grande oppositore di Gerolamo Savonarola. Morì a Sessa presso Napoli, dove ultimamente aveva soggiornato, nel 1498.

22

Cfr. AUG, Trin., 4, 4, dove si spiega il versetto biblico «lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprehenderunt» («la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non poterono comprenderla».

23

Cfr. Ibid., 2, 15, dove Agostino risponde a coloro che credevano che il solo Padre fosse immortale.

24

Cfr. Ibid., 4, 16 («spiritus […] non eam [carnem] deseruit invitus, sed quia voluit, quando voluit, quomodo voluit» («lo spirito non abbandonò la carne senza volerlo, perché volle, quando volle, come volle»).

25

Sulla morte volontaria dei martiri, distinta dal suicidio, cfr. AUG., Civ., 1, 26.

26

VERG., Aen., 6, 821.

27

Il verbo latino exanclo, che Plauto usa in riferimento al vino (attingere completamente, vuotare), è usato più volte da Pontano, dove ne viene sottolineata l’eccentricità in una discussione sul lessico (Actius, 117).

28 AUG., Civ., 1, 10, elogiava il vescovo di Nola per aver donato «volontariamente» ogni cosa, accettando la povertà. La leggenda era ricordata da Gregorio Magno (Dialogi, 3, 1). 29

Serie di strofe saffiche. Il carme si riferisce inizialmente alla nota leggenda secondo cui il cigno, avvertendo la morte, canta il suo canto più bello. Al v. 10 una evidente reminiscenza virgiliana (Aen., 11, 335).

30

Il dissolvimento dell’anima dopo la

31

I Cirenaici, seguaci del fi losofo Aristippo di Cirene, discepolo di Socrate, ritenevano che il sapere fi losofico riguardasse non le scienze ma la condotta umana, e consideravano fi ne della vita il piacere corporeo presente e momentaneo. Qui il riferimento sembra riguardare in genere gli epicurei e i moralisti moderni del mondo arabo.

32

Pontano lo fa intervenire nel dialogo Antonius, VI, e gli dedica i famosi versi in forma di ninna-nanna (naeniae) nel libro II del De amore coniugali.

33

Ossia le loro ombre. Manes erano le anime dei morti considerate come divinità.

34 AUG., De cura pro mortuis gerenda, PL. 40, coll. 571-60; ma l’argomento era trattato da Agostino anche in Civ., 1, 12-13. 35

VERG., Aen., 2, 646.

36

Ibid., 5, 870-871 (coelo et pelago codd.)

37

Francesco Pucci, scolaro del Poliziano e da lui particolarmente stimato, si affermò anche fuori della sua patria. Fu maestro del Parrasio e di A. Seripando. Su di lui cfr. S. P. DE M ARTINO, Intorno a F. Pucci umanista fiorentino a Napoli, Napoli, 1920, e M. SANTORO, Uno scolaro del Poliziano a Napoli: Francesco Pucci, Napoli 1940. Sulla sua corrispondenza, e per la bibliografia che lo riguarda cfr. C. CORFIATI, Un corrispondente fiorentino da Napoli: Francesco Pucci, in Poliziano e dintorni, a cura di C. Corfiati e M. de Nichilo, Bari, 211, pp. 65-112. 38

Nome accademico di un allievo di Pomponio Leto, Tranquillo Tomarozzi, il quale svolse ricerche orientate secondo l’indirizzo antiquario dell’accademia romana, scrivendo un Kalendarium inventum Romae in domo de la Valle. Il frutto delle sue ricerche sotto le rovine del Campidoglio fu stampato nel secolo XV. Vd. A. A LTAMURA, Per una biografia di Pietro Tamira accademico pomponiano, in «Archivio della R. Deputazione romana di Storia

1541

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NOTE

EGIDIO

patria», vol. LXIII, 1940.pp. 173-180 e la relativa recensione di C. DIONISOTTI, in GSLI, 1941, pp. 56-60.

46

39

Il territorio di Cassino, sito fra Roma e Napoli. VARRONE, De lingua latina, 7, 29, attesta che Casinum in lingua osca vuol dire «villa», e in quel territorio egli costruì la sua villa famosa, ma distrutta, che diventa la prima occasione del dialogo.

40

Cfr. supra, nota 15.

41

VERG., Eneide, 7, 206. Propriamente il nome degli antichi abitanti dell’Italia centrale e meridionale, equivalente a quelli di Ansonii e Opici, è Aurunci, che è quello tradizionale del testo virginiano; la forma errata con cui Pontano lo riproduce può essere indotta dal ricordo di una parola del lessico pliniano (Arunci 8, 50, 76 § 203 ricalca il vocabolo greco che si riferisce alla barba del caprone).

42

Cfr. Actius, 4, nota 43.

43

Circa la possibilità degli oracoli inviati dal cielo a chi dorme mediante «geni» che abitano le sfere alte dell’universo cfr. Actius, 6-13, dove viene sostenuta dal personaggio di Sannazaro anche la verità che le anime dei morti desiderino ricongiungersi col loro corpo e quindi anche evocare la loro vita terrena. Nello stesso Actius 33, a proposito dei sogni era denominata sympathia, quella che in latino potrebbe chiamarsi cognatio fra cielo e terra (cfr. contages, infra nota 45).

44

I quattro umori testé nominati, sul cui sistema si fonda la medicina antica di Ippocrate e Galeno. Il sangue, la pituita ovvero il flegma, la bile gialla e la bile nera, ovvero l’atrabile. Sull’influsso degli umori nel produrre il sonno e quindi talora visioni cfr. il piccolo trattato Del sonno e della veglia di Aristotele (456b) e Pontano, Actius, 35-36, circa l’effetto dell’atrabile. 45

Il vocabolo latino contages, raro, deriva da LUCR., 3, 734, che usa anche il plurale (ibid., 6, 280, 1242). Cfr. supra, nota 43.

pp. 681-693

Sul duplice modo di concepire la natura, l’una come disordinata e soggetta alla fortuna, l’altra ordinata e obbediente alle norme del fato, cfr. De fortuna I XXXVI, III V. Qui si distinguerà da queste due, ugualmente corporee, la natura divina e angelica, non dipendente se non da Dio. 47

Circa l’attenzione che gli agricoltori devono avere dei molteplici fattori cui è soggetta la produzione agricola, si veda quella sorta di lezione che Pontano fa al suo fattore in Asinus VI.

48

Girolamo Carbone, patrizio napoletano, nato nel 1465, fu sospettato di aver partecipato alla congiura dei Baroni del 1486, ma in seguito svolse una missione diplomatica a Ferrara e fra la fi ne del secolo e l’inizio del successivo tenne cariche pubbliche come quella di Procuratore del distretto di Capuana. Cantò Isabella d’Aragona, scrisse un’Elegia de Sylvia, epigrammi, sonetti, e fu il dedicatario del De Neapolitanis familiis di Elio Marchese. Vd. P. DE MONTERA, L’humaniste napolitain G. Carbone et ses poésies inédites, Napoli, 1935.

49

VERG., Georg., 4, 8-9.

50

OV., Met., 1, 5-7.

51

Si riferisce al De hotis Hesperidum, poema georgico sulla coltivazione degli agrumi, compiuto nel novembre del 1500, come testimonia una lettera dell’autore a Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, cui il poema era dedicato. Pontano vi rimise mano per una revisione dopo il 1501, cioè dopo l’allontanamento da Napoli di Sannazaro, il cui giardino di agrumi annesso alla villa di Mergellina viene ricordato per il suo stato di abbandono. 52

Pontano aveva adattato alle origini della pianta in Italia il mito di Ercole recatosi nel paese delle Esperidi, ai piedi del monte Atlante, in cerca dei frutti dell’immortalità e tornato sulle coste campane dopo aver compiuto una delle sue fatiche liberando le «Ninfe del Tramonto» dal drago che le aveva defraudate dei loro pomi d’oro.

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pp. 695-709

EGIDIO

NOTE

Lucrezio aveva dato inizio al De rerum natura con l’invocazione a Venere, e lo aveva concluso con il ricordo dello straordinario spettacolo della peste di Atene; Virgilio aveva concluso le Georgiche celebrando il mitico mondo agreste, e lo aveva concluso con il mito di Aristeo, che narrava della malattia contratta dalle sue api, e con il conseguente racconto della tragica vicenda di Orfeo.

rivela la sua propensione per la biografia (cfr. il profi lo ideologico che ne ho dato in I miti della storiografia umanistica, cit., pp. 173-177), scrisse anche un De vita propria e una Ioannis Ioviani Pontani vitae brevis pars (cfr. L. MONTI SABIA, in Studi su Pontano, cit., p. 4), limitandosi ai primi trent’anni della vita di Pontano, lasciò una serie di opuscoli morali. Pontano gli dedicò il De prudentia (1499).

54

VERG., Georg., 2, 9.

61

55

COLUM., Re rust., 10, 6.

53

56

Cfr. VERG., Aen., 9, 356; la citazione riguarda la mera espressione (poenarum exhaustum satis est), trattandosi di contesto diverso. Invece che Virgilio abbia cominciato, dopo il proemio, dal lavoro degli agricoltori si riferisce ai vv. 43 sgg., che trattano subito dell’aratura.

57

Il rarissimo verbo raucesco è in ISID., Orig., 12, 7, 15.

58

Marino Tomacelli (1419-1515) fu cancelliere e segretario regio con Ferrante, che lo inviò ad Altamura a rilevare la proprietà degli Orsini dopo la morte del Principe di Taranto (1463) e si valse di lui per procurarsi manoscritti per la Biblioteca aragonese. Nel 1464 sposò la figlia del Panormita, Pontano gli dedicò il De aspiratione (1469). Sarà fra i testimoni della donazione della biblioteca di Pontano da parte della figlia Eugenia a S. Domenico Maggiore.

59

Francesco Elio Marchese (ca 14301517), fu doganiere di Castellammare di Stabia, autore del De Neapoletanis familiis (1496), studioso di Orazio, si occupò di Diogene Laerzio facendone stampare la traduzione condotta dal Traversari (Vitae et sententiae philosophorum, stampato a Roma prima del 1475). Anche lui sarà tra i testimoni dell’eredità libraria di Pontano (cfr. nota precedente). Un suo profi lo si deve a B. CROCE, in Uomini e cose della vecchia Italia.

60 Tristano Caracciolo, duca di Melfi, autore di un De varietate fortunae, in cui

VERG., Aen., 6, 439. Il corrispettivo dell’inferno cristiano («in tenebras exteriores: illic erit fletus et stridor dentium» M ATTH., 25, 30), riservato analogamente, secondo una parabola del Nuovo Testamento che vi contrapponeva il premio paradisiaco, al servo che non si era reso meritevole. 62

Riprende un argomento del sermone di Egidio (§ 8).

63

La mancanza, nel ms. Corsini, di questa specificazione (de ipsius munere) secondo cui è la stessa grazia divina a permettere la penetrazione della divinità, per quel che si è detto nella Nota al testo farebbe pensare ad un’interpolazione di Summonte nella princeps.

64

Il Paradiso è dunque uno stato, non un luogo, è la condizione di godimento divino.

65

Il vocabolo sullevatio è usato in latino in senso tropologico. Qui si riferisce al levarsi dei raggi solari.

66

Iacopo Sannazaro seguì Federico d’Aragona, re di Napoli, in Francia allora sotto il regno di Luigi XII, nel 1501. La scelta di Sannazaro fu attribuita alla lealtà e alla gratitudine sua verso il re di Napoli.

67

Raccolto nelle edizioni settecentesche fra gli epigrammi di Sannazaro (cfr. Epigrammata III VII in IACOBI SIVE ACTII SYNCERI SANNAZARII Poemata, Patavii, 1731, p. 221), il breve carme elegiaco non figura nella prima raccolta di Aldo Manuzio del 1535, né nell’autorevole ms. degli Epigrammi esaminato da L. GUALDO ROSA, A pro-

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NOTE

EGIDIO

posito degli epigrammi latini del Sannazaro, ora in La Paideia degli Umanisti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 253-268: 261-262. Ma cfr. l’edizione degli Epigranni di I. Sannazaro secondo l’edizione aldina del 1335, a cura di C. FRISON, che riporta l’epigramma alle pp. 232-233 e ne riferisce le testimonianze. È quindi probabile che la sua inclusione fra i carmi sannazariani derivi proprio dall’Aegidius, dove invece l’attribuzione al Sannazaro è facile che sia una fi nzione dell’autore del dialogo, il quale lo fa riportare dal Summonte. E al Summonte editore può ben attribuirsi la lezione Mergellina vale nostri, che si discosta da quella riportata dal ms. Corsini (Et nostri Mergilla vale), la quale – come molte lezioni di questo ms. –, potrebbero risalire all’autografo smarrito e revisionato per la stampa. Sull’uso pontaniano di Mergilla per Mergillina, e quindi sulla possibile attribuzione al Pontano dell’epigramma nella forma tramandata dal ms. Corsini, vd. S. MONTI, L’apografo corsiniano, in Studi su G. Pontano, pp. 896-897. Si potrebbe aggiungere che la forma anomala laene dello stesso ms., che è propria dell’uso pontaniano per lene, e la scrittura distinta ne ve siano un altro segno della paternità pontaniana e dell’intervento editoriale del Summonte che va ipotizzato.

es, sic iuvenem confirmasti, tale illi robur addidisti, ut astantibus honestissimis viris sacerdotibusque maxime venerabilibus ipse sublata voce diceret: “Mori nec deprecor, quando tu me ad mortem tam confirmate adhortaris, id est ad sempiternam perfruendam vitam [vitam perfruendam sempiternam legge Monti nell’apografo corsiniano, 249, tenendo conto di segni, invero poco chiari, di spostamento] illam quidem ac bonis viris quique pie vixerint cum diis ipsis communem”. Haec ille annos tris natus ac triginta moriens dictabat versabatque in ore: “Vive pius, moriere pius”, non eo tamen sensu quo ab auctore suo versus ille pronuntiatus est, sed quod qui bene vixisset ac pie, eundem quoque emori contingeret. Et Aquosa quidem Dionysius sic e vita discessit, ut aequalibus desiderabilem reliquerit sui ipsius memoriam, tum propter exitum maxime pium vixque in iuvenem expectabilem, tum quod quae indoles ingenii eius erat, ad senectutem si pervenisset, fore promittebat romanis ut litteris multum ab eo celebritatis conferretur ac nominis, patri vero Masio quanquam absenti non exiguum ademerit doloris partem, et fi lium fortiter morientem audienti, et cum Christi simul nomine animam exigentem». Per le ragioni che fanno pensare ad un intervento del Summonte in prossimità della stampa, si sono pertanto riportate in corsivo le lezioni diverse, vd. la Nota al testo.

68

L’avverbio colenter, che duplica il significato di pie, è di nuova formazione (da colo -is, «venerare»). 69

Elisio Gallucci (Elisio Calenzio), personaggio dell’Actius, morto nel 1502 o 1503, di cui si è già detto. Ma nel ms. Corsini il passo, con qualche variante e alcune righe in più, è riferito a Dionisius Aquosa, figlio, morto trentenne, di Masio Aquosa, che era stato come Pontano nella cancelleria aragonese e a cui Pontano aveva riservato un carme cordiale dove scherzava sul cognome (Hendecasyllabi, I XXXI) e un ricordo pieno di stima sulla sua avvedutezza e arguzia (De sermone, II XVI, IV VI): «…Dionysio? quem ita tu quidem solatus

pp. 709-711

70 Infatti OV., Am., 3, 9, 37, cui risale il detto «vive pius, moriere pius» intendeva dire «vivi pure religiosamente, morrai anche se sei religioso» in un contesto che metteva in dubbio l’esistenza degli dei («cum rapiunt mala fata bonos (ignoscite fasso) /sollicitor nullos esse putare deos. / Vive pius, moriere pius. Cole sacra: colentem / mors gravis a templis in cava busta trahent» («La mala sorte i buoni rapisce (lasciate che ’l dica) / mi viene da pensare che non esistan gli dei. / Vivi da santo, morrai, pur santo. Su, prega, chi prega, / dal tempio nel sepolcro la morte verrà a trascinarlo»).

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pp. 711-717

EGIDIO

NOTE

Vd. nota 69 sul prosieguo della frase nella versione tramandata dal ms. Corsini.

del desiderio di «forma» che ha la materia, come la femmina del maschio e il brutto del bello (Phys. 1, 9, 192), e nel De generatione animalium tratta della materia come elemento femminile (2, 1, 732) e premessa della generazione.

71

72

Da questo luogo pontaniano deriva quel che si sa delle difficoltà familiari del poeta, accademico pontaniano, Benedetto Gareth, detto Chariteus: vedi l’Introduzione a Le Rime del Chariteo, a cura di E. PERCOPO, Milano, 1892, I, pp. LIII-LIV. La moglie Petronilla fu cantata dagli amici poeti col nome di Nisaea, si è pensato perché appartenente alla famiglia Nifo.

73

Immagina che all’antenato da cui deriva il nome di Petronilla fosse attribuito come soprannome quello di caprone (petro -onis) e di castrato (vervex), evocando un verso di PLAUT., Capt., 820.

74

Iacopo Sannazaro, che celebrò in un epigramma la morte di Petronilla (I XLI), dedicò l’epigramma I XI ad uno dei tanti parti della donna. Pontano cantò l’amore fra Cariteo e la moglie in Eridanus I XXXVII. 75

Ermete Trismegisto, mitico autore del Corpus Hermeticum, un insieme di scritti esoterici di contenuto fi losofico-religioso di età ellenistica.

76

La figura dell’angelo corrisponde a quella del «genio» dell’antichità pagana.

77

Il ms. Corsini ha «verbali ex illo afflatu», che è una trascrizione del mistero religioso in un linguaggio insolito per la teologia. L’aggettivo verbalis, raro e non classico, era comunque usato in materia retorica e grammaticale. Nel testo dell’Aegidius pubblicato da Summonte è ripetutamente sostituito, come qui, da espressioni più canoniche (cfr. infra nota 82).

78

Da verbo ipso a provenisse il testo del ms. Corsini è «provenisse atque de verbo tantum dei dictoque constitisse». C’è il sospetto che anche questo luogo sia stato corretto da Summonte per ragioni di convenienza teologica. Infatti è stato eliminato l’ambiguo «omnia illa e nihilo provenisse». 79

All’uso del termine «privazione» Aristotele dedica un capitolo della Metafisica, 5, 22 (1022b-1023a), ma nella Fisica tratta

80

R ichiama probabilmente G E L L ., 1, 26, il quale riferiva del vocabolo privatio identificato con quella che i Greci dicono steresis («privazione» in quanto effetto del «togliere»). In effetti Cicerone usa privatio nel senso di «mancanza» («assenza di dolore», Fin. 1, 28); carentia non è vocabolo attestato nell’antichità.

81

È un classico pensiero agostiniano che il «non essere», il nulla, non esista, ma sia un concetto astratto, né vada considerato come la materia preesistente al verbo divino, e riguarda appunto anche il problema della creazione dal nulla di cui qui si tratta.

82 Il ms. Corsini ha verbali, che potrebbe rispecchiare la lezione autentica di Pontano, come al testo autentico potrebbe risalire la versione alquanto diversa che successivamente lo stesso ms. tramanda rispetto al testo della princeps. Le espressioni riguardanti il racconto sacro della divina concezione possono ben riconoscersi come la prima redazione, mentre la versione della princeps, evidentemente derivata dall’intenzione di adattare il passo secondo una forma più teologicamente corretta, fa sorgere ancora il dubbio di un intervento spurio di Summonte. 83

AT, Gen., 1, 3.

84

Il sostantivo latino surdaster è un hapax di CIC., Tusculanae, 5, 40, 116.

85

L’arcangelo Gabriele che visitò la Vergine. Il genius classico corrisponde all’angelo cristiano.

86

Da humanitatem a illud il ms. Corsini ha una versione diversa, «humanum in foetum abiit, inde in hominem ac partum, ut verbalis ille afflatus», dove la concezione e il parto della Vergine sono espressi con

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NOTE

EGIDIO

parole inconsuete nel linguaggio teologico. Di nuovo l’aggettivo verbalis, questa volta attribuito al soffio creatore di Dio, viene sostituito (cfr. nota 82).

dei gladiatori), qui un’iperbole per «lotta», «diverbio» in genere.

87

Cfr. Actius, 4, nota 39.

88

Cfr. supra, nota 70.

89

Qui si distingue fra il significato lessicale (la vis verbi) e il senso della cosa designata, il concetto di privazione, che potrebbe coinvolgere la teologia. La questione vuol limitarsi all’aspetto lessicale riguardante l’arte del dire.

90

LUCR., 2, 648.

91

Cfr. CIC., Tusc., 1, 36, 87: «An potest is qui non est re ulla carere?» («può mai mancare di qualcosa chi non esiste?»).

92

Questo valore di egeo è indicato da AUG., De vita beata, 29, quando parla di egestas come mancanza di sapienza e fa notare l’abuso dell’espressione habere egestatem: «Tale est enim ac si locum aliquem, qui lumine careat, dicamus habere tenebras; quod nihil est aliud quam lumen non habere» («Sarebbe la stessa cosa che se dicessimo che un luogo privo di luce avesse le tenebre; che altro non è che non aver luce»).

93

Cfr. HOR., Ars, 72: «quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi».

94

Già interlocutore nell’Actius.

95

Cfr. la complessa posizione di Pontano sulla questione dell’astrologia, quale risulta soprattutto dal libro III del De fortuna e dalla vicenda della polemica col Pico.

96

Cfr. CIC., Fat., 5.

97

Cfr. PONTANO, De fortuna, III VII 1.

98

Sulle diversità climatiche, esemplificate con Campania e Calabria, e dipendenti dalle stelle cfr. De fortuna, II XXXIV 5; ma qui c’è anche la testimonianza diretta di un recente fenomeno climatico. 99

Il sostantivo composto digladiatio non è attestato, come anche il semplice gladiatio, mentre è attestato gladiatura (il lottare

pp. 717-735

100

Cioè dell’autorità massima in materia astrologica.

101

La notizia deriva da PLUTARCO, Vita di Catone il vecchio, 5 («Catone si fa bello, come sempre in questo campo, di aver lasciato in Iberia il cavallo che lo aveva servito nelle campagne militari quando era console, allo scopo di far risparmiare allo Stato il prezzo del trasporto»), dove si ricorda che invece le cavalle che avevano vinto ad Olimpia furono seppellite vicino al padrone: senio confectum è l’espressione usata da Ennio, citato da CIC., Sen., 14, per dire del cavallo vecchio che si riposa dopo aver vinto ad Olimpia. Sull’avarizia di Marco Catone cfr. SEN., Epist., 7, 6; 87, 10). 102 Cfr. AUG., De libero arbitrio, 2, 10 («servire libidini»). 103

L’esercito di Luigi XII, re i Francia, conquistò Napoli il 4 agosto del 1501, dopo aver travolto le difese di Federico d’Aragona, che si ritirò ad Ischia per poi andare in esilio in Francia. Pontano, in effetti, si era ritirato dagli impegni politici già dopo l’invasione di Carlo VIII (1494).

104

Ossia il temperamento, il carattere, che deriva dalla misura in cui si mescolano i quattro umori del corpo umano, cui già si è riferito, sangue, flegma, bile gialla, atrabile. Della disumanità di Nerone Pontano parla ripetutamente nel De immanitate (cfr. l’edizione a cura di L. MONTI SABIA, Napoli, Loffredo, 1970). Vd. SVET., Nero, 34, 36.

105

Per la titillatio dei sensi come suscitatrice dei piaceri, cfr. CIC., Nat., 1, 40, 113.

106

Sull’incapacità giuridica dei furiosi, sancita dalla legislazione romana delle XII tavole, perché chi è pazzo non è padrone di sé e quindi non è colpevole (exisse ex potestate), cfr. CIC., Tusc., 3, 5, 11 («[…] exisse ex potestate dicimus eos, qui effrenati feruntur aut libidine aut iracundia […] Qui igitur exisse ex potestate dicuntur, idcirco dicun-

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pp. 737-769

LA FORTUNA

NOTE

tur, quia non sint in potestate mentis, cui regnum totius animi a natura tributum est […] Qui ita sit adfectus, eum dominum esse rerum suarum vetant duodecim tabulae».

«nove dicta est», evidentemente nel significato di coitio e di compactio.

107

Peto era nativo di Fondi, cittadina del Lazio.

108

Il chiostro di San Giovanni a Carbonara risale al sec. XIV, dono di un nobile del Sedile di Capuana, Gualterio Galeota, che vi fece annettere un’abitazione e un orto per erigere una chiesa. Sulle rovine di esso Re Ladislao fece erigere un nuovo chiostro, chiamato Chiostro Ladislao, dove è noto che Pontano, Cariteo e Sannazaro si riunissero con gli altri accademici. Il luogo ospitò successivamente una famosa biblioteca fondata da Gerolamo Seripando.

109

echo greco equivale al latino habeo, exis al latino habitus.

110

VERG., Ecl., 1, 73.

111

Quincunx era un ordine particolare in cui si disponevano gli alberi, con uno al centro e quattro intorno a pari distanza; una serie continua di alberi così disposti creavano delle linee oblique. L’espressione pontaniana ricalca «directi in quincuncem ordines» di CIC., Sen., 17, 59, e «in quincuncem disposita» di COLUM., 3, 14, 4. 112

In effetti il greco diathesis significa «tema», o «disposizione» dell’anima e del corpo, ma non è usato nel senso retorico latino di dispositio. Vd. successivamente la precisazione del senso del vocabolo greco.

113

VERG., Georg., 4, 418.

114

SALL., Cat., 20, 10.

115

L’abito, ossia l’esercizio continuo della virtù, è contemplato da Pontano come principio fondamentale mei trattati morali.

116

Entelecheia è appunto la «perfezione» che alla persona umana attribuisce la forma; l’anima è quindi la forma del corpo, L’atto di cui il corpo è potenza (A RIST., An., 2, 1, 412°). 117

Vedi successivamente l’indicazione di complexio come vocabolo di uso recente

118

Si riferisce al vocabolo appena citato nella forma del nominativo, per cui la ripresa conserva la stessa forma; ma va notato che il ms. Corsini, e quindi probabilmente la forma originaria, porta correttamente l’accusativo misturam accordato con dixi.

119

Cioè Egidio.

120

Si ricordi come alla fi ne dell’Asinus (29) Pontano abbia scherzato in modo licenzioso sulla radice di questo vocabolo con il suo contadino.

121 Cfr. Pontano, De liberalitate, XII-XIV, dove si tratta della scelta della persona cui donare, del dono, della misura, del tempo opportuno, senza che sia usato il raro vocabolo latino circumstantia, che qui, nel suo senso tropologico, deriva da GELL., 14, 1, 15; 2, 2. 122

Si riferisce a più luoghi ciceroniani, dove si parla della scelta delle azioni nel campo morale (CIC., Fin., 1, 10, 33; 5, 30, 90), o dei vocaboli in campo retorico (De oratore, 3, 37, 150).

La fortuna 1

La dedica dei tre libri De fortuna a Gonzalo Fernández de Cordova, detto il Gran Capitano (1453-1515), noto come Consalvo di Cordova, sostituì nell’autografo pontaniano quella originaria ad Antonio Guevara, e pervenne alla stampa del 1512. Gonzalez, figlio cadetto di don Pedro Fernández de Aguilar, che morì quand’egli era ancora fanciullo, fu avviato a corte dal fratello maggiore e si mise in vista nell’assedio di Granada, riconquistata dagli Spagnoli nel 1492, guadagnandosi il favore della regina Isabella di Castiglia. Era venuto nel Mezzogiorno d’Italia nel 1495 per aiutare gli Aragonesi durante l’invasione di Carlo VIII, e nel 1500 fu inviato

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NOTE

LA FORTUNA

dal re di Spagna Ferdinando il Cattolico a contrastare i Francesi di Luigi XII nella conquista del Regno di Napoli. Dopo la pace di Granada (2 novembre 1500) sbarcò in Sicilia e iniziò la sottomissione del Regno, attraverso la Calabria e la Puglia. Assediato a Barletta dal Duca di Némours, lo vinse a Cerignola nel 1503 e il 14 maggio entrò trionfante a Napoli. La dedica deve essere collocata nel lasso di tempo fra questa data e la morte del Pontano. Per la figura di Consalvo cfr. J. E. RUIZ-DOMÈNEC, Il gran capitano. Ritratto di un’epoca, Einaudi, Torino 2008 (trad. ital.). Sulla fama letteraria che accompagnò la sua figura in Italia vd. I. NUOVO, Il gran Capitano, Bari, Palomar, 2007.

no la cosiddetta Terra di Lavoro, l’odierna Basilicata, mentre la Campania è ricordata col nome degli antichi abitanti dell’interno, i Sanniti.

2

La redazione fi nale di questo luogo, sul ms. autografo e nella stampa, porta tris … libros, ma la vicenda del testo fa pensare che Summonte abbia in un primo momento cercato di far figurare la dedica al Consalvo del solo primo libro, avendo interpolato la dedica al Colocci del terzo (sulla questione cfr. G. PONTANO, La fortuna, a cura di F. Tateo, Napoli, La Scuola di Pitagora editrice, 2012, p. 67). 3

Si riferisce presumibilmente alla presenza del Gran Capitano a Napoli in occasione della calata di Carlo VIII. Pontano era rimasto a Napoli durante la breve dominazione del re francese.

4

Alonso, fratello maggiore di Consalvo, si prese cura della sua educazione. Combatté a fianco del re Enrico IV nella spedizione verso la frontiera con il Regno di Granada, quando Consalvo era ancora fanciullo.

5

I cosiddetti re cattolici, Ferdinando ed Elisabetta di Castiglia, che avevano unificato il Regno di Spagna ed ereditato il titolo imperiale.

6

Si riferisce alle regioni del Regno di Napoli. La Calabria è distinta fra il territorio costiero abitato da Calabri e quello interno abitato dai Bruzii. I Lucani abitava-

pp. 769-773

7

Si riferisce alla guerra sorta fra Spagnoli e Francesi, che nella pace di Granada si erano spartiti il territorio del Regno, e successivamente se ne contesero il possesso con un confl itto che durò fi no alla vittoria defi nitiva della Spagna ad opera di Consalvo.

8

Si riferisce ai due eventi più importanti della guerra fra l’esercito spagnolo guidato da Consalvo e l’esercito francese guidato dal Duca di Némours, l’assedio di Barletta e la battaglia di Cerignola (28 aprile 1503).

9

Luigi, duca di Némours, capo dell’esercito francese. La sua morte facilitò la conclusione del confl itto.

10

La convinzione della etimologia di fortuna da fors e quindi da fero è ben attestata nell’uso di ripetizioni come quid … ferat fors virtute experiamur (ENN., Ann., 197), quid fors feret (TER., Phorm., 138), fors si qua tulisset (VERG., Aen., 2, 94), ut fors tulerit (CIC., Att., 7, 14, 3), che Pontano conosceva. L’etimologia di Isidoro da fortuita, «gli eventi casuali» (Orig., 8, 11, 94, «fortuna a fortuitis nomen habere dicunt»), non prevede il verbo originario né l’immediato antecedente (fors), ma può essere stata presente a Pontano sia per la formulazione, quantunque variata («a ferendo ei nomen indidere»), sia per la distinzione fra fato e fortuna e la considerazione della fortuna come casualità («fatum autem a fortuna separant; et fortuna quasi sit in his quae fortuitu veniunt, nulla palam causa; fatum vero adpositum singulis et statutum aiunt»). Ma cfr. CIC., Div., 2, 6, 15: «Quid est aliud fors, quid fortuna, quid casu, quid eventus, nisi cum sic aliquid cecidit, sic evenit, ut vel non cadere atque evenire, vel aliter cadere atque evenire potuerit?» («Che cos’altro è la sorte, la fortuna, il caso, l’evento, se non qualcosa che è accaduta così, è successa così, come o avrebbe potuto non accadere

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pp. 733-783

LA FORTUNA

NOTE

e succedere, o avrebbe potuto accadere e succedere in un altro modo?»).

est tam contrarium rationi et constantiae quam fortuna».

11 Cfr. A RIST., Magna moralia, 2, 8; 1207a («Neppure si può identificare la fortuna con l’intelletto o con la retta ragione; giacché in essi vi è quanto mai ordine e uniformità, ma non vi è sorte […] Può essere allora la fortuna una sorta di provvidenza degli dei? Certamente non si penserà che sia così. Infatti noi supponiamo che, se dio è il padrone di tali beni, assegni i beni e i mali agli uomini che li meritano, invece la sorte e le cose che provengono dalla sorte sorgono realmente a caso. Se dunque attribuiamo questo a dio, ne faremo un giudice cattivo o ingiusto, ma ciò non gli si addice»). Ma Aristotele escludeva l’identificazione con dio, intelletto e ragione, ponendo argomenti che Pontano successivamente amplifica in appositi capitoli, mentre identificava la fortuna con la natura, precisando a quale natura alludesse: «ciò che resta e che è più connesso alla fortuna è dunque la natura. La fortuna e la sorte appartengono alle cose che non dipendono da noi e di cui non siamo padroni, né siamo capaci di produrle […] chiamiamo fortunato chi è nobile di nascita, e in genere l’uomo che possiede tale sorta di beni, di cui egli non è l’arbitro […] la fortuna è dunque una natura priva di ragione. L’uomo fortunato è infatti colui che, senza la ragione, ha un impulso verso le cose buone e le ottiene». Pontano, che identificherà la fortuna con una certa natura, preferisce a questo punto escludere l’identificazione con la natura (vedi l’inizio del cap. 2 e il cap. 3) tenendo fermo il concetto di natura come regno dell’ordine e della certezza, salvo a parlare in seguito di un’altra natura, consistente nel disordine.

14

12 SEN., Phaedr., 978-979 (la lezione del cod. Laurenziano 37, 13, seguito da qualche edizione moderna, è sparsitque). 13 Il participio ratus, da reor («contare»), ha il senso tropologico di «ratificato», «approvato», quindi «sottoposto ad una riflessione». Cfr. CIC., Div., 2, 7, 18: «Nihil enim

Il raro vocabolo latino, usato da Cicerone nelle epistole (ad Quintum fratrem, 3, 9, 2) per indicare la «sconsideratezza» è inconsiderantia. Da consideratio Pontano ricava il neologismo corrispondente mediante l’aggiunta di una preposizione che lo stesso Cicerone riteneva plausibile per formare parole nuove (De or., 3, 38, 154: «coniunctione verba novantur»).

15

I versi successivamente citati sono tratti dall’Epicedion Drusi (Consolatio ad Liviam), 371-374, attribuito a Ovidio.

16 Cfr. CIC., Off., 2, 6, 19 («Magnam vim esse in fortuna in utramque partem, vel secundas ad res, vel adversas, quis ignorat? Nam et, cum prospero flatu eius utimur, ad exitus proveimur optatos et, cum reflavit, adfl igimur», «chi ignora che una grande forza risiede nella fortuna in tutti e due i sensi. Infatti, non solo quando usufruiamo del suo soffio favorevole, perveniamo alla meta desiderata, ma anche, quando essa soffia contro, veniamo abbattuti»). 17 Cfr. A RIST., Magna moralia, 2, 8, dove Aristotele dichiara di affrontare il tema della fortuna essendo esso connesso con la felicità che è il tema principale, ma in effetti per giungere ad una distinzione di fondo fra felicità e fortuna («I più pensano che la vita felice sia quella fortunata o non priva di fortuna; infatti non è possibile essere felici senza i beni esteriori, tra i quali la sorte è il principale […] Poiché dunque la felicità non può esistere senza i beni esteriori e questi risultano dalla fortuna, come abbiamo detto poco sopra, ne consegue che la fortuna è cooperatrice della felicità»). La distinzione risulta più netta quando si considerino le conclusioni dell’Etica Nicomachea e della Politica (7, 1-3; 1323-1325), mentre Pontano, che non affronta il problema schiettamente etico della felicità e fonda prevalentemente il discorso intorno alla fortuna sull’acquisto dei beni esterni, che nello stesso capitolo

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NOTE

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aristotelico trovava ribadito come essenza della fortuna, ripeterà la formula della fortuna cooperatrice della felicità, ma insisterà prevalentemente sulla divergenza dei due valori.

21

18

Si riferisce ad Ovidio, precedentemente citato (vd. supra, nota 15).

19

Aristoteles … fortunam esse dicat: che il termine di fortuna s’intenda in due sensi contrari, di fortuna favorevole e sfavorevole è una nozione diffusa e quindi il ricorso all’autorità di Aristotele sembra superfluo, ma è interessante che qui Pontano, ricordando il fi losofo come studioso della natura, tenga presente una definizione contenuta nella Fisica, 2, 5 (197a), una pagina importante per l’altro problema della distinzione fra fortuna e caso: «La fortuna, poi, si dice buona quando ce ne viene qualcosa di buono; cattiva quando qualcosa di cattivo». Ma Aristotele piega verso l’altro tema della incostanza della fortuna essendo difficile, soprattutto per la prosperità, la condizione perfetta o duratura: «e si parla di prosperità o di fortuna quando il buono o il cattivo hanno una certa importanza; perciò anche il ricever “quasi quasi” un gran bene o un gran male è come prosperare o essere sfortunato […] Giustamente, inoltre, si dice che la prosperità è incostante; infatti non è possibile che alcuna cosa fortuita sia sempre o per lo più». L’impossibilità che duri una condizione massima di fortuna o di sfortuna non è argomento pontaniano – prevalendo quello dell’assoluta imprevedibilità e della mancanza di qualsiasi norma, anche di instabilità – ma lo si ritrova ben sviluppato da Leon Battista Alberti, sin dall’inizio, nel De iciarchia, specialmente quando si parla paradossalmente della preoccupazione che deve indurre uno stato ottimo di salute.

20

Perseo, ultimo re di Macedonia, figlio maggiore di Filippo V, sconfitto a Pidna (168 a.C.) da L. Emilio Paolo, seguì prigioniero il trionfo del console romano l’anno successivo.

pp. 783-785

Agatocle divenne sovrano di Siracusa nel 317 a.C.

22

Cfr. T. POLLIONE, Valerianus (Script. Hist. Aug., XXIII). Publio Licinio Valeriano, imperatore romano (253-260), padre dell’imperatore Gallieno.

23

Gli Arsacidi regnarono in Persia dal 253 al 224 a.C. Arsace, primo della serie, di oscure origini, divenne primo re dei Parti con una rivolta contro Antioco II, re di Siria.

24 Cfr. G. CAPITOLINO, Maximus (sive Pupienus), Script. Hist. Aug., XXI. M. Clodio Pupieno Massimo fu eletto imperatore con Balbiano (238 d.C.) quando al Senato giunse la notizia della morte di Gordiano in Africa, ma il nuovo imperatore fu ucciso a Roma dai soldati nello stesso anno. 25 G. CAPITOLINO, Maximini duo, Script. Hist. Aug., XIX. Caio Giulio Vero Massimino, imperatore romano salito al trono nel 235 d.C. per acclamazione delle sue truppe dopo l’uccisione di Severo Alessandro. 26

Gli Alani erano una popolazione bellicosa della Scizia. La forma latina Halani non ha l’aspirata e quella greca non ha lo spirito aspro, ma Pontano adopera l’aspirata e non cita il vocabolo nel De aspiratione. Ebbe i genitori entrambi barbari, scrive G. Capitolino, «alter e Gothia de vico Threicia, alter ex Alanis genitus perhibetur».

27

Matyas Hunyadi (1443-1490), più noto come Mattia Corvino, apparteneva a famiglia ricca ed era figlio di un generale di nobile origine cumana. Fu eletto re d’Ungheria nel 1458 alla morte di re Ladislao e incoronato re di Boemia nel 1471, governò la Moravia, la Slesia e la Lusazia dal 1486 e fu duca d’Austria. È poco nota la sua vicenda giovanile di essere passato dal carcere al regno, ma il personaggio era molto vicino alla dinastia aragonese di Napoli per aver sposato Beatrice d’Aragona e aver condiviso la cultura umanistica che ebbe il merito di importare in Ungheria. Ne scris-

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pp. 785-787

LA FORTUNA

NOTE

se la biografia un umanista originario del Regno meridionale, Antonio Bonfi ni, che gli fu a fianco nella politica culturale e al quale si deve il soprannome di Corvino, umanisticamente ricavato dal nome della famiglia romana dei Corvini. Con l’ironico videlicet si vuol dire che egli non avrebbe mai previsto, stando in carcere, di diventare il re d’Ungheria.

tarco concepisce la fortuna come cooperatrice della virtù, e quindi in certo qual modo provvidenziale, soprattutto agli inizi: «L’inizio è la somma importanza in ogni cosa, ma soprattutto nella fondazione e nella costruzione di una città, e quello di Romolo l’offrì la Fortuna, salvando e proteggendo il suo fondatore. Infatti la virtù rese grande Romolo, la fortuna vegliò su di lui fi nché divenne grande» (8, 321a; cfr. 8, 320a: «alla nascita, alla salvezza, al nutrimento e alla crescita di Romolo la Fortuna pose le fondamenta, e la virtù completò l’edificio»). Nel caso delle oche che salvarono il Campidoglio Plutarco sottolinea la benevolenza della fortuna, pur osservando l’eccezionalità del caso. Pontano sembra discutere proprio queste opinioni scrivendo della fortuna toccata ai due gemelli, per sostenere piuttosto il capriccio della fortuna, non la sua provvidenzialità. Nell’altro opuscolo Della fortuna (Moralia, 97c-100d) Plutarco si dichiara nettamente contrario al detto attribuito ad Euripide «non la saggezza, ma la fortuna governa tutte le opere dei mortali», che è invece il senso più riposto del pontaniano De fortuna. L’opuscolo nasceva come commento critico ai versi di Euripide «La saggezza non già ma la fortuna tutte l’opere guida dei mortali», e procedeva attribuendo alla virtù e non alla fortuna il superamento dei difetti materiali, questi sì dovuti alla natura e alla fortuna. Ma l’opuscolo plutarcheo, cui si ricollega quello sulla fortuna dei Romani affrontava direttamente anche il tema, che Pontano qui echeggia, della fortuna come causa di imprevisti risultati che l’arte non riuscirebbe ad ottenere, concludendo con una considerazione etica che esula dalla prospettiva pontaniana, pur rivolta ad insistere sulla irrazionalità sia del successo ottenuto senza meriti, sia della sventura subita senza colpa: «il prosperare indegnamente porge al folle occasione di vaneggiare, come disse Demostene: così l’essere fortunato senza merito è occasione di diventare sventurati agli stolti». Il peri-

28

Mutium Sfortiam: Muzio (diminutivo di Giacomo) Attendolo (1369-1424), chiamato Sforza per la prestanza fisica, iniziatore della stirpe che governerà il ducato di Milano. In realtà l’accentuazione della sua provenienza dal lavoro dei campi (si sarebbe arruolato, lasciando la zappa, nelle fi le del compagno di ventura Balduino da Panicale) deriva dalla denigrazione dovuta alla fazione ostile del condottiero Braccio da Montone, mentre l’origine rurale, ma anche militare, della sua famiglia si riferiva ad una condizione di piccola nobiltà. La sua vita sarà scritta da Paolo Giovio.

29

Erasmo da Narni, detto il Gattamelata (1370-1443), condottiero al servizio dei Veneziani, combatté vittoriosamente contro i Visconti. Era conterraneo di Giovanni Pontano ed originario della stessa città di Sertorio, il guerriero romano cui è dedicato il poemetto pontaniano in coda al dialogo Antonius.

30

La statua equestre fu eseguita da Donatello ed eretta a Padova nella piazza del Santo, accanto alla basilica.

31

Probabilmente Pontano pensa ad uno degli opuscoli morali di Plutarco (Moralia, 316c-326c) sulla fortuna dei Romani (cfr. La fortuna dei Romani, a cura di G. Forni, Napoli, D’Auria, 1989), il raro vocabolo latino, usato da Cicerone nelle epistole (ad Quintum fratrem, 3, 9, 2) per indicare la «sconsideratezza». Da consideratio Pontano ricava il neologismo corrispondente mediante l’aggiunta di una preposizione che lo stesso Cicerone riteneva plausibile per formare parole nuove (De or., 3, 38, 154: «coniunctione verba novantur»). Plu-

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NOTE

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colo della fortuna verrà considerato nel De remediis petrarchesco (cfr. qui, l’Introduzione generale, 3).

viamente la favola dell’unione della vestale col dio Marte e quindi sostenendo il carattere adulterino dell’unione dei suoi genitori, che procurò infamia alla madre e a lui stesso, perché considerato illegittimo.

32

Di questo detto, che ha la forma di un trimetro giambico catalettico, praticamente di un endecasillabo, non ho trovato testimonianza altrove, ma il senso che gli dà Pontano è che la fortuna, piuttosto che altro, cioè la virtù, ha dato prevalentemente la vittoria ai Romani.

33

Nel proemio al terzo libro, l’esempio di Giovanni Pico (§ 7) riguarda proprio la brevità e la lunghezza della vita sottoposta agli astri e alla fortuna. Sulla convinzione che anche la lunghezza della vita sia prevedibile, perché è stabilita dall’eternità, cfr. più avanti, nel libro terzo, la citazione di Gregorio Magno.

34

In realtà nella Fisica (2, 5) Aristotele nega che la fortuna e il caso siano causa di qualcosa; infatti, perché ci sia una causa, le cose dovrebbero avvenire «sempre allo stesso modo o per lo più», ma poi ammette che, pur essendo indeterminate le cause da cui potrebbe derivare il fortuito, «è possibile che avvengano per fortuna, giacché avvengono per accidente, e la fortuna è causa accidentale», e tuttavia la fortuna in assoluto «è causa di nulla» (2, 5; 197a). Così nella Metafisica, dopo aver dimostrato che non è possibile «fare alcuna indagine speculativa sull’essere accidentale» e che quindi non si può fare scienza dell’accidentale (6, 2; 1026b-1027a), Aristotele riconosce che, guardando al passato, ciò che è accaduto sia ancora presente in una qualche cosa, e un accadimento accidentale abbia evidentemente un principio, ma che «questo non risale ancora ad un altro. Questo, pertanto, sarà il principio di ogni avvenimento fortuito» (6, 3; 1027b). Pontano si accosta a questo ragionamento quando sostiene che gli eventi abbiano una causa, ma che la causa prossima sia svincolata dalla necessità. 35

Si riferisce alla leggenda della nascita di Romolo da Rea Silvia, respingendo ov-

pp. 787-793

36

Si riferisce alle leggi matrimoniali, per le quali è considerato illegittimo chi nasce fuori del matrimonio.

37

Come nel Vecchio Testamento, osservato dai Giudei e dai Cristiani, Mosè figura come capostipite del popolo fedele dopo il ritorno dall’Esodo, così nel Corano, osservato dai Musulmani che sono qui identificati genericamente come Saraceni, è ricordato come uno dei maggiori profeti predecessori di Maometto.

38 Nulla … nasci: per la legge naturale Romolo è nato come qualunque uomo, nonostante l’illegittimità cui lo condannano le leggi umane. 39

Gli abitanti della Siria, con cui è propriamente denominato il territorio che comprende Giordania, Libano e Israele, sono qui genericamente considerati i musulmani d’Oriente; i Mauri sono propriamente gli abitanti dell’Africa settentrionale che si affaccia sull’Atlantico, mentre Saraceni erano chiamati generalmente i musulmani provenienti dall’Africa settentrionale.

40

Ossia da una femmina e un maschio che hanno contratto un matrimonio legittimo.

41

Cfr. la Vita Vergili, nel De viris illustribus di Svetonio (1, 3-5), dove si racconta della nascita di Virgilio con più di una leggenda riguardante un albero: «Quando la madre era gravida di lui, sognò di dare alla luce un ramo di alloro, che toccando terra crebbe e si sviluppò lì per lì nella forma di un albero maturo pieno di vari frutti e fiori, e l’indomani con il marito andando nella campagna vicina si allontanò dalla strada e partorì in una fossa accanto […] Ci fu un altro presagio; infatti un tronco di pioppo che, secondo l’uso di quella regione in occasione del parto, fu subito pianta-

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pp. 793-803

LA FORTUNA

NOTE

to dove era avvenuta la nascita, crebbe in così poco tempo che raggiunse in altezza i pioppi piantati molto tempo prima. L’albero fu chiamato da lui “albero di Virgilio”, e fu venerato dalle donne incinte e appena liberate dal parto, che lì facevano suppliche e voti ai suoi piedi».

quelle cose che, pur comprese fra quelle che avvengono a caso, possono essere scelte da quelli che hanno facoltà di scegliere» (ibid., 2, 6; 197b). Cfr. la nota successiva.

42 La forma più comune del vocabolo culcitra è culcita («coltrice», «materasso»); si riferisce al letto dove di solito si partorisce. 43

La forma latina normale del vocabolo è incestus.

44 Garamantes e Nasamones erano popolazioni stanziate nel territorio più meridionale del Nord Africa, nell’odierno Fezzan, già nominate da Erodoto (cfr. PLIN., Nat., 5,5, § 8). 45

Il nome della Canaria, una delle isole Fortunate nell’Oceano Atlantico, secondo PLIN., Nat., 6, 32, 37, § 205, derivava dalla grande taglia di cani che vi vivevano. 46

Faustulus era il nome favoloso del pastore che trovò Romolo e Remo abbandonati e allattati dalla lupa, e li allevò.

47

Amulio aveva usurpato il trono di Alba, sostituendo il legittimo re Numitore, e ordinò di gettare nel fiume i due gemelli e di seppellire viva Rea Silvia, figlia di Numitore. I gemelli furono depositati dal fiume ai piedi del Palatino.

48

Acca Laurenzia, moglie di Faustolo, fu, secondo la leggenda, nutrice di Romolo e Remo.

49

Le quattro cause, materiale, efficiente, formale, fi nale: vd. A RIST., Phys., 2, 7 (198a); Anal. post., 2, 11 (94a); Met., 1, 3 (983a); 12, 4 (1070b). 50

Si riferisce alla causa comunemente detta «efficiente».

51

innuere … Aristoteles: Dopo aver equiparato fortuna e caso in quanto cause accidentali che possono anche prodursi in vista di un fi ne (Phys., 2, 5; cfr. supra, nota 19), Aristotele distingue la fortuna dal caso perché «parliamo di fortuna a proposito di

52

In realtà la citazione di Pontano, qui e nel capitolo successivo, si riferisce ad un’opera di Galeno intitolata περὶ φιλοσόφου ἱστορίας, e precisamente al capitolo 8 intitolato περὶ τύχης (GALENO, ed. Kühn, t. XIX, pp. 262-263; devo a D. Canfora l’identificazione), dove προαιρετικοῖς (traslitterato in latino con proaereticis, e forse scambiato per un titolo o riprodotto per aderire al testo) non significa altro che quel che successivamente lo stesso Pontano dice in latino, «in iis quae ipsi elegerimus», ossia «in quelle cose che sceglieremo», e riguarda la defi nizione della fortuna come la «causa» di quel che avviene o accidentalmente o inopinatamente in quelle cose in cui abbiamo operato una scelta. 53

Il pensiero di Anassagora e degli Stoici, qui sunteggiato, dipende dallo stesso cap. 8 da cui si ricava il pensiero di Aristotele e Platone.

54

Traslitterazione del testo greco, che propriamente ha [αἰτίαν ἄδηλον] ἀνθρωπίνῷ λογισμῷ cioè «[causa non nota] alla riflessione umana», laddove Pontano ha letto verosimilmente come se fosse [αἰτίαν ἄδηλον] ἀνθρωπίνων λογισμῶν (traslitterando ha usato la o latina, intendendola come lunga corrispondente all’ω), e ha tradotto come se si trattasse di un genitivo dipendente da αἰτίαν («causa non nota delle riflessioni umane»). 55

Aristoteles … continenter verti: Aristotele tratta della generazione e dell’alterazione delle cose, e quindi delle cause che le producono e le trasformano nella Fisica e nei libri Della generazione e corruzione.

56 Cfr. CIC., Off., 2, 6. 19: «Magnam vim esse in fortuna in utramque partem, vel secundas ad res vel adversas, quis ignorat?» («Chi ignora che nella fortuna ci sia una forza che opera in entrambi i sensi, quello

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NOTE

LA FORTUNA

favorevole o quello contrario?»). Ma Cicerone continua dicendo che però la fortuna, potente in un senso e nell’altro, più di rado ha parte in tutti gli altri casi, prima di tutto in quelli che riguardano cose inanimate, come le tempeste, i naufragi, le rovine ecc. («Haec igitur ipsa fortuna ceteros casus rariores habet, primum ab inanimis procellas, tempestates, naufragia etc.»). Pontano ricava da questo passo ciceroniano, un po’ forzatamente, una distinzione, che egli tende ad attenuare e perfino ad eliminare, fra fortuna e casus, l’una riguardante i casi improvvisi ed incerti che solo agli uomini possono occorrere, l’altro i casi propri della natura. In effetti Cicerone nel De divinatione, dove più volte ricorre il termine di casus, distingue spesso fra l’ordine della natura e il capriccio del caso (tum natura tum casus, natura vel casus, casus non ratio nec consilium valet), e nel De fato oppone fatum e casus, quasi identificando casus e fortuna.

che nell’Asinus (vd. nota 51), nell’Actius, II, e nell’Aegidius a sostenere le ragioni della fi losofia aristotelica. Summonte ha sostituito sull’autografo il suo nome con quello di Antonio Galateo, l’umanista di Galatone nel Salento, autore del De situ Iapygiae, amico di Pontano e dei pontaniani, medico di Federico d’Aragona, ritiratosi alla fi ne del secolo nella sua terra, dove morì nel 1517.

57

VERG., Aen., 11, 252. I regni di Saturno designarono presso i Latini l’età felice e il luogo della felicità: ospitato in Italia, Saturno si sarebbe stabilito sul colle Capitolino, portando il progresso della vita agricola nel Lazio, da lui denominato quando scomparve (latuit) per tornare in cielo.

58

Ricalca la famosa defi nizione ciceroniana del linguaggio dei poeti, che parlerebbero una lingua diversa («alia quasi quadam lingua locuti», De or., 2, 14, 61). Pontano più di una volta si richiama a questa formula nell’Actius.

59 hanc … vocavere: Pontano al solito traslittera le parole greche; αναγκη è la «necessità», ειμαρμενη è il «fato». Cfr, CIC., Nat., 1, 20, 55. La corrispondenza con le parole greche appare cancellata nell’autografo e manca in Mayr, ma vive in B (cfr. la Nota al testo). 60

Ioannem Pardum è la lezione originaria dell’autografo (cfr. Nota al testo). Accademico pontaniano, Giovanni Pardo, originario dell’Aragona e grande amico del Cariteo, viene introdotto da Pontano an-

pp. 803-805

61

Pontano si riferisce evidentemente a se stesso, accomunandosi al Pardo con un’espressione di modestia, nella dedizione agli studi peripatetici, ossia della tradizione aristotelica.

62

Si riferisce ai dogmi della religione cristiana e distingue il metodo dei teologi da quello dei ratiocinantes, che fondano il pensiero sulla ragione naturale. Per questa distinzione, che non manca nel metodo tomistico, va tenuta presente soprattutto la dottrina, dove quel metodo è fortemente accentuato, di Giovanni Duns Scoto, che Pontano cita, per altro verso, nel libro terzo.

63 Cfr. CIC., Div., 1, 55, 125 («[…] primum mihi videtur, ut Posidonius facit, a deo, de quo satis dictum est, deinde a fato, deinde a natura, vis omnis divinandi ratioque repetenda», «mi sembra che la divinazione debba dapprima risalire a dio, di cui si è già parlato, poi al fato, poi alla natura»). Si veda come Pontano modifichi l’ordine, forse anche per fallo di memoria, facendo assegnare da Posidonio al fato il terzo posto. 64

Fra i pensieri attribuiti a Talete il più vicino a questo concetto, che identifica la necessità col tutto, è «tutto è pieno di dei», cfr. A RIST., De anima, 1, 5 (411a), PLAT., Leggi, 10, 9 (899b). Invece fra i frammenti di Parmenide (Sulla natura) s’incontra più di una volta il concetto secondo il quale la potente necessità tiene legato il tutto (I presocratici. Testimonianze e frammenti, introd. di G. Giannantoni, Bari, Laterza, 1969, pp. 273-279: Parmenide, 8, vv. 34-35, 10 vv. 6-7). Ma vd. le note successive.

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pp. 805-809

LA FORTUNA

NOTE

Parmenide non figura nel De fato e nel De divinatione ciceroniani, dove invece a Democrito viene attribuito questo pensiero sulla necessità (Fat., 10, 23: «Id Democritus, auctor atomorum, accipere maluit necessitate omnia fieri, quam a corporibus individuis naturales motus avellere», «Questo volle Democrito, sostenitore della teoria degli atomi, che tutto avvenga per necessità, piuttosto che negare il moto naturale agli elementi singoli»; Div., 1, 3, 5:«cum […] plurimisque locis gravis auctor Democritus presentionem rerum futurarum comprobaret […]», «approvando in più luoghi Democrito, importante autorità, la previsione del futuro»). Parmenide e Democrito sono però citati insieme da A RIST., Pys., 1, 2 (184b) per il fatto di sostenere o l’unicità del principio elementare o l’unicità del genere nonostante la molteplicità e la forma diversa degli elementi, rispettivamente la terra e la sostanza atomica. Le due teorie si accomunano infatti nel sostenere la necessità del tutto. Ma nelle testimonianze raccolte da H. DIELS (Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, Weidmann, 1922) sotto il nome di Aëtius i due fi losofi sono citati entrambi in un modo che Pontano sembra ricalcare: «Parmenide e Democrito [ammettono] il principio di necessità per tutte le cose; e che inoltre è anche destino, ordine, provvidenza e principio creatore del mondo» (PARMENIDE, Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1958, p. 76-77).

neque omnia ex providentia fore, neque enim uniformem naturam esse rerum quae dispensantur; ita quaedam ex providentia tantum, quaedam ex decreto, non nulla ex voluntate nostra, non nulla etiam ex varietate fortunae, pleraque casu, quae ut libet accidunt», CALCIDIUS, Commentarius, CIXV (Commentario al «Timeo» di Platone, a cura di C. Moreschini, Milano, Bompiani, 2003, p. 375). Cfr. infra § 10.

65

66

Queste informazioni su Platone, Empedocle, Democrito ed Eraclito, come quelle precedenti su Talete e Parmenide e le successive su Crisippo e Platone, sono comprese nei capitoli sull’ανανκη e sull’ειμαρμηνη dello PSEUDO-PLUTARCO, De placitis philosophorum, I XXV-XXVIII. 67

VERG., Geor., 4, 221-222.

68

Vd. nota 66.

69

Pontano concorda con il Commento di Calcidio al Timeo: «Sed Platoni placet

70

Boezio nella Consolazione della Filosofia, Prosa 3 del libro V, affronta in linea con Agostino il problema dell’apparente contraddizione fra la Provvidenza e il Fato col ricorso a tutti gli argomenti della tradizione teologica sottesi al discorso pontaniano (la provvidenza e la prescienza divina non condizionano gli eventi perché passato presente e futuro sono eternamente presenti a Dio; la prescienza non è causa degli eventi ma questi ultimi sono semmai causa della prescienza). Ma la conclusione del discorso riguarda l’efficacia della preghiera, tema assolutamente estraneo alla prospettiva di Pontano. Boezio affaccia e confuta anche il problema della eventuale attribuzione a Dio dei malanni e delle colpe morali e sostiene ovviamente la libertà dell’arbitrio.

71

Cfr. PLAT., Tim., 14 (41d).

72

expectorantem: Cicerone cita questo vocabolo in De or., 3, 38, 154, tra i neologismi dovuti all’influsso di un vocabolo vicino, come nel verso «tum pavor sapientiam omnem mi exanimato expectorat» («allora la paura mi fece andar fuori dal cuore tutta la sapienza facendomi rimanere inanimato»; il verbo, proveniente da una tragedia di Ennio, è ricordato anche in CIC., Tusc. 4, 8, 19). Cfr. Quintiliano, Instit., 8, 3, 31 (gli antichi non temettero di dire expectorat, come exanimat): Pontano usa il vocabolo nel senso di «tirar fuori dalla propria mente» e lo attribuisce all’opera del dio platonico, una sorta di creazione che non è nel testo del Timeo, dove la divinità mescola l’anima dell’universo, v’infonde i residui dei primi

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NOTE

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elementi e fatto un tutto lo divide in tante anime, quanti sono gli astri e ne distribuisce una a ciascuno (Tim., 14, 41d-41e).

81 Cfr. CIC., Div., 1, 55, 125 («Fatum autem id appello quod Graeci ειμαρμεην, id est ordinem seriemque causarum, cum causa causae nexa rem ex se gignat», «Intendo per fato quello che i greci chiamano ειμαρμενη, cioè l’ordine e la serie delle cause, che s’incatenano in modo da produrre quell’effetto determinato»). Sul significato del vocabolo greco, equivalente a «necessità» cfr. CIC., Nat., 1, 20, 55, che lo discute in relazione alla possibilità delle previsioni. Non è escluso che Pontano potesse avere presente, qui e altrove, A RIST., Interpr., 9 (18b-19a), dove si discute della necessità e del caso, entrambi possibili («è dunque evidente che non tutti gli oggetti sono o divengono per necessità; si deve dire piuttosto, che alcuni oggetti possono accadere indifferentemente in due modi […]»), quantunque in rapporto alla possibilità della contraddizione, questione estranea al Pontano.

73

La parola pronunciata da Dio («Dixitque Deus: Fiat lux. Et facta est lux», Gen., 1, 3), ha creato il mondo con le sue leggi. Pertanto dal verbo fari (parlare) deriva fatum, la parola pronuncia da Dio, quindi le leggi implicite nella sua creazione (in analogia con ειμαρμηνη).

74 Da scisco, che riguarda propriamente il voto popolare e significa «decretare col voto», deriva scitum, il decreto popolare. 75

Filosofo platonico del VII secolo d.C., tradusse il Timeo con un elaborato commentario.

76 Consequenter risulta da una probabile correzione di Pontano sulla redazione originaria dell’autografo (consequerentur). 77

Atropo, l’inflessibile, è il Fato che recide il fi lo della vita lavorato da Cloto e misurato da Lachesi. Sono le tre Parche di cui parla Platone nella Repubblica, 10, 14-16 (615c-621d), a conclusione del trattato, in un’immaginosa rappresentazione del Tartaro. Anance, la necessità, tiene in grembo le tre Parche che fi lano il destino dell’uomo. Pontano segue qui l’interpretazione astrologica del mito delle Parche, attribuendo loro la figura delle sfere gerarchiche dell’universo.

78

Atropo («che non si volge») è la sfera immobile (απλανης, cioè «fissa») nel senso che non si sposta dal suo movimento continuo e uguale.

79

Cloto corrisponde invece alla sfera che devia dal movimento uguale e costante a causa della sua obliquità; è il cerchio zodiacale entro il quale si muovono i pianeti (cfr. «l’oblico cerchio che i pianeti porta», DANTE, Par., X 14).

80

Lachesis corrisponde alla sfera sublunare che riceve l’influsso dalle prime due ed ha il compito di trasmetterlo nel mondo inferiore.

pp. 811-817

82 CIC., Div., 1, 55, 126 (praeterierunt; instant codd.). 83

Riprende l’inizio del capitolo.

84

Interest, usato nel senso anomalo di «differisce», è corretto in margine dalla mano del Summonte in distat.

85

Assenti in Tommaso, i termini collaterali di eventabilis ed eventatio sono presenti nei tomisti Pietro di Alvernia e Guglielmo Wheatley. L’aggettivo eventitius nel senso di ex eventu, «accidentale», può considerarsi un neologismo pontaniano.

86

Si riferisce all’uso del linguaggio scolastico. Una differenza fra causa per sé e causa per accidente è in A RIST., Phys., 2, 6 (198a). 87

Nella versione latina del Timeo eseguita da Calcidio in effetti è usato l’aggettivo principalis dove Platone distingueva la causa per se (των αιτιων τα καθ’αυτα) e quella accidens («Causarum vero altera principalis est, altera accidens», Comment., CLVIII, ed. Moreschini, p. 390). Cicerone, citando Crisippo, lo usa proprio a propo-

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pp. 817-833

LA FORTUNA

NOTE

sito delle cause, per distinguere quelle in sé perfette e quelle prossime che da quelle provengono: «Causarum aliae sunt perfectae et principales, aliae adiuvantes et proximae» (Fat., 18, 41). Fra gli attributi delle cause originarie, che Pontano condivide, primarius significa propriamente «primo nell’ordine», primigenius «che ha in sé la radice» (cfr. primigenia verba, VARR., L. L. 6, 36).

natore della Sicilia, mentre nell’Epist., 53, 1-5, Seneca narra un suo breve viaggio per mare.

88

Cfr. nota 84; è chiara comunque l’equivalenza posta fra accidens e il vocabolo preferito, che funge sia da sostantivo (= eventus), sia da aggettivo (= eventitius).

89

Non può che riferirsi a Cicerone, che nel De inventione (1, 28, 42) defi nisce così il significato del termine: «Eventus est exitus alicuius negotii, in quo quaeri solet, quid ex quaque re evenerit, eveniat, eventurum sit» («Evento è l’esito di un fatto, a proposito del quale ci si chiede di solito che cosa e in seguito a che cosa ciò sia avvenuto, avvenga o ci si aspetta che avvenga»).

90

Cicerone si recò in Oriente fra il 75 e il 77 a.C. per perfezionare la sua formazione. Ad Atene ascoltò le lezioni dell’accademico Antioco di Ascalona, degli epicurei Zenone e Fedro, del retore Demetrio Siro; spostatosi in Asia, ascoltò a Rodi le lezioni di Molone.

91

Brindisi, sulla costa adriatica della Puglia, era il porto consueto per salpare verso l’Oriente. Apollonia si trovava sulla costa opposta dell’Adriarico, in Illyria (Cicerone la ricorda nelle Filippiche, 11, 26).

92

Pireo è il porto di Atene, dal quale Cicerone si mosse per raggiungere l’Asia. Rodi è un’isola del Peloponneso che si trova sulla via per l’Asia Minore.

93

È difficile rintracciare questo aneddoto su Cicerone.

94

Philippeum era una moneta d’oro coniata da Filippo di Macedonia.

95 Navigabat … Seneca: l’episodio, ricordato nelle Epistole a Lucilio di Seneca, riguardava in effetti Lucilio che era gover-

96

L’argomento del tesoro ritrovato inopinatamente è un tópos che risale ad Aristotele e fu recepito da Tommaso. A Pontano era certo presente CIC., Div., 2, 7, 1, dove il caso del tesoro è accostato all’altro, pur da lui sfruttato, dell’eredità insperata. Per l’accostamento di subitus e insperatus cfr. un altro testo «ciceroniano» come le Institutiones di Lattanzio: «fortuna est accidentium rerum subitus atque inopinatus eventus» (3, 29, 1), dove ricorrono anche i termini di accidens e di eventus valorizzati da Pontano. 97 La lezione patribus tramandata dai mss., poco chiara, si riferirà al governo di Cartagine, essendone stato prima citato il popolo. L’Aldina ha partibus, che si riferirebbe al partito politico; ma sbaglia, o crede di dover correggere. 98

VERG., Aen., I, 63-64.

99

Da imparatus («impreparato»), ex imparato è locuzione insolita (che nella stampa compare come ex imperato). formata in analogia con ex insperato («insperatamente»), che incontriamo successivamente. 100

Antonio Beccadelli, cui è intitolato l’Antonius.

101 Franciscus … subrepsit: Francesco Maria Sforza, grande condottiero (1401-1466) che era stato al servizio di Giovanna II di Napoli e poi del duca di Milano Filippo Maria Visconti, successe a quest’ultimo nel 1450 avendone sposato la figlia Bianca Maria nel 1441, per il diritto di successione attraverso l’erede femminile del ducato (iure uxorio). 102 Ludovico il Moro (1452-1508), figlio di Francesco Sforza, investito del ducato di Milano dopo la morte di Galeazzo Maria Sforza, perdette il ducato in seguito all’invasione di Luigi XII re di Francia. Per lui, avversario degli Aragonesi e causa egli stesso della propria sventura perché aveva

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NOTE

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sollecitato lui la venuta dei Francesi, come si disse, Pontano mostrò sempre scarsa simpatia.

245-253, che ne fa un esempio di nobiltà acquisita nonostante le umili origini: soleva guadagnarsi da vivere lavorando la terra altrui). Ma la Vita di Mario, scritta da Plutarco in parallelo con quella di Pirro, descrive la decadenza del generale «stremato dalle fatiche, sommerso, quasi, dalla piena delle ansie e affranto», e inoltre ricorda come l’ultima sua riflessione sarebbe stata sulla infedeltà della fortuna: «[…] mentre passeggiava con gli amici dopo pranzo, si mise a discorrere delle sue vicissitudini, incominciando dalle più lontane, e narrando le frequenti alternative che aveva subito, di bene e di male. E concluse che non avrebbe agito da uomo assennato fidandosi oltre della fortuna. Detto ciò, salutò i presenti; e si mise a letto per sette giorni consecutivi, quindi morì», (PLUT., G. Mar., 45).

103 Deportato dapprima in Francia, fi nì la vita prigioniero nel Tirolo: il territorio della Rezia occupa parte della Baviera e della Svizzera. L’avvenimento era recentissimo: Pontano scriveva il De fortuna poco dopo la destituzione di Ludovico. 104 Giovenale («si fortuna volet, fies de rhetore consul; / si volet haec eadem, fies de consule rhetor», «se vorrà la fortuna, diventerai da retore console; e se la stessa fortuna vorrà, diventerai da console retore», JUV., 7, 197-198). 105

In A (f. 20r) e B (f. 34v) si legge a questo punto quod contigit, cioè una proposizione lasciata lacunosa dall’autore, per essere riempita probabilmente con il nome di un contemporaneo. Non è possibile dire se il frego che cancella la proposizione lacunosa sia dell’autore o dell’editore, in questo come nell’intervento immediatamente successivo (Daciae corr. in Thraciae). Cfr. infra, nota 107. 106

de quo diximus: De fortuna, I VI 5.

107

Thraciae: Pontano aveva scritto Daciae, riferendosi all’odierna Romania. In realtà l’imperatore Massimino proveniva dalla Tracia, e «il Trace» era il suo soprannome, come lo stesso Pontano dice precedentemente (I VI 5).

108 Sia FLAVIO VOPISCO, Script. Hist. Aug., XXVII, sia PAOLO OROSIO, Historiae contra paganos, 7, 24, 1; 27, 12 (libro di cui si ha traccia di consultazione da parte di Pontano) ricordano brevemente M. Annio Floriano, imperatore per due mesi nell’anno 276, succedendo al fratello Tacito, ma nessuno dei due accenna al particolare biografico che segue. 109

Gaio Mario, il famoso generale romano, di umili origini, entrò nell’esercito romano e si distinse nella guerra di Giugurta e contro i Cimbri, divenendo tribuno della plebe e più volte console (cfr. JUV., 8,

pp. 833-841

110

accumulatius: comparativo insolito di un insolito accumulatus («abbondante»), che conosce però l’avverbio accumulate («abbondantemente»).

111

Lucio Cornelio Sulla, di famiglia patrizia, competitore di Mario, celebrò nell’81 a.C. il trionfo su Mitridate, divenne dittatore e nel 79 si ritirò a vita privata. Narra Plutarco che nel discorso pronunciato a conclusione del trionfo, dopo aver elencato le fortune che aveva avute e le sue prove di virtù, chiese di essere soprannominato piuttosto felix, cioè «fortunato». «Sembrerebbe insomma – scrive Plutarco concludendone la biografia – che la fortuna accompagnò Silla fi no a quando anche il suo corpo fu seppellito, e scese nella tomba con lui», PLUT., Sull., 38.

112

La lezione quaeri autem, cancellata e sostituita nel ms. autografo da un intervento di mano del Summonte («A. Colotius Bassus, in primis doctus vir et rerum multarum peritissimus quaerere») è stato possibile ripristinarla dal confronto con il ms. Marciano (f. 35).

113 P LAUT., Merc., 3, 3, 20: «benevoli dei, possa io ora mescolare tristezze e gioia / baci e lacrime, lacrime e svaghi»; amatorie

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pp. 843-851

LA FORTUNA

NOTE

è un raro avverbio per more amatorio («in maniera amorosa»).

generalmente adoperato per indicare l’impulsus che causa in natura il movimento immediato (per cui vd. CICERONE, Rep., 6, 18: «quae [natura] a primo impulsu moveatur»). Per l’uso medievale di impetus, che preluderebbe alla dottrina di Buridano, cfr. É. GILSON, La philosophie au Moyen Âge, Paris, Payot, 1951, p. 613.

114 Cfr. SEN., Tyest., 435. La circostanza di chi agisce sconsideratamente ed ha successo, ma non sa dire perché, è considerata da Aristotele nelle pagine dell’Etica Eudemia che discutono del «fortunato» (8, 2; 1246b-1247a: «Infatti la saggezza non è irrazionale, bensì può fornire una ragione del perché essa agisce in un dato modo, mentre invece i fortunati non possono dire perché hanno successo; questo infatti sarebbe arte»). Pontano svilupperà con un esempio la defi nizione di chi ha successo ma non per la sua saggezza (De fortuna, II XVII 2). 115

Pontano evita la rigidezza del discorso dialettico per cui la fortuna o è natura o non lo è: essa è una «certa» natura. Tuttavia per mostrare il carattere naturale della fortuna, ossia il fatto di essere una causa, costante pur nel suo comportamento variabile, incostante nella sua essenza, ricorre con una certa esagerazione ad un modulo usato nella Metafisica aristotelica (6, 2; 1026b-1027a) per defi nire l’essere accidentale, di cui non si può far scienza perché non è «sempre o per lo più». La fortuna, se non è sempre la stessa, lo è piuttosto spesso (saepicule), se non è sempre lo è per lo più. 116 Per il senso di impetus ed impulsus, entrambi adoperati da Pontano per indicare quello che in Aristotele era ορμή (vd. Eth. Eud. 1247β; Phys., 192b; Met., 1023a) cfr. qui la Nota introduttiva. Il primo termine viene solitamente opposto alla riflessione (cfr. LIV., 42, 29, 11: «impetu magis quam consilio»), ma può riferirsi all’ispirazione divina che opera nella divinazione in modo diverso dalla ragione umana, la quale può prevedere mediante il calcolo alcuni eventi naturali come inondazioni, conflagrazioni celesti ecc. (CIC., Div., 1, 49, 111: «Horum sunt auguria non divini impetus, sed rationis humanae»; nello stesso capitolo l’impulsus deorum è quello che muove l’ispirazione); ma impetus non è

117

VERG., Aen., 8, 646.

118

Socrate accettò di morire per obbedire alle leggi, dando ragione di questa scelta, come testimoniano i suoi discorsi nel Critone (1-2, 43b-44b; 8-13, 48b-51a) e nel Fedone (8-9, 63b-64a); anche i martiri cristiani accettarono volentieri la condanna a morte, rifiutandosi di abiurare.

119

Catone «minore», nato nel 93 a.C., si uccise in Utica in seguito alla vittoria di Cesare, e si distingue da Catone «maggiore» per il soprannome di «Uticense».

120

M. Giunio Bruto, nipote di Catone Uticense per parte di madre, uno degli uccisori di Cesare, si uccise a sua volta dopo che con Cassio fu sconfitto da Ottaviano a Filippi (42 a.C.).

121

Secondo Svetonio (Vita dei Cesari, Cesare, 36) in Spagna, durante l’ultima battaglia, disperando ormai del successo Cesare pensò di darsi la morte. Nella Vita di Cesare Plutarco ricorda le sue crisi di epilessia, e in particolare quella che lo colse a Cordova (17), ma non accenna a questo episodio.

122

Cfr. di Aristotele la Grande etica, 2, 8,2 (1207a).

123 Praeclarescere è forma verbale non attestata, che si colloca accanto al rarissimo praeclareo del tardo latino. 124

Le famose profetesse del mondo greco e latino, che si riteneva fossero invasate dalla divinità, da Apollo in particolare, e capaci di predire il futuro, vengono equiparate agli altri generi di profeti, fra cui anche gli indovini del mondo moderno e i poeti, in quanto anch’essi invasati. L’identificazione, non nuova se si pensa alla

1559

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NOTE

LA FORTUNA

considerazione del poeta come «vate», è tuttavia molto significativa per l’accostamento fra il furore che prendeva le sibille e gli indovini nel momento della loro eccezionale funzione e il furore attribuito al poeta durante la sua creazione.

nessun poeta può esser grande, e Platone dice lo stesso»). Ma Orazio, che divulga il medesimo pensiero di Democrito (Ars, 295-297), parla di ingenium, come qui Pontano, accenna alla «fortuna» di cui si vale l’ingegno più che dei miseri strumenti dell’arte, tenendo fuori dall’Elicona i poeti non folli: «ingenium misera quia fortunatius arte /credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus […]».

125

VERG., Aen., 6, 48 («cui [Sibyllae] talia fanti / ante fores subito non vultus, non color unus, / non comptae mansere comae»; «mentr’ella parlava / sulle porte [dell’Averno] d’un tratto le si cambiò il volto e il colore / cambiò colore il viso, si arruffò la capigliatura»).

126

Pontano combina due versi ovidiani appartenenti a due luoghi differenti: OV., Fast., 6, 5, e Ars, 3, 350, perché questo secondo verso era preceduto da «Est deus in nobis, et sunt commercia caeli». Prima del secondo verso il Summonte aggiunge in margine «Impetus hic sacrae semine mentis habet», che è effettivamente il verso dei Fasti successivo a quello citato. Cfr. nota successiva.

pp. 853-859

130

Nel testo latino è sottinteso genere, mentre successivamente la differenza dei generi è riferita alla diversità dei metri tragicis, comicis, lyricis.

131

Nell’autografo il primo dei due versi (VERG., Aen., 7, 27) ha tum in luogo del cum della tradizione virgiliana, ripristinato nella stampa; il secondo verso viene integrato in margine da Summonte, ma su indicazione dell’autore che non lo scrive ma lascia uno spazio libero. 132

LUCR., 5, 1002.

133

OV., Epist., 4, 2, 25-26: «impetus ille sacer, qui vatum pectora nutrit, / qui prius in nobis esse solebat, abest» («viene a mancar quel sacro impulso che il petto nutriva / dei poeti e che prima esserci invece solea»).

Annibalis … anulus: l’anello in cui si soleva custodire il veleno per l’eventuale suicidio. Annibale si uccise col veleno a Nicomedia in Bitinia, dove si era ritirato dopo la defi nitiva sconfitta ricevuta da parte di Scipione (cfr. LIV., 39, 51, 8-12).

128

134

127

Non presente in A e B; potest è aggiunto nell’interlinea dalla mano di Summonte.

129

Cfr. Demokr., II 55 (in DIELS, Die fragmente, B 17). Ma Pontano poteva esserne informato da CIC., De or., 2, 46, 194: «saepe enim audivi poetam bonum neminem (id quod a Democrito et Platone in scriptis relictum esse dicunt) sine inflammatione animorum existere posse et sine quodam adflatu quasi furoris» («ho udito spesso che nessun buon poeta, come dicono che è stato lasciato scritto da Democrito e Platone, può esistere senza infiammazione dell’animo e senza quasi una folle ispirazione»), e Div., 1, 38, 80 («negat enim sine furore Democritus quemquam poetam magnum esse posse, quod idem dicit Plato», «Democrito dice che senza furore

Dopo la sconfitta di Farsalo Pompeo navigò verso l’Egitto, e appena approdato, mentre si alzava per scendere sulla riva fu trafitto alle spalle da Settimio, uno dei suoi centurioni, il 28 settembre del 48 a.C. (cfr. PLUT., Pomp., 79).

135

Cesare fu ucciso dai congiurati in una sala dell’edificio annesso al teatro di Pompeo nel 44 a.C.

136

L’imperatore Alessandro Severo fu ucciso da una banda di soldati ammutinati, si dice istigati da Massimino (cfr. E. LAMPRIDIUS, Alex. Sev., in Script. Hist. Aug., XVIII, 63). 137

Marco Antonio, il famoso luogotenente di Cesare, associato con Ottaviano nel secondo triunvirato, ottenne le province orientali, si legò con Cleopatra regina di

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pp. 859-867

LA FORTUNA

Egitto e dopo la sconfitta subita ad Azio per opera di Ottaviano fuggì ad Alessandria dove si uccise insieme a Cleopatra. 138

La graduatoria fatta da Pontano fra gli imperatori felici, cioè che sono giunti alla morte senza sciagure, vede in testa Marco Aurelio (che egli anche altrove – cfr. De liberalitate – chiama Antonino, perché adottato da Antonino Pio), poi Traiano, quindi Ottaviano Augusto.

139

VERG., Aen., 2, 354.

140

LIV., 5, 38, 4.

141

Ibid., 5, 43, 7.

142

Intende riferirsi verosimilmente a Caio Giulio Cesare Ottaviano, comunemente chiamato Augusto, non all’imperatore Giuliano (Flavio Claudio), che non sarebbe congruo con l’esempio tipico di due eccelsi condottieri romani, Cesare e Augusto, che qui si vuol introdurre, prescindendo da quelli non romani («ne de externis loquamur ducibus»).

143

P. Cornelio Scipione, il vincitore di Cartagine, fu incluso nelle liste di proscrizione e, fuggito da Roma, passò il resto della sua vita a Massilia.

144

Si riferisce a M. Claudio Marcello, che nella seconda guerra punica conquistò Siracusa (212 a.C.) e morì combattendo contro Annibale.

145

Generale romano che si distinse combattendo contro Germani e Parti durante i regni di Claudio e di Nerone, e per evitare la morte destinatagli da Nerone, invidioso di lui, si uccise a Cenchrea nel 67 a.C.

146

Gn. Giulio Agricola, suocero dello storico Tacito, si distinse per il buon governo della Bitinia dove fra l’altro introdusse la lingua di Roma; ma, richiamato da Domiziano, visse in ritiro fi no alla morte (a. 93).

147

Il vocabolo corrispondente latino è un sostantivo insolito, derivato dal verbo transitivo fortuno («rendere fortunato»), ad indicare l’azione favorevole della fortuna.

NOTE 148

Esempio di generali e di uomini politici greci, che si conquistarono una grande fama e andarono incontro a sventure. Epaminonda fu generale e uomo politico tebano, e cadde a Mantinea, combattendo contro la coalizione ateniese nel 362 a.C.; Leonida, valoroso re di Sparta (sec. V a.C.), nel 480 a.C. cadde alle Termopili difendendo la Grecia dai Persiani; Pausania, generale di Sparta nel sec. V a.C., ebbe la gloria di conquistare Bisanzio, ma per sospetto di tradimento fu processato e morì in esilio. Di Epaminonda e Pausannia ha tracciato le vite Cornelio Nepote, che parla anche di Pelopida, qui non ricordato, nelle Vite degli Uomini illustri. Leonida è ricordato da Cicerone nel De finibus bonorum et malorum.

149 Cincinnatus … Publicola: esempio simmetrico di tre consoli romani, distintisi in guerra ma non equamente gratificati. L. Quinzio Cincinnato, vincitore degli Equi nei primi tempi della Repubblica, si ricorda per il fatto che si ritirò invero volontariamente dalla vita pubblica, ma la vicenda sembra riflettere una scarsa riconoscenza da parte dei concittadini; M. Furio Camillo vinse sulle città latine ostili ed è rimasto famoso per la vittoria sui Galli, ma si sa che liberò Roma tornando improvvisamente dall’esilio dove era stato mandato per timore del suo eccessivo potere; P. Valerio Publicola, protagonista della cacciata dei Tarquini, uno dei primi consoli romani dimostratosi legislatore liberale e moderato, ebbe quel soprannome come segno di onore (PLUT., Publicola, 1; cfr. VALERIO M ASSIMO, 4, 1, 1), ma sebbene concludesse la vita felicemente, dovette superare varie ostilità per il sospetto che si ebbe di sue possibili prevaricazioni. 150

Vd. supra, I VI, 6.

151

Nell’autografo e nella stampa si legge pedore, per paedore (da paedor -oris, sudiciume). Anche il successivo teterrimi (da taeter) è scritto da Pontano senza dittongo.

152

Luigi d’Orléans, divenuto re di Francia dopo la morte di Carlo VIII (1498) col nome

1561

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NOTE

LA FORTUNA

di Luigi XII. Era stato accolto a corte dopo essere stato incarcerato come ribelle.

Aristotle’s “liber de fortuna” from Thomas Aquinas to Dante Alighieri (1260-1310), in A. A. ROBIGLIO, The question of Nobility, Aspects of the Medieval and Renaissance Conceptualization of man (Studies on the Interaction of Art, Thought and Power, 5, Leiden, Brill Publisher).

153

Ludovico … duce: Ludovico Sforza, il Moro, di cui si è già detto nel libro I 28, 3.

154

Proverbio che riassume il senso del discorso pontaniano sulla contrapposizione fra ratio e fortuna, e corrisponde ad un passo della Grande Etica aristotelica: «Neppure si può identificare la fortuna con l’intelletto e con la retta ragione, giacché in essi vi è quanto mai ordine e uniformità, ma non vi è sorte. Perciò dove vi sono maggiormente intelletto e ragione, vi è minimamente sorte, e dove vi è massimamente sorte vi è minimamente intelletto» (2, 8; 1207a). Cfr. l’ultimo capitolo del Liber de bona fortuna: «Propter quod et ubi plurimus intellectus et ratio, ibi minima fortuna, ubi autem plurima fortuna, ibi minimus intellectus». Ma l’argomento era anche nella Fisica aristotelica (2, 5; 107a) esposta da Tommaso («Et licet ea tantum agant a fortuna, quae habent intellectum, tamen quanto aliquid magis subiacet intellectui, tanto minus subiacet fortunae», Exp. Phys., 2, l. 8, 216) in un modo tale da richiamare da vicino DANTE, Convivio, IV XI 8-9, dove è citato Aristotele, ma dove l’argomento si collega al tema della maggiore fortuna che generalmente capita a chi è ignaro, frequentemente valorizzato da Pontano («Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d’un monte che si chiama Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada, zappando, più d’uno staio di santalene d’argento fi nissimo vi trovò, che forse dumila anni l’aveano aspettato. E per vedere questa iniquitade, disse Aristotele che “quanto l’uomo più subiace a lo ’ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna”. E dico che più volte a li malvagi che a li buoni pervengono li retaggi […]»). Per il Convivio cfr. il commento di C. VASOLI, in DANTE, Opere minori, a cura di D. De Robertis, C. Vasoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, I II, p. 652; e V. CORDONIER, “Bona nativitas”, nobility and the reception of

pp. 867-883

155

a nostris dicitur … duxit: il vocabolo di origine greca «politico» corrisponde al latino «civile» o «pubblico»: la felicità pubblica si distingue da quella che proviene dalla contemplazione e che può dirsi «privata», relativa alla vita interiore dell’individuo.

156

G. Fabrizio Luscino, console nel 283 a.C., non si fece corrompere da Pirro ad agire contro la patria, né qualche anno dopo (279 a.C.) accolse la proposta del medico di Pirro disposto a sopprimere il re, e morì povero (vd. PLUT., Pirr., 20-21). Della sua onestà scrive Cicerone (Off., 3, 22, 86-87). 157

Publicola Valerius: Valerio Publicola (cfr. supra, nota 149).

158

CIC., Leg., 3, 1, 3.

159

Cfr. HOR., Satire, 2, 2, 3 («crassaque Minerva»). 160

cogat … tegulam: si riferisce alla lavorazione dell’argilla di cui è fatta la tegola.

161

ENN., Trag. (in aliis scriptis servata), 246249, Teubner, 1903. Il passo di Ennio è integrato sul ms. Vaticano, in margine, dalla mano di Summonte; ma l’autore, che in un primo momento aveva citato il verso fino a Pelio lasciando uno spazio vuoto, come si ricava da B, in seguito integrò il passo fino ad abiegne ad lasciando ancora un breve spazio, forse con un segno di richiamo, in vista dell’ulteriore integrazione.

162

VERG., Aen., 4, 657-658. In Virgilio Didone, lamentando la sua sventura, non aveva dato la colpa alla causa remota, cioè al taglio degli alberi con cui erano state costruite le navi dei Troiani approdate a Cartagine, da cui aveva poi avuto origine il suo dolore.

1562

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pp. 883-899

LA FORTUNA

NOTE

Cioè i pagani, chiamati gentiles dagli scrittori cristiani.

Quirinale, a Nord-Est della città. L’accenno riguarda lo scontro, avvenuto nel 211 a.C., fra i Romani e i Cartaginesi, in seguito al quale Annibale preferì allontanarsi da Roma (cfr. LIV., 26, 10, 11).

163

164

Catone Uticense (cfr. supra, I XXXVII, 3).

165

Si riferisce alla divinatio, la previsione, la profezia, che non opera mediante la scienza, ma usufruisce di una fortunosa congettura.

166

Specie di erba medicamentale usata per eliminare gli umori nocivi.

167

Sostituisce nel margine di A un precedente imperetur ei, che ricaviamo chiaramente da B. La condizione della scrittura non permette di defi nire se si tratti della mano di Pontano o di Summonte.

168

Teodosio il Grande, imperatore romano dal 379 al 395, si scontrò con i Goti, ma in realtà fu il primo ad accoglierli nel territorio dell’impero dando loro una sede. Combatté l’eresia ariana e sostenne l’ortodossia proclamata dal concilio di Nicea.

169 È una citazione da Claudiano (Panegirico del terzo consolato di Onorio Augusto, 96-98); ma i tre versi compaiono qui nella forma proveniente dal rimaneggiamento dello storico Orosio (Historiae contra paganos, VII 33, 21). 170

L’evento si svolse nel 1461, durante la guerra sostenuta da Ferdinando d’Aragona per la sua legittimazione come re di Napoli; la campagna in Puglia, cui probabilmente Pontano partecipò, fu da lui narrata nel libro II del De bello Neapolitano.

171

L’arcangelo Gabriele. L’episodio dell’apparizione celeste al vescovo Lorenzo, del digiuno da lui ordinato e della vittoria dell’esercito napoletano che espugnò Siponto è narrata nel De bello Neapolitano con maggiori particolari (Opera omnia soluta oratione composita, Venezia, Manuzio, 1519, cc. 177v-178v), ma in questa prima versione l’apparizione è dell’arcangelo Michele, che è precisamente venerato sul Gargano, mentre qui Pontano ricorda erroneamente l’arcangelo Gabriele.

172

La Porta Collina era situata presso il

173

Il titolo è apposto in margine dalla mano del Summonte, ma il nuovo capitolo è segnalato dall’autore con la solita sporgenza del capoverso. All’inizio del capitolo A e B hanno dicas, mentre il puntino sotto la a e la e sovrapposta nell’interlinea potrebbero indicare solo un dubbio o un’intenzione di correzione da parte dell’autore come da parte dell’editore. La correzione non è, infatti, resa necessaria dai futuri successivi, perché l’autore può aver dato originariamente al primo verbo un valore condizionale.

174

Sono ovviamente due nomi scelti per un’esemplificazione, come i nomi successivi.

175

Nel De sortibus, che Pontano potrebbe aver conosciuto (cfr. il prossimo cap. XXIX), Tommaso esclude la divinazione umana, se non ispirata della scienza divina, o semmai colpevole di arti diaboliche, perché esclude che tutto derivi da cause naturali essendoci eventi fortuiti che solo Dio ordina e conosce. Per la similitudine dei dadi cfr. A RIST., Eth. eud., 1, 2 (1247a: «nella navigazione non sono i più abili ad essere fortunati; bensì come nel getto dei dadi l’uno non fa nulla, l’altro fa un buon colpo, così si è fortunati secondo quanto la natura determina: oppure per il fatto, come si dice, di essere amati da dio, in quanto il successo è qualcosa che viene dal di fuori»). 176

homini è aggiunto nell’interlinea dalla mano di Summonte; manca in B.

177

La parola, non nuova ma poco usata in questo senso, è possibilitas, cioè la possibilità di esistere, l’essere in potenza e non in atto; fortuito, infatti, è ciò che può e può non essere (vd. anche infra, n. 241). 178 In A e B si legge a natura. Summonte ha proposto in margine la correzione a for-

1563

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NOTE

LA FORTUNA

tuna, forse pensando che l’autore volesse riferirsi alla solita incertezza della fortuna, che sarebbe superfluo. Invece qui si vuol dire che le cause naturali sono incerte perché esse sono in potenza e non necessariamente in atto; solo dopo che una causa ha prodotto il suo effetto essa può considerarsi tale con certezza.

feriore: «Sunt igitur causae illae agentes ac primae, hae, vero, patientes ac secundae».

179

Peripatetici consentiunt: cfr. A RIST., Eth. eud., 1, 2 (1247a: «La natura crea gli uomini con doti differenti ed essi differiscono sin dalla nascita; come cioè vi sono quelli con gli occhi neri, per il fatto che essi hanno una particolare parte di una particolare natura, così vi sono anche i fortunati e gli sfortunati»).

180

L’aggettivo appetitivus non è, infatti, attestato nella latinità classica, ma è formazione di origine scolastica; il termine latino appetitus riguarda le passioni che si distinguono dalla ragione, alla quale si oppongono o ne vengono comandate.

181 ferae … dictae: è l’etimologia che si trova in ISID., Orig., 12, 2, 2: («Ferae appellatae, eo quod naturali utuntur libertate et desiderio suo ferantur», «sono chiamate “fiere” perché usano una libertà naturale e si lasciano trascinare dal loro bisogno») e che Pontano accoglie in conformità con l’etimologia da lui sostenuta per fortuna. In realtà il vocabolo è in relazione con il verbo ferio («ferire», «nuocere»). 182

Il figlio di Enrico Poderico, gran consigliere e maestro razionale della Gran Corte di Napoli, socio dell’Accademia napoletana, introdotto nell’Actius e nella scena VIII dell’Aegidius ad interloquire con Giovanni Pardo per precisare la posizione del maestro nei confronti dell’astrologia, non respinta alla maniera di Pico ma accolta con prudenza e con sospetto verso le congetture degli astrologi. Al breve intervento del Poderico è affidata nell’ultimo dialogo proprio la fondamentale distinzione fra cause prime e cause seconde, che è sviluppata in questo passo, dove l’impeto naturale della fortuna è attribuito al mondo in-

pp. 901-915

183 L’avverbio aspiranter, derivato da aspirans («che spira»), non è attestato nella latinità; si dice della fortuna che ad aliquem aspirat, spira favorevole verso qualcuno. 184 Con la spiegazione del termine electio sembra che Pontano intenda dar rilievo alla distinzione fra electio («scelta»), come atto generico dello scegliere indipendentemente dal modo e dalla motivazione etica, e delectus, poiché nei trattati morali generalmente usa quest’ultimo termine per indicare la scelta ponderata. 185 In B si legge extemplo, che riflette verosimilmente la lezione autografa di A, dove invece la mano del Summonte ha scritto su rasura statim. 186 In prosequendoque la congiunzione enclitica è aggiunta posteriormente e non risulta in B. La correzione, pur attribuibile alla mano dell’autore, è forse inopportuna, perché il seguire l’impeto non è azione diversa dal condurre le azioni, ma defi nisce appunto il modo di condurle senza riflettere. 187

Nel testo latio et illos … moveat si ricollega alla frase iniziata con Ac si, dopo la proposizione itaque … praeceptis, che ha quasi un valore parentetico.

188

Cfr. Antonius III.

189

Thomae Aquinatis … haec: sul Liber de bona fortuna pseudo-aristotelico, esposto da Tommaso mediante la considerazione della provvidenza divina. Le citazioni non sono comunque letterali, ma ricalcano o vocaboli o locuzioni dai luoghi che qui si indicheranno. Appartenente all’Aristoteles latinus, il libro sulla Buona fortuna, realizzato da Guglielmo di Moerbeke e introdotto negli ambienti parigini da Tommaso che se l’era portato con sé dall’Italia, in occasione della sua seconda reggenza (1268-1272), corrispondeva alle sezioni della Grande Etica e dell’Etica Eudemia dedicate alla fortuna – quelle sezioni che

1564

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pp. 915-927

LA FORTUNA

NOTE

trovano tale riscontro nel nostro De fortuna, da far pensare che Pontano potesse anche averle consultate direttamente –. Tommaso vi fa riferimento più volte non solo per contrastare ogni interpretazione rigidamente antiprovvidenzialistica di Aristotele (come quella consolidatasi nella tradizione peripatetica araba), ma addirittura per trovare in Aristotele stesso (quello riassemblato in latino) la radice ultima della libertà del volere, come mostra la q. 6 del De malo, per la quale se l’uomo è soggetto ai corpi celesti per ciò che riguarda il suo corpo e alle sostanze separate superiori per quanto riguarda il suo intelletto, risponde solo a Dio per quanto riguarda la sua libertà. Ringrazio Pasquale Porro per la dotta informazione, per il rimando che faremo in nota all’opera tomistica, e specialmente per il prezioso riferimento al De malo, che mi consente di rimandare ad una nozione teologica cui ricorre lo stesso Pontano, riferendosi espressamente alla summa Contra Gentiles, III, cap. 92, in altro contesto della trattazione (vd. De fortuna, III VI, 2). Sull’intera problematica cfr. V. CORDONIER, Sauver le Dieu du Philosophe: Albert le Grand, Thomas d’Aquin, Guillaume de Moerbeke et l’invention du Liber de bona fortuna comme alternative autorisée à l’interprétation averroïste de la théorie aristotélicienne de la providence divine, in L. BIANCHI (cur.), Christian Readings of Aristotle from the Middle Ages to the Renaissance, Turnhout, Brepols, 2011.

melius. Quid igitur erit melius scientia et intellectu, nisi Deus?»).

190

Cfr. Liber de bona fortuna, 2 («Aut est aliquod cuius non est aliud extra […] Racionis autem principium non racio, sed aliquid melius. Quid igitur utique erit melius et scientia et intellectu nisi deus? […] bene fortunati vocantur qui si impetum faciant dirigunt sine racione existentes, et consiliari non expedit illis; habent enim principium tale quod melius intellectu et consilio», cfr. Aristotele, Etica Eudemia, 1248a). Cfr. TOMMASO, De sortibus, 4 («Aristoteles enim in Lib. De bona fortuna sic dicit: rationis principium non ratio, sed aliquis

191

Cfr. TOMMASO, Summa Theologica, IaIIa, q. 109, art. 2, ad 1; De malo, 9, 6; De sortibus, 4; Contra retrahentes, 9. 192

Cfr. TOMMASO, Summa Thelogica, Ia-IIa, q. 68, art. 1. Cfr. supra, § 1 (divinos impetus).

193 Il verbo praesentiscere è testimoniato solo da Prisciano, che legge questa forma in TER., Heaut., 769. In Plauto, Terenzio e Lucrezio ricorre, sia pur raramente, persentiscere. 194

La lezione asserit … cognita risale ad A, ed è riprodotto da B; ma nell’autografo è prima sottolineato, da far pensare solo ad un’intenzione di cancellatura da parte di Pontano, poi cancellato con tratti di penna riconducibili agli interventi di Summonte, per evitare che la stampa lo recepisca ugualmente. In effetti l’asserit, parentetico e riferito a Tommaso, è anomalo.

195

Questo ed altri personaggi, di cui è difficile trovare una testimonianza scritta, e da Pontano connessi con casi stravaganti o particolari, potrebbero risalire alla tradizione orale o il loro nome essere preso in prestito soltanto per attribuirgli un esempio. Questo nome, che significa «fortunato» è diffuso nelle iscrizioni latine.

196

Per il corrispondente vocabolo latino, postilena, vd. PLAUT., Cas., 125.

197

crassitudoque: la congiunzione enclitica, presente nella stampa, è aggiunta sull’autografo presumibilmente, dato il timbro dell’inchiostro, dalla mano del Summonte (che nello stesso passo ha aggiunto il nome di Angelo Colocci), e non compare in B.

198

ut A. Colotius noster dicere solet: interpolazione di Summonte, come dimostra l’aggiunta marginale nell’autografo, assente in B e confluita invece nella stampa.

199

La ripetizione di in eam a breve distanza nell’autografo, sottolineato ma presente

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NOTE

LA FORTUNA

in B, non pare ragionevolmente espunto nella stampa.

208

200

Il re di Francia (1483-1498) che invase il Napoletano nel 1494; nato con una deformazione ai piedi, avendo sei dita per ogni piede, per nasconderla inventò le scarpe a becco d’anitra. Tolomeo dedica un capitolo alle cause degli esseri deformi (Le previsioni astrologiche [Tetrabiblos], a cura di S. Feraboli, [Roma], Fondazione Lorenzo Valla, 1985, pp. 211-213). 201

Laidas et Thaidas: Laida è il nome di varie cortigiane dell’antichità, come l’etera di Corinto o l’etera figlia di Timande; Taide era l’etera ateniese che avrebbe chiesto ad Alessandro Magno la distruzione del palazzo di Serse a Persepoli minacciando di farlo lei e divenne poi la favorita di Tolomeo I Sotere; ma il nome fu attribuito da Terenzio ad un famoso personaggio dell’Eunucus, divenuto, come Laida, simbolo della prostituzione.

202

Nella prima redazione il giovinetto era ricordato al seguito di Innico Guevara, zio di Antonio, cui era stato in un primo momento dedicato il De fortuna («Innici patrui tui alumnum»). L’apposizione risulta cancellata sul ms. in concomitanza con il cambiamento del destinatario dell’opera.

203 Il corrispondente latino, palestrita, è un vocabolo rarissimo (propriamente palaestrita), con cui Cicerone nell’Actio in Verrem e Marziale indicano il lottatore, o il direttore di una scuola di lottatori, ma in senso denigratorio. 204 India … Sabaeis: VERG., Georg., 2, 116117. 205

Calabria: sostituito nell’autografo da Brutiorum terra per un intervento di Summonte, forse per rispettare l’onomastica classica.

206 Sugli influssi del clima sulla costituzione fisica cfr. CIC., Fat., 4. 207

I figli di Cicerone e di Publio Cornelio Scipione non furono all’altezza dei padri e quindi non fecero loro onore.

pp. 929-939

La vita di Antonino Eliogabalo fu scritta da Elio Lampridio (Script. Hist. Aug., XVII), quella dei due Galieno, padre e figlio, da Trebellio Pollione (ibid., XXIII). Si riferisce al padre, il cui ritratto mostruoso conclude la biografia.

209

Cfr. SVET., Vita Verg., 1 (De poetis).

210

La notizia risale alle Storie di Erodoto (1, 34 sgg.); Creso aveva due figli, uno dei quali era muto, l’altro, Ati, pieno di grandi doti, e non riuscì nonostante tutte le precauzioni usate, a salvare quest’ultimo di cui un sogno gli aveva preannunciato la morte. 211

Ossia dei beni esterni, che sono propri della fortuna.

212

CIC., Attic., 2, 37.

213

TER., Andr., 427 («omnis sibi malle melius esse quam alteri», «è meglio esser favorevole a sé che ad altri»). 214

Su Mariano Pomicelli da Genazzano cfr. qui Aegidius 7.

215

Nacque a Viterbo col cognome di Antonini (non di Canisio come è stato creduto per secoli) ed entrò nell’ordine degli Agostiniani suggestionato da Mariano da Genazzano che lo predilesse, lo creò cardinale e lo inviò nel Napoletano per visitare i conventi e per svolgere, forse, un’azione diplomatica. Proprio a Napoli, dove soggiornò fra il 1499 e il 1501, approfondì la sua dottrina tesa a recuperare la convergenza fra poesia, profezia, classicità e tradizione cristiana, visitando i luoghi simbolici dell’antichità virgiliana fra cui quelli legati al ricordo della Sibilla, si distinse per l’eloquenza sacra lasciando il ricordo della sua vittoria in un certame del 1497 (Pontano gli dedica nel 1501 l’Aegidius, attribuendogli un’orazione sull’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù piena di reminiscenze agostiniane, per cui vd. F. TATEO, Egidio da Viterbo e il De Trinitate di Sant’Agostino, in Umanesimo etico di G. Pontano, cit.). Richiamato a Roma, vi attraversò l’età di Giulio II e dei papi medicei scrivendo la Historia XX seculorum per to-

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pp. 939-945

LA FORTUNA

NOTE

tidem psalmos descripta (1513-1518) e morì nel 1532. Sulla sua oratoria cfr. S. VISMARA, Biblioteca e società, in Atti del Convegno su Egidio da Viterbo del 1982. Cfr. qui la Nota introduttiva dell’Aegidius.

negli ultimi anni di vita (morì nel 1494), dove respingeva la pretesa degli astrologi di spiegare la varietà dei fenomeni del mondo sublunare e il loro continuo mutare con l’azione dei cieli, che sarebbe invece costante, attribuendo alla libertà dell’uomo, e non agli influssi celesti, le azioni umane e i grandi fatti storici.

216 Cfr. HOR., Carm., 1, 9, 9 («permitte divis cetera»). 217

Cfr. supra, II XXIII, 3.

218

Cfr. PLAT., Tim., 13 (40e-41d). Gli ottimati convocati dal demiurgo per aiutarlo nella creazione ulteriore sono prima le intelligenze astrali, poi gli dei della mitologia popolare. Riunitili, il demiurgo cominciò il suo discorso dicendo «O dei, figli di dei, io sono il vostro artefice e padre, e le cose generate per mezzo mio non sono dissolubili, se io non voglio», e lo conclude dicendo «voi, contessendo la parte mortale con l’immortale, formate e generate animali, e dando nutrimento fateli crescere, e di nuovo accoglieteli quando periranno». 219 Ibid., 14 (41d-41e ): «dopo averne fatto un tutto, lo divise in tante anime, quanti sono gli astri e ne distribuì una a ciascuno, e messele ivi come in un carro, mostrò loro la natura dell’universo e disse le leggi fatali». 220 Gregorii Pontificis dictum: «Statutum quoque est quantum in ipsa vita mortali temporaliter vivat. Nam etsi annos quindecim Ezechiae regi ad vitam addidit omnipotens Deus (IV Reg. XX 1), cum eum mori permisit, tunc eum praescivit esse moriturum», Gregorio Magno, Moralia, 12, 2 (3932), PL 75, coll. 986-987 («È anche stabilito per quanto tempo nella vita mortale è dato vivere. Infatti, avendo Iddio aggiunto al re Ezechia quindici anni di vita, quando permise che quello morisse, allora previde che sarebbe morto»). 221

VERG., Aen., 8, 334.

222

Cfr. supra, nota 5.

223

VERG., Aen., 3, 461.

224

Si riferisce alle famose Disputationes adversus astrologiam divinatricem, scritte

225

Lucius Bellantius … debet: cfr. qui, Nota introduttiva e Riferimenti bibliografici.

226

Nella revisione del Summonte, confluita nella stampa, il passo appare così modificato e il tono fortemente attutito: «ne ad eos tanta haec indignitas penetraret. Quid enim indignius, quam tot seculorum tradita, tot excellentium hominum velle inventa labefacere, et quae disciplinarum est omnium antiquissima, eam longo post tempore insectari?». Il testo di A si è potuto restituire grazie a B, che lo conserva intatto. Il lessico più violento usato da Pontano culmina con quella forma nuova del superlativo, ricavata da un raro oblatro (vd. A PP., Met., 6, 19).

227

Considerato il fondatore dello scetticismo, Pirrone di Elide nel Peloponneso non lasciò scritti, ma il suo pensiero si ricava dalla testimonianza di molti scrittori. Portava alle estreme conseguenze la critica del sapere formulata da Democrito, asserendo l’impossibilità di affermare alcunché con sicurezza e quindi minando i fondamenti stessi della scienza. Pontano nel De rebus coelestibus attribuisce a Pico questo atteggiamento distruttivo nei confronti di ogni disciplina.

228

Si riferisce principalmente alla critica a fondo della logica aristotelica svolta nella Repastinatio dialecticae et philosophiae, dove vengono prese di mira le categorie aristoteliche, e probabilmente anche alla confutazione del principio aristotelico del giusto mezzo contenuta nel De voluptate. Cfr. Lorenzo Valla. La riforma della lingua e della logica, a cura di M. Regoliosi, tomi 2, Edizione nazionale delle opere di L.

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NOTE

LA FORTUNA

Valla, Firenze, Edizioni Polistampa, 2010; rimando in particolare, sulla polemica antivalliana di Pontano quale emerge da questo luogo del De fortuna, al mio intervento: Il concetto di fortuna e la dialettica del Valla, ivi, t. II, pp. 493-509.

parti del corpo sovente con una comparazione fra animali e uomini. Qui si allude anche a elementi di fisiognomica, ossia del rapporto fra aspetto fisico e propensioni psicologiche.

229

Il termine latino ridiculum indica proprio la facezia; Pontano, in effetti, la racconta come una facezia. Sull’opportunità di reintegrare questo passo espunto dal Summonte e non pervenuto alla stampa cfr. la Nota introduttiva e la Nota al testo.

230

Gerolamo Savonarola, il monaco domenicano che dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) e la cacciata del figlio Piero ebbe una notevole influenza sul governo di Firenze per la sua popolarità, fi no alla sua condanna sul rogo (1498).

231

Innocenzo VIII, verso il quale Pontano non nutrì molta simpatia (aveva del resto partecipato all’assedio di Roma e alle trattative di pace fra il re di Napoli Ferdinando e il pontefice nel luglio-agosto del 1486) sembra qui scusato, ma in effetti è rimproverato per il suo atteggiamento lassista nei confronti di Pico. Si ricordi come proprio nel 1486 Pico aveva progettato di far svolgere a Roma un convegno di dotti, sottoponendo loro novecento tesi, Conclusiones philosophicae cabalisticae et teologicae tratte da fonti diverse (Ermete Trismegisto, Aristotele, Platone, Tommaso, la Cabbala), e che alcune di quelle tesi furono condannate da Innocenzo VIII, inducendo il filosofo a difendersi nella famosa Apologia (1487).

234

Infinities è una forma alternativa dell’avverbio infinite (ma nel senso di «infi nite volte») attestata solo nell’età medievale.

235

Pontano scherza sul cognome di Bellanti che ricorda bellum, la guerra, e quindi potrebbe significare il «polemista».

236

V porta a questo punto in margine Coloti, di mano del Summonte, confluito nella stampa in cui al Colocci appunto veniva dedicato il terzo libro dell’opera.

237

A RIST., Phys., 8, 2 (253a): «Pertanto nulla vieta, anzi è, forse, necessario che nel corpo si generino molti movimenti dall’ambiente che lo contiene, e alcuni di questi muovano il pensiero (διάνοιαν) e l’appetito (ὄρεξιν), e quest’ultimo muove ormai l’intero animale […]». Ma l’influenza preponderante dell’ambiente (περιεχον) su ogni peculiare fisionomia è esplicitamente asserita anche da Tolomeo nel Tetrabiblios che Pontano conosce (Le previsioni astrologiche, 1, 2, 19). 238

Per il raro vocabolo commotiuncula, che qui corrisponde al vocabolo greco κινησις, vd. CIC., Att., 12, 11. 239

Così sono traslitterate le parole greche, con la desinenza latina, nell’autografo. Cfr. supra, nota 24.

240

232

Si riferisce alla condanna del Savonarola, bruciato a Firenze come un eretico, qui si dice per decreto del governo di Firenze, nel maggio del 1498; in effetti il papa Alessandro VI aveva chiesto ai Fiorentini di punire il Savonarola dietro minaccia di scomunica.

241

233

242

Si riferisce ai quattro libri di Aristotele conosciuti col titolo latino di De partibus animalium, dove in effetti si esaminano le

pp. 945-955

VERG., Aen., 4, 702.

In effetti già Quintiliano, trattando non di dialettica ma di retorica circa il genere deliberativo, aveva messo in evidenza come moderno, in termini simili, l’uso di possibile nel senso del greco δύνατον, ossia «ciò che può e può non essere» («quod nostri “possibile” nominant», Inst., 3, 8, 25).

La difficile causa in difesa di Milone, nella quale Cicerone segnò un’importante vittoria, difendendo l’ottimate che aveva

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pp. 955-957

LA FORTUNA

NOTE

ucciso il popolare Clodio con un’orazione generalmente considerata la sua più perfetta, che fu discussa nel 52 a.C.

cisamente alle pagine propedeutiche, nelle quali sono difese la possibilità e l’utilità delle previsioni, e la serietà della scienza stessa, con la considerazione che le numerose ragioni di natura oggettiva (complessità e continua mutevolezza delle configurazioni celesti) e soggettiva (le conoscenze dell’astrologo) possono condurre a errori e fallimenti. Ma a Pontano è presente forse quel passo che aggiunge a tali difficoltà l’ostacolo frapposto o l’attenuazione prodotta dall’intervento umano, per cui appunto i decreti stellari non hanno lo stesso corso che i decreti umani: «Così anche il futuro dell’uomo, conosciuto o no, sarà in ogni caso conseguenza di una concatenazione naturale originaria se non incontra interferenze. Quando invece un evento è previsto e vi si può rimediare con mezzi naturali e logici, o non si verifica affatto o per lo meno con effetti attenuati» (Le previsioni astrologiche, 1, 3, 12). Nel proemio al Commentario, infatti, con una endiadi sono dette da Pontano «stellarum significationes decretaque» le configurazioni stellari che quasi «decretano» il futuro (ma appunto i loro decreti non sono come quelli giudiziari). Con questo discorso tolemaico si accorda anche l’accostamento pontaniano fra astrologia e medicina, giacché il medico incontra le medesime difficoltà e opportunità dell ’astrologo.

243

Cfr. PLUT., Fat., 6, 571c («che il sole tramonti è cosa necessaria e insieme possibile; ma che, tramontato il sole, piova o non piova, sono due cose possibili e contingenti», a cura di E. Valgilio, Napoli, D’Auria, 1993), e il commento di Calcidio ad A RIST., Phys., 2, 8, 199a, dove si distingue analogamente fra le cose che sono per natura, e che si generano nel loro modo o sempre o per lo più, e le cose fortuite e casuali.

244

Pontano riprende il testo di TOLOMEO, Centiloquio, VIII, con una traduzione analoga a quella fatta in occasione delle sue Commentationes alle cento sentenze di Tolomeo (Opera omnia, 1518-1519, cit., III, c. 11v: «Sapiens anima confert celesti operationi, quemadmodum optimus agricola arando expurgandoque confert naturae»), che rendeva fedelmente con una lieve variante il testo tolemaico (PSEUDO-PTOLOMAEI Fructus sive centiloquium, Ed. Æ Boer, Lipsia, Teubner, 1952, p. 39). La collaborazione del sapiente, anzi della sua anima, con la natura celeste corrisponde anche al senso del verbo greco (συνέργει), tradotto correttamente con confero. Cfr. TATEO, Traduzione, divulgazione, scelta lessicale, 2011, sul contributo di Pontano alla traduzione umanistica. 245

Corrisponde alla Sentenza 5 del Centiloquio (Fructus, cit., p. 38), che Pontano traduce nelle Commentationes con queste stesse parole, mentre qui modifica per ragioni formali e amplificatorie la seconda parte della sentenza («quando naturam earum noverit ac se ipsum ante illorum eventum praeparare», Commentationes, c. 7v).

248

Si riferisce probabilmente al De bona fortuna citato nel libro II.

249

Pontano sviluppa ora la spiegazione delle due sentenze citate, come le ha illustrate nel Commentario.

Cfr. Centiloquiun, XVIII, Opera omnia, III, c. 20r (dove il testo presenta qualche variante di disposizione rispetto alla forma qui riportata, ed un est in luogo di fuerit). Nel Commentario Pontano spiega ampiamente come la presenza simultanea del sole e della luna riguarda gli effetti celesti sui beni esterni e che dall’emergere in tale configurazione di una stella benefica o malefica dipende l’oroscopo del neonato.

247

250

246

Si riferisce al Tetrabiblios, di cui le Cento sentenze di Tolomeo sono una sintesi, e che Pontano dovette avere presente, e pre-

Ricalca l’inizio del cap. 92 del libro terzo della Summa contra gentiles intitolato proprio al bene fortunatus (l’uomo che ha

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NOTE

LA FORTUNA

buona fortuna e che è aiutato dalle cause superiori): «Cum igitur homo sit ordinatus secundum corpus sub corporibus caelestibus; secundum intellectum vero sub angelis; secundum voluntatem autem sub Deo; potest contingere aliquid praeter intentionem hominis quod tamen est secundum ordinem caelestium corporum, vel dispositionem angelorum, vel etiam Dei». Questo capitolo viene variamente utilizzato da Pontano. In esso si trova anche ripreso l’argomento della Grande Etica, secondo cui l’uomo fortunato non saprebbe come rispondere a chi gli chiedesse il perché lo sia (THOMAE AQUINATIS, Opera omnia iussu edita Leonis XIII P. M., Romae, typis Riccardi Gattoni, 1926, XIV, l. III, pp. 279-282 [279]).

contiene i quattro libri (tre furono trascritti nel 1481, mentre la princeps dei quattro libri risale al 1477-78, stampata a Venezia per opera di Giovanni di Colonia e Giovanni Manthen), il secondo contiene il commento al libro II, trascritto da Ippolito Lunense dal 1480 al 1481, mentre la princeps risale al 1474, stampata a Padova per opera di Alberto de Stendal. Del terzo esemplare, contenente le Quaestiones quodlibetales, la prima edizione risale al 1474, stampata a Venezia per opera di Alberto de Stendal; il quarto contiene le Quaestiones super universalia Porphyrii, che ebbero una prima edizione a Venezia prima del 1479. Ma per quel che riguarda il commento al libro II delle Sententiae va tenuta presente l’edizione napoletana (cfr. la n. seguente). Famoso divenne un suo divulgatore, Landolfo Caracciolo (morto nel 1451), il cui lavoro sul secondo libro delle stesse Sentenze commentate dallo Scoto fu stampato a Napoli nell’officina di Francesco Del Tuppo insieme con il De philosophia naturali di Giovan Battista Elisio, medico napoletano (J. B. ELYSIUS, De philosophia naturali. L. Caracciolus, Quaestiones in secundum librum sententiarum petri Lombardi, Christian Presler, [Francesco del Tuppo], Napoli, 1490-1495. Cfr. M. PALMA, Caracciolo Landolfo, in D.B.I., vol. 19, p. 409).

251

Evoca, senza seguirlo nello specifico ragionamento, un passo successivo del medesimo capitolo del Contra gentiles (III 92), in cui si dice della prerogativa dell’ausilio di Dio: «Secunda differentia est, quia secundum auxilium datur ad prosequendum efficaciter ea quae intendit» (p. 283); ma anche alcune altre locuzioni («odio trahimur aut benevolentia», «vis ipsa spiritualis») richiamano altre del suddetto capitolo, («sicut cum quis inducitur ad aliquid eligendum per odium vel amorem», «vis activa spiritualis naturae»), pur inserendole in un contesto diverso.

252

Cfr. TOMMASO, Contra gentiles, III 92, p. 279: «Quamvis autem Deus solus directe ad electionem hominis operetur, tamen actio angeli operatur aliquid ad electionem hominis per modum persuasionis».

253

Giovanni Duns Scoto ebbe in Italia un’immediata fortuna sin dagli inizi del secolo XIV, e nella Napoli aragonese ebbe diffusione soprattutto con il commento ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. T. DE MARINIS, La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Milano, Hoepli, 1957, vol. II, pp. 147-148 menziona quattro esemplari di opere di Duns Scoto. Dei primi due, che riguardano il commento alle Sententiae di Pietro Lombardo, il primo

pp. 959-961

254

G. DUNS SCOTO, Opera omnia, a cura di G. Lauriola, Alberobello, Editrice AGA, 2001, III/1, p. 1095 (Ordinatio, 1, Distinctio, 14: «Dico ad quaestionem, quod stellae habent actionem in haec inferiora, in elementa, in mixta inanimata et irrationalia. In elementa habent actionem dupliciter, et quoad alterationem, et quoad generationem. Accedente enim Sole et aliis calidis ad zenith alicuius regionis, elementa superiora, scilicet ignis et aer, augentur, et inferiora, scilicet terra et aqua, minuuntur et convertuntur in superiora; et e converso recedente Sole et accedentibus stellis effective frigidis, ut est Saturnus et Mercurius, accidit generatio elementorum aquae et terrae», «Rispondo a questa que-

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pp. 961-983

LA FORTUNA

stione, che le stelle hanno un influsso su queste cose inferiori, sugli elementi, sulle creature miste inanimate e irrazionali. Sugli elementi hanno influsso rispetto a due cose, l’alterazione e la generazione. Infatti, quando arriva il Sole e altri astri caldi allo zenith di qualche regione, gli elementi superiori, cioè il fuoco e l’aria, crescono, e gli elementi freddi, cioè la terra e l’acqua, si riducono e si trasformano negli altri; e viceversa quando il sole si ritira e arrivano gli asti effettivamente freddi, come Saturno e Mercurio, avviene la generazione di elementi come acqua e terra»). 255

Si riferisce a Tommaso, ma anche a Platone, Aristotele, Tolomeo.

256 Questa citazione da SENECA, Consolatio ad Marciam, XVIII, 2-3, è l’unica aggiunta sicuramente autografa e di una certa consistenza (nel margine inferiore del f. 57v di A), che possa testimoniare la revisione posteriore alla copia pervenuta in B, e datarsi mediante la sottoscrizione del 1501. 257

Il vocabolo corrispondente, partiliter, appartiene al tardo latino.

258

Procuratore della Gallia Narbonense, nome ricorrente fra le iscrizioni latine (cfr. Corpus inscriptionum latinarum, VI 92, add. P. 831 = 30690).

259

Fiume del Lazio che forma il Garigliano col Sacco e col Rapido.

260

Il verbo praetumesco, non attestato se non nella forma praetumeo del tardo latino, è generalmente usato in senso tropologico. 261

Il termine latino corrispondente, configuratio, che designa la posizione di un pianeta rispetto alla terra o al sole o alle costellazioni, non è vocabolo della tradizione latina, ma tecnico dell’astrologia, e corrisponde al greco καταστασις ο διαθεσις usato da Tolomeo (Le previsioni astrologiche, 1, 2, 19). 262 Sulpicio ed i nomi successivi sono ovviamente immaginari, scelti per l’esemplificazione.

NOTE 263

Il latino conosce inquino, donde inquinatus, ma non conquino -as da cui deriverebbe il participio conquinatus. Tuttavia conquinisco, che è voce plautina (Cist., 657; Pseud., 865), avrà giustificato il neologismo. 264

Sulla dottrina dei demoni in Duns Scoto cfr. L. THORNDIKE, A History of Magic and Expermental Scienze, New York, 19231958, vol. III (19532), pp. 4-5. 265

L’aggettivo intercutis, da cui intercutem del testo latino, non è attestato nella tradizione letteraria.

266

Il sostantivo commixtio del testo latino ha una rara attestazione nella Magia di Apuleio; poi assume, come qui, una valenza astrologica riferendosi all’incontro di più influssi astrali.

267

Pontano sottolinea l’estraneità del vocabolo moderno (influxus dicimus) all’uso classico latino.

268

quos … scripsimus: si riferisce sia al poema Urania, che ebbe una lunga gestazione (dalla metà degli anni ’70 alla seconda metà degli anni ’90), sia al trattato De rebus coelestibus, che era concluso nel 1495.

269

Il termine propensio, da cui propensiones del testo latino, che Pontano sottolinea per il suo uso specifico (dictae), è raramente usato da Cicerone (Fat. 4, 47) ad indicare quello che in greco è la προθυμια, l’inclinazione naturale del carattere, su cui opera la morale. 270

hulcera (o anche ulcera) del testo latino è il plurale di hulcus -eris, «piaga» o «escrescenza».

271

oculi … honesti: In A e B segue un’indicazione incompleta relativa ai capelli dei nati sotto Mercurio (capilli ). Come in un caso analogo (vd. I, 31,1) un frego elimina la locuzione incompleta.

272

In astrologia i cardini sono i due assi, ovvero i poli, settentrionale e meridionale, su cui la sfera del mondo fa perno per ruotare. Ovviamente il cardine meridionale non è visibile.

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

273

La conversazione

vel, vel: la prima locuzione (e regione) significa «dirimpetto» e si riferisce alla posizione opposta fra due astri; la seconda (e quadrangulo) si riferisce alla posizione che assumono due astri quando sono disposti in modo da formare un angolo di 90°, che è quello di un quadrante.

274 Configuratio è voce tecnica dell’astrologia, e traduce il greco διαθεσις, si riferisce alla posizione degli astri rispetto alla terra e al sole, e quindi anche al relativo influsso. 275

Cfr. TOLOMEO, Centiloquio, XXIX, nella traduzione di Pontano (Opera omnia soluta oratione composita, cit., III, c. 28v: «Stellae fixae irrationabiles atque admirabiles felicitates afferunt, quas tamen plerunque calamitatibus insigniunt, nisi planetae ad felicitatem conveniant», «Le stelle fisse apportano eventi felici impensabili e meravigliosi, che tuttavia per lo più macchiano di sventure, se i pianeti non si accordano nel produrre un effetto felice»). Ricalcando in parte letteralmente la sentenza tolemaica da lui stesso a suo tempo tradotta, Pontano riconferma il principio secondo il quale le stelle fisse, essendo assai lontane dalla terra, hanno un effetto incerto, che può essere straordinariamente buono, ma anche nefasto, mentre la convergenza di un pianeta favorevole rende stabile l’influsso. A proposito di questo particolare luogo tolemaico ho esaminato la qualità dell’interpretazione pontaniana in Traduzione, divulgazione, scelta lessicale nella prosa pontaniana, in «Humanistica», VI, 1, 2011, pp. 65-70.

276

In A e B si legge vincere, ma A porta nell’interlinea una correzione (vinci), vergata da una mano non identificabile, però con lo stesso timbro del ricalco frequente delle parole o delle lettere sbiadite dell’ultima pagina che si attribuirebbe alla cura più tarda di Summonte, mentre la lezione originaria è solo sottolineata. La correzione pare suggerita dall’uso anomalo di suis riferito alla fortuna, se illam è oggetto di vincere e non soggetto dell’infinitiva illam vinci.

pp. 983-1019

1

Cfr. A RIST., Eth. Nicom., 1, 7, 6; Polit., 1, 1.

2

Allusione al profi lo dell’oratore colto ed eloquente all’inizio del De oratore ciceroniano.

3

Cfr. A RIST., Eth. Nicom., 2, 7, 12.

4

Sulla proverbiale natura astuta dei Cartaginesi, e di Annibale in particolare, cfr. per esempio VALERIO M ASSIMO, 7, 3, ext. 8.

5

Pontano si riferisce ai suoi trattati morali, il De fortitudine, composto fra il 1481 e il principio del 1487, i cinque libri sull’uso del danaro, cioè De liberalitate, De beneficentia, De magnificentia, De splendore, De conviventia, stampati a Napoli presso Giovanni Tresser nel 1498 (vd. l’edizione moderna a cura di F. Tateo, Roma, Bulzoni 19992), De magnanimitate, 1968, il De prudentia e il De fortuna, ristampato in questo volume.

6

HOR., Epist., 1, 18, 89.

7

CIC., Off., 1, 31, 110, e Tusc., 1, 18, 41.

8

Pontano utilizza, variandola, un’espressione plautina, verba funditare («versare parole»): PLAUT., Poen., 273; Am., 1033.

9

Tibullo, autore di elegie d’amore, perciò suavissimus, tra gli effetti della speranza, la consolazione di chi è condannato a lavorare in catene, che spera nella liberazione: 2, 6, 26.

10

Nuovo Testamento, Iohan., 14,6.

11

Si riferisce alla temperanza e alla giustizia.

12

Un elenco delle virtù è in Cicerone (Off. 1, 7, 20); come è noto la dottrina cristiana con qualche variante defi nisce le virtù cardinali distinguendole dalle teologali, prudenza, fortezza, giustizia, temperanza. Di queste Pontano illustra nei suoi trattati espressamente la prudenza e la fortezza; la temperanza e la giustizia sono incluse nell’obbedienza, nelle virtù sull’uso del danaro e nell’immanità.

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pp. 1019-1029

LA CONVERSAZIONE

NOTE

Nel senso di «affabile», come forma di leggiadria.

tia: «huc vos quicquid habetis et leporum / iocorum simul et facetiarum / huc afferte…» («portate qui, quanti ne avete, scherzi / e quante insieme avete di facezie»). Nel De amore coniugali, II, VII, 45, torma esplicitamente questa etimologia a proposito del chorus Leporum che si aggiunge al coro delle Grazie nel corteo di Venere: «Ipsa levata labore vocem vos iure Lepores; / nominis haec vestri non mihi causa levis: / vos eritis curis requies, vos mite levamen / sollicitisque animis diminueritis onus» («Ella sollevata dalla fatica vi chiamerò giustamente Lepores; / di questo vostro nome non sarò lieve cagione; / voi dalle cure sarete il riposo, ed il dolce sollievo, / agli animi in pena il fardello / come ridur saprete»).

13

14

L’opposizione di urbanus e rusticus è diffusa nella tradizione latina. L’accezione particolare di urbanus, che dal significato originario di «cittadino», quindi colto, raffi nato, affabile, privo di rusticitas, passa ad indicare l’uomo di spirito, disponibile alla facezia, è spiegata da Quintiliano (Inst., 6, 3, 105; 11, 3, 30).

15 Facunditas è vocabolo raro in latino, ma lo usa Plauto (Truc., 494). 16 La terza lettera di facetia, «c», non si trova in fatus, né in fari, rispettivamente participio e infi nito del verbo for, faris, che significa «dire», «parlare», e da cui Isidoro faceva derivare facundus (ISID., Orig., 10, 95): «Facundus dictus, quia facile fari possit», «facetus … a faciendo dictus». Pontano riporta invece sia facetus sia facundus alla radice di facio, e li distingue erroneamente da fatum, derivato da fari, perché intende salvaguardare lo specifico significato di facetia. 17

Lepos, il gioco, il divertimento, lo spirito, è vocabolo che ricorre nei Carmina di Pontano, ma troviamo l’aggettivo corrispondente, successivamente nominato, all’inizio del primo libro del Parthenopeus, riferito indirettamente al libellus che contiene i carmi leggeri e divertenti della giovinezza, «I, munus lepido meo sodali / non dura nimium, libelle, fronte» («Va, come dono al mio scherzoso amico / senza durezza, o mio libretto, in volto»), e imitando Catullo che si era chiesto all’inizio del suo «libello»: «A chi dono questo mio scherzoso libretto?». Ma al v. 10 scherzava sull’allitterazione fra lepidus e leves, chiamando «molles, lepidi, leves, iocosi» (dolci, spiritosi, leggeri, scherzosi), certamente collegando levis e levo -as («sollevare»), i versi raccolti nel libretto. Presentando gli Hendecasyllabi seu Baiae, gli epigrammi concepiti come lieta pausa dalle fatiche, li invitava a portare tutto quanto avessero di piacevole e giocoso, collegando lepos e face-

18

TER., Heaut., 381-382.

19

PLAUT., Cistell., 1-7.

20

Cfr. CIC., Catil., 10, 24.

21

L’aneddoto è ricordato da M ACR., Sat., 2, 3, 8. Cfr. PETRARCA, Rer. memor., I, 68, 3. 22

TER., Eun., 415.

23

Ibid., 426.

24

PLAUT., Amph., 718-719.

25

Lectisternia erano propriamente i banchetti offerti agli dei, davanti alle cui immagini venivano collocate mense riccamente imbandite, disposte su letti. 26

Cioè i Latini.

27

TER., Eun., 214.

28

VERG:, Aen., 8, 364-365.

29

LIV., 23, 16, 1 (Hac comitate … iuvenis animus adeo est mollitus codd.) 30

Si riferisce alla vena satirica e comica di Luciano di Samosata, il famoso scrittore e sofista greco del sec. II d.C., che Pontano conosceva per i suoi dialoghi, dove si manifesta l’arte della conversazione affabile cui si riferisce questo capitolo. Cfr. in questo volume soprattutto il Charon.

31

PLAUT., Mil., 79-80.

32

OV., Met., 14, 643-645. Vertumnus, dio di origine etrusca, simboleggiava il

1573

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

cambiamento, per cui gli si attribuivano trasformazioni e travestimenti, che sono anche aspetti della comicità. Ovidio lo fa innamorare della ninfa Pomona, segno del suo ruolo divino di protettore dell’agricoltura specialmente degli alberi.

47

33 34

Traslitterazione del greco δουλος, secondo la lettura corrente. Cfr. CIC., Am., 9, 7.

50

TER., Eun., 252.

OV., Met., 14, 643-645.

51

A RIST., Eth. Nic., 2, 7, 2 e 11.

Ibid., 655-667.

52

Cfr. nota 54.

Aristotelicamente viene distinta la lusinga, in cui consistono le parole usate, e la forma, ossia la causa fi nale del loro comportamento.

36

PLAUT., Poen., 417-420, 367; Asin., 694.

37

JUV., 10, 202.

38

Ricorda l’imperatore Pertinace, la cui biografia fu scritta da Giulio Capitolino (Hist. Aug., Pertinax, 4 e 9).

39

Il sostantivo latino, marcescentia, non è attestato nel latino classico, ma è fatto derivare dal verbo marcescere, che è riferito proprio all’ozio in LIV., 33, 45, 7; 35, 35, 9. CIC., De or., 2, 54, 218.

41

Il vocabolo facetudo non è attestato nel latino, come del resto anche facetitas.

42

A RIST., Eth. Nic., 4, 6, 4.

48

49

35

40

pp. 1029-1053

PLAUT., Poen., 970.

43

Ma castitudo è un hapax usato da un tragico preclassico come Accio e riportato da Nonio, 85, 11, e moestitudo è in PLAUT., Aul., 432, quantunque presente in altri autori preclassici.

44

Pontano lancia il neologismo faceties, coniato sul modello di moestities, che in realtà non è attestato accanto a maestitia.

45

La veracità in italiano riguarda piuttosto, comunemente, la qualità dell’esser vero, mentre Pontano si riferisce a quella che nella retorica costituiva la veritas, ossia il parlare con schiettezza e franchezza, e si riferisce più adeguatamente alla virtù della conversazione e del colloquio umano.

46

Catone il censore, sulla cui serietà e sapienza Cicerone scrisse il Cato maior de senectute. Ma veracitas e veridicitas non sono nell’uso del latino classico.

53

Il corrispondente vocabolo italiano di assentator è usato nel sec. XIV nel Cicerone volgare e nel secolo successivo da Agnolo Padolfi ni e Leon Battista Alberti nei trattati morali. 54

JUV., 3, 108. Si riferisce a coloro che applaudono anche alle sconcezze di chi può remunerarli per la loro emulazione.

55

Ibid., 4, 126-128.

56

TER., And., 68.

57

Il latino ha coaxare e coaxatio per indicare il gracchiare delle rane, ma non coaxator, che compare invece nel sec. XIII in Seneca volgare.

58

Nel Charon (XII 53) un’ombra dichiara di essere stata, nella vita, fastidiosa come una mosca per aver seminato odi e inimicizie. Non è da escludere che in quel passo del dialogo Pontano abbia presente il personaggio di cui parlerà.

59

PLAUT., Cas., 91-94. Un carattere del genere Pontano aveva tratteggiato in Charon XII, un personaggio infernale che in vita aveva ricevuto il soprannome di «Mosca».

60

I due vocaboli sono in realtà neologismi, perché il primo modifica litigator in modo da indicare chi solitamente litiga o ha il costume di litigare, e il secondo modifica il senso di controversus per indicare non l’oggetto o il carattere della controversia, mala tendenza a creare controversie.

61

Il corrispondente vocabolo latino, contentiosus, ha appunto nel tardo latino il significato di «amante delle contese», «ostinato», e il calco volgare ha conservato questo significato fi no al secolo XVI.

62

Pontano si riferisce non solo alle Ele-

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pp. 1053-1077

LA CONVERSAZIONE

NOTE

gantiae, ma più in generale alla notoria litigiosità del Valla, che entrò in polemica aperta, per lo più su questioni grammaticali, con molti suoi contemporanei. Famosa è la polemica che ingaggiò col Panormita e col Facio, entrambi umanisti operanti presso la corte aragonese.

successivo obgannire (per «brontolare») rinforza con una forma inedita il più consueto gannire.

63

PINTARUS AUSONIUS, Homerus latinus, Leipzig, Teubner, 1913. Cfr. L. VALLA, Elegant. Lat. ling. VI, in Opera omnia, Basilea 1543, pp. 29, 31; Antidoti in Pogium libri VI, pp. 258 sgg.; Dialect. disputut. libri III, p. 644 sgg.

64

Allusione alle simpatie del Valla per la fi losofia epicurea, espresse soprattutto nel De voluptate.

65

Cfr. L. VALLA, Antid. in Pogium, in ID., Opera omnia, Basilea, 1540, con una premessa di E. Garin, rist. anast., Torino, 1962, p. 340 («Cum ante vestrum sissidium te ad cenam invitasset teque post cibum tantae teneritatis, quod Hieronymum reprehenderes, damnaret, tu quid dixisti perfidae fidei decoctor, te tibi ut verbis tuis utar, etiam adversum Christum spicula reservasse», «Avendoti invitato a cena prima del vostro litigio, e avendoti rimproverato perché, dopo aver gustato un cibo di tanta delicatezza, avevi avuto da dire contro Gerolamo, tu, per usare le tue stesse parole, dicesti di aver riservato delle frecce anche contro Cristo»).

66

Il Valla si trasferì a Napoli nel 1443.

67

Per il greco Timone, misantropo, vd. qui Charon, VIII.

68

Per il vocabolo acervatio, non frequente nel latino classico, cfr. per es. QUINT., Inst., 9, 3, 51. 69

HOR., Ars, 322.

70

Aggestio è vocabolo piuttosto raro in latino; lo usa MARZIANO CAPELLA, De nuptiis philosophiae et Mercurii, 8, 810.

71

Musitatio è la forma usata da Pontano per mussitatio (cfr. Aegidius, 38, dove si ha solo il testo redatto dal Summonte). Il

72

Cfr. A RIST., Eth. Nic., 4, 6, 4.

73

Il termine deriva appunto da adiicere («aggiungere»).

74

Allusione ad alcuni passi virgiliani (Aen., 1, 4-5; 224, 3, 522; 9, 136; Georg., 2, 276). 75

Delectus («scelta») da deligo è un concetto fondamentale nell’etica pontaniana, e può accostarsi alla «discretione» che introdurrà Guicciardini nella trattatistica politica.

76

Cfr. soprattutto il cap. XII del De liberalitate dello stesso Pontano (I libri delle virtù sociali, pp. 72-77). 77

M ART., Epigr., praef.

78

Sono le parole che la Sibilla rivolge ad Enea (VERG., Aen., 6, 37) per distoglierlo dalla contemplazione della storia rappresentata sul tempio di Apollo. 79

CIC., Off., 1, 40, 144.

80

A RIST., Eth. Nic., 4, 6, 4.

81

Ossia alle comunità, fra la gente.

82

Hist. Aug., Aless. Sev., 35.

83

LIV., 22, 51, 4.

84

TER., Heaut., 77 (humani nil codd.)

85

SALL., Jug., 10. Il famoso passo sallustiano era ricordato nell’Actius, dove ricorre anche la massima sulla concordia che aiuta gli stati a crescere e sulla discordia anche li manda in rovina. 86

LIV., 30, 14-15.

87

PLAUT., Bacch., 408-410.

88

PLAUT., Poen., 297-299.

89

HOR., Sat., 1, 3, 43-45.

90

ID., Ars, 465. Orazio rideva di Empedocle, il quale riteneva che la vecchiaia e la morte dipendessero dal venir meno del calore nel sangue e dell’elemento del fuoco. 91

Allusione alla proverbiale schiettezza

1575

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

del fi losofo cinico Antistene (cfr. DIOGENE LAERZIO, Le vite dei filosofi, 6, 1).

ετιμολογια, e in Isidoro è spiegato come «veracità», «schiettezza».

92

JUV., 4, 81-90.

107

93

Vd. supra, cap. 10, De comibus.

94

LIV., 7, 33, 1-2.

95

LIV., 7, 36, 5.

96

Ibid., 9, 42, 5.

Qui Pontano distingue il «vero» dal quale si allontana anche l’uomo virtuoso per un errore di opinione, da quel vero che è oggetto di vaticinio o di scienza, e la cui trasgressione costituisce un volontario inganno.

97

Ibid., 10, 14, 10-12.

108

98

Ibid., 23, 15, 10-13.

99

OV., Met., 8, 677-678.

100

PLAUT., Curc., 23-35.

101

Antonio De Ferrariis, detto il Galateo dal luogo di Nascita nel Salento, Galatone (1468-1517), fu medico e umanista, partecipando anche alla vita dell’Accademia pontaniana. Pontano gli dedica due epigrammi degli Hendecasyllabi seu Baiae (II 6 e 20), invitandolo a interrompere i suoi studi fi losofici per divertirsi talvolta e scherzando sui suoi acciacchi e sulla sua pratica medica. Cfr. TATEO, Pontano poeta, pp. 132-133, 136-137. 102

Per Giovanni Pardo, appartenente al circolo pontaniano, cfr. Actius, § 4.

103

Il termine tractabilitas, poco usato nel latino classico, si legge in Vitruvio (2, 9, 9 e 2, 9, 12) con riferimento al materiale edilizio.

104

Cioè da civis, cittadino, abitante della città e impegnato nella vita politica. Questa categoria di uomini, anch’essa dotata di umanità e di cortesia, non ha come sua specificità l’uso affabile della parola.

105 A RIST., Eth. Nic., 4, 7, 4 «Chi invece è nel giusto mezzo, è un uomo franco, essendo veritiero sia nella vita che nel parlare». 106 L’aggettivo veriloquus, variante del più classico vedidicus, risale alla tradizione cristiana (cfr. GIROLAMO, Apologia contro Rufino 3, 42, testo, si noti, evocato successivamente da Pontano), ma è usato da Frontone, Epist. ad Caes., 3, 12 (Mai). Invece il sostantivo veriloquium è presente in Cicerone come translitterazione del greco

pp. 1077-1103

Tanto veridicentia quanto benedicentia sono voci non attestate nel latino classico.

109 Il vocabolo nugigerulus, presente in alcuni mss. di Plauto, corrisponde al più usato nugivendus. 110

Questo è il senso che ha il vocabolo germinatio in Columella e Plinio il vecchio.

111 CIC., Epist. fam., 5, 12. Si tratta della celebre lettera di Cicerone a Lucceio, in cui l’oratore esorta l’amico, in procinto di scrivere un’opera storica, a dare adeguato spazio alle gesta da lui compiute durante il consolato, arricchendo i fatti mediante l’ornatus. 112

GEROL., Epist., 22, 30.

113

LIV., 28, 43-44.

114

Hist. Aug., Alex. Sev., 55.

115

CAES., Bell. Gall., 1, 39 sgg.

116

Insinuanter del testo latino è avverbio non tramandato.

117 Decumare del testo latino è forma alternativa a decimare, di sapore arcaico. 118 Subsimulare intensifica, nel testo latino, con un neologismo il consueto simulare, alludendo a ciò che si nasconde «sotto» quel che si dice. 119

Riferimento alle vicende degli anni 1485-1486. Nell’estate del 1485 il re Ferrante d’Aragona si rifiutò di pagare al Papa il censo dovuto per l’investitura del regno. Il Pontefice Innocenzo VIII, forte del sostegno veneziano e facendo leva sulla cosiddetta congiura dei Baroni che aveva turbato in quel periodo il regno aragonese, tentò di isolare Ferrante muovendogli guerra. Il confl itto, in cui il Papa si poté

1576

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pp. 1103-1123

LA CONVERSAZIONE

NOTE

giovare della guida militare di Roberto Sanseverino, non si concluse però in tempi brevi, grazie alla pronta reazione dell’esercito napoletano comandato da Alfonso, duca di Calabria, e agli aiuti giunti agli Aragonesi da Mattia Corvino, re d’Ungheria. Sconfitto il Sanseverino nel maggio 1486 a Montorio, il Papa fu costretto a concludere la pace con Ferrante con un trattato alla cui stesura contribuì Giovanni Pontano. Cfr., in questo volume, il dialogo Asinus ambientato in questa circostanza.

ri». Il successivo irones traslittera il greco ειρονες, «simulatori».

120

Il De Oboedientia fu composto nel 1472 proprio in seguito a questi eventi, in cui si era verificata la ribellione della nobiltà baronale (sul senso del trattato cfr. NUOVO, Potere aragonese, 2004). Ma Pontano nel narrare l’episodio vanta la sua riconosciuta lealtà di politico, senza smentire la diffidenza dei cardinali nei confronti del Re di Napoli. 121

Quello precedentemente chiamato arrogantia.

122

OV., Met., 13, 5-6.

123

La forma arrogator è del latino tardo antico, ma nel Digesto ha un significato giuridico (riguarda l’adozione di un figlio non proprio), diverso dal participio presente di arrogo (arrogans, arrogante).

124

CIC., Off., 1, 42, 150.

125

PLAUT., Poen., 472-473 (millia; volaticorum codd., Lindsay, Oxonii, 1959). 126

Ibid., 477-487 (praesternebant; quos: quamquam; decidebant: reccidebant; tum: tam; ceciderat: acciderat; indita: ilico codd., Lindsay, Oxonii, 1959).

127

Licaone, re di Arcadia, fu punito da Giove per la sua empietà: HYG., Fab. 176 sgg.; OV., Met., 1, 198.

132

Si riferisce al titolo stesso della commedia plautina Miles gloriosus.

133 La traslitterazione di αλη-, «veritiero» segue l’uso moderno della lettura di η («i»). 134

A RIST., Eth. Nic., 4, 7, 14.

135

SALL., Cat., 5, 4.

136

VERG., Aen., 1, 209.

137

Committo è usato più volte da Svetonio per «aizzare l’un contro l’altro», e pare che Pontano voglia alludere a questa azione, introducendo il vocabolo di commissor, e conseguentemente quello di commissio, entrambi in uso con significati più generici riguardanti il «commettere», per defi nire in particolare questa categoria di uomini che si servono della menzogna per produrre inimicizie. La defi nizione di «calunniatori» sarebbe possibile, se Pontano, pur avendo a disposizione il vocabolo latino corrispondente, non si fosse sforzato di cercare un termine diverso con la consapevolezza di introdurre una novità, o di cercare, come altre volte, un termine tipicamente latino e non compromesso con il lessico italiano.

138

Ottavio per Ottaviano, l’imperatore.

139

Tolomeo XIII, poi sconfitto da Cesare nel 47 a.C., e morto annegato mentre attraversava il Nilo. 140

Gli abitanti dell’impero di Alessandro Magno, con riferimento soprattutto agli Egiziani.

141 Il sostantivo lenocinator (cfr. leno -onis e lenocinor) risale al tardo latino (cfr. TERT., Adverssus Marcionem, 1, 22). 142

129

HOR., Epist., 1, 2, 3-4.

Il verbo latino comat fa riferimento esplicito all’acconciatura elegante dei capelli. Anche fucus, qui in senso figurato, si riferisce specificamente al trucco del viso.

130

A RIST., Eth. Nicom., 4, 7.

143

Cfr. CIC., Off., 1, 13, 41.

131

Propriamente αλαζονες, «millantato-

144

PLAUT., As., 495.

128

BASIL., Ad adol., in Migne, P. L., 31, p. 571.

1577

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NOTE 145 JUV.,

LA CONVERSAZIONE

2, 1 ss.

146

Il vocabolo greco υποκριτης, che significa «interprete», «attore», quindi «simulatore» compare nel N. T., MATTH., 23, 13, nel significato moderno di «ipocrita».

161 Cfr. A. PANORMITA, De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum libri IV, Basilea, 1538, II 9. 162

Su Masio Aquosa, amico di Pontano, cfr. in questo volume Aegidius, V 37.

147

La voce latina corrispondente, affl atim, non è della tradizione, ma fatta derivare da affl atus, l’ispirazione artistica.

163

148

164

Una interpolazione del Summonte aggiunge in questo luogo il nome del Colocci («A. Colocius Bassus, vir et doctus pariter et iuocundus»).

149

Cfr. CIC., Off., 1, 42, 150.

150

Cfr. SVET., Caes., 60.

151

Cfr. CIC., Acad., 1, 12; 4, 10.

152

Cfr. CIC., De or., 2, 67, 270.

153

Cfr. PLUT., Aless., 27, 9. Il tempio di Ammone, antica divinità egiziana, situato nell’oasi di Siwa, fu visitato da Alessandro che si servì dell’evento per dare alla propria figura un’impronta divina.

154

Sulla diffusa leggenda che voleva Scipione l’Africano figlio di Giove, cfr. fra l’altro l’anonimo autore del De viris illustribus, 49, 1.

155

Si riferisce ai Francescani, denominati «fraticelli», famosi per la loro simulazione di santità.

156

Si riferisce alla ben nota ironia socratica, consistente nel fi ngere di non sapere quando interrogava i sofisti.

pp. 1125-1147

La malattia è chiamata humectatio, termine attestato nel tardo latino (vd. CASSIODORO, Variae, 10, 26). A RIST., Eth. Nic., 4, 13. Vd. supra, II e infra VI IV.

VI

165

Paolo di Tebe è considerato dalla Chiesa il primo eremita; Antonio abate o del Deserto si ritirò nel deserto egiziano; dell’anacoreta Malco scrisse una biografia san Girolamo; san Giuliano Saba visse nel quarto secolo; a sant’Onofrio Eremita è dedicato un culto particolare a Castelvecchio siculo e a San Giovanni Rotondo. Sono nomi tutti inclusi nel Martirologio romano.

166

È il famoso santo di Assisi.

167

Cfr. TAC., Ann., 16, 32.

168

Il vocabolo cariculum, del tardo latino (vd. SAN GIROLAMO, Commento al profeta Amos, 3, 7, 14), designa una specie di piccoli fichi secchi. 169

Alla disonestà di questo personaggio si riferisce una battuta di Suppazio nel dialogo Antonius, V 67.

170

Santo protettore della città di Taranto.

171

A RIST., Eth. Nic., 4, 7, 17.

157

172

158

173 P LAUT., Truc., 494; facunditas è vocabolo raro per facundia, ma Pontano intende qui defi nire la «qualità» dell’uomo facondo, non la sua arte.

Un racconto analogo è contenuto fra le Facetiae di Poggio Bracciolini (252), non attribuito, come qui, al famoso fra’ Bernardino da Siena (1380-1444), il grande predicatore del Quattrocento. CIC., Off., 2, 16.

Cfr. ISID., Orig., 10, 95. Cfr. supra, I VIII nota 16.

159

174

160

175 Illepiditas è vocabolo di nuova formazione da lepidus, lepiditas, anche quest’ultimo insolito.

Girolamo Savonarola. Pontano lo ricorda per la sua empietà anche nel De fortuna, III, proemio, 7. Suffeno è il nome di un poetastro ricordato da Catullo (14, 16; 22, 18); scomma è un grecismo usato da Macrobio (Sat. 7, 3, 1). Cfr. PETRARCA, Rer. memor., II 37, 3.

Infans è qui usato in senso etimologico, «colui che non parla».

176 Si riferisce al De liberalitate, il primo dei trattati pubblicati nel 1498 (Cfr. PON-

1578

Pontano.indb 1578

16/07/2019 13:07:49

pp. 1149-1175

LA CONVERSAZIONE

NOTE

I libri delle virtù sociali, cit., pp. 48-

190

Oltraggio e ingiuria sono il senso di convicium, da cui è tratto il neologismo covitiatio.

191

178

192

179

193 HOR., Ars, 270 sgg.; ruptatilia è forma inconsueta derivata da rupto.

TANO,

61). 177

Traslitterazione del greco βωμόλοχος, buffone, ciarlatano (vd. A RIST., Eth. Nic., 4, 8, 2), come il successivo αγριος (selvatico). Ridicularia, qui usato da Pontano, è vocabolo raro, attestato nel latino arcaico di Plauto e nel tardo latino di Macrobio.

180

Soporatio, qui usata da Pontano, è voce non attestata nel latino classico, come il successivo relaxamenta. Forme di ricreazione.

181

Pontano traslittera dal greco δεικτέρια, che si riferisce all’opera dei mimi.

182

PLAUT., As., 297-298; 31, 35; 616-617; 624.

183

PLAUT., Cas., 909-914; poi 921-922. La matrona rusticabatur, ossia parlava rusticanamente, faceva la villana: il verbo rusticor, che significa propriamente abitare in campagna, è usato in questo senso da SIDONIO APOLLINARE, Ep., 4, 3. Pontano ricreava questa situazione nell’Asinus, quando parlava col suo fattore. Cfr. qui, III III, 1, e nell’episodio di Gregorio Tifernate, V II 14.

Come facetudo, agrestitudo è un neologismo pontaniano, preferito per il suo suffisso, che indica l’abito di una virtù. Cfr. A RIST., Eth. Nic. 2, 7, 13, e HOR., Epist., 1, 18, 6. Il latino rancentes è sinonimo lucreziano (LUCR., 3, 719) del più usuale rancidus.

194 Per l’inusuale vocabolo adrisor, colui che ha l’abitudine di deridere, cfr. SEN., Epist., 27, 7, dove ricorre un gioco di parole fra adrosor, adrisor, derisor. 195 Cfr. LIV., 7, 2; VERG., Georg., 2, 385 sgg., HOR., Epist., 2, 1, 139 sgg., e Sat., 1, 7, 32: Pontano si riferisce a questa tradizionale fama degli Osci nel dialogo Antonius, I 2. 196

Hircosus è aggettivo che rinvia al cattivo odore del capro (hircus), ed è tipico del linguaggio comico: lo usano Plauto e Persio. Cfr. la nota a hirquitulus, Antonius, VI 71.

197

Segue la citazione di una serie di luoghi da Plauto: Poen., 513, 532; Pseud., 102, 748; Bacch., 943; Pseud., 1180-1181; Cist., 731732; Amph., 325-326; Cist., 604; As., 306; 339 sgg.; Epid., 229 sgg.; 400 sgg.; 584-585.

184

199

185 Significa «parlare con qualcuno, avendo buona disposizione verso di lui».

200

PLAUT., As., 874. La metafora oscena era stata usata da Pontano nell’Asinus, VIII 28.

186

Macresco (cfr. HOR., Epist., 1, 2, 57) significa propriamente «divenir macro»; qui il participio, non consueto, significa semplicemente «magro».

Vd. supra, I, 9.

198

Scitus significa «furbo», «intelligente», mentre «plebiscito» si riferisce ad un’assemblea politica. Anche arcem (da arx) e arcam formano una paronomasia come la precedente.

201

L’avverbio (propriamente amussim), raro, significa «regolarmente».

In analogia con la parte della retorica che riguarda i luoghi comuni, la topica, Pontano discute dei campi dai quali son tratte le metafore generalmente alla base delle facezie, e li chiama loci, genera, sedes.

188

202

187

La voce mugibilis, non attestata nel latino classico, è coniata da Pontano ad imitazione del per altro raro hinnibilis («che nitrisce»). Sul valore attivo e passivo di queste forme si intrattiene l’Actius (§ 142).

189

Novator è vocabolo raro, ma usato da GELL., 1, 15, 18.

PLAUT., Amph., 1031-1032.

203

A. PANHORMITA, De dictis et factis Alfonsi regis, III 7.

204

Nominato da Alfonso il Magnanimo presidente della Regia Camera della Sommaria e consigliere regio da Ferdinando I. Pontano lo ricorda nel De immanitate.

1579

Pontano.indb 1579

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

205

Cfr. POGGIO, Facetiae, 65 [66].

224 I D.,

1, 83.

206

Luigi XI, padre di Carlo VIII.

225 I D.,

2, 50.

226 I D.,

3, 3.

227 I D.,

3, 80-81; 3, 9-10.

228 I D.,

4, 6-10; 4, 12-13.

229 I D.,

4, 24; 4, 76.

230 I D.,

4, 87.

207

Giureconsulto e protonotario apostolico al tempo di papa Eugenio IV. Fu famoso per la grande dottrina e la straordinaria memoria.

208

Condottiero che fu al servizio degli Aragonesi di Napoli, dei Francesi e, dopo il 1501, degli Spagnoli comandati da Consalvo di Cordova venuto in Italia alla conquista del Regno di Napoli. Cfr. l’epistola dedicatoria del De fortuna di Pontano.

209

Si riferisce a Vito Pisanello, segretario regio del re Federico d’Aragona; avendo evidentemente i capelli crespi, secondo l’asserzione del re, se non era un musico, era un depravato.

210

Propriamente choraules è il flautista che accompagna la danza. 211

PLAUT., Merc., 138-139.

212

ID., Men., 923-924.

213

ID., Pseud., 841-844. Interloquiscono il lenone e il cuoco. I vv. 843-844 non sono collegati con i precedenti nell’Ediz. Lupi e Risicato, ma iniziano la serie successiva di battute plautine.

214

ID., Bacch., 1140a-1141.

215

ID., Pseud., 75, 77. In realtà con alibi è introdotta da Pontano la battuta di Pseudolus, successiva a quella di Calidorus («di riscontro»).

216

ID., Merc., 303-304.

217

ID., Amph., 309-310; 323-324: 664-667.

218

ID., Cas., 852-853; Rud., 1304-1305 (gioca sulle parole di «medico» e «mendico»); Amph., 367-368.

231

pp. 1177-1211

ID., 4, 79.

232 Cfr. CIC., De or., 2, 54, 216 sgg., dove in effetti è contemplata la varietà dei motti di spirito cui Pontano si ispira. 233

Antonio è l’interlocutore del De oratore cui è affidata la trattazione della facezia.

234

Si riferisce al genere epidittico, o «dimostrativo».

235

OV., Rem. am., 10.

236

In effetti localis, riferito i loci communes, è un calco dal greco τοπικα (si veda l’omonima opera di Cicerone) e non è aggettivo consueto nel latino classico.

237

CIC., De or., 2, 61, 248. Cfr. successivamente ibid., 2, 60, 245.

238

Vd. PLUT., Foc., 9.

239

Cfr., G. BOCCACCIO, Genealogia deorum gentilium, XIV IX («Composuisse fabulas apparet utile potius quam damnosum», «Comporre favole appare utile piuttosto che dannoso»). Boccaccio distingue quattro specie di fabulae, una delle quali è quella di Esopo, e assegna il quarto posto alle favole delle vecchiette («delirantium vetularum inventio», «le invenzioni delle vecchiette svanite»), alle quali non nega una qualche utilità.

240

222 I D.,

1, 89.

È ovviamente fantasiosa l’etimologia di iocus (gioco, scherzo) dalla medesima radice di iuvare, ma è evidente la derivazione di iucundus (o iocundus) da iocus. Ma Pontano ribadisce così il senso stesso del De sermone, che vuol essere la dimostrazione di come la vita stessa riceva un giovamento dalle pause giocose.

223 I D.,

4, 2.

241

219

ID., Merc., 606; successivamente: Men., 885-887; Bacc., 537. 220 I D.,

Rud., 886-888.

221

M ARZ., 3, 12; successivamente M ARZ., 2, 37; 11.

Nota l’uso più raro di detergo per de-

1580

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pp. 1211-1221

LA CONVERSAZIONE

tergeo, e all’inizio del capitolo il nuovo vezzeggiativo hilariusculi, che presuppone un aggettivo hilarius -ia -ium (per hilaris -e, hilarus -a -um), che compare nei testimoni dell’Aegidius (3). 242 La distinzione fra dicta e ridicula risiede nella differenza fra il motto di spirito, che consiste in una frase concepita in modo da provocare il riso, e il fatto in sé ridicolo, come uno scherzo, una burla, o anche un incidente che provochi il riso e che sia raccontato in modo da far ridere. Cicerone distingueva fra dictum e res in De or., 2, 59, 239. 243

La voce sedes (sedi), è una variante usata da Pontano per loci, i luoghi comuni, i sistemi tematici, i campi semantici, da cui sono ricavati gli argomenti. 244

Il principio secondo cui la scelta del luogo, del tempo, della circostanza, che vale per l’esercizio giusto delle virtù, vale soprattutto perché si provochi il riso.

245 Per la defi nizione della facetudo vd. supra, I XII. 246

Cucurbitula è vocabolo rarissimo, non usato nel latino antico in questo senso vezzeggiativo ed ironico.

247

Vezzeggiativo tratto da TER., Andr., 815, dove è riferito a un ragazza. Pontano lo riferisce scherzosamente a sé poeta, Asinus, 1.

248

Il vocabolo tentigo, adoperato qui da Pontano come sinonimo di libidine, è di uso raro, presente nei satirici (Orazio, Giovenale), negli epigrammi di Marziale e nei Priapeia.

249

La piccola zucca era un traslato, mentre la libidine viene accostata per similitudine al pugnale. Traslato e similitudine sono figure retoriche, appartenenti in genere al linguaggio metaforico, ma anche «luoghi» dai quali attingere due generi differenti di facezie.

250

PLAUT., As., 874.

251 Il raro diminutivo fungulus è presente nel libro di cucina di Apicio.

NOTE 252

Forma non attestata in latino antico, suggerita dal diminutivo volgare «monetina».

253 Excalceati erano propriamente gli attori che recitavano senza coturno, i pantomimi; qui il participio, corrispondente al volgare «scalzi», è insolitamente riferito ai piedi, non alla persona. 254

PLAUT., Trin., 851.

255

Nel senso di spiritoso, non in quello tradizionale di «un po’ troppo loquace», dicaculus ricorre in Apuleio (Met., 2, 2).

256

TER., Eun., 236.

257

PLAUT., Pseud., 247-248. Il testo pontaniano si differenzia dall’originale plautino («qui dit ussust», «mi serve chi è vivo»). Nella traduzione si segue la lezione pontaniana.

258 Il verbo pitisso (propriamente pytisso) significa sputare dopo aver assaggiato il vino, mentre compotare è un neologismo coniato su compotor. 259

PLAUT., Men., 875-897.

260

La facezia si legge fra le Facezie e motti dei secoli XV e XVI, Bologna, 1874, numm. 82, 280, riferita a Gherardo Corsini e Martino Scarfi. L’aggettivo ventricosus (per ventriosus) è già usata in Caronte 48 (cfr. nota 166).

261 Popa sta per venter con una connotazione dispregiativa e allusione alla grossezza. Questa accezione non è attestata, tranne che in Persio (6, 74), dove il vocabolo, in congiunzione con venter allude alla corpulenza degli assistenti del sacerdote incaricati di portare la vittima all’altare. 262

Il verbo adminiculo, adoperato nel senso traslato di «aiutare» (propriamente riguarda il sostegno che si dà alle viti), è del latino arcaico e tardo.

263

Cfr. le Facezie dei secoli XV e XVI cit., n. 170.

264

Letterato della cerchia pontaniana, interlocutore dell’Antonius, padre del Fran-

1581

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

cesco interlocutore dell’Actius e dell’Aegidius.

più comune; al verbo greco κομαζω corrispondono in latino varie forme quali anche commisor, commissor, commesor, commessor.

265

Nota l’evidente paronomasia di praetor-praeter.

266

Il diminutivo femella (foemella è la grafia pontaniana) è attestato solo in CATULL., 55, 7. È già presente nell’Antonius. 267

Capitano di Triggiano e di Noia, accademico pontaniano, morì nel 1497. È significativo che a lui Antonio Galateo dedicava un’epistola sul parallelo fra le lettere e le armi. Per il senso di questa facezia cfr. F. TATEO, la facezia fra virtù e arte, 2000.

268

Il composto inodoror, che Pontano adopera in senso metaforico e comico, non è attestato.

269

Il diminutivo di crater non consueto, fa parte del tono ammiccante della scena. Il successivo labellatim, neologismo coniato su labellum e già presente nell’Asinus (§ 9) nel lessico dell’osteria.

270

Il nome del vino è latinizzato sul nome antico e dialettale di Vernaccia.

271

Il re si era riferito al vino e alla competenza di bevitore del Brancaccio, identificando il vino col genere delle lettere; gli aveva chiesto dunque quale fosse il livello di qualità del vino.

272

Nel genere delle lettere, la lingua parlata da Bacco con quel vino era letteratissima, ossia quel vino era la specie migliore possibile, di stile sommo, si sarebbe detto nel genere della poesia.

273

L’acuto ragazzo aveva colto l’occasione per dire che nel genere dei bevitori come nel genere dei letterati il Brancaccio non poteva essere paragonato a nessuno.

274

Si riferisce all’invasione di Carlo VIII del 1494.

275

Alfonso, duca di Calabria, divenne re alla morte di Ferrante, 1492, ma all’arrivo di Carlo VIII abdicò in favore del figlio Ferdinando II.

276

La forma usata da Pontano non è quella

277

Eth. Nic., 4, 8, 1.

278

QUINT., Inst., 6, 3, 48.

pp. 1223-1231

279

PLAUT., Amph., 327-328. I traduttori moderni interpretano variamente l’oscuro passo plautino, senza risolvere il problema di far emergere nella traduzione l’ambiguità, che risiede forse nel senso proverbiale di venire iumento suo, cioè da solo. Ma Gellio (20, 1, 281) segnala l’ambiguità fra iumentum che significherebbe sia «giumento», sia «carro tirato da una coppia di animali».

280

PLAUT., Men., 257.

281

Si riferisce alla trattazione della metrica svolta nell’Actius, dove anche aveva denominato alliteratio l’accostamento di parole simili nei suoni ma differenti nei significati.

282

PLAUT., Pers., 317. I buoi nel borsellino erano il prezzo di due buoi, ma l’altro servo recepisce il vocabolo nel suo significato proprio.

283

Cfr. CIC., De or., 2, 62, 253.

284

PLAUT., Cist., 776-777.

285

Cfr. CIC., De or., 2, 65, 263.

286

PLAUT., Amph., 333-334. I due verbi significano sia bastonare, sia essere bastonato. 287

CIC., De or., 2, 69, 280.

288

Ibid., 2, 70, 282 (dopo melius sottintendi perdere, ossia rovinare). 289

Ibid., 2, 70, 283.

290

Ibid., 2, 68, 277.

291

Ibid., 2, 70, 284 (ma la tradizione dice Lucullus, non Lucilius).

292

L’accademico pontaniano, interlocutore nell’Aegidius.

293

CIC., De or., 2, 71, 286.

294

Il nome di Angelo Colocci figura in questo, come in altri luoghi del testo, nel cod. Vindobonensis 3413. Ma l’aggiunta su

1582

Pontano.indb 1582

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pp. 1231-1243

LA CONVERSAZIONE

NOTE

rasura è di mano del Summonte (cfr. Nota al testo).

312

295

313

Allusione alla pudicizia dell’antica Lucrezia sedotta dal re Tarquinio.

296

Cfr. CIC., De or., 2, 64, 258.

297

De Petruciis, segretario di re Ferrante, condannato per l’accusa di aver partecipato alla congiura dei Baroni nel 1486. L’elefante, citato nella battuta, è proverbiale esempio di una lunga gestazione.

298

Pontano fa slittare l’aggettivo attenuatus, che significa propriamente «scemato», con il patrimonio ridotto, verso il campo semantico dell’avarizia, e gli attribuisce il senso di «misurato» in senso negativo; usa infatti questo vocabolo nel libro De liberalitate, VIII, per designar uno degli estremi opposti alla virtù.

299

Il mitico uccello allude a qualcosa che non si potrà mai vedere.

300

VERG., Georg., 1, 15.

301 Ibid., 4, 94. Virgilio si riferiva alle due specie di re, fra cui sceglie la regina dell’alveare. 302

Il rarissimo verbo concanescere è usato da CELS., 3, 3, 11.

303

Il verbo concanescere, non attestato, è coniato sul modello di concandescere di M ANIL., 1, 874.

304

QUINT., Inst., 6, 3, 35.

L’allievo di Poliziano che frequentò l’Accademia e Pontano inserì fra gli interlocutori dell’Aegidius.

306

Echeggia una famosa massima sallustiana.

307

Il verbo obligurio è arcaico e rarissimo.

308

CIC., Off., 2, 24, 87.

309

CIC., De or., 2, 58, 237; 59, 238; Orat. 26, 88; cfr. A RIST, Eth. Nic., 4, 8; QUINT., Inst., 6, 3, 33. Si riferisce a Plauto, dell’Umbria (Curc., 240).

311

QUINT., Inst., 6, 3, 7.

CIC., De or., 2, 60, 244.

314

Ibid., 2, 59, 241. Il vocabolo usato da Cicerone, che rimane comunque un caso unico, è mendaciunculum o mendaciolum; mendaculum è forma pontaniana.

315

CIC., De or., 2, 61, 250 («et laudabile et honestum»).

316

L’interlocutore dell’Actius.

317

Lucio Licinio Crasso, politico romano dell’età di Cesare: cfr. PLUT., Crass., 17, e Facezie e motti cit., n. 75.

318

Vd. qui Aegidius, 37.

319

Cfr. M ACR., Sat., 2, 3, 10 e 7, 3, 8.

320

CIC., De or., 2, 56, 228. Marco Antonio, il politico, personaggio del De oratore. Per Crasso vd. supra, nota 317.

321

La battuta ha qui una variante rispetto al testo tramandato (QUINT., Inst. 6, 3, 75: respexeris non respexerit), che era una ironica raccomandazione (data dal congiuntivo esortativo) direttamente rivolta a Pomponio di non voltarsi indietro, perché quella ferita era dovuta a ciò, giacché era stato messo in fuga. Nella versione pontaniana la raccomandazione generalizzata attenua l’offesa diretta.

322

PLAUT., Aul., 304.

323

305

310

Della sanguinolentia Pontano tratta anche in De immanitate, XVI.

originario

Cicerone accenna all’actio, la parte dell’oratoria che riguarda il gesto, l’atteggiamento del volto, la modulazione della voce in De or., 1, 5, 18 («quae motu corporis, quae gestu, quae vultu, quae vocis conformatione ac varietate moderanda est»), e si riferisce specificamente ai modi per provocare il riso ibid., 2, 54, 119, attribuendo a doti naturali la capacità del narratore di aiutarsi col gesto e col tono della voce («natura enim fi ngit homines et creat imitatores et narratores facetos aduvante et vultu et voce et ipso genere sermonis»). Accedere corrisponde a quello che altrove è detto accommodare.

1583

Pontano.indb 1583

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

324 Il sostantivo consessio non è consueto per consessus.

341

pp. 1245-1259

PLAUT., Poen., 279. L’equivoco è tra assus, arrostito, e assum (adsum, sono presente).

Pontano si riferisce all’opera che il Panormita scrisse sul modello di VALERIO M ASSIMO, De dictis et factis Alfonsi regis, raccogliendo aneddoti su Alfonso il Magnanimo, molti dei quali consistono in motti di spirito. Successivamente ricorda come Quintiliano citasse Demostene come persona affabile, civile e cordiale, ma non al punto da essere un motteggiatore.

329

342

325

PLAUT., Poen., 7-8.

326

Ibid., 41-42 (la forma latina è pedisequi).

327

PLAUT., Men., 653-654.

328

Ibid., 980-981.

330

PLAUT., Epid., 17-18. Il gioco verbale è tra i diversi sensi di varius, che in latino significa anche «variegato», screziato, come la pelle delle pantere.

Quintiliano. Pontano ricalca la sua defi nizione della dicacitas (Inst., 6, 3, 21).

343

Cfr. supra, cap. VII.

344

Il composto innutus è neologismo (ma cfr. il verbo innuo) per nutus.

CIC., Brut., 74, 260. In effetti il vocabolo, che vorrebbe significare «abominevole», non esiste in latino, che ha il corrispettivo in sputatilicus.

332

345

331

L’inserimento del figlio di Francesco Poderico, quest’ultimo già ricordato, è un’interpolazione del Summonte.

333

Famoso umanista napoletano, nobile e uomo politico, autore di biografie e di un trattato De varietate fortunae.

334

Il corrispondente vocabolo latino, despicax, è neologismo derivato da despicor, parallelamente a despicatio, sul modello di mordax. 335

Cfr. «a derisu non procul abest risus», QUINT., Inst., 6, 3, 7.

336

CIC., De or., 2, 54, 216; 57, 231.

337

CIC., Off., 1, 22, 77.

338

Giscone fu un condottiero cartaginese nell’esercito di Annibale nella seconda guerra punica. La battuta di Annibale è in PLUT., Fab., 15. Si allude successivamente a SALL, Iug., 35, 10, dove il re di Numidia dice uscendo da Roma: «Città venale, destinata a perire subito, se non troverà un compratore». 339

Combatté contro Roma e fu sconfitto da Pompeo (sec. I a.C.). Sulla sua propensione alla facezia cfr. JUST., Epist., 38, 1, 8-10.

340

Delle facezie di Cesare Augusto dà notizia Quintiliano, nel capitolo delle Istituzioni dedicato al riso (6, 3).

Antagonista dei Medici, fu esiliato da Firenze nel 1427.

346

Cosimo dei Medici, il famoso capostipite della famiglia che governò Firenze nel sec. XV.

347

Il verbo diluo si riferisce propriamente alla confutazione di quel che dice l’avversario nelle cause. Pontano lo usa in questo caso per indicare una risposta fatta confutando il significato della parola usata dall’avversario, ma anche successivamente per ribattere con una parola oscena l’oscenità della parola inventata dall’altro. La differenza con il caso successivo, la seconda specie, consisterebbe nella deformazione diversa di una medesima parola per offendere l’altro.

348

Il nome della persona ricalcava quello del «fi nocchio» (faeniculum), mentre Ferriculus (ferretto, ferrettino), e furaculus (da fur, quindi «ladruncolo») sono voci inventate.

349

Nome antico degli abitati del territorio del lago Fucino; si riferirà in genere al moderno Abruzzo.

350

Voce fantasiosamente composta da stercus e comedo (mangiare), quindi «mangiatore di sterco»; ricalca al contrario la scherzosa invenzione del precedente cacomerdilis.

1584

Pontano.indb 1584

16/07/2019 13:07:50

pp. 1259-1277

LA CONVERSAZIONE

NOTE

351 P LAUT., Capt., 189-190; Pseud., 88-89; Merc., 672-674.

portare il fieno sulle corna equivale a farsi notare in ogni modo e deriva dall’uso di mettere il fieno sulle corna dei buoi per avvertire i passanti.

352

CIC., De or., 2, 58, 236.

353

QUINT., 6, 3, 104.

354

Ibid., 6, 3, 17-18.

366

355 CIC., De or. 2, 54, 217; Orat., 26, 90. Ma il giudizio di Cicerone è riportato da Quintiliano nel passo sopra citato.

Il sostantivo immorsus è ricavato dal verbo immordeo, ed è usato da HOR., Sat., 2, 4, 61, nel senso di solleticare, pizzicare. Cfr. ammorsu (Antonius, 2), il morso della tarantola.

356

CIC., Fam., 2, 12, 2.

367

Cfr. PLAUT., Mil., 964-966.

357

PLUT., C. Mar., 3.

368

Cfr. M ACR., Sat., 2, 3, 7.

358

HOR., Sat., 1, 1, 27.

369

359

Umanista fra i più vivaci e spregiudicati (Tolentino 1398 – Firenze 1481) insegnò a Firenze, Pavia e Milano. Durante il soggiorno milanese compose fra l’altro un poema eroico dedicato a Francesco Sforza, Sfortias (Sforziade), e scrisse fra l’altro una raccolta di epigrammi intitolata De iocis et seriis (1458-1465). Conobbe il greco, ma non trascurò la cultura volgare, elaborando un commento alla Commedia di Dante e ai Trionfi di Petrarca.

360

San Bernardino da Siena, dell’ordine francescano, il rinomato predicatore del Quattrocento, cui precedentemente è dedicato un altro aneddoto (II XVI 3).

361

Cfr. PLUT., Demost. 23. Demostene, autore delle Filippiche, orazioni scritte contro Filippo re di Macedonia, si avvelenò nell’ottobre del 322 a.C. per non cadere nelle mani dei sicari di Arpalo, il generale di Alessandro Magno che aveva sedato la rivolta scoppiata in Grecia subito dopo la morte del grande conquistatore.

362

Vd. QUINT., Inst., 6, 3, 63.

Quintiliano fa una tripartizione, in cui il riso può scaturire dagli altri, da noi stessi o dalle cose esterne («e rebus mediis», QUINT., Inst., 6, 3, 23).

370

PLAUT., Cas., 701-703.

371

La situazione è alquanto diversa, ma la pretesa del vecchio di cercare le grazie della moglie del fattore fa pensare al tema dell’Asinus, nella seconda parte in cui lo stesso Pontano colloquia col suo fattore.

372

Gregorio da Città di Castello, dove nacque nel 1414, umanista, maestro di greco del Pontano, prese il nome accademico di Tifernate, morì a Venezia nel 1464.

373

Usato in senso metaforico, il verbo decortico (scorticare) suggerisce il neologismo exgranulo, che ricalca il volgare «sgranare», ossia «togliere granelli», e quindi sottrarre danaro alla somma richiesta.

374

Dalla composizione di in e manus deriva il neologismo immanuo.

375

Per questa e per la facezia successiva cfr. M ACR., Sat., 2, 3, 3-4.

376

364

Pontano ricorda due passi di CIC., De or., 2, 63, 256; Orat., 26, 89, dove compare solo l’aggettivo frigidus; absurdus significa sconveniente rispetto al «suono».

Il campanaro è designato nel testo latino col neologismo campanator. La facezia dovrebbe riguardare Antonio Galateo, secondo un’aggiunta, ma su rasura, del Summonte, che aggiunge in margine anche una lode per la dottrina e lo spirito dell’umanista salentino.

365

377

363

L’aneddoto è raccontato da QUINT., Inst., 6, 3, 10 e da VAL. M AX., 5, 1, ext. 3.

HOR., Sat., 1, 4, 34. Orazio riportava le parole di quanti accusavano i poeti comici di voler suscitare a tutti i costi il riso;

Il testo latino può intendersi variamente, a seconda che si assuma frequens nel senso di «pieno», predicato di dies, e reg-

1585

Pontano.indb 1585

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

gente tintinnis sostantivo (pieno di scampanellate; tintinnus è vocabolo rarissimo usato una volta da Venanzio Fortunato), o come predicativo del soggetto (quindi «frequentemente») unito al verbo tintinno (o tintinnio).

baiare per non svegliare il piccolo Lucio, suo figlio.

378

Birretum è trasposizione latina del vocabolo volgare («quod hodie birretum vocant»).

379

Il corrispondente del testo latino (matutinatur) è un neologismo; il mattutino è la parte dell’ufficio del mattino recitato dai religiosi prima dell’aurora. Il successivo vesperna è vocabolo plautino per indicare la cena del vespro.

380

Cfr. M ACR., Sat., 2, 3, 5, che riporta anche la facezia successiva.

381

PLAUT., Cas., 1010-1011.

382

Cfr. M ACR., Sat., 2, 2, 4. Si noti che il discorso indiretto di Macrobio («Namque Albidium quemdam, qui bona sua comedisset, et novissime domum quae ei reliqua erat incendio perdidisset, propter viam fecisse dicebat», «raccontava che un certo Albidio, che si era mangiato i suoi beni, e aveva incendiato la casa che gli era rimasta, lo aveva fatto per intraprendere il viaggio») è stato risolto da Pontano in una battuta diretta («ut belle!» nel senso di «che bello!», «magnificamente»), che non corrisponde ad un uso linguistico classico. 383

M ART., 6, 53.

384

Guido Vannucci, nato a Isola Maggiore sul Trasimeno, insegnò grammatica e retorica a Perugia. Il Pontano fu alla sua scuola.

385

Una frase tipica, di quelle adottate come esempio, nell’insegnamento grammaticale.

386

Nato a Rimini nei primi anni del sec. XV. Il nome della cagnetta che gli era cara è diminutivo di luscus, cioè dotato di un solo occhio; una cagnetta con questo nome è ricordata da Pontano nella Nenia X del De amore coniugali, dove la invita a non ab-

387

pp. 1277-1287

Cfr. M ACR., Sat., 2, 3, 8.

388

Noto tipografo, attivo a Venezia e a Roma fra i secoli XV e XVI.

389

Nome di un pesce che vive nel Mediterraneo e nei laghi settentrionali, chiamato anche cheppia; il nome riviene dal tardo latino.

390

Si riferisce alla calata del re di Francia Luigi XII, in seguito alla quale il re Federico d’Aragona, ultimo degli Aragonesi di Napoli, fu costretto all’esilio.

391

Campo dei Fiori, la famosa piazza romana.

392

Questo verso, nella citazione ciceroniana da cui deriva (CIC., Div. 2, 64, 133), suona in forma e in un contesto diverso: «Ut si qui medicus aegroto imperet, ut sumat “terrigenam, herbigradam, domiportam, sanguine cassam”, potius quam hominum more “cocleam” dieeret» («È come se un dottore ordinasse al paziente di prendere “una cosa che striscia sull’erba, nata dalla terra, che si porta la casa addosso”, invece di dire in modo semplice “una chiocciola”»). Il verso, raccolto fra i frammenti in versi di Cicerone, fu attribuito dal Vossius a Lucilio.

393

Il portico dove si riunivano gli accademici pontaniani; cfr. Antonius, 1.

394

Allusione alla proverbiale inclinazione a bere dei Francesi.

395

Della famiglia dei Guevara, conti di Potenza, ad uno dei quali, Antonio, Pontano aveva inizialmente dedicato il De fortuna.

396

M ART., 6, 78; 7, 31.

397

Discendente della nobile famiglia napoletana, cavaliere e vescovo di Cassano all’Ionio, morirà nel 1519. Pontano lo nomina come suo amico e gli dedica vari carmi come Parth., II VIII, Tum., I XV, Hend., I VI, oltre all’intera raccolta degli Hendecasyllabi.

1586

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pp. 1287-1311

LA CONVERSAZIONE

NOTE

Si riferisce al dissidio, scoppiato alla morte di Alfonso il Magnanimo, fra Ferdinando d’Aragona e Giovanni d’Angiò, figlio di quel Renato d’Angiò che aveva combattuto contro Alfonso per la successione al Regno di Napoli.

ce di Babilonia, è famosa per la vita che si conduceva nella sua corte, tale da essere tradizionalmente simbolo di lussuria e sfarzo.

398

399

Cfr. M ACR., Sat., 2, 2, 9.

400

Pontano fonda la tripartizione dei generi del riso sulla tradizionale tripartizione dei beni secondo l’Etica, beni del corpo, dell’animo e beni esterni per far rientrare il discorso sulla conversazione faceta nei parametri della fi losofia, appartenendo anch’esso alla sfera dell’etica.

401

I personaggi nominati sono il duca di Urbino Federico da Montefeltro e il famoso compagno di ventura Niccolò Piccinino, che combatté contro gli Aragonesi e che Pontano ricorda con poca simpatia nel De bello Neapolitano.

402

Ossia fra il maestro e il discepolo, riferendosi evidentemente a se stesso, che era stato discepolo di Pontano, quantunque anch’egli avesse tanta rinomanza come uomo di lettere.

403

In QUINT., Inst. 6, 3, 29-30 si tratta della dicacitas scurrilis et scaenica, da evitare perché il volto stravolto e i gesti, che sono propri dei mimi, tolgono dignità all’oratore. Della imitatio del volto e della voce tratta Cicerone in De or., 2, 59, 242. 404

Personificazione del famoso male che attacca i piedi.

408

Il pomerium (o pomoerium) era lo spazio lasciato libero all’interno e all’esterno delle mura, mentre il pomarium, successivamente nominato, è il frutteto. 410

Iacopo Sannazaro è qui ricordato col suo nome accademico.

411

406

OV., Ars am., 1, 349-350.

412

Magistrato presso la corte aragonese alla fi ne degli anni Settanta del sec. XV.

413

Francesco Peto, nativo di Fondi, introdotto da Pontano come interlocutore all’inizio dell’Aegidius.

414

Nome accademico di Tranquillo Tomarozzi, allievo di Pomponio Leto, introdotto fra gli interlocutori dell’Aegidius (§ 2).

415

Suardino Suardo, nativo di Bergamo, interlocutore dell’Aegidius, al quale Summonte dedicò l’edizione dell’Actius.

416

L’arguzia consiste nel gioco fra il vocabolo bellaria, che designa l’ultima portata di un banchetto, e bellum, la guerra. Così in seguito Setinum, che è il vino di Sezze, località famosa per i vigneti, richiama la parola sitimus, abbiamo sete. Un bisticcio verbale è ancora quello fra spolia, le spoglie che riguardano gli effetti di una guerra, e spoletina, che allude al vino di Spoleto. 417

405

Il neologismo aculeatio (da aculeatus) rinforza con l’aggiunta di un sinonimo (sive … sive) la consueta mordacitas; subito dopo un altro neologismo, defensitatio, per defensio, intende riferirsi in particolare alla pratica dei processi.

I francesi erano famosi come bevitori.

409

VERG., Aen., 1, 636.

418

Sono due versi oraziani, associati da Pontano per questa occasione: Carm. 1, 20, 9; 2, 6, 6.

419

Cfr. PLUT., Filop., 2.

420

Cfr. PLUT., M. Cat., 8.

Francesco Elio Marchese, membro dell’Accademia pontaniana, fu autore di una famosa Historia de Neapolitanis familiis e curò l’edizione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.

Cfr. PLUT., Luc., 39. Alla stessa biografia di Plutarco risale anche la facezia successiva, Luc., 41, già riportata da Pontano nel De splendore, 8 (cfr. I libri delle virtù sociali, 1999).

407

422

La leggendaria regina assira, fondatri-

421

Cfr. PLUT., M. Cat., 8. Alla stessa bio-

1587

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NOTE

LA CONVERSAZIONE

grafia di Plutarco risale la successiva facezia, M. Cat., 24.

riti è un modo di esaltarli, falsa modestia. Così pare ricavarsi dalla frase successiva, in cui l’arrogatio, ossia la presunzione è contrapposta come un eccesso negativo alla extenuatio; arrogatio, termine squisitamente giuridico, è qui usato come sinonimo di arrogatia, mentre per attenuatio cfr. CIC., De or., 3, 5, 202.

423

Cfr. QUINT., Inst., 6, 3, 75.

424

Cfr. M ACR., Sat., 2, 5, 9.

425

Cfr. PLUT., Alcib., 9; per la facezia successiva cfr. ibid., 4. 426

Propriamente Publilio Siro, un attore del mimo vissuto all’epoca di Cesare. Cfr. M ACR., Sat., 2, 7, 6. La battuta scaturisce dal fatto che la gotta produce acqua.

427

Pietro Gonnella (Firenze 1390 – Ferrara 1441), buffone presso la corte ferrarese di Niccolò marchese d’Este, è il protagonista di molte novelle e facezie di Franco Sacchetti, Bracciolini e Bandello.

428

Il bisticcio verbale è fra anus, nel senso di «nonna», e anus nel senso osceno di «ano».

429

Luciano di Samosata, autore fra l’altro di dialoghi di argomento scherzoso, ben noto all’Alberti e al Pontano, è qui ricordato insieme al Boccaccio e al Braccolini come autore faceto per antonomasia. Sulla diffusione di Luciano nel Quattrocento si veda qui la Nota introduttiva, 2.

430

Il re è Pietro III d’Aragona, incoronato re di Sicilia nel 1282, dopo i Vespri siciliani. Per un aneddoto analogo, attribuito a Dante presso la corte di Cangrande della Scala, si veda la facezia 58 della raccolta di Poggio.

431

Vd. A RIST., Eth Nic., 4, 7, 14: «Gli ironici invece, dicendo meno del vero, appaiono più simpatici nei loro costumi (essi infatti non sembrano parlare per guadagno, bensì per sfuggire ogni sfoggio), e soprattutto costoro evitano le onorificenze, come faceva anche Socrate». Cfr. CIC., De or., 2, 67, 270 («Ritengo che Socrate in questa ironia e dissimulazione abbia superato di gran lunga tutti quanti per spirito e simpatia [lepore et humanitate]»).

432

Derivato dal verbo inficio (tingere, mistificare), il neologismo inficiatio (mistificazione) può corrispondere all’ipocrisia, nel senso che l’attenuazione dei propri me-

pp. 1311-1333

433

Cfr. PLAT., Rep., 1, 11 (337a); CIC., Brut., 85, 292.

434 Come termine retorico elevatio (da elevo, togliere) è in QUINT., Inst. 9, 2, 50. 435

Intorno alla medietà fra la millanteria e l’ironia dell’estremo opposto cfr. A RIST., Eth. Nic., 4, 7, 15.

436

Alberto di Colonia, il Grande, detto Doctor universalis (1200-1280), elaborò una fi losofia naturale fortemente antiaristotelica.

437

Si riferisce alla composizione dell’Hermaphroditus, il libro di poesia epigrammatica del giovane Beccadelli, spiritoso conversatore e critico cui Pontano aveva intitolato il dialogo Antonius.

438

Francesco Accolti di Arezzo, lettore di diritto a Siena, Ferrara e Pisa, quindi segretario del duca di Milano Francesco Sforza. Ebbe fama di insigne giurista e fu in contatto con i maggiori umanisti del suo tempo, fra cui Poggio Bracciolini che gli dedicò il De avaritia.

439

Il nome del Panormita è stato aggiunto sul ms. dal Summonte.

440

Si riferisce ovviamente alle Satire del poeta di Venosa, che si segnalano per l’ironia, più che per lo spirito satirico e l’invettiva.

441

Cfr. GELL., 5, 5, e M ACR., Sat., 2, 2, 2-3.

442

Capovolge il senso della domanda, che riguardava la possibilità di annientare l’esercito romano con le sue forze, laddove Annibale risponde come se il re Antioco gli avesse chiesto se i Romani, avidi di distruzione com’erano, si sarebbero accontentati di distruggere un esercito come quello del re Antioco.

1588

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pp. 1333-1350

LETTERE

443

Cfr. LIV., 35, 14; ma il testo di Livio è alquanto diverso, perché i codd. portano «si me vicisses», ossia «se tu mi avessi vinto», che tuttavia non cambia il senso della facezia: sarebbe stato il più grande merito aver vinto Scipione. PLUT., Pyrr., 8, si riferisce al medesimo episodio, ma senza un effetto faceto, bensì forse solo di ironica modestia, perché Annibale rispose collocando Pirro al primo posto, Scipione al secondo e sé al terzo.

444

Cfr. M ACR., Sat., 2, 5, 5.

445

Bartolomeo Rovarella (Rovigo 1406 – Roma 1496).

446

Questa volta il nome di Suardino Suardo è scritto su rasura, né è leggibile la redazione originaria. La sua facezia consiste nel gioco fra i vocaboli che designano sia i «cori» delle Muse e i luoghi in cui si attende allo studio, che le danze e gli esercizi sportivi.

447

Cfr. PLUT., M. P. Cat. iunior, 2, 4.

448

Cfr. TOMMASO DA CELANO, Vita di s. Francesco, 1, 20, 60; GIULIANO DA SPIRA, Vita di san Francesco, 8, 39.

449

Giacomo Caldora fu uno dei più importanti baroni e condottieri al tempo di Giovanna II d’Angiò e durante la guerra tra Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona per la successione al Regno di Napoli.

450

PERS., 1, 58. I codd. più accreditati e le edizioni moderne hanno pinsit (da pinso -is, percuotere), ma pinxit (da pingo -is, dipingere) non manca nella tradizione. Si allude all’uso di ridere alle spalle. Summonte corresse in pinsit.

451

TER., Andr. 696.

452

TIB., 4, 3, 6.

453

VERG., Ecl., 8, 58.

454

CAT., 11, 17. L’esclamazione catulliana era rivolta a Clodia. 455

Nel ms. è omesso il nome del destinatario.

NOTE

Appendice Note a cura di ANNA GIOIA CANTORE

Lettere 1

Rinviamo d’ora in poi alla numerazione che questa e tutte le altre lettere occupano nella trascrizione seguente, che, di volta in volta, sarà opportuno consultare per i riferimenti bibliografici essenziali di ciascuna di esse.

2

PONTANO, c. 260.

3

Sulla biblioteca del Pontano, cfr. almeno M. R INALDI, Per un nuovo inventario della biblioteca di Giovanni Pontano, «Studi medievali e umanistici», V-VI (20072008), pp. 163-197; M. DE NICHILO, Per la biblioteca del Pontano, in Le Biblioteche nel Regno fra Tre e Quattrocento, Atti del Convegno di Studi, Bari, 6-7 febbraio 2008, a cura di C. Corfiati e M. de Nichilo, Lecce, Pensa Multimidea, 2009, pp. 151-169; ID., Una miscellanea umanistica del Pontano: il cod. Cuomo 1.6.45 della Biblioteca della Società di Storia Patria di Napoli, «Rinascimento meridionale», II (2011), pp. 3-20. Per il censimento degli autografi pontaniani si faccia riferimento alla voce di M. R INALDI in Autografi dei letterati italiani. Il Quattrocento, to. I, a cura di F. Bausi, M. Campanelli, S. Gentile, J. Hankins, T. De Robertis, Roma, Salerno, 2014, pp. 331-349. 4

Regis Ferdinandi primi Instructionum Liber (10 maggio 1486-10 maggio 1488) corredato di note storiche e biografiche, a cura di L. Volpicella, Napoli, L. Pierro & figlio, 1916; Codice Aragonese, o sia Lettere regie, ordinamenti ed altri atti governativi de’ Sovrani Aragonesi in Napoli riguardanti l’amministrazione interna del Reame e le relazioni all’estero, a cura di F. Trinchera, Napoli, G. Cataneo, 1868, vol. II, parte I; Codice Aragonese, o sia Lettere regie, ordinamenti ed altri atti governativi de’ Sovrani Aragonesi in Napoli riguardanti l’amministrazione interna del Reame e le relazioni

1589

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NOTE

LETTERE

all’estero, a cura di F. Trinchera, Napoli, G. Cataneo, 1870, vol. II, parte II; Lettere inedite di Joviano Pontano in nome de’ reali di Napoli, a cura di F. Gabotto, Bologna, Romagnoli-Dell’Acqua, 1893 (rist. anast., Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1969); F. FOSSATI, Altre lettere firmate da G. Pontano, Mortara-Vigevano, A. Cortellezzi, 1907.

bliotheca Joannis Sambuci (Sámboki János Könyotara). Catalogus anni 1587, Budapest, Author’s edition, 1941.

5

Corrispondenza di Giovanni Pontano segretario dei dinasti aragonesi di Napoli (2 novembre 1474 – 20 gennaio 1495), a cura di B. Figliuolo, Battipaglia, Laveglia&Carlone, 2012.

6

M. L. DOGLIO, Cinque lettere; EAD., Il “dichiarar per lettera”.

7

Rispettivamente 2, 56-57, 59, 60.

8

M. L. DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 6.

9

Che l’anno in cui Pontano morì fosse il 1503 è stato sempre certo; L. MONTI SABIA, Per la data di morte di Giovanni Pontano, in Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di F. Tessitore, a cura di G. Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla, Napoli, Morano, 1997, III, pp. 435-442, ha accertato che il mese fosse settembre; M. DE NICHILO, Il problema della data di morte di Giovanni Pontano, in ID., I viri illustres del cod. Vat. lat. 3920, Roma, Roma nel Rinascimento, 1997, pp. 147-184 (Appendice), che il giorno fosse il 17.

10

Il Sambuco possedeva 4 codici provenienti dalla biblioteca del Pontano (il Philos. gr. 231 e i lat. 30, 3168 e 3413 dell’Österreichische Nationalbibliothek di Vienna) con opere, in parte autografe, del Nostro. Sul Sambuco e altri codici approdati attraverso di lui a Vienna, cfr. C. VECCE, Gli zibaldoni di Iacopo Sannazaro, Messina, Sicania, 1998, pp. 15-22, in particolare, sul Pontano e sui manoscritti provenienti dalla sua biblioteca, pp. 17-22. Ma vd. anche I. VÁRADY, Relazioni di Giovanni Zsámbochy (Sambucus) coll’Umanesimo italiano, «Corvina», 15 (1935), pp. 3-54; P. GULYÀS, Bi-

pp. 1350-1352

11

P. DE NOLHAC, La bibliothèque de F. Orsini, Paris, Vieweg, 1887, p. 63.

12

E. M ANDARINI, I codd. mss. della Biblioteca Oratoriana di Napoli, Napoli, Festa, 1897, p. 175.

13

F. COLANGELO, Pontano, pp. 71-72, 7983, 188-189; ID. Sannazzaro.

14

Nel catalogo di questa biblioteca il manoscritto, con il titolo Lettere per diversi signori, aveva il n. 821. Per questa informazione E. PERCOPO, Lettere, p. 3 (n. 3), rinvia a A. PALMA DI CESNOLE, Catalogo di mss. italiani esistenti nel Museo britannico di Londra, Torino, Roux, 1890, n. 1408; il codice si trova sommariamente descritto in P. O. K RISTELLER, Iter Italicum, IV, LondonLeiden, E. J. Brill, 1989, p. 77. 15

Nel 1807, lo stesso duca di Cassano aveva pubblicato un breve catalogo della sua biblioteca, Catalogo dell’edizioni del sec. XV esistenti nella biblioteca del duca di Cassano Serra, Napoli, 1807. Quando il visconte di Essex trasportò anche il resto della biblioteca in Inghilterra, il reverendo Dibdin ne realizzò una descrizione più accurata: T. F. DIBDIN F. R. S. S. A., A descriptive catalogue of the books printed in the fifteenth Century, lately forming part of the library of the Duke di Cassano-Serra, and now the property of George John Earl Spencer, K. G. with a general index of authors and editions contained in the present volume, London, Shakespeare Press, 1823. 16 E. NUNZIANTE, p. 518. A p. 518 (n. 1), riporta anche l’avvertenza dell’Auction Catalog: «821. PONTANO JO. Lettere per diversi signori (transcript from the preserved Letter Book in the Archives of Naples). 4° Saec. XVI-XVII; on paper. These letters of the celebrated Pontanus are highly interesting, not only because no Italian work of this celebrated man is known, but also because they relate to the most important

1590

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pp. 1352-1353

LETTERE

and confidential political matters of Italy during the last period of the XVth century. Most of them are adressed to King Ferdinand of Naples and his successors. The Italien of those letters is curiously mixed with much neapolitan dialect; they are written with great freedom, and some are even sarcastic. A letter dated May 7, 1490 (in wich Pontanus states that it was his birthday) contains a curious complaint against the king who had traeted him ill on that day, and (as he facetiously states) given him a pill. We did not fi nd any mention of these curious letters in the Archivio Storico Italiano, or elsewhere». 17

Ivi, p. 519.

18

Il manoscritto in questione è una raccolta di poesie e prose di Pontaniani appartenuta al Meola e si trova descritto in P. O. K RISTELLER, Iter cit., I, 1965, p. 432.

19

La lettera proviene dalla «Collezione di lettere pontaniche», posseduta, nel principio del sec. XIX, dall’archeologo leccese Michele Arditi e poi dal suo discendente Carlo Luigi, di Presicce, ed inaccessibile agli studiosi italiani. Ma tutte le composizioni dei Pontaniani, contenute nella raccolta dell’Arditi, sono contraffazioni dell’erudito napoletano Gian Vincenzo Meola (1744-1814), povero, per venderle al ricchissimo Arditi. Il principio di questa lettera fi no alla parola «infensissimum» si legge in G2 e in N4, una raccolta di poesie e prose dei Pontaniani, appartenuta al Meola; F. TORRACA-L. VIOLA, Intorno all’orazione del Pontano a Carlo VIII: due epistole, Roma, Regia Tipogr., 1881, poi in F. TORRACA, L’orazione del Pontano a Carlo VIII, in ID., Studi di storia letteraria napoletana, Livorno, Vigo, 1884, pp. 328-334: 302304 con la confutazione degli argomenti di Morandi e di C. M. Tallarigo contro il racconto del Guicciardini e l’autenticità di quelle lettere; E. PERCOPO, Lettere, pp. 79-80. 20

E. PERCOPO, Lettere.

NOTE 21

Vd. n. 13.

22

E. PERCOPO, Lettere, p. 3: «Di questa copia [quella del Gervasio, il ms. XXVIII della Biblioteca Governativa dei Girolamini] mi son giovato, non potendo servirmi, per la brevità del tempo in cui fu allestita la presente raccolta, del manoscritto londinese, per rivedere il testo delle lettere, edite con poca accuratezza dal Colangelo, e non ristampate dal Nunziante, che, sfortunatamente, ha distrutta la sua copia del codice Cassano-Serra». 23

E. PERCOPO, Nuove lettere.

24

Ivi, p. 208.

25

Ivi, pp. 212-213.

26

Ivi, p. 213.

27

Ivi, pp. 214-217.

28

Ivi, pp. 213-214.

29

Ivi, pp. 217-218.

30

Ivi, pp. 218-220.

31

F. FIORENTINO, p. 430.

32

N2, nn. 189-191; A; due brani della lettera («Quisquis is fuerit – praestet», «In omni Vita – Dei») furono pubblicati dal FIORENTINO, p. 439, ma da A, dove l’epistola ha segnata la data del 3 novembre 1501; E. PERCOPO, Lettere, pp. 76-77; EGIDIO DA VITERBO, I, pp. 111-113. 33

P. O. K RISTELLER, Iter cit., I, 1965, pp. 419-420.

34

E. NARDUCCI, Catalogus codicum manuscriptorum in Bibliotheca Angelica, Romae, typis L. Cecchini, 1893. 35

M. L. DOGLIO, Il “dichiarar per lettera”, p. 27.

36

E. PERCOPO, Lettere, pp. 60-62, 76-77.

37

EGIDIO DA VITERBO, I, pp. 111-117.

38

Della lettera, conservata nel cod. Guarneriano 44 della Biblioteca Civica di San Daniele del Friuli, il Percopo, trovava menzione in G. M AZZATINTI, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, Forlì, Bordandini, 1893, III, p. 113.

1591

Pontano.indb 1591

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NOTE

LETTERE

39

1-Cod. *19500), 10 Bände, Wien, 1864-1899 (poi Nachdruck, Graz, 1965).

E. PERCOPO, Lettere, pp. 14-15.

40

P. PIRRI, Le notizie e gli scritti di Tommaso Pontano e di Gioviano Pontano giovane, «Bollettino della R. Deputazione di Storia Patria per l’Umbria», XVIII (1912), pp. 463-482, dove però il testo è pubblicato senza commento e senza alcuna nota esplicativa.

41 M. L. DOGLIO, Cinque lettere, p. 222: «Di recente, ho rintracciato nella Biblioteca Civica di San Daniele del Friuli (cod. 44) una lunga epistola latina del Pontano a Guiniforte Barzizza, poco nota e malamente edita […]. Ultimata la trascrizione, mi riservo di pubblicarla in altra sede». 42

C. CORFIATI, Una disputa umanistica de amore. Guiniforte Barzizza e Giovanni Pontano da Bergamo, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2008.

43

Ivi, p. 11.

44

P. O. K RISTELLER, Iter cit., II, 1967, p. 362.

45

P. DE NOLHAC, p. 233.

46

Ms. X B 2 della Nazionale di Napoli.

47

C. ROSSELLI DEL TURCO, pp. 653-655.

48

Di questo codice realizzò una copia il Gervasio, ora presente nel ms. XXVI 4 dell’Oratoriana di Napoli. Vd. E. MANDARINI, I codici manoscritti della Biblioteca Oratoriana di Napoli cit., 1897, p. 176. 49

E. PERCOPO, Un memoriale, pp. 203207; ID. Lettere, pp. 52-54.

50 P. O. K RISTELLER, Iter cit., V, 1990, p. 608 (rinvia a Iter cit., I, p. 218). 51

G. M AZZATINTI, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia cit., 1898, VIII, pp. 27-28; K RISTELLER, Iter cit., I, 1965, p. 323. 52

P. DE NOLHAC, pp. 36-37; E. PERCOPO, Lettere, pp. 63-65, per il quale la lettera fu collazionata sull’originale da Ratti.

54

PONTANO, c. 260.

55

C. M. TALLARIGO, II, p. 578; E. PERCOLettere, pp. 65-66; VECCE, p. 57.

PO,

56 E. P ERCOPO, Lettere, p. 15. È sempre il Percopo, ad asserire che la collezione sarebbe stata venduta e poi andata dispersa, rinviando in nota a E. F. SUCCI, Catalogo di autografi di celebri personaggi componenti la collezione di Egidio Francesco Succi in Bologna, Bologna, Regia Tipografia, 1862, p. 64. 57

E. PERCOPO, Lettere, p. 79. La considerano autentica C. DE’ ROSMINI, Vita e disciplina di Guarino Veronese e de’ suoi discepoli, Brescia, Bettoni, 1805-1806, voll. I-III, III, pp. 189-190, e inizialmente R. SABBADINI, Codici latini posseduti, scoperti, illustrati da Guarino Veronese, «Museo d’antichità classica», II, II (1887), pp. 419420; la trattano come apocrifa M. TAFURI, Catalogo delle edizioni e traduzioni messe a stampa delle opere di G. Gioviano Pontano, Napoli, Trani, 1827, p. 289, già in appendice a F. COLANGELO, Pontano, pp. 271-275; E. PERCOPO, Lettere, p.15; R. SABBADINI, Epistolario di Guarino Veronese, Venezia, A spese della Società, 1919, III, p. 366; G. R ESTA, L’epistolario del Panormita. Studi per una edizione critica, Messina, Università degli Studi, 1954, pp. 232-233; F. O. CLEOFILO, Iulia, a cura di M. de Nichilo, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2003, pp. 30-31. 58

Per queste ed altre informazioni sulla fortuna oraziana nell’Umanesimo vd. F. O. CLEOFILO, Iulia, cit., pp. 18-48, al quale rinvio per la bibliografia essenziale sulla questione.

59 C. DE’ ROSMINI, Vita e disciplina di Guarino cit., III, pp. 189-190, pp. 196-197. 60

E. PERCOPO, Lettere, pp. 79-80.

61

Ivi, p. 83.

62

Ivi, p.16.

53

Vd. Tabulae codicum manuscriptorum praeter graecos et orientales in Bibliotheca Palatina Vindobonensi asservatorum (Cod.

pp. 1353-1355

1592

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pp. 1355-1358

LETTERE

NOTE

Orazione a cui già si fa cenno in un sonetto di Antonio Cammelli (il Pistoia), rimatore burlesco presso la corte estense: «Carlo Petito è in Castel Capuano, / Alfonso è trabbucato alla bilanza; / in Napoli si grida Carlo e Franza: / per questi al Re de’ Franchi orò il Pontano». Per l’intero sonetto vd. I sonetti del Pistoia. Giusta l’apografo trivulziano, in Biblioteca di testi indeiti o rari, II, a cura di R. Renier, Torino, Loescher, 1888, p. 320.

due libri della Storia d’Italia del Guicciardini, Napoli, De Simone Editore, 1982, pp. 315-316, 363-364. Non hanno dubbi nel difendere il ruolo sostenuto dal Pontano a favore della corona aragonese, anche in questa circostanza, E. PERCOPO, Vita di Giovanni Pontano, a cura di M. Manfredi, Napoli, ITEA, 1938, pp. 88-89; L. MONTI SABIA, Un profilo moderno e due Vitae antiche del Pontano, Napoli, Accademia Pontaniana, 1998, pp. 22-23; C. FINZI, Re, baroni, popolo. La politica di Giovanni Pontano, Rimini, Il Cerchio, 1994, pp. 139-140; M. SIMONETTA, La tragedia di Napoli: Pontano e gli Aragona, in ID., Rinascimento segreto. Il mondo del Segretario da Petrarca a Machiavelli, Milano, F. Angeli, 2004, pp. 232-234; S. BIANCARDI, La chimera di Carlo VIII, Novara, Interlinea, 2009, pp. 603-604.

63

64

F. TORRACA-L. VIOLA, Intorno all’orazione cit., pp. 302-304.

65 F. GUICCIARDINI, Opere, II. Storia d’Italia (libri I-X), a cura di E. Scarano, Torino, UTET, 1981, l. II, cap. V, pp. 234-235: «Partì adunque il re di Napoli [sc. Carlo VIII] il vigesimo dì di maggio; ma perché prima non aveva assunto con le cerimonie consuete il titolo e le insegne reali, pochi dì innanzi si partisse ricevé solennemente nella chiesa catedrale, con grandissima pompa e celebrità secondo il costume de’ re napoletani, le insegne reali, e gli onori e i giuramenti consueti prestarsi a’ nuovi re; orando in nome del popolo di Napoli Giovanni Ioviano Pontano. Alle laudi del quale, molto chiarissime per eccellenza di dottrina e di azioni civili e di costumi dette quest’atto non piccola nota; perché essendo stato lungamente segretario de’ re aragonesi e appresso a loro in grandissima autorità, precettore ancora nelle lettere e maestro d’Alfonso, parve che, o per servare le parti proprie degli oratori o per farsi più grato a’ franzesi, si distendesse troppo nella vituperazione di quegli re, da’ quali era sì grandemente stato esaltato: tanto è qualche volta difficile osservare in se stesso quella moderazione e quegli precetti co’ quali egli, ripieno di tanta erudizione, scrivendo delle virtù morali, e facendosi, per l’universalità dello ingegno suo in ogni specie di dottrina, maraviglioso a ciascuno, aveva ammaestrato tutti gli uomini». Sulla questione vd. anche C. DE FREDE, L’impresa di Napoli di Carlo VIII. Commento ai primi

66

E. PERCOPO, Lettere, p. 16 (n. 2).

67

Ivi, pp. 81-82.

68

G. SALVO COZZO, I codici capponiani della Biblioteca Vaticana, Roma, Tipografia Vaticana, 1897, p 49.

69

E. PERCOPO, Lettere, p. 17 (n. 1), attribuiva, inoltre, non a Giovanni, ma a Tommaso Pontano una Epistola funerea Pontani pro comunitate Perusii ad D. Urbini de obitu Iohannis patris eius registrata nel Catalogus codd. latinor. della Biblioteca di Monaco (III, P. I, p. 15), come esistente nel ms. 78 (c. 88v). Dalla copia redatta per lui da E. Stollreither, segretario di quella biblioteca, il Percopo, riteneva di poterla attribuire a Tommaso, perché scritta da Perugia, città della quale quell’umanista fu cancelliere dal 1440 al 1450.

70

Regis Ferdinandi cit.

71

Ivi, pp. IX-X.

72

Ivi, p. X.

73

Ivi, p. XIV.

74

Codice Aragonese cit.

75

F. GABOTTO, Joviano Pontano e Ippolita Sforza duchessa di Calabria, «Vita Nuova», II, XX (1890), pp, 1-8: 4-6.

1593

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NOTE

LETTERE

76

93

Lettere inedite di Joviano Pontano cit., p. 9.

77

Ivi, pp. 39-41.

78

Ivi, pp. 42-47.

79

F. FOSSATI, Altre lettere cit., pp. 6-32. Ancora cinque lettere, che rientrano nel gruppo di quelle scritte a nome della duchessa di Calabria, sono state pubblicate dalla Castaldo (Ippolita Maria Sforza. Lettere, a cura di M. S. Castaldo, Alessandria, edizioni dell’Orso, 2004, pp. 89-95).

pp. 1358-1359

Ivi, p. 196.

94

L. BIANCHINI, Storia delle finanze del regno delle due Sicilie, a cura di L. De Rosa, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1971, p. 204.

95

BARONE, Notizie Storiche cit., p. 199.

96

Ivi, p. 408; A. R EUMONT, Della diplomazia italiana dal secolo XIII al XVI, Firenze, Barbèra, 1857, pp. 157-158; C. M. TALLARIGO, I, pp. 307-308. 97

PAOLELLA, Lettere (in)edite cit., p. 155.

80

A. PAOLELLA, Lettere (in)edite del Pontano conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli, in Scritti di varia umanità in memoria di Benito Iezzi, a cura di M. Capasso e E. Puglia, Sorrento, F. Di Mauro Editore, 1994, pp. 137-155.

98

81 Ivi, pp. 137-138: «La raccolta vi confluì nel 1924 insieme alla Biblioteca S. Martino. Distribuito in 56 buste, raccoglie l’eredità culturale di Salvatore Fusco (1772-1849) e dei suoi figli Giuseppe Maria (1814-1878) e Giovanni Vincenzo (1819-1849), studiosi napoletani di grande erudizione e di molteplici interessi … Il fondo, oltre ai manoscritti delle loro opere, contiene numerose trascrizioni di documenti angioini datati tra il 1282 e il 1404».

99 I D., La dinastia aragonese di Napoli e la casa de’ Medici di Firenze (dal carteggio familiare), «Archivio Storico per le Province Napoletane» (ASPN), XXVI (1940), pp. 274-342, poi Napoli, Tipografia editrice A. Miccoli, 1941; ID., La dinastia aragonese di Napoli e la casa de’ Medici di Firenze (dal carteggio familiare), «Archivio Storico per le Province Napoletane» (ASPN), XXVII (1941), pp. 217-273, poi Napoli, Tipografia editrice A. Miccoli, 1941.

82

Ivi, p. 138.

83

Ivi, p. 142.

84

Ivi, p. 143.

85

Ivi, p. 149.

86

Ivi, p. 150.

87

Ivi, p. 151.

88

Ivi, pp. 153-154.

89

Ivi, p. 138.

90

Ivi, p. 144.

100 P. O. K RISTELLER, Iter cit., VI, 1992, p. 77 (rinvia a Iter cit., I, p. 353). La stessa M. L. DOGLIO, Cinque lettere, p. 215, riporta una descrizione molto accurata del codice: «Miscellanea spettante a Giovanni Gioviano Pontano. Cartaceo, di mm. 300 x 200, consta di 14 carte bianche, tra cui sono intercalati due ritratti e cinque lettere, quindi di uno stampato di 56 pagine. La legatura in mezza pelle è recente. Il numero d’inventario è 100935. Contiene nell’ordine: 1. Un ritratto del Pontano, inciso su legno, del secolo XVI. 2. Un altro ritratto, pure inciso su legno, da una medaglia. 3. Lett. di Ferdinando I d’Aragona a Gian Galeazzo Sforza-3.7.1491. 4. Lett. di Ferdinando I d’Aragona a Gian Galeazzo Sforza-4.4.1490.5. Lett. di Ferdinando I d’Aragona a Simo-

91

N. BARONE, Notizie Storiche raccolte dai Registri «Curie» della Cancelleria Aragonese, «Archivio Storico per le Province Napoletane» (ASPN), XIV (1889), pp. 5-16, 177-203, 397-409: 180. 92

Ivi, p. 196.

E. PONTIERI, La dinastia aragonese di Napoli e la casa de’ Medici di Firenze (dal carteggio familiare), «Archivio Storico per le Province Napoletane» (ASPN), XXVI (1940), pp. 274-342, poi Napoli, Tipografia editrice A. Miccoli, 1941, p. 274.

1594

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pp. 1360-1362

LETTERE

NOTE

notto di Belprato-13.9.1491. 6. Lett. di Alfonso II d’Aragona a Gian Galeazzo Sfora-25.1.1494. 7. Lett. di Alfonso, Duca di Calabria, a Ludovico Sforza-8.8.1483».

Le carte aragonesi, Atti del Convegno, Ravello, 3-4 ottobre 2002, a cura di M. Santoro, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2004, pp. 297-306.

101 M. L. DOGLIO, Cinque lettere, pp. 222223.

114

L. MONTI SABIA, Due lettere, pp. 14-18.

115

M. R INALDI, Un’inedita, p. 427.

102

Ivi, p. 223.

116

103

Ivi, p. 224.

104

Ivi, p. 224.

105

Ivi, p. 225.

107

Il codice è ben descritto da L. DELISLE, Manuscrits latins et français ajoutés aux fonds des nouvelles acquisitions pendant les annèes 1875-1891, Inventaire alphabétique par L. Delisle, part I, Paris, H. Champion, 1891, pp. 355-356; e, più sommariamente, da P. O. K RISTELLER, Iter cit., III, 1983, pp. 289-290.

108

117 G. CONIGLIO, rispettivamente pp. 111113 e 125-128.

106

P. O. K RISTELLER, Iter cit., IV, 1989, p. 250. L. MONTI SABIA, Estremo autografo, pp. 312-314. Autographs of Italian Humanists. An Exhibition to mark the visit of the Association Internationale de Bibliophilie, 10 December 1974, Bodleian Library, Oxford, The Library, 1974, n. 21.

109

Sotheby and Co., London, Sale catalogue, Bibliotheca Philippica, New Series VI, 25 June 1968, p. 58, n. 860.

110

Vd. Catalogue of the Fourth and Concluding Portion of the Famous Dering Collection of Deeds and Charters, Formed by Sir Edward Dering in the Time of Charles I, Puttick and Simpson, 1865, p. 136.

111 Notizie tratte da L. MONTI SABIA, Estremo autografo, p. 288 (n. 3). La Monti Sabia, a sua volta, dichiara di averle ricevute da Albinia de la Mare. 112

Descritto sommariamente in P. O. K RISTELLER, Iter cit., I, 1965, p. 400; sul foglio di un catalogo a stampa attaccato alla faccia interna della copertina anteriore del codice stesso si legge la descrizione in tedesco di un ignoto autore. La legatura in cuoio di questo codice, anch’essa del XV sec., attirò l’attenzione di T. DE M ARINIS che la riprodusse nella Tav. XII del suo La legatura artistica in Italia nei secoli XV e XVI, Firenze, Alinari, 1960. 113

R. R INALDI, Un problematico autografo del De fortitudine di Giovanni Pontano, in

118

M. L. DOGLIO, Una lettera, pp. 234-235.

119

E. PERCOPO, Lettere, p. 59.

120

M. L. DOGLIO, Una lettera, p. 235.

121

A. LUZIO-R. R ENIER, p. 301.

122

B. SOLDATI, I, p. XXVIII; E. PERCOPO, Lettere, p. 60; J. OESCHGER, p. 459; M. L. DOGLIO, Una lettera, p. 236. 123

B. FIGLIUOLO, (Pen)ultime, pp. 82-83.

124

Ivi, pp. 79-81.

125 I D.

Un documento, p. 48.

126

E. PERCOPO, Nuove lettere, pp. 197-198.

127

Ivi, pp. 202-203.

128

B. FIGLIUOLO, Un documento, pp. 48-49.

129

Ivi, pp. 49-51.

130

C. ROSSELLI DEL TURCO, p. 483.

131

E. PERCOPO, Lettere, p. 51.

132

B. FIGLIUOLO, Un documento, p. 52.

133

E. PERCOPO, Nuove lettere, pp. 198-205.

134

Ivi, pp. 204-205, 211.

135

B. FIGLIUOLO, Un documento, p. 46.

136

E. PERCOPO, Nuove lettere, pp. 206-207, 209-212.

137

L. MONTI SABIA, Una lettera, p. 182. La lettera è citata in P. O. K RISTELLER, Iter cit., VI, 1992, p. 14.

1595

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NOTE

LETTERE

138

150 G. G. SCORZA, Costanzo Sforza signore di Pesaro. 1473-1483, Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio, 2005, pp. 347-348.

Adriana Sassone, classicamente detta dal Pontano Ariadna, aveva accompagnato il poeta per 28 lunghissimi anni, ed era morta, il 1° marzo 1490, all’età di 46 anni, probabilmente per una febbre cagionatale da un bagno caldo alle terme.

139

Ma a tal riguardo vd. anche S. MONTI, Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Gioviano Pontano, «Atti della Accademia Pontaniana», n. s., XII (1963), pp. 225-252.

140

P. D. PASOLINI, II, pp. 395-396 (n. 4); E. PERCOPO, Lettere, p. 34. 141

Lettere inedite di Joviano Pontano cit., pp. 47-357.

142 G. CONIGLIO, pp. 107-111, 113-125, 136138. 143

W. F. PRIZER, Bernardino Piffaro e i pifferi e tromboni di Mantova: strumenti a fiato in una corte italiana, «Rivista italiana di musicologia», XVI (1981), pp. 151-184: 179-180.

151

pp. 1362-1379

Codice Aragonese cit., I, p. 56.

152

Corrispondenza di Giovanni Pontano cit., pp. 3-508.

153

Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 25 (n. 1).

154

Cfr. Ivi, pp. 25-26 (n. 2).

155

L’umanista Antonio Beccadelli, noto come il Panormita, sul quale vd. G. R ESTA, in Dizionario Biografico degli Italiani, in continuazione, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1960- (d’ora in avanti DBI), 7, 1965, pp. 400-406. 156

Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 27 (n. 1).

157

Cfr. Ivi, p. 27 (n. 2).

158

Cfr. Ivi, p. 27 (n. 3).

159

Cfr. Ivi, p. 27 (n. 4).

160

144

F. FOSSATI, Altre lettere cit., pp. 7-31.

Il Sinello è un fiume il cui corso si svolge interamente in provincia di Chieti, in Abruzzo.

145

Ippolita Maria Sforza cit., pp. 88-95.

161

146

F. FOSSATI, Altre lettere cit., pp. 6-7, 1011; Ippolita Maria Sforza cit., pp. 96-99.

162

147

163

B. FIGLIUOLO, Il banchetto come luogo di tranello politico (Napoli, 13 agosto 1486: la resa dei conti dei baroni ribelli), in Le cucine della Memoria. Il Friuli e le cucine della memoria fra Quattro e Cinquecento: per un contributo alla cultura dell’alimentazione, Udine, Forum, 1997, pp. 141-165: 162-164.

148

E. PONTIERI, La dinastia aragonese cit., 1940, pp. 328-331, 338-341; 1941, pp. 241242, 244, 246-249, 272-273.

149 V. M. CATTANA, Per la storia della commenda a Montecassino. Un progetto del re Alfonso II d’Aragona, ora in Montecassino nel Quattrocento. Studi e documenti sull’abbazia cassinese e la «Terra S. Benedicti» nella crisi del passaggio all’età moderna. Monastica, XII, a cura di M. Dell’Omo, Montecassino, Pubblicazioni Cassinesi, 1992, pp. 301-309: 304-306.

Su di lui vd. DBI, 4, 1962, pp, 635-636.

Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 402-404.

Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. ital., Roma, Desclée & C. Editori Pontifici, 1925-1964, voll. I-XVII, tomi I-XXI, vol. II, p. 290.

164

Francesco Gonzaga, marchese di Mantova.

165

Inventariata da Francesca de Pinto in Inventario della corrispondenza tra Napoli e le corti estense e gonzaghesca (secc. XIVXV), a cura di F. de Pinto, Napoli, Laveglia & Carlone, 2008, al n. 2049, p. 173, ma datata 28 maggio.

166

Prospero Colonna, sul quale vd. F. PEin DBI, 27, 1982, pp. 416-418.

TRUCCI,

167

Cerreto Laziale.

168

Oricola.

169

Inventariata in Inventario della corrispondenza cit., al n. 2240, p. 190.

1596

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pp. 1379-1389 170

LETTERE

Odierna Lanuvio.

171

Vicino Orsini e Teodoro Trivulzio (cugino di Gian Giacomo) erano capitani al soldo aragonese. Sul Trivulzio vd. P. BOSI, Dizionario storico, biografico, topografico, militare d’Italia, Torino, Candeletti-Cassone, 1870, p. 617.

172

Sergianni Caracciolo, duca di Melfi, Giovanni di Candida e Italiano Pio da Carpi (capitano al soldo aragonese). Cfr. B. FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 79 (n. 3).

NOTE 184

Roberto Sanseverino, conte di Caiazzo, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 433436.

185

Giampiero Leostello, di Volterra, segretario del Duca di Calabria. Su di lui vd. R. RUINI, in DBI, 64, 2005, pp. 668-670.

186

Girolamo Riario. Signore di Imola e di Forlì, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 409-410.

188

173

Girolamo Riario, nipote di Sisto IV, conte di Forlì, capitano pontificio. Signore di Imola e di Forlì, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 409-410.

174

Odierne Velletri, Cori e Sezze Romano.

175

Antonio Piccolomini. Su di lui vd. G. DE BLASI, in DBI, 83, 2015.

176

Girolamo Orsini, capitano al soldo aragonese e Alessio, giannizzero turco della guardia di Alfonso. Cfr. B. FIGLIUOLO, (Pen)ultime, p. 80 (n. 7).

177

Rossetto Ferramosca da Capua, capitano di parte aragonese. Su di lui cfr. N. FARAGLIA, Ettore e la casa Fieramosca, «Archivio Storico per le Province Napoletane», II (1877), pp. 647-678: 648-651. 178

Odierna Astura, isoletta sulla costa laziale.

179

Cristoforo, commerciante di Alife (in provincia di Caserta), di cui era conte Diaz Garlon.

180

Di Calabria.

181

Pasquale (Pascasio) Diaz Garlon. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 328-329; D. M ARROCCO, Sul decreto d’infeudazione di Alife Pasquale Diaz Garlon, Napoli, Arti grafiche Ariello, 1963; F. DE NEGRI, in DBI, 39, 1991, pp. 674-678; G. GUADAGNO, I Diaz Garlon: la contea di Alife tra il ’400 e il ’500, Piedimonte Matese, Tipografia Ikona, 1999. 182

Segretario estense, fratello di Battista.

183

Di Calabria.

Renato II, duca di Lorena.

187

Di Calabria.

189

Marino Tomacelli, ambasciatore napoletano a Firenze. Su di lui vd. F. PATRONI GRIFFI, Il testamento di Marino Tomacelli ambasciatore aragonese a Firenze, Napoli, Arte Tipografica, 1985.

190

Anello Arcamone, conte di Borrello, oratore napoletano presso il papa. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 265-266; R. A BBONDANZA, in DBI, 3, 1961, pp. 738-739.

191

Di Mantova.

192

Girolamo Sperandeo, giurista napoletano sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., p. 447.

193

Sanseverino.

194

Benedetto Ruggio, abate di San Benedetto e di San Pietro a Corte di Salerno, ambasciatore napoletano a Milano. Su di lui vd. R. GUARIGLIA, Un ambasciatore salernitano del secolo XV: l’abate Ruggio, «Rassegna storica salernitana», IV (1943), pp. 27-56. 195

Giacomo Trotti, ambasciatore estense a Milano. Su di lui vd. Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca, coordinamento e direzione di F. LEVEROTTI, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2000, voll. I-XV, XII, p. 521. 196

Luigi da Terzago, segretario di Ludovico Sforza sul quale cfr. N. COVINI, L’esercito del duca. Organizzazione militare e istituzioni al tempo degli Sforza (1450-1480), Roma, nella sede dell’Istituto, 1998, p. 152.

1597

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NOTE

LETTERE

197

Di Calabria.

213

Cfr. Ivi, p. 31 (nn. 1, 2).

198

Sanseverino.

214

Virginio Orsini.

199

Vedi la lettera successiva.

215

200

Francesco Coppola, conte di Sarno, condannato a morte perché ribelle al re e giustiziato l’11 maggio 1487. Su di lui. vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 321-324; I. SCHIAPPOLI, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli, Giannini, 1972, pp. 155-252; F. PETRUCCI, in DBI, 28, 1983, pp. 645-648. 201

Su Giovanni Pou vd. Regis Ferdinandi, cit., p. 46, n. 2; su Anello Arcamone vd. n. 190.

202

Su di lui vd. E. BIGI, in DBI, 3, 1961, pp. 470-472. 203

Sul quale vd. DBI, 2, 1960, pp. 12-13; B. FIGLIUOLO, Giovanni Albino, storico e poeta cilentano del XV secolo. Con un’appendice di testi, «Rinascimento», XLVII (2007), pp. 165-240: 180.

204

Virginio Orsini, presso il quale l’Albino era ambasciatore, duca di Bracciano e conte di Albe e Tagliacozzo. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 389-391.

205

Antonello di Sanseverino che, nell’87, ribellatosi a Ferrante I, fuggì a Roma, poi in Francia. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 415-421.

206

Giovanni Battista Orsini, sul quale vd. K. TOOMASPOEG, in DBI, 79 (2013).

207

pp. 1389-1403

Albino era abate commendatario di San Pietro di Piedimonte Matese in Caserta oltre che di Sant’Angelo a Fasanella.

216

Giovanni Caracciolo, imprigionato in Castelnuovo il 4 luglio 1487. Su di lui vd. F. PETRUCCI, in DBI, 19, 1976, pp. 377-380.

217

Ferrandino d’Aragona, allora principe di Capua.

218

Troiano Bottoni, ambasciatore napoletano a Ferrara, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., p. 287.

219

Simonotto Belprat, diplomatico napoletano di origini catalane. Su di lui vd. I. WALTER, in DBI, 8, 1966, pp. 47-49.

220

Eleonora d’Aragona aveva sposato l’anno precedente il duca di Milano Gian Galeazzo Sforza.

221

Battista Bendedei, ambasciatore del duca di Ferrara in campo e poi a Napoli. Su di lui vd. Carteggio degli oratori mantovani cit., XI, p. 427 (n. 2).

222

Giovanna.

223

Federico d’Aragona, principe di Taranto e poi di Altamura, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 234-241.

224

Ferdinando Vincenzo d’Aragona, detto Ferrandino, principe di Capua, sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 245-252.

Presumibilmente Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli. Su di lui vd. il profi lo in L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., II, pp. 458-459; III, pp. 323-324.

Pietro, terzogenito di Alfonso, duca di Calabria. Su di lui vd. S. BORSARI, in DBI, 3, 1961, pp. 703-704.

208

226

Vd. n. precedente.

209

Ossia orso, riferendosi sempre all’Orsini.

210

Probabilmente riferendosi a Giuliano della Rovere.

211

225

Ossia Paolo Siscar, maggiordomo del duca di Calabria, sul qual cfr. L. MONTI SABIA, Una lettera, pp. 177-178.

227

Bagnoli, cittadina sulla costa flegrea a 9 km da Napoli.

Giuliano della Rovere, che nell’estate di quell’anno si ritirò a Bologna. Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., III, p. 180.

229

212

230

Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 30 (n. 2).

Vd. n. precedente.

228

La pianura di Palma, oggi Palma Campania. In Puglia.

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pp. 1403-1419

LETTERE

231

NOTE

Giulio de Scorciatis sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 439-441 e L. MONTI SABIA, Una lettera, pp. 179-180.

244

232

245

Pasquale Diaz, sul quale vd. n. 181.

233

Antonello Petrucci, conte di Aversa e segretario regio decapitato l’11 maggio del 1487. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 398-402; E. RUSSO, Il registro contabile di un segretario regio della Napoli aragonese, «Reti Medievali», 14, 1 (2013), pp. 415-547: 415-417, con relativa bibliografia.

234

La villa del Pontano ad Antignano.

235

Vd. n. 221.

236

Sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., p. 451; Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 34 (n. 1).

237

I bagni termali di San Filippo, in Val d’Orcia.

238

Cfr. M. L. DOGLIO, Una lettera, p. 234 (n. 6). 239

Eleonora d’Aragona. Cfr. Ivi, p. 234 (n.

7). 240

Luigi da Casalnuovo, diplomatico napoletano sul quale vd. Regis Ferdinandi cit., p. 313; F. PETRUCCI, in DBI, 21, 1978, pp. 134-135. 241

Vd. n. precedente.

242

Dieci ambasciatori ascolani erano andati a Roma per chiedere perdono al papa dei danni arrecati dai loro concittadini al territorio della Chiesa nell’estate del ’91, assediando Offida, assalendo il vicelegato della Marca e uccidendo un legato pontificio. Il papa aveva mandato contro di loro il cardinale di Baluè e Niccolò Orsini, conte di Pitigliano. Virginio Orsini, a capo dei soldati di Ferrante, era accorso in aiuto degli ascolani. Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., III, p. 191.

243

Orso Orsini, vescovo di Teano dal 1473 e legato pontificio, sul quale vd. C. SHAW, The Political Role of the Orsini Family from Sixtus IV to Clement VII. Barons and Factions in the Papal States, Roma, nella sede dell’Istituto, 2007, pp. 64, 89, 114, 178.

Probabilmente Ferrante della Cava, cortigiano e cancelliere di Ferdinando I d’Aragona. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 38 (n. 3). Probabilmente l’odierna Ripratansone, in provincia di Ascoli Piceno.

246 Giovan Giordano Orsini, figlio di Virginio. Figlio di Virginio. Su di lui vd. Regis Ferdinandi cit., pp. 379-381. Aveva sposato nel novembre dell’87 a Napoli la figlia naturale di Ferrante I, Maria. 247

Giuliano della Rovere (vd. n. 207), Lorenzo Cibo Mari (sul quale vd. F. PETRUCCI, in DBI, 25, 1981, pp. 275-277) e Antonio Pallavicino (v. C. Antoniotto, in Enciclopedia Biografica Universale Treccani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 14, 2007, p. 616). 248

Il riferimento è al matrimonio tra Luigi d’Aragona, figlio di Enrico, e Battistina Cybo. Su Luigi d’Aragona, futuro cardinale, vd. G. DE CARO, in DBI, 3, 1961, pp. 698-701; A. CHASTEL, Luigi d’Aragona. Un cardinale del Rinascimento in viaggio per l’Europa, Roma-Bari, Laterza, 1987.

249

Sull’accordo e sulla visione politica del Pontano in merito, cfr. E. PONTIERI, Venezia e il conflitto tra Innocenzo VIII e Ferrante d’Aragona, Napoli, L’arte tipografica, 1969. 250

Lorenzo de’ Medici era morto l’8 aprile 1492.

251

Roberto Sanseverino.

252

Pietro Diaz de Toledo, vescovo di Malaga dal 1487 al 1499. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 40 (n. 3).

253

Di Capua.

254

Giacomo Pontano, nipote di Giovanni. Su di lui vd. Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, VI. Piero Nasi, Antonio della Valle e Niccolò Michelozzi (10 aprile 1491-2 giugno 1492), a cura di B. Figliuolo, e S. Marcotti, Salerno, Laveglia & Carlone, 2004, p. 25 (n. 3).

255

Facendo andare a monte il matrimonio tra Carlotta (figlia di Federico d’Aragona

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NOTE

LETTERE

e di Anna di Savoia sulla quale vd. B. FIGLIUOLO, La cultura a Napoli nel secondo Quattrocento. Ritratti di protagonisti, Udine, Forum, 1997, pp. 314-315, 337) e il re di Scozia Giacomo IV Stuart e intrigando contro Beatrice d’Aragona, figlia di Ferrante e regina d’Ungheria, sposata, in seconde nozze, e poi ripudiata da Ladislao re di Boemia. Sulla questione del matrimonio tra Beatrice e Ladislao II Jagellone, cfr. Corrispondenza degli ambasciatori fiorentini a Napoli, VI cit., pp. XXX-XXXII.

268

Beatrice d’Aragona.

269

Renato II di Lorena.

270

Piero de’ Medici.

256

Il Pontano allude al fatto che, essendo morta la moglie più di un anno prima (1 marzo 1491), avrebbe potuto prendere l’abito monacale.

257

Tre dei principali segretari di Ferrante I: Anello Arcamone, conte di Borrello (vd. n. 190), Antonello Petrucci (vd. n. 233) e Diomede Carafa, conte di Maddaloni (sul quale vd. F. PETRUCCI, in DBI, 19, 1976, pp. 524-530; T. PERSICO, Diomede Carafa, uomo di Stato e scrittore del secolo XV, Napoli, Pierro, 1899; J. H. BENTLEY, Politica e cultura nella Napoli Rinascimentale, Napoli, Guida editori, 1995, pp. 140-147).

pp. 1419-1436

271

Goffredo Borgia, sul quale vd. G. DE CARO, in DBI, 12, 1971, pp. 725-727.

272

Ludovico Sforza.

273

Ambasciatore milanese a Napoli, sul quale vd. Carteggio degli oratori mantovani cit., XV, p. 103 (n. 3).

274

Dionigi Pucci, commissario fiorentino a Faenza e poi ambasciatore a Napoli. Su di lui vd. C. TRIPODI, in DBI, 85, 2016.

275

Ascanio Maria Sforza, vicecancelliere di Alessandro VI. Su di lui vd. M. PELLEGRINI, Ascanio Maria Sforza. La parabola politica di un cardinale-principe del rinascimento, Roma, nella sede dell’Istituto, 2002, voll. I-II. 276

Il fiume Nera che scorre in territorio spoletano.

277

Ferrandino d’Aragona.

278

Federico d’Aragona.

279

Giuliano della Rovere, vd. n. 207.

280

258

Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 42 (n. 3).

Giovanni di Cunto. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 50 (n. 1).

259

Vd. n. 184.

281

Isabella d’Aragona.

282

Pozzuoli.

260

Su di lui vd. F. PETRUCCI, in DBI, 25, 1981, pp. 243-245. 261

Giovanni Pietro Arrivabene, vescovo di Urbino e oratore del duca di Urbino a Roma. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 43 (n. 1).

262

Roberto Sanseverino, figlio di Antonello.

283

Il cardinale Oliviero Carafa. Su di lui vd. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., II, p. 369; F. PETRUCCI, in DBI, 19, 1976, pp. 588-596. 284

Franceschetto Cibo, figlio di Innocenzo VIII. Vd. n. 260.

Rispettivamente Antonio Stanga (vd. n. 273), Paolo Trevisan e Dionigi Pucci (vd. n. 274).

264

285

263

Giacomo Pontano. Vd. n. 254.

265

Giureconsulti. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 45 (n. 1).

Federico, principe di Altamura, e Ferdinando, detto Ferrandino, rispettivamente fratello e figlio primogenito di Alfonso.

266

286

Giovanni di Cunto, segretario del re aragonese morto nel 1516. Cfr. E. PERCOPO, Lettere, p. 46 (n. 1). 267

Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., III, p. 229.

Virginio Orsini, vd. n. 204.

287

Paolo Fregoso, cardinale di Genova. Su di lui vd. M. CAVANNA CIAPPINA, in DBI, 50, 1998, 427-432. 288

Ibleto (Ibletto, Obietto Fieschi), fuo-

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pp. 1436-1450

LETTERE

NOTE

riuscito genovese e patteggiante per il re di Napoli. Su di lui vd. G. NUTI, in DBI, 47, 1997, pp. 482-486.

N2. Fiorentino vi legge la data «Neapol. Id. Decemb. MDI» ed anche quella di Egidio viene datata al 3.11.1501.

289

I fuoriusciti genovesi.

299

290

Dionigi Pucci.

291

Prospero e Fabrizio Colonna, ad opera di Ascanio Sforza, passarono nel giugno del ’94, al servizio del re di Francia. Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., III, p. 284. 292

Piero de’ Medici.

Mariano da Genazzano. Su di lui vd. D. A. PERINI, Un emulo di Fra Girolamo Savonarola: Fra Mariano da Genazzano, Roma, L’Agostiniana, 1917 (rist. 1998).

300

Su di lui vd. S. FOÀ, in DBI, 51, 1998, pp. 743-745.

301

Stefano Taverna, ambasciatore del Duca di Milano presso Alessandro VI dal 1492 al 1497. Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi cit., III, pp. 749 ecc.

Pietro Golino, detto il Compatre, accademico ed amico del Pontano. Cfr. P. NAPOLI SIGNORELLI, Vicende della coltura nelle Due Sicilie, Napoli, Orsini 1810, t. III, pp. 456-457.

294

302

293

Ferrante II era figlio di Ippolita Sforza, figlia di Francesco, duca di Milano.

Giacomo Solimena, medico dei re aragonesi da Ferrante a Federico. Cfr. E. P ERCOPO, Lettere, p. 63 (n. 5).

296

303

HOR. Epist., 1, 2, 40.

295

VERG., Aen., VI, 823.

297

Su di lui vd. S. FOÀ, in DBI, 42, 1993, pp. 341-353.

298

Vd. E. NARDUCCI, Catalogus codicum manuscriptorum in Bibliotheca Angelica, Romae, typis L. Cecchini, 1893, pp. 416b418a. In questo ms. le Epistolae, benché ordinate diversamente, appaiono tolte da

Marcantonio Michiel, umanista e storico, sul quale vd. G. BENZONI, in DBI, 74, 2010, pp. 319-325.

304

Cfr. J. OESCHGER, p. 461 (n. 2).

305

Francesco Poderico, amico del Sannazaro e del Pontano. Vd. P. GIANNONE, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago, Elvetica, 1841, t. X, p. 160.

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INDICI

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Indice dei nomi citati nelle introduzioni e nelle note

Abbante 1498 Abbondanza, Roberto 1597 Acca Laurenzia 1553 Acciaiuoli, Niccolò X Accio, Lucio 1574 Accolti, Francesco 1588 Aceste 1503, 1523 Achille 1467, 1490, 1492, 1499 Acquaviva, Andrea Matteo 1461 Adrasto 1510 Adriana Sassone XII, 1362, 1496, 1596 Afeltro, Antonio 1354 Afrodite v. Venere Agatocle, re di Siracusa 1550 Agostino d’Ippona, santo XV, 647, 649, 760, 1519, 1541, 1555, 1566 Agricola, Gneo Giulio 1561 Aiace Oileo 1524 Alamanni, Luigi 1483 Albanese, Gabriella 1466 Alberti, Leon Battista XVI, XXV, XXVIII-XXIX, XXXI,

XXXIII, XLVIII, 759, 1459, 1462, 1470, 1479, 1550, 1574, 1588 Alberto di Colonia, il Grande 1588 Albidio 1586 Albino, Giovanni, abate 1598 Alessandro di Afrodisia 1518 Alessandro Magno XXXIII, 17, 1353, 1462-63, 1468, 1474, 1490, 1566, 1577-78, 1585 Alessandro Severo, imperatore romano 1550, 1560 Alessandro VI, papa XXIII, 1483, 1568, 1600-01 Alessi 1497 Alessio 1597 Aletto 1488-89 Alfonso I d’Aragona, re di Napoli v. Alfonso V d’Aragona Alfonso II d’Aragona, re di Napoli VIII-IX, XIV, LXXVIII, 308, 315, 1352-54, 1358-60, 1362, 1484, 1508, 1577, 1582, 1595-98 1605

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INDICI

Alfonso V d’Aragona, re d’Aragona e di Napoli VIIVIII, XIII, LXXIII, 119, 309, 1461, 1470, 1472, 1512, 1579, 1584, 1587, 1589, 1600 Alfonso, duca di Calabria v. Alfonso II d’Aragona Alighieri, Dante XXVIII, LXI, 7, 1459, 1467-68, 1479, 1481, 1486, 1489, 1493-94, 1496, 1556, 1562, 1585, 1588 Alisio, Giancarlo 1540 Altamura, Antonio 1541 Altilio, Gabriele LI, 370, 373, 387, 647, 1499, 1501, 1503, 1508, 1516 Amata 1488 Ammiano Marcellino 1535 Ammone 1578 Amulio 1553 Anassagora 759, 1553 Anchise 122, 1492, 1499 Anfione 1536 Anna di Savoia 1600 Annibale 1483-84, 1492, 1500, 1560-61, 1563, 1572, 1584, 1588-89 Anselmi, Gian Mario 1466 Antimaco di Colofone 1518 Antiniana 646, 1541 Antioco di Ascalona 1556 Antioco II, re di Siria 1550, 1588 Antiquari, Jacopo 1361 Antistene 1576 Antonino Pio 1561 Antonio del Deserto, abate 1578 Antore 1504 Anziate 1531

Apicio 1581 Apollo 1471-72, 1501, 1538, 1559, 1575 Apollonio Rodio 1490, 1497 Apuleio 307-09, 1471-72, 1482, 1496, 1511, 1533, 1571, 1581 Aquosa, Dionisio 653, 1544 Aquosa, Masio 1544, 1578 Aracne 1497 Arato 762, 1531 Arcamone, Anello 1597-98, 1600 Arditi, Michele 1355-56, 1591 Ariovisto 1498 Aristeo 1543 Aristippo di Cirene 1541 Aristotele XXXIII, XXXV, XL, LXX, 652, 756-58, 763, 993-94, 1463, 1469, 1471, 1482, 1485, 1518-19, 1521, 1542, 1545, 1547, 1549-50, 1552-57, 1559, 1562-65, 1568-69, 1571-72, 1574-79, 1583, 1588 Arpalo 1585 Arpie 1531 Arrivabene, Giovanni Pietro 1362, 1600 Arrunte 1498 Arsace, re dei Parti 1550 Arsacidi, famiglia 1550 Ascanio 1489 Asconio 1516 Asinio Pollione, Gaio 1540 Atena 1497 Ati 1566 Atlante 1475 Atropo 1556 Attendolo, Muzio (Giacomo) 1551

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Augusto, imperatore romano 1470, 1494, 1499, 1509, 1561, 1584 Aurora 1483 Ausonio, Decimo Magno 1354 Baccini, Danilo 1469 Bacco 1505-06, 1530, 1582 Balbiano 1550 Balduino da Panicale 1551 Bandello, Matteo 1588 Barbaro, Ermolao 1494 Barber, Eric Arthur 1492 Barone, Nicola 1359, 1594 Barzizza, Gasparino LXIV Barzizza, Guiniforte 1353-54, 1592 Basilio Magno, santo 1577 Basinio da Parma 756, 1484 Battaglia, Salvatore 1483, 1489, 1510, 1512 Bausi, Francesco 1589 Bavio 1538 Beatrice d’Aragona 1550, 1600 Beccadelli, Antonio v. Panormita, Antonio Beccadelli, Tonio 1354 Bellanti, Lucio 759, 761, 1568 Belprat, Simonotto (Simonetto) 1360, 1595, 1598 Bembo, Pietro LXI, LXIV, 122, 375, 764, 1460, 1464 Bendedei, Battista 1598 Bendedei, Nicolò 1362 Bentley, Jerry H. 1600 Bernardino da Siena, frate 1578, 1585 Besicken, Joanni 1484 Bianca, Concetta 1461

Biancardi, Silvio 1593 Bianchi, Luca 1463, 1565 Bianchini, Lodovico 1359, 1594 Bibbiena, Bernardo Dovizi da 999 Bigi, Emilio 1598 Billanovich, Giuseppe 1360, 1464 Birse v. Pallade Boccaccio, Giovanni X, XIX, XLII, LIX, 372, 999, 1478, 1539, 1580, 1588 Boezio, Severino 1477, 1485, 1555 Bonfini, Antonio 1551 Bonincontri, Lorenzo 756, 1484 Borgia, Goffredo 1600 Boriaud, Jean-Yves 1462 Borsari, Silvano 1598 Bosi, Pio 1597 Bottoni, Troiano 1598 Braccio da Montone 1551 Bracciolini, Poggio VII, XXXII, XXXVI, XLVIII, 759, 994, 1462, 1471, 1497, 1578, 1588 Brancaccio, Marino 1582 Bruni, Leonardo 123, 1459 Bruno, Giordano 307, 316, 766, 1459, 1477 Bruto, Marco Giunio 1559 Buridano, Giovanni 1559 Buron, Emmanuel 1458 Busuluro, Pietro 1469 Cacciatore, Giuseppe 1590 Calcidio 757, 1555-56, 1569 Caldora, Giacomo 998, 1589 Calenzio, Elisio (Elisio Galluccio, Luigi Calenzio) 122, 653, 1484, 1544 1607

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Calliroe 1507 Callisto III, papa 1470, 1483 Camilla 1503 Cammelli, Antonio 1593 Campanelli, Maurizio 1589 Campodonico, Marcello 1476, 1509-10 Candida, Giovanni di 1597 Canfora, Davide 1462, 1466, 1553 Cantore, Anna Gioia 1347, 1364, 1589 Capasso, Mario 1594 Capeto, Ugo XXVIII Capitolino, Giulio 1550, 1574 Cappelletto, Rita 1459-60, 1467, 1469, 1478, 1506 Cappelli, Guido Maria 17, 1457 Capponi, Gino 1511 Capranica, Domenico 1541 Caracciolo, Francesco 1352, 1355 Caracciolo, Giovanni 1598 Caracciolo, Landolfo 1570 Caracciolo, Sergianni 1597 Caracciolo, Tristano 1464, 1543 Carafa, Diomede 1600 Carafa, Oliviero 1600 Carbone, Girolamo 648, 1542 Cardini, Roberto 1462 Cariteo 310, 644-45, 648-51, 1461, 1483, 1499, 1508-09, 1516, 1545, 1547, 1554 Carlo d’Aragona 1359 Carlo II d’Angiò, re di Napoli 1489 Carlo III di Angiò-Durazzo, re di Napoli 1483, 1489 Carlo Luigi di Presicce 1591

Carlo VIII di Valois, re di Francia IX, XI, 1352, 1355-56, 1358, 1516, 1546-48, 1561, 1580, 1582, 1593 Carlotta d’Aragona 1599 Caro, Annibale 1489 Caronte XVII-XVIII, XXI, XXIV-XXVI, XXIX, 5, 7-8, 10-15, 308, 1459, 1467-68, 1470-73, 1478, 1491, 1495, 1506, 1508, 1510 Cassio Longino, Gaio 1559 Cassiodoro 1578 Castaldo, Maria Serena 1363, 1594 Castiglione, Baldassarre XXXVIII, XLIII, XLV, 125, 1002, 1460 Castore 1490 Catilina, Lucio Sergio LXXIX, 1500, 1536 Catone, Marco Porcio, detto il Censore 9, 1469-70, 1513, 1535, 1546, 1559, 1574 Catone, Marco Porcio, detto Uticense LXXVII, 1559, 1563 Cattana, Valerio M. 1363, 1596 Catullo, Gaio Valerio 1475, 1513, 1573, 1578, 1582 Catulo, Quinto Lutazio 1535-36 Cavanna Ciappina, Maristella 1600 Celio Antipatro, Lucio 1495, 1531, 1535 Celso 1483 Cerbero 1496 Cesare, Gaio Giulio XXXIII,

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

LXXIV, LXXVII, 1462-63, 1466, 1475, 1488, 1490, 149495, 1498, 1537-38, 1559-61, 1576-77, 1583, 1588 Charlet, Jean-Louis 1460 Chastel, André 1599 Cian, Vittorio 1459 Cibele 1473, 1501 Cibo, Franceschetto 1600 Cicerone, Marco Tullio IX, XXI, XXIII, XXXIV, XXXVII, XXXIX, XLI-XLIII, XLVXLVI, XLVIII-LIII, LVI-LXI, LXX, LXXIV, LXXVILXXVII, 121-22, 126, 371-74, 647, 650, 652, 759, 994, 1460, 1463-66, 1468-69, 1473, 1476, 1482-88, 1490, 1494, 1496, 1501, 1508, 1511-13, 1517-18, 1522-23, 1527, 1529-38, 1540, 1545-49, 1551, 1553-57, 1559-62, 1566, 1568, 1571-78, 1580-88 Cincinnato, Quinzio 1560 Cino da Pistoia X Claudiano, Claudio XXII, 763, 1487, 1524, 1563 Cleofilo, Francesco 1592 Cleopatra 1560-61 Clitennestra 1490 Clodia 1589 Clodio 1569 Cloreo 1498 Cloto 1556 Coarelli, Philippe 1462, 1540 Colangelo, Francesco 1351-52, 1590-92 Collazio, Matteo 1464

Colocci, Angelo 764-65, 1484, 1548, 1565, 1568, 1578, 1582 Colonna, Fabrizio 1601 Colonna, Prospero 1596 Columella, Lucio Giunio Moderato 1534, 1543, 1547, 1576 Comparetti, Domenico 1509 Compatre (Pietro Golino) 120, 122, 126, 1480-81, 1484, 1499, 1502, 1516, 1518, 1532, 1540, 1600-01 Coniglio, Giuseppe 1361-63, 159596 Consalvo Ferdinando di Cordova IX, XXVII, XXX, 763, 765, 1457, 1461, 1547-48, 1580 Consalvo, Alonso 1548 Contarino, Rosario 1484 Contrario, Andrea 120, 122, 1492 Cooper, Richard 1515 Coppola, Francesco 315, 1506, 1598 Cordonier, Valérie 1562, 1565 Corfiati, Claudia 1354, 1458, 1541, 1589, 1592 Coribante 1501 Coridone 1497 Cornelia 1492 Cornelii, famiglia 1536 Cornelio Nepote 1561 Correr, Gregorio 1355 Corvini, famiglia 1551 Corvino, Leonardo 1499 Corvino, Mattia 1550, 1577 Costantino I, imperatore romano 1495 1609

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Covini, Maria Nadia 1597 Crasso, Lucio Licinio 1509, 1583 Cratete di Tebe 1470, 1473-74 Creso 1566 Crisippo 759, 1555-56 Croce, Benedetto 1481, 1543 Cuomo, Vincenzo 1477 Curio Dentato, Manlio 1492 Curzio Rufo, Quinto LXXIVLXXV, 1489-90, 1538 Cybo, Battistina 1599 D’Alessandro, Alessandro 1002 D’Alessandro, Paolo 1459 D’Ascia, Luca 1466 D’Engenio Caracciolo, Cesare 1540 Danao 1501 Danzi, Massimo 764 Dardano 1502 De Blasi, Nicola 1597 De Caro, Gaspare 1599-1600 De Ferrariis, Antonio v. Galateo, Antonio De Frede, Carlo 1593 De Frizis, Antonio 1516 De Marinis, Tammaro 1354, 1570, 1595 De Martino, Salvatore Pio 1541 De Mella, Giovanni 1470 De Montera, Pierre 1542 De Nichilo, Mauro 1457, 1460, 1484, 1541, 1589-90, 1592 De Nolhac, Pierre 1354, 1590, 1592 De Petruciis, Antonello 315, 1505, 1583

De Petruciis, Giannantonio IX De Robertis, Domenico 1562 De Robertis, Teresa 1589 De Rosa, Luigi 1594 De Ruggiero, Carlo 1361 De Stendal, Alberto 1570 Del Tuppo, Francesco 1570 Delisle, Léopold 1595 Della Rovere, Giuliano v. Giulio II Demetrio Siro 1557 Democrito XXXIV, 15, 759, 1555, 1560, 1567 Demostene 122, 1518, 1551, 158485 Deramaix, Marc 1465 Diana 1501 Diaz de Toledo, Pietro 1599 Diaz Garlon, Pasquale (Pascasio) 1359, 1597, 1599 Dibdin, Thomas Frognall 1590 Didone 1503, 1531, 1562 Diels, Hermann 1555, 1560 Diogene di Sinope 1470, 1474, 1481 Diogene Laerzio 1468, 1470, 147374, 1543, 1576, 1587 Dionisotti, Carlo 1464, 1542 Doglio, Maria Luisa 1350, 1353, 1359-61, 1590-92, 1594-95, 1599 Domiziano, imperatore romano 1561 Donatello 1551 Donato, Elio 1475 Donato, Tiberio Claudio 1509 Duns Scoto, Giovanni 758, 760, 1555, 1570-71

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Eaco XVII, 8-10, 14, 1467-68 Echidna 1490 Efesto 1490 Egidio da Viterbo 643-55, 756, 760, 1350, 1353, 1355, 1539, 1543, 1547, 1566-67, 1591, 1601 Elena di Troia 1490 Eleonora d’Aragona 1350, 1362, 1598-99 Eliogabalo, Antonino 1566 Elisabetta di Castiglia, regina di Spagna 1548 Elisio, Giovan Battista 1570 Emanuele di Portogallo 652 Empedocle XXXV, 1530, 1555, 1575 Enea 122, 1475, 1489, 1491-92, 1499, 1501-04, 1520, 1531, 1575 Ennio, Quinto 1493, 1495, 1533, 1546, 1555, 1562 Enrico IV di Castiglia 1548 Eolo 1528 Epaminonda 1561 Epicuro 759 Epitteto XXIX Eraclito 15, 1555 Erasmo da Rotterdam 7, 312, 1511 Ercole 1490-91, 1501-03, 1507, 1542 Ercole d’Este VIII, 1362 Erimanto 1470 Erinni 1496 Ermes v. Mercurio Ermogene di Tarso LVI, LXXII, LXXVI, 375

Ernout, Alfred 1494 Erodoto 1481, 1536, 1553, 1566 Esculapio 1470, 1481 Esopo 1580 Esperidi 1501-02, 1542 Eugenio IV, papa 1470, 1580 Eumenidi 1496 Euneo 1503 Eurialo 1500, 1503 Euripide 1551 Eutropio LXXIV, 1538 Fabio Massimo, Quinto 1492 Fabio Pittore, Quinto 1531, 1535 Fabrizio Luscino, Gaio 1562 Facio, Bartolomeo VIII, LXXIII, 1575 Falisco, Grazio 1354 Faraglia, Nunzio 1597 Faustolo 1553 Favorino 1487 Fedeli, Paolo 1492 Federico da Montefeltro, duca di Urbino 998, 1587 Federico I d’Aragona, re di Napoli 1484, 1543, 1546, 1554, 1580, 1586, 1598-1601 Federico III d’Aragona, re di Sicilia IX Fedra 1491 Fedro 1557 Fenzi, Enrico 1461 Ferdinando di Castiglia , re di Spagna 1548 Ferdinando I d’Aragona, detto Ferrante, re di Napoli VIII-XI, XIX, LXXII-LXXIII, LXXV, 1611

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LXXVIII, 119, 309, 998, 1349, 1352, 1354, 1357-62, 1373, 1458, 1467, 1480, 1505, 1543, 1563, 1568, 1576-77, 1579, 1582-83, 1587, 1594, 1598-1600 Ferdinando II d’Aragona, detto Ferrandino, re di Napoli IX, 1352-53, 1356, 1359, 1508, 1582, 1598, 1600 Ferdinando il Cattolico, re di Spagna 1548 Ferdinando Vincenzo d’Aragona (Ferrandino), principe di Capua 1598 Ferraioli, Ferdinando 1477, 1491 Ferramosca, Rossetto 1597 Ferrando Gennaro 1516 Ferrante della Cava 1599 Ferrante II 1601 Ferraù, Giacomo 1458, 1465, 1476 Ferrer, Giovanni 1349 Ficino, Marsilio 1472 Fieschi, Ibleto (Ibletto, Obietto) 1600 Figliuolo, Bruno 1350, 1361-64, 1457, 1590, 1595-1600 Filippo V, re di Macedonia 1550, 1557, 1585 Finzi, Claudio 1593 Fiorentino, Francesco 1353, 1431, 1458, 1591, 1601 Floriano, Marco Annio 1558 Fo, Alessandro 1491 Foà, Simona 1484, 1601 Forcellini, Egidio 1486 Forni, Giovanni 1551 Forte, Giulio 1469

Fortunato, Venanzio 1586 Fossati, Felice 1350, 1358, 1363, 1590, 1594, 1596 Fracastoro, Girolamo 122 Fregoso, Paolo 1600 Frison, Chiara 1544 Frontone 1576 Fufidio 1504 Furie 1496 Furio Camillo, Marco 1561 Furlan, Francesco 1459 Furstenberg-Levi, Shulamit 1457 Fusco, Giovanni Vincenzo 1594 Fusco, Giuseppe Maria 1594 Fusco, Salvatore 1358, 1594 Gabotto, Ferdinando 1350, 1358, 1363, 1590, 1593 Gaisser, Julia Haig 16, 1478, 1496 Galatea 1497 Galateo, Antonio 764-65, 1461, 1481, 1483, 1508, 1516, 1554, 1576, 1582, 1585 Galeno 759, 1542, 1553 Galeota, Gualtiero 1547 Galieno 1566 Gallieno, imperatore romano 1550 Gallo, Cornelio 1538 Ganimede 1502 Gareth, Benedetto 1508, 1545 Garghella, Ida 1462 Garin, Eugenio 1458-59, 1575 Gattamelata (Erasmo da Narni) 1551 Gaza, Teodoro 1484, 1490 Gellio, Aulo XIX, LXII, 1465,

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

1472, 1487-88, 1491-92, 1500, 1582 Gemisto Pletone, Giorgio 756, 1498 Gentile, Sebastiano 1589 Geri, Lorenzo 1459, 1467, 1479, 1481, 1509 Gerione 1502 Germanico, Giulio Cesare 1518 Germano, Giuseppe 1523, 1532 Gervasio, Agostino 1351, 1591-92 Giacinto 1472 Giacomo da Mantova (Mantovano) 993 Giacomo IV Stuart, re di Scozia 1600 Giannantoni, Gabriele 1554 Giannone, Pietro 1601 Giannotti, Filomena 1491 Giano 1470, 1540 Giasone 1490 Giovanna d’Aragona 1352, 1598 Giovanna II d’Angiò, regina di Napoli VIII, 1557, 1589 Giovanni d’Angiò VIII, 1587 Giovanni di Colonia 1570 Giovanni di Cunto 1600 Giove 1467, 1470, 1483, 1490-91, 1502-03, 1536, 1577-78 Giovenale, Decimo Giunio XLIV, 1489, 1497, 1558, 1574, 1576, 1578, 1581 Giovio, Paolo 1551 Girolamo, santo 1578 Giscone 1584 Giugurta LXXIX, 1499, 1558 Giuliano (Flavio Claudio) 1561

Giuliano da Spira 1589 Giuliano Saba, santo 1578 Giulio Capitolino 1574 Giulio II, papa XXVIII, 643, 652, 1566, 1598-1600 Giunone 1483, 1504, 1521, 1540 Giunta, Filippo 764, 1003 Giuturna 1502 Golino, Pietro v. Compatre Gonnella, Pietro 998, 1588 Gonzaga, Francesco II, marchese di Mantova 1361, 1542, 1596 Gonzalo Fernández de Cordova v. Consalvo Ferdinando di Cordova Gordiano, imperatore romano 1550 Grassi, Ernesto 375 Grayson, Cecil 1462, 1515 Gregorio Magno, papa 1541, 1552, 1567 Gregorio Tifernate 1578 Gualdo Rosa, Lucia 1364, 1543 Guariglia, Raffaele 1597 Guarino Veronese LXXIV, 37374, 1355 Guérin, Philippe 1458 Guevara, Antonio, conte di Potenza XXX, 764, 1457, 1547 Guevara, famiglia 1586 Guevara, Innico 1461, 1566 Guglielmo di Moerbeke 1463, 1564 Guicciardini, Francesco 1356, 1575, 1591, 1593 Gulyàs, Pál 1590 1613

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Hankins, James 1589 Haywood, Eric 1459, 1507, 151112 Hiempsal 1500 Hosius, Carolus 1492 Hyas 1495 Iacopo di Costanzo 1483 Idra di Lerna 1490 Igino, Caio Giulio 1491-92 Innocenzo VIII, papa VIII, XIX, XXIII, 308, 1352, 1505, 1507, 1568, 1576, 1599-1600 Ipparco di Nicea 1475 Ippocrate 1542 Isabella d’Aragona 1508, 1542, 1600 Isabella di Castiglia, regina di Spagna 1547 Isidoro di Siviglia 1477, 1489, 1548, 1573, 1576 Italiano Pio da Carpi 1597 Kessler, Eckhard 375 Kiefer, Hermann 16 Kristeller, Paul Oskar 1590-92, 1594-95 Laberio 1509 Lachesi 1556 Ladislao I di Angiò-Durazzo, re di Napoli 1483, 1547, 1550, 1600 Ladislao II Jagellone 1600 Lampridio (Lampridius), Elio LXXIV, 1538, 1560, 1566 Lampugnani, Gian Andrea 1493

Latino, re 1489, 1501, 1529 Lattanzio, Lucio Celio Firmiano 1495, 1557 Lauriola, Giovanni 1570 Lauso 1498, 1501 Lavinia 1489 Leda 1490 Leone X, papa 643 Leonida 1561 Leopardi, Giacomo XXVII, XXIX Leostello, Giampiero 1597 Lesage, Claire 1458 Leto, Pomponio 646, 1475, 1541, 1587 Leverotti, Franca 1597 Licaone, re di Arcadia 1577 Licon 1503 Lisandro LXXV Livio, Tito XXII, LIII, LVIILVIII, LXXIII-LXXIV, LXXVI-LXXVII, LXXIX, 374, 1000, 1466, 1484, 1486, 1494-95, 1508, 1518, 1530-32, 1535-38, 1545, 1559-61, 1563, 1573-76, 1579, 1589 Lombardo, Pietro 1570 Longino LVI Lorenzo, (santo) 1557 Lucceio, Lucio 1576 Luciano di Samosata XVI-XVII, XIX, LXXV, 7, 17, 373-74, 379, 998-99, 1459, 1467, 1469-70, 1473, 1573, 1588 Lucilio, Gaio 1469, 1513, 1533, 1557, 1586 Lucrezia 1583

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Lucrezio Caro, Tito XIV, XXII, 648, 762-63, 1475-76, 1489, 1505, 1518-19, 1523-28, 1533, 1542-43, 1546, 1560, 1565, 1579 Luigi d’Aragona 1599 Luigi da Capua 1359 Luigi da Casalnuovo 1599 Luigi da Terzago 1597 Luigi XI, re di Francia 1580 Luigi XII di Valois-Orléans, re di Francia 1360, 1543, 1546, 1548, 1557, 1561-62, 1586 Luigi, duca di Nemours 1548 Lunense, Ippolito 1570 Lupi, Sergio 1002, 1580 Luzio, Alessandro 1361, 1595 Machiavelli, Niccolò XXVIII, 307, 1468 Macro, Emilio 1495 Macrobio, Ambrogio Teodosio XIX, XXXIX, XLII, LXII, 999, 1001-02, 1465, 1476, 148791, 1540, 1578-79, 1586 Mahar 1500 Maharbal 1500 Maia 1475, 1501 Malatesta, Sigismondo 1467, 1484 Malato, Enrico 1457 Malco, anacoreta 1578 Mancinelli, Antonio 1474-75 Mandarini, Enrico 1590, 1592 Manetti, Giannozzo VII, 1472 Manfredi, Michele 1593 Manilio, Marco 756, 762, 1498, 1583

Manthen, Giovanni 1570 Manuzio, Aldo XV, 1351, 1467, 1539, 1543 Maometto II 1490, 1552 Marcello, Marco Claudio 1492, 1561 Marchese, Francesco Elio 154243, 1587 Marco Antonio 1560, 1583 Marco Aurelio 1561 Marcotti, Sabrina 1599 Mariana 124 Mariano Pomicelli da Genazzano 647, 1541, 1566, 1601 Marino, Giambattista 1538 Mario, Gaio (Caio) 1499, 1558 Mariotti, Scevola 1503, 1519, 1523-24, 1528, 1539 Marrocco, Dante 1597 Marsch, David 1458 Marsuppini, Carlo 1355 Marte 1470, 1479, 1503, 1521 Martellotti, Guido 314, 1465, 1517 Marti, Mario 1464 Martino, santo 1473 Martirano, Maurizio 1590 Marullo Tarcaniota, Michele 756, 1498-99 Marziale, Marco Valerio 997, 1469, 1483, 1566, 1581 Marziano Capella, Minneo Felice 1472, 1522, 1575 Massimiano 1538 Massimiliano 1354 Massimilla, Edoardo 1590 Massimino, Caio Giulio Vero 1550, 1558, 1560 1615

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INDICI

Massobrio, Lorenzo 1511 Masuccio Salernitano XVIII, 15, 1478 Mattia Corvino (Matyas Hunyadi) 1550, 1577 Mayr, Sigismondo 313-14, 375, 653-54, 763-64, 1349, 1458, 1466, 1554 Mazzatinti, Giuseppe 1591-92 Medici, Cosimo de’ 1584 Medici, Lorenzo de’, il Magnifico 1362, 1568, 1599 Medici, Piero de’ 1568, 1600-01 Mellidi, Carla 1475 Menetti, Elisabetta 1466 Meola, Gian Vincenzo 1356, 1591 Mercurio XVI-XVII, 10, 12-14, 1469-70, 1472-73, 1475-77, 1501, 1536 Mesefilo 1539 Metabus 1503 Mevio 1538 Mezenzio 1489, 1498-99, 1501-03, 1520, 1522 Michiel, Marcantonio 1601 Micipsa, re di Numidia 1500 Milone di Crotone 1468, 1568 Minieri Riccio, Camillo 1352, 1357 Minosse XVII, 8-10, 12, 1459, 1467-68 Mitridate, re del Ponto 1558 Molone 1557 Momo 1470 Monfasani, John 1464 Monti Sabia, Liliana 16, 136062, 1364, 1457-58, 1474, 1477,

1484, 1499, 1539, 1543, 1546, 1590, 1593, 1595, 1598-99 Monti, Salvatore 314, 1457-58, 1467, 1472, 1488, 1507-08, 1510, 1538, 1544, 1595-96 Moravo, Mattia 15, 127, 1458, 1469, 1472, 1479, 1482-83 Moreschini, Claudio 872, 1556 Mosca dei Lamberti 1479 Mosè 1552 Mummio, Lucio 1492 Münzer, Fabius 1530 Muse X, 646-48, 651, 1501, 1508, 1540, 1589 Napoli Signorelli, Pietro 1551 Narducci, Enrico 1591, 1601 Narducci, Luigi 1353 Nauplio 1475 Nauta, Lodi 1464 Nemasiano 1354 Nerone, imperatore romano 1526, 1546, 1561 Nettuno 1526 Niccoli, Niccolò 1471, 1497 Niccolò V, papa XXXII, 1470, 1484 Niccolò, marchese d’Este 1588 Nicolini, Fausto 1508 Nifo, Agostino 1516 Nifo, famiglia 1545 Nigidio Figulo, Publio 1508 Nigro, Salvatore S. 1478 Niso 1503 Nonio 1574 Numitore 1553 Nunziante, Emilio 1351-52, 1591

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Nuovo, Isabella 1548, 1577 Nursia 1501 Nuti, Giovanni 1601 Oeschger, Johann 1361, 1595, 1601 Olgiati, Girolamo 1493 Omero LXXI, 122, 1467, 1469, 1487, 1490-93, 1540 Onofrio, eremita 1578 Orazio Flacco, Quinto XLV, 124, 311, 1355, 1472-73, 1475, 1483, 1487, 1493, 1497, 1501, 1505, 1509-10, 1518, 1524-26, 1529, 1532, 1535-36, 1538, 1540, 1543, 1546, 1560, 1562, 1567, 1572, 1575, 1577, 1579, 1581, 1585, 1601 Ordine, Nuccio 316, 766, 1459 Orfeo 1490, 1543 Orosio, Paolo LXXIV, 1538, 1558, 1563 Orsini, Giovan Giordano 1599 Orsini, Giovanni Battista 1598 Orsini, Girolamo 1597 Orsini, Niccolò 1599 Orsini, Orso 1599 Orsini, Vicino 1597 Orsini, Virginio 1352, 1363, 15981600 Ottaviano Augusto, Caio Giulio Cesare, imperatore romano 1559-61, 1577 Ovidio Nasone, Publio XIV, XXII, LX, 762-63, 999-1000, 1354, 1472, 1482, 1490, 1495, 1497, 1499, 1504-05, 1529,

1542, 1544, 1549-50, 1560, 1573-77, 1580, 1587 Padolfini, Agnolo 1574 Paganelli, Dario 1492 Pallade 1470, 1495, 1502 Palladino, Luigi 1353 Pallante 1498 Pallavicino, Antonio 1599 Palma di Cesnole, Alessandro 1590 Palma, Marco 1570 Pandone, Camillo 1359 Panormita, Antonio VIII, X, XVI, XIX-XX, XLVII, LXXIILXXIV, 15, 119-22, 124-26, 998, 1001, 1350, 1354-55, 1459, 1466, 1470, 1476-77, 1480-81, 1498, 1513, 1529, 1532, 1538, 1543, 1557, 1575, 1578, 1584, 1588, 1592, 1596 Paolella, Alfonso 1358-59, 1594 Paolo di Tebe, eremita 1578 Paolo II, papa 1484 Paolo, Lucio Emilio 1492, 1550 Parche 1520, 1556 Pardo, Giovanni 310, 645, 648, 650, 764-65, 1480, 1508, 1513, 1516, 1528-29, 1554, 1564, 1576 Parmenide 1554-55 Parrasio 1541 Partenope XII, 1509, 1540 Pascasio, Decio 1359 Pasolini, Pier Desiderio 1363, 1596 Pasquali, Giorgio 1509 1617

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INDICI

Patrizi, Francesco 375 Patroni Griffi, Filomena 1597 Patulci 646 Pausania 1561 Pedersen, Johannes 1482 Pedro Fernández de Aguilar 1547 Pellegrini, Marco 1600 Pelopida 1561 Pépin, Roger 1494 Percopo, Erasmo 1352-56, 136163, 1457-59, 1474, 1508, 1539, 1545, 1590-93, 1595-96, 15991601 Pericle LXXV Perseo, re di Macedonia 1492, 1550 Persico, Tommaso 1600 Persio 1579, 1581 Pertinace, Publio Elvio, imperatore romano 1574 Peto, Francesco 1539, 1547, 1587 Petrarca, Francesco X, XXVI, XXIX, XXXI, XXXIX-XLV, LXIV, LXXIV, 759, 1460-61, 1464, 1573, 1578, 1585, 1593 Petreio, Marco 1500 Petronilla 1545 Petronio Arbitro, Gaio 121, 1478, 1511, 1525, 1534 Petrucci, Antonello 1506, 15991600 Petrucci, Franca 1596, 1598-1600 Piccinino, Jacopo 1467 Piccinino, Niccolò 1467, 1587 Piccolomini, Antonio 1597 Piccolomini, Silvio 1466 Pico della Mirandola, Giovanni

755-56, 759, 764-65, 1546, 1552, 1564, 1567-68 Pietro di Alvernia 1556 Pietro III d’Aragona, re di Sicilia 1588 Pindaro LVI, LXII-LXIII, 122, 1465, 1482, 1487-88 Pinto, Francesca de 1596 Pio II, papa 1466, 1484 Pirene 1501 Piritoo 1491 Pirri, Pietro 1353, 1592 Pirro, re dell’Epiro 1492, 1499, 1501, 1558, 1562, 1589 Pirrone di Elide 1567 Pisanello, Vito 1580 Pisone, Gaio Calpurnio 1535 Pitagora 764, 1468-69 Platone XIX, LXX, 121, 757-59, 763, 1459, 1469, 1471, 1473-74, 1495, 1518, 1553-56, 1560, 1567-68, 1571, 1588 Plauto, Tito Maccio XX, XXIIIXXIV, 999-1000, 1459, 1467, 1469, 1473, 1477-80, 1483, 1485-86, 1495, 1497, 1501-02, 1505-06, 1509-13, 1515, 152729, 1533-34, 1536, 1540-41, 1545, 1558, 1565, 1572-86 Plebe, Armando 1465 Plinio il Giovane 1495 Plinio il Vecchio 1470, 1472, 149596, 1517-18, 1533, 1576 Plutarco LXXIX, 123, 759, 1473, 1490, 1500, 1504, 1519, 1539, 1546, 1551, 1558-62, 1569, 1578, 1580, 1583-85, 1587-89

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Plutone 12, 1487 Poderico, Errico (Enrico) XXII, LI, 120, 126, 1516, 1539, 1564, 1601 Poderico, Francesco 371, 376, 644, 648-49, 651, 1483, 1497, 1516, 1584, 1601 Poeto, Francesco 643 Polifemo 1497, 1503-04 Poliziano, Agnolo (Angelo) LXI, 646, 1483, 1497, 1502, 1541, 1583 Pollione, Trebellio 1550, 1566 Polluce 1490, 1510 Pomona 1574 Pompeo Magno, Gneo 123, 1560, 1584 Pomponazzi, Pietro XXXVI Pomponio, Giulio 1583 Pontano, Eugenia 1543 Pontano, Giacomo 1352, 15991600 Pontano, Lucia Marzia XII Pontano, Lucio XIII, 121, 125-26, 647, 1461, 1587 Pontano, Tommaso 758, 760-61, 1592-93 Pontieri, Ernesto 1359, 1363, 1594, 1596, 1599 Ponzio 1503 Porro, Pasquale 1565 Porzio, Camillo 308-09, 1459, 1507 Posidonio 1554 Prassicio, Luca 1516 Prassicio, Paolo 369, 376, 1516-17, 1539

Previtera, Carmelo 16, 127, 31415, 375, 654-55, 1458-59, 1468, 1482, 1510, 1512, 1517-18, 1520, 1526 Priamo 1499 Prigogine, Ilya 1459 Prisciano 1494, 1519, 1565 Prizer, William E. 1363, 1596 Properzio 1483, 1497 Proserpina 1487 Pseudo-Aristotele XVIII Pseudo-Cicerone 1495 Pseudo-Plutarco 759, 1555 Publilio Siro 1509, 1588 Pucci, Dionigi 1362, 1601 Pucci, Francesco 645-46, 651, 1492, 1502, 1539, 1541 Puglia, Enzo 1594 Pulci, Luca 1489, 1511 Pupieno Massimo, Marco Clodio, imperatore romano 1550 Pyrene 1501 Quintiliano, Marco Fabio XXI, XXXIX, XLVI, XLIX, L-LI, LV, LX, 122, 126, 373, 1464, 1485-86, 1495, 1499, 1519, 1531, 1536, 1555, 1568, 1573, 1575, 1582-85, 1587-88 Rackmann, Harris 1494 Radamanto 1467 Rea Silvia 1552-53 Regoliosi, Mariangela 1462, 1466, 1567 Remo 1495, 1501-03, 1553 Renato d’Angiò VIII, 1587, 1589 1619

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INDICI

Renato II, duca di Lorena 1505, 1597, 1600 Renier, Rodolfo 1361, 1593, 1595 Resta, Gianvito 1466, 1538, 1592, 1596 Reumont, Alfred 1359, 1594 Riario, Girolamo 1597 Rinaldi, Michele 1361, 1465, 1539, 1589, 1595 Risicato, Antonino 1002, 1580 Roberto d’Angiò X Robiglio, Andrea Aldo 1562 Romolo 1495, 1499, 1501-02, 155153 Roscio Gallo, Quinto 1532 Rosmini, Carlo de’ 1355, 1592 Rosselli del Turco, Carlo 1354, 1362, 1592, 1595 Rossetto Ferramosca da Capua 1597 Rossi, Vittorio XX, 1460 Rovarella, Bartolomeo 1589 Ruggio, Benedetto 1353, 1597 Ruini, Roberto 1597 Russo, Enza 1599 Sabbadini, Remigio XX, 1355, 1459, 1475, 1483-84, 1592 Sabellico (Marco Antonio Coccio) 993 Sacchetti, Franco 1588 Sallustio Crispo, Gaio XXII, LIII, LVII-LVIII, LXXIV, LXXVI-LXXVII, LXXIX, 11, 374, 1495, 1500, 1502, 1518, 1524, 1530-32, 1547, 1575, 1577

Salutati, Coluccio XXXI, XXXV, 759, 1461, 1465 Salvo Cozzo, Giuseppe 1593 Sambuco, Giovanni 1003, 1351, 1590 Sannazaro, Iacopo X, XXIIXXIII, LX, LXVII, LXXVII, 309, 369, 763, 1003, 1349, 1350-51, 1354, 1461, 1465, 1478, 1483, 1499, 1501, 150809, 1516, 1538, 1540, 1542-45, 1547, 1587, 1590, 1601 Sanseverino, Antonello 1600 Sanseverino, Giovan Francesco 1352 Sanseverino, Roberto 1577, 15971600 Santoro, Mario 1541, 1595 Sarpedone 1522 Savonarola, Girolamo 1541, 1568, 1575-76, 1578 Scarampi, Luigi 1470 Scarano, Emanuella 1593 Scarfi, Martino 1581 Schiappoli, Irma 1598 Scipione Africano, Publio Cornelio XL, LXXIV, 8, 1513, 1530, 1560, 1566, 1578, 1589 Scipione Emiliano, Publio Cornelio 1492, 1561 Scorciatis, Giulio de 1599 Scorza, Gian Galeazzo 1597 Sebeto XII, 1508 Segnizio 1514 Segnizzo 1514 Seneca, Lucio Anneo XXXI, XXXIII, 759, 1461, 1467, 1469,

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

1534, 1546, 1549, 1557, 1559, 1571, 1574, 1579 Senofonte VII Seripando, Antonio 1541 Seripando, Gerolamo 1547 Serra, Luigi 1351-52 Sertorio, Quinto 121, 123, 148788, 1498-1500, 1503-04, 1551 Servio 1488, 1500 Settembrini, Luigi 379, 1469 Settimio, Lucio 1560 Severo, Cornelio 1499 Sforza, Ascanio Maria 1600 Sforza, Francesco Maria 1557, 1585, 1588 Sforza, Galeazzo Maria 1493, 1557 Sforza, Gian Galeazzo 1360, 1594-95, 1598 Sforza, Ippolita Maria 1358, 1361, 1600 Sforza, Ludovico il Moro 1360, 1362, 1557-58, 1562, 1595, 1597, 1600 Sforza, Muzio 1551 Shaw, Christine 1599 Sibilla cumana 1491 Sidonio Apollinare, santo 1485 Sileno 1484 Silio Italico 1501 Silla, Lucio Cornelio 1500, 1504, 1518-19, 1531, 1535, 1558 Silvia 1489 Simonetta, Marcello 1593 Sincero, Azio v. Sannazaro, Iacopo Sirene XXV, 646, 1540 Siscar, Paolo 1598

Sisenna, Lucio Cornelio 1531, 1535 Sisto IV, papa VIII, 1597 Socrate 998, 1469, 1480, 1517, 1541, 1559, 1588 Soldati, Benedetto 1457, 1520, 1595 Solimena, Giacomo 1601 Solone 9, 1469 Spagnoli, Giovan Battista 1458 Spencer, George John Earl 1351, 1590 Sperandeo, Girolamo 1597 Stanga, Antonio 1600 Stasi, Beatrice 1466 Stazio, Publio Papinio 1539 Stella XII Strozzi, Filippo 1361 Strozzi, Simone 1362 Strozzi, Tito Vespasiano IX Suardo, Suardino 643, 1350, 1354, 1539-40, 1587, 1589 Succi, Egidio Francesco 1592 Suffeno 1578 Summonte, Pietro XVI, 308, 313, 315, 375-78, 649, 652-54, 76364, 993, 1002-03, 1349, 1354, 1457, 1459-60, 1483, 1508, 1514-19, 1521, 1523, 1528-29, 1531-32, 1538-39, 1543-45, 1548, 1554, 1556, 1558, 1560, 1562-68, 1572, 1575, 1578, 1583-85, 1587-89 Suppazio XVI, XXI, 121, 124-26, 312, 1001, 1476, 1578 Suttina, Luigi 1353 Svetonio Tranquillo, Gaio 1621

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INDICI

LXXIV, 1468-69, 1475, 1482, 1493, 1533, 1538, 1546, 1552, 1559, 1566, 1577-78 Tacito, Publio Cornelio LXXIVLXXV, 1464, 1488, 1517-18, 1533, 1535, 1538, 1558, 1561, 1578 Tafuri, Michele 1351, 1355, 1592 Taide 1566 Talete 1554-55 Tallarigo, Carlo Maria 1354, 1356, 1359, 1591-92, 1594 Tamira, Pietro 645, 1541 Tarquinio 1583 Tasso, Torquato 1480 Tateo, Francesco VII, 5, 117, 305, 367, 641, 753, 991, 1455, 145758, 1460, 1462, 1465, 1478, 1480, 1497, 1516 Taverna, Stefano 1362, 1601 Teano 1476 Telesina 1497 Teodorico, re degli Ostrogoti 1477 Teodosio il Grande, imperatore romano 1563 Terenzio Afro, Publio 1000, 1478, 1480, 1497, 1514, 1516, 1565-66 Tertulliano 1489 Terzoli, Maria Antonietta 1466 Teseo 1459, 1491 Teti 1490 Thorndike, Lynn 1571 Thot 1472 Tibullo, Albio 1475, 1516, 1572, 1589

Tifone 1490 Timande 1566 Timone 1575 Tindaro 1490 Tiraboschi, Girolamo 1355 Tiresia 1470 Tolomeo I Sotere 1566 Tolomeo XIII 1577 Tolomeo, Claudio XVII, 756, 759, 762, 1566, 1568-69, 1571-72 Tomacelli, Marino 648, 1543, 1597 Tomarozzi, Tranquillo 1541, 1587 Tommaso d’Aquino, santo XXXIII, XXXV, LXIX, 75758, 760-61, 1461, 1463-64, 155657, 1562-65, 1568, 1570-71 Tommaso da Celano 1589 Tommaso, apostolo 1468 Toomaspoeg, Kristjan 1598 Torraca, Francesco 1356, 1591, 1593 Torre, Andrea 1464 Traiano, imperatore romano 1561 Tramontano, Gian Carlo 1359 Trapezunzio, Giorgio XIV, LXXII-LXXIII, LXXVI, LXXVIII, 122, 373-74, 762, 1466, 1493 Traversari, Ambrogio 1543 Tresser, Giovanni 1572 Trevisan, famiglia 1470 Trevisan, Paolo 1600 Trinchera, Francesco 1350, 1357, 1589-90 Tripodi, Claudia 1600 Trismegisto, Ermete 13, 649, 1472, 1545, 1568

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INDICE DEI NOMI CITATI NELLE INTRODUZIONI E NELLE NOTE

Tritonia Pallas v. Pallade Trivulzio, Gian Giacomo 1362 Trivulzio, Teodoro 1597 Trogo, Pompeo 1538 Troth, Bartolomeo 16 Trotti, Giacomo 1597 Tucidide LXXV Turno, re dei Rutuli 1489, 1492, 1498, 1500, 1502-04, 1520 Untersteiner, Mario 1555 Valentino (Cesare Borgia) XXVIII Valeriano, Publio Licinio, imperatore romano 1550 Valerio Massimo XXXVIIIXXXIX, XLI, XLIII, XLVI, 1001, 1561, 1572, 1584 Valerio Publicola, Publio 1561-62 Valla, Lorenzo VII, XLVIII, LXXII, LXXV-LXXVI, 119, 1465-66, 1475-76, 1484, 1486, 1494, 1517, 1566, 1568, 1575 Valla, Pietro Salvatore 1349 Vannucci, Guido 1586 Várady, Imre 1590 Vario, Quinto 1500 Varotti, Carlo 1466 Varrone, Marco Terenzio 647, 1000, 1478, 1482, 1514, 1540, 1542 Vasoli, Cesare 1457, 1562 Vecce, Carlo 1354, 1590, 1592

Venere 1470, 1503, 1512, 1543, 1573 Vercellese, Bernardino 16 Vertumno 1000 Villani, Gianni 1457 Virgilio Marone, Publio XII, XXII, LVI, LXII-LXIII, LXVI-LXVII, LXXI, 121-22, 370, 648, 762-63, 1465, 1470, 1475, 1477, 1483, 1486-89, 1491-93, 1495, 1499, 1500-05, 1509, 1520, 1522, 1524-25, 1528-29, 1533-34, 1538, 1540, 1543, 1552-53, 1562, 1583 Visconti, Bianca Maria 1557 Visconti, Filippo Maria 1467 Vismara, Silvio 1567 Vito, santo 1481 Vitruvio Pollione, Marco 1494, 1576 Volpicella, Scipione 1357 Volpicella. Luigi 1350, 1357, 1589 Von Pastor, Ludwig 1596, 15981601 Vopisco, Flavio 1558 Vossius 1586 Walser, Ernst 1001 Walter, Ingeborg 1598 Wheatley, Guglielmo 1556 Zeus v. Giove Zippel, Gianni 1486

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Indice dei nomi citati nei testi

Acca Laurenzia 793 Aceste 89 Achille 195, 207 Adelfasia 1031 Aderbale 591, 1069 Agamennone 209 Agatocle, re di Siracusa 785 Agostino d’Ippona, santo 421, 679, 747, 1447 Agricola, Gneo Giulio 863 Agrippa, Marco Vipsanio 1313, 1333 Aiace Oileo 465 Aiace Telamonio 1105 Alberto Magno 1329 Albidio 1279 Albino, Giovanni, abate 1394-98 Alcibiade 1313 Alcmena 1185 Alcmeone 293 Alcone 247, 295 Alessandro 79, 197, 199, 1131, 1269, 1333 Alessandro Severo, imperatore romano 859, 1065, 1099

Alfeo 675 Alfonso II d’Aragona, re di Napoli 321, 1225, 1249, 1253, 1273, 1277, 1281, 1291, 1307, 1309, 1329, 1339, 1374, 1376, 1382, 1412, 1434, 1437 Alfonso V d’Aragona, detto il Magnanimo, re d’Aragona e di Napoli 139, 323, 1055, 1135, 1181 Alighieri, Dante 163 Almone 265 Altilio, Gabriele 273, 285, 289, 333, 335, 339, 341, 343, 345, 365, 389, 525, 531, 547, 555, 567, 619, 621, 625, 681, 691, 701, 707, 709 Amarilli 247 Amata 191 Amicle 299 Amintore 291 Ammiano Marcellino 573 Ammone 291, 1131 Amulio 793 Anassagora 799 1625

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INDICI

Anchise 89, 207, 209, 515, 679 Anco 289 Andragora 1279 Andromeda 441 Androne 265 Anfione 1111 Anfitrione 1185 Anio 261, 265 Anito 1313 Annibale 149, 197, 537, 539, 547, 549, 575, 583, 589, 591, 595, 599, 609, 611, 613, 839, 859, 1067, 1129, 1253, 1333 Annone 411, 589, 601 Ansere 289 Antimaco di Colofone 413 Antiniana 665 Antioco II, re di Siria 409, 1333 Antiquari, Jacopo 1394, 1399 Antistene 1076 Antonello da Forlì 1221 Antonio del Deserto, abate 1137 Anziate 547, 549 Apicio 1195 Apollo 335, 855, 1187 Appio 1231 Apuleio 49 Aquosa, Masio (Mario) 1135, 1241 Aragne (Aracne) di Meonia 246 Arato 535 Arione 337, 351 Ariovisto 227 Aristotele 31, 47, 49, 143, 401, 415, 420-21, 423, 441, 691, 713, 741, 773, 783, 789, 797, 799, 801, 849, 947, 949, 1037, 1039, 1041, 1053, 1059, 1065, 1093, 1109,

1111, 1113, 1115, 1137, 1141, 1225, 1325, 1327 Arpie 51, 231, 543 Arsacidi, famiglia 785 Arunte 261, 263 Ascanio 213, 631 Asdrubale Barca 575 Asparre 277 Assaraco 287 Atena 207 Atlante 89, 261, 281, 441 Atrebate 1287, 1289 Atropo 811 Attico 403, 409, 411, 413, 415 Attore 261 Augusto, imperatore romano 1085, 1163, 1253, 1269, 1271, 1275, 1313, 1333 Aurelio 967 Bacco 321, 327, 329, 343, 1223 Balbo 411 Bancio di Nola 1027, 1081 Barnaba 1241 Basilio di Cesarea, santo 1109 Basso 287 Bavio 623 Beccia 255, 259, 261 Bellanti, Lucio 945, 947 Bendedei, Nicolò 1383, 1386-90, 1392 Bernardino da Siena, frate 1133, 1269 Biante 293 Bior 299 Birse Tritonia v. Pallade Bisuldunio, Pietro 41

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

Blanca 137 Boccaccio, Giovanni 1027, 1319 Bocco 299, 593 Boezio, Severino 95, 153, 691, 809 Borisco 263, 265 Bosinate, Paolo 929 Bostar 261, 265 Bostione, re 227 Brancaccio, Marino 1223 Bruto, Marco Giunio 413, 507, 849, 1131, 1141 Caieta 89 Calcidio 811, 817 Caldora, Giacomo 1339 Calenzio, Elisio 151, 711, 1448 Callezia 139 Calliope 351 Camilla 513 Camillo 277, 865 Canio, Caio 1227, 1229 Caracciolo, Tristano 701, 1247 Carbone, Girolamo (Gerolamo) 691, 693, 701, 737, 1247 Cariteo 257, 261, 333, 335, 337, 365, 711, 715, 717, 721, 737, 1231, 1233, 1285 Carlo VIII, re di Francia 867, 929, 1177, 1225 Carlo, re di Napoli 179 Caronte 21, 23, 25, 27, 29, 31, 33, 41, 43, 45, 47, 49, 51, 53, 55, 57, 59, 67, 69, 71, 73, 75, 77, 79, 81, 87, 95, 97, 99, 101, 103, 105, 107, 109, 111, 113, 335 Carrasio, Rodrigo 1183 Castore 195, 1109

Cataldo, santo 1139 Catilina, Lucio Sergio 265, 267, 269, 577, 581, 589, 599, 607, 1117 Catone, Marco Porcio detto Uticense 363, 567, 587, 727, 729, 885, 1063, 1279, 1311, 1337 Catone, Marco Porcio, detto il Censore 37, 1039 Catullo, Gaio Valerio 429, 1135, 1341 Catulo, Quinto Lutazio 255, 257 Cazio 291 Ceciliano 1189, 1191 Celio Antipatro, Lucio 547, 549, 567, 1231 Celso 225 Cepione, Quinto Servilio 595 Cerbero 115, 149, 241 Cesare, Gaio Giulio 91, 193, 197, 199, 207, 211, 213, 225, 227, 229, 589, 619, 849, 859, 863, 887, 1023, 1099, 1119, 1121, 1129, 1169, 1191, 1241, 1251, 1253, 1281, 1440-41 Cetego 285, 289, 291 Chimera 201, 203 Cianea 289 Cibele 629 Cicerone, Marco Tullio 151, 153, 155, 157, 161, 163, 171, 193, 195, 197, 217, 221, 227, 229, 389, 397, 403, 405, 407, 409, 411, 413, 415, 437, 451, 507, 521, 525, 535, 547, 549, 555, 559, 567, 571, 573, 577, 587, 611, 613, 621, 623, 1627

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INDICI

635, 665, 721, 747, 783, 803, 813, 819, 877, 935, 947, 955, 1015, 1023, 1035, 1037, 1053, 1063, 1099, 1107, 1123, 1129, 1133, 1171, 1197, 1199, 1203, 1205, 1227, 1229, 1231, 1235, 1237, 1239, 1241, 1251, 1256, 1263, 1265, 1267, 1277, 1279, 1281, 1293, 1311 Cicuro, Antonio 1305 Cillaro 337, 349, 351, 353 Cincinnato, Quinzio 865 Cinna 1191, 1195 Claudiano, Claudio 173, 175, 417, 461, 889 Claudio Cieco, Appio 1085 Cleopatra 859 Clodio Pulcro, Publio 409 Cloto 811 Colocci, Angelo 925, 1231, 1249, 1323 Colonna, Prospero 1183 Columella, Lucio Giunio Moderato 221, 563, 697 Compatre (Pietro Golino) 131, 135, 137, 139, 141, 143, 151, 161, 209, 237, 275, 387, 389, 401, 403, 405, 415, 555, 567, 663, 1233, 1247, 1249, 1335, 1343, 1448 Consalvo Ferdinando di Cordova 769, 771 Contrario, Andrea 151 Convittolitave 227 Corace 289 Corbulone, Domizio 863 Coribante 269

Cornelii, famiglia 591 Corvino, Marco Valerio 257, 261, 785, 867, 1079 Cosimo 1221, 1249, 1259 Cosso 291 Coto 227 Crantore 1111 Crasso, Lucio Licinio 339, 1239, 1241, 1255 Cratete di Tebe 45, 77, 81 Creso 935 Crisippo 807, 1111 Cupido 631 Curio Dentato, Manlio 207 Curzo Rufo, Quinto 619 David 1137 De Ruggiero, Carlo 1416, 1432 Deifobo 433 Deiotaro 1239 Democrito 805, 855, 1129 Demostene 1253, 1269 Diana 253 Diogene di Sinope 45, 77, 79 Diomede 195, 199 Dite 149 Dolabella, Publio Cornelio 409, 1023 Domenico, santo 389 Domiziano, imperatore romano 1121 Duns Scoto, Giovanni 961, 971, 1127 Eaco 21, 23, 25, 27, 33, 35, 37, 43, 55, 57, 59, 61, 65, 81, 83, 85, 87, 115 Egeone 463

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

Egidio da Viterbo 659, 667, 675, 691, 737, 747, 749, 939, 1445-47 Elena di Troia 47 Eleonora d’Aragona 1400-02, 1406, 1408, 1415, 1421, 1426 Elice 265 Eliogabalo, Antonino 935 Elisabetta di Castiglia, regina di Spagna 769 Empedocle 535, 637, 805, 1075 Encelado 185 Enea 89, 175, 179, 189, 191, 199, 201, 203, 205, 207, 209, 211, 213, 431, 435, 537, 539, 543, 629, 631, 679, 1027, 1109 Ennio, Quinto 215, 233, 453, 883, 1285 Enosio 89 Eolo 465, 631, 825, 889 Epaminonda 863 Epicuro 1053 Eraclito 807 Ercole 199, 205, 551, 1109, 1153, 1271, 1311 Ercole d’Este 1374, 1383, 1389, 1390-91, 1421 Erinni 635 Ermocrate 1279 Ernico 253, 281 Erodoto 549, 1371 Esculapio 137, 1187 Esopo 1109, 1207 Esperidi 275 Eudemone 355 Euforbia 149, 151 Eumenidi 241 Eutichio Sabino 921, 923

Evandro 1027 Evarchide 283 Fabiano 1195 Fabio 265 Fabio Massimo, Quinto, detto il Temporeggiatore 207, 605, 1081, 1099 Fabio Pittore, Quinto 547, 567 Fabrizio Luscino, Gaio 871 Fabullo 1189, 1197 Falisco 287 Fauno 257, 279, 537 Faustino 1279 Faustolo 793 Favorino 173, 179, 185, 187 Febo 277 Federico I d’Aragona, re di Napoli 707, 1183, 1225, 1283, 1285, 1303 Federico d’Urbino 1289, 1291, 1339 Fedromo 1083 Ferdinando di Castiglia, re di Spagna 769, 1139 Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli (Ferrante) 911, 1103, 1121, 1135, 1139, 1223, 1225, 1231, 1285, 1287, 1291, 1307, 1322, 1339, 1373, 1379, 1393, 1403, 1408, 1411, 1414-17, 1422, 1424, 1427, 1432, 1439 Ferdinando II d’Aragona, re di Napoli (Ferrandino) 1439 Feronia 297 Ferrando Gennaro 389, 391, 393, 395, 397, 465 1629

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INDICI

Ferrer, Giovanni 1371-72 Ferrillo, Mazzeo 1378 Fidelfo, Francesco 1269 Filisto di Siracusa 571 Filone 409 Filopemene 595, 1309, 1311 Filosseno 1069 Floriano Augusto (Marco Annio Floriano) 835 Focione 1207 Francesco Aretino (Francesco Accolti) 1331 Francesco lo Spagnolo, frate 235, 1139 Francesco, santo 1137, 1339 Fronteio 265 Frontonilla 147 Furie 149, 463 Galatea 245 Galateo, Antonio 1087 Galeno 797, 799 Galieno 935 Gallucci, Lucio 1448 Galluccio, Elisio v. Calenzio, Elisio Garamantide 279 Gaspare Ravennate 1137, 1139 Gattamelata (Erasmo da Narni) 785 Gaza, Teodoro 911 Gellio, Aulo 173, 177, 179, 185, 207, 209, 1287 Geminio, Servilio 1281 Gerione 329 Germanico, Giulio Cesare 407 Gerolamo di Ferrara v. Savonarola, Gerolamo

Giacomo da Mantova 1006 Giano 1341 Giovanna d’Aragona 1411 Giovanni Anacoreta 889 Giovanni d’Angiò 1287, 1323 Giove 43, 95, 147, 205, 215, 241, 275, 297, 419, 465, 507, 523, 541, 629, 673, 763, 963, 965, 967, 977, 1107, 1131, 1185, 1309 Giovenale, Decimo Giunio 91, 193, 1033, 1045, 1077, 1125, 1255 Giscon di Siracusa 299 Giscone 1253 Giugurta 535, 537, 551, 573, 575, 589, 593, 595, 599, 1067, 1069, 1253 Giulia Maggiore 1313, 1333 Giuliano Augusto (Flavio Claudio Giuliano) 863 Giunone 191, 205, 463, 465, 519, 539, 631 Glauco 515 Gonnella, Pietro 1313, 1315, 1317 Gonzaga, Francesco II, marchese di Mantova 1408, 1442-44 Gracco, Tiberio Sempronio 601 Gregorio Magno, papa 943 Gregorio Tifernate 1277 Guevara (Gevara), Fernando 1285 Gulussa Libico 299 Iarba 287, 289 Iasio 289 Iempsale 261, 265, 267, 1069 Igino, Caio Giulio 205, 207, 209 Imbrasio di Narni 295

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

Innocenzo VIII, papa 323, 341, 389, 945, 1103, 1410-11, 141617, 1422 Iopa 289 Ipparco di Nicea 89 Ippolito 207 Ipsenore 293 Ipseo 287 Iscone 299 Ispone 299 Istro 289 Labeon 265 Laberio 343 Labullo 293 Lachesi 811 Ladislao I di Angiò-Durazzo, re di Napoli 143 Lalage 247 Larzio 277 Latino, re 191, 467, 537 Lattanzio, Lucio Celio Firmano 227 Laufeno 265 Leonida 863 Lepido 287, 405, 1023 Lesbia 1193 Libisco 265 Licaone, re di Arcadia 1109 Licon (Licone) 273, 285, 289, 291 Licori 1195 Lierte 293 Ligure 287 Lirineia 247 Livio, Tito 163, 197, 411, 535, 537, 539, 541, 545, 547, 553, 555, 573, 575, 577, 581, 583, 589,

591, 595, 599, 601, 603, 605, 607, 609, 611, 613, 619, 743, 861, 1027, 1069, 1079, 1081, 1083, 1099 Lodivio 1335 Lollia Paolina 411 Lorenzo, (santo) 883 Luceio 1099 Luciano di Samosata 1319 Lucilio, Gaio 1231 Lucio Manlio 1281 Lucio Valerio 605 Lucrezio Caro, Tito 91, 227, 455, 469, 475, 477, 481, 487, 489, 491, 497, 503, 507, 509, 513, 559, 565, 637, 695, 699, 719, 859, 1231 Lucullo, Lucio Licinio 421, 1311 Luigi XI, re di Francia 1177 Luigi XII di Valois-Orléans, re di Francia 707, 731, 867, 1177, 1285, 1451 Luigi, duca di Némours 769 Luscola 1281 Maarbale 261, 265, 1067 Maar 261, 265 Macro, Emilio 227, 299 Macrobio, Ambrogio Teodosio 189, 193, 197 Maia 87 Malco, anacoreta 1137 Mamerco Capretano 923 Manilio, Marco 637 Manlio, Gaio 255, 409, 579 Manlio Capitolino, Marco 595 Manuela 1193 1631

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INDICI

Marcello, Marco Claudio 207, 609, 863, 1027, 1081 Marchese, Francesco Elio 701, 703, 707, 1303 Marco Antonio 859 Marco Fundanio 605 Marco Marcello Livio 1081 Marianna 147 Mariano Pomicelli da Genazzano 665, 667, 675, 939 Marica 537 Mario, Gaio (Caio) 255, 553, 579, 593, 603, 605, 609, 837, 1085, 1169, 1267 Maron (Marone) 262-63, 271 Maroniade 287 Marso 273 Marso, Domizio 339, 1265 Marte 103, 273, 283, 287, 291, 441, 537, 545 Martino, santo 71 Marullo 253, 281 Marzia 961 Marziale, Marco Valerio 1189, 1197, 1203, 1279, 1287 Marzio 591 Masinissa 441, 539, 591, 1069 Massimiano 623 Massimiliano 1195 Massimino Augusto (Massimino il Trace) 785, 835 Mattia Corvino 785, 867 Mecillo 291 Medici, Cosimo de’ 1221, 1249, 1259 Medici, Lorenzo de’ 1381-82, 1395, 1417-18

Mela 257, 259 Menicello 87, 93, 95 Meonie 263 Mercurio 33, 39, 41, 43, 45, 47, 49, 51, 53, 55, 57, 59, 61, 65, 67, 69, 71, 73, 75, 81, 83, 85, 87, 89, 91, 93, 95, 113, 115, 631, 943, 967, 1225, 1227 Metello 599 Metisco 257 Mezenzio 193, 439, 513 Micipsa, re di Numidia 587, 1067 Milfione 1031 Milone di Crotone 955 Minerva 281, 1015 Minerva, Marino 1305 Minosse 21, 23, 25, 27, 29, 31, 33, 35, 43, 55, 57, 59, 61, 65, 67, 73, 81, 83, 85, 87, 115 Minucio Rufo, Marco 591 Miseno 89 Mitridate, re del Ponto 1253 Monti, Brancaccio 1051 Mosè 791 Mummio, Lucio 207, 209 Murano 289 Muse 85, 233, 257, 265, 273, 283, 335, 339, 341, 345, 349, 365, 523, 531, 541, 625, 659, 663, 665, 667, 675, 683, 691, 703, 707, 709, 855, 1305, 1337 Naba 293 Napee 247, 299, 351 Nauci 89 Nereidi 265, 709 Nereo 265

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

Nerone, imperatore romano 731, 1121, 1137 Nettuno 291 Niccolò, marchese di Ferrara 1315 Numa Pompilio 637 Nursia 273 Olca 247 Omaso 291 Omero 195, 199, 211, 213, 215, 271, 535, 637, 665, 853, 1053, 1109, 1111 Onofrio Eremita, santo 1137 Oppio, Caio 411, 605 Orazio Flacco, Quinto 89, 245, 407, 415, 473, 483, 489, 523, 561, 569, 573, 621, 721, 1015, 1057, 1075, 1111, 1159, 1163, 1193, 1267, 1273, 1333 Ordeonio, Marco 965, 967 Orfeo 195, 1111 Orode 437 Orosio, Paolo 889 Orsini, Virginio 1394-95, 1407, 1414 Osco 255, 257, 259 Osimo, re 213 Ovidio Nasone, Publio 407, 521, 523, 693, 855, 1029, 1105, 1201, 1305 Palamede 89 Palemone 407 Palinuro 205, 679 Pallade 229, 247, 279, 463, 673 Pandono, Galeazzo 1323 Panormita, Antonio 95, 423, 1051,

1175, 1181, 1289, 1299, 1329, 1333, 1373 Panunzio 145 Paolino da Nola 673 Paolo di Tebe, eremita 1137 Paolo, Lucio Emilio 785 Papirio Cursore, Lucio 1079 Parche 463 Pardo 257, 261, 263 Pardo, Giovanni 333, 335, 337, 339, 341, 343, 345, 349, 351, 353, 355, 363, 365, 387, 389, 399, 401, 405, 423, 433, 459, 521, 621, 625, 629, 633, 717, 721, 723, 737, 749, 805, 1087, 1283 Parmenide 805 Partenope 265, 709 Pascasio (Pascazio) Decio 1215, 1231, 1382 Patulci 665 Pausania 665 Pedano 87, 89, 91, 93, 95 Perseo, re di Macedonia 207, 209, 785 Persio 1341 Pertinace, Publio Elvio, imperatore romano 1033 Peto, Francesco (Peto Fondano) 1305 Petreio 267, 269, 283 Petronilla 711 Petronio Arbitro, Gaio 485 Piccinino, Niccolò 1289, 1291 Pico della Mirandola, Giovanni 721, 945 Pietro III d’Aragona, re di Sicilia 1319, 1321 1633

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INDICI

Pietro il Compare v. Compatre Pindaro 143, 175, 179, 181, 183, 185, 187, 189, 1053 Pirene 273, 303 Piricalco 39, 41, 43 Pirro, re dell’Epiro 207, 1271, 1333 Pirrone di Elide 945 Pisanello, Vito (Vitolo) 1183 Pisistrato 637 Pisone, Gaio Calpurnio 567 Pitagora 29, 31 Planco 403 Platone 45, 47, 79, 163, 231, 413, 691, 711, 797, 801, 805, 807, 809, 815, 943 Plauto, Tito Maccio 507, 1023, 1025, 1029, 1031, 1037, 1051, 1069, 1071, 1083, 1111, 1123, 1143, 1153, 1163, 1171, 1175, 1185, 1203, 1215, 1217, 1219, 1225, 1227, 1243, 1245, 1259, 1275, 1279 Plinio il Giovane 221, 415 Plinio il Vecchio 225, 227, 403, 411 Plutone 25, 29, 37, 51, 55, 73, 113, 195 Poderico, Alberico 1247 Poderico, Enrico (Errico) 133, 143, 217, 1221, 1337 Poderico, Francesco 387, 389, 391, 415, 421, 525, 529, 531, 545, 547, 555, 567, 617, 619, 621, 639, 721, 723, 727, 735, 9031239, 1331 Polibio 403 Polifemo 245

Poliziano, Agnolo (Angelo) 695 Polluce 195, 1023, 1109, 1217, 1229 Pomona 1029 Pompeo Magno Gneo 199, 207, 253, 255, 261, 263, 283, 291, 403, 859, 1023, 1119, 1169, 1171, 1229, 1275, 1281, 1289, 1311 Pomponio, Giulio 695, 1241, 1267, 1329 Pontano, Amelia 1283 Pontano, Eugenia 1281 Pontano, Lucio 237, 239, 241 Pontano, Ludovico 1181 Pontano, Tommaso 1281, 1299, 1335, 1353 Ponzio 257, 259, 261, 267, 269, 285, 291, 293 Porcinari, Nicolò 1175 Posidonio 805 Prassicio, Paolo 387, 401, 419, 621, 625, 629, 633 Prisciano 93 Properzio 207, 561 Proteo 283 Psi 89 Publio Egnazio 1137 Publio (Publilio) Siro 1313 Pucci, Dionigi 1433 Pucci (Puccio), Francesco 681, 691, 693, 695, 1233, 1289 Pullone, Tito 227 Pupieno Massimo 785 Queraldo 1319, 1321 Quercento 289 Quintiliano, Marco Fabio 152-55,

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

157, 159, 161, 165, 167, 169, 171, 225, 227, 229, 581, 1225, 1233, 1237, 1265 Quintilio 289, 291, 893 Quirino 177 Radamanto 23, 115 Rebatto, Antonio 1317 Remo 25, 287, 793 Roberto d’Angiò 359 Rodrigo di Siviglia 1213, 1215 Romolo 25, 563, 791, 793 Romulio 605 Roscio Gallo, Quinto 555 Rovarella, Bartolomeo 1335 Rufino 1099 Rufo 1191, 1267 Rutilio 1227 Rutilo 257 Sallustio Crispo, Gaio 193, 197, 227, 229, 405, 411, 471, 535, 537, 539, 547, 551, 553, 567, 573, 577, 581, 583, 587, 589, 591, 593, 595, 599, 603, 607, 613, 619, 741, 1067, 1117 Sannazaro, Jacopo 365, 387, 389, 391, 395, 399, 421, 423, 459, 525, 529, 621, 625, 633, 649, 1303, 1335, 1450 Sanseverino, famiglia 1329 Sassonio 277 Savonarola, Gerolamo 945, 1099, 1135 Scauro 1227, 1229 Scipione Africano, Publio Cornelio 197, 539, 573, 591,

595, 611, 613, 863, 935, 1069, 1099, 1131, 1239, 1333 Scipione Emiliano, Publio Cornelio 863 Sebeto 265, 335, 709 Segnizio 289 Segnizzo 383, 385, 387 Selvo 1191 Semiramide 1303 Seneca, Lucio Anneo 775, 821, 843, 961 Sertorio, Quinto 253, 263, 267, 269, 277, 285, 301, 303 Servio Tullio 205 Sforza, Filippo Maria 833 Sforza, Francesco 833 Sforza, Ippolita Maria 1307, 1376, 1385 Sforza, Ludovico Maria, detto il Moro 867, 1374, 1385 Sforza, Muzio 785, 833 Sibilla 163 Sibilla Eritrea 227 Sidonio Doroteo 637 Silla, Fausto Cornelio 1289 Silla, Lucio Cornelio 421, 837, 1085, 1169, 1289 Silvano 89 Sincero, Azio v. Sannazaro, Jacopo Sirene 243, 265, 295, 663, 665 Sisenna, Lucio Cornelio 547, 549, 567 Socrate 29, 31, 847, 935, 1115, 1131, 1325, 1331 Sofonisba 1069 Solone 37, 637, 1141 1635

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INDICI

Sosia 1225, 1227 Spagnoli, Giovan Battista 1442 Stagirita v. Aristotele Stella 1195 Strozzi, Filippo 1373-74, 1381 Strozzi, Palla 1259 Suardo, Suardino 387, 1335, 1449 Suffeno 287, 289, 299, 1135 Sulpicio 261, 265 Sulpicio Rufo, Servo 409 Sulplicio 1241 Summonte, Pietro 387, 389, 525, 529, 559, 707, 1233, 1241, 1303 Suppazio, Giurazio 217, 223, 225, 233, 235, 237, 241, 243, 245 Tacito, Publio Cornelio 403, 411, 593, 619 Tago 287, 291 Taide 929, 1195 Talete 805 Tamira, Pietro (Tranquillo Tomarozzi) 681, 683, 691, 693, 695, 697, 699, 1305 Tarquinio 1231 Tazio 287 Teano 91, 95 Telesia 243 Temistocle 1311 Teocrito 805 Teodosio Augusto 889 Terenzio Afro, Publio 403, 935, 1021, 1023, 1027, 1041, 1045, 1067, 1219, 1341 Tertullo 255, 259, 971 Teseo 205, 207 Tibullo, Albio 91, 1195, 1341

Timone 73, 1055 Tirone, Marco Tullio 403, 413, 415 Tirsi 249 Tisifone 463 Tito Flaminio 1309 Tizio 265 Tolomeo II, re d’Egitto 729 Tolomeo XIII 1121 Tolomeo, Claudio 727, 955, 957 Tomacelli (Tomacello), Marino 701, 1231, 1287 Tommaso d’Aquino, santo 895, 915, 919, 957, 959, 961, 1127 Traiano, imperatore romano 415 Trismegisto, Ermete 711 Trivia 301, 303, 627 Trivulzio, Gian Giacomo 1393 Trogo, Pompeo 619 Tucidide 571 Turno, re dei Rutuli 199, 201, 203, 211, 213, 287, 507 Ucalegonte 433 Ufente 287, 297 Ulisse 195, 1107 Umbrizio 291 Umbrone 299 Ursidio 297 Valeriano, imperatore romano 785 Valerio Publicola, Publio 871, 895 Valla, Lorenzo 945, 1053, 1329, 1371 Valla, Pietro Salvatore 1371 Vareno 293 Vario, Quinto 261, 265, 267 Varo 299

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INDICE DEI NOMI CITATI NEI TESTI

Varo, Publio Licinio 1239 Varrone Murena, Aulo Terenzio 409, 415, 663, 681 Vatinio 1279 Venere 147, 195, 205, 277, 327, 355, 361, 419, 633, 921, 943 Veranio 257, 259, 263, 265 Vertunno (Vertumno) 1029 Vidone 1281 Vipsanio 265 Virgilio Marone, Publio 89, 163, 171, 173, 177, 179, 181, 183, 185, 189, 191, 193, 195, 197, 199, 201, 205, 207, 209, 211, 213, 215, 217, 221, 341, 413, 415, 423, 427, 429, 431, 437, 443, 445, 451, 459, 461, 465, 467, 471, 475, 477, 479, 483, 489,

491, 497, 509, 513, 515, 523, 535, 537, 539, 543, 551, 557, 559, 619, 629, 631, 637, 663, 665, 671, 679, 681, 693, 695, 697, 699, 739, 741, 793, 807, 853, 883, 931, 935, 943, 1027, 1053, 1233, 1341 Visconti, Bianca Maria 833 Visconti, Filippo Maria 833 Vitale, Bernardo 1283 Vito, santo 133, 135 Vitruvio Pollione, Marco 231 Volano 289 Volumnio 1081 Voreno, Lucio 227 Vulcano 195 Zane, Jacopo 1137

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PROFILI BIOGRAFICI DEI CURATORI

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Francesco Tateo è professore emerito dell’Università di Bari, dove ha tenuto gli insegnamenti di Letteratura latina medievale, Letteratura umanistica e Letteratura italiana, e dove è stato preside dal 1977 al 2004. Ha presieduto l’«Associazione internazionale di studi neo-latini» (IANLS, 1991-1994) e l’«Istituto nazionale per gli studi sul Rinascimento meridionale» (1990-1998), ed è componente del comitato scientifico delle riviste «Albertiana» e «Critica letteraria». I suoi studi riguardano i tre grandi Trecentisti, l’Umanesimo del Quattro e del Cinquecento, la storia della retorica, della poetica, della storiografia e del classicismo fra Sette e Ottocento, la critica e l’edizione di G. Pontano. Ha collaborato alle enciclopedie ‘Dantesca’, ‘Virgiliana’, ‘Oraziana’, ‘Fridericiana’, al Dizionario biografico degli italiani, al Historisches Wörterbuch der Rhetorik (Tübingen). Ha partecipato alla Letteratura italiana Laterza, a Lo spazio letterario del Medioevo e alla Storia della letteratura italiana (Salerno editrice). Ha diretto i cinque volumi della Storia di Bari (Laterza 1989-1997).

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PROFILI BIOGRAFICI DEI CURATORI

Anna Gioia Cantore, laureata a Bari in Filologia moderna nel 2009 con una tesi sul carteggio privato di Giovanni Pontano, quindi borsista presso l’«Istituto italiano per gli studi storici Benedetto Croce» di Napoli, ha conseguito nel 2015 il titolo di Dottore di Ricerca in Italianistica presso la «Scuola di dottorato in Scienze letterarie, linguistiche e artistiche» dell’Università degli Studi di Bari con una ricerca per il regesto dell’intero carteggio pontaniano, e insegna attualmente Lingua e letteratura italiana nella scuola superiore. Si occupa di letteratura umanistica e di filologia dei testi a stampa e ha pubblicato saggi su aspetti biografici del Pontano a proposito dell’Aegidius e dell’epistolario.

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INDICE DEL VOLUME Sommario

Introduzione di Francesco Tateo Nota bibliografica

V

VII LXXXI

I Dialoghi Charon / Caronte Nota introduttiva Caronte

5 7 21

Antonius / Antonio Nota introduttiva Antonio

117 119 131

Asinus / L’asino Nota introduttiva L’asino

305 307 319

Actius / Azio Nota introduttiva Azio

367 369 383

Aegidius / Egidio Nota introduttiva Egidio

641 643 659 1643

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La fortuna De fortuna / La fortuna Nota introduttiva Libro primo Libro secondo Libro terzo

753 755 769 863 939

La conversazione De sermone / La conversazione Nota introduttiva Libro primo Libro secondo Libro terzo Libro quarto Libro quinto Libro sesto

991 993 1007 1091 1143 1209 1263 1299

Appendice Nota introduttiva, testo e note a cura di Anna Gioia Cantore Lettere di Giovanni Pontano Nota introduttiva Nota bibliografica Lettere

1347 1349 1365 1371

Note

1455 1457 1467 1480 1505 1513 1539

Introduzione Caronte Antonio L’ asino Azio Egidio 1644

Pontano.indb 1644

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La fortuna La conversazione Lettere

1547 1572 1589

Indice dei nomi citati nelle introduzioni e nelle note Indice dei nomi citati nei testi Profili biografici dei curatori

1605 1625 1639

1645

Pontano.indb 1645

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