I corpi del potere. Il cinema di Aleksandr Sokurov 8816411422, 9788816411425

Secondo Walter Benjamin, il cinema è l'arte emblematica del mondo moderno, di cui riflette i ritmi, l'esperien

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I corpi del potere. Il cinema di Aleksandr Sokurov
 8816411422, 9788816411425

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I CORPI DEL POTERE IL CINEMA DI ALEKSANDR SOKUROV

Storia delTArte/Esteti

A CURA DI MARIO PEZZELLA E ANTONIO TRICOMI

©2012 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati Prima edizione italiana marzo 2012

Traduzioni dal francese Mario Pezzella (Sylvie Rollet) Gianfranco Ferraro e Mario Pezzella (Diane Amaud) In copertina Aleksandr Sokurov, Arca russa, 2002 © Wellspring/courtesy Everett Collection

Avvertenza Il lavoro di ricerca, di cui presentiamo i risultati in questo libro, si è svolto nell’ambito di un Seminario di Estetica del cinema, coordinato da Mario Pezzella, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.

Redazione e impaginazione Centrolmmagine, Lucca

Stampa e confezione Grafiche Flaminia, Foligno (Perugia) febbraio 2012

ISBN 978-88-16-41142-5

Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book SpA, Servizio Lettori via Frua 11,20146 Milano - tei. - 02/48.56.15.20/29 - fax 02/48.19.33.61 e-mail: [email protected] - internet: www.jacabook.it

INDICE

Introduzione. Il tempo sospeso, di Mario Pezzetta

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L’affresco della storia, le parole dell’uomo, di Antonio Tricomi 23 Lo spettro delle immagini, di Sylvie Rollet 37 «Colui che mi vede mi fa essere; sono come egli mi vede». Su Moloch, di Tiziano Toracca 53 Taurus: il corpo malato del sovrano, di Massimo Cappitti 61 Un pesce fuor d’acqua nel ventre della balena: l’anima russa del Giappone, di Katia Rossi 69 Ai margini della mimesi: le figure del potere, di Gianfranco Ferraro 79 Appunti sul Faust, di Mario Pezzetta 101 Quattro formule romantiche che potrebbero riassumere la filosofia goethe-sokuroviana. Note sul Faust, di Katia Rossi 107 La banalità del potere. 11 quarto cerchio di Aleksandr Sokurov, di Francesco Verri 113 Arca russa: un atto di visione dialogica sull’umana salvezza, di Mario Marino 119 Alexandra: la guerra di Aleksandr (Sokurov) contro la guerra, di Francesco Verri 125 Corpi privati. A proposito di Salva e custodisci, Madre e figlio, Padre e figlio, di Thea Ramini 135 Un’elegia della solitudine: considerazioni su Madre e figlio, di Diego Batlistini 149 v

Indice

La poetica dello spazio in Sokurov, di Diane Arnaud Voci dal sottosuolo. Sokurov interprete di Dostoevskij, di Massimo Cappitti Verso Occidente: X'Elegia del viaggio, di Mario Pezzetta Le scarpe di Cechov: Sokurov e la musica, di Manfred Giampietro Alla ricerca dell’umanesimo perduto. Intervista ad Aleksandr Sokurov, di Marco Luceri

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Introduzione IL TEMPO SOSPESO di Mario Pezzella

Dissonanze Walter Benjamin considerava la ricezione distratta come una caratteri­ stica decisiva della nuova arte cinematografica; l’opera di Sokurov po­ trebbe intendersi - al contrario - come una lotta senza quartiere con­ tro la distrazione, prodotta dal flusso fascinatorio e ipnotico del cine­ ma spettacolare1. ì film del regista russo richiedono una inedita pre­ senza di spirito da parte dello spettatore, inquietato da immagini di­ scontinue, segnate da una specificità irriducibile, attraversate da lin­ guaggi discordi. Sokurov pone costantemente a confronto il movi­ mento labile dei gesti e dei raccordi, che compongono un “piano” ci­ nematografico, con la durata e la consistenza dell’antica immagine fi­ gurativa. È come se la contemplazione - il lento calarsi dell’attenzione entro lo spazio immaginario e immutabile di un quadro - dovesse ora esercitarsi sul terreno ad essa inadatto ed ostile dell’inquadratura: ap­ plicarsi a ciò che comunque e inevitabilmente è destinato a sfuggire

1 Cfr. W. Benjamin, L'opera d'arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, p. 44: «Colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; pe­ netra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua ope­ ra compiuta. Inversamente la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’ope­ ra d’arte». Anche il concetto di presenza di spirito proviene da Benjamin: ma la sua fi­ ducia che essa potesse dar vita a una ricezione critica c riflessiva delle immagini è stata sostanzialmente delusa. U cinema spettacolare è divenuto un sogno senza risveglio.

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allo sguardo e a dissolversi nel tempo. Questo paradosso o conflitto permanente della percezione inquieta lo spettatore come una nota dis­ sonante e perturbante, e distrugge ogni forma di passiva identificazio­ ne con le immagini. Il tempo dell’inquadratura può rallentare in Sokurov fino al limite dell’arresto (senza mai poterlo realmente raggiungere): dall’azione quasi sospesa, dal divenire quasi interrotto, nasce l’immagine-quadro caratteristica del suo cinema. Oppure il regista ricorre a un procedi­ mento apparentemente opposto: fotografìe e opere figurative sono at­ traversate e - per così dire - riportate in vita dal movimento della mac­ china da presa: «Il cinema di Sokurov tende a modificare la registra­ zione mimetica del paesaggio, per ridipingerlo con le modalità di un quadro, “abitato” dallo sguardo del cineasta»2. L’illusione mimetica, l’effetto di realtà, che donano una posticcia consistenza alle immagini del cinema spettacolare, sono quasi sempre disgregati nei suoi film, composti non da azioni, ma da allegorie e visioni3.

Tra cinema e pittura Forse l’esempio estremo di immagine-quadro è il primo episodio di Voci dello spirito {Duchovnye golosa, 1995). Per più di quaranta minu­ ti è inquadrato in piano fìsso lo stesso aspro paesaggio, mentre la voce fuori campo racconta la vita di Mozart e udiamo brani della sua musi­ ca (e poi di Messiaen e Beethoven). La nostra attenzione è subito chia­ mata a disporsi in modo inconsueto: non c’è alcuna azione da seguire, non si nota nessun nesso causale tra l’immagine e l’accompagnamen­ to musicale. La relazione tra il suono e il visibile è di natura più indi­

2 D. Amaud, Le cinema de Sokourov. Figures d'enfermemen t, L’Harmattan, Paris 2005, p. 64. L’autrice cita una frase pronunciata da Sokurov in un’intervista: «Credo che per vivere il cinema debba cominciare dall’inizio e all’inizio c’è evidentemente la pittura» (ibid., p. 65). 3 Innegabile il rapporto col cinema espressionista tedesco, ma anche - nonostante la dichiarata divergenza ideologica e politica - col montaggio “concettuale" del primo cinema sovietico. «L’informazione visiva è giunta a un punto critico. Bisogna arresta­ re il processo di passività. Più la visualità si perfeziona, più bestiale diviene l’uomo. Cessa di essere uomo. Bisogna restituire energia all’immagine»: cfr. l’intervista con­ cessa da A. Sokurov a G. Nivat (28 maggio 2001), in AA.W., Lombre de l'image: de la falsification à l’infigurable, Champ Vallon, Seyssel 2003, p. 392.

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a un passalo storico definito. Sta ora accadendo qualcosa, indipenden­ temente da ciò che seguirà dopo questa inquadratura o è avvenuto pri­ ma di essa, senza che le azioni siano legate da un legame necessitante di causa ed effetto: Lenin sta morendo, Hitler sta danzando grottescamente, la musica è in atto d’essere suonata7. Vi invito - sembra dirci So­ kurov - a percepire questo presente in bilico. Vi chiedo di cogliere la transizione infinitesimale in cui un presente sta divenendo passato; non ci riuscirete mai pienamente, ma comprenderete che la vostra vita scor­ re allo stesso modo, che non possedete un essere assoluto o illimitato, ma divenite nel possibile, esitando tra la morte e l’inizio.

Il lavoro delle forme L immagine-quadro racchiude la tensione di un quasi-presente, attimo che trascorre, desiderato e inafferrabile. Essa «manifesta la presenza sensibile di una realtà che tuttavia ci sfugge... L’immagine non è mai data, ma sempre in cammino. [Sokurov] filma il “divenire visibile” o, per usare i termini di Merleau-Ponty, “la quasi presenza e la visibilità imminente”: il lavoro dell’immagine, la sua dinamica, tra figurazione e defigurazione»8. La figura si sgrana, si smaterializza, come una pellico­ la che brucia o un paesaggio in cui i contorni smuoiono nella nebbia; la prospettiva centrale si deforma allusivamente, forzata spesso da gran­ dangoli estremi: il visibile diviene traccia o rinvio a un “altro”, a un non

7 Si tratta di riferimenti a film di Sokurov: rispettivamente Taurus (Telec, 2000), Molocb (1999), Diario di Sa» Pietroburgo: Mozart. Requiem (Peterburgskij dnevnik: Mozart. Rekviem, 2004). A. Shumakova, curatrice della raccolta in italiano degli scrit­ ti di Sokurov, fa notare l’interesse del regista per il present continuous della lingua in­ glese c, più in generale, per le forme verbali che esprimono una contrazione, una in­ decisione o una contaminazione delle dimensioni temporali: «Parlando, usa spesso espressioni come: “Questo c passato futuro... passato presente... futuro anteriore”, non per sottolineare una categoria grammaticale (che, tra l’altro, in russo non esiste) ma per definire in maniera precisa un’impressione». Cfr. A. Sokurov, Nel centro dell'oceano. Bompiani, Milano 2009, pp. 93-94, nota 1. 8 S. Rollet, Lo spettro delle immagini, in questo libro, p. 40 e p. 43. La citazione di Merleau-Ponty proviene da X’CEil et Tesprit, Gallimard, Paris 2002, p. 23. La distanza tragica tra il desiderio di essere puro presente e il trascorrere dell’attimo verso la mor­ te spiega in parte la fascinazione più volte confessata da Sokurov per il Faust di Goe­ the, dove questo tema è centrale.

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essere ancora o non essere più, che pure abita nella sua intima profon­ dità, ne costituisce lo strato nascosto e segreto. Così appaiono le figure delle anime, intervistate in Elegia orientale (Vostocnaja elegija, 1996): la morte e il non essere non hanno cancellato il loro aspetto umano, sem­ plicemente ne hanno sgranato i contorni. Ogni tratto del viso o del cor­ po è colto nel mutamento che lo porta oltre il suo stato attuale, nella sua impermanenza: i morti sono sereni perché hanno accettato questa condizione dell’essere, non lottano più contro di essa, non affermano più il loro Io contro la metamorfosi della vita. Come nelle ultime ope­ re di Monet, la figura è colta nell’attimo originante che la compone e simultaneamente già la inclina al nulla, mentre un’altra già accenna a riformarsi sullo sfondo. Questo è il sapere del tempo che i morti han­ no acquisito e vorrebbero lasciarci in eredità, invitandoci ad acquieta­ re il fermento doloroso della volontà di conservazione. Spesso Sokurov cita direttamente un’opera figurativa. Egli ha una particolare predilezione per la pittura romantica, in particolare per quella di Caspar David Friedrich, molto presente in Madre e figlio {Mat’ i syn, A. Sokurov, 1997)9. All’inizio di Elegia orientale, dopo che la nebbia ha invaso il cielo e poi si è diradata, emerge un bosco fitto e oscuro: una panoramica termina su un uomo di spalle, alla sinistra dell’inquadratura, e sulla riva del mare; un impulso interiore e miste­ rioso spingerà l’enigmatico personaggio (un alter-ego del regista?) ver­ so l’isola dei morti, dove - con un paradossale uso della tecnica docu­ mentaria - le anime verranno interrogate sul senso della propria vita. Il dato di partenza dell’immagine è il quadro Luna nascente sul mare di Friedrich, uno dei capolavori del “sublime” romantico10. L’inqua-

9 «Le inquadrature fìsse del paesaggio filmato, di cui si sono già segnalate la qualità vaporosa e la profondità misteriosa, somigliano pertanto più agli spazi romantici che alla prospettiva del Rinascimento». Cfr. D. Amaud, La poetica dello spazio in Sokurov, in questo libro, p. 168. Tra i quadri di Friedrich citati nel fìlm: Il monaco in riva al mare. L'abbazia nel querceto, Le bianche scogliere di Rugen. 10 Che ha avuto del resto differenti declinazioni. Particolarmente significativa quel­ la di Solger, così ricordata da Pinna: «Rispetto al bello, dunque, in cui l’opposizione dell’universale e del particolare appare pienamente risolta nella particolarità della for­ ma finita, il sublime rivela una tensione interna che lo apparenta alla riflessività in­ quieta dell’arte moderna. Non solo nel sublime viene in primo piano la contraddizio­ ne da cui risulta la sintesi estetica, ma con assai maggiore evidenza che nella bellezza in senso proprio si manifesta la negatività del finito, in cui l'idea è costretta a perder-

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introduzione

tiratura iniziale e una cellula germinale, da cui procede tutto il film: quasi che Sokurov ponesse in cammino il viandante del quadro di l 'ricdrich c gli lasciasse compiere un suo percorso immaginario e pos­ sibile. Il cinema sprigiona il movimento potenziale, compresso nell’im­ magine figurativa. Sokurov attenua la verticalità e l’altezza eroica del sublime roman­ tico. La luce, in Elegia orientale, è penombrale e pervasa di malinco­ nia. Più che il confronto eroico, quasi una sfida, con l’infinito, il regi­ sta sottolinea il riconoscimento della piccolezza e della creaturalità in­ difesa dell’uomo, i suoi limiti, la sua mortalità. Questa umiltà accom­ pagna l’uomo inquadrato di spalle nel suo viaggio verso l’isola delle anime e forse in grazia di essa gli viene concesso di intervistare i mor­ ti. Sokurov è ben consapevole della sua scelta e del significato ambiva­ lente del sublime, non sempre estraneo a tentazioni faustiane ed eroi­ che. In Moloch, il paesaggio scosceso e romantico delle montagne, in cui si trova il “nido d’aquila” hitleriano, fa da sfondo alla retorica su­ peromistica e wagneriana del capo e dei suoi gerarchi, messa spietata­ mente in ridicolo dal regista: fino all’inquadratura in cui il possente soldato homo novus inquadra con il cannocchiale del fucile Hitler, mentre fa i suoi bisogni sulle rocce maestose.

Fotografia e cinema Sokurov crea un rapporto dinamico tra immagine fotografica e inqua­ dratura fìlmica. Di per sé la fotografia rinvia a una figura del passato; con la sua potenza mimetica essa crea un simulacro di presenza, ma in realtà l’evento o l’esistenza raffigurati non vivono più, sono irrevocabil­ mente trascorsi. Come aveva notato Bazin, essa garantisce una soprav­ vivenza in certo senso mummificata, «presente inquietante di vite arre­ state nella loro durata»’1. L’essere passato del presente è la base onto­ logica della fotografia, il grado zero necessario del suo linguaggio. Con un procedimento simile a quello che usa per la pittura, Soku­ rov porta alcune inquadrature al limite della fissità fotografica, in lun­ ghissimi piani sequenza che, nel colore e nella disposizione, rievocano

$i per divenire reale» (G. Pinna, Il sublime romantico. Storia di un concetto sommerso, Aesthetics Praeprint, Palermo 2007, p. 56). 11 A. Bazin, Che cosa è il cinema, Garzanti, Milano 1973, p. 9.

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una istantanea in bianco e nero o virata in seppia. Se il cinema simu­ la - a differenza della fotografìa - una presenza animata e vitale, que­ sta illusione viene drasticamente smentita: del resto, la mia percezione non è mai simultanea all’attimo del movimento che corre sotto i miei occhi, ma già sempre - e sia pure di poco - in ritardo su di esso. L’azio­ ne si compone sempre come ricordo, che rinvia all’appena trascorso. È quanto vuole evidenziare il lungo piano sequenza che, in Elegia so­ vietica {Sovetskaja elegija, 1989), inquadra il volto di Eltsin, una quasi-fotografia che esprime intensamente la sua appartenenza al passato. Poco prima abbiamo assistito alla sfilata delle foto celebrative dei bu­ rocrati che nel corso del Novecento hanno governato l’Unione Sovie­ tica. In questo caso, non è difficile associare all’accentuazione malin­ conica della fissità fotografica un giudizio negativo su un esperimento politico interamente fallito. Può avvenire l’inverso: un documento fotografico d’archivio, di­ menticato e ignoto, viene riattualizzato e un movimento inedito sem­ bra animarne le figure, con carrelli, zoom, panoramiche, che fanno della foto una quasi-sequenza cinematografica. È quanto avviene con le istantanee di contadini dell’epoca zarista in Elegia dalla Russia {Ele­ gga iz Rossii, 1992) o con quelle del secondo conflitto mondiale in E nulla più (I nicego boi’se, 1982-1987). Sokurov sottolinea allora il non morire del passato, il suo ripresentarsi in una memoria vivente, che ri­ costruisce un legame con gli esseri anonimi e dimenticati del docu­ mento fotografico. Il movimento della macchina da presa estrae figu­ re viventi dal nulla del tempo. In Elegia dalla Russia i volti dimentica­ ti degli umili riacquistano individualità, iniziano un dialogo immagi­ nario tra loro grazie a una serie di campo-controcampo, rispondono al nostro sguardo: ci rivolgono una preghiera di riconoscimento, che li salvi dall’oblio.

La vita più nascosta E elegia - con questo termine Sokurov titola molti dei suoi film - si ri­ ferisce a un essere scomparso o in via di sparizione; la nostalgia per ciò che è perduto si unisce al desiderio di conservarne memoria, come af­ ferma Schiller, che ha indicato per primo le caratteristiche della poesia “sentimentale”: «Ciò che vivrà per sempre in una poesia/è destinato a 8

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I ramoniarc in questa vita»1’, elegia evoca la mancanza dell’essere amato c la speranza che il suo ricordo non si perda nel nulla e si con­ servi per tempi migliori. 1 film di Sokurov mostrano il dissolvimento delfiniera tradizione culturale europea, del più semplice tessuto d’esperienza, della capacità di raccontare e tramandare: tutto soccom­ be all’energia distruttiva del totalitarismo e della mercificazione. A pro­ posito dello scrittore Platonov, che ha ispirato il film La voce solitaria dell’uomo {Odinokij golos celoveka, 1978-1987), egli afferma: «Plato­ nov è l’artista della vita flebile con una luce vaga, diffusa, che solo gli occhi dello spirito riescono a vedere. Con un lenzuolo bianco e la neve caduta per strada egli crea dei giochi di prestigio che raccolgono e tra­ smettono quella poca energia diffusa, la platonoviana “luce della vita”, affinché non vada perduta. Nel suo mondo Platonov genera un’illumi­ nazione interessante, purificando e liberando la luce “pulita e mite”, solitamente dimenticata e affiochita, della vita più nascosta»1 J. A un’esi­ stenza fioca e dimenticata si rivolgono le elegie di Sokurov, cercando di redimerla dall’oblio. Dalla tensione fra malinconia e memoria derivano le più intense immagini-tempo del regista russo. Le elegie hanno uno stile di montaggio particolare. Potremmo de­ finirlo paratattico, nel senso in cui Adorno usava questo termine per la poesia e la musica moderna. Caduta la sintassi classica del montaggio, il decorso narrativo è sospeso e le sequenze - o anche i singoli pia­ ni - si seguono secondo una coordinazione associativa, talora espres­ sa fuori campo dalla voce del regista, come in Elegia del viaggio. Que­ sto stile ricorda del resto anche quello delle antiche cronache, che di­ sponevano gli eventi senza un preciso nesso di causa ed effetto: «e al­ lora... e allora... e allora...». Nelle elegie di Sokurov il nesso causale sospeso lascia il posto a un raccordo simbolico, simile a quello usato da Holderlin nei suoi ultimi inni, per unire un verso con l’altro; così, nelI’E/egw del viaggio, il suc­ cedersi delle immagini rispetta il percorso mitico della luce da Orien-12

12 E Schiller, Gli dèi della Grecia. Verba, Milano 1980. Cfr. intervista concessa da A. Sokurov a G. Nivat, cit., p. 387: «L'elegia è un ricordo buono e triste di ciò che fu c non tornerà più. Ma non è perduto per sempre, è ciò che prosegue in me la sua vita [...] non è un passato compiuto». 1} A. Sokurov, La voce solitaria dell'uomo, in Eclissi di cinema, a cura di S. Francia di Celle, E. Ghczzi, A. Jankowski. z\ssociazione Cinema Giovani-Torino Film Festi­ val, Torino 2003. p. 218.

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te ad Occidente o crea improvvise corrispondenze tra presente e pas­ sato o rievoca l’iconografia dell’incarnazione del divino nel terreno. Questo stile paratattico-associativo è composto da frasi-immagine, che - secondo Rancière - portano a compimento il paradigma esteti­ co della modernità e la sua radicale «democrazia dei materiali». Da questo punto di vista, il cinema invera una possibilità già presente nei grandi narratori del secondo Ottocento, come Flaubert e Dostoevskij. L’arte moderna è caratterizzata da una «grande paratassi», in cui ogni atomo del reale può affiancarsi ad ogni altro, qualsiasi linguaggio espressivo può ibridarsi con ciò che sembrerebbe ad esso incompati­ bile: «L’arte dell’epoca estetica tende a identificare il proprio potere incondizionato con il suo contrario: la passività dell’essere privo di ra­ gione, la polvere delle particelle elementari, il sorgere originario delle cose»14. Il cinema contemporaneo tende a liberare il linguaggio filmi­ co dalle gerarchie stabilite dalla sintassi classica del montaggio, forma­ tasi nei primi decenni del Novecento, e la sua forma compositiva può essere paragonata a quella dell’atonalità, che abbandonò a fine Otto­ cento le leggi della musica armonica. La democrazia atonale dei mate­ riali richiede tanto più un’attività compositiva di frasi-immagine, una costellazione di elementi simbolici e significanti, che sostituisca le re­ gole codificate del cinema-movimento e dell’immagine-azione.

14 J. Rancière, La favola cinematografica, Edizioni ETS, Pisa 2006, p. 19. Il cinema delle origini è in effetti un coacervo di materiali plurali, tratti dai linguaggi delle altre arti o dalla registrazione fotografica del reale. Solo successivamente, e sempre più ri­ gidamente, si è configurata la sintassi narrativa del montaggio classico, col suo siste­ ma di regole volte a favorire l’identificazione tra lo spettatore e la visione. Rancière così descrive uno stile filmico fondato su frasi-immagine, che sconvolgerebbe tale co­ dificazione: «Un principio costante della regia e della messinscena cinematografica consiste dunque nel supplementare, e nel contrastare, lo svolgersi dell’azione e la ra­ zionalità degli scopi con la non coincidenza di due visibilità o di due rapporti tra il vi­ sibile e il movimento, con gli aggiustamenti d’inquadratura e i movimenti aberranti imposti da un personaggio, che, pur conformandosi a una sceneggiatura fondata sul perseguimento di fini, la fa al contempo deragliare» (ibid., pp. 27-28); «La virtù della frase-immagine giusta è quella di una sintassi paratattica. Questa sintassi si potrebbe anche chiamare montaggio, ampliando la nozione al di là del suo ristretto significato cinematografico. Gli scrittori del XIX secolo che hanno scoperto, dietro le storie, la forza nuda dei vortici di polvere, delle nebbie oppressive, dei cumuli di merce o del­ le intensità folli hanno anche inventato il montaggio come misura del senza misura o disciplina del caos» (J. Rancière, Il destino delle immagini, Pellegrini, Cosenza 2007, p. 83).

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Introduzione

Interruzioni critiche In alcune occasioni, Sokurov assume decisamente un atteggiamento più critico e meno lirico, rispetto al documento storico-visivo (istanta­ nee o cinegiornali). Egli mostra allora la natura fittizia, artificiale, ideo­ logica, di quanto si presentava con l’apparenza di una mimesi oggettiva del reale. La “neutralità” del cinema documentario è contestata alla radice. In E nulla più le immagini di Churchill, Roosevelt, Stalin, sono ripetute più volte, variandone dimensioni e angolo di inquadratura, sottolineando il carattere celebrativo della rappresentazione e i suoi latenti aspetti grotteschi. La macchina da presa interviene sul dato visivo di partenza, distruggendone la monumentalità e la retorica. Questo détournement critico può ricordare il modo di filmare di Guy Debord: «Ponendo la ripetizione al centro della sua tecnica composi­ tiva, Debord rende nuovamente possibile ciò che ci mostra, o piuttosto apre una zona di indecidibilità tra il reale e il possibile. [...] Il secondo elemento, la seconda condizione trascendentale del cinema, è l’arresto. È il potere di interrompere, l’interruzione rivoluzionaria di cui parlava

Benjamin»’5. L’esempio più incisivo di reinterpretazione del dato è offerto proba­ bilmente da Sonata per Hitler {Sonata dija Gitlera, 1979-1989), dove i film documentari in cui appare il dittatore sono sottoposti a un proce­ dimento vertiginoso di analisi, e di fatto disgregati. In particolare, in un’immagine forse casuale o non pienamente controllata dall’operato­ re del cinegiornale, Hitler rivela tutta la sua espressività malinconica e paranoide, oltre che nello sguardo assente e smarrito anche col gesto involontario e inconsulto della mano. Queste inquadrature estraniami fanno da contrappunto critico ai bagni di folla e alle “feste” naziste. Un procedimento simile si trova anche in Moloch. K un certo pun­ to del film, Hitler vuole che gli venga proiettato un documentario sull’avanzata delle truppe tedesche in Russia; non ne è contento, per­ ché gli sembra non abbastanza eroico e celebrativo. Ma per noi, per gli spettatori, il cinegiornale si inserisce a pieno titolo nel contesto per-15

15 G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in Guy Debord (contro) il cinema, a cura di E. Ghezzi e R. Turigliatto, Il Castoro-La Biennale di Venezia, Milano-Venezia 2001, p. 105.

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verso e farsesco in cui ci appare il corpo assai poco sublime ili Hitler c perde ogni pretesa di verità oggettiva. Una tale decostruzione dei materiali documentari ricorda in parte la metafora della lastra fotografica, con cui Benjamin raffigurava il la­ voro dello storico critico. Del passato ci restano immagini latenti, “ne­ gativi” che l’osservatore presente può “sviluppare” e portare a visibi­ lità. Nessuna fotografia possiede una datità inalterabile, ma ad ogni stampa può essere diversamente inquadrata e subire una indefinita va­ riazione di toni. Qualcosa di simile avviene nel passaggio ulteriore dal documento visivo alla sua rielaborazione cinematografica, operata da Sokurov. Non è che lo sguardo presente inventi qualcosa che assolu­ tamente non c’era nel dato di partenza; ma - in base al suo punto di vista e all’urgenza del suo interesse attuale - presentifica aspetti e pos­ sibilità fino a quel momento invisibili.

Paesaggio con rovine Sylvie Rollet ha attirato l’attenzione sulla profondità malinconica del cinema di Sokurov, in cui il tempo della storia, come negli ultimi scrit­ ti di Benjamin, sembra «segnato fin nella sua origine dalla catastrofe»16. Catastrofe è innanzitutto la modernità, che giunge a compimento nei totalitarismi del Novecento, oggetto dei primi tre film che fanno par­ te del ciclo dedicato al potere: Moloch, Taurus (Telec, 2000), Il sole {Solnce, 2004). Un prodotto dei regimi autoritari del secolo passato è anche l’anonima burocrazia che compare nei film di Sokurov e gesti­ sce in modo freddo e disanimato i momenti decisivi della vita: il ma­ trimonio in La voce solitaria dell’uomo, il rapporto tra padri e figli, la morte stessa nel Secondo cerchio (Krug vtoroj, 1990). Altrettanto cor­ rosiva è la forma della merce, apparentemente alternativa al sistema totalitario e burocratico, ma non meno dissolutiva. In Salva e custodi­ sci {Spasi i sochrani, 1989) la figura del mercante incarna l’essenza stes­ sa della seduzione demoniaca del danaro, che determina il destino della protagonista; in modo più ironico, ma non più ottimista, il prin­ cipio distruttivo della modernità penetra nel Giappone del Sole-, alla fine, Hirohito non è più schiavo dell’opprimente ordine simbolico

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S. Rollet, Lo spettro delle immagini, cit., p. 41 di questo libro.

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della tradizione, ma paga la sua libertà individuale divenendo un divo spettacolo, una grottesca imitazione di Charlie Chaplin, I personaggi di Sokurov vivono in uno spazio occluso, in una situa­ zione di chiusura, che sembra impedire qualsiasi trascendimento del­ la situazione e soffocare ogni inizio e ogni possibile. La storia si chiu­ de intorno a loro come una cripta oscura, o come una prigione sottil­ mente estesa alla totalità delle relazioni intersoggettive e simboliche, l ino al punto di divenire una condizione abituale e inavvertita: «Storia sotterranea, storia di un trauma, che riorganizza la messa in scena con­ figurando una chiusura entro il tempo»17. Nei film di Sokurov il dolore nascosto della prigionia e della chiu­ sura diviene visibile, e tale riconoscimento permette di evadere in par­ te da esso. Nei Giorni dell’eclisse (Dni zatmenija, 1988), la realtà del potere intollerabile e misterioso che governa la città di frontiera si ri­ vela lentamente fino a determinare la separazione dei due amici (o amanti?) protagonisti del film.

Radure e boscaglie

Negli Appunti per delle lezioni di filosofia Sokurov fa esplicito riferi­ mento a un’immagine centrale del pensiero di Heidegger, il «sentiero errante», che viene ricordato in modo anche più definito in un altro lesto, dedicato a Tarkovskij: «Ciascun russo in fondo all’anima è un '‘tagliaboschi”: chi per caso, chi per volontà. Ciascuno di noi si apre un passaggio attraverso la vita come attraverso la tajga sopportando strani sacrifici; se capita di ritrovarsi, lungo il percorso, in una radura quieta, colma di bacche, di sole e di morbida erba, ci perdiamo subi­ to, ci dibattiamo, abbandoniamo la Terra Promessa, e fuggiamo alla ricerca di nuove verifiche, di nuove prove, verso una boscaglia letale per non tornare lì, dove era comparsa al nostro sguardo una semplice umana seducente felicità»18. Non è questo il luogo per analizzare la congruenza della meditazione di Sokurov con la complessa riflessione di Heidegger, che nell’interpretazione del regista subisce una curvatu-

17 D. Arnaud, Le cinema deSokourov. Figures d'enfermement, cit., p. 155. IK A. Sokurov, La banale uguaglianza della morte, in Eclissi di cinema, cit., p. 212. Cfr. anche A. Sokurov, Nel centro dell'oceano, cit., p. 113.

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ra del tutto originale. Il bosco non è in Heidegger boscaglia letale ma l’oscuro grembo in cui soltanto può nascondersi-rivelarsi la chiarità della radura', e, d’altra parte, l’inquietudine faustiana che spinge il “russo” a ricercare nuove prove e pericoli è del tutto lontana dal quie­ to “dimorare” nella Lichtung, cui Heidegger vorrebbe invitare. In So­ kurov il bosco, divenuto boscaglia letale, è metafora della chiusura e dell’imprigionamento nel trauma della modernità; il sentiero errante, privo di ogni garanzia di sacralità riconosciuta, estraneo all’ordine simbolico tradizionale, è figura di una fede senza religione, rivolta a un dio ignoto. Esso ci porta, nonostante tutto, all’apertura improvvi­ sa della Lichtungy a una traccia di redenzione o di liberazione, che ci sottrae alla violenza della storia e per un attimo illumina e trascende la reclusione in cui ci troviamo. Questa imprevista e improvvisa illuminazione non garantisce la na­ scita di un nuovo ordine simbolico, che sostituisca quello scomparso o destinato al tramonto. Essa ci pone a contatto con un nulla, con un vuoto, in cui si intuisce una potenzialità generativa, della quale non possiamo indicare il percorso e i contorni. Sappiamo solo che la chiu­ sura nella “cripta” o nel trauma della storia del Novecento non è asso­ luta e totalizzante, ma che - all’altro estremo - un’apertura luminosa può dilagare improvvisamente nel paesaggio e convivere con l’oscuri­ tà del bosco, oppure la finestra di una casa desolata aprirsi verso un orizzonte imprevisto. Alla polarità tra “boscaglia letale” e “radura quieta” è affine quella tra volontà di potenza e arte. Quest’ultima, come la intende Sokurov, conserva il sottinteso ricordo di una rivela­ zione che le “religioni” ufficiali hanno invece perduto.

La forza del negativo

Come una radura si apre lo spazio della natura alla fine del film su Le­ nin, Taurus. Nell’ultima sequenza, quando la moglie si allontana, per ri­ spondere a una telefonata del Comitato Centrale, Lenin fa un breve tentativo per seguirla, ricade sulla sedia; in una falsa soggettiva credia­ mo di seguire il suo stesso sguardo sulla natura, sugli alberi mossi dal vento; ma in realtà la panoramica si conclude alle sue spalle, assumen­ do un punto di vista cosmico e impersonale. Lo sguardo di Lenin non è più la sorgente dominatrice della visione e del dominio. Sul suo volto si alternano fissità e stupore e una distensione indefinita, finché, come 14

I ni rm luzioiH *

im'aperiura nciropacità dell’essere - la prima e l’unica in tutto il iilm af f iora in esso un sorriso: alla fine, è inquadrato il cielo, ove si muovono le nubi, che annunciano un temporale; si odono i tuoni pre­ monitori della pioggia, la “melodia degli angeli”, che solo i bambini riescono a intendere, secondo una favola raccontata al figlio dalla ma­ dre del dittatore e ricordata nella prima sequenza; Lenin commentava che era molto meglio comprendere la natura scientifica ed elettrica del fenomeno, ora invece è come se regredisse verso lo stupore incantato dell’infanzia. Il potere incatenava il corpo - anche quello del capo - nell’opacità compatta di un’esistenza senza varco, compressa nell’immediatezza brutale della reificazione e della schiavitù. Il sorriso finale sul volto di Lenin esprime insieme una liberazione e una sospen­ sione, simile a quella del principe Mishkin nell’idiota di Dostoevskij, dopo il venir meno definitivo della sua coscienza. L’annullamento tota­ le dell’io riconduce Lenin alla sua vita puramente creaturale, pronta ad essere riassorbita come una particella elementare nell’unità del cosmo. In uno spirito più vicino a quello originale di Heidegger, alla fine di Elegia di Mosca {Moskovskaja elegija, 1987) viene ripresa una se­ quenza dello Specchio (Zerkalo, 1974) di Tarkovskij, che allude alla metamorfosi della vita, al suo uscire e ritrarsi nell’oscurità: mentre la madre e i due bambini si allontanano nella radura luminosa, la mac­ china da presa arretra verso il folto sempre più oscuro del bosco, come se la potenza generativa che ha pervaso il mondo delle sue manifesta­ zioni ritornasse al nulla e alla latenza di una nuova gestazione. Se di re­ ligiosità si può parlare nel caso di Sokurov, essa riguarda la scoperta della profonda solidarietà creaturale, il necessario perdersi della sepa­ ratezza dell’io, della divisione spietata tra gli uomini e tra uomo e na­ tura, che invece domina il mondo storico della modernità. L’apertura della cripta, il rinvio oltre il chiuso mondo della volontà di potenza, avviene attraverso la negazione dell’assolutezza e dell’illimitatezza dell’io, in forme che ricordano quelle della tradizione mistica. Esse non ignorano la corporeità creaturale nuda, colpevole, malata, che ec­ cede l’universo del dominio: «Reietto, ridotto a rifiuto, il soggetto non cessa di volgersi tuttavia verso l’Oriente da cui è definitivamente sepa­ rato. Esiste un al di fuori - un Fuori - rispetto a ciò che egli è. [...] Ogni singola tappa del viaggio è scandita dalla non identità del sogget­ to con lo stato in cui esso si trova. La percezione, la visione, l’estasi, la spoliazione, l’impurità stessa vengono di volta in volta squarciati da un “non è questo”, di modo che il discorso di Giovanni della Croce è

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una serie ininterrotta di non è questo, non è questo, non è questo»''1. Un rinvio-negazione simile sembra caratterizzare la costruzione decentra­ ta e slittante delle immagini di Sokurov, là dove esse si soffermano su un corpo umiliato e sofferente. Alla fine di Arca russa (Russkij kovceg, 2002), dopo che tutti gli in­ vitati si affrettano come un’onda di fantasmi verso l’uscita, a indicare il dissolversi nel nulla del secolo XIX e l’incombere degli orrori del No­ vecento, la macchina da presa inquadra l’apertura di una finestra, da cui traspare il mare, in un albore indeterminato e senza confini. Alte­ rità senza condizioni, di cui sarebbe difficile definire i contorni, come udissimo le parole «non è questo», rivolte a tutto ciò che precede e se­ guirà. Se l’affermazione illimitata della volontà di potenza («Io sono questo») è una menzogna, il pathos del negativo si oppone ad essa («non è questo»), affermando «la sua [dell’io] irriducibile inerzia di pretese e di misconoscimento alla problematica concreta della realiz­ zazione del soggetto»20. Tale discordanza non rinvia a un remoto al di là, né a un ritiro consolatorio dalla storia: «apre dei non-luoghi, delle assenze all’interno del presente. A volte organizza sistematicamente dei punti di fuga nell’ambito delle riflessioni e delle pratiche contemporanee»19 21. 20 Gli arresti, le deformazioni grandangolari, le radure che interrom­ pono il corso di un tempo chiuso, omogeneo e circolare, esprimono l’opposizione di Sokurov al procedere catastrofico della modernità e rinviano alla persistenza del possibile e dell’altro. L’arte ha insieme il compito di indicare la discordanza che scinde l'ora presente e il non è questo, l’alterità che persiste nelle sue pieghe, e nei testi, nei documen­ ti e nelle immagini del passato. Solo così diviene immaginabile un’azio­ ne etica e politica non condizionata dai rapporti di dominio, un rico­ noscimento del “volto dell’altro”, come direbbe Lévinas. Tale ricono­ scimento può nascere solo in un “sito”, in una situazione specifica, al di fuori di ogni piano ideologico o provvidenziale. L’arte, l’etica, la po­ litica, nella visione di Sokurov, sono letteralmente an-archiche, prive di un principio che pretenda di risolvere una volta per tutte il conflit­ to e la contraddizione della storia.

19 M. de Certeau, Storia e psicanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 203-204. 20 J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 103. 21 M. de Certeau, Storia e psicanalisi, cit., p. 188.

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11 II I < H It IZIOI IC

Messianismi

I .‘emergere del possibile e dcll’alterità pone in questione la “catastroIc" del progresso, tende al suo arresto. Si può parlare, come fa Mikhail lainpolski, di un “tempo messianico” nella visione di Sokurov, purché venga inteso nel senso “debole”, che ad esso dava Benjamin nelle tesi Sul concetto di storia e nel frammento teologico-politico. Il messianismo “Ione” e fanatico dei totalitarismi del Novecento, considerato dal regisia nella “quadrilogia del potere”, mirava a realizzare un fine assoluto e immanente della storia; quello “debole” apre ogni singolo attimo, nella sua irripetibile qualità, all’alterità e alla trascendenza2*. Se il messianismo totalitario vuole la chiusura della storia, nell’illi­ mitato ed eterno ripetersi delle relazioni di potere, quello debole aspi­ ra alla sua apertura, all’azione imprevedibile dell’inizio, che eccede e irascende la situazione data: «E un tempo che pulsa all’interno del tempo cronologico, che lo lavora e lo trasforma dall’interno. [...] Paroikia e parousia, soggiorno da straniero e presenza del Messia, hanno la stessa struttura che è espressa in greco con la preposizione para: una presenza che dis-tende il tempo, un già che è anche un non ancora, una dilazione che non è un rimandare a più tardi, ma uno scarto e una sconnessione interna al presente, che ci permette di afferrare il tempo»25. Nei Giorni dell'Eclisse i due amanti-amici ( Vecerovskij e Maljanov) si liberano progressivamente dalle macerie dell’universo burocraticototalitario, ancora mascherate da una falsa onnipotenza. L’ideologia trionfalista dell’“Uomo Nuovo”, che le “autorità” cercano di inculca­ re fin nel remoto villaggio in cui si svolge la storia, si scontra col dis­ penso dei due protagonisti, che rifiutano anarchicamente ogni princi­ pio affermativo. Dopo la sequenza in cui confessa all’amico di prova-

’■ M. lampolski, Un cinema de la disparite: kairos et Histoire chez Sokurov, in Ale­ xandre Sokourov, «Ciném Action», n. 133 (2009), pp. 39-48; W. Benjamin, Sul concet­ to di storia, Einaudi, Torino 1997; W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Ope­ re complete, Einaudi, Torino 2008, voi. 1, pp. 512-513. In quest’ultimo testo, scrive Benjamin: «Nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico. Per questo il Regno di Dio non è il Telos della Dynamis storica; esso non può essere posto come scopo. Da un punto di vista storico, esso non è scopo, ma termine». 25 G. Agamben, La chiesa e il regno (Lectio pronunciata presso la cattedrale di NotreDame a Parigi 1’8.3.2009], nottetempo, Roma 2010, p. 14.

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re una profonda paura24, Maljanov ascolta un discorso radiofonico (di Breznev?) in cui si esaltano le doti dell’Uomo Nuovo sovietico e la sua superiorità morale e intellettuale; nel frattempo, egli sfoglia un libro in cui compare la fotografìa di Hitler, quasi a commento sarcastico delle parole che stiamo udendo. Maljanov stesso, biondo, alto, con un corpo persino invidiabile, ca­ pace di prestazioni fìsiche al limite dell’impossibile (come quando sal­ ta con leggera piroetta sul treno in corsa), potrebbe essere una perfet­ ta incarnazione dell’Howo Novus sovietico. La sua figura è una cita­ zione dei possenti atleti che comparivano nei manifesti della propa­ ganda staliniana, o degli “sportivi” ritratti da Deineka negli anni Tren­ ta: questa immagine fìsica contrasta con la sua paura, la sua malinco­ nia, il legame comunque irregolare con Vecerovskij e infine con la sua stessa libertà di spirito, con il suo desiderio di fuga. L’Uomo Nuovo esce per così dire dai manifesti, si mette a vivere e agire, si ribella con­ tro il destino che era stato stabilito per lui, esibendo la sua debolezza e il suo dissenso. I due protagonisti si accorgono della misteriosa ma­ lattia, che dilaga sotto la superfìcie del potere producendo follia e morti enigmatiche. Questa condizione tragica si riassume nell’allego­ ria del bambino-angelo che ha perso le ali e che Maljanov cerca inva­ no di accudire e guarire, quando cade dal cielo, gravato da una irrime­ diabile melanconia. Il simbolo del potere sovietico, una gigantesca stella di metallo a cinque punte, si leva nel deserto come un corpo alieno precipitato lì per caso; mentre in una cupa fabbrica operai-automa, asserviti alle macchine, fabbricano esseri collosi e mostruosi, che si preparano a in­ vadere la città (forse se ne vede già uno, spiaccicato sulla parete dell’abitazione di Vecerovskij). Alla fine, benché costretti alla separazione, gli amici-amanti evado­ no da questo universo criptico e imprigionante; Vecerovskij fugge in un altrove indeterminato, Maljanov sceglie di restare e di attendere il crollo del villaggio, metafora del totalitarismo. Entrambi intrawedono una radura, oltre la chiusura e la boscaglia letale in cui sono costret­ ti. Alla fine del film, Vecerovskij si allontana sulla nave traghetto che 24 Uno scienziato che viveva nel villaggio si è suicidato per oscure ragioni, forse per­ ché ha capito che qualcosa di inquietante sta accadendo e viene eliminato perché non parli. Un ufficiale dell’esercito è impazzito ed è stato ucciso dai militari dopo una spietata caccia all’uomo.

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Ini n k h izi( >i ic

si perde nel mare, simbolo, in Sokurov, di aperture indeterminate ver­ so il possibile; nella sequenza successiva, Maljanov viene inquadrato a lungo sotto un cielo vasto e nuvoloso, mentre nel suo viso si alternano il sorriso, il dolore per la separazione dall’amico, un sentimento tragi­ co di ciò che è accaduto. Questa tesa concentrazione sulla propria in­ teriorità produce il “miracolo”: il villaggio del potere e della sua mo­ struosità, inquadrato fra le montagne al centro della valle, svanisce nel nulla, lasciando il posto alla nudità di una terra vuota, aperta ad un nuovo inizio.

La ricerca del padre

La separatezza e la desolazione ** prodotte dai regimi politici del Nove­ cento generano un’esperienza povera e non trasmissibile da una gene­ razione all’altra. Il sapere o la tradizione, che potrebbero trasmettere una simile eredità, sono sostituiti dal super-io autoritario e tirannico del regime totalitario o dall’imperativo impersonale del consumo, nei Paesi dell’Occidente. Il rapporto edipico col padre si sgretola di fron­ te a istanze sociali anonime, mentre l’io regredisce a un narcisismo elementare, minato da un oscuro sentimento di assenza. Adorno ave­ va intuito i primi segni di questa trasformazione nelle società degli anni Trenta del Novecento: «Lo stato normale, come la società mino­ rata a cui somiglia, è il prodotto di un intervento per così dire preisto­ rico, che spezza le forze prima ancora di qualsiasi conflitto; e la suc­ cessiva assenza di conflitti riflette la predecisione, il trionfo aprioristi­ co dell’istanza collettiva, e non la guarigione tramite la conoscen­ za»25 26. La ricerca di un padre assente o remoto è ricorrente nel cinema di Sokurov27. In forma estrema e metaforica essa appare nel film Pietra

25 Questo è lo stato d’animo che - secondo Hannah Arendt - caratterizza il totalitari­ smo: «Ciò che rende la desolazione così insopportabile è la perdita del proprio io [...]. lo e mondo, capacità di pensiero ed esperienza vengono perduti nello stesso momen­ to» (cfr. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 653-654). 26 T.W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, p. 60. 27 Nel Secondo cerchio il figlio cerca di ritrovare un rapporto con il corpo morto del padre, un ex militare, da cui si era totalmente allontanato quando era vivo. Nella Voce solitaria dell’uomo, quando il protagonista ritorna a casa dopo la guerra civile, non rie-

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(Kamen', 1992). Tema centrale e quasi unico del film c il rapporto tra un uomo maturo (che si rivela essere il fantasma di Cechov) e un gio­ vane (il guardiano della sua casa-museo): lo scrittore rappresenta il passato e l’essenza spirituale della cultura russa, mentre il ragazzo è l’uomo “nuovo”, già postsovietico, privo di radici e di eredità. Lo spettro ritorna nella sua casa, trasformata in cripta e museo privo di vita, monumento celebrativo di cui pochi ricordano il senso. I due personaggi, nelle sequenze iniziali, si scontrano e si contendono - qua­ si letteralmente - lo spazio. Nel corso del film, Cechov assume figura di mentore e maestro di una civiltà scomparsa. Il giovane gli chiede, mentre cenano insieme, se nel mondo della morte abbia incontrato il suo padre reale e riceve una risposta negativa; da quel momento è come se egli accettasse la paternità più spirituale e profonda dello scrittore-fantasma (evocato forse, come in un delirio, dal suo stesso desiderio, segnato dal trauma e dall’assenza). La casa-cripta è un luogo opprimente e immerso nell’oscurità: quando Cechov cerca di suonare sul suo vecchio pianoforte, ne esce solo un suono esitante e stonato. Indossando i suoi vecchi vestiti, toc­ cando la sua carta da scrittore, bruciando giornali per fare il fuoco, lo scrittore cerca di riportare vita negli oggetti confinati al ruolo di ricor­ di inanimati, esclusi da una vera memoria collettiva. Solo nelle ultime sequenze i due personaggi escono dalla clausura c camminano lungo la riva dell’oceano nordico, sconvolto da venti e tempeste di neve. In un certo senso, è anch’esso una “radura”, che si apre oltre un luogo di reclusione opprimente: che il film tratti del trauma di una nuova na­ scita è indicato dall’inquadratura in cui Cechov si raggomitola sul suo antico letto come un feto. A uno spirito capace di rinascere e rigene­ rarsi allude allegoricamente la gru, che si aggira per la casa becchet-

scc a comunicare la sua esperienza reale - di vuoto c desolazione - al padre, che gli ri­ pete le parole guerresche c senza senso della propaganda ufficiale. La rinascita di un rapporto tra i due è un tema secondario, ma sempre presente nel film c scorre accanto a quello centrale della separazione e dell’impotenza fra i due amanti. Sarà il genitore a ritrovare il giovane nel mercato del villaggio c a ricondurlo a casa dalla donna amata. In Padre e figlio domina una identificazione fusionale tra i due protagonisti, che assu­ me tonalità corporee e quasi erotiche. Il film descrive l’evoluzione di questo rapporto identitario fino alla separazione, che non esclude un riconoscimento a un livello più profondo: non più fisiologico c immediato, ma divenuto spirituale e intcriore.

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(andò c lucendosi accarezzare dai due uomini: nella cultura taoista i ssa è un simbolo di ledei là e immortalità. Pietra non ha quasi struttura narrativa; è intelligibile solo come una meditazione visiva sul rapporto tra il giovane e il fantasma del padre, ira il Maestro ricomparso nel sogno e il ragazzo confinato nel monu­ mento-cripta. Cechov cerca di “curare” il giovane, consigliandogli ali­ menti ricchi di ferro, preoccupandosi per le sue mani “fredde”. La ri­ cerca reciproca di riconoscimento è sottolineata dai primi piani dei due che, a partire dalla sequenza della cena, si guardano, si studiano a lungo, come cercando di penetrare nella profondità e nel mistero dell’altro (per il guardiano, lo scrittore non è solo un fantasma psico­ logico o personale, ma anche l’archetipo di un passato storico e collettivo, a cui egli si sente estraneo). Quasi alla fine del film, in una inqua­ dratura a struttura triangolare, il giovane guarda fissamente Cechov, che con intensità si rivolge a noi e alla macchina da presa, quasi che si possa e si debba stringere un nuovo patto di comunanza, per salvare l’esperienza culturale perduta.

La quarta dimensione

Nella sequenza in cui lo scrittore e il guardiano giungono sulla riva del mare, sono evidenti i richiami figurativi al sublime romantico, con le citazioni dei quadri di Friedrich e delle “rovine” disegnate e dipinte da Piranesi e da Robert. In nessun altro film di Sokurov la visione pro­ spettica subisce una crisi tanto radicale. Inquadrature grandangolari e deformanti, punti di vista obliqui, che sembrano far precipitare fuori campo gli elementi dell’inquadratura, dominano la quasi totalità del film. Bagliori di luce colpiscono volti ed oggetti, circondati per il resto dall’oscurità più fitta, come nei quadri di Rembrandt, quasi a esprime­ re la forza del tempo che sovrasta lo spazio e trasforma ogni corpo e ogni volto in una fiamma accesa intensamente e per breve tempo. La visione salda e centrale della prospettiva, che - secondo Panofsky - esprimeva il dominio dell’uomo moderno sul cosmo e sulla na­ tura, è uscita dai suoi cardini. L’inquadratura di Sokurov sembra abi­ tata da quella pluralità che Florenskij attribuiva allo spazio, conside­ rato come un campo di energie in tensione, irriducibile a un punto di vista unico: «Non appena abbiamo almeno due immagini, subito tut­ to lo spazio fra loro si riempie di forze. Queste in se stesse non si ma­ 21

Mario Pczzclla

nifestano, ma se in questo spazio capitano delle immagini, allora le forze interagiscono in esso e lo trasformano. Tutto lo spazio diventa un campo di forze». La prospettiva è solo una determinata configura­ zione di energie tese in una tensione discorde e permanente: richie­ derla «a ogni costo è una violenza sulla realtà»28. Anche quando non cancella completamente la configurazione pro­ spettica dell’inquadratura, Sokurov procede comunque a una sorta di decentramento atonale dell’immagine cinematografica: la sintassi nar­ rativa non ha alcuna preminenza ordinatrice sugli altri elementi che compongono il film (la parola, la musica, la fotografia, la pittura, il do­ cumento storico). Ognuno di essi può occupare il primo piano dell’at­ tenzione. Sembra quasi di tornare alla pluralità espressiva del cinema delle origini, non ancora codificato dalle regole del montaggio “classi­ co”: ma se l’incontro di molteplici linguaggi era, al principio della nuova arte, un sintomo di incertezza sulla strada da prendere, in So­ kurov è il risultato di una costruzione consapevole di frasi-immagine. La crisi della prospettiva e il decentramento atonale della forma esprimono il tramonto del soggetto della modernità, dopo che la sua volontà di potenza si è risolta nella minaccia di una catastrofe definiti­ va e nel male radicale. L’immagine tende a slittare dal proprio asse e a rinviare continuamente a un altro, non immediatamente visibile: «Il simbolo è una realtà che porta in sé l’energia di un’altra realtà, una realtà ulteriore che non è mai direttamente rivelata in se stessa»29. Questa inclinazione, questa curvatura, che in senso letterale corri­ sponde all’effetto del grandangolo estremo sulle figure, giunge in Pie­ tra a investire i corpi stessi dei due protagonisti: essi sembrano talora piegarsi in un’ellisse dolorosa invece che ergersi in una figura eretta. La consapevolezza tragica di una soggettività che manca a se stessa coesiste con la riscoperta dell’ignoto e del possibile, all’interno della propria psiche e del proprio corpo.

28 P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, cit., pp. 279, 273. Cfr. E. Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Bollati-Boringhieri, Torino 2006. 29 Ibid., p. 252.

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L’AI TRESCO DELLA STORIA, LE PAROLE DELL’UOMO di Antonio Tricomi

I Vittima di un’allucinazione e della morbosa fragilità dei suoi nervi, Adrian Leverkiihn, il compositore protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann, si ritrova a conversare con il demonio, apparsogli per sedurlo con la medesima proposta accettata dall’eroe del massimo poema della letteratura tedesca, il Faust di Goethe: ventiquattro anni di sfrenata creatività, poi la dannazione. Ed eccole, le parole con cui il diavolo convince definitivamente l’interlocutore a stringere un simile

patto: Mi capisci? Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso, l’epoca culturale, cioè l’epoca della cultura e del suo culto, avrai il coraggio della barbarie, che è doppiamente tale perché arriva dopo il senso di umanità, dopo il più radicale trattamento della ra * dice e il raffinamento borghese. Da’ retta a me, persino di teologia essa s’intende più d’una cultura separatasi dal culto, la quale anche nell’ele­ mento religioso vedeva soltanto cultura, soltanto umanità e non anche l’eccesso, il paradosso, la passione mistica, l’avventura pienamente anti­ borghese1. E ancora:

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Th. Mann, Doctor Faustus, Mondadori, Milano 1980, p. 297.

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A chi riconoscerai un’esistenza teologica se non a me? E chi vorrà un’esi­ stenza teologica senza di me? La religione è di mia competenza, com’è si­ curo che non è di competenza della società borghese. Da quando la cul­ tura si è staccata dal culto e si è fatta un culto di se stessa non è altro che un’apostasia, e dopo soli cinquecento anni tutto il mondo ne è stanco e sazio come se, salva venia, l’avesse ingoiata a marmitte...2 Non è un caso che Satana si manifesti a Leverkiihn nel 1912, ossia alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, e mentre il musici­ sta si trova in vacanza in Italia, futura patria del fascismo. Né può sor­ prendere la complessa architettura temporale del romanzo, che vede un amico del protagonista, Serenus Zeitblom, professore di liceo di­ messosi dall’insegnamento nel 1933 in protesta con il nazismo, rico­ struire, mentre Hitler è ancora al potere, una vicenda che, cominciata nel 1885 con la nascita del compositore, si conclude con la morte di costui nel 1940, cioè subito dopo l’atto che aveva sancito l’inizio della seconda guerra mondiale: l’invasione della Polonia ad opera della Germania. Malato di decadentismo e acceso di superomismo, Leverkiihn è infatti anche l’emblema del popolo tedesco, che sentì come un’umiliazione intenzionalmente infettagli l’ordine geopolitico assun­ to dall’Europa dopo l’epilogo del primo conflitto mondiale e che vol­ le in seguito lanciarsi, guidata dal suo Fiihrer, in quella folle avventu­ ra demoniaca del Terzo Reich destinata a culminare in una catastrofe. Del resto, dai vari articoli e interventi radiofonici che Mann dedica, grossomodo nella prima metà del Novecento, sia all’antisemitismo sia al quadro politico in corso di definizione nel proprio Paese, possiamo agevolmente intendere in quale maniera egli interpretasse il nazismo: una maniera che trova perfetta esemplificazione nelle succitate parole rivolte dal demonio al protagonista del Doctor Faustus. Già in un articolo steso nel 1921, La questione ebraica, lo scrittore si sofferma sul «crollo morale del 1918», scorgendovi «il raccapric­ ciante e radicale farneticare della germanicità su se stessa, quel bran­ dire le armi generalizzato contro l’ideologia menzognera della retori­ ca borghese occidentale». La prima guerra mondiale è insomma il sin­ tomo non soltanto di una crisi etico-politica vissuta dalla Germania e dall’Europa tutta, ma anche dell’improvvisa impasse della modernità, di quei progetti di emancipazione individuale e collettiva fattisi social-

2

M/W., pp. 297-298.

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incute c culturalmente egemoni ncll’( )ttoccnto’. Idea, qucst’ultima, che diventa esplicita in tino scritto del 1935 di fondamentale impor­ tanza per comprendere il pensiero di Mann: Attenzione, Europa'. Se il Vecchio Continente si trova in una situazione «spaventosa», ciò avvie­ ne perché esso deve da tempo registrare, «rispetto al XIX secolo», un «incredibile declino della cultura» e un violento «regresso morale», non già prodotti dalla guerra ma da questa favoriti; perché è aggredi­ to da «un fenomeno secolare», contraddistinto «dall’emergere e dall’affermarsi dell’uomo-massa». La «lotta contro l’idealismo» otto­ centesco ha portato all’abiura dell’individualismo moderno di tipo progressista, sicché, estimisi «concetti quali cultura, spirito, arte, idea», gli uomini e le donne «non sanno più niente della “formazione” nel suo significato più alto e profondo, del lavoro su se stessi, della re­ sponsabilità individuale e della fatica», preferendo adagiarsi in una «moda di vita collettivistica» che li faccia perdere nella «massa», li sottragga «a ogni impegno di vita personale», li dispensi «dal proprio lo». Si è smesso di credere «nella benedizione della democrazia libe­ rale, ma anche nel socialismo», inteso quale disegno di liberazione di una comunità cui offrire sapere e benessere. Ecco dunque levarsi queH’«enorme ondata di eccentrica barbarie e di democratica e primi­ tiva rozzezza da baraccone» che ha poi generato il fascismo da una parte e il nazismo dall’altra, ossia esperienze in grado di legare a sé i cittadini tramite «ipnosi», di rendere concreto il rischio di una guerra che condurrebbe al «tramonto della civiltà», di distogliere gli indivi­ dui da quella che per loro sarebbe dovuta diventare una necessità non più rinviabile: la definizione di «un umanesimo militante», che sco­ prisse «la propria virilità» e si riempisse «della convinzione che il prin­ cipio della libertà, della tolleranza e del dubbio non può lasciarsi sfrut­ tare e sopraffare da un fanatismo che è senza vergogna e senza dubbi»4. I .o stesso antisemitismo nazista, stando a quanto si evince dalla lette­ ra indirizzata pubblicamente a Eduard Korrodi nel 1936, per Mann è il segno della più profonda e addirittura mefistofelica aspirazione nu­ trita dal regime: far regredire l’umanità a uno stadio «primitivo», a

' Id., Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica, Mondadori, Milano 2005, I». J8. ' /Azi/., pp. 45,48-52, 60-61.

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un’irrazionalistica e quasi orgiastica condizione di blasfema animalità. Difatti,

L’odio per gli ebrei dei tedeschi, o di chi ha ora il potere, non riguarda, dal punto di vista spirituale, gli ebrei o comunque non riguarda solo loro: riguarda l’Europa e ogni spirito tedesco più elevato; riguarda, come si di­ mostra sempre più chiaramente, le antiche fondamenta cristiane della ci­ viltà occidentale; è un tentativo (simboleggiato dall’uscita dalla Società delle Nazioni) di scuotere i legami della civilizzazione, che minaccia di provocare uno straniamento terribile e nefasto tra la terra di Goethe e il resto del mondo5.

II

Anti-moderno, quindi ostile ai valori borghesi, e anti-cristiano, perciò incline a distruggere l’uomo: il nazismo Mann lo giudica così, cioè a dire in maniera simile a come Sokurov, dalla sua prospettiva di ancor più risoluto conservatore, valuta le diverse occorrenze di totalitarismo conosciute dal Novecento. A segnare la distanza tra le due interpreta­ zioni è principalmente il fatto che il cineasta, sulla scia di quel populi­ smo russo che contraddistingue tanto il socialismo cristiano del Tol­ stoj di Che cos'è l'arte? quanto il socialismo ortodosso del Dostoevskij del Diario di uno scrittore, è a sua volta fieramente anti-moderno, fin­ ché si pensa alla modernità anzitutto come al palcoscenico dell’indivi­ dualismo, dell’arte, della cultura e dell’interiorità borghesi, ma si di­ mostra senza riserve moderno, se con modernità si intende il coeren­ te e massimo sviluppo di un umanesimo di matrice cristiana che san­ cisca la «crescita interiore» e preveda la partecipazione al «processo creativo» del popolo, sentito quale irrinunciabile motore e protagoni­ sta di ogni forma autentica di civiltà, bellezza, sapere6. E così, nella sua trilogia sui sistemi totalitari - Moloch (1999), Taurus (Telec, 2000), Il sole (Solnce, 2004) -, egli legge le quattro modalità di autoritarismo ri­ scontrabili nel ventesimo secolo e persino oltre - il nazismo, il sociali­ smo realizzato e, nell’ultima pellicola citata, sia il potere imperiale

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Ibid., p. 75. A. Sokurov, Nel centro dell’oceano, Bompiani, Milano 2009, p. 85.

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giapponese sia la democrazia sial unitense - come regimi che hanno mirato o ancora aspirano, quando in maniera del tutto irrazionalistica e quando, al contrario, sulla scorta di un fanatico illuminismo, a libe­ rarsi di Dio; come dittature che, in piena blasfemia, hanno perciò con­ cesso alle immagini e ai corpi dei propri governanti incongrui caratte­ ri divini; come imperi che hanno in tal modo sospinto le rispettive so­ cietà, e tutto il genere umano, in una condizione di neo-paganesimo. Nell’ottica di Sokurov, Hitler è la reincarnazione della divinità alla quale i cananei sacrificavano in olocausto i bambini e la cui figura può aver influenzato i greci nella creazione di Kronos, divoratore dei pro­ pri figli e padre di Zeus: è, insomma, un dio della distruzione, che am­ bisce a un potere incontrastato e alla vita eterna attraverso la sospen­ sione del tempo e la puntuale carneficina dei propri stessi adepti, ol­ tre a proporsi ai suoi fedeli come una specie di angelo vendicatore giunto a punire con la morte quegli ebrei che, secondo un’antica leg­ genda antisemita risalente al Medioevo, rapivano i piccoli cristiani per bruciarli vivi in rituali legati al culto di Moloch. Lenin è un risorto Zeus, il dio che, stando alla mitologia greca, assunse le sembianze di uno splendido toro bianco per sedurre Europa, la leggendaria princi­ pessa fenicia; è un redivivo Capaneo che ha saputo inverate l’ateo pro­ getto rivoluzionario nato nel Vecchio Continente ma che lì i cittadini avevano preferito non portare a termine, giacché per loro «troppo grande era il rischio di perdere ciò che essi apprezzavano al di sopra di ogni idea e di ogni arte - il proprio benessere»; è dunque il titanico leader politico che per decenni e decenni, e in certi casi ancora oggi, non pochi «intellettuali occidentali» hanno ammirato o continuano a venerare, spesso vittime di un «inconscio senso di colpa» nutrito nei confronti di coloro che, i russi, hanno «sperimentato sulla propria pel­ le le implicazioni effettive del socialismo»7. Hirohito è il centoventiquattresimo discendente della dea del sole Amaterasu o, come gli fa notare un servitore, «l’incarnazione di dio», nonché «il Giappone stesso»; ma è anche il solo monarca assoluto, fra quelli ritratti da So­ kurov, che viva il disagio di una condizione supposta divina e che ar­ rivi in ultimo ad abiurarla, spinto a ciò dalla necessità di scendere a patti con gli Stati Uniti per salvare la propria nazione e, ancor più, dai suoi convincimenti di scienziato e biologo marino dilettante, dalle sue



Ibid., p. 259.

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idee di segreto intenditore di dottrine politiche non orientali che gli suggeriscono di considerare il proprio corpo non diverso «da quello di qualunque essere umano», dalle sue occulte passioni di insospetta­ bile e aggiornato conoscitore - lui che a taluni fotografi e soldati ame­ ricani ricorda Charlie Chaplin - di quella luccicante eppure infera modernità occidentale bene esemplificata dai celebrati divi dell’indu­ stria cinematografica hollywodiana e da una bomba atomica la cui de­ flagrazione fece pensare, al popolo nipponico e a chi lo guidava, di «essere attaccati da bestie». E il generale MacArthur, rappresentante di quei vincitori della seconda guerra mondiale con i quali Hirohito deve trattare la resa, simboleggia perfettamente - con il suo altezzoso cinismo da democratico liberale («Compra quello che puoi comprare: questa è geopolitica», spiega all’imperatore giapponese) e il suo esibi­ to disprezzo pseudo-illuministico per ogni organizzazione della vita, dei saperi e della società di tipo mitico-arcaico («Non capisco come si­ mili persone possano governare il mondo e mandare milioni di uomi­ ni a morire», si fa scappare quando vede per la prima volta il sovrano nipponico) - quelle che Sokurov giudica la rozzezza ideologica, la tri­ vialità morale e la feroce ossessione imperialistica intrinseche alla «for­ te tradizione di totalitarismo dal basso» connaturata all’America8. Tuttavia, ciascuno a proprio modo, tre dei quattro potenti appena esaminati sono anche altrettanti capri espiatori. L’isterico, ipocondriaco Hitler; quel nemico di Cristo persuaso che non si debba adorare «un uomo morto in croce», giacché nulla il de­ voto potrà ottenere da chi non ha saputo guadagnare per sé la vita eterna; quell’ossessivo macellaio che ritiene tutti gli esseri umani «ma­ ledetti porci» da frustare perché, vessando loro, spera di dimenticare d’essere quell’«assoluta nullità» che il padre di Eva Braun riconobbe subito in lui e quella vittima della «banalità» che ormai pure la donna sa scorgere nel suo viso alterato, nel suo corpo clownesco di pazzo megalomane; l’immaginifico Fiihrer finisce col sacrificare la propria esistenza, insieme con quella di milioni di individui, a un sogno, vin­ cere sulla morte, che una modernità disubbidiente a Dio ha a lungo coltivato e il nostro tempo continua a nutrire. E anzi, l’Hitler di Soku­ rov risulta somigliante al ritratto dell’uomo fascista schizzato da Jona­ than Littell in un saggio, Il secco e l’umido, steso dall’autore america-

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