I concetti fondamentali della teologia M-R [Vol. 3] 8839904417, 9788839904416

Dalla Premessa: "Detto con un po' di presunzione, la teologia è quanto di più pazzesco viene prodotto a livell

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I concetti fondamentali della teologia M-R [Vol. 3]
 8839904417, 9788839904416

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L'opera, l concetti fondamentali del­ la teologia, si articola in quattro vo­ lumi. Non si tratta propriamente di un dizionario teologico, anche se è scandita in ordine alfabetico, ma di un significativo esperimento che ri­ visita e attualizza, con tutti i sussidi della scienza moderna, la concet­ tualità della teologia cristiana. Ogni voce è affidata a uno speciali­ sta, generalmente di lingua tedesca, che presenta, in una monografia di sintesi, storia e teoresi della concet­ tualità teologica, esposta, analizza­ ta e contestualizzata in forma nuo­ va, con ricca e aggiornata bibliogra­ fia internazionale. L'opera rende un servizio prezioso alla ricerca teologica, ma anche al dialogo con la filosofia, con le scien­ ze e con la cultura contemporanea, rendendo disponibili le forme e le strutture essenziali di una coscienza e di una scienza religiosa, respon­ sabile e aperta al futuro. L'opera è diretta da uno dei più noti teologi di lingua tedesca, PETER EI­ CHER, docente nella Facoltà cattolica di teologia di Paderborn (Germania).

VOLUME3

M-R

Magistero Male (Il) Maria Meditazione Messia/Messianismo Mezzi di comunicazione e religione Miracolo Missione Mistica Mito Monachesimo/Ordini religiosi Monoteismo MorteNita eterna Musica e religione Pace Papato Parola di Dio Patrologia Peccato/Peccato sociale Pedagogia della religione/Catechetica Persona Pluralismo/Tolleranza Postmodernità e religione Povertà Preghiera Profezia Provvidenza Psicologia e teologia Psicoterapia e pastorale Redenzione Regno di Dio Religione Religione civile Religioni naturali/Etnologia religiosa Riconciliazione/Perdono Riforma Risurrezione Rivelazione

€58,50(i.i.)

Peter Eicher (ed.)

I CONCETTI FONDAMENTALI DELLA TEOLOGIA VOLUME 3 M-R

Edizione italiana a cura di GIANNI FRANCESCONI

QUERINIANA

Titolo originale: Peter Eicher (ed.), Neues Handbuch Theologischer Grundbegri/fe 1 .2.3.4. herausgegeben von Peter Eicher © 2005 by Kosel-Verlag GmbH

& Co., Miinchen ein Unternehmen der Verlagsgruppe Random House

© 2008 by Editrice Queriniana, Brescia

via Ferri, 75 - 25 123 Brescia (ltalia!UE) tel. 030 23 06925 - fax 03 0 23 06932 internet: www. queriniana.it e-mail: [email protected] Tutti i diritti sono riservati. È pertanto vietata la riproduzione, l'archiviazione o la trasmissione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, comprese la fotocopia e la digitalizzazione, senza l'autorizzazione scritta dell'Editrice Queriniana. ISBN 978-88-3 99-044 1 -6 Traduzione dal tedesco di ANTONIO AUTIERO, PAOLO BOSCHINI, GIANNI FRANCESCONI, ENZO GATTI, ANNAPAOLA LALDI, GIANNINO PULIT, PAUL RENNER Stampato dalla Tipolitografia Queriniana, Brescia

PIANO DELL'OPERA

Amore Angeli Anima/Autodivenire Animali/Protezione degli animali Antisemitismo Antropologia Arte e religione Ateismo/Teismo Autonomia Battesimo/Confermazione Bibbia/Interpretazione della Bibbia Bioetica Buddhismo Chiesa/Ecclesiologia Chiese ortodosse/Teologia ortodossa Cielo Colpa/Senso di colpa Conversione/Penitenza Corpo Coscienza/Responsabilità Creazione/Cosmo Critica della religione Dialogo ebraico-cristiano Dialogo islamo-cristiano Diavoli/Satana/Demoni Dio/Comprensione di Dio Diritti umani Diritto canonico Diritto e religione Disperazione/Angoscia Dogma/Dogmatismo Ebraismo/Giudaismo

Ecologia Ecumenismo Erotismo/Eros Escatologia/Apocalisse Esegesi/Scienza biblica Esoterismo Etica Etica economica Etica sessuale Etica sociale Eucaristia Fede/Fiducia Felicità Film e religione Filosofia Finitudine/Trascendenza Fondamentalismo Gerarchia Gesù Cristo/Cristologia Giustificazione Giustizia Grazia Identità Incarnazione/Farsi uomo Inculturazione Induismo Inferno Islam Laico/Clero Lavoro Letteratura e teologia Libertà

6 Liturgia Lutto/Accompagnamento del morente Magistero Male (ll) Maria Meditazione Messia/Messianismo Mezzi di comunicazione e religione Miracolo Missione Mistica Mito Monachesimo/Ordini religiosi Monoteismo Morte/Vita eterna Musica e religione Pace Papato Parola di Dio Patrologia Peccato/Peccato sociale Pedagogia della religione/Catechetica Persona Pluralismoffolleranza Postmodernità e religione Povertà Preghiera Profezia Provvidenza Psicologia e teologia Psicoterapia e pastorale Redenzione Regno di Dio Religione Religione civile Religioni naturali/Etnologia religiosa Riconciliazione/Perdono

Piano dell'opera

Riforma Risurrezione Rivelazione Sacramenti Sacrificio Salvezza/Guarigione Santo Scienza della natura e religione Scienza della religione Secolarizzazione Simbolo Sincretismo Sinodo/Concilio Sofferenza Solidarietà Spirito Santo/Pneumatologia Spiritualità Stato/Chiesa Storia!Agire di Dio Storia della Chiesa Straniero/Estraneo Streghe Teologia come scienza Teologia/Discipline Teologia politica Teologia pratica Teologie della liberazione Teologie femministe/ Spiritualità femminista Teologie medievali Teologie dell'età moderna Tradizione Trinità Usi e costumi/Festa Vangelo/Legge Violenza

Magistero Chiesa/Ecclesiologia Dogma/Dogmatismo Gerarchia Papato Sinodo/Concilio Teologia pratica Teologie femministe/Spiritualità femminista ---+

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l. IL CONCETIO

ll termine latino magisterium, conservato ancor oggi nel titolo di magi­ ster, deriva da magis (maior = maggiore) in contrapposizione a minus (mi­ nor = minore) e indica dunque il rapporto di autorità o superiorità di una persona o di un'istanza rispetto alle altre persone o istanze ad essa subor­ dinate. Magistero designa perciò l'autorità più alta per quanto riguarda la dottrina. Questa origine semantica rimanda anche ad uno sviluppo asimmetrico del pensiero e del discorso nella chiesa. C'è infatti uno stretto nesso tra le trasformazioni del magistero e quelle della chiesa, all 'interno e all'esterno: sono da menzionare in modo particolare l'accentuazione del suo aspetto gerarchico (posizione di preminenza dei chierici nei confronti dei laici, de­ gli uomini nei confronti delle donne), la distinzione tra chiesa 'docente' e chiesa 'discente' (esplicita a partire dal XVIII secolo), la costituzione di un potere dottrinale (potestas magi'sterii) accanto al potere di ordinazione e al potere di giurisdizione (Villemin) e la definizione dell'infallibilità pontifi­ cia al concilio Vaticano I ( 1 870) . La dogmatizzazione della infallibilità pontificia rafforzava il potere centrale di Roma, favoriva l'ultramontani­ smo e consolidava l'intransigenza cattolica nei confronti del mondo mo­ derno (Chiron) . Sotto Pio XII, l'unico papa che si è appellato diretta­ mente all'infallibilità quando ha definito il dogma dell'assunzione di Ma­ ria al cielo ( 1 950), si era arrivati perciò ad un significato molto restrittivo del concetto di magistero: si parlava soltanto al singolare de il magistero del papa. Si può così troncare ogni discussione e renderne impossibile la ripresa da parte dei teologi. Da essi si esige che pongano la loro attività al servizio della spiegazione dei pronunciamenti magisteriali (dr. Humani generiS 1950). Questa concezione estremamente ristretta del magistero corse parallela a una definizione altrettanto restrittiva della teologia, che si basava sull'insegnamento di un rigido neotomismo, staccato dalle sue ra­ dici storiche e imposto a tutta la chiesa. C'è dunque simmetria tra una

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struttura ecclesiastica rigidamente gerarchica, in cui il popolo di Dio ha funzioni esclusivamente ricettive, ed una teologia uniformata, che è co­ stretta a sottoporsi a pronunciamenti già fissi, fino al punto che la Scrittu­ ra e la molteplicità delle sue teologie, storicamente formatesi, è sostituita dall'autorità del magistero, che rivendica espressamente a sé l'ultima pa­ rola sulla parola di Dio. L'atteggiamento di difesa di fronte al mondo mo­ derno e al suo costitutivo «principio della pubblica opinione» (Habermas 1990) era in tal modo perfetto. Un tale sistema non può durare poiché conduce a conflitti insolubili tra due autorità, che diventano rivali perché non osservano più i rispettivi am­ biti di competenza. Da un lato, il magistero autoritario, appellandosi alla propria responsabilità pastorale, cerca di imporre un punto di vista uni­ versale, ma per farlo ha bisogno di una teologia estremamente particolare, che nel pluralismo sociale è naturalmente soggetta alla discussione pub­ blica. Dall'altro lato, i teologi vogliono far valere la loro responsabilità scientifica, in tal modo però mettono spesso in questione le direttive pa­ storali e i profili di una religione fortemente radicata in tradizioni. Ambe­ due, quindi, si espongono al rischio di rendere il terzo fattore, che è in gio­ co nella loro contesa, una caricatura: gli interessi del popolo di Dio, che secondo la tradizione di questa chiesa è ispirato e guidato dallo Spirito Santo (cfr. già J.H. Newman, On Consulting the Faith/ul in Matters o/ Doc­ trine, 1 859) . li concilio Vaticano II non ha risolto questo difficile problema, ma ha comunque posto le fondamenta per una definizione e un'applicazione più differenziata del magistero. Anzitutto restituisce al popolo di Dio, almeno a parole, il posto che gli spetta e ricorda che esso «non può sbagliarsi nel credere» quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici mostra l'univer­ sale suo consenso in cose di fede e di morale» (LG 1 2 ) . Quindi precisa che il soggetto del magistero supremo è il romano pontefice in comunione in­ scindibile con il collegio dei vescovi e sottoposto al servizio della parola di Dio (DV 10; LG 25). Infine, sottolinea la necessità di un'apertura al lavo­ ro teologico (GS 44 ,62 e la Dichiarazione CE 10 e 11). D'ora in avanti, quindi, per magistero si deve intendere la responsabilità comune dei ve­ scovi, uniti al romano pontefice, per la predicazione del vangelo, «oppor­ tunamente o inopportunamente». Il concilio Vaticano II ha evidenziato in quali difficoltà era incorso, a causa dello sviluppo globale, un magistero inteso in senso centralistico e dentro quale situazione complessa doveva essere mediata l'unica dottrina: nelle situazioni della decolonizzazione, dei movimenti di liberazione, della crescente autonomia delle giovani chiese nel processo dell'attività di missione e della inculturazione e, in quel mo­ mento, soprattutto nella situazione delle questioni, largamente controver-

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se, del riarmo e delle armi di distruzione di massa. Il pluralismo - di fatto accettato - nelle questioni sociali e nelle forme che si andavano differen­ ziando della teologia moderna, il forte sviluppo, dopo la seconda guerra mondiale, della pedagogia della religione nelle università statali e nelle scuole specialistiche, il modo di trattare le religioni nei media e le teologie in internet, rete globalizzata, tutto ciò non è controllabile come un tempo accadeva per la teologia nei seminari per sacerdoti, nelle scuole degli or­ dini religiosi e nelle università vincolate da accordi concordatari. Per que­ sto motivo le diverse forme del magistero, nella chiesa universale e nelle chiese locali, devono oggi produrre la prova dello Spirito e della forza, se nelle crisi del presente esse vogliono trovare largo ascolto - gli appelli al­ l' ordine non bastano.

Il. I FONDAMENTI

n magistero riceve la propria funzione e delimitazione nel contesto ge­

nerale di una ecclesiologia equilibrata del popolo di Dio, che è chiamato alla comunione con il mistero di Dio e strutturato secondo carismi e mi­ nisteri. l. Missione e compito. In primo luogo il magistero è radicato nel com­ pito, che precede e che è affidato alla chiesa, di annunciare a tutti i popo­ li il messaggio liberante del regno di Dio: un annuncio in parole e azioni, che di solito si manifesta nella testimonianza quotidiana (anche nelle mol­ teplici forme dei media, quali giornali, radio, televisione, internet) e nella predicazione. Questo compito comprende due aspetti, che insieme costi­ tuiscono il fondamento della chiesa: l'aspetto della tradizione e quello del­ la ricezione attiva, trasformatrice e creativa. Come Gesù ha realizzato le promesse tramandate a Israele, accogliendole pienamente e traducendole in pratica, così anche le comunità cristiane e in esse i singoli devono ac­ cogliere in Gesù il vangelo e il destino d'Israele e tradurlo in pratica (Mc 16,15-20; Gv 17 ,6-26; l Cor 11,23; 2 Cor 1,20; Eb 5,8; 1 0,9 ) .

2. Chiesa come soggetto della verità. La duplicità di tradizione (traditio) e ulteriore sviluppo autonomo (receptio) fa della chiesa il soggetto della ve­ rità che si rivela. Infatti, alla rivelazione della libertà appartiene essenzial­ mente la libertà della mediazione della rivelazione, dunque anche la li­ bertà interiore ed esteriore di insegnamento nell'analisi scientifica di testi

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e nella responsabilità pastorale della predicazione. Soltanto all'interno di questo spazio di libertà la chiesa rimane mater et magistra madre e mae­ stra (cfr. LG 17). Non ci può essere alcun ministero di discernimento del­ la fede e dell'autenticità della condotta cristiana senza il sensus /idelium, la fede liberamente vissuta del popolo cristiano che, come in molte epoche di crisi, conserva la chiesa nella sua fedeltà al vangelo. Una dottrina vin­ colata all'evento di rivelazione non può essere ridotta a semplici verità in­ tellettuali, alle cosiddette «proposizioni rivelate», ma si sviluppa piuttosto nella connessione simbolica di parola, sacramento e agire comunicativo. Questa simbolica vivente della chiesa si misura su tutto ciò che fu tra­ mandato dagli apostoli come proveniente dal Signore (depositum della ri­ velazione divina) e, d'altra parte, trova espressione nell'istruzione attra­ verso insegnamento della religione, predicazione e catechesi, oltre che nel­ la preghiera liturgica e nell'agire sociale. n pluralismo delle espressioni nelle molteplici tradizioni locali delle chiese si regola autonomamente su questa base e non può essere sostituito da alcuna dottrina unitaria. La molteplicità di espressione della verità religiosa acquista inoltre particola­ re importanza per distinguere più forme di magistero: nel protestantesi­ mo, per esempio, che non riconosce alcuna autorità magisteriale diretta. In molte chiese evangeliche le confessioni di fede svolgono un ruolo im­ portante di discernimento; dal punto di vista della prassi hanno la stessa funzione anche i tribunali rabbinici. Poiché però, in tutta la ricchezza mul­ tiforme della sua dottrina e anche mediante la grande varietà della sua prassi, la ekklesia si distingue chiaramente da altri gruppi sociali, si può costituire un corpus - per lo più formale - di dottrine che permettono di tracciare delle linee di confine tra ciò che essa riconosce come autentico e ciò che le è invece (ancora) estraneo (Tt 2, 1 ; At 2,32: «dottrina degli apo­ stoli»; Co/ 1 ,5; E/ 1 , 1 3; l Gv 4 , 1 ss.; Eb 1 3,7-9) . -

3. I corpi ministeriali. Nella comunità dei cristiani i ministri ordinati- e prima di tutti il collegio episcopale nella successione ai Dodici - testimo­ niano alla comunità la priorità della parola di Dio: trasmettono ciò che es­ si stessi hanno ricevuto e si preoccupano di non alterare l'autenticità del vangelo (2 Tm 4 ,2-5; Tt 1 ,9; Ga/ 2,2-6; At 6,2; 1 5,6 e passim). La funzione magisteriale è dunque uno dei compiti che deriva dall'ufficio fondamen­ tale di ogni chiesa locale retta da un vescovo in collegamento con le altre chiese e con il collegio dei vescovi. n concilio Vaticano II ricollega chiara­ mente il magistero al primo dovere dei vescovi, che è quello di predicare il vangelo (LG 25) . Da questo punto di vista gli altri ministeri (gerarchici) istituzionalizzati, che esistono attualmente, il presbiterato e il diaconato e, d'altro lato, i ministeri istituiti (non gerarchici) esercitano anch'essi in mo-

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do analogo delle irrinunciabili funzioni magisteriali, ad esempio nell'inse­ gnamento religioso e nella catechesi, nella celebrazione di sacramenti e in atti ecclesiali particolari come matrimoni e funerali, ma anche nell'assi­ stenza pastorale in caso di incidenti, nella interpretazione religiosa di feste e celebrazioni di anniversari, nei dialoghi interreligiosi e soprattutto nelle forme di comunicazione attraverso i media. I confini tra una ermeneutica religiosa pubblica dell'esistenza moderna, nella quale i laici sono liberi, e una teologia ecclesiale vincolata alle direttive del magistero gerarchico, so­ no diventati, grazie alle strutture moderne di comunicazione - già prima di internet- ampiamente aperti. L'opinione pubblica giudica a sua volta il magistero- e non senza severità. Nella prospettiva biblica la verità, 'emet, si fonda radicalmente sulla fedeltà di Dio, che si manifesta storicamente essa perciò non può essere catturata e fissata attraverso speculazioni e dot­ trine. Essa opera in modo autonomo.

III. SVILUPPI STORICI

Non si può scrivere una storia della funzione del magistero nella chiesa senza coinvolgere numerosi fattori: biblici, teologici e filosofici, sociologi­ ci, come anche condizioni culturali e storiche. Non si può fare alcun con­ fronto fra medioevo, un'epoca in cui soltanto i chierici erano persone istruite, e la situazione odierna dei cristiani, che vivono in una società se­ colarizzata con una molteplicità di scienze critiche e una ricca offerta di mezzi di comunicazione.

l. Nella patristica e in tutto il primo millennio non c'è in pratica, alme­ no nelle comunità maggiori, alcuna separazione tra l'ufficio del vescovo e quello del teologo (ci sono famose eccezioni come Origene, Tertulliano, Girolamo e così via). Dal periodo post-apostolico fino alla grande epoca della patristica sono i vescovi stessi che s'incaricano di difendere l'orto­ dossia. Nella sua lotta contro la gnosi Ireneo giustifica questo compito (e allo stesso tempo, potere) adducendo la successione apostolica come for­ ma e garanzia dell'autentica tradizione cristiana. Ciò è teologicamente fondamentale, poiché in tal modo il magistero viene legato all'ufficio epi­ scopale e al principio della collegialità. In Oriente e in Occidente sono gli stessi responsabili delle chiese che si sforzano di respingere le opinioni e le pratiche che non sembrano loro autentiche (Atanasio, Ep. ad Serapium; Basilio, Adv. Eun .; Agostino, Scritti contro i Donatisti) . Molti conflitti che

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riguardano la dottrina e la disciplina sono regolati mediante sinodi regio­ nali o anche ecumenici, come quello di Nicea, dove si trattò della que­ stione cristologica, degli uffici e della data della Pasqua. Ireneo ha anche formulato il principio della tradizione: «ciò che è stato creduto dapper­ tutto, sempre e da tutti». Questo principio va compreso a partire dalla sua intenzione di conservare la piena integrità della fede, naturalmente senza trascurare le possibili differenti posizioni dei magisteri. Così, il concilio di Firenze ha assunto una posizione assolutamente restrittiva nei confronti della massima «Fuori della chiesa non c'è salvezza» - una formula che in origine si riferiva all'arca di Noè e che il concilio Vaticano II non menzio­ na neppure una volta (Sesboiié 2004) . 2. Lo sviluppo della teologia scolastica nelle università, in modo partico­ lare a partire dal XIII secolo, causa uno spostamento e una nuova diffe ­ renziazione del magistero, perché la teologia acquista una sua autonomia. Tommaso d'Aquino ritiene possibile la distinzione pacifica e il compro­ messo tra due magisteri, quello pastorale e catechetico dei vescovi e quel­ lo scientifico dei teologi, che però resta subordinato al primo, riservando ad esempio all'autorità del sovrano pontefice la possibilità di definire un nuovo Simbolo (In Sent. 1 9,2,2 q. 2 ad 4; S.th . II-II, q. l a. 1 0) . In effetti questi due magisteri hanno operato in sintonia, allorché, ad esempio nel caso di Lutero, alcune delle sue tesi furono condannate da università (Lo­ vanio e Parigi), discusse da teologi (Eck, Caetano) e censurate dalla bolla pontificia Exsurge Domine. Solo col diminuire dell'interesse pastorale nel­ la teologia si arrivò ad una censura più meticolosa, che si concentrava di più sugli asserti intellettuali: nei dodici anni tra il1 240 e il1 252 si posso­ no contare a Parigi trenta processi. Interventi di Roma per condannare un'opinione ritenuta errata, talvolta dietro richiesta di una università, per esempio contro Baio o contro il lassismo, ce ne sono sempre stati; ad esempio, quello di Innocenzo X contro il giansenismo nel 1 633. Questa fase storica rende più comprensibili i conflitti che si crearono tra l'auto­ rità episcopale e i teologi, inclusa l'equiparazione, da parte di L utero, di curia e autorità teologiche. I teologi stessi hanno deciso in modo autorita­ tivo questioni relative all a verità. Determinate strutture sinodali venivano addirittura dominate da teologi, basti ricordare la 34a sessione del conci­ lio di Basilea, il 25.6. 1439, nella quale si contarono 300 doctores su sette vescovi. Il potere di questo magistero dei teologi fu messo in questione dall'eli­ minazione della maggior parte delle facoltà teologiche durante la rivolu­ zione francese e sotto Napoleone. La conseguenza fu che nel XIX secolo i papi ripresero a erigere, sotto la loro autorità, le facoltà teologiche aboli-

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te ed iniziarono allo stesso tempo a sviluppare un'intensa attività teologi­ ca (specialmente attraverso le numerose encicliche che furono pubblicate a partire dal secolo scorso). 3. Attualmente, per valutare il ruolo del magistero svolgono una parte sempre più rilevante fattori interpretativi extrateologici e anche extraec­ clesiastici. In seguito alla critica del concetto oggettivo di verità della me­ tafisica tradizionale a favore di una concezione genealogica e pragmatica di verità, sotto l'impronta della secolarizzazione politica e culturale e del­ lo sviluppo delle scienze umane (specialmente della sociologia, della psi­ coanalisi, della scienza della religione e della scienza storica), della biolo­ gia, dell'etnologia e di altre scienze, la dottrina e la prassi non sono più vi­ ste in rapporto soltanto ad una loro verità propria, ma anche nei loro li­ miti ed effetti storici o immaginati. Già prima del sorgere di queste scien­ ze, DOllinger si è battuto perché si divenisse consapevoli del ruolo svolto dall'opinione pubblica e dai criteri scientifici in questo contesto. Questo teologo tedesco della fine del secolo XIX si è opposto al dogma dell'infal­ libilità e nel 1871 è stato scomunicato. Dollinger, convinto della dignità scientifica inattaccabile della teologia, era dell'idea che essa debba for­ mare «una opinione pubblica retta e sana in cose religiose ed ecclesiasti­ che», alla quale «alla fine tutti si piegano, comprese le autorità della chie­ sa e i potenti». Il pensiero di Dollinger, che pure continuò a sostenere la subordinazione della teologia al magistero episcopale, apparve come un rifiuto dell'autorità magisteriale. La sua posizione fece prendere coscien­ za della componente 'ideologica' e 'politica' che si trovava forse, se non negli interessi, per lo meno negli effetti dei pronunciamenti magisteriali. Si è potuto dire che Dollinger si è sbagliato cedendo alla linea di una teo­ logia 'borghese' o 'liberale', una teologia che si rivolge non tanto alla 'massa del popolo' quanto piuttosto all a 'élite culturale', tracciando così una linea di demarcazione tra un cattolicesimo che è disposto ad adattar­ si ad una certa mentalità critica moderna ed un cattolicesimo 'intransi­ gente', con un suo sistema dottrinale infallibile che non fa concessioni. Ma si può anche dire che Dollinger è stato il primo teologo cattolico ve­ ramente moderno, che ha difeso il principio della pubblica libertà di opi­ nione nel senso critico. 4. La crescente consapevolezza delle chiese locali corrisponde alla loro re­ sponsabilità locale per il tutto, per cui questa responsabilità non può es­ sere delegata ad una centrale o già anticipata da questa centrale rispetto agli sviluppi. Del resto, le chiese locali possono anche scomparire dalla storia, come è accaduto in Nordafrica e in parte nel Vicino Oriente. Altre,

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soprattutto in Asia, possono svilupparsi in modo autonomo soltanto con molta difficoltà. Molte chiese locali, come accade in America latina, sono esposte alla dura concorrenza da parte di altre confessioni. I criteri per giudicare questo sviluppo globale diventano necessariamente sempre più astratti - ma così la teologia diventa anche più pluralistica.

IV. CONDIZIONI E MODALITÀ

Per un magistero autentico, le cui modalità peraltro possono variare, sono necessarie tre condizioni. l. La dottrina. n magistero episcopale vigila sull'autenticità dell'annun­ cio del vangelo per oggi, basandosi sul sensus /idelium, a cui partecipa es­ so stesso, e richiamandosi alla regula /idei che pure lo precede. Ma qui co­ minciano le prime difficoltà. La fase di predominio della teologia neosco­ lastica è passata. Questa è naufragata per via della sua concezione razio­ nalistica della rivelazione, della sua mentalità autoritaria, della mancanza di mediazione storica, di un falso universalismo, di una carente ermeneu­ tica della Scrittura e del suo pluralismo, della fondazione eteronoma del­ l'etica e di una scarsa scientificità. Nella odierna situazione di un plurali­ smo teologico che si autoregola e si autocritica, nella nuova situazione di apertura tra le scienze e il mondo dei simboli religiosi e nella situazione del rinnovato apprezzamento delle chiese locali, i criteri per un controllo dell'ortodossia nella dottrina sono perciò meno rigidi. Non sempre, inol­ tre, è possibile isolare di nuovo un aspetto singolo della dottrina e stac­ carlo dalla struttura generale di un pensiero o di una prassi orientati a de­ terminate questioni. Se a questo proposito si prendono in considerazione le diverse ammonizioni o condanne dell'ex Sant'Uffizio a partire dagli an­ ni Quaranta del secolo scorso, si constata che esse testimoniano spesso una ignoranza delle leggi dell'indagine teologica (dai procedimenti contro Yves Congar e Henri de Lubac fino ai recenti rifiuti del nihil obstat per Silvia Schroer, Regina Ammicht Quinn e molti altri teologi e teologhe) . Dopo il concilio Vaticano II, in alcune chiese locali sono stati messi in ope­ ra degli ordinamenti procedurali per proteggere i diritti della difesa, al­ meno in linea di principio, e per dare alle autorità intermedie (ordini reli­ giosi, vescovi) la possibilità di una mediazione senza la partecipazione del­ l' opinione pubblica. Le discussioni hanno trovato una certa qual riper­ cussione nella Commissione teologica internazionale e anche in alcuni do-

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cumenti pontifici. Tuttavia, la situazione si presenta sempre più comples­ sa: il pluralismo teologico è diventato un fatto, per non dire un buon di­ ritto. A questo punto è necessario fare una distinzione tra gli interventi magisteriali che toccano la dogmatica e quelli che toccano problemi etici. Nell'ambito dogmatico il corpo di dottrine è più nettamente delineato grazie alla lunga esperienza storica della chiesa e alle numerose verifiche critiche che essa ha già dovuto intraprendere (per esempio, nella cristolo­ gia), grazie alle confessioni di fede, concili e sinodi, le liturgie e le conce­ zioni persistenti nella fede popolare. Proprio questo 'consenso', che spes­ so viene falsamente spacciato come semplicemente presente, dovrebbe evidenziarsi anche nelle nuove culture e lo stesso deve affermarsi nella si­ tuazione delle acuite controversie interreligiose delle società secolarizzate, conformemente al principio della libera opinione pubblica, attraverso la forma aperta del rendersi possibile oggetto di discussione. Antiche pro­ blematiche dogmatiche vengono 'spiazzate' e nelle prospettive dei nuovi orizzonti culturali sperimentano nuove interpretazioni (da parte della teo­ logia femminista, da parte delle tradizioni religiose dell'Asia, che toccano anche l'essere-persona di Dio o la mediazione di Gesù Cristo, e così via) . Nella situazione della globalizzazione una nuova determinazione magiste­ riale presuppone il rinnovamento della teologia in queste questioni. Nel­ l'etica le questioni sono spesso anche più pressanti. Poiché esse si basano per lo più durevolmente su nuove possibilità tecniche e scientifiche, che non hanno ancora trovato un consenso scientifico o sociale, anche all'in­ temo delle chiese vanno sviluppati dei nuovi processi per ottenere con­ senso. Questi sono necessari anche per rispondere ad una cultura profon­ damente mutata e che continua a cambiare. Si pensi alle questioni relati­ ve alla violenza e alla sessualità, alle questioni suscitate dalla biogenetica e dalla medicina (costi della sanità, eutanasia, eugenismo) , alle questioni della scienza, in particolare dell'energia nucleare, e soprattutto anche alle questioni che derivano dai diritti dell'uomo e dalla crescente responsabi­ lità globale. A differenza dei problemi dogmatici, nell'ambito dell'etica l'argomentazione magisteriale si richiama ad un 'diritto naturale' o ai 'di­ ritti umani' , vale a dire a principi generali che vanno al di là della peculia­ rità del vangelo. Qui perciò il magistero agirebbe piuttosto come testimo­ ne tra i popoli, che fa appello alla coscienza generale e che in tal modo espone anche se stesso alla interpellanza di altri. ll concilio Vaticano II ha rivolto un messaggio al mondo e Giovanni XXIII si è rivolto agli «uomini di buona volontà». Non c'è motivo di delimitare questa competenza del magistero, come fa ancora il nuovo diritto canonico (CIC 747 § 2): qui tro­ va espressione non tanto la rappresentazione di una volontà di potere, quanto piuttosto il desiderio di testimoniare la fede cristiana e di darle la

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possibilità di fornire la prova della sua rilevanza. Infine, si tenga presente che prescrizioni di controllo riguardante un corpo dottrinale sono sempre molto più dettagliate ed esplicite che non per espressioni artistiche come pittura, scultura, film, musica e letteratura. Fino a quando le forme non li­ bere delle discussioni (segretezza delle perizie, impossibilità di prendere visione degli atti, nessuna pubblicità, limitati diritti di difesa, nessuna via gerarchica, termini stabiliti in modo arbitrario) contraddicono il contenu­ to della religione della libertà, i procedimenti continueranno in realtà ad ottenere il contrario di ciò a cui tendono, ossia la credibilità. 2 . Istituzione e procedimento di controllo. Come condizione per l'eserci­ zio del magistero non bastano un corpo di dottrine ed una prassi accetta­ ta come autentica. Occorrono anche un'istituzione e un procedimento di controllo. Nel processo della tradizione (che comprende la traditio attiva e la receptio più passiva) , costitutivo per la vita ecclesiale, si deve anzitut­ to porre in risalto la rilevanza fondamentale che spetta alla fede del popo­ lo cristiano, al sensus fidelium. Purtroppo, a questo proposito, nel nuovo Codice di diritto canonico si trovano soltanto allusioni indirette. Ad ogni modo, a differenza del codice del 1 9 1 7 , esso tiene presente ilconcilio Va­ ticano II e nel libro III, sul «magistero della chiesa», al quale appartiene esplicitamente anche la testimonianza dei fedeli (c. 759) , lega il magistero al ministero episcopale. A partire da una lettera di Pio IX al vescovo di Monaco di Baviera, nel 1863 , è diventato usuale distinguere tra il magistero ordinario e universale dell'episcopato mondiale e il magistero straordinario innanzitutto dei con­ cili e, dal 1870, del papa con la sua infallibilità ex cathedra. TI concilio Va­ ticano I fa propria questa distinzione: «Per fede divina e cattolica si deve credere a tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o traman­ data ed è proposto alla fede dalla chiesa come rivelato da Dio con deci­ sione solenne o mediante annunci dottrinali comuni e generali» (DH 301 1 ; cfr. anche LG 25 e CIC 750.752s. ) . La distinzione risponde ad una presa di posizione di teologi che volevano limitare l'autorità del magiste­ ro unicamente alle definizioni solenni dei concili. È questa una concezio­ ne giuridico-casistica della teologia, che proviene dal XVI secolo e dal con­ cilio di Trento, quando un sistema di censura molto rigoroso costrinse i teologi a tener presente tutta una gerarchia di qualificazioni teologiche: verità de fide, /idei proxima, theologice certa, sententia communis, rispetti­ vamente in contrapposizione a eretica, vicina all'eresia, sbagliata, che su­ scita contrarietà e scandalo - una concezione ristretta, angusta e minima­ lista della riflessione cristiana, che conduce ad una 'teologia da Denzinger' (cosiddetta dal nome dell'editor di una raccolta di testi dottrinali più o me-

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no vincolanti), una teologia razionalistico-deduttiva, dominata da questio­ ni sull ' autorità, staccata dalla Scrittura e dalla vita delle comunità. n Vati­ cano II riprende questa distinzione, ma lega il magistero al collegio dei ve­ scovi e si aspetta da tutti i fedeli che dimostrino la loro obbedienza nei confronti del magistero autentico della chiesa (LG 25 ; cfr. CIC 752-754) . Negli ultimi decenni del XX secolo si rese necessario, nelle prospettive del cammino iniziato nel concilio Vaticano II, sviluppare una dottrina pratica sull a chiesa, che rendesse conto della crescente importanza delle chiese lo­ cali nella chiesa universale e in questo contesto prendesse in considera­ zione anche il rapporto tra le conferenze episcopali e la Santa Sede. In tal modo poterono trovare sviluppo sinodi dei vescovi a Roma, ma anche conferenze episcopali nazionali e regionali, sebbene la Santa Sede abbia riservato a sé molte materie da regolamentare. La Santa Sede è continua­ mente intervenuta per sottolineare la necessità delle sue approvazioni, spesso anche minimizzando i ruoli delle conferenze episcopali locali. Pro­ prio per questo motivo resta auspicabile una più precisa descrizione delle modalità di questo magistero del collegio episcopale. a. n Vaticano II non riprende la definizione della infallibilità del magi­ stero pontificio formulata dal Vaticano L Tale definizione suona: «n roma­ no pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, in virtù della sua suprema autorità apostolica definisce che una dottrina riguardante la fede o i co­ stumi deve essere ritenuta da tutta la chiesa, per quell'assistenza divina che gli è stata promessa nel beato Pietro, gode di quella infallibilità di cui il divino Redentore ha voluto dotata la sua chiesa, allorché definisce la dottrina riguardante la fede o i costumi. Quindi queste definizioni sono ir­ reformabili per virtù propria, e non per il consenso della chiesa» (DH 3074). Facciamo notare che quest'ultima frase non vuoi dire che asserti definiti possiedono l'infallibilità indipendentemente dalla fede della chie­ sa, dato che la frase precedente pone in primo piano questa infallibilità della chiesa, ma significa che tali asserti non hanno bisogno di un'appro­ vazione successiva della chiesa. È un'affermazione che vuole andare con­ tro tendenze gallicane e conciliariste. Ma questa problematica di un' ap­ provazione da parte della chiesa è essa stessa superata dalla dottrina della ricezione delle chiese locali tra di loro e dal rinnovato apprezzamento del­ la collegialità episcopale. n Vaticano I non ha definito un'infallibilità che sarebbe legata alla persona del papa e quindi 'personale', ma un'infallibi­ lità riferita alla sua funzione, e la funzione del papa, sul piano dogmatico, non può essere separata da quella del collegio dei vescovi (Pottmeyer). Questa infallibilità pontificia resta limitata a circostanze ben definite e fi­ nora è stata rivendicata solo una volta, per la definizione dell'assunzione

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di Maria, nel 1950. Soprattutto a partire dal Vaticano II che, senza conte­ stare minimamente la priorità della cattedra romana, àncora però l'infalli­ bilità ecclesiologicamente al collegio dei vescovi, si può dubitare che que­ sto dogma del concilio Vaticano I possieda ancora una applicabilità dog­ matica, anche se alcuni documenti hanno cercato di ampliare il potere del­ l'infallibilità a questioni etiche e istituzionali (Pottmeyer 1999, 233 -242 ) . Questo vale tanto più in quanto l a sensibilità etica, nell'epoca moderna sempre più finemente differenziata, non permette di evitare la questione se la pretesa all'infallibilità non comporti la mancanza etica di definire la verità senza lo sforzo per cercare e per accogliere la verità, dunque di pre­ tendere la verità senza le implicazioni etiche della comunicazione. Poiché l'infallibilità tende a confermare la validità di affermazioni di verità, con­ traddirebbe se stessa se rinunciasse agli standard etici della comunicazio­ ne. Questo può essere il motivo più profondo per cui una rinnovata ri­ vendicazione dell'infallibilità è diventata piuttosto improbabile. b. Il Vaticano II e, al suo seguito, il nuovo Codice di diritto canonico ti­ collegano l'infallibilità, data da Dio alla chiesa, al collegio dei vescovi, nel quale il papa occupa a sua volta una posizione particolare. Così per il ma­ gistero infallibile all'interno del collegio episcopale risultano tre caratte­ rizzazioni: il papa ex cathedra; i concili ecumenici che definiscono una dot­ trina; i vescovi in comunione con il papa, quando si tratta di pronuncia­ menti da considerarsi definitivi. In ogni caso l'infallibilità deve essere li­ mitata restrittivamente a dati di fatto che sono evidenti ( CJC 749 § 3 ). Ma se si fa riferimento alla collegialità episcopale e al rinnovato apprezza­ mento per le chiese locali, allora il Vaticano II indica soprattutto il cam­ mino verso una forma istituzionale essenzialmente differenziata del magi­ stero. Alle conferenze episcopali si dovrebbe lasciare più autonomia, in quanto esse sono in grado di valutare con maggiore competenza la situa­ zione locale, compreso il grado di maturità e di diversità dei fedeli, e allo stesso tempo dovrebbero essere relativizzati gli eccessi burocratici e l'a­ nonimità della Congregazione per la dottrina della fede. 3. Strumenti d'azione. Le istituzioni magisteriali sarebbero inefficaci senza quegli strumenti d'azione con i quali le decisioni del magistero pos­ sono ottenere il debito riconoscimento. Su questo punto, però, la co­ scienza moderna è particolarmente sensibile. Si può infatti concedere alle autorità religiose il diritto di mettere in guardia i fedeli da determinate opinioni o pratiche da giudicarsi come errate; ma è vero anche che pro­ cessi segreti, pressione psicologica e sanzioni implacabili vengono regi­ strate, criticate e sanzionate dall'opinione pubblica internazionale. Inol­ tre, dal punto di vista sociologico, la forma della scomunica, ossia dell'e-

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sclusione da diritti all'interno di un determinato territorio e l'esclusione da determinate funzioni, può oggi avere conseguenze opposte. Gli esclusi diventano oggetto di particolare considerazione da parte dell'opinione pubblica e spesso sono addirittura amorevolmente accettati nella coscien­ za sociale ed ecclesiale - nella coscienza cattolica esiste qualcosa come un martirologio di condannati dal magistero, da Giovanna d'Arco fino a Teilhard. Certamente la forza di convinzione di ogni sanzione spirituale dipende dal grado di credibilità e di consenso che possiede nel popolo cri­ stiano. Perciò la chiesa ufficiale si aspetta un 'assenso di fede', una «ob­ bedienza religiosa con la mente e la volontà». Ma le istituzioni della chie­ sa e il suo diritto si prestano anche a misure disciplinari, soprattutto nei confronti di teologi e teologhe, chierici e religiosi, nonché di professori e professoresse di istituti, che per insegnare hanno bisogno di una licenza ecclesiastica. Accanto al fuoco dell 'inquisizione, che appartiene non tanto al magistero quanto piuttosto alla lotta contro le eresie all'interno del po­ polo cristiano con.il sostegno delle autorità pubbliche, e accanto all'Indi­ ce dei libri proibiti, che fu istituito nel 1 564 e che è scomparso dopo il concilio Vaticano II, il magistero aveva molteplici mezzi di pressione. Del resto, anche le facoltà teologiche non hanno avuto timore di condannare all 'esilio o alla prigione, di bruciare libri, e persino di comminare scomu­ niche. A ciò s'aggiunga il sostegno dato alle autorità civili in casi di con­ danne a morte, come quella di Giovanna d'Arco. Mezzi fisici di pressione ci sono anche oggi, specialmente in connessione con concordati, quando qualcuno perde i propri mezzi di sostentamento a causa di una sanzione, poiché in accordo con la chiesa gli viene sottratta la possibilità di espres­ sione pubblica. Un magistero che sia accettato nella sua applicazione, che sia secondo lo spirito del vangelo e che corrisponda ai diritti dell'uomo, dovrebbe adottare modalità di controllo e di dialogo più illuminate, il che sarebbe meno spettacolare, ma più conforme all a religione della libertà. Senza un 'diritto all'errore' non esiste ricerca né dialogo con il mondo moderno. li vangelo della riconciliazione si rivolge a uomini e a donne fallibili. La si­ tuazione del magistero si trasforma grazie alla comunicazione globalizza­ ta. Le sue possibilità di comminare censure si fanno più deboli e la di­ scussione sulle decisioni magisteriali all'interno di una chiesa viene valu­ tata in modo nuovo nel pluralismo dei media e nel contesto interreligioso. li magistero non può più partire dalla società chiusa della chiesa romano­ cattolica. Questa situazione non favorisce necessariamente il relativismo, può anche essere stimolo a comprendere in modo più chiaro in che cosa Cristo è la luce dei popoli, «lumen gentium».

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Il Male Colpa/Senso di colpa Diavolo/Satana/Demoni sociale Riconciliazione/Perdono Violenza -+

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l. IL PROBLEMA DEL MALE

Rispetto al male, la prima grande sfida è combatterlo attivamente; la se­ conda è comprenderlo - il che non significa approvarlo. Ebbene, teologia e psicoanalisi possono dare un contributo alla comprensione del male. Nelle crisi, che vengono interpretate come un'irruzione apocalittica del male, cresce il pericolo di ricadere in quella divisione primitiva tra Bene e Male, che non permette più alcuna differenziazione, per tacere poi del fat­ to di scorgere alla stessa stregua il male nel (presunto) bene e il bene nel male. L'idea del male come forza opposta al bene è, sia a livello del singo­ lo individuo sia a livello del genere umano, un primo tentativo di portare una «categoria ordinatrice» in un mondo confuso (Haring 1 999, 5 1 ) . Di conseguenza, parlare del male presuppone sempre il riferimento a un tut­ to più grande. Come cosa che danneggia, ferisce e distrugge esso rende esperibile solo per contrasto ciò che è buono, costruttivo e benefico. È co­ sì che nel pensiero greco-ellenistico il male fu inteso come minaccia del cosmo, alla cui base stava un'idea di ordine universale. In Platino questa ragione ordinatrice raggiunse il suo vertice nell'elaborazione della tarda antichità: non può esserci male che non sia parte dell'ordine universale. Anche il male è accolto nel principio ultimo del mondo, l'Uno. Quando più tardi, in Agostino, un Dio personale prese il posto dell'Uno, il pro­ blema del male si radicalizzò, nel senso che ci si chiese se Dio potesse ama­ re il male come parte del cosmo da lui creato. Agostino operò un'ulterio­ re differenziazione: il male accade non a causa dell'ordine stabilito da Dio, ma, dopo che è sorto, viene incluso all'interno di quest'ordine. Poiché, se­ condo l'idea neoplatonica, Dio può essere pensato soltanto come sum­ mum bonum, d'ora in poi la causa del male morale deve essere ricercata nello stesso essere umano. Agostino la trovò nell'aspirazione umana alla gloria, al potere, al piacere, in breve nell'ambizione di essere uguale a Dio. Questo primo pensiero sistematico della tarda antichità ha trovato, attra­ verso Agostino, la via per entrare nel cristianesimo e ancora oggi sortisce un effetto relativizzante e discolpante sulla sfida radicale del male (Haring

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1 999, 57). Infatti il tentativo di pensare Dio come l'Uno e Unico, contro

ogni divisione dualista, ha portato a pensare il male come mancanza del bene (privatio boni) , variante monoteistica, e a semplificare la complessità della realtà (Luhmann 1977, 9-7 1 ) . Questi tentativi di spiegazione del ma­ le a livello cosmologico appaiono inadeguati di fronte alla tremenda for­ ma che il male ha assunto nell'epoca moderna. Spostando il male nel cuo­ re dell'uomo (Gen 6,5) , la tradizione biblica cercò di opporsi alla mini­ mizzazione e razionalizzazione del male col trasferire l'essere umano dalla posizione di vittima a quella di colpevole. Con l'evoluzione della coscien­ za morale il male è stato sempre più spostato nell'intimo della persona, ma anche ridotto alla coscienza della persona. Quest'ultima può assumersi so­ lo la responsabilità di ciò che fa coscientemente (Rahner 1964). n lato in­ conscio e apparentemente irrazionale del male è stato, di conseguenza, elevato allo status (problematico) di mistero (Claret 1997 ) .

Il. IL MALE E LA LIBERTÀ DELL'ESSERE UMANO: LA DOTTRINA DEL PECCATO ORIGINALE

La dottrina cristiana di un peccato originale (peccatum originale) , che precede la colpa imputabile all ' individuo, si fonda soprattutto sul raccon­ to biblico del paradiso (Gen 2,4b-3 ,24 ) e sull'interpretazione paolina del peccato di Adamo, che passò a tutti gli esseri umani (Rom 5 , 12). Nella dottrina del peccato originale (Wiedenhofer 199 1 ) il cristianesimo dei pri­ mi secoli, da Paolo ad Agostino, si è attenuto al paradosso della struttura di peccato che precede la volontà del singolo individuo, e della pretesa che il singolo peccato, inevitabile a causa di questa struttura, debba tutta­ via essere evitato. In Agostino si definisce lo schema antropologico fon­ damentale: l'essere umano si muove all'interno del conflitto tra predispo­ sizione e attuazione. Di questa predisposizione fa parte la concupiscenza che s'infiltra nella sua volontà cosciente e contro la quale la volontà non ha praticamente possibilità di successo. Al contrario dei pelagiani, che ri­ tenevano che la volontà fosse libera nei confronti del desiderio istintuale e non inficiata dal male, Agostino insiste su una potente spinta inconscia. Tuttavia in Agostino questa posizione, che in un primo momento fa pen­ sare anche a Freud, non porta a un determinismo degli istinti. n potere della sessualità sulla mente e sulla volontà, da lui personalmente speri­ mentato, dopo la conversione al cristianesimo assume per Agostino un si­ gnificato metafisica: la sessualità si fonde con quell'aspirazione che allon-

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tana da Dio e di cui la persona è responsabile. Così il peccato non è ri­ condotto a una «causalità naturale subumana», bensì alla volontà dell'Io, che dice di sì alle inclinazioni istintuali dell"Es' (Eibach 1992, 152 ) . Quat­ tro sono i modelli fondamentali, in cui si possono sviluppare le più im­ portanti interpretazioni teologiche della dottrina del peccato originale: l. Il primo modello non può rinunciare al fatto che ci sia qualcuno og­

gettivamente maligno che tenta la persona a compiere quell'azione moral­ mente peccaminosa che è l'allontanarsi da Dio. Nel serpente del racconto del paradiso e della caduta nel peccato (Gen 2,4b-3 ) si vede un simbolo del diavolo che istiga al male l'essere umano. Nonostante la sua libera vo­ lontà, il singolo non compie mai il male del tutto da solo, ma è sempre an­ che sedotto a fare il male. n diavolo, come realtà al di fuori della persona, istiga al peccato il singolo ( Claret 1997 ) . 2. Un secondo modello cerca di aggiornare la tradizionale dottrina ec­ clesiastica del peccato originale con l'apporto di alcune conoscenze biolo­ gico-antropologiche che rendono verosimile un'azione individuale moral­ mente cattiva agli inizi del genere umano e la sua ereditarietà biologica. Nel rielaborare la teoria della mimesi di René Girard, Raymund Schwager (Schwager 1978; 1 997), pur situando il male nella dinamica di gruppo del genere umano arcaico, con la sua concezione di 'ereditarietà' resta tutta­ via legato, in ultima analisi, a una visione troppo biologica. 3 . Il terzo modello parte dall'idea che l'inclinazione al male venga dal­ l'essere umano stesso. Lo studioso di Antico Testamento Herbert Haag at­ tribuisce il peccato originale a una «debolezza costituzionale» dell'uomo (Haag 1969) . Questi, a causa della sua naturale inconsistenza e dei suoi desideri, è soggetto a peccare. Tale dotazione fondamentale è parte della creazione. Poiché Dio ha evidentemente voluto un mondo del genere, ha messo in debito conto il fatto che il male esista. Degno di nota in questa posizione è che essa si sforza di non scindere il mondo empirico e di ve­ dere la realtà del male come parte dell'unica creazione. Inoltre, qui, di Dio non si parla nella forma di un ideale, che, in quanto Dio esclusivamente buono, non può avere alcun contatto con il male - come nella posizione che ammette il diavolo per dis-colpare Dio -, ma Dio viene piuttosto pen­ sato come talmente vasto che in lui, paradossalmente, per quanto voglia il bene, trova posto anche la realtà del male. 4. Una quarta forma di concezione del peccato originale prende an­ ch'essa le mosse dal polo soggettivo e situa la colpa in una relazione esi-

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stenziale. Colpa e peccato sono intesi come il cadere al di fuori da una più alta unità originaria, un cadere che è necessario e che determina l'essere soggetto dell'uomo. La via della redenzione tende a ristabilire l'originaria divinità dell'essere umano. lJomo e Dio non restano separati per sempre, ma scopo dell'incarnazione è attivare nella propria vita le fonti e le radici divine. A rappresentare nel modo più chiaro questa posizione è Drewer­ mann. Nella tradizione del filosofo danese S0ren Kierkegaard è l'angoscia ad essere vista come il vero peccato. Questa può essere superata soltanto per mezzo della fiducia in Dio e nelle forze divine presenti nella persona (Drewermann 1977) . L'esistenza di un'inclinazione al male, che oltrepassi il singolo e le sue condizioni di socializzazione, viene negata nella misura in cui l'individuo, se non è impedito nel proprio autosviluppo dall'educa­ zione, dalla società e dalla cultura, diventa una persona buona, capace di integrare il male. Questa posizione, che suona idealistica, non prende in sufficiente considerazione il male attivo nel mondo sotto forma di violen­ za, terrorismo e distruzione, e attribuisce tutto ciò 'soltanto' a un difetto di forma nell' autorealizzazione umana, nutrendo così il delirio di onnipo­ tenza che la persona possa essere guarita dall'inclinazione al male grazie a una buona educazione o a una buona terapia.

III. IL MALE, LA LIBERTÀ E L'INCONSCIO

Con l'idea del male quale forza scaturente dal diavolo (Modello l) vie­ ne salvata sia la bontà di Dio sia la libertà dell'essere umano. Richiaman­ dosi ad Agostino, il libero arbitrio e la coscienza diventano l'ultima istan­ za della responsabilità per un'azione illecita. Rahner ha dato questa for­ mulazione: «Può darsi colpa solo là dove si pecca consapevolmente con­ tro Dio» (Rahner 1964, 2 8 1 ) . Anche Bockle, nelle sue riflessioni sul pec­ cato originale, che egli intende quale formula sintetica per la situazione storica colpevole dell'uomo, insiste sulla libera decisione: «Questa situa­ zione [del peccato originale] nel suo insieme ha la propria causa storica nel rapporto con la libera decisione umana» (Bockle 1 98 1 , 123 ). A prima vista questa posizione sembra scagionare molto l'individuo; non gli ad­ dossa infatti alcuna responsabilità per ciò che egli non sa e non vuole. In base a questa posizione, di ciò che è inconscio, che è pure una parte della creazione, la persona non è tenuta ad assumersi la responsabilità. Si pone però il problema se davvero sia scagionante per l'uomo il fatto che venga sottratto alla sua responsabilità l'ambito di ciò che va oltre la coscienza. Se

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l'essere umano viene ridotto a coscienza e libero arbitrio, c'è il pericolo che quanto è irrazionale e imbarazzante, quanto è sconosciuto, inquietan­ te, mostruoso, sia vissuto come non appartenente alla propria persona. La conseguenza è che questi lati d'ombra sgradevoli vengono proiettati verso l'esterno, cioè sugli altri. Se la parte della personalità che è capace di co­ scienza, che è libera e guidata dalla volontà, non sta in tensione dialettica con l'altro polo, l'inconscio, avviene che nell'individuo si infonda troppo rapidamente un senso di vergogna rispetto alle forze irrazionali e vitali che in tal caso sono vissute come estranee e minacciose, e fantasticate come provenienti 'dall'esterno'. Con questo viene impedita una salutare soffe­ renza e un altrettanto salutare lavoro su di sé svolto nello strato più profondo e inconscio della psiche, in cui il male ha le radici. Alla teologia riesce evidentemente difficile pensare che ammettere un'inconscia colpa esistenziale non esclude l'ammissione di una colpa conscia legata a un'a­ zione, ma che le due cose stanno paradossalmente in relazione. ll sospet­ to della teologia, che la responsabilità della persona venga minata se e quando essa si basi sull ' ammissione di un inconscio, nasce, a mio parere, dalla difficoltà di formulare le enunciazioni religiose e teologiche seguen­ do non le leggi della logica tradizionale, bensì le regole di un linguaggio vicino alla psiche, all'irrazionale e al religioso, linguaggio in cui possono coesistere delle apparenti contraddizioni. Bene e male, in questo strato dell'essere umano, non sono degli opposti che si escludono. La preoccu­ pazione della teologia si riferisce alla supposizione che la responsabilità della persona e il suo libero poter-essere-soggetto, che solo così è reso pos­ sibile, siano minacciati dalla dimensione dell'istinto, dell'inconscio e del determinismo dell'agire umano da essi prodotto. Ma se l'ineluttabilità del male viene vista come una debolezza causata dalla mancanza di sicurezza dell'istinto nella specie umana, l'essere umano è mai responsabile di que­ sto difetto della natura? Proprio con questa domanda e la risposta affer­ mativa, che le viene data, si manifesta quella pretesa (scagionante) che la psicoanalisi, come scienza dell'inconscio, non vuole risparmiare all'essere umano: benché la persona, in prima battuta (nell'infanzia) sia stata una vittima innocente, oggi (da adulta) è responsabile in quanto colpevole. Qui, infatti, c'è un'ingiustizia che appare inaccettabile. Benché non siamo responsabili di ciò che ci è capitato nei primi giorni e anni di vita, e non siamo stati noi a renderei quelli che siamo, non abbiamo tuttavia nes­ sun' altra scelta che quella di assumerci la responsabilità di ciò che siamo diventati. Più questa operazione riesce, meno la persona trasmetterà ad al­ tri il male che scaturisce dalla delusione e dall'odio.

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IV. IL MALE COME DIFETIO DELLA CREAZIONE

La responsabilità, che la persona deve assumersi per una cattiva azione, si riferisce tradizionalmente solo al male morale (malum morale) che vie­ ne distinto dal male naturale (malum physicum) . Se però si include anche la dimensione dell'inconscio, diventa necessario partire da un concetto di male che si estenda ad ambo gli aspetti, concetto in cui abbiano posto l'imperfetta dotazione dell'essere umano, la sua conflittuale struttura istin­ tuale e la mancanza della sicurezza dell'istinto (Haring 1999, 4). Dire che il male sia il prezzo della libertà è un cortocircuito perché, anzi, dal pun­ to di vista teologico, Dio potrebbe influenzare talmente la libertà della persona da dirigerla verso il bene senza distruggerla (Vorgrimler 2000, lOOs.). L'idea fondamentale ebraico-cristiana che Dio è Uno e Unico non ammette alcun avversario di pari rango, nel senso di un principio del ma­ le in contrapposizione al bene. Per scagionare Dio, che è buono, l'origine del male viene attribuita a un'entità secondaria, il -diavolo. In questo mo­ do, però, pur essendosi trovata una simbolizzazione del male (cfr. Claret 1 997 , 265-280), si fa ancora più pressante il problema circa un difetto del­ la creazione e i lati oscuri di Dio, che permettono il male (naturale e mo­ rale).

V. lL PUNTO DI VISTA BIBLICO

Parlare di un difetto della creazione non contraddice l'affermazione bi­ blica, secondo la quale Dio ha dato all a sua creazione la valutazione di «molto buona>>? Se si considera la dinamica di tutta quanta la storia bibli­ ca delle origini e non ci si ferma ai racconti della creazione, risulta chiaro che Dio stesso ritira il proprio giudizio che la creazione era molto buona. Dopo il fratricidio commesso da Caino contro Abele la violenza e la catti­ veria aumentano a tal punto che tutta la creazione ne è inficiata: «Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza» (Gen 6, 1 1 ) . ll male, dunque, non grava solo su singole persone come Caino, ma è visto come una caratteristica che riguarda l'intera umanità. È questo il motivo per cui adesso non vengono neppure punite le singole persone, ma accade che Dio metta in discussione la bontà dell'intera creazione umana: «E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» ( Gen 6,6). Dal diluvio, che sgorga dalla sofferenza di Dio per la sua creazione, e

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ricopre la terra, è escluso soltanto Noè con la sua famiglia. Ma anche con questo nuovo inizio, che Dio stabilisce, l'essere umano non è diventato mi­ gliore. Subito dopo il diluvio si dice che l'istinto del cuore umano è incli­ ne al male fin dall'adolescenza (Gen 8,2 1 ) . La cattiveria continua e trova il suo vertice nel tracotante tentativo di costruire una torre che arrivi al cie­ lo. ll nocciolo del male consiste adesso nell'incapacità dell'essere umano di accontentarsi della sua condizione umana e di rinunciare a voler essere co­ me Dio. Ciò che prima del diluvio aveva scatenato la maledizione, viene ora indicato come il motivo per cui Dio non intende distruggere la terra una seconda volta. Dio segnala qui il suo assenso al fatto che la sua crea­ zione mostri una carenza strutturale. L'inondazione universale della crea­ zione con la violenza e la cattiveria denuncia che il male non consiste più soltanto nel comportamento peccaminoso dei singoli individui, ma deve essere invece interpretato strutturalmente come una carenza della creazio­ ne (Schwager 1977, 35). La teologia, tuttavia, deve ricorrere all'antropolo­ gia moderna per spiegare come vada intesa la carenza strutturale all'inter­ no del singolo individuo. Si tratta del problema di quali siano i fattori co­ stituzionali che spingono l'essere umano verso il male.

VI. IL PUNTO DI VISTA ANTROPOLOGICO

l . La carenza come 'spazio vuoto' tra pulsione e azione. ll peccato come

cattiveria strutturale si può intendere, con Gehlen, come conseguenza del­ la mancanza di specializzazione e dell'apertura all'ambiente, che distin­ guono l'essere umano dalle altre creature. La vita pulsionale dell'uomo è organizzata in modo tale da poter utilizzare le stesse pulsioni per inibirle, il che significa che la persona è capace di rimandare il soddisfacimento delle pulsioni. Gehlen chiama questo lavoro di inibizione un «fatto di prim'ordine», perché rende possibile la formazione di uno iato, uno spa­ zio vuoto tra bisogno e soddisfacimento (Gehlen 1 997 , 334). Poiché l'es­ sere umano, unico essere vivente in questa condizione, soffre di un ecces­ so di pulsioni, deve ricorrere alla cultura. A causa dello 'iato' il cuore uma­ no resta inquieto, perché non gli è concesso di mettere d'accordo pulsio­ ne e azione e di trovare pace. Da un lato, egli resta spinto a oggettivare se stesso nel mondo con l'essere attivo e, dall'altro, a causa dell'inibizione delle sue pulsioni, a causa del disaccoppiamento tra pulsione e azione, è capace di soggettività e autoriflessione. La «posizione eccentrica» signifi­ ca che l'essere umano non vive a partire dal suo centro, ma è lui stesso

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questo centro (Plessner 1975 , 288). Non esiste alcun punto di orienta­ mento stabile al di fuori di se stesso, egli resta senza luogo, senza tempo e «costitutivamente senza patria» (ibid. , 3 10) . Per la persona, questa strut­ tura eccentrica della vita fa del conflitto il centro dell'esistenza, dato che essa, anzi, non riesce a sopravvivere senza norme come nocciolo della mo­ ralità, ma queste norme entrano in contrasto con le sue pulsioni e tenden­ ze. n male si radica dunque in questa debolezza costitutiva. 2. La violenza come conseguenza della carenza. A ragguagliare come ac­ cada che a causa di questa posizione eccentrica, apertura al mondo e man­ canza di sicurezza dell'istinto, si annidino nella struttura della convivenza umana il male e la violenza, è la teoria mimetica dell'antropologo cultura­ le René Girard (Girard 1 987 ) . La dinamica di gruppo all'inizio del gene­ re umano è una guerra di tutti contro tutti, poiché non funziona più la si­ curezza dell'istinto e non sono ancora strutturate tradizioni stabili in gra­ do di regolare i conflitti. A causa dell'imitazione nel desiderio (mimesi) i conflitti si agitano in seno al gruppo fino a un punto non più risolvibile, dato che, anche se uno cede e abbandona l'oggetto desiderato dall'altro per volgersi a un nuovo oggetto, non ne consegue che il concorrente ades­ so riesca a possedere questo oggetto. A causa del bisogno di imitare, la ri­ valità prosegue intorno al nuovo oggetto. I membri del gruppo non rie­ scono più a uscire dal cerchio della rivalità. L'aggressione accumulata si scarica trovando un capro espiatorio e uccidendolo affinché nasca un equilibrio interno e il gruppo ritorni all'ordine. n caos si tramuta in una­ nimità nei confronti del colpevole, al quale viene addossato a posteriori il male. 3 . L'inclinazione al male viene dall'interno. n pensiero di Freud cerca di superare la proiezione del male all ' esterno. Ancora prima dell'inizio del xx secolo, egli raggiunse la convinzione che le radici della nevrosi non affondano nelle esperienze traumatiche esterne, ma sono piuttosto da ri­ cercarsi nella fantasia dei suoi pazienti. Di questa svolta verso l'interno è cifra il concetto di pulsione, che Freud divide in amore e aggressione e che più tardi svilupperà nel concetto di pulsione di vita e pulsione di morte. La tendenza all'aggressione è da lui intesa come espressione della costitu­ zione dell'essere umano, connotata dalla pulsione di morte. Questa non è visibile allo stato puro. Solo sotto l'influenza della libido, che distoglie la persona dalle tendenze autodistruttive, essa diventa visibile come aggres­ sione contro un oggetto. Rivolgendosi contro un oggetto, l'eros salva il Sé dall'autodistruzione. Freud è conscio della provocazione di questo dilem­ ma: « È realmente come se dovessimo distruggere qualche altra cosa o per-

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sona per non distruggere noi stessi, per preservarci dalla tendenza all'au­ todistruzione. Una triste rivelazione, certo, per il moralista. Ma il morali­ sta si consolerà per molto tempo ancora con l'inverosimiglianza delle no­ stre speculazioni» (Freud 1 93 3 , 1 12 ) . È per soprawivere, dunque, che l'essere umano deve essere aggressivo contro il mondo esterno, e la cultu­ ra, da parte sua, deve porre dei confini a questa aggressione. Nel Super­ Io, quale istanza interiore, i confini della cultura sono arrivati dall'esterno all 'interno e dall'interno si oppongono all'aggressione pulsionale. Freud non lascia dunque alcun dubbio sul fatto che la persona non sia buona di per sé e capace di un agire eticamente buono. Ad essa non resta che di­ ventare consapevole della dotazione aggressiva della sua psiche per essere liberata dalla coazione di supporre le aspirazioni aggressive sempre solo nell'altro e di trasferirle sull'estraneo di cui ha paura. Nella bonifica del male la cosa importante è quindi che la persona sia pronta ad awertire l'inquietante insondabilità della propria vita e a confrontarsi con queste forze arcaiche. 4. Aggressione costruttiva e distruttiva. La recente psicologia psicoanali­ tica delle relazioni oggettuali parte dall'idea che l'aggressione vada equi­ parata in realtà a una pulsione innata, che tuttavia diventa distruttiva nel­ la misura in cui una persona viene ostacolata nel proprio sviluppo. Ciò ac­ casf e allorché un bambino viene abusato narcisisticamente per i bisogni segreti degli adulti che non accettano che il bambino abbia propri confi­ ni, diritti e sentimenti. Soprattutto è chiaro che questi ultimi non sono identici a quelli degli adulti. La negazione di questa differenza porta a pensare che il bambino sia capace di rispondere al bisogno dei genitori. Egli non si può rispecchiare in loro nelle manifestazioni di vita sue pro­ prie, ma viene adattato ai desideri e alle esigenze degli adulti. Così il bam­ bino è condannato a scindere sempre di più, dentro di sé, i propri desideri di dispiegamento, di riconoscimento da parte degli altri e di individuazio­ ne. Come luogo di origine delle tendenze distruttive sono visti i passi psi­ cologici evolutivi del distacco dall'unione diadica con la madre e l'indivi­ duazione che in tal modo viene impedita. L'aggressione che sta al servizio dell'individuazione può essere integrata solo quando i corrispondenti og­ getti d'amore resistono e sopravvivono a questa aggressione del bambino (Winnicott 1 994, 93 - 1 05 ) . 5. Le radici del male nel narcisismo. È il bisogno di diventare tutt'uno e di tornare nel paradiso, visto come stato dell'indifferenziazione esente da conflitti, che il concetto di narcisismo di Bela Grunberger vede come ter­ reno su cui nascono la violenza e l'odio quali forme del male. D narcisismo

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si radica nella condizione prenatale. L'utero forma un mondo chiuso in sé, esente da conflitti, nel quale vanno ricercate le fonti somatiche dell'asso­ luto senso di benessere narcisistico. Questo «paleonarcisismo» (Grunber­ ger 1988, 72) si radica biologicamente nel fatto che il feto riceve comple­ to sostentamento dall'organismo materno. L'unità prenatale forma l'hu­ mus dal quale provengono l'esigenza di avvolgimento, di essere tutt'uno e di indifferenziazione. Già in questa prima fase il narcisismo presenta due lati: quello del narcisismo positivo della totalità e della completezza, che riesce a vivere senza 'realtà' e in cui si radicano le successive doti come la fiducia, il successo e l'autosufficienza. Accanto a questo esiste il narcisi­ smo negativo, in cui si radicano l' onnipotenza e la rabbia nei confronti della realtà che disturba il senso di benessere, di cui fa parte anche quella catastrofe che è il crollo della beatitudine prenatale. Con la nascita il bam­ bino è obbligato a uscire dal suo mondo costituito dal corpo della madre, un mondo che è completamente esente da tensioni istintuali e corporee, e a riconoscere, passo dopo passo, il dato di fatto della propria dotazione corporeo-istintuale. Da principio è la madre, con la sua presenza, a prov­ vedere che la caduta natale del neonato non porti alla catastrofe. Un'a­ morevole relazione empatica della madre per la sua creatura permette di superare con una certa qual delicatezza la perdita repentina dell'avvolgi­ mento prenatale. La madre viene dotata dal neonato (nella fantasia) di quelle qualità che corrispondono alla vita trascorsa dentro di lei prima della nascita, tanto che si può parlare di un'immagine ideale. È uno spa­ zio virtuale quello che si forma tra madre e bambino/a, una unità diadica, in cui esistono, nella stessa misura, separazione e unione, un utero trasfe­ rito dall'interno all'esterno. Questo spazio ha la funzione di proteggere la creatura indifesa e assicurarne la crescita, ed è come una «placenta imma­ teriale», una sorta di «spazio virtuale» (Grunberger 1 988, 192), in cui è conservata l'esperienza del periodo di unità diadica come parte della struttura psichica. Proprio in ciò si radica l'odio che compare quando la realtà offensiva si imbatte nei desideri narcisistici di avvolgimento e inclu­ sione. Per salvare l'universo narcisistico si opera la scissione. Tutto quello che sbarra la strada della condizione ideale viene perseguitato aggressiva­ mente e distrutto. Nel caso della maturazione ambedue le componenti si mescolano così che l'aggressione viene mitigata.

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VII. IL MALE COME LATO OSCURO DI Dro Con il problema di come sia possibile conciliare il male con l'immagine di un Dio buono si abbozza il tentativo di una risoluzione teologica del male, che comprende le visioni psicoanalitiche finora spiegate. Se all a fe­ de monoteistica non riesce di integrare il male nella concezione di Dio, l'unica 'soluzione' che resta è la scissione, con la conseguenza della proie­ zione all'esterno. Proprio questo meccanismo della proiezione sul capro espiatorio è stato reso evidente ed è stato superato nella morte di Gesù (cfr. Girard 1987 ) . Ma come si può, adesso, conciliare il male con l'imma­ gine di un Dio buono? Ciò che, visto dalla prospettiva della coscienza e della logica, equivale alla quadratura del cerchio, diventa una possibilità nuova quando si prenda in considerazione una logica diversa, in cui pos­ sa coesistere ciò che è apparentemente contraddittorio. Se il discorso del male in Dio, come enunciazione oggettiva e definitoria 'su' Dio, viene fat­ to, per così dire, come enunciazione antologica dell'essenza, siamo arriva­ ti in un vicolo cieco di questo modello metafisica. Una via d'uscita consi­ ste, secondo me, nel parlare di Dio in modo diverso da quello metafisico­ oggettivante. In tal caso possiamo dire che in Dio vi è il bene e il male e che, tuttavia, egli è totalmente buono. Questa proposizione è paradossale. Essa non soddisfa la qualità di un parlare di Dio esente da contraddizioni sul piano logico, come esige una teologia unilateralmente razionale. Tut­ tavia, per non rinchiudere Dio nell'angusto guscio della logica, abbiamo bisogno di un linguaggio diverso che non sia definitorio e oggettivante, bensì metaforico, paradossale e, in certo qual modo, scandaloso. L'anni­ potenza e l'infinita bontà di Dio sembrano un baluardo irrinunciabile del monoteismo contro la sua messa in questione a causa dell'esperienza del male. Un «congedo dal Dio onnipotente» (Schiwy 1995 ) può, però, di­ ventare rigido proprio come l'insistenza sul Dio esclusivamente 'buono' . A me, invece, sembra adatta una risposta paradossale al problema di Dio, e cioè: Dio è onnipotente e infinitamente buono, egli è impotente e confi­ nato all'interno del suo amore. Un'enunciazione del genere appare con­ traddittoria all'intelletto, ed esso è incline a trasferirla in un chiaro aut-aut. È più adeguato collegare Dio con tutte e due le forze principali, l'amore e l'odio. Come i genitori amano e odiano, sono buoni e cattivi, e tuttavia nella fantasia del/la bambino/a di regola vengono fantasticati come onni­ potenti e buoni, così Dio è ambedue le cose: uno che ama e rifiuta e che proprio per questo si può amare e odiare, ma che anche contemporanea­ mente, al di là di queste aspirazioni, può e deve essere pensato totalmen­ te buono e onnipotente. Qui entra in gioco il linguaggio paradossale e co-

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noscitore dell'ambivalenza. Talora abbiamo bisogno di un Dio impotente e talora di uno onnipotente e, riguardo alla questione di come Dio sia 'realmente', non si dovrebbe pretendere la chiarezza ricorrendo subito al­ l'intelletto. Ciò non significa che non possiamo conseguire una certezza emotiva riguardo alla bontà di Dio. Ma la strada per arrivarci passa attra­ verso la «posizione depressiva» (Klein 1 983 , 13 1 - 163 ) ed è accompagnata dal dolore anche per Dio e per la sua creazione. In virtù di questo tipo di sofferenza, che non deve essere assolutamente scambiato con la depres­ sione patologica, diventa superflua l'esigenza di proiettare il male su un 'cattivo' esistente al di fuori del nostro Sé. Questo genere di sofferenza per Dio preserva dal diventare violenti in nome di Dio. il terrorista animato da fanatismo religioso, in questo senso, non soffre più per Dio, ma lo scin­ de e, con questa scissione, libera una misura incredibile di odio e di vio­ lenza. Parlare di Dio in modo paradossale è dunque un tentativo di ripor­ tarlo dalla testa nel profondo dell'anima e di liberar! o dalla violenza, che la sua ombra getta sulla storia. Un parlare di Dio esente da ambivalenze e unilaterale non è adatto ad accettare la sfida, davanti alla quale si trovano le religioni monoteiste rispetto al fondamentalismo e al terrorismo. Ab­ biamo bisogno di un Dio che sia onnipotente e impotente, infinitamente buono e compassionevole, un Dio che l'essere umano possa adorare e ac­ cusare, amare e odiare. Nel tentativo di pensare insieme il male e Dio la posta in gioco è pensare sia (questo) - sia (quello) , un atteggiamento in fa­ vore della vita, che è tutt'altro che non vincolante e arbitrario. Una fede siffatta è matura nella misura in cui non nega la carenza della creazione per mezzo di un'illusoria realizzazione dei desideri, bensì la riconosce, ne soffre e, così facendo, supera il male. K. BERNER, Theorie des Bosen. Zur Hermeneutik destruktiver Verkniip/ungen, Neukir­ chen-Vluyn 2004; F BbcKLE (con G. Condrau) , Schuld und Sunde, in ChGimG 12, Frei­ burg - Basel - Wien 198 1 , 90- 135; B.]. CLARET, Geheimnis des Bosen. Zur Diskussion um den Teu/el, lnnsbruck - Wien 1 997 ; E. DREWERMANN, Strukturen des Bosen, Teil 2 : Die jahwistische Urgeschichte in psychoanalytischer Sicht, Miinchen - Paderborn - Wien 1977 ; U. EIBACH, Seelische Krankheit und chn'stlicher Glaube. Theologische, humanwis­ senscha/tliche und seelsorgerliche Aspekte, Neukirchen-Vluyn 1992 ; S. FREUD, Neue Fol­ ge zu Vorlesungen zur Ein/uhrung in die Psychoanalyse ( 1 933) , in GW XV, Frankfurt 1999; A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Wiesbaden 1997 '3 [trad. it. , /}uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano] ; R. GIRARD, Das Heilige und die Gewalt, Ziirich 1987 [trad. it., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano] ; B. GRUNBERGER, Narziss und Anubis 2, Frankfurt 1988 [trad. it., Nar­ ciso e Anubi. Psicopatologia e narcist'smo, Astrolabio Ubaldini, Milano] ; H. HAAG, Ab­ schied vom Teu/el, Einsiedeln 1 969 [trad. it. , La liquidazione del diavolo?, Queriniana, Brescia] ; H. HARING, Das Base in der Welt. Gottes Macht oder Ohnmacht, Darmstadt

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Fra tutte le figure femminili della Bibbia, nessuna ha suscitato e conti­ nua ancora oggi a suscitare emozioni tanto forti e anche tanto contraddit­ torie come Maria, la madre di Gesù. A osservare la storia dell'arte e della devozione, a volte, sembra quasi che, a questo riguardo, superi persino il Figlio. In effetti è incontestabile che in certe epoche, ad esempio nel se­ colo 'mariano' (dal XIX fino all 'inizio del XX secolo), in certe regioni, co­ me la Polonia o l'America latina, e in certi luoghi, mète di pellegrinaggio mariano, nella devozione popolare la venerazione di Maria abbia costitui­ to e costituisca la principale componente emotiva della fede. La gente cer­ ca e trova rifugio, consolazione e incoraggiamento in queste pratiche reli­ giose che a volte esercitano il loro fascino anche sui non cattolici e persi­ no sui non cristiani, un fascino che trova espressione in innumerevoli ope­ re figurative, narrative, poetiche e musicali. Attraverso i secoli Maria è sta­ ta raffigurata secondo gli ideali di virtù, bellezza e femminilità della ri­ spettiva epoca, e in queste raffìgurazioni ammirata e venerata. In opere d'arte importanti così come nelle immagini devozionali dell'arte religiosa di consumo, nella predicazione e nella catechesi queste idealizzazioni fu­ rono presentate come un modello - all a fine irraggiungibile - a generazio­ ni di donne, ed è per questo che oggi, in tante donne, le stilizzazioni di Maria quale immagine ideale della donna suscitano sentimenti molto am­ bivalenti. A dire il vero, tanto la spiritualità emotiva e ricca di immagini quanto il tipo di venerazione di Maria, talora somigliante a una vera e pro­ pria adorazione, non hanno mai cessato di provocare anche una severa cri­ tica e delle correzioni di rotta sul piano teologico. La teologia riformata e anche il concilio Vaticano II, ciascuno a suo modo, hanno opposto alla de­ vozione mariana del loro tempo un contrappunto più razionale e cristo­ centrico. Una cosa è chiara: quando ci accostiamo alla Maria della storia della fede, questa figura ci dà molto più da fare che non la semplice don­ na storica di nome Mirjam testimoniata dalla Bibbia. Assai evidentemen­ te la donna e madre del Messia presente nella Bibbia ha calamitato pre­ stissimo su di sé bisogni psichici e spirituali di protezione materna e di un Divino femminile ed è stato così che, nel corso della storia della missione, è riuscita anche a servire alla cristianizzazione di culti pagani della Dea.

Maria

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l. LA MIRJAM STORICA

ll dato biblico direttamente ed esplicitamente riferito a Maria è molto chiaro e piuttosto sobrio, anche un po' disincantato. È vero che ella è menzionata in tutti e quattro i vangeli, ma soltanto i racconti dell'infanzia di Mt e Le (capp. 1-2) narrano di lei in modo ampio. Poiché i racconti del­ l'infanzia hanno un'origine post-pasquale e intendono fare delle afferma­ zioni cristologiche su Gesù, concentrandole in alcuni punti chiave, della figura storica di Mirjam di N azaret possono essere dette cose ancor meno storicamente attendibili di quelle relative al Gesù storico: ad essere rigo­ rosi, nient'altro se non che ella è stata la madre di Gesù e che fu ebrea per tutta la vita come anche suo figlio e le discepole e i discepoli di lui. Pro­ babilmente, date le usanze relative all'età del fidanzamento e del matri­ monio proprie della sua epoca e della sua cultura, doveva avere appena 14 anni quando divenne madre. Dopo la morte di Gesù si può pensare che abbia condiviso l'esperienza pasquale dei suoi e delle sue seguaci e che ab­ bia fatto parte della comunità di Gerusalemme. Ma ciò che già vale per Gesù, e cioè «che la sua nascita, la sua vita pubblica e la sua morte furo­ no avvolte talmente nell'ombra della storia del mondo che non è possibi­ le calcolare esattamente alcuna data» (Theilien/Merz 2001 , 147), vale a maggior ragione per sua madre. Qui di seguito ci occuperemo quindi del­ le immagini di Maria presenti nei diversi vangeli e non di affermazioni di valore storico sulla figura storica. Mc (il vangelo più antico), nella sua rappresentazione dei parenti di Ge­ sù, contrasta addirittura con quelle che sono le nostre idee correnti sulla Sacra Famiglia. In tre brevi sequenze (Mc 3 ,20s.3 1 -3 5; 6, 1 -6a) presenta i consanguinei - la madre e i fratelli - come persone che non capiscono il messaggio e lo stile di vita di Gesù: «È fuori di sé», suona il loro giudizio (3 ,2 1 ) . Tracciando un chiaro confine rispetto ai vincoli familiari carnali, il Gesù marciano presenta come sua vera famiglia, come /amilia dei (fami­ glia di Dio), la comunità di coloro che fanno la volontà di Dio (Mc 3 ,35). Benché questa sottolineatura sia debitrice anche all'interesse teologico della narrazione di Mc, la cui comunità deve venire a capo del fatto che la fede in Gesù divide le famiglie e mette gli uni contro gli altri (Mc 13 ,12s.), in queste scene, imbarazzanti come sono, si può rispecchiare anche la me­ moria storica di una relazione molto tesa di Gesù con la sua famiglia car­ nale. In ogni caso rappresentano in permanenza un sano correttivo alle immagini della Sacra Famiglia troppo perfette, armoniose e prive di con­ traddizioni. Mt e Le, pur riprendendo le affermazioni positive di Gesù sul­ la comunità dei credenti come vera /amilia dei, sdrammatizzano tuttavia il

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contrasto con la famiglia carnale, tralasciando soprattutto Mc 3 ,20s. (Mt 12,46-50; Le 8,19-2 1 ) . Nel vangelo di Matteo, Maria svolge una parte più ampia e più positi­ va, il che si deve soprattutto al vangelo dell'infanzia (Mt 1-2). L'albero ge­ nealogico introduttivo (che non fornisce fatti storici) che, tramite il padre Giuseppe, collega Gesù col re Davide e il progenitore Abramo, inserisce Maria nella serie formata da quattro grandi donne d'Israele, che con il lo­ ro agire, non sempre corrispondente alle nostre odierne idee della mora­ le, hanno procurato svolte importanti nella storia delle loro famiglie e del loro popolo: Tamar, Racab, Rut, Betsabea. La serie omogenea dei raccon­ ti che parlano della gravidanza prematrimoniale di Maria, la quale induce Giuseppe a pensare di lasciare la fidanzata, dell'omaggio dei tre saggi astrologhi, della fuga in Egitto e della strage degli innocenti a Betlemme ci sono noti come vangeli dell'infanzia. Ma, contrariamente ai ribilancia­ menti che la devozione ha operato nel corso della sua storia, al centro di quei racconti, come protagonista, c'è Giuseppe, mentre Maria vi appare sempre solo come oggetto, mai come soggetto agente. Per mezzo degli an­ geli, che gli appaiono in sogno, Dio rivela a Giuseppe che la gravidanza di Maria è opera divina e gli dà ripetutamente disposizioni per proteggere il bambino e la madre. Mt formula gli ordini dell'angelo in modo stereoti­ pato: «Prendi il bambino e sua madre . . . » e poi usa le stesse parole per de­ scrivere la loro esecuzione da parte di Giuseppe. In questa maniera, nella rappresentazione di Mt, Maria appare in primo luogo come la madre del fanciullo divino che deve essere protetta e che è, di per sé, piuttosto pas­ siva. La maternità, senza dubbio, così sottolinea il vangelo, la deve unica­ mente all'azione dello Spirito Santo (Mt 1 , 18.20) . Nessun uomo vi è coin­ volto, neppure Giuseppe che «non conobbe (sua moglie) finché non par­ torì un figlio» (Mt 1 ,25 ). Come anche le scene successive dei primi due ca­ pitoli, questa sequenza narrativa culmina in una citazione profetica (Is 7 , 14; 8,8. 10), il cui messaggio di salvezza («Ecco, una giovane donna . . . »; LXX: «Ecco, una vergine . . . ») deve essere interpretato come adempiuto in Gesù (cfr. Mt 2,5s. 15. 17s.23 ) . A presentare Maria nella veste di persona che agisce autonomamente, di profetessa consapevole di sé e di discepola esemplare è la duplice ope­ ra lucana (Lc!At) . Come accade in Mt, anche qui, in sostanza, a narrare di Maria è la storia dell'attesa di Gesù e della sua infanzia. Ma, a differenza di Mt, in Le Maria è il personaggio principale, le cui decisioni, parole e at­ ti danno corso all'evento. Qui l'angelo del Signore appare a Maria, la qua­ le, non senza aver chiesto prima un chiarimento (Le 1 ,34), acconsente al­ l' azione di Dio. Maria viene incaricata di imporre il nome al bambino (Le 1 ,3 1 ) ; da sola si reca da Elisabetta (Le 1 ,39), resta per alcuni mesi presso

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di lei e decide liberamente quando tornare a Nazaret (Le 1 ,56) . In Le il culmine di questo agire consapevole di Maria è il Magnifica! (Le 1 ,46-55) che, come ogni canto di lode dei racconti dell'infanzia, potrebbe passare, senza alcun cambiamento, come salmo ebraico del Primo Testamento e che ha il suo modello nel canto di Anna ( l Sam 2 , 1 - 10). Situato all'inter­ no della tradizione della profezia di critica sociale, questo inno canta il ro­ vesciamento dei rapporti vigenti e l'esaltazione degli umili da parte di Dio, facendo così già entrare il lettore nello spirito del discorso del piano (Le 6,20-26) . Benché l'atto materiale di cantare il Magnifica! non possa essere considerato documentabile sul piano storico, e l'inno sia stato messo sul­ le labbra di Maria dall'evangelista, con questa operazione, però, Luca de­ linea di questa donna un'immagine dotata di grande, energica autoconsa­ pevolezza e di impegno profetico, che corregge le successive immagini mariane contrassegnate in modo unilaterale da un'umile passività. All'in­ terno dei racconti della nascita e dell'infanzia in Le 2, Maria e Giuseppe agiscono prevalentemente insieme come una coppia di genitori che non sempre capiscono che cosa viene detto loro sul figlio e, alla fin fine, nep­ pure da lui stesso (2 ,33 .48.50) . Concordando con Mt per il contenuto, an­ che Le definisce Maria una vergine, il cui fidanzato, Giuseppe, discende dalla casa di Davide ( 1 ,26) . L'incontro con l'angelo è disegnato in paralle­ lo col concepimento miracoloso e la nascita di Giovanni e in conformità coi modelli del Primo Testamento. Con l'annuncio dato dall'angelo Le presenta adempiuta in Gesù la speranza ebraica di un 'nuovo Davide' e fissa, sotto forma di narrazione, all'inizio della sua vita terrena quella che sarà la professione di fede post-pasquale in Gesù «figlio di Dio» (Le 1,32.35 ). Dopo questa presentazione positiva di Maria, può fare, a prima vista, l'effetto di una brutta sorpresa venire a sapere di una lode rivolta alla ma­ dre di Gesù, che Gesù respinge bruscamente (Le 1 1 ,27s.) . Ma Le non rap­ presenta, come ad esempio fa Mc 3 , un contrasto tra la famiglia carnale e quella spirituale di Gesù, bensì integra Maria, fin dall'inizio presentata co­ me credente esemplare, nella 'famiglia di Dio'. La risposta di Gesù, «bea­ ti sono piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pra­ tica», rinvia al modo in cui Maria ha ascoltato e custodito le parole di Dio, e alla sequela richiesta (Le 1 ,45 ; 2, 19.5 1 ; 8,15.2 1 ) . In tal modo questa af­ fermazione corregge una venerazione mariana ristretta al piano biologico e anche le definizioni della dignità e del ruolo delle donne, pur esse limi­ tate alla biologia: non è in virtù della sua maternità, bensì in virtù della sua fede e del suo discepolato che Maria, come ogni credente, deve essere det­ ta beata. ll punto culminante e conclusivo dell'integrazione lucana di Ma­ ria nella famiglia di Dio, formata dalle discepole e dai discepoli di Gesù,

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è rappresentato da At 1 , 14, che, nell'evento della Pentecoste, la mostra in­ serita nella comunità primitiva di Gerusalemme insieme con le altre di­ scepole e i Dodici. n vangelo di Luca fa di Maria un 'ritratto' veramente a tutto tondo, e per questo motivo i suoi racconti e canti di lode ispirano una gran parte della successiva devozione mariana. All 'interno della storia della devozione questa osse1vazione si condensa poeticamente nella leg­ genda che Luca è stato il 'pittore' della madre di Dio. n vangelo di Giovanni menziona la madre di Gesù solo in due contesti, senza però farne il nome, peraltro certamente noto. I due racconti, l'in­ fluenza di Maria sul primo dei sette 'segni' di Gesù narrati nel vangelo in occasione delle nozze di Cana (Gv 2 , 1 - 12 ) e la sua presenza presso la cro­ ce (Gv 19,25ss.), fanno da cornice alla vita pubblica di Gesù. Con discre­ zione Giovanni inserisce Maria nella cerchia delle discepole e dei discepoli di Gesù, facendola unire, dopo l'evento di Cana, ai fratelli e ai discepoli e discepole di Gesù. Egli è l'unico evangelista a menzionarla anche presso la croce accanto a Maria Maddalena e ad altre donne. Quando il crocifis­ so affida la madre al discepolo che egli amava, e contemporaneamente il discepolo a lei, non mette una donna priva di mezzi sotto la protezione di un uomo, ma piuttosto apre una nuova dimensione dello stare insieme e dell'essere gli uni per gli altri: i legami familiari carnali, persino quelli del­ la madre di Gesù, vengono sostituiti dai legami familiari della comunità di Gesù. La scena della croce simboleggia il testamento di Gesù: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» ( Gv 13 ,34) e la figliolanza divina ba­ sata unicamente sulla fede, espressa nel prologo (Gv 1 , 12s.). L'unica menzione della madre di Gesù nella letteratura epistolare neo­ testamentaria, Ga/ 4,4, non dice assolutamente niente di Maria, ma pone Cristo al centro dell'interesse, che in quanto figlio inviato di Dio viene an­ corato nella vita ebraica del suo tempo per mezzo di due circostanze: es­ sere «nato da donna» e «posto sotto la legge». Qui si palesa lo stretto le­ game tra enunciazioni cristologiche e mariologiche, già tipico dei dogmi mariani della chiesa antica.

II. LA DONNA CELESTE l . Iconografia cristiana e influssi dell'iconografia pagana. La frequenta­ zione dei testi del NT rivela che il fascino e le emozioni, che Maria ha ca­ lamitato su di sé nel corso della storia della devozione che la riguarda, non sono spiegabili unicamente in base ad essi. Nella devozione e nell'arte ri-

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sultano invece affascinanti numerosi motivi mariani che non sono imme­ diatamente riconducibili ai passi neotestamentari che parlano di Maria. Già le raffigurazioni di Maria come madre che allatta o come madre ad­ dolorata, che stringe al seno il neonato o il figlio adulto morto, non sono più l'illustrazione diretta di un racconto biblico. A maggior ragione que­ sto vale per le raffigurazioni sceniche dell'infanzia di Maria, per le scene legate alla natura, dove Maria figura in abito da spigolatrice o nel giardi­ netto del paradiso, nonché per le raffigurazioni della Maestà che la vedo­ no assisa in trono («Sede della sapienza») , o la presentano come Madon­ na coronata di stelle, Regina del cielo sulla falce di luna, Madonna del manto o persino come « Vi'erge ouvrante>>, una scultura della madre di Dio apribile, nel cui interno si trova la Trinità. Facendo un confronto a livello di storia delle civiltà e delle religioni col­ pisce la contiguità di numerosi motivi mariani con raffigurazioni di divi­ nità femminili fuori dal cristianesimo (un ricco materiale iconografico è of­ ferto da Neumann 1 997). Diffuse in quasi tutto il mondo sono le sculture di divinità materne che allattano; molte di queste figure di pietra, argilla e bronzo, dal II millennio a.C. fino all ' epoca del cristianesimo primitivo, so­ no conservate in tutta l'area del Mediterraneo e nel Vicino Oriente e sono testimonianza di una grande notorietà e di una diffusissima venerazione. Diverse di queste immagini di Iside-Hathor con il fanciullo Horus o di Demetra con Core possono essere scambiate con una figura della Madon­ na (cfr. Neumann 1997 , tavole 37.38.44.45 . 147). La Iside egizia, dea e maestra di sapienza, porta a volte in grembo anche il re-dio adulto; altri culti rappresentano la morte (ciclico-stagionale) del figlio-amante, met­ tendolo sul grembo della madre-dea (Neumann 1 997 , tavole 4.47). Altret­ tanto diffusi sono i culti e le raffigurazioni di divinità femminili della na­ tura e del raccolto (per esempio, Cerere; Neumann 1997 , tavole 60. 162), di divinità femminili assise in trono e collegate con il simbolo lunare (Neu­ mann 1997 , tavole 44. 15 3 ) . A favore di un «influsso formale esercitato dal­ l'immagine della dea Iside con il fanciullo Horus, o di una formazione per analogia con la stessa figura» parlano le presenze precoci e frequenti di Madonne assise in trono in Egitto (Neumann 1997 , 1 12). A favore di un contatto, non importa di quale tipo, fra il culto pre-cristiano di divinità femminili e la venerazione cristiana di Maria depone anche il fatto che nu­ merose chiese mariane dei primissimi tempi furono costruite sulle fonda­ menta di precedenti templi dedicati a divinità femminili e che le festività mariane si sovrappongono alle feste di dee pagane (Kirchberger 2004 , 165, rinvia al 15 agosto come festa di Artemide di Efeso) . Non da ultimo sbalordisce il fatto che il titolo di Maria madre di Dio venisse accolto con grande entusiasmo, nel 43 1 , dalla popolazione locale durante il concilio di

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Efeso, città che prima era il centro del culto di Artemide/Diana (cfr. At 19,2 1 -40; Neurnann 1997 , tavola 35). È evidente che la madre ebrea del Messia, già fin dai primi tempi della sua venerazione, poté calamitare su di sé il bisogno della gente dell'antichità di avere un divino femminile, ben­ ché tanto le enunciazioni neotestamentarie quanto quelle teologico-ma­ riologiche su Maria si distinguano fondamentalmente da ogni culto delle dee, nella misura in cui Maria, per quanto possa essere grandemente ve­ nerata, resta sempre totalmente un essere umano e una creatura di Dio (rappresentato come maschio) . S e si segue la scuola di psicologia del profondo di C.G. Jung, una buo­ na parte della devozione cristiana per Maria può essere intesa come parte di quella ricerca di simboli dell'archetipo psichi co della 'Grande Madre', che è trasversale alle culture (cfr. Neurnann 1 997 ) . Un ponte tra la vene­ razione delle divinità femminili nell'antichità, la fede ebraico-cristiana e la devozione cristiana per Maria concorrono a gettarlo anche dei testi bibli­ ci che furono riferiti molto presto a Maria: la Sapienza personificata del Primo Testamento, l'amata del Cantico dei cantici e la donna celeste in Ap 12. Tutti questi testi danno ancora oggi l'impronta all 'iconografia cristia­ na e al patrimonio di canti liturgici su Maria. 2. Fondamenti biblici della donna celeste. TI testo apocalittico di Ap 12, lettura neotestamentaria della solennità dell'Assunzione, è il fondamento essenziale delle raffigurazioni di Maria come Madonna coronata di stelle e Regina del cielo: quale «segno grandioso» appare nel cielo l'immagine di una donna incinta e in procinto di partorire, la quale, rivestita di sole, il capo incoronato da una corona di dodici stelle, sta in piedi sopra la luna. Sotto forma di drago, Satana muove guerra contro di lei e il figlio che par­ torisce. Con immagini mitico-apocalittiche Ap descrive la sofferenza delle comunità cristiane perseguitate sotto il dominio tirannico di Roma verso la fine del I secolo. La donna celeste simboleggia in questo contesto il po­ polo di Dio (Israele e la comunità cristiana primitiva sono considerati co­ me un continuum) , da cui è uscito il Messia e che adesso viene persegui­ tato a causa della sua fede. Ella è dunque una figura simbolica e colletti­ va. Ma il suo essere madre del Messia ha fatto sì che questo testo fosse l et­ to prestissimo come testo mariano e che la celeste figura simbolica fosse identificata con la madre storica di Gesù. Questo testo biblico è stato il ponte, attraverso il quale la persona storica testimoniata nel Nuovo Testa­ mento poté diventare una figura simbolica. In tal modo divenne possibile sia identificare Maria con l'entità collettiva della chiesa (ekklesia) sia in­ terpretarla come archetipo della chiesa. Attraverso Ap 12 confluiscono an­ che nell'iconografia cristiana i diversi complessi di immagini dei miti del-

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l'antichità, in questo caso quello della regina del cielo e della lotta con il drago del caos, dato che la simbologia del testo si nutre essenzialmente del mondo dei miti e degli dèi dell'antichità (cfr. Benko 1993 ) . Per formulare la propria resistenza al dominio tirannico di Roma, il redattore di Ap si servì di diversi complessi di immagini pagane dell'antichità - e proprio per questo rese possibile il collegamento fra i vari complessi di immagini cristiane e quelli dell'antichità pagana. Ai complessi di immagini delle religioni dell'antichità, come quelli rela­ tivi alla dea egizia della sapienza e della giustizia, Ma' at, a Iside e Ashera si riallaccia anche la tarda letteratura sapienziale del Primo Testamento, che personifica la Sapienza divina in una figura di donna (Pr l ,20-3 3 ; 8, 22-3 1 ; 9, 1 -6; Sir 24; Bar 3s.; Sap 7-9; cfr. Schoer, 572s.; Lang, 1089s.). Poi­ ché il cristianesimo nascente intende Gesù come Sapienza divina fattasi uomo (Prologo di Gv, primi inni cristologici del NT; cfr. Schoer, 573s.), ri­ conosce sua madre come portatrice e 'sede' della Sapienza divina, i cui at­ tributi femminili passano direttamente su Maria. A partire dal VII secolo, Sir 24 e Pr 8 vengono letti nella liturgia delle feste mariane; la poesia del medioevo può addirittura pensare Maria come la Sapienza presente alla creazione (Kem 1 97 1 , 8 1 - 138). Un terzo complesso di immagini, e cioè quello della lirica d'amore del Ct, si apre infine su una sua interpretazio­ ne allegorica: l'amore erotico poeticamente condensato nei canti del Ct fu letto molto presto allegoricamente come amore tra JHWH e Israele e nel cristianesimo primitivo fu applicato al rapporto tra Cristo e la sua chiesa, della quale Maria fu considerata rappresentante e archetipo. In questo modo poterono essere collegati con la figura simbolica di Maria anche i ri­ gogliosi scenari naturali (giardini, frutti, viti) presenti in questa lirica d'a­ more biblica e lo stesso desiderio nostalgico dell'amore (nell'amor cortese ispirato a Maria e nella mistica). L' influenza di queste tre fonti bibliche e della loro sintesi sono facilmente identificabili nei canti mariani cattolici come Wunderschon priich tige [Magnificamente splendida] e Sagt an, wer ist doch diese [Proclama chi è costei] . Sullo sfondo di questo modo sim­ bolico-allegorico di rapportarsi ai testi biblici, così estraneo al nostro pen­ siero moderno linear-logocentrico e rigidamente storicistico, diventa com­ prensibile anche la contiguità iconografica delle numerose raffìgurazioni della Sapienza, della chiesa e di Maria - fino al punto che i motivi si pos­ sono confondere (cfr. le icone di Haghia Sophia, raffìgurazioni della Sedes Sapientiae e della Ecclesia).

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III. LA VITA DI MARIA Chi conosce gli altari gotici dedicati a Maria, con le loro numerose sce­ ne della sua vita, noterà che nelle fonti sinora ricordate mancano alcune leggende. In effetti tutto ciò che la pia tradizione 'sa' sull a casa patema di Maria e sull a sua giovinezza deriva dalla letteratura extracanonica del cri­ stianesimo primitivo, che infine, nel medioevo, confluì nella Legenda au­ rea di Jacopo da Varagine (XIII sec. ) . Altre leggende si trovano nei diversi vangeli apocrifi dell'infanzia, nonché nelle leggende sulla morte e l'assun­ zione di Maria, ad esempio il Transitus Mariae dello Pseudo-Melito, sorte a partire dal v secolo. Fra i vangeli apocrifi del cristianesimo primitivo non ce n'è un altro che, come il Protovangelo di Giacomo, abbia potuto esercitare un'influenza co­ sì persistente sulla devozione della Grande Chiesa; è ad esso, infatti, che siamo debitori della maggior parte delle leggende su Maria. Questo docu­ mento, sorto verso la fine del II secolo, che si dice scritto da Giacomo, il fratello del Signore, narra, nei suoi 25 capitoli, la giovinezza di Maria dal­ la sua miracolosa concezione fino al noto episodio della strage degli inno­ centi di Erode. Prendendo volutamente a modello le tradizioni del Primo Testamento, il Protovangelo narra come la pia coppia ebrea di Anna e Gioacchino, in età avanzata, dopo essere stata a lungo senza prole, conce­ pisce una bambina, la cui nascita suscita una grande gioia e che, sull'e­ sempio di Samuele ( 1 Sam ls.), viene consacrata a Dio. All ' età di tre anni Maria viene data in custodia al Tempio, dove, nutrita da Dio, cresce fino a che, a dodici anni, passa infine alla custodia del vecchio Giuseppe. La narrazione si mostra molto interessata e attenta alla verginità di Maria. Al­ lorché diventa evidente la sua gravidanza ad opera dello Spirito Santo, i due, sia Maria sia il suo fidanzato Giuseppe, si devono più volte esporre al rimprovero per la loro trasgressione morale e difendersene. All a nasci­ ta di Gesù sono infine presenti due levatrici ebree, di cui una può attesta­ re la nascita di Gesù grazie a una grande luce, mentre l'altra, all'inizio in­ credula, verifica la permanente integrità dell'imene di Maria. TI Protovan­ gelo conosce i racconti dell'infanzia di Luca e di Matteo, li accoglie e ne colma le 'lacune', soprattutto con lo sguardo rivolto alla nascita verginale, sulla quale i testi dei vangeli canonici tacciono. Mentre la questione qui sollevata della verginità impegnerà nel corso ulteriore della storia della chiesa soprattutto la formazione dei dogmi, numerosi racconti entrano coi loro motivi nell'arte e concorrono alla formazione di leggende. La stessa cosa vale, riguardo all'assunzione fisica di Maria in cielo, per quegli scritti sorti nel v secolo, come il Liber de gloria beatorum martyrum

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di Gregorio di Tours e il Transitus Mariae dello Pseudo-Melito, che si oc­ cupano della fine della sua vita e i cui racconti sono confluiti nella Legen­ da aurea. In forma analoga alla scena dell'annunciazione, Maria, 24 anni dopo l'ascensione del figlio, apprende da un angelo che la morte è immi­ nente. In modo miracoloso una nube porta tutti gli apostoli al letto di morte di Maria, la cui anima, al momento della morte, viene accolta in cie­ lo direttamente da suo figlio. Alla sepoltura, accompagnata da un miraco­ lo di conversione e di guarigione, segue una scena di risurrezione, in cui Cristo chiama il corpo della madre dalla tomba alla vita celeste. La risur­ rezione di Maria è messa volutamente in parallelo con quella di Gesù, quando gli apostoli dicono a Cristo: «Signore, sembra ai tuoi servi che co­ me tu hai vinto la morte e governi in eterno, tu abbia risuscitato anche il corpo di tua madre e l'abbia posto alla tua destra per l'eternità». La mo­ tivazione che Cristo fornisce dell'assunzione fisica in cielo della madre isti­ tuisce invece un parallelo rispettivamente tra il peccato e la morte e l'e­ senzione dal peccato e l'esenzione dalla morte: «Così come tu, concepen­ domi, non sei stata macchiata dal peccato carnale, allo stesso modo non soffrirai neppure la putrefazione del corpo nella tomba» (Legenda aurea, 452) .

IV. LA TRADIZIONE VIVENTE

Sono quattro i dogmi mariani riconosciuti dalla chiesa cattolica. Men­ tre l'Immacolata Concezione di Maria, proclamata da Pio IX nel 1 854, e l'Assunzione fisica di Maria nella gloria del cielo, proclamata da Pio XII nel 1950, sono accettate soltanto in seno alla chiesa cattolica, gli altri due dogmi della chiesa antica, cioè quello della concezione verginale di Gesù e di Maria madre di Dio, fanno parte della dottrina della fede comune an­ che agli ortodossi e alle chiese della Riforma. I due dogmi mariani della chiesa antica stanno in una stretta relazione cristologica, cioè, facendo enunciazioni di fede su Maria forniscono enunciazioni di fede su Gesù Cristo. I punti di partenza della formula di fede del cristianesimo primitivo «nato da Maria Vergine», da cui si produsse l'enunciazione della perpetua verginità, si trovano nelle tradizioni mariane di Mt e Le e, come tra l'altro dimostra il Protovangelo, hanno suscitato prestissimo il particolare inte­ resse dei credenti. Le pericopi neotestamentarie sul concepimento vergi­ nale di Gesù esplicitano sotto forma di narrazione il titolo di Figlio di Dio

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attribuito a Cristo, mostrando che Gesù, fin dal momento del suo conce­ pimento, è 'Figlio di Dio'. Mentre nella scena del battesimo in Mc 1 ,9- 1 1 appaiono ancora tracce di una cristologia dell'adozione (nel battesimo al Giordano Dio riconosce Gesù come suo figlio diletto) , il prologo del L6gos in Gv 1 , 1 18 identifica Cristo con la Sapienza divina e 'data' così l'ini­ zio della figliolanza divina di Gesù esattamente al principio di tutto. n dogma della perpetua verginità è, in questo senso, il proseguimento della riflessione sulla figliolanza divina di Gesù. La questione circa il rapporto tra Gesù e Dio, nonché tra la natura umana e quella divina di Gesù, oc­ cupa la teologia dei primi secoli e conduce alle formule di fede dei primi concili (Nicea 325 , Costantinopoli 3 8 1 ) , che vengono tramandate come il Grande Credo. In questo contesto la proclamazione di Maria come «ge­ nitrice di Dio» nel concilio di Efeso, del 43 1 , indica che la sua maternità si riferisce a tutta intera la persona di Cristo come vero uomo e vero Dio e non è limitata unicamente alla sua natura umana. Già nell'antichità si co­ minciò a festeggiare come «concezione di Maria» il fatto che i suoi geni­ tori, come narra il Protovangelo, dopo essere stati a lungo senza prole, concepirono per grazia di Dio una creatura in vecchiaia. n dogma che nel 1854 proclamò Maria concepita senza macchia originale supera ampia­ mente quello che, in origine, era un motivo di festa e indica che Maria, fin dal momento della sua procreazione e concezione, è esente dal peccato originale e quindi neppure suo figlio ne è in alcun modo toccato. La dog­ matizzazione fu preceduta da una disputa teologica che si trascinò per se­ coli, il cui fondamento è rappresentato dalle contraddittorie idee biologi­ che che l'antichità aveva sul ruolo della donna nel concepimento (Aristo­ tele contro lppocrate; per altre informazioni, vedi Gossmann 1990, 25 30) . La speranza che Maria sia rimasta risparmiata, in modo permanente e nell'interezza della sua persona, non solo dal peccato, ma anche dalla sua conseguenza, la morte, si trova formulata già nel V secolo e nelle leggende del transitus. I complessi di immagini che ci mostrano Maria che muore circondata dagli apostoli e la sua tomba che viene trovata vuota e cospar­ sa di fiori rispecchiano e influenzano la devozione fin dal primo medioe­ vo. A partire dall'epoca barocca a dominare è soprattutto la raffigurazio­ ne della donna che ascende al cielo e calpesta il serpente, l'Immacolata in piedi sulla falce di luna. Le idee che si esprimono in tal modo sfociano, nel 1950, nel dogma dell'Assunzione fisica di Maria in cielo. La dottrina che Maria è stata «assunta col corpo e con l'anima nella gloria del cielo» può essere intesa come «l'apprezzamento della materia di cui è fatta la vita umana e il rifiuto del dualismo» (Gossmann, 3 95 ) e come anticipazione della speranza cristiana per tutti gli esseri umani. Mentre la chiesa cattolica sviluppava ulteriormente la sua riflessione su -

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Maria nella disciplina dogmatica della mariologia, le chiese orientali e le chiese della Riforma trovavano altre forme di rapporto loro proprie con la Madre di Dio. La chiesa d'Oriente si avvicina ai misteri della fede dell'In­ carnazione e della Madre di Dio non usando la logica della deduzione, ma la preghiera liturgica, non pretendendo di definire dei dogmi, ma stando nella sfera degli inni e delle dossologie che vanno oltre la razionalità (Kal­ lis 1996). Dal canto loro, le chiese della Riforma hanno meditato sui pas­ si espliciti del NT attenendosi al principio sola scriptura e hanno svilup­ pato una riflessione che, in modo aderente ai testi e sobrio rispetto alle al­ tre tradizioni, vede in Maria l'esempio dell'agire della grazia divina e di una devota risposta da parte dell'essere umano (Petri 1 996) . Nel dialogo ecumenico ciò ha portato anche i cattolici a riscoprire la Maria biblica. Reinterpretazioni creative dei dogmi mariani, diventati un problema per molti credenti, si trovano in un luogo inatteso fuori dall'area ecclesia­ le cattolica. C.G. Jung e la scuola di psicologia del profondo che a lui si ri­ ferisce celebrarono, nel 1 950, la proclamazione dell'assunzione fisica di Maria in cielo come un ampliamento rilevante sul piano psicologico e so­ ciologico della Trinità, pensata in chiave puramente maschile, che, con il simbolo archetipico della Grande Madre, diviene una Quaternità che ri­ specchia la perfezione. Con questo dogma è stato finalmente elevato all a sfera del divino l'archetipo del femminile e dell'Anima come parte psichi­ ca femminile di ogni essere umano. Anche sul piano sociale «l'equipara­ zione dei diritti (richiede) [ . . . ] il suo ancoraggio metafisica nella figura di una donna 'divina' , la Sposa di Cristo» (Jung, 498s . ) . Attualmente Peter Sloterdijk interpreta l'assunzione di Maria al cielo come promessa che co­ loro che si amano (in questo caso Maria e suo figlio) non si separano nep­ pure a causa della morte, ma persino nella morte «muoiono l'uno nell'al­ tro» (Sloterdijk 2000, 63 6s.). La figura di Maria in tutte le sue sfaccettature rappresenta una sfida particolare per le donne che ancora oggi la vivono come un modello ir­ raggiungibile, spesso addomesticante e paralizzante. All 'inizio di un nuo­ vo approccio alla sua figura sta quindi anche il confronto critico con le sol­ lecitazioni che nel suo nome predicano assoluta oblatività, umile sotto­ missione, passività, incorporeità e l'attribuzione di ruoli ben delimitati. Molte donne vivono in modo liberante la riscoperta della Maria biblica come donna forte e saggia nella schiera delle donne sagge d'Israele e co­ me donna profeta dotata di un coraggio di critica sociale, che, invece di esortare al perfezionismo morale individuale, incita ad impegnarsi perché tutti e tutte abbiano la pienezza della vita. Un altro impulso liberatorio proviene da numerose raffigurazioni di Maria, che si trovano in tutti i se­ coli e che incarnano la forza e l'autonomia femminili e, nOn da ultimo, fan-

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no avvertire alle donne il proprio essere a immagine di Dio, mostrando, spesso forse involontariamente, il > c'erano tre posizioni: la teoria tradizionale del bellum iustum, la posizione pacifista e una rassegnata posizione di mezzo, che stabili «che anche se il cristiano in determinate circostanze deve andare in guerra, una guerra moderna con tutte le distruzioni che comporta non può mai esse­ re un atto di giustizia». Negli anni 1950/60, nelle Puidoux Theological Conferences, si cercò di addivenire a un accordo fra i rappresentanti del­ le grandi chiese e le chiese storiche pacifiste. L'ORK si adoperò per una messa al bando delle armi nucleari, per il disarmo e per la lotta contro il razzismo e per un programma di antimilitarismo. Negli anni Ottanta si avanzò ad alta voce la richiesta di un concilio di pace, suscitata da inter­ pellanze delle chiese nella DDR come pure da un appello del convegno delle chiese tenutosi a Diisseldorf nel 1985 . Dal movimento ecumenico di Ginevra venne sollecitato un processo conciliare «per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato» (Vancouver nel 1983 , Convocazione mondia­ le a Seul/Corea del Sud nel 1990) . La tematica della pace non risulta di certo essere un fattore di integrazione della comunità ecumenica. I con­ trasti regionali e confessionali riemersero nuovamente alla fine del XX se­ colo. d. /}atteggiamento delle chiese nei riguardi della pace fa emergere opi­ nioni diverse nella comprensione che le chiese hanno di sé e nel loro at­ teggiamento verso lo stato, la politica, la società e l'opinione pubblica. Idealmente, si possono distinguere tre /orme fondamentali nei rapporti delle chiese con la tematica della pace: cioè, in primo luogo quella della protesta profetica, della critica, della proclamazione di uno status con/es­ sionis; poi lo sforzo per trovare il consenso in un'integrazione dialogica; e infine quella di una legittimazione della politica ufficiale mediante il con­ solidamento del consenso.

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Ili. LA TESTIMONIANZA BIBLICA DELLA PACE Anche nella Bibbia le dichiarazioni sulla pace non sono uniformi, anzi in alcuni punti sono perfino opposte. n concetto di pace (shalom) nell'Antico Testamento è più ampio del concetto politico di pace. La guerra nell'Anti­ co Testamento non viene per nulla rifiutata per principio. In ambito politi­ co la guerra e la pace ricadevano sotto la giurisdizione del re. La critica pro­ fetica (per esempio, Amos, Isaia, Michea, Geremia) metteva in risalto il contrasto fra la promessa divina della pace e il terribile presente. I profeti precedenti all'esilio non annunciano la pace, ma il giudizio. La discordia è causata dalla colpa umana. Non si può ricorrere in maniera immediata a promesse di pace come quelle in Is 2,2-4 (= Mi 4 , 1 -3 ) per un'intesa politi­ ca; vi si contrappongono altri testi che annunciano la guerra finale di JHWH contro i suoi nemici (G/ 4 , 1 -3 ) . Nella tarda epoca della fede d'I­ sraele l'esperienza storica della mancanza di pace nel mondo viene messa in rapporto con la 'discordia' fra Dio e l'uomo. Nel Nuovo Testamento la parola pace ha un proprio luogo in modo ancor più rilevante in soteriolo­ gia. Paolo interpreta la giustificazione per la fede come «pace con Dio». Accanto ad essa si trova l'esortazione parenetica alla pace, soprattutto per l'armonia nella comunità. Dal Nuovo Testamento e dalla Bibbia non è pos­ sibile desumere una concezione spiccatamente politica della pace. Tuttavia, per l'atteggiamento cristiano nei riguardi della pace nel Nuo­ vo Testamento è orientativo l'invito a stare in pace con tutti. Sono inoltre fondamentali i comandamenti della non violenza (Mt 5 ,3 9b-40) e dell'a­ more del nemico (Mt 5 ,44 par. ) . I discepoli di Gesù si differenziano dal­ l' aspirazione degli zeloti a conseguire il regno di Dio con la violenza. L'e­ tica del discorso della montagna è caratterizzata dal rifiuto della violenza e dalla disponibilità alla sofferenza. n comportamento dei cristiani testimo­ nia una 'interruzione' della violenza che domina nel mondo. Di ciò fanno parte lo schierarsi dalla parte dei deboli e dei poveri e la critica dei rap­ porti di dominio terreni. La storia intessuta di colpe fra gli uomini viene interrotta se la realtà della riconciliazione viene concepita come la base della convivenza. La convivenza testimoniata dai cristiani nella comunità crea uno 'spazio d'azione' in cui il servizio della riconciliazione può dive­ nire effettivo e il male essere vinto dal bene (Rom 12,2 1 ) . n messaggio bi­ blico trasmette quindi una comprensione fondamentale della pace. L'at­ tuale etica teologica della pace non può semplicemente argomentare rifa­ cendosi alla Bibbia, ma deve accogliere esperienze e conoscenze storiche.

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IV. CAMBIAMENTI NELLA COMPRENSIONE DELLA PACE DEL PROTESTANTESIMO l . Le dichiarazioni di Martin Lutero sulla guerra e sulla pace si basano sulle dichiarazioni di Agostino, sulla dottrina tradizionale del bellum iu­ stum, e presuppongono la dottrina medievale delle due spade, la dualità di papa e imperatore, di sacerdotium e imperium. Egli pose questa dualità alla base di una fondamentale differenza fra i due regni, il governo seco­ lare e quello spirituale; la pace politica diventa un compito secolare. Tut­ tavia, fra i beni terreni la pace è il bene supremo ( WA 30 II, 538). La con­ seguenza è una secolarizzazione della politica, e viene messa in rilievo la funzione difensiva dello stato. Vi si aggiunge la differenza fra un agire dei cristiani per se stessi e un agire in funzione di altri, che rende possibile al cristiano il servizio militare. Erasmo proclama in modo più radicale la pax christiana ( Querela pacis) , e per lui Cristo, principe di pace, è il modello dei cristiani. Sebastian Franck (ca. 1499- 1542) sostenne come teologo mistico-spirituale un paci­ fismo cristiano (Kriegsbuchlein des Friedens [Piccolo libro della pace] , 1539) .

2. Thomas Hobbes ( 15 88- 1679) accordò solo allo stato il diritto di ga­ rantire la pace. Pace significa sicurezza per la vita e per il corpo del citta­ dino. ll cristianesimo invece insegna una pura interiorità. La tolleranza è un compito politico. La pax civilis deve rivolgersi solo all ' utiHtas, all'utile dei cittadini. Solo il sovrano politico è in grado di tenere a freno lo stato di natura (bellum omnium contra omnes); la pace è un contratto (pactum pacis) . Solo nello stato di pace, inoltre, si possono garantire i diritti di li­ bertà del cittadino. 3. Immanuel Kant, con il suo 'Progetto filosofico' Zum ewigen Frieden [Per la pace perpetua] ( 1795 ) , si pone in questa tradizione di una com­ prensione religiosamente neutralizzata della pace. Egli non difende un'u­ topia, ma motiva la pace come postulato della ragione pratica. Con Hob­ bes, ma contro Rousseau, egli concepisce lo stato di natura come stato di guerra. La pace perciò deve essere costruita ed è un dettame inalienabile della ragione. 4. Patriottismo irrazionale e nazionalismo. ]. G. Fichte con i Reden an die deutsche Nation [Discorsi alla nazione tedesca] ( 1 808) fondò un carattere tedesco bellicoso. Hegel criticò l'idea kantiana di pace con l'argomento che la guerra servirebbe ad affermare la forza d'imporsi propria di un po-

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polo ( Grundlinien der Philosophie des Rechts [Linee fondamentali della fi­ losofia del diritto] § 324). La guerra contiene un elemento morale, che gio­ va alla salute dei popoli, come il moto dei venti protegge il mare dalla pu­ tredine. Questa interpretazione idealista della guerra come prova di affer­ mazione morale condusse al rifiuto del pacifismo. n protestantesimo na­ zionale non solo ha assunto un concetto autoritario di stato, ma si è anche appropriato della concezione dell'importanza della guerra per l'autocom­ prensione di un popolo, rifiutando quindi i rapporti ecumenici come in­ temazionalisti. 5 . La mutata situazione internazionale nel xx secolo obbligò a riflettere ulteriormente e in modo nuovo sulla tematica della pace. Nel confronto ideologico fra bolscevismo e democrazie occidentali c'era all'ordine del giorno (per esempio in Pio XII) la questione relativa a quale fine ultimo dovesse essere orientata la pace e se ci fosse una legislazione divina come norma suprema. L'impiego delle armi nucleari segnò, secondo una con­ vinzione diffusa, la fine della dottrina della guerra giusta. n peso delle con­ siderazioni si spostò di conseguenza sulla lotta alle cause dei conflitti e sui criteri di una pace giusta. I costi della corsa agli armamenti vennero bolla­ ti come «crimine contro i poveri». Per i cristiani e per le chiese si presen­ tarono allora nuove sfide e una richiesta a fornire la loro testimonianza di pace.

V. DIMENSIONI E PROSPETTIVE DELLA PACE

l . Pace non si deve solo definire negativamente come assenza di guer­

ra. Pace è una parola fondamentale della vita umana e insieme un concet­ to chiave dell'etica politica. Sono evidenti le minacce alla pace mondiale a causa della fame nel mondo, il sottosviluppo dei paesi del Terzo e Quarto mondo, la povertà mondiale, la disoccupazione e le armi di distruzione di massa. Si può e si deve parlare, in una visione globale, di un sistema di «mancanza di pace organizzata». Si pone inoltre la domanda se e fino a che punto il cristianesimo stesso sia capace di pace; degli esempi storici vi testimoniano contro. n dogma­ tismo e l'autoritarismo rafforzano la disponibilità all'aggressione, alla se­ parazione e all'ostilità. Perfino la chiesa stessa può essere un fattore di di­ scordia. n postulato di Hans Kiing di un éthos mondiale presuppone per­ ciò una pace fra le religioni per giungere ad una pace mondiale.

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2. Giustizia e pace. La formula iustitia et pax è tradizionale. Fra la pace interna agli stati e quella fra gli stati c'è un legame insolubile. Le guerre ci­ vili hanno la loro causa principalmente in tensioni sociali interne. Un'im­ portanza decisiva dev'essere data al rispetto e al mantenimento dei diritti umani. La legittimazione dell'intervento umanitario a causa di violazioni dei diritti umani costituisce un ambito problematico proprio. Per evitare le guerre e per appianare le controversie sarebbe necessaria una giurisdi­ zione arbitrale internazionale. Pace in senso stretto significa un rapporto giuridicamente ordinato, che si basa su conclusioni o trattati di pace. In base a tutte le esperienze storiche lo stato di diritto e la democrazia offro­ no delle condizioni favorevoli alla pace. Ma anche l'abolizione dell'ingiu­ stizia sociale e l'equa ripartizione dei beni della terra sono fattori che pro­ muovono la pace. La Carta Atlantica richiedeva pertanto la riduzione al minimo del bisogno e della fame. 3. Pace e diritto internazionale. Lo statuto delle Nazioni Unite contiene il divieto dell'uso della violenza (art. 2, comma 3 e 4). Il diritto alla difesa individuale e collettiva non viene certamente limitato dal divieto della vio­ lenza, ma rafforzato (art. 15 ) . La politica di sicurezza degli stati quindi è sempre permessa. A differenza del diritto statale interno, l'attuale diritto di prevenzione della guerra non si può imporre sostanzialmente perché non è protetto da sanzioni. Nell'interesse della pace mondiale bisogna promuovere una limitazione internazionale della sovranità statale. Anche i problemi dell'emigrazione, della prestazione di asilo e del mercato mon­ diale hanno la necessità di una disciplina contrattuale internazionale. La guerra in Iraq solleva nuove questioni di etica di pace. L'andamento della guerra mostra in modo impressionante che la forza militare non può sostituire in nessun modo delle concezioni politiche e che quindi la poli­ tica di pace deve avere la precedenza. La guerra, inoltre, ha acuito le ten­ sioni culturali e religiose fra il mondo islamico e quello occidentale. 4. La posizione pacz/ista di una rinuncia generale e di principio alla vio­ lenza non annulla il compito di ristabilire e garantire la pace. Per la salva­ guardia della pace e il ripristino del diritto il ricorso alla violenza può per­ fino divenire l'ultima ratio. La non-violenza deve certamente avere la pre­ cedenza. Per questo la pace è un processo di riduzione al minimo e di abo­ lizione dei potenziali di violenza e quindi un compito politico di assoluta priorità. 5. Pace e riconciliazione. Storia e colpa sono spesso cause di inimicizia e di odio; la riappacificazione quindi presuppone la percezione e il ricono-

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scimento della colpa. Solo un rapporto franco con il passato storico ren­ de possibile un futuro comune. Della riconciliazione fa parte la veridicità nella rappresentazione della storia; la pace non può fondarsi sulla menzo­ gna, ma solo sull a verità. D. Bonhoeffer, in relazione ai misfatti del Terzo Reich, distingue fra perdono e cicatrizzazione. Proprio le chiese, in virtù del loro annuncio della riconciliazione, dovrebbero essere sensibili nei ri­ guardi di una storia che si è macchiata di colpe e dimostrare solidarietà verso le vittime. 6. Il compito delle chiese e dei cristiani. Non può esserci una politica di pace autonoma da parte delle chiese. Le chiese e i cristiani però possono incoraggiare e sostenere una politica di pace e contribuire all ' educazione alla pace. I rapporti ecumenici favoriscono in modo particolare la pace. I presupposti morali della 'discordia' si possono vincere solo passo dopo passo ed educando alla fiducia; perciò c'è bisogno di uno sforzo costante per vincere l'inimicizia (disinimicare) . Un ruolo importante spetta pure al­ l'educazione alla pace. Inoltre, i servizi di pace della chiesa possono con­ tribuire alla riconciliazione e alla comprensione reciproca. Dichiarazioni ecclesiali e studi: AKTION SOHNEZEICHEN/FRIEDENSDIENSTE (edd.), Chri­ sten im Streit um den Frieden. Beitriige zu einer neuen Friedensethik, Freiburg 1 982; «Frieden wahren, /ordern und erneuern». Denkschrift der EKD, Giitersloh 1 98 1 ; «Frie­ densethzk in der Bewiihrung. Eine Zwischenbilanz», 200 1 (Ergiinzung zur 2. Aufl. der EKD-Texte 48); W. HOFFMEIER (ed. ) , Fiir Recht und Frieden sorgen. Au/trag der Kirche und Au/trag des Staates nach Barmen V Theologisches Votum der EKU, Giitersloh 1988'; E. LOHSE - U. WILKENS (edd.), Gottes Frieden unter den Volkern. Dokumentation des wissenscha/tlichen Kongresses der EKD und der VELKD, Hannover 1984; «Schritte au/ dem Weg des Friedens. Orientierungspunkte /iir Friedensethzk und Friedenspolitik». Ein Beitrag der EKD (EKD-Texte 48), Hannover 1994; R. WISCHNArn, Frieden als Be­ kenntnis/rage. Zur Auseinandersetzung um die Erkliirung des Moderamens des Re/or­ mierten Bundes «Das Bekenntnis zu ]esus Christus und die Friedensverantwortung der Kirche», Giitersloh 1984 , 1985'. Bibliografia: W. BI ENERT , Krieg. Kriegsdienst und Kriegsdienstverweigerung nach der Botscha/t des NT, Stuttgart 1 952; E. EPPLER, Vom Gewaltmonopol zum Gewaltmarkt? Die Privatisierung und Kommerzialisierung der Gewalt, Frankfurt 2002 ; K. FOHRER, Der internationale Friede, Frankfurt 1993 ; O. HbFFE (ed. ) , lmmanuel Kant. Zum ewigen Frieden, Berlin 1995 ; M. HONECKER, Die Diskussion um den Frieden 1 98 1 - 1 983, in ThR 49 ( 1 984) 372-4 1 1 ; W. HUBER, Friede V, in TRE Xl, 61 8-646; ID. - H.R. REUTER, Frie­ densethik, Stuttgart 1990 [trad. it., Etica della pace, Queriniana, Brescia] ; W. }OEST, Der Friede Gottes und der Friede au/ Erden , Neukirchen-Vluyn 1990; M. KROEGER, Theolo­ gische Kliirung unseres Friedensverhaltens. Eine Zweireichelehre /iir den Frieden, Stutt­ gart 1984; H. KONG - K.J. KUSCHEL (edd. ) , Welt/rieden durch Religions/rieden, Miin-

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Papato Ateismo/Teismo Chiesa/Ecclesiologia Gerarchia Magistero Riforma �







Critica della religione





A. Punto di vista evangelico

I. IL MINISTERO MASCHILE

Se nell'attuale terminologia ecclesiale, politica e sociale con il termine ministero si intende l'ufficio patriarcale che viene attribuito alle strutture gerarchiche, la discussione nell'ambito della teologia femminista sui mini­ steri ecclesiali, condotta all'interno della esegesi femminista del NT, ha fatto notare che a tale uso linguistico non corrisponde alcun termine del NT. La traduzione di diakonia con miniStero, ad esempio in l Cor 12,5 , è corretta dal punto di vista formale, però oggettivamente non pertinente, dato che di per sé il ministero patriarcale deriva dall'organizzazione di po­ tere dell'impero romano (Schottroff, 16). L'organizzazione alla guida del primo cristianesimo mostra, nelle sue origini, una certa pluralità. Dal pun­ to di vista idealtipico si possono distinguere diversi modelli. Accanto al modello gerosolimitano delle tre colonne, che riconosceva Pietro, Gio­ vanni e Giacomo, il fratello del Signore, quali 'colonne' della comunità (Gal 2,9), mostrando in tal modo uffici comunitari delineatisi già molto presto, esiste il modello delle comunità paoline, che almeno nei primi tem­ pi mettono in discussione il ministero ecclesiale di tipo patriarcale. Que­ sta struttura non gerarchica dell'organizzazione della comunità si espri­ meva nel fatto che le diverse funzioni nelle comunità rappresentavano, sotto forma dei diversi doni dello Spirito (i carismi), in uguale misura l'a­ zione dello Spirito di Dio. In tal modo le funzioni di governo di queste pri­ me comunità paoline venivano svolte sia da donne che da uomini. Febe (Rom 16, 1 ) era dùikonos nello stesso senso di Paolo (ad esempio, 2 Cor 1 1 ,23 ) ed anche l'apostolato è attestato per l'apostola Giunia (Rom 16,7) quale forma del carisma di governo. Che le donne abbiano rivestito re­ sponsabilità per le comunità e che abbiano presieduto le liturgie gode, nel frattempo, del consenso da parte della ricerca storica sulle donne e sul gender (Eisen 1996; Methuen 1 998; Jensen 2002 ) . È evidente comunque

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che tali carismi delle comunità primitive ben presto si cristallizzarono in ministeri. Nelle lettere pastorali e negli ordinamenti comunitari del II e III secolo, ad esempio nella Didascalia siriaca (Methuen 1 998) appare chiara questa evoluzione fino alla costituzione di uffici gerarchici strutturati en­ tro le comunità, al cui vertice si andò affermando in maniera crescente il ministero episcopale, caratterizzato a quel punto in senso maschile. A fianco esistevano tuttavia dei contesti in cui la questione circa i ministeri era neutrale dal punto di vista del genere. Un esempio palese lo offrono gli Atti di Tecla, che nonostante il loro carattere fittizio attestano che an­ cora nel II secolo il pensiero di un'apostola era a tal punto plausibile da poter costruire un'intera Vita su tale base. All'interno di tale dinamica di costituzione della gerarchia si ebbe an­ che lo sviluppo dell'affermazione del primato papale del vescovo di Roma, che rivendicava un ruolo di preminenza nell'intera chiesa in virtù della po­ sizione di onore della città dove erano le tombe degli apostoli e della tra­ dizione di Pietro a Roma, come pure la propria funzione quale istanza di appello, oltre a pretese di un primato giurisdizionale che favorisse l'unità della chiesa in quanto apostolica. Del papato quale pretesa dei vescovi di Roma di governare ed esercitare un primato giurisdizionale e dottrinale sulla chiesa universale, basandosi su Mt 16, 16- 19; 28,20; Le 22 ,3 1 ; Gv 2 1 , 15- 19, in quanto successori ed eredi di Pietro, si può parlare comun­ que in senso proprio solo a partire dal medioevo ed unicamente per la chiesa occidentale latina (Brennecke, 866) . Infatti, la pretesa avanzata dai vescovi di Roma incontrò sin dall'inizio resistenza, soprattutto da parte delle chiese d'Oriente. Nel complesso si può constatare che nel primo mil­ lennio non vi è stata una concezione condivisa del primato ( Gemeinhardt 200 1 , 12). La comunità ecclesiale concreta si costituiva mediante i concili 'ecumenici'. In questi, però, i vescovi giocavano un ruolo subordinato. I primi concili vennero infatti convocati dall'imperatore, trattarono senza i vescovi e presero senza di loro le proprie decisioni. Questi per lo più nem­ meno venivano inviati da Roma. I vescovi stavano sotto il giudizio dei con­ cili e venivano da questi giudicati, addirittura l'uno o l'altro vennero con­ dannati come eretici. L'idea del primato - avanzata in maniera sempre più forte da parte dei vescovi di Roma - non riuscì ad affermarsi nel corso del primo millennio a livello di chiesa universale. Lo stesso Gregorio Magno, che rappresentava un alto ideale pastorale di vescovo, nonostante tenesse fede alla pretesa di primato da parte dei vescovi di Roma all'inizio del me­ dioevo, non era affatto un rappresentante del cosiddetto 'papato', co­ munque lo si veda articolato (Brennecke, 869). Già il concilio di Calcedo­ nia (45 1 ) rifletteva la differenza ecclesiologica essenziale tra due conce­ zioni della struttura ecclesiastica che erano in lizza tra di loro per affer-

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marsi: il primato unipersonale e la pentarchia, ovvero la guida collegiale della chiesa universale da parte dei vescovi di Roma, Costantinopoli, Ales­ sandria, Antiochia e Gerusalemme. Solo a partire dal papato di riforma dell'alto medioevo il primato divenne conditio sine qua non della comu­ nione ecclesiale. In tal modo esso divenne però anche fattore decisivo del­ la frattura tra Oriente e Occidente (Gemeinhardt 200 1 , 13). La pretesa di incarnare l'unità della fede mediante il vescovo di Roma con riferimento all'autorità petrina si rivelò in tal modo proprio un ostacolo all'unità del­ la chiesa.

Il. CRITICA MEDIEVALE AL PAPA

La successiva pretesa dei vescovi di Roma al primato giurisdizionale e dottrinale, affermatasi soltanto nel medioevo e comunque solo nell'Occi­ dente latino, ed il relativo desiderio di potere dei papi condussero ad una critica veemente nei loro confronti. Fu così che a seguito del grande sci­ sma d'Occidente del 1378- 1415, nel corso del quale vi furono sempre due papi che gareggiavano per ottenere riconoscimento universale, la questio­ ne della competenza dottrinale e di governo della chiesa passò sempre più in primo piano. Salta agli occhi, in tale contesto, il fatto che la critica ven­ ne condotta nel quadro delle dispute intorno agli eretici e conobbe un'ac­ centuazione da stereotipo di genere in riferimento alla leggenda della pa­ pessa Giovanna. Sebbene non si possa stabilire nulla circa la storicità del­ la papessa, è comunque evidente l'alto grado di notorietà ed il potere di­ rompente di tale leggenda per l' autocomprensione del papato. Inoltre ap­ pare chiaro, a tale proposito, che venne operato un parallelismo tra ereti­ ci e donne e che l'argomentazione misogina possedeva per i contempora­ nei forza persuasiva se impiegata come argomento contro il papato. Gu­ glielmo d'Occam ( 1285 - 1347) si servì della figura della papessa per mo­ strare che la chiesa può sbagliare in questioni di fatto e che da una elezio­ ne erronea non consegue la validità del ministero della persona scelta: «Però nessun eretico, per quanto possa essere creduto il papa in persona, può essere capo della chiesa [ . . . ] . Per cui nessun eretico è vero capo del­ la chiesa, per quanto possa essere ritenuto tale: proprio come la donna, che per due anni venne considerata come papa, non era il vero capo del­ la chiesa, anche se da tutti venne creduta tale. Tutti infatti si sono sbaglia­ ti a tale proposito. L'intera chiesa, infatti, non può sbagliare in questioni di diritto, specie in quelle di diritto divino, però può errare in rapporto a

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fatti, come quando sbaglia se il papa è davvero un peccatore e tuttavia vie­ ne ritenuto da tutti un santo» (Dialogus, Quaestio I, Cap. XVII; Gos­ smann, 56). n collegamento tra la leggenda della papessa Giovanna e la di­ scussione sugli eretici veniva già impiegato a quell'epoca contro il papato come istituzione. John Wycliff ( 1320- 1384), nella sua opera Cruciata (1382), si rivolse contro la crociata organizzata da papa Urbano, poi. de­ stituito e sostituito da Clemente VII. n riferimento alla papessa Giovanna gli servì, in tale opera, per rifiutare alla Curia ogni potere spirituale. n secondo importante t6pos della critica al papato fu l'accusa di essere l'Anticristo. La messa in guardia, di sapore tutto apocalittico, che trovia­ mo nella prima e seconda lettera ai Tessalonicesi circa l'Avversario che «si esalta sopra tutto ciò che si chiami Dio o culto divino e si siede nel tem­ pio divino come un Dio ed affermando da se stesso di essere un Dio», ven­ ne personalizzata da parte dei papi del medioevo ed a volte applicata agli imperatori. In tal senso Federico Barbarossa ed altri, in certa polemistica romana vennero qualificati come anticristi. Dopo la caduta di Costantino­ poli ( 1453 ) l'Anticristo era il sultano turco Mul}ammad Il La critica me­ dievale antipapale continuò invece sempre a sospettare che l'Anticristo stesse a Roma, nella persona di un dato papa. Nelle critiche al papa di John Wycliff ( 1320- 1384) si può comunque no­ tare l'evoluzione della concezione di Anticristo che si ebbe nel medioevo, a partire dall'abbandono di una concezione personale-biografica caratte­ rizzata in senso escatologico, fino ad un'apertura de-escatologizzata a cer­ ti criteri, in base ai quali si poteva bollare come Anticristo chiunque tra­ sgredisse il diritto di Dio, il suo ordinamento e le sue regole. Entrava in tal modo in primo piano il riferimento a l Gv 2, 18, dove si dice che vi saran­ no «molti» anticristi, un argomento già impiegato da sant'Agostino nel contesto della descrizione degli eretici. Va osservato che questo concetto di Anticristo, determinato da alcuni criteri e che riceve la propria funzio­ ne nella descrizione degli eretici anziché nella descrizione dei tempi ulti­ mi, viene impiegato già da Wycliff (De Christo et suo Antichristo) come critica al papato - e cioè all'istituzione in quanto tale e non ad una singo­ la persona - anticipando in tal modo la critica della Riforma (Leppin 1 999, 57).

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III. CRITICA DA PARTE DELLA RIFORMA Lutero avanzò dapprima solo un sospetto. Al suo confidente Georg Spalatin disse nel 1 5 1 9 con prudenza: «e questo te lo dico all'orecchio, non so se il papa stesso sia l'Anticristo o almeno il suo messaggero, tanto impietosamente viene disprezzato e crocifisso il Cristo nelle sue Decreta­ li» ( WABr 1 ,359). Già un anno dopo questo sospetto era divenuto per lui certezza; l'equiparazione tra papa e Anticristo divenne da quel momento un'espressione ricorrente. Accogliendo il concetto di Anticristo, sperso­ nalizzato e situato nell'ambito della descrizione degli eretici del medioevo, Lutero stabilì dei criteri che mostrano come, a questo riguardo, non si trattasse affatto di una polemica casuale, bensì di una conseguenza coe­ rente della dottrina riformata, vincolata a precisi criteri, comprensibile a partire dal centro della sua teologia e che anche in seguito venne impie­ gata nella formazione della confessione luterana come un elemento di dot­ trina teologica (Leppin 1999, 52) . Come criteri centrali Lutero elenca che il papa si arroga il diritto di interpretare la Bibbia (Disputa di Leipzig, WA 2,429,35-37; De captivitate Babylonica, WA 6,537,29) , e inoltre che il di­ ritto canonico codificato si contrappone ai suoi occhi alla dottrina della giustificazione ed al sola gratia e sola fide, in quanto le sue leggi vincolano le persone e procurano una giustizia che viene dalle opere ( WA 40/I,619, 1 8-3 1 ; WA 10,12,24s . ) . Accanto a tale completezza nei criteri della concezione riformata circa l'Anticristo, L utero riprese l'obiettivo della concezione di Anticristo che il medioevo aveva trascurato, escatolo­ gizzando la figura dell'Anticristo quale papa. In tal modo egli poneva al contempo la Riforma come evento della storia della salvezza: essa divenne il momento centrale della storia della salvezza, poiché aveva reso visibile a tutti, mediante il vangelo, l'Anticristo che già operava nel mondo (Leppin 1999, 61s.). In tal modo Lutero poteva guardare in faccia con tranquillità la fine del mondo che riteneva imminente. Se la Con/essio Augustana (CA) del 153 0 non contiene - come è noto ­ affermazioni dirette sul papato, fatto che si deve in prima linea alla diplo­ mazia di Melantone, tuttavia CA VII lascia capire con chiarezza che il pa­ pato non rappresenta un criterio necessario per l'essere chiesa. La carat­ teristica necessaria e sufficiente per la vera unità della chiesa cristiana è, secondo CA VII, la predicazione del vangelo «con intelletto puro» e l'am­ ministrazione dei sacramenti «secondo la parola di Dio». Alla dieta di Smalcalda del 1537 la CA venne a sua volta integrata con un articolo rela­ tivo al papato. Vi vengono rifiutati il primato di giurisdizione del papa iu­ re divino, l'autorità suprema del papa sul potere temporale e la necessità

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di entrambe le proposizioni per ottenere la salvezza (BSLK, 47 1 -472 ) . Molto più aspri risultarono, in merito alla questione del papato, gli Arti­ coli di Smalcalda che Lutero stilò nel medesimo anno. Meno efficaci dal punto di vista giuridico, vennero promossi a testi confessionali. Secondo Lutero è per ragioni cristologiche che non può esservi un primato iure di­ vino, poiché un primato non è istituito da Dio, né dall'ordinamento divi­ no, né risulta fondato nella Scrittura. Per tale ragione la chiesa può e de­ ve cavarsela senza papa. Un primato de iure humano potrebbe esistere per ragioni teologiche e sarebbe addirittura auspicabile, non tuttavia possibi­ le a causa della struttura primaziale romana. n primato iure humano sa­ rebbe concepibile solo come ufficio elettivo, con possibilità di destituzio­ ne, legato a strutture sinodali (BSLK, 427-43 0). In tal modo, verso la fine degli anni Trenta del XVI secolo, si rinunciava a quelle proposte di formu­ lazioni prudenti da parte dei protestanti nei confronti dei vetero-credenti, formulazioni fino ad allora aperte all'interpretazione, che ancora caratte­ rizzavano la CA . I fronti confessionali erano così definiti ed un riconosci­ mento del papa quale capo supremo dei protestanti era ormai divenuto impossibile. Tale sviluppo venne strutturalmente favorito dal costituirsi del governo ecclesiastico dei principi territoriali, che in caso di bisogno prevedeva che il principe territoriale fosse anche il vescovo, governo fon­ dato dal punto di vista teologico dal cristallizzarsi di una genuina conce­ zione riformata del ministero, che poneva a fondamento il sacerdozio uni­ versale di tutti i fedeli e vi aggiungeva che la successione non veniva tra­ smessa mediante i vescovi ordinati, ma era collegata alla successione nel­ l'annuncio del vangelo (Leppin 2004 ) . In maniera analoga alla CA, riguardo alla concezione di chiesa, argo­ mentava anche Calvino, l'eminente rappresentante della seconda genera­ zione dei riformatori svizzeri. Egli rifiutava il papato in maniera ancor più veemente di Lutero e dei suoi seguaci e nel far ciò si richiamava soprat­ tutto ad argomenti biblici e storici, fondando in tal modo la tradizione riformata oltremodo critica nei confronti del papa.

IV. L'ISTANZA ECUMENICA La questione se le chiese abbiano proprio bisogno di un simile ministe­ ro universale dell'unità è dibattuta nelle chiese della Riforma, come mo­ strano le diverse prese di posizione che si registrano nel dialogo ecumeni­ co. Così, la Commissione Fede e Costituzione, nel 1993 , ha riconosciuto

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che, in merito alla questione di un ministero universale al servizio dell'u­ nità cristiana, si devono ancora sviluppare diverse considerazioni. Anche lo studio Communio Sanctorum, un testo redatto da un gruppo di lavoro bilaterale del VELKD (Lega delle chiese evangeliche e luterane di Germania) e della Conferenza episcopale tedesca e pubblicato nel 2000, al punto V1,4 per ben 30 pagine tratta del ministero petrino. «Un servizio alla chiesa universale in merito all'unità e alla verità della chiesa corrisponde alla natura ed alla missione della chiesa, che si realizza a li­ vello locale, regionale e universale. Va dunque considerato di per sé come adeguato alla questione. Tale ministero rappresenta l'intera cristianità ed ha un compito pastorale in tutte le chiese particolari». Nel complesso si tratta della questione di come e chi debba e possa assumere la funzione dell'unità. Ed è vero che vi sono alcuni anche all'interno delle chiese evan­ geliche che possono immaginare questo ministero al servizio dell'unità nella linea di un ministero petrino di stampo monarchico, ma ciò non rap­ presenta affatto un elemento di consenso. Sarebbe dunque da chiarire che cosa intendano con unità le chiese evangeliche. Al riguardo sono state svi­ luppate, nel corso del tempo, concezioni assai diverse, dalla comunione si­ nodale fino alla diversità riconciliata. Tali concezioni all'interno del prote­ stantesimo si trovano poi, a loro volta, concretizzate in una pluralità di modi. Solo se si riuscisse a raggiungere unità in proposito, si potrebbe considerare se il ministero petrino del NT possa essere un'espressione di tale ministero universale e se il papato storicamente affermatosi sia un'a­ deguata espressione di tale ufficio petrino. Dalla prospettiva evangelica il riferimento alla Riforma dovrebbe spingere verso la formulazione di cri­ teri, ai quali dovrebbe corrispondere un simile ministero dell'unità, al fi­ ne di proteggerlo dal rischio di divenire 'anticristiano'. Criteri di tal gene­ re sarebbero, ad esempio, la vincolazione alla Scrittura come pure l'im­ possibilità di decidere in maniera definitiva in merito alla dottrina eccle­ siale. Accanto a queste considerazioni va anche menzionata l'importanza dei sinodi, mediante i quali nelle chiese evangeliche da secoli viene di nor­ ma rappresentata l'unità. Nel complesso ci si dovrà chiedere, sullo sfondo di CA VII, se la concezione di chiesa che vi viene proposta non situi l'u­ nità all'interno della chiesa invisibile e di conseguenza esso non sia vinco­ lato ad un ministero esterno dell'unità nella chiesa visibile. E non basta: in definitiva si pone qui la domanda se un 'ministero dell'unità' possa, da parte evangelica, essere solo un ufficio riservato ad uomini. Dal punto di vista evangelico la questione circa il papato non può essere staccata dalla questione generale del ministero.

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B . Punto di vista cattolico

I. IL FENOMENO STORICO

I vescovi succeduti a san Pietro nel suo ufficio apostolico a Roma si so­ no presentati, già all'inizio dello sviluppo della chiesa, come detentori di una posizione di preminenza. Alla presenza di Pietro a Roma si allude in l Pt 5 , 13 , in connessione con At 1 2 , 1 7 , Rom 1 ,8 e 15,20. Ne parlano i Pa­ dri apostolici: Clemente di Roma menziona il martirio degli apostoli Pie­ tro e Paolo a Roma; il prete Gaio (verso il 1 80) testimonia sia la predica­ zione, sia il martirio dei due apostoli. Nell'insieme, le liste dei papi che ar­ rivano fino al secolo II, le tombe apostoliche e l'intera tradizione testimo­ niano l'attività di Pietro e la sua morte per martirio a Roma. Di conse­ guenza, i vescovi succeduti a Pietro in Roma godettero di una posizione

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privilegiata sin dai primi tempi della chiesa. Ne dà testimonianza già la Lettera di Clemente di Roma, che rimprovera la comunità di Corinto. Se­ condo il vescovo Dionigi di Corinto, questa lettera, insieme alla lettera di papa Sotero, a motivo della sua grande autorità era ancora letta al suo tempo ( 170) . Nella contesa sulla data della Pasqua, papa Vittore minacciò le comunità dell'Asia Minore ( 1 89-199) di scomunica dalla chiesa. Nella contesa sul battesimo degli eretici, papa Stefano I difese, di fronte ai ve­ scovi dell'Africa e dell'Asia, l'idea della comunione della chiesa, insisten­ do sulla validità del battesimo anche quando è amministrato da eretici. Ignazio di Antiochia menziona la chiesa di Roma come «colei che presie­ de nel vincolo dell'amore». lreneo di Lione parla della chiesa romana co­ me della chiesa «più antica, più grande, più nota, fondata dai gloriosi apo­ stoli Pietro e Paolo», con la quale tutte le altre chiese devono essere in ac­ cordo, a motivo della sua posizione di preminenza (propter potentiorem principalitatem) . Tertulliano riconosce il privilegio di questa chiesa roma­ na nel fatto che essa può far risalire la propria tradizione a due apostoli. Cipriano concede al vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, una priorità che però si esaurisce, secondo lui, nella funzione di rappresentan­ za dell'unità della chiesa, senza contemplare in sé un potere attivo specia­ le. Agostino afferma il diritto del papa a decidere in questioni dibattute (per esempio, nella contesa pelagiana). Nell'insieme anche i vescovi per­ seguitati, e persino gli eretici, riconoscevano l'autorità di Roma. Anche se non sempre di fatto, almeno sul piano morale i concili universali già allo­ ra sono stati guidati dal papa. Così nella storia si trovano almeno allusio­ ni al fatto che l'unità della chiesa e la purezza della dottrina si conservano soltanto affermando la posizione di preminenza del papa. Lo sviluppo ulteriore di questa posizione di preminenza mostra tratti analoghi allo sviluppo della vita religioso-spirituale e culturale della chie­ sa, soprattutto nella necessità di difesa nei confronti di eresie emergenti e di scismi, dall'antichità fino all'epoca moderna inoltrata. Tale posizione fu combattuta ovviamente nel contesto del dibattito tra l'imperatore e il pa­ pa (con i sinodi di riforma di Pisa nel 1409, Costanza nel 1414, Basilea nel 14 3 1 , con le loro teorie conciliari). Ci furono anche forti correnti nella chiesa che volevano far dipendere il papa, nel caso di decisioni definitive su questioni riguardanti la fede e i costumi, dal consenso della chiesa stes­ sa (così gli Articoli gallicani del 1682, il cosiddetto febronianesimo, il si­ nodo di Pistoia del 1786, la Puntazione di Ems del 1786 e, non da ultimo, il giuseppinismo nel 1790) . Tale sviluppo trova un suo epilogo nel concilio Vaticano I, secondo le cui asserzioni il primato di Pietro è passato ai suoi successori, i vescovi di Roma. Con questa successione, al romano pontefice è stata conferita la po-

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testà piena, ordinaria e diretta di guidare la chiesa intera, di reggerla e go­ vernarla (senza che in tal modo debba essere pregiudicato il potere ordi­ nario e diretto dei vescovi). n primato del papa implica, insieme alla po­ testà suprema di magistero, anche il carisma dell'infallibilità. Questo do­ no dell'infallibilità gli spetta, secondo le asserzioni del concilio Vaticano I, all ' atto di espletare l'attività di magistero supremo e universale della chie­ sa (tale dono spetta anche ai concili universali in unione col papa) . n con­ cilio Vaticano II ha ribadito, da un lato, questa dottrina e, dall'altro, l'ha ulteriormente sviluppata con ampiezza, esponendo i rapporti tra il prima­ to e il collegio dei vescovi: secondo la volontà di Cristo, papa e vescovi so­ no legati insieme collegialmente allo stesso modo in cui Pietro e gli altri apostoli formavano un collegio. Secondo le affermazioni del concilio, que­ sto collegio è il detentore della potestà suprema e piena nella chiesa (ov­ viamente, soltanto in unione con il suo capo, il vescovo di Roma). A sua volta il papa da solo ha e può esercitare una potestà piena, suprema ed universale sulla chiesa (LG 22 ) .

Il. LA LEGIITIMAZIONE TEOLOGICA

Nonostante la solenne definizione del primato di giurisdizione sulla chiesa universale e dell'infallibilità del papa al concilio Vaticano I ( 1 8 lu­ glio 1 870) , la legittimazione teologica è diventata difficile, anzi è entrata in crisi. Ma al concilio allora, ed anche oggi, non resta altra scelta che argo­ mentare teologicamente, richiamandosi a Gesù Cristo, il quale rappresen­ ta il criterio di riferimento immutabile della chiesa anche per questa par­ te fondamentale dell'ordinamento ecclesiastico. A prescindere totalmente dal fatto che ci sono sempre state difficoltà a motivare questo fattore teo­ logico (le chiese orientali non ne hanno accettato le motivazioni, e il me­ dioevo cristiano contraddisse, talvolta in maniera molto accesa, le teorie papalistiche), questa crisi consiste, da un punto di vista puramente este­ riore, nell'aver trovato accesso, in tutta la sua asprezza e ampiezza, anche nella stessa teologia cattolica. All ' atto della motivazione teologica si pre­ suppone oggi ovviamente la necessità di distinguere, obiettivamente e me­ todologicamente, tre diversi ambiti di problematiche, e di trattarli separa­ tamente l'uno dall'altro: l'interpretazione e la valutazione dogmatica della dottrina del primato secondo le espressioni magisteriali e teologiche, lo sviluppo della realtà del primato nella storia della chiesa, con tutti i suoi presupposti, i suoi motivi portanti e le sue costellazioni storiche, e infine

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la testimonianza globale del NT su un 'servizio di Pietro' . li passaggio da un ambito all'altro di problematiche è possibile soltanto con la massima prudenza ed una precisa riflessione critica sui singoli passi. Oggi nella teo­ logia cattolica si riconosce, più che in altri tempi, «il pericolo di interpre­ tare notizie e fonti dei primi secoli del cristianesimo precipitosamente nel senso di un'epoca successiva, non cogliendo quindi l'intenzione originaria delle loro affermazioni» (Stockmeier, in Denzler et al. 1970, 6 1 ) . Certa­ mente, non si può più parlare di uno sviluppo lineare della dottrina del primato, poiché il periodo del cristianesimo primitivo non permette di in­ dividuare alcuna linea costante e unitaria che riguardi il primato di Pietro. Le fonti invece si ribellano al semplice trasferimento dell' autocompren­ sione di tempi successivi ad epoche anteriori. Sorprendentemente i tentativi di soluzione della problematica riguar­ dante la legittimazione del primato emergono all'interno del dialogo ecu­ menico. Qui, in ogni caso, risultano individuabili nel modo più chiaro i punti di partenza per una nuova struttura teologica di significato. Dai dia­ loghi condotti negli USA fra teologi cattolico-romani e luterani, risulta chiaramente «che l'attuale comprensione del NT e la nostra conoscenza dei processi operanti nella storia della chiesa rendono possibile un nuovo atteggiamento nei confronti della struttura e dell'attività del papato. C'è un crescente consenso sul fatto che la centralizzazione della funzione pe­ trina in un 'unica persona o in un unico ufficio è il risultato di un lungo processo di sviluppo. In quanto specchio delle diverse esigenze dei secoli e delle realtà complesse di una chiesa sparsa nel mondo intero, l'ufficio del papa può essere inteso come una risposta alla guida dello Spirito nella co­ munità cristiana, nonché come una istituzione che nelle sue dimensioni umane è caratterizzata da debolezze e persino da infedeltà» (Stimi­ mannNischer 1975 , 104s.). Mentre, da un lato, incomincia a risultare con chiarezza sempre maggiore «che la questione del primato pontificio non può essere trattata adeguatamente nel senso di passi biblici probanti o co­ me una questione di diritto canonico, ma dev'essere vista alla luce di mol­ ti fattori - biblici, sociali, politici, teologici - che hanno contribuito allo sviluppo della teologia, della struttura e della funzione del papato moder­ no» (ibid. , 101), dall'altro si incomincia a capire che, nel rapportare tra lo­ ro il metodo storico e il metodo dogmatico, occorre procedere in modo diverso, e che quindi c'è il bisogno di un nuovo rapporto tra dogma e sto­ ria, in cui la storia non è chiamata semplicemente a fondare il dogma e , d'altra parte, al dogma non è lecito semplicemente fare violenza ai fatti storici. Tutto questo comunica una maggiore libertà nel trattare i testi re­ lativi del NT. La problernatica originaria è mutata. Ora ci si chiede in qua­ le misura «l'uso successivo delle immagini di Pietro in riferimento al pa-

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pato coincida con l'orientazione e il fine a cui mira il NT» (Brown et al. 1976, 158). A questo proposito risulta, in particolare, che la tradizione dei diversi detti su Pietro nella Scrittura ha obbedito già allora ad un interes­ se ecclesiale. In verità non è affatto possibile dire che c'è stato un ufficio petrino nel senso specifico del papato romano. Ma anche se l'ufficio che si richiama a Pietro non è semplicemente identico all'ufficio effettivo di Pietro, esso si pone tuttavia nella sua tradizione. I nuovi studi ecumenici e i risultati del dialogo pongono in chiaro risal­ to le 'linee di sviluppo'. Così l'indagine ecumenica Der Petrus der Bibel [Pietro nel NTI fa la seguente osservazione, degna di nota: «Ma - ed è que­ sto il motivo per cui ci siamo occupati soprattutto di Pietro - nella storia cristiana dopo il tempo del NT, specialmente in Occidente, la linea di svi­ luppo di Pietro ha alla fine superato quella degli altri apostoli [ . . . ] . Pos­ siamo vedere per lo meno inizi di questo sviluppo già nella seconda lettera di Pietro, dove l'immagine di Pietro è evocata per rimproverare coloro che si richiamano a Paolo. L'indagine successiva sulla linea di sviluppo petrina e sui fattori che l'hanno influenzata è peraltro compito di uno studio pe­ trino [ . . . ]». È sorprendente la conclusione che se ne trae: > (Ep 90,38). Idee analoghe si ritrovano, oltre che in Basilio Magno e in Giovanni Crisostomo, anche in Ambrogio di Milano. Staccandosi dall a giustificazione della proprietà pri­ vata che Cicerone dà nel De o//iciis , Ambrogio, nel suo scritto De officii's ministrorum, che dipende dall'autore pagano, sostiene che la comunione dei beni è l'ordinamento voluto da Dio, mentre la proprietà privata offen­ de la volontà divina (De ol/. min. I, 130-132; Wacht 1982, 5 1 ) . D'altronde, per Ambrogio, come anche per gli altri Padri - ad eccezione forse di Cri-

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sostomo (Famer 1 947 , 79s.) - non ne consegue l'invito al capovolgimento violento della situazione: poiché l'attuale situazione economica e sociale si basa sul peccato, l'uomo che è al di fuori della chiesa non può in alcun mo­ do superarla, mentre all'interno della chiesa ogni proprietà dev'essere uti­ lizzata a vantaggio del prossimo (Wacht 1 982, 58). n pensiero stoico-patristico riemerge nelle prediche di Francesco d'As­ sisi. La proprietà - così predicava Francesco secondo un racconto di Tom­ maso da Spoleto - conduce alla discordia civile; odio e contesa sono in­ scindibilmente connessi con la rivendicazione di proprietà ( TRE IV, 94s.) . 5. Tommaso d'Aquino nella S. th. riprende tra l'altro un patrimonio di pensiero che si ritrova in Aristotele e Cicerone: in II-II q. 66 a. 2 , Tom­ maso si chiede: «È lecito possedere una cosa come proprietà?». Nella sua risposta distingue «tra la giustificazione all'acquisto e all'amministrazione, da un lato, e il diritto all'uso delle cose, dall'altro» (Kerber 198 1 , 1 06). n diritto all'uso delle cose si basa sulla dipendenza dell'uomo dai beni e sul fatto che essi sono adeguati all'uso umano. Con ciò però, secondo Tom­ maso, non si è ancora detto nulla sulla distribuzione dei beni a determi­ nate persone. L'ordinamento della proprietà privata del suo tempo è giu­ stificato da Tommaso, che si rifà ad Aristotele, con «motivi relativamente pragmatici» (ibid. ) : «n singolo presta maggiore attenzione a ciò che ap­ partiene soltanto a lui [ . . . ] . Inoltre, in un ordinamento che prevede la pro­ prietà privata si regolerebbero meglio le competenze nell'acquisizione e nell'amministrazione delle cose. Infine la comunione dei beni condurreb­ be a inquietudini e a contese» (ibid. ) . Sulla base dell'argomentazione to­ mista - recitata o can­ tata anche in greco: