I Catari. Dai roghi di Colonia all'eccidio di Montségur

Table of contents :
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PAOLO LOPANE

I CATARI DAI ROGHI DI COLONIA ALLECCIDIO DI MONTSÉGUR

© Salento Books Via Duca degli Abruzzi, l 5

73048 Nardò (LE) Fax + 39 178 277 6708 [email protected] www.besaeditrice.it

INDICE

INTRODUZIONE di Leo Lestingi

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PREMESSA

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PARTE I: L' ERESIA

Capitolo l- «Catari o Paterini» Capitolo li- Dal «Secolo oscuro» alla Patarìa Capitolo li/- I «profeti dell'Apocalisse» Capitolo IV- Il Capitolo VII- Fuochi a Occidente Capitolo VIli- La dei Balcani Capitolo IX- r; Capitolo X- All'ombra del Rodope Capitolo Xl- Il Paese d'oc Capitolo XII- I Capitolo XIII-

PARTE II:

LA

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REAZIONE

Capitolo 1- lingua fran­ cese le «opere de' Viniziani e chi elli forono», scrisse che nella «nobile Vinegia non osano dimorare Patarini, né Catari, né nullo usuriere, né micidiale . >/' Non così, come si è visto, nella formulazione del Concilio Lareranense III, e lo stesso Raniero Sacconi, inquisitore e autore, nel 1 250, di una Summa de Catharis et Pauperibus de Lugdu­ no, scriverà che venivano chiamati «Catari o Paterini» gli irriducibili asceti «manichei» ch'egli conosceva bene perché, «già eresiarca e ora, per grazia di Dio, sacerdote dell'Ordine dei Predicatori», li aveva frequentati per diciassette anni. Non se ne sarebbero contati, a suo dire, più di quattromila «in tutto il mondo», fra uomini e donne; ma la cifra, avventurosamente estesa anche ai « Cathari» dell'Est, ossia i Bogomili, andrebbe riferita ai soli «perfetti», componente propriamente ascetica che, contrap­ posta ai semplici «credenti» e iniziata agli «arcana» recati in Terra . .

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6 Martino esaltava, qui, l'ortodossia dei propri concittadini, che, «perfetti nella fede di Gesù Cristo e a Santa Chiesa obbedienti, giammai non trapassarono i coman­ damenti di Santa Chiesa» (cfr. MARTINO DA CANAL, Les Estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini all275, a cura di A. Limentani, Olschki,

Firenze 1 973) . - Cfr. RANIERO SACCONI, Summa de Catharis et Pauperibus de Lugduno, ed. A. DONDAINE, Un traité néo-manichéen du Xl!Ie siècle. Le "Liber de duobus principi­ is': suivi d'un fragment de Rituel cathare, Istituto Storico Domenicano S. Sabina, Roma 1 939, p. 64. H «Dieta computatio [. } focta est inter eoS>>, sostenne il Domenicano, che censì in tutto sedici Chiese catare. Erano ovviamente Bogomili i «PatherenoS>> dell'Eile­ sponto contro i quali scriveva Ugo Eteriano, consigliere latino (originario di Pisa) dell'imperatore Manuele I di Bisanzio (t 1 1 80). . .

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dal Cristo - uno dei loro «massimi segreti», si legge nelle fonti, era «il passaggio» delle anime «di tunica in tunica», cioè la metempsi­ cosi -, costituiva l'equivalente occidentale dei « Theotokoi» dell' orbe bizantino, «madri di Dio» che, concepito interiormente il Verbo, lo «partorivano» insegnando il senso riposto delle Scritture.� Grazie, infatti, all'iniziatico rito d'imposizione delle mani deno­ minato «consolamento» - «battesimo di Cristo» o «battesimo del­ lo Spirito» -, l'anima si sarebbe ricongiunta alla sua componente transcosmica (quindi immanifesta) rimasta mutila «in cielo», che, «spirito santo individuale», l'avrebbe fecondata nel solo 'sacramen­ to' matrimoniale riconosciuto dai «perfetti»: le «nozze spirituali». 1 0 Non altro fu l'insegnamento racchiuso nel Liber Stelle, opera andata purtroppo perduta in cui si diceva che lo «spirito>>, celeste compa­ gno, scende alla ricerca della propria «anima>>, la trova e le parla: «E sùbito, non appena l'anima riconosce lo spirito insieme al quale fu in cielo, si ricorda di aver peccato in cielo e incomincia a fare peni­ tenza del peccato commesso>>. 1 1 Attraverso l'imposizione delle mani, infatti, ogni anima avrebbe accolto «il proprio spirito particolare>> - «quello che aveva avuto in cielo>> -, affinché, scrisse il domenicano Moneta da Cremona (t dopo il 1 238), «guidi la sua condotta e la custodisca>>. «Tali spi­ riti>>, concluse il Moneta, «li chiamano santi, cioè stabili, perché sono rimasti stabili e non furono ingannati né trascinati via dal diavolo>>. 1 2 '' Cfr. EUTIMIO ZIGABENO, Panoplia Dogmatica (IIavo7rÀ/a Lloyf!-aTtX�), in J.P. MIGNE, Patrologia Graeca [da qui in avanti: PG.], cit., C:XXX, col. 1 3 1 7. Florile­ gio patristico da opporre alle eresie serpeggianti nell'Impero, la Panoplia Dogma­ tica venne composta, all'incirca, nel 1 1 1 5. 10 Questa la definizione che della gnosi dava il teologo cristiano Clemente d'Ales­ sandria (t c. 2 1 5) : «La conoscenza di ciò che siamo divenuti, del luogo da cui veniamo e di quello in cui siamo caduti, della mèta verso la quale ci affrettiamo e di ciò da cui siamo riscattati, della natura della nostra nascita e di quella della nostra rinascita>> (Excerpta ex Theodoto, 78, 2). In àmbito propriamente gnostico, si trattava della conoscenza immediata nata dalla fusione con il proprio > : «ciò che solo conta è il Vangelo di Giovanni». Di fatto, entrare nella Chiesa catara equivaleva, per i suoi fautori, a «darsi a Dio e al Vangelo», e non sorprende che uno degli ultimi e più grandi eresiarchi occitani, quel Pietro Autier che, notaio ad Ax-les-Thermes (Ariège), si era convertito al catarismo intorno al 1 295, si fosse avvalso di un testo scritturale «in lingua romanza» che, preziosamente miniato in azzurro e in vermiglio, conteneva solo i Vangeli e le Lettere di Paolo. Quanto al Vangelo di Giovanni, che per l'enfasi posta sulla «co­ noscenza» è stato definito «il Vangelo spirituale», era privilegiato al punto che i Catari, come i loro omologhi d'Oriente, ne recitavano il Prologo durante il cerimoniale d'iniziazione. La sua peculiare cristologia, eco dei misteriosofìci insegnamenti sulla natura emana­ tistica e solare del Logos, presentava un'immagine cosmica del Cri­ sto che, incentrata sulla preesistenza della Parola e sulla dicotomia fra Luce e Tenebra, risultava affatto compatibile con la loro Engel­ christologie, concezione cristologica assai diffusa prima del sinodo generale di Nicea (325) che, riaffìorata sotto i cieli della cristianità medievale, si fondava sull'idea che il Cristo, inviato in Terra da Dio, fosse un angelo superiore. Anche per questo i Catari furono bollati come «Ariani» o «Ma­ nichaeù, termini evocanti dottrine tramontate in Occidente ormai da secoli ma che, riaffiorate in altra forma nel contesto storico di un altro Romano Impero, quello della Kaiserzeit, si prestavano a essere confutate con le stesse argomentazioni addotte dalla patri­ stica eresiologica. Leresiarca alessandrino Ario (t 336) aveva infatti sostenuto che il Figlio non è assimilabile al Padre, costituendo solo la prima e la più eccellente fra le sue creature: più o meno quanto affermavano i Bogomili e i Catari, e, come gli Gnostici, quelle scuo2"

�' « Et sic super capita eorum libro posito [Liber Evangeliorum}, Orationem Domi­ nicam septies dicunt; et deinde beatijoannis Evangelium, ab "In principio" incipien­ tes, usque ad hunc locum Evangelii quod dicit "Gratia et veritas perjesum Christum focta est Uoan. I)" omnibus audientibus, dicit. Et sicfinitur illud "consolamentum" » (ERMENEGAUDO, Opusculum contra haereticos, in MIGNE, P. L. , CCIV, col. 1 262) . • • •

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le manichee che vedevano nel Cristo - «Gesù il Luminoso» - solo la principale (o una delle principali) emanazioni divine. Naturalmente, convinti che la Terra fosse «òbra del Diable>> e che il Cristo non avesse potuto incarnarsi nella comune materia, i «Ma­ nichei» del secolo decimosecondo rifiutavano, coerentemente, un atto teurgico che, presumendo determinare la discesa della Divi­ nità nell'ostia in una più o meno simbolica teofagia, riproponeva gli schemi concettuali (e, quindi, magico-rituali) dell' ordalìa. La benedictio et fractio panis costituiva, per i Catari, solo il viatico di un'àgape fraterna che, celebrata nel nome «del Signore nostro Gesù Cristo», era allegorica condivisione del pane celeste e, quindi, della Parola irradiante del Logos. *

Se, dunque, non sorgono dubbi a fronte dell'appartenenza a gruppi strutturati con propri riti e proprie dottrine religiose - era sicuramente catara quella Mirabella di Faenza che, processata dopo il 1 259, «s'incontrò più volte con i Patarini, fece loro la riverenza [ . . ] e accettò il loro pane benedetto» 2r' -, permangono i punti di domanda per i tanti pretesi «Patarini» che, in piena espansione dei liberi Comuni, furono perseguiti come tali per il rifiuto di pagare le decime o di riconoscere, sotto qualsiasi altra forma, le secolari prerogative ecclesiali. La condanna, infatti, della corruzione della Chiesa si rivelava spesso inscindibile dalla volontà di affrancamento dalla tutela po­ litica di Roma, e, in un'Italia lacerata dalle tensioni fra i sostenitori del Papato e quelli dell'Impero - l'Italia dell'adagio guelfo «ghibel­ lino patarino» -, non erano di ordine sempre (o solo) spirituale le preoccupazioni che inducevano i pontefici a tacciare di connivenza con la «pravità» patarina quei governi cittadini che, gelosi della pro­ pria autonomia, si dimostravano restii a recepire (o ad applicare) la normativa antiereticale. È il caso, ad esempio, della bolla con .

!C> Risultò, infatti, che era «una credente infamata d'eresia» e che aveva pronun­ ziato «parole eretiche contro il corpo di Cristo» (« erat crederts et infomata de . . .

heresi et verba heretica contra corpus Christi dixisse>>). 31

la quale il 2 ottobre 1 1 85, rivolgendosi al vescovo e al clero tutto di Rimini, papa Lucio III minacciò l'interdetto contro una città colpevole di avere accolto fra le sue mura capi «patarini» preceden­ temente espulsi e di avere alla sua testa un podestà che, all'inizio del proprio mandato, aveva omesso di giurare l'osservanza degli statuti antiereticali. Troppo si insisteva, qui, sul rifiuto di pagare le decime, e, di fatto, in una cristianità in cui le lotte politiche s'intrecciavano inestricabilmente a quelle religiose e, come accadeva in Emilia nel 1 299, l'inquisitore Guido da Vicenza poteva processare un uomo (tale Anolino) colpevole di aver disturbato una sua predica scam­ biando impressioni con gli astanti e aver poi imprecato contro il converso domenicano che l'aveva redarguito - il sermone era diretto contro gli eretici e i loro sostenitori, ma anche contro i Colonna e quanti ostacolassero o molestassero l' officio dell'inquisizione -, ba­ sterà poco per vedersi accusare di oltraggio all'autorità inquisitoriale (e, quindi, al «Vicario di Cristo» e, quindi, a Cristo) e collocare fra i diabolici untori di una «peste» ereticale che, giunta dall'Est o direttamente dal Tartaro, imponeva misure di profilassi sociale pri­ ma che spirituale: di qui la spettacolarizzazione dell'esecuzione della pena; di qui l'esumazione e il rogo dei cadaveri dei contaminati: pedagogia del terrore, damnatio memoriae, vivido quanto macabro monito alle popolazioni e ai parenti tutti (che venivano spesso a perdere i propri diritti ereditari) sulla dannazione in cui incorreva l'eretico e la conseguenziale espulsione dalla terra consacrata. Fu, appunto, Guido da Vicenza a far esumare e ardere i resti dell'«eretico» ferrarese Armanno Pungilupo (t 1 269), il quale, pre­ teso autore di miracoli (da morto) e caustico fustigatore del malco­ stume e delle «superstizioni» del clero, si scoprì essere appartenuto alla comunità catara di Bagnolo San Vito. «Come sono sciocchi», ripeteva Armanno, «questi preti che credono di poter chiudere Dio nella pisside!» Ma non furono le sue ingenue contestazioni in punto di dogmatica a preoccupare i suoi implacabili persecutori: piutto­ sto, l'attacco a un'istituzione ecclesiale egemone che, risolvendosi implicitamente in un rifiuto di sistema, si rivelava non meno ever­ sivo per la conservazione della stratificata società feudale delle scelte autonomistiche maturate in seno a gruppi sociali che nella «santa 32

cristianità>> - «casa di Dio)) che per il famigerato vescovo Asceli­ no (t 103 1 ) non doveva venir disgiunta nelle tre imprescindibili componenti degli oratores, dei bellatores e dei laboratores («chi prega, chi combatte, chi lavora))) - erano portatori, per dirla con Jacques Le Goff, di una «mentalità urbana>> che, «perlomeno in partenza, è egualitaria, sorta da solidarietà orizzontali che uniscono dei pari in­ torno a un giuramento)) e veniva di fatto a giustapporsi «alla menta­ lità feudale, riflessa nel sentimento di una gerarchia, e che si esprime con solidarietà verticali, rafforzate dal giuramento di fedeltà degli inferiori ai superiori))Y «Se non vi fosse chi ara e semina>>, aveva scritto l'autore del Ser­ mo ad Milites Templi, «come farebbero i contemplanti?))2H Correva all'incirca il 1 1 26: il Carmen ad Robertum regem, composto dall'inef­ fabile Ascelino, aveva fatto scuola. *

Era stata, quindi, la diffusione di un pensiero ereticale che met­ teva in discussione il monopolio teologico (e ideologico) di Roma e scardinava (quando non ribaltava) le gerarchie sociali ad allarmare la cattedra di Pietro: un ex becchino, Marco di Concorezzo, diven­ terà il primo vescovo dei Catari d'Italia, e non poche saranno le nobildonne che, con i loro sodali dei ceti subalterni, lavoreranno al telaio nella «sancta Gleisa)) dell'Occitania albigese. Nobili al lavo­ ro, dunque; «dominae>> e «matronae>> impegnate scandalosamente a tessere la tela eversiva che tra il XII e il XIII secolo - l'epoca aurea del catarismo - intreccerà il suo ordito a un'altra trama ereticale, quella, non meno rivoluzionaria, dei proseliti del mercante lionese Valdo (t 1 2 1 7) e delle «donnette)) che li affiancavano, «mulierculae>> 27

J. LE GOFF, La civiltà dell'Occidente medievale, trad. it., Einaudi, Torino 1 98 1 , p. 105. 2 H Composto da un «Hugo peccator>> che potrebbe essere lo stesso Ugo di Payns (il primo Gran Maestro dell'Ordine del Tempio), il Sermo era diretto a convincere i «Poveri Cavalieri di Cristo>>, monaci e combattenti allo stesso tempo, della legitti­ mità della loro scelta (cfr. J. LECLERCQ, Un document sur le débuts des Templiers, in «Revue d'Histoire Ecclésiastique>>, 52 ( 1 957). 33

che «si opponevano ai precetti dell'Apostolo>> osando predicare «in conventu fidelium)). Pur severamente critico nei confronti di una christianitas la cui «vita christiana)) si esauriva nella disciplina fidei «imposta da Dio)) e nell'aderenza formale alla pervasiva norma ecclesiastica, Valdo non aveva, all'inizio, alcuna intenzione di separarsi da Roma; né Roma si mostrò preoccupata quando, durante il Concilio Lateranense III, quest'entusiasta predicatore che non conosceva il latino volle esporre il suo «proposito di vita)) provocando il biasimo e l'ironia di alcuni dei presuli presenti. Quando, però, il vescovo di Lione gli rammen­ tò che, essendo egli laico, non poteva continuare la sua appassionata predicazione, Valdo iniziò a professare l'uguaglianza dei fedeli nella Chiesa e il sacerdozio universale basato sul merito: «Andate, amma­ estrate tutte le nazioni)), proclamò citando il Vangelo di Matteo; e, sollecitando i credenti ad ascoltare i moniti della coscienza piuttosto che i Diktat delle curie, ricordò che «bisogna obbedire a Dio piutto­ sto che agli uomini)) (At, 5, 29) . Certo, gli stessi Valdesi prenderanno le distanze dagli irriducibili dualisti che, come Pietro Garcias, sostenevano che Dio è «somma­ mente buono, ma, nel mondo, nulla è buono, per cui Dio non ha fatto nulla di ciò che esiste nel mondo)); ma quel che, invero, li ac­ comunava era. I' anelito alla «vita vere apostolica)), la condanna di una Chiesa sempre meno credibile quale depositaria del messaggio evan­ gelico e sempre più inadeguata ad appagare il bisogno di spiritualità delle masse che, impegnata a consolidarsi in senso unitario e monar­ chico, aveva negletto i propri compiti pastorali (la cura animarum) e asservito alla teocrazia pontificia lo stesso ascetismo monastico. Lesaltazione della «povertà redentrice)) veniva, infatti, accettata (o beatificata) ove non fossero messi in discussione la leadership di Roma e i rigidi schemi di una società feudale generatrice di povertà terribilmente reale, tutt'altro che evangelicamente ideale; sicché l'at2'1

2" Cfr. ALANO m LILLA, De Fide Cattolica, cit., in MIGNE, P L. , CCX, col. 379: «Si sapientibus et sanctis periculosum est praedicare, periculosissimus est idiotis, qui ne­ sciunt quodpraedicandum, quibus praedicandum, quomodo praedicandum, quando praedicandum, ubi praedicandum. Ipsi etiam obviant Apostolo, in hoc quod mulier­ cufas secum ducunt, et eas in conventu fidelium praedicarefaciunt. . . >>«

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tacco all'opulenza del clero e la condanna del mercimonio delle p re­ bende ecclesiali, tollerati o cautamente avallati se mossi all'interno delle strutture del sistema, si convertivano in un attacco all'ordine sociale quando i severi asceti catari, portatori di un ethos del lavoro che vietava il parassitismo ed esaltava la manualità, richiamavano il monito paolino: «Chi non vuole lavorare, non mangi» (2 Ts, 3, l O) e, per bocca di uomini come il «perfetto» Filippo di Talayrac, pro­ clamavano che «< preti conoscono la via di Dio ma non la vogliono dire e mostrare al popolo»: «Dio ha prescritto loro di vivere del lavoro delle proprie mani)); «gli ha vietato di vivere del lavoro del popolo, come fanno ora)).·10

·10

Era l'inizio del XIV secolo. Filippo predicava a dei contadini (cfr. Le Registre

d1nquisition dejacques Fournier, cit., III, pp. 95-96). 35

Capitolo II DAL «SECOLO OSCURO» ALLA PATARÌA

. Ma il successore di Gregorio VI, quel Clemente II (il sassone Suidgero) che Enrico fece intronizzare nel Natale del l 046, nell'ottobre del 1 047 giaceva già riverso nella cattedrale di Bamberga. Si parlò di malaria, ma i suoi resti, riesumati il 3 giugno 1 942, riveleranno tracce di avvelenamento da piombo. *

È in questo clima che, verso il l 057, sorse a Milano il movimen­ to della Patarìa. Propugnatore della riforma cluniacense, esso prese nome dal luogo in cui solevano riunirsi i suoi seguaci: le «patarìe>> (dal lombardo patèe, «Straccio>>), cioè depositi di cenci e robivecchi. Per il teologo Bonizone da Sutri (t c. l 095), si trattava di «persone di basso rango>> che, schernite per la loro indigenza, venivano deno­ minate «Paterini, ossia straccioni>>;.l 2 ma è un fatto che questo rivo-'2

(BONIZONE DA SUTRI, Liber ad amicum sive de persecutione ecclesiae, in MIGNE, P. L. , CL, col. 825). Diverse furono le anime della Riforma, e il vescovo di Sutri fu forse il massimo teorico dell'ideale gregoriano della Mifitia Christi.

luzionario movimento, fondato da un carismatico diacono di nome Arialdo (t 1 066) , contò anche esponenti del minuto clero e agiati borghesi come Nazario, notaio e suo importante finanziatore. Foriero della temperie moralizzatrice del pontificato di Gregorio VII ( l 073- 1 085), il movimento patarino investì in breve tempo le città di Cremona, Piacenza e Firenze, e, rigorista e antifeudale, scatenò a Milano una sorta di guerra civile che vide lo stesso Arialdo, nel giu­ gno del l 066, cadere nelle mani dei partigiani di Guido da Velate (t l 07 1 ) , il simoniaco arcivescovo della città lombarda. Appoggiati, infatti, da riformatori come Pier Damiani, Anselmo da Baggio e Ildebrando da Soana - i futuri papi Alessandro II e Gregorio VII -, i capi di questo tumultuoso movimento, che mirava a riformare la Chiesa ambrosiana ma che finì per indebolire l'alta nobiltà milane­ se e favorire l'avvento del libero Comune, furono implacabilmente combattuti dall'irriducibile metropolita, che, insediato a Milano da Enrico III e restio ad allinearsi con Roma, fu scomunicato da papa Alessandro II nella Pentecoste del l 066. Lespulsione dalla città di Guido e l'assassinio di Arialdo non misero, però, fine ai disordini e alle violenze: il seggio arcivescovile milanese sarà, infatti, conteso fra il partito imperiale, che perorò l'elezione del suddiacono Goffredo di Castiglione (un nobile mi­ lanese), e il partito patarino, che, appoggiato dalla Santa Sede, gli oppose un cardinale del titolo di San Marco, il canonista Attone (t c. 1 083). Gregorio VII, accordatosi con Enrico IV, ottenne il riconoscimento del prelato quale legittimo arcivescovo di Milano: ma fu proprio il risoluto promotore della Riforma a imbrigliare le spinte ideali della Patarìa. A fronte, infatti, del 'boicottaggio liturgico' - diserzione dai riti officiati dai sacerdoti indegni che, in un'epoca in cui si era tornati a discutere della validità del sacramento ex opere operato (valido, cioè, per l'ordinazione sacerdotale ricevuta dal celebrante a prescindere dalla sua dignità morale) avrebbe potuto rappresentare un forte e salutare scossone a una Chiesa intorpidita dalla corruzione -, Gre­ gorio VII, in linea con i predecessori Alessandro II ( 1 06 1 - 1 073) e Niccolò II ( 1 058- 1 06 1 ), si era fermamente opposto alla simo41

nia e al matrimonio dei chierici, ma, paventando derive donatiste (vd. infra, cap. IV) , aveva tentato di disinnescare la carica eversiva della Patarìa convogliandone l'impetuosa corrente negli argini della più rigida ortodossia: argini che, sorretti dai vetusti pilastri del ra­ zionalismo classico, riuscirono, però, a contenere soltanto in parte un entusiasmo religioso popolare che, sfociando in forme di aperta protesta sociale, rischiava di compromettere, con il monopolio teo­ logico di Roma, l'ordine stesso della società feudale. Appena assur­ to, infatti, alla cattedra di Pietro, Gregorio volle consegnare nelle mani di Erlembando Cotta (t 1 075), il successore di Arialdo, una bandiera con l'effigie dei santi Pietro e Paolo: un gesto, questo, che seppure costituiva un riconoscimento ufficiale da parte della Chie­ sa, implicava anche la sovrapposizione dell'emblema papale a quello sotto il quale s'era battuto Arialdo: la Croce, simbolo di coerenza e impegno spinti sino al martirio. *

Nipote dell'abate di Santa Maria sull'Aventino - dove fu educato e venne avviata la sua folgorante carriera ecclesiastica -, Gregorio, risoluto a combattere il degrado della Chiesa quanto a riaffermarne il prestigio e l'autorevolezza, rivendicò l'uso di altre e più concrete insegne, quelle imperiali, facendo implicito riferimento ai passi del « Constitutum Constantini» (la Donazione di Costantino) in cui si favoleggia della cessione al Papa di attributi sovrani quali il phry­ gium (il bianco copricapo a punta), il forum (la fascia imperiale) e la purpurtunica (il manto di porpora) . Stando, infatti, a questo clamoroso falso elaborato dalla can­ celleria pontificia - falso dimostrato tale già da Lorenzo Valla (t 1 457) e spuntato dal nulla quando, nell'VIII secolo, fu necessario convincere Carlo Magno a confermare e ampliare i contenuti della «promissio Carisiacawl.l , Costantino il Grande aveva consegnato a -

.l.'

Il padre di Carlo Magno, quel Pipino il Breve ch'era stato maestro di palazzo dell'ultimo sovrano merovingio, Chilperico III, era divenuto re dei Franchi con l'appoggio e la benedizione di papa Zaccaria (74 1-752). A Querzy-sur-Oise, uno o due anni dopo l'elezione di papa Stefano II (752-757), si vide presentare il con42

papa Silvestro I le insegne imperiali riconoscendolo come «Vicario di Cristo». Da quel momento, i cesari avrebbero esercitato il loro imperium per volontà della Chiesa di Roma, alla quale, insieme ai diritti sul palazzo del Laterano, sarebbe stato riconosciuto il primato su tutte le Chiese dell' orbe. Sono note le conseguenze di questo falso documentale: inserito nelle Decretali dello Pseudo Isidoro e divenuto, quindi, testo ca­ nonistico a tutti gli effetti, fu invocato per giustificare le pretese di Roma sul «Patrimonium Sancti Petri» (i territorì dell'Italia centrale) e il diritto ecclesiale di concedere e revocare il mandato dei sovra­ ni. Da esso trasse, dunque, origine il Dictatus papae (riportato nei regesti gregoriani dopo il sinodo quaresimale del 1 075) e, con esso, l'idea che solo i successori di Silvestro, «continuatori della maestà imperiale», potessero indossare il phrygium nelle processioni solen­ ni. Estremizzando, infatti, le concezioni gelasiane,-14 Gregorio aveva esposto la sua visione del pontificato in ventisette proposizioni che, to con la richiesta dei territori de iure bizantini delle due Pentapoli, di Comacchio e di Ravenna, nelle mani dei Longobardi di Astolfo. Unto solennemente il 28 luglio 754 e insignito del titolo di > già da sant'Ireneo (t c. 202), vescovo di Lione. 43

al fine di liberare la Chiesa dal dominio laico e di porre un freno alle ingerenze imperiali, rivendicavano il primato romano in materia di fede e la supremazia del papa su tutte le autorità spirituali e tempo­ rali, con il diritto di investirle e di deporle. «Il papa è l'unica persona a cui tutti i prìncipi baciano i piedi», si legge nella IX proposizio­ ne, giacché ((solo il pontefice romano», afferma la Il, (, si legge nella Sum­ ma Parisiensis, e, nella coeva Summa Coloniensis ( 1 1 69) , il vescovo di Roma sarà collocato «al di sopra dell'imperatore», essendo, «in effetti, il vero imperatore» .

" Naturalmente, Gregorio fu molto attento alla purezza della dottrina eccle­ siale. Fu lui a ottenere che Berengario di Tours (t c. 1 088), teologo più volte condannato dalla Chiesa per la sua posizione critica nei confronti dell'Eucarestia, sottoscrivesse la professione di fede eucaristica in cui dichiarava che, «dopo la consacrazione, il pane diventa il vero Corpo di Cristo>>. 44

*

Convinto, dunque, della necessità di entrambe le Spade per il buon ordine di una cristianità che, pur poco cristiana, doveva ap­ paririgli la sola possibile alternativa all'anarchia e alla deriva delle coscienze, Gregorio pretese che «il braccio armato» del potere laico si piegasse a longa manus del vicariato di Cristo, in coerenza con l'inflessibile ragione normativa che lo indusse a ridefinire il concet­ to di «gladium Petri» (non più astratto simbolo della battaglia del credente contro i mali dell'anima, bensì concreta spada al servizio della Fede) e a segnare in tal modo il passaggio dalla concezione agostiniana della «guerra giusta» alla mistica della «guerra santa»: un percorso ideologico che, all'insegna del «pro dogmate armis decerta­ re» («combattere in armi per la verità»), condurrà alla legittimazione delle Crociate quale argine all'avanzata dell'Islam ma, anche, come «guerra romana». «Roma», dirà il canonista Enrico Bartolomei (il Cardinale Ostiense, t 1 27 1 ) , «è la madre e la testa della nostra fede»; sicché le Crociate, dirette contro coloro che, estranei alla patria celeste per­ ché «infedeli», considerava i nuovi «barbari», imponevano loro il ri­ conoscimento «della sovranità della Chiesa o dell'Impero Romano». Naturalmente, «benché la pubblica opinione consideri con occhio più benevolo la crociata d'oltremare», «chi giudichi secondo ragione e con sano intelletto crederà più giusta e conforme a ragione la cro­ ciata interna alla cristianità» (la «crux cismarina»).-16 «Secondo ragione», dunque; cioè secondo un potere di ragione che, in un'epoca in cui l'adesione alla Chiesa si risolveva nell'accetta­ zione della coerente (giacché unilaterale e, pertanto, logica) formula del dogma e, quindi, della sua ineludibile ragione normativa, non poteva non demonizzare, con l'errore teologico (per cui «eretico», .l I l celebre giurista d i Susa, definito •pater canonum» e «steLla ac Lumen Lucidis­ simum decretorum>>, fu tra i massimi assertori della teocrazia pontificia: la potestà

terrena, «derivata da Dio attraverso il Papa», era, a suo dire, subalterna rispetto a quella del Vicario di Cristo, la cui •pienissima potestaS>>, trasmessa direttamen­ te da Dio, rendeva quasi eretica l'idea che il «corpo unico» della Chiesa e del «genere umano» potesse essere governato da «due teste» («duo capita»): «quasi

momtrum». 45

nella prospettiva della patristica, era colui che male intendesse la Scrittura), qualsiasi forma di dissidenza nei confronti dell'apparato ecclesiale e, quindi, del Sistema stesso. C intreccio e il fatale compromesso fra politica e religione, in una società non secolarizzata (perciò totale e totalitaria) in cui la vita culturale era in appalto all'istituzione ecclesiale egemone, faceva, infatti, sì che il rifiuto del dogma, nella fredda e inesorabile logi­ ca dell'ordine centralizzato, si traducesse in un vulnus alla «società cristiana» e, quindi, alla «Chiesa di Cristo» e, quindi, a Cristo. Non altra la ragione ultima dell'attacco a degli eretici che, come già i Pelagiani avversati da sant'Agostino (t 430), svilivano un sacramen­ to battesimale che per Roma serviva a togliere il «peccato originale» ma che di fatto insinuava la subdola e avvilente idea della «colpa» e segnava l'inizio della scansione liturgico-sacramentale dell'esistenza che attribuirà alla Chiesa, dispensatrice della Grazia e monopolista della Salvezza, un controllo assoluto e capillare sulla vita e il pensie­ ro del suo gregge. Guglielmo il Bretone, soddisfatto per come Filippo Augusto (t 1 223) , sollecitato dalla Santa Sede, avesse annientato coloro che «il popolo» chiamava «Popelicani», osservò compiaciuto che il regno era stato mondato dall'eresia e che nessuno poteva più vivervi se non accettando i sacramenti e i dogmi della Chiesa. Cappellano del re, dipingerà con toni epici finanche la presa di Marmande (Lot-et­ Garonne) , dove, accompagnato da venti vescovi e forte di seicento cavalieri e di diecimila arcieri, il figlio di Filippo aveva fatto massa­ crare tutti i cinquemila abitanti, «compresi le donne e i bambini», in una spaventosa carneficina che l'autore della Canso de la Crozada descriverà in termini apocalittici: «I baroni, le dame, i bambini, gli uomini, le donne, spogliati e nudi, vengono passati a fil di spada. Le carni, il sangue, le cervella, i tronchi, le membra, i corpi aperti e squartati, i fegati, i cuori fatti a pezzi giacevano nelle piazze come fossero piovuti. La terra, il suolo, le sponde del fiume erano rosse per il sangue versato. Non rimane uomo né donna, né giovane o vecchio: nessuno è scampato, se non è riuscito a nascondersi. La città è distrutta, il fuoco la brucia)). Correva il 1 2 1 8: cominciava la crociata di re Luigi «il Leone)).

*

Ad ogni modo, Gregorio si battè con estrema decisione per estir­ pare il malcostume dilagante nella Chiesa, e, nella speranza di libe­ rarla dal giogo patrizio, nel tentativo di «salvare» un'Ecclesia germa­ nizzata e feudalizzata dalla secolare presenza dei vescovi-conti, avviò il lungo e tormentoso braccio di ferro con i cesari tedeschi che, noto come «lotta per le investiture», si protrarrà, con toni più o meno ac­ cesi a seconda della personalità dei pontefici, sino al Concordato di Worms (23 settembre 1 1 22), concluso fra l'imperatore Enrico V e papa Callisto II ( 1 1 1 9- 1 1 24). Il Sacro Romano Imperatore, rinun­ ciando al diritto di investire i vescovi >, il «cristianissimo» re di Francia «temeva», infatti, «che ne seguisse la rovina per la patria e la perdizione delle anime».-'9 De facto, la reazione scattò inesorabile solo dove la dissidenza assunse toni e forme che, potenziali fattori di destabilizzazione dell'edificio sociale e culturale, si rivelavano irriducibili a qualunque tentativo di collocazione nel quadro delle iniziative riformistiche di Roma; e fu, appunto, il tentativo di allargare la cerchia dei loro seguaci a essere fatale agli incauti chierici di Orléans, che, esponenti di una «Santa congregazione» alternativa alla Chiesa e persuasi del trionfo finale del proprio credo in «tutte le nazioni», furono traditi da un nobile di nome Arefasto, che, doppiogiochista, aveva avvisato il duca Riccardo II di Normandia, il quale, a sua volta, aveva infor­ mato dei fatti Roberto il Pio .

.\'!

Cfr. RODOLFO IL GLABRO, Historiarum sui temporis, cit., in BOUQUET, Ree. , X,

p. 35.

49

Capitolo III I «PROFETI DELL'APOCALISSE»

(DANTE, Inf, XXVIII, 55-57) . .

.

Laddove i dubbi e gli «errori» dottrinali avevano serpeggiato all'ombra delle scuole episcopali o, comunque, al chiuso di elitarie cerchie culturali, nulla aveva infiammato gli animi, né si era gridato al risveglio dell'«idra manichea». Era quanto accaduto, ad esempio, nell'Occidente carolingio: prima, dunque, che s'innescasse il moto di rivoluzione sociale che investi la cristianità latina all'indomani dell'anno Mille; prima che !'«eresia teologica» si facesse eresia ide­ ologica. Quando, infatti, il platonista Giovanni Scoto Eriugena (t c. 880) riesumò l' origenismo di Gregorio di Nissa insinuando dub­ bi sulla resurrezione della carne e sull'eternità della dannazione e dell'Inferno, i sospetti papali non avevano certo dato fuoco alle fa­ scine; e ciò malgrado le medesime concezioni, riprese da Amalrico di Bène (t c. 1206) e rifiorite nella temperie evangelistica del «Libero Spirito», avessero condotto il filosofo francese, che insegnava logica e teologia all'Università di Parigi, a un'accusa di eresia che, confer­ mata dallo stesso Innocenzo III, lo costrinse a un'umiliante abiura dei propri «errori». «Riproviamo e condanniamo la perversissima opinione dell'empio Amalrico», si legge fra i capitula del Concilio Lateranense IV ( 1 2 1 5); la sua mente, asserirono i padri conciliari, era stata «a tal punto accecata dal padre della menzogna», che la sua dottrina non tanto doveva «giudicarsi eretica, quanto insensata». 10 111

In MANSI, Concilia, XXII, col. 986. Gli insegnamenti amalriciani sull'imma­ nenza di un Dio d'amore che, nella sua misericordia, non avrebbe mai permesso che le proprie creature si perdessero definitivamente nella gehenna, erano stati distorti c semplificati in massime quantomcno dubbie c di siffatto tenore: «Dio 50

Non era più questione, ormai, di annose dispute speculative, di governabili (per quanto aspre) querelles: riformulate sotto i cieli ar­ rossati di una terra di Francia che con Roberto il Pio aveva acceso i primi roghi e con Filippo Augusto avrebbe scatenato l'immane incendio della Crozada, concezioni come quelle dell'Eriugena si tra­ ducevano in una letale insidia per una Chiesa che dell'immagine terrorifica del «Tartaro» aveva fatto uno strumento del suo arsenale ideologico e, ingombra ancora delle macerie della «riforma grego­ riana», attaccata da quanti identificavano nella Cittadella di Pietro l'antitesi stessa della «Città di Dio» - la «Babilonia» dell'Apocalisse ( 1 7, 1 -5) -, reprimeva ormai nel! eresia e con l'eresia qualunque mi­ naccia all'impenetrabile rete di solidarietà e complicità ideologiche con la quale il clero e i poteri laici soffocavano ogni accenno di sovvertimento. Il «perversissimum dogma» di Amalrico non poteva, quindi, sfug­ gire agli anatemi del Concilio Lateranense IV, che, diretto a riaffer­ mare il primato di Roma nella vita spirituale e politica dell'Occi­ dente, istituzionalizzò il procedimento d'ufficio contro gli «eretici», impose agli Ebrei il famigerato segno di riconoscimento4 1 e, po­ nendo fine alle discussioni eucaristiche e alle connesse speculazioni sui rapporti fra spirito e materia - dibattito che però si spense del tutto solo nel 1 263, grazie al provvidenziale «miracolo di Bolsena» -, sancì il dogma della transustanziazione del pane e del vino «in corpo e in sangue di Cristo»: un sacramento, questo, che nessuno avrebbe potuto officiare «se non il sacerdote regolarmente ordinato» e secondo «i poteri» della «Chiesa universale dei fedeli»: una Chiesa «fuori della quale», proclamava il capitolo I, «nessuno assolutamen. te s1 salva». IJ -)

è pietra nella pietra». 41

> (ibid. , col. 1 055). Gialla fu la rota imposta agli Ebrei, come le croci che, signa super vestem, • • •

recheranno gli eretici confessi e penitenti. 42

«•

• •

Extra quam nullus omnino salvatun> (ibid. , coli. 98 1 -982). 51

*

«Extra ecclesiam nulla salus», dunque; con una temptsttca nient'affatto casuale, visto che i Catari predicavano che la benedictio panis dell'Ultima Cena poco aveva a che fare con la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo e i seguaci di Amalrico, portando alle estreme conseguenze lo sfumato panteismo del maestro, sostenevano che, se Dio è in tutte le cose, è altresì presente nel pane e nel vino prima e dopo la rituale formula di con­ sacrazione. Non più, quindi, innocue tenzoni eucaristiche come quelle che videro contrapporsi i benedettini Pascasio Radberto (t 865) e Ratrammo di Corbie (t c. 868); né le prospettive demagizzanti di un Berengario di Tours (t c. 1 088), il teologo francese che, negando la «presenza reale» di Cristo nel Sacramento, aveva sostenuto che il pane e l'ostia, pur sacri, sono dei semplici «signm>: bensì posizioni scopertamente antinomistiche che, contestandone le prerogative so­ teriologiche, azzeravano il ruolo e il potere stesso del clero. Se, infatti, i Catari ritenevano che solo viatico della salvezza fos­ se il ricongiungimento dell'anima alla controparte angelica rimasta «stabile» nei cieli, gli «Amalriciani» inquisiti nella capitale francese (quattordici in tutto, fra ecclesiastici e piccoli intellettuali) sostene­ vano, con san Paolo, che «dov'è lo Spirito del Signore, lì è la libertà», e, persuasi che la gioachimita «età dello Spirito Santo» avesse già varcato la soglia, reputavano superflue le forme sacramentali della Chiesa e, con esse, il suo rigido normativismo di facciata. Gioacchino da Fiore (t 1202) , il «calavrese abate { } di spiri­ to pro[etico dotato» (Par. , XII, 1 40- 1 4 1 ) , aveva infatti diviso in tre «stati» o periodi la storia dell'umanità - gli «Stati» del «Padre», del «Figlio» e dello «Spirito Santo» -, sostenendo che l'inizio del terzo, preludio a un radicale rinnovamento dell'Ecclesia carnalis, avrebbe illuminato le menti e facilitato la comprensione del significato ulti­ mo delle Scritture: . .

«Tutti i simboli sacramentali contenuti nelle pagine della rivelazio­ ne di Dio ci insrillano la convinzione dei tre stati. Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il 52

secondo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della grazia; il terzo è quello che noi attendiamo da un giorno all'altro, nel quale ci investirà una più ampia e generosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella pienezza dell'intendimento. Nel primo regnò il servaggio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà».' '

Ma questi tre mistici periodi, sovrapponendosi all'epoca vetero­ testamentaria («tempo di settuagesima>>), alla parabola storica della Chiesa materiale («tempo di quaresima>>) e all'imminente avvento della «Chiesa spirituale» - èra, questa, che avrebbe dovuto «scio­ gliere le campane di Pasqua» -, si risolvevano in un'insidiosa teoria della storia che, pur non mettendo in discussione la necessaria (per quanto temporanea) guida della Santa Sede, darà impulso alla rigo­ gliosa letteratura apocrifa che, sotto il nome del monaco di Celico, riproporrà l'idea della gradualità della rivelazione divina e, contrap­ ponendola al millenarismo agostiniano,";, la messianica attesa del «papa santo»: un > (Gc, 5, 1 -5). . .

55

«la bella», «più di tutti a lui carissima» -, fu catturata insieme agli altri e poi bruciata: «capta cum aliis et combusta))' si legge nella de­ posizione del fratello. Non diversa la sorte dei seguaci di Guglielma la Boema (t 1 28 1), sedicente figlia di re Ottocaro I (t 1 230) che, pretesa incarnazione dello Spirito Santo, sognava di battezzare gli Infedeli e d'inaugura­ re un'idilliaca era di pace e di amore. La sua erede spirituale, soror Maifreda da Pirovano, avrebbe instaurato un «papato femminile)) e predicato, si diceva, «nuovi Vangeli)). *

Non si trattava, però, solo di esaltati o di torme di sradicati. Fio­ d, infatti, sul frondoso ceppo gioachimita la corrente francescana degli «Spirituali)) alfieri della «forma sancti Evangeliù che, in una ' cristianità scristianizzata dove l'adagio «mutare mentes, non condi­ cionei)) aveva fatto da sordina all'urlo rivoluzionario e liberatorio del Vangelo, furono bollati come eretici e bruciati in gran numero sul rogo: come frate Francesco da Pistoia, che aveva proclamato che «Cristo e i suoi non possedevano nulla in proprio né in comune)); come frà Michele Berti da Calci, che aveva osato predicare contro la proprietà privata; come i quattro irriducibili «fraticelli)) bruciati a Marsiglia nella primavera del 1 3 1 8, colpevoli di essersi opposti alla costituzione con la quale Giovanni XXII ( 1 3 1 6- 1 334), il «papa banchiere)) aveva ingiunto agli Spirituali di sottomettersi ai supe­ ' riori francescani. Lontani i tempi in cui la Chiesa di sant'Igino (t c. 1 42) dibat­ teva sulle priorità dell'impegno assistenziale rispetto all'omogeneità degli assetti dottrinali.Portatrice di pensiero normativo, negli oscuri secoli delle invasioni e dell'anarchia la Chiesa aveva rappresentato l'elemento centrale di tradizione e di continuità, ma oramai, sem­ pre più lontana dal popolo e divenuta, da tempo, una casta e una potenza politica, veniva da troppi identificata con la «meretrice)) dell'Apocalisse. Si diceva messa volgendo le spalle ai fedeli - il «ge­ nus laicorum)) - e la stessa preghiera, non più rivolta in piedi e a braccia aperte al «Sol Spiritualis occasum nesciens)) (il «Sole Spirituale

che non conosce tramonto>>), si pronunziava in ginocchio e a mani giunte, come figli del peccato, servi di un Signore onnipotente più prossimo a un feudale «Dio degli Eserciti>> che al Dio di misericor­ dia annunziato dal Cristo. Quanto alla lingua usata nella liturgia, il popolo non era in grado di comprenderla, né era in grado di leggere quelle Sacre Scritture che, all'indomani dell'esplosione delle eresie, i canoni conciliari vieteranno ai laici finanche di detenere. Basti con­ siderare che il Concilio di Tolosa ( 1 229) , consentendo il mero pos­ sesso del Salterio, del Breviario e delle Ore della Santa Vergine, proibì i «libri dell'Antico e del Nuovo Testamento>>, specie se «tradotti in lingua volgare>>. 4 H « . . . Sono molti matti>>, tuonerà a Firenze fra' Giordano da Pisa (t 1 3 1 O): «calzolaiuoli, pillicciaiuoli, e vorrassi fare disponitore de la Scrittura Santa. Grande ardimento è, troppo e grave offendimento il loro. E se questo è negli uomini, si è nelle [emine maggiormente, però che le [emine sono troppo più di fungi che l'uomo da la Scrittura e da la lettera; e trovansi di quelle che si ne fanno sponitori de la Pìstola e del Vangelio. Grande è la follia loro, troppo è la loro scipitezza; fanno contra 'l comandamento di san Paolo, che dice: "Stea la [emina ne la chiesa, non sia ardita di favellare o d'interpretare parola di Santa Scrittura': Sì che alle[emine è tolto in tutto e per tutto, salvo che l'udi­ re, onde vuole che odano, ma tacciano)). 1 9 Niente di più minaccioso, quindi, di chi volesse uscire dai ran­ ghi, minare orgoglioso le immutabili fondamenta del mondo. Spi­ riti ambiziosi, affetti da insania, da «exterminam> o ricondurre alla «ragione>>, e, quindi, all'ordine di ragione. Ma se pure l'eresia trovò terreno fertile nel processo di evoluzione sociale, economica e cul­ turale seguìto alla «ripresa dell'anno Mille>>, non costituì il semplice rovescio del guanto politico. Il rifiuto dell'istituzione ecclesiale ege­ mone riflettè, in primo luogo, la temperie spirituale del tempo, le 4x

(in MANSI, Concilia, XXIII, col. 1 97) . 49 GIORDANO DA PISA, Quaresimalefiorentino (1305-1306), ed. critica a cura di C. Delcorno, Sansoni, Firenze 1 974, pred. n. XXVIII. 57

sue ubbie escatologiche, il suo acceso e millenaristico misticismo. Solo in parte si sovrappose alle istanze riformistiche o, per altri versi, alle spinte nichilistiche di chi, tagliato fuori dal processo di sviluppo che investì l'economia europea nei secoli dell'esplosione demogra­ fica e dell'apoteosi delle città, attaccava, in una Chiesa secolarizzata e compromessa col mondo, la «Babilonia)) e, insieme, l'ordine che lo aveva emarginato od espulso. Lo dimostra il composito quadro sociale dell'eresia, che, specie quando le episodiche forme di dissi­ denza religiosa lasciarono il passo ai movimenti strutturati di massa, abbracciò il basso clero e l'aristocrazia come la borghesia e il popolo minuto. Quanto alla rusticana turba, benché fosse schiacciata da un mon­ do feudale in cui, come aveva ipocritameme scritto il solito Ascelino, «il padrone è nutrito dal servo ch'egli crede di nutrire)), mentre «il servo non riesce a vedere la fine delle sue lacrime e dei suoi so­ spiri)), si lasciò molto spesso utilizzare in funzione repressiva: non si comano, infatti, gli episodi di linciaggio tollerati (quando non pure istigati) dal clero. Talora, al contrario, fu la paventata «mollitia)) («mollezza))) sacerdotale a farla passare alle vie di fatto. Emblematica la vicenda dei «Manichei)) di Bucy-le-Long («Bu­ ciacum)), presso Soissons), eterodossi scoperti nel 1 1 1 4 che, accusati di organizzare orgiastici festini e antropofagi riti con i frutti ridotti in cenere delle loro promiscue riunioni «in hypogeis)), furono strap­ pati ai carcerieri dalla folla inorridita e scaraventati senza compli­ menti nel fuoco. Ne riferì l'abate Guiberto di Nogent (t 1 1 2 1 ) , che, sollecitato a intervenire dal disorientato vescovo di Soissons, si trovò di fronte contadini illitterati che, persuasi che la corporeità di Cristo fosse solo apparente, negavano l'efficacia salvifica dell'eucarestia e aborrivano «il mistero che si compie sul nostro altare)). Ove si fos­ sero consultate le «opere di sant'Agostino)), concluse il Benedettino, >). «Sono stati d i recente scoperti presso Colonia>>, scrisse Evervino, «degli eretici di cui qualcuno, per nostra soddisfazione, è ritornato alla Chiesa. Due di costoro, quello che definivano il loro vescovo e il suo compagno, ci hanno fatto resistenza in un'assemblea di chie­ rici e di laici alla presenza dell'arcivescovo stesso e di altre persone dell'alta nobiltà, difendendo la loro eresia con le parole di Cristo e dell'Apostolo». «Quelli tornati alla Chiesa», aggiunse, «ci hanno det­ to di essere una grande moltitudine diffusa in quasi tutto il mondo e di avere tra loro molti dei nostri monaci e chierici. Quelli, invece, che sono stati bruciati ci hanno detto a loro difesa che quest'eresia è rimasta nascosta dai tempi dei martiri e si è conservata in Grecia e in qualche altro paese». Quanto ai loro sacramenti, Evervino riferì che ne facevano mistero («in sacramentis suis velo se tegunt>>); tuttavia, aggiunse, consacravano i cibi con il Pater noster e somministravano il battesimo di «fuoco e spirito». Richiamando, quindi, l'imposizione delle mani con la quale Anania aveva ridonato la vista a san Paolo ricolmandolo di Spirito Santo (At, 9, l 0- 1 9) , il prevosto spiegò che solo a questo batte­ simo essi facevano riferimento - «del nostro, non si curano» -, e che chi fra loro era stato in tal modo battezzato, veniva chiamato «eletto», aveva il potere di battezzare altre «persone degne» e quello di «consacrare alla mensa il corpo e il sangue di Cristo». Sempre im­ ponendo loro le mani, inoltre, gli «eletti» ammettevano coloro che chiamavano «uditori» nel più ristretto novero dei «credenti».," Eco della suddivisione in «perfetti», «psichici» e «carnali» adom­ brata da san Paolo (l Cor, 2, 6- 1 5 ; 3, 1-2) e affiorante nel pensiero agostiniano, la distinzione rifletteva la ripartizione in cerchie delle scuole misteriche e, quindi, delle sette gnostiche e della Chiesa ma­ nichea. «Perfetti» verranno infatti chiamati gli «eletti» di Evervino. " Cfr. EVERVINO DI STEINFELD, Ep. "Laetabor ego" (Evervini Steinfeldensis praepo­ siti ad s. Bernardum ep. CDLXX/1), in MIGNE, P. L. , CLXXXI I, coli. 676-680. 63

Ma se la patristica usò il termine >''-1

Un razionalismo, questo, evidentemente ingenuo e a suo modo contraddittorio ma certo in linea con le prospettive demagizzanti che, comuni alle diverse eresie del tempo, fecero dire al Sacconi che gli eretici, convinti che il rito d'imposizione delle mani trasmettesse lo Spirito Santo e mondasse il 'consolato' dai propri peccati, soste­ nevano che «non vi è alcuna remissione se coloro che impongono le mani sono in quel momento in peccato mortale».M Solo la purità dell'officiante, infatti, avrebbe assicurato la tra­ smissione del «santo Spirito consolatore». Qualora fosse emersa, an­ che a distanza di anni, l'indegnità del ministro operante, veniva a essere invalidato, con il battesimo da lui somministrato, anche quel­ lo impartito da chi egli avesse in séguito 'consolato'. Come scrisse l'ex val dese Ermenegaudo di Béziers, «dicono che uno che è caduto in tale modo (eum talem sic lapsum) non possiede lo Spirito Santo, e ciò che non ha, credono non lo possa dare>>.61 Si trattava, dunque, della validità del sacramento ex opere operan­ tis (subordinata, cioè, alla «purità spirituale>> del celebrante), già im­ plicitamente affermata dal vescovo di Cartagine Donato delle Case Nere (t 3 5 5) quando, scomunicato e deposto dalla sua carica per aver imposto il secondo battesimo dei laici e la seconda ordinazione dei chierici che avessero abiurato la fede durante le persecuzioni scatenate da Diocleziano, aveva proclamato che gli ecclesiastici che si fossero mostrati inclini al compromesso consegnando i testi sacri alle milizie imperiali («tradiderunt», «consegnarono>>, da cui l'ap­ pellativo «traditores>>) dovessero ritenersi fuori dalla vera Chiesa e quindi inidonei a somministrare validamente i sacramenti: una pro­ spettiva che, combattuta e progressivamente respinta da una Chiesa sempre più irrigidita e compromessa col «mondo>>, poco si concilia'' 1 Le Registre d1nquisition de jacques Fournier, ci t., III, p. 1 24. ''"' (RANIERO SACCONI, Summa de Catharis et Pauperibus de Lugduno, ed. A. DONDAINE, Un traité néo-manichéen du XII/e siècle, cit., p. 65). ''' Cfr. ERMENEGAUDO, Opusculum contra haereticos, in MIGNE, cit., col. 1 262.

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va con l'idea che il potere di «sciogliere» e di «legare», conferitole in forza del «primato di Pietro», fosse stato trasmesso ai suoi ministri per .la semplice continuità della trasmissione apostolica. Non stupisce, quindi, che i Catari, ligi ai rigorosi obblighi pre­ scritti dal consolamento sino al punto di imporre un nuovo bat­ tesimo anche a chi avesse mentito una sola volta - se l'avesse fatto consapevolmente -, sostenevano che il «battesimo d'acqua» fosse del tutto inutile1'1' o, comunque, «insufficiente» alla salvezza. Si con­ sideri che il 'consolato' diveniva un «figlio della luce» - un «ridesta­ to» nello spirito -, e che a tale filiazione della «luce» aveva già alluso l'inno battesimale citato da san Paolo: «Svégliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5 , 1 4) . Il > che, «nella città di Tolosa», venivano chiamati «Ariani>>: «Sotto quale nome o titolo», si chiese l'abate di Clairvaux, «si pos­ sono catalogare questi ultimi? Nessuno; perché non è dagli uomini che trae origine la loro eresia . . . >>;�0 ma di «Ariani>> si era già parlato al tempo di Vasone, vescovo di Liegi, quando, negli anni Quaranta del secolo XI, nell'arcidiocesi di Reims erano stati scoperti degli asceti che, professando «la perversa dottrina dei Manichei», rifiutavano il matrimonio, si astenevano dal consumo delle carni e, sedicenti portatori dello Spirito, praticavano una «Sacrilega imposizione delle mani».� 1 Il termine riaffiorò nel 1 1 78 in una lettera di Enrico di Marcy

e sempre di Ariani avrebbe poi parla­ to Guglielmo di Puylaurens, storiografo e cappellano dei conti di Tolosa che, lamentando il lassismo di chi avrebbe dovuto «vigila-

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BERNARDO DI CLAIRVAUX, Sermones in Cantica Canticorum, Sermo LXVI, 2, in MIGNE, P L. , CLXXXI II, col. 1 094.

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« Et per sacrilegam manum impositionem dari Spiritum Sanctum mentientes, quem ad astruendam errori suo fidem non alias a Deo missum qua m in heresiarcha suo Mani (quasi nihil aliud sit Manes nisi Spiritus Sanctus) falsissime dogmatiza­ rent... >> (cfr. ANSELMO DI LIEGI, Gesta episcoporum Leodiemium, a cura di L. BETH­ MANN, in MGH - Scriptores, Hannover 1 846, VII, p. 226). n Cfr. ENRICO DI MARCY, E pistolae, ep. XXIX, in MIGNE, P L., CCIV, col. 237. • • •

re>> e invece aveva «dormito», distinse i «figli della perdizione» in «Manichaei», «Ariani» e « Valdensens sive Lugdunenses» (i «Valdesi o Lionesi»):93 una distinzione, questa tra i «Manichei» e gli «Ariani», che richiamava, verosimilmente, la giustapposizione fra i duali­ sti radicali, per i quali il Creato era «òbra del Diable>>, e i dualisti moderati, che, sostanzialmente monarchiani, attribuivano al «dieu estranh» (il «dio straniero») la sola corruzione di uno spirituale co­ smo preesistente. Costoro, scrisse Moneta da Cremona, ritenevano che il Diavolo avesse plasmato la «materia primordiale creata da Dio» dopo averla separata «in quattro elementi»: più o meno quan­ to si legge nell'lnterrogatio Iohannis (Domande di Giovanm), sorta di bibbia del dualismo temperato che, recata in Brianza dalla Bulgaria, costituiva la versione latina di un originale greco o slavo di fattura bogomila. Adottata come «libro segreto» dai Catari di Concorezzo (si pre­ sentava, infatti, come un esoterico dialogo tra Cristo e Giovanni nella cornice di una «cena segreta» nel «regno dei cieli»), quest'ope­ ra tipicamente apocrifa confermava quelle che per Cosma erano le «favole» degli eretici e testimoniava degli stretti rapporti che inter­ correvano fra i Bogomili - gli «apostoli» del mondo greco a cui aveva accennato Evervino di Steinfeld - e quelli che il Sacconi de­ fìnl Catari «stanziati al di qua del mare»: accomunati, tutti, da una prospettiva lato sensu gnostica che, affine a quella combattuta dalla patristica eresiologica nella sua secolare lotta con gli Gnostici e la Chiesa manichea, affondava radici nella segreta tradizione aposto­ lica che, per gli asceti bruciati in Renania, era «rimasta nascosta (occultatam) dai tempi dei martiri» . Già Basilio il Bogomilo, attirato a corte da Alessio I Comneno e indotto con l'inganno a scostare la cortina di silenzio che ne velava il magistero, aveva dichiarato che la sua copia dei Vangeli era sfug­ gita «alle mani di Giovanni Frisostomo (« ' lwthvov Toii q>pua-ocno�ow, ossia Giovanni Crisòstomo) e, scevra da censure e rimaneggiamenti, conteneva due logia soppressi nelle redazioni correnti. ''5 Cfr. GUGLIELMO m PUYLAURENS, Historia Albigensium. De gestis in Narbonensi, Albiensi, Ruthenensi, Caturcensi, Agennensi, dioecesibus, pro tuenda fide catholica et pmvitate haeretica exstirpanda, in BOUQUET, Ree. , XIX, p. 1 93.

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Di fatto, il testo non si differenziava punto da quelli canonici glielo fece notare Eutimio Zigabeno e lo riconobbe, scrisse Eutimio, lo stesso Basilio -, ma, cionondimeno, si erigeva a metafora dell'oc­ culta tradizione spirituale di cui i « Theotokoi», come gli «eletti>> di Evervino, si consideravano depositarì. Era stato, d'altronde, un altro e più illustre Basilio, san Basilio il Grande (t 379), a parlare di un «insegnamento segretO>> che, «cu­ stodito in silenzio dai nostri Padri>>, non era «dicevole divulgare per iscritto>>. Vescovo di Cesarea e padre del monachesimo orientale, Basilio aveva infatti giustapposto «le dottrine e le proclamazioni>> derivanti dall'insegnamento scritto a quelle trasmesse oralmente dalla tradizione apostolica, e, contraddicendo chi, come sant'lreneo (t c. 202), aveva sostenuto che «Se gli apostoli avessero conosciuto misteri segreti [ . . . ] li avrebbero trasmessi a coloro ai quali affida­ vano le chiese>>, aveva esortato a non divulgare i «divini misteri>> a quanti non fossero «in grado di accoglierli e di esserne formati>>.�" Ancora lo Pseudo Dionigi, richiamando la duplice «tradizione degli autori sacri - «una segreta e occulta ( chr6ppì']TO'V 1Cètt[.ltJO"Tt1C�V) , l'altra filosofica e dimostrativa>> -, aveva riaffermato l'antica distinzione tra «Catecumeni>> («lCIXTì'JXOU[LEVOl>>) e «perfetti>> («TEÀEtOU[LEVW>) e ri­ cordato che «non tutti sono santi, né tutti hanno la scienza>> (l Cor, 8 , 7) . � '

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Cfr. BASILIO m CESAREA, De Spiritu Sancto, cap. XXVII, 66, in BASILE DE CÉSA­ RÉE, Sur le Saint-Esprit, intr., texte, trad. et not. par Benoit Pruche, Les Éditions du Cerf, Paris 1 968, pp. 479-483. 91 In DIONIGI AREOPAGITA, T utte le opere, Rusconi, Milano 1 98 1 , passim. La stessa Chiesa alessandrina, stando all'Epistola di Mar Saba {lettera attribuita a Clemente d'Alessandria e scoperta nel monastero della Valle di K.idron, presso Betlemme, nell'estate del 1 958), possedette un «Vangelo segreto>> di Marco che, successivo a quello di cui parlano Eusebio e le Adumbrationes Clementis Afexandrini in Epi­ stolas Canonicas, era riservato ai cosiddetti «�vov�EVOl>> (gnostici), gli adepti della cerchia interna. La gnosi non è «da tutti>>, aveva scritto l'autore, e «non a tutti va detta la verità>> (fg. 2, r. 1 3 del ms., in M. SMITH, Clement ofAlexandria and a secret Gospel ofMark, Harvard University Press, Cambridge [Mass.] 1 973, p. 54) . Si trattava, invero, di gnosi cristiana, ma il confine con la speculazione stricto sensu gnostica non era, allora, affatto marcato. Lo stesso Origene, «principe della scienza cristiana>> che diresse per ventott' anni la scuola catechetica di Alessandria,

Dice bene, Zambon, che «la religione catara era soprattutto una "gnosi" . Per essa la salvezza è frutto di una conoscenza rivelata della vera natura dell'uomo, angelo prigioniero nella carne, della sua ori­ gine e del suo destino celeste. Tale rivelazione dà accesso a un'espe­ rienza strettamente iniziatica, modellata sulle iniziazioni proprie dei misteri antichi e della gnosi neoplatonica e cristiana: distacco dalla "tunica" corporea, ascesa attraverso i cieli, nozze mistiche con il proprio io vero o eterno, con il "coniuge" celeste. Il rito cataro ne rappresenta la virtuale realizzazione: il consolament non ha un semplice valore simbolico, ma implica realmente la discesa sull'ani­ ma del neofita di quello spiritus paraclitus che dovrà riunirla al suo "spirito" rimasto in cielo. È proprio in questa dottrina riguardante i misteri più alti della salvezza che consisteva, con ogni probabilità, quel magistero esoterico di cui parlano frammentariamente nume­ rose fonti catare».'J6 Il movimento cataro fu, di fatto, tutt'altro che omogeneo, assai meno monolitico di quanto comunemente si creda: interessò gli strati sociali più diversi, vide ridursi il suo sostrato sapienziale alla rigida contrapposizione fra spirito e materia ma altresl innalzarsi a livelli speculativi tali da farne espressione di alta spiritualità, corpus di insegnamenti iniziatici da trasmettere, in quanto tali, con cautela e gradualità. «Confortatevi e gioite», dirà Pietro Autier, «perché oggi è un giorno felice: se infatti sapeste quanti e quali beni (bona) Dio ci ha ptomesso - beni che non dobbiamo però rivelare a nessuno (que tamen dicere non debemus homim) se non è diventato "buon Cristiano" - a stento potremmo rimanere in terra!» ')7 Non va poi dimenticato che taluni aspetti delle dottrine catare presentavano varianti che dipendevano non solo dalle posizioni as­ sunte dalle diverse scuole di pensiero o dalle speculazioni dei singoli dottori, ma anche dalla convinzione, tipicamente gnostica, che la conoscenza acquisita senza intermediari - attinta, cioè, alla polla dell'esperienza mistica - precedesse qualunque credo o dogma di tornerà a parlare di intelligenza degli astri e di preesistenza dell'anima (vd. supra, n . 89). "" Cfr. ZAMBON (a cura di), La cena segreta, cit., pp. 89-90. ''7 Ibid. , p. 9 1 . 90

fede; e si può pertanto immaginare lo sconcerto di Enrico di Marcy, quando, recatosi in Linguadoca nel 1 1 78, scoprì che gli eretici da lui incontrati traevano la loro lectio scritturale «de corde suo nequam» («dal loro cuore malvagio»). Va infine considerato che il vero trait d'union delle scuole catare non fu tanto il loro dualismo (quindi, il più o meno enfatizzato an­ ticosmismo), quanto la pratica dell'unico sacramento da esse accol­ to: il «battesimo di Cristo», ossia quel «consolamento» o «battesimo di fuoco» che, assommando in sé le valenze del battesimo cattolico e dell'ordinazione, avrebbe completato il «battesimo d'acqua» con l'effusione dello Spirito. Il resto, sostenevano, non trovava radici nelle Scritture. Lo stesso sacramento eucaristico, con la transustan­ ziazione compiuta in virtù della rituale formula di consacrazione sacerdotale, nulla avrebbe avuto da spartire con la benedictio etfrac­ tio panis operata dal Cristo. Finanche il Pater Noster, prerogativa dei «buoni Cristiani», presentava talune varianti che, !ungi dal co­ stituire un'alterazione (o, peggio, una falsificazione, come sostenne Moneta da Cremona) dell'orazione trasmessa dal Redentore, la ren­ devano pienamente conforme alla tradizione cristiana delle origini: innanzi tutto la recitazione di una dossologia finale che, adottata dalla Chiesa ortodossa, figurava in tutte le traduzioni slave (per cui non sbagliava Runciman a ritenere che i Catari derivassero la loro versione del Pater direttamente da fonti greche o con la mediazione di testi slavi); quindi l'uso della formula «pane sovrastanziale» in luogo di «pane quotidiano», in linea con la traduzione geronimiana dell'« epiousion» (alla lettera, «del domani») del Vangelo di Matteo. Gerolamo, che lavorò alla Vulgata (la «Bibbia Latina») dopo aver vissuto nei deserti della Siria ed essere stato chiamato a Roma da papa Damaso I (366-384), aveva, infatti, reso con il termine «supersubstantialem» I'«epiousiom) del Primo Vangelo (Mt, 6, 1 1 ) , traducendo, invece, «panem nostrum cotidianum)) il wr6v ètpTov TOV È7nOU(J"LOW del Vangelo di Luca ( 1 1 , 3). La seconda lezione, afferma­ tasi a scapito della prima, generò aspre e durature polemiche in seno alla comunità cristiana, perché il pane sovrastanziale - l'evangelico «pane della vita)) -, rappresenta il nutrimento escatologico e, quin­ di, il dono supremo del Redentore. Ora, che si trattasse della « !ex Christù) di cui dirà il Sacconi o 91

d'una «lux Christi» che perpetuava con forme e intenti nuovi anti­ chi riti di manducazione sacra del cibo solare per eccellenza - dalla «spiga» di Eleusi al pane bianco e agli altri alimenti ricchi di «luce» che i Manichei consumavano nel loro unico pasto per nutrirsi e 'liberarvi' la Luce «abbattuta, uccisa e oppressa» dalla Tenebra , è certo che per gli asceti catari il «pane sovrastanziale» costituiva la Parola vivificante e illuminante che, fluente dal «Sole dalla luce sette volte più forte», avrebbe donato loro l'«entendensa de be». Per questo recitavano la «sancta oracio» in occasione di ogni pasto e non man­ giavano o bevevano alcunché se prima non l'avessero sussurrata; ed è sempre per questo che, all'inizio dei loro pasti in comune, officia­ vano quella cerimonia della «benedizione del pane» che, rendimen­ to di grazie alla > e «tutte le persone furono riunite>> e «fu preparata la tavola>>, «prese un panno, ne mise una parte sulla sua spalla sinistra, con la mano destra nuda prese un pezzo di pane dalla tavola, lo avvolse nel panno e lo tenne tutto avvolto vicino al suo petto, così da non toccarlo con la mano nuda. Stando in piedi come gli altri, diceva alcune parole -

"H Naturalmente, diversi furono i livelli di lettura delle petizioni di una preghie­ ra che, come dicevano questi asceti, «magna continet>> («contiene grandi cose>>). Nel Rituale di Firenze si legge che il «pane sovrastanziale>> è la «legge di Cristo>>, mentre il «sangue>> che Cristo esortava a bere era «il senso spirituale del Nuovo Testamento>> (cfr. ZAMBON [a cura di] , La cena segreta, cit., pp. 3 1 7-3 1 8) .

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sottovoce che nessuno poteva udire. Rimasto così il tempo di reci­ tare due Padre nostri, tirò fuori il suo coltello e tagliò il pane per lungo, da una parte all'altra, in tante parti o porzioni quante erano le persone presenti. Poi si sedette e dopo di lui si sedettero gli altri in ordine: colui che era stato il primo a credere si sedette per primo, dopo di lui si sedette colui che aveva creduto per secondo e così in ordine. Allora l'eretico diede il primo pezzo di pane a quello che aveva creduto per primo e quando questo ricevette il pezzo, disse: "Benedite, Senher" e l'eretico rispose: "Dio vi benedica". Allo stesso modo fu fatto col secondo pezzo di pane, che diede a quello che credette per secondo e così avanti fino a me che ero l'ultimo dei cre­ denti e che allo stesso modo dissi all'eretico: "Benedite", così come anche gli altri avevano detto. [ . . . ] Quando mettevamo in bocca per la prima volta questo pane, dicevamo: "Benedite, Senher" e l'eretico rispondeva: "Dio vi benedica"».'>'> Evervino di Steinfeld, interpretando in chiave eucaristica la «be­ nedictio panis» dei Catari di Colonia, annotò che «Ogni giorno, quando mangiano, secondo l'esempio di Cristo e degli Apostoli, consacrano con il Pater noster il loro cibo e la loro bevanda in corpo e sangue di Cristo, perché poi li nutrano le membra e il corpo di Cristo». 1 00 Ma questo solenne cerimoniale, lungi dal risolversi in un atto teurgico finalizzato alla trasformazione del pane nel «corpo» del Redentore, era evocazione dell'Ultima Cena e invocazione della «carità» celeste. «Ogni giorno>>, si legge negli Atti degli Apostoli, «tut­ ti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa pren­ dendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio . . . » (At, 99

In FLOSS (a cura di), Il caso Belibasta, cit., pp. 1 0 1 - 1 03. IX> « Ut inde se membra et corpus Christi se nutriant>> ( EVERVlNO DI STEINFELD, Ep. "Laetabor ego ", in MIGNE, cit., col. 678). Merita essere qui ricordato un cu­ rioso episodio riferito da Giovanni di Joinville (t 1 3 17), il celebre biografo di re Luigi il Santo (Luigi IX, t 1 270). Durante la Crociata contro gli Albigesi, un gruppo di eretici (>) si sarebbe recato presso Simone di Montfort (capo delle milizie crociate) per invitarlo a «venire a vedere il corpo di nostro Signore, divenuto sangue e carne (en sane et en char) nelle mani del loro prete>>. Gliene aveva parlato, scrisse lo storico, lo stesso «saint roy» ( GIOVANNI DI JOINVILLE, Histoire de Saint Louis, in BOUQUET, Ree. , XX, p. 198). l

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2, 46) : un gesto che, non ancora divenuto prerogativa sacerdotale, era praticato in virtù della semplice iniziazione battesimale. «Non è stato Cristo a istituire la messa>>, diranno gli eretici de­ nunziati da Cosma; ed Eutimio della Peribleptos, condannando le loro «diaboliche>> credenze, scriverà che i Bogomili del distretto ana­ tolico dell'Opsikion (i «Fundaiti>>) ritenevano che il pane e il vino eucaristici non fossero diversi dal pane e dal vino «comuni>>. Quando, nel 1 245-46, la regione del Lauraguais fu battuta pal­ mo a palmo da quel temibile cacciatore di eretici che fu il dome­ nicano Bernardo di Caux, una teste di Le Mas-Saintes-Puelles - na Segura - dichiarò che i «buoni uomini>>, predicando pubblicamente «apud Mansum>>, sostenevano che l'«hostia sacrata non erat corpus ChristÙ>. 1 0 1 Roma aveva tentato, con la sacramentalizzazione della vita del suo gregge, di creare momenti di alto valore cultuale e di forte va­ lenza escatologica che richiamassero costantemente i fedeli all'iden­ tità e alla testimonianza cristiane; ma ben altri intenti erano presto prevalsi, e dietro una Chiesa mediatrice della grazia e dispensatrice della salvezza, una Chiesa a cui già Pelagio contestò la contraddi­ zione di un battesimo degli infami che postulava la trasmissione ai discendenti del peccato di Adamo e di fatto negava il principio del libero arbitrio e della responsabilità personale, si profilò l'ombra in­ quietante di un Potere smisurato e pressoché incontrollabile - l' of ficium inquisitionis -, che, autocratico «tribunale della coscienza>> , non conoscerà altro dialogo che l'ammutolimento della dissidenza: «Non est disputandum cum hereticiS>>, dirà il domenicano Bernardo Gui (t 1 3 3 1 ) , «maxime in officio inquisitioniS>> («non si deve discute­ re con gli eretici, soprattutto nell' offì. cio dell'inquisizione>>). Certo, timore per la «salvezza delle anime>>. Ma, come ha osser­ vato Michel Foucault, «il potere è tollerabile a condizione di dissi­ mulare una parte importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi che riesce a nascondere>>. «Sarebbe ac­ cettato se fosse interamente cinico?>> 1 112 101

In KOUDELKA (a cura di), Monumenta Diplomatica S. Dominaci, cit., XXV, pp. 1 77- 178. Un'altra teste, Raimunda uxor Willelmi Case, dichiarò di aver sentito dire dai «buoni uomini» che la «carne della resurrezione» non era tale e che, a fortiori, l'ostia consacrata «non era il corpo di Cristo>> (ibidem). 1 02 M . FOUCAULT, La volontà di sapere, trad. it. , Feltrinelli, Milano 1 978, p. 77. 94

Capitolo VII FUOCHI A OCCIDENTE

" . . . lmpius il/e de igne ad ignem, de transeunte ad aeternum transitum fecit. . . " (PIETRO IL VENERABILE)

Già sullo scorcio del secolo X, prima che le luci del nuovo mil­ lennio fugassero le fantasime apocalittiche e i «terrori dell'anno Mille», 10j la diocesi di Chalòns-en-Champagne aveva conosciuto la curiosa vicenda di Leotardo, «homo plebeius>> del villaggio di Ver­ tus che, stando alla cronaca del cluniacense Rodolfo il Glabro (t c. 1 048), si era addormentato nei campi e aveva fatto uno strano sogno: uno sciame d'api, insinuatosi in corpo dal retto e fuoriu­ scito attraverso la bocca, lo aveva a lungo tormentato imponendo­ gli di «fare agli uomini ogni sorta di cose impossibili». Tornato a casa, il contadino aveva innanzitutto cacciato la moglie, dicendo di volersene separare «quasi ex praecepto Evangelico» (l Cor, 7, 29) . Dopodiché, entrato in chiesa come volesse pregare, aveva afferrato e fracassato il crocefisso. Dinanzi agli inorriditi paesani, Leotardo aveva iniziato, quindi, a predicare un proprio originale Vangelo, av­ venturandosi in disquisizioni teologiche e invitando > ( RODOLFO DI COGGESHALL, Chronicon Anglicanum, in Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, cit., p. 195). 1 1 ' Il nucleo originario della Visio, «libellum [ . . . ] in quo continetur quod spiritus

Isaiae a corpore raptus usque ad septem coelos deductus est, ibique vidit et audivit arcana verba>>, pare di origine essena. 1 1 " MONETA DA CREMONA, Adversus Catharos et Valdenses, cit., p. 2 1 8. 109

Capellis, che verosimilmente attinse alla medesima fonte, aggiunse, a ragione, che doveva trattarsi di un testo ((rifiutato in passato dalla fede cattolica» e che si era conservato ((presso di loro fìno a ora». Già Origene l'aveva infatti considerato un libro segreto degli Ebrei, e san Gerolamo, sostenendo che disseminava i suoi ((errori» special­ mente fra le ((donnette» ispaniche e, soprattutto, lusitane, asserì che le aveva spinte a seguire ((Basilide, Balsamo, il Tesoro e Barbelo». 1 1 7 *

Diffusasi nel burrascoso clima delle lotte sociali dei contadini slavi contro i loro signori bulgari e il clero bizantineggiante, !'((eresia di Bogomil» fu inizialmente caratterizzata da una carica antinomi­ stica cosl esplosiva da far inorridire chi, come Cosma il Prete, rite­ neva che lo zar e i signori fossero stati ((istituiti da Dio». Cosma, che compose il suo Slovo (Discorso) contro i Bogomili tra il 969 e il 972 - poco dopo, quindi, la fìne del regno di Pietro di Bulgaria (927 -969) -, asserì che gli eretici insegnavano ((a disob­ bedire ai padroni» e reputavano ((odiosi agli occhi di Dio» coloro che servivano lo zar, ossia una dirigenza bulgara che, a séguito del­ la conversione al cristianesimo voluta dal khdn Boris I (battezzato nell'864), era stata dotata di nuovi e più efficaci strumenti ideolo­ gici normativi dalla trionfante Chiesa bizantina. Lo stesso Pietro, che aveva sposato Maria Lecapena, nipote del basileus Romano I (t 948), aveva denunziato al patriarcato greco la nuova e preoccu­ pante eresia che, ((miscuglio di manicheismo e paulicianesimo», 1 1H stava dilagando nei suoi domini; e non sorprende che Alessio I Comneno, guida di un Impero d'Oriente che, con le grandiose 117

> (GEROLAMO, Commentarium in Isaiam, in MIGNE, P L. , XXIV, coli. 622-623). 1 1 s Tale la lectio data a Costantinopoli. 110

conquiste di Niceforo II Foca (t 969), Giovanni I Zimiscé (t 976) e Basilio II il Bulgaroctono (t l 025) aveva ritrovato il proprio spa­ zio storico dall'Adriatico alla Mesopotamia, avesse usato il pugno di ferro contro un'«empia eresia» che, a séguito della grecizzazione della Chiesa e della cultura bulgare, aveva assunto, nella sua terra d'origine, connotati nazionalistici di opposizione e, quindi, valenze più insidiosamente eversive. Di certo, non ne sottovalutava la for­ midabile capacità di espansione. Già nella prima metà dell'XI secolo, quando la battaglia del passo di Kleidion ( l O 14) e la morte a Durazzo del nipote dello zar Samuele ( 1 0 1 8) sanzionarono la fine del primo Impero bulgaro, il monaco Eutimio della Peribleptos aveva segnalato la presenza di eretici dua­ listi che, chiamati «Fundaiti» nel distretto anatolico dell'Opsikion e «Bogomili» in Panfilia e in altre regioni dell'Impero, si definivano «Cristo poli ti» ( «Xpt> di cui parlava non li aveva «ricevuti>>, disse, «da creature di carne, e neppure leggendo degli scritti>>, bensì «per grazia>>, quando il suo «bea­ tissimo padre>>, Gesù il Luminoso, aveva rivolto su di lui «il suo sguardo>>.

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nel bacino mediterraneo occidentale influenzando le coste tirreni­ che e la regione ibero-occitana. Ancora nel 434, san Vincenzo di Lerino (t c. 450) attaccò la «dementia» dei Manichei nel celeberri­ mo Commonitorium. l.ll Nell'ecumene bizantina furono le accanite persecuzioni scatena­ te da Giustiniano (t 565) a sradicare il manicheismo come Chiesa organizzata, ma è verosimile che, nelle solitudini dell'emarginazione rurale, avesse echeggiato a lungo il verbo di Mani. Del resto, prima che la sede dell'Archegòs venisse trasferita di nuovo a Samarcanda - nel cuore, quindi, di quella «Seidenstrasse» («la Via della Seta») che vide incrociarsi con le carovane cariche di merci le tradizioni e le correnti spirituali dell'Oriente e dell'Occi­ dente -, era stata la culla stessa della religione di Mani - Babilonia - a riaccoglierne il vicariato. La tollerante politica religiosa degli Omayyadi aveva, infatti, propiziato il ritorno di numerosi Manichei in quello che gli autori arabi definivano «lmamato degli Zandaqa» - i «Mazdei» -, i quali, com'è facile immaginare, vi avevano ripreso la loro instancabile attività missionaria. La stessa intellighenzia islamica ne fu notoriamente affascinata. Gronda, infatti, di insegnamenti manichei l'opera del filosofo ismai­ lita Nasir-i Khusraw (t c. 1 075), il noto maestro del «ta'wil» (l'ese­ gesi mistica dell'Islam) che, studioso di antichi testi manicheizzanti come l' Ummu 'l-Kitdb (Libro Primigenio o della Madre) e persuaso che il vero «al-Mustatin> (l'Imam «nascosto>>) sussurri nei pensieri di chi può udirlo e possa anche apparirgli in veste angelica, professava insegnamenti affini a quelli dei «Fratelli della Purità», gli «Ikhwdn al-Safo '» che nella Basra del X secolo, a sette secoli dall'«incontro» di Mani con il «bellissimo e immenso specchio della sua persona», teorizzavano il ricongiungimento a una «Forma angelica» che, pre­ sentata nel Codice Mani quale «gemello» e «compagno» dell'anima caduta, nell'Inno della Perla ritornò quale «modello>> e «specchio» dell'anima redenta: "·

. . lo più non ricordavo il suo modello avendo fìn dall'infanzia abbandonato la casa di mio padre, 1 •1 2

VINCENZO DI LERINO, Commonitorium primum, in MIGNE, L, col. 657. 1 25

ma sùbito, non appena lo ricevetti, mi parve che l'abito fosse diventato uno specchio di me stesso. Losservai molto bene e con esso io ricevetti tutto, giacché noi due eravamo distinti e tuttavia avevamo un'unica sembianza >> 1 ·1·1 . . .

Sin, del resto, dalla metà dell'VIII secolo, quando nel Sud della Mesopotamia erano state fondate le prime scuole sufi e il mistico sciita Abii '1-Khattib, impalato a Kufa nel 756, propalava le sue te­ orie dell'«alter ego silenzioso» e dell'incarnazione degli «intermediari angelici», l'eco della parola di Mani si era già potentemente riverbe­ rato in seno a una corrente spirituale che, componente mistica della shari'a - la religione !egalitaria -, aveva ingemmato il tronco cora­ nico di concezioni lato sensu gnostiche e, in primo luogo, neopla­ toniche: concezioni che, sopite ma sopravvissute per secoli nell'area siro-mesopotamica, erano tornate a fiorire quando la chiusura della Scuola di Atene, voluta da Giustiniano nel 529, ne aveva causato la propagazione in terra di Persia. Cosroe I (t 579), sovrano sassanide, aveva offerto asilo a uomini come Prisciano, Simplicio, Damascio; e quest'ultimo, assai vicino alla gnosi di Valentino, aveva curato la traduzione dei classici greci sulla base della versione di un discepolo di Giamblico, Eustachio di Cappadocia. Non va poi dimenticato che quando, nell'843, le persecuzioni scatenate dai Confuciani costrinsero gli epigoni di quelle che erano state le comunità «dénawdn> («devote>>) del Khordsdn a rifugiarsi nel bacino del Tarim - dove furono accolti da una nobiltà uigurica rima­ sta fedele al magistero di Mani anche dopo l'arrivo dei Kirghisi dalla Siberia -, non pochi dovettero essere i Manichei che, sospingendosi a Ovest lungo la Via della Seta, riguadagnarono le città dell'Anatolia e le tradizionali direttrici dell'apostolato mediterraneo. Ricordo che Antiochia, dove nel 390 Giovanni Crisòstomo tuo­ nò contro le comunità manichee stanziate nella Siria Occidentale, l .l.l È l'esperienza che gli Gnostici chiamavano «Kdtoptron» («Specchio»): ricono­ scimento e, insieme, rinascita del «Sé» antologico.

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era stata, accanto alle città di Babilonia, Seleucia, Palmira, Chang' an e all'oasi turkmena di Turfan (la zona del Gobi dove, a Bazaklik e nei dintorni di Coco, furono rinvenuti i manoscritti manichei conservati oggi a Berlino), una delle principali tappe dello storico intreccio di vie carovaniere che, stazioni di un secolare percorso mis­ sionario, avevano visto lo stesso Mani spingersi nelle regioni nord­ occidentali dell'India, dove, ben accolto dalle comunità cristiane che si dicevano seguaci dell'apostolo Tommaso, nel Turan-shah era stato addirittura considerato il Buddha reincarnato. Fu, appunto, dalla contaminazione del manicheismo con il buddhismo e i suoi generi letterari che, nel Turkestan cinese, venne incubato il germe dell'iniziatica fiaba Barlaam e Giosafot, originata da una leggenda popolare sulla vita di Siddhartha Gautama - il futuro Buddha !.l" ­ e, reinterpretata in chiave cristiana, presto diffusasi nell'orbe bizan­ tino e in tutta la cristianità latina. Sappiamo, infatti, che prima di sostare a Gerusalemme e poi nel Corno d'Oro, la storia del principe indiano era transitata attraverso le sterminate steppe della Battriàna - l'odierno Afghanistan -, culla di sincretismi religiosi dove, nei pressi dell'antica Bamiyan (il cen­ tro religioso buddhista in cui sorgevano le due grandiose statue del Buddha demolite dai Talebani nel 200 1), è recentemente venuto alla luce un altro importante insediamento manicheo. È noto, inoltre, che in questa regione di cultura turco-iranica, dov'era fiorito il ramo del ceppo sufico biforcatosi nel sufismo di Merv e in quello di Balkh, nel Khorasan, era vissuto un principe sufi di nome Ibrahim ibn Adham (t 777), sultano la cui scelta asce­ tica, narrata in forma poetica dal filosofo persiano Mewlina Riimi (t 1 273) nel Masnavi, fu parimenti raccontata con accenti molto simili a quelli della leggenda del Buddha. LH Siddhartha Gautama nacque a Kapilavastu (India Settentrionale) intorno al 565 a. C. dalla nobile famiglia dei Shakya (da cui l'appellativo di Shakyamuni, «saggio dei Shakya») . Sposato e con un figlio, intorno al trentesimo anno di età prese coscienza del sostrato sofferenziale dell'esistenza e, abbandonate le occu­ pazioni mondane, si diede alla meditazione e all'ascesi. Pervenuto al risveglio interiore - Buddha significa, in sanscrito, «il Ridestato>> -, cominciò a predicare la sua dottrina lungo il medio Gange.

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Vi è di che riflettere sul rapporto fra la «perla unica» dell'Inno degli Atti di Tommaso (in uso presso i Manichei), la «perla» che il sufi Hafiz accostò alla «Coppa di Jamshid» e la «pietra preziosa» dell'eremita Barlaam, che, contemplabile senza pericoli solo da chi sia «casto e puro di cuore», tanto richiama la «gemma» graalica di Wolfram von Eschenbach; ma quello che intendo qui ribadire è che le idee non temono le grandi distanze, né potevano temerle gli infaticabili missionari manichei che, per secoli, continuarono a per­ correre in entrambe le direzioni la favolosa «via» che da Chang' an, l'antica capitale dell'Impero cinese, conduceva alle sponde orientali del Mediterraneo. Certo, si tratta solo di ipotesi, di possibili scenari, così com'è solo un'ipotesi quella formulata nel secolo scorso dallo storico Henri Grégoire, il quale, muovendo da un'iscrizione scoperta a Laodicea di Pisidia {a sud-est di Filadelfia di Lidia, l'odierna Ala�ehir) ripro­ ducente l'epitaffio di un sacerdote di una «santa Chiesa dei Puri» risalente al IV secolo e richiamante, per la natura angelica attribuita all'entità del Cristo, una formula d'anatema antibogomila del secolo XII, era giunto alla conclusione che quest'antica «Chiesa dei Puri>> (gr. «Katharoi>>), ritenuta antesignana dell'«ecclesia Philadelphia(!)> che Raniero Sacconi indicò fra le «Chiese dei Catari>> censite tra Oriente e Occidente, avesse dato il proprio nome a1 «Manichei chiamati Catari>> dell'Età di Mezzo. 11' Di fatto, l'accostamento onomasiologico al greco «Katharoi>> si ritrova, per la prima volta, nei Sermones contra Catharos ( 1 163) di Ecberto di Schonau, il quale, compulsando il trattato De hae­ resibus di sant'Agostino, la trovò associata ai seguaci dell'antipapa u>

Faccio, altresl, notare che nel Chronicon Hirsaugiense si parlerà di > la conce­ zione cristologica che vedeva nel Cristo una superiore entità celeste inviata da Dio per il riscatto e la liberazione degli uomini -, ebbe, in àmbito cataro, gli esiti marcatamente adozionistici che presso i Marcioniti di Eznik e i Pauliciani di Pietro l'Igumeno si erano già espressi nel mito del Cristo disceso in Terra dopo che gli fu predetta la propria sorte; un mito che Guglielmo Belibasta, del tutto estraneo al linguaggio emanatistico che nell'alta Gnosi declinò il processo d'irradiamento del Verbo in termini di uraniche ipostasi e di divine sizigie, riferl con il suo lessico colorito e i suoi toni immaginosi: -

«Si insegna che quando gli spiriti creati dal Padre Santo e inganna­ ti dal suo nemico [ ) erano usciti dal cielo e il nemico di Dio li aveva avvolti nelle tuniche, cioè nei corpi, per far loro dimenticare la gloria di Dio in cui un tempo stavano, il Padre santo, si vide privato degli spiriti e quasi solo>>. Vedendo che i seggi su cui gli spiriti erano soliti sedere erano vuoti, si addolorò e si turbò per . . .

la loro perdita. Pensò tra sé in che modo gli spiriti ingannati, che erano caduti dal cielo e non si ricordavano della gloria celeste che avevano posseduto [ . . . ] sarebbero potuti di nuovo tornare in cielo ai loro posti. Allora cominciò a scrivere un libro, che compose in quarant'anni, in cui erano elencati dolori, angosce, tormenti, povertà, infermità, oltraggi, insulti, invidie, odi, rancori e in ge­ nere ogni sciagura che può capitare all'uomo in questa vita. C'era scritto che chi voleva promettere di sopportare tutte queste pene, sarebbe diventato il Figlio del Santo Padre. Quando il Padre Santo cominciò a scrivere il libro, il profeta Isaia iniziò a profetare che doveva venire una branca o un ramo a redi­ mere gli spiriti degli uomini. Dopo che il Padre Santo ebbe composto il libro, lo mise in mezzo agli spiriti celesti rimasti in cielo con lui e disse: "Chi realizzerà le cose che sono scritte su questo libro, sarà figlio mio". Molti degli spiriti celesti, desiderando essere figli del Santo Padre ed essere onorati più degli altri, si avvicinavano al libro, lo aprivano, legge­ vano le pene che vi erano contenute che doveva sopportare colui che volesse venire tra gli uomini e onorare il genere umano, e solo dopo averne letto un po', cadendo, venivano meno senza fiato; nessuno voleva perdere la gloria che possedeva e sottoporsi alle pene di questa vita per essere Figlio di Dio. Vedendo ciò il Padre Santo disse: "Non c'è dunque nessuno di voi che vuole essere Figlio mio?" Allora uno degli spiriti presenti che si chiamava Giovanni si alzò e disse che voleva essere Figlio del Padre e compiere tutto quello che era scritto sul libro. Si avvicinò al libro, lo aprì, vi lesse quattro o cinque fogli e cadde senza fiato vicino al libro. Rimase così tre giorni e tre notti. Poi, dopo che lo ebbero bagnato per farlo rinvenire, pianse molto; ma poiché aveva promesso di portare a compimento le cose che erano contenute nel libro e poiché non doveva mentire, disse al Padre che voleva essere suo figlio e che avrebbe compiuto tutte quelle cose, benché fossero gravose». w

Espresse, quindi, nei termini folclorici (e talora anfibologici) che tanta irritata ironia avrebbero scatenato nei denigratori delle «favole w !bid., pp. 1 5 1 - 1 53. Il mito del Cristo «baiulus Dei>> adottato come Figlio e inviato nel mondo si ritrova, pressoché identico, nelle versioni occitane della metà del XIII secolo.

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degli eretici» - sentimenti paragonabili a quelli di lreneo di Lione quando, sconcertato e disorientato di fronte alle complesse sequele di sizigie di Valentino, aveva scagliato i suoi velenosi dardi contro «la moltitudine» dei suoi «deliranti Meloni» (Adv. Haer. , l, 1 1 , 4-5) -, le concezioni cristologiche di questi asceti erano, di fatto, diso­ mogee e, per taluni aspetti, contraddittorie. Una preghiera riferita da Giovanni Mauri assimilava, per esempio, Cristo al Padre affer­ mando che il «Dieus dreyturier das bons espritS>> non aveva esitato «per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero»: un «Dio legittimo degli spiriti buoni» che, evidentemente, non era l'angelo-Cristo che «non patì, non morì né sopportò angustia alcu­ na». Certo, molto dipese dalla confusione che regnava fra i contro­ versisti ortodossi, i quali, affrontando l' eonologia dei loro pretesi «Manichei» , tendevano a distorcere dottrine di per sé complesse e decadenti che, retaggio di antichi moduli sapienziali, erano state per di più adattate alla comprensione dei simplices. È il caso, ad esem­ pio, dello storiografo cistercense Pietro di Vaux-de-Cernay, il quale, dopo aver scritto che gli (in A. DONDAINE, Un traité néo-manichéen du XI/le siècle, cit. , p. 44, n. 23) . Del resto, il termine latino ad-oratio ha il significato etimologico di contatto bocca a bocca: bacio. 1 ; 1 «Paratge>>, parola traducibile solo approssimativamente con il termine «pari­ tà», era il motto della cavalleria occitana. Quintessenza dell'ethos del > (fedeltà) , «leialtat>> (lealtà) , «larguesa» (generosità) e ne «lo respècte de la vida e de la libertat>>: ideali che, come scrisse lo storico Henry Martin, rappresentavano nel Midi «le virtù cardinali» di una «specie di religione»: la «cortezia» (cfr. H. MARTIN, Histoire de France depuis /es temps /es plus reculèsjusq'en 1789, Fume (Ciaye) , Paris 1 865, III, p. 377) . ­

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ne la destabilizzazione, morì combattendo nella battaglia di Muret (Alta Garor;ma, 1 2 1 3). Le case di Tolosa e di Aragona si erano, infatti, dinasticamente unite grazie al matrimonio di due delle figlie di Alfonso II il Trovadore - Eleonora e Sancha - con gli ultimi due «re del Mezzogiorno»: Raimondo VI , che sposò Eleonora nel 1 203, e suo figlio Raimondo VII, che andò a nozze con Sancha nel 1 2 1 1 . Sorella di un re che passerà alla storia come «Pietro il Cattolico» (Pietro II d'Aragona), Eleonora, che, come il marito, non nutriva particolari simpatie per gli «eretges», era in questo affatto diversa dalla seconda delle sei mo­ gli di Raimondo, Beatrice di Béziers, da lui sposata quando, rimasto vedovo della contessa Ermessinda di Mauguio, l'ambizioso conte di Tolosa aveva sperato di porre fine ai dissidi con la potente famiglia rivale dei Trencavel (signori di Béziers, di Carcassonne, di Albi e del Razès) prendendone in moglie una discendente. Beatrice era infatti figlia di Raimondo I Trencavel, che, assassina­ to nel 1 1 67, era, a sua volta, il secondo dei figli maschi del fondatore della dinastia - Bernardo Aton, detto, appunto, « Trencavel» («Taglia bene») - e aveva ereditato la viscontea di Béziers. Come altre ce­ lebri dame della Linguadoca, Beatrice non nascondeva la propria ammirazione per i «perfetti», e, al pari di Bianca di Laurac, madre di quella Donna Geralda che, nel 1 2 1 1 , venne stuprata e gettata in un pozzo dalla soldataglia venuta dal Nord, sarebbe entrata in un convento di «perfette». Se, infatti, all'epoca di Raimondo V era stata la nobiltà minore ad accostarsi all'eresia, tra la fine del XII e l'inizio del XIII seco­ lo il catarismo era penetrato nel cuore stesso dell'alta aristocrazia. Adelaide di Burlais, figlia di Raimondo V e sposa di Ruggero II Trencavel, non solo aveva abbracciato l'eresia, ma la sosteneva pub­ blicamente. Suo figlio Raimondo Ruggero era stato affidato a un tutore cataro, Bertrando di Saissac; e benché si sostenesse che «lodit visconte non era eretge», gli eventi della sua breve vita - morirà nelle segrete cittadine durante l'assedio di Carcassonne, nel 1209 - ci dicono che la sua fedeltà alla Chiesa fu tutta e solo di facciata. Di certo, amatissimo dalla sua gente, fu considerato dai Catari un mar­ tire della loro fede. Quanto agli altri grandi signori occitani - i conti di Foix -, la 148

contessa Filippa si fece 'ereticare' e aprì una casa di «perfette» nella località di Dun ( 1 206). Suo marito, Raimondo Ruggero, protestò in più occasioni la propria fedeltà alla Chiesa, ma, pur sostenendo di esserne «figlio obbediente» e di detestare «la compagnia degli ere­ tici», prima e durante la Crozada si dimostrò un loro grande pro­ tettore. Una delle sue sorelle, del resto, s'era fatta val dese, e un'al­ tra sua sorella, la venerata Esclarmonda di Foix, nel 1 204 era stata battezzata a Fanjeaux (Aude) e aveva poi fondato una casa catara a Pamiers (Ariège) . Madre di sei figli, rimasta vedova di Giordano de l'Isle Esclarmonda si era fatta imporre le mani dal «perfetto» Guidalberto di Castres in presenza di cinquantasette signori e di una nutrita folla cittadina. Suo fratello, il conte di Foix, arrivò a definirla «donnaccia peccatrice», ma questa donna amata e rispettata - una delle più bril­ lanti dame del mondo cataro - sarebbe presto entrata nella leggen­ da. Folco di Marsiglia (t 1 23 1 ) , vescovo-trovadore che, popolare fra i Cattolici, fu collocato da Dante nel cielo di Venere, disse che, «con la sua perversa dottrina)), ella «faceva molte conversioni)). Non stupisce che a Pamiers, nel corso di un dibattito fra una delegazione cattolica e una rappresentanza di Catari e di Valdesi, un monaco lì presente, Stefano di Minia, avesse voluto severamente redarguirla: ((Andatevene a filare la vostra conocchia, signora; non c'interessa la vostra opinione in questo genere di dispute)). 1 Di origine spagnola, Stefano non si rendeva conto di quale ruolo rivestisse la donna nel quadro della società occitana, dove, meno discriminata, poteva «possedere terre, esercitare molte professioni e, soprattutto, ereditare (subretot eiretar))). '2

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Fu appunto il sistema successorio vigente per i feudi a dare il col eo esiziale all'economia curtense. E noto, infatti, che la trasmissione mortis causa veniva regolata, 1 '2

> (GUGLIELMO DI PUYLAURENS, Historia A/bigensium, cit., in BOUQUET, Ree. , XIX, p. 200). . .

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oltre Loira, dalla legge del maggiorasco. Essa assegnava i titoli nobi­ liari e il patrimonio al solo primogenito maschio, in netta contrap­ posizione al solidarismo familiare del sistema successorio romanisti­ co. Ma le terre occitane, che nell'Edictum Pistense (864) erano state definite «regiones quae legem romanam sequuntur»; che avevano con­ trapposto uno ius scriptum al droit coutumier del paese dei Franchi; che tanta parte avrebbero avuto nell'elaborazione dello ius comune e che sin dalla seconda metà del secolo XII, per merito soprattutto del glossatore Piacentino (t 1 1 92) , avevano visto fiorire a Montpellier una celeberrima schola di diritto civile, non poterono non discono­ scere un diritto di primogenitura che condannava le figlie della feu­ dalità europea a una vita semiclausurale e spingeva la maggior parte dei cadetti, sovente allontanati dalla dimora avita, a ripiegare su una cavalleria che ben poco corrispondeva all'idealistico canone roman­ tico. I beni paterni venivano ripartiti, in Occitania, fra tutti i figli, femmine comprese; e se la frammentazione dei patrimoni fondiari impossibilitò tanti signori a mantenersi adeguatamente sulle terre avite, l'abbandono dei feudi e l'esercizio dei commerci, minando le fondamenta dell'economia curtense, propiziò i matrimoni tra nobi­ li e borghesi e favorì l'accesso contadino alla proprietà fondiaria: la fine, quindi, della società feudale. Di fatto, l'estensione delle aree coltivate, la crescita demografi­ ca e una più fluida circolazione monetaria avevano cancellato da tempo, in Occitania, l'economia di pura sussistenza. I documenti ci parlano di grandi transazioni finanziarie, paragonabili a quelle re­ gistrate in Inghilterra, e non v'è dubbio che i cosiddetti «cahorsins», specialisti in attività speculative, accumularono grandi fortune in questa regione caratterizzata dalla vivace attività mercantile e dalla solidità del tessuto urbano. L affrancamento delle classi rurali era stato infatti accompagnato dallo sviluppo del capitale mobiliare e dalla nascita di grandi centri commerciali, propiziati dalla secolare presenza dei mercanti ebrei e siriani che, attivi e indifferenti al divieto ecclesiastico del prestito a interessi, avevano dato impulso all'economia di scambio scongelan­ do la moneta tesaurizzata e restituendola alle sue funzioni di misura del valore delle merci e di strumento delle transazioni. Presso le città di Arles e di Tolone sorgevano i più importanti 1 50

telonia delle Gallie. I cosmopoliti mercati di Provenza, alimentati dallo scalo marittimo di Marsiglia, concorsero non poco a determi­ nare il clima di pluralismo e di apertura ideologica che si respirava in Occitania. « Convivéncia» era la parola chiave della civiltà del «Miègjorn» (il Mezzogiorno di Francia); «convivenza», giacché ovunque, nelle piazze come in quel celebre santuario del sapere che fu l'«Escola de Montpelhièn), Musulmani ed Ebrei operavano in perfetta concordia con i Cristiani. Lungi, infatti, dal recare indosso i segni di ricono­ scimento che dal 1 2 1 5 vennero loro imposti in tutta la cristianità, i figli della Diaspora godettero in Occitania di stima e di consen­ si e furono chiamati a ricoprire importanti cariche magistratuali. Quanto agli Arabi - mercanti, medici e studiosi apprezzati -, non subirono in alcun modo la loro condizione di «infedeli»: godettero, infatti, delle libertà riconosciute a tutti i borghesi. In tale milieu si plasmò la vivace intellighenzia ebraica che, ac­ canto a quella araba ibero-occitana, tanta influenza avrebbe avuto sulla civiltà europea dell'Età di Mezzo. Da Narbona a Montpellier, da Béziers a Tolosa, prosperavano scholae di medicina, di matema­ tica, di filosofia, di astrologia. La stessa «scientia toletana», così im­ portante nella formazione di Gerberto d'Aurillac - il «Papa mago)) Silvestro II (999- 1 003) -, aveva oltrepassato da secoli la catena pire­ naica. Figli di un mondo aperto, i dottori arabi ed ebrei traduceva­ no alacremente le opere di Aristotele, concorrendo alla divulgazione di dottrine filosofiche che, con la proscrizione ordinata a Parigi nel sinodo provinciale del 1 2 1 O, la Chiesa aveva inizialmente aborrito e solo all'insegna del «corrigantur et expurgentun) aveva poi sottopo­ sto ai chierici della Sorbona ( 1 23 1 ) . Le stesse speculazioni dell'Alta Scolastica, arduo tentativo di conciliare i dogmi di fede con i detta­ mi della ragione, ebbero radici nelle opere di Avicebron e di Mosè Maimonide, filosofi che, basandosi sulla versione araba del IX seco­ lo della Teologia di Aristotele, si erano sforzati di superare la contrap­ posizione tra razionalismo e misticismo sostenendo che i fenomeni del mondo costituiscono la manifestazione di forze spirituali. La stessa cabbala - la mistica d'Israele - fioriva rigogliosa nel­ le città occitane. Coltivata nei cenacoli giudaici della Linguadoca

e della Catalogna, esercitò per secoli la sua influenza sul pensiero filosofico europeo. Arnaldo da Villanova, Giovanni Reuchlin, Pico della Mirandola, Paracelso, Jakob Bohme, Georg Gichtel, Robert Fludd seppero accoglierne l'insegnamento senza tempo, sicché, malgrado gli orrori della Controriforma, nonostante l' accanimen­ to della Santa Inquisizione, l'ombra dei custodi del Sod (il senso spirituale della Scrittura ebraica) si staglierà in Occidente ancora all'epoca dei Lumi. Un'autentica rivoluzione s'era compiuta, dunque, nel Miègjorn; una rivoluzione all'insegna di quei valori cortesi che, esaltati nelle liriche dei trovadori, riflettevano una sensibilità e uno stile di vita radicalmente opposti all'etica guerriera della società feudale: sicché, in una regione in cui la donna era in tutti i sensi uscita dalla «ca­ mera delle signore» («domicilio coatto>>, la definì Georges Duby); in una terra in cui, libere di «cantare e di dire», sì numerose furono le donne nelle colte file dei trovadori, non meraviglia la loro massic­ cia adesione a un movimento spirituale che, riscattandole dal muto ruolo di «virgo, vidua, mater» e dall'avvilente cliché dell'«Eva instru­ mentum diaboli», le riconosceva quali virtuali depositarie della gnosi (l'«entendensa de be.>) e, con essa, dei misteri divini. *

Fu, dunque, l'assolato «Paese d' oc» la regione transalpina più colpita dall'eresia. Se, infatti, nei paesi franchi il cattolicesimo si era da tempo consolidato quale religione di Stato, nelle terre meridio­ nali, che avevano adorato deità celtiche e puniche, s'erano nutrite d'arianesimo visigoto ed erano state influenzate dall'islamismo e dal giudaismo, la libertà di culto era pressoché assoluta e si accompa­ gnava a un atteggiamento disincantato e critico (quando non pure diffidente o decisamente ostile) nei riguardi della Chiesa di Roma e dei suoi disinvolti ministri. A più di trent'anni dalla missione di Bernardo, i delegati pa­ pali recatisi in Linguadoca erano stati costretti a deporre il prima­ te d'Occitania, Pons di Narbona, per la sua scellerata gestione dei beni diocesani. Un successore del metropolita, Berengario II, fu a

sua volta deposto da papa Innocenzo III come «causa d'ogni male» del clero occitano. Sprezzante dei suoi doveri pastorali, quest'uomo che, a parere di lnnocenzo, non conosceva «altro Dio che il denaro» e «al posto del cuore» aveva «una borsa», a tredici anni dalla sua nomina non aveva ancora visitato la sua provincia e neppure la sua diocesi. Aveva, inoltre, preteso sonanti monete d'oro ( «solidos qua­ dringentos») per consacrare il vescovo di Maguelonne. «Una volta», aggiunse il papa, «c'erano diciotto canonici nella chiesa di Narbona; ora, per la sua negligenza o per la sua malizia, il loro numero si è di­ mezzato. Per appropriarsi, infatti, delle prebende, regge lui stesso gli arcidiaconati vacanti»; e «poiché la malattia del capo si propaga alle membra, molti monaci e canonici regolari, dismesso l'abito religio­ so, convivono pubblicamente con cortigiane ifocarias), esercitano l'usura, fanno gli avvocati o i giudici secondo precise tariffe e usur­ pano l'ufficio dei medici». Quest'«esempio di perdizione», concluse Innocenzo, genera «scandalo nel popolo e l'insulto degli eretici». 1 'il «A dels lobasses !» («Ah, che lupi voraci!») dirà il «credente» Pie­ tro Mauri, e quanto fosse disprezzata una Chiesa che, come scrisse lnnocenzo III, era divenuta «la favola dei laici», lo attestano le pa­ role di Guglielmo di Puylaurens. Nella sua Historia Albigensium, Guglielmo annotò che le funzioni ecclesiastiche ispiravano ormai ai laici un tale disprezzo da essere divenute oggetto di locuzioni impre­ cative: si diceva, ad esempio, «preferirei essere cappellano piuttosto che fare questa o quell'altra cosa (mallem esse cappellanus quam hoc ve! illud focere)». «I chierici», aggiunse Guglielmo, «tenevano ben celate in pubblico le loro piccole tonsure», e «raramente i signori destinavano i propri figli al sacerdozio». 1 'i4 Guglielmo Belibasta, irridendo la vergognosa pratica delle indul"·'

INNOCENZO 355-357.

m,

Epistolae, L VII, ep. LXXV, in MIGNE, P L. , CCXV, coli.

1 ;, « .. . Capellani autem tanto contemptui habebantur a laicis, quod eorum nomen, ac siJudaei essent, in juramentum a p/uribus sumebatur; unde, sicut, dicitur, mallem esse fudaeus, sic dicebatur, mallem esse cappellanus quam hoc ve/ illud facere [. . . ] Clerici quoque si prodirent in publicum, coronas modicas propefrontem pilis occipitis occultabant. Milites enim raro suo Liberos clericatui offirebant. . . » (GUGLIELMO DI PUYlAURENS, Historia Albigensium, cit., in BOUQUET, Ree. , XIX, pp. 1 93- 194).

1 53

genze, dirà che il Papa «è veramente un Papa perché tutto si pappa (quia Papa papat)»; 1 '"' e forse non è un caso che un suo celebre con­ temporaneo, quell' «Exul inmeritus» che, deprecando la «dote>> del , accuserà Roma di (Par., IX, 1 30- 1 32): il fiorino.

1 11

«Per Dio, per Dio», celiava, (in FLOSS [a cura di] , Il caso Belibasta, cit., pp. 98-99). 1 54

Capitolo XII I

«BON OME»

«Padre Santo, Dio legittimo degli spiriti buoni, che non hai mai ingannato né mentito né errato, né esitato per paura della morte a discendere nel mondo del Dio straniero -perché noi non siamo del mondo né il mondo è nostro -, concedi a noi di conoscere ciò che tu conosci e di amare ciò che tu ami>>. (Preghiera catara)

Lorganizzazione gerarchica della «Chiesa di Dio» non differiva molto da quella di Roma: se è quanto meno dubbia l'esistenza di un papa cataro - ne parlarono, fra gli altri, gli eretici giustiziati nel 1 1 43 -, è tuttavia acclarata la suddivisione in diocesi rette da un vescovo. Come scrisse Raniero Sacconi, «Gli ordini dei Catari sono quattro. Chi è nel primo e massimo ordine, è chiamato vescovo (episcopus). Chi è nel secondo, figlio maggiore (filius maior). Chi fa parte del terzo, figlio minore (filius minor). Chi è nel quarto e ulti­ mo ordine», infine, «è detto diacono (diaconus)». Gli altri, «quelli di loro che non sono stati ordinati (qui sunt inter eos sine ordinibus), sono chiamati cristiani e cristiane». 1 )(, Additati quali esempi di coerenza evangelica, i vescovi erano og­ getto di autentica venerazione da parte dei fedeli. Alla loro morte as­ surgevano all'episcopato i «figli maggiori». Questi venivano ordinati dai «figli minori», i quali, consacrati dal nuovo vescovo «figli mag­ giori», invitavano la comunità dei «credenti» a designare un altro «minore». Poiché, però, appariva incongruo «che il figlio istituisse "1'

RANIERO SACCONI, Summa de Catharis, cit., ed. A. DONDAINE, Un traité néo­ manichéen du XIIIe siècle, ci t., p. 68. 1 55

il padre)), i Catari dell'Occidente (« . . . morantibus citra mare))) stabi­ lirono che l'ordinazione episcopale fosse fatta dal vescovo prima di monre. Coadiuvati, quindi, dal e dal , i vesco­ vi affidavano la gestione di una parte della diocesi ai cosiddetti «or­ dini)) - i diaconi - i quali, assimilabili agli arcidiaconi della Chiesa di Roma (oggi primi dignitari: del capitolo cattedrale, un tempo vicari: del vescovo), impartivano il «battesimo di Cristo)), organizza­ vano la predicazione itinerante, gestivano le foresterie per i «fratelli stranieri)) e, una volta al mese, ascoltavano la pubblica confessione dei peccati veniali commessi dai «christiani)). Le loro diocesi, coincidenti o meno con le diverse Chiese a cui aderivano i membri della > (vd. supra, cap. I), e Goffredo d'Auxer­ re, disceso con san Bernardo nel Tolosano, aveva parimenti bollato alla maniera d'oltre Loira - «tessitori>> - coloro che in loco venivano chiamati «Ariani>> (« . de textoribus, quos Arianos ipsi nominanP>). 1 '7 Ecberto di Schonau, che li aveva conosciuti quando era canonico a Bonn, aveva a sua volta scritto che gli eretici, chiamati e, «nelle Fiandre, Piphles>>, in «Gallia>> venivano denominati «Tessitori, per l'esercizio dell'arte della tessitura>> (« Texerant, ab usu texendù>). 1 Il termine si era, del resto, diffuso anche nel Paese d' oc - «teis­ serands>> -, e ancora nel marzo del 1 246, deponendo a Fanjeaux, la «credente>> Guglielma Martina dichiarò che quando era giovane li «adorava>> e che da loro - i «tessitori>> - aveva ricevuto più volte pane e noci. 1 '9 Ma se è vero che dal loro lavoro ricavavano «tutto il necessario per vivere>>, senza possedere «casa, né campi, né proprietà alcuna>>, non si deve pensare alla loro Chiesa come a una Chiesa povera, priva di mezzi e di risorse. Non, almeno, prima delle persecuzioni e della Crozada. Le fonti ci parlano, infatti, di case di formazione e di preghiera, di prosperi laboratori artigianali, di alberghi e di foresterie, di campi e di vigneti, di danaro e valori mobiliari, appartenenti a simpatiz­ zanti e a «credenti>> o, nei periodi di relativa libertà, alla stessa Sancta Gleisa. Non ci deve, quindi, sorprendere l'imponente documenta­ zione relativa all'attività repressiva di ordine economico, con le di­ struzioni e le vendite di beni confiscati dagli inquisitori che, colpen.

.

'iH

1 '7 GOFFREDO o'AUXERRE, Epistola Gauftidi monachi Clarae-Vallemis, ci t., in MI­ GNE, P L. , CLXXXV, col. 41 1 . 1 'H Cfr. ECBERTO DI SCHONAU, Sermones, cit., in MIGNE, P L. , CXCV, col. 13. 1 19 In KOUDELKA (a cura di), Monumenta Diplomatica S. Dominaci, cit., p. 1 79. 1 57

do anche gli interessi dei parenti e dei fiancheggiatori, evidenziavano l'intenzione di fare terra bruciata attorno agli inquisiti e di privarli, con i mezzi materiali di sostentamento, dell'aiuto di coloro che le fonti definivano ((defensores)) , ((receptatoreS>> o ((celatoreS>>. l r.o

*

Naturalmente, il dinamismo economico di questi dissidenti del­ lo spirito, che non disdegnavano i rapporti con le banche, gli in­ vestimenti in società in accomandita e l'esercizio di un commercio ambulante che consentiva loro un facile mascheramento dell'atti­ vità pastorale itinerame, venne aspramente criticato da chi, come i Valdesi, pur condividendone il fervente evangelismo, ne disprezza­ va il presunto affarismo: ((Indubbiamente vi siete allontanati dalla fede apostolica e dalle sue opere)), tuonò uno di questi araldi della ((forma sancti Evangelii»: ((Non risulta da nessun luogo del Nuovo Testamento che gli apostoli fossero mercanti e che girassero per le fiere a concludervi affari mondani e che si sfiatassero per ammassare danaro, come fate voi)). Ma questo preteso ammassamento di dana­ ro - risorse per lo più gestite da banchieri e fiduciari o, nel fosco pe­ riodo delle persecuzioni e della clandestinità, prudentemente celate nelle grotte e nelle foreste - non mirava al personale arricchimento dei ((perfetti», il cui rigore e la cui coerenza, come attestano insospet­ tabili fonti di parte cattolica, furono testimoniate dalla risolutezza con cui rifiutavano l'abiura e dal coraggio con cui affrontavano i roghi: serviva, semplicemente, alla problematica sopravvivenza di una Chiesa braccata e ferocemente combattuta che, quando l' ((idra manichea» fu decollata nel ((serpaio di eretici)) che per i ministri di Roma erano divenuti il Lauraguais e l'Alto Ariège, vide confluire molti dei suoi figli migliori nell'altra grande patria d'elezione del dualismo latino: l'Italia del Nord, e in particolare la Lombardia. Quando, nel marzo del 1 244, la capitolazione della rocca pire­ naica di Montségur decapitò la dirigenza albigese, l'ingente tesoro 1 1'0

«Receptaton> era chi avesse consapevolmente ospitato degli eretici. Erano, in­ vece, «celatoreS>> quanti si fossero imposti di non farne i nomi.

custoditovi, già posto parzialmente in salvo tre mesi prima, quan­ do gli eretici Matteo e Pietro Bonnet, !asciandone le mura, porta­ rono via «aurum et argentum et pecuniam infinitam», fu trafugato da altri quattro correligionari, i quali, «nascosti sotto terra» con il consenso di Pietro Ruggero di Mirepoix (il comandandante della guarnigione), furono «extracti» da Montségur e fatti fuggire la not­ te successiva al rogo che annientò gli sventurati compagni. Il loro scopo, secondo il cavaliere Arnaldo Ruggero di Mirepoix, era quello di salvare il > (ANSELMO or LIEGI, Gesta episcoporum Leodiensium, in MGH,

cit., p. 228). 166

*

Non si trattava, però, solo di asceti «con tanto di barba». Parlando delle donne che li affiancavano, Evervino di Steinfeld aveva scritto che alcune di loro - «vedove», «vergini» o comunque votate alla continenza - appartenevano al carismatico novero degli «eletti» (« . . quasdam inter electas, quasdam inter credentes»): 1 7 1 sollevate, quindi, dalla posizione di inferiorità in cui la Chiesa si ostinava a relegarle 1 72 e, protagoniste del proprio itinerario di salvezza, soggetti attivi di esperienza religiosa. Non poco, in una cristianità in cui le parole fede e morale erano declinate al maschile e la sola via spirituale aper­ ta alle donne era quella del chiostro. Naturalmente, il loro 'apparire' sulla scena religiosa, l'affranca­ mento dal muto ruolo di comparse, il rifiuto di un matrimonio che le voleva serve fedeli e supine fattrici, costituiva motivo di scandalo, fonte di illazioni e di gratuite maldicenze che conferirono alle don­ ne catare, accusate di fomentare il disordine e il degrado sociale, una patente d'immoralità a cui fu tutt'altro che estranea la propaganda ecclesiale. Goffredo d'Auxerre, di fronte all'asserzione catara che nel ma­ trimonio - «lupanare privato» - vi è comunque «fornicazione», si lasciò andare ad affermazioni malevole e tendenziose non dissimili da quelle di Salvo Burce, il polemista laico che nel Liber supra stella, datato 6 maggio 1235, sosterrà che «quando ci sono credenti che hanno moglie, se una di loro evita di congiungersi con un altro uomo non lo fa per timore di Dio, ma per timore dell'opinione del­ la gente. Se non avesse questa paura, non si porrebbe alcun freno e si darebbe certo ad altri uomini. E perché? Perché così si comportano .

n

EVERVINO DI STEINFELD, Ep. "laetabor ego", in MIGNE, ci t., coll. 679-680. Il Decretum Gratiani, canonistica compilazione completata nel 1 1 42 dal mo­ naco camaldolese Graziano, aveva infatti codificato l'«infirmitas sexuS>> (la > definivano, dunque, i Catari il matrimonio: una semplice forma di «associazione». Ma, ove si consideri che il «mistero grande» delle nozze si era ridotto a strumento di controllo e di pacificazione sociale mediante la «distribuzione delle femmine» e la successione in linea maschile dei patrimoni; ove si pensi che nel Medioevo il matrimonio era solitamente deciso dai genitori ed era per lo più caratterizzato dalla marcata differenza di età fra i coniugi - sicché i calcoli opportunistici prendevano quasi sempre il posto dei sentimenti -, non meraviglia che questi inflessibili asceti lo bol­ lassero come «meretricio» e sostenessero che la Chiesa, benedicen­ dolo e consacrandolo, si comportasse per ciò stesso «da mezzana»: «Ecclesia erat leno, et committebat in hoc lenocinium». Di fatto, risolvendosi il più delle volte in un mutuo scambio di prestazioni, il «remedium concupiscentiae>> non era lontano dal con­ tratto vassallatico; ma, nucleo del tessuto sociale e modello dell'or­ dine costituito - al marito, ricordò lncmaro arcivescovo di Reims (t 882), spetta la > del contratto matrimoniale; il «servo della gleba>> (ossia della zolla) veniva alienato insieme al fondo.

173

Capitolo XIII ((RFNF. STAGF. MA DONA HORIF.NTF.))

>. 17 6

«razionale campo» del Signore; sicché non sorprende che Rodolfo di Coggeshall, parlando del 'salto' che la «magistra)) della fanciulla bruciata a Reims aveva fatto da una finestra dell'arcivescovado aveva osato definire «insensati e giudici ingiusti)) i suoi implacabili accusatori -, avesse accostato il «volo)) della «maleficm) a quello di Simon Mago. La donna si sarebbe «involata)), infatti, grazie a un magico «glo­ mum filù, mentre la fanciulla Il presente e da lei iniziata all'eresia, non essendo .«tanto avanzata nella follia della sua setta)) e, quindi, più razionale, era rimasta inchiodata al suolo. 1 KJ Nulla era però riu­ scita a smuoverla dal suo ostinato rifiuto dell'abiura: «né l'offerta di danaro)), né - di nuovo - «la persuasione del raziocinio)). Due secoli dopo, a Milano, durante un processo per stregoneria, una donna di nome Sibillia, moglie di un certo Lombardo de' Fra­ guliati di Vicomercato, dichiarò all'inquisitore Ruggero da Casate che il giovedì sera incontrava un'enigmatica figura - «Oriente)) -, la quale, indovina e maestra dell'occulto, presiedeva a dei raduni in cui erano presenti tutti gli animali esistenti tranne l'asino, che - si legge nel verbale - > avrebbe continuato a dilagare fino alla battaglia di Benevento (1 266), quando, con la sconfitta del «bennato» re Manfedi, s'infransero le residue speranze ghibelline. Solo occasio1 97

nalmente, infatti, il Papato e l'Impero, contrapposti nello stermi­ nato campo di battaglia che furono politicamente le città italiane al tempo dello scontro fra Gregorio IX e Federico II di Svevia, unirono le loro forze nella repressione dell'eresia; ed è in tal senso paradigma­ tica l'iscrizione campeggiante nell'altorilievo antelamico del Palazzo della Ragione, che, fatto costruire a Milano dal podestà Oldrado da Tresseno nel 1 233 - anno in cui il «negotium pacis et fidei» venne affidato ai Predicatori - esaltava «i meriti» del cittadino lodigiano che, zelante . Papa Niccolò III ( 1 277- 1 280) fu certo soddisfatto: lodò Alber­ to, ormai signore di Verona, e revocò la scomunica fulminata da !l!

Nel 1 224, una constitutio federiciana specificamente diretta contro gli eretici lombardi aveva istituzionalizzato la pena del rogo () e undici anni prima, nel 1 2 1 3, Roma aveva bandito una cro­ ciata contro gli eretici milanesi. . . .

Clemente IV ( 1 265-1 268) sulla città scaligera quando, nell'otto­ bre del 1 267, i Veronesi avevano festosamente accolto Corradino di Svevia. *

Anche le terre d'Aragona, di Navarra e di Castiglia furono in­ festate dalla «gramigna» ereticale. Giacomo I (t 1276) , sotto la cui autorità era la Corona comitale di Barcellona, spronato dalla Santa Sede convocò nel 1 232 un decisivo concilio a Tarragona, che, su impulso del metropolita della città catalana, generalizzò l'Inquisi­ zione in Aragona e, quindi, in Navarra. Quanto alla Castiglia, indipendente dal 1 035 e, dal 1 2 1 7, «re­ gno di Castiglia e di Le6n», nel 1254 venne redatto El Fuero real, corpus di testi giuridici che, elaborato con l'aiuto del domenicano Raimondo di Pefiafort (giurista di grande fama che raccolse, elabo­ randoli, gli statuti antiereticali di Gregorio IX) , era stato fortemente voluto da Alfonso X il Saggio (t 1 284), il quale, fra una cantiga e l'altra in lode di Maria, concepirà le Siete Partidas. Terra di con­ solidata ortodossia, la Castiglia rosseggerà anch'essa di braci e di sangue.

1 99

Capitolo II «UNA

FEDE,

UNA LEGGE, UN RE» «Sine sanguine, nullum pactum».

Contrapposti, dunque, per la primazia nella christianitas, il Papato e l'Impero erano tornati a opporre l'antico patto d'acciaio a una dissidenza religiosa che, foriera di tensioni e disordini sociali, era stata combattuta sin dai tempi di Teodosio I (t 395) e Teodosio II (t 450), imperatori le cui disposizioni antieretiche, riprendendo i canoni conciliari di Nicea (325), Costantinopoli (38 1 ) ed Efeso (43 1 ) , avevano suggellato il processo di istituzionalizzazione del cri­ stianesimo già avviato con Costantino il Grande. Finiti i secoli della persecuzione e del martirio, i Cristiani aveva­ no infatti trovato nel fondatore della «nova Roma», che aveva impa­ rato a conoscere e rispettare il cristianesimo da suo padre Costanzo Cloro e, soprattutto, da sua madre Elena, un interessato campione dell'ortodossia attento a conciliare la nuova religione con i culti elia­ ci radicati nell'Impero. Nel tentativo, infatti, di salvare la romanitas, Costantino aveva reso ancora più assoluto il potere sovrano, tenen­ do saldamente in pugno le redini dell'esercito e sforzandosi di man­ tenere unite, sul piano politico e spirituale, le diverse componenti della compagine imperiale. In quest'ottica va letta l'influenza esercitata nello spostamento del Dies Natalis al 25 dicembre, giorno che, nel culto persiano di Mithra come in quello siriaco del Sol /nvictus, celebrava la rinascita del Sole nella settimana del solstizio invernale. Già Vario Avito Bassiano (t 222), più noto come Eliogabalo, aveva consacrato un tempio a una divinità solare assommante in sé tutti gli dèi (compreso, forse, il Dio dei Cristiani), e Lucio Domizio Aureliano (t 275), fautore di una sorta di monoteismo solare come i suoi predecessori Gallieno e Claudio II il Gotico, il 25 dicembre 274 aveva fatto innalzare nel Campo di Marte un altro imponente tempio al Sol /nvictus Dominus lmperii Romani. 200

Fino al 324, del resto, il signum del Sol Invictus aveva continuato a rilucere sulle monete dell'Impero, e lo stesso monogramma del Cristo, il dorato chrismon che a Crisopoli (presso Calcedonia) cam­ peggiava sul purpureo stendardo dei reparti costantiniani, iscrit­ to in un duplice o triplice cerchio aveva seguitato a rappresentare l'equivalente cristiano della «ruota solare», eliaco simbolo associato all'immagine del «Kronocrator>> (Cristo Signore del Tempo) e, quin­ di, scandito dalla croce assiale. Ad ogni modo, con l'editto di Milano (3 1 3) Costantino riabilitò la religione cristiana - l' «exitiabilis superstitio» dello storico romano Tacito -, adottando misure riparatrici e concedendo ai « Christianoi» («quelli del Messia») la piena libertà di culto. Meno di settant'anni dopo, Teodosio I elevò a «sola religione» dell'Impero quella «che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani» , ma, attento come Costantino a sfruttare a beneficio dello Stato le grandi risorse organizzative e spirituali delle comunità cristiane, curò che le diocesi ricalcassero le circoscrizioni amministrative e che i vescovi provenis­ sero in larga maggioranza dalle file del patriziato. Correlativamente, diede inizio alla sistematica persecuzione dei seguaci delle religioni politeiste (definiti poi «pagani» da pagus, «villaggio», perché costret­ ti a rifugiarsi nelle campagne) che indurrà sant'Ambrogio, vescovo di Milano (t 397), a sospenderlo dalla comunione dei fedeli a causa dei suoi eccessi. Nasceva allora, per dirla con Eusebio di Cesarea, la «teologia dell'impero cristiano». Al fine, infatti, di assicurare l'unità spirituale e dottrinale della Grande Chiesa, si era avviata l'èra dei sinodi universali, èra che, in un'epoca di forti contrasti fra le eterogenee correnti che fiorivano nella comunità cristiana, fu contrassegnata dallo sforzo teologico di demarcazione o consolidamento dei confini dell'ortodossia. Una pietra miliare venne posta, in tal senso, dal Concilio di Nicea (l' at­ tuale Iznik, in Asia Minore), dove, allo scopo di combattere l'eresia di Ario, nel 325 fu formulato il dogma trinitario. 2 1 3 2u

Ossia i l solenne riconoscimento della divinità di Cristo (>, sosteneva­ no, non è di questo mondo - dipenda dalla «retta condotta>> sug­ gerita dalla «retta conoscenza>>. Quanto, poi, questa «conoscenza>> potesse (e dovesse) essere divulgata o, al contrario, custodita e serra­ ta dai sette mistici «sigilli>>, fu problema avvertito e affrontato nel­ lo stesso àmbito ecclesiale, dove l'esigenza di un plurimo livello di accesso alle verità sapienziali, correlativo alla maturità spirituale del credente e alla sua più o meno ferma volontà di ascesi, sarebbe stata riaffermata da personalità della statura di Clemente d'Alessandria e di san Basilio il Grande. m

m Furono, però, soprattutto i dottori gnostici a insistere sulla necessità di tenere distinti i «catecumeni>>, soggiogati dal peso delle passioni e incapaci di elevarsi alla visione diretta dei > ( 1 2 1 1 ) , si arricchì con l' espoliazione dei numerosi foidits, i signori spossessati e proscritti della Linguadoca. Fu, appunto, a Prouille che, per il domenicano Stefano di Salagnac (t 1 290), Domenico proferì la sua terribile minaccia: «mo­ biliteremo contro gli eretici prìncipi e re e, vane le armi spirituali, faremo distruggere le città)). m

21"

Acta Sanctorum, Mensis Augustus, l, cit., p. 4 1 5 . 212

Capitolo IV PAX CHRISTI, PAX ROMANA

«Costringili a entrare». (Le 14, 23)

La «parola» aveva quindi esaurito la sua funzione. Era tempo di passare ai fatti, e l'ambizioso Innocenzo III, definito da Gregorovius «l'Augusto del papato», aveva già fatto ricorso all'analogia per accu­ sare di lesa maestà chiunque disattendesse il magistero di Roma. «Se la legge commina la morte e la confisca dei beni ai colpevoli di lesa maestà», si legge nella bolla « Vergentis in senium» (25 marzo 1 1 99), «così la Chiesa separa da Cristo e spoglia dei propri beni coloro che, sbagliando nella fede, offendono Dio nella persona di Cristo»: «è ben più grave», infatti, «offendere la maestà eterna che quella temporale» . Massima espressione giuridica dell'ideale ierocratico pontifi­ cio, la decretale ridefinì la portata politica dell'appellativo «vicarius Christi» e, trasformando la dissidenza religiosa in un'«offesa» alla «maestà di Dio)) ' condusse alle estreme (quanto logiche) conseguen­ ze la linea tracciata da Gregorio VII, il quale, nelle proposizioni 220

!!o

> (da cui «cocanha>>) donde si ricavava il colorante azzurro venduto a peso d'oro ai produttori di panno del Nord Europa - farà per secoli la fortuna di tanti agricoltori e dei «maestri pastellieri>>. 222

nante, per i contemporanei - investì come un uragano le atterrite popolazioni del Miègjorn. Cinquantamila uomini, secondo Pietro di Vaux-de-Cernay. Ventimila cavalieri e duecentomila fanti, scris­ se Guglielmo di Tudela. ((Da ogni parte delle Gallie», si legge nel Chronicon di Guglielmo di Nangis, ((vescovi, cavalieri, baroni e un infinito numero di persone del volgo, presa la croce contro gli ere­ tici albigesi, nel mese di giugno convennero presso la città di Lione e marciarono verso la Provenza, preparandosi a combattere con ani­ mo acceso questi uomini pestilenziali e transfughi della fede [ ] Per prima cosa assediarono ed espugnarono la città di Béziers, e, senza riguardo per il sesso o per l'età (nulli sexuiparcentes ve! aetatt), ne trucidarono tutti gli abitanti, dal più umile al più illustre . . . » 23 1 Quando le venne, infatti, intimato di consegnare i duecento­ ventidue eretici censiti dal vescovo Rinaldo di Montpeyroux, la cit­ tà fece quadrato attorno ai suoi figli. Sicché, allorché si chiese ad Arnaldo di Citeaux come distinguere i Cattolici dai Catari, il legato apostolico pronunziò la sua terribile sentenza: ((Massacrateli tutti, il Signore conosce i suoi». Parole atroci, messe più volte in dub­ bio; ma che il cistercense Cesario di Heisterbach (t c. 1 240) non avesse inventato né travisato in alcun modo le parole del prelato, lo dimostra la missiva con cui quest'ultimo, immediatamente dopo la carneficina, riferì compiaciuto al pontefice che non s'era avuto riguardo né per l'età, né per il sesso: ((La città di Béziers fu presa, e poiché i nostri non guardarono alla dignità, né al sesso, né all'età, quasi ventimila persone morirono di spada. Fatta, così, grandissima strage di uomini, la città venne saccheggiata e bruciata: in questo modo la colpì il mirabile castigo divino (ultione divina in eam mira­ bi/iter saeviente))).m Ventimila persone o no, si consumò un'orribile carneficina quel 22 luglio 1 209: un terribile giorno in cui le campane di Béziers con­ tinuarono ossessive a sonare a stormo. Ma neanche la soglia delle chiese, dove donne e fanciulli terrorizzati avevano tentato di sfug. . .

2·11 2·12

GUGLIELMO DI NANGIS, Chronicon, in BOUQUET, Ree., XX, pp. 752-754.

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Innocentii III P. P. Regestorum l. XIL ep. CVIII («De victoria habita contra hae­ reticos»), in MIGNE, P. L., CCXVI, col. 1 39. 223

gire al massacro, riuscì a fermare la furia dei carnefici. Rifugiatisi «nella grande chiesa di San Nazario)), furono tutti passati «a fil di spada)): compresi «los enfons que popavan)).m Resi folli dalle urla e dal sangue che scorreva per le strade, mar­ ginali e routiers si scatenarono come belve inferocite fra le barricate della città in fiamme. Ma non furono da meno i nobili cavalieri di Francia, se cacciarono la canaglia «a colpi di bastone)) al solo scopo di spartirsi il bottino. Fu un massacro che mise a dura prova l'autorevolezza morale della Chiesa. Un olocausto consumato sull'altare delle libertà di fede e di pensiero. Stretti a difesa della «Patria Occitania()>, Cattolici e Catari combatterono fianco a fianco. *

All'indomani del sacco di Béziers, angoscia e orrore dilagarono come una fiumana rovinosa. Secondo Guglielmo di Tudela, «i ba­ roni di Francia, chierici, laici, prìncipi e marchesi» avevano stabilito che gli abitanti dei castelli che non si fossero arresi prima di capito­ lare, sarebbero stati tutti «passati a fil di spada)), «nella convinzione che nessuno avrebbe opposto resistenza, per la paura che avrebbe preso chi avesse visto quel che accadeva))Y" Il comando delle operazioni militari era stato assunto da Simone di Montfort, diretto vassallo della Corona la cui fama era stata im­ mortalata da Goffredo di Villehardouin: « . . . Si fecero crociati due grandissimi baroni di Francia, Simone di Montfort e Rinaldo di Montmirail. Grandissimo fu il discorrere per terre e paesi quando questi signori presero la croce)). La cronaca si riferiva alla IV Crociata ( 1 204), nella quale l'indomito Simone, allorquando le pressioni di Enrico Dandolo e le profferte del nipote del basileus Isacco II (deZ.l.l Histoire de la guerre des albigeois, écrite in languedocien par un ancien auteur anonyme, éd. DOM BRIAL, in BOUQUET, Ree., XIX, pp. 1 2 1 - 1 22. 2.''

«Uccidono chiunque incontrino>>, scrisse l'autore della prima parte (!asse 1 - 1 3 1 ) della Camo de la Crozada a riguardo dei , e che, senza armatura ma , affiancavano i crociati in numero di . 224

tronizzato da una rivolta di palazzo) indussero i Latini ad attaccare Zara e Costantinopoli, fu tra coloro che rimasero fedeli agli scopi della spedizione: liberare il Santo Sepolcro. Pervaso da una pietas religiosa forte quanto fanatica e supersti­ ziosa, Simone, definito «religiosissimo e pronto a battersi con tutte le sue forze contro l'eretica pravità», fu dipinto da Guglielmo di Tudela come «ardito e bellicoso, savio ed esperto, buon cavaliere e generoso». Pietro di Vaux-de-Cernay gli dedicò un autentico pa­ negirico: «era di nobile stirpe, di grande valore, esperto nell'uso di tutte le armi, [ . . ] amabile camerata, uomo castissimo, di straordinaria umiltà [ . . ] , fermo nei propositi, prudente nelle valutazioni, equo nel giudicare, zelante nell'addestrarsi, circospetto nelle sue azioni, [ . . ] completamente assoggettato al servizio divino . . . » 2 y; Ma è inequivocabile il tenore della missiva che lnnocenzo III, attento a non inimicarsi la Corona aragonese, gli invierà il 1 7 gennaio 12 13: «L'illustre re d'Aragona ci fa notare che tu non ti sei scagliato solo contro la pravità degli eretici, ma hai mosso guerra anche contro po­ polazioni cattoliche; hai sparso sangue di innocenti e hai occupato a loro danno le terre dei conti di Foix, di Comminges e di Gastone di Béarn, suoi vassalli, [ . . ] e poiché il Re intende muovere in armi contro i Saraceni e Noi non intendiamo privarlo dei suoi diritti né distoglierlo dai suoi lodevoli progetti, ti ordiniamo di restituire a lui e ai suoi vassalli le terre invase, per il timore che, detenendole ingiustamente, si possa dire che tu hai combattuto per tuo profitto (ad tuum specialem profectum) e non per la causa della fede». 2·J(, Di fatto, Simone passò alla storia come «il Macellaio del Mezzogiorno». Il conte di Tolosa, vuoi per salvare i suoi sudditi, vuoi per salva­ re se stesso, aveva immediatamente «fatto penitenza>>. Dopo avere .

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2.1;

«.

Erat genere praeelarus, virtute robustus, in armis plurimum exereitatus [. .] eontubernio amabilis, eastitate mundissimus, humilitatepraecipuus [. .. ] in proposito ftrmus, in eonsilio providus, in judicio justus, in militiae exereitiis sedulus, in suis aetibus cireumspeetus [. . . ] totus divinis servitiis maneipatu . . . >> (PIETRO DI VAUX-DE­ CERNAY, Historia Albigensium, cit., in BOUQUET, Ree., XIX p. 22). 2•11' Epistolarium Innoeentii III Papae l. XV, ep. CCXIII, in BOUQUET, Ree., XIX .

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p. 567.

22 5

infatti promesso al legato Milone il suo impegno a «sterminare» l'eresia, era entrato a torso nudo nella chiesa di Saint-Gilles, dove, tenuto per una stola messa al collo, si era fatto colpire dalla verga del prelato. Il conte si era tra l'altro impegnato a restituire i beni strappati alla Chiesa, a risarcirle i danni causati e a non conferire pubblici incarichi agli eretici e agli Ebrei. m I cittadini di Narbona, come quelli di Coursan, si affrettarono a giurare fedeltà alla Chiesa. I signori che non vollero sottomettersi, i cosiddetti faidits, abbandonarono rocche e dimore per rifugiarsi sulle montagne. Solo Raimondo Ruggero Trencavel, il giovane vi­ sconte di Carcassonne, decise di affrontare a piè fermo gli invasori. Ma non si aspettava un'estate così calda e povera di piogge. Si par­ lò di pozzi seccati dal calore, di mosche e di fetore d'ammalati, di «un'angoscia senza precedenti». Due settimane durò in tutto l'asse­ dio. Quest'«uomo perfido», si legge nel Chronicon di Guglielmo di Nangis, «vedendo la forza e l'audacia dei Cattolici e resosi conto che i suoi non erano in grado di resistere, scese a patto con i nostri». 2.1x Secondo Guglielmo di Puylaurens, si offrì volontariamente in ostag­ gio per consentire ai sudditi di lasciare incolumi la città. Guglielmo di Tudela racconta invece che il Trencavel, al quale era stato ve­ rosimilmente prospettato un onorevole compromesso, fu catturato fuori dalle mura e catturato con l'inganno. Privata, comunque, del suo signore, Carcassonne si arrese immediatamente. Gettato in una segreta, Ramon Roger morì il lO novembre 1 209. Forse il visconte fu assassinato; forse, come annotò Guglielmo di Puylaurens, «morl di dissenteria)). Di certo, dopo essere stati rifiuta­ ti dal conte di Nevers e dal duca di Borgogna - che preferirono tor­ narsene nei loro feudi - i suoi possedimenti furono offerti a Simone di Montfort. «Vedete quali miracoli compie per voi il Re del cielo>>, �.l-

Ricordo che Innocenza III, uomo che qualificava spregiativamente gli Ebrei come «figli della serva>> di David e non, invece, come sua diretta progenie, impose ai 'deicidi', associati a Caino, l'obbligo di rendersi riconoscibili attraverso un se­ gno cucito sulle vesti: la toppa gialla. Cepistolario innocenziano non era del resto immune dalle correnti accuse di profanazione dell'ostia e di omicidio rituale nei confronti dei Cristiani. 2JR GUGLIELMO DI NANGIS, Chronicon, in BOUQUET, Ree. , XX, pp. 753-754. 226

gli disse Arnaldo di Citeaux, «giacché niente può resistervi)). «Dei providentia)), Simone divenne visconte di Béziers e di Carcassonne. La Crozada procedette rapida e spietata. Nella cittadina di Bram, Simone fece mozzare il naso e cavare gli occhi al centinaio d'uomini della guarnigione. Ad uno soltanto fu lasciato un occhio: perché corresse ad ammonire Cabaret, successivo obiettivo dei crociati, del­ la terribile sorte riservatale in caso di mancata resa. Una dopo l'altra, furono travolte le roccaforti di Minerve, di Termes, di Albedun, di Coustaussa, di Puivert. A Minerve, i centocinquanta Catari identificati rifiutarono l'abiura e dovettero avviarsi al rogo. Con la caduta di Lavaur, cominciò l'invasione del Tolosano. Più di trecento «perfetti)) vi furono bruciati, nel più grande rogo collet­ tivo della crociata. Donna Geralda, la castellana, venne stuprata e gettata viva in un pozzo. Colpevole di aver protetto gli eretici, ver­ rà seppellita da un cumulo di pietre («acervus lapidum))). Era stato Simone di Montfort a consegnarla alla soldataglia. Nel frattempo, accusato di aver disatteso gli obblighi assunti a Sainr-Gilles, Raimondo VI subiva un'altra umiliazione: dopo aver protestato a lungo la sua innocenza - Pietro di Vaux-de-Cernay ri­ conobbe che la legazione apostolica non aveva alcuna intenzione di ammettere il conte a dimostrarla, e, di fatto, nel settembre del 1 2 1 0 gli fu chiesta una cifra così esorbitante da fargli dire che non avrebbe potuto pagare neppure «con tutta la sua contea>> -, dovette attendere «al vento)) il verdetto del 22 gennaio 1 2 1 1 . Come annotò Guglielmo di Tudela, il documento consegnatogli, oltre a imporgli di restituire il maltolto ai chierici, di cacciare i mercenari dalla sua terra, di smettere di proteggere «i perfidi Giudei)) e di arrestare entro un anno tutti gli eretici indicati dal clero, gli imponeva di non man­ giare «più di due tipi di carne)), di indossare «cappe grezze e scure)), di distruggere integralmente le fortezze sue e quelle dei suoi vassalli, di non abitare più in città, di consentire senza limiti il passaggio dei crociati sulle sue terre, di dare ogni anno quattro denari tolosani ai «pacieri)) e, dulcis in fondo, di imbarcarsi per la Terrasanta, di re­ starvi e di entrare nell'Ordine templare o in quello ospitaliero: una provocazione bella e buona. Raimondo, che secondo Pietro di Vaux-de-Cernay li piantò in 227

asso perché - superstizioso - era stato turbato da un cattivo presa­ gio, non degnò neppure di un saluto i legati apostolici: tornato nella sua Tolosa, sbandierò a destra e a manca il contenuto della senten­ za. Scomunicato dai legati, si vide confermare l' excommunicatio dal papa. Era il 1 5 aprile 1 2 1 1 . La Crozada mostrava il suo vero volto.

228

Capitolo

VI

«MONTFORT, MONTFORT!» «Reisme son, mas reis no ges, E comtat, mas no coms ni bar Las marchas son, mas nolh marques E.lh ric chastel e.lh bel estar Mas li chastela non i so». («Ci sono reami, ma non più re, Contee, ma non più conti né baroni Marche, ma non più marchesi Magnifici castelli e comode dimore Ma non ci sono più castellani>>.)

(BERTRAND DE BORN)

Nell'autunno del 1 2 1 2 furono convocati, a Pamiers, dei veri e propri stati generali. Si intendeva conferire alle terre occupate un nuovo assetto istituzionale e 'francesizzare' a viva forza le popola­ zioni locali. Allo scopo di «far regnare i buoni costumi», «spazzare via il lerciume eretico», >: «lavorano i conti e i cavalieri, i cittadini e le cittadine, i ragazzi e le ragazze, i sergenti e i fanti, tutti muniti di pala e di piccone [ . . ]. Di notte, tutti parte­ cipano ai turni di guardia: hanno disposto fiaccole lungo le strade, vi è strepito di tamburi, di campanelli, di trombe [ . ] E gridano: Tolosa! Che Dio la guidi e la custodisca e le doni Valore, l'aiuti, la custodisca e la protegga! E le dia il potere e la forza di riacquistare quello che ha perduto e di liberare Paraggio e di far risplendere la Gioia»: di liberare, cioè, quel «Paraggio» che il Montfort, insieme «a Roma e ai Predicatori», aveva ricoperto di «disonore» e di «ver­ gogna». .

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234

«Paraggi o è stato abbattuto», aveva detto a Raimondo VI il trova­ dare Guido di Cavaillon: «e se non si risolleva con voi, scomparirà per sempre». Questa era stata la fiera risposta del conte: «Se Gesù Cristo preserva la mia vita e quella dei miei compagni e mi rende Tolosa [ . ], mai più Paraggio si troverà nel disonore e nella miseria. Non vi è nessuno al mondo che sia così potente, tranne la Chiesa, da potermi sbaragliare; così grandi sono il mio diritto e le mie ra­ gioni che, se anche i miei nemici sono crudeli e orgogliosi, io sarò leone per chi mi si fa leopardo!»21 2 Sarà gioia, di nuovo, il 25 giugno 1 2 1 8 , quando, dopo otto mesi di inutile assedio, Simone di Montfort fu colpito al capo da una pietra. «Gli occhi, il cervello, i denti, la fronte e la mascella volaro­ no a pezzi ed egli s'abbattè al suolo, sanguinante e nero», e sùbito i «corni, le trombe [ . . ] e il clangore delle campane» rimbombarono con i tamburi «nella città e per le strade».24·1 Ma non esultarono a lungo i figli d'Occitania. Per rispondere ai successi di Raimondo, che aveva ripreso il Rouergue e l'Agenais, il figlio di Filippo Augusto scese in Linguadoca con un poderoso eser­ cito che a Marmande, unitosi alle truppe di Amalrico di Montfort (il figlio di Simone), si rese responsabile di un'orrenda carneficina. Finanche G uglielmo il Bretone, cappellano del re di Francia, scri­ verà che furono massacrati tutti i cinquemila abitanti, compresi «le donne e i bambini» (vd. supra, cap. 11). 244 I chierici - confermò Guglielmo di Tudela - predicavano e ordinavano «di distruggere ogm cosa». Il vecchio Raimondo rispose con la presa di Lavaur, di Montréal e del Quercy. Ma nel 1 222, dopo aver recuperato buona parte dei . .

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«•

Es tant grand mos dreitz e la mia razos que s'ieu ai enemics ni mal ni orgulhos, si degus m'es laupard, eu li seré leos!» ( Canso de la Crozada, lassa 1 54, vv. 1 2-27). w Secondo la Canso de la Crozada, la pietra che uccise Simone fu scagliata da una . .

cittadina di Tolosa. Diversa la versione di Guglielmo di Puylaurens. Il Montfort avrebbe fatto costruire una macchina bellica (> era perduta. Ma nell'aspra regione del Pay d' Olmes (Ariège) un'importante rocca­ forte catara turbava ancora il sonno degli inquisitori: Montségur. Meta da tempo di pellegrinaggi, la rocca si era trasformata in un'ar­ ca celeste per i bon ome e i faidits che, dal 1 240, si erano stretti «infra castrum» o sulle pendici della montagna. Secondo Guglielmo di Puylaurens, il «castello di Montségur [ . . . ] era pubblico rifugio di ogni genere di malfattori e di eretici, quasi sinagoga di Satana per la saldezza di una rocca che, collocata su un'altissima rupe, appariva inespugnabile . . . »2'(' 21 6

«Castrum Montis-Seguri [. .] erat publicum refùgium quorumlibet malefocto.

Già dal 1 2 1 5, pochi anni dopo l'inizio della Crozada, l'antico vil­ laggio di Montségur era stato popolato di famiglie catare. Nel 1 232, per volontà di Guidalberto di Castres, era divenuto «domicilium et caput>> della Gleisa di Tolosa. Qualche anno più tardi, quando più concreto si fece il rischio di un attacco militare, furono costruite rudimentali capanne in legno ai piedi della rocca. Si è discusso a lungo sulla controversa natura della singolare for­ tezza. Librata a milleduecentosette metri di altitudine - quasi un siderale vascello arenato sulle rocce -, era stata ricostruita intor­ no al 1 204 «SU istanza e preghiera di Raimondo di Mirepoix, di Raimondo Blasquo e di altri eretici». Così si espresse Raimondo de Perelha. Signore del sito, Raimondo parlò agli inquisitori di una precedente struttura andata in rovina (). Si è però dubitato che possa aver rivestito funzioni strategiche. La rocca era lontana da ogni importante via di comunicazione. La principale porta d'accesso, larga due metri e sguarnita di strutture difensive, si pone al di fuori dei dettami dell'architettura militare del tempo. Lo stesso inconsueto profilo, palesemente imposto dalla forma della rupe, è stato messo in relazione alla mistica del penta­ gono, ripetutamente effigiato nelle grotte di Ussat-les-Bains dove, caduta Montségur, si rifugiarono gli ultimi eretici dell'Ariège.m Fernand Niel, l'ingegnere francese che vi lavorò dagli anni Trenta fino a tutto il 1 960, considerò la rocca una sorta di tempio solare. Le sue aperture sarebbero, infatti, orientate in base alle posizioni eliache, caratterizzando l'insieme come una monumentale tavola zodiacale. Recenti ricerche dimostrano, però, che l'attuale configurazione della fortezza non si identifica con quella del castrum fatto ricostru­ ire da Raimondo de Perelha. Risalirebbe, invece, alla fine del XIII secolo, quando i re capetingi, impegnati a portare a termine l'unifirum et hereticorum, quasi sathane synagoga propter fortitudinem castri quod situm in altissima rupe inexpugnabile videbatur. . . » (GUGLIELMO DI PUYLAURENS, Historia Albigensium, cit., in BOUQUET, Ree., XX, p. 770). Y Ricordo, in particolare, il pentagramma scolpito nella cosiddetta «Chapelle de Bethléem» (Ornolac- Ussat-les-Bains).

cazione del Paese e a consolidarne le frontiere, eressero (o ristruttu­ rarono) presidi difensivi lungo il confine aragonese. Ad ogni modo, simbolo della resisténcia albigese, incarnò per se­ coli «làmna de l'Occitania». *

L assedio, iniziato nel 1 243, fu guidato dal siniscalco reale di Car­

cassonne e da Pietro Amelio, arcivescovo di Narbona: « . . . il venera­ bile monsignor Pietro Amelio, arcivescovo di Narbona, monsignor Durando vescovo di Albi e il siniscalco di Carcassonne, assediarono il castello di Montségur, nella diocesi di Tolosa». 2 '8 La decisione di prendere Montségur, tagliando quella che Bianca di Castiglia definì «la testa dell'idra», fu probabilmente presa nel Concilio di Béziers. In un'area di soli settecento metri quadri, ampliata appena dalle baracche e dalle grotte fatte attrezzare ai piedi del castello, si ammas­ sarono circa duecento «perfetti», decine di «credenti», il centinaio di uomini della guarnigione e i numerosi foidits che, con le loro famiglie, vi avevano da tempo trovato rifugio. Bisogna considerare che buona parte dello spazio a disposizione era occupata dalla ci­ sterna e dalle vettovaglie, e che ai «perfetti» e alle «perfette», guidati dal vescovo cataro Bertrando Marti, erano stati assegnati minuscoli alloggiamenti dove si recavano i «credenti» per lafractio et benedictio panis. Nativo di Cailhavel (Aude) , Bertrando era stato «figlio maggio­ re>> di Guidalberto di Castres. Lo affiancava Raimondo Aiguilher, filius maior del vescovo cataro del Razès che, quasi quarant'anni prima, aveva disputato su questioni teologiche con Domenico di Guzman. Nottetempo, nuclei di coraggiosi si inerpicavano sul «Pech» per dar man forte ai difensori. I contadini li approviggionavano di gra­ no e di legumi. Ma non tardarono, i crociati, a stringere le maglie della loro rete: sicché, dal febbraio del 1 244, sul «Pech de Monsegun> !>x

GUGLIELMO DI PUYLAURENS, Historia Aibigensium, cit., in BOUQUET, Ree. , XX,

p. 770.

non affluirono più né cibo né rinforzi. Pietro-Ruggero di Mirepoix dovette imporre il razionamento dei viveri. Il 1 5 febbraio si ricevette ancora una razione di fave. Il l o marzo, dopo un disperato tentativo di riconquistare il barbacane orientale occupato dagli assedianti, Rai­ mondo de Perelha e Pietro Ruggero di Mirepoix, realizzata l' inutilità della resistenza, avviarono le trattative per la resa. Bertrando aveva già dato il suo assenso: la fame, i lamenti dei feriti, i gemiti dei moribondi, il fetore dei cadaveri (che non potevano più essere inumati) non indi­ cavano altra soluzione. *

Ci si è interrogati a lungo sulla relativa mitezza delle condizioni imposte dai crociati. I soldati della guarnigione, assoggettati a blande penitenze, avrebbero conservato finanche il loro compenso. Gli stessi autori del massacro di Avignonet (che si annidavano fra i difensori della cittadella) avrebbero ottenuto il perdono di Roma. �nto agli altri, i non combattenti, chiunque avesse abiurato sarebbe stato condannato a pene moderate. La fortezza avrebbe dovuto essere consegnata alla Chiesa e alla Corona di Francia. Venivano inoltre concessi quindici giorni (verosimilmente richiesti dagli assediati) per prepararsi a lascia­ re il Pech.m Davvero sorprendente, se si pensa a quanto solitamente attendeva defensores, celatores e receptatores dei « Bulgri Forse i crociati erano stanchi. Forse ammiravano in cuor loro la tenacia e il coraggio degli assediati. Forse - ed è più probabile - c 'era­ no di mezzo i buoni uffici di Raimondo VII, che, scomunicato per la vicenda di Avignonet (di cui era stato ritenuto responsabile), era rientrato nella «comunione dei fedeli» il 2 dicembre 1 243. È certo che Pietro Amelio accordò tali imperate condizioni, ed è parimenti certo che, fino alla tragica mattina del 1 6 marzo, quando più di due»

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2'" Si è ipotizzato che, in occasione dell'equinozio di primavera (coincidente nel 1 244 con la fine della tregua concordata) , a Montségur venne celebrata la festa manichea del «Bema», solennità pasquale e, insieme, commemorazione del martirio di Mani. Ma lo stesso Ecberto di Schonau, al quale un eretico convertito avrebbe parlato di una festa catara in onore di Mani - la «Mali/osa» - precisò che quest'ultima veniva celebrata «autumnali tempore>> (ECBERTO DI SCHONAU, Senno­ nes, cit., in MIGNE, P. L. , CXCV, col. 1 6).

2 53

cento persone furono bruciate « ai piedi della montagna » , i crociati attesero pacifici la scadenza della moratoria. È inoltre acclarato che il 1 3 marzo - antivigilia della fine della tregua - ben ventuno «credenti» chiesero a Bertrando Mani e a Raimondo Aiguilher di essere ammessi al consolamento. Si votava­ no, in tal modo, a morte certa, giacché a nessun prezzo i «perfetti» avrebbero accettato l' abiura. Non meraviglia che per spiegare un simile gesto, per spiegare quel che spinse uomini e donne per lo più giovani ad affiancare i «buoni uomini» nell'ultimo tratto del loro tragico destino, siano state formulate ipotesi suggestive quanto avventurose. Si è sostenuto, ad esempio, che nella cappella del donjon si custo­ diva il «Santo Graal», «sainte chose» che, associata al Lumen Christi nel Roman de l'estoire du Graal, sarebbe stata oggetto di un rituale celebrato a Montségur nell'imminenza della scadenza della tregua. Il «graal» sarebbe stato trafugato la notte del 1 6 marzo, quando, provvisti di lunghe corde, quattro uomini avevano lasciato il Pech calandosi lungo la parete del versante occidentale. Ma, con buona pace dei mitografi alla Otto Rahn (t 1939) o dei neognostici alla Jules Doinel (t 1 902), quel che solo è acclarato è che il 1 5 marzo, prima che i crociati penetrassero nel perimetro del castello, quattro «perfetti» erano stati nascosti «Sotto terra» e fatti evadere il giorno successivo, quando, nottetempo, affrontarono la vertiginosa discesa. Esperti della regione del Sabarthès, sapevano dove cercare e preser­ vare quel che ancora restava del «tesoro della Chiesa degli eretici». Questo è ciò che affermano le fonti. Il resto è illazione o conget­ tura. Di certo, sull'enorme catasta di fascine preparata ai piedi della montagna - lì dov'è indicato oggi il «camp dels CrematS>> - salirono anche i neoconsolati Corba di Lantar (moglie di Raimondo de Pe­ re/ha) e la giovane figlia Esclarmonda; i foidits Bernardo di Saint­ Martin, Guglielmo di La Ilhe, Raimondo di Marceille e Brézilhac di 260

21'0

Il Doinel, inquieto animatore dei circoli occultistici parigini e, dal 1 890, «patriarca» di una sedicente «Chiesa Gnostica», sarebbe stato investito della sua dignità 'episcopale' nientemeno che dai vescovi del «Sinodo Albigese di Montsé­ gur», presentatisi durante una seduta spiritica tenutasi nel salotto della duchessa Maria de Mariategui (t 1 895). 254

Cailhavel; i sergenti d'armi Stefano Boutarra, Guglielmo Garnier, Raimondo di Tournebouix, Guglielmo Delpech, Pons Narbona e Arnaldo Domergue; il balestriere Raimondo di Belvis; lo scudie­ ro di Raimondo di Marceille, Guglielmo Narbona; le compagne di Pons Narbona e di Arnaldo Domergue, Arsendis e Bruna; le si­ gnore Guglielma di Lavelanet ed Ermengarda d'Ussat, nobildonna dell'Ariège; due mediatori d'affari, Arnaldo Teuly e Giovanni Rey; un mercante di Mirepoix, Pietro Robert. Anch'essi, invitati inutil­ mente a convertirsi, «furono brutalmente scacciati da Montségun>. Erano «all'incirca duecento», secondo Guglielmo di Puylaurens. «Duecentoventiquattro», precisò il domenicano Gerardo di Fra­ chet. Feriti e ammalati furono scaraventati sulle fascine. Gli altri vi salirono a spintoni. Per il cronista del Tarn, «passarono direttamente nelle fiamme dell'Inferno». *

La caduta di Montségur non pose fine al catarismo occitano. Molti furono, infatti, gli «Albigesi» che, rifugiatisi nelle città italiane, fecero ritorno oltralpe. Altri, osando sfidare lo «scandal», varcarono le Alpi al solo scopo di prepararsi a predicare in patria. È il caso dei fratelli Pietro e Guglielmo Autier, che, indottrinati in Lombardia, riorganizzarono la Chiesa catara nella contea di Foix. Il risveglio religioso che li vide protagonisti fu ben più che un colpo di coda dell' «idra» morente. Roma dovette, infatti, opporgli ben tre inquisitori - Goffredo d'Ablis, Bernardo Gui e Giacomo Fournier - e ne ebbe definitivamente ragione solo nel 1 329, quando, condannati al rogo Guglielmo ( 1 309), Pietro ( 1 3 1 0) e Guglielmo Beli basta ( 1 32 1 ), cessarono le persecuzioni scatenate dalla loro ap­ passionata predicazione. Giacomo Fournier, eletto papa il 20 dicembre 1 334, era stato maestro di teologia all'Università di Parigi. La sua grande erudizio­ ne, lo zelo «per la difesa della fede», la dimestichezza con gli idio­ mi locali - era nato in un'umile famiglia di Saverdun, nei pressi di Tolosa - ne avevano fatto un temibile inquirente che, abilissimo negli interrogatori, si sentirà dire da una «credente», già esamina255

ta dall'inquisitore di Carcassonne, che, se fosse stata torchiata così abilmente nella precedente occasione, non sarebbe stata costretta a una seconda audizione. Fu appunto questa vedova, Sibilla Peyre, a riferire la storia di Pie­ tro Autier, che, ben «a conoscenza di ciò che accade nella Chiesa di Roma» («sono stato notaio», ebbe a precisare), nel 1 296 era partito per la Lombardia accompagnato da suo fratello Guglielmo. Come gli aveva detto una sua amica quando ad Arques, insieme al marito Raimondo, Sibilla era in lutto per la perdita di una figlia, gli Autier erano chierici, persone ragguardevoli e istruite che avreb­ bero potuto recare loro conforto e salvare le loro anime. Sarebbero stati chiamati alla loro missione il giorno in cui Pietro, condivi­ dendo la lettura di un libro e sentendosi dire da Guglielmo che gli sembrava avessero perduto le proprie anime, gli aveva risposto: «Andiamo, fratello, andiamo a cercarne la salvezza». Di certo, la loro tensione spirituale era sincera, il loro ardore fuo­ ri discussione. Di suo figlio Giacomo, che accusava Roma di aver alterato il Nuovo Testamento, Pietro dirà che parlava con 'la bocca degli angeli'. «Era una gloria [ . . ] ascoltare i signori predicatori Pie­ tro e Giacomo Autier», sospirerà il «credente» Pietro Mauri, «perché loro sì sapevano predicare bene»; e, sottolineando la differenza con il «signore di Morella» (il rozzo pastore Guglielmo Belibasta) , rim­ piangerà «le be» che c'era «un tempo». 261 Questo il tenore delle prediche di Giacomo, giustiziato nel 1 309: .

«Ecco come si comportano i malvagi: Io che non sono nel giusto, se sono ricco, darò del danaro al giudice, il quale in virtù di esso giudicherà a mio vantaggio e condannerà quello che è dalla parte della ragione e non gli ha dato nulla. E tuttavia il Figlio di Dio ha detto di non giudicare gli altri, perché chi [lo farà) sarà giudicato. In tutta l'immensità del cielo e della terra non vi è realmente che un solo giudice veridico, il quale ha ordinato di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi>>.

261

In FLOSS (a cura di) , Il caso Belibasta, cit. , p. 1 07. 256

Si comprende quale valore avessero agli occhi dei «credenti» le memorie di questi «martiri oscuri». Uno dei pani benedetti da Giacomo Autier, si legge nell' Historia !nquisitionis di Philipp van Limborch (t 1 7 1 2) , fu conservato per anni da una certa «Geralda, moglie di Vitale di Tolosa)), che «ne mangiava di tanto in tanto)). Quando ricevette in dono un paio di guanti che, a quanto le fu detto, erano stati fatti per una «perfetta)), «li custodì per devozione)) e, ripostili in una cassapanca, «ci mise dentro il pane benedetto dal perfetto)). 262 Non fu da meno Pietro, integerrimo asceta che, ferreo nei suoi proponimenti benché nient'affatto torvo e contrito secondo i cano­ ni della prosopografìa ortodossa, era un uomo di amabile cortezia capace di dare uno scherzoso benvenuto al nipote arrivato tardi ad un solenne «consolament�). Rientrato in Francia nel 1 299, quest'uomo un tempo agiato e ri­ spettato, padre di sette figli, era divenuto un uomo in fuga, braccato dall'Inquisizione, costretto a muoversi per lo più di notte. «Non è da meravigliarsi se il mondo ci odia)), diceva ai suoi seguaci, «dato che ha avuto in odio nostro Signore e lo ha perseguitato insieme ai suoi Apostoli. Anche noi siamo odiati e perseguitati a causa della sua Legge, che osserviamo fermamente, e coloro che sono buoni e vogliono seguire con fermezza la loro fede si lasciano crocifiggere e lapidare quando cadono nelle mani dei loro nemici, come hanno fatto gli Apostoli, e rifiutano di rinnegare una sola parola della fede sicura che possiedono)). 2r'·1

Sarà coerente, Pietro Autier; sino alla fine. Secondo la testimonian­ za di un «credente)), mentre già crepitavano le fascine e il calore si faceva insopportabile, ebbe la forza di dire agli astanti che, se avesse potuto predicare ancora, li avrebbe convertiti tutti. Ma non fu da 2('2

CHistoria del teologo olandese, recante in appendice il Liber sententiarum Inquisitionis Tholosanae di Bernardo Gui (Historia Inquisitionis cui subjungitur Liber sententiarum Inquisitionis Tholosanae ab anno Christi MCCCVII ad annum MCCCXXII, apud Henricum Wetstenium, Amstelodami 1 692), fu ispirata dalla minaccia di una nuova intolleranza: quella calvinista. 2(,\ Cfr. ZAMBON (a cura di), La cena segreta, cit. , p. 89. 2 57

meno la fanciulla bruciata a Reims, che, come scrisse Rodolfo di Coggeshall, non s'era fatta piegare «né con la forza della ragione, né con l'offerta di danaro». «Come aveva già osservato nel secolo scorso lo storico protestan­ te Charles Schmidt, "uomini che, quasi sempre braccati, in fuga, assediati da mille pericoli, conservano nondimento la loro fede; uo­ mini che si gettano con gioia tra le fiamme dei roghi, possono essere degli entusiasti, mai degli impostori o degli ipocriti"». 2M E bene ha scritto Zambon che «La storia non ha forse ancora reso pienamente giustizia alla grandezza di questo movimento cristiano soffocato nel sangue e tra le fiamme. Esso fu senza dubbio una delle espressioni più pure e intransigenti della spiritualità medioevale». 26' Eppure, c'è chi parla ancora di «Setta feroce e sanguinaria», di «spirituali abissi» in cui sarebbe precipitata la cristianità, di «follia dogmatica» che avrebbe avvelenato l'Occidente. Ma, per usare le parole di papa Leone XIII ( 1 878- 1 903), la Chiesa non ha bisogno «delle nostre bugie»; né, mutatis mutandis, di un subdolo revisioni­ smo storico che, con i suoi goffi equilibrismi dialettici, ha preteso negare finanche l'innegabile. La Chiesa ha annoverato papi come Giovanni Paolo II, l'illuminato pontefice che, nel 1 994, ne riconob­ be coraggiosamente gli «errori»; ma anche umili e luminose figure che, memori del comandamento lasciato dal Cristo (Cv, 13, 34), hanno saputo testimoniare e del dire e del fare. Non è più tempo di ipoteche sulle coscienze. Voltare pagina, guardare avanti. Il Nuovo avanza. Ma anche il Nulla.

26' Ibidem. 26' Ibidem

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