I carnefici della porta accanto.1941: Il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia

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I carnefici della porta accanto.1941: Il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia

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«Questo libro è l'opera di un grande storico.la vicenda che riferisce è sconvolgente, ma Jan T. Gross ce la presenta con consumata abilità e sapiente moderazione. l carnefici della porta accanto è una toccante e stimolante riflessione sulla più importante questione etica della no­ stra epoca. Chiunque abbia studiato o vissuto il XX secolo non può permettersi di ignorarlo.» Tony Judt, direttore del Remarque lnstitute

In un campo nei pressi di Jedwabne,

una

città

del

nordest della Polonia, c'è una targa che ricorda l'uc­ cisione di 1.600 ebrei per mano della Gestapo e del­ la polizia tedesca. Solo do­ po sessant'anni si è scoper­ to invece che la targa rac­ conta una parziale verità. Secondo una ricerca basata su diverse testimonianze o­ culari raccolte dall'autore, fu infatti il sindaco Marian Karolak a far radunare tutti gli ebrei nella piazza cen­ trale della città dove ben presto vennero circondati da uomini armati che co­ minciarono a colpirli con pietre e bastoni. La polizia tedesca si limitò a fotogra­ fare il massacro. Un libro che apre un capitolo nuovo sulla responsabilità dei ci­ vili che in molti casi si ri­ velarono zelanti esecutori degli ordini tedeschi. Jan T. Gross insegna politica e studi europei alla New York University. È autore di nume­ rose opere, fra cui Revolution from Abroad: Soviet Conquest of Poland's Western Ukraine and Western Belorussia (Princeton U.P. 1988), e ha curato The Politics of Retribution in Euro­ pe: World War II and Its Aftermath (Princeton U.P. 2000).

Jan T. Cross

I CARNEFICI DELLA PORTA ACCANTO 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia

MONDADORI

Traduzione di Luca Vanni

http: llwww.mondadori.comllibri

ISBN 88-04-50346-7

Tutti i diritti riservati. Il volume non può essere riprodotto in alcuna forma, né intero né in parte, senza l'autorizzazione dell'editore. Copyright © 2001 by Princeton University Press Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale: Neighbors I edizione febbraio 2002

© 2002

INDICE

Introduzione Prefazione alla seconda edizione

5 13 15

I

23

II

31

III

Il periodo antebellico

37

IV

L'occupazione sovietica: 1939-1941

47

v

Lo scoppio della guerra tra russi e tedeschi e il pogrom di Radzil6v

61

VI

67

VII

77

VIII

89

IX

95

x

103

XI

107

XII

Che cosa ricorda la gente?

113

XIII

La responsabilità collettiva

119

XIV

Un nuovo modo di accostarsi alle fonti

123

xv

Profilo della vicenda Le fonti

I preliminari

Chi uccise gli ebrei di Jedwabne? La strage Il saccheggio

Dentro le biografie Un anacronismo

È possibile essere a un tempo vittime e carnefici?

131

XVI

141

XVII

La collaborazione La società e il sostegno allo stalinismo

145 XVIII

Per una nuova storiografia

147

Poscritto

149 179 181

Note Ringraziamenti Indice dei nomi

I CARNEFICI DELLA PORTA ACCANTO

Concittadini, non possiamo sottrarci alla Storia. ABRAHAM LINCOLN, Messagg io annuale al Con gresso l o dicembre 1862

MAR BALTICO

GERMANIA

Luck R6wne . . '

� Zona di occupazione � tedesca Zor:a �i occupazione

D SOVIetiCa

liOO>, scende più in dettaglio: «Non ero presente quando decapitarono gli ebrei o li trafissero con aste appuntite. E non ho visto nemme­ no i nostri concittadini ordinare a una giovane ebrea di lasciarsi andare a fondo in uno stagno. Queste co­ se le vide la sorella di mia madre, che quando tornò a casa e ce le riferì piangeva a dirotto. Per parte mia ho visto alcuni ragazzi ebrei ricevere l'ordine di ri­ muovere un monumento a Lenin e trasportarlo in gi­ ro gridando: "La causa della guerra siamo noi". Ho visto come furono picchiati con i manganelli di gom­ ma, come furono massacrati nella sinagoga, e come il povero Lewiniuk, che dopo i colpi respirava anco­ ra, fu seppellito vivo dalla nostra gente ... Li chiusero tutti in un granaio e tutt'intorno versarono del che­ rosene. Fu questione di due minuti, ma le grida ... le sento ancora». IB A essere insostenibile, dunque, non fu solo la vista del massacro. Anche le grida degli ebrei torturati erano atroci, così come l'odore dei corpi che brucia­ vano. La mattanza degli ebrei di Jedwabne durò un giorno intero, e fu perpetrata in uno spazio non più grande di uno stadio. Il granaio di Sleszynski, dove

Chi uccise gli ebrei di Jedwabne?

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nel pomeriggio fu bruciata la maggioranza delle vit­ time del pogrom, era a pochi passi dalla piazza cen­ trale del paese. Il cimitero ebraico, dove molte delle vittime furono accoltellate, lapidate o bastonate a morte, è proprio lì di fronte. Perciò tutte le persone dotate di vista, olfatto e udito presenti quel giorno in paese o presero parte o assistettero alla tragica morte degli ebrei di Jedwabne.

VIII LA STRAGE

Come abbiamo detto, tutto ebbe inizio la mattina del 10 luglio, quando a Jedwabne i maschi adulti polac­ chi furono convocati davanti al municipio. Ma voci sulla prevista aggressione agli ebrei dovevano essere già in circolazione, altrimenti i carri pieni di gente dei villaggi vicini non si sarebbero riversati sul paese sin dall'alba. Sono incline a pensare che alcuni di quegli individui fossero veterani dei sanguinosi po­ grom verificatisi nei dintorni poco prima. Quando su una zona si abbatteva un' «ondata di pogrom», era un fatto consueto che in aggiunta ai persecutori di ogni singola località intervenisse un nucleo di raz­ ziatori itineranti.l «Un giorno, su richiesta di Karolak e Sobuta, di­ verse decine di uomini si assembrarono davanti al municipio di Jedwabne e ricevettero dalla gendar­ meria tedesca e da Karolak e Sobuta fruste e mazze. Poi Karolak e Sobuta ordinarono agli uomini conve­ nuti di radunare tutti gli ebrei di Jedwabne nella piazza antistante.» In una deposizione precedente il teste Danowski aggiungeva a questo succinto rac­ conto un ulteriore dettaglio, specificando che per

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I carnefici della porta accanto

l'occasione fu servita della vodka; la circostanza, tut­ tavia, manca di altre conferme.2 Più o meno nello stesso istante in cui i polacchi ri­ cevettero l'invito di recarsi davanti al municipio, agli ebrei fu dato l'ordine di riunirsi nella piazza per «svolgere alcuni lavori di pulizia». Rivka Fogel ri­ corda che le fu detto di portare una ramazza. Poiché già altre volte gli ebrei erano stati costretti a svolgere umilianti lavori di pulizia, a tutta prima si poteva supporre che si trattasse di una delle solite prove de­ gradanti. «Mio marito prese i due bambini e andò. Io mi trattenni ancora un poco a casa per mettere le co­ se in ordine e chiudere bene uscio e finestre.»3 Ma di­ ventò quasi subito chiaro che quel giorno la situazio­ ne era piuttosto diversa. Così la signora Fogel non raggiunse il marito e i figli nella piazza; insieme a una vicina, la signora Pravde, andò invece a nascon­ dersi nel vicino parco di una tenuta nobiliare. Di lì a pochi minuti «udimmo provenire da laggiù le terri­ bili grida di un ragazzo, Joseph Lewin, che i "genti­ li" stavano picchiando a morte».4 Per una singolare coincidenza, apprendiamo dalla deposizione di Karol Bardon, il quale passò per caso in quei paraggi qualche istante dopo, che Lewin era stato lapidato. Quel mattino, ricordiamolo, Bardon stava riparando un automezzo nel cortile del presi­ dio di gendarmeria tedesco ed era dovuto recarsi al capanno degli attrezzi nella tenuta di un nobiluomo (lo stesso nel cui parco si erano nascoste le due don­ ne). «Dietro l'angolo della fonderia adiacente al ca­ panno c'era uno di Jedwabne, di nome Wisniewski ... Questi mi chiamò e quando mi avvicinai mi indicò

La strage

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il cadavere straziato di un giovane di fede mosaica, un ragazzo di ventidue anni di nome Lewin. "Guar­ da, amico, questo figlio di puttana l'abbiamo am­ mazzato a sassate" . . . Poi mi mostrò una pietra di dodici o quattordici chili e disse: "L'ho steso con questa e non si rialzerà più" .}}s Questo episodio av­ venne proprio all'inizio del pogrom. Bardon scrive che quando andò al capanno degli attrezzi vide in piazza un gruppo di un centinaio di ebrei, mentre quando tornò indietro il gruppo si era notevolmente infoltito. In un'altra parte del paese Wincenty Goscicki era appena rientrato dal suo servizio di guardia nottur­ na. «Era mattina e stavo andando a letto, quando mia moglie venne a dirmi di alzarmi perché stava succedendo qualcosa di brutto: vicino a casa nostra c'era della gente che stava prendendo a bastonate degli ebrei. Mi alzai e andai fuori. Urbanowski mi chiamò e indicando i cadaveri di quattro ebrei disse: "Guarda che cosa sta succedendo". Erano i corpi di 1) Fiszman, 2) i due Styjakowski [?] e Blubert. A quel punto mi rintanai in casa.}}6 Fin dal primo mattino gli ebrei capirono di essere in pericolo di vita. Molti cercarono di fuggire nei campi circostanti, ma vi riuscirono solo in pochi. La­ sciare il paese senza dare nell'occhio era difficile: piccoli gruppi di contadini facevano la ronda per stanare e catturare coloro che cercavano di nascon­ dersi o di scappare. Una decina di ragazzotti ac­ ciuffò Nielawicki, che quando il pogrom era iniziato si trovava già nei campi e stava cercando di raggiun­ gere Wizna. Lo picchiarono e lo portarono in piazza.

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I carnefici della porta accanto

Anche Olszewicz fu catturato nei campi da giovani contadini, picchiato e riportato in paese. Cento o duecento persone riuscirono a scappare, a nascon­ dersi e a superare la giornata; tra loro, come sappia­ mo, Nielawicki e Olszewicz. Ma molti altri furono uccisi direttamente sul posto in cui vennero bloccati. Sul suo cammino verso il capanno degli attrezzi Bar­ don vide «a sinistra della strada, nei campi della te­ nuta, alcuni civili [la sottolineatura è di Bardon] a ca­ vallo che muniti di grosse mazze di legno» pattugliavano la zona.7 Per un uomo a cavallo è faci­ le avvistare e trascinare con sé qualcuno che si na­ sconde nei campi. Gli ebrei di Jedwabne erano spac­ ciati. Quel giorno il paese fu squassato da ondate con­ vulse di violenza, che si propagarono in forma di molteplici iniziative simultanee su cui Karolak e il consiglio cittadino esercitarono solo una supervisio­ ne generale (si ricorderà, per esempio, che andavano in giro a cercare gente che montasse la guardia sulla piazza), controllando l'andamento delle operazioni e intervenendo nei momenti critici per garantire che il pogrom procedesse verso il suo obiettivo. Ma per il resto la gente fu libera di fare del suo peggio im­ provvisando. Un po' più tardi nell'arco della giornata, recandosi nuovamente al capanno degli attrezzi Bardon si im­ batté ancora in Wisniewski, che era rimasto nel po­ sto di prima, vicino al cadavere di Lewin.

Capii che Wisniewski stava aspettando qualcosa. Prele­ vai tutti gli attrezzi che mi servivano e, sulla via del ritor-

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no, incontrai gli stessi due giovani che avevo visto quando ero andato al capanno la prima volta [in seguito Bardon identificherà nei due Jerzy Laudanski e Kalinowski].

Mi resi conto che stavano raggiungendo Wisniewski nel luogo in cui Lewin era stato ucciso: conducevano con loro un'altra persona di fede mosaica, un uomo sposato di no­ me Hersh Zdrojewicz, proprietario del mulino meccanico presso il quale io avevo lavorato fino al marzo 1 939. Lo so­ stenevano sotto le ascelle, e dalla testa il sangue gli colava sul collo e sul busto. «Mi salvi, signor Bard011» mi pregò Zdrojewicz. Ma io avevo paura di quegli assassini e così gli risposi: «Non posso fare niente per aiutarla». E passai oltre.s Dunque in un angolo del paese Lewin e Zdroje­ wicz furono lapidati da Laudanski, Wisniewski e Ka­ linowski; davanti alla casa di Goscicki quattro ebrei furono bastonati a morte da qualcun altro; nello sta­ gno vicino a via Lomzynska un certo «Luba Wladi­ slaw ... fece affogare due fabbri ebrei»;9 in un altro luogo ancora, Czeslaw Mierzejewski stuprò e poi uc­ cise Judes Ibram;to alla figlia minore del melamed (maestro che tiene una scuola elementare o cheder), la bella Gitele Nadolny (Nadolnik) - che conoscevano tutti, perché tutti avevano imparato a leggere in casa di suo padre - fu tagliata la testa, su cui poi, veniamo informati, gli assassini infierirono;n in piazza, «Dobr­ zanska chiese dell'acqua [era una calda giornata d'e­ state], poi svenne; a nessuno fu permesso di soccor­ rerla e sua madre fu uccisa perché cercò di portarle da bere; Betka Brzozowska [invece] fu uccisa mentre te­ neva un bambino in braccio».I2 Gli ebrei furono per-

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cossi senza pietà per tutto il tempo; intanto le loro ca­ se venivano saccheggiate. n Insieme a tutte queste azioni individuali, i poveri ebrei subirono anche forme di persecuzione più orga­ nizzate. Le vittime furono condotte a gruppi nel cimi­ tero, per essere uccise tutte insieme. «Gli uomini più robusti furono portati nel cimitero, dove ricevettero l'ordine di scavare una fossa. Quando la fossa fu pron­ ta, gli ebrei furono uccisi in vario modo, uno con un ferro, un altro con un coltello, un altro con una maz­ za.» 1 4 «Stanislaw Szelawa uccideva con un uncino di ferro [che infilzava] nello stomaco. Mentre era nasco­ sto tra i cespugli, il testimone [cioè Szmul Wasersz­ tajn, di cui sto qui citando la seconda deposizione con­ servata presso l'Istituto storico ebraico] udì grida disperate. Stavano uccidendo in un solo luogo ventot­ to uomini tra i più vigorosi. Szelawa prese uno degli ebrei e gli tagliò la lingua. Poi ci fu un lungo silen­ zio». 1 5 Gli assassini erano infervorati e lavoravano a un ritmo frenetico. «Ero in via Przytulska» testimoniò un'anziana donna, Bronislawa Kalinowska, «quando passò di corsa Jerzy Laudanski, un uomo di Jedwab­ ne, il quale disse che aveva già ucciso due o tre ebrei; era molto agitato e corse via.» 16 Ben presto, però, dovette risultare evidente che eliminare cinquecento persone in un giorno con quei metodi primitivi era impossibile. Così i carnefici de­ cisero di sterminare tutti gli ebrei in un'unica solu­ zione, bruciandoli insieme. Il sistema era stato im­ piegato qualche giorno prima nel pogrom di Radzil6w. Si direbbe che per qualche ragione il pia­ no non fosse stato preventivato, dal momento che

La strage

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non si era concordato un luogo in cui effettuare l' ec­ cidio. A tale riguardo J6zef Chrzanowski dichiarava: «Quando arrivai in piazza, loro [scii. Sobuta e Wasi­ lewski] mi dissero di mettere a disposizione il mio granaio per bruciare gli ebrei, ma io li pregai di ri­ sparmiarlo. Mi ascoltarono, e il mio granaio fu salvo. Però mi dissero che dovevo aiutarli a portare gli ebrei nel granaio di Bronislaw Sleszynski».l7 Prima di togliere loro la vita, gli assassini cercava­ no in ogni modo di togliere alle vittime la dignità. «Ho visto Sobuta e Wasilewski scegliere tra gli ebrei radunati una dozzina di persone e costringerle a fare dei ridicoli esercizi ginnici».1s Prima di accompagna­ re gli ebrei nel loro ultimo, breve viaggio dalla piaz­ za al granaio in cui sarebbero morti tutti, Sobuta e i suoi colleghi organizzarono un piccolo spettacolo. Durante l'occupazione sovietica era stata eretta in paese, proprio accanto alla piazza principale, una statua di Lenin. «Un piccolo gruppo di ebrei fu por­ tato nella piazzetta ad abbatterla. Quando l'ebbero fatto, ricevettero l'ordine di caricarne i tronconi su delle assi e di portarli in giro; il rabbino dovette cam­ minare in testa alla colonna reggendo il proprio co­ pricapo sulla punta di un bastone, e tutti furono co­ stretti a cantare: "La causa della guerra siamo noi, la guerra si fa per noi" . Sempre portando la statua, tut­ ti gli ebrei furono condotti al granaio, che fu cospar­ so di benzina e incendiato. Così persero la vita cin­ quecento ebrei.» 1 9 Negli immediati paraggi del granaio, lo abbiamo detto, si accalcò una grande folla, che aiutò a spinge­ re gli ebrei - pesti, feriti e terrorizzati - all'interno.

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«Spingemmo gli ebrei davanti al granaio» ricorderà in seguito Jerzy Laudanski. «Ordinammo loro di en­ trare, e loro dovettero farlo . »2o Dall'interno del granaio ci è giunta l'eco di due storie. Una è quella di Michal Kuropatwa, un vettu­ rino che qualche tempo prima aveva aiutato un uffi­ ciale dell'esercito polacco a sfuggire ai sovietici. Quando lo scorsero tra la folla degli ebrei, le persone che si erano messe a capo del pogrom lo fecero usci­ re, dicendo che poiché aveva aiutato un ufficiale po­ lacco, poteva tornarsene a casa. Kuropatwa rifiutò, preferendo condividere la sorte della sua gente.21 Il granaio fu cosparso con il cherosene che al de­ posito Antoni Niebrzydowski aveva consegnato a suo fratello Jerzy e a Eugeniusz Kalinowski. «Prese­ ro gli otto litri di cherosene che avevo dato loro, co­ sparsero il granaio stipato di ebrei e appiccarono il fuoco; che cosa accadde dopo, non lo so.»22 Ma noi sappiamo che gli ebrei furono bruciati vivi. Janek Neumark riuscì a salvarsi da quell'inferno all'ultimo minuto. Probabilmente in seguito all'urto di una massa d'aria calda, la porta del granaio si aprì di schianto. Neumark si trovava proprio lì a ridosso, insieme alla sorella e alla figlioletta di cinque anni. Staszek Sielawa sbarrò loro il passo brandendo un'a­ scia. Ma Neumark riuscì a sopraffarlo e i tre potero­ no scappare, andando a nascondersi nel cimitero. L'ultima immagine dell'interno del granaio che gli rimase impressa fu la figura di suo padre avvolta dalle fiamme.23 Con ogni probabilità il fuoco non si propagò in modo uniforme. A quanto sembra avanzò da est a

La

strage

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ovest, forse a causa del vento. Al termine del rogo, nell'ala est dell'edificio incenerito fu trovato solo qualche corpo carbonizzato; qualcuno in più al cen­ tro, mentre all'estremità ovest c'era un vero ammas­ so di cadaveri. I corpi negli strati superiori erano sta­ ti sfigurati dal fuoco, ma le persone di sotto erano morte per schiacciamento e per asfissia, e in molti casi i loro abiti erano ancora intatti. «l corpi erano così intrecciati tra loro che non si riusciva a districar­ li» avrebbe ricordato un anziano contadino che, allo­ ra ragazzo, fu mandato con un gruppo di uomini del posto a seppellire i morti. E avrebbe aggiunto un dettaglio a involontaria conferma dell'agghiacciante testimonianza di Wasersztajn: «Nonostante questo, la gente esaminava i cadaveri cercando oggetti di va­ lore cuciti tra gli indumenti. Io toccai una scatola di lucido da scarpe polacco Brolin. Tintinnava. La spac­ cai con un colpo di vanga e vidi varie monete lucci­ canti, probabilmente pezzi d'oro da cinque rubli di epoca zarista. La gente si precipitò a raccoglierle e la cosa attirò l'attenzione dei gendarmi di guardia: ci fu una perquisizione generale. Chi fu trovato con qual­ che reperto in tasca, ne fu privato e venne spinto via. Ma chi aveva nascosto il bottino nelle scarpe riuscì a tenerselo. »24 Il peggiore tra tutti i carnefici fu probabilmente un certo Kobrzyniecki. Alcuni testimoni ci informano anche che ad appiccare il fuoco al granaio fu lui. «In seguito corse voce che la maggior parte degli ebrei erano stati uccisi dal concittadino Kobrzyniecki. .. non so come facesse di nome)), ricorda il teste Edward Sleszynski, figlio dell'uomo nel cui granaio

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quel giorno perì la maggior parte degli ebrei di Jedwabne. «Si diceva che Kobrzyniecki avesse ucci­ so con le sue mani diciotto ebrei e che avesse svolto la parte principale nell'incendio del granaio.»2s La casalinga Aleksandra Karwowska venne a sapere da Kobrzyniecki stesso che egli aveva «accoltellato a morte diciotto ebrei. Me lo raccontò quando venne a installare la stufa nel mio appartamento».26 Erano i giorni centrali di un luglio particolarmente caldo e i corpi arsi e soffocati delle vittime del massa­ cro dovevano essere sepolti al più presto. Sennonché in paese non c'erano più ebrei cui far eseguire quell'o­ perazione ripugnante. «A tarda sera)) ricorda Win­ centy Goscicki «i tedeschi vennero a prendermi e mi portarono a seppellire quei corpi carbonizzati. Io però non lo feci, perché quando vidi quello spettacolo mi venne il vomito e così fui sollevato dall'ordine di interrare i cadaveri.))27 Evidentemente Goscicki non fu il solo cui quel lavoro dava il voltastomaco: «Il se­ condo o il terzo giorno dopo la strage» riferisce il soli­ to Bardon «mi trovavo con il sindaco Karolak nella piazza vicina al presidio dei gendarmi tedeschi, quando il comandante del presidio di Jedwabne, Adamy, passò di là ed esclamò rivolgendosi al sinda­ co: "Allora, a uccidere la gente e a bruciarla siete ca­ paci, eh? Ma di seppellirla non ha voglia nessuno, eh? Entro la mattinata devono essere tutti sotto terra! Ca­ pito?")).2B Questa violenta uscita del comandante del­ la gendarmeria locale fece subito il giro del paese. Sessant'anni dopo Leon Dziedzic, di Przestrzele (un paese vicino a Jedwabne), ne ricordava ancora le pa­ role: «"Dite che con gli ebrei è tutto a posto [ie zrobicie

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porzqdek z Zydami], e invece non sapete mettere a po­ sto un bel niente)). [Il gendarme tedesco] aveva paura che scoppiasse un'epidemia, perché faceva molto cal­ do e i cani stavano già razzolando [tra i cadaveri]))_29 Ma quello era proprio un «lavoro impossibile>>, per dirla con le parole usate da Leon Dziedzic in un'altra intervista. I corpi ammassati degli ebrei uccisi erano intrecciati tra loro «come le radici di un albero. Qual­ cuno se ne uscì con l'idea di smembrarli e gettare i pezzi in un fossato. Furono portati dei forconi, e sgro­ vigliammo i cadaveri come meglio riuscimmo: qui una testa, là una gamba)).3o Dopo il lO luglio ai polacchi non fu più consentito di uccidere impunemente gli ebrei di Jedwabne. La normale prassi amministrativa dell'occupazione te­ desca fu ristabilita. Un pugno di superstiti rientrò in paese. Vi rimasero per qualche tempo (qualcuno di loro lavorò al presidio della gendarmeria) e alla fine furono portati dai nazisti nel ghetto di Lomza. Alla guerra sopravvissero in una dozzina. Sette di loro erano stati nascosti e accuditi nel vicino villaggio di Janczewo dalla famiglia Wyrzykowski.

Fotografia scattata alla fine della guerra. Seduti, da sinistra: Antonina (Antosia) Wyrzykowska, Szmul Wasersztajn e Leja Kubrzanski (Kubran). Janek Kubrzanski è in piedi dietro alla Wyrzykowska. Leja e Janek Kubrzanski e Szmul Wasersztajn furono �alvati insieme ad altri quattro ebrei dalla famiglia Wyrzykowski, che li tenne nascosti per tutto il periodo di occupazione

Josek Kubrzaùski - padre di Janek

nella sua fattoria di Janczewo, ei pressi di Jedwabne.

Kubrzm'lski (Jack Kubran) -, noto calzolaio di Jedwabne, con un amico.

Malka Zieleniec, Rywka Luber (trasferitasi in Palestina)

e Sorka Berlin. In seconda fila, a sinistra, Janek Kubrzaùski (Jack Kubran).

Ovadia, Miriam e Szlomo Bursztajn.

Lejb Bromsztajn, con la divisa dell'esercito polacco, e due amici.

I tre fratelli Piekarz (Baker) con la loro madre.

La famiglia Piekarz.

l due mugnai Eli e Moshe-David Pecynowicz, e Yenta Pecynowicz, moglie di Eli.

l genitori di Wiktor Nielawicki (Avigdor Kochav). Ispirandosi al cognome materno, Stern, in Israele Nielawicki mutò il proprio in Kochav, che in ebraico significa «stella».

Judke Nadolnik, uno dei tre maestri del cheder (scuola elementare) di Jedwabne, con la sua famiglia. Una delle figlie maggiori si è trasferita in Palestina. La figlia più piccola, Gitele, morì decapitata nella piazza del paese il 10 luglio 1941.

Le figlie di Moshe lbram, all'epoca facoltoso commerciante.

Rywka Hurwicz, proprietaria di un emporio, con i figli. Il maschio, Moshe, si è trasferito in Palestina. Malka Hurwicz con il marito e il figlio. La famiglia Atlasowicz.

La famiglia di Abraham Szlepak, allora shochet (macellaio rituale). Szlepak era sposato con Frumka Pecynowicz, imparentata con i Piekarz, dalla quale aveva avuto nove figli.

Le due figlie di

un

macellaio

di Jedwabne, Itzhak Atlas.

La famiglia Bromsztajn. Il più anziano dei Bromsztajn faceva il decoratore di case. Uomo assai colto, era tra le figure più importanti di uno degli shti/?1 (case di studio) di Jedwabne, lo Hevra Bakhurim. Lejb Bromsztajn compare anche in un'al tra fotografia, dove indm;sa l'uniforme dell'esercito polacco.

Un altro insegnante del cheder, Itzhak Adamski, con la sua famiglia. Una delle figlie si è trasferita in Palestina.

Judka Ebersztajn-Piekarz e la sua famiglia.

Jaakov Sender Turberg e sua moglie Sarah.

Hanah Danowska, figlia di uno dei tre maestri del cheder di Jedwabne, insieme al marito Garbarski, di Lomza e alla figlia Joshpa.

Bambini di una classe ebraica della scuola pubblica con le loro maestre, Szemer6wna e Podr6znik.

L'organizzazione Halutz a Jedwabne nel 1922.

L'organizzazione sionista di Jedwabne nel l 930.

L'organizzazione Halutz nel 1930.

IX IL SACCHEGGIO

Le fonti e le testimonianze che ci sono pervenute non ci danno informazioni su una questione impor­ tante. Dove andarono a finire i beni degli ebrei di Jedwabne? Gli ebrei che superarono la guerra sape­ vano di avere perso ogni cosa, ma nelle loro memo­ rie non chiariscono né chi prese i loro beni né che fi­ ne essi fecero. Durante gli interrogatori processuali del 1949 e del 1953 né i testimoni né gli accusati furo­ no sentiti su questo punto. Così non ci restano che informazioni scarse e frammentarie. Secondo Eliasz Gr�dowski - che venne a sapere del massacro a guerra terminata, quando rientrò dal­ la Russia - durante e dopo il pogrom misero le mani sui beni degli ebrei le seguenti persone: Gienek Kozlowski, J6zef Sobuta, Rozalia Sleszynska e J6zef Chrzanowski. Julia Sokolowska aggiunge all'elenco i nomi di Karol Bardon, Fredek Stefany, Kazimierz Karwowski e i due Kobrzeniecki. Abram Boruszczak dice lo stesso a proposito dei fratelli Laudanski e di Anna Polkowska. I Ma tutti questi testimoni non scendono nei dettagli, limitandosi ad allusioni gene­ riche sull'appropriazione di beni degli ebrei da parte

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I carnefici della porta accan to

degli esecutori del pogrom. Informazioni più precise ci vengono dalla moglie di J6zef Sobuta, Stanislawa, la quale durante il processo del marito dichiarò di essersi trasferita con lui «in una casa "lasciata" dagli ebrei [quella della famiglia Stern], su richiesta del fi­ glio del defunto proprietario, che aveva paura a vi­ verci da solo>>.2 Il testimone Sulewski afferma di «non sapere>> chi autorizzò i coniugi Sobuta a impos­ sessarsi di quella casa, e aggiunge: «A quanto mi consta, le case abbandonate degli ebrei potevano es­ sere occupate senza bisogno di permessi».3 Mi sembra una panoramica dei fatti piuttosto in­ genua, se non fasulla. Sulla questione dei beni "la­ sciati" dagli ebrei, la moglie di Stanislaw Sielawa ci apre infatti uno scorcio più ampio, in base al quale a impossessarsi di quelle proprietà furono le persone che avevano organizzato il pogrom (da rimarcare che sia la deposizione di Wasersztajn sia quella di Neumark includono i fratelli Sielawa tra i protagoni­ sti più attivi del pogrom): ((Ho sentito dalla gente del luogo, ma non ricordo esattamente da chi, che dopo l'uccisione degli ebrei di Jedwabne [la frase pronun­ ciata nella deposizione, po wymordowaniu Zyd6w w Jedwabnym, si lascerebbe tradurre altrettanto bene con: ((dopo avere ucciso gli ebrei di Jedwabne»] So­ buta J6zef e il sindaco di Jedwabne, Karolak, contri­ buirono a trasportare in un deposito i beni lasciati dagli ebrei, ma non so esattamente come fu effettua­ ta l'operazione e non so se da quella roba Sobuta J6zef prese qualcosa per sé>>.4 Davanti alla corte sarà ancora più precisa: (6ì, li ho visti trasportare oggetti appartenenti agli ebrei, ma l'imputato [cioè Sobuta]

Il saccheggio

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era soltanto vicino al carro su cui c'era quella roba: non so se egli abbia avuto qualche parte in questa faccen­ da [la sottolineatura è mia: czy oskariony naleial do te­

go interesu]».s Conviene qui spendere qualche parola sul granaio di Sleszynski. L'll gennaio 1949, cioè subito dopo l'ondata di arresti che percorse la cittadina, l'Ufficio sicurezza di Lomza (UB) ricevette una lettera da un certo Henryk Krystowczyk. Costui scriveva di voler cogliere l'opportunità creata dall'apertura di un'in­ chiesta sul massacro di Jedwabne per sollevare un'al­ tra questione: «Nell'aprile del 1945 mio fratello Zyg­ munt Krystowczyk fu assassinato perché quale membro del PPR [Partito operaio polacco, il nome che contraddistingueva allora il Partito comunista polac­ co] aveva ricevuto ed eseguito l'ordine di organizzare una zsch [una cooperativa contadina]. Di quella zsch era stato eletto responsabile, e mentre ne era a capo aveva iniziato a ristrutturare un mulino a vapore nei pressi di via Przystrzelska, una proprietà lasciata da­ gli ebrei». Krystowczyk passa poi a raccontare le cir­ costanze in cui suo fratello fu ucciso, fa il nome di chi fu implicato nel delitto e spiega che l'assassino voleva impadronirsi del mulino. Spiega che il materiale usa­ to per la ristrutturazione era stato fornito da suo fra­ tello, il quale era carpentiere. «Il legno impiegato per la ristrutturazione veniva dal granaio del cittadino Bronislaw Sleszynski. L'avevamo preso perché i tede­ schi gli avevano costruito un nuovo granaio in sosti­ tuzione di quello vecchio, che egli aveva messo vo­ lontariamente a disposizione per il massacro degli ebrei e che insieme agli ebrei era bruciato».6

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I carnefici della porta accanto

Come si vede, a Jedwabne nel 1949 i cosiddetti «beni lasciati dagli ebrei» erano ancora oggetto di aspra contesa, con tanto di omicidi e denunce all'Uf­ ficio sicurezza. La questione emerge in numerosi do­ cumenti della polizia segreta risalenti a quel perio­ do. L'originale della denuncia che dopo la guerra segnala la presenza del sindaco Karolak in una stra­ da di Varsavia contiene la seguente affermazione: «A quanto ne so, fu arrestato dalle autorità tedesche per avere sottratto agli ebrei moltissimi beni senza farne equa spartizione con i tedeschi». In un'altra denun­ cia anonima, relativa ai traffici della famiglia Lau­ danski, l'informatore afferma che Jerzy Laudanski era stato arrestato dai tedeschi mentre stava cercan­ do di mettere in vendita gioielli sottratti agli ebrei e ricorda come dopo la guerra un altro dei Laudanski se ne andasse in giro ostentando un elegante cappot­ to di pelliccia «ebreo».? Tutto questo non deve sor­ prendere. Gli effetti del rogo degli ebrei di Jedwabne furono simili a quelli di una bomba al neutrone: i proprietari furono annientati, ma le loro proprietà ri­ masero intatte. Dovette essere un bell' «affare» per chi riuscì ad approfittarne. Ormai siamo sempre più coscienti di quanto la vo­ lontà di confiscare agli ebrei i loro beni abbia contri­ buito a innescare la persecuzione in tutta Europa. Ri­ tengo assai probabile che in luogo dell'atavico antisemitismo, o accanto ad esso, i reali motivi che indussero Karolak e i suoi sgherri a organizzare il massacro furono il desiderio e l'inopinata opportu­ nità di spogliare gli ebrei dei loro averi una volta per tutte. Cinquant'anni dopo il massacro la gente di

Il saccheggio

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Jedwabne sembra pensarla così. «A Jedwabne tutti sanno la verità [sull'uccisione degli ebrei], ma in passato la gente non ne ha mai parlato apertamente. Sabato 13 maggio [2000], durante una messa per la patria, il prete del paese ha esortato i parrocchiani a pregare anche per quelle vittime della guerra che persero la vita a causa dell'insaziabile e criminosa brama di arricchirsi che si impadronisce di certe per­ sone.»s

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DENTRO LE BIOGRAFIE

Oltre ai verbali delle deposizioni testimoniati e di quelle degli imputati, tra le carte del processo a Ra­ motowski e compagni troviamo molti documenti consegnati alle autorità giudiziarie in varie fasi del procedimento. La già citata domanda di grazia scrit­ ta da Karol Bardon, per esempio. Il breve giro d' oriz­ zonte in base al quale ho affermato che ci troviamo di fronte a «un gruppo di uomini qualunque>> si ba­ sava essenzialmente sui dati desunti dalla prima pa­ gina dei vari verbali. Sul conto degli imputati, però, siamo in grado di dire qualcosa di più, oltre all'età, la consistenza della prole e la professione. Pochi giorni dopo i primi fermi, nel gennaio 1949, le mogli degli arrestati iniziarono a mandare all'Uffi­ cio sicurezza di Lomi:a istanze contenenti dettagli che - questa era la speranza - potessero attenuare il ruolo svolto dai mariti nel pogrom antisemita. Da questi scritti possiamo evincere interessanti particolari bio­ grafici sugli accusati. Il 28 gennaio, per esempio, Ire­ na Janowska, moglie di Aleksander, scriveva: «Quel fatidico giorno i gendarmi tedeschi giravano con il sindaco e il segretario [del consiglio cittadino] Wasi-

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I carnefici della porta accan to

lewski in cerca di uomini da incaricare della sorve­ glianza degli ebrei radunati in piazza. Vennero anche a casa mia e vi trovarono mio marito. Gli ordinarono seccamente di andare in piazza, minacciandolo con il fucile. Non sapendo esattamente che cosa stesse acca­ dendo, mio marito aveva paura. Temeva anche per se stesso, perché durante il primo periodo sovietico ave­ va lavorato come ispettore in una cooperativa del lat­ te>> .l Tre giorni dopo, Janina Zyluk scriveva un'istan­ za in favore del marito arrestato (molti testimoni lo indicano come uno dei principali responsabili) : «Fino allo scoppio del conflitto tra i tedeschi e i sovietici, nel 1941, mio marito aveva lavorato come ispettore fisca­ le. Per questa ragione quando arrivarono i tedeschi, nel 1 941 , dovette nascondersi: tutti quelli che aveva­ no lavorato per i sovietici venivano individuati e per­ seguitati)).2 Come si sa, sotto l'amministrazione dei sovietici la burocrazia statale conobbe una notevole espan­ sione e in molti casi la gente, che doveva sbarcare il lunario, si mise a lavorare per gli occupanti. E vero­ similmente la moglie di un uomo arrestato dalle for­ ze di sicurezza staliniste aveva motivo di ritenere che la posizione del marito sarebbe migliorata qua­ lora fosse emerso che in passato egli aveva lavorato per un'amministrazione sovietica. Il valore che attri­ buirei a questi due scampoli di biografia sarebbe perciò quello di una mera curiosità, se non si desse il caso che i documenti contengono ulteriori rivela­ zioni di questo tipo e che tali rivelazioni diventano sempre più interessanti. Prendiamo, per esempio, questo testo, in cui Karol Bardoft, l'unico imputato

Dentro le biografie

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del processo Ramotowski condannato a morte, parla di sé:

Dopo l'ingresso dell'Armata Rossa nel voivodato di Bialystok e dopo l'insediamento delle autorità sovietiche, nell'ottobre del 1939, tornai al mio lavoro di riparazione di orologi e fino all'aprile del 1 940 svolsi occasionalmente vari lavori commissionatimi nel mio settore di attività dall'NKVD e da altri Uffici delle Autorità Sovietiche [le maiuscole sono originali] . Qui aprivo cassaforti di cui era andata persa la chiave; cambiavo serrature, eseguivo nuove chiavi, riparavo macchine per scrivere, e così via. Il 20 aprile 1 940 divenni meccanico supervisore [majster] e responsabile dell'autofficina presso la Stazione meccanica trattori. Riparavo trattori a cingoli e a ruote, macchine agricole, e gli automezzi di vari kolchoz e sovkhoz. In quel centro meccanico ero capo della prima squadra e con­ trollore tecnico. All'epoca ero anche delegato del soviet cittadino [gorsoviet] del paese di Jedwabne, nella Contea di Lomza.3 Evidentemente Bardon era un buon meccanico. Ma per se stessa la preparazione professionale non sarebbe bastata a garantirgli l'acquisizione di tutti questi incarichi durante l'amministrazione sovietica: doveva essere anche un uomo fidato. C'è infine il piatto forte: la rivelazione autobiogra­ fica di uno dei più scellerati protagonisti di quel giorno, il maggiore dei fratelli Laudanski, Zygmunt. Ecco ciò che scrisse in un'istanza presentata al «Mi­ nistero della Giustizia, presso l'Ufficio della polizia di sicurezza di Varsavia [Do Ministerstwa Sprawied-

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I carnefici della porta accanto

liwosci U.B.P. w Warszawie])), Scriveva dal carcere di Ostrowiec il 4 luglio 1 949:

Quando il nostro territorio fu accorpato alla Repubblica socialista sovietica di Bielorussia, mi nascondevo alle auto­ rità sovietiche da circa sei mesi ... Pur sottraendomi alla de­ portazione, non mi aggregai alle bande di fuorilegge che andavano formandosi all'epoca dalle nostre parti. Inviai in­ vece al generalissimo Stalin un appello che l'ufficio del pro­ curatore di Mosca, al lS di via Puszkinskn, trasmise all'uf­ ficio dell'NKVD di Jedwabne con un ordine di revisione. Dalle indagini e dagli interrogatori emerse che ero stato condannato ingiustamente e a titolo di risarcimento mi fu concesso di abbandonare la clandestinità senza rischiare la deportazione. Dopo avere sondato le mie opinioni, l'NKVD di Jedwabne mi chiamò a cooperare alla liquidazione della feccia antisovietica [si direbbe che Laudaitski fosse uno dei «pentitb) del colonnello NKVD Misjurev] . Restai al­ lora in contatto con l'NKVD di Jedwabne (mi astengo dal­ l'indicare il mio pseudonimo per iscritto). Per rendere il mio lavoro più efficace, in quel periodo i miei superiori mi ordinarono di assumere un atteggiamento antisovietico (per evitare di essere scoperto da qualche elemento reazio­ nario): alle autorità ero infatti già noto. Quando, nel 1941, scoppiò la guerra tra tedeschi e Sovietici [minuscola e maiuscola sono originali] l'NKVD non riuscì a distrugge­ re tutti i suoi documenti. Io avevo paura e non andavo in giro, e solo con un espediente [mandando subito il fratel­ lo minore a lavorare nella gendarmeria tedesca!] potei accertare che i documenti più importanti erano stati bru­ ciati nel cortile dell'NKVD ... Ritengo che la sentenza sia completamente sbagliata, perché le mie opinioni sono ben

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diverse da quanto si sospetta: quando ero in contatto con l'NKVD la mia vita era costantemente in pericolo; e oggi [dopo la guerra] non sono affatto entrato in bande reazio­ narie, ma ho lasciato il paese natale e ho iniziato a lavorare in una cooperativa della gmina, la Cooperativa contadina autotutela, che dai reazionari è stata perseguitata. Appar­ tengo al Partito operaio polacco e quindi so bene quanto nello spirito Democratico la mia prosperità si sia accresciu­ ta: credo che con persone come me il nostro governo operaio possa dormire sonni tranquilli [corsivo mio].

Sono finito in prigione, dico, soltanto per un malinteso. Se la mia opinione sull'Unione Sovietica fosse venuta alla lu­ ce, le bande reazionarie - se non i tedeschi - avrebbero ster­ minato me e la mia famiglia.4 La prima cosa che colpisce, leggendo l'esposto, è l' assoluto conformismo di quest' uomo. Evidente­ mente egli cercava di sondare ciò che ciascuno dei sanguinari regimi che andavano allora avvicendan­ dosi desiderasse maggiormente dai propri sudditi, e nella sua ansia di compiacere si spingeva fino all'e­ stremo: prima fu collaboratore segreto dell'NKVD, poi fece lo sporco gioco dei nazisti eliminando gli ebrei, infine entrò nel Partito comunista, il PPR. Per descri­ vere questo modo di adattarsi alle circostanze che cambiano, questa corsa con il destino, i francesi usa­ no la bella espressione fuite en avant. Ma gli scorci biografici di questi quattro individui che da collaboratori delle autorità sovietiche diven­ tarono collaboratori dei tedeschi (dopo avere ucciso gli ebrei nel pogrom, due degli imputati, Jerzy Lau­ danski e Karol Bardon, prestarono servizio nella

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gendarmeria tedesca) sono indizio di un fenomeno che, credo, va molto al di là della mera parabola in­ dividuale di qualche farabutto. Non si tratta soltanto di considerare i singoli personaggi che in questo dramma recitano se stessi fino in fondo, ma anche di fare i conti con la logica degli incentivi che emerge nel contesto dei regimi totalitari del XX secolo. Ri­ prenderò il tema nelle considerazioni conclusive, poiché in esso scorgo potenzialità interpretative del­ la storia polacca del periodo bellico e postbellico in buona parte ancora inesplorate. Per il momento vorrei concludere questo incontro ravvicinato con gli antieroi di Jedwabne con un cri de coeur del Laudanski più giovane, Jerzy, che a quanto dicono tutte le fonti era tra gli accusati il peggior de­ liquente. Doveva essere un giovane ben piantato, al­ to più di un metro e ottanta e pieno di energia. Nei dossier investigativi di controllo della polizia segreta stalinista, dove tutti gli imputati erano classificati sulla scorta di trentaquattro elementi, alla voce «mo­ do di parlare» la scheda di Laudanski recita: «Sono­ ro, chiaro, polacco», laddove nella maggior parte dei casi il modo di parlare degli altri imputati è definito «Calmo».s Nel 1 956 l'ultimo degli imputati del pro­ cesso di Lomza ancora in prigione scriveva un ap­ pello. Con uno sfacciato saggio di ottusità morale egli domanda perché lo si tenga dietro le sbarre, dal momento che non è stato un fiancheggiatore dei te­ deschi ma semmai un vero patriota polacco:

Sono cresciuto in una zona fortemente ostile agli ebrei, e durante la guerra i tedeschi hanno massacrato gli ebrei

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sia là sia in altre località. E allora perché io, che sono il più giovane dei processati e sono cresciuto [in Polonia] du­ rante il periodo Sanacja [cioè prima della guerra], per­ ché devo essere l'unico a subire per intero il rigore della legge? In fondo sin da quando ero sui banchi di scuola mi hanno insegnato a guardare solo in una direzione, il che significa che durante l'occupazione il mio pensiero andava unicamente alla mia Nazione e alla mia Madrepatria. Ne è prova il fatto che quando, durante l'occupazione, fui chia­ mato a mettere le mie energie al servizio della Madrepa­ tria, non ebbi un attimo di esitazione. Mi diedi alla clan­ destinità ed entrai in un'organizzazione segreta chiamata Associazione polacca per l'insurrezione [la Polski Zwi(!.zek Powstaftczy, che alla fine diventerà AK, l'E­ sercito nazionale], dove nell'autunno del 1 941 combattei contro l'invasore a Port;ba, sul Bug, nella contea di Ostr6w Mazowiecki; il mio compito era quello di traspor­ tare giornali clandestini e altro materiale. Nel maggio del 1 942 la Gestapo mi arrestò e mi rinchiuse nel carcere di Pawiak [il più importante carcere di Varsavia]; poi mi deportò nei campi di concentramento di Auschwitz, Gross-Rosen e Oranienburg, dove condivisi con altra gen­ te tre anni di sofferenza inflittimi perché polacco e prigio­ n iero politico. E quando l'Armata Rossa ci liberò, nel 1945, io non mi aggregai a quelli che abbandonarono la Madrepatria devastata e preferirono vivere nell'agio in Occidente per poi rientrare come spie o disfattisti. Senza un attimo di esitazione tornai nel mio Paese distrutto, nella mia Nazione, cui offrii la mia giovane vita, di appe­ na vent'anni, per lottare contro l'invasore. Il tribunale, però, non tenne in alcuna considerazione le sopracitate prove del fatto che non collaborai in alcun modo con l'in-

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vasore, contrariamente a quanto mi addebitò l'Ufficio Si­ curezza di Eomia nell'inchiesta che mi costò una pena tanto lunga. Quando rientrai [in Polonia] lavorai tutto il tempo in istituzioni statafi.6 Sotto un certo aspetto quest'uomo aveva le sue sia pur perverse ragioni: in fondo era stato condannato in base a un articolo che puniva non tanto gli atti concretamente commessi, quanto la collaborazione con i tedeschi. E lui, dal suo punto di vista, non ave­ va affatto collaborato con l'invasore. Si era compor­ tato come un bravo ragazzo, un buon patriota che tuttalpiù aveva collaborato con i suoi. Jerzy Lau­ dariski fu rilasciato sulla parola, ultimo tra tutti i condannati, il 18 febbraio 1957.7 A Jedwabne comuni cittadini polacchi sterminaro­ no gli ebrei più o meno come i comuni cittadini tede­ schi del Battaglione 101 dell' Ordnungspolizei fecero a Jozef6w (si veda Uomini comuni di Christopher Brow­ ning). Uomini di tutte le età e di tutte le professioni; a volte intere famiglie, padri e figli che agirono di con­ certo; buoni cittadini che risposero alla chiamata del­ le autorità municipali, si sarebbe tentati di dire (se il sarcasmo non fosse fuori luogo, data l'atrocità delle loro azioni). Quelli cui gli ebrei si trovarono con orro­ re e, oserei dire, con stupore di fronte furono volti fa­ miliari. Non anonimi individui in divisa, ingranaggi di una macchina da guerra, agenti che eseguivano de­ gli ordini, ma vicini di casa, quelli della porta accanto, che scelsero di uccidere e presero parte a un sangui­ noso pogrom come volonterosi carnefici.

XI UN ANACRONISMO

Davanti al massacro degli ebrei di Jedwabne lo stu­ dioso della Polonia moderna resta perplesso, bran­ cola in cerca di una spiegazione: nella letteratura specialistica non si registra né si discute nulla di si­ mile. Nel disperato tentativo di trovare un appiglio, la memoria riscopre in un lontano passato una con­ gerie di immagini in apparenza capaci (grazie alla loro familiarità) di dare un senso a quanto stiamo apprendendo. Non è possibile che i massacri di Rad­ zil6w e di Jedwabne siano stati un anacronismo, frutto di un'epoca affatto diversa? Non si riesce a le­ vare di torno l'impressione che nell'estate del 1941 in seguito a un malvagio sortilegio la plebe contadina abbia lasciato le pagine della saga nazionale di Henryk Sienkiewicz sulle guerre del Seicento, Trilo­ gia, per approdare sul suolo del voivodato di Bialy­ stok. Sin dalle guerre contadine di Khmielnicki (che l'immaginario mitologico ebraico ricorda con la ter­ ribile parola khurban, «catastrofe», preconizzazione della Shoah), gli ebrei furono bersaglio di una furia distruttrice e ostile a tutte le differenze, che pulsava allo stato latente nelle campagne di quella regione e

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che occasionalmente si manifestava in terribili esplo­ sioni di violenza. Senza dubbio in quei territori lo rzei i rabacja («massacro e saccheggio») restò nel re­ pertorio permanente del comportamento collettivo e sia nel corso dell'Ottocento sia nel corso del Nove­ cento fu messo in atto a più riprese.l Ma qual era l'origine di quel potenziale esplosivo? Dobbiamo ricordare che sullo sfondo delle violenze contro gli ebrei aleggiava sempre il sospetto di un omicidio rituale, la convinzione che per preparare il pane azzimo pasquale gli ebrei si servissero del san­ gue innocente di qualche bambino cristiano. Era una credenza profondamente radicata in molti cattolici polacchi, e non soltanto tra gli abitanti delle località sperdute. In fondo anche nelle grandi città polacche, e persino dopo la Seconda guerra mondiale, le voci che attribuivano agli ebrei simili pratiche riuscirono a scatenare folle inferocite. Fu proprio questo il mec­ canismo che innescò i più famigerati pogrom del do­ poguerra, quelli scoppiati a Cracovia e a Kielce ri­ spettivamente nel 1945 e nel 1946.2 E in quegli anni niente spaventava gli attivisti dei comitati ebraici o gli ebrei sopravvissuti più di una visita al loro quar­ tiere da parte di un genitore cristiano in cerca di un bambino scomparso.3 Nella letteratura specialistica la Shoah viene pre­ sentata come un fenomeno radicato nella modernità. Sappiamo perfettamente che per eliminare milioni di persone è necessario disporre di una burocrazia efficiente e di una tecnologia (relativamente) avan­ zata. Eppure lo sterminio degli ebrei di Jedwabne ri­ vela che il sostrato dell'impresa può essere un altro,

Un anacronismo

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più profondo e atavico. Non mi riferisco solo ai mo­ venti degli assassini - in fondo gli abitanti di Jedwabne e i contadini della contea di Lomza non potevano avere già assorbito l'infame propaganda antisemita dei nazisti, neppure se fossero stati solle­ citi e bendisposti -, ma anche alle loro armi e ai loro metodi, arcaici e primitivi: pietre, mazze di legno, barre di ferro, il fuoco e l'acqua, tutti usati senza una vera e propria organizzazione. I fatti di Jedwabne di­ mostrano che dobbiamo guardare all'Olocausto co­ me a un fenomeno eterogeneo. Da un lato dobbiamo essere in grado di spiegarlo come un meccanismo at­ tivato sulla scorta di un piano preordinato (per quanto in continua evoluzione). Ma nello stesso tem­ po dobbiamo anche riuscire a concepirlo come un mosaico di episodi ben distinti, improvvisati dai re­ sponsabili locali e imperniati sul comportamento spontaneo - Dio solo sa da che cosa innescato - di tutti coloro che all'epoca si trovarono sulla scena del delitto. Quando si tratta di accertare le responsabi­ lità dei massacri e valutare quale effettiva possibilità di sopravvivere avessero gli ebrei, tutta la differenza si gioca proprio qui.

XII CHE COSA RICORDA LA GENTE?

Nel 1 996 uno dei protagonisti della moderna lettera­ tura ebraica, Aharon Appelfeld, tornò nel suo villag­ gio natale, vicino a Czernovitz, dove era rimasto fino al giugno del 1941, trascorrendovi i primi otto anni e mezzo della sua vita. «Che cosa può ricordare un bambino di otto anni e mezzo? Quasi nulla. Eppure, miracolosamente, quel "quasi nulla" mi ha nutrito per anni. N o n passa giorno che io non sia a casa. Nella mia patria di adozione, Israele, ho scritto ben trenta libri che si collegano, direttamente o indiretta­ mente, al paese della mia infanzia, un villaggio il cui nome si trova solo nelle cartine ufficiali. Quel "quasi nulla" è il pozzo cui ho continuato ad attingere e si direbbe che le sue acque siano inesauribili.» Fu così che quando Appelfeld effettuò, dopo cinquant'anni, il suo viaggio di ritorno, la bellezza e la strana fami­ liarità del paesaggio suscitarono in lui ancora una volta un senso di benessere e di gioia spensierata. «Chi potrebbe immaginare che un sabato, uno dei nostri shabbat, in questo villaggio, sessantadue ani­ me, perlopiù donne e bambini, caddero sotto i colpi di forconi e coltelli da cucina, e che io, per caso in

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una stanza sul retro, riuscii a scappare nei campi di grano e a nascondermi?»1 Appelfeld era tornato al villaggio insieme alla mo­ glie e a una troupe che doveva filmare il suo ritorno al paese natale. Un gruppo di persone del luogo si assembrò per seguire le operazioni di quegli stranie­ ri. Quando Appelfeld chiese dove fossero sepolti gli ebrei che erano stati assassinati durante la guerra, nessuno sembrò in grado di dare una risposta. Poi, quando si seppe che da bambino egli aveva vissuto in quel villaggio, qualche suo vecchio compagno di scuola lo riconobbe. A quel punto «si fece avanti un uomo di alta statura, un contadino, al quale, come in un'antica cerimonia, la gente del posto spiegò ciò che volevo sapere. L'uomo alzò il braccio e puntò il dito: lassù, su quella collina. Calò il silenzio. Poi una profluvie di parole che non riuscii a capire)). Continua Appelfeld: «Saltò fuori che ciò che la gente del villaggio aveva cercato di nascondermi era noto a tutti, anche ai bambini. Domandai a diversi di loro, venuti allo steccato per guardarci, dove fossero le tombe degli ebrei. Lassù, facevano segno con la mano». Poi tutti gli astanti si incamminarono verso la collina. Lungo il percorso furono piuttosto tacitur­ ni, finché «uno di loro disse: "Sono sepolti qui" e in­ dicò un campo incolto. "Ne è sicuro?" domandai. "Li ho seppelliti io" rispose il contadino. E aggiunse: "Avevo sedici anni" ».z Nello stesso modo in cui al paese natio Appelfeld individuò il luogo di sepoltura della madre mezzo secolo dopo che era stata uccisa, in Polonia un altro scrittore, Henryk Grynberg, rinvenne i resti del pa-

Che cosa ricorda la gente?

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dre, assassinato nella primavera del 1944, vicino al posto in cui la famiglia stava allora nascosta. Gli abi­ tanti del paese sapevano molto bene chi aveva ucci­ so Grynberg, quando e per quale ragione, e conosce­ vano il punto in cui il corpo era stato sepolto. La ricerca della tomba del padre da parte di Grynberg è stata filmata da una cinepresa portatile e gli spetta­ tori polacchi hanno potuto seguire lo sviluppo del­ l'intera vicenda nel documentario Il luogo natale, che ha valso un premio all'autore, Pawel Lozinski. E senza dubbio anche tutti gli abitanti di Jedwab­ ne sanno perfettamente che cosa accadde nel loro paese il 1 O luglio 1941 . Ecco perché sono convinto che in ogni villaggio e in ogni città in cui gli ebrei furono uccisi si serbi puntuale memoria di quei giorni. Un fatto inevitabi­ le, poiché per dimenticare l'accaduto chi fu testimo­ ne dell'orrenda tragedia avrebbe dovuto essere dav­ vero di pietra. Ma anche una maledizione, perché non di rado la popolazione locale non si limitò ad assistere al massacro dei concittadini ebrei, ma vi prese parte attiva. Come si spiegherebbe altrimenti il fatto che nel dopoguerra i non ebrei che avevano soccorso gli ebrei a rischio della propria vita (perso­ ne che l'autorità dello Yad Wa-shem avrebbe poi ri­ conosciuto come Giusti tra le Nazioni) furono gene­ ralmente restii a d a mmettere davanti a i loro concittadini di avere nascosto qualche ebreo duran­ te l'occupazione tedesca?3 Che la loro paura fosse tutt'altro che ingiustificata, lo possiamo capire guar­ dando alle persone le cui vite resteranno per sempre legate alla storia degli ebrei di Jedwabne.

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Non mi fermerò a raccontare come durante l'occu­ pazione la famiglia Wyrzykowski riuscì a salvare Wa­ sersztajn e altri sei ebrei. Ma ciò che accadde loro dopo la liberazione ha a che vedere con il nostro tema.

Io, Aleksander Wyrzykowski, insieme con mia moglie Antonia, ho deciso di rilasciare la seguente deposizione. Quando arrivò l'Armata Rossa, questi martiri riacquista­ rono la libertà. Li vestimmo come meglio potemmo. Il pri­ mo andò alla sua abitazione, ma la sua famiglia era stata uccisa e così tornò a mangiare da noi. Gli altri rientrarono a casa loro. Un giorno, era sabato, vidi arrivare dei guerri­ glieri:4 «Oggi verremo a regolare i conti con l'ebreo», dis­ sero. E uno di loro aggiunse che una notte li avrebbero uc­ cisi tutti. Da quel momento l'ebreo andò a dormire nel campo, dentro una buca per le patate; gli diedi un cuscino e il mio cappotto. Andai ad avvertire anche gli altri, che iniziarono a cercare un nascondiglio. Contro le due ragaz­ ze fidanzate con costoro, i guerriglieri non avevano nulla, ma quei banditi le avevano ammonite di non avvertire i fi­ danzati dell'incursione. Quella stessa notte vennero da noi a prendere l'ebreo; ci ingiunsero di consegnarlo, affer­ mando che dopo averlo eliminato ci avrebbero lasciati in pace. Mia moglie disse che ero andato a trovare mia sorella e che l'ebreo era andato a Lomia e non era rientrato. La picchiarono al punto da non [asciarle un palmo di pelle in­ tatto: solo lividi, dappertutto. Presero tutto quello che vol­ lero e le ordinarono di riportarli indietro. Mia moglie li ac­ compagnò nei pressi di Jedwabne con un barroccio. Al suo rientro, l'ebreo uscì dal nascondiglio e vide come l'aveva­ no conciata. Dopo un po' sopraggiunse un altro ebreo, Ja­ nek Kubrzanski. Ci consultammo e decidemmo di andar-

Che cosa ricorda la gente?

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cene via. Ci stabilimmo a Lomia. Mia moglie lasciò uno dei bambini ai miei suoceri. Da Lomia ci trasferimmo a Bialystok, perché temevamo per la nostra vita ... Nel 1 946 di nuovo ci trasferimmo a Bielsk Podlaski. Ma dopo qual­ che anno la cosa si venne a sapere e dovemmo lasciare an­ che quella località. Dunque la taccia di avere aiutato gli ebrei durante l'occupazione segnò la famiglia Wyrzykowski inde­ lebilmente, seguendola di paese in paese nonché, si sarebbe poi rivelato, di generazione in generazione.s Alla fine Antonia Wyrzykowska attraversò l'oceano e si rifugiò a Chicago. Il figlio di suo nipote, rimasto nella zona di Jedwabne, veniva chiamato «ebreo» dai compagni di gioco ogni volta che questi si arrab­ biavano.

XIII LA RESPONSABILITÀ COLLETTIVA

Se il nucleo più recondito del progetto nazista di can­ cellare l'ebraismo dalla faccia della terra è destinato a rimanere un mistero, sui vari meccanismi della «So­ luzione finale» sappiamo molte cose. E una delle cose che sappiamo è che gli Einsatzgruppen, i reparti della polizia tedesca e i vari funzionari che misero in atto la «Soluzione finale» non forzarono la popolazione lo­ cale a partecipare direttamente all'eliminazione degli ebrei. I pogrom cruenti furono tollerati, e solo a volte anche sollecitati, specialmente dopo lo scoppio del conflitto tra la Germania e l'URSS: a tale riguardo il ca­ po dell'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, Reinhardt Heydrich, diramò una direttiva speciale.l Fu disposta anche una serie di divieti concernenti gli ebrei: nella Polonia occupata, per esempio, la popola­ zione, pena la morte, non poteva prestare soccorso agli ebrei che si nascondevano fuori dai ghetti creati dai tedeschi. Ma anche se in certi casi, specialmente nei campi di prigionia, qualche sadico poteva costrin­ gere i prigionieri a uccidersi tra loro, in generale nes­ suno fu costretto ad assassinare gli ebrei. In altre pa-

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role, la cosiddetta popolazione locale coinvolta nelle stragi

di ebrei agì di propria volontà. E se questo fenomeno (cioè il fatto che la popola­ zione polacca uccise gli ebrei volontariamente e non perché costretta) si è scolpito nella memoria colletti­ va ebraica, allora gli ebrei non potranno non consi­ derare questa gente particolarmente colpevole per ciò che ha commesso. Un assassino in divisa resta un funzionario statale che obbedisce a degli ordini. Si può anche ipotizzare che nutra qualche riserva men­ tale su ciò che gli è stato comandato di fare. Ma nel caso di un civile che uccide un altro essere umano di propria spontanea volontà le cose stanno ben diver­ samente: un individuo del genere è indiscutibilmen­ te un assassino. Durante la guerra i polacchi infierirono sugli ebrei in molti modi, e non soltanto con i massacri di cui la gente ci ha trasmesso vivida memoria. A titolo esem­ plificativo possiamo ricordare il gruppetto di donne che viene descritto nel frammento autobiografico «Un quarto d'ora in pasticceria» dell'intenso libro di memorie di Michal Glowinski, uno dei maggiori cri­ tici letterari polacchi dei nostri giorni. N eli' episodio in questione Glowinski, che all'epoca dell'occupa­ zione tedesca era un ragazzino, viene lasciato solo in un caffè di Varsavia per quindici minuti da una zia. Quest'ultima lo fa accomodare con un dolce a un ta­ volo ed esce per fare una telefonata. Appena la zia lascia il locale, il piccolo ebreo viene notato da un gruppetto di donne, che si mettono a osservarlo e a interrogarlo e non lo lasciano più in pace.2 Tra que­ sto episodio e la strage di Jedwabne si apre un am-

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responsabilità collettiva

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pio spettro di scontri tra polacchi ed ebrei, segnato, pur nella varietà delle situazioni, da un elemento co­ mune: in tutti i casi per gli ebrei si prospettavano conseguenze potenzialmente fatali. Nella nostra riflessione su quel periodo, dobbia­ mo evitare di chiamare in causa la responsabilità col­ lettiva. Dobbiamo essere sufficientemente lucidi da ricordare che ogni delitto ha il suo specifico respon­ sabile, sia esso un singolo assassino o un gruppo di assassini. E tuttavia possiamo avvertire il bisogno di comprendere che cosa renda una nazione (per esem­ pio «i tedeschi))) capace di compiere simili delitti. A meno che le atrocità non debbano semplicemente es­ sere messe tra parentesi e dimenticate: ma è lecito prendere arbitrariamente dal patrimonio nazionale ciò che ci piace e farlo nostro escludendo tutto il re­ sto? E per converso: se ciò che cementa un popolo è un'affinità spirituale (penso a certo orgoglio nazio­ nale radicato in esperienze storiche condivise da più generazioni), tale popolo non condivide allora, in un modo o nell'altro, anche la responsabilità delle atro­ cità perpetrate da singoli membri della «comunità ideale))? Può forse un giovane tedesco che oggi si trovi a riflettere sul senso della propria identità na­ zionale saltare a piè pari dodici anni (1933-1945) del­ la storia del suo Paese e dei suoi padri? E anche se nel processo di elaborazione dell'iden­ tità nazionale una certa selettività è inevitabile (nella propria immagine di sé non si può includere «tutto)), non foss' altro perché nessuno conosce «tutto)) e per­ ché in ogni caso, anche con le migliori intenzioni, serbare una «memoria globale)) sarebbe pressoché

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impossibile), per rimanere autentici i confini di un'i­ dentità nazionale così costituita dovrebbero restare sempre aperti: a chiunque, in ogni tempo, deve esse­ re riconosciuta la facoltà di mettere in questione tali costrutti interrogandosi su quanto un dato episodio, una data serie di episodi o un'epoca della storia pa­ tria sia in linea con l'immagine di sé che una nazione ha elaborato. Di solito il canone dell'identità collettiva si com­ pone di gesta insigni, straordinarie, meravigliose. Di azioni, insomma, che si discostano dalla vita ordina­ ria, azioni non comuni. E anche se di fatto ad avere compiuto tali imprese sono un singolo Fryderyk, un singolo Mikolaj o un singolo Jan, costoro, in quanto componenti costitutive del canone, appartengono senz' altro alla «nostra» comunità. Così la musica po­ lacca va giustamente fiera del «nostro» Chopin, la scienza polacca del «nostro» Copernico, e la Polonia può concepire se stessa come «bastione della cristia­ nità» (przedmurze chrzescijanstwa) anche, e non in pic­ cola parte, perché il re Jan Sobieski sconfisse i turchi in una decisiva battaglia nei pressi di Vienna. Per questi stessi motivi abbiamo tutto il diritto di chie­ derci se i crimini di gente come Laudanski e Karolak, altrettanto impressionanti e anomale, non vadano anch'esse a investire l'identità collettiva polacca. La mia è ovviamente una domanda retorica, per­ ché è quantomai chiaro che con il tempo un simile massacro non può non diventare affare di un'intera comunità. Basti ricordare il clamoroso dibattito pub­ blico innescato da un articolo apparso nel più impor­ tante quotidiano polacco, la «Gazeta Wyborcza».

La responsabilità collettiva

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L'autore, Michal Cichy, discuteva l'assassinio d i un gran numero di ebrei perpetrato a Varsavia da un re­ parto dell'Esercito patriottico polacco nell'estate del 1944, durante l'insurrezione della città.3 La concitata reazione del pubblico, manifestatasi in un fiume di lettere che si riversò sui redattori subito dopo la pub­ blicazione dell'articolo, rivela quanto, a cinquant' an­ ni di distanza, l'esecrabile comportamento di un gruppo di giovani sbandati riesca ancora a turbare i polacchi. Quanto più, allora, questo vale per il mas­ sacro di Jedwabne, al cui cospetto tutto ciò che fino a oggi avevamo immaginato circa i risvolti più infami dei rapporti tra polacchi ed ebrei durante la guerra appare ben poca cosa!

XIV UN NUOVO MODO DI ACCOSTARSI ALLE FONTI

Il massacro degli ebrei di Jedwabne, nella primavera del 1941, apre il campo alla storiografia delle relazio­ ni tra polacchi ed ebrei durante la Seconda guerra mondiale. I sedativi che per oltre cinquant'anni sto­ rici e giornalisti hanno somministrato nel trattare l'argomento devono essere accantonati. Non è asso­ lutamente vero che in Polonia, durante la guerra, l'e­ liminazione degli ebrei sia stata condotta dai soli te­ deschi, occasionalmente aiutati nell'attuazione della feroce impresa da qualche formazione di polizia au­ siliaria composta principalmente da lituani, ucraini o altri «calmucchi»; per tacere dei proverbiali capri espiatori su cui tutti, per evitare di assumersi le re­ sponsabilità del proprio operato, ebbero buon gioco ad accanirsi, i cosiddetti szmalcownicy, estorsori che campavano ricattando gli ebrei datisi alla clandesti­ nità: attribuendo ogni colpa a questa gente, gli stori­ ci, e non solo loro, hanno avuto modo di liquidare la questione con argomenti del tipo: si trattò di qualche individuo «socialmente marginale>>, il quale fu pe­ raltro processato dall'opposizione clandestina; la «feccia» esiste in tutte le società. I

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Alla luce di Jedwabne la questione delle relazioni intercorse tra polacchi ed ebrei durante la guerra non può più essere ridotta a simili formulette. Dob­ biamo riconsiderare non solo la storia polacca del periodo bellico, ma anche quella del dopoguerra, ri­ mettendo in discussione certe importanti chiavi in­ terpretative largamente accettate a spiegazione delle derive, degli atteggiamenti e delle istituzioni di que­ gli anni. Per cominciare, propongo di cambiare il nostro modo di accostarci alle fonti relative al periodo. Nel­ l' esaminare le testimonianze dei sopravvissuti per valutarne la portata documentaria sarebbe saggio mutare la disponibilità iniziale da una posizione aprioristicamente critica a una tendenziale accetta­ zione. Se ciò che si legge in un determinato resoconto viene assunto come un fatto finché non emergano argo­ menti convincenti in senso contrario, si eviteranno più errori di quanti se ne stanno probabilmente commet­ tendo nel segno del criterio opposto, quello che chia­ ma a considerare qualsiasi testimonianza con pru­ dente scetticismo finché sul suo contenuto non si siano trovate conferme indipendenti. Più grande è una cata­ strofe più rari sono i suoi superstiti. Quando dall'a­ bisso ci giunge una voce isolata, come è stata la testi­ monianza di Wasersztajn prima che fosse pubblicato il libro in memoria degli ebrei di Jedwabne e com'è ancora, a quanto mi consta, la testimonianza di Finkelsztajn sulla distruzione della comunità ebraica di Radzil6w, dobbiamo imparare ad ascoltarla. In una certa misura, parlo per esperienza persona­ le. Come ho detto all'inizio di questo volume, mi ci

Un nuovo modo di accostarsi alle fonti

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sono voluti quattro anni per capire il significato del­ la deposizione di Wasersztajn. Ma alla medesima conclusione - quella, cioè, che fino a prova contraria dovremmo assumere per vere le testimonianze di provenienza ebraica circa le atrocità commesse dalla popolazione locale - non si può non pervenire se so­ lo si consideri la totale assenza nella storiografia po­ lacca di saggi dedicati al coinvolgimento della popo­ lazione locale nello sterminio degli ebrei. È un tema di capitale importanza e può contare su una vasta documentazione. Solo nell'Istituto storico ebraico di Varsavia si conservano oltre settemila deposizioni, rilasciate subito dopo la guerra da gente scampata all'Olocausto, nelle quali la collusione dei polacchi nello sterminio dei compatrioti ebrei è dimostrata ad abundantiam. Come nel caso di Wasersztajn e Finkel­ sztajn, però, si tratta non di rado di deposizioni rila­ sciate dal solo testimone ancora in vita, il quale ha da raccontarci storie assolutamente «incredibili>> . Non chiedo altro che di mettere tra parentesi la no­ stra incredulità. Ma in ultima analisi l'invito che più urge a ripen­ sare il modo di affrontare le fonti non viene dalle no­ stre carenze professionali (di «noi» come comunità degli storici che si occupano di questo periodo). Sia­ mo dinanzi a un imperativo metodologico che di­ scende dall'intrinseca natura di tutte le testimonian­ ze sulla distruzione della comunità ebraica polacca nelle quali ci imbatteremo. Tutte le nostre informazioni sull'Olocausto, basate su quanto ci viene raccontato, non costituiscono un saggio rappresentativo della sorte subita dagli ebrei

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sotto il dominio nazista. Sono tutte prove viziate, orientate in una sola direzione: sono tutte storie a lie­ to fine. Si devono tutte a quei pochi che ebbero la fortuna di sopravvivere. Appartengono a questa ca­ tegoria persino i racconti dei testimoni che non si salvarono, racconti interrotti dall'improvvisa morte dei loro autori, i quali per ciò stesso ci hanno lasciato solo qualche frammento di quello che avevano da dire: le parti giunte sino a noi, infatti, possono essere state scritte solo mentre gli autori erano ancora vivi. Del calvario patito dal novanta per cento degli ebrei che vivevano in Polonia prima della guerra, dell'i­ stante in cui furono traditi, di quel «cuore di tene­ bra» che fu l'essenza stessa anche della loro espe­ rienza, non sapremo mai nulla. Ed è per questo che dobbiamo prendere alla lettera tutti gli scampoli di informazione di cui disponiamo, nella piena consa­ pevolezza che, rispetto al quadro offertoci dalle testi­ monianze superstiti, ciò che effettivamente accadde alla comunità ebraica durante l'Olocausto non può che essere ancora più tragico.

xv

È POSSIBILE ESSERE A UN TEMPO VITTIME E CARNEFICI?

Nella vita di ogni società la guerra è un'esperienza che crea mito. Ma nell' Europa orientale, in quella centrale e in quella meridionale essa è inesauribile fonte di intensi, anche se troppo spesso tragici, «rac­ conti di legittimazione». La memoria, per non dire il simbolismo, del martirologio nazionale della Secon­ da guerra mondiale occupa un posto di fondamenta­ le importanza nell' autocomprensione della società polacca del XX secolo.l Ogni paese ha il suo sacrario in ricordo delle vittime del terrore; ogni famiglia ha le sue raccapriccianti storie di esecuzioni, prigionia e deportazione. Come inserire in questo contesto la nuda e cruda realtà delle relazioni tra polacchi ed ebrei durante la guerra? In fondo Jedwabne, ancor­ ché sia stato uno dei più feroci attacchi (speriamo il più feroce) messi in atto dalla popolazione polacca contro gli ebrei, non fu un episodio isolato. E dinanzi ad esso sorge un interrogativo: è possibile che lo stesso soggetto, inteso come gruppo dotato di un'i­ dentità collettiva ben precisa, sia nello stesso tempo vittima e carnefice? È possibile soffrire e nello stesso tempo infliggere sofferenza?

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Nel mondo postmoderno la risposta a questa do­ manda è molto semplice: sì, è possibile. Del resto si è risposto in questo modo già per altre esperienze col­ lettive legate alla Seconda guerra mondiale. Dopo avere occupato la Germania e «scoperto» i campi di concentramento, nel contesto della campagna di de­ nazificazione gli Alleati fecero di tutto per mettere ogni tedesco a conoscenza dei crimini nazisti. Dall'o­ pinione pubblica tedesca giunse una risposta piutto­ sto imprevedibile: Armes Deutschland, «Povera Ger­ mania)).2 Fu questo il modo in cui la società tedesca accolse la notizia dei crimini perpetrati dalla Germa­ nia durante la guerra: il mondo ci odierà per quello che hanno fatto i nazisti. Ai tedeschi, evidentemente, non riusciva difficile assumere un certo atteggia­ mento vittimistico: in tal modo, infatti, potevano «al­ leggerire)> il carico di responsabilità che gravava su di loro per la guerra e per le sofferenze inflitte a un'infinità di martiri. In genere, tuttavia, questo sovrapporsi di versioni contraddittorie è fonte di scontri e polemiche. A tito­ lo esemplificativo, possiamo ricordare la lunga con­ troversia pubblica apertasi in Germania in seguito a una mostra fotografica organizzata dall'Istituto per le ricerche sociali di Amburgo e dedicata al ruolo svolto dall'esercito tedesco nel genocidio (Vernich­ tungskrieg. Verbrechen der Wehrmacht 1 941-1944). Se­ condo l'opinione generale, l'esercito regolare, in cui teoricamente avrebbe potuto prestare servizio ogni maschio tedesco in età di leva, era estraneo alle atro­ cità commesse ai danni degli ebrei. Ovviamente gli storici tedeschi sapevano bene che l'esercito aveva

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preso parte alle atrocità, e lo avevano anche scritto. Ciò nonostante, il grande pubblico non era disposto ad accreditare prove che confutassero quell'invetera­ ta convinzione. L' opinione pubblica polacca saprà accettare pacificamente, accanto alla sua profonda e giustificatissima memoria dell'oppressione sofferta all'epoca, la responsabilità di certi atti nefandi com­ messi durante la Seconda guerra mondiale? Gli ebrei che nel dopoguerra si riversarono nei campi profughi della Germania (come si sa, dopo il 1 945 circa 200.000 ebrei lasciarono la Polonia e si portarono perlopiù in quei campi) erano soliti dire che i tedeschi non li avrebbero mai perdonati per ciò che avevano fatto loro. Viene da chiedersi se la stessa formula non possa spiegare l'antisemitismo polacco meglio del solito ricorso al nome ebraico di qualche capo comunista dell'era stalinista (tipici quelli di Berman e Minc)3 i cui crimini avrebbero insinuato nel popolo polacco una generale maldisposizione verso gli ebrei. N ella Polonia del dopoguerra l'ostilità verso gli ebrei era un sentimento diffuso, che spesso sfociava in aggressioni: bisognerebbe davvero forzare i dati per presentarla come il frutto di una fredda e distac­ cata analisi della situazione politica che andava af­ fermandosi nel Paese all'indomani della guerra. E per arrivare a questa conclusione non c'è bisogno di chiamare in causa le conversazioni riportate da qual­ che memorialista ipersensibile o le reazioni soggetti­ ve a qualche occhiata o a qualche rilievo casuale. Ba­ sta considerare un fenomeno sociale che vide grandi masse impegnarsi in una manifestazione risoluta, ri-

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schiosa e indiscutibilmente spontanea delle loro inti­ me convinzioni: gli scioperi operai. In un saggio molto ben documentato dal titolo Gli scioperi operai in Polonia negli anni 1 945-1948, pubbli­ cato nel 19994 (ossia quando lo studioso diligente aveva ormai libero accesso a tutte le fonti documen­ tarie del caso), il giovane storico Lukasz Kaminski ha censito meticolosamente tutte le ondate di prote­ sta operaia che si susseguirono nel Paese negli anni del dopoguerra. Nella Polonia di quel periodo stava­ no succedendo molte cose. Le autorità comuniste stavano gradualmente decapitando le istituzioni so­ ciali e politiche autonome, compresi i sindacati e i partiti politici di massa che vantavano una lunga tra­ dizione, come il Partito socialista polacco (rrs) di Zygmunt Zulawski e il Partito contadino polacco (PSL), guidato allora da Stanislaw Mikolajczyk, Stani­ slaw Mierzwa e Stefan Korbonski. Intorno al 1 948 la Gleichschaltung [normalizzazione] delle istituzioni autonome polacche era praticamente completata: erano state assorbite da organismi facenti capo ai co­ munisti oppure messe al bando, e i loro leader erano stati arrestati, esiliati o ridotti al silenzio. Eppure scopriamo che in tutto quel periodo solo una volta la classe operaia lasciò le macchine e scese in sciopero

per motivi diversi da quelli legati alle mere questioni sala­ riali: fu quando protestarono contro la pubblicazio­ ne, da parte di vari giornali del Paese, delle loro stes­ se dichiarazioni contro il pogrom di Kielce, in cui, il 4 luglio 1946, una folla di polacchi aveva ucciso qua­ rantadue ebrei.S

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La situazione non è delle più facilmente compren­ sibili. Mi sia dunque consentito di citare il passo di Kaminsk.i: Il l O

luglio[l 9461 in molte fabbriche di L6dzfurono con­ vocate assemblee per condannare i responsabili del pogrom di Kielce. La gente era restia a firmare dichiarazioni di con­ danna. Ma il giorno seguente quelle dichiarazioni finirono sui giornali. Si scatenò allora uno sciopero di protesta. I primi a interrompere il lavoro furono gli operai della Fila­ tura di L6dz, e degli impianti Scheibler e Grohman, cui si unirono quelli della Buhle, Zimmerman, Warta, Tempo Rasik, Hofrichter, Gampe e Albrecht, Gutman, Dietzel, Radziejewski, Wejrach, Kinderman, W6lczanka, e i lavora­ tori di due segherie. All'inizio gli scioperanti chiedevano che la falsa notizia [secondo cui gli operai avevano fir­ mato quelle dichiarazioni] fosse rettificata, ma ooi prete­ sero anche il rilascio delle persone condannate [il processo sommario si era chiuso con quattordici condanne a morte] . La protesta fu molto dura. Ci furono atti di violen­

za contro le persone che esortavano a riprendere il lavoro ... Questo tipo di reazione da parte degli operai non fu insolito anche nel resto del Paese. In molte fabbriche la gente si ri­ fiutò di votare risoluzioni di condanna contro gli esecutori del pogrom . A Lublino, nel corso di un'assemblea di 1500 ferrovieri dedicata all'argomento, la folla gridò: «Abbasso gli ebrei», «Vergogna! Sono venuti a difendere gli ebrei», «Bierut [allora presidente della Polonia] non doveva condannarli a morte» e «A noi Wilno e Lw6w!».6 In quegli anni le occasioni per protestare contro il progressivo insinuarsi del comunismo in Polonia

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non mancavano. Ma evidentemente non fu questo il motivo che scatenò l'ondata di scioperi seguita al pogrom di Kielce. E se questi scioperi non si possono spiegare come proteste contro qualche immaginaria «consorteria giudaica», essi sono perfettamente spie­ gabili come un segno di frustrazione per l'impossibi­ lità di difendere adeguatamente gli innocenti bambi­ ni cristiani minacciati dai malvagi propositi degli ebrei. È esattamente questo il nucleo delle recrimina­ zioni colte per caso, durante il trasporto al pronto soccorso, da un'ebrea ferita nel pogrom di Cracovia dell'agosto 1945:

Nell'ambulanza udii la conversazione tra il soldato di scorta e l'infermiera. Parlavano di noi, definendoci feccia ebraica. Dicevano che non avrebbero dovuto soccorrerei, perché uccidevamo i bambini, ma che erano costretti a far­ lo. Dicevano che avremmo dovuto essere fucilati tutti. Ci portarono all'ospedale San Lazzaro, in via Kopernika. Io fui la prima a entrare in sala operatoria. Dopo l'intervento arrivò un soldato e disse che al termine delle operazioni ci avrebbe portati tutti in prigione. Picchiò uno degli ebrei feriti che aspettavano di essere operati. Tenendoci il fucile spianato contro, ci impedì di andare a bere un sorso d'ac­ qua. Un istante dopo sopraggiunsero due ferrovieri. Uno di loro disse: «È uno scandalo che un polacco non abbia il coraggio civile di colpire una persona inerme», e colpì un'ebrea ferita. Uno dei degenti dell'ospedale mi percosse con una stampella. Oltre la soglia le donne, comprese le infermiere, ci minacciavano, dicendo che stavano solo aspettando il momento dell'operazione per farci a pezzi.7

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Nella Polonia del dopoguerra, insomma, l'antise­ mitismo era assai diffuso, ben prima di qualsiasi ten­ tativo dei comunisti di prendere il potere. Oltre che nell'esperienza della guerra, aveva infatti radici profonde nelle superstizioni medievali circa l' omici­ dio rituale. Perché la famiglia Wyrzykowski dovette abbandonare la sua fattoria? «Hershek, sei ancora vi­ vo?»; quando si trascinò fuori dal suo nascondiglio nella foresta, Hershel Piekarz fu salutato da una vo­ ce piena di incredulità e da uno sguardo pieno di di­ sprezzo.s Anche quella reazione non scaturì dalla convinzione che esistesse qualche favolosa «consor­ teria giudaica», né dalla rabbia per la collaborazione degli ebrei all'infiltrazione comunista promossa dai sovietici in Polonia. Hershel Piekarz, come gli altri sparuti ebrei che sopravvissero alla guerra, e la fami­ glia Wyrzykowski, come gli altri eroici polacchi che durante la guerra nascosero, con grande rischio, gli ebrei e che dopo la guerra dovettero tenere celata ai concittadini tale circostanza, tutti costoro non furono odiati o temuti perché criptocomunisti, ma piuttosto perché imbarazzanti testimoni dei crimini che erano stati commessi contro gli ebrei. Essi avrebbero potu­ to tra l'altro rivelare gli illeciti benefici materiali che molti continuavano a godere grazie a quei crimini. L'esistenza di gente come Piekarz e i Wyrzykowski costituiva un atto d'accusa, un'occasione di rimorso, ma anche una potenziale minaccia.

XVI LA COLLABORAZIONE

E che dire di un tema classico del periodo bellico, un tema che nella storiografia polacca sull'epoca, come sappiamo, non ha posto: la collaborazione?l In fondo quando Hitler, nel giugno del 1941, lanciò la sua Blitzkrieg contro l'URSS, i soldati tedeschi furono accol­ ti dalla popolazione locale degli ex territori polacchi (quelli annessi all'Unione Sovietica nel 1 939) come un esercito di liberatori! L'8 luglio 1941 il comandante del clandestino Esercito nazionale polacco (AK), gene­ rale Grot-Rowecki, inviò a Londra un dispaccio che informava il governo polacco in esilio di quanto ami­ chevolmente fosse stato accolto l'esercito tedesco nei cosiddetti Kresy Wschodnie (territori di confine orien­ tali).2 «Quando i tedeschi attaccarono l'esercito sovie­ tico» scrive un contadino del voivodato di Bialystok «la popolazione polacca di quei territori riservò loro un'accoglienza piuttosto calda, non capendo di avere di fronte il più terribile nemico dello spirito polacco. In diversi villaggi i tedeschi furono accolti con fiori e cose del genere ... La sorella di uno dei compaesani, appena rientrata da Bialystok, ci raccontò dell' entu­ siastica accoglienza che i tedeschi avevano ricevuto

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dalla popolazione polacca della città.» Un'altra tipica testimonianza, anch'essa della regione di Bialystok, riferisce: «La gente cominciò a parlare dell'imminen­ te guerra tra tedeschi e russi; l'auspicavano tutti, nel­ la speranza che i tedeschi avrebbero cacciato i russi, permettendoci così di restare nei nostri paesi e impe­ dendo ai russi di deportarci tutti ... Alla fine, nel giu­ gno del 1 941, la guerra tra i due paesi scoppiò, e pochi giorni dopo i russi si ritirarono. Le persone che si era­ no nascoste esultarono: la paura di essere deportati in Russia era svanita, e chiunque incontrasse un amico o un parente che non vedeva da diverso tempo, lo salu­ tava subito con queste parole: "Non ci deporteranno più" . Il prete di una parrocchia vicina, per esempio, passò per il nostro villaggio il giorno dopo che i russi se ne erano andati e a tutti quelli che incontrò disse: "Non ci deporteranno più". Probabilmente i russi commisero un errore a deportare grandi contingenti di polacchi in Russia; per quell'azione la gente arrivò davvero a odiarli».3 Di fatto tra giugno e luglio 1941 oltre metà del terri­ torio che prima della guerra apparteneva alla Polonia era stato affrancato dal dominio bolscevico e la popo­ lazione locale, con l'ovvia eccezione degli ebrei, si di­ mostrò grata accogliendo le unità della Wehrmacht a braccia aperte. Creò subito organi amministrativi as­ serviti ai tedeschi e pronti ad appoggiarli nella Verni­ chtungskrieg [guerra di annientamento] contro «ebrei e commissari».4 Del resto Ramotowski e i suoi com­ plici furono processati per «avere agito in modo da favorire gli interessi dello Stato tedesco», ecc. Tocchiamo a questo punto una questione che inte-

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resserà lo studioso di psicologia sociale: la sovrappo­ sizione di due episodi verificatisi in quel periodo. Nei racconti che ci sono pervenuti le due conquiste dello stesso territorio, quella dell'Armata Rossa nel 1 939 e quella della Wehrmacht nel 1941, sono come innestate l'una sull'altra. Insomma, la reazione entu­ siastica degli ebrei all'arrivo delle unità dell'Armata Rossa non fu affatto un fenomeno diffuso, ed è im­ possibile individuare nella collaborazione ebraica con i sovietici durante il periodo 1939-1941 caratteri­ stiche peculiari ed esclusive.s Sull'altro fronte, però, appare chiaro che nel 1941 la popolazione non ebrai­ ca salutò l'arrivo delle unità della Wehrmacht con entusiasmo e offrì ai tedeschi ampia collaborazione, fino a impegnarsi nella campagna di sterminio con­ tro gli ebrei. È evidente quindi che nel 1941 la popolazione lo­ cale non ebraica elaborò il proprio atteggiamento verso i tedeschi (l'argomento è tuttora tabù e la sto­ riografia polacca non se ne è mai occupata) in base alle storie che correvano circa il comportamento te­ nuto dagli ebrei nel 1939 verso i sovietici. La testimo­ nianza di Finkelsztajn sull'accoglienza riservata ai tedeschi dalla popolazione polacca di Radzil6w sembra rispecchiare i racconti che circolavano un po' ovunque sull'accoglienza riservata ai boscevichi da­ gli ebrei della Galizia nel 1939. E l'episodio in cui i sovietici reclutano collaborato­ ri della polizia segreta tra gli attivisti della lotta clan­ destina polacca, riferito dal colonnello Misjurev e confermato dalla (auto)biografia di Laudanski? Si tratta forse dell'esempio particolare di un fenomeno

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più generale tipico dell'epoca? Le persone compro­ messe dalla collaborazione con un regime tirannico non sono forse predestinate, per così dire, a diventa­ re collaboratori del regime tirannico successivo che si impone nella stessa regione? Individui del genere potrebbero essere spinti a mostrare entusiasmo per i nuovi padroni e per la loro polizia sin dall'inizio, per accumulare in anticipo un credito sufficiente a con­ trobilanciare le responsabilità che si vedrebbero ad­ debitare qualora venisse alla luce la loro attività per il regime precedente. Oppure potrebbero collaborare perché facile e scontato oggetto di ricatto da parte delle nuove autorità, venute a conoscenza del loro passato. Il nazismo, ripetiamolo con il tedesco Eric Voegelin, filosofo della politica, è un regime che fa leva sugli istinti malvagi degli esseri umani, non so­ lo perché insedia «gentaglia» in posizioni di potere, ma anche perché «l'uomo comune è un uomo ragio­ nevole finché la società nel suo complesso si mantie­ ne in ordine, ma quando da qualche parte si propaga il disordine e la società comincia a cedere, diventa un selvaggio che non sa più quello che fa».6 Il secondo conflitto mondiale, o, per essere più precisi, l'occupazione sovietica e quella tedesca da esso provocata, espose per la prima volta la provin­ cia polacca al modus operandi dei regimi totalitari. E non desta sorpresa né che una società così tormenta­ ta ne sia uscita in modo non particolarmente brillan­ te, né che entrambe le esperienze collettive abbiano provocato una profonda demoralizzazione. Per co­ gliere meglio il punto della questione non abbiamo nemmeno bisogno di attingere alle sottili diagnosi di

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qualche raffinato intellettuale, per esempio all'insu­ perato studio circa l'impatto della guerra sulla so­ cietà polacca scritto dal letterato Kazimierz Wyka.7 Basta volgere la mente alla piaga del banditismo e dell'alcolismo in tempo di guerra, attestata pratica­ mente da tutte le fonti dell'epoca. Per averne un sag­ gio si vedano, ancora una volta, i racconti di contadi­ ni sull'esperienza della guerra raccolti nel 1948 per un «concorso» pubblico organizzato dalla casa edi­ trice polacca Czytelnik. Krystyna Kersten e Tomasz Szarota pubblicarono il contributo di circa millecin­ quecento autori in quattro voluminosi tomi dal titolo

La campagna polacca, 1939-1 948.B Per me il più sconvolgente esempio della disinte­ grazione morale occorsa in quegli anni, un esempio che illustra la rottura dei tabù culturali che proibi­ scono l'uccisione di esseri umani innocenti, si può trovare nella storia della contadina di un villaggio vicino a Wadowice, una storia in cui nessuno viene ucciso, una storia che va letta come un inno all'amo­ re e al sacrificio disinteressato. Karolcia Sapetowa, «una ex donna di servizio», ha lasciato questa testi­ monianza allo staff della Commissione storica ebrai­ ca e ora essa è custodita presso l'Istituto storico ebraico di Varsavia:

La nostra famiglia era composta da tre bambini e i loro genitori. Il più piccolo, Sammy Hochheiser, una bambina, Sally, e il più grande, Izzy. Durante il primo anno di guerra il padre fu ucciso. Quando tutti gli ebrei furono concentrati nel ghetto, ci separammo. Ogni giorno mi re­ cavo al ghetto per portare quel che potevo. I bambini mi

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mancavano molto, li consideravo miei figli. Quando al ghetto le cose si mettevano particolarmente male, i bambi­ ni venivano a casa mia e rimanevano con me fino a quan­ do la situazione non si calmava. Da me si sentivano a ca­ sa. Nel 1 943 il ghetto fu liquidato. Per pura coincidenza quel giorno il bambino più piccolo era a casa mia. Andai al cancello del ghetto, che era completamente circondato da uomini delle ss e ucraini [formazioni di polizia ausilia­ ria composte da ex cittadini dell'Unione Sovietica, per i quali talvolta i polacchi usavano l'espressione sommaria di «ucraini» ] . La gente correva qua e là al­

l' impazzata. Al cancello si era accalcata una folla di madri disperate, con i loro bambini. Improvvisamente vidi Sally e Izzy e la mamma. Anche quest'ultima mi vide, e sus­ surrò all'orecchio della piccola: «Vai da Karolcia». Senza un attimo di esitazione Sally sgusciò come un topolino tra gli stivaloni degli ucraini, che per miracolo non la notaro­ no. Mi corse incontro smarrita, con le mani tese. Con il cuore in gola mi diressi insieme a Sally e a una zia verso il mio villaggio, Witanowice, vicino a Wadowice. La mam­ ma e Izzy furono trasferiti, e da allora non diedero più loro notizie. La vita era durissima e, credetemi, quei bambini si sono salvati solo per un miracolo. All'inizio i bambini uscivano, ma quando le relazioni divennero più tese, dovetti tenerli nascosti in casa. Ma anche così era inutile. La gente del posto sapeva che stavo nascondendo dei piccoli ebrei e minacce e pressioni mi pio­ vevano addosso da ogni parte: avrei dovuto consegnare i bambini alla Gestapo, per rappresaglia l'intero villaggio rischiava di essere bruciato, la gente sterminata e così via. Il capo del villaggio era dalla mia parte e spesso questo mi rasserenava. Quanto alle persone più aggressive e insi-

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stenti, le calmavo con qualche occasiona/e regalo, oppure pagandole. Ma non durò a lungo. Le 55 continuavano a battere la zona, e le proteste ricominciarono, finché un giorno mi fu detto che dovevo eliminare i bambini. Fu messo a punto un piano per portarli nel granaio e, quando si sarebbero addormentati, tagliare loro la testa con un'ascia. Giravo qua e là come una pazza. Il mio anziano padre era diventato irremovibile. «Che fare? Che cosa devo fa­ re?» I bambini, poveretti, avevano capito tutto e prima di andare a dormire ci scongiurarono: «Karolciu, non ucci­ deteci oggi. Non ancora». Mi resi conto che stavo diven­ tando insensibile e decisi che non avrei tradito i bambini a nessun prezzo. Ebbi un'idea luminosa. Misi i bambini su un carro e dis­ si a tutti che stavo andando ad affogarli. Attraversai con il carro tutto il villaggio, così tutti mi videro e ci credettero. E quando calò la notte tornai insieme ai bambini .. 9 .

La storia ha un lieto fine: i bambini si salvarono e la Sapetowa dichiara con profonda emozione che li seguirà ovunque, perché li ama più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma noi abbiamo appreso la terribile notizia che la popolazione di un piccolo villaggio nei pressi di Cracovia tirò un sospiro di sollievo solo quando fu persuasa che una sua concittadina avesse eliminato due piccoli bambini ebrei. Fino a che punto la caduta morale del periodo bel­ lico coinvolse i contadini polacchi, almeno per quan­ to riguarda l'atteggiamento verso gli ebrei, è stato descritto con insuperabile efficacia da uno dei più importanti memorialisti del periodo, il dottor Zyg-

138

I carnefici della porta accanto

munt Klukowski, direttore dell'ospedale distrettuale del villaggio di Szczebrzeszyn, vicino a Zamosé. Quando ormai tutti gli ebrei di Szczebrzeszyn erano stati uccisi, una vicenda che nel suo Dziennik z lat okupacji zamojszczyzny (Diario degli anni dell' occu­ pazione della regione di Zamosé) il dottore riferisce in tutti i suoi spaventosi dettagli, Klukowski scrive­ va disperato la seguente pagina, datata 26 novembre 1942: «Per paura delle rappresaglie, i contadini van­ no a cercare gli ebrei nei villaggi e li portano in città o, a volte, li uccidono sul posto. In generale di fronte alla questione degli ebrei la gente si è lasciata trasci­ nare in una terribile caduta morale. Si è fatta cogliere da una psicosi e sta imitando i tedeschi: negli ebrei, infatti, non vede degli esseri umani, ma solo degli animali perniciosi che devono essere sterminati con ogni mezzo, come i cani rabbiosi o i topi» .lo Prendendo parte alla persecuzione degli ebrei, nell'estate del 1941 un abitante di quei territori pote­ va contemporaneamente ingraziarsi i nuovi domina­ tori, trarre benefici materiali dalle proprie azioni (non c'è dubbio che nella spartizione dei beni lasciati dagli ebrei, il meglio toccava a chi aveva partecipato attivamente ai pogrom) e dare sfogo alla tradiziona­ le ostilità dei contadini locali verso gli ebrei. Se ag­ giungiamo l'incoraggiamento dei nazisti e l'impres­ sione, non difficile a suscitarsi, che si trattava di regolare i conti con la «consorteria giudaica» per le angherie subite sotto l'occupazione sovietica, chi po­ teva resistere a una miscela tanto diabolica ed esplo­ siva?ll Ovviamente gli indispensabili presupposti erano una brutalizzazione delle relazioni interperso-

La collaborazione

139

nali, una certa caduta dei valori morali e una genera­ le autorizzazione all'uso della violenza. E proprio questi furono i metodi e i meccanismi sfruttati da en­ trambi gli invasori. Non è difficile immaginare che tra i più attivi partecipanti al pogrom di Jedwabne dovevano esserci molti collaboratori segreti del­ l'NKVD (li menzionerà il colonnello Misjurev in un memoriale al segretario Popov), come Laudanski, che nella sua autobiografia ci racconta infatti di ave­ re lavorato come spia per i sovietici per poi servire i tedeschi come assassino di ebrei.

XVII LA SOCIETÀ E IL SOSTEGNO ALLO STALINISMO

Il tempo, però, non si fermò al 1941 . E se si riconosce la plausibilità psicologica e sociologica del meccani­ smo che ho appena descritto, si apre allora un'inte­ ressante ipotesi sull'avvento e il consolidamento al potere del regime comunista in Polonia negli anni 1945-1948. Alla luce di quanto detto sin qui, azzarde­ rei l'ipotesi che nel processo che condusse al potere i comunisti in Polonia dopo la guerra, a livello locale gli alleati naturali del Partito comunista furono le persone che si erano compromesse durante l'occupa­ zione tedesca. Sappiamo che per molta gente l'adesione al comu­ nismo avvenne nel segno di una dedizione autenti­ ca; prima e dopo la guerra molti sostennero il Partito comunista semplicemente perché ci credevano e non perché fossero conformisti o perché nel Paese fosse presente l'Armata Rossa. Ma oltre che a questa riser­ va di sostenitori ingenui e idealisti, i totalitarismi del XX secolo attinsero anche a una manovalanza di al­ tro tipo. Spesso i loro collaboratori e uomini di fidu­ cia più validi furono individui privi di qualsiasi principio ideale, come hanno rilevato molti studiosi del totalitarismo. l

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I carnefici della porta accanto

Perché la «gentaglia» di Voegelin, quella che sbrigò il lavoro sporco nella Polonia occupata dai na­ zisti, non avrebbe dovuto riciclarsi come asse por­ tante del sistema di potere stalinista che si instaurò cinque anni dopo? Penso alla realtà periferica con­ densatasi attorno al nucleo dei comunisti devoti, che in Polonia, come sappiamo, erano in fondo ben po­ chi. In nome di quali venerati principi avrebbe do­ vuto negare i propri servigi al nuovo padrone? Per­ ché mai avrebbe dovuto rinunciare ai privilegi che si accordano a chi entra a far parte dell'apparato di po­ tere (leggi: di terrore) in sede locale? Perché avrebbe dovuto preferire la prigione alla scuola di polizia? Non sono figure del genere quelle che ha in mente Laudanski quando scrive: «Credo che con persone come me il nostro governo operaio possa dormire sonni tranquilli»? Tali riflessioni sul processo con cui il regime co­ munista arrivò a imporsi possono essere condotte anche guardando all'osservatorio privilegiato della società, invece che a quello dell'apparato di potere. Procedendo in questa prospettiva, avanzerei l'ipote­ si che le comunità in cui durante la guerra gli ebrei furono uccisi per iniziativa della popolazione locale risultarono poi particolarmente vulnerabili alla so­ vietizzazione. Se l'affermazione e il consolidamento del monopolio del potere in seno alla società da par­ te del comunismo richiede anzitutto l'atomizzazione della società stessa, un'efficace opposizione alla sca­ lata dei comunisti verso il potere può prodursi sol­ tanto in contesti sociali capaci di esprimere solida­ rietà. La questione, allora, può essere prospettata in

La società e

il sostegno allo stalinismo

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termini piuttosto semplici: è possibile che una comu­ nità locale fino a ieri impegnata nel massacro dei suoi concittadini riesca a esprimere un'azione di contrasto nei confronti di una scalata al potere giudi­ cata ostile? Come si può dare credito a gente che ha assassinato, o deliberatamente denunciato ai carnefi­ ci, altri esseri umani? E ancora, in nome di quale principio chi ha agito come strumento di violenza protesterà, quando qualcun altro ritorcerà la violen­ za contro di lui? Il metodo migliore per sciogliere il nodo è quello di individuare riscontri fattuali mediante la ricerca em­ pirica. Allo stato attuale, comunque, si può proporre un'ipotesi molto suggestiva, che capovolge un cliché assai consolidato circa quel periodo: nella Polonia del

dopoguerra il processo di affermazione del regime comuni­ sta si avvalse non tanto di ebrei, quanto di an tisemiti. In fin dei conti dopo la guerra in numerosi distretti, con­ tee, paesi e città della provincia polacca gli ebrei non esistevano più, perché i pochi superstiti erano espa­ triati appena possibile.2 Eppure non c'è dubbio che durante il costituirsi della «Polonia popolare» qual­ cuno nel Paese dovette prendere in mano la situazio­ ne. Ma allora, come si era chiesto quasi cento anni pri­ ma Vladimir Il'ic Lenin, kto kogo?, chi ebbe la meglio su chi? Anche solo per via dell'evoluzione ideologica del regime comunista polacco, culminata nel marzo del 1 968 in un rigurgito di antisemitismo ufficiale,3 eviterei di accantonare del tutto l'ipotesi che a forma­ re la spina dorsale dello stalinismo in Polonia non sia­ no stati gli ebrei quanto il Lumpenproletariat indigeno.

XVIII PER UNA NUOVA STORIOGRAFIA

Nei confronti della storiografia che si occupa del pe­ riodo, la questione dei rapporti tra ebrei e polacchi durante la guerra è simile a un filo sciolto: se lo affer­ riamo e lo tiriamo, vedremo smagliarsi tutto l'intri­ catissimo arazzo. A mio avviso l'antisemitismo ha contaminato interi tratti di storia polacca del Nove­ cento, trasformandoli in argomenti proibiti e propo­ nendo interpretazioni stereotipate il cui ruolo è stato quello di coprire, come una foglia di fico, ciò che era accaduto realmente. Sennonché la storia di una società può essere con­ cepita come una biografia collettiva. E come in una biografia, anch'essa composta da diversi episodi, nella storia di una società ogni elemento è connesso con tutto il resto. Così se in un punto di questa bio­ grafia collettiva si annida una grande menzogna, tutti gli sviluppi seguenti saranno privi di attendibi­ lità e dominati dalla paura che la verità emerga. E anziché vivere la loro vita, i membri della comunità in questione passeranno il tempo a guardarsi sospet­ tosi dietro le spalle, cercando di indovinare il giudi­ zio degli altri sul loro comportamento. Continueran-

146

l carnefici della porta accanto

no a stornare l'attenzione dagli episodi più incre­ sciosi e oscuri del loro passato e si prodigheranno per difendere a ogni costo «il buon nome del Paese». Tratteranno ogni intralcio e ogni contrarietà come il frutto di proditorie congiure del nemico. Sotto que­ sto riguardo, tra le nazioni europee la Polonia non costituisce affatto un'eccezione. E come molte altre nazioni, per recuperare il loro passato i polacchi do­ vranno ripercorrerlo da capo. Un monito in questo senso ci viene proprio da Jedwabne. Qui su due monumenti di pietra in me­ moria del periodo bellico furono scolpite delle iscri­ zioni. La prima proclama una pura menzogna, affer­ mando che i 1 600 ebrei di Jedwabne furono uccisi dai nazisti. L'altra, realizzata nella Polonia post 1989 è ancora più rivelatrice. Recita così: «Alla memoria delle circa 180 persone, tra cui due sacerdoti, assassi­ nate nel territorio del distretto di Jedwabne negli an­ ni 1 939-1956 dall'NKVD, dai nazisti e dalla polizia se­ greta [UB] »; firmato «la società [spoleczeristwo]». Un occultamento della presenza ebraica a Jedwabne; op­ pure un'implicita ammissione del crimine, dato che i 1 600 ebrei del paese non furono uccisi né dall'NKVD né dai nazisti né dalla polizia segreta stalinista, ben­ sì, come ormai sappiamo oltre ogni ragionevole dub­ bio e come la popolazione di Jedwabne ha sempre saputo, dai loro vicini di casa.

POSCRITTO

Il caso Jedwabne fu portato all'attenzione dei media polacchi dalla messa in onda del documentario di Agnieszka Arnold Dov'è mio fratello Caino ? - che con­ tiene tra l'altro il breve frammento di un'intervista alla figlia di Sleszyitski realizzata nell'aprile 2000 nonché dai servizi-inchiesta di Andrzej Kaczynski, pubblicati nel maggio dello stesso anno dal quoti­ diano «Rzeczpospolita». Calopalenie, il primo articolo di Kaczynski, incentrato esclusivamente sul massa­ cro degli ebrei di Jedwabne, è apparso nella prima pagina dell'autorevole giornale, che vanta una diffu­ sione nazionale di parecchie centinaia di migliaia di copie, il 5 maggio 2000. L'articolo successivo è uscito due settimane dopo, il 1 9 maggio . Quello stesso giorno alla Fiera internazionale del libro di Varsavia veniva lanciata l'edizione in lingua polacca di I car­

nefici della porta accanto. Come ha confermato l'inchiesta di Kaczynski, gli abitanti di Jedwabne sapevano perfettamente che durante la guerra gli ebrei erano stati uccisi dai loro concittadini. Questo era e resta un punto incontesta­ to. Bisogna aggiungere che in una serie di incontri

148

I carnefici della porta accanto

tra il sindaco di Jedwabne, la cittadinanza, rappre­ sentanti della Chiesa cattolica di Jedwabne e di Lomza e rappresentanti della comunità ebraica di Varsavia recatisi a Jedwabne è emersa la volontà co­ mune di identificare il luogo di sepoltura degli ebrei assassinati e trasformarlo in cimitero, cambiare il monumento e la relativa iscrizione in modo che ri­ specchino la verità dei fatti e studiare e divulgare la vicenda in tutti i suoi dettagli. Nell'agosto 2000, poi, il neonato Istituto per la memoria nazionale, che ha il potere di istruire procedimenti in caso di «crimini contro la nazione polacca», ha annunciato l'intenzio­ ne di avviare un'indagine sul massacro di Jedwabne e di citare in giudizio tutti i responsabili ancora in vi­ ta passibili di azione penale. Credo, insomma, che a questo punto la nuova generazione, cresciuta in una Polonia democratica e liberale, sia pronta per guar­ dare in faccia la vera storia delle relazioni tra polac­ chi ed ebrei durante la guerra.

NOTE

In traduzione

1

L'espressione è tratta dal libro di Paulina Preis, Biurokracja total­ Paris, lnstytut Literacki, 1969. Per una discussione generale del totalitarismo come «Stato perturbatore» cfr. l'ultimo capitolo del mio Revolution from Abroad: Soviet Conquest of Poland's Western Ukrai­ ne and Wes tern Belorussia, Princeton, Princeton University Press, 1988. 2 Hannah Arendt, Organized Guilt and Universal Responsibility, in Essays in Understanding, 1930-1954, New York, Harcourt, Brace and Co., 1994, p. 126. 3 Il vocabolo fece la sua prima comparsa in una comunicazione diramata dopo l'incontro tra Hitler e Pétain avvenuto a Montoire il 24 ottobre 1 940: «Une collaboration a été envisa gée entre nos deux pays», diceva l'anziano maresciallo in un appello ai suoi compatrioti; >, 5 (maggio-luglio 1991), pp. 3-27, nel quale cita estratti di conversazioni da lui avute negli anni Ottanta con protagonisti e testimoni diretti di quei fatti. Gniatowski racconta come l'organizzazione clandestina fu smantel­ lata dall'NKVD (W radzieckich okowach, pp. 125-127). 9 Ringrazio il dottor Dariusz Stola per avermi proposto la sua in­ teressantissima ipotesi sul possibile legame tra i due fatti: forse gli arresti di massa seguiti alla scoperta dell'organizzazione clandestina di Kobielno da parte dell'NKVD spazzarono via le élite locali al punto che nel luglio del 1941 non c'era più alcuna autorità in grado di argi-

Note

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nare l'ondata d i violenza antisemita. Probabilmente la tesi non è del tutto priva di fondamento. Tuttavia alla luce della testimonianza di Finkelsztajn su Radzil6w, citata più avanti, non possiamo non nutri­ re dubbi sul fatto che le élite locali fossero veramente intenzionate a contrastare le esplosioni di violenza antisemita nella regione. IO Borawski ci informa che due dei suoi fratelli vivevano a Jedwabne. Poiché la traslitterazione di alcuni nomi dallo yiddish della deposizione originale di Wasersztajn è imprecisa, potrebbe trattarsi dei fratelli Borowski o Borowiuk menzionati da Wasersz­ tajn. 11 >; cfr. Marek Wierzbicki, Stosunki polsko-tydow­ skie na Zachodniej Bialorusi (1939-1941). Rozwatania wstçpne, mano­ scritto, 1999-2000, p. 15. Gniatowski cita i dati numerici contenuti nei documenti dell'NKVD, dai quali risulta che nelle organizzazioni clandestine polacche dell'area non c'erano ebrei ( W radzieckich okowach, p. 120). 1 3 Jasiewicz-S trzembosz-Wierzbicki, Okupacja sowiecka (19391 941), pp. 238-241. Cfr. inoltre Gniatowski, W radzieckich okowach, p. 127.

V Lo scoppio della guerra tra russi e tedeschi e il pogrom di Radzil6w l Intervista a Wiktor Nielawicki. Il sedicenne Nielawicki si era ri­ fugiato a Jedwabne da Wizna, dove subito dopo l'arrivo delle trup­ pe d'occupazione i tedeschi avevano eliminato decine di persone. 2 Per una trattazione più diffusa dell' argomento cfr. infra il capi­ tolo > (es, SWB 145/213). Voglio sottolineare che le circostanze del massacro degli ebrei di quel lO luglio erano un argomento di conver­ sazione piuttosto frequente in paese. Ne risulta che la gente era a co­ noscenza di dettagli che non necessariamente aveva visto di persona. «La popolazione locale parla assai spesso della strage degli ebrei nel granaio di Sleszynski, scambiandosi informazioni sui principali re­ sponsabili del delitto» scrive, per esempio, Henryk Krystowczyk (es, SWB 145 l 235). Ancora oggi è facile trovare in qualche bar di Jedwabne gente (per la maggior parte persone nate molto tempo dopo la guer­ ra) che parla di quegli avvenimenti (si veda anche l'articolo di Andr­ zej Kaczynski Calopalenie, in «Rzeczpospolita», 5 maggio 2000). Cre­ do che in un paese in cui si continua a scambiarsi informazioni su chi uccise quanti ebrei e in che modo, difficilmente si possa conversare di qualcos' altro. Probabilmente sui cittadini di Jedwabne incombe una «maledizione di re Mida» che li condanna a occuparsi in eterno degli ebrei (dei quali cercarono di disfarsi una volta per tutte) e del loro as­ sassinio. Antosia Wyrzykowska dice che quando visitò il paese, molti anni dopo la guerra, provò ancora paura. 7 A noi non resta che speculare su un risvolto particolare di que­ ste conversazioni, riferite da Wasersztajn e Gr> dei compatrioti, diffamati collettivamente dalla tesi di Blonski. Gli interventi di Jan Blonski e Wladyslaw Sila-Nowicki, ol­ tre a molti altri articoli pubblicati sulla scia del contributo di Blonski e un dibattito sulla questione tenutosi in occasione di una conferen­ za che ebbe luogo a Gerusalemme un anno più tardi, sono contenuti nel volume in lingua inglese «My Brother's Keeper ?>>. Recent Polish Debates an the Holocaust, a cura di Antony Polonsky, London, Rou­ tledge, 1990.

XV È possibile essere a un tempo vittime e carnefici? 1 Cfr. il mio contributo A Tangled

Web, in Deak-Gross-Judt, The Po­ litics of Retribution in Europe. 2 Atina Grossman, Trauma, Memory, and Motherhood: Germans and Jewish Displaced Persons in Post-Nazi Germany, 1 945-1 949, in «Archiv fiir Sozialgeschichte>>, 38 (1998), pp. 21 5-239, specialmente la sezione d'apertura, , pp. 215-217. Si veda anche l'articolo di Hannah Arendt, The Aftermath of Nazi Rule, in , ottobre 1950, pp. 342-353. C'erano anche altre ragioni che potevano contribuire a instillare nei tedeschi l'idea di essere vittime, in particolare i frequenti e gene­ ralizzati stupri di donne tedesche da parte dei soldati dell'Armata Rossa e la sorte toccata ai profughi e agli espulsi della Prussia Orien­ tale, della Slesia e dei Sudeti. Cfr. Norman Naimark, The Russians in Germany: A History of the Soviet Zone of Occupation, 1 945-1 949, Cam­ bridge, Harvard University Press-Belknap Press, 1995. 3 Per una buona ricognizione sulle personalità dei e in particolare di Jakub Berman (1901-1984) e Hilary Mine (1 905-1 974) si veda il volume di colloqui curato da Teresa Toranska, Oni: Stalin's Polish Puppets, London, Collins Harvill, 1987. Entrambi di famiglia ebraica, Berman e Mine divennero personalità di rilievo nell'apparato del Partito comunista durante il periodo bellico, che

176

I carnefici della porta accanto

trascorsero in Unione Sovietica. Nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta fecero parte dei politburo del Partito comunista po­ lacco, dove Berman svolse il ruolo di responsabile dell'apparato per la sicurezza e Mine quello di supervisore dell'economia. 4 Lukasz Kammski, Strajki robotnicze w Polsce w latach 1945-1 948, Wrodaw, GAIT Wydawnictwo s.e., 1999. 5 Per un breve appunto sul contesto del pogrom di Kielce cfr. la nota 2 al capitolo XI, . 6 Kaminski, Strajki robotnicze w Polsce w latach 1 945-1948, p. 46. 7 Il passo è citato in Gross, A Tangled Web, in Deak-Gross-Judt, The Politics of Retribution in Europe, p. 111. 8 Yedwabne, p. 98.

XVI La collaborazione 1 Per una succinta e circostanziata storia dell'uso di questo con­ cetto cfr. il mio Social History of War and Occupation in Europe, in Deak-Gross-Judt, The Po/itics of Retribution in Europe, pp. 23-32. 2 Krystyna Kersten, Narodziny systemu wladzy. Polska 1 943-1 948, Paryz, Libella, 1 986, p.172. 3 Ambedue i passi sono desunti da manoscritti inviati nel 1948 a un concorso di memoriali sui fatti accaduti nei villaggi durante il decennio della guerra, iniziativa organizzata dalla casa editrice Czy­ telnik. Venticinque anni dopo, tutti i contributi furono pubblicati in un volume dal titolo Wies polska 1939-1 948, materialy konkursowe, a cura di Krystyna Kersten e Tomasz Szarota, Varsavia, PWN, 1971 . I due passi che ho citato furono cassati dall'Ufficio censura dello stato e non vennero stampati. Ho avuto accesso ai contributi originali gra­ zie al professar Tomasz Szarota, direttore del Laboratorio di storia polacca del secondo dopoguerra dell'Accademia polacca delle scienze, dove è conservato il materiale. Per la sua assistenza deside­ ro esprimergli sentita gratitudine. Per inciso, desta meraviglia la totale franchezza di queste perso­ ne semplici, che nel 1948 inviavano a un'istituzione ufficiale memo­ rie così fuori sintonia rispetto alla versione dei fatti approvata uffi­ cialmente. I passi sopra citati si trovano nel manoscritto n° 20 (931), p. 4, e nel manoscritto n° 72 (1584), p. 5. In un'altra fonte, il catalogo della famosa mostra fotografica sulla partecipazione della Wehrmacht allo sterminio degli ebrei sul fronte orientale (The German Army and the Genocide, a cura dell'Istituto per le ricerche sociali di Amburgo, New York, The New Press, 1999, p. 81), troviamo una bella foto che ritrae un soldato tedesco in motoci­ cletta circondato da un gruppo di ragazze sorridenti che gli offrono cibo e bevande. La didascalia recita: . Il quadro trova perfetto riscontro nell'iconografia sovietica uffi­ ciale sull'accoglienza che l'Armata Rossa ricevette quando quei territori nel settembre del 1939. Altro interessante materiale a conferma dell'amichevole acco­ glienza che, attraversando quei territori, la Wehrmacht ricevette nel­ l'estate del 1941 si può trovare nel documentario di Ruth Becker­ mann Jenseits des Krieges (1997), una serie di colloqui con gli anziani in visita all'allestimento viennese della medesima mostra, per lo più veterani della Wehrmacht con avvincenti storie da raccontare. 4 Ecco, per esempio, un passaggio dell'Ereignismeldung udssR no 21 (13 luglio 1941), specificamente riferito alla situazione di Bialy­ stok: «Le esecuzioni continuano ininterrotte al ritmo consueto. La parte polacca della popolazione ha mostrato di gradire le esecuzioni della Polizia di sicurezza trasmettendo informazioni su ebrei, russi e bolscevichi polacchi>> (Einsatzgruppen Reports, p. 23). 5 Ho trattato diffusamente la questione nel mio A Tangled Web, in Deak-Gross-Judt, The Politics of Retribution in Europe. 6 Eric Voegelin, Hitler and the Germans, Columbia, University of Missouri Press, 1999, p. 105. 7 Kazimierz Wyka, Zycie na niby. Pamiçtnik po klçsce, Cracovia, Wydawnictwo Literackie, 1984. 8 Le due testimonianze che seguono furono inviate dal voivodato di Bialystok: «Nei nove anni di guerra la popolazione del mio villag­ gio e dei suoi dintorni cadde nella più profonda prostrazione. La gente smise di lavorare. Venne in auge un nuovo detto: "Lasciamo che gli stupidi lavorino. In qualche modo io mi arrangerò [ja bçdç kombinowal]" . Ci si arrangiava scolando litri e litri di robaccia alcoli­ ca>>. Rievocando il periodo dell'occupazione sovietica nel villaggio di Krosz6wka, contea di Grajewo, non lontano da Jedwabne, un al­ tro contadino tratteggiava le relazioni tra i concittadini nei termini seguenti: > (Hitler and the Germans, p. 89). 2 Sull'esodo dei superstiti ebrei nel dopoguerra dai paesi e dalle aree rurali ai grandi centri urbani cfr. per esempio Gross, Upiorna dekada, pp. 102-103. 3 Uno sconvolgente ragguaglio contemporaneo sullo scoperto antisemitismo praticato dagli attivisti del Partito comunista in Polo­ nia prima e durante i cosiddetti avvenimenti del marzo 1968 si trova nelle di Mieczyslaw Rakowski (Dzienniki po­ lityczne, 1 967-1968, Varsavia, Iskry, 1999). All'epoca Rakowski era membro del Comitato centrale del Partito dei lavoratori polacchi uniti, nonché redattore capo del migliore settimanale di opinione del blocco sovietico, . Disponeva dunque di un punto di osservazione privilegiato da cui documentare i meccanismi della (così la bat tezzarono i media ufficiali) che ebbe luogo tra il 1967 e il 1968.

RINGRAZIAMENTI

Questo libro non avrebbe mai potuto essere scritto senza l'aiuto del rabbino Jacob Baker, di New York, e del professar Andrzej Paczkow­ ski, di Varsavia. Ringrazio sentitamente rabbi Baker per il permesso di riprodurre le fotografie incluse nel volume. Voglio ringraziare il procuratore Ty Rogers per avermi messo in contatto con molte per­ sone che risiedettero a Jedwabne e con molti discendenti degli abi­ tanti del paese. Ho un debito di gratitudine con le molte persone che mi hanno aiutato a scrivere il libro. Alla maggior parte di loro ho espresso i miei ringraziamenti nelle note in fondo al volume. Qui vorrei espri­ mere un grazie particolare a Stephanie Steiker per la sua assistenza tecnica e per il suo assiduo sostegno morale, nonché a Valerie Steiker e a Magda Gross per i loro numerosi consigli redazionali. So­ no profondamente grato a Lauren Lepow per avere riveduto, con consumata abilità, l'ultima bozza del manoscritto. Desidero ringraziare il Remarque Institute della New York Uni­ versity per avermi nominato, nella primavera del 2000, faculty fellow. In tal modo ho potuto disporre di tutto il tempo necessario per com­ pletare la stesura dell'opera. Ringrazio anche il direttore dell'Istitu­ to, Tony Judt, e i due lettori della Princeton University Press, Mark Mazower e Antony Polonsky, che mi hanno dispensato utili consigli. Last but not least voglio ringraziare la caporedattrice della sezione Storia della Princeton University Press, Brigitta van Rheinberg, che ha rivisto l'intero manoscritto del libro con acribia ed entusiasmo. Dedico I carnefici della porta accanto alla memoria di Szmul Wasersztajn. New York Giugno 2000

INDICE DEI NOMI

Adamy, comandante, 71, 86, 87

Dqbrowski, Wladyslaw, 42, 43

Appelfeld, Aharon, 107, 108

Danowski, J6zef, 77

Arendt, Hannah, 6

Deak, Istvan, 7

Arnold, Agnieszka, 20, 24, 34,

Dolegowski, Aleksander, 53

40, 41, 73, 147

Dubnow, Simon, 24 Dziedzic, Leon, 86, 87

Baker, rabbi Jacob, 33, 34

Dziekonski, Henryk, 52

Bardon, Karol, 48, 63, 70, 71, 7881, 86, 89, 95-97, 99 Berman, Jakub, 125 Bialostocki, rabbi Avigdor, 35,

Finkelsztajn, Menachem, 49-58, 120, 121, 133 Fogel, Rivka, 78

36 Bierut, Boleslaw, 127

Gerwad, Mieczyslaw, 62, 67

Binsztajn, Basia, 17

Glowinski, Michal, 114

Borawski, Antoni, 42, 44, 45, 48

Goscicki, Wincenty, 79, 81, 86

Borowski (Borowiuk), Mietek,

Grqdowski, Eliasz, 89

16, 1 8

Grot-Rowecki, generale, 131

Borowski (Borowiuk), Wacek, 16

Grynberg, Henryk, 1 08, 109

Borowski (Borowiuk), Wadaw,

Grzymkowski, Stanislaw, 57

18 Boruszaczak, Abram, 89

Heydrich, Reinhardt, 23, 113

Browning, Christopher, 102

Hitler, Adolf, 5, 7, 10, 37, 50, 65,

Brzozowska, Betka, 81 Bystrow, Petr Ivanovic, 39

131 Hochheiser, Izzy, 135, 136 Hochheiser, Sally, 135-137

Chrzanowski, J6zef, 83, 89

Hochheiser, Sammy, 135-137

Cichy, Michal, 117 lbram, Judes, 81

1 82

I carnefici della porta accanto

Janowska, Irena, 95

Lozinski, Pawel, 1 09

Janowski, Aleksander, 95, 96

Luba, Wladyslaw, 81

Kac, Jakub, 1 7

Majecki, Henryk, 39

Kaczynski, Andrzej, 147

Malysev, Aleksandr Nikiforovic,

Kalinowska, Bronislawa, 82 Kalinowski, Eugeniusz, 64, 68, 81, 84 Kaminski, Lukasz, 126, 127 Karolak, Marian, 18, 61 -64, 71, 77, 80, 86-91, 95, 116 Karwowska, Aleksandra, 86 Karwowski, Kazimierz, 89 Kersten, Krystyna, 135 Klukowski, Zygmunt, 138 Kobrzyniecki, fratelli, 89 Kobrzyniecki, J6zef, 85, 86, 89 Korbonski, Stefan, 126 Kosmaczewski, J6zef Anton, 54 Kosmaczewski, Leon, 54 Kovaly, Heda, 7 Kozlowski, Gienek, 18, 89 Krawiecki, Eliasz, 1 7 Krystowczyk, Henryk, 63, 9 1 Krystowczyk, Zygmunt, 91 Kubrzanska, Chaja, 1 7 Kubrzanski, Janek, 110 Kupiecki, Czeslaw, 48 Kuropatwa, Michal, 84 Laciez, Czeslaw, 1 8 Laudanski, Jerzy, 62, 72, 8 1 , 82, 84, 89, 91, 92, 98-102, 116, 142

39 Matujewicz, Grzegorz, 28 Mazurek, Jan, 54 Miciura, Wladyslaw, 64, 72, 73 Mierzejewski, Czeslaw, 81 Mierzwa, Stanislaw, 126 Mikolajczyk, Stanislaw, 126 Mine, Hilary, 125 Misjurev, colonnello NKVD, 45, 98, 133, 139 Molotov, Vjaceslav, 37 Mordaszewicz, Feliks, 54 Nadolny (Nadolnik), Gitele, 81 Neumark, Janek, 84, 90 Niebrzydowski, Antoni, 84 Niebrzydowski, Jerzy, 84 Nielawicki, Wiktor, 58, 59, 61 , 79, 80 Olszewicz, Mietek, 61, 80 Pecynowicz, Dvorja, 59, 61 Pecynowicz, Eliyahu, 59 Piekarz, Hershel, 1 29 Piekarz, Reizele, 34 Polkowska, Anna, 89

Laudanski, Jurek, 18, 64

Popiolek, Halina, 74

Laudanski, Zygmunt, 62, 72, 81,

Popov, segretario NKVD, 45, 139

89, 97-99, 116, 133, 139 Lenin, Vladimir Il'ic, 18, 74, 83, 143 Lewin, Joseph, 78-81 Lipinski, Czeslaw, 64

Pravde, signora, 78 Pyontkowski, Aryeh, 33 Pyontkowski, Moishe, 33

Reb

Nachum

Indice dei nomi Ramotowski, Boleslaw, 16, 2629, 64, 67, 69, 72, 95, 96, 132 Ramotowski, Stanislaw, 58

183

Szelawa, Stanislaw, 18, 82 Szlepen, Wolf, 53, 57 Szumowski, �arian, 36

Ramutowski, Bolek, 18 Reznel, �oses, 56, 57

Tarnacki, Feliks, 64

Ribbentrop, Joachim von, 37

Tarnoczek, Jerzyk, 18

Ringelblum Emanuel, 24 Rogalski, Bolek, 18

Ustilovskij, Dmitrij Borisovic, 39

Rothchild, Jona, 35 Rothchild, Tsiporah, 33

Voegelin, Eric, 134, 142

Rydacenko, �ark Timofeevic, 39

Wasersztajn, Chajcia, 17 Wasersztajn, Szmul, 1 6-20, 23,

Sapetowa, Karolcia, 135-137 Sielawa, famiglia, 34

28, 47, 61, 62, 82, 83, 85, 90, 110, 120, 121

Sielawa, Stanislaw, 90

Wasilewski, 61, 64, 83, 95

Sielawa, Staszek, 84, 90

Weszczewski, Ludwik, 54

Sienkiewicz, Henryk, 103 Sleszynska, Rozalia, 89

«Wiarus>> (), 70

Sleszynski, Bronislaw, 18, 20, 28, 40, 67, 74, 83, 85, 91 S leszynski, Bronislaw, figlia di, 20, 40, 147

Wisniewski, responsabile del soviet di Jedwabne, 43, 48, 78, 80, 81 Wisniewski, segretario del so­ viet di Jedwabne,fratello del

Sleszynski, Edward, 67, 85 Sliwecki, Eugeniusz, 155 n. 5

Wyka, Kazimierz, 135

Sobieski, Jan, 116

Wyrzykowska, Antonia, 16, 110,

Sobuta, J6zef, 26, 48, 61, 63, 77, 83, 89, 90 Sobuta, Stanislawa, 90 Sokolowska, Julia, 67-70, 89 Stalin, Iosif, 5, 7, 10, 37 Stefany, Fredek, 81 Stern, famiglia, 90

prec., 48

111 Wyrzykowski, Aleksander, 110, 111 Wyrzykowski, famiglia, 61, 87, 110, 111, 129

Sukacov, Daniil Kireevic, 39

Zdrojewicz, Hersh, 81 Zulawski, Zygmunt, 126 Zyluk, Janina, 96

Szarota, Tomasz, 135

Zyluk, J6zef, 64, 96

Strzembosz, Tomasz, 20, 42

Szelawa, Franciszek, 18

Questo volume è stato impresso nel mese di febbraio dell'anno 2002 presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in Italy