Husserl. La "Crisi delle scienze europee" e la responsabilità storica dell'Europa 8820442418

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Husserl. La "Crisi delle scienze europee" e la responsabilità storica dell'Europa
 8820442418

Table of contents :
E. HUSSERL
LA “CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE” E LA RESPONSABILITÀ STORICA DELL’EUROPA
1. Caratteristiche della civiltà occidentale
2. Genesi delle scienze
3. « Wie steth aber es mit der Philosophie? »
4. Analisi della « Vernunft »
5. La questione dell’interpretazione fenomenologica
1. Husserl e la geometria come « minaccia »
2. Abbozzo di difesa: geometria e fantastico
3. Alcuni precedenti
4. La « minaccia » si aggrava: Poincaré e Einstein
5. Sapere scientifico e « vigilanza » filosofica
Bibliografia
1. Il tempo di Husserl
2. Continuità contro discontinuità
5. La ricostruzione realista
4. Informazione e coniugazione dei sistemi razionali dei concetti
6. Psicologia eidetica
7. La psicologia del profondo
8. La scienza della vita
1. Senso fenomenologico di « critica della ragione »
2. Immer wieder - Evidenza - Teleologia
1. Verità e storia
2. Fenomenologia e politica
3. Il costituirsi dell’intersoggettività in un mondo accomunato
4. Il ruolo del « Leib » nella costituzione dell’intersoggettività
5. L’unità delle scienze e il rapporto con la « Lebenswelt »
6. Dalla relazione distorta con la « Lebenswelt », il rapporto intersoggettivo si trasforma in rapporto di classe
7. Conclusione
1. Crisi della ragione e mondo della vita nella prospettiva fenomenolo- gico-trascendentale di Husserl
2. La fortuna sociologica del concetto di « mondo della vita »
3. Conclusioni
1. La « ragione pigra » quale modello di irrazionalismo
2. La « ragione pigra » come inerzia della ragione
3. L’irrazionalismo della « ragione pigra » come annichilimento della progettualità razionale
4. La critica fenomenologica della « ragione pigra »
1. Husserl e il marxismo occidentale
2. Socialismo reale, marxismo, fenomenologia
3. Alfred Schütz e la sociologia americana

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E. HUSSERL LA “CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE” E LA RESPONSABILITÀ STORICA DELL’EUROPA SCRITTI DI A. ALES-BELLO, E. BACCARINI, M. CASTELLANA, F. DE NATALE, P. DE VITUS, E. GARULLI, G. GIANNOTTI, K. HELD, G. INVITTO, L. LANDGREBE, A. MASULLO, M. NACCI, A. PONSETTO, M. PROTO, G.A. ROGGERONE, U. SANZO, G. SCR1MIERI, G. SEMERARI, L. SEMERARO, M. SIGNORE, M. SINATRA, T. TONIETTI, V. TONINI, L. VALDRÈ, F. VOLPI

A CURA DI M. SIGNORE

FRANCO ANGELI

Volume pubblicato da e col contributo del Dipartimento di filosofia dell’università di Lecce.

Copyright Q1985 by Franco Angeli Libri s.r.l.,'Milano, Italy E’ vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.

INDICE

Introduzione, di Mario Signore

Pag-

7

1. Responsabilità storica dell’Europa. Il tema fondamen­ tale della « Krisis » di Husserl, di Ludwig Landgrebe

»

19

2. Husserl e il problema della storiografia filosofica, di Giuseppe Semerari

»

29

3. « Wir Europäer » nei manoscritti inediti contempora­ nei alla « Krisis », di Angela Ales-Bello

»

53

4. Husserl e la « minaccia geometrica » alla filosofia, di Ubaldo Sanzo

»

73

5. Crisi delle scienze e crisi della civiltà, di Michela Nacci

»

80

6. Quattro lettere di Edmund Husserl ad Hermann Weyl: l’influenza del pensiero fenomenologico sulla crisi delle scienze matematiche, di Tito Tonietti

»

89

7. Banfi lettore di Husserl, di Giuseppe A. Roggerone

»

99

8. Fenomenologia della crisi delle scienze europee, di Valerio Tonini

»

108

»

125

Parte I Epopea, crisi e trasformazione della « ratio » occidentale

Parte II - Dall’individuazione della crisi della « ratio » alla riscoperta del suo « telos » originario 1. La diagnosi fenomenologica dell’epoca presente in Husserl e Heidegger, di Klaus Held

6

2. La riduzione fenomenologica nella « Crisi delle scienze europee », di Giorgio Scrimieri

Pag- 143

3. Problema teleologico e fenomenologia della temporalità, di Mario Signore

»

157

4. Husserl e la filosofia della storia, di Enrico Garulli

»

173

5. Significato e significanza. Una prospettiva husserliana, di Lido Valdré

»

194

6. Modelli di ragione e modelli di verità, di Emilio Baccarini

»

202

7. Ermeneutica e mondo della vita, di Pietro De Vitiis

»

211

8. Husserl e l’epistemologia francese, di Mario Castellana

»

217

1. Fenomenologia e nichilismo: la ragione come ascesi e la razionalizzazione come tecnica, di Aldo Masullo

»

229

2. Fenomenologia e politica. Le implicanze politiche dei concetti husserliani d’intersoggettività e di « Leib », di Antonio Ponsetto

»

248

3. Mondo della vita e patologie del moderno: attualità del­ le riflessioni husserliane, di Franco Volpi

»

264

4. Fenomenologia e sociologia. Il destino americano di Al­ fred Schutz, di Gianni Giannotti

»

291

5. La crisi fenomenologica delle scienze e la crisi della psi­ cologia contemporanea, di Maria Sinatra

»

304

6. La fenomenologia come critica della « ragione pigra », di Ferruccio De Natale

»

311

7. Fenomenologia, marxismo, scienze sociali, di Mario Proto

»

320

8. La « Krisis » nella lettura di Merleau-Ponty e Tran-DucThao, di Giovanni Invitto

»

331

9. « La crisi delle scienze europee » nella riflessione di En­ zo Paci, di Licia Semeraro

»

343

Parte III - Le concretizzazioni storiche « determinate » della « Krisis » e possibilità del loro superamento

INTRODUZIONE

di Mario Signore

1. Può, almeno a prima vista, apparire rischioso discutere della cri­ si delle scienze, in un’epoca come la nostra, che certo non ha motivo di dubitare delle possibilità e degli effetti della ricerca scientifica. Non occorre andare ad evidenziare le certo non rare manifestazio­ ni di enfasi scientifica, per lasciarsi convincere non soltanto della « fede » certa nel progresso della scienza, ma anche della irreversibilità di un tale movimento senza fine. Eppure i filosofi non possano non accogliere la sfida che viene lan­ ciata proprio a loro, non appena si mette in discussione l’ovvietà del processo, e si cerchi di riprendere le fila di uno sviluppo, che appare ormai del tutto svincolato dalla capacità di decisione dell’uomo e sem­ bra correre parallelo, se non addirittura in contrasto, con lo sviluppo dell’umanità. A questo punto si pone come urgenza, la tematizzazione della « cri­ si » della scienza, per cogliere i segni, anche i meno evidenti, attraverso i quali essa si manifesta, proprio per non incorrere in una affrettata li­ quidazione del problema, come propone chi sostiene ad oltranza la tesi dello sviluppo della scienza, che ormai pare spingere alle dimissioni qualsiasi altra dimensione del vivere umano. Proprio a questa « urgenza » vuol rispondere la raccolta di saggi che qui presentiamo, e che sono il frutto delle analisi e delle discussio­ ni tra filosofi dedicati all’opera tarda di E. Husserl, La crisi delle scien­ ze europee e la fenomenologia trascendentale, che, se vide la luce po­ stuma come volume IV della Husserliana, soltanto nel 1954, già venti anni prima aveva visto nascere il primo nucleo dei temi fondamentali che la costituiranno. A cinquant’anni da questi primi abbozzi, e mentre si affronta il te­ ma, per nulla estraneo alla riflessione husserliana, della crisi della ra­ gione e dell’identità della ragione occidentale, qui si raccoglie la « pro­ vocazione » di Husserl e si guarda alla manifestazione della crisi delle

8 scienze come ad un evento che riguarda « tutte le terre abitate e dunque l’umanità » nella sua realtà in movimento nella storia, di fronte alla quale i filosofi sono chiamati ad impegnarsi, non soltanto assolvendo la funzione della riflessione teoretica, ma facendo proprio quel « com­ pito incessante » di indicazione della vita per superare la crisi, che Hus­ serl stesso iniziò con la sua opera postuma, la cui prosecuzione è affi­ data a tutti i pensatori, non esclusi coloro che oggi si sentono impegna­ ti sul fronte della filosofia. Ora, proprio alla riflessione filosofica aperta verso l’impegno pra­ tico, la crisi delle scienze si manifesta non certamente come crisi dello sviluppo immanente dei loro metodi, ma come una « crisi del loro si­ gnificato per la vita umana ». In definitiva come crisi dell’applicazione di questa scienza che produce la tecnicizzazione del mondo, come desti­ no della nostra epoca. Ma lungi dal soddisfarsi della mera constatazione di una tendenza, universalmente e fatalisticamente accettata, la rifles­ sione filosofica, che si esprime appunto « nell’atteggiamento filosofico », contrapposto all’atteggiamento « extra-filosofico o naturale », per il quale vale l’ovvietà di una tale tendenza, va alla ricerca dei presup­ posti che « storicamente » hanno prodotto la crisi, mettendo in opera quella rimemorazione storica, tanto più utile alla civiltà europea, quan­ to questa le consente di risalire alle radici della crisi, scoprendone, at­ traverso una sorta di anamnesi applicata alla storia dell’umanità, il punto o i punti nei quali ha avuto inizio il processo. E in questo sottomettere all’indagine anamnesica la storia dell’uma­ nità, la riflessione fenomenologica non risparmia nemmeno la psicolo­ gia, che quanto più ha preteso di divenire « psicologia senz’anima », psicotecnica, tanto più, di fatto, ha finito col facilitare l’occultamento e con l’essere di ostacolo reale alla scoperta delle radici della crisi, con­ tribuendo alla « dimenticanza » del « mondo della vita » e al trionfo dell’obiettivismo, che un ruolo così determinante svolgeranno nella determinazione della situazione attuale della civiltà europea, pervenuta alla convinzione della possibilità pratica di affrontare e risolvere tutti i problemi della vita umana con i mezzi tecnici soltanto. Di fronte a questa convinzione che non è ormai semplicemente tec­ nica e che coinvolge tutti i campi, facendo della crisi delle scienze eu­ ropee una crisi radicale di tutta l’umanità, viene chiamato direttamente in causa il filosofo e in particolare il fenomenologo, al quale si chiede una « diagnosi » del presente non fine a se stessa (intento teorico), ma intesa a porre le condizioni di un radicale cambiamento di pensiero, una radicale trasformazione personale, che, come dice Husserl, può es­ sere paragonata ad una conversione religiosa (intento pratico). Di qui l’imperativo categorico che si esprime con l’invito husserliano di « an-

9 dare alle cose stesse », compito della riflessione filosofica, che dalla « vicinanza » alle cose acquista quella direzione d’urto essenzialmente di critica del proprio tempo, chiaramente individuabile in Husserl, che dà al filosofare il compito, per altro non scontato, di una presa di posi­ zione critica della propria epoca, attraverso l’adozione della « scepsi radicale », che si può cogliere come momento qualificante dell’epoché e della riduzione fenomenologiche. E la filosofia, ponendosi in una direzione d’urto, di critica del pro­ prio tempo, si rivela in grado di cogliere l’epoca presente così come effettivamente è, e cioè come un’epoca determinata dalle scienze e dal­ la loro emancipazione dalla filosofia, per via della pretesa delle prime di poter indagare su tutto, tematizzando il « mondo », come ciò che è sotteso anche dall’atteggiamento naturale, in quanto unità completa di riferimenti, quel mondo che appariva, ancora per la scienza pre-moderna, tema specifico se non esclusivo del filosofare. Ma c’è mondo e « mondo ». Il mondo per la scienza moderna per­ de il carattere di « orizzonte » e si limita ad essere una « totalità di co­ se », con la conseguente « dimenticanza del mondo della vita », cioè di quel mondo che conserva il suo carattere di orizzonte e in forza della sua non tematicità naturale « impregna ancora la scienza pre-moderna con la coscienza dell’orizzonte ». Ma la « dimenticanza del mondo del­ la vita », non riguarda solo il filosofo o una filosofia alla ricerca di uno spazio e di un contenuto specifici, nell’epoca della più incondizionata resa alla scienza, bensì tutta l’umanità, chiamata a prendere coscienza del suo stato patologico e della perdita di significato umano di ogni espe­ rienza vissuta senza il nesso di rimando di orizzonti, come accade col distacco delle singole scienze dalla filosofia. Ancora una volta è richiesta l’opera del filosofo e della filosofia per mettere a nudo la graduale perdita di umanità, indicata come costo inevitabile delle urgenze del progresso scientifico, e che produce di fat­ to la perdita della libertà, la scissione sempre più irreparabile tra teoria e azione, la totale deresponsabilizzazione della ricerca. D’altra parte il ricorso alla filosofia non solo consente di scoprire le conseguenze del­ la crisi, ma anche di avviare le prime soluzioni, evitando esiti nichilisti­ ci, certo frequenti anche in filosofia, ma superabili mettendo a frutto tutta la pregnanza filosofico-trascendentale della fenomenologia hus­ serliana, che facendo superare col pensiero la dimenticanza del mondo della vita e coinvolgendo la volontà e la responsabilità, fa apparire la crisi del nostro tempo non come un « tragico destino », ma come uno stimolo, come un richiamo alle proprie responsabilità di tutte le sog­ gettività, sollecitate a scoprire in se stesse, nella loro intenzionalità, il « mondo » e l’umanità colti nella loro genesi costitutiva, nel loro telos

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intrinseco, nel dinamismo genetico, nella loro origine storica, in defi­ nitiva il significato teologico di tutte le esperienze, che le garantisce, an­ cora una volta, contro l’inevitabile de-responsabilizzazione che conse­ gue al pre-giudizio evoluzionistico, che in definitiva non può che ripro­ porre una lettura tragica, della profonda crisi del nostro tempo, in quan­ to linea di tendenza irrefrenabile quanto irreversibile. 2. Fare fenomenologia significa, quindi, andare alle radici della « crisi », non soltanto per coglierne le manifestazioni e le conseguenze, per così dire teoriche, che riguardano la struttura e lo sviluppo delle scienze, ma per rilevarne le « concretizzazioni » nel mondo storico e so­ ciale, perché è qui che dovranno essere individuate le soluzioni, magari cogliendo già nel negativo della « crisi » il positivo del suo supera­ mento. E qui la fenomenologia trascendentale si confronta con la crisi sto­ ricistica della metafisica, che non consentendo più di pensare un « mon­ do » come un « essere essenziale » e quindi inconoscibile semplicemen­ te per la limitatezza umana, pone di fronte ad un « mondo » come « puro e accidentale divenire », e quindi inconoscibile in quanto pri­ vo di verità, in quanto non è, con la conseguenza inevitabile, esaltata da Nietzsche, di rendere superfluo anche il « soggetto ». Ma la inessenzialità del mondo, che si estende anche al soggetto, fa esplodere una delle « concretizzazioni » della crisi, che coinvolgono il mondo storico e sociale: il nichilismo, con la sua forza negativa e di­ struttiva di tutte le antiche razionalizzazioni costruite per fronteggiare l’angoscia, che discende dalla caduta delle certezze, dei quadri di rife­ rimento, prima teorici e metafisici, ed ora anche « pratici », che con­ sentivano di « ridurre la contingenza ». Il nichilismo, una volta sfondato il tetto metafisico, imporrà un « compito etico », che si rivela immediatamente nella sua fallimentare consistenza, non potendo più fondare la salvezza nella verità, giacché nulla è più vero, ma solo nell’« intelligente fraintendimento », nella in­ gegnosità della menzogna. Si tratta solo di soddisfare « il desiderio di un mondo permanente », attraverso una « razionalizzazione di tipo eti­ co », che in definitiva si esprime nella tecnica del nascondere il falso, in una tecnica della falsità, cioè nella « prassi ». Ma siccome è impossi­ bile ingannarsi, sapendo di ingannarsi, l’etica come « razionalizzazione tecnica di mascheramento del falso » si rivela tragicamente incapace di « ridurre la contingenza » e, quindi, di alleviare l’angoscia, condan­ nando l’umanità all’annichilente ruolo di spettatrice di una « crisi », che si può constatare e subire, ma mai superare. Di conseguenza, la filosofia smette di svolgere la sua funzione ra-

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zionalizzatrice e di « donazione di senso », in quanto una volta priva­ to il mondo di consistenza reale e destrutturato il soggetto datore di senso, non resta che l’autoinganno, che si può evitare soltanto impeden­ do alla filosofia di costruire le sue razionalizzazioni ingannatrici del­ l’esistenza. L’ultimo atto del « nichilismo », nel quale la crisi della no­ stra epoca si manifesta inequivocabilmente, si consuma togliendo alla ragione la sua funzione di « conferire senso » al mondo, ché rimane falso comunque essendo falsa la ragione stessa che dovrebbe conferir­ gli senso, in quanto è un « mero evento interpretativo ». La negazione del valore teleologico della ragione umana, che avreb­ be consentito di cogliere la verità dell’oggetto come unità ideale di sen­ so, e di caricare la ragione di un positivo compito da perseguire me­ diante un’incompiuta serie di sintesi conoscitive, in un processo cono­ scitivo e di esperienze che tende all’infinito riscoprendo il soggetto co­ me « Mitglied der sozialen Welt », non limita i suoi effetti alla con­ cretizzazione nichilistica, ma rende possibile, e quindi plausibile in quanto senza reali alternative, la strutturazione capitalistica della ci­ viltà occidentale, che affonda le sue radici nel punto di vista oggettivi­ stico e della ragione strumentale. Ora, il punto di vista oggettivistico esprime la sua forza negativa nella totale dimenticanza della soggettività, mentre la riduzione della ragione umana a ragione strumentale impedisce di risalire continuamente alla Lebenswelt, per ritrovare il momento originario dell’espe­ rienza soggettiva, riscoperta come esperienza di una pluralità di sogget­ ti, dell’intera umanità, che insieme costruisce la propria storia e il pro­ prio mondo come « mondo accomunato »: il mondo si riduce a sfera economica e, di conseguenza, anche l’uomo viene ridotto a merce, alie­ nato quindi nel suo rapporto tra esterno e interno. È quello che Marx chiama « mercificazione ». Frantumato il rapporto tra esterno e interno, distorto il rapporto con il « mondo della vita », ci si fonda su di una interpretazione del mondo basata su costruzioni concettuali formalmente incontroverti­ bili nella loro esatta formulazione, ma di fatto congruenti con gli inte­ ressi particolari o di gruppo di chi le elabora. L’interesse particolare e di gruppo che rende legittimo anche lo sfruttamento della natura e del­ l’uomo sull’altro uomo, in nome del profitto, vanifica l'intersoggettività che viene sostituita dalla divisione in classi e dal rapporto conflittuale col mondo e con gli uomini. D’altra parte, soppressa la connessione con la realtà totale, il parti­ colare perde il suo ruolo di « particolare », perde la sua specifica « in­ tenzionalità », e diviene esso stesso totalità sia pure falsa. Così l’uomo è esso stesso ridotto ad oggetto, sottratto alla sua coscienza, privato

12 della capacità di riflettere e di riconsiderare. Uomo dell’« avere » senza « essere », deprivato della ricchezza dei suoi bisogni, perché costretto ad esaltare la assolutezza dell’unico bisogno: il profitto, che si fa for­ za della feticitizzazione della merce, « prototipo di tutte le forme di og­ gettività e delle corrispondenti forme di soggettività nella società bor­ ghese ». A questo punto, il concetto di « crisi » si carica di tutti i possibili significati positivi, a fronte del « disagio », non più sopprimibile, di una civiltà che ha fatto fino in fondo l’esperienza del nichilismo e del ca­ pitalismo. Infatti è proprio la coscienza della « crisi » a richiedere l’e­ sercizio della filosofia trascendentale e fenomenologica, come il solo capace di mantenere viva la soggettività, impedendo così che la « cul­ tura si stabilizzi naturalizzandosi » in nome della « bèlla libertà natu­ rale », attraverso l’incessante promozione di un modo di pensare fonda­ mentalmente etico e « l’esercizio della soggettività nella costante tensio­ ne per appropriarsi di sé ». Dalle ceneri del nichilismo e del capitalismo dovrà emergere un « soggettivismo radicale », che naturalmente nulla abbia da spartire col « solipsismo », che la fenomenologia evita dando una fondazione all’esi­ stenza dell’altro e di un « mondo accomunato », sempre relazionati ad un soggetto che si interroga sulla propria esperienza e non separando mai l’oggettività dall’intersoggettività, in quanto qui l’oggettività viene a identificarsi con quel mondo unico, che è inteso attraverso « l’infinità delle esperienze costitutive concordanti », come correlato oggettivo del­ la comunicazione tra i soggetti. Attraverso il ritorno al soggetto, che fa tutt’uno con l’esigenza della intersoggettività, la fenomenologia restituisce il soggetto a se stesso, alla sua crescente e responsabile operatività, liberandolo dall’ideologia e recuperandolo all’unità originaria della Lebenswelt. Come si vede, la fenomenologia fa proprio un progetto di disoccul­ tamento, che mette allo scoperto gli « assolutismi ideologici della razio­ nalità strumentale, in quanto espressione dell’alienazione », che al con­ trario tenderebbero a tenere segreta « la teleologia della ragione in quan­ to umana », perché soltanto il mistificatorio occultamento può garan­ tire ad essi il dominio.

3. Si tratta evidentemente di un annuncio del positivo, magari so­ lo a livello embrionale, ma non difficilmente rilevabile da una lettura più aperta, e, perché no, anche coraggiosa della Krisis husserliana, peraltro sostenuta dallo svolgimento di alcune linee di pensiero con­ temporaneo, che certo non si può dire prescindano del tutto dalla tar­ da riflessione di Husserl, e in modo particolare dall’elaborazione hus­

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serliana del concetto di « mondo della vita », e dai contributi che, in­ sieme agli altri esiti della fenomenologia, offre per una critica della modernità « a partire dal punto di vista della modernità ». Cioè per una critica della modernità che non si risolva né in « una contrapposi­ zione utopica cieca e totalizzante, alia ragione strumentale e tecnolo­ gica (Horkheimer, Adorno, Marcuse) », né in « una reazione restau­ ratrice (Gehlen, Schmitt, forse Heidegger) ». Entro queste linee di tendenza va senz’altro considerato l’impegno di Alfred Schütz, inteso a coniugare insieme sociologia e fenomenolo­ gia, rivalutando proprio il concetto husserliano di Lebenswelt, che, mutatis mutandis, viene attualizzato per rendere più comprensibili le patologie che si accompagnano alla riproduzione e allo sviluppo del­ l’epoca moderna. In questa prospettiva vanno rilette la schütziana teoria dell’agire sociale dotato di senso, che assume come determinante la prospettiva del soggetto agente; la teoria dell’intersoggettività che consente a Schütz di analizzare e rilevare gli aspetti intersoggettivi del mondo del­ la vita, fino a giungere a presupporre senz’altro l'intersoggettività « come connessione strutturale ovvia e pre-data del mondo della vita », l’analisi, infine, del mondo della vita assumendo come determinante la prospettiva del singolo agente. Il risultato, che sotto tanti aspetti non può essere considerato di poco conto, si inserisce piuttosto nella prospettiva dei vissuti coscienziali del singolo agente, perdendo di vi­ sta quegli aspetti « oggettivi » e « istituzionali » dell’agire sociale, che costituiranno l’obiettivo di altri tipi di lettura della realtà sociale, quale quelli offerti, ad esempio, da Weber e da Parsons, ma innanzi­ tutto da Habermas e da Luhmann, il primo con l’ultima elaborazione di una « teoria dell’agire comunicativo », il secondo con la sua teoria dell’analisi sistemica, relativa in particolare alla semantica e alla simbolica. Proprio in Habermas il concetto husserliano di « mondo della vita » viene ripreso, in una più stretta connessione con quello di « si­ stema », al fine dell’elaborazione di una teoria alternativa a quella con­ sunta della « reificazione », e di un superamento dell’ottica riduttivamente e ideologicamente critica della ragione strumentale, che consen­ tano di « ricomprendere » le deformazioni patologiche del mondo del­ la vita, nel quadro di una teoria della modernità. In questo contesto in movimento, il « mondo della vita » viene introdotto da Habermas come « concetto complementare rispetto al concetto di agire sostan­ zialmente determinato, assegnandogli, in quanto contesto dell’intera­ zione tra agenti, la duplice funzione di orizzonte e di serbatoio, con­ cependolo come linguisticamente strutturato e organizzato originaria-

14 mente secondo le regole della razionalità comunicativa, e infine posto come « fondamento di senso » del sistema e quindi, come anticipava­ mo, come « categoria fondamentale per la comprensione della so­ cietà ». Ora, introducendo un concetto di « mondo della vita » come lin­ guisticamente strutturato, non vi potrà più essere momento del mon­ do della vita che non possa essere « tematizzato », mostrandosi, al contrario, « permeabile ai processi di razionalizzazione, sia interni sia di tipo sistemico. Per altro l’inscindibile rapporto tra sistema e mondo della vita, una volta individuato il fondamento di senso del primo nel secondo, consente di spiegare le « patologie del moderno », individuandone l’origine nello sganciamento del sistema dal mondo della vita, così come, per Husserl, la crisi delle scienze europee ha la sua origine nella dimenticanza del mondo della vita, come terreno originario in cui le scienze si costituiscono. A questo punto è possibi­ le ricostruire nella storia della civiltà, dalla società feudale, alla socie­ tà borghese, fino all’esplorazione delle istanze funzionalistiche sul mo­ dello capitalistico della razionalizzazione sistemica, i segni « patologi­ ci » dello « sganciamento del sistema dal mondo della vita », e quindi le patologie interne al mondo della vita indotte però da istanze siste­ miche in esso penetrate attraverso la “mediatizzazione” e la “coloniz­ zazione” tecnologica, che lo deformano, con la conseguente produzione di segmentazione dei suoi momenti strutturali (cultura, società, perso­ na), che ingenera l’impoverimento culturale e la segmentazione della coscienza, la perdita di orientamento e la crisi di legittimazione. A questo punto una « teoria della coscienza segmentata » e una « teoria della modernità », aperte ad una razionalità comunicativa, ven­ gono invocate da Habermas, per la funzione di risveglio della coscien­ za critica, che esse possono svolgere in un programma che si ponga co­ me obiettivo urgente la critica costruttiva del nihilismo e il superamen­ to della crisi della modernità, che la fenomenologia husserliana ha con­ tribuito a comprendere, al di là di diagnosi parziali e riduttive, e ha in­ coraggiato a superare, ricercando la salvezza in un logos che non si in­ vera heideggeriamente nella crisi di senso della modernità, ma si fon­ da e si incarna, al contrario, proprio « nella pluralità dei sensi del mon­ do della vita », in cui l’ideale greco della filosofia e dell’episteme, viene colto nella giusta dimensione del suo rapporto dinamico con la storia e nel suo carico di senso, che se toglie astrattezza e arroganza alla ragio­ ne, offre un punto di riferimento per uscire dalle secche del nihilismo e predisporre un progetto innovativo della realtà attuale affidabile ad un uomo protagonista e responsabile.

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4. Con questa introduzione abbiamo voluto semplicemente rico­ struire, dall’interno, uno dei possibili fili conduttori che legano i nume­ rosi saggi di questo volume, già vagliati al fuoco della discussione e del confronto. Si tratta certo soltanto di uno dei filoni di lettura che posso­ no essere individuati, ma numerosi altri potranno essere evidenziati, data la ricchezza delle interpretazioni e delle suggestioni contenuta nel volume che presentiamo. A tutti gli autori va il più sincero senso di gratitudine: senza di lo­ ro non sarebbe stato possibile realizzare il qualificante convegno orga­ nizzato dal Dipartimento di filosofia, né ci sarebbe questo volume.

Parte prima EPOPEA, CRISI E TRASFORMAZIONE DELLA « RATIO » OCCIDENTALE

1. RESPONSABILITÀ STORICA DELL’EUROPA. IL TEMA FONDAMENTALE DELLA « KRISIS » DI HUSSERL *

di Ludwig Landgrebe

In primo luogo vorrei ringraziare il Dipartimento di filosofia ed esprimere soprattutto al chiar.mo prof. Signore i miei sentiti ringra­ ziamenti per l’invito. È stata un’idea veramente felice quella di cele­ brare nel 1984 l’anniversario, per così dire, dell’opera Krisis di Husserl. Ciò non è assolutamente ovvio, poiché, com’è noto, mentre Husserl era in vita, nel 1937 furono pubblicate solo le prime due parti, mentre tutta l’opera potè essere edita solo nel 1954 come volume IV della Husserliana. Tuttavia il 1934 è di particolare importanza per lo svi­ luppo dell’opera. Nel 1934 venne formulato per la prima volta il tema fondamentale dell’opera, la responsabilità storica dell’Europa. A ragio­ ne pertanto possiamo considerare il 1934 come data di nascita del­ l’opera. Per comprendere ciò dobbiamo parlare-un po’ più dettagliatamente dell’origine dell’opera. Non è filologia e storia pura e semplice, poiché nella genesi si rispecchia la storia drammatica degli anni ’30 durante i quali si concentrarono tutti quei problemi che dovevano condurre alla seconda Guerra mondiale. Nella questione sulla storia d’Europa e sul compito dei filosofi in questa storia Husserl ha grandi precursori. Leibniz ha compreso per primo che l’Europa non è solo il nome di una unità geografica, ma che con esso si definisce una unità culturale formatasi sul terreno delle province romane di un tempo. La meditazione sull’Europa di Leibniz era stata determinata dall’impressione della grande crisi alla fine del XVI secolo. Il suo problema era il mantenimento della pace in una si­ tuazione storica in cui si erano sciolte le vecchie costituzioni corpora­ tive e gli stati europei si avviavano verso l’assolutismo. In questa situa­ zione Leibniz è passato dalla teoria filosofica alla riflessione sui proble­ mi pratici derivati dalla vita storica. * Traduzione curata dalla sezione di tedesco del Dipartimento di lingue e letterature straniere dell’università degli studi di Lecce.

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Anche Kant ha fatto questo passo nelle opere minori della sua ma­ turità e precisamente nel saggio Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, successivamente nell’articolo su Das Ende aller Dinge; e infine nel trattato Zum ewigen Frieden. In que­ st’opera ha richiamato l’attenzione sulla necessità della fondazione di una lega di nazioni democraticamente organizzata, che doveva garanti­ re la pace. Tutto questo sul legame di una grande tradizione in cui si colloca l’opera Krisis di Husserl. Questo legame non può non essere preso in considerazione se si vogliono comprendere esattamente i problemi del­ l’opera. Husserl ha assunto chiaramente il concetto filosofico di Euro­ pa da Leibniz. Come Leibniz anche Husserl giunse a questo problema sotto l’impressione di una grande crisi. Erano le esperienze della prima guerra mondiale, con la cui conclusione l’Europa ha perso la sua posi­ zione di guida nella politica mondiale. Per Husserl, cittadino del vec­ chio impero austriaco, questa perdita era particolarmente grave. Attra­ verso queste esperienze Husserl giunse alla coscienza dei compiti della sua fenomenologia davanti a questa crisi europea. La prima ripercussione letteraria di queste riflessioni sono i due sag­ gi su Die Idee einer philosophischen Kultur (L’idea di una cultura fi­ losofica) che furono pubblicati nel 1923 sulla rivista tedesco-giapponese per la scienza e la tecnica. Lo stesso tema ritorna in Erneuerung (Rin­ novamento) che è apparso solo nella traduzione giapponese sulla rivista « Kaizo ». Anche le lezioni di Husserl su Erste Philosophie (1923/24) trattano il compito pratico dei filosofi nella storia. Qui l’autore parla dei filosofi come « funzionari dell’umanità ». Questo termine « umani­ tà » non ha in Husserl un sapore patetico, « umanità » non è per lui solo « idea », ma designa una unità reale, che si trova in fieri, verso cui tende il corso della storia. Husserl stesso, già durante la sua attività di­ dattica a Göttingen (fino al 1916), aveva pregustato, per così dire, que­ sta unità. La cerchia dei suoi studenti di Göttingen comprendeva ap­ partenenti alle nazioni più diverse. C’erano non solo europei ma anche giapponesi, americani e russi. Ma ciò era solo l’assaggio di una unità in un’epoca ancora pacifica. Solo la meditazione sul compito della filo­ sofia davanti alle conseguenze della prima guerra mondiale convinse Husserl che la crisi della scienza europea è un evento che riguarda tut­ ta la terra abitata, dunque 1’« umanità ». Dopo questo sguardo preliminare ritorniamo alla genesi dell’opera Krisis. Dopo gli articoli per il Giappone, Husserl ebbe da Praga occa­ sione di occuparsi nuovamente di questi problemi. A Praga, nell’ago­ sto 1934 ebbe luogo il Congresso filosofico internazionale. Gli orga­ nizzatori di questo Congresso avevano scelto Praga come sede del Con­

21 gresso perché la Cecoslovacchia era considerata, dall’ascesa di Hitler al potere in Germania, come l’ultima spiaggia della libertà di pensiero nell’Europa centrale. Infatti a quel tempo molti tedeschi, in particola­ re scrittori, erano emigrati a Praga. Husserl non partecipò al Congres­ so. Già da molti anni aveva evitato tutti i congressi in quanto non gra­ diva la loro rumorosa attività. Ma la direzione del Congresso lo aveva pregato di parteciparvi almeno con una relazione scritta sui compiti at­ tuali della filosofia. Husserl ha lavorato a lungo alla risposta a questo quesito. Infine si è sviluppato in un trattato. Il titolo era il seguente: Ueber die Philosophie in der Krisis des europäischen Menschentums (La filosofia nella crisi dell’umanità europea). Qui appare per la prima volta questo titolo. Husserl ha inviato il testo solo alla chiusura del Con­ gresso. Non si può più stabilire se fu pubblicata nella relazione sul con­ gresso. I rapporti di' Husserl con Praga non si sono con questo raffreddati. L’ultimo allievo personale di Husserl, il filosofo ceco Jan Patocka, già durante il periodo dei suoi studi presso Husserl a Freiburg nel 1933, lo aveva esortato a recarsi a Praga. Seguì subito l’occasione per un in­ vito in questa città. Nel 1934 venne fondato a Praga il « Cercle philosophique de Prague pour les Études de l’entendement humain ». I suoi fondatori erano il professore dell’università ceca di Praga, Kozak e il filosofo tedesco Utitz, che era stato cacciato dalla sua Università ed ave­ va ottenuto una cattedra per l’insegnamento della filosofia all’Università tedesca. Segretario del circolo era Patocka. Il circolo considerava suo compito principale servire alla lotta per la conservazione dell’umanità e libertà di pensiero con l’arma della chiarificazione filosofica. Il pro­ tettore del circolo era il presidente della Repubblica cecoslovacca, Masarik. Come Husserl, era un allievo di Franz Brentano, il primo gran­ de critico della psicologia naturalistica del XIX secolo. Brentano defi­ niva la sua « psicologia » dal punto di vista empirico « Phänomenognosie ». L’espressione « fenomenologia » è quasi un sinonimo. Husserl l’aveva scelta evidentemente per i suoi scritti per non essere confuso con Brentano. Era stato Masarik che aveva attirato l’attenzione di Hus­ serl su Brentano. Egli aveva già riconosciuto l’importanza della feno­ menologia di Husserl; nel 1934 era però già malato e un anno dopo moriva. Ma aveva chiesto ai suoi collaboratori di fare di tutto per pro­ muovere lo sviluppo della fenomenologia a Praga. Questo incoraggia­ mento divenne dunque un compito particolare del circolo. Tramite Patocka erano state già intraprese trattative con Husserl per pubblica­ re le sue opere a Praga. In Germania Husserl non poteva ormai pubbli­ care più nulla. I presupposti per questo progetto erano favorevoli. Nel 1934 io avevo già completato la mia opera per la libera docenza presso

22 l’Università tedesca a Praga come anche la rielaborazione della logi­ ca genetica di Husserl e potevo perciò dedicarmi completamente al com­ pito dell’edizione. Il primo passo fu la trascrizione dei manoscritti di Husserl che erano stati completamente stenografati. L’opera postuma di Husserl consiste in oltre 40.000 fogli stenografati e non tutti sono stati finora trascritti. L’opera postuma di Husserl è dunque paragona­ bile ad una gigantesca area edificabilc su cui sono stati costruiti solo alcuni edifici completi. Degli altri sono state poste solo le fondamenta. Fra queste c’è una grande quantità di pietre da costruzione, in parte lavorate, in parte rustiche. Per il loro impiego non ci sono spesso istru­ zioni da parte di Husserl. Alla sagacità degli editori spetta il compito di cercare dove impiegarle. Il circolo aveva anche trovato per l’edizio­ ne una casa editrice a Praga. Era la casa editrice « Akademia ». L’ini­ ziativa della sua fondazione era partita dall’editore Marcus di Breslau che era emigrato. Così è apparsa a Praga la prima edizione della mia rielaborazione della logica di Husserl con il titolo Erfahrung und Ur­ teil. Di questo rimase però un volume: quando Marcus potè consegnar­ mi nella primavera del 1939 il primo esemplare pronto, i carri armati tedeschi stavano entrando a Praga. Pertanto, tutti gli ulteriori progetti di edizione finirono. Ma nel 1934 nessuno poteva ancora prevedere che le cose avrebbero preso un tale corso. Anzitutto già nel 1935 si giunse ad invitare Husserl a tenere a Pra­ ga delle conferenze, ciò che egli accettò per l’autunno del 1935. Già in precedenza Husserl aveva tenuto con grande successo a Vienna con­ ferenze sul tema « Die Philosophie in der Krisis der europäischen Men­ schheit » (La filosofia nella crisi dell’umanità europea). Il testo di que­ ste conferenze fu incluso come supplemento al testo della Krisis. Nel novembre 1935 seguirono le conferenze a Praga, una all’università te­ desca, l’altra all’università ceca. Il titolo era: « Die Krisis der europäi­ schen Wissenschaften und die Psycologie » (La crisi delle scienze euro­ pee e la psicologia). Il testo di queste conferenze fu il materiale base per l’elaborazione della quarta parte del libro Krisis: Der Weg in die tran­ szendentale Phänomenologie von der Psychologie aus (Il cammino nel­ la fenomenologia trascendentale dalla psicologia). Dopo le conferenze di Praga Husserl ha lavorato fino all’inizio della sua mortale malattia nell’estate 1937, al testo dell’opera. Già in precedenza aveva scritto per due volte un’ampia introduzione alla fenomenologia: le Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (1913) (Le idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno­ menologica), e le Cartesianische Meditationen che sono apparse nel 1931 nella traduzione francese. Il testo tedesco potè essere pubblicato solo nel 1950 come I volume della Husserliana. L’opera Krisis doveva

23 diventare dunque la definitiva e la sola valida introduzione alla feno­ menologia che corrispondesse alla più recente situazione delle cono­ scenze di Husserl. Ma il tempo che Husserl ebbe a disposizione fino alla sua malattia fu troppo breve e così rimase incompleta. Leggendo l’opera bisogna tenere presente questo fatto, poiché con esso si possono spiegare le grandi difficoltà che si incontrano anche con uno studio scrupoloso: il testo scritto da Husserl resta di gran lun­ ga dietro a ciò che egli aveva progettato di scrivere ancora. Era certa­ mente consapevole di questo fatto e parlava della sua fenomenologia come di un « compito incessante ». Di se stesso nella tarda età ha det­ to che solo allora era diventato un buon principiante. Con questo ha una posizione unica nella storia della filosofia. Nessun altro grande fi­ losofo ha inteso allo stesso modo la sua opera come la grande sfida per i suoi discendenti a pensare oltre e al di là e a rispondere ai quesiti cui egli stesso non ha risposto e che spesso sono accennati solo come aporie. Dopo queste premesse possiamo passare all’esame del testo stesso. Husserl ha completato le due prime parti già nel gennaio del 1936. Sono 1. La crisi delle scienze come espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea e 2. La chiarificazione originaria del moder­ no contrasto tra oggettivismo fisicalista e soggettivismo trascendentale. Poiché queste due parti nell’elaborazione erano diventate molto ampie, Husserl si era deciso a pubblicarle separatamente dalle parti successi­ ve. Furono stampate nel I volume della rivista « Philosophia ». Questa rivista fu pubblicata a Belgrado da emigranti tedeschi. Essendo la sua diffusione proibita in Germania anche l’articolo di Husserl rimase sco­ nosciuto mentre ebbe viva risonanza all’estero. Husserl aveva anche inviato a Belgrado per il secondo volume di « Philosophia » il testo della continuazione e ricevuto le bozze per la correzione. Ma dall’invio di questo testo Husserl aveva continuato a lavorare incessantemente ai suoi problemi e trovò il testo delle bozze molto insoddisfacente e biso­ gnoso di miglioramenti. Perciò la sua pubblicazione non dovette aver luogo; accadde così che tutta l’opera potè apparire solo nel 1954 come IV volume della Husserliana. Andremmo troppo lontano se ora discutessimo dettagliatamente le difficoltà che nascono dalla genesi di quest’opera. Dobbiamo limitarci a due brevi osservazioni. Una delle difficoltà sta nel fatto che la III parte (3A) in cui viene introdotto il problema del mondo vitale (Le­ benswelt) è stata introdotta solo successivamente nel testo da Husserl. Non gli è riuscito di far armonizzare questa aggiunta con il testo che la precede e che la segue. Questo è dovuto ad un altro problema rima­ sto insoluto, con il quale ha lottato fino alla fine. È il problema del rap­

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porto delle discussioni storiche con quelle sistematiche nell’opera sul­ la Krisis. Parlando genericamente, questo problema riguarda il rap­ porto fra la filosofia e la sua storia. Secondo l’interpretazione tradizio­ nale, sistematica e storia della filosofia sono due campi distinti. Nella solita rappresentazione della storia della filosofia si parla, è vero, degli influssi dei filosofi su altri filosofi successivi, ma il contenuto di verità di un sistema filosofico è considerato indipendente da questo. È stato Hegel a formulare questa interpretazione in maniera più acuta, il pen­ siero è sovratemporale e con ciò soprastorico. L’opinione di Husserl è in contrasto con quest’idea tradizionale: la fenomenologia può essere fondata sistematicamente solo se questa fondazione al tempo stesso è di carattere storico. La fenomenologia è dunque « ricerca dell’origine » in questo doppio senso: da una parte come domanda sistematica sul­ l’ultimo fondamento di ogni conoscenza, al quale si deve tornare, e d’al­ tra parte come domanda sull’origine storica, nella storia del pensiero filosofico. Questo problema non è stato ulteriormente sviluppato nel li­ bro sulla Krisis, ma viene discusso in un testo che Husserl scrisse con­ temporaneamente al testo sulla crisi, sempre nel 1936. È il trattato sul­ l’origine della geometria. È stato pubblicato dall’ultimo collaboratore di Husserl, Eugen Fink, nel 1936 in traduzione francese sulla rivista belga « Revue internationale de Philosophie ». Non era possibile pub­ blicare il testo tedesco in Germania durante il regime di Hitler; ha potuto essere inserito solo nel 1954 come allegato IH nell’opera sulla Krisis e dev’essere considerato la sua più importante aggiunta. Da questa discussione della genesi del testo della Krisis derivano delle domande alle quali si deve rispondere per avere un’idea della struttura dell’opera. Le seguenti considerazioni conclusive serviranno appunto per dare quest’idea. Tema dell’opera non è solo l’analisi della crisi delle scienze euro­ pee quale « espressione della radicale crisi di vita dell’umanità euro­ pea », ma allo stesso tempo la prova che l’analisi fenomenologica può indicare la via per superare questa crisi. In questo senso Husserl inten­ deva la sua opera sulla crisi come ultima e essenziale introduzione alla fenomenologia trascendentale. Husserl percorre a tale scopo tre vie: 1. la domanda retrospettiva sull’origine storica della crisi (parte 1, 2), 2. la domanda retrospettiva partendo dal dato « mondo della vita » (parte 3A), 3. la via che parte dalla psicologia (parte 3B). Occorre dunque rispondere alla domanda perché devono essere proprio que­ ste tre vie, e come sono collegate fra loro. Come abbiamo già detto, questo nesso è difficilmente comprensibile, perché Husserl ha inserito solo successivamente la discussione della via del mondo della vita nel testo dell’opera. Per tenere conto di questo fatto, invertiremo l’ordine

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e parleremo in secondo luogo della via che parte dalla psicologia, per­ ché essa in parti essenziali appartiene ancora alla domanda retrospetti­ va sull’origine storica della crisi. Occorre dunque discutere in primo luogo dell’origine storica. Essa riguarda gli avvenimenti della storia dell’Europa, in cui va cercata l’origine della crisi. Le scienze, di cui parla Husserl, sono le scienze naturali « esatte », matematiche. Nessun'altra delle grandi civiltà mon­ diali ha sviluppato con i suoi pensieri filosofici un concetto di scienza, che poteva portare a questo genere di scienza. È un risultato della filo­ sofia europea, che inizia con i Greci. La crisi delle scienze, di cui par­ la Husserl, non è una crisi dello sviluppo immanente dei loro metodi, ma una crisi del loro significato per la vita umana. È dunque una crisi dell’applicazione di queste scienze, e questa applicazione è la tecnica. Essa sta per trasformare completamente la vita dell’intera umanità tra­ mite la tecnicizzazione. Dato che il linguaggio di queste scienze è il linguaggio delle formule matematiche, del quale fa parte anche il lin­ guaggio delle formule chimiche, questo linguaggio è per principio com­ prensibile per chiunque sappia pensare. La sua comprensibilità supera tutti i limiti di ciò che viene espresso in diverse lingue in maniera di­ versa. Così questo linguaggio di formule matematiche non ha bisogno di essere tradotto. Perciò ha potuto essere accolto da tutte le culture sviluppate e le conduce a sua volta alla tecnicizzazione. La tecnicizzazione del mondo umano sembra avvicinarsi a noi co­ me un destino irrefrenabile, e la domanda come le sue pericolose con­ seguenze possano essere evitate, è diventato oggi un argomento attuale di discussione. Husserl indica ora la responsabilità, che l’Europa ha davanti a questa crisi. La responsabilità è dovuta al fatto che solo gli europei sono in grado di porsi domande in una maniera immediata sul­ l’origine di questa crisi, perché i presupposti di questa crisi provengo­ no dalla loro propria storia. Non occorre richiamare alla loro memoria questa storia tramite la ricerca storica, perché i suoi risultati stanno loro1 davanti agli occhi nella vita quotidiana: nella loro lingua, nelle loro abitudini e istituzioni, nei monumenti, tramite i quali quotidia­ namente è risvegliato in loro il ricordo di questa storia. Tutti gli altri popoli e culture hanno la loro propria storia, i cui risultati stanno loro immediatamente davanti agli occhi. Essi non vedono, dunque, in un primo momento nessun motivo per occuparsi della storia europea. Co­ sì per loro la tecnicizzazione è un avvenimento alla mercè del quale si trovano in modo incomprensibile, perché non hanno alcun accesso diretto alla sua origine. Con ciò si è risposto alla prima domanda, perché al primo posto de­ ve stare la rimemorazione storica. Come nella diagnosi di una malat­

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tia al primo posto si trova l’anamnesi, perché cori il suo aiuto si può trovare la radice della malattia, così la rimemorazione storica deve portare alla radice della crisi. In secondo luogo, occorre ora risponde­ re alla domanda perché all’analisi della crisi dell’umanità europea ap­ partiene la via « che parte dalla psicologia ». Il confronto con la psicologia contemporanea è stato per Husserl fin dall’inizio un tema centrale. Il primo volume delle sue Logischen Untersuchungen (1901) è dedicato alla critica del psicologismo nella fondazione della logica. Questo psicologismo è nella sua elaborazione estrema il tentativo di comprendere le leggi della logica come leggi natu­ rali del pensiero. Husserl aveva invece già conosciuto durante il suo periodo universitario il progetto di una psicologia descrittiva del suo maestro Brentano. Successivamente ha anche letto con attenzione il trattato di Dilthey Ideen zu einer beschreibenden und zergliedernden Psychologie (1894), trovandovi delle tendenze molto affini alle sue. Dilthey aveva contrapposto, in questo scritto, alla dominante psicolo­ gia scientifico-naturale una psicologia scientifico-spirituale (naturwis­ senschaftlich-geisteswissenschaftlich). Husserl ha anche tenuto d’oc­ chio l’ulteriore sviluppo della psicologia. La preparazione delle sue conferenze a Praga era stata preceduta dallo studio del libro dello psi­ cologo Karl Bühler, Die Krise der Psychologie. Bühler indicava in que­ sto libro il contrasto non superato tra una « psicologia dal basso » ed una « psicologia dall’alto ». Si trattava qui del contrasto fra una psico­ logia scientifico-naturale ed una psicologia comprendente, ermeneutica. Nella parte III dell’opera sulla crisi, Husserl voleva dimostrare che questa crisi della psicologia può essere eliminata solo quando il suo rapporto con l’analisi fenomenologica della coscienza è chiarito. In questo chiarimento si deve tener conto del fatto che tutti i risultati em­ pirici di una psicologia descrittiva e comprendente devono essere accet­ tati nella fenomenologia trascendentale con un’« inversione dei segni ». L’inversione dei segni si basa sulla convinzione che non può essere suf­ ficiente raccogliere i fatti empirici della coscienza; perché questi fatti della vita dell’anima e della sua coscienza non sono fatti qualsiasi ac­ canto a tanti altri, che possono diventare tema di una scienza, ma sono dei fatti eccezionali, perché solo tramite essi esiste tutto ciò che noi chiachiamo il nostro mondo. Con questa parola « mondo » è indicato lo spazio, 1’« orizzonte » della nostra vita. Se i fatti empiricamente inda­ gabili della vita dell’anima devono essere accettati con un’inversione dei segni nella fenomenologia trascendentale, ciò vuol dire che nella feno­ menologia devono essere discussi da una prospettiva diversa da quella della psicologia. Devono essere trattati tenendo conto di come questi fatti sono condizioni a priori di ogni possibile esperienza. Sono condi­

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zioni oltre le quali non è possibile nessun pensiero e nessuna specula­ zione. L’« inversione dei segni » è dunque critica nel senso in cui già Kant ha parlato della filosofia trascendentale come critica dei limiti della ragione. L’autocomprensione della psicologia come scienza empirica le vie­ ta di eseguire questo passo dell’« inversione dei segni ». Ma qualora non si riconosce la necessità di fare tale passo, allora non è possibile condurre la psicologia fuori dalla sua crisi. Ecco perché per l’analisi fenomenologica della crisi serve la via « che parte dalla psicologia ». La psicologia dev’essere inclusa in questa analisi, perché essa nel suo stato di crisi, come dice Husserl, è un « impedimento per la visione delle radici della crisi. È un impedimento, perché la sua autocompren­ sione quale scienza empirica non esclude la via ad una psicologia con metodi scientifico-naturali. Questa via può diventare una « psicologia senza anima », come fu chiamata con orgoglio dai suoi rappresentanti radicali, ed una psicotecnica. Perciò la psicologia dev’essere inserita nel­ la discussione fenomenologica delle radici della crisi. Questa radice è il tema della parte III dell’opera sulla Krisis (3A), quale « via che parte dal mondo della vita dato ». Su questa via si de­ ve mostrare che la radice della crisi è il dimenticare o « tralasciare » il « mondo della vita ». Questo tralasciare avviene con il perfezionamen­ to delle scienze esatte. Esse sono guidate dalla convinzione che solo la natura da esse conosciuta è la vera natura. Questa convinzione viene chiamata da Husserl 1’« obiettivismo » di queste scienze. Per costruire le scienze matematiche della natura, occorre naturalmente l’artificio metodico di un’astrazione. Husserl la chiama « idealizzazione ». L’o­ biettivismo delle scienze, però, è più di questa idealizzazione metodica. È piuttosto il fraintendere la portata di questo metodo. Nell’autocomprensione di queste scienze dell’epoca moderna c’è piuttosto la pretesa di universalità, e questo è più di una pretesa teorica; è, anzi, la con­ vinzione della possibilità pratica di poter affrontare, con l’applicazione di tale metodo nella tecnica, tutti i problemi della vita umana e risol­ verli con mezzi tecnici. In questo senso « l’obiettivismo » delle scienze esatte è più di una convinzione teorica. In esso si esprime la pretesa di poter fare tutto ciò che si può fare tecnicamente in base alle cono­ scenze scientifiche. Con questa pretesa veniamo oggi confrontati in tut­ ti i campi. Con ciò la crisi delle scienze europee è diventata una crisi radicale dell’intera umanità. La riflessione fenomenologica sull’origine di questa convinzione ha dunque conseguenze pratiche. Deve portare alla persuasione che per superare la crisi occorre un radicale cambiamento di pensiero, un tota­ le mutamento della nostra posizione. Husserl parla in questo senso di

28 una radicale trasformazione personale, che può essere paragonata ad una conversione religiosa. Questo è il senso déll’epoché e della ridu­ zione fenomenologiche. Husserl ha preso l’espressione « epoché » dalla scepsi della Stoa e la comprende nel senso di una scepsi radicale del­ l’uomo per quanto riguarda il suo potere. Una volta ha anche sottoli­ neato che solo la scepsi radicale può superare lo scetticismo. Da questa scepsi radicale è guidata la domanda sull’origine storica della crisi. Non si tratta per niente di una curiosità storica, ma apre la vista sui fatti fondamentali e sulle funzioni fondamentali della vita consapevole di se stessa, cioè della vita di tutti coloro che sono nostri simili. Questa riflessione porta al fatto che queste funzioni elementari sono state saltate nella svolta verso la maternatizzazione. Sono le fun­ zioni fondamentali in cui il mondo si schiude per tutti noi e in ogni momento in maniera immediata. Esse precedono la conoscenza matema­ tica in un duplice senso. Non la precedono solo nel senso storico, in quanto le scienze sono una tarda scoperta dell’uomo — già da molto tempo era esistito un mondo umano senza scienze. Ma precedono anche genericamente nello sviluppo di ciascun uomo come funzioni fonda­ mentali. Ciascuno acquista già nell’età pre-linguistica, in cui ancora nessuna riflessione è possibile, nei suoi movimenti diretti verso una meta, le « cinestesie » dello sguardo, dell’afferrare ecc., nel modo più originario familiarità con il mondo che lo circonda e impara già la differenza fra ciò che dà piacere e felicità e ciò che ripugna e spa­ venta. L’apriori della conoscenza analizzato da Kant è preceduto e si basa su un apriori pre-riflessivo e pre-logico. Husserl lo ha trattato e introdotto sotto il titolo « mondo della vita ». Nel libro sulla crisi questo viene solo introdotto in accenni e così nella lettura facilmente saltato. Perciò oggi esiste una vasta letteratura che si occupa del problema del mondo della vita. Perciò si può anche non vedere che il programma trascendental-filosofico di Husserl con il ritorno al mondo della vita non chiede un ritorno ad un mondo idilli­ co, « integro », senza scienza. È piuttosto il programma della distruzio­ ne della incondizionata fiducia nel potere che, con la scienza, viene messo in mano all’uomo: perché questa fiducia può molto più facilmen­ te condurre alla distruzione del mondo umano che alla sua conserva­ zione. Con questi brevi accenni devo concludere. Ma spero che possano facilitare la comprensione dell’opera tanto difficile sulla crisi.

2. HUSSERL E IL PROBLEMA DELLA STORIOGRAFIA FILOSOFICA

di Giuseppe Semerari

1. Ci sono dei buoni motivi, a mio parere, perché in un convegno co­ me questo, occasionato dal cinquantenario de La crisi delle scienze euro­ pee e tematizzato sulla ricerca, da parte della Ragione occidentale, della propria identità, sia preso in considerazione il singolarissimo rapporto che Husserl ebbe con la storia della filosofia. I motivi sono i seguenti: a. l’intera sezione centrale de La crisi, coperta dai paragrafi che dall’8° arrivano fino al 27", e le Beilagen, che integrano il testo — dalla terza in poi — sono dedicate tanto alla ricostruzione e alla discussione della storia della filosofia moderna da Galilei a Kant, nell’ottica del con­ flitto tra obiettivismo naturalistico e soggettivismo trascendentale, quanto alla impostazione teorica del problema della storiografia filo­ sofica, già anticipata, del resto, al paragrafo 6° ove, sul presupposto che la filosofia è « il movimento storico della rivelazione della ragione uni­ versale, “innata" come tale nell’umanità »’, la storia della filosofia mo­ derna viene interpretata come Kampf um den Sinn des Menschen. Da questo lato, La crisi riprende e perfeziona il quadro storico e teoretico già chiaramente delineato nella kritische Ideengeschichte della prima parte delle lezioni di Erste Philosophie del 1923/24 e correlative Bei­ lagen e nelle Vormeditationen über den apodiktischen Anfang der Phi­ losophie della seconda parte delle medesime lezioni;

b. Il modo come Husserl la propone fa della storia della filosofia un momento essenziale del progetto fenomenologico quale strategia di difesa contro la crisi dell’epoca, da un lato, e rivendicazione della fi-

Le citazioni delle opere di Husserl sono riferite all'edizione Husserliana della Nijhoff, indicata con la sigla Hu seguita dai numeri romano del volume e arabo della pagina. Quando esistono, sono richiamate, tra parentesi, le cor­ rispondenti traduzioni italiane. 1. Hu, VI, 13-14 (La crisi delle scienze europee, a cura di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 44).

30 losofia come razionalismo, anzi Rationalismus durch und durch 2, dal­ l’altro. Quando La crisi delle scienze europee cominciò a essere letta e studiata, ci fu la tendenza a vedere in essa il frutto ultimo, imprevi­ sto, esplosivo e straordinario di una non esaurita genialità filosofica ma che, tuttavia, restava isolato, quasi senza seri precedenti e legami, nel contesto dell’opus husserliano. Il fatto che tòpos dominante de La cri­ si sia la storia contribuiva a rafforzare la tendenza, dal momento che l’immagine di Husserl era fissata al cliché del filosofo tra i più astori­ camente essenzialisti della tradizione. Si attribuì principalmente alla situazione politica tedesca degli anni ’30 la conversione di Husserl ai problemi della storia. Scrisse Paul Ricoeur:

... si può ben dire che lo stesso tragico della storia abbia condotto Hus­ serl a pensare storicamente. Sospetto ai nazisti come non-ariano, come pensatore scientifico, e, più fondamentalmente, come genio socratico e problematico, messo a ritiro e condannato al silenzio, il vecchio Husserl non poteva evitare di scoprire che lo spirito ha una storia che concerne tutta la storia, che lo spirito può essere malato, che tutta la storia è per lo spirito stesso il luogo del rischio, della possibile perdita3.

Giustissimo. Ritengo, però, che la situazione della crisi, Vesserei una situazione di crisi, costituisca l’orizzonte non della sola Crisi delle scienze europee bensì di tutta la fenomenologia, dal principio alla fine. Il sottotitolo de La crisi, che, com’è noto, è Eine Einleitung in die phä­ nomenologische Philosophie, è significativo. Ha portata e valore ben più generali e strutturali. È come se dicesse: la crisi come situazione epocale è ciò in rapporto a cui si legittimano la fenomenologia come tale e, nel quadro della fenomenologia, la specifica problematica e lo specifico discorso de “La crisi”. Di questa problematica e di questo discorso la riflessione sulla storia della filosofia è elemento essenziale e determinante. La differenza, allora, tra la fenomenòlogia de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia degli scritti anteriori risiede nella particolare angolatura sotto la quale la fenomenologia si rapporta alla crisi, dipende dal campo entro il quale la crisi viene nuovamente individuata e dalla risposta che a essa è data. In più, semmai, c’è la con­ sapevolezza dell’essere la crisi epocale arrivata a un bivio, a quel bivio, che Husserl, nella conferenza al Kulturbund di Vienna del maggio 1955, rappresentò con perentoria drammaticità:

2. Ivi, 273 (ivi, p. 287). 3. P. Ricoeur, Studi di fenomenologia, a cura di C. Liberti, Sortino Ed., Messina, 1979, p. 76.

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... .il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, op­ pure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia, attraverso un eroi­ smo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza 4. La crisi era identificata con e nella crisi dell’Europa. Ciò conferiva all’interpretazione husserliana della crisi un'apparentemente estrema concretezza storica che, però, si vanificava subito allorché l’Europa veniva trasfigurata in concetto e intesa come « teleologia storica di fi­ ni razionali infiniti ». La riduzione idealistica di una complessa e con­ traddittoria realtà storica — quale l’Europa — a concetto, a idea pote­ va far passare Husserl come un filosofo della storia a metà hegeliano e a metà spengleriano e come un rivendicatore dell’eurocentrismo già allora piuttosto anacronistico. D’altra parte, l’appello al concetto “Eu­ ropa”, in quel contesto storico, era tale che le intenzioni di Husserl po­ tevano venire fraintese e confondersi con appelli di ben altra natura, ben diversamente ispirati5. Non si può non ricordare, in proposito, che, nel medesimo anno 1935, anche Heidegger nelle lezioni friburghesi deWEinführung in die Metaphysik, si richiamava all’Europa e ne de­ nunciava 1’« accecamento » e il soffocamento da parte della Russia e dell’America e la innalzava a una sorta di traccia metafisica dell’Essere — l’Essere come destino spirituale dell’Europa —. Il problema del­ l'Europa, per Heidegger, era lo stesso problema dell’Essere obliato dal­ la storia della metafisica e ambedue si fondevano nel problema del po­ polo tedesco trovato come « il popolo metafisico per eccellenza » e « centro » dell’Europa, centro non solamente in senso geografico, ma soprattutto morale e ideale. L’Europa, messa di fronte all’alternativa del proprio annientamento, poteva salvarsi solo se dal suo centro, dal popolo tedesco, si fossero sprigionate « nuove forze storiche spiritua­

4. Hu, VI, 347 (La crisi, cit., p. 358). 5. Per Husserl, l’uomo europeo porta in sé « un’idea assoluta » rivelata dalla filosofia, mentre il cinese e l’indiano sono « un mero tipo antropologico ». E Husserl si chiede, retoricamente, se « lo spettacolo dell’europeizzazione di tutte le umanità straniere annunci la manifestazione di un senso assoluto rientrante nel senso del mondo o se non rappresenti invece un non-senso storico ». Ivi, 14 (ivi, p. 45). Nella lettera a Ingarden del 10 luglio 1935, riassumendo il concetto delle conferenze di Vienna e di Praga, da cui nacque La crisi, Husserl spiega la crisi col rifiuto, da parte della filosofia, del proprio compito (ihres Berufs), «dem höheren Menschheitstypus, der als Idee in Europa historisch werden sollte, die normative Leitung zu geben » (E. Husserl, Briefe an Roman Ingarden, Martinus Nijhoff, Den Haag, 1968, p. 94, sottolineature mie).

32 li »67 . Mentre Husserl ravvisava « il maggior pericolo dell’Europa » nel­ 8910 la « stanchezza » (Müdigkeit)1, Heidegger lo indicava nel « demonia­ co » coincidente « col crescente disorientamento e con la crescente in­ sicurezza dell’Europa nei suoi confronti e in se stessa », con la « deso­ lante frenesia della tecnica scatenata » e con « l’organizzazione senza radici dell’uomo massificato »*. Sebbene, il 1935, Heidegger comincias­ se a prendere le distanze dal nazismo ufficiale già al potere, del quale le ricordate lezioni di Friburgo contenevano una velata critica, con molta difficoltà un contemporaneo avrebbe saputo cogliere la differen­ za tra le sue tesi sulla centralità e sulla missione storica del popolo te­ desco nei riguardi dell’Europa assediata dalle potenze demoniache del­ la tecnica e della massificazione — Russia e America — e quelle ana­ loghe della propaganda nazista. Il discorso heideggeriano poteva — da­ te le circostanze storiche — essere ancora sfruttato a sostegno ideologi­ co del nazismo e della sua politica in Germania e fuori, soprattutto quando Heidegger si esprimeva così: « È per questo motivo che abbia­ mo posto la domanda sull’essere in relazione col destino dell’Europa in cui si decide dello stesso destino della terra, destino di cui, per ciò che concerne l’Europa stessa, la nostra esistenza storica (scil. resisten­ za storica del popolo tedesco) si rivela come il centro »’. Tornando ora a Husserl, va osservato che la sua rappresentazione dell’Europa come depositaria e portatrice di una teleologia storica di fini razionali e chiamata a decidersi o per il tramonto (Übergang) o per la rinascita (Wiedergeburt) affidata a un eroismo della ragione, è, cer­ tamente, fascinosa e carica di tragica solennità, ma non ci aiuta molto a capire fino in fondo quella crisi storica che Husserl pensava di aver chiarito. La crisi degli anni ’30, che è poi la crisi dell’Europa e del mondo fra prima e seconda guerra mondiale, coinvolgeva troppi e troppo complessi fattori economici, sociali e politici perché risultasse appagante una ricognizione critica condotta con un Leitfaden esclusivamente filosofico pur nella prospettiva di una « complessiva “esisten­ za” », che si scopriva divenuta misera, pur nella coscienza dell’immi­ nenza di un rivolgimento del « senso complessivo » (Gesamtsinn) della filosofia finora invalso come « ovvio » (selbstverständlich) per una fi­ losofia di tipo nuovo « che va attuata attraverso l’azione » (durch die Taf)™. Non, dunque, su questa strada seguiremo Husserl, bensì sull’al­ 6. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, tr. it. di G. Masi, Milano, 19722, pp. 48-49. 7. Hu, VI, 348 (La crisi, cit., p. 358). 8. M. Heidegger, Introduzione, cit., p. 48. 9. Ivi, p. 52. Cfr. G. Semerari, Insecuritas. Tecniche e paradigmi della salvezza, Spirali, Milano, 1982, pp. 182-183. 10. Hu, VI, 16-17 (La crisi, cit., p. 47).

33 tra che da La crisi delle scienze europee riconduce a quella più gene­ rale e più decisiva nozione della crisi come situazione epocale, che mi sembra — l’ho accennato dianzi — il ciò in relazione al quale si giusti­ fica, sin dagli inizi, la fenomenologia nella sua genealogia, nel suo si­ gnificato teoretico e nella sua funzione storica. Tale nozione cercherò di chiarire di qui a poco, dopo aver, però, esposta un’ultima ragione dell’opportunità che, in questo Convegno, si discuta anche del rapporto di Husserl con la storia della filosofia. Questa ragione è

c. la necessità che il problema della storia della filosofia non sia più la cenerentola della ormai sterminata letteratura critica su Husserl e la fenomenologia. Mentre, già da tempo, sono state verificate e rico­ struite la presenza, l’incidenza e l’influenza determinante della feno­ menologia husserliana nei più disparati campi disciplinari — dalla fi­ losofia alla psicologia, dalla psichiatria alla sociologia e alla riflessione estetica — si è lungamente ignorato o trascurato il contributo di Hus­ serl alla storia della filosofia, soprattutto all’interpretazione e ridefini­ zione del suo senso teorico. La cosa è ancora più stupefacente, ove si consideri quale e quanto interesse sia stato dedicato alla questione più generale della storia e della storicità a partire dal pionieristico saggio di Ludwig Landgrebe del 1932, Das Problem der Geschichtlichkeit des Lebens und die Phänomenologie Husserls, che venne a dire una parola altamente chiarificatrice nel dibattito allora provocato dal librò Le­ bensphilosophie und Phänomenologie di Georg Misch al quale lo stes­ so Husserl non era restato indifferente n. I primi germi della disposi­ zione di Husserl al pensare storico Landgrebe vedeva già presenti nel­ la roccaforte del presunto a- o anti-storicismo di Husserl, le Ricerche logiche. Le Ricerche, osservava Landgrebe, descrivono « le transizioni dall’atto di intenzione vuota all’atto compiuto, e dimostrano come ogni unità intenzionale rinvìi a una connessione del divenire, nella quale es­ sa svolge una sua determinata funzione »11 12. Ciò implica che « Ogni sin­ golo atto è una unità di durata nella coscienza temporale immanente ». Ma la conseguenza più rilevante è che la coscienza temporale non è una forma vuota da riempire: essa si costituisce col costituirsi degli atti stessi della intenzionalità insieme con la costituzione delle unità ogget­ tuali o significanti. È questo il primo profilarsi della storicità fenome­ nologica, la storicità della « coscienza intenzionale fluente », colta già nel primo più consapevole profilarsi e organizzarsi dell’atteggiamento 11. G. Misch, Lebensphilosophie und Phänomenologie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 19673. 12. L. Landgrebe, Fenomenologia e storia, tr. it. di M. von Stein, II Mu­ lino, Bologna, 1972, p. 12.

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fenomenologico. A questo punto, mi corre l’obbligo di almeno ricorda­ re quelle altre ricerche che sono le pietre miliari della riflessione criti­ ca su storia e storicità in fenomenologia: Husserl et le sens de l’histoire di Paul Ricoeur (1949); Welt und Geschichte di Eugen Fink (1959); Esistenza e storia negli inediti di Husserl di Giovanni Piana (1965); Geschichte und Lebenswelt. Ein Beitrag zur Disckussion von Husserls Spätwerk di Paul Janssen (1970); Wissenschaft und Geschichte di Ante Pazanin (1972) e Rekonstruktion der Geschichte. Zur Kritik der historischen Vernunft di Stephan Otto (1982). E la specifica storia della filosofia? Essa, purtroppo, ha stimolato meno la curiosità degli studiosi. Eppure la storia della filosofia è la spina dorsale e la struttu­ ra portante dell’intera concezione storica di Husserl. Nel saggio del 1923, Die Idee einer philosophischen Kultur, che fece da premessa al­ le lezioni di Erste Philosophie, quindi al primo progetto di una storia fenomenologica della filosofia, Husserl scrisse: In generale la storia della filosofia ... può essere considerata sotto il punto di vista della sua più grande funzione umana, sotto il punto di vista della necessaria destinazione, che è quella di creare un’autocoscienza uni­ versale e di ultima razionalità dell’umanità, grazie alla quale essa verrà portata sulla strada di un’autentica umanità 1314 .

Husserl concepiva la storia come un processo orientato e orientabi­ le nella direzione dell’auto-compimento razionale dell’umanità e di « un’auto-comprensione ultima dell’uomo in quanto essere responsabi­ le del suo essere umano »“*. Ma questo processo passava attraverso la storia della filosofia quale « lotta di intere generazioni di filosofi che vivono e si richiamano in una comunità di vita, che sono i portatori di questo sviluppo spirituale —, la lotta costante della ragione “ride­ stata” per giungere a se stessa, alla propria auto-comprensione, a una ragione che comprende concretamente se stessa ... »15. In tal modo Husserl assumeva la storia della filosofia non tanto come una specie del genus “storia” quanto come ciò per cui la storia tutta si porta al più alto livello di auto-comprensione e del proprio significato umano. Del resto, nella Beilage XXVI de La crisi, Husserl avrebbe successiva­ mente descritta la storicità nei suoi gradi, nel gioco di tradizione e in­ novazione, continuità e discontinuità, ma attingente il grado più ele­ vato nella filosofia, nella filosofia che si fa fenomenologia e si traduce in « coscienza scientifica dell’umanità nella sua storicità », da un lato, 13. Hu, VII, 205-206. 14. Hu, VI, 275 (La crisi, cit., p. 289). 15. Ivi, 273-274 (ivi, p. 288).

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e in « funzione » di trasformazione dell’umanità « in un’umanità che si faccia guidare coscientemente dalla filosofia in quanto fenomenolo­ gia », dall’altro 1617 . Il fatto che la storia filosofica fosse, per così dire, 1’« anima » della storia chiariva la portata specifica della ragione nell’accezione fenomenologico/husserliana quale processo, com’è detto al § 73 de La crisi, onde l’uomo tende, al limite, a costituirsi come « un io libero e autono­ mo », « nell'inscindibile correlazione delle persone singole e della co­ munità », che fa sì che la ragione non possa realizzarsi a livello perso­ nale se non realizzandosi insieme come personale-comunitaria 11. Ecco perché non esito ad attribuire la massima importanza, teoretica oltre che strettamente ermeneutica, a quelle ricerche fenomenologiche ma­ turate negli ultimi vent’anni, che hanno finalmente riconosciuto il peso del problema della storia della filosofia nella fenomenologia husserlia­ na. Mi riferisco al cap. X della parte seconda del libro di Enzo Paci del 1963, Fondazione delle scienze e significato dell’uomo, dedicato a II fondamento fenomenologico della storia della filosofia: è rilevante che questo capitolo faccia parte di un’opera che è un commentario, per la maggior parte, de La crisi delle scienze europee. Mi riferisco alla secon­ da parte del già citato libro di Paul Janssen, Geschichte und Lebens­ welt. Mi riferisco al § 10 della prima parte del volume di Gerd Brand, Die Lebenswelt (1971), che ha per oggetto Das Problem der Geschicht­ lichkeit der Philosophie, inteso come problema e della connessione tra la filosofia di oggi e la filosofia come tale e della connessione tra il mondo-della-vita e i diversi mondi storici. Mi riferisco al saggio di A. Lothar Kelkel, History as Teleology and Eschatology del 1979, che sce­ glie la tematica della storia della filosofia come luogo privilegiato per sbrogliare quel complicatissimo nodo teoretico e storico del pensiero contemporaneo, che è il rapporto fra Husserl e Heidegger 18. Mi riferi­ sco, infine, al recentissimo volume di Antonio Ponsetto, Die Tradition in der Phänomenologie Husserls. Ihre Bedeutung für die Entwicklung der Philosophiegeschichte, a proposito del quale direi che l’ammissione della fondamentalità, nella fenomenologia husserliana, della tradizione, è parimenti ammissione della fondamentalità, in essa, del problema del­ la storia della filosofia di cui la tradizione è posta come elemento es­ senziale di costruzione. Un nuovo orizzonte si è così dischiuso nella critica fenomenologica. Si tratta ora di percorrerlo fino in fondo. La mia relazione ambisce a 16. Ivi, 503 (ivi, p. 530). 17. Ivi, 272-273 (ivi, p. 287). 18. Il saggio è contenuto nel voi. IX degli « Analecta Husserliana », edited by Anna-Teresa Tymieniecka, pp. 381-411.

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essere un tentativo di pensare, fino in fondo, perché Husserl, a un cer­ to punto dello svolgimento della sua fenomenologia, pose con decisio­ ne il problema della storia della filosofia e che cosa la storia della filo­ sofia rappresenta nel contesto teorico della fenomenologia. Metto la questione in questi termini per la ragione che l’essenziale del rapporto di Husserl con la storia della filosofia sta non tanto nell’estensione e in­ tensità delle ricerche sul campo o nella normativa metodologica quanto nell’aver posto la domanda circa la motivazione, la funzione e il sen­ so della storia della filosofia: perché e a quale scopo, warum e wozu la storia della filosofia? 2. Penso che a questa domanda, nell’ambito della fenomenologia, non potrebbe essere trovata risposta se non attraverso la risposta a un’ altra domanda: perché e a quale scopo la fenomenologia? Tale rispo­ sta mi sembra che Husserl fornisca nella prima lezione di Erste Philo­ sophie, allorché ricostruisce la situazione determinata, nell’antica Gre­ cia, dalla scepsi sofistica, che — dice Husserl — svalutò le idee della ragione nelle loro forme fondamentali e pose il vero in sé e ogni altro in sé come ingannevoli illusioni e meri immaginari, togliendo così le basi alla scienza e alla filosofia e l’appoggio di fermi fini normativi alla vita pratica. La scepsi sofistica era stata, a ben vedere, la prima crisi delle scienze europee, la prima crisi della ragione occidentale. Husserl era persuaso che la situazione contemporanea fosse caratteriz­ zata e dominata da uno stato diffuso di scepsi e di crisi analoga a quel­ la sofistica. Husserl era convinto del fatto che ai problemi suscitati dal­ la forma moderna della scepsi sofistica — quella di Hume, che aveva determinato la « bancarotta » della scienza e della filosofia moderne, giusta l’analisi del par. 23 de La crisi — non fosse stata data ancora soluzione adeguata. Qui erano falliti successivamente il criticismo di Kant, l’idealismo tedesco e il positivismo, che non erano riusciti a vin­ cere seriamente le difficoltà fatte esplodere da Hume. In Hume si era ripresentato il riduzionismo sofistico e i concetti matematici, i concetti del mondo pre-scientifico e l’identità dell’io erano divenuti pure « fin­ zioni ». La fenomenologia avanzava la pretesa a riprendere i problemi al punto in cui Hume li aveva posti e lasciati insoluti e ad avere succes­ so là dove criticismo, idealismo e positivismo avevano subito scacco. La scepsi irrisolta causava malessere, disordine, insicurezza. Nella già ricordata prima lezione di Erste Philosophie, Husserl rappresentò con sostenuta drammaticità, la situazione di crisi:

Noi non sappiamo ancora, fino a oggi, quale dei molti e purtroppo poco chiari concetti della filosofia dobbiamo scegliere per guida. Qualunque sia

37 il concetto da noi scelto, esso ci verrebbe incontro anzitutto solo come mero pensiero verbale vacuamente astratto e formale. Così non avrebbe la forza di animare i nostri animi, di mettere in moto le energie di volontà. Si tratta ... di niente di meno che di una riforma universale di tutte le scienze in generale ... La situazione spirituale generale riempie l’anima di una insoddisfazione così profonda che non è più possibile continuare a vivere nelle sue attuali forme e norme l9. Unbefriedigung — insoddisfazione, inappagamento —: questa era la parola nella quale Husserl ricapitolava il senso della crisi di fronte alla quale riteneva che, da una parte, si dovesse chiarificare i concetti, liberandoli dall’astrattismo e dal formalismo, e renderli sicure guide e, dall’altra, riformare universalmente le scienze e la filosofia. Con ciò era descritto il progetto della fenomenologia, che nasceva sul terreno della crisi — la crisi come il warum? della fenomenologia — allo sco­ po (wozu?) di tentare la via di uscita dalla crisi. Mentre Husserl compiva il proprio apprendistato scientifico e filo­ sofico, Nietzsche rinnovava la scepsi sofistica e humeana e attaccava la cittadella della tradizione metafisica, della tradizionale sicurezza me­ tafisica, negando che le verità siano mai qualcosa di diverso da « illu­ sioni di cui si è dimenticata la natura illusoria », « metafore che si so­ no logorate e hanno perduto ogni forza sensibile », finzioni originarie obliate come tali a cui, tuttavia, ricorrono tanto l’uomo pratico « per non essere trascinato via dalla corrente e per non perdersi » quanto l’uo­ mo teoretico al quale « spetta addirittura di costruire la sua capanna a ridosso della torre della scienza, per poter contribuire alla sua edifica­ zione e per poter trovare egli stesso un riparo ai piedi del baluardo già costruito ». Ma anche la costruzione scientifica poggia « su mobili fon­ damenta, e per così dire, sull’acqua corrente »2021 . Nietzsche aveva per­ fezionato lo smantellamento della sicurezza metafisica col ripudio del cosiddetto « mondo vero », contrapposto al mondo apparente del dive­ nire, dell’esistenza effettuale, come consolazione, obbligo, imperativo2', e con il discorso di Zarathustra che racconta che Dio è morto. 19. Hu, VII, 7. 20. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, voi. Ili, t. II, Adelphi, Milano, 1973, pp. 355-372 (passim). 21. « Il mondo apparente e il mondo mentito: questa è la contrapposizione; il secondo è stato finora chiamato il “mondo vero”, la “verità” e “Dio”. Di tutte queste cose dobbiamo sbarazzarci ... il mondo si spaccò improvvisamente in un mondo vero e in un mondo “apparente”; e proprio il mondo, per abitare e stabilirsi nel quale l’uomo aveva inventato la sua ragione, proprio quello gli venne screditato. Invece di utilizzare le forme come strumento per rendersi il mondo adoperabile e calcolabile, il pazzo acume dei filosofi è giunto a scorgere che in queste categorie è dato il concetto di quel mondo a cui l’altro mondo,

38 Nietzsche aveva spalancati abissi nichilistici. La metafisica della verità, della scienza, del “mondo vero” e di Dio aveva cessato di es­ sere una sicurezza, una ovvietà indiscutibile. Bisognava ricominciare da capo, trovare qualcosa da cui ricominciare, ma qualcosa di solido, di più sicuro della vecchia metafisica, che potesse resistere all’irruenza della scepsi, alla sua corrosione. Già Dilthey, pubblicando il 1890, a distanza di due anni dal Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, il suo Sys­ tem der Ethik, aveva così esordito:

Ogni vera filosofia deve derivare dalle sue conoscenze teoretiche prin­ cìpi per la condotta della vita individuale e per la guida della società22.

Il problema, dunque, era quello della costituzione di una vera fi­ losofia capace di garantire e assicurare, attraverso i propri princìpi, la vita pratica individuale e collettiva. Vent’anni più tardi Husserl avreb­ be riecheggiato Dilthey, in apertura dello scritto su Philosophie als strenge Wissenschaft: Fin dal suo primo inizio la filosofia ha preteso di diventare scienza rigorosa, anzi di esser tale scienza da poter soddisfare alle più alte esi­ genze teoretiche e di render possibile, da un punto di vista etico-religioso, una vita guidata da norme razionali pure23.

Nel frattempo Dilthey aveva continuato ad approfondire il nesso tra filosofia e sicurezza. In Das Wesen der Philosophie, alla filosofia era affidato il seguente compito: Ciò che si presenta disordinato o ostile nell’interno di ogni età o nel cuore di un uomo, deve esser ricongiunto mediante il pensiero, ciò che è oscuro deve esser chiarito, ciò che è immediatamente accostato deve esser posto in connessione24. La filosofia assolveva a una funzione (Leistung) esistenziale la cui matrice era il quello in cui si vive, non corrisponde .... F. Nietzsche, Opere, cit., voi. II, t. Ili, pp. 109, 125. 22. W. Dilthey, System der Ethik, in Gesammelte Schriften, X Bd., Teub­ ner Verlagsgesellschaft, Stuttgart, 1958, p. 13. 23. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, Klostermann, Frank­ furt a.M., 1965, p. 7 (La filosofia come scienza rigorosa, a cura di F. Costa, Paravia, Torino, 1968, p. 1). 24. W. Dilthey, Das Wesen der Philosophie, in Gesammelte Schriften, cit., V Bd., p. 413 (Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino, 1954, p. 483).

39 bisogno dello spirito individuale di riflettere sul suo fare, di elabo­ rare e solidificare dall’interno la sua azione, di dare una salda forma alla sua relazione con la totalità della società umana ...25.

Alla filosofia, insomma, Dilthey chiedeva di farsi interprete del bi­ sogno umano di « un’estrema stabilità e solidità » (einer letzten Festig­ keit) di fronte al mondo » e della generale « ricerca di un punto saldo (festen Punkt), sottratto alla relatività »26. Ho richiamato Nietzsche e Dilthey a titolo emblematico. In Nietz­ sche si può ben rappresentare quella scepsi senza la cui presenza e ri­ correnza nel pensiero occidentale la fenomenologia, assai probabilmen­ te, non sarebbe mai nata. In Dilthey si rappresenta, invece, la via della rifondazione e ricostruzione delle certezze e delle sicurezze distrutte dalla scepsi. È questa la via anche di Husserl nonostante i dissensi, che divisero i due filosofi ma che, tuttavia, non impedirono al vecchio Husserl — morto, ormai, Dilthey da vent’anni — di dichiarare, nella lettera a Georg Misch del 27 novembre 1930, che tra lui e Dilthey c’era­ no stati, sì, contrasti ma pure « innere Gemeinsamkeiten »27. Era la stessa via, che avevano già percorsa Socrate e Platone e, agli inizi del­ l’età moderna, Cartesio. Non si trattava di una pura e semplice restau­ razione né, tanto meno, di una mera imitazione e ripetizione di modelli di pensiero già sperimentati e, in verità, già vinti dalla riemersa scepsi. Si trattava di riprendere, nelle nuove condizioni storiche, lo “spirito” di Socrate, che si era contrapposto alla scepsi come « riformatore pra­ tico », di Platone, che alla scepsi si era opposto come « riformatore teo­ rico-scientifico » e che della scienza aveva fatto la guida dell’umanità verso la sua realizzazione razionale 2829 , infine di Cartesio, che, lasciando agire in sé l’istanza di una « ricostruzione » diretta « nel senso di una filosofia soggettivamente orientata », aveva intrapreso il tentativo della « fondazione ultima ed universale del sapere basata su vedute assolu­ te, al di là delle quali non è possibile risalire »M. Come può l’umanità ritrovare ciò che, ai diversi livelli dell’esisten­ za pratica e del sapere teorico, la renda sicura contro le minacce e i pe­ ricoli della scepsi e le permetta di vivere razionalmente, ossia « in una autoresponsabilità sempre desta (in allzeit wacher Selbstverantwortli­ chkeit) » ossia, ancora, come « una umanità veramente maggiorenne » 25. Ibid. (ivi, p. 484). 26. Ivi, p. 415 (ivi, p. 485). 27. Cit., in A. Diemer, Husserl, Verlag Anton Hain K.G., Meisenheim am Glan, 1956, p. 394. 28. Hu, VI, 9. 29. Hu, I, 43-44.

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(si ricordi, per inciso, la kantiana definizione dell’illuminismo come l’uscire di minorità dell’uomo!), come « umanità autentica»30? È que­ sta la domanda dalla quale origina la fenomenologia husserliana e che la percorre e sottende in ogni suo momento — anche in quelli più for­ mali e tecnicistici — e, dalla Filosofia dell’aritmetica a La crisi delle scienze europee, ne sancisce l’unità sostanziale, quali che siano gli ap­ parenti mutamenti o rovesciamenti di fronte. Socraticamente e platonicamente, Husserl riteneva che l’umanità non possa rendersi razionale se non con la mediazione delle scienze. Nell’articolo del 1923, che ho dianzi citato, Husserl scrisse:

tutte le lotte per un’autonomia della ragione, per la liberazione del­ l’uomo dai vincoli della tradizione, per la religione « naturale », per il diritto « naturale », ecc. sono, in ultima analisi, lotte o fanno risalire a lotte attorno alla funzione normativa universale delle scienze da fondare sempre di nuovo e che abbracciano infine l’universo teorico. Tutte le que­ stioni pratiche celano in sé questioni conoscitive, che da parte loro si fanno generalmente afferrare e trasferire in quelle scientifiche. Perfino la que­ stione sull’autonomia della ragione come più alto principio culturale deve necessariamente esser posta come scientifica e decisa in senso scientificamente definitivo 31.

Il passo è straordinariamente significativo. Esso collega le lotte per la ragione in tutte le sue forme alle lotte per dare alle scienze efficacia regolativa — alla condizione, però, che le scienze verifichino, sempre di nuovo, la propria scientificità — e mette allo scoperto quel com­ plesso incastro di livelli di rassicuramento nel quale consiste la feno­ menologia husserliana come strategia anti-scepsi e anti-crisi. La cono­ scenza rassicura la vita pratica, il quotidiano mondo della vita, e la scienza rende sicura la conoscenza; ma la scienza va rassicurata nella propria scientificità: ciò è compito della filosofia alla quale, peraltro, va assicurato un metodo che la garantisca nella scientificità che le è propria, filosofia come scienza rigorosa (strenge Wissenschaft), filoso­ fia come fenomenologia 32. Questo programma viene così enunciato nella giovanile Filosofia dell’aritmetica: ricercare, in paziente e particolare ricerca, i fondamenti stabili, met­

30. Hu, VII, 204. 31. Ivi, 207. 32. È in questa prospettiva che vanno riletti i Prolegomena alle Logische Untersuchungen (Hu, XVIII), segnatamente i §§ 4-6, 8, 11 e 32-40.

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tere alla prova, in critica accurata, le teorie degne di attenzione, separare il vero dal falso, al fine, così istruiti, di porre qualcosa di nuovo e meglio assicurato (besser Gesichertes)33. La prima esecuzione positiva del programma impegnò Husserl, con perseverante progressione, per due decenni — diciamo, da Filosofia dell’aritmetica a Idee I — e nello sfondo di una personale condizione esistenziale e teoretica particolarmente difficile, che la nota del diario privato del 25 settembre 1906 espresse con singolare incisività:

In primo luogo nomino il compito generale che devo risolvere per me, se voglio chiamarmi filosofo. Intendo una critica della ragione. Una cri­ tica della’ragione logica e pratica, di ciò che in generale ha valore. Io non posso veramente e veracemente vivere senza venire in chiaro, in linee generali, sul senso, l’essenza, i metodi, i punti di vista fondamentali di una critica della ragione, senza aver immaginato, progettato, stabilito e fondato un generale abbozzo per essi. Ho già abbastanza tratto profitto dai tormenti dell’assenza di chiarezza, del dubbio che tentenna qua e là. Devo pervenire a un’interna solidità. So che si tratta inoltre di cosa gran­ de, della più grande, so che in questo i grandi geni sono falliti, e se io volessi paragonarmi a loro, dovrei disperare sin dal principio34. La critica della ragione, nella prospettiva di Husserl, cessava di essere un esercizio scolastico, astrattamente intellettuale, e la risolu­ zione di questioni meramente metodologiche ed epistemologiche e di­ veniva un problema profondamente esistenziale in cui ne andava del senso stesso della vita e della salvezza dai tormenti del dubbio e della mancanza di chiarezza e certezza. È in rapporto alla critica della ra­ gione così intesa che prende significato il lento e faticoso lavoro di Husserl per elaborare appropriate tecniche di rassicuramento nei con­ fronti della scepsi e della crisi soprattutto nelle forme (e loro varianti) sotto cui esse si imponevano nel suo tempo: psicologismo, naturalismo, relativismo, antropologismo, storicismo, filosofie della Weltanschauung. L’economia necessariamente e tirannicamente ristretta della relazione mi impedisce ora di analizzare dettagliatamente l’incastro delle tecni­ che fenomenologiche di rassicuramento. Mi soffermo soltanto su quella tecnica, che è la filosofia come scienza rigorosa per due ragioni ben precise:

a. in primo luogo, nell’idea della filosofia come scienza rigorosa cul­

33. Hu, XII, 5. 34. Cit. da W. Biemel neWEinleitung a Husserl, Die Idee der Phänome­ nologie (Hu, II, VII-VIII).

42 mina il processo fenomenologico di rassicuramento, dal momento che essa si costituisce come « scienza della coscienza » ossia scienza di quell’« essere assoluto », che, come dirà Husserl in Idee I, a tre anni dalla pubblicazione del saggio Philosophie als strenge Wissenschaft, « per principio nulla “re” indiget ad existendum »3536 . Che Husserl, per 37 definire la coscienza, riecheggiasse la definizione spinoziana della so­ stanza, è di grande significato. Husserl'non formulò mai esplicitamente la domanda, che era stata di Leibniz e di Schelling e che sarebbe, suc­ cessivamente, divenuta la domanda fondamentale, l’Hauptfrage, di Heidegger: perché l’essente in generale e non piuttosto il nulla? L’inter­ rogazione giace, però, al fondo della fenomenologia e viene allo sco­ perto allorché, in Idee I, si trova che niente può giustificare in assolu­ to « che ci debba essere un mondo, una qualunque cosa » e che « nel­ l’essenza di ogni trascendenza fisica » è latente la possibilità del « non essere »3Ó. Di contro all’estrema precarietà, problematicità e relatività del mondo, Husserl erige l’assolutezza della coscienza, che l’annienta­ mento del mondo potrebbe, sì, modificare ma non annullare nella sua esistenza. Perché come scienza della coscienza, di ciò che è assunto, per definizione, come assoluto ed è, quindi, il limite oltre il quale non è possibile risalire, la filosofia come scienza rigorosa diventa il fonda­ mento del rassicuramento della scientificità delle scienze e, attraverso queste, della razionalità del mondo pratico della vita. Perciò, contro la dilagante scepsi e crisi, Husserl auspica l’avvento di una filosofia, che « cominci veramente dal basso, su fondamenti assolutamente sicuri e che vada crescendo, innalzandosi come una buona costruzione in cui, sotto la guida di princìpi certi, si metta pietra su pietra, una pietra sta­ bile su di un fondamento solido »”. Contro scepsi e crisi « non c’è che un solo rimedio (Heilmittel), ossia la critica scientifica ed ancora una scienza radicale che, cominciando dal basso, si fondi su basi sicure e segua il metodo più rigoroso »38;

b. all’idea della filosofia come scienza rigorosa si collega strettissi­ mamente il problema della storia della filosofia. Non è certo una casua­ lità che il primo incontro di Husserl con la storia della filosofia avven­ ga in Philosophie als strenge Wissenschaft, là dove si illustra la neces­ sità, per l’età presente, di una scienza filosofica radicale. L’incontro, per la verità, non è molto felice per la considerazione della storia: 35. Hu, III, 115 (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia tra­ scendentale, a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino, 1965, p. 107). 36. Ibid. 37. E. Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, cit., p. 10 (La filo­ sofia come scienza rigorosa, cit., p. 6). 38. Ivi, p. 67 (ivi, p. 78).

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Certo ci è necessaria pure la storia, non però alla maniera dello sto­ rico per smarrirci nei nessi di sviluppo in cui sono sorte le grandi filosofie; ma per farci ispirare dalle filosofie stesse e dal loro proprio contenuto spi­ rituale ... Ma non diventiamo filosofi attraverso le filosofie. Rimaner legati alla storia, cercare di occuparsene in un’attività storico-critica, e voler rag­ giungere la scienza filosofica, mediante un’elaborazione eclettica o in un anacronistico « rinascimento », tutto ciò non porta che a tentativi senza speranza. L’impulso alla ricerca non deve provenire dalle filosofie ma dalle « cose » e dai problemi. Ma la filosofia per sua essenza è scienza dei veri princìpi, delle prime origini... La scienza di ciò che è radicale, deve essere radicale anche nel suo metodo, e sotto ogni riguardo39.

In questo passo occorre distinguere e puntualizzare diverse cose. Dapprima, si mostra interesse per la storia a patto, però, che non la si intenda come sogliono intenderla i puri storici attenti prevalentemente o esclusivamente ai nessi di sviluppo (Entwicklungzusammenhänge), ai rapporti culturali estrinseci e non anche ai contenuti problematici delle filosofie, a ciò per cui una filosofia è filosofia. Molto tempo do­ po Philosophie als strenge Wissenschaft, Nikolai v. Hartmann avrebbe rinnovato la critica a questa maniera di fare storia negli stessi termini di Husserl:

Qui tutto va a finire nelle connessioni strutturali storiche dei movi­ menti e delle correnti spirituali: nel centro dell’interesse vengono spinte le forze extra-filosofiche dello spirito, siano esse quelle della fede, del gusto, dei rapporti sociali o del modo di vivere secondo il proprio istinto. Da tutte le parti si rendono visibili i « motivi » del pensiero; si com­ prende perché la filosofia di un’epoca sia spinta in quella determinata direzione che ora segue, perché nutra e sviluppi certi concetti preferiti, perché si attacchi a certi pregiudizi, ma non sia sensibile ad altri. Ciò che il pensiero compie nel corso della conoscenza, fino a qual punto esso colga i vecchi problemi fondamentali, li ponga o li trasformi, rimane perciò di importanza secondaria4041 . La critica di Hartmann era diretta contro Dilthey. Anche Husserl, in Philosophie als strenge Wissenschaft, aveva polemizzato contro lo storicismo di Dilthey. Forse, da parte di Husserl e di Hartmann, si era piuttosto ingiusti nei riguardi di Dilthey4'. Le loro obiezioni sem­

39. Ivi, pp. 70-71 (ivi, p. 83). 40. N. Hartmann, Filosofia sistematica, tr. it. di A. Denti e R. Cantoni, Bompiani, Milano, 1943, pp. 30-31. 41. Per il rapporto di Husserl con Dilthey, rimando a quanto ho detto nella mia relazione — Husserl su Dilthey — presentata al Convegno diltheyano di

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brano più pertinenti a certi esiti, che si sono avuti nella pratica storiografico-filosofica dopo Dilthey, a lui richiamandosi, e che probabilmen­ te lo stesso Dilthey sarebbe stato il primo a non gradire o, addirittura, a sconfessare. Rifiutata la storia, che si esaurisce nei nessi di sviluppo, Husserl ammetteva l’efficacia ispiratrice delle filosofie passate purché rivissu­ te nei loro contenuti ideali e problematici. Escludeva, tuttavia, che, seppure in questi termini più intrinseci, la storia della filosofia potesse mai risultare decisiva ai fini della prassi della filosofia militante e della costituzione di una nuova filosofia. Con ciò era rimossa ogni forma di determinismo storicistico. La filosofia come scienza rigorosa ha a che fare coi princìpi e non coi dati fattuali: le filosofie passate sono dati fattuali, non princìpi. Husserl riproponeva così — non sarei in grado di dire se ne fosse consapevole — la precisa differenza da Kant fissata nella Critica della ragion pura tra cognitio ex datis e cognitio ex principiis, ossia tra storia e filosofia, differenza che, nei Prolegomeni, si sa­ rebbe tradotta nella polemica contro gli « eruditi » per i quali — diceva Kant — 1’« unica filosofia è la storia della filosofia, quella antica come quella moderna » e che aspettano « che abbia compiuta l’opera sua chi si sforza di attingere alle fonti stesse della ragione, allora potranno dare al mondo, a loro volta, notizia dell’accaduto »42. Con Kant e Hus­ serl, come si vede, era fatta la critica, avant la lettre, di quelle risoluzio ni della filosofia nella storia della filosofia divenute tanto di moda nel nostro tempo: Husserl, in particolare, criticava anticipatamente anche quelle altre risoluzioni, pur esse tanto abituali oggi, della stessa storia della filosofia in generiche storie della cultura. Il ridimensionamento della storia della filosofia ai fini della produ­ zione della filosofia nuova preparava, di fatto, la distinzione dei gradi di storicità, che — come ho già ricordato — Husserl avrebbe teoriz­ zato nella Beilage XXVI de La crisi delle scienze europee. Al grado, che « si basa su una tradizione che continua a valere per quanto sedi­ mentata e in continua trasformazione »4}, seguiva un altro grado per il quale se è già vita storica, può tuttavia sorgere negli uomini singoli e a par­ tire dagli uomini singoli, ed è mirabile, una nuova vita filosofica, che non si limita ad articolarsi nella totalità storica ... una cultura di nuovo genere, Maratea del giugno 1983 e ora in corso di stampa nel volume degli « Atti » (Il Mulino, Bologna). 42. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari, 1966, p. 632. 43. Hu, VI, 502 {La crisi, cit., p. 529).

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che non è soltanto organica ma che ha attinto all’azione dei singoli un senso totale di tipo nuovo44.

È questa la storicità per la quale si dimostra la non-definitività dei dati acquisiti e della storia già accaduta. Collegando la Beilage XXVI a Philosophie als strenge Wissenschaft risulta come Vepoche della sto­ ria accaduta e della tradizione sia necessaria perché 1. sia possibile la espressione del non-ancora espresso; 2. non resti contraddittoriamente bloccata la spinta al radicalismo, che è propria della filosofia in quanto tale; 3. non si restringa alla mera descrittiva il giudizio sulla storia. Tutto questo Husserl voleva dire, allorché affermava che la storia della filosofia non serve ai fini della nascita della filosofia, dal momento che la filosofia nasce come ricerca dei cominciamenti, dell’essenze, delle « cose stesse » — giusta la regola enunciata nelle Ricerche logiche — ossia di ciò che è da assumere come Vapriori di ogni possibile processo storico empiricamente determinato e determinabile. Per Husserl era inconcepibile una coscienza che presumesse di organizzarsi nella pro­ pria scientificità senza porsi il problema del correlativo apriori. Così, la sua critica alla psicologia naturalistica dominante fu sostenuta prin­ cipalmente dalla denuncia della mancanza, in essa, dell’apriori psichi­ co. Così, in uno scritto del 1931, parlando della storiografia in genera­ le, presentò lo Stato come « il necessariamente primo e guida della sto­ riografia » (das notwendig Erste und Leitende der Geschichtsschrei­ bung). Nella Beilage III de La crisi il pensiero di Husserl al riguardo era chiarissimo:

un’autentica storia della filosofia, un’autentica storia delle scienze par­ ticolari non è altro e non può essere altro che la realizzazione del propo­ sito di ricondurre le formazioni storiche di senso date nel presente, op­ pure le loro evidenze ... alla dimensione occlusa delle evidenze originarie che stanno loro alla base. Lo stesso problema può essere reso comprensi­ bile soltanto mediante il ricorso all’a-priori storico, che costituisce la sor­ gente universale di tutti i problemi pensabili concernenti la compren­ sione ...45.

Il pensiero di Husserl, insomma, era che la storia della filosofia co­ me storiografia (Historie) non è decisiva per la filosofia, mentre la fi­ losofia come scienza rigorosa è l’aprìori, la Zweckidee, che, da un lato, rende possibile la storia della filosofia come Geschichte e, dall’altro,

44. Ivi, 503 (ivi, p. 530). 45. Ivi, 381 (ivi, p. 399).

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legittima, rassicurandola, la scientificità della storia della filosofia come Historie. Sempre nella prospettiva di Philosophie als strenge Wissens­ chaft, il rapporto tra filosofia e storia della filosofia era visto nel qua­ dro di un problema di fondo, che Husserl riteneva essenziale alla cri­ tica della ragione: la distinzione tra ciò che è fattualmente storico e ciò che è valido, ossia tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Allo storico, legato com’è alla logica dei fatti, Husserl disconosceva il diritto di de­ cidere qualsiasi cosa in merito a tale distinzione: il giudizio di valore sulla storia della filosofia non poteva spettare che al filosofo stesso. 3. Tra i filosofi moderni, Cartesio appariva a Husserl come colui nel quale s’impersonava la filosofia come epoche della storia della filo­ sofia, la filosofia come rottura della tradizione. Non fu accidentale che, almeno dalle Meditazioni cartesiane in poi, Husserl caratterizzasse la fenomenologia come « neo-cartesianesimo ». Cartesio, infatti, si era dato il compito, che la fenomenologia riconosceva a se stessa, « di ab­ battere tutte le scienze ritenute fino allora valide e di ricostruirle »46 e si era impedito « di far valere come esistente solo ciò che non resti garantito contro ogni possibilità ammissibile che sia messo in dub­ bio »47. Nella Beilage V de La crisi, il significato di Cartesio e il senso neo-cartesiano della fenomenologia erano detti con tutta chiarezza:

Cartesio ha dietro di sé la storia della filosofia, una comunità di filosofi che risale fino a Talete. Ma Cartesio « ricomincia da capo ». « Noi filosofi del presente », di questo presente filosofico, ricomin­ ciamo da capo e riflettiamo sui motivi della insoddisfazione (Unbefriedigung) filosofica presente, sulla insoddisfazione dell’umanità attuale per la nostra filosofia, e sulla nostra insoddisfazione di fronte alla sempre mag­ giore molteplicità delle filosofie che ripugna al senso della filosofia48. Apparentemente i testi delle Meditazioni e de La crisi erano formu­ 46. Hu, 1, 44 (Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Mi­ lano, 1960, p. 46). « La dispersione (Zersplitterung) della filosofia contempo­ ranea nella sua attività disordinata ci dà ben a pensare ... Ora in questa età infelice (in dieser unseligen Gegenwart) non ci troviamo forse in una situazione simile a quella in cui si trovò Cartesio nella sua giovinezza? Non è già tempo di far rivivere il suo radicalismo filosofico? ... Non dobbiamo forse ricondurre, infine, la desolazione (Trostlosigkeit) della nostra situazione filosofica al fatto che gli impulsi provenienti da quelle meditazioni hanno perduto la loro origi­ naria forma vitale, poiché è andato perduto lo spirito stesso del carattere radi­ cale della responsabilità filosofica? ». Ivi, 46-47 (ivi, pp. 49-50). 47. Ivi, 45 (ivi, p. 47). 48. Hu, VI, 392 (La crisi, cit., p. 410). Al riguardo cfr. G. Semerari, Espe­ rienze del pensiero moderno, Argalia, Urbino, 1969, pp. 29-56.

47 lati nel più puro spirito della definizione della filosofia e del suo rap­ porto con la storia della filosofia fissata in Philosophie als strenge Wis­ senschaft. In realtà il background problematico era mutato. Da Filo­ sofia dell’aritmetica a Idee / la fenomenologia si era coerentemente di­ spiegata realizzandosi come progrediente incastro di tecniche di rassicuramento. Culmine di questa progressione erano state le teorie di Idee I della coscienza come essere assoluto e dell’io trascendentale come luogo di ultima imputazione ed estremo rassicuramento della coscienza stessa. Da Filosofia dell’aritmetica a Idee I il cammino della fenomeno­ logia era stato accompagnato da una straordinaria fiducia, da parte di Husserl, nella possibilità di autorealizzazione della filosofia come scien­ za rigorosa. Credo che Husserl pensasse a se stesso quando, in Philo­ sophie als strenge Wissenschaft, negava che lo storico potesse mai riu­ scire a scuotere la fede (Glaube) del filosofo nella propria idea. L’idea della filosofia rigorosamente scientifica era la fede personale di Husserl e il suo compimento era da Husserl atteso come imminente così come imminente era stato atteso dai primi cristiani l’avvento del Regno dei Cieli! Se non che, nella Beilage XXVIII de La crisi, si legge — e la cosa può avere l’effetto di un vero e proprio shockl —: « La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica — il sogno è finito »49. Il sogno era finito perché era in corso una Bestreitung der wissenschaftlichen Philosophie — una contestazione della filosofia scientifica — e l’Europa veniva sommersa dal fiume, oltre che della « incredulità religiosa »50, anche della filosofia che rinunciava alla scientificità e si trasformava in affare privato, frantumandosi in tante personali visioni del mondo senza ambizioni di oggettività e universa­ lità. La lotta, che la fenomenologia aveva ingaggiato, sin dagli esordi, contro la scepsi e la crisi, non era forse perduta, certamente non era vinta. La scepsi e la crisi resistevano, anzi dilagavano. Husserl non sconfessava l’idea della filosofia come scienza rigorosa, che era stata l’arma principale, essenziale e decisiva, della lotta contro la scepsi e la crisi, ma non poteva non constatare che il fronte della scepsi e della crisi si era allargato e minacciava la possibilità stessa della filosofia. Husserl lanciava il grido d’allarme: « La filosofia è in pericolo, cioè il suo futuro è minacciato »5I. La fenomenologia, che era stata all’offen­ siva, ora doveva passare alla difensiva. 49. Ivi, 508 (ivi, p. 288). 50. Ibid. (ivi, p. 536). 51. Ivi, 509 (ivi, p. 537).

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La scepsi corrodeva soprattutto la fiducia nell’auto-realizzabilità imminente della filosofia coerentemente scientifica e oscurava e con­ fondeva il senso dei compiti della filosofia, mettendo in forse la possi­ bilità stessa della filosofia. Proprio perché la filosofia era concepita da Husserl come autocoscienza scientifica dell’umanità e, insieme, fun­ zione di trasformazione dell’umanità razionale ossia intenzionata a rea­ lizzarsi al limite dell’autonomia e dell’auto-responsabilità, la crisi mor­ tale della filosofia significava anche crisi dell’autocoscienza dell’uomo, crisi della possibilità di fare dell’uomo il soggetto di se stesso, crisi del significato e della valenza umana delle scienze ora scadute a « mere scienze di fatti » che non possono non creare « meri uomini di fatto ». Scriveva Husserl ne La crisi:

La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l’uomo nuovo, indica appunto il crollo della fede nella « ragione », nella ragione intesa nel senso in cui gli antichi contrapponevano l’episteme alla doxa ... Così cade anche la fede in una ragione assoluta che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibi­ lità dell’uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale. Se l’uomo smarrisce questa fede, ciò non significa altro che questo: egli perde la fede « in se stesso », nel vero essere che gli è proprio, un vero essere che egli non ha già da sempre, con l’evidenza dell’« io sono », un vero essere che egli ha e può avere soltanto lottando per la sua verità, lottando per rendere vero se stesso52. La crisi delle scienze e della filosofia non era una crisi puramente tecnica di efficienza di ipotesi e di metodologie. Era crisi della ragio­ ne come rinuncia dell’uomo a lottare per il più vero se stesso, per es­ sere soggetto e non soltanto oggetto, cosa fra le cose del mondo, di un mondo descritto da scienze positivisticamente ridotte alla dimensione dei meri fatti senza problema di valori. « Noi uomini del presente », diceva Husserl, «... siamo di fronte al grave pericolo di soccombere nel diluvio scettico (skeptischen Sintflut) e di lasciarci sfuggire la no­ stra verità »53. Che fare? Che deve fare il filosofo che ha percepito questo grave pericolo contro il quale, sin dagli inizi del suo filosofare, ha combattu­ to, ma che ora sente crescere e avanzare, quasi incontenibile, l’ondata

52. Ivi, 10-11 (ivi, p. 52). 53. Ivi, 12 (ivi, p. 43). Cfr. G. Semerari, Insecuritas, cit., pp. 129-165 e Id., Crisi e critica della ragione. In margine a « La crisi delle scienze europee », «Discorsi», I, 1981, pp. 9-47.

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alluvionale della scepsi e sa che la sua filosofia non è pre-assicurata contro gli esiti estremi del diluvio? Che fare, ora che l’ideale della fi­ losofia scientifica sembra dileguarsi verso l’indeterminatezza di un fu­ turo quanto mai vago e incerto, inafferrabile? La risposta di Husserl fu il rovesciamento della prospettiva maturata in Philosophie als strenge Wissenschaft per quanto concerne il rapporto tra la filosofia e la sua storia. Ascoltiamo Husserl: noi dobbiamo approfondire le nostre considerazioni storiche se dob­ biamo poter capire noi stessi in quanto filosofi e ciò che attraverso noi cerca di diventare una filosofia... Avviene qui ciò che avviene sempre per gli uomini nei tempi di pericolo. In vista della possibilità di realizzare il compito di vita assunto, nei tempi di pericolo occorre abbandonare dap­ prima proprio questi compiti e compiere tutto ciò che permetterà in futuro una vita normale ... Dunque, per orientarsi, occorre, in ogni maniera, la meditazione. La meditazione storica a cui dobbiamo mirare concerne la nostra esistenza di filosofi e, correlativamente, l’esistenza della filosofia...5455 . La risposta di Husserl fu, dunque, la meditazione storica, histori­ sche Besinnung. Se Besinnung nella lingua tedesca — come ha ricorda­ to Heidegger53 vuol dire impegno nel senso di qualcosa, la meditazione storica, nella situazione creata dal diluviare scettico, significava impe­ gno nel recupero del senso smarrito o dimenticato della filosofia e del filosofare. Non più, allora, epochè della storia della filosofia per la fi­ losofia, bensì, al contrario, epochè della filosofia per la storia della filosofia fino a che, attraverso la meditazione storica, non fossero cessa­ ti, per la filosofia, i tempi del pericolo: la storia della filosofia come tecnica di rassicuramento della filosofia in pericolo. Usando il termine Besinnung, Husserl dava a intendere che non si trattava di una mera curiosità erudita e archeologica per le cose passa­ te, ma di un atto di vera e propria ricostruzione filosofica, di una forma di difesa della ragione minata dalla scepsi, infine di una decisione per la quale il filosofo tentava di ritrovare il senso della propria esistenza filosofica e, attraverso il filosofo, in questo « funzionario della uma­ nità », ogni uomo poteva ritrovare il senso del suo proprio vero essere. Pensata come Besinnung, la storia della filosofia non si esauriva in una operazione puramente conoscitiva e culturale, ma attingeva e si cari­ cava di un complesso significato esistenziale e ontologico e diveniva 54. Hu, VI, 510 (La crisi, cit., pp. 537-538). Su questo punto, cfr. R. Boehm, Vom Gesichtspunkt der Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag, 1968, pp. 245 ss. 55. M. Heidegger, Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1980, p. 43.

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aspetto essenziale tanto del Kampf um den Sinn des Menschen quanto del Ringen um Rationalität nel tempo del grande pericolo per la filo­ sofia, la ragione e l’umanità 56. La meditazione storica occupò Husserl negli ultimi quindici anni della sua riflessione — da Erste Philosophie alle Meditazioni cartesia­ ne e a La crisi e il suo concetto fu reso con estrema chiarezza nella pri­ ma parte di Erste Philosophie: Tali meditazioni ottengono piena luce solo dalla storia, che, interpre­ tata a partire dal presente, a sua volta illumina daccapo il presente con pienezza di intelligibilità. Così noi vogliamo ritornare dalle tante confu­ sioni, che ci offrono la scienza e la filosofia del presente, ai tempi dei primi cominciamenti. Uno sguardo storico retrospettivo ci deve dunque servire di preparazione spirituale; esso risveglierà la forza originaria delle motiva­ zioni, che possono mettere in movimento il nostro interesse e la nostra volontà57.

Il fatto che Husserl trasponesse la filosofia sul piano della histori­ sche Besinnung implicava la rivalutazione come decisiva della tradizio­ ne sottovalutata in Philosophie als strenge Wissenschaft e portava alla luce un particolare modo d’essere della storicità quando è storicità fi­ losofica. La storicità filosofica è tale che « Il passato filosofico è attual­ mente motivante per il filosofo del presente »58 e tale che il presente fi­ losofico è, per ogni filosofo del presente, « l’essenza stessa totale della coesistenza filosofica, l’intera storia della filosofia, beninteso come sto­ ria della filosofia e dei filosofi ... »59. La storicità filosofica è coesisten­ za di filosofi vivi e di filosofi morti, onde il filosofo attualmente viven­ te « ha a che fare con Aristotele, con Platone, con Cartesio, con Kant, ecc. » dai quali, rivivificandone lo spirito, può essere ulteriormente formato nella sua esistenza filosofica. La storia della filosofia è medita­ zione, all’interno di questa comunità, sincronica e diacronica, dei filo­ sofi sul senso di questa comunità e sul senso della filosofia, che ne è la ragione ideale, la Zweckidee, il télos. Della differenza della storia della filosofia intesa come Besinnung rispetto alla corrente storiografia positiva, quella comunemente rico­ 56. « La storia della filosofia, vista dall’interno, assume sempre più il carat­ tere di una lotta per l’esistenza, della lotta di una filosofia che non si esaurisce direttamente nei suoi compiti immediati — di una filosofia che si attua sulla base di una fede ingenua nella ragione — contro la scepsi intenta a negarla e a svalutarla con argomenti empiristici». Hu, VI, 11 (La crisi, cit., p. 42). 57. Hu, VII, 7. 58. Hu, VI, 488 (La crisi, cit., p. 513). 59. Ivi, 489 (ivi, p. 514).

51 nosciuta come scientifica, basata sulla filologia della critica delle fonti, della critica testuale, della letteratura critica, Husserl era ben consape­ vole e nella Beilage III de £0 crisi così si esprimeva:

le nostre ricerche sono storiche in un senso inconsueto, storiche in base a una direzione tematica che dischiude problemi profondi completamente estranei alla comune storiografia (Historie'), problemi che, tuttavia, a modo loro, sono pure indubbiamente di ordine storico ... non è qui un problema storico-filologico60.

Similmente, nella Beilage XXVIII, veniva sottolineato come per il filosofo autentico, che pensa in maniera autonoma, Selbstdenker, la storia alla quale egli attinge, non valga come un magazzino (Vorrat­ shaus) ove le scorte sono depositate come altrettante realtà date e fissa­ te già nel loro significato. Il filosofo, che pensa con la propria testa, in­ vece, quando esercita la meditazione storica legge e naturalmente comprende ciò che legge a partire dal terreno dei propri pensieri, egli appercepisce Platone a modo suo, sulla base della « per­ cezione » dei suoi convincimenti. Attraverso questa appercezione egli at­ tinge qualcosa di nuovo, continua a svilupparsi come filosofo e, in modo analogo, interpretando e assumendo altri scritti filosofici, diventa un altro. Se dopo qualche tempo torna a leggere Platone, Platone assume per lui un volto nuovo, e il nuovo Platone, come gli altri autori che egli ha com­ preso, tornano a motivarlo6162 .

È questa la dialettica ermeneutica della comunità dei filosofi vivi e dei filosofi morti, che costituisce il presente filosofico di ogni Selbstden­ ker. La sua enunciazione più paradossale Husserl dette nella lettera a Georg Misch del 7 giugno 1930, confrontando se stesso ancora vivo e in divenire con Dilthey già morto e compiuto: « ogni Selbstdenker do­ vrebbe, in verità, dopo ogni decennio cambiare il proprio nome, perché è diventato allora un altro »“. Un’affermazione del genere, forse, non l’avrebbe azzardata nemmeno lo storicista più incallito. Al di là del paradosso, la proposizione di Husserl conteneva l’ammissione del ca­ rattere non formale, ma sostanzialmente ontologico e strutturale del­ l’esperienza storica: l’esperire storico non è mera accidentalità ed este­ riorità, essa si incorpora, si interiorizza, costituisce l’essere di colui che esperisce storicamente. 60. Ivi, 365-366 (ivi, pp. 380-381). 61. Ivi, 511-512 (ivi, p. 539). 62. Cit. in A. Diemer, Husserl, cit., p. 393.

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Il marcamento della storiografia ‘come Besinnung nella sua diffe­ renza rispetto alla storiografia positiva, filologica portò Husserl — e fu questa la sua ultima parola sul problema — a prospettare la storia della filosofia in quanto Geschichte come Dichtung, poema, onde la Philosophiegeschichte diventava un immenso poema e ogni filosofo componeva e recitava il suo poema particolare insieme con gli altri filosofi poetanti e in mezzo ai loro poemi. L’uso di un termine del ge­ nere potrebbe anche sorprendere, se si tien conto di quanto Husserl fosse come ossessionato dall’esigenza della scientificità, di una scienti­ ficità sempre più rigorosa. Perché, dunque, la storia della filosofia era poema? Il fatto era che, una volta che si fosse constatata l’impossibi­ lità di continuare a sognare il sogno della filosofia come scienza rigo­ rosa, sembrava che la storia della filosofia non potesse essere rappre­ sentata più se non, appunto, come un poema, un’opera d’arte. Ciò, però, era il sintomo che la scepsi e la crisi non erano ancora vinte. Per vin­ cerle, sarebbe occorso quell’eroismo della ragione alla quale, forse con una punta di enfasi retorica, Husserl stesso si appellò alla conclusione della conferenza viennese del 1935. A questo punto, anche il proble­ ma della storia della filosofia si spostava su di un altro problema più di fondo, il problema della possibilità e del senso di una ragione eroica.

3. « WIR EUROPÄER » NEI MANOSCRITTI INEDITI CONTEMPORANEI ALLA « KRISIS »

di Angela Ales Bello

Il termine “europeo” che appare nel titolo dell’opera di E. Husserl Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die traszendentale Phänomenologie non è certamente superfluo, non è aggiunto per una scrupolosa precisazione dell’area geografica alla quale ci si riferisce, ma il suo uso corrisponde all’esigenza di determinare un ambito cultura­ le e rivela, quindi, la consapevolezza dell’esistenza di una pluralità di prospettive culturali variamente caratterizzate con le quali deve essere confrontato per poter essere compreso. Ciò emerge in parte dal libro in esame, ma con maggiore chiarezza dai manoscritti inediti che ruotano intorno ad esso e che precedono o sono contemporanei alle due conferenze di Praga e di Vienna. In tali manoscritti si rintraccia l’interesse di Husserl verso l’analisi compara­ tiva delle varie culture e verso l’approfondimento delle differenze in esse presenti; egli è sollecitato in questa direzione di indagine dallo sviluppo del suo stesso metodo fenomenologico, sviluppo che è a sua volta determinato dall’ampliamento dei campi sui quali viene appli­ cato. Le vie della riduzione, proposte da Husserl, superato il momento sta­ tico della ricognizione dell’eidetico, si orientano sempre più decisa­ mente verso una messa in questione dell’ovvietà, per perseguire con maggiore consapevolezza la regressive Frage, quella indagine storico­ genetica che si rivolge all’individuazione del senso del mondo-della-vita; e ciò comporta l’attenzione nei confronti delle diverse espressioni cultu­ rali. Questo non è certamente l’unico tema intorno al quale si affatica Husserl, ma esso si fa strada fra gli altri con un’insistenza sorprenden­ te, tanto da rappresentare un filone d’indagine fecondo che può essere in qualche modo ulteriormente percorso. In primo luogo si tratta, allora, di indicare come, proprio attraver­ so l’analisi della situazione europea, Husserl apra la via al confronto culturale; in secondo luogo come ciò avvenga ponendo questioni fon-

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(lamentali di coerenza interna alle stesse sue indagini, in altri termini come egli rimanga impigliato in difficoltà, incertezze ed anche ambi­ guità, ma come in ogni caso le sue ricerche possano rappresentare un utile strumento di approfondimento in una direzione che sembrava pre­ clusa all’investigazione fenomenologica.

1. Caratteristiche della civiltà occidentale Rispetto al primo punto si può rilevare che il materiale inedito esi­ stente è notevole per quantità e qualità, in qualche caso e per qualche argomento si ha solo l’imbarazzo della scelta di un testo piuttosto che di un altro. Mi propongo, pertanto, di leggere alcuni manoscritti ordi­ nandoli in modo che emerga il significato attribuito da Husserl all’e­ spressione « noi europei ». È opportuno iniziare l’esame dai Ms.trans.A V 14, Lebenswelt einer geschlossenen Menschheit (15.III.1933) e A V 11, Begriff der Tradition (1930 o 1931), nei quali si sottopone ad indagine il signifi­ cato della “tradizione”. La vita naturale è descritta nel Ms.A V 14 come quella propria di ogni io e, quindi, di tutti noi; è il terreno muovendo dal quale espri­ miamo i nostri giudizi, costruiamo le nostre credenze; essa è la vita legata ad una normalità « stabile », e per “normale” si deve intendere ciò che è accettato dagli appartenenti ad un certo gruppo. Avere espe­ rienze dal punto di vista della vita naturale significa « recepire »; in essa tutti gli interessi teoretici, gli interessi di verità, sono legati alla semplice esperienza, alle abitudini presenti nell’ambito dell’orizzonte del mondo-della-vita ’. Quindi il mondo-della-vita naturale è il mondo della tradizione, è ciò che caratterizza l’unità di un popolo che ha in comune un insieme di oggetti uguali per tutti1 2. Noi abbiamo in comu­ ne il mondo della natura, il mondo degli uomini come esseri naturali e degli animali, ma abbiamo soprattutto in comune il mondo della cul­ tura 3. Si delinea così il nostro mondo e il mondo « estraneo », al quale si può accedere, ma ciò avviene sempre muovendo dal nostro mondo. 1. Ms. trans. A V 14, p. 6. 2. Ivi, p. 7. 3. « Wir haben alle eine einheitliche Lebenswelt, einen gemeinsamen Seinsboden von Natur, menschlichem und tierischem Dasein, und auch eine gewisse Breite der Gemeinsamkeit all dieser Realität in Hinsicht auf Kulturbedeutesamkeiten. Aber zu dieser Welt gehört auch, dass sie insbesonderes hinsichtlich der Bedeutungsprädikate den Menschen der verschiedenen Gemein­ schaften und Gemeinschaftstraditionen verschieden gilt », ivi, p. 9.

55 La caratteristica del mondo proprio, anzi l’identità di un popolo è lega­ ta anche alla sua presenza in un dato territorio4. « Il concetto di terri­ torio appartiene già ad un’unità culturale localizzata » — così si espri­ me Husserl nel Ms.A V 115; anzi a questo proposito egli pone a se stesso un’obiezione riguardante i popoli nomadi: essi non hanno iden­ tità perché non hanno territorio? In realtà essi portano con sé la loro identità. Importante per comprendere le trasformazioni culturali è la fusione dei popoli che determina la possibilità di assimilazioni, ma an­ che di confronti fra costumi e credenze diverse6. Se ci chiediamo che cosa sia specifico nel mondo circostante umano esaminato in una pro­ spettiva storica, dobbiamo riconoscere che esso è fattualmente ed an­ che essenzialmente « finito », concretamente riempito in una spazio­ temporalità finita 7.

1.1. Finitezza e infinità La finitezza è caratteristica dèlia sfera primordiale della mia espe­ rienza vivente, cioè del mio mondo reale o realmente possibile, perciò il mondo rappresentabile intuitivamente primordialmente per me e per ogni uomo è finito. Rimane, allora, da comprendere come nasca l’idea di un mondo infinito: « In letzter Hinsicht das Rätsel, warum wir doch meinen, uns eine anschauliche Vorstellung von allen Weltfernen der unendlichen vollen Welt in infinitum bilden zu können »8. Una risposta si può trovare nel Ms.trans. D 17, Umsturz der kopernikanische Lehre in der gewönlichen weltanschaulichen Interpretation. Die Ur-Archè Erde bewegt sich nicht (1934). In esso si sostiene che è necessario distinguere 1’« apertura verso il mondo circostante » dalla infinità « pensata secondo leggi ». Il primo caso è relativo allo spazio nel quale ci troviamo immersi esistenzialmente — il panorama che ci circonda — ma sappiamo che oltre a ciò che possiamo scorgere ci so­ no altre terre perché così ci è stato detto. Collochiamo, infatti, il no­

4. Ivi, pp. 10-11. 5. Ms. trans. A V 11, p. 9. 6. Ms. trans. A V 14, pp. 11-12. 7. « Es ist ein endlicher Raum in seiner eigenen sukzessiven Zeitlichkeit, konkret erfüllte endliche Raum-Zeitlichkeit, und zwar erfüllt als völkische Um­ welt mit Realitäten, die im generativen Menschtum im Konnex der miteinender lebenden, miteinader wirkenden Menschen ihren Seinssinn empfangen haben als einen Allgemeinsinn, einen Seinssinn, der für jedermann (dieses Volkes) Geltung hat als Seinssinn für jedermann », ivi, p. 14. 8. Ivi, p. 24.

56 stro paese, ad es. la Germania, in un contesto più ampio, l’Europa, e infine ancora più ampio, la terra. Quest’ultimo nasce come unità sinte­ tica analoga a quella che è alla base della formazione del campo di esperienze di ogni singolo uomo. Nel caso della terra l’unità non si fon­ da su esperienze proprie, immediate, ma mediate attraverso le notizie fornite da altri9. Si deve distinguere, allora, una rappresentazione del mondo (Welt­ vorstellung) costruita sull’Anschauung e su trasposizioni percettive e anticipazioni concettuali, progetti, dalle rappresentazioni che muovono da formazioni già date, ad esempio il mondo dei Greci e il mondo co­ pernicano prodotto dalla visione scientifica dell’età moderna 1011 . L’infinità che caratterizza la cultura europea ha, infatti, un signi­ ficato particolare. Per comprenderlo si deve ripercorrere la storia della civiltà occidentale risalendo alla fusione avvenuta fra quei popoli che costruirono l’Europa e individuando ciò che la rende diversa dagli altri gruppi etnici e culturali. « È possibile — scrive Husserl nel Ms.trans.A VII — fare una distinzione fra i gruppi umani e i loro mondi sulla base di una struttu­ ra più ricca o meno ricca o addirittura primitiva; vediamo che realmen­ te nelle culture « più alte » (si sottolinea che in primo luogo tale deno­ minazione non deve avere nessun « valore » — e ciò è ribadito nel Ms. A V 14 11 —) la struttura dell’essente teoretico, nella forma del vo­ lere e del prefiggersi uno scopo, gioca un ruolo fondamentale; ma non appartiene a tutte le culture « più alte » la « scienza » nel senso greco. La scienza è un compito che non vale per il presente ma per il futuro ed ha come suo correlato 1’« infinità »12. E allora « proprio » di noi « europei » allargare lo sguardo a tutta l’umanità, comprendere il significato delle singole storie particolari, ma anche quello della storia universale; possediamo, quindi, una « tenden­ za » a formare una supernazionalità e una cultura mondiale. Gli stru­ menti che permettono tale estensione sono appunto la scienza, cioè il nostro Wissen e la filosofia 13. Peculiare è, infatti, il nostro atteggiamen­

9. Ms. trans. D 17, p. 1. 10. Ivi, p. 2. 11. Ms. trans. A V 14, pp. 19-20. 12. Ms. trans. A V 11, p. 7. 13. « Nun finden wir, dass durch Verwertung von Wissenschaft und wissen­ schaftlicher Technik, durch Erweiterung der politisch-wirtschaftlichen Kommu­ nikation des Völkerserlebens bis zu seiner schliesslichen Ausweitung über ein gesamt-irdisches Leben einer kommunikativen All-menschheit der Erde - dass in unserem Horizont alle Völker und ihre menschheitlichen Gliederung sind, deren Totalterritorium (in sich fassend alle Sorderterritorien) die Erde ist. Und wir finden sie alle in ihrer Historie, einer sich uns allmählich immer weiter erschlies-

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to critico nella sua doppia valenza: come esigenza di mettere in questio­ ne tutto e come tendenza a cogliere ciò che è universale. Esso si è ma­ nifestato nella sua pienezza e fecondità nel pensiero greco. Ed ecco perché non si può scindere l’essere “europei” dall’essere “greci”.

1.2. Idealizzazione e oggettivazione Tale atteggiamento nel suo versante costruttivo conduce al supera­ mento della temporalità, al raggiungimento di ciò che è valido oggetti­ vamente e alla comprensione della realtà in sé. Nel primo caso è indicativo ciò che Husserl sostiene nel Ms.trans. B I 10 IV, Alle Ontologie historish relativ auf Menschen und Zeit; ihr Anspruch auf das sub species aeternis (1927): « Nella nostra vita eu­ ropea sappiamo che ogni affermazione è da un lato espressione di una fattualità relativa alla nostra soggettività, ma dall’altro ha una idealità « sovratemporale » e « soprafattuale ». Ma ciò non accade per ogni comunità, non ogni comunità elabora un’ontologia, o meglio 1’« ontolo­ gia » per eccellenza che ha un valore sopra-temporale; infatti tutto ciò che appartiene al qui ed ora deve essere pensato come avente una fine, ma per noi l’ontologia è una parte della nostra fatticità, della nostra esi­ stenza e ciò accade perché noi idealizziamo M. Il frutto di tale idealizzazione è l'oggettivazione. Nel Ms.trans.B I 15, II (1934) si legge: « Le scienze — nel nostro mondo circostante, nella nostra vita comunitaria — e insieme la pre­ senza del mondo a portata di mano, le cose costituite storicamente in un dato modo in questo mondo-della-vita temporale (nel tempo storico) — le teorie di fatto esistenti elaborate da generazioni di ricercatori, senden, konkret gesprochen in ihrem ganzen kulturellen Dasein ihrer historischen Zeit, und alle diese historischen Zeiten und ihre Kulturen sich verbindend zu einer universalen Historie einer konkreten universalen, wenn auch mannigfaltig gegliederten irdischen Kultur; das ist Anfang, Tendenz: als werdende Tendenz zur Gestaltung einer Uebernationalität und Weltkultur », ivi, p. 8. 14. « In unserem europäischen Leben, in unserer faktischen historischen Gegenwart erkennen wir die praktische Möglichkeit, über das prinzipielle unse­ rer Subjektivität, also jeder möglichen, ein Aussage zu gewinnen, und erkennen, dass diese Aussage selbt mit allen ihren offenen Horizonten zwar in unserer Subjektivität Faktum ist, aber dass sie “überzeitliche” überfaktische Idealität hat dass die Idee einer solchen Aussage solches Sinne selbst zur Idee einer mö­ glichen Intersubjektivität überhaupt gehört. Aber der Sinn solcher Feststellung bedarf selbst der Klärung. Nicht jede faktische Gemeinschaft jeder Gegenwart kann eine Ontologie — “die” Ontologie — in Arbeit haben und ihre Erkenntnis verstehen. ... Die Ontologie ist für uns ein Stück unserer Faktizität, unserer “Existenz”, von uns im Leben Stehenden und Selbstbesinnung Vollziehnden-ivir idealisieren! », Ms. trans. B I 10 IV, pp. 18-19.

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nell’umanità di fatto esistente come orizzonte di uomini, che hanno o che possono o non possono ereditare le “possibilità” di partecipare alla cultura scientifica, di diventare ricercatori. Ma per noi (le scienze e le teorie) non valgono come puri dati di fatti di questo mondo-dellavita circostante, ma come “verità oggettive”. Coloro che le hanno crea­ te storicamente, gli scienziati della comunità scientifica hanno ereditato questi prodotti come certezze “riguardo” al “mondo stesso” e allora esse si sono presentate non soltanto come certezze proprie di questi scienziati nel fluire costante del mondo-della-vita, del nostro mondo, quello europeo, quello che vale per noi europei, con il contenuto di senso europeo; ma anche come certezze tali da essere ritenute verità predicative oggettive, predate a noi stessi nel nostro mondo, di cui noi tutti ci siamo appropriati; a noi tutti da allora accade di esprimerci così: io che rifletto sulle scienze della tradizione greca e sulle scienze nei gradi di costituzione del nostro presente storico e che parlo in mo­ do normale intorno ad esse, io stesso sono nella certezza di questa validità »15. Siamo di fronte al risultato di un processo che può essere esamina­ to nella sua genesi. Il momento gnoseologico appare un epifenomeno di un fatto più profondo riguardante la struttura sociale e le dinamiche storiche che hanno determinato lo sviluppo particolare del popolo gre­ co. Husserl appare estremamente attento all’analisi del contesto nel quale l’atteggiamento descritto si è palesato. Non si tratta di stabilire meccanicamente un rapporto di causa ed effetto, ma di ancorare al mondo-della-vita dei Greci la loro esperienza di sapere. Nel Ms.trans.A VII 2, nelle pagine che vanno sotto il titolo: Wir und « Umwelt ». -Sinn dieser Umwelt; ihm gegenüber das Weltall der griechischen Wissenschaft. -Erste deskriptiv wissenschaftliche Weltbe­ trachtung in der Umweltlichkeit, dopo aver ribadito ancora una volta che i Greci sono riusciti a superare la finitezza per pensare il mondo come totalità infinita del reale in sé, Husserl si domanda come ciò pos­ sa essere accaduto. Egli osserva che: « L’interesse teoretico rivolto alla totalità del mondo circostante richiede la formazione di un’esperienza universale che si estende in rapporto all’ampiezza delle possibilità del­ le comunicazioni umane »16. Attraverso i viaggi e i contatti con gli al­ tri popoli si amplia e si affina la formazione di quelle tipizzazioni ge­ neralizzanti e che permettono il passaggio all’universalità. Fin dall’antichità tale tipizzazione è alla base delle classificazioni della botanica, della geografia e, attraverso la tipica « antropologica » 15. Ms. trans. B I 15 II, pp. 9-10. 16. Ms. trans. A VII 2, p. 9.

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si giunge alla geografia storica; in quest’ultima era implicita l’astrono­ mia descrittiva, nel senso che al mondo circostante di ognuno apparte­ neva la possibilità di ampliamento da ciò che è terreno a ciò che è ce­ leste e, quindi, alla descrizione dei corpi celesti. Ma nasce anche una psicologia descrittiva che si interessa dell’uomo e della sua attività co­ noscitiva, così rispetto alle cose si colgono i rapporti spazio-temporali e causali e rispetto all’uomo si manifesta l’interesse per la connessione fra fisico e psichico 17. Ogni attività definiente porta con sé, però, grazie all’esperienza del­ l’inganno, l’esigenza di una fondazione sicura, e, quindi, ci si domanda se ciò che è sperimentato sia reale o meno e comincia a distinguersi l’apparenza (Schein) e l’essere (Sein). Si manifesta in tal modo quello che definiamo interesse teoretico 18. Furono i Greci, infatti, ad indicare come mera apparenza tutto ciò che viene dato con i caratteri della fini­ tezza e a ritenere il mondo come la totalità infinita del reale 19. Alla descrizione della “via gnoseologica” percorsa dal pensiero gre­ co si affiancano una serie di riflessioni di carattere storico e sociologi­ co che in quella erano solo adombrate. Nel Ms.trans.E III 7, Der Mensch im Schicksal, Religion und Wis­ senschaft (20.-25. 1.1934), nel quale è presente un’analisi puntuale della mentalità primitiva e quindi un’esplicita utilizzazione di studi di antropologia culturale, Husserl tenta una sua via per risolvere la que­ stione del « miracolo greco », l’affermarsi, cioè di una prospettiva cul­ turale che dà in effetti una svolta alla storia dell’umanità. Egli sostiene che i contrasti e le lotte fra i popoli determinano attraverso le conqui­ ste un aumento numerico e quindi da un lato la necessità di darsi un assetto politico più stabile — deriva così l’urgenza di istituire un siste­ ma di leggi20; dall’altro la distinzione fra vita politica e religione at­ 17. Ivi, pp. 9-10. 18. Ivi, pp. 11-12. 19. Ivi, p. 8. 20. Viene in mente a questo proposito il II libro della Politela in cui Pla­ tone descrive la genesi dell’associazione civile attraverso le lotte e i contrasti (pp. 396 ss.); il passaggio dalla città « sana » alla città « opulenta » è condan­ nato sotto il profilo morale, ma considerato inarrestabile. La formazione dell’associazione civile e il ruolo preminente della giustizia (diche) a partire dall’età arcaica sono studiati da Eric A. Havelock nel suo The Greek Concept of Justice from Its Shadow in Homer to Its Subitanee in Plato, Cambridge (Mass.), 1978; in realtà viene analizzato quello che in termini feno­ menologici si può indicare come il passaggio al categoriale, proprio in relazione al concetto di giustizia discusso nella Politela. « Questo tipo di linguaggio — scri­ ve Havelock — può essere interpretato come una risposta e una correzione alla sintassi della descrizione in forma narrativa tipica della tradizione precedente che aveva posto simboli come diche in contesti così diversi e contraddittori, e gli aveva imposto di portare abiti così diversi e di ricoprire così tanti ruoli, in

60 traverso la critica e il confronto fra le varie esperienze religiose. Emer­ ge in tal modo la razionalità che certamente non si esprime ancora nel­ la filosofia, ma già si oppone alla tradizione. L’uomo legato alla tradizione non è certamente un uomo “irrazio­ nale” — osserva molto opportunamente Husserl — anch’egli è diretto all’essere delle cose, ma l’atteggiamento critico e la contemporanea tendenza alla ricerca dell’universalità, proprie della mentalità greca, fanno emergere potentemente il ruolo della razionalità. Tuttavia razio­ nalità e criticità, se per un verso sono connesse, per un altro si oppon­ gono; la Sofistica e lo Scetticismo rifiutano una verità assoluta, ma tali movimenti radicalmente critici risultano in fondo sempre perdenti: So­ crate e Platone, infatti, non solo sviluppano la teoria, ma connettono ad essa anche quel motivo, in origine preminente, relativo alla prassi poli­ tica, che risulta così non più legato all’ethos della tradizione, ma alla ragione21.

13. « Doxa » e « episteme »

Si delinea così la progressiva differenziazione fra doxa e episteme, analizzata in particolare nel Ms.trans.A VII 31 (9 aprile 1934), che fa parte di un gruppo di manoscritti posti sotto il titolo generale di Struktur der Erfahrung - Epistéme und Doxa - Bekanntheit und Fremde. Ciò che è proprio della doxa non è soggettivo nel senso di “relati­ vo”, ma di presente nell’opinione comune, nella certezza che caratte­ rizza l’uomo normale nel mondo condiviso con gli altri. Tale mondo possiede la tipica di situazioni possibili normali: « L’uomo che vive nel­ la sua comunità normale, nella doxa del suo mondo, nel proprio essere mondano ordinato, nel mondo-della-vita, ha le sue abitudini normali, Eschilo non meno che in Esiodo; Platone vuole che il campo di significazione venga ridotto. Non basta che la giustizia diventi un tema; il tema deve diventare un concetto stabile, affermato con coerenza. ... Per diventare un concetto, la giustizia deve soddisfare anche un altro requisito; il significato dei suoi predi­ cati deve essere astratto come il suo, così da lasciare aperta la possibilità di essere definita tramite delle proprietà e degli attributi, delle categorie e delle relazioni che sono permanenti, e scarsamente soggetti a cambiamenti occasionali quanto la giustizia stessa » (tr. it. di M. Piccolomini, Laterza, Bari, 1981, p. 385). 21. «Es ergibt sich dabei von selbst, das Ethos des echten Theoretikers zugleich ein Moment des Ethos desselben, des Philosophen, als praktischen Menschen sein muss, bwz. dass die theoretische epistéme der Wissenschaft eo ipso Moment in der praktischen epistéme ist, die mittels des Philosophen Kreises in der Menschheit sich realisiert und weiter zu verbreiten berufen ist. Theore­ tische Vernunft ist Theorie von praktischer Vernunft und ist selbst Komponente der aktuellen praktischen Vernunft », Ms. E III 7, p. 15.

61 le sue valutazioni normali, i suoi interessi permanenti normali, i suoi scopi pratici normali, egli ha norme e queste appartengono al « si » — la tipica di tali norme diventa una « logica », il « si pensa così » « in modo ragionevole » (yernüftigerweise)... »22. Chi è estraneo rispetto a questo mondo appartiene in un certo sen­ so anche ad esso, ma non è portatore della normalità, ciò genera l’anor­ malità — si tratta, allora, di disconoscere l’umanità di chi è estraneo? È a questo punto, secondo Husserl, che si innesta la questione dell’epi­ steme. Proprio attraverso il confronto fra ciò che è normale per me e ciò che è estraneo, riconosco l’identità dell’essente come ciò che rima­ ne lo stesso nonostante i diversi modi di appercezione. Ma questa è un’operazione che posso compiere in quanto vivo all’interno di una tradizione culturale che mi induce ad osservare la realtà secondo tale prospettiva23. Noi europei, costruiamo un metodo generale di pensiero, utilizzando il quale separiamo tutte le appercezioni mitologico-religiose e ci formiamo una « considerazione del mondo », « scientifica », « distaccata », « posi­ tiva » che elimina tutti gli idoli nazionali e tutti quelli risultanti da un processo generativo e cerca e costruisce una verità oggettiva e un mondo, che fissa solo ciò che è vero in tutte quelle appercezioni relative all’uma­ nità estranea come « modi di apparizioni offuscati » della verità e deter­ mina le norme per una critica dell’esperienza e una critica del mondo predato, così come esso è posseduto dai diversi gruppi umani necessaria­ mente in modi diversi. Noi europei diciamo tuttavia: tutti sono uomini, comunità di essenze razionali, essi possono produrre come noi un pensiero oggettivo, positivo. Ma noi nel nostro pensiero li costruiamo come essenze razionali, come uomini che muovendo dal loro mondo tradizionale pos­ sono percorrere le stesse vie verso la verità oggettiva e debbono necessa­ riamente pervenire allo stesso risultato24.

Per questa ragione Tepisteme che è al fondo della ricerca filosofica intende Tessente come « verità-irrelata, assoluta, pura, valida per tut­ ti gli uomini in tutti i tempi, per ognuno inteso come un’essenza ra­ zionale »25.

22. Ms. trans. A VII 31, p. 2. 23. Ivi, p. 4. 24. Ivi, pp. 5-6. 25. « Wahrheit-irrelativ, absolut, echte Wahrheit, Wahrheit an sich unbe­ dingt allgemeingültig für jeden Menschen jederzeit, jedenwirklichen und jede als möglicherweise seiend ansetzbaren Menschen für jedermann als Vernuftwesen überhaupt. Von jedermann prinzipiell einsehbar, begründbar von jeder­ mann als Kritiker für jedermann nachprüfbar», ivi, p. 1.

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Al contrario la vita, che vivo attualmente, non è costruita idealmen­ te, ma è vissuta intenzionalmente e doxicamente e procede secondo con­ cordanze e correzioni. « L’essere logico, l’essere dell’assoluta verità è l’obiettivo di una costruzione, della costruzione logica della verità » (Ms.trans.B I 32 I, Logifizìerung der Episteme (maggio e agosto 1931 26). Abbiamo prodotto qualche cosa di assoluto in relazione al­ l’idea apodittica di infinità, che nasce proprio dal processo di determi­ nazione e correzione infinito; ma nella vita quotidiana non siamo logici, non costruiamo l’infinità, l’universo infinito, o, se lo siamo, lo siamo in quanto ormai siamo diventati copernicani, ci hanno insegnato che la terra è un corpo (Körper') celeste in un universo infinito, ma ciò non corrisponde alla nostra esperienza, secondo la quale la terra è piuttosto un Boden27. Prendendo lo spunto dall’ultima osservazione di Husserl a propo­ sito dell’infinità dell’universo che è propria della mentalità moderna, è necessario sottolineare che ad un’analisi storico-culturale stringente l’interpretazione da lui proposta sul rapporto finito-infinito nel pensiero greco potrebbe dare adito a molte obiezioni. Ma al di là della questione riguardante la presenza o meno dell’infinito nel pen­ siero greco, ciò che Husserl intende evidenziare è lo “scarto” fra espe­ rienza concreta ed idealizzazione, che sarà alla base della mentalità oc­ cidentale in generale, manifestandosi in particolare nella filosofia e nel­ le scienze.

2. Genesi delle scienze I momenti fondamentali nell’elaborazione delle scienze europee so­ no rappresentati nelle analisi husserliane dalla geometria euclidea e dal­ la fisica galileiana. Può apparire eccessivamente riduttivo individuare due soli punti chiave in uno sviluppo di indagini così complesso, tor­ mentato ed anche diversificato, per lo meno o in particolare se si esa­ mina la situazione delle ricerche scientifiche del ’900; si potrebbe obiet­ tare che in fondo Husserl non sia in grado di compiere una riflessione valida sulle scienze, in quanto non ha colto tutta la loro portata e si è fermato alla geometria greca e alla fisica classica. È necessario, però, osservare che non solo da un punto di vista sto­ rico ciò è smentito da un esame dell’opera complessiva del fenomeno-

26. Ms. trans. B I 32 I, p. 19. 27. Ms. trans. D 17, cit., p. 11.

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logo e da una ricognizione della sua biblioteca2829 , ma da una prospet­ 30 tiva teoretica tale questione risulta in fondo superflua; ciò che Husserl vuole analizzare è la genesi del pensiero matematico in quanto tale, che sta alla base tanto delle geometrie euclidee come delle geometrie non euclidee, e della fisica, sia essa quella galileiana che quella quan­ tistica. Non si tratta, infatti, di prendere posizione nelle dispute “interne” alla storia della scienza, ma di esaminare la formazione storico-gnoseo­ logica del processo stesso delle scienze. Ecco che Husserl individua due importanti nuclei concettuali, l’idealizzazione e l’oggettivazione. Essi nascono sempre nell’ambito culturale greco da una doppia matrice pra­ tica e teorica e ciò si comprende se si approfondisce il senso dell'og­ gettività e dei suoi gradi. Si distingue pertanto l’oggettività nel senso della cosa fisica, l’oggettività del mondo intersoggettivo e una terza oggettività, quella rigorosa, relativa ad un universo che non ha limiti e confini. Quest’ultima oggettività, che nel Ms.trans. D 4, Objektivität in Beziehung auf einzelne Subjektivität und Intersubjektivität (Jederman). Die kategoriale Form der Objektivität del 1921, viene separata da quella intersoggettiva, è gradualmente identificata con essa nel sen­ so della costruzione di un mondo oggettivo-ideale che è il mondo della cultura. « Non è la scienza una formazione di verità sorta sulla base di una “rappresentazione del mondo” relativa al mondo circostante sperimentato, ottenuta attraverso una certa critica generativa, che ora a sua volta è una “rappresentazione del mondo” umana, caratterizzata soltanto dall’essere determinata scientificamente attraverso leggi? ». Si domanda Husserl nel Ms.trans.A V 15, Lebenswelt vor der Wissen­ schaft (1930-31)2’). E continua: Se presupponiamo valido un universo spazio-temporale di fatti « og­ gettivi » e siamo guidati noi, che siamo cresciuti nella tradizione scienti­ fica, già dall’idea di una verità « oggettiva » che abbiamo tratto dalle scienze della natura, allora tutte le forme di sapere descrittive, anche le scienze dello spirito, in quanto soltanto descrittive, non hanno verità og­ gettiva. Ma come può accadere ciò, se è chiaro per noi che questa verità « oggettiva » è una formazione soggettiva e il metodo di oggettivazione presuppone come valide l’accettazione dell’essere del mondo circostante e le presentazioni descrittive relative ad esso w.

28. Ho avuto occasione di sviluppare questi argomenti in Husserl e le scienze, La Gogliardica editrice, Roma, 1980 e L’oggettività come pregiudizio Analisi di inediti husserliani sulla scienza, ibid., 1982. 29. Ms. trans. A V 15, p. 7. 30. Ivi, p. 8.

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Certamente l’oggettivazione è anche alla base della costituzione del nostro mondo quotidiano intersoggettivo, nello Stil der Erfahrung sco­ priamo un’oscillazione fra una maggiore o minore determinazione in orizzonti aperti ed indeterminati e una casualità vaga, anch’essa inde­ terminata. Tutto ciò non disturba nella vita quotidiana nella quale la determinazione è raggiunta attraverso la permanenza propria di una tipica dell’esperienza, in modo che tutto ciò che rimane indeterminato sia praticamente irrilevante e, quindi, sul piano della praticità si ottiene una conoscenza precisa delle cose, per lo meno quella che serve nella vita. Ma quando si pose attenzione all’aspetto invariante dell’esperien­ za stessa, allo stile universale causale di questo mondo, si scisse la real­ tà in ciò che è soggettivo e relativo e in ciò che è invariante ed universa­ le; si separò la doxa dall’episteme rappresentando quest’ultima l’idea di una conoscenza razionale che penetra nella realtà in sé. Nel Ms.trans.K III 22, Paragraph 8a-Arbeit an der geplanten Para­ graph vor Galilei si analizza come 1’« esatta oggettività », valida dap­ prima dal punto di vista filosofico, diventi l’idea guida della scienza come prodotto di un metodo che nasce da una prassi consistente nell’evidenziare da ogni singola esperienza qualche cosa di esemplare che possa valere come universale. Si idealizza così la qualità della cosa presa come esempio e si considera valida in una generalità incondizio­ nata. Storicamente ciò è stato realizzato in modo pieno nell’oggettivazione propria della geometria e in generale della matematica pura nel­ la quale la manipolazione non ha interessato le « cose », ma le idee, attraverso un duplice processo di fissazione dell’idea e di derivazione di un’idea da un’altra31. Nella fisica, invece, il processo di idealizzazione ha trovato il suo materiale nelle Ding-Erscheinungen e nelle Ding-Vorstellungen e l’ope­ razione matematica si è limitata alle forme spazio-temporali e, in que­ sto caso, l’obiettivazione riguarda il mondo come mondo di corpi, fa­ cendo astrazione da tutto ciò che non è corporeo. Nella sua globalità il risultato di tale processo è diventato un apriori che è connesso con l’es­ sere stesso dell’uomo, con il suo modo di sperimentare, pensare, agire, considerare le cose; quindi esso possiede una doppia valenza, da un la­ to è “oggetto” rispetto all’uomo — come un ideale in generale — dal­ l’altro è una Gebilde dell’uomo stesso che Io costruisce. Si può notare, allora, come nelle scienze il processo di oggettivazio­ ne e di costruzione ideale sia da Husserl studiato e delineato con molta acutezza. Al di là delle controversie metodologiche interne alle scienze,

31. Ms. trans. K III 22, pp. 4-5.

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le idealità categoriali in esse presenti appaiono sempre più chiaramen­ te al fenomenologo come un abito ideale celato sulla natura32.

3. « Wie steth aber es mit der Philosophie? » Se chiara è l’interpretazione delle scienze, come stanno le cose con la filosofia? (Ms.trans.B I 27, 1. Aufgabe der Klärung, 2. Unzugäng­ lichkeit der positiven Wissenschaften; Idee der Wissenschaft (192426). Nascono la filosofia e le scienze dalla stessa matrice categoriale? Si esamina in primo luogo la posizione di Husserl. Egli distingue le scienze con la loro pretesa di oggettività che si rivela sempre più ar­ bitraria dall’esigenza filosofica che non ha mai cessato di ritenere fon­ damentale. In questa prospettiva egli si allaccia alla tradizione occiden­ tale, alla “intenzione” della Erste Philosophie, nata nel contesto cultu­ rale greco. Da un altro punto di vista si può sottolineare che la fenome­ nologia tende a configurarsi in modo diverso rispetto ai risultati domi­ nanti nella storia della filosofia occidentale e, quindi, a sottoporre a cri­ tica tutto il processo di categorizzazione al quale in ultima analisi se­ condo l’esplicita ammissione di Husserl è possibile ricondurre sia la fi­ losofia che la scienza. In secondo luogo, più in generale, se è possibile osservare che il pro­ cesso di pensiero che sta alla base delle scienze moderne è strutturato certamente in modo diverso (si pensi al processo di formalizzazione proprio delle scienze) rispetto al procedimento filosofico, è anche rin­ tracciabile una lontana comune matrice di categorizzazione, quell’esi­ genza di universalità, di comprensione di una verità in sé che supera ogni temporalità come Husserl ha così bene messo in risalto. In ogni caso è proprio la questione del “procedimento filosofico”, nel. senso di una sua univoca delineazione che crea difficoltà e ciò si riflette anche sulla determinazione del rapporto fra fenomenologia e filosofia. Da un lato, come si è detto, Husserl sottolinea che la categorizza­ zione rappresenta la nota dominante della civiltà occidentale, che le idealità categoriali sono la “scoperta” più significativa e che è neces­ sario comprendere la loro genesi attraverso un’indagine che si presenta storico-gnoseologica; dall’altro si inserisce egli stesso nel processo di categorizzazione condividendo l’aspirazione all’universalità e all’es­ senzialità che sono proprie di quel processo. In altri termini: è esso

32. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften.... par. 9 h.

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il risultato di un particolare cammino culturale o uno strumento inter­ pretativo che si rivela assoluto? L’ambiguità si manifesta anche a proposito della riduzione eidetica e della riduzione trascendentale: vivono nell’ambito del pensiero cate­ goriale proprio della civiltà occidentale oppure sono strumenti attra­ verso i quali si possono comprendere le stesse formazioni culturali? Ambiguo si presenta addirittura il “principio di tutti i principi”33, perché da un lato il sostenere che bisogna accettare solo quello che si dà, che ci si deve basare sull’evidenza, rappresenta veramente quel ten­ tativo di spogliarsi da ogni condizionamento culturale, non nel senso di un’asetticità astorica sostanzialmente irraggiungibile, ma nel senso di una penetrazione più adeguata rispetto al darsi delle cose per com­ prenderle veramente. È una descrizione piuttosto che un giudizio; ma quali sono le condizioni della sua validità? Dall’altro lato la riduzione eidetica sembra ricondurre Husserl all’interno di una cultura e all’assolutizzazione di alcuni aspetti di questa cultura. Nel pensiero occidentale “vedere come stanno le cose” ha prevalen­ temente il significato di vederle nella loro essenza e nella loro universa­ lità. Husserl condivide e non condivide ciò. Lo condivide quando, at­ traverso la riduzione eidetica, vuole cogliere l’essenza, non lo condivi­ de quando analizza come si genera l’essenza attraverso il processo di variazione e come ciò sia accaduto storicamente. Seguendo le analisi husserliane relative allo studio del rapporto varianza-invarianza, si può comprendere attraverso quale meccanismo si giunga a stabilire ciò che è “invariante” data una serie di variazioni e quindi come l’essenza sia il risultato di tale processo e non una sem­ plice apprensione immediata. Ciò è esplicito nel Ms.trans. A VII 31, Vorgegebenheit-Wissenschaft (1921, 1928, 1930). Dopo aver sottoli­ neato che «... der Begriff der Variation ist sehr Sorgfältig zu klären », Husserl introduce le riflessioni che riguardano le variabili in aritmeti­ ca per chiarire in seguito quali siano i modi di variazione della Wahr­ nehmung e, dopo averli analizzati, passare alla eidetische Einstellung, alla Wesensschau, che rappresenta il momento invariante. Interessan­ te è che la possibilità di cambiamento prima di essere teorica si presen­ ta come pratica: è la trasformazione del mondo predato che spinge la riflessione a ricercare i momenti invarianti (eide) nelle variazioni34. La possibilità di produrre variazioni è connessa con un atto libero, la libera variazione, infatti, è il punto di partenza per raggiungere Veidos 33. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophie, I, par. 24. 34. Ms. trans. A VII 13, pp. 113-119.

67 puro35. Tutto ciò è ottenuto attraverso la riduzione trascendentale; l’evidenza alla quale si vuole giungere è, allora, quella della originarietà del darsi nella sua propria intrinseca struttura. Questo punto d’arrivo è ulteriormente convalidato nelle analisi che riguardano i confronti culturali. Da un lato egli ammette che ci so­ no esperienze diverse e mondi diversi, relativizza anche lo stesso mon­ do europeo, ma poi lo assolutizza di nuovo sostenendo che solo noi possiamo veramente comprendere gli altri. Si tenga presente il tormen­ tato inedito A VII 9, Horizont (6 novembre 1933), nel quale numerose pagine servono per “rassicurare”, si potrebbe dire lo stesso Husserl, sulla preminenza dell’ispirazione di fondo della filosofia occidentale, il suo interesse, cioè, per una verità universale, sempre valida, per una critica universale36. Che ci sia però anche un motivo che rompe questa fiducia e questa assolutizzazione è dimostrato dall’altro aspetto della sua riflessione, quando egli rivolge la sua attenzione alla sofistica, allo scetticismo e al­ l’empirismo. Questi movimenti di pensiero in fondo mettono in crisi quella “costruzione ideale” che è stata vincente lungo l’arco della filo­ sofia occidentale37. Ed è a questo punto che l’esame di alcune parolechiave diventa fondamentale per la comprensione dell’ambiguità, fe­ conda ambiguità, della posizione husserliana.

35. E. Husserl, Erfahrung und Urteil, par. 89. 36. « Und schliesslich: Wer stellt alle diese Betrachtungen an? Wer legt analytisch den Stil der eigenen Heimwelt, der Fremden aus, wer verfolgt hier die allgemeinen analytischen Notwendigkeite und gibt davon eine “wissenschaft­ liche” Auskunft, eine “Theorie”? Sage ich: ich der Europäer, ich in der Ge­ schichtlichkeit der griechischen Wissenscaft und im Besizt ihrer methodischen Habitualitäten, und sage ich: der Primitive, der im Mythischen lebende Römer, der noch nicht hellenisiert war und dgl., könnte das nicht, und der Chinese heute kann es auch nicht, wenn er nicht europäisiert worden ist - so setze ich eigentlich wieder voraus, dass ich Europäer Wissen von Primitiven, etc. habe, die “nüchterne” objektive Wissenschaftlichkeit und im besonderen Wissenschaft­ lichkeit der Historie? Meine Besinnung über menschliches Dasein, menschliche Umwelt, menschliche Welthabe vor der Wissenschaft ist selbst des europäischen Menschen Besinnung », Ms. trans. A VII 9, pp. 23-24. 37. Molto indicativo è quello che Husserl sostiene nel Ms. trans. A V 14 a proposito della funzione critica esercitata dallo scetticismo il quale mette in crisi l’ingenuità di una filosofia che tende ad una realtà in sé, rendendo possi­ bile una svolta significativa verso una filosofia come Erkenntnistheorie, come Wissenstheorie, che Husserl sente più congeniale (Ms. cit., pp. 2-4). Allo stesso modo per quanto riguarda l’empirismo si legge nella Erste Philosophie I : « ... il sensismo empiristico non è senza valore ... gli scritti di Hume sono degni di uno studio preciso » (p. 33).

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4. Analisi della « Vernunft » Una di queste è la parola Vernunft. Il suo significato oscilla fra: a. ciò che è evidente (Ideen, par. 136, Ms.trans.A V 21, Ethisches LebenTheologie-Wissenschaft (28/XII/1924)38 e quindi è einsichtig, com­ preso immediatamente e adeguatamente; b. ciò che è proprio dell’uomo colto civilizzato, per il quale la conoscenza è caratterizzata dalla Unend­ lichkeit (Ms.trans.B I 21 IV, Wissenschaft und Tradition39; c. ciò che è normale all’interno di un gruppo, ragionevole in quanto condivi­ so da tutti. A tali oscillazioni corrispondono quelle relative al termine vorwis­ senschaftlich che in alcuni casi ha un valore negativo e in altri positi­ vo, infatti può essere sinonimo di endlich, vorurteilsvoll, natürlich (Ms. trans. B I 6 I, Tradition. Epoche von aller Tradition im Problem des Anfangs der Philosophie (193O-33)40, da attribuire, quindi, alla vita vis­ suta nella passività; oppure può essere inteso come originarietà, come ciò che è preteoretico rispetto a cui la stessa Objektivität può essere Vorurteil (Ms.trans.A V 15, cit.41). Nei manoscritti A V 11 e A V 14, precedentemente menzionati, al­ cune culture, fra le quali quella europea, erano indicate come “alte”, con la precisazione che tale espressione non conteneva una “valutazio­ ne”, ma quando nel Ms.B I 6 I, citato, si parla delle culture legate al mito, si dice che esse sono endlich, pertanto unvernuftig. Le oscillazioni semantiche celano, in fondo una questione di gran­ de interesse. Essa concerne la diversità e la pluralità delle prospettive culturali; hanno tutte una loro intrinseca validità? Come possono esse­ re comprese? Per comprenderle è necessario muovere dai criteri di universalità elaborati dalla civiltà occidentale, che, in quanto univer38. Ms. trans. A V 21, pp. 2-3. 39. « Die Vernunft revolutioniert (als die neuartige rein theoretische Vernunft der konsequenten Urteilsrichtung auf ein Seiendes, Wahres “an sich”) das wer­ tende und handelnde Leben. Sie wird zur universalen Kritik der aus diesem historischen Vorurteil, Aberglauben erwachsenden Weltanschauung, sie wird aber auch zur kritischen Richterin der möglichen Wertungen und Wollungen und der in ihnen liegenden Ansprüche auf Allgemeingültigkeit. ... Der Logos wird zur Hegemon eines von Grund auf neue zu gestaltenden humanen Lebens und seiner humanen Umwelt», Ms. trans. B I 21 IV, p. 17. 40. « Philosophie, Wissenschaft und Vorurteil. Vorurteil als unbegründetes Vorurteil. Universale und speziale Epoché hinsichtlich aller Vorurteile. Wie weit reicht “Vorurteil”? Das vorwissenschaftliche Leben vorurteilsvoll », Ms. trans. B I 6 I, p. 16. 41. « Also erste Epoché: “Abstraktion” hinsichtlich aller Wissenschaften bezw. ihres “Vorurteils” der Objektivität. Die von diesem Vorurteil geleitete exakte Wissenschaft gehört selbst zur Konkretion meiner, unserer Lebensumwelt (europäische Wissenschaft) », Ms. trans. A V 15, p. 9.

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sali, “garantirebbero” tale comprensione oppure uscire da essa? Ma come è possibile ciò? Se nella Krisis è sviluppata la parte riguardante la “descrizione” della civiltà occidentale, nei testi paralleli si pone più decisamente la tematica del confronto culturale. Husserl, sollecitato, come egli stesso sottolinea nella lettera a Levy-Bruhl42 dai nascenti studi di antropolo­ gia si domanda il significato del mondo dei primitivi, di quello delle altre culture denominate appunto più “alte”, quella cinese, indiana ecc. Da questo confronto nasce un duplice atteggiamento, come si è già notato: il riconoscimento della diversità, pur senza stabilire una gerar­ chia di valori, ma anche la consapevolezza che siamo noi europei a porci la questione del confronto e a poterla risolvere grazie alla sco­ perta dell’universalità. Come tentare di sciogliere la difficoltà e come procedere. È chiaro che da un lato il termine Vernunft è usato secondo la tradi­ zione filosofica occidentale, come ciò che permette una conoscenza va­ lida. Quando Husserl, però, usa l’aggettivo vernünftig come sinonimo di “evidente”, non vuole sottolineare una facoltà, ma una modalità cono­ scitiva, che considera valida e quindi razionale, in quanto completa ed adeguata. Allo stesso modo si può comprendere l’utilizzazione del ter­ mine in senso morale e perché esso sia legato ad una prospettiva teleo­ logica; il compimento di una ratio è compito non immediatamente at­ tuabile, ma disposto all’infinito, e l'infinità è scoperta propria della teoreticità che caratterizza l’Occidente. Ancora qui un’oscillazione: ciò che è chiaro lo è perché immediatamente ed esaustivamente compreso, ma ciò che è compreso, lo è veramente in quanto idealizzazione come rimanendo infinito. La razionalità è frutto, quindi, della cultura occidentale? Se è così, perché ciò che è « normale » all’interno di qualsiasi gruppo umano è vernünftig? Inoltre, quando Husserl sottolinea la validità deh’epoché come messa fra parentesi di tutta la tradizione (Ms.B I 6 I, cit.) pensa che sia necessario far cadere in essa anche i parametri della filosofia oc­ cidentale, oppure la considera come l’ultimo e più raffinato strumento di interpretazione offerto appunto da questa riflessione? 42. La lettera è dell’l 1.3.1935, in essa Husserl ringrazia Levy-Bruhl per l’invio del suo libro La Mitologia dei primitivi e sottolinea la convergenza di interessi sull’analisi del mondo circostante umano che ha come obiettivo la descri­ zione degli uomini non come oggetti della natura, ma come persone e questo è il compito di una vera antropologia e di una vera etnologia. Secondo Husserl, le analisi che conducono a comprendere la struttura dei primitivi servono per comprendere qualsiasi altro popolo. Egli dichiara che il tema riveste grande importanza per lui, in quanto si è interessato alla correlazione noi-mondo circo­ stante in una prospettiva che permette « un’universale auto-consapevolezza ».

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Attraverso l’atteggiamento trascendentale della riduzione fenomenologico-trascendentale — scrive Husserl nel Ms. trans. B I 32 I, cit. — mi appare che il mio e il nostro essere mondano e lo stesso mondo predato ha per me il suo essere e il suo essere così a partire dalla mia operazione in­ tenzionale e dall’operazione degli altri, che sono in me stesso, essendo ed essendo così per me a partire dalla mia operazione. Tutto ciò che è, è ciò che ha per me senso e valore, ha senso e valore d’essere muovendo dalla mia intenzionalità (e da quella degli altri, dei co-soggetti uniti a me, costi­ tuiti in me mediatamente ... Il mondo e in fondo il mondo ideale infinito è un filo conduttore per l’utilizzazione di quello trascendentale e della sua infinità, la singola anima umana lo è per la singola monade trascendentale, la natura infinita per l’infinità dell’uomo possibile, per l’infinità della monade, come possibilità e quindi come domanda sulla portata dell’apoditticità e dell’infinità, ecc. Attraverso la riduzione fenomenologica otten­ go dapprima la vera struttura, nella quale il mondo ha il suo essere vero; infatti ogni essente naturalmente nel mondo e Tessente mondo come tota­ lità essente di tutto ciò che è reale e di tutti i modi di cambiamento della realtà ha una determinazione essenziale (oltremodo varia e complicata) che è necessariamente nascosta nell’atteggiamento mondano naturale; essa non è assoluta in sé, ma tutto ciò che essa ha nel suo in sé, come essenza sua propria e naturalmente vera, lo ha come « correlato » della sua costi­ tuzione trascendentale, non come se l’essere mondano stesse in relazione con un essere fuori del mondo e neppure come se il mondo potesse avere un essente fuori di sé ,..43.

5. La questione dell’interpretazione fenomenologica Che cosa significa ottenere attraverso la riduzione la « vera strut­ tura » e T« essere vero »? Se è presente l’esigenza di un’analisi tra­ scendentale i cui risultati si riproporrebbero come “invarianti” — non per nulla Husserl voleva scrivere una nuova estetica trascendentale 44, proprio l’indicazione delle operazioni intenzionali per mezzo delle qua­ li si costituisce il mondo potrebbe condurre ad un’autentica descrizio­ ne fenomenologica, ad un’analisi genetico-regressiva tale da evidenziare più profondamente e chiaramente i significati dei vari prodotti cultura­ li, come segni di vissuti collettivi, intersoggettivi. Da questo punto di vista si coglie “immediatamente” ciò che di per sé è sempre in qualche modo strutturato. Ed è qui che bisogna riaffron­ 43. Ms. trans. B I 32 I, pp. 6-7. 44. Si confronti in particolare il Ms. trans. A VII 14 nel quale si gettano le basi per una nuova estetica trascendentale; ho avuto occasione di indicare i problemi aperti da questo tentativo in L’oggettività come pregiudizio, op. cit., cap. Ili, 4 a).

71 tare le obiezioni mosse a Husserl a proposito di un suo inserimento in quella metafisica della “presenza” che è propria del pensiero occiden­ tale, secondo l’interpretazione di W.W. Fuchs45. Si potrebbe essere d’accordo sul fatto che l’insistenza di Husserl sulla percezione come immediatezza si configuri come un relitto culturale (di derivazione em­ pirista, forse?), ma questa analisi è condotta in realtà sul solco del tra­ scendentale kantiano e proprio tale impostazione indica il « supera­ mento » della tentazione empirista: la riduzione Io spinge piuttosto a sottolineare le condizioni, le modalità attraverso le quali viene “vissu­ to”, ciò che è percepito, visto, giudicato ecc.; è l’analisi degli Erleb­ nisse. È possibile, allora, avanzare un’ulteriore proposta interpretativa, che è anche una spinta verso una revisione della stessa metodologia fe­ nomenologica: l’ondeggiamento fra empirismo e trascendentalismo o, riproponendo la questione già discussa precedentemente, fra essenziali­ smo ed empirismo (l’esigenza di “vedere” conduce all'evidenza di ciò che si dà “in carne ed ossa” o di ciò che è “intuito essenzialmente”?) può essere superato proprio grazie a quella “riduzione” che è il cuore e la connotazione fondamentale della fenomenologia. In questo senso è possibile cogliere l’altro aspetto della proposta husserliana: ogni per­ cezione, in quanto percezione di oggetti è mediata dai significati cultu­ rali attribuiti a quegli oggetti e non solo a quelli costruiti dall’uomo, ma anche a quelli della natura46. La riduzione fenomenologica conduce pertanto a comprendere « co­ me » si presentano le varie modalità in cui le cose si delineano cultu­ ralmente; l’analisi fenomenologica in questo senso “aderisce” al dato, indicando i modi della sua datità, descrivendo, senza nulla sovrapporre, le caratteristiche dei diversi segni culturali e raggiungendo in tale ma­ niera l’evidenza. Compito questo che Husserl ha appena intrapreso, ma che sareb­ be coerente con Vepoche di tutte le tradizioni, non per trovare un io 45. W.W. Fuchs, Phenomenology and thè Metaphysics of presence - An essay in thè philosophy of Edmund Husserl, M. Nijhohh, The Hague, 1976. 46. Si veda l’interpretazione dell’analisi fenomenologica della Wahrnehmung proposta da U. Melle, Das Wahrnehmungsproblem und seine Verwandlung in phänomenologischer Eistellung. Untersuchungen zu den phänomenologischen Wahrmehmungstheorie von Husserl, Gurwitsch und Merleau-Ponty, M. Nijhoff, The Hague, 1983; egli sostiene che la presenza dell’intenzionalità fa sì che non ci sia mai un dato puro ma la duplicità di dato e pensato. A tale posizione Melle contrappone quella della Gestalttheorie che gli sembra più convincente; al di là di tale questione ciò che sembra valido nelle letture di Melle è appunto il rilievo della presenza del momento noetico nella percezione che ne fa sempre e inevitabilmente un fatto mediato data la compresenza di noesis e ule, anche se con gradualità diversa.

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trascendentale che si staglia di nuovo nella sua purezza, come frutto in ultima analisi di un procedimento culturale particolare, ma come tentativo transculturale di lettura di ogni atteggiamento umano, per comprendere ciò che è intenzionato e attivamente riempito e ciò che è passivamente accettato come residuo culturale. Ciò implica la possibi­ lità di una « riattivazione di senso » che non riguarda la percezione in quanto tale, ma la comprensione del senso, appunto, originario dei vis­ suti che è alla base di ogni espressione umana. Testo esemplare in tale direzione appare, pertanto, quel saggio Die Ursprung der Geometrie, che ha attirato l’attenzione dell’ultima gene­ razione di fenomenologi. Esso pone chiaramente in evidenza la questio­ ne dell’interpretazione. Senza entrare in questa sede nel vivo del dibat­ tito che ruota fra i due poli della possibilità dell’immediatezza e del­ l’ineluttabilità della mediazione 47, si è voluto indicare solo un possibile sviluppo dell’indagine fenomenologica che permetta di leggere geneti­ camente le formazioni culturali attraverso l’analisi dei vissuti che sono alla loro base. Tale esito porta in effetti a compimento il progetto di un’archeolo­ gia del sapere che Husserl aveva proposto nella Erste Philosophie. 47. J. Derrida considera Husserl all’interno del processo di categorizzazione, dal quale, in fondo, è impossibile uscire. Lo stesso principio di tutti i principi che sembrerebbe porsi come la massima garanzia di superamento di ogni mediazione indica, secondo Derrida, il fallimento della possibilità di ana­ lizzare la « presenza vivente ». In realtà bisogna pensare come normale e pri­ mario ciò che Husserl ha creduto di isolare come secondario: cioè la catena dèlie ripresentazioni. E, contrariamente a quanto la fenomenologia della percezione ci vuole far credere, la cosa stessa ci sfugge sempre. Una posizione che tende a mantenere la possibilità di un approccio all’origi­ nario è sostenuta da D.A. Conci in particolare nel suo saggio II tempo e l’origi­ nario (« Il Contributo », Roma, 1978, n. 5-6, pp. 14-42). Secondo Conci si tratta di operare trasformazioni sostanziali nel metodo husserliano perché sia possibile mantenere l’obiettivo di fondo da esso indicato, trasformazioni che egli ha pro­ poste nel suo libro: Prolegomeni ad una fenomenologia del profondo (Roma, 1970). Nel saggio citato egli scrive: « La fenomenologia radicale appare così, a differenza della metodologia husserliana, come una vera fenomenologia “archeo­ logica”; essa porta alla luce, infatti, il piano degli Erlebnisse precategoriali, il dominio della Lebenswelt originaria e delle sue singolarissime leggi, sepolte dalla categorizzazione » (p. 42). Un ulteriore sviluppo in tale direzione è presente nella: Introduzione ad un'epistemologia non fondante (« Epistemologia », V, 1982, pp. 3-18); è necessario far passare l’indagine fenomenologica dal piano « metaculturale » a quello « policulturale », ciò permette di superare il rischio di una chiusura all’interno della categorizzazione e di procedere al rilevamento di strutture proprie di dimensioni culturali caratterizzate in modo diverso dal nostro. L’accordo fra le due impostazioni consiste nel superamento della proposta husserliana, ma l’esito è diverso: possibilità di recupero dell’originario intendendo la « presenza » come la modalità rintracciabile sul piano della precategorialità (Conci), impossibilità di tale recupero, data la inevitabilità della mediazione (Derrida).

4. HUSSERL E LA « MINACCIA GEOMETRICA » ALLA FILOSOFIA

di Ubaldo Sanzo

1. Husserl e la geometria come « minaccia »

Se vogliamo indagare sul significato che le scienze hanno avuto e possono avere per l’esistenza umana — scrive Husserl nelle prime pa­ gine della Krisis — possiamo adottare come punto di partenza il rivol­ gimento avvenuto alla fine del secolo scorso nella valutazione genera­ le delle scienze Questo ri volgimento è stato radicale non solo per le scienze fisiche ma anche per la matematica pura e in particolare per la geometria, che si è definitivamente costituita come il fondamento del­ la fisica teorica. Il rivolgimento di cui parla Husserl si è realizzato dapprima in geo­ metria, perché questa scienza — come ricorda Enriques — legata per oltre duemila anni agli schemi euclidei, nel XIX secolo ha ra­ dicalmente trasformato il suo spirito, i suoi metodi, i suoi oggetti, così da divenire scienza veramente nuova 12. È convinzione di Husserl che l’inglobarsi nel corpo scientifico geometrico delle costruzioni astratte della geometria proiettiva (chiamata inizialmente geometria “immagi­ naria”) e poi di quelle ipotetiche delle geometrie non euclidee abbia determinato il rivolgimento della concezione della geometria, e travol­ to gli schemi nei quali Euclide l’aveva collocata e i suoi successori l’avevano tanto a lungo mantenuta. In questa prospettiva la geometria diventa scienza assiomatica, libera di definire i propri oggetti. Questo sviluppo — osserva Husserl — è la conseguenza del progressivo di­ stacco che i geometri sono riusciti a realizzare fra geometria e fisica, distacco che ha consentito alla geometria di trasformarsi in algebra e di sconfiggere la concezione che ne asseriva l’origine squisitamente em­

1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen­ dentale, ed. it. a cura di W. Biemel, Il Saggiatore, Milano, 1975, p. 19. 2. F. Enriques, Le matematiche nella storia e nella cultura, Zanichelli, Fi­ renze, 1938, p. 255.

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pirica. La nuova geometria è uno strumento con il quale lo scienziato può interpretare esperienze del mondo che lo circondano, senza però essere più garantito, né poter garantire alcuna certezza sulla reale co­ noscenza di questo mondo. Per questa ragione Husserl vede negli sviluppi della geometria e della fisica una specie di “minaccia” per la filosofia. La Krisis è lo strumento per proporre il recupero delle “certezze”, attraverso un esa­ me storico-critico capace di riscoprire il senso originario della geome­ tria e della scienza in generale. Questo programma non mira però a mettere in discussione né la coerenza logica dei sistemi, né la validità dei risultati cui la scienza è pervenuta.

2. Abbozzo di difesa: geometria e fantastico La perdita di certezze da parte della scienza deriva, secondo Hus­ serl, dalla frattura creatasi nel XIX secolo fra sapere scientifico e conoscenza filosofica, e la causa di questa frattura è il dilagare dello scientismo positivistico con la sua cieca fede nel progresso tecnologico. La fenomenologia trascendentale deve restituire alla filosofia la sua primaria funzione di problematizzazione delle scienze, senza interfe­ rire nella metodologia della scoperta scientifica. Husserl non pone in discussione né il rigore delle nuove conquiste della scienza, né l’esat­ tezza delle operazioni compiute dagli scienziati, né infine i risultati conseguiti dalle singole scienze nei loro specifici àmbiti3. È però evi­ dente che contro la tendenza neopositivistica di ridurre la filosofia a metodologia delle scienze, la fenomenologia trascendentale si fa carico di riproporla nella sua essenziale funzione di ricerca di “senso”. La fe­ nomenologia deve recuperare lo spazio vitale della filosofia chiarendo i presupposti della conoscenza scientifica e recuperando l’unità del sa­ pere nella coscienza. Questa operazione definita da Husserl ricerca del senso originario della scienza prende l’avvio nel par. 9 della Krisis con l’esame storico-genetico della teorizzazione della geometria pura. La problematica husserliana tende a un duplice risultato: riconosce­ re la validità dell’assetto teorico cui è pervenuta la geometria e risco­ prirne/ la fondazione, ormai occultata dal tipo di sviluppo cui questa scienza è stata sottoposta a partire dall’età moderna. L’operazione si compie colmando la lacuna che si è prodotta fra teoria e prassi, e l’ele­ mento di saldatura è costituito dalla categoria del fantastico. I corpi che

3. E. Husserl, op. cit., p. 34.

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noi esperiamo nel mondo circostante intuitivo — scrive Husserl — non sono i corpi geometrico-ideali. Ma il commercio fra la teoria a priori e l’empiria ci è tanto familiare da renderci estremamente difficile cogliere questa distinzione 4. Prima di giungere alle forme ideali della geometria pura, noi elaboriamo i corpi esperiti con la fantasia e li tra­ sferiamo in un mondo ideale (pensabile). Le forme ideali della fanta­ sia sono però intrise, come quelle reali, di gradualità, mentre la geome­ tria è il regno dell’esattezza e del rigore. Per passare dal fantastico al geometrico noi dobbiamo allora spingere la fantasia attraverso un pro­ cesso di progressiva astrazione verso forme-limite pure. La geometria così costruita, pur nella validità dei suoi processi logici e dei suoi risul­ tati scientifici, è pura idealità, astratta dal mondo della vita, ed è quin­ di legittimo il diritto della filosofia di ricercarne il senso. Questa filosofia della geometria, per il suo uso della categoria del fantastico, ripropone un tipo di critica già mosso alla geometria da al­ cuni filosofi del XIX secolo, anche se in Husserl essa acquista un carattere di relativa novità per il tentativo di espropriare il fantasti­ co alla geometria e di farne una categoria filosofica.

3. Alcuni precedenti Nella seconda metà del XIX secolo gli attacchi della filoso­ fia alla nuova geometria si costituiscono come difesa di principio del­ l’interpretazione newtoniana dello spazio e si risolvono in un rifiuto acritico di penetrare il nuovo spirito geometrico. Questo atteggiamento diffuso in Europa coinvolge indirizzi filosofici diversi, positivismo e neokantismo non meno che lo spiritualismo. Per di più, fino al Pro­ gramma di Erlangen, la reazione filosofica alla geometria fruisce del comportamento estremamente prudente di alcuni eminenti matematici5. La reazione filosofica si rafforza quando le geometrie non euclidee ac­ quistano cittadinanza scientifica; l’elemento di contrasto diventa allora la categoria dell’immaginario che le nuove geometrie sembrano avere assunto come strumento del proprio progresso. Precedono Husserl su questa linea critica sia Helmholtz sia filosofi francesi di orientamenti diversi, tutti confortati, in un successivo momento, dal formalismo hilbertiano. 4. Ivi, p. 54. 5. È noto che Gauss, lavorando sul postulato delle parallele, aveva formu­ lato l’ipotesi della costruzione di una geometria non euclidea già prima delle pubblicazioni ufficiali sull’argomento. Egli si era però rifiutato di darne notizia, per non sentire le strida dei Beoti.

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Helmholtz accetta la soluzione riemmaniana degli spazi n dimensio­ nali e respinge la tesi kantiana per la quale lo spazio è una forma a prio­ ri dell’intuizione. Le proposizioni geometriche sono il risultato di un costante processo di idealizzazione dell’esperienza. La geometria eu­ clidea serve per descrivere il movimento dei corpi rigidi che rinvenia­ mo in natura e le geometrie non euclidee potrebbero servire per descri­ vere i movimenti di corpi ideali pensabili. La prima affermazione si fonda sul concetto di corpo rigido, che viene assunto come realtà spe­ rimentale anziché come astrazione matematica, la seconda giustifica le strutture spaziali n dimensionali come un processo inferenziale pos­ sibile che chiamerebbe in causa un ben riuscito gioco della fantasia6. Sulla stessa linea si pone la filosofia francese per la quale le nuove geometrie non sarebbero altro che un puro gioco dell’immaginazione. È la posizione del kantiano Renouvier7, ma anche dello storico P. Tannery 8. Gli sviluppi della geometria, scrive quest’ultimo, sono do­ po Descartes sviluppi dell’algebra. I nuovi geometri si sono adoperati per sopprimere il ruolo dell’intuizione e dimostrare che qualsiasi geo­ metria è solo un sistema ipotetico-deduttivo. Non vi è dubbio che co­ struzioni teoriche di spazi n dimensionali siano logicamente possibili ma, se ci poniamo sul piano dell’esperienza, nulla contraddice una con­ cezione dello spazio tridimensionale euclideo. Forse non possediamo ancora un criterio assoluto che ci consenta di discernere obiettivamen­ te questa realtà, non possiamo comunque nemmeno metterla in dubbio fino a quando la fisiologia non avrà compiuto progressi corrispondenti a quelli della matematica. Fino ad allora i filosofi, kantiani o positivisti, non hanno di che preoccuparsi, perché la geometria, come riconoscono alcuni matematici9, sarà ancora costretta a domandare credito alla fi­ losofia 10. Queste riserve verso la geometria sono parimenti espresse dallo spi­ ritualista É. Boutroux, attraverso la sua valutazione riduttiva della cono­ scenza scientifica in generale e di quella matematica in particolare, e dall’epistemologo Couturat che, malgrado l’accettazione del logicismo

6. H. von Helmholtz, Opere scelte, a cura di V. Cappelletti, Utet, Torino, 1967, pp. 426-427. 7. Cfr. C. Renouvier, Essais de critique générale, 1° saggio, II tomo, Paris, 18752. 8. Cfr. P. Tannery, La Géométrie imaginaire, « Revue Philosophique », III, 1877, pp. 555-575. 9. Tannery si riferisce al lavoro di J. Hoüel, Du Ròte de l’expérience dans les Sciences exactes, Ed. Grégr., Praga, 1875. 10. P. Tannery, op. cit., p. 574.

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russelliano, manterrà inalterata la sua fede nella fondazione empirico-intuitiva della geometria 11. Il rinnovamento della geometria si costituisce come una “minaccia” per la teoria della conoscenza nella misura in cui sembra privare la fi­ losofia della possibilità di assumerla come strumento per la descrizione del mondo esterno. Secondo questi filosofi la geometria abbandona il suo rapporto con la fisica per costituirsi come scienza puramente assiomatica. Le cose andranno ben diversamente, e la nuova geometria diventerà la spina dorsale della meccanica quantistica e della fisica re­ lativistica, malgrado il venir meno della sua fondazione ontologica. Questo processo scientifico determinerà nel XX secolo la convinzione diffusa che la descrizione del mondo non rientra fra i compiti della fi­ losofia e sarà l’oggetto delle più svariate proposte filosofiche, fra le quali quella fenomenologica si costituisce con una sua propria identità.

4. La « minaccia » si aggrava: Poincaré e Einstein Gli sviluppi della fisica nel nuovo secolo non passeranno attraverso la linea assiomatica hilbertiana, bensì nella direzione costruttivista ed intuizionista di Poincaré. Sarà la sua teoria della relatività dello spa­ zio l’elemento essenziale della nuova fisica e della nuova meccanica. Riportando la fondazione della geometria all’analisi (sui gruppi conti­ nui di trasformazione e sul continuo matematico), Poincaré introdurrà la teoria della relatività dello spazio. Il problema della verità dello spa­ zio o di un qualsiasi tipo di geometria è considerato scientificamente ir­ rilevante. Spazio e geometria sono scelte operative, per cui si può par­ lare di una loro maggiore comodità o semplicità ma non della loro ve­ rità. Tutte le geometrie sono ugualmente valide; quella euclidea è og­ gettivamente la più semplice. Per questo si è creduto per oltre duemila anni che essa fosse una reale descrizione del mondo. La nuova teoria dello spazio consente di interpretare i principi li­ mite di Fermat e Maupertuis come una definizione della lunghezza, soddisfa sistemi meccanici che hanno bisogno di più di tre coordinate, costituisce la base della relatività ristretta. Essa diventerà addirittura il trionfo della relatività generale, dimostrando che la nuova geometria fonda la fisica e la meccanica del ’900. Come dice Lochak: « La geo-li. li. Couturat, in linea con Frege, riteneva gli assiomi della geometria giudizi sintetici a priori, seguendo i dettami del più puro kantismo. Cfr. G. Frege, Alle origini della nuova logica, ed. it. a cura di C. Mangione, Boringhieri, Torino, 1983, p. 19.

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metria che già era il ramo più importante delle matematiche diventa il nume tutelare della fisica teorica »12.

5. Sapere scientifico e « vigilanza » filosofica Le trasformazioni della scienza del XX secolo diffondono sempre più la convinzione che la filosofia abbia esaurito il proprio compito gnoseologico. Husserl tenta di recuperare uno spazio alla gnoseologia attraverso la ridefinizione del concetto di “fondazione” scientifica. In­ fatti, quando sostiene che la filosofia deve fondare la scienza, non in­ tende certo dire che la filosofia deve fornire le basi logiche o fisiologi­ che della conoscenza scientifica, ma che la fenomenologia deve spiega­ re e comprendere quale sia stata la genesi storica di una certa scienza all’interno del processo culturale dell’occidente, quando è stata gene­ rata una teoria. Il fenomenologo — dice Husserl — non entra nel di­ battito interno alla scienza, e rispetta la contrapposizione delle teorie come elemento propulsore dello stesso sviluppo scientifico. Husserl so­ stiene infatti che la sua analisi deve porsi da un “altro” punto di vista. Questa dichiarazione d’intenti viene però vanificata: per quanto con­ cerne la perdita di senso della geometria il punto di vista considerato non sembra essere esterno bensì interno alla scienza, esso evidentemente coincide con il formalismo hilbertiano. Del resto, dal punto di vista co­ struttivista di Poincaré sarebbe ben difficile sostenere la perdita di sen­ so della geometria del XX secolo. Ne consegue che la ricostruzione del­ la genesi storica di una teoria scientifica in senso fenomenologico com­ porta un doppio rischio: quello di proporre un punto di vista interno al­ la scienza analizzata, e quello ben più grave di ricucirle addosso una teoria filosofica. Per quanto riguarda la geometria, non è un caso che la scelta husserliana passi attraverso “certi” argomenti e “certi” au­ tori, si serva di un “certo” punto di vista per l’analisi storico-genetica e scelga una certa categoria, il “fantastico”, come elemento probante. Queste peculiarità danno l’impressione di una ben precisa pregiudiziale. Le osservazioni che precedono consiglierebbero quindi di trarre dal­ la Krisis, a quasi mezzo secolo dalla sua apparizione, non tanto il sug­ gerimento di motivare la genesi storica delle teorie scientifiche (compi­ to troppo arduo per la filosofia e forse peculiare dello storico della scienza), quanto quello di riconoscere alla filosofia una forma di co­ noscenza alternativa rispetto a quella delle teorie scientifiche. Scrive Husserl: al di là degli oggetti utili, esistono oggetti contempiabili; la 12. G. Lochak, Cos’è la fisica?, Dedalo, Bari, 1983, p. 102.

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scienza verte sui primi, la filosofia deve rivolgere la propria indagine sugli stati di coscienza. A me sembra che limitare la lezione della Kri­ sis a questo insegnamento, significhi liberarla dagli equivoci e dalle contraddizioni verso cui la conduce l’analisi storico-genetica delle teo­ rie scientifiche nella cultura dell’occidente, ma al tempo stesso conser­ varle l’ispirazione fondamentale che vede nella filosofia uno strumento di vigilanza contro le possibili applicazioni della scienza a danno del genere umano.

5. CRISI DELLE SCIENZE E CRISI DELLA CIVILTÀ di Michela Nacci

Husserl parla nella Krisis della « crisi radicale di vita dell’umanità europea », riferendosi a più riprese alle « diffuse lamentele sulla crisi della nostra cultura e sul ruolo che in questa crisi viene attribuito alle scienze », definisce « tanto discusso » il tema della crisi europea, af­ ferma: « Le nazioni europee sono ammalate, la stessa Europa, si dice, è in crisi », parla di disagio, della sensazione di insoddisfazione e ne­ gatività dell’epoca moderna, avvertendo che i sintomi di dissoluzione sono numerosi *. Le affermazioni di Husserl sono un indice significativo: le asser­ zioni dell’esistenza di una crisi della civiltà occidentale erano, negli anni ’20 e ’30, tanto diffuse da poter essere prese come un dato di fat­ to nel panorama culturale dell’epoca. Ci proponiamo qui di delineare alcuni dei temi che facevano parte di quella cultura della crisi, alle cui domande sul senso dell’Europa e sull’avvenire della civiltà occidentale la riflessione husserliana sulla filosofia come abito di pensiero tipicamente europeo e sui suoi rapporti con la scienza si proponeva di rispondere. 1. L’atteggiamento condiviso da tutti quei « profeti della crisi » era il sentimento apocalittico sulla civiltà occidentale, la convinzione che la fine dei tempi fosse prossima, l’idea che l’Europa crollava, si esauri­ va, ripiombava nella barbarie. N. Berdjaev scriveva nel 1927: « Oggi, cominciamo ad assistere alla barbarizzazione del mondo europeo. ... Il

1. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die trans­ zendentale Phänomenologie, tr. it. La crisi delle sceme europee e la fenomeno­ logia trascendentale, Il Saggiatore, Milano, 19651 2, pp. 34, 328, 353, 357. E. Garulli ha sottolineato come il tema della crisi della civiltà sia presente nella rifles­ sione husserliana da Die Idee einer philosophischen Kultur, del 1922-23, fino alle conferenze di Vienna del 1935, cfr. E. Garulli, Due fasi del pensiero husser­ liano: le « Ricerche logiche » e la « Krisis », « Studi urbinati di storia, filosofia e letteratura», XXXV, n. 2, 1961, pp. 192-235.

81 crepuscolo cala sull’Europa. Le società europee entrano in un periodo di vetustà e di caducità »2. Mossi da un pessimismo storico che ne II tramonto dell’occidente di Oswald Spengler trovava inizio e segno di riconoscimento, perso­ naggi come Johan Huizinga, Thomas S. Eliot, José Ortega y Gasset, Paul Valéry, Filippo Burzio, annunciavano « la crisi della civiltà », « la crisi dello spirito », « l’agonia della civiltà », « la crisi del mondo moderno », « la disgregazione dei valori » (e questi sono solo alcuni ti­ toli delle cupe opere che scrivevano in quegli anni), avvertivano « la fine dell’età d’oro della sicurezza » che lasciava il posto a un’epoca di squilibri, di incertezze, di rivolgimento dei valori accettati3. Risorgeva il timore del « pericolo giallo », dell’invasione (metaforica o reale) di popoli meno civili ma più vitali, che avrebbero fatto della culla della civiltà la sede dei loro accampamenti; si faceva sentire la paura che l’esaurimento vitale raggiungesse le fonti della vita, che l’Europa deca­ desse per una sempre più forte denatalità4. Paul Nizan fuggiva da una società che invecchiava verso l’Arabia. Le fughe progettate o messe in atto si moltiplicavano, in quegli anni: verso paesi più primitivi, verso il popolo incivile ma forte che aveva realizzato la rivoluzione bol­ scevica, verso il giovane “mondo nuovo”. L’intellettuale che si scon­ trava con i prodotti più tipici della civiltà presente (il cinema, le folle, il giornalismo, le comunicazioni di massa), decideva di ritirarsi in chiostr per novelli eremiti (Valéry), oppure si proclamava « lupo della steppa » (Hesse)5. La gloriosa civiltà occidentale si sentiva precaria; Valéry afferma­ va nel 1919:

2. N. Berdjaev, Un nouveau Moyen Age, Plon, Paris, 1927, p. 72. 3. Cfr. O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918-22), tr. it. Il tramonto dell’occidente, ora nell’ed. rivista, Longanesi, Milano, 19783, J. Hui­ zinga, In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd (1935), tr. it. La crisi della civiltà, Einaudi, Torino, 1962, P. Valéry, La crise de l’esprit (1919), in Variété, Gallimard, Paris, 1924, A. Schweitzer, Verfall und Wiederaufbau der Kultur (1923), tr. it. Agonia della civiltà, Comu­ nità, Milano, 1963, S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (1930), tr. it. Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1971, R. Guénon, La crise du monde moderne (1927), tr. it. La crisi del mondo moderno, Hoepli, Milano, 1937, H. Broch, Zerfall der Werte (1931-32), tr. it. Disgregazione dei valori, in Azione e conoscenza, Lerici, Milano, 1966, voi. Il, S. Zweig, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers (1941), tr. it. Il mondo di ieri, Mondadori, Mi­ lano, 1946. 4. Cfr. ad es. R. Korherr, Regresso delle nascite, morte dei popoli, Unione editoriale d’Italia, Roma, 1937. 5. Cfr. P. Nizan, Aden Arabie (1932), tr. it. Aden Arabia, Savelli, Roma, 1978, P. Valéry, Regards sur le monde actuel, Stock, Paris, 1931, H. Hesse, Der Steppenwolf (1927), tr. it. Il lupo della steppa, Mondadori, Milano, 1972.

82 Noi, civiltà, sappiamo ora di essere mortali. Avevamo sentito parlare di mondi scomparsi tutti interi, di imperi colati a picco con tutti i loro uomini e i loro ordigni... Sapevamo bene che tutta la terra che sta sotto i nostri occhi è fatta di cenere, che la cenere significa qualcosa. Percepi­ vamo attraverso lo spessore della storia i fantasmi di navi immense che furono cariche di ricchezza e di spirito. ... Ma questi naufragi, dopo tutto, non erano affar nostro. ... [Ora invece] Sentiamo che una civiltà ha la stessa fragilità di una vita. Le circostanze che manderebbero le opere di Keats e quelle di Baudelaire a raggiungere le opere di Monandro non sono più del tutto inconcepibili: esse sono sui giornali6.

E Huizinga nel 1935: « Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa, che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita; i motori continueranno a ronzare e le bandiere a sventolare, ma lo spirito sarebbe spento »7. Il mondo attuale appariva sconvolto, malato, squilibrato; il futuro si presentava sotto le forme della catastrofe, della distruzione, del crol­ lo, ed appariva talvolta, sotto questa forma, come il primo passo verso la palingenesi che vi avrebbe fatto seguito.

2. Si instauravano paragoni fra il presente e la fine del mondo an­ tico, si elaboravano filosofie della storia che al progresso lineare e con­ tinuo sostituivano cicli di nascita-crescita-morte delle civiltà, che sem­ pre si ripetevano. Il paragone spengleriano della civiltà con l’organismo biologico sarebbe diventato un argomento ripetuto e senso comune. Le civiltà (e quindi anche quella occidentale) diventavano episodi con­ clusi, che ai posteri lasciavano solo ceneri fumanti, dalle quali sarebbe risorto qualcosa che per Spengler era già conosciuto (vista l’analogia con la quale i cicli si svolgevano nella storia del mondo), che per altri nessuna lingua umana aveva ancora mai descritto. ' L’ottimismo significava un’imperdonabile cecità, l’idea di progres­ so era una fede difficilmente giustificabile. Concepire la storia in una unità di sviluppo derivava, per Toynbee, da un’illusione egocentrica, da un errore di prospettiva, dalla tendenza della mente umana a una eccessiva semplificazione 8.

6. P. Valéry, La crise de l’esprit, cit., pp. 11-12. 7. J. Huizinga, La crisi della civiltà, cit., p. 3. 8. Cfr. A. Toynbee, A Study of History (1934-61), tr. it. del compendio a cura di D.C. Somervell, Storia comparata delle civiltà, Newton Compton, Roma, 1974, voi. I, pp. 52-53.

83 3. Se ogni civiltà, nella filosofia della storia di Spengler, nasceva come Kultur organica, profonda e vitale, e decadeva come Zivilisation, si doveva riconoscere che l’epoca presente apparteneva a questo secon­ do tipo. La civilizzazione era caratterizzata dalla quantità, dai grandi numeri, dal razionalismo, da filosofie utilitarie e materialistiche, dallo statalismo, dalla grande città, dalla politica, dal denaro. La contrappo­ sizione organico-meccanico e concreto-astratto divenne una formula di grande successo, e fu ripetuta fino alla nausea. 4. In realtà la Zivilisation poteva identificarsi con tutta l’epoca mo­ derna della storia, e « moderno » poteva diventare un concetto metasto­ rico (nel quale l’Europa presente si collocava), che significava: regno del denaro, sostituzione della qualità con la quantità, del lavoro arti­ gianale con il lavoro meccanico, delle opere d’arte con le merci, antro­ pocentrismo invece che teocentrismo, laicismo e secolarizzazione invece che senso sacro dell’esistenza, politica invece che mistica, classi inve­ ce che popolo, istruzione obbligatoria invece che conoscenza tramanda­ ta, vicinanza artificiale di tutti con tutti (e in realtà separazione pro­ fonda) invece che comunanza interiore, uguaglianza invece che gerar­ chia, atomismo sociale invece che comunità. In questo caso il « mae­ stro » era Charles Péguy, che aveva denunciato, a ridosso della prima guerra mondiale, la « strozzatura economica del mondo moderno », la scomparsa della comunità, il dominio dell’astrattezza (il cui simbolo era il denaro), l’opposizione del « modernismo » alla verità, al corag­ gio, alla nobiltà dei poveri, alla cultura. « Tutto il male è venuto dalla borghesia. Tutta l’aberrazione, il crimine », scriveva nel 1913’. Quegli eventi concatenati che erano il trionfo della borghesia, la nascita della scienza moderna, l’avvento del capitalismo e del suo spi­ rito calcolatore, si identificavano per i critici della civiltà con l’atto di nascita di un mondo presuntuoso, ateo e democratico (in senso negati­ vo) al tempo stesso. Si proclamavano « rivolte contro il mondo moderno », necessità di ritorni a stadi precedenti e più felici nella storia dell’umanità: all’ancien régime (poiché per molti tutto il male iniziava con la Rivoluzione francese), al Medioevo organico e gerarchico, al mondo pagano oppure al mito, a ciò che stava prima della storia. In ogni caso, il presunto apice della storia di cui l’uomo contemporaneo si inorgogliva non era altro che una pesante caduta.

9. C. Péguy, Notre jeunesse e L’argent (1910 e 1913), tr. it. La nostra gio­ ventù. Il denaro, Utet, Torino, 1972, p. 256.

84 5. L’epoca presente si poteva definire come una civiltà di massa: Ortega y Gasset segnalava allarmato, nel 1930, che il fenomeno più importante dell’epoca era « l’avvento delle masse al pieno potere so­ ciale ». Categoria antropologica più che sociologica, « Massa — scri­ veva Ortega — è tutto ciò che non valuta se stesso ... mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri »,0. Da questo punto di vista, il futuro dell’Europa era l’America, pae­ se di formiche laboriose, di consumi coatti, di livellamento e omologa­ zione delle esistenze, un’America già così collettivizzata di fatto da presentarsi come lo specchio occidentale dell’Unione Sovietica. Scrive­ va Georges Duhamel nel 1930: Negli Stati Uniti d’America, in questo paese di oltre-Occidente che ci rende già sensibili le promesse dell’avvenire, ciò che colpisce il viaggia­ tore occidentale è ravviamento dei costumi umani verso quello che cre­ diamo di capire dei costumi entomici: lo stesso cancellamento dell’indi­ viduo, la stessa rarefazione e unificazione progressiva dei tipi sociali, lo stesso ordinamento del gruppo in caste specializzate, la stessa sottomis­ sione di tutti alle oscure esigenze di quello che Maeterlinck chiamò lo spi­ rito dell’alveare o del termitaio n.

Le masse, i nuovi barbari, la moltitudine, invadevano all’improvvi­ so i luoghi creati dalla civiltà, e si trastullavano con i suoi prodotti raf­ finati come bambini con i loro giocattoli. Chi collegava la tecnica mo­ derna alla minaccia di una nuova barbarie pensava proprio alla facile maneggiabilità degli strumenti tecnici da parte di masse inconsapevoli. Il « primitivo civilizzato » poteva entrare nella stanza dei bottoni. La « ribellione delle masse » di Ortega y Gasset si riferiva allo stesso fe­ nomeno al quale pensava Walter Rathenau quando parlava di « inva­ sione verticale dei barbari ». Ma ciò che invitava a riflettere era soprattutto il fatto che il pro­ totipo dell’uomo-massa poteva essere ritrovato nello scienziato. La scienza si era specializzata, e ogni sua branca era diventata il campo di uno specialismo che procedeva automaticamente, ignorando tutto il re­ sto (cultura, tradizioni, unità del sapere): «la scienza stessa— affer­ mava Ortega —, radice della civiltà, trasforma automaticamente lo scienziato nell’uomo-massa: cioè, fa di lui un primitivo, un barbaro 10. J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas (1930), tr. it. La ribellione delle masse, Il Mulino, Bologna, 1962, p. 8. 11. G. Duhamel, Scènes de la vie future, Mercure de France, Paris, 1930, pp. 71-72.

85 moderno ». La carenza d’informazione diventava una virtà, e la scien­ za progrediva grazie al lavoro di uomini men che mediocri. Questi « saggi-ignoranti » che sono gli scienziati moderni « simboleggiano, e in gran parte costituiscono, il dominio attuale delle masse, e la loro “barbarie” è la causa più immediata della dislocazione morale dell’Eu­ ropa. D’altra parte significano il più potente e preciso esempio di come la civiltà dell’ultimo secolo, abbandonata alla sua propria inclinazione, abbia prodotto questo germoglio di primitivismo e di barbarie » — scri­ veva Ortega nel 1930 12.

6. Nell’epoca dell’industrialismo, infatti, la scienza era diventata tecnica, e la tecnica dominava l’esistenza degli uomini. La filosofia ha abbandonato questo mondo — scriveva Albert Schweitzer —, e l’etica non ha più il controllo su di esso. La filosofia non creava più convinzioni generali che riguardavano la civiltà: nella seconda metà dell’800 essa aveva indagato non più il mondo, ma i risultati delle scienze storiche e naturali da un lato, e il proprio passato dall’altro, fi­ no a schiacciarsi sulla storia della filosofia. Schweitzer affermava: La filosofia si svuotò di reale pensiero, prese a riflettere sui risultati raggiunti dalle scienze particolari, priva della forza del pensiero elemen­ tare. ... La filosofia filosofò così poco sulla civiltà che non s’accorse che lei stessa e con essa l’epoca sua si svuotavano sempre più di civiltà. Nel­ l’ora del pericolo il guardiano che avrebbe dovuto tenerci svegli dormiva, cosicché noi non opponemmo resistenza alcuna13. La resistenza avrebbe dovuto dirigersi contro la specializzazione delle scienze e contro il loro svincolarsi dalla filosofia. Ma c’era di più. Se la scienza era quella che impiegava il suo sapere per fabbricare mez­ zi di distruzione, se la scienza accettava di asservirsi all’industria, lo sbaglio era stato compiuto all’inizio: una conoscenza che inscatolava il mondo, metteva etichette e procedeva per distinzioni, che voleva as­ soggettare la natura e dominarla, si faceva leggere come un errore. Il forte antimacchinismo che faceva vedere nella macchina uno strumento diabolico (« non a torto », osservava Spengler) e accessibi­ le alle masse, scorgeva nella tecnica il prodotto di un’umanità debole, costretta a rimpiazzare la vitalità che non possedeva con tecniche, con ordigni meccanici.

12. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, cit., pp. 99, 103. 13. A. Schweitzer, Agonia della civiltà, cit., pp. 23, 25.

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Lawrence sosteneva che, per ritrovare le proprie radici e la propria vitalità, l’umanità europea doveva « ritornare indietro, al tempo che precedette le religioni e le filosofie idealistiche ». L’universo è morto per noi, — affermava — e come potrà rivivere? La « conoscenza » ha ucciso il sole facendone una palla di gas maculata; la « conoscenza » ha ucciso la luna, rendendola una piccola terra morta butterata di crateri estinti; la macchina ha ucciso per noi la terra, facen­ done una superficie più o meno accidentata sopra la quale si viaggia. Come, da tutto questo, potremo ritornare ai grandi astri dei cieli del­ l’anima, che ci riempiono di indicibile gioia? Come ritorneremo ad Apollo, a Persefone e agli antri di Dite? Come rivedremo anche soltanto Espero e Betelghese?14

Ma questo non valeva solo per letterati come D.H. Lawrence, I. Svevo, H. Hesse, G. Orwell, A. Huxley, o per reazionari come H. Keyser­ ling e J. Evola 1S. Senza giudizi direttamente negativi, l’essenza del mondo moderno quale emergeva dalle opere di grandi sociologi come Max Weber o Werner Sombart stava nello spirito borghese, nel razio­ nalismo, nel calcolo, nella tecnica esatta. E il mondo presente era mon­ do della tecnica anche per Scheier, per Russell, per Heidegger, per Ja­ spers 16. L’invenzione della tecnica come rimedio a una debolezza vita­ le (Scheier) si univa allo svelamento del carattere pratico della scienza moderna: ben lungi dall’essere conoscenza pura, essa nasceva fin dal­ 14. D.H. Lawrence, A propos of «Lady Chatterley’s Lover» (1930), tr. it. A proposito di « L’amante di Lady Chatterley », in L’amante di Lady Chatterley, Mondadori, Milano, 1969, p. 413. 15. Cfr. I. Svevo, La coscienza di Zeno, Cappelli, Bologna, 1923, A. Huxley, Brave New World (1932), tr. it. Il mondo nuovo, Mondadori, Milano, 1971, G. Orwell, The Road to Wigan Pier (1937), tr. it. La strada di Wigan Pier, Mondadori, Milano, 1960, H. Keyserling, Die Neuenstehende Welt (1926), tr. it. Presagi di un mondo nuovo, Comunità, Milano, 1949, J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano, 1934. 16. Cfr. M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft (1922), tr. it. Economia e società, Comunità, Milano, 19743, W. Sombart, Der Bourgeois; zur geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen (1913), tr. it. Il borghese, Longa­ nesi, Milano, 1950, M. Scheier, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen (191219), tr. it. Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Mi­ lano, 1975, Id., Die Stellung des Menschen im Kosmos (1927), tr. it. La posi­ zione dell’uomo nel cosmo, Fabbri, Milano, 1970, Id., Wesen und Formen der Sympathie (1923), tr. it. Essenza e forme della simpatia, Città Nuova, Roma, 1980, Id., Versuche zu einer Soziologie des Wissens (1924), tr. it. Sociologia del sapere, Abete, Roma, 19762, B. Russell, The scientific Outlook (1931), tr. it. Panorama scientifico, Laterza, Bari, 1934, M. Heidegger, Nietzsches Wort « Gott ist tot» (basato su lezioni del 1936-40), tr. it. La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, Id., Die Zeit des Weltbildes (1938), tr. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, cit., K. Jaspers, Die Geistige Situation der Zeit, de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1931.

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l’inizio con il progetto di dominare la natura. Qui il carattere attivo, operativo, del sapere scientifico era contrapposto a un sapere specula­ tivo, che contempla il mondo senza scopi pratici. Non doveva stupire, allora, la specializzazione delle scienze, la loro trasformazione in tec­ niche, il loro inserimento nell’industria: era un destino scritto fin dal­ l’inizio nella costituzione della scienza e del sapere moderni.

7. Da questo sguardo lanciato sulla propria epoca derivava l’idea che si preparasse o fosse già presente nei fatti una dittatura globale del­ l’esistenza, dove all’omologazione sociale farebbero riscontro appara­ ti burocratici sempre più estesi e Stati che sempre più intervengono nella vita di ognuno. La « dittatura del Sistema » di G. Bernanos, la « democrazia totalitaria » di T.S. Eliot, il « comuniSmo liquido » di P. Drieu La Rochelle 17, dittature più striscianti e temibili di quelle poli­ tiche, chiudevano l’uomo occidentale nella gabbia d’oro che secoli di civiltà avevano prodotto, e svelavano gli sforzi di democrazia e libe­ ralismo, le idee progressiste e il sogno della scienza di dominare la na­ tura e di liberare l’uomo, come pericolose illusioni. Bisogna osservare che la riflessione di Husserl, seppure condivide con questa cultura alcuni elementi (il tema della specializzazione delle scienze, per esempio), se ne distacca per il livello diverso al quale si pone, e per gli scopi che si prefigge: una ricostruzione della filosofia dal basso, una ricomprensione della scienza dentro la filosofia, una psi­ cologia non obiettivistica. Si può anzi affermare che i discorsi contenu­ ti nella Krisis si pongono all’origine delle amare constatazioni sulla cri­ si della civiltà occidentale: la stessa deprecata trasformazione delle scienze in arti, in tecniche (presente largamente nella cultura della cri­ si), e della filosofia in storia della filosofia ed erudizione, era per Hus­ serl una necessità della costituzione della philosophia perennis, del fi­ sicalismo moderno. Certo, la connessione fra i risultati (che erano gran­ di) delle scienze e il « crollo dell’umanità spirituale » è un problema presente nelle pagine della Krisis: un uomo che si sentiva in balìa del destino non trovava più nella « scienza di fatti » la risposta a problemi essenziali (i problemi del senso o non-senso dell’esistenza umana). La critica della civiltà poteva ben accettare la riflessione di Husserl, quan­ do per es. essa si fermava sulla connessione scienza-tecnica, sul rappor­ to fra dominio della natura, dominio dell’uomo e dominio di sé, sulla perdita di senso della scienza. 17. Cfr. G. Bernanos, La Grande Peur des bien-pensants (1931), Grasset, Paris, 1931, T.S. Eliot, The Idea of a Christian Society (1939), tr. it. L’idea di una società cristiana, Comunità, Milano, 1948, P. Drieu La Rochelle, Le Jeune européen, Gallimard, Paris, 1927.

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Ma proprio quando la vicinanza sembra più forte, appare con più evidenza la differenza sostanziale nella risoluzione del problema euro­ peo: per la cultura della crisi un’aggiunta di eticità a un mondo che questa eticità aveva perduta, lo scetticismo sulla ragione occidentale, la perdita del senso della storia. Per essa la ragione, se non era colpe­ vole, era se non altro impotente. Per Husserl: un eroismo della ragione che era assai più di un’invocazione retorica '8, e dall’altezza del quale tutti quei rimedi che si proponevano per risolvere la crisi dell’Europa si mostravano come ingenui, e l’irrazionalismo un « radicalismo mera­ mente verbale ». La crisi dell’Europa non appariva a Husserl « un oscuro destino », « una situazione impenetrabile »; la difesa del razio­ nalismo, apparentemente reazionaria, era in realtà la posizione più ra­ dicale che si potesse assumere; dalla comprensione della teleologia della storia del pensiero europeo non conseguiva il fatalismo, né un volonta­ rismo estrinseco. Sullo sfondo della critica della civiltà che abbiamo qui delineato, le affermazioni di Husserl mostrano di partecipare ai problemi che essa sollevava, ma nello stesso tempo di dare loro una ri­ soluzione, a differenza di quella, non irrazionalistica e non moralistica. La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi — affermava Hus­ serl —: il tramonto dell’Europa, nell’estraniazione rispetto al senso razio­ nale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior perìcolo dell’Europa è la stanchezza 18 I9.

18. E. Husserl, La crisi, cit., pp. 371, 348. Il senso dell’« eroismo della ra­ gione » è infatti quello contenuto, ad es., nelle pp. 42-43; proprio per questo il filosofo poteva essere definito « funzionario dell’umanità ». 19. Ivi, pp. 357-358.

6. QUATTRO LETTERE DI EDMUND HUSSERL AD HERMANN WEYL: L’INFLUENZA DEL PENSIERO FENOMENOLOGICO SULLA CRISI DELLE SCIENZE MATEMATICHE di Tito Torneiti

L’anno scorso, proseguendo alcune ricerche sulla crisi delle scienze esatte contemporanee, mi sono capitate sotto mano nella biblioteca del­ la Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo gli originali ma­ noscritti di due lettere e di due cartoline che Husserl scrisse tra il 1918 ed il 1931 a Weyl. Weyl (1885-1955) è stato un matematico tedesco di primo piano che ha partecipato attivamente, dando contributi ori­ ginali, alle controversie dalle quali sono nate nei primi tre decenni del ’900 le scienze matematiche e fisiche contemporanee. I suoi libri sulla relatività e sulla meccanica quantistica si leggono ancor oggi con piacere, le sue ricerche sulla rappresentazione dei gruppi classici hanno contribuito a stabilirne la teoria, i suoi testi di filosofia delle scienze e sui fondamenti delle matematiche definiscono la profondità della crisi e ne chiariscono un possibile esito. Pur essendo un allievo ammirato ed attento del formalista Hilbert, si schierò contro di lui ne­ gli anni ’20 a favore dell’intuizionista Brouwer, Queste lettere sono state nel frattempo pubblicate nella lingua ori­ ginale a cura di van Dalen (van Dalen, 1984). La loro traduzione ita­ liana è la seguente. Bernau i/Baden 10/4/1918 fino alla fine di Dicembre Egregio signore e caro collega! Il Suo scritto sul Continuo, che mi aveva così gentilmente mandato con una dedica così calorosa, è per me un avvenimento importante. Final­ mente un matematico che mostra comprensione della necessità di consi­ derare in modo fenomenologico tutte le questioni tese a chiarire i concetti fondanti e che si riporta quindi sul terreno originario dell’intuizione logico­ matematica sul quale solamente è possibile una fondazione realmente au­ tentica della matematica ed una penetrazione nel senso della sua efficacia! Lei sa che sto su questa strada fin dai miei anni giovanili e che nelle mie lezioni regolari di logica mi sono adoperato a chiarire ed a precisare con

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una purezza sempre maggiore, a partire dalle loro fonti fenomenologiche, i concetti logici fondazionali genuini (ai quali appartengono anche il con­ cetto di insieme, di numerazione, di ordinamento e di grandezza nume­ rica). Naturalmente, molte cose di quelle che lei ha visto, seguendo ten­ denze simili, vanno d’accordo con ciò che ho trovato. Una parte centrale delle mie lezioni è da vent’anni la teoria del « Giudizio funzionale » [Funktionalurtheile], dei giudizi con « posti vuoti » [leerstellen, indeterminate] e la distinzione dei diversi modi di questi « enti » [etwas] vuoti; inoltre la elaborazione delle distinzioni fondamentali tra modo formale e modo mate­ riale di giudizio, tra la forma della proposizione e la proposizione (od il giudizio), tra (la dimostrazione) *, la forma della teoria e la teoria, con le relative correlazioni oggettive. Particolarmente fecondo riguardo la filo­ sofia si è rivelato il mio concetto di molteplicità [Mannigfaltigkeit] defi­ nita, già trovato agli inizi degli anni ’90, che come tute queste altre distin­ zioni, ho trattato nei particolari (se si eccettuano due conferenze alla So­ cietà Matematica del 1901) nei seminari di Gottinga (ai quali, come mi ricordo con divertimento, presero parte accalorandosi Born, Hellinger, König). E malgrado tutto e tutto il lavoro impiegato su ciò, non ho trovato né il tempo né la calma per portare a compimento questa linea di pensiero (perché la formazione della fenomenologia trascendentale mi doveva sem­ brare più importante) o per esporre nei dettagli ai logici ed ai matematici il frutto della mia ricerca. Ho sempre avuto il desiderio di collaborare con un matematico portato per la filosofia. Sono convinto, poiché lei si è mostrata tale in così grande misura, che se noi avessimo operato insieme in una università, ciò ci avrebbe condotto ad una logica matematica e filoso­ fica comune. Da un punto di vista filosofico erano e sono necessarie ana­ lisi sicuramente molto più complete e molto più difficili, ma nelle linee fondamentali credo di averle già fatte. Non ho ancora potuto veramente studiare il suo scritto, poiché sono momentaneamente occupato dal completamento di una grossa opera che mi riempie necessariamente. Però ho letto e capito abbastanza per poterle dire che qui si tratta di un contributo pionieristico che rappresenta una svolta per i fondamenti della matematica. A me in ogni caso darà un grosso impulso, questo è sicuro. È però discutibile che i matematici sa­ ranno ugualmente capaci di seguirla (salvo Ehr. Schmidt). Vedo tutto quello che scrive, come ciò che cercavo in direzioni simili, in una grande prospettiva allargata: di una mathesis universalis filosoficamente fondata che rimanga sempre collegata ad una nuova metafisica formale (della teoria generale ed a priori dell’individuazione) — sulla quale lavoro e sto lavorando da anni. Dunque molte grazie ed i miei più sinceri auguri — che non si rivelino solo dei desideri — perché il suo grosso colpo abbia un grande effetto. I miei rispetti alla sua signora moglie che spero sia rimasta ancora una buona amica della fenomenologia. * Aggiunta da H. forse in un secondo momento.

91 La mia signora si unisce ai miei cordiali saluti. Il suo molto devoto E. Husserl

Friburgo Lorettostrasse 40 5-VI - 1920

Caro signor collega, per un intero pomeriggio libero sono rimasto seduto davanti alla sua opera per leggerla, essa mi è volata via in un incanto crescente. Quanto questa opera si avvicina al mio ideale di una fisica permeata di spirito filosofico'. Quale gioia che il nostro tempo abbia reso possibile, guidata dal­ le idee più elevate, una tale conoscenza universale della forma matematica del mondo e che io pure possa viverlo! Come mi hanno colpito le Sue particolari e più profonde conoscenze sulla forma dello spazio di Riemann, sulla caratteristica della quadridimensionalità, ecc. Anche senza leggere la matematica, come ex-matematico presumo di comprendere il senso di tali deduzioni e, dal lato dei miei studi, qui mi commuove soprattutto il signi­ ficato trascendentale che traccia la via verso forme simili e correlate dei problemi e con ciò tende con tutta l’anima a teorie come le Sue. Veramente non posso ancora studiare il lavoro (tengo un nuovo corso di lezioni di Etica di quattro ore davanti ad un auditorio molto esigente), ma già pregusto le vacanze e mi farò fare subito delle relazioni da un buon studioso di matematica e poi discuterò le idee con lui. Dunque molte grazie di cuore. Lo Jahrbuch è pronto per la stampa ed io ora le domando quando possa mandare il Suo articolo che mi importa molto. Un fascicolo con degli articoli molto importanti (fra tutti uno di Logica di Pfänder certo per lei interessante) sarà pubblicato per la fine di Ottobre, ma subito dopo andrà in stampa un ulteriore fascicolo, anche per il quale sono pronti dei begli articoli. Riceva Lei e la Sua cara moglie i saluti più cordiali da me, dalla mia signora ed anche da Gerhard. Tutti i migliori auguri per le sue nuove creazioni. E Gottinga? Il Suo E. Husserl

Friburgo i. Br. lì 9 Aprile 1922 momentaneamente a Menzenschwand Pregiatissimo signor collega! Ho una buona Ragione per mandarle questa lettera di saluto e cioè per convincerla, che lei non mi è mai lontana nel pensiero, anche se io non reagisco apparentemente che con molta ingratitudine alle cose che

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gentilmente mi invia — e che spesso non posso studiare prima di alcuni mesi. Quanto profondo sia l’interesse della mia cerchia di Friburgo per il Suo lavoro viene mostrato dalla tesi di docenza del Dr. Becker, ora completata e presentata alla facoltà, che ho studiato attentamente e re­ censito con grandi lodi. Non è niente di meno che una sintesi delle sco­ perte di Einstein e Sue con le mie ricerche naturfenomenologiche. Essa cerca, in una esposizione profonda ed originale, la prova che le teorie di Einstein, ma solo se sono rifondate e completate attraverso le Sue ricerche in Geometria infinitesimale, rappresentano quella forma della « legalità strutturale » della natura (di contro alla legalità della natura specifica­ tamente « casuale ») che deve essere pretesa necessaria per le ragioni trascendental-costitutive più profonde: che quindi (nella loro forma) è l’unica possibile e definitivamente comprensibile. Che cosa ne dirà Einstein, quando verrà mostrato che una natura richiede per le ragioni a priori della fenomenologia e non per dei princìpi positivistici una struttura teorica re­ lativistica, e che soltanto così diventa possibile una scienza della natura in sé pienamente comprensibile e definitivamente esatta. Il Dr. Becker si vedeva anche obbligato nella prima parte del suo lavoro ad approfondire le domande fondamentali più generali riguardanti una teorizzazione dei vaghi dati dell’esperienza associati con la loro altrettanto vaga continuità e ad abbozzare quindi una teoria costitutiva del continuo (una ricompo­ sizione razionale del continuo vago attraverso i limiti e l’approssimazione). Con ciò egli cerca anche di dimostrare che soltanto le teorie di Brouwer e di Weyl sono in accordo con le richieste definite ed irrinunciabili di una ricerca fondamentale costitutivamente fenomenologica. Di tutto questo lei si dovrebbe rallegrare. Peccato che Zurigo per noi tedeschi sia ora completamente irraggiungibile; altrimenti le avrei già da molto tempo inviato il Dr. Becker, profondamente dotato in matematica come in fenomenologia, dal quale con tutto il suo essere lei potrebbe sicu­ ramente ottenere molti spunti. Mi spiace particolarmente che lei abbia ceduto al Mathematische Zeit­ schrift quell’importante lavoro promessomi a suo tempo per lo Jahrbuch. Presto lo Jahrbuch rappresenterà qualche cosa per i matematici ed i fisici. Anche la tesi di dottorato del Dr. Lipps, discussa a Gottinga, viene desti­ nata allo Jahrbuch (purtroppo non per il fascicolo che si trova ora in stampa, perché l’autore fa il giro del mondo come medico di bordo); è anch’essa in intimo rapporto con i lavori di Brouwer e di Weyl. La tesi di Becker si troverà nello Jahrbuch dell’anno prossimo. La prego di mandarci a Friburgo tutti i suoi lavori che sono in qualche modo fenomenologicamente rilevanti e si convinca, senza aspettare ri­ sposta, che Lei ha qualche effetto presso di noi! Il da tempo annunciato estratto di un lavoro sulla causalità non l’ho ricevuto. Potrei ancora riceverne uno? Non era un lavoro adatto per lo * Jahrbuch? * Frase aggiunta in un secondo momento.

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Dalla lettera della sua cara signora vedo quali grossi progressi abbia fatto come fenomenologa. I problemi fondamentali della sempre più ampia fenomenologia dell’io sono stati da me ulteriormente approfonditi da molti anni e formulati in modo sempre più differenziato. Peccato che per lettera io non possa andare nei dettagli su questo. Ora sto preparando le mie quattro conferenze per l’Università di Londra (per il giorno 6 Giugno e successivi) che fanno seguito ad un inaspettato invito ufficiale. Abiterò a Cambridge dove dovrò anche parlare. Come mi scrive Courant, Hilbert ha delineato un modo nuovo di fondare la matematica — « completamente nello spirito fenomenologico »! Con i saluti più amichevoli per lei e la sua signora, ringraziando cor­ dialmente per le Sue lettere che mi hanno fatto molto piacere. Il suo stimatissimo E. Husserl

Friburgo 9-1-1931

Caro signor collega, posso molestarla con una preghiera? Il mio venerabile amico e mae­ stro Carl Stumpf di Berlino (ad ottantatre anni ancora scientificamente attivo!) mi scrive: « può dirmi dove Weierstrass nelle Ges. Werken parla del concetto di infinitamente piccolo »? Si ricorda quei punti dove questo avviene o potrebbe fare trovare ai suoi assistenti quei passi che interes­ sano ai filosofi e comunicarmeli? (Oppure direttamente al vecchio signore di Berlino - Lichterfelde Postdamerstrasse 15). Oppure eventualmente al collega Bernays? Le sarei molto grato. Come va mio caro collega, e come si è riambientata con la sua con­ sorte nella vecchia Gottinga? Da molto tempo non ne sento più niente. Ma è anche ora che io stesso faccia prima o poi una visita alla roccaforte della matematica ed al mio caro luogo di azione di un tempo. Forse nel corso dell’Estate. Nel frattempo da me e dalla mia signora i saluti più cordiali a tutti e due, anche al collega Hilbert.

Grazie fin d’ora dal suo collega devoto E. Husserl Nella prima si trovano gli apprezzamenti e l’adesione di Husserl alle posizioni prese da Weyl nei confronti della crisi dei fondamenti della matematica ed esposte nel Das Kontinuum (Weyl, 1918a). Basti qui ricordare la critica all’abituale linea Frege, Dedekind, Weierstrass, Cantor, Hilbert, portata da Weyl riferendosi all’intuizione immediata, « unmittelbare Einsicht ».

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Quest’ultima (e non la dimostrazione) rimane sempre l’unica fonte di legittimazione della conoscenza, in essa consiste l’esperienza viva della verità [Erlebnis der Wahrheit} (Weyl, 1918a, 2a ed., p. 11, tr. it., p. 35). Il grosso compito, risalente alla scoperta pitagorica degli irrazionali, di comprendere matematicamente la continuità data immediatamente in modo intuitivo [unmittelbar anschaulich} (cioè nello scorrere del tempo e nel movimento) secondo il suo contenuto formulabile in conoscenza « esatta » come totalità di « stadi » discreti, questo problema nonostante Dedekind, Cantor e Weierstrass rimane oggi irrisolto come prima (ivi, p. 16, tr. it., P- 44). Infatti la trattazione insiemistica di Dedekind dei numeri naturali

non ci deve però voler ingannare sul fatto che si debbano basare i concetti fondamentali della teoria degli insiemi sull’intuizione [Anschau­ ung} dell’iterazione e della successione dei numeri naturali (ivi, pp. 16-17, tr. it., pp. 45-46).

, Si veda al proposito soprattutto il par. 6 del cap. II di questo testo che sviluppa il continuo matematico a partire dal continuo intuitivo [anschaulich} dei momenti temporali [Zeitkontinuum}. Vedo, ad esempio, per una certa durata, questa matita rimanere co­ stantemente davanti a me sul tavolo (ivi, p. 66, tr. it., p. 137).

Su questo punto, Weyl cita Bergson e soprattutto lo Husserl delle Ideen ai parr. 81 e 82 del libro I (Husserl 1913). Non poteva citare le lezioni di Gottinga del 1905 sulla « Coscienza interna del tempo », da lui probabilmente sentite mentre studiava matematica in quella cele­ bre università, perché sarebbero divenute come ben noto un testo solo nel 1928 grazie ad Heidegger. (Husserl, 1928; cfr. Signore, 1984). Que­ sto riferirsi di Weyl ad Husserl non cominciò però con II continuo, ma proprio dal suo primo articolo sui fondamenti, « Uber die Definitionen der mathematische Grundbegriffe » (Weyl, 1910). Anche qui per Weyl la crisi dei fondamenti si risolve partendo dall’intuizione [Anschauung} (Weyl, 1910, rist. p. 304). Husserl va al di là della comprensione della posizione di Weyl, comprensione chiaramente stimolata ed agevolata dal riferimento del matematico alla sua produzione filosofica. Husserl addirittura capisce le difficoltà che Weyl incontrerà presso i colleghi della sua matematica « eccetto E. Schmidt », un altro matematico seguace del filosofo nei seminari di Gottinga che si schiererà con Brouwer di lì a poco. La car­ tolina del 1920 si riferisce al testo di Weyl Raum Zeit Materie (Weyl,

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1918b) sulla relatività generale, problema ripreso nella lettera del 1922. In quest’ultima c’è inoltre il riferimento ad un tentativo del Dr. Becker di dimostrare che solo la fenomenologia è in accordo con la struttura relativistica del mondo — purché questa venga reinterprètata alla Weyl — in opposizione al positivismo, e con il modo intuizionistico di Brouwer e Weyl di costituire il “continuo”. Bastano queste poche frasi, insieme ad altre che non ho più tempo di citare, a rendere interessanti le lettere di Husserl a Weyl. Infatti esse ci ripropongono alcune domande. Il primo ordine di problemi riguarda la collocazione di Husserl all’interno dell’evoluzione seguita nel ’900 dalle scienze fisico-matematiche. Se è vero che dalle lettere risulta una certa disposizione ad inglobare le scienze nella sua filosofia fenomeno­ logica dove tutto sembra già dato a priori, tuttavia il contatto con la ri­ cerca scientifica a lui contemporanea è realmente cercato, trovato so­ prattutto tramite Weyl, e vissuto come un elemento importante della sua concezione. Quindi, l’immagine di un Husserl che « non ha seguito con grande interesse gli sviluppi della teoria fisica contemporanea più direttamente impegnati con idee così generali come spazio e tempo, caso e cause, gravitazione e geometria... » (Vasa, 1981, p. 36), di un Husserl che parla sì della crisi delle scienze, ma se ne colloca fonda­ mentalmente all’esterno, di un Husserl che, peggio, non ne capisce la portata e gli sviluppi, non è sostenibile storicamente. Essa risulta dun­ que una deformazione frutto dei pregiudizi positivistici che limitano lo sguardo di molti filosofi della scienza alle posizioni logiciste (Russell) e formaliste (Hilbert), senza considerare quelle intuizioniste di Brouwer e Weyl. Husserl arriva addirittura a sperare — in sostanza sba­ gliandosi forse per un’informazione incompleta di Courant — che lo stesso Hilbert stia rivedendo radicalmente la sua posizione. Ma, come si sa, Hilbert invece di avvicinarsi alla fenomenologia creò la sua teoria della dimostrazione facendo diventare insanabile la Grundlagenstreit, cioè i contrasti con Brouwer. Infatti, se anche Hilbert, sotto gli attacchi di questi intuizionisti sferratigli nella prima metà degli anni ’20, sarà costretto a ricorrere all'uso dell’evidenza intuitiva delle procedute finitiste, tuttavia egli le limiterà all’ambito della metamatematica e si ri­ fiuterà di estenderle a tutta la matematica per non rinunciare ai suoi amati teoremi di esistenza (Tonietti, 1983; cfr. Mahnke, 1976). Arrivo a questo punto al secondo ordine di problemi che riguarda l’altra interfaccia e che come storico delle scienze mi appassiona di più. Voglio infatti sostenere una tesi ancora più forte e che cioè il pen­ siero di Husserl fornì appoggio, soprattutto tramite Weyl, all’ala intui­ zionista della matematica — ed anche all’ala continuistico-differenziale alla Schrödinger della meccanica quantistica — influendo dunque di­

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rettamente sulla crisi delle scienze o, per dirla meglio, influenzando quelle controversie degli anni ’20 tra fisici e matematici tedeschi dalle quali sono emersi i programmi della ricerca scientifica contemporanea. Infatti, la nozione tipica di Weyl che, perché le scienze ritrovino un terreno stabile, è necessario ripartire dalla “rappresentazione” e dalla “intuizione” degli oggetti fisici e matematici, si trova tipicamente in Husserl. Qui mi limito a richiamare l’attenzione sulle lezioni husser­ liane di Gottinga del 1907 — forse anch’esse seguite da Weyl quando era studente — che furono trascritte da Landgrebe negli anni ’20 e pubblicate ancor più tardi col titolo L’idea di fenomenologia (Husserl, 1950). Esse sono tutte un inno al « diretto intuire [guardare] ed afferra­ re » come all’unica conoscenza certa della riduzione fenomenologica, certa perché immanente. Voglio arrivare ad avere dinanzi agli occhi l’essenza della possibilità di quel cogliere, portare tale essenza a dato di fatto [Gegebenheit], guar­ dandola [da anschauen, cioè intuendola]. Un guardare [intuire] non si lascia dimostrare; il cieco che vuole arrivare a vedere non vi arriverà attraverso dimostrazioni scientifiche (E. Husserl, 1950, p. 6, tr. it., p. 46; cfr. ivi, p. 38, tr. it., p. 74). I dati di fatto dunque sono tali perché si guardano, si afferrano e si intuiscono. Così, « l’indagine deve appunto mantenersi nel campo del puro guardare [intuire] » (ivi, p. 9; tr. it., p. 50).

È chiaramente su questa strada che si trovano le forme metodologiche determinanti per ogni scienza (ivi, p. 13, tr. it., p. 54). La fenomenologia della conoscenza è scienza dei fenomeni di cono­ scenza nel doppio senso, da una parte delle conoscenze come apparenze, rappresentazioni, atti di coscienza ... dall’altra parte è scienza di queste oggettualità. Oaivo pevov vuol dire propriamente ciò che appare (ivi, p. 14, tr. it., p. 55). Ma se, « La matematica e la scienza matematica della natura più rigorose non hanno qui il minimo vantaggio su una qualsiasi conoscen­ za, reale o presunta che appartenga all’esperienza comune » (ivi, p. 25; tr. it., p. 64), allora ha senso, dopo la riduzione — cioè dopo la messa tra parentesi della certezza del sapere scientifico —, la loro rifondazio­ ne che parta dai « vissuti dell’intelletto » che sono dati di fatto perché riducibili « all’oggetto di un puro guardare ed afferrare » (ivi, p. 31; tr. it., p. 67). Il mondo è « un eterno flusso eracliteo di fenomeni. Quali asserzioni posso fare in questo ambito? Ebbene, guardando posso dire:

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questo qui! Esso è, indubbiamente » (ivi, p. 47; tr. it., p. 80). Più spe­ cificatamente ancora: Se una volta vedo che due per due fa quattro, e un’altra volta lo dico un giudicare vagamente simbolico, intendo una medesima cosa, ma inten­ dere una medesima cosa non significa avere lo stesso fenomeno. Il con­ tenuto è nei due casi distinto: una volta vedo, e nel vedere è dato lo stato di cose stesso; l’altra volta ho l’intendere simbolico. Una volta ho l’intui­ zione, l’altra volta intenzione vuota (ivi, p. 59, tr. it., p. 91).

Dunque, quando Weyl scopre Brouwer dopo la grande guerra, ri­ trova in esso il sapore della fenomenologia, in particolare viene attratto dalla fondazione dei numeri naturali sullo scorrere del tempo e sulla memoria. In definitiva, la portata della riflessione di Husserl sulla crisi delle scienze europee si capisce fino in fondo solo tenendo presente che Hus­ serl stesso aveva contribuito a provocarla. La distanza tra Kant e Hus­ serl non è allora quella tra il filosofo della ragione scientifica ed un fi­ losofo antiscientifico, ma quella tra il filosofo della legittimazione delle scienze newtoniane ed il filosofo della loro crisi. Ed oggi, qual è la crisi delle scienze degli anni ’80? Come fare per “vederla” e per “affer­ rarla”? Perché il mondo dei filosofi, degli storici e degli scienziati stessi appare nel suo complesso così impreparato a questo compito? Certo, perché non hanno ancora in.genere accettato una frase che Hus­ serl aggiunge, forse durante la grande guerra, al manoscritto della Idea della fenomenologia:

Nella conoscenza è data la natura, ma anche l’umanità con i suoi vin­ coli sociali e con le sue realizzazioni culturali. Tutto ciò viene fatto og­ getto di conoscenza. Ma alla conoscenza della cultura appartengono anche il valutare ed il volere, come atti costituenti il senso di questa oggettualità (E. Husserl, 1950, p. 79, tr. it., p. 107).

Ringrazio Margerite Zubler e Louise Schlochoff per l’aiuto datomi nella lettura dei testi tedeschi.

Bibliografia E. Husserl (1913), Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomeno­ logischen Philosophie, Niemeyer, Halle; rist. Husserliana, voll. Ili, IV, V, Nijhoff, Den Haag, 1950, 1952; tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino, 1965.

98 — (1928), Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins, [ahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, IX; rist. Husser­ liana, voi. X, Nijhoff, Den Haag, 1966; tr. it. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano, 1981. — (1950), Die Idee der Phänomenologie, Nijhoff, Den Haag; tr. it. L’idea della fenomenologia, Il Saggiatore, Milano, 1981. D. Mahnke (1976), From Hilbert to Husserl: First Introduction to Phenomenology Especially That of Formal Mathematics, « Stud. Hist. Phil. Sei. », 8, pp. 71-84. L’originale tedesco di questo articolo è del 1923. M. Signore (1984), Il tempo come ‘Lebendige Gegenwart’, « Tempi con/ fusi», Milella, Lecce, pp. 111-136. T. Tonietti (1983), Le due tappe del formalismo di Hilbert e la contro­ versia con Brouwer, in Atti del Convegno internazionale di storia della logica, S. Gimignano, 1982, Clueb, Bologna, pp. 375-379. D. Van Dalen (1984), Four letters from Edmund Husserl to Hermann Weyl, «Husserl Studies », 1, pp. 1-12. A. Vasa (1981), Introduzione alla traduzione italiana di Husserl, 1950, L’idea di fenomenologia, pp. 9-40. H. Weyl (1910), Ueber die Definitionen der mathematischen Grundbegriffe, « Mathematisch-naturwissenschaftliche Blätter », 7, pp. 93-95 e pp. 109113; rist. in Weyl, Gesammelte Abhandlungen, Springer Verlag, Berlin, 1968, pp. 298-304. — (1918 a), Das Kontinuum, Veit & Co., Leipzig; 2a ed. Walter de Gruy­ ter, Leipzig, 1932; tr. it. Il continuo, Bibliopolis, Napoli, 1977. — (1918 b), Raum Zeit Materie, Springer Verlag, Berlin; tr. ing. Space Time Matter, Dover, 1922.

7. BANFI LETTORE DI HUSSERL

di Giuseppe A. Roggerone

Nella prefazione al suo volume postumo Filosofi contemporanei \ Antonio Banfi dichiarava che i pensatori inclusi nella silloge presen­ tata nel libro erano stati scelti per un carattere comune che li contrad­ distingue ed è costituito dall’« impianto di una forte inconfondibile per­ sonalità speculativa caratterizzante una netta direzione di pensiero »; alla fondamentale ragione « di parlarne con la speranza di far echeg­ giare anche tra noi voci meno direttamente conosciute », per tre di es­ si, cioè Martinetti, Simmel e Husserl, ne aggiungeva una « più inti­ ma », derivante dal « desiderio ... di risentirli ancora una volta — egli diceva — come mi furono in vita, e sono per me continuamente, mae­ stri di un pensiero che è ricerca, libertà infinita e profonda responsa­ bilità »1 2. Tale affermazione venne ribadita dal pensatore milanese nel­ l’articolo Tre maestri (Simmel, Martinetti, Husserl), pubblicato alcuni apni dopo 3, confermando così, nel periodo della sua piena maturità, che i tre pensatori indicati rappresentano le coordinate storiche prin­ cipali del suo pensiero. Come ebbe a notare Eugenio Garin, però, dei tre maestri riconosciu­ ti da Banfi, gli scolari « hanno forse troppo dimenticato i primi due a beneficio del terzo », con la conseguenza di alterare « la prospettiva di un rapporto (con Husserl) stabilito da Banfi in termini diversi da quel­ li affermatisi con la grande ondata fenomenologica in Italia, posteriore al ’57 »4. La minimizzazione dell’apporto martinettiano e simmeliano alla concezione fenomenologica di Banfi, infatti, condusse gli scolari a sbandamenti che li allontanarono talvolta non poco dal « crinale ar­ duo » sul quale egli mantenne la sua adesione alla fenomenologia hus­ 1. A cura di R. Cantoni, Parenti, Milano-Firenze, 1961 (ma la prefazione risale al 1943). 2. Ivi, p. 3. 3. « L’Illustrazione italiana », 3 nov. 1946. 4. Banfi e il pensiero contemporaneo, « Riv. crit. di storia della filos. », a. XXV (1970), p. 87.

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serliana, orientata a cogliere in essa « un’universale sistematica della ragione, come principio di un’integrazione di tutti i rami del sapere e di generale interpretazione dell’esperienza »5, egualmente lontana dal dogmatismo ontologico di Heidegger o di Hartmann e dallo psicologi­ smo metafisico di Scheier. Indubbiamente, su questa via della lotta contro lo psicologismo e il dogmatismo metafisici, Banfi procede con Husserl; mentre, però, tale istanza critica induce Husserl allo sviluppo di una minuziosa indagine sull’esperienza antepredicativa (che è una vera e propria ricostruzione dell’ontologia in termini fenomenologici), avvia invece il filosofo mila­ nese a respingere ogni problema di fondazione ontologica. Per Husserl, infatti, come è noto, all’essenza della coscienza, « co­ me a quella di ogni Erlebnis, inerisce la possibilità di una riflessione idonea a percepire e ad afferrare il suo assoluto esserci »6: di qui il carattere ontologico della fenomenologia trascendentale, anche se in essa non si tratta di « una mera e vuota ontologia formale », ma di una ontologia « anche tale da comprendere in sé tutte le possibilità regio­ nali dell’essere secondo tutte le correlazioni che a questa appartengo­ no »7. Husserl si orienta, quindi, alla costruzione di una « ontologia universale » e sviluppa il suo pensiero in una metafisica o « filosofia universale », intesa non cartesianamente come « sistema universale di una teoria deduttiva », ma come « sistema di discipline fenomenologi­ che, correlative tematicamente, la cui base ultima non è data dall’assio­ ma “ego cogito” ma dall’autoriflessione universale »89 . Qui è il nucleo essenziale della posizione husserliana, che resta com­ pletamente in ombra nella lettura di Banfi ’, secondo la quale, invece, « il problema fondamentale per l’Husserl è quello dell’universale siste­ mazione teoretica, in cui non solo trovi interpretazione unitaria la complessa varietà dell’esperienza, ma si raccolgano in armonico signi­ ficato razionale le differenti direzioni del sapere »1011 . Con ciò, Banfi prospetta il pensiero husserliano nel quadro della ricostruzione filoso­ fica e della sintesi teoretica da lui auspicate 11, sottolineando il carat­ tere sistematico della fenomenologia, ma senza dare rilievo a quello 5. Ree. al yol. VII dello « Jahrbuch » husserliano, « Riv. di filosofia », a. VII (1926), p. 179. 6. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno­ menologica, tr. di E. Filippini, Torino, 1965, p. 100. 7. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, tr. di F. Costa, Milano, 1970, p. 173. 8. Ivi, p. 175. 9. Cfr. F. Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, Firenze, 1961, p. 102. 10. A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, Milano-Torino, 1926, p. 569. 11. Cfr. F. Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, cit., pp. 16-17.

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ontologico e metafisico della stessa. La convergenza di Banfi con Hus­ serl, quindi, è nell’esigenza di ricostruzione sistematica, comune ad en­ trambi, ma tale « importante punto di accordo e di connessione » si tro­ va però, come venne opportunamente rilevato, « nei risultati, non nel processo teoretico attraverso cui vengono conseguiti »12. Alla base di questo atteggiamento, dunque, come pure fu notato con penetrazione, « c’era una scelta che va oltre i nomi di Husserl e di Heidegger, e il loro complesso rapporto. C’è una presa di posizione di Banfi nei confronti della filosofia e dei suoi compiti, del suo significato costante pur nella varietà delle forme. Una presa di posizione valida oggi non meno di ieri, che costituì per Banfi un punto di riferimento fisso nella moltepli­ cità dei suoi interessi e delle cadenze del suo pensiero: per retorica che possa sembrare la frase, una ferma fedeltà alla ragione »1314 . La riconduzione della posizione husserliana all’« universale siste­ mazione teoretica », nella quale « si raccolgono in armonico significa­ to razionale le differenti direzioni del sapere », infatti, non è altro che la riduzione del principio della fenomenologia trascendentale alla con­ cezione banfiana, secondo la quale « i concetti filosofici non rappre­ sentano l’assoluto, ma sono momenti dell’ordine trascendentale d’unità dell’esperienza », cosicché « la filosofia è filosofia della vita, ma nel senso che la vita non è vita — non ha la propria unità — se non nel sistema dell’autonomia trascendentale della ragione, o, in altre parole, se non in quanto è più che vita o processo di relatività, e trascende se stessa, come libertà, nell’idea »M. In questo modo, Banfi collega la sua concezione fenomenologica a quella degli universi formali di Simmel, in quanto non considera la vi­ ta come una struttura formale, bensì come una mera formalità concet­ tuale determinantesi attraverso il processo stesso col quale la ragione unifica l’esperienza sul piano di una sistematicità ideale. Ma, in tale prospettiva sistematica, Banfi, sensibile alle istanze pragmatiche di de­ rivazione anglosassone (ancorché non pragmatista), rifugge da ogni rischio di tendere ad una rappresentazione della totalità del reale nella sua intima essenza, avvertendo che ciò condurrebbe ad una dogmatizzazione dei risultati conseguiti, che finirebbe col ridurre il significato dei risultati stessi ad una visione prestabilita ed inevitabilmente parzia­ le della realtà: in questo pericolo, secondo il filosofo milanese, incorre ogni ontologia ed ogni metafisica, in quanto ogni tentativo di delineare il significato globale dell’essere riduce l’essere stesso ad una determi­ 12. Ivi, p. 106. 13. E. Garin, Banfi e il pensiero contemporaneo, cit., pp. 76-77. 14. A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, cit., p. 208.

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nazione parziale, nella quale si riflette necessariamente la relatività del punto di vista del pensatore che lo adotta 15. È evidente che, in questo modo, l’intuizione eidetica di Husserl vie­ ne trasposta in un problema teoretico configuratosi storicamente in una particolare esperienza culturale, che non rivela affatto o non intende rivelare il senso assoluto dell’essere. Ciò significa che, lasciando in om­ bra, come si è visto, alcuni aspetti essenziali del pensiero husserliano, Banfi in effetti si distaccava dall’ontologia e dalla metafisica del filo­ sofo tedesco ed implicitamente si contrapponeva ad esse, come appa­ re chiaramente dall’affermazione che « l’indirizzo fenomenologico, a volerlo considerare nella sua unità, non è una filosofia, un sistema, una visione del mondo: è piuttosto un tentativo — e sino ad oggi il più organico e il più efficace — di segnare, al di fuori di ogni limite, ridu­ zione, presupposto, le linee di sviluppo organico ed insieme infinito del sapere »16. L’opposizione implicita, qui, è mascherata da una trasposi­ zione del pensiero husserliano nella prospettiva del razionalismo criti­ co; questa movenza si esplicita però in uno scritto occasionato dalla morte del filosofo tedesco, dove Banfi scrive che « postulato e termine insieme della filosofia [husserliana] è l’assoluta realtà di un mondo intelligibile di idee come atto di un io trascendentale e la filosofia stes­ sa a tale grado si conduce con l’autocoscienza di questo assoluto viven­ te in senso platonico »17; e in un altro scritto composto nella stessa oc­ casione dichiara apertamente il carattere dogmatico dei concetti hus­ serliani di « eidos » e di « intuizione eidetica »1819 . In uno dei suoi ultimi lavori, infine, il pensatore milanese, pure riaf­ fermando l’importanza essenziale della fenomenologia di Husserl per la convalida « dell’autonomia e della razionalità critica della ragione », coglie tuttavia in essa la « cristallizzazione della metafisica del pensie­ ro », 1’« oscuramento e irrigidimento di quel piano metodico-sistematico che deriva da una pura e radicale impostazione razionale » e, inol­ tre, « una curvatura intuitiva e valutativa della visione del mondo de­ terminante la direzione e il significato stesso del suo sviluppo »”; il critico è condotto così a mettere in evidenza nella posizione fenomeno­ logica un carattere ideologico e non storico, nel quale si esprime una movenza di tipo reazionario. 15. Cfr. A. Banfi, Riflessione pragmatica e filosofia della cultura, saggio del 1930, nel voi. La ricerca della realtà, Firenze, 1959, pp. 371-381. 16. A. Banfi, Filosofia fenomenologica, « La Cultura », a. X (1931), p. 469. 17. A. Banfi, Edmund Husserl, « Civiltà moderna », 1939, n. 1, p. 55. 18. Cfr. A. Banfi, La fenomenologia e il compito del pensiero contempo­ raneo, « Revue internationale de Philosophie », gen. 1939, pp. 333-335. 19. A. Banfi, Husserl e la crisi della civiltà contemporanea, « Aut-Aut », n. 43-44 (1958), p. 13.

103 Si potrà osservare, come fu detto da più parti, che l’Husserl di cui parla Banfi è fondamentalmente « un Husserl interpretato alla luce delle Ricerche logiche, e in particolare del primo volume delle medesime, della Filosofia come scienza rigorosa e soprattutto del primo volume di Idee », l’Husserl, cioè, che, « nonostante l’arricchimento di qualche let­ tura ulteriore, [per Banfi] resterà sempre tale »20. In Banfi, infatti, non ha esplicito rilievo l’evoluzione del pensiero husserliano attestata in particolare dalla Crisi delle scienze europee, che ne costituisce la con­ clusione. Ma quando da questa considerazione si vuole trarre la conseguenza che il giudizio globale di Banfi su Husserl è inadeguato, perché non tiene conto dei risultati della Crisi, si argomenta con eccessiva superfi­ cialità e si rischia di far torto non solo a Banfi, ma anche a Husserl, nel momento stesso che si tenta di sottrarlo caviliosamente — è il caso di dirlo — alla presa della critica banfiana: il filosofo tedesco asserì rei­ teratamente (ed anche nella Crisi), infatti, la permanenza immutata dei principi della concezione fenomenologica in tutta la sua costruzione. La conclusione in esame, d’altra parte, non potendo implicare ovvia­ mente che Banfi non abbia letto la Crisi, implica necessariamente che egli, avendola letta, non sia stato in grado di capirne la portata rinno­ vatrice. Una conclusione del genere, però, in mancanza della documentazio­ ne di un sopravvenuto obnubilamento della mente di Banfi, è la meno sostenibile fra tutte quelle che si possono escogitare. Ciò discende inop­ pugnabilmente da alcuni fatti incontrovertibili, come, anzitutto, la co­ noscenza a livello altamente specialistico della fenomenologia husser­ liana posseduta dal filosofo milanese, che lo poneva in condizione di valutare fondatamente ogni nuovo apporto dell’ultima opera husserlia­ na; in secondo luogo, la particolare sensibilità della lettura banfiana ad eventuali modificazioni intervenute nei principi della concezione feno­ menologica, nei quali (non senza disappunto, occorre rilevare) aveva in precedenza avvertito un fondamento dogmatico; la simpatia, infine, con la quale Banfi considerava la dottrina di Husserl (avendone tratto con piena consapevolezza, come risulta dalle dichiarazioni sopra rife­ rite, alcuni orientamenti di fondo della propria speculazione) e la con­ seguente piena disponibilità a coglierne col più vivo interesse gli even­ tuali sviluppi innovativi e, dal suo punto di vista critico, migliorativi. Nella Crisi husserliana si ha, è vero, il raggiungimento della consa­ pevolezza dell’impossibilità di costruire la filosofia come scienza; è no­ tissima la celebre affermazione, contenuta in una delle ultime pagine 20. F. Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, cit., p. 98.

104 elaborate per il completamento di quest’opera non ultimata: « La fi­ losofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica — il sogno è finito (der Traum ist ausgeträumt) »21. Di qui, indubbia­ mente, discende un’apertura d’orizzonte, che avvia ad una considera­ zione infinitamente aperta dello sviluppo storico, ma — occorre pre­ cisare — non deriva, invece, come talora fu asserito, un superamento del dogmatismo e del metafisicismo rilevati da Banfi nella concezione fenomenologica. Al « sogno finito », cioè all’idea di una sistemazione scientificamente rigorosa e compiuta, che caratterizzava la posizione husserlia­ na fino alle Meditazioni cartesiane, subentra, con la Crisi, quella di una considerazione sistematica dello sviluppo storico, con un rovescia­ mento di prospettiva analogo, sotto certi aspetti, a quello effettuato da d’Alembert col passaggio dall 'esprit de système àll’esprit systématique, che introduce indubbiamente un’apertura al mondo della vita e della storia, ma resta pur sempre incardinato sul principio dogmatico del­ l’assoluta scientificità. L’attenzione rivolta nella Crisi alla Lebenswelt, infatti, non innova realmente l’atteggiamento husserliano, ma ne mette in luce un aspetto presente da sempre in esso, anche se non rilevato precedentemente in modo esplicito e sistematico.

Il tema del mondo della vita (della Lebenswelt) — come fu osser­ vato — non è una novità nel campo della ricerca fenomenologica. Attra­ verso gli inediti oggi sappiamo che il problema di una dimensione pre­ categoriale, pre-scientifica e intuitiva affiora in Husserl molto presto, e poi motiva dall’interno gran parte del suo lavoro. Tuttavia la Crisi fa del tema della Lebenswelt una ricerca esclusiva e fondamentale, e la indirizza con una chiarezza ed una maturità di propositi, che lo stesso Husserl avvertì come un inizio nuovo e alla fine soddisfacente della sua fenomenologia22. Sulla novità della posizione assunta da Husserl nella sua ultima ope­ ra occorre però una precisazione.

Il mondo della vita — continua, infatti, lo studioso ora citato — è, in

21. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen­ dentale, Appendice XXVIII, tr. it. di E. Filippini, Milano, 19683, p. 535. In proposito si può vedere G. Forni, Il sogno finito. Saggio sulla storicità della fenomenologia, Bologna, 1967. 22. C. Sini, Introduzione all’antologia E. Husserl, La fenomenologia, Pa­ lermo, 1966, p. 26.

105 generale, il mondo dell’« opinione » e della doxa. Husserl esagera quando dichiara, nel corso della Crisi, che l’assunzione di questo mondo come specifico tema filosofico non trova precedenti nella cultura mondiale, perché dimentica in parte il contributo di Parmenide (che pone il pro­ blema, ma poi lo rifiuta), di Platone (che lo accetta in tutta la sua con­ traddittorietà), di Aristotele (che, ritornando anche ad Eraclito, da tale problema dichiara di voler prendere le mosse), ma soprattutto Husserl dimentica in parte Hume (al quale si sente tuttavia molto vicino) e del tutto Hegel, che nella sua Fenomenologia dello spirito ci dà il primo sto­ rico tentativo di sollevare il sapere apparente, o « opinione », a sapere rigoroso e scientificamente dispiegato. Tuttavia Husserl ha ragione di sot­ tolineare la portata radicalmente innovatrice della propria ricerca23.

L’aggancio del tema husserliano della Lebenswelt alla tradizione metafisica, d’altra parte, è stato recentemente rilevato, notando che l’essere a cui allude il « mondo della vita » rivela « un recupero delle origini parmenidee attraverso tutta l’autentica tradizione ontologica (platonica, augustiniana, rosminiana) », cosicché, in conclusione, ciò, addirittura, « che nell’ontologismo critico-ascetico è ben esplicito ed articolato, resta invece in Husserl come allo stato di abbozzo e di ten­ tativo »24. In definitiva, dunque, alla luce della Crisi, « in quanto scienza del­ la vita, la fenomenologia è scienza del “relativo”, ma non è essa stessa relativa. Essa è piuttosto infinita: infinita approssimazione all’ideale di un sapere autentico e genuinamente fondato »25, sulla base, ovviamen­ te, della convinzione, inerente alia prospettiva ontologica d’ogni tem­ po, che il sapere, per essere genuino ed autentico, abbisogna d’una fondazione assoluta. Nella Crisi, dall’ontologia delle essenze si passa, in altri termini, al­ l’ontologia del mondo-della-vita, che si pone come ontologia rinnovata attraverso il rovesciamento trascendentale ed è condotta a porre l’espe­ rienza pura come misura della coscienza eidetica, anziché, come in pre­ cedenza, la coscienza eidetica quale criterio dell’esperienza pura. Con ciò, tuttavia, non si perviene ad un cambiamento sostanziale d’imposta­ zione del problema, in quanto il rovesciamento di posizione, pur essendo stato più volte vantato dai filosofi come un rinnovamento radicale, non modifica affatto il rapporto reciproco fra gli elementi della costruzione, cosicché esso si limita in realtà ad introdurre un cambiamento di pro­ spettiva, senza tuttavia pervenire ad un effettivo mutamento oggettivo. 23. Ibid. 24. S. Buscaroli, La « Lebenswelt » husserliana: dalla « scienza rigorosa » all’ontologia impropria, « Riv. Rosminiana», a. LXXVII (1983), p. 279. 25. C. Sini, Introduzione, cit, p. 29.

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L’ontologia, quindi, resta sempre alla base della concezione feno­ menologica: nella nuova prospettiva, essa non appare più come determinatrice delle idee, ma come rivelazione progressiva delle idee stesse. Non a caso fu osservato che la fenomenologia, da dottrina delle idee si trasforma così in idea essa stessa della fenomenologia26 e l’indagine filosofica si traduce conseguentemente da costruzione scientifica del sistema compiuto in ricerca orientata dalla norma ideologica ideale: il « sogno finito » si proietta pertanto in una meta posta all’infinito. L’idealismo ontologico resta dunque l’elemento di fondo della posi­ zione fenomenologica e la sorregge come aspirazione costante ed essen­ ziale pure nel momento in cui essa vorrebbe superarlo. Eugen Fink, nel suo abbozzo per il completamento della Crisi, nota che il passaggio dal­ la psicologia alla fenomenologia (il quale, attraverso Vepoché elimina il presupposto del « terreno nel mondo », originando il proprio para­ dosso), rende il mondo stesso anche tema analitico, « riconducendo tut­ te le articolazioni “grezze” e già date nella vita intenzionale, le inten­ zionalità degli atti e le intenzionalità dell’orizzonte più facilmente rile­ vabili, a funzioni costitutive più profonde », cosicché « essa viene a trovarsi anche in un’analitica della funzione costitutiva della coscienza del mondo »27. In tal modo, « la filosofia trascendentale ha, rispetto al­ l’orizzonte limitato della psicologia (dopo la riduzione), che è legato all’ampiezza dell’auto-obiettivazione, il proprio orizzonte assoluto »28. Questa, secondo Fink, è la conclusione a cui avrebbe dovuto giun­ gere la Crisi, ma anche la riassunzione, attraverso la teorizzazione del­ la « nuova storicità »29 propria della vita scientifica, della dualità tipica dell’ontologia, che dice Husserl, permette « di dedurre verità relative praticamente sufficienti, valide per tutte le situazioni possibili », con­ ferendo « alla verità obiettiva un significato per qualsiasi prassi »30. Egli si propone così il raggiungimento dello scopo conclusivo, che è quello « di conoscere la verità obiettiva che attraversa la relatività di tutte le situazioni possibili »31. Il rischio della fenomenologia husserliana, anche nella sua fase fi­ nale, sembra dunque restare quello, indicato da Banfi, di « cristallizza­ re ontologicamente dei concetti e dei principi che sono un prodotto sto­ rico dell’esperienza vissuta e del pensiero, trasformando il rilievo sto­ 26. Cfr. A. de Muralt, L’idée de phénoménologie. L’exemplarisme husserlien, Paris, 1958, p. 78. 27. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, tr. cit., p. 542. 28. Ivi, p. 543. 29. Cfr. ivi, p. 535. 30. Ivi, p. 533. 31. Ibid.

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rico della loro dialettica nell’analisi astratta della loro struttura defi­ nitiva. Pericolo grave — sottolinea il filosofo milanese — se determi­ na staticamente i fondamenti razionali del pensiero scientifico e più grave ancora se canonizza, cristallizzandolo in questo modo ... il sistema dei valori. È qui che si nasconde quel momento di “reazione” che, ben a ragione, Husserl respinge con l’intenzione essenziale della sua filoso­ fia »32. La lettura banfiana della fenomenologia, quindi, per un verso si richiama ad un Husserl nel quale emergono istanze che sono peculiari al razionalismo critico del lettore e che si riflettono nell’autore studiato solo a prezzo di una deformazione della sua concezione effettiva; per al­ tro verso, essa rileva criticamente in questa il limite ontologico-razionalistico, che tende irresistibilmente a precludere il senso reale della sto­ ria con l’istanza soggiacente della riconduzione di ogni evento all’unità sistematica: ma ciò, in definitiva, significa riconduzione del nuovo al déjà vu, nel quale il carattere di irripetibilità, che costituisce la novità in concreto, va irrimediabilmente perduto.

32. A. Banfi, Husserl e la crisi della civiltà contemporanea, cit., p. 18.

8. FENOMENOLOGIA DELLA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE di Valerio Tonini

1. Il tempo di Husserl In occasione dello Hegel-Kongress tenuto a Stoccarda nel maggio 1975, H.G. Gadamer in una conferenza dal titolo molto attuale: « Il carattere filosofico delle scienze e la scientificità della filosofia » ha os­ servato che « i sistemi filosofici eretti negli ultimi due secoli sono una diretta conseguenza dello sforzo di conciliare l’eredità della metafisica con lo spirito della scienza moderna »l. Questa fu anche l’intenzione di Husserl — e quindi potremo porci la questione se e fino a che punto Husserl — ha affrontato o realizzato questa “intenzione”. Verso la metà del secolo, fra gli anni ’30 e ’50, esaurito il ciclo del neopositivismo, il problema epistemologico si poneva in termini di rap­ porto fra “forma” e “contenuto” della rappresentazione scientifica. Si trattava, pur sempre, del problema delle formulazioni rigorosamente matematiche della natura esperita, ma più in generale era tutto il pro­ blema del rapporto fra prassi e teoria da dover essere formulato prima ancora di poter affrontare il rapporto fra fisica e metafisica. Quando, nel ’54, comparve postuma l’ultima e decisiva opera di Husserl: Die Krisis der europäischen Wissenschaften1 2 e leggemmo quel primo potente capitolo dell’opera che ha precisamente per titolo: « La crisi delle scienze europee quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità europea », fu, per gli uomini della mia generazio­ ne che avevano vissuto di persona il tormento di quella crisi, la sco­ perta di qualcuno che aveva realmente sofferto quello che tutti noi avevamo patito negli stessi anni. Husserl aveva realmente svolto, in quel capitolo da lui composto 1. La conferenza è contenuta in H.G. Gadamer, La ragione nell'età della scienza, Il Melangolo, Genova, 1982, con introduzione di G. Vattimo. 2. La prima traduzione nel mondo fu quella italiana: E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di W. BiemeL Il Saggiatore, Milano, 1961.

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negli anni ’35-’36 — ma che noi, in Italia, ignoravamo — i profondi motivi che nei primi trent’anni del nostro secolo avevano sconvolto, in modo radicale, il pensiero classico europeo. Basterà che io ricordi appena i nomi degli uomini con i quali s’inizia il secolo: — Planck, Einstein, Freud, Picasso, Joyce — per ricreare, fra noi, la temperie epo­ cale che sarà descritta da Karl Jaspers nel Die geistige Situation der Zeit (opera scritta nel 1930). In quella temperie che fu anche chiama­ ta “distruzione della ragione” o “irrazionalismo moderno” (Lukàcs, 1952) si era finito col pensare che perfino le scienze fisico-matemati­ che non possedessero quasi più significato fenomenologico; o perlome­ no si era molto incerti sul loro significato eidetico, cioè di esplicazione razionale del vissuto mondano. Per superare quest’incertezza sarebbe stato necessario ritornare « zu dem Sachen selbst ». Ma in qual modo? Questo il motivo dell’epoché husserliana, intesa come fase istruttoria di una ricerca enormemente complessa. Husserl che non identificava il suo discorso con quello della logica formale, cercava nell’esercizio stesso della riflessione filosofica qualche cosa di fondante le grandiose nuove discipline scientifiche. Altri, come nel caso mio, stava invece cer­ cando nell’approccio operativo, direi addirittura genetico e antropolo­ gico, una nuova strutturazione epistemologica. Era infatti successo que­ sto: che al rigorismo assiomatico di Hilbert e alle chiare formulazioni ipotetico-deduttive era subentrato un incerto convenzionalismo e un empiriocriticismo di vecchio stampo machista che offriva soltanto una specie di paravento provvisorio, occasionale, al fisicalismo sperimenta­ le che in definitiva non si preoccupava affatto di cercare una giustifi­ cazione esterna alla sua efficientissima attività. Ma di tutto questo eravamo molto scontenti: il problema del significato delle “ipotesi”, delle “formule”, delle “dimostrazioni” nelle scienze naturali era diven­ tato sempre più spinoso. In particolare: che senso avevano in realtà le formule di trasformazione di Lorentz? Qual era il significato della rela­ tività particolare di Einstein? Che senso avevano le formule di indeter­ minazione di Heisenberg? In che cosa poteva giustificarsi l’acuto con­ trasto fra Einstein e i fisici quantici? Era possibili concepire una cosmo­ logia? Era possibile spiegare gli eventi biologici? Che senso aveva il principio di complementarità di Niels Bohr? Che significato hanno il principio di conservazione dell’energia, dell’equilibrio e del divenire entropico? Può la vita essere basata sulle leggi della fisica? Nel febbra­ io 1943 comparve What is life? di Schrödinger. È possibile una teoria unitaria di tutto questo? E infine quali pos­ sono essere i pensieri degli uomini implicati in tutte queste enormi dif­ ficoltà?

110 Per questo, come ha più volte detto Husserl, bisognava ricominciare tutto da capo.

2. Continuità contro discontinuità

Proprio per arrivare « zu dem Sachen selbst », un esame, sia pure sommario, del fatto scientifico può servire a ben vagliare l’importanza del pensiero di Husserl così profondamente radicato nella realtà della nostra epoca. Poiché la teoria della relatività particolare, formulata da Einstein nel 1905, è stata, in ordine di tempo, la prima delle dottrine rivoluzio­ narie avanzate dalla fisica teorica nel nostro secolo, di qui si dovrà cominciare. L’istanza critica che allora ci proponemmo può essere for­ mulata con questo interrogativo: « il modo in cui noi ritagliamo il no­ stro spazio e il nostro tempo ha soltanto valore relativo e dipendente dal sistema di riferimento cui ci troviamo aggregati »? (L. De Broglie). In realtà la relatività particolare non stabiliva altro che un princi­ pio d’invarianza cinematica lineare che Einstein definiva nella seguente maniera: « le leggi, secondo le quali si modificano gli stati dei sistemi fisici, sono indipendenti dal fatto che questi cambiamenti di stato ven­ gano riferiti all’uno o all’altro dei due sistemi di coordinate che si tro­ vino in relativa reciproca traslazione uniforme »3. Anche i fenomeni elettromagnetici ubbidiscono a questo principio che conferma in pieno la relatività galileiana la quale risponde a un unico criterio empiriologico generale: un fenomeno fisico si svolge sempre nella stessa maniera in una determinata struttura fisica e deve perciò essere descritto nella stessa forma — cioè con una formula invariantiva — indipendente­ mente dalle misure relative che ne traggono diversi possibili osserva­ tori in reciproco moto. (Per esempio rettilineo uniforme). Senonché attraverso illazioni del tutto fantastiche erano venute fuo­ ri delle interpretazioni paradossali, come quelle dei due famosi gemel­ li di Langevin, che avevano completamente stravisato il significato pro­ fondamente realista e strutturale della teoria della relatività4. E ciò con grande amarezza dello stesso Einstein che il 3 marzo 1947 doveva scrivere a Max Born: « della mia concezione del mondo fisico non sa­

3. A. Einstein, Zur elektrodynamik bewegter Körper, « Annalen der Phy­ sik », 17, 1905, pp. 891-921. Scritti fondamentali di Einstein sono inclusi in V. Tonini, Einstein e la relatività, Editrice La Scuola, Brescia, 1981. 4. Cfr. V. Tonini, Fondamenti metodologici della relatività strutturale, Cen­ tro int. di comparazione e sintesi, Roma, 1950.

Ili prei darti una giustificazione che ti appaia in qualche modo razio­ nale »5. L’amara espressione di Einstein si riferiva al grosso problema Kon­ tinuität versus Diskontiuität che nasceva da tre difficoltà di fondo costi­ tuenti rispettivamente: 1. il problema della completezza di una teoria fisica; 2. il problema della compatibilità di teorie antinomiche (determi­ nista e indeterminista); 3. il problema della valutazione dei rapporti fra teoria matematica e realtà fattuale. Quando, nel 1927, Werner Heisenberg, stabilì quelle relazioni d’in­ certezza e d’indeterminazione che Max Planck definì come qualcosa di assolutamente inaudito per la meccanica classica, io credo che la vecchia buona anima del saggio, prudente e guardingo Davide Hume, di questo primo acuto investigatore del principio di causalità, abbia avuto un sussulto. « Sepporre — ha scritto Heisenberg — che dietro l’universo statistico percepito, si nasconda un altro universo vero, per cui varrebbe il principio di causalità, una speculazione di questo gene­ re ci sembra, vogliamo affermarlo esplicitamente, sterile e priva di senso ». Erano parole di una gravità eccezionale. Per cui si sarebbe dovuto concludere che tutta una cultura — la cultura europea — era ormai fi­ nita e che ormai andava capovolto, in radice, tutto quel ciclo di pen­ siero che dipartitosi dai filosofi greci del VI secolo a.C. era arrivato alle idee chiare e distinte di Cartesio. L'indeterminismo quantico, coniugandosi con il machismo e con alcune vedute neopositiviste, aveva finito col proclamare che il deter­ minismo fisico è soltanto un ricavato della nostra grossolana esperien­ za sensoria macroscopica e che il principio di causalità era soltanto un astratto artificiale. Se quel che è osservabile non è esattamente deter­ minabile, non resta che accettare l’indeterminato e il probabile come veduta della realtà, dell’unica realtà offerta alla nostra possibilità d’os­ servazione. « In ogni caso — disse Schrödinger — l’onere della prova spetta ai campioni di un assoluto determinismo e non a caloro che lo mettono in questione ». Si riteneva, infatti, che nulla fosse definibile, dello stato di un si­ stema fisico, fino a quando non sì provochi in esso un evento osserva­ bile. Non sappiamo quindi affatto come il sistema si comporti durante il passaggio dall’uno all’altro evento. Non sappiamo quindi come ven­ 5. A. Einstein, H.M. Born, Briefwechsel 1916-1955, München, 1969; tr. it. A. Einstein, M. Born, Scienza e vita, Einaudi, Torino, 1973.

112 gono a determinarsi questi eventi. Noi raccogliamo soltanto gli effetti, le misure delle catastrofi che noi stessi provochiamo in qualche cosa di indefinito. La causalità fisica è solo apparentemente rigorosa: gli eventi si svolgono secondo il mero caso attraverso infinite e non di­ scernibili interdipendenze. Cercare oltre l’indeterminatezza, una ragio­ ne causale è una fantasia assolutamente gratuita; soltanto per il fatto che noi generalmente osserviamo risultati macroscopici dovuti a un nu­ mero enorme di processi elementari, riscontriamo approssimativamente la loro obbedienza a leggi semplici le quali non sono altro che risultati di media statistica. La validità indiscussa del principio di continuità causale non ha quindi più ragione d’essere; due fattori, l’impossibili­ tà intrinseca della determinazione dello stato fisico del sistema (espres­ sa dal principio di non-commutazione degli operatori) e la constatazio­ ne sperimentale che l’intima struttura degli enti fisici ubbidisce soltan­ to a regole statistiche differenti (Boltzmann, Bose-Einstein, Fermi-Dirac) incidono profondamente nella credenza di una legge unitaria di causalità. Quando poi si vorranno trasferire questi concetti al mondo biologico, alla sua organizzazione e al suo fondamentale ordinamento funzionale, l’interrogativo di Erwin Schrödinger aveva posto nel suo libro What is Life? (1944) rimaneva senza risposta. La differenza filosofica fra l’attitudine di Einstein e quella di Bohr era precisamente questa: Einstein sostiene il carattere dì verità sempre più generale del pensiero scientifico; tanto che Rosenfeld, della scuola di Copenaghen, andava predicando che Einstein aveva provocato una mistificazione impadronendosi della bellezza formale della sua pro­ pria creazione mentale fino a elevarla al rango di modello universal­ mente infallbilie. Invece Bohr sottolinea la continua variabilità delle nostre opinioni in base alle conoscenze empiriche che volta a volta riusciamo ad acquisire attraverso l’esperienza dei fatti naturali6.

5. La ricostruzione realista Il problema non era dunque soltanto fisico, non era soltanto bio­ logico, era il problema esistenziale ed eidetico di una cultura umana che non poteva più iscrìvere una forma o un suo disegno razionale in una Natura che appariva soltanto come un groviglio di eventi incerti. Una Natura che continuamente disfa quello che oggi ha fatto; e tutto 6. Per un ampio ragguaglio sulla questione cfr. il mio saggio 11 testamento scientifico di Einstein e la filosofia della fisica oggi, « La Nuova Critica », n. 5051, 1979.

113 fa invano. Che non ama affatto, come voleva Newton, la semplicità del­ la meccanica astratta, bensì fa tutto con grande sperpero; sì che è im­ possibile discernere il sufficiente e il necessario dall’aleatorio e dal ri­ dondante; onde nulla è bastevole a spiegare nulla, e di nulla si può discernere una causa naturale. Il caso è la regola della vita. L’aspro contrasto fra determinismo e indeterminismo, fra norma e probabilità, fra continuità e individuazione, si traduceva quindi nel primo e nell’ultimo dei radicali problemi che l’uomo pone a se stesso: come può il singolo uomo o una qualsiasi collettività umana autocostituirsi con una qualsiasi etica o scienza dei valori o nomologia, ovvero iscrivere la sua ragione e la sua responsabilità nel mondo, ove non si sappia neppure se questo mondo sia retto da leggi inderogabili alle quali tutte le cose devono ubbidire; oppure tutto è una successione im­ perscrutabile di eventi caotici per cui ogni cosa sarebbe solo il risultato effimero e aleatorio di una imprevedibile vicenda di innumerevoli even­ ti fortuiti? La risposta, aveva detto Kant, non appartiene certo alla scienza, perché la legge morale sta dentro di noi. Ma come posso dire — ripeto la domanda — questo è bene e questo è male, e quindi assumere una mia propria responsabilità di decisione, se ogni cosa è solo il prodotto effimero e aleatorio di un’imprevedibile vicenda di innumerevoli even­ ti fortuiti? Fu proprio negli anni della guerra, quando della crisi husserliana, in Italia, ancora non si sapeva nulla o quasi, che io stesso avvertii come, per uscir fuori da tante angosciose incertezze, fosse necessario rifonda­ re su una forte base operativa e realista la giustificazione di una rigo­ rosa razionalità fenomenologica senza la quale ogni sforzo per risolve­ re l’estrema complessità della questione continuità-singolarità sarebbe fallita7. Fu appunto allora che, sostituendo all’idea astratta della relatività cinematica di Einstein, la concreta esperienza della relatività struttu­ rale, stabilii che qualunque sia la posizione del possibile osservatore, i due concetti, operazionalmente definiti, di azione reale osservabile (al limite il quanto d’azione di Planck) e di tempo proprio irreversibile, costituiscono sempre e in ogni circostanza, il nucleo originario di qual­ siasi indagine del mondo naturale e costituiscono quindi il punto di partenza di ogni teorizzazione. Si stabiliva così un preciso punto di convergenza e di necessaria differenziazione fra fisica del continuo e 7. Cfr. in proposito: V. Tonini, Déterminisme et indéterminisme, « Scientia », 1948; e la più ampia bibliografia contenuta in Aa.Vv. Saggi di storia del pensiero scientifico, Jouvence, Roma, 1983.

114 fisica dei quanta, fra meccanica ondulatoria (d’ordine analogico) e meccanica razionale newtoniana5 *89. Questa ricostituzione realista fu secondo me d’importanza fonda­ mentale e in ciò mi trovai d’accordo con gli scienziati sovietici Fock e Alexandrov che si erano posti, contemporaneamente a me, gli stessi problemi, naturalmente ignorandoci a vicenda

4. Informazione e coniugazione dei sistemi razionali dei concetti Una seconda acquisizione importante fu l’introduzione nelle scien­ ze fisiche e biologiche del concetto d’informazione che venne a chiude­ re in modo che io giudico molto efficace e probabilmente definitivo, il problema della formazione delle teorie scientifiche, cioè il rapporto fra livello sperimentale e livello teoretico. Si sono venuti così a formare quei nuovi concetti epistemologici che sintetizzo nel principio di coniugazione: la struttura della realtà non è mai rappresentabile, nelle sue innu­ merevoli varietà processuali, con un unico sistema esplicativo, ma è adeguabile e controllabile mediante la coniugazione di diversi sistemi di modelli che si raggruppano in quattro paradigmi tipici: 1. determinista (riguardante processi lineari per i quali si ammette la decomposizione e ricomposizione degli effetti); 2. probabilista (riguardante processi ad andamento stocastico che seguono le leggi dei grandi numeri); 3. indeterminista (sistemi che ammettono la non-commutazione degli operatori); 4. informazionali e cibernetici (sistemi capaci di autocontrollo e di autoorganizzazione mediante elaborazione delle informazioni interne). La ricerca operativa e l’approccio sistemico giustificano le scelte alternative che lo scienziato deve compiere per ottenere una rappresen­ tazione sempre più soddisfacente della realtà esperita.

5. La conoscenza eidetica della natura

Io credo che con la chiara formulazione del principio di coniuga8. Un completo ragguaglio dell’argomento può trovarsi in V. Tonini, Le scelte della scienza, Nuova Universale Studium, Roma, 1977. 9. Cfr. La teoria fisica in Urss, « La Nuova Critica », n. 9, 1960, contenente gli articoli: A.D. Alexandrov, Contenuto filosofico e importanza della teoria

115 zione si sia raggiunta una precisa coscienza epistemologica di ciò che chiamerei realismo razionale, tale che la scienza risulta di per sé essere vera e propria fenomenologia in quanto capace di controllare direttamente, in tempo reale, lo svolgersi processuale dei fenomeni naturali, dagli ultra microscopici agli astrofisici; cioè di seguire in tempo reale, mentre esse avvengono, le metamorfosi della natura. Penso cioè che si sia arrivati a una conclusione non soltanto episte­ mologica ma eidetica in senso forte del valore cognitivo della scienza. Non solo per gli straordinari risultati conseguiti dalla scienza in que­ sti ultimi trent’anni, ma per il modo stesso come essa opera produttiva­ mente nei suoi complessi procedimenti interdisciplinari, io non esiterei più ad affermare che tutto questo provoca una vera e propria cono­ scenza eidetica della Natura-, se per eidetica s’intende la inesauribile ricerca attiva del senso interno, intimo dei processi naturali e delle me­ tamorfosi della realtà, al di là di quanto può esservi di soggettivo nel lavoro del ricercatore e di vincolante nelle condizioni teoriche e tecni­ che in cui avviene ogni sperimentazione. La ragione della scienza non consiste più tanto nelle astrazioni, entificazioni e teoretizzazioni formali ch’essa compie con i suoi lunghi processi alternatamente induttivi e deduttivi, ma in quanto la scienza è partecipazione della vita del pensiero cosciente alla vita della natura. Questa partecipazione eidetica nasce in seno al bios ed è proprio nell’affrontare il modo di comportarsi delle creature viventi che si ri­ vela il fatto che la storia della scienza non è fatta soltanto di esperienze e di teorie, di dubbio metodico e di argomenti logici, di ipotesi ardite e di paradigmi razionali, ma di motivazioni. Ed è precisamente questa la ragione per cui una procedura operazionale, qual è la metodologia sistemica, si è venuta a trovare a fare i conti con una “fenomenologia trascendentale”, senza dover mettere “fra parentesi” la fenomenologia “naturale” vissuta da tutta l’attività umana, reale e ideale, che costi­ tuisce l’Erlebniss, cioè il vissuto, il sofferto, lo sperimentato. Non sta a me giudicare se con questo siamo rimasti ancora al di sotto della problematica trascendentale di Husserl o se l’abbiamo oltre­ passata. La mia descrizione ha avuto lo scopo di ricordare come la mia generazione ha vissuto la crisi delle scienze europee e quale sia stata l’incidenza del pensiero di Husserl nell’intenzione di superarla. A mio giudizio Husserl ha specialmente e correttamente impostato il proble­ ma del rapporto fra quelle che Galileo chiamava le « matematiche perdella relatività; V.A. Fock, L’interpretazione della meccanica quantistica; V. To­ nini, Un confronto ormai necessario. 10. Vedi V. Tonini, Le scelte della scienza, cit.

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fezioni » e la realtà fattuale; riferendosi giustamente, per ottenere que­ sto, a\Vintenzionalità astrattiva che risale ad Aristotele — come vuole Brentano 11— e a Tommaso D'Aquino. Questo avvenne specialmente nella prima fase della sua attività e per questo non ho che da riferirmi senz’altro all’ottimo ragguaglio che ne ha dato di recente Angela Ales Bello 11 12. Per quel che riguarda invece le scienze biologiche e la psicologia mi pare che Husserl non avesse ancora nessun elemento per poter orga­ nizzare una rigorosa ricerca fenomenologica sulla natura biopsichica dell’uomo. La mia conclusione fu che mentre la riduzione fenomeno­ logica di Husserl mette fra parentesi — cioè sospende il giudizio esi­ stenziale naturale, sia nei riguardi del soggetto sia nei riguardi dell’og­ getto — la volontà di conoscere vive un’unica intenzione, quella di voler capire, in un unico contesto, realtà e prassi, tecnica e teoria. Questo momento maieutico già vissuto da Socrate, figlio di una levatrice, va sempre oltre ogni deduttivismo, induttivismo, meccanicismo, psicolo­ gismo, scientismo, relativismo, tecnicismo e razionalismo, per far vive­ re insieme corpo, mente, psiche, scienza, realtà e tecnologia. Così l’epistemologia — che è teoria e storia dell’apprendimento scientifico, cioè del pensiero scientifico nell’atto del suo formarsi — riscatta nella realtà della prassi la riduzione husserliana, per affermare, nel rapporto prassi-teoria il valore eidetico delle scienze esercitate in concreto e non “immaginate” idealmente. La verità della scienza è un valore intrinseco alla scienza stessa in quanto questa verità è contemporaneamente garantita dalla coerenza interna (anche ipotetica) e dal controllo esterno sperimentale, di fatto tecnicamente selettivo, secondo una necessaria progettualità (intenzio­ nalità). Nella costruzione dell’epistemologia dei sistemi la distinctio phenomenologica di Husserl è superata non tanto dialetticamente, quanto sinetticamente per la necessità di operare in maniera intradisciplinare fortemente specializzata, coniugando fra di loro teorie fisiche costruite secondo quattro paradigmi alternativi: determinista, probabilista, in­ determinista, informazionale. Ogni teoria, ossia ogni sistema razionale di concetti, si riferisce all’uno o all’altro di questi paradigmi e in quan­ to tale è definito e consistente, cioè perfettamente coerente in se stesso.

11. F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, cit. da S. Vanni Rovighi in Aa.Vv. Omaggio a Husserl, Il Saggiatore, Milano, 1960. 12. A. Ales Bello, Husserl e le scienze, La Goliardica Editrice, Roma, 1980. Cfr. anche F. Voltaggio, Fondamenti della logica in Husserl, ed. Comunità, Mi­ lano, 1965.

117 La razionalità sistemica non è né riduttiva, né totalizzante, in quan­ to deve render conto delle scelte che lo scienziato deve necessariamen­ te compiere in quanto è impossibile accumulare tutte le conoscenze in un unico sacco senza fondo, né è possibile ridurle a questo o a quell’ele­ mento costitutivo, né a un’unica metodologia deduttiva o induttiva. Ri­ compare qui la grande antinomia husserliana: la distinzione della logi­ ca in apofantica, che si può trattare matematicamente, e in fenomeno­ logica che non si può trattare matematicamente se non statisticamente con margini d’incertezza che l’indeterminismo heisenberghiano rende invalicabili. Fra momento percettivo e momento categoriale c’è quindi un rapporto che è stato fino ad oggi considerato ambiguo 13. Questo è il punto nodale sul quale informatica e biopsicologia sono state chia­ mate a intervenire. Husserl, ai suoi tempi, non poteva che far interve­ nire la sua “intenzionalità”. Qui il discorso diventa molto sottile: perché se da un lato il cosid­ detto principio cosmologico puro ci avverte che l’espressione di una legge naturale non può che essere intesa come formula invariantiva in­ dipendente dalla posizione e dal tempo del possibile osservatore (tale la formula einsteiniana E = mc2) lo stesso principio di scelta e di co­ niugazione finisce con l’andare oltre la categorizzazione in sistemi satu­ ri (vollständig). La questione è estremamente delicata perché in questo stesso mo­ mento nel quale l’epistemologia ha compiutamente risolto il problema ch’essa stessa si era posto, della formalizzazione categoriale dell’innu­ merevole implicanza del contingente, rivela che l’informazione, il mo­ mento percettivo ed a più forte ragione il momento osservativo e spe­ rimentale, è tale solo in quanto si realizza nell’ambito di un certo livel­ lo strutturale organizzato su precedenti informazioni, cosicché il “mo­ mento categoriale” esiste solo nell’ambito di un pensiero formale già co­ stituito e che una volta, diciamo prima di Boltzmann, era ritenuto rigo­ rosamente causale. Stabilito questo, riconosciamo che la psicologia non può rientrare se non forzosamente in una delle quattro mentovate forme categoriali. Il che vuol dire che non è possibile una logica formale della psicologia e di tutto ciò che la coinvolge in maniera più o meno diretta, come la sociologia, la pedagogia, l’etica. Ed ecco che proprio attraverso la costruzione epistemologica informazionale si è acquisita una nuova possibilità di apertura: lo schema informazionale non ha mai da essere inteso solo computisticamente. Es­ 13. R. Raggiunti, Husserl dalla logica alla fenomenologia, Le Monnier, Fi­ renze, 1967.

118 so esprime una capacità di autoregolazione progressiva non solo selet­ tiva, ma progettuale e quindi elettiva, che applicata all’antropologia ci apre ad una comprensione eidetica non solo del mondo nella sua realtà multiforme, ma dell’essere dell’uomo in questa realtà. La psicologia che Husserl chiama scienza “emblematica”, alla qua­ le tutte le altre scienze debbono in certo qual modo essere ricondotte, passata la morbifera frenesia freudiana, è diventata scienza biopsichi­ ca e sta ora rinnovando tutti i suoi metodi di analisi dell’organizzazio­ ne del sistema neuronico centrale per arrivare alle espressioni signifi­ cative che rendono la psicologia, “scienza dello spirito”. In termini più espliciti: sta percorrendo con rigore scientifico quel « cammino tortuoso del processo attraverso il quale Husserl ha sofferto e di volta in volta accettato e ripudiato una serie di distinzioni fra psicologia ed Erkenntnistheorie »'4.

6. Psicologia eidetica La psicologia descrittiva ed empirica è divenuta genetico-sperimentale. Non si tratta però di ancorare, bensì di radicare gli studi psicolo­ gici nell’organizzazione del sistema neuronico centrale, liberandoli da ogni superficialità descrittiva di esperienze rudimentali. Né si tratta di fare dell’interdisciplinarità di superficie, bensì di penetrare a fondo nel senso della storia del pensiero scientifico europeo per superare la salutare crisi senza la quale non avremmo potuto riacquistare fiducia nel mestiere di uomini di scienza. Non si può capire la biologia se non si capisce la fisica. La questio­ ne è stata posta da Schrödinger. Ma non si può capire la biologia se non si capisce l’intenzione scientifica dell’uomo. La questione è stata posta da Husserl. I sistemi statistici riguardano la probabilità di fatto; i sistemi inde­ terministi riguardano un’incertezza di diritto. Esiste un sistema che sia al tempo stesso di causazione naturale o di causazione motivazionale? Che possa svincolare il mondo psichico dal determinismo causale (ne­ cessità meccanica), dal probabilismo statistico (caso), dall’indetermi­ natezza del misurabile? È un fatto che una struttura informazionale ci­ bernetica come quella funzionante nel cervello umano, è squisitamente selettiva e autopoietica, e quindi può diventare proiettiva e quindi elet14. Le parole fra virgolette riportano quasi alla lettera ciò che A. Ales Bello ha scritto nel suo cit. Husserl e le scienze, ripercorrendo accuratissima­ mente, anche su inediti, il cammino percorso da Husserl.

119 ti va secondo motivazioni progettate. È questo qualche cosa di “causa­ le” e di determinabile a priori? Alcuni scienziati pensano di potersi riallacciare direttamente ad Husserl per presentare la eidetica come « Mathematik des Geistes ». Io no credo che possa costituirsi una “comprensione” psicologica, una Phänomenologische Psychologie, se non si passa, prima, attraver­ so un’indagine del processo bioantropico che si diparte, sempre, da queirinteriore “senso” selettivo per cui ogni cellula vive in simbiosi con la struttura che la condiziona e alla quale essa reagisce per vivere. Concludo dicendo che una rigorosa impostazione epistemologica come quella che ho sommariamente descritto può veramente aprire la strada a una più profonda comprensione ermeneutica della psiche uma­ na e a una chiara coscienza del valore di verità del conoscere razionale a fronte di una realtà altrimenti indecifrabile 15.

7. La psicologia del profondo La fenomenologia della psiche: due parole mitiche che vogliono esprimere qualche cosa di profondamente avvertito dalla coscienza di ogni uomo. La fenomenologia psicologica non può più essere conside­ rata, come nella Enciclopedia Britannica, « pura » psicologia. Ripor­ tiamo qui un commento della Ales Bello che condivido pienamente.

Da un lato Husserl rimane ancorato alla visione del suo tempo di ori­ gine diltheyana in particolare, che ammette una profonda distinzione fra natura e spirito, fra il punto di vista delle scienze della natura e quello delle scienze dello spirito, dall’altro però non può fare a meno di cogliere l’insufficienza di queste ultime per un’autentica comprensione del reale16. Così il cerchio si chiude: le Geisteswissenschaften e le Naturwissen­ schaften risultano veramente e radicalmente diverse: la fenomenologia, diventando scienza apriori della psicologia, ha legittimato la validità delle prime e la profonda differenza che le separa dalle seconde. La scelta di campo, però, lungi dall’essere una chiarificazione per la fenomenologia rappresenta piuttosto un atteggiamento che, assunto da Husserl in funzione antioggettivista, sfocia alla fine in un compromesso almeno teorico (una psicologia così come è stata proposta non è stata mai realizzata, si sono realizzate piuttosto analisi fenomenologiche della sog­ gettività) che rischia di far naufragare la fenomenologia stessa 17.

15. Vedi il mio ultimo libro, La scienza della vita, Jouvence, Roma, 1983. 16. A. Ales Bello, op. cit., p. 194. 17. Ivi, p. 198.

120

E così è stato. Jaspers cercherà di capirne il perché. Ed anche qui dovremo ricominciare da capo. La fenomenologia psicologica non può non essere, alla radice, bio­ psicologia. Poi crescerà. Attraverso l’analisi del vissuto diventerà psi­ cologia della comunità umana. Ritorneranno, allora, sotto diverso as­ setto, i grandi interrogativi di Jung e dello Jaspers sulla « coscienza collettiva ». Ma prima di affrontare temi così importanti sento che de­ vo respingere l’idea che la metafisica abbia a diventare scienza a priori della psicologia. La fenomenologia trascendentale husserliana rischia effettivamente di sviare la ricerca fenomenologica che non può essere intesa che quale penetrazione della ragione umana nei misteri della natura. È ovvio che l’estensione, il campo, il territorio, l’epoca dell’indagi­ ne non può che essere definito nell’ambito di un certo livello culturale e quindi di una certa tradizione, ambientale e storica, nella quale la persona si trova ad essere inserita, in naturale simbiosi epocale, alla quale però si adatta solo fino a un certo “nodo” che viene sempre, pri­ ma o poi al pettine e che implica un giudizio sempre personale. Il qua­ le giudizio è diverso da individuo a individuo e diverso per le circostan­ ze “epocali” in cui arriva. Queste stesse indicazioni circa l’originalità maggiore o minore di ogni atto psichico, s’inseriscono, esse stesse, nel solco di una cultura e possono costituire o conferma o rivoluzione del già posseduto e cono­ sciuto. La libertà dell’uomo consiste nel non occultare la verità della real­ tà e la conseguente problematicità del decidere. Ognuno sia responsa­ bile di quel che afferma di conoscere e di quel che decide. Sia nelle piccole, nelle medie e nelle grandi cose; ma sempre nell’ambito di una collettività che ha pur le sue proprie esigenze, anche di sopravvivenza. E a fronte della collettività che la persona è responsabile della sua libertà. Hussefl si era proposto il compito di « realizzare un vero e auten­ tico razionalismo di fronte a quello, gravato di nascosti controsensi, del­ l’epoca dell’illuminismo » rifiutando di « ammettere che la scienza decaduta a scienza specializzata, ad arte, a tecniche, oppure la filoso­ fia decaduta alle elucubrazioni irrazionalistiche ora di moda, possano sostituire l’idea perenne d’una filosofia come scienza universale e ra­ dicalmente fondata »18. Ma perché Husserl, prima di morire (1938) ebbe a dire: « ora che sono finito, so che dovrei ricominciare da capo »? 18. E. Husserl, La crisi..., tr. cit., p. 222.

121 Tutti sappiamo che dovremo sempre ricominciare da capo.

8. La scienza della vita Nel 1946 cominciai da capo, con la relatività strutturale. La forma di razionalità raggiunta è quella dell’epistemologia dei sistemi. E qui mi è caro citare un perspicuo passo di Carlo Mongardini, sociologo, che si riferisce esplicitamente al mio modo di condurre il discorso della ra­ gione. D’altra parte la logica dell’azione collettiva è tutt’altro che una logica matematica, così come la assume Boudon utilizzando la teoria dei giochi. Questa logica può essere utilizzata entro certi limiti a patto che resti con­ sapevolmente collegata a sistemi di teorie da utilizzarsi alternativamente o in concorrenza secondo una epistemologia dei sistemi, sulla quale i filosofi della scienza ci hanno ormai ampiamente documentato 18. Attraverso que­ sta epistemologia la teoria diventa strumento conoscitivo e il soggetto cono­ scente riacquista libertà di scelta nei confronti della stessa teoria di cui si serve. È questo uno dei significati possibili di una sociologia umanistica-. il soggetto conoscente sceglie lo strumento col quale operare di fronte ad un particolare fenomeno senza mitizzazioni o vincoli che facilmente ci riportano dal pensiero riflettente al pensiero indiviso ”.

Il compito di una tale sociologia umanistica sarà quello di mettere in evidenza in qual modo una collettività umana viva superando le con­ tinue difficoltà che la vita ogni giorno propone e che non sono affatto di ordine “formale”. Sono le difficoltà in forza delle quali, in questo secolo, positivismo e marxismo hanno esercitato tanta influenza sugli animi delle masse che non trovavano altra via d’uscita. Pure è arrivata l’ora o della resa o della “comprensione” concreta e valida dei fatti della vita, naturali e spirituali. Se intendiamo la ricerca fenomenologi­ ca così come è praticata oggi dalle scienze e specialmente dalle scienze biologiche, come veramente eidetica in quanto fondata su alcuni prin­ cipi nautrali reali incontrovertibili — fra i quali, essenziale, il princi­ pio di non-contraddizione senza il quale non si potrebbe affermare nul­ la di nulla — e se abbiamo addirittura situato nel “comportamento” di ogni singola cellula in solidarietà con altre cellule, la fonte originaria di ogni attività, allora si potrà concludere questa nostra incompiuta in-

19. C. Mongardini, Per una sociologia umanistica, «Studi di sociologia», Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, apr.-giu. 1983.

122 dagine con l’asserzione che la biopsicologia ha da apportare alle altre scienze la saggezza della vita vissuta con attenta partecipazione. Mediante la biopsicologia si può fare veramente scienza dell’uomo. Si può quindi ravvisare nel nesso epistemologia-ermeneutica la realiz­ zazione del rapporto esplicazione-comprensione quale espressione te­ stimoniale della vita dello spirito. Così un lungo, maturato processo di libera variabilità ci permette di ritrovare il momento della responsabi­ lità decisiva, che non sarà di carattere nomotetico scientifico ma di ca­ rattere etico. Come? C’è voluta tutta la grande filosofia greca prima che la questione potesse assumere espressioni tali da poter poi essere riprese per il superamento della crisi descritta da Husserl. E quindi concluderei, oggi, nella stessa maniera con la quale ho concluso La scienza della vita20. La sapienza — ha avvertito Spinoza — non è meditazione della morte, ma della vita. L’analisi che ho voluto condurre dell’evoluzione della scienza in que­ st’ultimo secolo, ha voluto rendere manifesto come l’intelligibilità della Natura, ottenuta mediante la costruzione razionale dei sistemi della scienza, sia parte fondamentale della presa di coscienza della realtà umana con tutti i suoi misteriosi segreti, i suoi drammi, i suoi splendori. E ciò in quanto si riesca a saldare — questa è la mia tesi epistemologica di fondo — nella stessa prassi della razionalità, il rivivere (Nacherleben) con la costruzione mentale (Nachbilden). Il punto di saldatura sta proprio nel fatto che l’ana­ lisi informazionale antropologica, ri percorrendo a ritroso il lungo processo bioantropico, ha messo in evidenza come si siano formate le condizioni di predisponibilità a scelte progressive per cui l’esercizio della ragione è diventato, di per se stesso, scienza della conoscenza e dei gradi di libertà sempre maggiori consentiti dai successivi livelli evolutivi. Il senso finale della nuova scienza dell’uomo, ha da essere non solo esplicazione della Natura, ma comprensione della vita dell’uomo. L’affermazione della li­ bertà dell’uomo e della sua emancipazione dai bisogni materiali mediante l’esercizio della ragione non è soltanto presa di coscienza della propria responsabilità personale — questa fu la grande lezione socratica, ripresa dall’umanesimo rinascimentale — ma ha da essere motivo di partecipa­ zione e di comprensione. La legge morale non sta tanto dentro di noi — come voleva Kant — ma nell’essere ognuno di noi vincolato alla comu­ nione con l’altro.

20. V. Tonini, La scienza della vita, cit.

Parte seconda

DALL’INDIVIDUAZIONE DELLA CRISI DELLA «RATIO» ALLA RISCOPERTA DEL SUO « TELOS » ORIGINARIO

1. LA DIAGNOSI FENOMENOLOGICA DELL’EPOCA PRESENTE IN HUSSERL E HEIDEGGER *

di Klaus Held

Nella sua opera matura Husserl non ha solo diagnosticato una crisi delle scienze europee, ma con essa, indirettamente, anche una crisi della nostra epoca in genere: perché, secondo lui, la nostra era è se­ gnata essenzialmente dalle scienze. Nello stesso decennio in cui Hus­ serl giunse alla sua diagnosi del presente, la filosofia di Heidegger mutò nel pensiero storico-ontologico del suo periodo maturo, e anche questo pensiero implica una critica determinazione della posizione storica del nostro secolo. Questo parallelo, secondo me, non è casuale: dall’impostazione fe­ nomenologica del pensiero, a mio parere, si possono derivare due tipi fondamentali di diagnosi del presente, affini eppure profondamente divergenti. Husserl e Heidegger hanno elaborato queste due possi­ bilità. In questo punto sono allo stesso tempo vicinissimi e lontanissi­ mi l’uno dall’altro. Molto è già stato detto sul rapporto tra Husserl e Heidegger. Ma se non erro, gli interpreti finora si sono interessati troppo poco del fatto che le filosofie della maturità dei due pensatori rivelano una sorpren­ dente coincidenza strutturale. Secondo me questa coincidenza dipen­ de dal fatto che entrambi hanno preteso per il loro pensiero maturo una particolare vicinanza con l’idea originaria della fenomenologia. Mi sembra che questa autovalutazione era giustificata. La comune ori­ gine fenomenologica portava entrambi, indipendentemente l’uno dal­ l’altro, ad una simile concezione del compito centrale della filosofia e la sua posizione critica verso l’età presente. Sullo sfondo di questa coincidenza si può determinare con maggiore chiarezza sia la profonda differenza del loro modo di filosofare, sia il senso originario della dia­ gnosi della crisi di Husserl, di quanto non lo si sia fatto finora nella letteratura. * Traduzione curata dalla sezione di tedesco del Dipartimento di lingue e letterature straniere dell’università degli studi di Lecce.

126 La massima originaria fenomenologica, verso la quale sia Husserl che Heidegger si sentivano ancora una volta molto obbligati nella lo­ ro maturità, diceva: « alle cose stesse »! In fondo, con questa formu­ la già era premesso sotto quale aspetto lo sviluppo del loro pensie­ ro poteva avvenire parallelamente. La massima ha senso solo a una condizione: non è una cosa ovvia voler penetrare alle « cose stesse », perché queste cose normalmente sono nascoste. Questo « normalmente nascosto » può avere due significati: nasco­ sto per colui che non esercita la filosofia o addirittura la filosofia feno­ menologica, cioè per l’uomo della vita extra-filosofica, naturale in genere. Oppure: nascosto per l’uomo dell’epoca attuale. Con il pri­ mo significato la originaria massima fenomenologica attira l’attenzione verso una — comunque la si voglia concepire — differenza atempora­ le fra la vita extra-filosofica, distante dalle cose, e la vita filosofica vicina alle cose. Con il secondo significato essa riceve una direzione d’urto essenzialmente di critica del tempo. Questa direzione d’urto era presente dall’inizio sia in Husserl che in Heidegger — in Heidegger più chiaramente che non in Husserl — ma in entrambi venne alla superficie pienamente nella maturità. Il loro interesse era rivolto inizialmente in prima linea alla differenza, in un certo senso atemporale, tra vita lontana e vita vicina alle cose. Questa differenza deve interessare il fenomenologo, perché è implici­ ta nella sua massima originaria. In Husserl questo diventa molto chia­ ro. Dall’interpretazione della fenomenologia come filosofia trascenden­ tale, cioè dalla pubblicazione delle Ideen I del 1914, egli distingue fra due atteggiamenti. Uno è quello di colui che filosofa in maniera feno­ menologica, che lo apre alle « cose stesse », l’altro è l’atteggiamento na­ turale, che significa una cecità non voluta per le cose stesse. Anche Hei­ degger conosce nella sua opera principale, Sein und Zeit, una differen­ ziazione fondamentale fra qualcosa come due atteggiamenti: l’esistenza umana nel modus dell’autenticità e della inautenticità. Ma egli identi­ fica l’atteggiamento del filosofo non con l’autenticità, anche se in Sein und Zeit vi sono degli accenni, che la decisione al filosofare presuppone un’esistenza decisa all’autenticità. In questa accettazione divergente della massima originaria fenomenologica in Husserl e Heidegger si pre­ para già la differenza della loro successiva critica del tempo. Ritornerò a questo alla fine della mia relazione. Ora voglio sviluppare la diagnosi del presente di Husserl partendo dalla sua impostazione fenomenologica. Dopo seguirà il confronto con Heidegger. Prima di tracciare alcuni pensieri di Husserl singolarmente, voglio chiarire in uno schizzo grossolano per un orientamento prelimi­ nare, perché nell’interpretazione di Husserl della fenomenologia in ge­

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nere si trovava la tendenza ad effettuare una determinazione critica del­ la posizione storica della nostra epoca. Non è, infatti, per nulla scontato che la filosofia eserciti una critica del tempo. Insieme con Husserl possiamo partire dal fatto che una comprensio­ ne approfondita dell’originaria massima fenomenologica « andare alle cose stesse » comporta la differenziazione fra l’atteggiamento naturale lontano dalle cose e l’atteggiamento filosofico che cerca la vicinanza delle cose. Con questa differenziazione Husserl pone la fenomenologia nella tradizione della filosofia trascendentale fondata da Kant. La filo­ sofia trascendentale definisce, infatti, la conoscenza filosofica tramite una radicale auto-limitazione dal modo di pensare extrafilosofico. Se­ condo la nota definizione di Kant nella Critica della ragione pura la fi­ losofia trascendentale si occupa del nostro genere di conoscenza degli oggetti e non immediatamente di essi stessi. Di fronte a questo è caratte­ ristico del modo di pensare della vita extrafilosofica l'esser interessata alle cose, cioè a tutto quello che l’uomo incontra nella sua esperienza interiore o esteriore. In questo senso l’atteggiamento naturale secondo la formulazione di Husserl è quella dell’essere diretto verso (Gerade­ hin), cioè della dedizione agli oggetti, e l'atteggiamento filosofico è quello della riflessione sul come dell’essere dato di oggetti. La determinazione della filosofia come conoscenza trascendentale è collegata con l’autocomprensione tradizionale della filosofia prima di Kant. Per la filosofia trascendentale la conoscenza filosofica si distingue a causa del suo atteggiamento riflessivo dal modo di pensare naturale. Questo significa anche: si distingue da questa non a causa del suo og­ getto. L’oggetto della filosofia come scienza è tradizionalmente il « tut­ to » per eccellenza, la totalità. Secondo l’autocomprensione della filo­ sofia trascendentale quest’oggetto della filosofia non può essere altro che quello della vita extrafilosofica. Cioè, anche i compimenti della vita nell’atteggiamento naturale si riferiscono alla totalità. Quello che manca è solo la riflessione su questo riferimento alla totalità. Husserl lo esprime in questo modo: ogni atteggiamento è un atteggiamento verso — qualcosa: in questo senso ha un correlato. Il correlato dell’at­ teggiamento naturale e di quello trascendental-fenomenologico è lo stes­ so, la totalità, — Husserl dice: il mondo. La differenza fra i due atteg­ giamenti sta nel fatto che la filosofia attraverso la riflessione si solleva al di sopra dell’ingenuo rimanere chiuso nel — rapporto con il mondo. La cosa della filosofia è identica a quella della vita naturale: il mondo. Secondo l’interpretazione di Husserl della fenomenologia come fi­ losofia trascendentale, la massima originaria fenomenologica dovrebbe essere: « andare alla cosa stessa », e cioè: al mondo. L’atteggiamento naturale non sta presso la « cosa stessa », perché la vita in questo atteg­

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giamento è cieca di fronte al proprio rapporto con il mondo. La guari­ gione da questa cecità ha lo stesso significato dell’ingresso nell’atteg­ giamento filosofico. Ciò che finora ho solo espresso in modo programmatico, si concre­ tizzerà in seguito. Spiegherò per ora, in tratti altrettanto approssimati­ vi, perché la posizione di partenza trascendental-filosofica costringe Husserl ad una diagnosi del presente. A causa del suo riferimento alla totalità la filosofia quale scienza pretendeva tradizionalmente un orien­ tamento di significato onnicomprensivo per eccellenza. Come riflessio­ ne sul rapporto al mondo la fenomenologia trascendentale mantiene in piedi tale pretesa. Ma così l’atteggiamento fenomenologico entra neces­ sariamente in concorrenza con l’atteggiamento di credulità nella scien­ za, che domina la vita nella nostra epoca. Nel momento in cui il pen­ siero di Husserl ha trovato se stesso, dominava nella consapevolezza degli uomini quasi indomita la convinzione che il bisogno di un com­ prensivo orientamento di significato, per il quale una volta l’uomo ave­ va bisogno della scienza di base, cioè la filosofia, sarà soddisfatto, pri­ ma o poi, da singole scienze indipendenti dalla filosofia. Secondo la sua tendenza di fondo l’atteggiamento naturale, che Husserl trovò, po­ neva la scienza al posto della filosofia. Ora la filosofia ha sempre dovuto difendersi contro gli attacchi del­ l’atteggiamento naturale. Dall’epoca di Talete era sospettata di essere una cosa superflua. Il nuovo della situazione moderna sta in quanto segue: l’atteggiamento naturale nel frattempo si è appropriato della pretesa della filosofia ad un ampio orientamento di significato, ma d’al­ tra parte crede di sapere, che a questa pretesa può adempiere un’altra cosa che non sia la filosofia, e precisamente le singole scienze che si stanno staccando da essa. Con questo però si pone fondamentalmente in dubbio l’auto-limitazione trascendentale della filosofia rispetto all’at­ teggiamento naturale. Da una parte non si può più sostenere l’idea che l’atteggiamento naturale sia definito tramite la sua chiusura mentale verso la necessità filosofica di un ampio orientamento di significato. D’altra parte la filosofia non ha più la possibilità di presentarsi come unica offerta atta a soddisfare questa necessità all’atteggiamento natu­ rale. Ma questo significa: per tenere in piedi la propria auto-compren­ sione come filosofia trascendentale, la filosofia deve cercare una spie­ gazione per il nuovo atteggiamento naturale della nostra epoca. Senza una tale spiegazione si troverebbe perplessa di fronte a questo atteggia­ mento e in ultima analisi sarebbe condannata alle dimissioni. Ma la spiegazione si può trovare solo paragonando lo spirito della nostra epo­ ca determinata dalla scienza con quello delle epoche precedenti in cui l’atteggiamento naturale ancora non era determinato dalla fede nella

129 scienza. In questo senso la filosofia non può evitare il problema di una determinazione storica della posizione del presente. Oggi è impensabi­ le l’idillio di un’esistenza filosofica non sfiorata dalla situazione storica. A causa di questa motivazione indispensabile è anche deciso anti­ cipatamente in quale veste la presente epoca si deve presentare allo sguardo della filosofia: come un’epoca determinata dalle scienze e dalla loro emancipazione dalla filosofia. È anche chiaro in partenza che l’autoaffermazione della filosofia nell’epoca intesa in questo senso dipende dal fatto che riesca a smascherare l’atteggiamento di credulità scientifi­ ca come crisi nella storia dei tentativi di ottenere un unitario orienta­ mento scientifico di significato. Così non è per caso che la diagnosi fi­ losofica del presente maturata tardivamente in Husserl si trova in un libro che reca il significativo titolo: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Comincio ora a sviluppare la determinazione critica e storica della posizione del presente di Husserl in alcune riflessioni approfondite. Il nostro punto di partenza era la massima originaria fenomenologica: « Alle cose stesse ». Da qui si pone la domanda: come si deve presenta­ re, alla luce di questa massima originaria, l’emancipazione storicamente nuova delle scienze dalla filosofia e la conseguente fede nella scienza del moderno atteggiamento naturale? Domanda preliminare: esiste poi un collegamento fra la massima originaria fenomenologica ed un eventuale mutamento storico nella nostra comprensione della scienza? Infatti! Le « cose stesse », delle quali si parla anche nella massima ori­ ginaria, vengono nella fenomenologia chiamate anche fenomeni. La massima originaria contiene dunque l’invito: ai fenomeni! Però in que­ sta formulazione non si può non sentire la reminiscenza della massi­ ma originariamente determinante dell’antica scienza; in greco suona: Sozein ta phainomena, cioè salvare e conservare i fenomeni, lasciarli valere nelle loro peculiarità. Entrambe le massime, quella vecchia e quella nuova della fenomenologia, esprimono la disponibilità ad una ricettività spirituale che non vuole sistemare con forza ciò che è dato nella conoscenza in modo tale da adattarlo agli schemi concettuali e ai riferimenti sistematici che il conoscente porta con sé. La scienza antica si comprende come teoria, cioè come una contemplazione spirituale che si limita a considerare ciò che si deve conoscere come si mostra di per se stesso, senza secondi fini di utilizzabilità. L’atteggiamento fondamen­ tale del fenomenologo è affine a questo atteggiamento della scienza an­ tica e anche medievole. Egli vuole fare agire il « mostrarsi di per se stessi » degli oggetti della conoscenza. Per questo la fenomenologia è colpita come prima cosa da quella caratteristica per la quale la scienza

130 moderna si differenzia in modo fondamentale da quell’atteggiamento della scienza antica. Kant ha caratterizzato felicemente il rapporto dello scienziato mo­ derno con l’oggetto della sua conoscenza, che è soprattutto la natura, in un noto paragone nell’introduzione della seconda edizione della Cri­ tica della ragione pura. Lo scienziato moderno si lascia istruire senz’altro dalla natura, ma non come un « alunno che si fa suggerire tutto quello che vuole il professore », ma come un « giudice che costringe i testimo­ ni a rispondere alle domande che gli presenta ». Quello che viene chia­ mato in quest’immagine « costrizione dei testimoni » è la posizione, re­ golata metodicamente, delle condizioni d’osservazione da parte dello scienziato moderno. Il fenomenologo deve vedere in ciò una volontà di obbligare ciò che è dato alla conoscenza umana a mostrarsi al conosce­ re. La teoria scientifica moderna si distingue, sostanzialmente, per que­ sta volontà, dalla teoria premoderna, che si faceva dare le condizioni d’osservazione dall'osservato. La scienza moderna assume essa stessa questa datità e diventa così ricerca metodica. L’intervento intenzionale nelle condizioni d’osservazione dà alla ricerca un carattere compietamente tecnico. Nella scienza moderna regna fin dall’inizio uno spirito tecnico, ancora prima della sua utilizzazione tecnica reale. La validità dei metodi scientifici dipende dal successo. Il successo è raggiunto quando s’induce l’oggetto della conoscenza a mostrarsi più di quanto non lo farebbe di per se stesso. Così la teoria moderna è tut­ tora disposta a tener conto del mostrarsi delle cose, in maniera quasi più radicale di quella precedente. Sparisce, però, quell’elemento della vecchia teoria, che si definisce nella formula di Heidegger: « il mostrar­ si di per se stesso ». Appunto questo « di per se stesso » viene ricordato dalla massima fenomenologica »: « alle cose stesse ». In questa prospettiva fenomenologica si crea un’immagine precisa della scissione storica della scienza dalla filosofia, che voglio spiegare ora. Se la filosofia fenomenologica vuole conservare o rinnovare qual­ cosa dello spirito della vecchia teoria, deve avere un atteggiamento che permette un mostrarsi di per se stesso. Al mostrarsi di per se stesso del­ le cose s’oppongono tutti i pregiudizi che il conoscente apporta da par­ te sua alle cose. Il titolo generale che si adatta a tutti questi pregiudizi è il termine di « interesse ». In questo senso Husserl definisce l’atteggia­ mento fenomenologico essenzialmente non interessato, libero da inte­ ressi. La situazione dei miei interessi è la condizione per cui gli oggetti della mia conoscenza si mostrano sotto certi aspetti, prospettive e modi di apparire, che io, il conoscente, posso scegliere o produrre, secondo i miei interessi variabili. Rispetto a ciò la conoscenza fenomenologica priva di interessi deve mirare a vedere il suo oggetto come ciò che è in

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sé, vale a dire in ciò che esso è in quanto non si risolve nell’esser qui per me soltanto nei mutevoli modi di apparizione da me messi in scena. L’in sé, così compreso è solo un altro termine per il « di per se stesso » del quale ho parlato prima. Il correlato oggettivo del conoscere feno­ menologico e del suo atteggiamento deve avere il carattere di un in sé, che forma nella variabilità delle prospettive d’apparizione soggettiva una costante assoluta. Proprio a questo punto la fenomenologia diventa inevitabilmente fi­ losofia trascendentale. La costante assoluta cercata non si può trovare con la fissazione diretta su qualche oggetto. Tutti gli oggetti ci appaio­ no nei molti modi dei nostri rapporti con loro in una determinazione variabile, e ancor più: non solo il loro esser-così, ma anche la loro esi­ stenza non ha costanza. Tutto ciò che vale come esistente può perdere il suo valore di essere nel succedersi delle nostre esperienze. Perciò non possiamo scoprire la costante cercata, finché la nostra attenzione è rivolta con una disposizione diretta agli oggetti con la loro incostante validità di essere. L’unica possibilità che abbiamo di scoprire l’in sé invariabile cercato, è di mutare la nostra attenzione attraverso la rifles­ sione, e di considerare in che maniera gli oggetti ci appaiono con mu­ tevole validità d’essere nei rapporti diretti. Da questa riflessione scaturisce qualcosa di importante: nessun cam­ biamento nel modo di apparizione degli oggetti significa che l’appari­ zione d’oggettività finisce totalmente. Questo vale persino per l’annul­ larsi della validità di essere che abbiamo nominato or ora. In ogni espe­ rienza della non esistenza di qualcosa ci sono riferimenti vari ad altre possibilità di esperienza connesse. Ogni atto di esperienza vissuta, in cui porto a datità per me qualcosa nella sua esistenza e nel suo essercosì, sta in un intreccio di relazioni di riferimento nel quale si presen­ tano sempre nuove possibilità d’esperienza, di apparizione di qualcosa. Da questa unità di riferimento di possibilità d’esperienze non posso uscire a causa di una esperienza singola, per quanto deludente o negati­ va sia. Husserl chiama questa unità di riferimento ineludibile « orizzon­ te ». Ogni apparizione di qualche cosa, o di uno stato di cose, è inserita in un orizzonte appartenente, cioè in un’unità di riferimenti a possibi­ li esperienze. Ancor più, anche il singolo orizzonte della singola espe­ rienza vissuta non è mai isolato. Ogni unità di riferimenti seguente ri­ manda ad altri orizzonti e così essi appartengono alla fine tutti ad un unico orizzonte universale. Questo orizzonte universale è il mondo. Con nessun compimento d’esperienza possiamo lasciare questo orizzon­ te di tutti gli orizzonti. Con ciò però il mondo risulta la costante asso­ luta cercata. Come orizzonte universale il mondo è la totalità. Così la fenomenologia trascendentale rinnova, mediante la tematizzazione del

132 mondo, il tradizionale rapporto alla totalità della filosofia. Ho detto all’inizio: l’atteggiamento fenomenologico trascendentale non si distingue da quello naturale tramite un altro correlato. Anche nella vita non filosofica è in questione il mondo. Com’è ciò comprensi­ bile? L’atteggiamento fenomenologico si distingue da quello naturale per la sua mancanza d’interesse. L’interesse è l’interesse a qualcosa, all’esistere o all’esser-così, di una cosa o di uno stato di cose del quale ci occupiamo in un’esperienza vissuta corrispondente. Con i suoi inte­ ressi indirizzati l’uomo cerca continuamente nella vita naturale di fis­ sare questo esistere ed esser-così delle cose che l’occupano. L’uomo, con la sua ricerca interessata vuole dunque arrivare ad un in sé co­ stante. Ma tutto quello che l’uomo incontra nel mondo è mutevole e incerto nel suo esistere ed esser-così. Così l’uomo corre continuamente dietro a un in sé, che non riesce a trovare, indirizzando il suo interesse sull’esistere ed esser-così di singole cose o stati di cose. Egli crede cer­ tamente sempre di nuovo — questo è il suo interessarsi naturale — di poter stabilire l’in sé nelle cose o negli stati di cose. Che non perda questa speranza, nonostante tutte le delusioni, dipende dal fatto che conosce già da sempre senza saperlo l’in sé cercato. Infatti: nel mutare delle esperienze vissute l’uomo continua a credere con la massima natu­ ralezza che l’unità di riferimenti delle esperienze non si interrompa. Cioè, nella sua ricerca interessata ha da sempre un correlato fisso, l’in sé dell’unità completa di riferimenti, cioè: il mondo. Ma dato che il suo interesse lo fissa all'esistere ed esser-così delle singole cose e stati di co­ se, l’attenzione della sua intenzionalità interessata non si rivolge mai al mondo stesso. L’uomo rende tematico solo quello che incontra nel mondo. Egli ha certamente in modo continuo la visione dell’orizzonte universale nel suo bagaglio come l’unica cosa che continuamente gli è presente, ma non ce l’ha però tematicamente di fronte a sé nella sua considerazione. Con ciò abbiamo trovato la determinazione definitiva del rapporto fra atteggiamento filosofico e naturale in Husserl. Il cor­ relato comune dei due atteggiamenti è il mondo come orizzonte univer­ sale. Però nella vita naturale il mondo non diventa tematico, e solo nel­ la filosofia trascendentale fenomenologica diventa espressamente te­ matico. La cosa, cioè il tema, della filosofia è il mondo. La massima fe­ nomenologica originaria « alle cose stesse » si comprende così come in­ vito a tematizzare la cosa, che nell’atteggiamento naturale è compietamente non tematica, il mondo. Ora possiamo unire due pensieri precedenti: avevo detto in primo luogo: in base alla sua massima originaria la fenomenologia deve esser colpita dallo spirito tecnico presente nella scienza moderna. E in se­ condo luogo: per la pretesa alla totalità, che essa avanza in quanto te-

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matizzazione del mondo, la filosofia fenomenologica deve nuovamente giustificare la sua propria esistenza contro le scienze che si sono emanci­ pate dalla filosofia. In una interpretazione fenomenologico-trascendentale, come si collega il distacco delle scienze dalla filosofia con lo spirito tecnico di esse? Poiché la moderna teoria divenuta metodica costringe gli oggetti a manifestarsi, fa sorgere la convinzione che in linea di principio niente può sottrarsi all’attacco della ricerca. Ciò non significa che tutto si sa­ rebbe palesato alla scienza, che tutto dunque sarebbe già stato esami­ nato, certamente però che allo spirito scientifico tutto appare essenzial­ mente indagabile. Il processo di ricerca procede all’infinito, però è decisivo che esso proceda dalla convinzione che ogni oggetto può esse­ re costretto a manifestarsi con l’aiuto di metodi adeguati. In questo senso il comune spirito di ricerca di tutte le singole scienze è riferito alla totalità di tutti gli oggetti in generale. Tale totalità, l’insieme di tutti gli oggetti, l’universalità dell’ente — per definirla esiste però un nome: il mondo. Dunque il mondo è il tema delle scienze, metodicamente operanti, nella loro totalità. E con questo, secondo la loro prete­ sa, rendono superflua la filosofia. Come mai ciò non valeva ancora per le scienze nate nell’ambito del­ la teoria antica e medievale? La risposta si trova se si tiene conto che il concetto di mondo è duplice. Il mondo come tema di tutte le scienze mo­ derne è, come ho già detto, la totalità delle cose. Il mondo come tema della fenomenologia trascendentale è l’orizzonte degli orizzonti, cioè lo spazio organizzato come nesso di rimando (Verweisungszusammenhang) di tutte le nostre possibilità di esperire oggetti. La tesi di Husserl è: nel­ la teoria pre-moderna il mondo appare sì, come anche nella moderna, come totalità di oggetti; ciò nonostante esso conserva al tempo stesso il suo carattere di orizzonte. Che il mondo nella scienza premoderna sia considerato ancora co­ me orizzonte si rivela nel fatto che questa scienza non tocca le condi­ zioni predate sotto le quali ha luogo il mostrarsi. Essa lascia al manife­ starsi la sua autonomia, il momento « di per se stesso », cioè conserva agli oggetti il loro collocamento nei pertinenti orizzonti dell’esperienza. Il canone delle scienze antiche risultava dal fatto che le loro sfere ri­ flettevano di volta in volta orizzonti della vita pre-scientifica. L’alge­ bra, ad esempio, esisteva perché già la vita quotidiana conosce situa­ zioni di vita e relative professioni in cui si calcola e si conta. Analoga­ mente con la geometria, la medicina, la giurisprudenza, ecc. Queste antiche designazioni esprimevano ancora un riferimento agli orizzonti di vita: già prima di ogni filosofia e di ogni scienza si deve misurare il terreno, ossia geometrein; cercare i rimedi contro la malattia, la me-

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dicina; dare forma ai rapporti, sottoposti a regole giuridiche, con gli altri con saggezza, prudentia ecc. La metodizzazione della scienza significa un sempre più radicale di­ stacco della ricerca da tutti gli orizzonti preesistenti. Perciò il mondo, di cui tratta la ricerca moderna unificata, non è più l’orizzonte degli orizzonti, ma soltanto la totalità degli oggetti, neutrale in riferimento a tutti gli orizzonti. In questo universo di ciò che esiste libero da ogni orizzontalità, non c’è più nessuna linea di demarcazione preesistente per una divisione della scienza in un numero definito di discipline. Per­ ciò vengono spalancate le porte alla illimitata specializzazione. Il mondo totalmente neutralizzato circa il suo carattere di orizzon­ te non è altro che una totalità di cose, ciò significa però: è qualcosa co­ me un unico oggetto complessivo. Come tale, esso è tema delle moderne scienze unificate e pertanto anche tema dell’atteggiamento moderno a credere nella scienza. Ne risulta una fondamentale duplicità di questo atteggiamento. Poiché in essa il mondo diviene tema, fa sorgere l’appa­ renza dell’atteggiamento filosofico, però non lo è. Si può definirlo un atteggiamento naturale di secondo grado. L’atteggiamento naturale di primo grado è quello da cui si distingue l’antica filosofia e scienza. Esso è definito dall’essere del mondo totalmente non tematico. Poiché l’at­ teggiamento naturale in quest’epoca tematicamente non sa nulla del mondo, la consapevolezza non tematica naturale degli orizzonti si fa notare ancora al corrispondente grado di scienza, dunque nella teoria pre-scientifica, non-metodizzata. Al contrario, nell’epoca della teoria metodizzata. L’atteggiamento naturale diventa fiducioso nella scienza, cioè, a differenza dell’attitudi­ ne naturale di primo grado possiede, tramite le scienze moderne, un rapporto tematico al mondo. Ma ciò avviene a spese della coscienza del carattere di orizzonte del mondo. Alla coscienza fiduciosa nella scien­ za il mondo appare solo come l’oggetto che comprende tutti gli oggetti, e il suo carattere di orizzonte viene completamente dimenticato. Proprio per questo il moderno atteggiamento di fede nella scienza resta, malgra­ do la sua coscienza del mondo, atteggiamento naturale-, poiché il supe­ ramento trascendentale-fenomenologico dell’interessamento naturale della vita consiste proprio nel fatto che l’atteggiamento direttamente orientato agli oggetti, viene interrotto in maniera riflessiva e al suo po­ sto diventa tema il come dell’apparire del suo essere legato all’orizzon­ talità. Solo in questo contesto s’inserisce il tanto strapazzato concetto di « mondo della vita » di Husserl. Il concetto non intende altro che il mondo nel senso dell’orizzonte universale. Accentua solo in maniera critico-scientifica, che il mondo, divenuto tematico nel moderno atteg-

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giamento naturale di secondo grado, fiducioso nella scienza, è un mon­ do neutralizzato riguardo al suo carattere di orizzonte, mondo come to­ talità, come oggetto universale. Il mondo si chiama mondo della vita in quanto conserva il suo carattere di orizzonte nell’atteggiamento na­ turale di primo grado e in quanto in forza della sua non tematicità na­ turale impregna ancora la scienza pre-moderna con la coscienza del­ l’orizzonte. In questo senso la diagnosi di Husserl sul presente è la se­ guente: la nostra epoca è dominata dall’atteggiamento naturale di se­ condo grado, fiducioso nella scienza, e il segno caratteristico di questo atteggiamento è la sua dimenticanza del mondo della vita. Si può definire la spiegazione di Husserl sulla nostra epoca con il concetto medico di « diagnosi », perché l’atteggiamento immemore del mondo della vita rappresenta per lui una crisi, uno stato patologico del­ la natura umana. Alla natura umana in quanto tale appartiene il collo­ camento di ogni esperienza vissuta nel nesso di rimando di orizzonti. Nell’atteggiamento di fede nella scienza il mondo nel suo carattere di orizzonte viene neutralizzato radicalmente. Ciò significa, però, diven­ ta inumano in senso stretto. La determinazione critica della posizione storica del presente di Husserl non deriva solo dall’autocommiserazione della filosofia che vede fallire i suoi progetti nell’epoca della scienza. Il distacco delle singole scienze dalla filosofia, accettato dal secondo atteggiamento naturale, non riguarda solo la filosofia, ma la vita stessa extrafilosofica; essa rischia di perdere la sua umanità attraverso lo spi­ rito che si nasconde dietro a questo distacco. Il diritto di esistenza del­ la filosofia non risulta dalla intangibilità di una rispettabile tradizione, ma solo da quella coscienza che è nella posizione di scoprire questa perdita di umanità. Ma perché l’oblio del mondo della vita è propria­ mente una perdita di umanità? L’umano è per Husserl la libertà, inte­ sa come responsabilità per le mie azioni. Gli orizzonti della mia vita sono nessi di rimando in cui sono a disposizione di volta in volta fu­ ture possibilità di esperienze. Sono però disponibili solo perché sono possibilità che io sono capace di cogliere. Cogliere tali possibilità signi­ fica agire. Gli orizzonti sono spazi di esperienze che si aprono solo in ciò e per mezzo di ciò che ognuno opera: non sono scindibili dall’uomo come soggetto agente. Se il carattere di orizzonte del mondo viene di­ menticato nel moderno atteggiamento di fede nella scienza, ciò signi­ fica che va perduto il legame della teoria con la responsabilità dell’azio­ ne. La ricerca intesa come un fascio di misure metodiche per costrin­ gere il mondo a mostrarsi illimitatamente, diventa un agire privo di re­ sponsabilità. Essa sviluppa perciò un’autolegalità che fa spaventare solo coloro che non hanno mai riflettuto che la metodizzazione era già una liberazione della cosiddetta attività di ricerca dalla responsabilità.

136 Ciò che occorre dunque è una riflessione filosofica sul mondo come mondo della vita. C’è però una fondamentale difficoltà. Nella vita extrafilosofica il mondo ci è familiare come mondo della vita, cioè co­ me orizzonte universale. Ma, proprio in quanto è orizzonte, esso non è tema. Nella mia esperienza e nel mio operare mantengo l’orizzonte nel mio bagaglio: di fronte a me ho sempre qualcosa che mi viene in­ contro in un orizzonte, un oggetto nel senso più ampio. Se la filosofia rende tema l’orizzonte universale, cioè il mondo come tale fino ad al­ lora non tematico, allora il mondo diventa oggetto della teoria, diventa qualcosa cui si rivolge il mio pensiero. Ogni oggetto però presuppone di nuovo l’orizzonte non tematico in cui è collocato il suo apparire. L’oggetto stesso non è l’orizzonte. Mentre l’oggetto assorbe l'attenzione si sottrae allo sguardo. Ciò significa: mentre la filosofia tematizza il mondo, sembra trovarsi nella condizione forzata di non poter attenersi al carattere di orizzonte di esso. Proprio questa fatale conseguenza è, secondo Husserl, entrata nella storia del pensiero filosofico e scientifico. Il pensiero ha certamente avuto sempre l’intenzione di comprendere l’orizzonte del mondo non tematico, però non ha potuto comprendere questo orizzonte come il non tematico, nel modo in cui esso è in gioco nell’atteggiamento natu­ rale. Perciò esso si è aperto ad una via d’uscita. Come orizzonte univer­ sale il mondo è per eccellenza ciò che abbraccia tutto, la totalità. Il pensiero cercava perciò di impadronirsi del mondo su questa determi­ nazione della totalità. Il mondo gli appariva così certamente come og­ getto, ma come l’oggetto che abbraccia tutto, cioè come totalità. Poiché la totalità è un carattere dell’orizzonte universale, questo concetto del mondo può far credere che esso sia il concetto del mondo della filosofia, e solo per questo può sembrare che la ricerca, sempre più progressiva, delle scienze moderne possa appagare il bisogno filo­ sofico di significato, che si rivolge alla totalità. La filosofia rinnovata fenomenologicamente distrugge questa apparenza, superando l’oblio del mondo della vita. In questo superamento la cosa più importante è evitare il difetto della tradizione filosofica e scientifica, e non rendere il mondo un oggetto come altri oggetti. Perciò il mondo deve essere pensato come ciò che non è raggiungibile tramite una oggettivazione tematizzante. Si deve formulare ciò in modo estremamente acuto: il nuovo com­ pito della filosofia consiste nel rendere il mondo, proprio nella sua nontematicità, tema filosofico. Solo se la filosofia riesce a pensare il mondo come ciò che non si mostra nella vita non filosofica, che è sì sempre in gioco come orizzonte, pur rimanendo nascosto — solo allora la diagno­ si trascendentale — fenomenologica arriva allo scopo. Il futuro della

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filosofia, e nello stesso tempo la forza di persuasione della sua critica del tempo, è legato in fondo al pensiero che il restare non tematico, e in questo senso il restare nascosto, costituisce la vera determinazione fondamentale del mondo come orizzonte. A questo punto delle mie riflessioni posso aggiungere senza sforzo il confronto con la variante di Heidegger della diagnosi fenomenologica del presente; poiché anche in Heidegger alla fine tutto si risolve nel pensare il nascondimento come la determinazione fondamentale e de­ terminante della cosa, che costituisce il tema della filosofia. La diffe­ renza sostanziale con Husserl è anzitutto nel fatto che la cosa, che se­ condo Heidegger costituisce il tema fondamentale della filosofia, non è il mondo, ma l’essere. Heidegger trasforma esplicitamente la massima: « andare alle cose stesse » e dice « alla cosa stessa ». Questa cosa della filosofia per Heidegger è l’essere. Nell’essere Heidegger pone una differenza, che rappresenta siste­ maticamente un parallelo con quella di totalità e orizzonte. Introduco dapprima la differenza e la spiego successivamente. L’essere come esse­ re di ciò che esiste (Sein des Seienden) è il parallelo col mondo co­ me totalità di tutti gli oggetti. L’essere come tema del problema dell’es­ sere così posto per la prima volta da Heidegger (Sein im Sinne der Seinsfrage) è il parallelo col mondo come orizzonte. Il destino delle scienze nel loro rapporto con la filosofia, sulla base di questa distinzione, non si presenta in maniera molto diversa in Hus­ serl. La filosofia e, inizialmente, con essa le scienze mirano al tutto. Il loro tema è la totalità. Esse cercano di comprendere questa totalità po­ nendosi la domanda su ciò che è comune a tutto ciò che esiste. Questa caratteristica di ogni ente è appunto ciò in base a cui noi possiamo dire di ogni ente: esso « è »: l’essere dell’ente riconosciuto con questo « è ». Questo essere deve essere qualcosa di diverso dal singolo ente. La diffe­ renza tra l’essere e l’ente la tradizione tenta di comprenderla, identifi­ cando l’Essere con quell’ente in cui emerge in maniera eminente la de­ terminazione di essere essente. L’Essere appare così come l’Ente su­ premo, per es. platonicamente come l’idea o scolasticamente come il Dio-creatore. Questi tentativi caratterizzano la filosofia classica come metafisica. In essa rimane conservato l’impulso originario della filoso­ fia di distinguere l’Essere dall’ente, in quanto esiste un’infinita distan­ za tra l’Ente supremo e gli altri enti che esistono. Però anche il sommo Ente è ancora ente, e in questo senso rimane perciò incompresa la dif­ ferenza tra l’Essere e l’ente — Heidegger parla della differenza onto­ logica. Nella differenza del pensiero metafisico tra ente sommo e infe­ riore — Heidegger la definisce differenza metafisica — appare indiret­

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tamente la differenza ontologica; però essa stessa non appare come tale. Con questa caratterizzazione dell’epoca della metafisica Heidegger ammette nello sviluppo del pensiero filosofico-scientifico una fase che sistematicamente corrisponde esattamente alla costruzione di Husserl: nella tradizione teoretica premoderna il mondo perde da una parte già il suo carattere di orizzonte, in quanto esso viene inteso come totalità, come universo di tutti gli oggetti. D’altra parte, il ricordo del carattere di orizzonte resta conservato nella concezione classica di teoria nella forma del rispetto del mostrarsi da sé. Una parallela ambiguità domina, secondo Heidegger, nella concezione metafisica dell’essere: da una par­ te, l’essere dell’ente appare solo come ih sommo Ente, e quindi esso stesso già come qualcosa di essente; la differenza ontologica viene livel­ lata: non c’è nulla oltre l’ente; l’essere stesso nella sua differenza dal­ l’ente scompare dallo sguardo. D’altra parte, il ricordo della differenza resta almeno conservato nella forma della differenza metafisica fra l’ente sommo e l’ente inferiore. Alla moderna radicale dimenticanza del carattere di orizzonte nel­ la dimenticanza del mondo della vita, come avviene nella nostra epoca secondo Husserl, corrisponde in Heidegger il nichilismo. Nel nichili­ smo si prende'sul serio la tendenza la quale esisteva già nel nucleo della metafisica di livellare l’essere e l’ente. Il sommo Ente, sia esso l’idea platonica, il cristiano Dio-creatore, o ciò che in epoca moderna, riguardo al significato sistematico, prende il suo posto, come per es. la legge morale in Kant — tutto ciò si dimostra nel nichilismo come nullo. Il nichilismo, come lo ha definito Nietzsche secondo l’interpre­ tazione di Heidegger, dichiara: l’Ente supremo e ogni ideale e ogni idea sono soltanto condizioni che la vita si pone per la propria con­ servazione e intensificazione. Nell’epoca del nichilismo esiste solo l’ente e niente altro. Ogni fede in qualcosa di superiore, in un al di là da cui l’ente viene trasceso, non ha più senso. In tal modo è cancellato l’ulti­ mo resto del ricordo della differenza ontologica tra l'Essere e l’ente. Nelle epoche della metafisica esisteva attraverso la differenza metafisi­ ca almeno un presentimento dell’Essere nella sua differenza dall’ente, anche se soltanto nella forma distorta dell’identificazione dell’Essere con il sommo Ente. D’ora in poi l’essere stesso, nella sua differenza, si è perfettamente sottratto al pensiero, e perciò rimane del tutto nascosto. Proprio nel fatto che nel nichilismo l’esser nascosto dell’essere è ar­ rivato all’estremo, sta, però, secondo Heidegger una nuova possibilità per l’uomo e per la filosofia, la quale si occupa dell’esser-uomo dell’uo­ mo. L’uomo, ora, ha la possibilità di fare l’esperienza proprio del fatto che l’essere è ciò che si nasconde. Adesso, l’essere-nascosto può appari­

139 re come elemento essenziale dell’Essere. È evidente il parallelo con la diagnosi del presente di Husserl. Anche egli infatti pone alla filosofia il nuovo compito di comprendere come elemento essenziale un essere­ nascosto, ossia la non tematicità come elemento essenziale del mondo. L’affermazione di Husserl circa la concezione del mondo nell’epoca scientifica è la seguente: proprio mentre il mondo come insieme dell’en­ te viene costretto dalla scienza a mostrarsi con una risolutezza mai sup­ posta prima e diventa tema, rimane nascosto ciò che esso è come mondo non tematico: e cioè l’orizzonte degli orizzonti. In modo molto simile in Heidegger: nell’epoca tecnica domina sotto un punto di vista un estremo non essere-nascosto dell’essere; poiché ogni ente viene analiz­ zato metodicamente e di conseguenza messo a disposizione tecnicamente, l’ente si mostra come ente. « Come ente », ossia: esso appare come tale che si trova nello stato di « essere ». Tutto si mostra così nella luce dell’essere, e in questo senso nella scienza e nella tecnica è apparsa la luce dell’essere; regna la lucidità spirituale di questa luce, il non-essere-nascosto, la palesità dell’essere. Però proprio in questo estremo apparire dell’Essere dell’ente — o in termini di Husserl: del mondo come totalità — si sottrae, si nasconde l’essere stesso nella sua differenza dall’ente. L’Essere deve, proprio per far apparire l’ente nel suo esser manifesto, cioè per potersi mostrare come il manifesto, trat­ tenersi in sé con l’altro lato della sua essenza, col suo nascondimento. Questo tenersi in sé dell’essere costituisce l’appoggio, in un certo senso il supporto per il mostrarsi. Heidegger, proprio nel suo periodo posteriore, ha sempre sottoli­ neato che egli ha in modo più conseguente afferrato l’impulso origina­ rio della fenomenologia. Il diritto relativo di questa supposizione mi sembra, dopo ciò che è stato detto, indiscutibile. Proprio l’idea dell’op­ posizione di sottrazione e mostrarsi nell’essere stesso, la contrapposizio­ ne dell’Essere nascosto dell’essere e dell’essere palese dell’essere, è sol­ tanto l’espressione più decisa di un’idea che si era annunciata in Hus­ serl nel rapporto reciproco di tematicità e atematicità del mondo, e, que­ st’idea è, come ho già dimostrato, soltanto la conseguenza del seguire la massima originaria fenomenologica « andare alle cose stesse ». Per Hus­ serl, come per Heidegger, nei loro periodi posteriori, questa massima diventa l’invito a far emergere l’essere nascosto di ciò che si mostra da sé. Ciò per quanto riguarda la concordanza strutturale dei due pensa­ tori. Su questa base, però, possiamo adesso far risaltare anche chiara­ mente la divergenza fondamentale tra i due. Questa divergenza si nota nel momento in cui una diagnosi del presente suscita l’interesse più for­ te: il paziente vorrebbe sapere come sta il suo futuro. La collocazione

140 del presente deve avere, se è critica, una prospettiva terapeutica per il futuro. E qui si separano le strade di Husserl e di Heidegger. Secondo la concezione di Husserl la massima originaria « andare alle cose stes­ se » è pienamente realizzata soltanto nel concetto trascendentale-filosofico della fenomenologia. Ciò significa che egli basa la filosofia feno­ menologica su un atteggiamento, che si distingue da quello della vita naturale. Questo distinguersi è da intendersi in un senso attivo: con la scoperta della sua cosa, del mondo nella sua non tematicità, la filoso­ fia stessa crea la differenza tra essa — la filosofia — e l’atteggiamento del rapporto diretto della vita prefilosofica, in cui il mondo come oriz­ zonte universale rimane principalmente non tematico. Ciò significa che il passaggio alla filosofia risulta da una decisione della volontà di chi fa filosofia. Ciò vale anche per il superamento della dimenticanza del mon­ do della vita dell’atteggiamento moderno naturale di secondo grado. Husserl può in senso diagnostico parlare di una crisi della nostra epo­ ca, perché la terapia, cioè il passaggio ad un atteggiamento che non di­ mentica più il mondo, sta nelle mani dell’uomo. Diversamente in Heidegger. Come ho detto all’inizio, già in Sein und Zeit, la connessione tra l’atteggiamento che rende possibile la filo­ sofia e l’autenticità dell’esserci (Dasein) rimane vaga e metodicamente non chiarita. Nella distinzione tra autenticità e inautenticità si prepa­ ra, da un punto di vista sistematico, la posteriore distinzione tra la di­ menticanza dell’Essere della metafisica e la disponibilità del pensiero postmetafisico per l’esser nascosto dell’Essere; infatti l’autenticità non è nient’altro che un esser aperta dell’esistenza umana, dell’esserci (Da­ sein) per ciò che è proprio di essa, e questo proprio consiste nell’esse­ re il « ci » (Da) dell’Essere, cioè di esistere come quel luogo in cui ap­ pare l’Essere. La posteriore radicalizzazione della posizione di Sein und Zeit consiste nella cognizione che l’autentica illuminazione (Lichtung) dell’Essere sta proprio nel fatto che l’uomo diventa disponibile per il mistero del suo tenersi nascosto nella manifestazione. Già in Sein und Zeit Heidegger non identifica l’apertura per l’essere nell’esserci con la posizione, assumibile volontariamente, del fenomenologo trascenden­ tale. La denominazione dell’autenticità come essere deciso lascia anco­ ra risuonare qualcosa di una volontà che decide liberamente di assu­ mere di pensare fondamentalmente in modo nuovo. Però proprio que­ sta risonanza viene sconfessata dallo Heidegger posteriore come un fraintendimento. Egli trasforma e radicalizza in sereno abbandono la posizione fondamentale fenomenologica della disponibilità per il mo­ strarsi da sé. Il sereno abbandono (Gelassenheit) non è una virtù in senso tradizionale, cioè non è una posizione, il cui raggiungimento sa­

141 rebbe cosa del nostro volenteroso proposito. Esso è, piuttosto, una di­ sponibilità, donata dall’essere stesso, per l’esperienza dell'essere nasco­ sto dell’essere come tale. Per il diventar percepibile del nascondimento dell’essere stesso nel passaggio attraverso il nichilismo, l’uomo pensan­ te può soltanto tenersi preparato come le vergini sapienti nella parabola biblica. Ma egli non può produrre o accelerare con la propria forza il menzionato diventar percepibile. Perciò Heidegger rifiuta anche esplicitamente il metaforismo medi­ co che possiamo osservare in Husserl. Egli non intende la sua determi­ nazione storica del presente come diagnosi, perché non può e non vuole fare una proposta di terapia. Non esiste una guarigione dalla crisi del­ l’epoca che potrebbe realizzare l’uomo; invece c’è solo una salvezza, concessa dall’Essere stesso, dalla sventura dell’epoca — anch’essa im­ posta dall’essere — e su questa salvezza non possiamo contare, possia­ mo solo sperare. Poiché il fondamento del diritto a questa speranza del tutto indeter­ minata non è la libertà umana, una costellazione dell’essere stesso deve prendere sistematicamente il posto della libertà. Questa costellazione è l’aumento della sventura del nichilismo fino all’estremo, fino al suo eschaton, che proprio attraverso l’arrivo di questo estremo dà la pos­ sibilità che il sottrarsi, in esso dominante, dell’essere diventi riconosci­ bile. Heidegger rinnova il modello tragico di storia di Rousseau e di Marx in modo che l’alienazione — in Heidegger: il nichilismo — deve giungere all’estremo perché avvenga il cambiamento rivoluzionario ver­ so il meglio. Che questo modello di storia renda il pensiero in modo fa­ tale incline ad una demagogia politica che proclama come preparazio­ ne di un futuro paradiso terrestre il grande « no » a tutte le condizioni esistenti, e prepara con ciò la via al totalitarismo nelle sue diverse for­ me, è esperienza che Heidegger stesso ha dovuto fare. Comunque si giudichi del pensiero del mondo della vita di Husserl, — da tali strade sbagliate esso è immune grazie alla sua pregnanza filosofico-trascendentale. Husserl sviluppa la sua diagnosi dell’epoca della dimenticanza del mondo della vita, a differenza della dimenticanza del­ l’essere di Heidegger, sulla base del contesto della distinzione fonda­ mentale, sempre tenuta ferma, tra atteggiamento filosofico e atteggia­ mento naturale. Un atteggiamento può essere prodotto dall’uomo ed è soggetto di un libero reciproco rendiconto. Perciò l’impostazione di Husserl dà alla filosofia la possibilità di superare col pensiero la dimen­ ticanza del mondo della vita come atteggiamento naturale di secondo grado mediante un libero cambiamento della volontà, di cui si può re­ sponsabilmente render conto. Solo in questo modo la profonda crisi del nostro tempo non appare come un tragico destino, bensì come uno

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stimolo, per coloro che sono disposti a pensare, ad opporsi ad essa me­ diante la concreta critica fenomenologica della coscienza naturale attuale.

2. LA RIDUZIONE FENOMENOLOGICA NELLA « CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE »

di Giorgio Scrimieri

Il confronto diuturno tra le due istanze capitali del pensatore di Prossnitz: per la scienza nel senso specifico-positivo delle regioni del sapere da una parte e per la filosofia nel senso di sapere assoluto dall’altra, si fa sempre più serrato con il dominio critico ognora più deciso del campo matematico di origine, a favore del sempre più chiarificantesi campo filosofico rigoroso. Il campo psicologico deve allestire all’uopo le funzioni strumentali (le catalizzazioni), per pro­ muovere una terza istanza che si impone con crescendo e che non nasconde la sua matrice cartesiano-kantiana: quella della « neutraliz­ zazione » dei colossi della gigantomachia, o come nel primo libro delle Idee (e via via fino alla Crisi delle scienze europee e la fenome­ nologia trascentendale), la « riduzione fenomenologica » delle rispet­ tive eidetiche Allora i campi eidetici della geometria, della foronomia, della fi­ sica pura della materia, come pure quelli stessi della psicologia, vanno posti tra parentesi, ossia va operata su di essi l’interruzione di validità alla base della « disposizione naturale » (natürliche Einstellung) del 1. La frequentazione della scuola di Brentano, già dagli anni ’80 del secolo scorso, ma soprattutto l’autonoma evoluzione di pensiero filosofico della mate­ matica incline ad indagini genetico-psicologiche delle matrici dei concetti capi­ tali dello spazio (per la geometria) e del tempo (per l’analisi superiore, l'algebra, la teoria della molteplicità, ecc.), ed in particolare del Kontinuum che il « Raumbuch » collegato ai problemi degli insiemi e delle grandezze seriali infinitesimali approfondisce in uno sviluppo della Philosophie der Arithmetik del 1891, docu­ mentano (cfr. E. Husserl, Studien zur Arithmetik und Geometrie, a cura di Ingeborg Strohmeyer, «Husserliana», Bd. XXI, Haag, 1983, pp. 69 ss., 92 ss., 272 ss. e 275 ss.) il ruolo della psicologia circoscritto all’esplicazione (non accolta quindi come fine a se stessa) dei più delicati settori delle scienze esatte. Ancora le Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie nel libro I, vedranno confrontarsi versante psicologico e versante scientifico esat­ to (della geometria in primis e delle altre discipline del gruppo matematico) nella ricerca per una neutralizzazione delle rispettive eidetiche nell’istanza di un rigore filosofico-scientifico che conservi la dignità dell’esattezza appunto mate­ matica.

144 flusso dei vissuti (Erlebnisstrom) che può aver titolo di coscienza2. Le scienze eidetiche, perfino quelle matematiche più complesse, che pure ispirano il « rigore », « mancano di fondamento »! Utilizzato il termine di origine psicologica di « vissuto » (Erlebnis), ma allon­ tanato dalle originarie fattezze, si poteva intraprendere una nuova analisi della coscienza, di cui offrire descrizioni sempre più criticamente condotte. Invero la descrizione doveva battere le vie kantiane della schematizzazione dei magmi sintetici dell’apprensione e dell’in­ tuizione: anche se doveva dispiegarsi in chiave concettuale-essenziale, ovvero in campi eidetici. Il fenomenologo deve lavorare insomma su essenze rese intuitive nell’immanenza della coscienza pura 3, di tutti i campi del sapere, non risparmiando la neutralizzazione neppure sui sofisticati settori della « mathesis » formale, come l’algebra, la teoria dei numeri e delle mol­ teplicità (da cui provengono gli stimoli originari alla « riduzione »). Non si nasconde che così l’intuizione pura opera già nel campo della coscienza pura trascendentale. L’Io puro come « residuo » della neu­ tralizzazione (a sua volta irriducibile) si profila come « specie singo­ larissima di trascendenza nell’immanenza »4, sotto cui va intesa « la sfera di conoscenze essenziali », la ontologia formale, cui riferirsi (come quella di oggetti « generaliter » trattati)5. Il « residuo » della neutralizzazione si scopre vissuto di « presenza » (Gegenwart), anzi « vissuto reale e vivente come presente originario in forma riflessa »6, in quanto rivolto sempre sul tratto (di vissuto) già scorso. Il vissuto ridotto muove quindi dalla « successione di adesso » (fetztfolgerung) della kantiana presenza. L’altro del vissuto sviluppato in chiave « em­ patia » (in Einfühlung) garantisce qui le datità della coscienza (Gege­ benheiten) sia dalle aporie del solipsismo che da quelle dell’oggettivismo: la corrente di vissuti è « assoluta » solo perché è immanente a « se stessa », costituita sempre di tratto empatico di passato, di « altro » in cui il flusso si proietta in dicotomia di passato-mondo che è là (Dort) (come Da-sein riflesso) e « anticipazione della percezione » 2. L’apporto del Cogito cartesiano è notevole nell’instaurazione, con la neu­ tralizzazione, della messa in parentesi dei contesti scientifici in confronto, alla ricerca del sapere assoluto: ma c’è un’evoluzione endogena alla problematica filosofica della matematica, in grado di giustificare in toto l’istanza della « ridu­ zione fenomenologica » che si presenterà ben presto come trascendentale in senso femenomenologico. Il tempo matematico si verifica nel « flusso dei vissuti » di cui si scorge sempre lo stadio positivo eidetico: non è solo il « cominciamento » dell’indagine, il pre-tematico, ma un diagramma provvisorio da cui muovere. 3. Cfr. Ideen .... I, cit., par. 59. 4. Op. cit., par. 57. 5. Op. cit., par. 59. 6. Op. cit., parr. 44-45.

145 del vissuto dichiarantesi (come Heidegger anche kantianamente cerca di esplicare). L’immanente del flusso è assoluto perché non ha biso­ gno del mondo o della cosa-spazio trascendente per esistere come cor­ rente di vissuti7. La cosa-spazio della fisica dal canto suo risulta sempre (pur con la riduzione) una « molteplicità infinita di possibilità eidetiche di con­ nessioni di esperienze »8 risulta quindi da empatia di moltitudine di spiriti intersoggettivamente operanti9; e non è mai intuibile come vis­ suta in assoluto, dovendo costituirsi sempre di rappresentazioni e sim­ bolizzazioni nei rispettivi campi eidetici1011 — come la fisica quantistica vuole —. Va subito detto, che la cosa-spazio è una molteplicità tri­ dimensionale euclidea 11 ; che la sua « terza dimensione » apre in Kri­ sis 12 quella voragine trascendentale della soggettività, le cui stratifi­ cazioni analitiche costituiscono proposte oggettive della disposizione naturale. Non è il « tempo » una quarta dimensione? Intanto la testimonianza di Heidegger nel suo exploit marburghese ci consegna la verifica di alcuni segreti o poco palesi, lontani moventi della ricerca husserliana: il volto dell’Erleben si identifica nella « sintesi passiva » ispirata all’« auto-affezione » (Selbstaffizierung) kantiana del tempo 13. Ma ora la crisi della fisica è forse disso­ ciabile da quella della matematica? Non è forse iniziata con la conferenza ai matematici di Göttingen del 1901 l’effettiva composizione della Crisi delle scienze europee? Con il severo bilancio in essa consegnato alla presenza del grande matema­ tico David Hilbert della Crisi dei fondamenti (Grundlagen-Krisis) della matematica, da Husserl sofferta già dagli anni di Berlino (1878-1882) alla scuola di Weierstrass, il maestro del suo « calcolo delle varia­ zioni » infinitesimali? La « terza dimensione » di Krisis non è forse già nel Kontinuum dimensionale del « profondo » di Riemann-Helm-

7. Op. cit., par. 49. 8. Op. cit., par. 47. 9. Op. cit., par. 48 (in modo particolare Annesso IV) di Crisi delle scienze europee, cit. appresso. 10. Op. cit., par. 9. 11. Op. cit., par. 40. 12. Cfr. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, « Husserliana », VI, Haag, 19762, par. 32. 13. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Reimer, Berlin, 1911, Bd. 67; cfr. E. Husserl, Ideen..., I, cit., par. 79; Analysen zur passiven Synthesis, « Hus­ serliana », Bd. XI, Haag, 1966, pp. 164-165. Cfr. G. Scrimieri, Fenomenologia ed ermeneutica tra Edmund Husserl e Martin Heidegger, Bari, 1983, Intro­ duzione.

146 holtz sostenuto a partire dalla Philosophie der Arithmetik del 1891 e dal Raum-Buch del 1892-93 ?14. La neutralizzazione di un campo, di più campi analitici, in cui positivamente si sono proposte e deduttivamente concatenate formu­ lazioni algoritmiche, in espressioni segniche convenute, con valori ope­ rativi simbolici (nella gamma pluriforme dell’immaginario dei numeri complessi e nella tipica delle funzioni di variabili complesse), non di­ venta la neutralizzazione di uno o più terreni di essere per la coscien­ za, la parentesizzazione delle rezioni ontologiche, anche di quelle stesse eidetico-formali di Ideen I?15 Lo sforzo husserliano 16 di strappare alla metodica riduttivo-fenomenologica l’impronta matematica di origine, come scienza positiva ed obiettiva anch’essa, è la testimonianza del rigore incondizionato che egli vuole annettere solo alla vera scienza dei fondamenti che è la 14. I. Strohmeyer Ingeborg, Einleitung, a Studien zur Arithmetik..., cit., pp. IX-LXXI in una presentazione degli inediti 1886-1893 che testimoniano l’in­ dagine critica svolta da Husserl sui fondamenti della matematica, a muovere dai problemi del « calcolo » (filosofia del calcolo infinitesimale, ecc.) dal problema dell’allargamento del campo numerico per la costituzione formale dell’aritme­ tica, dalla teoria delle funzioni, degli insiemi e le molteplicità ortoidi, della defi­ nizione formale del concetto di una molteplicità ciclica, delle grandezze pletoidi discrete e continue, dell’aritmetica delle serie e grandezze seriali fino alle que­ stioni di una filosofia dello spazio comprensiva di una psicologia e logica di esso, ma soprattutto della sua geometria. Già da questi Studien è impegnato nei pro­ blemi dell’« Idealisierung » delle « räumliche Verteilungen », a considerare la geo­ metria primo come campo-stimolo e campo-prova della riduzione (cfr. pp. 286296) che nei molteplici significati dello spazio, nelle relazioni tra logica e meta­ fisica di esso sulla base sempre di una sua intuizione profonda, propone già uno specimen della nascente fenomenologia. Le grandezze pletoidi continue del 1890 (pp. 119-153) ed i problemi fondamentali delle geometrie non euclidee, a partire dalla teoria di Riemann-Helmholtz (pp. 312-401) e la loro discussione-accetta­ zione (pp. 324-348 con gli annessi 1H-VI) non testimoniano finalmente con docu­ menti l’apertura di un terreno (neutrale) tra matematica ufficiale (come scienza positiva) e filosofia rigorosa, che ormai in quanto riduzione eidetica acquistava titolo ad essere fenomenologia trascendentale? (Cfr. G. Scrimieri, Analitica mate­ matica e fenomenologia in Edmund Husserl, Bari, 1979, pp. 6-24 e 257-289) in cui si legavano senza soluzione di continuità il pensiero matematico giovanile con la formazione della fenomenologia: cfr. pure dello stesso La formazione della fenomenologia di Edmund Husserl — La Dingvorlesung del 1907 — Bari, 1967, in cui la nascita della fenomenologia veniva collocata nel contesto della feno­ menologia della cosa-spazio del 1907, che si sviluppava ormai filtrata (ridotta) gradatamente dal dominio geometrico-spaziale, dal « Raumbuch » prefenome­ nologico del 1892-93). La fenomenologia appare una gestazione (anche un « re­ siduo » in senso riduttivo) della crisi delle matematiche che pure le conferenze dinnanzi a F. Klein e David Hilbert nella società di matematica di Göttingen celebravano affrontando l’identità più profonda di natura semeiotica-analitica che esse portano da sempre: nel problema dell’immaginario. Cfr. I. Strohmeyer, Einleitung, cit., pp. XVIII-XXXVI. 15. Cfr. E. Husserl, Ideen.... I, cit., par. 74-76. 16. Op. cit., par. 25-28.

147 Filosofia come scienza rigorosa (1911), giacché ancora una volta l’arit­ metica può valere come scienza propedeutica privilegiata per inol­ trarsi intenzionalmente nell’universale della soggettività: infatti la serie numerica non è neutralizzata 17. Inoltre, la « visione d’essenza » attraverso l’esperienza interna dotata di « temporalità immanente “non” cade nella neutralizzazione ». La riduzione distingue 18: essere come vissuto da essere come cosa; questa rimane trascendente, costi­ tuita com’è di rappresentazioni, simbolizzazioni, ricordi, empatie im­ proprie, ecc., mentre la corrente di vissuti è immanente 19 alla coscien­ za. In ogni vissuto di « sguardo-verso » un oggetto di volta in volta, Husserl propone un processo intenzionale di oggettivamente, in cui la cosa-spazio viene cercata nella molteplicità di determinazioni ri­ corsive e colta come « indice » o unità intenzionale di esse20. La per­ cezione di un vissuto è schietta, visione di un dato nella sua presenza, in ogni punto del suo « adesso », perciò essa è assoluta e può orien­ tare la riduzione eidetica in direzione soggettivo-trascendentale (verso il campo dell’io puro come « vivere necessario »). Perciò in Krisis il ruolo dell’elemento (soggettivo-relativo) è elevato al rango di « dominio di controllo » (guter Bewährung) di « cono­ scenze predicative »2*. Il « soggettivo relativo » rimane quindi « fon­ dativo » (letzlich Begründende) « per ogni verifica (Bewährung) og­ gettiva », come fonte di evidenza e di essere teoretico-logico. L’evi­ denza immediata caratterizza quindi l’esperienza del mondo della vita (Lebenswelt), in cui la funzione (presenza) della « presentificazione » sovviene alla vivezza intuitiva del ricordo e dell’empatia. L’Es selbst del « modo » di queste intuizioni attende, come intersoggettivamente esperibile e verificabile, ad assicurare valore alla produzione scienti­ fica in generale. È possibile considerare il modo-d’essere del mondo della vita solo ponendosi in terreno intuitivo, lasciando perciò « fuori gioco » (äusser Spiel) tutte le opinioni scientifiche oggettive, e considerando così « in generale » « quali siano i compiti scientifici decisivi ». La « terza dimensione »22 è chiamata ad assorbire ed a rappresentare l’intero tema della scienza oggettiva: essa è misura-controllo delle scienze e

17. Op. cit., par. 33. 18. Op. cit., par. 34-42. 19. Cfr. op. cit., par. 49 (la corrente dei vissuti è immanente ed associata perché « nulla re indiget ad existendum »). 20. Op. cit., par. 43-47. 21. E. Husserl, Die Krisis..., cit., par. 34. 22. Op. cit., par. 33.

148 costituisce il nerbo delle stratificazioni positive della riduzione feno­ menologica. Ma occorrono precisazioni. L’intuizione kantiano-heideggeriana (Marburgo 1925-1928) della « presenza » (Gegenwart) temporale sgorga anche dalle « Anticipa­ zioni della percezione » dell’« Analitica » kantiana: l’intuizione del « profondo » infinitesimale che la maternatizzazione dei « piena » della fisica secentesca aveva voluto cristallizzare nell 'oggetti vi tà della na­ tura, viene ora liberata dal Gemüt kantiano e perfino da\VErlebnis husserliano. Die Anknüpfung an Kant, la connessione con Kant23 deve essere attenuata dopo il fascino dell’infinitesimale esercitato dalla matematica ottocentesca, l’analitico dell’intensivo e del profondo la­ scia il tempo presenziale kantiano ancora da Heidegger24 vibratamente rivissuto nel 1925 e si installa nel ricorsivo incessante della riduzione fenomenologica. Era necessario un tipo diverso di « metodo regressivo »: non più quello mitico-costruttivo (della deduzione, della cosa in sé, ecc.) ma quello del tutto intuitivo, nel senso di auto-rap­ presentazione originale, con cui andava re-quisito quel fondo anonimo della soggettività, delle conoscenze e delle ovvietà del mondo della vita, rimasto reietto dall’attenzione di scienziati e filosofi. Bisogna muovere dall’« analisi intenzionale » dell’« essere spirituale » nella « sua proprietà assoluta »: del prodotto « nello spirito e dallo spi­ rito », non ricavabile dalla dominante psicologia, anche essa vittima dell’oggettivismo. Tra complesso psicofisico e spirito già da Ideen II (il par. 62 me­ ditato da Heidegger nel corso del 1925 di Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, par. 13) si intendeva stabilire un processo riduttivo illuminante, in cui la disposizione naturale (che può divenire natura­ listica) è in Ineinandergreifen, ingranaggio, con la disposizione spiri­ tuale (che può divenire personalistica), senza voler assolutizzare il mondo spazio-temporale che l’uomo e l’io umano si attribuiscono come realtà subordinata. È un controsenso infatti assolutizzare le unità em­ piriche — ribadisce Heidegger25 — le unità trascendenti (animali, persone, ecc.) di fronte alla sola sfera-di-essere di origine assoluta che è la coscienza pura. La riduzione e la formazione delle regioni, queste maniere di essere, non hanno da produrre « altro senso che la base scientifica per determinare la realtà di un reale ». La distinzione ra­

23. Op. cit., par. 9 e 32-33; cfr. anche Ideen..., I, cit., par. 62. 24. Cfr. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, « Ges. », Bd. 21, pp. 400 ss. 25. Cfr. M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, « Ges. », Bd. 20, p. 154.

149 dicale di essere come coscienza ed essere come mostrantesi (come essere trascendente), ammette Heidegger, può essere conseguita e « va­ lutata solo con il metodo della riduzione fenomenologica ». Nel pas­ saggio da una disposizione all’altra lo spirito produce qualcosa, ed in virtù del parallelismo corrispondono cambiamenti del mondo ogget­ tivo (la cui dipendenza va però rilevata). Gli zwei Pole, i due poli della natura e dello spirito acquistano quindi nella riduzione fenome­ nologica la verifica analitica di tutti i complessi rapporti intenzionali che ne garantiscano le rispettive fisionomie e funzioni ontologiche. Con Husserl vanno studiate le aporie del naturalismo che gravano sulle scienze naturali e nella « disposizione naturale ». Corpo ed ani­ ma appartengono al circondario spirituale (geistigen Umwelt) e attra­ verso le relazioni al corpo-cose assumono caratteri di realtà spirituale in questo senso: la persona agisce sul corpo mentre lo muove e il corpo sulle cose del circondario. D’altronde il movimento libero del mio corpo (e delle altre cose mediamente) « è un agire della natura in quanto la cosa circondariale è simultaneamente determinabile come cosa scientifica della natura ». Ma 1’« azione dello spirito sul corpo e del corpo sulle altre cose si esegue come spirituale nel circondario spirituale (geistigen Umwelt) »26; lasciando fuori l’intera natura della fisica, o meglio lasciandola in un circondario secondario (sekundäre Umwelt). Non appena la cosa in esame diviene oggetto di valutazione e quindi un valutato oggettivo, essa diviene un oggetto del circon­ dario primario (quello spirituale). Allora il corpo risulta essere anche come un circondario in senso fisico: ha, cioè a dire, un secondo aspet­ to, come piattaforma di passaggio (Umschlagstelle) dalla causalità spi­ rituale alla causalità di natura27. Corpo ed anima sono costituiti da una parte come non spirituali, ma dall’altra sono « qualcosa che sta là per lo spirito », inoltre come « anima dello spirito », sottostrato (Unterlage) dello spirito per la costituzione dell’anima. L’oggetto-uomo teoricamente incluso nella posizione scientifica di natura (l’oggetto zoologico, fisiologico e psicologico) « è specificamente un altro dall’oggetto teoretico: personalità umana. L’oggetto di natura uomo non è soggetto, persona, ma ad ogni oggetto può cor­ rispondere una persona; possiamo anche dire implica una persona, un soggetto egoale che però non è mai un pezzo di natura, qualcosa 26. E. Husserl, Ideen ..., II, cit., par. 62. 27. Op. cit., par. cit., pp. 285-286 sulla « superiorità ontologica del mondo dello spirito rispetto a quello naturalistico ». Occorre però tenere qui presente quanto è stato detto prima nel par. 49 sull’opposizione tra mondo naturalistico e mondo personalistico ed il par. 50 sulla persona come centro del circondario (cfr. in particolare pp. 183-187).

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di contenuto nella natura come realtà, ma qualcosa che si esprime nell’oggetto di circondamento corpo-umano, in cui il corpo è mero correlato della posizione del soggetto28. Heidegger intravvede chiaramente che « occorre sempre un’integra­ zione successiva (nachträglichen Ergänzung) della trattazione dell’in­ tenzionale e della riduzione compresa finora », e non mette mai in dubbio l’assolutezza dello spirito esaltata dal par. 64 di Ideen II ri­ spetto alla relatività della natura. Ma i contemporanei (degli anni 1913-1930) trovarono difficoltà ad accettare questa riduzione-correlazione preferendo indugiare nel­ l’ingenuità della disposizione naturale29. Riusciva loro difficile, in­ fatti, di afferrare la molteplicità di modi di apparizione nei modi di datità risultanti dalla relatività del movimento costante: di cogliere il sistema di correlazione percezione-corpo, enti-mondo-spazio tempo­ rale nei modi di datità. L’esperienza si differenzia in specie, categorie regionali e modalità spazio temporali. Andava compresa la correlazione apriori di oggetto di esperienza e modalità delle datità che la ridu­ zione trascendentale intende sviluppare. La certezza nella percezione di cosa si acquisisce attraverso presentificazione ed anticipazione im­ plicite nella correlazione. La tematica della riduzione3031coglie e rea­ lizza il flusso percettivo che circonda la percezione di cosa con rifles­ sione interna ed esterna fino all’« accordo sul mondo » (eine Einstim­ migkeit in der Gesamtwahrnehmung der Welt); il mondo risulterà invero dalle connessioni simili delle singole serie di esperienze, da cui dovrà essere rilevato « il normale dell’accordo intersoggettivo della valutazione » e quindi l’unità intersoggettiva nella molteplicità di va­ lutazione e valutando. Risulteranno quindi prospettive singolarmente diverse, ma ognuna partente dallo stesso sistema totale di molteplicità. Dalla correlazione del mondo e dei modi soggettivi di datità discende la fenomenologia trascendentale; la riduzione procede con una corre­ zione che funge proprio continua (durch eine eigentlich beständig mit fungierende Korrektur), da parte delle singole « variazioni di valu­ tazione » proposte vicendevolmente dagli uomini nella vita di valuta­ zione (ein Geltungswandel in wechselseitiger Korrektur)21. Lungi da empiti irrazionali preconcetti, il mondo della vita (della natürliche Einstellug) diventa così un indice della molteplicità di modi e strutture dei vari Io-polo interpresenti che dialogano con il 28. Op. cit., p. 287. 29. E. Husserl, Die Krisis..., cit., par. 49; pp. 169-170, nota 1; cfr. anche Abhandlung II. 30. Op. cit., par. 47, pp. 163-166. 31. Op. cit., par. 47, pp. 166-167.

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passato, in cui la « sintesi-io-tu » (Ich-Du-Synthesis), ed in empatia (im Einfühlung), costituisce la soggettività come intersoggettività32. La simultaneità temporale dei singoli poli-egologici è quella che si disten­ de nella spazialità del sociale (o intersoggettivo comunitario). Il poloegologico propone un’auto-temporalizzazione (Selbstzeitigung), come una de-presentificazione (Ent-gegenwärtigung) in analogia con la mia estraneazione (Entfremdung); per cui è la risultante degli « altri » che costituisce l’accordo empirico chiamato « mondo ». Così VEinfühlung esplica l’assurdo e risolve il paradosso dell’intersoggettività dell’io che costituisce il mondo, di cui è anche costituendo33. Così pure nella ri­ flessione (per dominare il Geradehin o intentio recto); tutte le evidenze naturali delle scienze oggettive, compresa logica e matematica, appar­ tengono al dominio delle comprensibilità per se stesse (Selbstverstän­ dlichkeiten) che però presentano sempre uno sfondo di incomprensi­ bilità. Infatti le scienze oggettive, e scienze della natura non hanno conoscenze ultime, perché non ricercano in intuizione vivente la « na­ tura nella connessione assoluta », in cui scopre essa stessa il suo senso d’essere ed il suo essere reale e proprio. Sia chiaro però, l’essere del mondo oggettivo della « disposizione naturale » non perde nulla se si « ricomprende » nella « sfera d’essere assoluta ». La conoscenza del metodo « interno », in cui conserva « senso e possibilità ogni metodo scientifico oggettivo », può valere agli scienziati naturalisti come l’autoriflessione della soggettività realizzante34. L’ego cogito della fenome­ nologia trascendentale non vuole essere una sfera di premesse da cui dedurre cartesianamente le restanti conoscenze in assoluta sicurezza. La fenomenologia — come Heidegger ribadisce a più riprese — « com­ prende » (versteht), non assicura (nich sichert). La crisi colpisce l’oggettivismo della psicologia come scienza per­ ché questa è equiparata alle scienze della natura (oggettivistiche); anche essa, cerca (più che la matematica) il suo fondamento. Par­ tendo dalla riflessione sulle mie outopercezioni posso procedere riduttivamente in una dimensione trascendentale « tematizzando me stesso » come polo egologico; ma posso muovere anche dalla com­ pagine obiettiva nella psicologia stessa passando riduttivamente al senso di una rappresentazione del mondo, al senso dei fini determi­ nati dello psichico di altri uomini, tematizzando la psicologia ogget­ tiva in riflessione, accomunando stadio trascendentale della riduzione

32. 33. 34. ralismo

Op. cit., par. 50, p. 175. Op. cit., pp. 187-189. Op. cit., par. 55, pp. 190-193: quindi può la filosofia correggere il natu­ delle scienze, può anche vincere l’insecuritas spinoziana.

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e filosofia trascendentale in generale. La psicologia risulta essere allora « campo di decisioni » al bivio tra obiettivismo e trascendentalità del­ la scienza35. Non è detto però che basti riflettere tematizzando vita psichica mia ed altrui, che basti compiere autopercezioni e percezioni dell’« altro » mediante empatia, per considerarsi uscito dall’ingenuità (Naivität) di un’appercezione già pronta, mentre il suo correlato tra­ scendentale è l’intenzionalità attuale (che funge) con un suo senso d’essere che continua a rimanere inattingibile. Intanto come fenomenologo nella « disposizione naturale » pur permanendo o ritornando nell’esecuzione dei miei interessi, non potrò ritornare nella « stessa » ingenuità perché, anche se la capirò, essa è passata; invero, « le mie stesse perspicacie e mire trascendentali sono solo divenute inattuali, ma sono di nuovo le mie proprie ». La mia prima autobiettivazione viene riciclata in un nuovo movimento della mia vita psichica. Le appercezioni nuove della riduzione fenomeno­ logica, prima inagibili ed inesprimibili scorrono ora nell’autobiettivazione, nella mia vita psichica e cominciano già ad essere appercepite come sottofondo intenzionale di realizzazioni costitutive. La fenome­ nologia rileva quindi che l’io testé passato « non era altro che l’io trascendentale nel modo dell’occlusione ingenua » (in dem Modus naiver Verschlossenheit). All’Io appercepito di nuovo, come uomo tout court pertiene imprescindibilmente un’oltranza (in Gegenseite) in al­ ternanza costituente, con cui erigere la mia concrezione piena; infi­ nite funzioni trascendentali mi dispiegano questa dimensione totale (che si coagula sempre come « intero »). Con questa dimensione tra­ scendentale — già attinta dalla stessa riflessione sulla « terza dimen­ sione » di sopra — questo nuovo flusso concreto nel mondo già mi localizza come corpo fisico, come uomo di qualche spazio e in qualche tempo del mondo 36. Ma la « disposizione » del portatore disinteressato della soggetti­ vità trascendentale che si oppone alla « disposizione naturale » è dif­ ficilmente perseguibile in modo radicale »; la tensione tra le due di­ sposizioni è perciò inestinguibile: è valida in quanto incessante e non persegue una tipica ovvia e predeterminata. Il fenomeno deve stare tra l'ovvietà dell’essere del mondo con i suoi enigmi e la sua com­ prensibilità ulteriore 37. Allora la comprensione analogica esercitata nella percezione del­ l’altro (Fremdwahrnehmung) ci porta ad una interpretazione trascen35. Op. cit., par. 57-58. 36. Op. cit., par. 60, p. 215. 37. Op. cit., par. 53, pp. 183-184.

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dentale della rimemorazione che può risultare decisamente risolutiva dell'aporia costitutivo-trascendentale: « al rimemorato, al passato spetta anche un io passato di quel presente »: durante l’io reale originario che è dell’attuale presenza cui appartiene anche la rimemorazione come vissuto presente, al di là della sfera cosale presente. Quindi l’io at­ tuale compie un cambiamento di se stesso nel costituirsi come pas­ sato, anzi nel flusso presente costituito di passato: l’altro di sé e gli altri Io sono di quel flusso il tessuto intersoggettivo che si esibisce come « polisistema della vita costituente il mondo » in comune. Il radicalismo della fenomenologia è attingibile solo qui senza paradossi; con l’autoriflessione sempre rinnovata sul mondo come « universo di fenomeni »38. Un io « diverso » da quello originario della percezione sensibile « perviene alla valutazione dell’essere » attraverso la « con­ presenza » dell’« altro » da Heidegger pure messa in luce, nei corsi di Marburgo ed in Essere e tempo. Il tempo-presenza quindi è il gran­ de alveo della fenomenologia e della riduzione trascendentale in essa. Ma va precisato ancora. Non si può capire il ruolo decisivo del flusso temporale dalla co­ scienza e nella coscienza costituito, senza un’autentica acquisizione del senso dell’intuizione. Esso in Krisis può essere rilevato collegando il par. 28, sulle premesse kantiane del problema, al par. 49 sul ruolo che Continuum e discreto hanno nella « comprensione » della « Synthe­ sis », nella sua osmosi tra orbita sensibile ed orbita riflessiva. Mentre al livello osmotico della « disposizione naturale », nella direzione sul­ l’oggetto, lo sguardo « penetra attraverso le apparizioni » (Erschei­ nungen) nell’« apparente », in un « continuo unificante », e l’oggetto è « presente esso stesso » nella valutazione d’essere del « modo »; se invece Io sguardo è disposto riflessivamente, non abbiamo l’uno, ma il molteplice: ora è tematico il flusso stesso delle apparizioni e non ciò Che in esse appare. La percezione è il « modo originario » della intuizione: la rappresenta in originalità fondale (Un-Originalität), cioè nel modo dell’« autopresenza » (Selbst-Gegenwart). Ma sono modi dell’intuizione anche le presentificazioni ed i cambiamenti di presen­ tazione, che in se stessi hanno il carattere di questo auto-presente « lo stesso là ». Emergono così modalità temporali come: « ente non astan­ te », ma stante passato o futuro là come medesimo. Le intuizioni presentificanti « ripetono » tutte (con certe modificazioni) le molteplicità di apparizioni, in cui l’oggettivo si rappresenta secondo percezione: l’intuizione rimemorante, mostra l’oggetto come per se stesso « già stato là », mentre ripete la prospettivazione (Perspektivierung) ed altre 38. Op. cit., par. 54, pp. 185-189.

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maniere di apparizione, ma con modificazione di tipo memorativo. Siamo all’intuizione del mondo sensibile dell’apparizione che « in ogni verifica di interesse vitale nel mondo della vita svolge il suo ruolo nell’esperienza ». Ed avendo « qualità corporee da rappresen­ tare avrà anche quelle psichiche e spirituali ». Sarà riproposto anche dalle varie cinestesi, in uno con le altre intuizioni sensibili, il « flusso intero delle situazioni », da cui risultano gli aspetti intuiti del mondo, che « fanno » il « mondo della vita ». Il corpo (quello organico del campo percettivo) è quello dell’io dell’« affezione ed azione », che domina gli organi particolari con la cinestesi — ovvero con il siste­ ma-intero corrispondente alle molteplicità di apparizioni che continua­ no a scorrere —. Il corpo (Leib) altrui può essere percepito solo come corpo (come percezione di Körper), alla stregua degli altri soggetti della Lebenswelt, che si mostrano sempre nella loro corporeità (Körperlichkheit) anche se non esclusivamente come tali (come körperliche) ; mentre gli oggetti assenti rimangono sempre corporei (leibliche), ma non esclusivamente come tali, per via della cinestesi e delle modalità egoali che li colgono (come Körperlichkheit). Comunque i modi della egoità corporea, pur nel loro combinarsi, formano un’unità. Nella co­ scienza desta nel mondo viviamo sempre attivi, anche sulla base di un passivo-mondo (Welthabe): siamo affetti dagli oggetti predati, appli­ cati nel campo di coscienza ai vari oggetti che sono « tematici » nei nostri atti (per esempio, se applicati alla peculiarità di un apparente, a distinguere un fare, a stabilire un valore). La coscienza del mondo è allora in continuo movimento, è sem­ pre mondo consaputo in qualche forma di oggetto in maniera diversa (intuitiva, non intuitiva, determinata, non determinata), ed anche nel cambiamento di affezione ed azione, ma in modo che sempre esiste un regno totale dell’affezione, in cui gli oggetti sono ora tematici ora ate­ matici, tra i quali ci siamo noi stessi, appartenenti inesorabili al do­ minio affettivo, per sempre fungenti come soggetti di atti tematizzati, occupandoci di noi stessi come oggetto. Nella vita comune abbiamo un mondo di cui facciamo già parte. Nella vita desta ci proponiamo come oggetti a vicenda. Quel cambiamento di tematica in cui diviene oggettiva la soggettività-noi, tematizza gli atti rispettivi, lasciando sempre il residuo atematico, che rimane anonimo « proprio come quelle riflessioni che fungono per (eseguire) questa tematica stessa ». Come scienziati discutiamo ponendo e rispondendo in rapporto alla natura o allo spirito, con presupposti consaputi o meno, costituenti il nostro mondo della vita: conosciamo tra noi di taciti accordi, di atti sottintesi, ci accorgiamo di « un regno infinito di valutazioni di es­ sere » che ci portiamo dietro come scienziati e filosofi. Il presuppo­

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sto del mondo con tutte le correzioni dell’orizzonte di notorietà e certezza, le cui svalutazioni sono considerate contradittorie costitui­ scono la base delle scienze obiettive39. Già nel pensiero di Kant — precisa Husserl in Krisis par. 29 in connessione con Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik — sono rilevabili queste « implicazioni inemerse » (Selbstverständlich­ keiten, tradotte ovvietà) di senso e valore. Ad una legittima ermeneu­ tica deve emergere « una infinità di fenomeni sempre nuovi di una nuova dimensione », che si dispiega sotto la guida del senso: si tratta di « fenomeni dati » del mondo della vita, che sono « puramente sog­ gettivi »; non sono meri fatti di flussi psicofisici di dati sensoriali, « ma flussi spirituali » esercitanti la funzione essenziale della forma­ zione di senso. Nessuna scienza e nessuna filosofia è riuscita ad avere il possesso di questo mondo della soggettività, a scoprirlo pienamente, neppure la filosofia kantiana, nonostante le sue « condizioni sogget­ tive di possibilità »; esso rimane un regno non ancora colto e con­ cepito in pieno. Forse il problema capitale, la crisi del fondamento delle scienze oggettive troverebbe giovamento risolutivo proprio dal raggiungimento di questo regno della soggettività anonima. Le « implicazioni inemer­ se » rilevabili nelle attività quotidiane, da fini e realizzazioni di senso, ecc., sono « le realizzazioni spirituali che noi uomini esercitiamo nel mondo » a titolo personale40 e come operazioni culturali. Il sottofondo (Untergrund) prescientifico di esse raccoglie le acquisizioni spirituali e rimane costante nel flusso delle maniere di datità del mondo; gli pertiene per primo che la soggettività obiettivi se stessa come parte di mondo, che qualunque trattazione oggettiva del mondo sia trattazione dell’esterno e colga solo estrinsecità, oggettività. La trattazione radicale del mondo invece è sistematica, è la pura trattazione interna della soggettività che si esterna da sé; essa per­ segue la « terza dimensione » della famosa immagine di RiemannHelmholtz dell’essenza della superficie, che consiste nella riscoperta della dimensione di profondità il cui mondo di superficie è una mera proiezione 41; Kant aveva già intuito e sofferto questo antagonismo tra vita di superficie e vita del profondo. La molteplicità emersiva di datità intenzionata di modi di appa­ rizione si scopre allora regredire in ciascuno dei modi in altrettante unità di molteplicità — il ricorsivo algoritmico continuo si rileva 39. Op. cit., par. 28. 40. Cfr. Ideen.... cit., par. 58-64. 41. Cfr. Die Krisis..., cit., par. 30.

156 costituito di regressione (Rückfrage) del par. 49 —: gradi e strati di sintesi sono costituiti di una « unità universale di sintesi », in cui è condizionato l’universo oggettivo, il mondo nei suoi modi sostenuti dall’intenzionalità. Qui il passato che involge intenzione, perché è intuitività originaria portata a datità. Il mondo è il passato temporale intenzionale: è quindi una gestazione del tempo. Husserl dice: è « co­ stituzione », ma è costituzione intenzionale in quanto è una durazione temporale. La profondità del « complesso » nella difficoltà della sintesi di tutti i tempi di ogni percepito-rimemorato presenta una tipica che Husserl assimila alla 4'ux't) eraclitea, il cui fondo para o apre sempre altro fondo cui nessuna logica scientifica può sovvenire pie­ namente. Nell’Auslegung dell’uomo di Heidegger è ravvisabile il Grenz­ gänger des Grenzenloser, il camminatore ai limiti dell’illimitato (abis­ so?), che le pagine illuminanti del suo Gespräch von der Sprache (p. 137) ricercano nel « mistero del limite » (o del « passaggio al li­ mite » dell’infinitesimale di ottocentesca memoria): ma proprio nella necessità di cogliere « l’essenza del linguaggio » che tale profondità non riesce ad esprimere » (ad oggettivare estrinsecando come sensi­ bile un soprasensibile). « Spetta all’uomo quello in cui si cela il du­ plice (Zwiefalt — duale inunibile) di astare (Anwesen = presenza) e astante (Anwesend = presente) » (p. 135); l’uomo « ascolta da sem­ pre questo messaggio » nel suo rapporto ermeneutico. « Egli è il por­ tatore del messaggio dello svelamento del duplice »42. Ma sull’orlo di questo Grenzenlos il Grenzgänger (il camminatore) può solo fare un cenno (Wink), giacché i segni (Zeichen) sono sem­ pre scienza oggettiva, linguaggio positivo o metafisica speciale (pp.l 14116). L’epixTQVEu«; si può collegare al nome del dio Ermes « in un gioco di pensiero che è più vincolante del rigore della scienza » (dallo Ione platonico); di qui la duplicità dichiarata dal messaggio (ermeneutico) dell’uomo. Egli lascia distinto astare ed astante. Ma de hoc satis: il « voler sapere e l’avidità di spiegazioni non porta mai ad un interro­ gare pensante » (p. 100).

42. Op. cit., par. 32.

3. PROBLEMA TELEOLOGICO E FENOMENOLOGIA DELLA TEMPORALITÀ

di Mario Signore

La fenomenologia husserliana si pone, indiscutibilmente, anche co­ me un programma nuovo di rilevazione e di individuazione del senso nascosto della storia moderna, e vuol offrire gli strumenti che consen­ tano di mettere alla luce la ragione latente della storia dell’umanità, co­ gliendone l’itinerario che la conduce verso un compimento, del quale, come vedremo, è sempre l’uomo l’autore e il responsabile. Questo pro­ gramma, inevitabilmente, apre al problema teleologico e, conseguente­ mente, alla fenomenologia del tempo, richiedendo una ripresa finaliz­ zata dei temi dell’analisi fenomenologica, e innanzitutto dell’« inten­ zionalità », che portano a chiarimento gli aspetti essenziali del nostro tema. L’analisi fenomenologica, la quale attraverso la « riduzione » aveva messo in crisi l’ovvietà del mondo naturale, e quindi l’assoluta estra­ neità ed oggettività della natura così com’è, non poteva lasciarsi sfug­ gire le gravi conseguenze del rischio del soggettivismo e del solipsismo, che si accompagna sempre al rifiuto generalizzato di considerare il va­ lore e il peso dell’oggetto. Perciò, proprio mentre il pensiero filosofico sembra non essere in grado di uscire dalla ovvietà del naturalismo, sen­ za cadere nel soggettivismo, nel coscienzialismo e nell’idealismo, Hus­ serl prende in esame la « coscienza intenzionale », in quanto coscienza « di », individuando nella coscienza il punto di riferimento di tutti gli oggetti, quel « polo » essenziale, che non è polarità fissa, ma sempre in movimento, in quanto diretta verso gli oggetti, per sottrarli alla loro as­ soluta trascendenza, cioè alla loro pura « datità », che chissà come, pretenderebbe di ridurli a dati delle scienze della natura, senza passare mai dalla coscienza. Le strutture della coscienza intenzionale acquistano, quindi, in Husserl, un’importanza rilevante per la filosofia fenomenologica, in quanto pongono in modo nuovo il nesso mondo naturale-coscienza, in­ teso non solo a rifiutare tutto ciò che non possa essere colto come

158 « vissuto » immanente alla conoscenza, ma anche a sottoporre ad ana­ lisi gli atti conoscitivi, che producono l’ovvietà del mondo naturale. Ora, per la coscienza intenzionale, il mondo in quanto complesso di dati è senz’altro trascendente rispetto alla coscienza. Ma siccome è sempre nella coscienza che si realizzano le leggi logiche che normativizzano il mondo, senza nulla togliere alla specificità, per così dire, on­ tologica, che caratterizza la coscienza e il mondo naturale, non si può eludere la « relazione », che da sempre, anche prima che questa sia espli­ citata, sussiste tra di essi, appunto come relazione intenzionale. Su que­ sto « fungere già » dell’intenzionalità, Husserl non ha dubbi, tant’è che per lui la fenomenologia, in tanto può tendere all’autodisvelamento del trascendentale, « in quanto indaga concretamente ed esplicita l’inten­ zionalità », e « ovunque cominci la fenomenologia, l’intenzionalità è già ed è già sempre stata fungente »’. Il mondo naturale si pone ed è sostenuto in quanto « correlato » del­ la coscienza, della quale è oggetto intenzionale e nella quale trova sem­ pre il suo vero ed unico polo di identità. « Ogni essente (che abbia avu­ to o che possa avere senso per noi) in quanto intenzionalmente costitui­ to, è inserito in una successione graduale di funzioni intenzionali, e an­ che di esistenti già intenzionalmente costituiti, che a loro volta si tro­ vano intrecciati in funzioni intenzionali per la nuova costituzione di esistenza. Ogni essente (in contrasto col falso ideale di un essente asso­ luto e della sua assoluta verità) è, in ultima istanza, relativo e, con tut­ to ciò che è relativo in ciascuno dei sensi consueti di questa parola, è relativo alla soggettività trascendentale »1 23. Qui, la relatività dell’essente si traduce, per Husserl, nella « relazionalità » a una soggettività tra­ scendentale, ad una coscienza attuale, ad un « cogito » attuale, che ha per essenza « di essere coscienza “di” qualche cosa ». Per cui, « tutti gli Erleb'nisse che presentano questa proprietà essenziale si dicono an­ che Erlebnisse “intenzionali” (“atti” nel senso amplissimo delle Ricer­ che logiche): in quanto sono coscienza di qualcosa, si dicono “intenzio­ nalmente riferiti” a questo qualcosa »’. Ora, è proprio del cogito, se­ condo Husserl, avere un immancabile « sguardo-verso » l’oggetto, che 1. G. Brand, Welt, Ich und Zeit. Nach unveröffentlichten Manuskripten Edmund Husserl, M. Nijhoff, Haag, 1955, tr. it. Mondo, io e tempo nei mano­ scritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano, 1960, p. 108. (D’ora in avanti cite­ remo solo dall’edizione italiana). 2. E. Husserl, Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari, 1966, p. 335 (la spaziatura è nel testo). 3. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophia, I (Husserliana IH), M. Nijhoff, Haag, 1950, p. 80, tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, Ei­ naudi, Torino, 1965, pp. 76-77.

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fa dell’oggetto un oggetto intenzionale della coscienza, sia che si tratti dell’oggetto semplicemente « afferrato », cioè della « nuda cosa », che in quanto tale viene afferrata nel volgersi-verso dello sguardo dell’io, sia dell’oggetto valutato, cioè dell’« essere rivolti valutativamente ad una cosa »4. Anche se Husserl non trascura il fatto che « negli atti del tipo di quelli valutativi abbiamo... un oggetto intenzionale in duplice senso, in quanto dobbiamo distinguere la mera cosa e l’oggetto piena­ mente intenzionale, e quindi una doppia intentio, eventualmente un duplice “essere rivolti”; nell’unità del cogito si intreccia intenzional­ mente un duplice cogito. In quanto, in un atto valutativo, siamo rivolti alla cosa, indubbiamente il nostro rivolgersi è un oggettivo fare atten­ zione ad essa, un afferrarla; senonché in tale atto siamo rivolti — ma qui non in maniera afferrante — anche al valore... Evidentemente, il rappresentarsi una cosa, badando ad essa, quando fonda un essere-rivol­ ti valutativo, rappresenta un modo diverso del badare (del rappresen­ tarsi, afferrandolo, l’oggetto) da quel rappresentarsi che non ha una simile funzione strumentale »s. Ma se è vero che « ogni atto in senso pregnante ha una sua modalità di attenzione »6, le possibili differenze di atteggiamento si aggiungono « nella misura in cui tutte le oggettivi­ tà, per quanto altamente fondate, per esempio quelle dell’atteggiamen­ to originariamente valutativo o pratico, vengano ricondotte in quelle dell’afferramento teoretico, e così possano diventare temi di un “rap­ presentare” transitorio o conseguente, in particolare, di un esperire, di un esplicare, di un produrre, ecc. »78. Naturalmente, 1’« afferramento teoretico », di cui qui si argomenta, anche alla luce di altre opere husserliane, non si esaurisce negli esiti del pensiero astratto che, facendo correre il rischio idealistico, sconfesse­ rebbe lo specifico non idealistico dell'intenzionalità. Al contrario, alla « coscienza intenzionale » fanno capo « tutti gli stati del percepire e non solo l’astratto pensiero... Ciò che io percepisco, allora, è in me, perché altrimenti non potrei percepirlo, ma è anche distinto da me, in quanto è un oggetto percepito »". Tutto ciò pone inevitabilmente delle condizioni alla relazione in­ tenzionale, che certamente non sarebbe possibile, di fronte alla totale indistinguibilità di soggetto ed oggetto. Ma non soltanto l’identità rende impossibile la « relazione », giacché questa non è verificabile nemmeno 4. 5. 6. 7. 8. diti di

Cfr. Op. cit., pp. 81-82, tr. it. cit., pp. 78-79. Op. cit., p. 83, tr. it. cit., p. 79. Ibid., tr. it. cit., p. 80. Op. cit., p. 84, tr. it. cit., p. 80. E. Paci, Introduzione a G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti ine­ Husserl, cit., pp. 7-8.

160 « nel caso siano totalmente diversi, estranei, separati ». Ciò significa, in definitiva, che nella relazione intenzionale « soggetto e oggetto sono estranei, ma in relazione, in relazione, ma estranei »910 . 11 Per completare, infine, questo momento essenziale della fenomeno­ logia trascendentale, anche ai fini del nostro discorso, aggiungiamo che non è ipotizzabile, per Husserl, un io soggettivo non intenzionale, co­ me pure è impossibile un oggetto che non sia per-l’io. Possiamo dire ancora, riprendendo una posizione di Paci, che per Husserl « l’io è io, ma in quanto “coscienza di”: l’oggetto è oggetto, ma in quanto oggetto, dell’io. Se si vuole parlare dell’io come unità — il che si può fare solo per astrazione — si deve subito, immediatamente, dire che l’io è unità che si estrania a se stessa, che intenziona un oggetto. Se però l’estrania­ zione fosse assoluta non ci sarebbe né l’io né l’oggetto, e non ci sareb­ be nemmeno l’estraniazione »‘°. Se vogliamo spiegarci ciò che l’essere è, dobbiamo ricorrere all’ana­ lisi intenzionale, nella quale il dato si manifesta sempre in un’intenzio­ ne, che lo travalica, e « poiché il dato è soltanto in quanto rimanda alle possibilità attive della sua esplicitazione da parte dell’io, l’analisi inten­ zionale comincia con l’esplici fazione del dato; comincia quando noi ci chiediamo che cosa propriamente significhi intenzionare questo dato, quando cioè cerchiamo di chiarire a noi stessi questo intenzionare, o l’intenzione stessa »". L’analisi intenzionale, allora, se da un lato rifà la « storia » della conoscenza, dall’altro è un’analisi costitutiva, che rende esplicite le implicite potenzialità del dato, tutte quelle potenzia­ lità che danno senso al dato, e che l’analisi intenzionale porta alla' luce. Su questo « portare alla luce (Hervor-bringen), Husserl insiste molto, per dare alla « costituzione » proprio il senso della rivelazione delle va­ lidità che sono già presenti, sia pure in modo implicito, nell’oggetto. Costituire non è quindi creare o costruire, bensì esplicitare un orizzon­ te, arricchire di senso. Ogni esplicazione vera e propria ha il carattere intenzionale di una esplicitazione che soddisfa l’intenzione dell’orizzonte (come anticipa­ zione vuota), e la sviluppa in una serie di momenti determinati per i quali, partendo da certe proprietà sconosciute, si vengono a determi­ nare quelle corrispondenti che da ora in poi sono sconosciute; questa conoscenza ha luogo nel modo della distinzione di ciò che è indetermi­ natamente implicito nell’orizzonte. E appunto in virtù dell’apprensione 9. Op. cit., p. 8. 10. Ibid. 11. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., pp. 87-88.

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dell’oggetto (e anche di altre apprensioni di esso secondo la regione, il genere, il tipo ecc.) questa implicazione ha conservato un senso parti­ colare, il senso di una cosa che già prima, ma “indeterminatamente”, “vagamente”, “confusamente” era inclusa in quell’apprensione; l’espli­ cato messo in evidenza è l’elemento chiarificativo di una confusione cor­ relativa. Coincidendo con l’oggetto appreso (appreso anche nel suo ti­ po) esso è circondato da un orizzonte di residui di confusione, che si deve ulteriormente chiarire. La chiarezza, sebbene sia sempre un soddi­ sfacimento, e il mostrarsi stesso di ciò che prima era presignato e prein­ teso in maniera vuota, non è mai un puro e semplice darsi da sé, come se la presignazione fosse tanto ampia che il senso presignato fosse già preinteso in determinatezza assoluta e dovesse solo passare alla chia­ rezza del “se stesso”. Anche quando l’oggetto è “completamente” co­ nosciuto, questa completezza non corrisponde alla sua forma ideale. Il preinteso in maniera vuota ha una sua “genericità vaga”, una sua in­ determinazione aperta, che si riempie solo nella forma della appropria­ zione (Näherbestimmung). Al posto di un senso pienamente determina­ to c’è dunque un vuoto confine di senso, che però non è quasi pur esso colto come un senso preciso. La sua ampiezza, caso per caso molto di­ versa (che è quella di oggetto in generale, cosa dello spazio in generale, uomo in genere ecc., a seconda del modo in cui l’oggetto è anticipatamente colto) non si rivela che nei soddisfacimenti (o riempimenti) di senso e solo dopo di ciò può essere delimitata in certe proprie azioni intenzionali... e colta in concetti. Il soddisfacimento schietto opera quindi, mediante la chiarificazione, anche un arricchimento di senso. Quando ora un oggetto appreso col suo orizzonte viene ad esplicazione, quest’orizzonte si vien chiarendo ad ogni passo attraverso un’identifica­ zione che soddisfa le intenzioni, ma si tratta di una chiarificazione che è solo “parziale” »12. A quanto esposto in questa lucida pagina husser­ liana, si può aggiungere che, in questo determinare più da vicino, l’ana­ lisi intenzionale si presenta come « descrizione », che « si determina a partire da ciò che dev’essere descritto, ed è descrizione in quanto tiene a distanza tutto ciò che non è determinante »13. Si tratta quindi di una descrizione esplicitante, che è anche spiegazione in quanto chiarimento (Erklärung als Klärung), che tende alla ricerca dell’evidenza come autoofferenza, e come verità definitiva. L’evidenza, per Husserl non è mai

12. E. Husserl, Erfahrung und urteil, Classen Verlag, Hamburg, 1948, pp. 140-141, tr. it. Esperienza e giudizio, a cura di F. Costa, con prefazione di L. Landgrebe, Silva, Milano, 1965, pp. 132-134. 13. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., pp. 92-93.

162 chiarezza, bensì chiarimento, ed è apodittica (nella forma della certez­ za della fede) in quanto autodisvelamento del mondo. Ora, è proprio del ritrovamento auto-disvelantesi che bisogna argo­ mentare, se si vuole avere completo il quadro dell’analisi intenzionale, che riteniamo non semplice premessa, bensì parte integrante dell’inda­ gine che stiamo proponendo in questa sede. « Nella chiarezza assoluta, ma non intuitiva del mondo sta la possibilità di un chiarimento del­ l’essere, un chiarimento che non può però portarlo a una piena chia­ rezza. Insieme, il chiarimento dell’essere è la possibilità di avvicinarsi al mondo, di penetrare nell’“estraneità”, ma non di dipanarla compiutamente, non di portarla all’intuibilità. Nell’essere presente del mondo nelle singolarità, la presenza in persona del mondo è per me nell’eviden­ za... L’analisi dell’intenzionalità fungente è un costante avvicinamento dell’essere come essere presente in persona, lo sforzo di portarlo ad una vicinanza sempre maggiore, nell’assoluta vicinanza del mondo »14. Nel­ l’orizzonte del mondo è possibile cogliere la tensione permanente tra la datità, che inerisce al mondo, e l’io che ne esplica il senso, nel momen­ to stesso in cui fa esperienza del mondo, ponendosi appunto come vitache-esperisce-il-mondo, e che, per prima cosa si sente impegnato ad in­ terrogarsi intorno alla propria « egoità » (Ichliches) : « Prima di tutto mi imbatto dunque in questa domanda: come sono io in quanto sogget­ to per il mondo, che cosa mi spetta come mia essenza propria? »1516 . Si può rispondere con Husserl che l’io è un « sum cogitans », come io cheesperisce-il-mondo: « ... in quanto filosofo che comincia fenomenologi­ camente, io sono-io stesso sono, io che esperisco il mondo », ma questo significa pure che non v’è un io che sia « meramente » io. « In tutto ciò, nella vita entro cui io sono in relazione al mondo, è implicato che non c’è mai un mero io e, di fronte, un essere molteplice privo di io...'6. Che è come dire che l’io coglie la propria « seità », il proprio essere nel momento dell’autoestraniazione che si qualifica appunto come vita-cheesperisce-il-mondo. Ora, una interessante connotazione dell’intenzionalità husserliana, che, secondo noi consente di cogliere la stretta correlazione tra teleolo­ gia e temporalità, appunto attraverso la mediazione dell’intenzionalità, si ritrova nell’esplicita identificazione, a certi livelli, dell’intenzionalità con l’istinto e l’impulso e, in particolare con l’impulso intersoggettivo. Nel manoscritto E III 5 dal titolo: Teleologia universale e datato 1933 (siamo negli anni della riflessione sulla Krisis) Husserl esprime tutti 14. Op. cit., pp. 94-95. 15. E. Husserl, Manoscritto B 15 IX, p. 31. 16. E. Husserl, Manoscritto C 4, p. 22.

163 i termini della questione, individuando il nesso unitario, che qui vo­ gliamo riprendere: « L’impulso intersoggettivo, che in sé comprende ogni soggetto e tutti i soggetti, dal punto di vista trascendentale. I mon­ di di monadi relativi, ognuno dei quali costituisce per sé un mondo tem­ porale obiettivo, e da ultimo il mondo monadico umano e il mondotempo degli uomini. L’essere della totalità monadica come essere fluen­ te che arriva all’autocoscienza, e che è già nell’autocoscienza, processo graduale in infinitum - teleologia universale »'7. In una nota a margine dello stesso Husserl, si cerca di portare a chiarimento il senso dell’impulso intersoggettivo dal punto di vista tra­ scendentale, e che si riferisce a « l’essere una con l’altra e l’essere una nell’altra di tutte le monadi nell’unità di un universale svolgimento, svolgimento nella forma dei relativi mondi di monadi. Ognuno di tali mondi ha costituito intenzionalmente in se stesso un mondo obiettivo (mondo-tempo) con gli Io-Soggetti che vivono nel suo interno. Da ulti­ mo l’umanità monadica nel suo mondo, umanità che già da sempre è sulla via della costituzione. L’essere della totalità delle monadi come essere fluente che arriva all’autocoscienza e che è già nell’autocoscienza in un processo graduale infinito — teleologia universale »17 18. Proprio dal punto di vista trascendentale, punto di vista essenziale all’analisi fenomenologica, la vita intenzionale consente di scoprire in se stessa, tutto ciò che è e tutto ciò che è stata. Consente di evidenziare il mondo che è in me stesso, ma anche, alla luce della totalità che è im­ plicita in ciascuna monade, l’umanità colta nella sua genesi costitutiva, nel suo telos intrinseco, che si manifesta, appunto, come « tempo », e che solo nella fenomenologia del tempo può riscontrare il suo scorrere, una volta individuata l’origine storica del presente, che mi rimanda ad un passato, il quale realizza il suo telos nel presente, e mi proietta ver­ so un futuro come realizzazione di un telos, per così dire, « nuovo », come esplicitazione di un implicito già da sempre presente. Ma allora, è proprio l’analisi fenomenologica che rivela la teleolo­ gia e l’inesauribilità del telos, sempre operante e mai del tutto operante. Ed è nella « riflessione » che realizza la riduzione mai compiuta, che si manifesta e si esplicita la temporalità, e quindi, innanzitutto, l’essere originario dell’io, come essere temporale, e, con la temporalità, il carat­ tere essenziale della « egoità », che se, come vedevamo prima, si pre­ senta come io-che-esperisce-il-mondo, ora bisogna aggiungere, in un crescendo di specificazione, che è temporalità, in quanto può « retroce­ dere » (Zuriick-kommen) fino a se stesso, può conoscersi come io e può 17. E. Husserl, Manoscritto E III 5. 18. Ibid.

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risalire fino a sé in quanto è già prima, perché in quanto io-fungente precede sempre se stesso e ogni essere che è per esso: « l’io costante, co­ stante sorgente originaria, identico non attraverso un “identificare”, bensì in quanto essere originariamente unitario, è un essere che è in un originario essere-prima (Vor-sein); il fungere che ne sgorga e che ne è sgorgato, come fluire costante, è ora di nuovo, nella costanza, il flusso degli efflussi del punto sorgivo originario, dell’originaria seità »I9. La riflessione, che per Husserl è Tessere-temporale, in quanto l’es­ sere originariamente vivente dell’io, è, quindi, coincidenza di identità, un’identità, in verità, mai completamente raggiunta, allo stesso modo in cui la temporalità dell’io non è un’unità costituita riferendosi ad un io « dilagante », che Husserl chiama « presente fluente-vivente ». « L’io in quanto fungente, l’io nella forma originaria del suo essere, è un pre­ sente originariamente fluente; nella forma d’essere del fluente-dilagare esso è un presente e poi ancora un presente che costantemente si tra­ sforma e dilaga appunto in quanto è continuamente presente »20. L’io è quindi « egologico-continuo-fluente » nell’adesso e soltanto nell’adesso, e non è mai un semplice « pezzo di tempo », cioè tempo improprio: « Nel flusso originariamente vivente non si è “allargata” una conse­ guenza della coincidenza; nel flusso c’è un’unità della coesistenza, ma appunto nel modo di un'evoluzione-fluente nella coincidenza fluente »21. Ci troviamo di fronte al « presente originario » (.urtümlich) o « origi­ nariamente fenomenale », come ama definirlo lo stesso Husserl22, che mentre non esclude alcuna specificazione dell’atto riflessivo, garantisce la permanenza nel presente-vivente, come modalità temporale dell’io fungente nella quale tutto si svolge. Ora, proprio della temporalizzazione originaria, che viene esplici­ tata e « costituita » dalla riflessione dobbiamo prenderci cura, perché è nell’orizzonte complessivo del presente che si ritrova ogni fluire ori­ ginario, ed è possibile dare senso a quel fluire originariamente fenome­ nale, che per Husserl è compreso sempre nella sfera del temporale. In­ fatti, « malgrado tutto dobbiamo parlare di un fluire e di un fluire con­ tinuo, perché anche nel fluire abituale, che già rimanda, conformemen­ te al proprio senso, a una propria sfera temporale (o meglio a una sfera spazio-temporale) è compreso qualcosa di questo fluire originariamente fenomenale, in quanto anche il tempo più obiettivo, appunto il tempo del mondo, ha il suo essere in quanto presente che dilaga nel passa­ 19. 20. p. 146. 21. 22.

E. Husserl, Manoscritto A V 5, p. 5. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit.,

E. Husserl, Manoscritto C 3 III, p. 24. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 2 I, p. 13.

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to... »23). Volendo approfondire il senso di questo « presente origina­ rio », conviene sottolineare i caratteri di questo che, secondo Husserl, si presenta come « il presente fluente del dilagare, del defluire e dell’affluire »24, dove il « dilagare », insieme al « defluire » e all’« afflui­ re » sono unificati nella « contemporaneità » del presente vivente, che è sempre una contemporaneità fluente, in cui 1’« adesso », il « poco-fa » e il « fra-poco » vengono colti nella loro inerenza all’orizzonte unitario costituito dal fluire del presente25. Possiamo, perciò, affermare che il presente-vivente-fluente di Husserl si caratterizza per la sua « ampiez­ za », per il suo continuo slargarsi, pur nella centralità dell’io-centro, che è ovunque nel presente vivente 26. L’essere-adesso del presente è, infat­ ti, sempre « nello sgorgare originario e nel diffondersi (Urquellen e Verquellen), e in modo tale che il diffondersi equivale a una costante modificazione, che rende il vero e proprio presente (ciò che è adesso originariamente presente) non più originariamente presente, lo trasfor­ ma in appena-stato, a cui però si aggiunge costantemente contempora­ neamente un nuovo presente originario, che è sgorgante e che a sua vol­ ta si diffonde, e al quale se ne aggiunge uno nuovo nel mondo dell’adesso originariamente sgorgante, e via di seguito »27. Questo, naturalmente, dà un significato particolare alla centralità dell’io, e quindi al presente­ fluente, perché trattasi di una centralizzazione fluente, nella fluente ecentricità. Ciò significa che uno dei caratteri essenziali della temporali­ tà dell’io è di essere estatico, fuori di sé, nello stesso tempo in cui è centrato, immanente. Qui è tutta la vita dell’io, che è « vita il cui esse­ re è un volta-per-volta (Jeweiligkeit) nella forma di un costante voltaper-volta... »28. In altri termini, si può dire, con Husserl, che l’io fun­ gente non ha durata, perché in esso nulla rimane mai del tutto identico a sé, proprio per Ve-staticità dell’io, che vive sempre nel triplice flusso, presente ovunque « nel » tempo, pur rimanendo sempre immanente (in-manet), cioè in-sé: « L’io è in sé e con sé un’interna continuità, che è fondamentalmente diversa dalla continuità esterna, dalla continuità di un’estensione... »29. Una volta « vitalizzato » il presente, questo non è più il punto defi­ nito di una retta, ma una « centralizzazione-fluente », nella e-centricità, un orizzonte slargantesi di un « adesso » che realizza un nuovo « ades-

23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.

Op. cit., p. 21. Ibid. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 3 III, p. 25. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 16 I, p. 9. E. Husserl, Manoscritto C 3 VI, p. 6. E. Husserl, Manoscritto C 16 VI, p. 18. E. Husserl, Manoscritto C 16 VII, p. 6.

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so », in quanto lo ha già realizzato, in un rivolgimento fluente, che nel trapasso (Übergang) comprende anche il procedere (Vorgang). « L’es­ sere attuale ha, in quanto essere-adesso, un nucleo di essere già esaurito, già reale, già-realizzato e un orizzonte di ciò-che-sarà, di ciò-che-deve-essere-realizzato », cioè, in definitiva, l’essere attuale è un « ... essere a partire dal già-stato, essere nel trapasso (Ver-gang), che è trapasso di un procedere (Vor-gang) »30. L’essere attuale, per Husserl, si allarga sempre in modo da comprendere l'appena passato e ciò che viene atte­ so come futuro. Si potrebbe dire, in maniera diversa, che, andando in fondo, nel cuore stesso della cosa (zu den Sachen selbst), si scopre il tempo originario, che non è mai puntuale, né lineare, in quanto coim­ plica sempre tanto la ritenzione, quanto la protenzione. « Io sono — sostiene Husserl a questo proposito — in quanto vivente-presente, diveniente-essente, e sono diveniente in quanto essente adesso, nel mio essere-stato come adesso fluente, il quale, fluendo e sprofondando (Versinken), tuttavia permane sempre come io-sono-stato; il che, d’al­ tra parte, in un altro senso del divenire progressivamente, nella trasfor­ mazione in presente e attraverso il presente, passato, e in questa trasfor­ mazione io sono identico nella temporalità, io che sono adesso, che ero e che sarò... »”. Qui, nel diveniente-essente e nel fluendo-sprofondando dell’io che « tuttavia permane sempre come-io-che-sono-stato », è de­ scritto il dinamismo della protenzione e della ritenzione, che rientra sempre nella « presenza », in quanto non-ancora futuro, né ancora pas­ sato,.bensì l’essere futuro del presente e il continuo trapassare del pre­ sente-vivente-fluente, nell’orizzonte del passato, due evoluzioni origi­ narie del presente vivente-fluente, in sé inscindibili, tant’è che, per Husserl, non è possibile descrivere la ritenzione, senza coimplicare an­ che la protenzione. Si tratta di una continuità, che è interna innanzitut­ to al fluire della ritenzione e della protenzione, come momenti a sé, ma che non risparmia nemmeno la ritenzione e la protenzione colte nel loro rapporto con la centralità del presente. Ma ascoltiamo lo stesso Hus­ serl: « La continuità ritenzionale di una presenza originaria, che irrag­ gia da un punto sorgivo originario è un’unità di Erlebnisse, un Erlebnis complessivo, in cui è cosciente un complessivo già-stato. Ma la continui­ tà è continuità della continua mediatezza dell’intenzionalità... Dal pun­ to sorgivo irradia una coscienza successiva del già-stato-poco-fa, del­ l’immediato già stato, a cui si aggiunge una fase di coscienza del poco-fa di ogni poco-fa, e così abbiamo un continuo “di, di, di, di”. Lo scorrere ritenzionale è caratterizzato in se stesso non soltanto quale mero scor­ so. E. Husserl, Manoscritto C 17 III, pp. 2, 4. 31. E. Husserl, Manoscritto C 16 VI, pp. 7-8.

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rere, bensì quale continuo essere-già-scorso, in cui il già scorso, nei sin­ goli stadi, è caratterizzato come già-scorso di uno scorrere e come me­ diatamente già scorso, ecc. Nel flusso che la presenza originaria mo­ mentanea fa dilagare nel poco-fa, abbiamo, nella forma del successiva­ mente, un’evoluzione ritenzionale continua di questa presenza comples­ siva e l’evoluzione della complessiva ritenzione in una ritenzione della ritenzione, ecc. »32. Lo stesso va detto della protenzione, che non è altro che il precedersi del presente come non-ancora, e come realizzazione di « futuro » appena stato33. La « presenza » qui assume il senso di un presente allargato e vivo, di un presente, per così dire, « ampio », comprensivo non dell’immagi­ ne e delle ombre del passato, o delle nebulosità del futuro, ma della vi­ ta vera e propria, cioè del « mondo », che si rende, di volta in volta, presente nell’individualità che vive nel tempo originario. E se vogliamo porre un limite all’« ampiezza » (Breite) del presente, per Husserl sarà « quello entro cui noi possiamo ancora parlare di una realtà che è anco­ ra “attuale” per noi »34, dove l’attualità non indica il carattere statico di una realtà, bensì ciò che è ancora-adesso-interessante-per-noi, al pun­ to da costituire la direzione del movimento dell’io, che è presente-viven­ te « nella forma originaria dell'avere-come-valido (in Geltung haben), del permanere continuamente presso ciò che vale per me, nel dirigersi su di esso »35. Abbiamo voluto sottolineare il senso dell’attualità del presente husserliano, per ribadire che esso « si riferisce principalmente alla prassi », come dice esplicitamente lo stesso Husserl nel Manoscrit­ to C 3 V, già citato, il che vuol dire che l’io è un io che vive effettiva­ mente, e vive in quanto vita-che-esperisce-il-mondo, cioè in quanto di­ retto sempre verso qualcosa che egli coglie nel modo della validità, in quanto è interessante per lui, e, fluendo-oltre, in un « essere-già-direttosu e un essere-ancora-diretto-su; l’atto concretamente vivente è un’at­ tuazione concreta e orientata; l’io è attuale in quanto è presso ciò che vale per lui, e a ciò inerisce questa intiera continuità di modi di validità diretti (in avanti e indietro), e perciò l’unità del concreto dirigersi sul concreto che cosa (Was), un concreto essere-presso ciò che continuamente e unitariamente vale e che vale sempre di nuovo »36. E che il presente-vivente sia attuale nel modo della prassi, Husserl lo sostiene anche nei confronti di quello stato fondamentale di « sopo­ 32. 33. 34. 35. p. 167. 36.

E. Husserl, Manoscritto C 5, pp. 7-8. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 17 III, p. 4. E. Husserl, Manoscritto C 3 V, p. 4. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., E. Husserl, Manoscritto C 16 III, p. 3.

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re », ch’egli pure riconosce all’interno dell’« io concreto »37, e che anche se si ritrova nel « sottofondo », non smette di essere valido, magari co­ me già-divenuto 38, come « attivo passato egologico », che plasma l’io e lo arricchisce di tutto ciò che esso è volta per volta, facendolo erede di se stesso, in quanto è in permanente comunità con se stesso39. E qui non è in questione, secondo noi, nemmeno il « diritto all’oblio », come antidoto della « malattia storica », di cui argomenta Nietzsche nella Seconda Inattuale, perché è ancora una volta la « prassi », che non con­ sente di indugiare nel « prestito storico », in un’ammirazione del pas­ sato che inibisca il movimento verso il futuro, come accade al nietz­ scheano discepolo di Eraclito. Infatti, ciò che l’io è « lo è in virtù della propria attività, in virtù di ciò che ha fatto; esso si è costituito come io attivo, nell’essere-attivo e a partire dall’essere-attivo; il suo essere-adesso è il risultato di un agire precedente, e ciò che sarà si decide in base al suo attuale agire, un agire che procede oltre. Così l’io attuale è se stesso in quanto si plasma, e in quanto porta in sé il suo trascorso essersi-plasmato »40. Ma vi è di più, in quanto il passato che si ridesta nel presente è un passato che si ripresenta sempre nella forma della passata « attività », che non si limita a proporre il mero « ricordo » di sé, ma risveglia nell’io « la tendenza alla riproduzione »4I, senza poi 37. Secondo Husserl, « Nell’io concreto c’è uno stato fondamentale di “so­ pore”. Ma così come l’io desto, in quanto polo, e in quanto polo determinato della mia vita rimane un medesimo e identico io che semplicemente è desto, anche quando è assopito è sempre lo stesso. Tutto ciò che può essere ridestato in me o per me, ma non lo è ancora, è “assopito”; ciò vale anche per tutto ciò che continua a valere per me nell’abitualità, per tutto ciò che è realmente per me, che mi è noto, che è mia proprietà in quanto mia teoria, mia opera, mia attività, mia decisione. A tutto ciò io adesso non penso; cioè: adesso non sono attività reale, desta, non c’è nemmeno un’attività già stata; l’intiero regno di ciò che adesso vale per me, per l’io desto, il complesso delle mie convinzioni, che ora non sono attive, rientra nella sfera del sottofondo (Untergrund) “assopito” ». (Manoscritto C 3 111, p. 12). 38. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 13 III, p. 1. 39. Cfr. E. Husserl, Manoscritto A V 5, p. 9. Per dare forza a questa intui­ zione husserliana, Brand cita una pagina di M. Merleau-Ponty, Phenomenologie de la perception, I, p. 450, e che qui ci piace riproporre, sia pure in parte, per­ ché si distingue per l’efficacia della descrizione. « Come diceva Proust, noi siamo appollaiati su una piramide di passato, e se non lo vediamo, ciò dipende dal fatto che siamo ossessionati dal pensiero obbiettivo. Crediamo che per noi stessi il nostro passato si riduca ai ricordi espressi che possiamo contemplare. Stac­ chiamo la nostra esistenza dal passato stesso e non le permettiamo di riaffermare che le tracce presenti di questo passato. Ma se non avessimo un’apertura diretta su questo passato? L’acquisizione dev’essere ammessa come un fenomeno irri­ ducibile. Ciò che abbiamo vissuto è e rimane perpetuamente per noi; il vecchio attinge la sua infanzia » (citato da G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, cit., p. 187, in nota). 40. E. Husserl, Manoscritto A V 5, p. 10. 41. Cfr. E. Husserl, Manoscritto C 13 III, p. 18.

169 trascurare il fatto fondamentale che, per Husserl, è impossibile il sem­ plice « fluire indietro », giacché « ogni ripiegamento sul passato avviene in base a un interesse dell’avvenire »42. Qui, ripetiamo, non sono in questione il passato come immagine che si ripresenta nel presente, o il futuro come anticipazione prefigurata nel presente, bensì, ancora una volta, la vita intenzionale, che costituisce la vita presente, che è storia viva, vita temporale che si fa io, presenza vi­ vente (lebendige Gegenwart), che in quanto tale si fa progettazione, trapassando nel passato e slargandosi nel futuro. D’altra parte, soltanto in questo presente vivo il passato non viene annullato come passato, ma viene fatto vivere per quello che veramente è, grazie alla facoltà di tornare indietro nel passato, scavando nei mille ricordi, che vengono ordinati in « serie », tenendo come punto di riferimento 1’« originaria­ mente vicino », che dà alla massa dei dati memorativi « l’ordine del pri­ ma e del dopo »43. Allo stesso modo il futuro viene fatto avvenire. Questo vuol dire che il tempo è azione, l’azione continua e comples­ siva nella quale si costituisce il mondo, e che il presente vitale, se pro­ prio lo si vuol definire un punto, è il punto di confluenza dei nostri in­ teressi e delle nostre attenzioni, cioè è il tutto della nostra storia, ciò che noi viviamo come la nostra storia. Ma se il tempo è azione, anche il telos è prassi, cioè non è un orien­ tamento prefigurato e pre-ordinato della storia dell’umanità, né un pro­ getto affidato, per la sua realizzazione, ad un Soggetto storico non me­ glio identificato, come spesso accade per le più note e meno note utopie (o distopie) della palingenesi totale. La tensione teleologica è tutt’uno con il grado di impegno individua­ le, di presa di coscienza della monade individuo, che riscopre in sé l’in­ finito, ma Io realizza in modo originale, comunque sempre differente, perché è differente il tempo tra monade e monade. Non ci sono due mo­ nadi che abbiano la medesima vita soggettiva: « due unità monadiche coesistenti non possono avere lo stesso io »44. Possiamo dire, che il tempo è costruzione di azioni costituite secon­ do un fine, da soggetti « desti », che respingono l’oscurità di ciò che è assopito e di ciò che è feticizzato, che spesso si esprime in forme di espropriazione del diritto individuale di dare senso al mondo, di esse­ re gli operatori della storia, in una parola di essere soggetti « datori di senso ». 42. E. Husserl, Manoscritto C 2 111, p. 3. Su questo punto, cfr. pure Mano­ scritto C 13 II, p. 2 e Manoscritto C 13 III, pp. 8, 16. 43. E. Husserl, Manoscritto C 17 I, p. 39; cfr. Manoscritto C 3 III, p. 19 e Manoscritto C 2 V, p. 5. 44. E. Husserl, Manoscritto E III 2.

170 Questo, certamente, vuol significare, l’apertura del problema teleo­ logico, visto alla luce della fenomenologia del tempo, al problema della « identità-libertà » dell’io e del significato della storia. Analizzando, in­ fatti, l’io nella generalità della sua forma, che è appunto la temporalizzazione, si constata che questa « lo rende un io che si costituisce nelle sue modalità temporali: lo stesso io, che ora è attualmente presente, in ciascuno dei suoi passati, è in un certo modo un altro io, appunto quel­ l’io che era e che ora non è più e che rimane tuttavia, nella continuità del suo tempo, un unico e medesimo io, l’io che era e che è, e che ha davanti a sé il proprio futuro. In quanto temporalizzato, l’io attualmen­ te presente può aver commercio con il suo passato, con l’io che non è più, può dialogare con esso, può criticarlo, come se fosse un altro »4546 . Ma è proprio questa possibilità di « commercio » col passato, che consente di risolvere il problema dell’identità dell’io, senza ridurre l’in­ dividualità in individualismo, e la libertà dell’io in un’astrazione senza riferimento alle connessioni con gli altri io, e con il mondo umano e naturale. Diciamo questo, perché il commercio col passato, che sarebbe inattuabile husserlianamente senza l’autocoscienza, rivela come ciò che è presente tragga la sua origine dal passato, conducendoci « alla conce­ zione di una teleologia universale, intesa come intenzionalità universa­ le, che si compie in concordanza con l’unità di un sistema totale di compimenti »* ’. Qui si ridisegna una nuova centralità dell’io, che non può essere isolamento, bensì infinità aperta, che « ha la proprietà essenziale che ad essa appartiene un’infinità di gradi monadici — come gradi di svol­ gimento dell’io e del mondo. Inoltre, l’infinità dei gradi delle monadi animali, bestiali e prebestiali, sia su su fino all’uomo, sia alle monadi infantili e preinfantili — nella permanenza dello svolgimento “onto­ genetico” filogenetico »47. Tutto il manoscritto E III 5, relativo proprio al rapporto tra fame e cibo e tra uomo e donna (istinto sessuale) è rivelativo di questa con­ nessione di vita tra tutti i gradi monadici, cioè dello stretto legame tra l’uomo, gli animali superiori e inferiori, le piante, le cose, gli ele­ menti chimici e fisici, insomma di tutto il mondo vivo, da cui ha ori­ gine l’operazione di « senso », che spetta all’uomo, in quanto la ragio­ ne gli consente (e solo a lui) di riscoprire l’originario nel quale è nato e di ritrovarsi nel mondo nel quale si era perduto. Ma l’uomo non si 45. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften, M. Njihoff, Haag, 1976, p. 175, tr. it. La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano, 1983, p. 198. 46. E. Husserl, Manoscritto E III 5. 47. Ibid. '

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ritrova annullandosi nel mondo una volta per tutte. La riscoperta del­ l’originario non è l’affossamento dell’individualità, ma soltanto l’evi­ denza del suo fondo costitutivo, che è sì un fondo unitario intersogget­ tivo, un « accoppiamento » (Paarung), ma mai totale, definitivo, strug­ gente. Husserl esemplifica questo dinamismo di unità-distinzione, an­ cora una volta, attraverso l’impulso sessuale e l’intenzionalità della copulazione: « Nel soddisfarsi dell’impulso, visto nella sua immedia­ tezza, non c’è nulla del figlio che nascerà, nulla di ciò che avrà le ben note conseguenze nell’altro soggetto: il fatto, cioè, che la madre parto­ rirà un figlio. D’altra parte, il compiersi dell’impulso come penetrazione nell’altra “vita animata” non è un reciproco sentirsi nell’altro e una esperienza ininterrotta della vita dell’altro, di ciò che consegue nel mondo a quell’evento che è nel mondo l’atto di procreazione e perciò non è per nulla affatto in relazione con l’altro, con l’atto che è nella vita del mondo »48. La conseguenza dell’impulso non è il possesso reci­ proco, né l’identificazione definitiva, col conseguente auto-annullamen­ to, bensì la riscoperta di una realtà intermonadica, in cui le monadi col­ gono, pur nella loro individualità e originalità, la realtà trascendente di un originario comune, che, nel caso dell’intenzionalità della copulazio­ ne, si rivela nel passato genetico, nel quale ognuno immergendosi può capire il senso e quindi la realtà della vita, che si ripropone nella mater­ nità, e che come tale appartiene a tutta la comunità sociale, che è come dire che la maternità (o il materno) ha sempre un connotato comunita­ rio, non è soltanto un fatto privato tra due soggetti che si autoannullano nel figlio. Ma spetta alla fenomenologia, secondo Husserl, mettere in eviden­ za il significato teleologico del materno, cioè il suo inserimento in un telos storico, che ancora una volta sostiene la storicità viva di un’uma­ nità che si realizza in quanto orizzonte presente alla nostra coscienza49 ; di una coscienza che, pur essendo nella storia e nel mondo, riesce a pensare la storia e il mondo, facendo del « primordiale in sé il nostro presente », e quindi della storia qualcosa che non può essere accolto come un semplice fatto, in quanto è storia dell’umanità, che lotta per la propria comprensione, è la ragione « nel suo incessante movimento di autochiarificazione ». La storia è, allora, non solo permanenza, ma anche evoluzione: dal­ la « ragione latente », alla « ragione evidente ». Che è come dire che la storia si comprende come teleologia della ragione, e si comprende come compimento di un disegno inteso a portare l’umanità a prendere co­ 48. E. Husserl, Manoscritto E III 5. 49. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 395 ss.

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scienza di essere soggetto storico, e l’uomo a riassumersi il compito, spesso smarrito, di « voler essere » soggetto, giacché « essere-uomo im­ plica un essere-teleologico e un dover essere », che deve tradursi non in una « scienza assoluta », bensì nel risveglio di ogni soggetto alla re­ sponsabilità che condivide con i suoi « co-soggetti », e che lo sollecita a riprendere il cammino anche dopo il fallimento dei suoi progetti, per­ ché anche questi non sono espressione di un principio irrazionale ope­ rante nella storia in modo palese o nascosto, ma momenti di un movi­ mento incessante, che ha come unico protagonista l’uomo, che se attra­ verso la riflessione (e la riduzione) sembra ritrarsi dal mondo, lo fa, o meglio lo deve fare, secondo Husserl, soltanto per riprendersi la sua libertà di « datore di senso », ed agire in esso, mettendo in opera una ragione che non è mai teorica, senza essere pratica, ed un filosofare che si traduce, senza soluzione di continuità in un’etica, orientata dal­ l’unico fine (dell’uomo e della storia), che consiste in « un’auto-comprensione ultima dell’uomo in quanto essere responsabile del suo esse­ re umano, un’autocomprensione quale essere nell’essere — chiamata alla vita nell’apoditticità — in quanto uomo che esercita la scienza non soltanto astrattamente, nel senso usuale, bensì una apoditticità che rea­ lizza il suo essere concreto complessivo in una apodittica libertà, nel­ l’apoditticità apodittica che anima la ragione — attraverso cui l’uma­ nità è tale — in tutta la sua vita attiva »50.

50. Op. cit., pp. 289-290. Su questo tema vedere tutto il par. 73 e le appen­ dici XIII, XXIV, XXV, XXVI, XXVII, XXVIII.

4. HUSSERL E LA FILOSOFIA DELLA STORIA

di Enrico Garulli

È nel periodo fra gli anni ’20, dopo la formazione della Repub­ blica di Weimar e gli anni in cui si consuma l’usurpazione nazista del potere, che la meditazione husserliana sui problemi della storia assu­ me maggiore incisività, coinvolgendo nel significato che assume la crisi delle scienze e della cultura il destino stesso della filosofia. Già in alcuni scritti di questo periodo si accentua il « passaggio » (Uebergang), da una « storia della filosofia » (Geschichtephilosophica a una « filosofia della storia » (Philosophiegeschichte), che viene ora a in­ trecciarsi con i temi della logica, della intersoggettività e della scienza. Può farsi iniziare questo periodo con Erste Philosophie (1924)1, cui seguiranno Logica formale e trascendentale (1929)12 e le Meditazioni cartesiane (1930)3. Se nelle opere precedenti — come dice P. Ri­ coeur — si nota una specie di « avversione » della fenomenologia per i problemi che solleva la considerazione storica, ora la meditazione husserliana misura l’ideale di una ragione con quello di una « teleo­ logia della storia », mantenendo a questa quel carattere ideale e reale a un tempo o di grandiosa analisi della crisi della propria epoca, che si riporta alle vicende stesse del telos perduto della ragione filosofica, dopo l’inizio « solare » greco, lungo i tempi antichi e moderni4. In 1. E. Husserl, Erste Philosophie (1923-24), erster teil, kritische Ideengescliichte (Husserliana, voi. VII e Vili), hrsg. von R. Boelim, M. Nijhoff, Haag, 1956, tr. fr. Philosophie première, a cura di Arion L. Kelkel, Presses univ. de France, Paris, 1970, voi. 1-2. 2. Formale und transzendentale Logik (pubblicata nel X voi. dello Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung) (ora nel voi. XVII della Husserliana), tr. it. Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ra­ gione logica, Laterza, Bari, 1966. 3. Cartesianische Mediationen und pariser Vorträge, voi. I della Husser­ liana, M. Nijhoff, Haag, 1950, tr. it. Meditazioni cartesiane e discorsi parigini, Bompiani, Milano, 1960. 4. P. Ricoeur, Husserl et le sens de l’histoire, « Revue de Métaphysique et de Morale », 1949, pp. 280-315 (cfr. del Ricoeur anche il volume Histoire et Verité, Editions du Seuil, Paris, 1955).

174 ogni caso, se prima degli anni ’20 la storia (nel senso antico di bistorta) è assimilata genericamente da Husserl alla « struttura del divenire nella vita dello spirito », che ha il suo riscontro più tipico nella coscienza delle trasformazioni temporali (Lezioni sulla coscienza interna del tempo, 1905)5, d’ora in avanti essa viene considerata come Geschichte o processo concreto, che ha una sua tipica struttura o modello di svi­ luppo. In un passo giustamente citato di Erste Philosophie, Husserl annotava: « le ultime domande aventi un ultimo senso metafisico e teologico sono nate con le domande sull’assoluto essere della storia »6. Infatti, nella « processualità storica », « l’essere si temporalizza »: mo­ tivo che anche Heidegger, come è noto, riprenderà, ma sviluppando in senso ontologico (« l’essenza dello storico nell’essere » / Wesen­ tlichkeit des Geschichtlichen im Sein) la questione husserliana, accu­ sata di non essersi elevata alla visione radicale che la temporizzazione comporta 7. Questo accostamento concreto alla storia, sperimentato at­ traverso le vie impervie e non certo facili della fenomenologia, ha richiamato di recente l’attenzione su analoghi tentativi di affrontare il grande tema della crisi in autori come Lukàcs, Bloch o Horkheimer (ai quali potrebbe aggiungersi il nome di O. Splenger) che, sia pure con inflessioni diverse, condividono con Husserl le preoccupazioni per il ruolo delle scienze. La storia delle riflessioni husserliane sulla storia si intreccia quindi con gli aspetti concreti della storia europea nei primi decenni del secolo, ma oltre a questo aspetto, che è vivo nella cultura mitteleuropea di quegli anni, essa appare fortemente istruttiva per cogliere gli sviluppi o le integrazioni possibili che la meditazione sulla storia ha suggerito al movimento ontologico-ermeneutico, ancora in fase di pieno sviluppo. Qualche studioso ha par­ lato in proposito di una necessaria integrazione della fenomenologia nell’ambito di questa « svolta » che si è operata nel suo stesso ter­ reno, mentre per altri l’opposizione è talmente radicale da compor­ tare una dissoluzione del problema della storia come tema collegato alla « soggettività ».

Ma riprendiamo il nostro problema, cercando di delineare la di­ versa atmosfera che si riscontra, a proposito della storia, nelle prime 5. Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, hrsg. R. Boehm, M. Nijhoff, Haag, 1966 (Husserliana, Bd. X), tr. it. Per la fenomenologia della co­ scienza interna del tempo, Angeli, Milano, 1981. 6. Erste Philosophie, cit., parte II, p. 506 (su cui cfr. H. Hohl, Lebenswelt und Geschichte - Grundzuge der Spätphilosophie E. Husserl, Alber, Freiburg München, 1962). 7. M. Heidegger, Heber den Humanismus, V. Klostermann Verlag (ed. 1968, p. 27).

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opere husserliane, nelle polemiche ricorrenti verso lo storicismo (in­ teso genericamente come concezione hegeliana) e le filosofie delle Weltanschauungen: entrambe le posizioni accusate di non essersi ele­ vate al concetto di una filosofia come « scienza rigorosa », come indica lo stesso Husserl nelle pagine più polemiche del suo scritto program­ matico: Philosophie als strenge Wissenschaft (1911)8. Dopo quelle dedicate nel primo volume delle « Ricerche logiche » (/ Prolegomeni a una logica pura)910a combattere lo psicologismo, che impedisce, se­ condo Husserl, la costituzione di una « logica autonoma », quelle che si riferiscono a contrastare lo « storicismo » e i suoi sviluppi sono tra le più sentite e cariche di vis polemica. Il bersaglio di questa critica, come è noto, è il pensiero del Dilthey, con il quale Husserl si con­ fronta sul progetto di una « psicologia descrittiva » come base delle Geisteswissenschaften-, ad esso viene opposta la « fenomenologia », di cui le « Ricerche logiche » si presentano come primo seppure signi­ ficativo tentativo di fondazione. In quest’ottica, che vede contrapposti « ragione storica » e « ragione fenomenologica », Husserl sarà por­ tato a sottolineare che « gli scritti di Dilthey contengono in generale precisazioni di certi rudimenti della filosofia »’°. A questa severa critica, che è immediatamente successiva alla « Ricerche logiche » (che anche il Dilthey, seppure diversamente dal Natorp, aveva salutato come opera importante), si accompagnerà nel ricordato scritto pro­ grammatico del 1911 l’attribuzione a Dilthey di un tentativo mal fon­ dato di derivare la natura propria della filosofia da uno studio em­ pirico della storia. Per Husserl la storia (e in misura maggiore quella che si richiama alle forme tipologiche) non può dare risposte alle que­ stioni sulla validità della scienza, al cui modello rigoroso dovrebbe uniformarsi la filosofia. Dallo scambio di lettere fra i due filosofi si arguisce, tuttavia, che il Dilthey aveva ben presente la distinzione fra Weltanschauung e « verità scientifica assoluta », come stava a cuore a Husserl, sottolineando in pari tempo che le Geisteswissenschaften rendono impossibile ogni metafisica. Ciò, naturalmente, nell’ottica dil8. Pubblicato in « Logos», 1910-1911, voi. I, pp. 289-341, tr. fr. La Philo­ sophie camme Science rigoureuse, a cura di Qu. Lauer, Presses univ. de France, Paris, 1955. 9. Logische Untersuchungen, M. Niemeyer, Halle a. d. S., 1900-1901 (4a ed. Halle, 1928), tr. it., Ricerche logiche, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano, 1968, voi. 1-2. 10. I rapporti fra Husserl e Dilthey sono stati già studiati da" G. Misch, Lebensphilosophie und Phänomenologie. Eine Auseinandersetzung der diltheyschen Richtung mit Heidegger und Husserl, Leipzig, 1931, ora ripresi sulla base di un’ampia documentazione da W. Biemel, Briefwechsel Dilthey Husserl, « Man and World », 1968, n. 3 (cu cui cfr. Rudolf A. Makkreel, Dilthey, Philosopher of thè Human studies, Princeton Univ. Press, New Jersey, 1975, pp. 273 ss.).

176 theyana aperta dalla Einleitung / Introduzione alle scienze dello spi­ rito del 1883, è cosa ben diversa dal dover ricavare, come fa Husserl, che lo storicismo sia fonte di scetticismo. In questo modo, per il Dilthey, cadendo il principio di una « verità assolutamente fondata », veniva anche a cadere il principio affermato da Husserl di una filo­ sofia come « scienza rigorosa ». Il contrasto fra i due filosofi diventa decisivo nel ricordato scritto del 1911, dove la «scepsi storicista» coinvolge anche la posizione del Dilthey (che morirà proprio in quel­ l’anno), anche se più tardi Husserl sarà spinto ad attenuare l’affer­ mazione che « storia » equivalga a « riduzione naturale ». Ma in­ tanto leggiamo: « Quando considero lo storicismo come un ente gno­ seologico che per le sue conseguenze controverse dev’essere negato quanto il naturalismo, allora vorrei notare ancora espressamente che riconosco pienamente l’immenso valore della storia, nel senso più vasto, per la filosofia »”. Anche per Husserl è vitale per la filosofia « la scoperta dello spirito della comunità », che significa attenzione al « vivere spirituale universale »: compito — egli sottolinea — che solo una « fenomenologia delle essenze può fondare con una filosofia dello spirito »11 12. Attenuando ancora di più la polemica con un tardivo riconoscimento per un filosofo che aveva rivolto non poca attenzione per gli esordi della fenomenologia, Husserl dirà ingenuamente nel ricordato scambio epistolare, che la sua opposizione era diretta non tanto ad personam, quanto verso la « cosa in sé » dello « storicismo ». La critica esplicita e abbastanza diffusa della « scoperta della sto­ ria » e della fondazione delle « scienze dello spirito », si affianca in questo modo nello scritto del 1911 alla parallela ricerca di quei mo­ menti che nella storia della filosofia costituiscono dei reali « precorrimenti » o « rivolgimenti » da cui si prepara un nuovo impulso per l’ideale filosofico. Adattando uno schema che ritroveremo am­ pliato nelle opere successive fino alla Krisis, Husserl delinea un mo­ dello dello svolgimento storico della filosofia che trova i suoi punti salienti nel « rivolgimento socratico-platonico », nella crescita moder­ na della scienza, nella « rivoluzione cartesiana », ai quali, dopo le « grandi filosofie » del XVII e del XVIII secolo, fa seguire le filo­ sofie di Kant e di Fichte. È quindi precorsa in queste fasi il lento affermarsi della fenomenologia e sono pure indicate le origini, lon­ tane e moderne, di un disegno della filosofia che nei suoi svolgimenti fa agire anche un’istanza etica. In questo modello storiografico, che 11. Philosophie als strenge Wissenschaft, « Logos », cit., p. 328 (cfr. la tr. fr. La Philosophie camme Science rigoureuse, a cura di Qu. Lauer, Presses univ. de France, Paris, 1955, p. 106). 12. Ibid.

177 accompagna la nascita e il formarsi della fenomenologia, non rien­ trano invece, secondo Husserl, le altre filosofie romantiche, e in par­ ticolare quella di Hegel, alla quale viene attribuito l’errore di « aver prodotto nel tempo successivo un indebolimento o addirittura una falsificazione della tendenza verso la costituzione della filosofia come scienza rigorosa »'3. Con linguaggio, che oggi si direbbe ispirato a Popper, Husserl parla dunque di una successiva « falsificazione » del pensiero hegeliano con 1’affermarsi delle scienze esatte, dal cui spirito è sorto non solo il naturalismo, ma anche lo scetticismo e da ultimo uno « storicismo scettico » in quelle filosofie dello « Hegelismo » (o della scuola storica tedesca, come oggi si direbbe) che più delle altre « hanno smarrito la fede nella filosofia assoluta »13 14. È questo ideale che Husserl intende invece proporre, opponendo al disegno hegeliano come a quello diltheyano delle Geisteswissenschaften una fondazione che punti sul valore assoluto della filosofia (Universalwissenschaff). Un primo abbozzo fenomenologico dell’approccio al concreto mondo della storia è quello che si ritrova anche in Ideen, II, nella se­ zione dedicata al problema della « costituzione del mondo spirituale »15. Nell’affrontare ora il problema della costituzione delle scienze, dopo che si è attinta con Vepoché e la « messa in parentesi » dell’atteggia­ mento naturale il piano originario dell’evidenza dell’io o, come la chiama Husserl, « regione assoluta dell’autonoma soggettività » (Ideen, I, par. 33), si ha anche l’aprirsi di una nuova dimensione della stori­ cità, che Husserl non considera più nell’esclusivo modello dello svi­ luppo temporale dell’io, ma che investe le forme della vita spirituale che ogni uomo, ogni soggetto, è capace di realizzare. L’approccio alla storia, passando attraverso la dimensione personale, è certamente si­ gnificativo (sul modo in cui si articola questo approccio si ha l’uni­ verso mondo della storicità in quel grandioso intreccio di « società umana » e « società trascendentale », che ricorda da vicino l’analogo disegno spinoziano) in questa fase della fenomenologia. Adottando il metodo della riduzione, Husserl approda, come si è detto, al « sog­ getto fenomenologico » come « soggetto di qualsiasi ricerca psicologica eidetica », dalla quale si evidenzia anche la « soggettività personale », sebbene non si tratti più, come nell’idealismo, di un principio for­ 13. Philosophie als strenge Wissenschaft, cit., p. 292 (tr. fr., p. 56). 14. Philosophie als strenge Wissenschaft, cit., p. 293 (tr. fr., p. 56). 15. Ideen zu einer Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (voi. III-V della Husserliana), Bd. II, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, Husserliana, voi. IV, M. Nijhoff, Haag, 1952 (tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro II, Ricerche feno­ menologiche sopra la costituzione. Einaudi, Torino, 1976, par. 48-53).

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male, quanto di un « presente vivente » (lebendige Gegenwart): ciò che certamente ha in mente Husserl quando, a proposito della sogget­ tività, dice che « cerchiamo di portarla alla datità intuitiva, di vivere dentro di essa » (Ideen, II, par. 50). È in questo passo di Ideen, II che Husserl realizza per la prima volta, sollecitato dalla pressione ri­ chiesta di un approccio concreto alla storicità, le modaliità della costi­ tuzione fenomenologica del mondo personale e interpersonale, utiliz­ zando i princìpi dell’evidenza eidetica, che nel suo pensiero sono in grado di porsi in alternativa ai modelli « esplicativi » e « descrittivi » sui quali la filosofia della « ragione storica » diltheyana aveva co­ struito le scienze dello spirito. Ora, il « vivere nel modo personale » significa per Husserl ben di più, in quanto esso ha come correlato il mondo ed altri soggetti, al pari dell’io personale, che lo esperiscono, dando vita a una costante « evoluzione di senso » e « formazione di senso ». O meglio, è presente in questa formulazione, come dice bene X. Tilliette, una forma di autocostituzione nella quale la « mia iden­ tità (personale quanto trascendentale) accompagna e sostiene il ritmo della mia vita egologica »16. Se l’intento di Husserl è quello di costruire su nuove basi l’ontologia della vita personale e interpersonale (le « scienze dello spirito »), esso non è certo distaccato dall’idea di stori­ cità, come Husserl poteva intenderla verso gli anni ’20. Il punto di riferimento delle riflessioni husserliane è dunque ancora il Dilthey. Già nell’aprire la ricordata sez. Ili di Ideen, II, Husserl dice che « Dilthey si è acquistato meriti imperituri », ma aggiunge subito dopo che « Dil­ they, uomo di geniali facoltà intuitive, ma incapace di una teoresi rigorosa, intravvide i problemi che ponevano lo scopo e la direzione del lavoro da compiere: ma non riuscì a una formulazione decisiva dei problemi, a soluzioni metodicamente sicure, per quanto negli anni più maturi realizzasse in questo grandi progressi » (Ideen, II, par. 48). Husserl si riferisce in proposito non solo alla critica di H. Ebbin­ ghaus alla psicologia diltheyana, ma soprattutto alle diverse e opposte soluzioni che al problema della stessa davano filosofi come Windel­ band, Rickert, Simmel, Münsterberg e altri, ossia, come si direbbe oggi, alla costellazione della scuola storica tedesca o dell’Historismus (dalla quale va tenuta distinta la cosiddetta « Historik oggettiva » di Ranke, Droysen e altri), in rivolta verso la soluzione hegeliana, ma che per altro verso ne riproponevano i modelli dialettici che a Husserl, come si è ricordato, sembravano viziati di naturalismo. Rimettendo in questione i concetti dell’idea della natura, del corpo proprio, della 16. X. Tilliette, Breve introduzione alla fenomenologia husserliana, a cura di E. Garulli, Itinerari, Lanciano, 1983, p. 101.

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psiche e delle stesse idee di io e persona, Husserl riteneva che si aprisse finalmente la storia come « genesi costitutiva » (Konstitutions­ genesis) o spazio per lo spirito. Il rovesciamento rispetto alle posi­ zioni naturalistiche è qui marcato e netto, in quanto la storia, con la vicenda dei suoi mutamenti, indica appunto la forma attraverso cui lo spirito diventa consapevole di ciò sul piano di una storicità tra­ scendentale. Interpreti acuti come E. Paci17 e G. Brand 18 hanno opportuna­ mente insistito sulla prospettiva che si apre con « l’io fungente », che è vivo in me in prima persona, ma che incarna una « soggettività trascendentale », ossia l’io e l’io di tutti i soggetti che è, insieme, l’io unico: reale nel senso che è trascendentale, ma la cui attuazione è in primo luogo nel modo dell’affermazione in prima persona. Anche se queste tesi sono successive al periodo di cui stiamo trattando, esse non sono certo estranee allo spirito della fenomenologia di Ideen-, anzi ne individuano un aspetto preminente che non tarderà a mani­ festarsi negli scritti successivi agli anni ’20. È da qui che ha preso forma l’interpretazione o l’accostamento da parte di vari studiosi (fra cui lo stesso Paci) della posizione fenomenologica a quello del mate­ rialismo dialettico o genericamente marxiano I9, estrapolando dall’ardua tematica fenomenologica dei concetti di storia, tradizione, con i cor­ relati problemi della persona e dell’io con i suoi Erlebnisse, l’imma­ gine per il vero forzata di una « praxis totale », che a noi sembra estranea alla formazione dei diversi gradi della fenomenologia hus­ serliana. Non tanto Marx o Hegel in ottica marxiana sono i veri inter­ locutori di Husserl, mentre lo è certamente il Dilthey, con il quale Husserl si misura costantemente nel disegno alternativo della feno­ menologia alle « scienze dello spirito » non ancora elevatesi al grado dell’evidenza assolumente certa. Certamente, è da tenere presente la tesi di chi ritiene che Dilthey e Husserl esprimessero opinioni diverse e difficilmente conciliabili: ciò che Dilthey non poteva accettare nella teoria husserliana — dice bene il Lauer — era lo sforzo di comprendere le « essenze delle diverse 17. E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano, 19642. 18. G. Brand, Welt, Ich und Zeit, M. Nijhoff, Haag, 1955 (tr. it. Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, Bompiani, Milano, 1960). Cfr. in proposito anche G. Piana, Esistenza e storia negli inediti di Husserl, Lampugnani Nigri, Milano, 1965 (in particolare pp. 68-79). 19. Oltre all’opera molto nota di Tran - Due - Thao, Phénoménologie et materialisme dialectique (Paris, 1951), cfr. il volume di J. Desanti, Phénoménologie et praxis, Éditions Sociales, Paris, 1963 (tr. it. Fenomenologia e prassi, Lampugnani Nigri, Milano, 1971).

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formazioni dello spirito » prescindendo dalle loro manifestazioni sto­ ricamente concrete (dando così luogo a una costituzione immanente o intuitiva di esemplari ideali indipendenti, che non è certo la posizione husserliana); a sua volta, ciò che Husserl attacca in Dilthey è una sorta di identificazione fra valore obiettivo di queste formazioni e loro manifestazioni storiche (che ingiustamente Husserl abbassa al piano naturale, sia pure correggendo tardivamente, come si è detto, la por­ tata polemica delle sue affermazioni)20. Al di là delle quali, in ogni caso, e indipendentemente agli equivoci in cui possono essere caduti i due filosofi, vanno riconosciute le diverse strade che doveva pren­ dere il grande tema della storicità: per Husserl, in particolare, veniva segnato con il progetto fenomenologico il primo passo per una inda­ gine complessiva sulle scienze tanto spirituali quanto naturali, il cui sviluppo, al di fuori di una legittimazione filosofica, finiva per pro­ vocare quella più ampia crisi del sapere, su cui Husserl rifletterà con rinnovato vigore nelle opere dell’ultimo periodo. Se accettiamo le indicazioni di P. Ricoeur, che fa seguire a una prima fase di « avversione » di Husserl per il problema della storia quello di un avvio della riflessione verso la « teleologia della storia e della ragione »21, possiamo dire che questo secondo periodo ha inizio con il grande quadro storico che si annuncia in Erste Philosophie (1924) e in alcune Abhandlugen, nelle quali il disegno husserliano si concreta nell’esame degli aspetti che assume il corso della civiltà occidentale. Nelle prime pagine dell’opera (L’idea della filosofia e le sue origini sto­ riche)22, Husserl spiega come debba essere inteso questo concetto di « filosofia prima » che nasce con Aristotele, ma che nel tempo ha as­ sunto significati nuovi e contrastanti. Il termine « filosofia prima », più che un quadro specifico di discipline, indica infatti un’« intenzione teorica ». Inizialmente, nel mondo greco, ma anche letteralmente, « fi­ losofia prima » si riferisce a un principio d’ordine nelle scienze, da cui essa si distingue per specificità. Ma accanto a questi significati, il termine sta pure ad indicare l’ordinamento interiore o teleologico che guida le scienza, in quanto queste appartengono a una « totalità e unità ideali »: grado iniziale, dunque, da cui si prepara la « teoria universale che si amplia indefinitamente a forme sempre più alte nella scienza impegnata per un progresso infinito »23. 20. cit., pp. 21. 22. 23.

Nelle pagine di commento a La Philosophie camme science rigoureuse, 177-178. P. Ricoeur, art. cit., pp. 288 ss. Erste Philosophie, cit., p. 3 (cfr. tr. fr. cit., pp. 3-22). Erste Philosophie, cit., p. 6 (tr. fr., p. 7).

181 È questo un modello che Husserl, appunto, vorrebbe far valere nella filosofia: « l’iniziatore della filosofia nel vero senso della parola è colui che mette in opera la filosofia prima dopo il suo cominciamento e realmente, cioè in una realtà assolutamente irrefutabile o in un’evi­ denza la più perfetta »24. Ma ciò che a Husserl preme soprattutto no­ tare, è che l’idea di una « filosofia prima » non si consegue riallac­ ciandosi a uno dei sistemi del passato, in quanto essa indica piuttosto un’idea di movimento che si determina « sotto la forma di una filosofia in perpetuo divenire, in tanto che il divenire infinito appartiene all’es­ senza di ogni scienza, benché sotto la forma eidetica della validità definitiva »25. Il compito della « filosofia prima » si colloca dunque nella « coscienza del sé filosofico la più radicale ». In altre conside­ razioni delle pagine introduttive a Erste Philosophie, Husserl spiega anche i motivi che spingono a una riflessione nella direzione indicata: « ogni volta, e qualunque sia il dominio culturale, che si tratti di una riforma radicale e universale, la forza d’impulso risiede in una pro­ fonda miseria universale; la situazione intellettuale generale riempie l’animo di un tale sentimento di profonda insoddisfazione da non sembrargli più possibile di continuare a vivere nelle forme e norme attuali »26. Da qui la necessità di una « retrospettiva storica » che prende in serio esame, partendo dal presente, queste motivazioni come proprie nella « struttura spirituale dell’umanità ». Ma questa riflessione — ag­ giunge Husserl — non può avvenire che alla luce della storia, « la quale, interpretata a partire dal tempo presente, illuminerà di nuovo a sua volta e renderà intelligibile il tempo presente »27. È quanto Hus­ serl, appunto, si accinge a fare nel suo grandioso quadro storico che, muovendo da « dati multipli e complessi che la scienza e la filosofia contemporanea presentano », scava nel corso stesso della filosofia dalle sue origini fino agli esordi dell’idealismo. Se in Erste Philosophie, Husserl sembra mosso da esigenze spicca­ tamente teoretiche, dovendosi determinare le modalità con cui il mo­ dello della « filosofia prima » è stato riproposto in varie fasi della storia del pensiero occidentale, nelle Abhandlugen che accompagnano questo testo, il problema del « cominciamento » s’intreccia con quello più generale della cultura, a proposito della quale Husserl fa valere le stesse esigenze di confronto e scavo nel corpo della tradizione. Nella prima di esse, Die Idee einer philosophischen Kultur - Ihr erstes Auf­ 24. 25. 26. 27.

Erste Erste Erste Erste

Philosophie, cit., Philosophie, cit., Philosophie, cit., Philosophie, cit.,

p. 6 (tr. p. 6 (tr. p. 7 (tr. p. 7 (tr.

fr., fr., fr., fr.,

p. p. p. p.

6). 7). 8). 9).

182 keimen in der griechischen Philosophie (già parzialmente edita negli anni 1922-23)28, Husserl è alla ricerca delle motivazioni che hanno determinato l’abbandone di quella forma specifica della cultura come si è delineata con le prime scuole filosofiche greche. In esse, infatti, si forma per la prima volta la « tendenza per una universalità siste­ matica », che è rappresentata dalla filosofia. Con l’idea della filosofia nell’antico periodo greco, si annuncia l’idea di una « ragione » che presiede al carattere « proprio dell’umanità » (echte Humanität); ma sono soprattutto Socrate e Platone i filosofi che hanno per primi deli­ neato il concetto di una soggettività sottratta al dominio naturale. La rivendicazione del carattere della « razionalità » come Idee der Vernunft, intesa come principio informatore della « soggettività » e come principio originario di evidenza o di senso, fornisce secondo Husserl il principio di Grundcharakter della civiltà occidentale. È dunque nell’ottica di questa utonomia della ragione, che vanno con­ siderate, secondo Husserl, le cosiddette « lotte per l’autonomia della ragione », per la « libertà dell’uomo dai legami della tradizione », per il « diritto naturale » o la « religione naturale »: lotte che restano al di sotto di quanto era stato annunciato con i Greci con il principio « dell’autonomia della ragione », intesa come il « principio più ele­ vato della cultura ». Nella seconda Abhandlung: Problem einer nicht historischen sondern idealen Genesis der Idee strenger Wissenschaft (composta attorno al 1925)2’ Husserl esordisce con una domanda rela­ tiva al sorgere della filosofia: « come il tutto è stato fatto, quale ne è l’origine, come le cose si sono trasformate; come si misura il mondo; che regola c’è affinché il mondo non sia un caos ma qualcosa d’uni­ forme »30. L’irruzione di una « genesi ideale » in contrapposizione alla « genesi di fatto », costituisce un modello proprio, in quanto — dice Husserl — solo le idee offrono la possibilità di « compren­ dere la necessità che nascostamente opera nella storia, determinandone il cammino »31. È in questa contrapposizione che si comprende la di­ stinzione fra Welterfahrung ed Erfahrungssinn der Welt: è dunque il parallelo « problema del senso » e « senso della ragione storica » che è chiamata ad analizzare la fenomenologia.

Sono questi, è quasi inutile avvertirlo, alcuni degli aspetti di cui si servirà più avanti Husserl (o nello stesso periodo, in frammenti e

28. 29. 30. 31.

Erste Erste Erste Erste

Philosophie, Philosophie, Philosophie, Philosophie,

cit., cit., cit., cit.,

pp. 203-207. pp. 288-297. p. 288. p. 297.

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testi inediti ancora da decifrare) per costruire la sua teoria della sto­ ria e della società dal punto di vista fenomenologico: punto di con­ vergenza di tutte le analisi sul concetto della cultura come fatto sog­ gettivo e interpersonale, ma soprattutto ricerca dei suoi caratteri teleo­ logici, che ne fanno un oggetto di sapere nel contesto intenzionale, di cui si tratta, per il filosofo, di evidenziare il senso e la struttura ei­ detica. Per ciò, prima ancora che questo problema si concentri in quella pur discutibile tesi di ciò che costituisce la « comunità euro­ pea » come modello assoluto in cui si realizza in pieno la natura della soggettività, occorre sottolineare che la cultura è per Husserl un fatto di scienza, di storia e di vita, legata alla temporalità, ed essa stessa pensata nella dimensione vissuta e riflessa della « coscienza costituente ». « È in quanto si dà una storia individuale, che l’uomo entra in una storia universale, che può comprenderla e prendervi parte. Egli non può comprendere lo sviluppo degli altri se non par­ tendo dal suo proprio sviluppo; egli non può comprendere le loro opere se non in quanto egli stesso opera »32. Un legame, dunque, o comunità con gli altri, per cui non è che per astrazione che la storia individuale può essere distinta da quella degli altri soggetti e da quella della società. Si delinea qui un grosso problema che non mancherà di manife­ starsi quando Husserl si accingerà a considerare il concetto di Europa come spazio privilegiato in cui la cultura attinge con la filosofia il suo aspetto esemplarmente ideale. Ma ciò che interessa, al di là delle affermazioni in cui si può cogliere questa tesi abbastanza discutibile (così sembra a molti) è la riflessione filosofica che essa suggerisce: il fatto, cioè, come si vedrà in extenso nella Krisis, di una « possibi­ lità tragica » della storia e, in particolare, di quella europea, il fatto, cioè, che lo spirito ha una storia e che « egli può essere malato, che la storia è per lo spirito stesso luogo di pericolo, della perdita possibile »: « punto di vista che è per così dire intercettato e ritrattato nella let­ tura diretta, teleologica della stessa Krisis »33. È questo certamente il punto critico delle analisi husserliane sul concetto di storia e di cul­ tura europea, in cui si contrappongono due visioni, delle quali l’una è chiamata a giustificare l’altra. Husserl si arrovella su questi con­ cetti senza pervenire a una loro definitiva composizione: o, meglio, da una parte, sente viva l’esigenza di riferirsi ai contenuti concreti

32. R. Toulemont, L’essence de la societé selon Husserl, Presses univ. de France, Paris, 1962, p. 137. 33. Cfr. ad es. A. Gron, Phénoménologie, herméneutique e historicité, « Re­ vue de Métaphysique et de Morale », n. 1, 1981, p. 80.

184 della cultura, dall’altra l’affacciarsi in questi stessi gradi di una per­ dita di significato, che solo la fisolofia è in grado di costituire. Per cui Husserl, sembrerebbe propendere per la tesi di una contrapposi­ zione fra il mondo dell’umanità come soggetto empirico e una « uni­ versalità ultima e definita che è appunto quella della pura pensabilità »34: contrasto, naturalmente, mai risolto del tutto, in quanto si tratterebbe di vedere come i due piani possano mantenersi distinti e come le comunità degli altri possano costituirsi accanto alla posizione di un « assoluto soggetto ». Certamente, Husserl ha avvertito questo complicato problema che tocca nel profondo la spiegazione di quello che lui chiama 1’« enigma della storia »; anche negli anni successivi, quando non sarà più viva l’esigenza di una contrapposizione al Dilthey, sarà il tentativo di man­ tenere in tensione dialettica la soggettività empirica con la soggetti­ vità trascendentale e conservare vivo l’interesse per la storia nel suo corso reale e ideale.

Anche se i temi husserliani sulla storia sono fortemente intrecciati e presenti nelle loro formulazioni sin dagli inizi, si può tuttavia regi­ strare un’inflessione tematica, sempre più circoscritta al nucleo ini­ ziale del suo progetto. È quanto si può desumere ad es. dai passi in­ troduttivi di Logica formale e trascendentale (1929) o da alcuni para­ grafi delle Meditazioni cartesiane (1930), dove il problema della sto­ ria si incontra con le questioni cruciali della « scienza » e della « inter­ soggettività » nell’ultima formulazione della fenomenologia. Nella prima delle opere citate, il problema della storia viene considerato da Husserl nell’ottica delle vicende della scienza, nel suo radicarsi, all’ini­ zio, di una « unificazione e appropriazione complessiva », che non solo registra la situazione di fatto delle varie scienze, ma che è anche in grado di dirigerle e orientarle secondo il modello della ragione35. Era questo, come si è detto, il principio che nell’antichità conferiva alla scienza il carattere di « dottrina pura e universale », in quanto in­ serita, mediante la filosofia, « nel senso dell’universalità dell’essere e della sua unità di principio »36. Ciò che è venuto meno nel mondo moderno, e in misura maggiore nei primi decenni del Novecento, è 34. Cfr. in proposito R. Toulemont, L’essence de la societé selon Husserl, cit., pp. 214 ss. (fra altri, cfr. G. Forni, Il soggetto e la storia, Il Mulino, Bolo­ gna, 1972, pp. 73 ss., A. Ales Bello, Edmund Husserl e la storia, « Nuovi Qua­ derni », Padova, 1972, pp. 151 ss.). 35. Formale und transzendentale Logik, cit., pp. 5-21 (cfr. la tr. it. Logica formale e trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Laterza, Bari, 1966. pp. 3-22). 36. Formale und transzendentale Logik, cit., p. 4 (tr. it., p. 7).

185 secondo Husserl questa struttura della « problematica espistemologica », in luogo della quale ha finito per prevalere un carattere sempre più tecnico e specialistico delle scienze. Se agli inizi del mondo mo­ derno, con Galileo e Cartesio, si delinea un rinnovamento dello spi­ rito scientifico, nei secoli successivi esso si traduce in una tendenza a sganciare le scienze dai vari problemi dell’uomo. Husserl si serve di questa constatazione di principio per sottoli­ neare il « carattere tragico » della cultura scientifica del suo tempo, in cui non mancano di evidenziarsi quei processi di crisi che si tra­ ducono nello scetticismo e nel relativismo, ai quali è correlata la sfi­ ducia in quella che Husserl chiama « autooggettivazione della ragione umana ». Da qui « la necessità di una presa di coscienza radicale e universale (radikale Besinnung), che restituisca alle scienze il carat­ tere di sapere fondato e collegato in pari tempo all’idea, secondo cui la « responsabilità scientifica » è anche « responsabilità totale che investe la vita umana in genere ». Se la crisi della scienza costituisce l’orizzonte culturale del proprio tempo, non meno complessa è per Husserl la situazione quando ci si trova ad affrontare, con i princìpi della fenomenologia eidetica, il problema del formarsi delle comunità intermonadologiche. Senza questa delineazione, che è in un certo sen­ so ancora una risposta in chiave di contrapposizione alla fondazione diltheyana delle « scienze dello spirito », non sarà certo possibile con­ ferire alla scienza quel carattere di riforma dell’umanità che sta più a cuore a Husserl. È il problema, questo, che si annuncia in alcuni passaggi delle Meditazioni cartesiane (parr. 55-59), nei quali, in risposta al solip­ sismo, Husserl affronta il complicato problema di come nell’« imma­ nenza dell’ego » si viene a costituire la « trascendenza dell’altro ». Traguardo necessario, questo, in quanto — sottolinea bene X. Tilliette — « la fenomenologia costitutiva doveva espandersi nella dire­ zione soggettiva, dato che la soggettività è certamente molteplice e dato che l’oggettività stessa connota questa pluralità di soggetti »37. Husserl cerca disperatamente in questi celebri passi della V Meditazione carte­ siana di fondare sul principio fenomenologico dell’« ego apodittico » e degli atti egologici (Ich-Akten) il « sentimento d’altri » (Einfühlung) o « esperienza di estraneità » (Fremderfahrung). Ciò che la compli­ cata rete dimostrativa riesce a evidenziare è infatti che l’altro (alterego) è « esistenza assoluta come me », che si dà dunque immediata­ mente e non per « impulso successivo delle sintesi »38. 37. X. Tilliette, Breve introduzione alla fenomenologia, cit., p. 107. 38. X. Tilliette, cit., p. 114.

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È questo il punto più difficile del cammino della fenomenologia, come hanno rilevato quei critici che vedono in essa un « insedia­ mento della storia riflessivo », mancando con ciò a un fondamentale obiettivo, che è il terreno su cui si costituiscono gli altri e 1’« effetti­ vità della storia ». La problematica degli altri — dice bene il Tilliette — fa quindi « scoppiare il campo trascendentale », anche se Husserl guarda ancora alla « formazione della comunità » con occhi delle « scienze dello spirito », seppure con intenti fondativi che derivano dai gradi della fenomenologia costitutiva. L’io e gli altri, in quanto monadi rispettive — dice Husserl — « sono per sé proprio come io sono per me » (par. 56); e questa è la forma che vale anche per la comunità che si costituisce nel proprio nucleo per « appresentazione » e non per ragionamento logico. In questo modo, non sono tanto le sintesi quelle che danno vita al processo di ampliamento della sfera della soggettività, quanto le reiterate e sempre più complesse opera­ zioni dell’intenzionalità della coscienza. Infatti, non è che Husserl miri a un processo di moltiplicazione dei soggetti partendo dall’espe­ rienza primordiale dell’ego, quanto piuttosto al riconoscimento di una « esistenza storica dell’umanità » (Geschichtlichen Dasein) o senso della comunità « come rapporto che determina la parificazione del mio essere con quello di ogni altro » (par. 56): comunità, dunque, in base alla quale si può dire che « io e ognuno siamo, ciascuno, un uomo tra gli altri uomini » (par. 56). Con ciò la dimostrazione non si appiattisce in un riconoscimento di tipo oggettivo, in quanto la sfera trascendente il soggetto (non cer­ tamente destinato a una incomprensibile affermazione solipsistica) è sostenuta da una rete intenzionale che ne amplia all’infinito il movi­ mento. Husserl attribuisce a questa scoperta delle diverse falde in cui si formano (o si intenzionano) i sempre nuovi gradi della comunità, fra cui il « mondo ambiente » come orizzonte concreto e al limite quello spazio più vasto che è il passato e che si esprime nella « me­ moria presentificante », il carattere di un « mondo della cultura orien­ tato » (par. 58). Dunque, qualcosa di più di una semplice registrazione di un dato storico-sociale; il passo successivo, che Husserl compirà nella Krisis, sarà quello di riconoscere nell’umanità un’« autoconsape­ volezza dei fini », che è poi lo « svolgimento dell’umanità in chiave filosofica e culturale ». Ritornando per ciò brevemente al nostro tema, quello delle con­ siderazioni sulla scienza e sul rapporto intersoggettivo, necessario gra­ do della formazione del concetto di umanità nel suo processo storico e culturale, si può sottolineare come alla vigilia degli scritti della Krisis, Husserl sia già in possesso dello strumento della « riduzione » con la

187 quale cercherà di mettere in evidenza ciò che di positivo caratterizza la storia nel suo sviluppo teleologico. Formula teorica, quella della ri­ duzione, con la quale si vuol dire, come Husserl ribadirà nella Krisis (par. 6)39 che il « senso della storia » si identifica con il « senso della ragione ». Dal punto di vista al quale è pervenuto Husserl, ciò signi­ fica che al filosofo non spetta dare giudizi su epoche passate, quanto ripercorrere le formazioni culturali e i sistemi che si sono elevati a un grado superiore, sulla base di « valori di responsabilità » e di « intui­ zioni teoriche ». In questo decisivo compito che si assume la fenome­ nologia, Husserl fa propria l’esigenza della « responsabilità dei filo­ sofi » (« filosofi come funzionari dell’umanità »), ai quali spetta susci­ tare il risveglio nei « momenti di stanchezza » e di « dispersione degli sforzi filosofici », che renda l’umanità, per quanto possibile, « capace di una responsabilità di se stessa » (Krisis, par. 15). Concetto che Husserl propone non già pateticamente, ma nella convinzione che questo compito deriva dallo stesso spirito di connessione che anima gli « organismi umani » dentro « l’umanità », e in particolare o uni­ camente in quella europea. Anche se appare discutibile, come si è detto, l’idea di « umanità europea » come distinta da quella di altri popoli (« europeizzazione di tutte le umanità straniere »), è certo che l’intento husserliano non è di svalutazione di altre civiltà, bensì riconoscimento di un carattere specifico di quella europea la quale, con il suo « razionalismo auten­ tico » (ben distinto da quello prevalso nel XVIII secolo) non può essere considerata « mero tipo antropologico ». Ciò spiega come Hus­ serl, anticipando i motivi principali della Krisis e del suo celebre para­ grafo 73 (« la filosofia come riflessione dell’umanità su se stessa e come realizzazione della ragione »), riproponga gli ideali della scienza e della ragione come il terreno in cui la crisi del mondo contempora­ neo diventa davvero un problema serio e ineludibile per la filosofia.

Il paragrafo conclusivo della Krisis, ora ricordato, è dunque una chiosa finale dell’accesso alla fenomenologia attraverso il « mondo della vita » (Lebenswelt) [parte A] e attraverso quella mai abbando­ nata della psicologia [parte B], ma è anche il testo conclusivo che dà significato all’intera opera husserliana. Sia nel paragrafo accennato, come nelle « appendici » che chiariscono quel testo, c’è infatti da parte di Husserl un ultimo sforzo per dare un’espressione comples­ 39. Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Bd. VI della Husserliana, M. Nijhoff, Haag, 1959 (tr. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Mi­ lano, 1961).

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siva e definitiva al problema che lo ha sempre travagliato, quello cioè di una filosofia come « scienza rigorosa » e che ora vede delinearsi nell’articolazione fenomenologica-ontologica del « mondo della vita » (Lebenswelt), la cui funzione viene analizzata in contrapposizione alla « sovrapposizione del mondo matematicamente sustruito delle idealità all’unico mondo reale, al mondo che si dà realmente nella percezione, al mondo esperito ed esperibile, al mondo circostante della vita » (par. 9). È quello che secondo Husserl è iniziato con Galileo (« un genio che scopre e insieme occulta »), con il « rivestimento ideale » (Ideenkleid) con cui le verità autentiche coprono il mondo della cau­ salità fisica. Si tratta, secondo Husserl, di un carattere della scientificità che nei suoi esiti conclusivi non tarderà a manifestarsi con caratteri for­ malistici e tecnici, facendo con ciò perdere alla scienza il suo vero fondamento. Husserl sviluppa in questo modo il motivo con cui si apre la stessa opera, la quale coglie la contraddizione fra il rigoglioso sviluppo delle scienze e la pretesa di una critica che investe, oltre a discipline tradizionali come la psicologia, anche le « scienze positive della matematica pura e delle scienze naturali esatte » (par. 1). An­ cora più decisamente nella Conferenza di Vienna w, questo diventa il tema privilegiato da cui prendono corpo i fenomeni complessivi che danno vita all’idea di una « crisi europea », al fatto che « le nazioni europee sono ammalate, la stessa Europa, si dice, è in crisi » (ibid.). Questa riflessione sulla crisi (che è poi nel suo fondo la crisi di una idea, la soggettività o l’umanesimo, come si potrebbe dire oggi, dopo la lettura heideggeriana e degli stessi sviluppi nell’ermeneutica) è un punto di partenza, per Husserl, un dato di riconoscimento in più che si aggiunge alle sue analisi precedenti, da cui trae la convinzione di come sia necessario un insediamento nuovo nella verità. Tutto il discorso husserliano, annunciato nei paragrafi cruciali 15 e 16 della Krisis, mira in effetti a una ricomposizione storica della ci­ viltà occidentale, dovendosi trattare nell’ambito della filosofia il qua­ dro delle « deviazioni » dallo « spirito europeo »: dunque, « riconsi­ derazione storica » (historische Rückbesinnung), che è anche « auto­ considerazione » (Selstbesinnung) in grado di spingere a « decisioni nuove ». Diventa quindi importante a questo scopo la delineazione del « mondo della vita » (parr. 34-51) in cui Husserl esprime, nell’ovvietà di evidenze originarie, il terreno da cui prende inizio l’intero edificio 40. Die Philosophie in der Krisis der europäischen Menschheit, tenuta da Husserl al Kulturbund di Vienna il 10 maggio 1935 (Krisis, cit., pp. 314 ss., tr. it., pp. 328 ss.).

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delle scienze, diventando con ciò il « mondo della vita » un « pro­ blema filosofico universale », « vita operante universale » in cui si producono i momenti dell’« evoluzione della coscienza tematica del mondo » (par. 38), e quindi riconducibile nella sua profonda natura a quello che Husserl, fedele alla propria « vocazione fenomenologica », chiama « universo della soggettività » (par. 38). Per cui la epoché con cui ci si innalza al segno della soggettività, la cui struttura, dunque, non ha più nulla in comune con la teoria del soggetto, elaborata da Kant e dagli idealisti, ha piuttosto lo scopo, per ogni soggetto, di pe­ netrare in un « regno di fenomeni estremamente complicati e singo­ lari » (par. 46). Per ciò anche la psicologia, che nelle sue vicissitudini moderne da Cartesio a Wundt necessita di un analogo processo di epoché tematiche, contribuisce a far emergere il nucleo della « totalità del soggettivo » nell’universale principio della « correlazione fenome­ nologica » (par. 46). Il problema, da cui aveva preso le mosse Husserl per descrivere la crisi, trova ora un punto di approdo in una nuova ripresa del concetto di storicità della vita umana, che non è quindi processuali dialetti­ ca, « ma una storicità, la cui entelechia è appunto questa nuova idea (quella di verità) e la prassi filosofica e scientifica che le è subordina­ ta » (par. 73). L’ingresso in questa nuova storicità — secondo Husserl — non « è stato mai indagato seriamente in modo scientifico », e anche l’idealismo (a cui Husserl contrappone le posizioni di Berkeley e di Hume e in certa misura di Kant) non è pervenuto a « impossessarsi del­ la soggettività in quanto soggettività » (par. 46). L’ideale che invece è conseguente al concetto fenomenologico di « storicità » è il principio secondo cui la « razionalità è un’idea disposta all’infinito » (ihid). Nel­ la sua forma di « autocomprensione », essa è « telos apodittico » (par. 73), di fronte alla cui comprensione la storia della filosofia dei tempi moderni conosce una prima e una seconda fase. Per cui Husserl non cessa di parlare di « storicità generativa originaria », in quanto la sto­ ricità « è già da sempre in atto, e, in atto, è appunto un che di genera­ le che inerisce all’esistenza umana. È un divenire unitario delle perso­ ne, nelle persone, e in quanto mondo circostante, nella molteplicità del­ le forme del mondo circostante, il che può essere considerato come l’uni­ tà di un organismo » (app. XXVI al par. 73)41. Il presentimento della caduta della « filosofia scientifica » (ciò che fa scrivere a Husserl nel par. 3 della Krisis che non è senza dolorosi sentimenti che non si può 41. Su questo concetto di « storicità » e per quanto attiene alla sua presenza nel contesto della filosofia dell’attualismo gentiliano (e più in generale dello storicismo italiano), cfr. il saggio stimolante di A. Negri, Husserl filosofo senza storia?, « Giornale critico della filosofia italiana », 1962, pp. 177-193.

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più ascoltare l’inno alla gioia di Schiller e Beethoven), accompagnato in qualche annotazione da un atteggiamento apparentemente rassegna­ to (« La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa an­ zi apodittica — il sogno è finito ») (ibid), si ritempra ancora una volta nella consapevolezza che gli « scacchi della filosofia lungo il suo cam­ mino sono necessari e che essi non fanno perdere di vista, in ogni caso, ciò che il suo « telos universale » rivela alla coscienza che non sia pigra o stanca. Per ciò la Conferenza di Vienna può anche ben finire con l’al­ ternativa che si apre al mondo con temporaneo: il tramonto, l’alienazio­ ne, la barbarie, oppure la rinascita nello spirito di una nuova filosofia, ossia quello che Husserl, quasi come messaggio, definiva « Heroismus der Vernunft ». Husserl è un filosofo tenacemente legato a una sola idea: è difficile isolare dalla sua opera e dal rigore con cui l’ha costrui­ ta quel pathos etico con cui reagisce alle profezie, ancor vive nel suo tempo, di una morte della filosofia (e con essa della « morte dell’uomo », dopo che si è proclamata con Nietzsche la « morte di Dio »).

Ora, se è consentito di considerare brevemente in termini di attua­ lità l’iter del problema della storia in Husserl, sembrano largamente confermate le obiezioni di quanti (pur senza operare rovesciamenti del­ le istanze fenomenologiche come ad es. nella storiografia marxista e prima ancora negli sviluppi autonomi, come quelli che si possono leg­ gere in Sartre o Merleau-Ponty), hanno sottolineato l’impasse husserlia­ na, e fra i primi P. Ricoeur, secondo il quale « non è inesatto dire che le considerazioni storiche di Husserl non sono che una proiezione, sul piano del divenire collettivo, di una filosofia riflessiva già compiuta sul piano dell’interiorità »42. Ne deriva, quanto al problema di fondo, che « è comprendendo il movimento della storia come storia dello spirito, che la coscienza accede al proprio senso; e come la riflessione fornisce la “guida intenzionale” per leggere la storia, si potrebbe dire che la storia fornisce “la guida temporale” per riconoscere infine nella co­ scienza la ragione infinita per umanizzare l’uomò »43. Su questa osservazione si basano alcune istanze recenti per prolun­ gare il discorso husserliano sulla storia nella prospettiva ermeneutica, ponendo questa come integrazione di ciò che la fenomenologia non è riuscita pienamente a giustificare. Si potrebbe delineare il problema in questo modo: nella misura in cui la fenomenologia mette in atto la « ri­ duzione eidetica », appare impossibile una spiegazione della storia co­ me « fenomeno umano », in quanto la storia non è mai un processo che 42. P. Ricoeur, art. cit., p. 299. 43. Art. cit., p. 300.

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possa essere tradotto nella Wesenschau (che è d’altra parte contraddet­ ta dai fenomeni opposti: la crisi) che ne sfigurano il senso. Da qui le varie alternative che si presentano alla fenomenologia: la necessità di un confronto, in primo luogo, con ciò che trascende l’ambito della ri­ duzione (il salto nella « dialettica storica »), oppure una ripresa che ne salvaguardi il senso ma ne interpreti il significato storico concreto. Il rapporto fra fenomenologia, ontologia ed ermeneutica si ripropo­ ne quindi anche a proposito della storia. Si deve citare a questo pro­ posito quanto ha scritto di recente Gadamer, che sottolinea la cosiddet­ ta « eredità di Hegel » (das Erbe Hegels) nella ermeneutica dopo la parentesi della « scuola storica tedesca » (Historismus) e dello stesso pensiero husserliano44. Anche per Gadamer, infatti, la storicità non è questione che tocchi il solo conoscere, dato che essa « si costituisce con il nostro destino »45. « Che la comprensione non sia tanto un “atto del­ la coscienza” quanto un patire (Widerfahrnis) nella quale si edifica la ricchezza storica dello spirito, che “comprendere” sia soprattutto un evento (Geschehen) che costituisce la storia, afferrare ciò apparve certo come una eresia di fronte al progetto husserliano di una filosofia come scienza rigorosa e del suo fondamento in una certezza apodittica della coscienza di sé »46. Aggiunge Gadamer: « in verità, il pensiero della storicità non poteva consentire nemmeno che “la costituzione del mon­ do storico nelle scienze umane del Dilthey” fosse liquidato semplicemente nel senso di Husserl come “storicismo”, o “relativismo” »47. Gadamer attribuisce a Heidegger la delineazione di una « ermeneutica della fatticità » (Hermeneutik der Faktizität), che segna il distacco « dall’idealismo della coscienza a carattere neokantiano che aveva se­ guito Husserl ä48. Si può certamente terminare qui la citazione del testo gadameriano, che pone in chiave ermeneutica l’alternativa o il « controprogetto filosofico » (Gegen-Entwurf) alla fenomenologia, in una ripresa dello « spirito oggettivo » e nella radicalizzazione storica e ontologica dei termini stessi di soggettività e oggettività. Anche se la contrapposizione si è sviluppata in questo modo, come si può facilmen­ te vedere dalle stesse pagine che Gadamer riserva a Husserl in Verità e

44. H.G. Gadamer, J. Habermas, Das Erbe Hegels - Zwei Reden aus Anlass des Hegel-Preises, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1979, pp. 39-42 (cfr. la tr. fr. di questo saggio con il titolo Itineraire de Hegel, « Critique », ott. 1981, t. XXXVII, n. 413, pp. 881 ss.). 45. Das Erbe Hegels, cit., p. 40. 46. Das Erbe Hegels, cit., pp. 40-41. 47. Das Erbe Hegels, cit., p. 41. 48. Ibid.

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Metodo49, non può tuttavia sfuggire come la fenomenologia non sia estranea al progetto ermeneutico, ma ne costituisca anzi una necessaria premessa o integrazione. Ciò appare, a nostro avviso, certamente pos­ sibile (e lo stesso Ricoeur, d’altra parte, ha compiuto tale operazione per altri cespiti cospicui della fenomenologia allargata alla comprensione dei fenomeni linguistici in aree filosofiche molto diverse), se si pensa, più che a un’opposizione, a un’integrazione del momento fenomenolo­ gico che apre alla storia con la riduzione alla « dimensione del senso »: momento iniziale, sul quale l’ermeneutica dà inizio al suo lavoro di in­ terpretazione. È ciò che Gadamer chiama « immanenza fenomenologica nell’ermeneutica »50. Si tratta, quindi, più che di un’opposizione di prin­ cipio, della convergenza fra la « dimensione del senso » (ciò che sorreg­ ge per così dire a priori il tessuto della storia) e la sua registrazione nega­ tiva nel corso delle vicende storiche: luogo in cui la filosofia riscopre la sua « cosalità » (Sachlichkeit). Collegata a questa questione, emerge quella, pure oggi molto di­ scussa, del « fondamento del senso », che nella fenomenologia è costi­ tuito dalla soggettività. Ora è attorno a questo tema che ha preso vigo­ re la discussione sulla fine dell’umanesimo o sulla « morte dell’uomo » o del « soggetto » come conseguenza della stessa struttura della Krisis; l’opera che, pur avendo sul problema un « contenuto teorico », finisce con il suo ripristino del soggetto emancipato dai meccanismi obiettivi della scienza e della tecnica in una — così si dice — « lettura nostalgica-restaurativa della crisi dell’umanesimo »5152 . Opportunamente è stato fatto però osservare che la fenomenologia parla non di « soggetto » ma di « soggetti » reali (Wirsubjektivitdt), mentre dà per scontata la mor­ te del vecchio soggetto trascendentale. Perciò « il fatto che la fenome­ nologia della Crisi arrechi un contributo cospicuo alla morte del sog­ getto trascendentale non contraddice minimamente all’interpretazione della crisi come oblio e perdita della soggettività »; « paradossalmente, proprio l’esperienza della crisi suggerisce la nuova idea della soggetti­ vità »: quella, appunto, che affida a ogni soggetto un nuovo rapporto con le scienze e la tecnica « che ci faccia produrre il massimo della no­ stra soggettività »’2. In questo modo la tematica del soggetto non si sfal­ da in un reticolo ontologico-esistenziale, che Husserl aveva sempre av­ versato, ma confluisce in quello fenomenologico, in base al quale si 49. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Mohr, Tübingen (Paul Sie­ beck), Tübingen, 19652 (tr. it. Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972, pp. 287 ss.). 50. Riprendo' l’espressione nell’ediz. it. cit., op. cit., p. 14. 51. G. Vattimo, La crisi dell’umanesimo, «Teoria», n. 1, 1981, pp. 32-33. 52. G. Semerari, Crisi e critica della ragione, « Discorsi - Ricerche di storia della filosofia», fase. n. 1, 1981, pp. 27 ss.

193 può dire che qualsiasi uomo « reca in sé un io trascendentale » (Krisis, par. 54). Per chiudere queste brevi considerazioni, basterà riprendere l’os­ servazione in cui P. Ricoeur si chiede se il processo di « costituzione » della soggettività può produrre la ragione di « trascendenze diverse » (o della storia come « contingenza », come direbbe Merleau-Ponty), on­ de evitare tanto il razionalismo storico quanto il conseguente scettici­ smo. Ci sembra, ribadendo quanto si è detto prima, che l’installarsi di una filosofia riflessiva, lontana dal carattere che le attribuiva Hegel (cioè di primo grado dell’autocoscienza assoluta), costituisca un neces­ sario supporto di riappropriazione delle soggettività di cui l’ermeneu­ tica, in ideale prolungamento, fornisce l’interpretazione storica attra­ verso le sue obiettivazioni concrete. E sono queste che contano, infine, nel processo di scavo che la filosofia fa nei confronti del passato. Per­ tanto, le considerazioni fenomenologiche sulla storia sono ben presenti nel pensiero contemporaneo; esse aiutano a comprendere la modernità come crisi e indicano pure quelle risposte radicali che Husserl indicava nello spirito di un ethos permeato di razionalità.

5. SIGNIFICATO E SIGNIFICALA: UNA PROSPETTIVA HUSSERLIANA

di Lido Valdrè

Il problema che la presente ricerca si propone di esaminare è quel­ lo del rapporto-distinzione fra l’esigenza logica di identità e di univocità del linguaggio e il riconoscimento della sua funzione significante per la nostra vita. Il senso dell’espressione « prospettiva husserliana » che compare nel titolo va rintracciato nella centralità che la questione as­ sume nell’itinerario di Husserl; il termine « prospettiva » sta invece a indicare la validità di un’ispirazione piuttosto che una assoluta fedeltà alla pagina del Maestro. Il quadro teorico entro cui si svolge l’argo­ mentazione comprende, oltre alla fenomenologia, l’epistemologia, la filosofia del linguaggio ordinario e, ovviamente, l’ermeneutica. Questa ricerca si regge infatti sulla semplice anche se discutibile convinzione che nel pensiero contemporaneo esistano delle costanti degne di essere rintracciate ed evidenziate, con l’intento di arricchire il dibattito, anche se col pericolo di confonderlo. In questo senso il problema dianzi enunciato può essere esposto anche come problema del rapporto fra struttura oggettiva e significato del linguaggio, cui il neopositivismo viennese darà la ben nota solu­ zione tre decenni circa dopo le Ricerche logiche. L’esperienza ci deve dare immediatamente la realtà delle cose. La logica dice delle proposi­ zioni vere, ma non ci informa sul mondo. Ogni informazione ha la sua origine nel contatto con le cose. Le cose che costituiscono realtà sono i fatti del mondo, incluso il linguaggio, ovviamente quel linguaggio che descrive stati di cose, nel quale si dà o si rappresenta il mondo. Questa è la posizione di matrice wittgensteiniana, come appare soprattutto nelle opere di Schlick e di Carnap ’. Con un’operazione entusiastica e 1. Nella sterminata bibliografia sul Neopositivismo e il Circolo di Vienna, si indica qui un’opera fondamentale sul suo maggior protagonista: The Philosophy of Rudolf Carnap, ed. A. Schilpp, 1963, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1974. Fra gli studi italiani, la 2a ed. del ben noto F. Barone, Il neopositivismo logico, Laterza, Bari, 1977 e II neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, To­ rino, 1969.

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approssimativa si potrebbe essere tentati di ravvisare un’analogia fra questa attenzione alle cose e il ritorno alle cose di Husserl; un tentati­ vo che potrebbe essere sostenuto da alcune considerazioni non banali: la più importante delle quali è che il linguaggio, sia per i neopositivisti che per i fenomenologi, non è né primo né autonomo, ma soltanto un passo secondo sulla strada della conoscenza della realtà. Il primo passo rimane sempre la percezione della realtà. Un’altra considerazione non banale è che per entrambi gl’indirizzi di pensiero il linguaggio, pur essendo secondario rispetto alla percezione della realtà, costituisce pur sempre la manifestazione del rapporto stesso fra soggetto e realtà, e quindi il modo di darsi delle cose. Come rileva Paul Ricoeur, è nel lin­ guaggio che si esprime la propria dipendenza nei confronti delle cose, nei confronti di ciò che precede il linguaggio2. Ciò determina quello che lo stesso Ricoeur definisce « il paradosso centrale » del linguaggio, per chiarire il quale il confronto con l’epistemologia viennese e con la filo­ sofia analitica inglese può servire da stimolo fecondo al di là di ogni provvisorio tentativo di assimilazione. Dai Viennesi ricaviamo l’assoluta certezza che l’esperienza ci dà la realtà delle cose e che il linguaggio fisicalista è l’espressione delle cose stesse. Il problema della fenomenologia, anche se espresso in mo­ do analogo (il ritorno alle cose stesse), risulta a questo proposito del tutto estraneo alla posizione, per es., di uno Schlick3. Per quest’ultimo, il rapporto mondo-linguaggio è ovvio e determinato nella misura in cui il secondo termine è oggettivamente verificato dal primo. Per Husserl, esprimere le cose nel discorso significa, in un certo senso, analogamen­ te, condurre il linguaggio fuori dal linguaggio, in direzione delle sue condizioni non-linguistiche, però ben oltre l’ovvietà referenzialista del positivismo. Ciò che sta prima del discorso si dà a noi in una intuizio­ ne della sua essenza; esprimerlo vuol dire attribuirgli un significato per la nostra vita. Ausdruck und Bedeutung, la prima delle Ricerche logi­ che, era dedicata appunto al riconoscimento della funzione significante del linguaggio sottostante all’esigenza della sua logicità, e, ancor più fondamentale, di una funzione intenzionale comune a ogni vissuto4. Successivamente, in Ideen, ma soprattutto nella Krisis, l’aspetto cui Husserl dedica maggior attenzione è la funzione antepredicativa della 2. P. Ricoeur, L’homme et le langage, p. 1403, in Tendances principales de la recherche dans les Sciences sociales et humaines, a cura di J.H. Moutam, La Haye, New York, 1978. 3. M. Schlick, Form and Content, in Gesammelte Aufsätze 1926-1936. In tr. it., scritti di Schlick si trovano in II neoempirismo, cit., e in M. Schlick, Tra realismo e neopositivismo, a cura di L. Geymonat, Il Mulino, Bologna, 1974. 4. Logische Untersuchungen, tr. it. II Saggiatore. Milano, 1968, in partico­ lare I rie., cap. IV, pp. 365 ss.

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percezione: esiste un senso prima che ci sia un linguaggio; l’oggetto percepito si dà con un senso presunto che i diversi contesti in cui la vi­ ta si realizza possono confermare o falsificare5. Dapprima il linguaggio sembra svolgere un ruolo di mediatore fra senso (antepredicativo) e contesto (l’uomo nel mondo), poi un ruolo di feed-back fra un’esigen­ za di fondamento (Arche) e una di svolgimento (Telos). Questo ruolo di interscambio fra realtà essenziale e contesto si chiarisce ulteriormen­ te col ricorso alla nozione di Lebenswelt. Il mondo-delia vita, che co­ stituisce tutta l’esperienza che precede il linguaggio, non è un immedia­ to puro e semplice, ma è a sua volta un processo che si svolge nel e sul linguaggio, in una interrogazione ricorrente nella quale il linguaggio scopre il proprio fondamento in ciò che non è linguaggio. Ma è soprattutto in Erfahrung und Urteil che compare in una distin­ zione epistemologica illuminante espressa come « orizzonte interno ed esterno » di ogni atto di conoscenza6. Ecco, mi sembra questo uno dei punti cruciali a cui perviene la riflessione di Husserl, attraverso gli svi­ luppi e le correzioni; un punto che, tra l’altro, si presta molto bene a costituire riferimento comune per quel dialogo che molti hanno auspi­ cato e alcuni tentato fra fenomenologia, epistemologia e filosofia del linguaggio ordinario. È ormai ben nota l’attenzione che Gilbert Ryle, massimo esponente della Oxford Philosophy, presta alle teoria di Hus­ serl. Altrettanto nota è la convinzione di Paul Ricoeur che il dialogo timidamente intrecciato fra la fenomenologia e la filosofia anglo-sasso­ ne sia destinato ad assumere maggiore ampiezza. Nella pagina di Eric Donald Hirsch jr. si sviluppa una prospettiva husserliana tenuta costan­ temente sul filo del confronto con le problematiche dell’ermeneutica, dell’epistemologia e della linguistica7. Il rapporto fra un atto di coscienza e il suo oggetto si chiama « in­ tenzione ». « Significato » è il termine generale per tutti gli oggetti in­ tenzionali. Un’esperienza di significato è costituita da almeno tre aspet­ ti: 1. l’oggetto in quanto percepito da me; 2. l’atto col quale lo percepi­ sco; 3. l’oggetto che esiste indipendentemente dal mio atto percettivo. L’1. e il 2. sono oggetti e atti intenzionali diversi; il 3. è l’oggetto inten­ zionale sempre identico a se stesso, è l’essenza della cosa, la sua con­ 5. Dìe Krisis der europäischen Wissenschaften, tr. it. Il Saggiatore, Mila­ no, 1961, parte II, par. 9h; parte III, par. 28, 29; appendice XVII. 6. Erfahrung und Urteil, tr. it. Il Saggiatore, Milano, 1961, pp. 26-35. 7. G. Ryle, Phenomenology, « Arist. Soc. Suppl. », voi. XI (1932), pp. 68 ss.; recensione a R. Ingarden, Essential Fragen, « Mind », XXXVI (1927), pp. 366 ss.; The Concept of Mind, tr. it. Lo spirito come comportamento, Einaudi, To­ rino, 1955. P. Ricoeur, L’homme et le langage, cit., p. 1404. E.D. Hirsch Ir., Validity in Interpretation, tr. it. Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Il Mulino, Bologna, 1973; The Aims of Interpretation, tr. it. Come si interpreta un testo, Armando, Roma, 1978.

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cettualizzazione. Il significato verbale è una specie di oggetto inten­ zionale con carattere intersoggettivo, nel senso che è intenzionale, e in qualche misura (potenzialmente, per chiunque), convenzionale. Richia­ mandosi a Husserl e utilizzando il metodo di indagine e l’apparato ter­ minologico dell’epistemologia, Hirsch sviluppa un’interessante teoria del significato e dell’interpretazione che si fonda sui seguenti punti8: il si­ gnificato verbale è un oggetto intenzionale del tipo 3, cioè è la concet­ tualizzazione della « cosa », pertanto immutabile e identico a se stesso attraverso tutte le riproduzioni. L’enunciato espresso costituisce il si­ gnificato verbale, o contenuto9. In esso si rivela l’intenzione del par­ lante in linea di principio condivisibile da chiunque. I sottintesi, al con­ trario, costituiscono soltanto delle « esperienze ». Per contenuto, nel senso di Husserl, vanno intesi tutti quegli aspetti dell’intenzione che sono comunicati ad altri con mezzi linguistici (aspetto cognitivo, emo­ tivo, fonetico, visivo); per esperienza, tutte quelle implicazioni che di solito si tenta di determinare facendo riferimento al contesto dell’enun­ ciato. Se colui che dice « Ho mal di testa » è seduto a un tavolo in un locale pieno di fumo, l’implicazione del suo enunciato può essere: « L’aria è irrespirabile ». Se sta giocando a poker, possono essere: « Il gioco mi va male » oppure, come sopra, « L’aria è irrespirabile », op­ pure ancora una congiunzione di entrambe. Il contenuto, o significato esplicito di un enunciato, può essere interpretato con soddisfazione da chiunque — naturalmente là dove si realizza la condivisibilità — men­ tre possono intervenire difficoltà insormontabili nell’interpretare im­ plicazioni a « Ho mal di testa », del tipo « desiderio simpatia », o « il lavoro che faccio non mi piace ». Ovviamente, il problema sussiste proprio perché talvolta il contenuto, o significato verbale, non esaurisce tutte le possibilità interpretative. L’interprete, infatti, deduce spesso, dal significato espresso, delle implicazioni che si accordano col signifi­ cato espresso all’interno di un particolare contesto. In altri termini, la intenzione di significato di un autore « contenuta » nelle parole e nel­ le espressioni lascia aperta la possibilità di esperienze di significato che l’interprete deduce dalle prime, mantenendosi però sempre all’interno di un significato complessivo, o contesto. Per l’individuazione del si­ gnificato diventa indispensabile determinare l’orizzonte dell’autore, non certo nel senso di stabilire le implicazioni che l’autore aveva in men­ te (in questo caso non si arriverebbe mai a una conclusione oggettiva, nemmeno se si interrogasse o si psicanalizzasse l’autore stesso), bensì nel senso di tracciare un quadro degli aspetti essenziali del contesto. 8. E.D. Hirsch fr., Validitycit., pp. 227 ss. 9. Ivi, p. 228. Cfr. Logische Untersuchungen, tr. it. cit., pp. 358-369.

198 Secondo Husserl10, l’orizzonte è un sistema di aspettazioni e probabi­ lità tipiche. « È un senso non esplicito del tutto, derivato dai signifi­ cati espliciti presenti alla coscienza ». Sono aspetti essenziali del conte­ sto il quadro d’ambiente in cui si svolge l’azione, il linguaggio abituale dei personaggi, l’insieme dei comportamenti tipici emersi dai signifi­ cati fin lì espressi; in generale, tutte le implicazioni inespresse deduci­ bili da quelle espresse, e che pertanto rientrano nel sistema di aspetta­ zioni che l’orizzonte dell’autore permette di configurare. Si chiama « orizzonte interno » tutto il complesso di aspettazioni che il significato testuale consente e sanziona; si chiama « orizzonte esterno » ogni significato possibile in qualche modo rapportabile al primo, ma appartenente ad un dominio più vasto. L’orizzonte interno è permanentemente identico a se stesso, è oggettivo perché appartiene al­ l’intenzione dell’autore. Quello esterno è illimitato e mutevole, perché appartiene all’universo dei significati, al cosmo intellettuale dell’uomo. Fra il primo e il secondo corre la stessa differenza che corre fra inter­ pretazione e critica. L’interpreta delimita il significato testuale; il cri­ tico ritaglia nell’infinità e mutabilità delle possibili proiezioni un suo significato non arbitrario. L’attendibilità (la non arbitrarietà) dell’ope­ razione critica si regge comunque su una interpretazione corretta, cioè sulla definizione preventiva dell’orizzonte interno. Dotate ognuna di proprie caratteristiche, interpretazione e critica non sono perciò total­ mente autonome, in particolare la seconda rispetto alla prima. Due sembrano essere principalmente gli obiettivi di Hirsch: 1. resti­ tuire alla conoscenza (rispetto al linguaggio) il suo senso di conoscenza vera, in un momento in cui la discussione contemporanea sembra aver prodotto una diffidenza generalizzata nei confronti del concetto di « verità ». Il tentativo di Hirsch è particolarmente significativo perché attuato facendo ampio ricorso a nozioni tipiche dell’epistemologia più evoluta (H. Reichenback, K. Popper), quando si deve proprio a questa epistemologia il momento più acuto della crisi del concetto di verità; 2. affermare la possibilità di un’interpretazione valida, che, secondo l’in­ segnamento di Husserl, riesca a porre la dovuta distinzione fra signi­ ficato oggettivo (contenuto) e associazioni private (esperienze), nonché fra significato oggettivo (immutabile) e implicazioni esterne (mutevoli e illimitate, del tipo storico, linguistico, psicologico, psicanalitico, fisico, metafisico, personale, familiare, nazionale).

10. Erfahrung und Urteil, tr. it. cit., pp. 26-35. Cfr. anche H. Kuhn, The Phenontenical Concepì of « Horizon », in Philosophica! Essays in mentory of Edmund Husserl, ed. Marvin Färber, Cambridge, Mass., 1940. E.D. Hirsch, The Aims, cit., p. 30.

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I termini usati da Hirsch per orizzonte interno e orizzonte esterno sono rispettivamente « significato » e « significanza » (meaning e significance)11. I due concetti, al pari di qualsiasi analoga distinzione, sono essenziali per comprendere come il significato possa essere stabile e de­ terminato e come, partendo da questa acquisizione, sia possibile l’inter­ pretazione in quanto disciplina. L’oggetto dell’interpretazione è il si­ gnificato testuale in se stesso e per se stesso, che può essere definito « significato » in senso stretto. La « significanza » appartiene piuttosto alla critica, nella quale il feed-back fra significato e contesto (dell’in­ terprete) mostra una prevalenza del secondo termine sul primo. Au­ gust Boeckh, per es., definisce la critica come una costruzione realiz­ zata sui risultati dell’interpretazione, come « quella funzione filologica mediante la quale un testo è compreso non già soltanto nei suoi termini e per se stesso, ma allo scopo di stabilire un rapporto con qualcos’altro, in modo tale che il fine è una conoscenza di questo stesso rapporto »'11 2. In prima istanza, interpretazione e critica non differiscono se conside­ rati all’interno di quel quadro progettuale di senso husserliano nel qua­ le, come si diceva, il mondo-della-vita cui il linguaggio rimanda dà luo­ go a un’interrogazione ricorrente che ha a che fare col contesto, non im­ porta se dell’autore o dell’interprete. Si tratta sempre di stabilire un rapporto con qualcos’altro che linguaggio non è. In seconda istanza, laddove si tratta di individuare quel qualcos’altro, e le aspettazioni di significato possono divergere dalle intenzioni dell’autore (giacché i con­ testi sono in qualche misura diversi, fino agli estremi dello storicismo radicale o dell’incommensurabilità che proclamano l’impossibilità del­ la ricognizione autorale)13, sarà invece necessario considerare i diversi contesti cui quel linguaggio rimanda. Ma accettare che sussistano con­ testi diversi non implica il rifiuto di un significato oggettivo. Il conte­ sto diverso di un interprete non impedisce necessariamente di compren­ dere il significato autorale (ottimismo cognitivo), ma soprattutto non 11. E.D. Hirsch, Validity.... cit., p. 17; The Aims, cit., p. 30. 12. A. Boeckh, Encyclopädie und Methodologie der Philologischen Wissen­ schaften, Leipzig, 1886, p. 170. 13. Hirsch definisce «storicismo radicale» quelle teorie ermeneutiche se­ condo cui un testo scritto nel passato è irrimediabilmente estraneo agli uomini di oggi. I due poli di questa posizione sono per lui B. Snell e G. Gadamer; cfr. The Aims, cit., pp. 67 ss. Il termine « incommensurabilità » designa l’impossi­ bilità di confrontare punto per punto due teorie ricorrendo a un linguaggio in cui le conseguenze empiriche di entrambe possono essere tradotte senza perdite né mutamenti; cfr. P. Feyerabend, The Problems of Empiricism, tr. it. Lampugnani Nigri, Milano, 1971, pp. 11-12; Against Method, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1979, cap. 17; Metodo scientifico fra anarchismo e marxismo, a cura di L. Valdrè, Armando, Roma, 1982, cap. XIII; T. Kuhn, Riflessioni sui miei critici, in Criticism and thè Growth of Knowledge, a cura di I. Lakatos e A. Musgrave, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 352 ss.

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vieta di ammettere, al di là dell’effettiva comprensione, che sussista un identico referente o valore di verità (ottimismo epistemologico). La questione è stata affrontata da Gottlob Frege in Ueber Sinn und Bedeutung I4. In questo saggio Frege sosteneva che uno stesso referen­ te (Bedeutung) può essere espresso da linguaggi diversi (Sinne). Nella formula A = B i due segni diversi rimandano a un identico valore di ve­ rità. Vero o falso che sia, il significato della proposizione rimane lo stesso; anzi, se il significato dell’espressione non rimanesse identico a se stesso, noi non avremmo nulla da dichiarare vero o falso. Frege pre­ se in esame casi in cui Sinne diversi hanno una identica Bedeutung, ma è ragionevole concludere che anche diverse Bedeutungen possono es­ sere espresse dallo stesso Sinn. Basti pensare ai riferimenti (ai denota­ ti) cui parole come « atomo », « corpuscolo », « massa », « energia » rinviano. Il denotato di « atomo » non è lo stesso prima e dopo la rivo­ luzione scientifica dei quanti e della relatività. A questo punto però la questione potrebbe farsi veramente confusa: se i confini dell’orizzonte interno sono tracciati dal contenuto verbale, allora si instaura una sor­ ta di determinismo linguistico per cui la forma del linguaggio è la for­ ma del pensiero. Un linguaggio diverso, anche in minima parte, esprime­ rebbe un significato diverso. Il Sinn costituirebbe il significato in sen­ so stretto (di un’espressione, di una poesia, di una formula, di un inte­ ro testo), e ci precluderemmo la strada per qualsiasi rinvio a ciò che sta prima del linguaggio, in quanto un baratro storico o psicologico se­ para sempre un autore dal suo lettore. Ogni costruzione di significato diventerebbe arbitraria. Ma l’ipotesi non è sostenibile, come dimostra­ no l’ampio ricorso alla sinonimia e la pratica della traduzione. Se, al contrario, il significato in senso stretto è la sua Bedeutung, allora que­ sto rinvio a ciò che linguaggio non è deve avvenire sempre nel dominio infinito dell’orizzonte esterno, nel quale il significato autorale rappre­ senta uno degli infiniti casi. Logicamente, nulla vieta che il contesto di chi utilizza il linguaggio sia identico al contesto di chi ha prodotto il linguaggio; la complessità del mondo dell’uomo ci impedisce però di considerarlo probabile. Il rifiuto dello psicologismo compiuto da Husserl ci aiuta a chiari­ re i termini dell’argomentazione. Per fare un esempio visuale, può ac­ cadere che il mio « intendere » « libro » si regga sulla semplice perce­ zione del dorso di un libro posato su uno scaffale. La mancata perce­ zione dei lati nascosti non mi impedisce di configurarmi un orizzonte 14. G. Frege, Ueber Sinn und Bedeutung, tr. it. in Logica e aritmetica, scritti raccolti a cura di C. Mangione, Boringhieri, Torino, 1965, e in La struttura lo­ gica del linguaggio, a cura di A. Bonomi (che traduce i due termini con « senso » e « denotazione »), Bompiani, Milano, 1973.

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in cui il libro compare tutto intero. Si può dire allora che i lati mancan­ ti appartengono all’orizzonte tracciato dai lati visibili. La parola pos­ siede un orizzonte che ne delimita le possibili implicazioni, ma che le­ gittima ogni implicazione entro quell’ambito. Entro l’orizzonte trac­ ciato dalla parola, il processo di esplicazione è illimitato, come sono il­ limitati i contesti in cui sorgono le aspettazioni degli interpreti. Questi ultimi rilievi mi sembrano particolarmente importanti per­ ché suggeriscono un’estensione del discorso sul linguaggio al discorso sui processi cognitivi in generale, argomento cui studiosi e filosofi di diversa formazione si sono dedicati in questi ultimi decenni. Mi rife­ risco, per es., a J. Piaget, il quale, con la sita teoria degli « schemi cor­ reggibili », assimila l’intera cognizione al processo interpretativo; a K. Popper, che fa scaturire la conoscenza dall’ipotesi formulata allo sco­ po di spiegare lo squilibrio generato da un’aspettazione che la realtà og­ gettiva (il Mondo Tre) disattende; alla nozione di conoscenza approssi­ mata di G. Bachelard; al linguaggio come attività di J.L. Austin15. Appare qui, come in molte ricerche di psicolinguistica, che gli orizzon­ ti del linguaggio e i processi della sua comprensione ripetono, quanto meno nelle loro forme di base, i procedimenti della nostra percezione e interpretazione del mondo. La fenomenologia, nei passaggi sui quali ho molto approssimativamente cercato di riferire, traccia un itinerario che va dall’immediato al costruito, senza però mai dimenticare, come certe epistemologie allegramente scettiche e anarchiche, l’esigenza di fondamento. La posizione qui descritta è piuttosto assimilabile a quelle epistemologie aperte che affermano con vigore la possibilità della co­ noscenza senza disconoscere l’apporto attivo del soggetto che costrui­ sce questa conoscenza.

15. Di J. Piaget, vedi in particolare La costruzione del reale nel bambino, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1973; Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, tr. it. Ed. Universitaria, Firenze, 1955. Di K. Popper, soprattutto Objective Knowledge, tr. it. Armando, Roma, 1975. L’opera di G. Bachelard è tradotta in it. in numerose antologie, di cui si citano qui La ragione scientifica, a cura di G. Ser­ toli, Bertani, Verona, 1975; Bachelard, introduzione e commento ai testi di L. Valdrè, Armando, Roma, 1984. Il più famoso saggio di J.L. Austin, How to do Things with Words, è stato tradotto in it. nel volume a cura di M. Sbisà, Gli atti linguistici, Feltrinelli, Milano, 19832.

6. MODELLI DI RAGIONE E MODELLI DI VERITÀ di Emilio Baccarini

Che la ragione, logos, pollachós léghetai, è un dato che può facil­ mente essere constatato dalla storia del pensiero occidentale. Questa polivocità ha spesso ingenerato equivocità, mancando di un elemento referenziale univoco a cui potessero rapportarsi le varie possibilità predicative del termine ragione. Termine equivoco perciò eppure pa­ radossalmente univoco che ci permette di comprendere cosa intendia­ mo quando lo usiamo. Oggi si parla di crisi della ragione ', ma ciò che intorno a questa crisi si fa è ancora un discorso razionale, un discorso cioè che si serve di strutture grammaticali e sintattiche e infine logiche che lo rendono sensato. In realtà, il problema della ragione, fin dal platonico logon didonai si e posto come giustificazione di senso (Recht­ fertigung è un termine fenomenologico centrale) e in ultima istanza quin­ di come verità. In questo senso, almeno dagli inizi del pensiero moder­ no, è possibile affermare che ogni teoria della ragione presuppone o in­ clude una teoria della verità. È quanto ho voluto mettere in risalto nel titolo di questa mia comunicazione, anche se ho accentuato il carattere di “modello” che di per sé andrebbe evidentemente chiarito e svilup­ pato nella sua valenza d’uso. Se si pone allora la correlazione che la storia del pensiero moder­ no, a mio avviso, autorizza a porre, tra ragione e verità, è descrittiva­ mente più comprensibile la polivocità che dicevo e fenomenologica­ mente percepibile l’unità referenziale di senso che la giustifica. Ma con ciò siamo andati già oltre. Rileviamo ancora un dato che ci sarà prezio­ so in seguito. Se la ragione si dà in una correlazione essenziale alla ve­ rità, parlare di crisi della ragione, significa implicitamente affermare, anche se surrettiziamente, la crisi di un’idea, di una teoria, di un mo-

1. Non potendo sviluppare qui questo tema complesso rimandò ad alcune recenti pubblicazioni: Aa.Vv., Rationality to-day, Ottawa, 1979; Aa.Vv., Crisi della ragione, Torino, 1979; H.G. Gadamer, La ragione nell’età della tecnica, Genova, 1982; G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano, 1981.

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dello di verità23. Tematizzando la correlazione ragione-verità, ci im­ battiamo in uno dei nuclei teoretici più fecondi e più significativi che, a partire da Husserl ci condurrà probabilmente oltre. D’altronde è lo stesso Husserl, com’è nel suo stile, che invita a superarlo. In una bel­ la lettera a D. Cairns del 21 marzo 1930 scriveva: « ... La filosofia nella sua infinitezza, richiede la crescita verso Vinfinitum. Si faccia dun­ que coraggio e trascini la sua volontà a essere e costruire in se stesso. Tutti gli ostacoli allora, sono come la rigidità periodica dell’inverno, nient’altro che necessità teleologiche. Superandole, la forza superiore si accresce. È il senso più puro che fa diventare ciò che si ha in proprio e che è buono. La lotta con se stessi e per se stessi è ciò che fa l’uomo ve­ ro e in particolare nella sfera intellettuale il vero filosofo... Quasi tutti i miei vecchi alunni sono rimasti in difficoltà a metà lavoro. Essi han­ no avuto paura del radicalismo, necessario per essenza alla fenomenolo­ gia, ciò che era il mio elemento vitale e al quale debbo tutte le mie idee. Quasi tutti sono sfociati nella finitezza; essi sono ricaduti nel rea­ lismo e nell’antropologismo, o in una filosofia sistematica, che è il ne­ mico mortale della filosofia fenomenologica come scienza. Ha visto la mia Formale und transzendentale Logik? È una specie di ascensione verso la filosofia trascendentale fenomenologica, attraverso il cammino di una critica della ragione formale logica... Consideri che i miei libri non dànno risultati da imparare in modo formale, ma fondamenti per poter costruire da se stessi, metodi per ricerche autonome e per pro­ blemi da risolvere da soli. Questo “se stesso” è Lei, se vuole essere fi­ losofo. Si è tuttavia filosofo solo diventandolo e volendolo diventare... Ancora una cosa: non si può vivere che in una “grande fede”, ma que­ sta è senso del mondo, senso di sé e della propria esistenza »’. Ho voluto riportare ampi passi di questa lettera, perché sintoma­ tici di uno stile esistenziale e la fenomenologia vuole essere essenzial­ mente un nuovo stile di vita prima e di ricerca poi.

1. Senso fenomenologico di « critica della ragione » La fenomenologia fin dai suoi primi passi ha voluto essere “critica della ragione”, ma questo assunto ha via via profondamente modifica­ to e direi ribaltato l’originario significato kantiano. È troppo nota la pagina del diario del 25 settembre 1906 in cui Husserl, con una lucidi­ 2. Mi pare che l’opera di Gadamer, Verità e metodo possa essere letta anche in quest’ottica, sebbene i nodi teoretici e i riferimenti storici siano diversi. 3. Cito la lettera da X. Tilliette, Breve introduzione alla fenomenologia hus­ serliana, Lanciano, 1983, pp. 133-136, i corsivi sono miei.

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tà e chiaroveggenza sorprendenti ha delineato il senso compiuto del suo itinerario filosofico4. Ciò che è importante sottolineare in questo testo è il passaggio quasi inavvertito, ma chiaramente formulato, che il filosofo tedesco compie dalla “critica della ragione” alla “fenomeno­ logia della ragione”. Comprendere fino in fondo questa trasposizione significa, a mio avviso, cogliere la radicale novità di Husserl rispetto a Kant e ad ogni filosofia che lo ha preceduto. Per Husserl la “critica della ragione” è la “fenomenologia della ragione”. Ciò significa però che tutto il pensiero husserliano può intendersi come questa “fenome­ nologia”, come fenomenologia di “questa” ragione che non sappiamo ancora come definirla. E ancora che l’itinerario filosofico del trenten­ nio 1906-1936 marca il progressivo allargamento di senso del proble­ ma della ragione fino a inglobare il problema generale della verità e della storia 5, passando attraverso tappe intermedie che, come vedremo rispondono alla particolare logica, tutta fenomenologica delVimmer wie­ der. Prima di procedere nell’analisi, proviamo a capire meglio il senso 4. Mi pare tuttavia un documento importante che forse andrebbe correttamente rivisitato e soprattutto rimeditato. Uscendo da una terribile crisi, sono gli anni di Gottinga e della maturazione della svolta trascendentale, Husserl si pro­ spetta l’immane lavoro che deve compiere perché la sua vita abbia un senso. Scrive dunque in queste note del 1906: « In primo luogo dico i compiti gene­ rali che devo risolvere per me se voglio potermi chiamare filosofo. Intendo una critica della ragione. Una critica della ragione logica e della ragione pratica, della ragione valutante in generale. Senza venire in chiaro a me stesso, almeno nei tratti generali, circa il senso, l’essenza, i metodi, i principali punti di vista di una critica della ragione, senza averne meditato, progettato, stabilito e fondato un abbozzo generale, non posso vivere in modo vero e veritiero... Io voglio e debbo con un lavoro di dedizione, con un approfondimento puramente oggettivo avvi­ cinarmi all’alta meta. Io lotto per la mia vita e perciò credo di poter procedere con fiducia. Le più dure difficoltà della vita, l’autodifesa contro i pericoli della morte danno una forza insospettata, smisurata. Io non aspiro a onori e a fama, non voglio essere ammirato, non penso agli altri né alla mia carriera. Solo una cosa mi preoccupa: debbo raggiungere la chiarezza (ich muss Klarheit gewinnen), altrimenti non posso vivere se non credo di potercela fare, che davvero posso guardare alla terra promessa e di persona e con lo sguardo limpido ». Dopo ciò Husserl, rifiutando i fini, i metodi e le posizioni acquisite dalle altre scienze come inutilizzabili, conclude: « Noi stessi dobbiamo percorrere i sentieri. Noi dobbiamo passo a passo risolvere i singoli problemi. È quindi prima di tutto necessaria una trattazione della fenomenologia della ragione, passo dopo passo e sui suoi fondamenti una reale chiarificazione della ragione logica ed etica nella forma dei rispettivi principi e concetti fondamentali ». Persönliche Aufzeich­ nungen, « Ph. andph. research », 1956, pp. 297-298. 5. Idealmente si potrebbe racchiudere il cammino percorso da Husserl tra queste due date; 1906 le note di diario citate e le contemporanee Vorlesungen sull’idea della fenomenologia e il 1936, la Krisis, in particolare il par. conclusivo, La filosofia come riflessione dell’umanità su se stessa e come realizzazione della ragione. La Beilage XXVIII del 1935 indica forse anche più emblematicamente la déception finale a cui giunge Husserl. Fanno da intermezzo e quasi cambia­ mento di rotta le Vorlesungen sulla Erste Philosophie.

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di questa “fenomenologia della ragione” che ci permetterà di recupera­ re anche il concetto di verità come correlazione. I testi più significativi sono, in ordine cronologico, le lezioni Die Idee der Phänomenologie del 1906/7; il II capitolo della IV sezione di Ideen I, esplicitamente intitolato Fenomenologia della ragione (parr. 135 ss.); la III Meditazio­ ne cartesiana ed infine la Logica formale e trascendentale che nel VII e ultimo capitolo tratta appunto di logica oggettiva e fenomenologia del­ la ragione (parr. 101-107). Prima della Logica nelle Vorlesungen del 1923/24 sulla Erste Philosophie, nella II sezione dove viene presenta­ ta una “teoria della riduzione fenomenologica”, Husserl fornisce la più completa indagine sulla “fenomenologia della ragione” che ripren­ de e amplia le ricerche precedenti, ma che insieme anticipa posizioni totalmente originali che soltanto negli anni 1930-36, nel Nachwort e nella Krisis saranno messe esplicitamente a tema. Senza pretendere di analizzare questi testi, cosa d’altronde impossibile in questa sede, vor­ rei evidenziarne alcuni risultati. Husserl ha ormai stabilito con sufficiente rigorosità che la fenome­ nologia è scienza della soggettività trascendentale6, che si configura pertanto come 1’« unica essente in senso assoluto »7 che « Sussiste nel­ la forma di una vita intenzionale la quale di qualunque cosa possa aver coscienza è insieme coscienza di se stessa »89.Ciò implica però anche una ridefinizione del concetto di verità che fenomenologicamente « non è più in alcun senso normale “verità in sé”, neppure in un senso che ha relazione a un “ognuno” trascendentale »’. Questa nuova acquisizione, a sua volta, permette una riconsiderazione e una ridefinizione dell’inte­ ra fenomenologia che « non è niente più che la presa di coscienza scien­ tifica della soggettività trascendentale... Ogni critica della conoscenza logica, ... in quanto operazione fenomenologica è autoesplicitazione del­ la soggettività che diviene cosciente delle sue funzioni trascendentali. Ogni essere oggettivo, ogni verità, ha il suo fondamento d’essere e di 6. « Prendere coscienza non significa altro che cercare di stabilire realmente “in se stesso” il senso che nella semplice opinione è solo supposto o presupposto; cercare cioè di tradurre il “senso colto nel suo intendere” come viene detto nelle Ricerche logiche, il senso che “ondeggia vagamente” in una oscura direzione, nel senso riempito e chiaro; di procurargli perciò l’evidenza della chiara possi­ bilità. Questa possibilità è appunto autenticità del senso e quindi costituisce il fine del ricercare e dello scoprire consapevolmente. Potremmo anche designare la presa di coscienza come Vesplicitazione originaria di senso radicalmente in­ tesa, che traspone (e, all’inizio si sforza di trasporre) il senso del modo dell’opi­ nione oscura nel senso del modo della chiarezza piena o della possibilità essen­ ziale ». Logica formale e trascendentale, pp. 12-13. 7. Ivi, p. 335. 8. Ibid. 9. Ivi, p. 331. Si veda anche il par. 142 di Ideen, I.

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conoscenza nella soggettività trascendentale, ed è verità che concerne la soggettività trascendentale stessa e che vale in essa... L’oggettivo non è altro che l’unità sintetica dell’intenzionalità attuale e potenziale, che appartiene in modo essenzialmente proprio alla soggettività tra­ scendentale »1011 . Il concetto di oggettività subisce quindi un ribaltamen­ to e altrettanto avviene per quello di verità che, originariamente pensa­ ti in funzione critica e antitetica all’oggettività delle scienze acquista­ no nuove dimensioni di senso che conviene ora esplicitare 11. L’intenzionalità, com’è noto, è la nozione centrale della fenomeno­ logia, struttura sempre fungente che Husserl pone a tema riflessivo co­ me Leistung costitutiva soltanto dopo la riduzione trascendentale. Ri­ flettendo tematicamente sulla riduzione possiamo scoprire nuove ed essenziali strutture. Innanzitutto la nozione di soggettività di Husserl si manifesta immediatamente come “vita che esperisce il mondo” cioè come Leiblichkeit, organo di percezione e centro di orientamento den­ tro l’orizzonte del mondo e non più soltanto come struttura formale. Il soggetto intenzionale è il concreto essere storico che vive immedia­ tamente e ingenuamente nella datità del mondo. La “messa tra paren­ tesi” di questa ovvia ingenuità permette il “risveglio” della coscienza intenzionale a cui è dato l’accesso a una Selbstbesinnung e Selbstver­ antwortung che assumono il valore di senso assoluto che abbiamo ac­ cennato. « L’atteggiamento fenomenologico totale — scrive Husserl nella Krisis — e Vepoché che gli inerisce sono destinati a produrre in­ nanzitutto una completa trasformazione personale che sulle prime po­ trebbe essere paragonata a una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all’uma­ nità come tale »12. L’autoriflessione trascendentale permette di guada­ gnare questo nuovo stile esistenziale, la phänomenologische Einstellung che è poi lo stile del “vivere desti” della vita attiva e dell’assunzione di una responsabilità di sé che, nell’assoluta giustificazione, procede a una costituzione e ricostituzione di senso del mondo e del “suo” mon­ do. Infatti, ma su questo aspetto che mi pare l’altra grande novità di Husserl non possiamo dilungarci, la soggettività che scopriamo è la soggettività del noi, della transzendentale Monadengemeinschaft, che ha come propria Leistung specifica il senso della storia dell’umanità nel mondo. Rileggiamo a questo proposito la conclusione della Beilage XXXII alla lezione 54 di Erste Philosophie (Riduzione fenomenologi­ ca e giustificazione assoluta) che idealmente dichiara il senso dell'iti­ lo. Ivi, pp. 336-337. 11. Cfr. A. Ales Bello, L’oggettività come pregiudizio, Roma, 1982. 12. Krisis, p. 166.

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nerario fenomenologico. Scrive Husserl in questo frammento che porta il titolo Monadologie: Soltanto gli ego nel loro reciproco rapporto comunicativo sono un essente assoluto. Essi nella loro comunità sono i portatori assoluti del mondo, il cui essere è un essere-per-loro e un essere-costituito-per-loro. Come ego assoluti non sono parti del mondo, non sono sostanze nel senso di « realtà » empiriche — cioè membri del mondo, sostrati di proprietà « reali » che hanno il loro vero essere nel mondo. Essi sono l’assoluto, sono la soggettività senza la cui vita cognitiva... tutte le sostanze reali non sarebbero. Tuttavia in quanto essi non sono soltanto per sé, ma l’uno per l’altro, come alter ego, essi sono e possono essere ciò attraverso una dona­ zione di senso sostanzializzante di cui essi, l’un l’altro scambievolmente portano la responsabilità nella sostanzializzazione o realizzazione dell’ani­ malità e dell’umanità. Gli ego hanno perciò un duplice essere: un essere assoluto e un apparire-per-sé-e-l’uno-per-l’altro, con un’appercezione auto­ prodotta, come soggetti animali e umani, corpi viventi nel mondo e come animali e uomini appartenenti al mondo reale-sostanziale. A questo quindi si riferiscono tutte le socialità, il cui essere assoluto però consiste nell’essere assoluto di ogni ego in sé e nell’essere assoluto di ogni relazione-io-tu... Soltanto l’idealismo fenomenologico dà all’io e all’assoluta soggettività comunicativa (che è l’assoluto dell’umanità) la vera autonomia e gli dà la capacità e la piena possibilità dell’assoluta autoformazione e della for­ mazione del mondo secondo il suo volere autonomo. E soltanto questa soggettività è quindi il tema delle ricerche successive e così pure di tutte le ricerche teologiche e teleologiche a cui appartengono tutte le questioni assolute dello sviluppo e del senso — trascendentale teleologico — di tutta la storia. Da un punto di vista assoluto, ogni ego ha la sua storia ed è soggetto di una, della sua storia. E ogni comunità comunicativa di io asso­ luti, di assolute soggettività — nella piena concrezione a cui compete la costituzione del mondo — ha la sua storia « passiva » e « attiva » ed è soltanto in questa storia. La storia è il grande fatto dell’essere assoluto e le questioni ultime, quelle metafisiche e teleologiche sono inscindibili da quel­ le sul senso assoluto della storia ”.

Sull’apertura alla storia torneremo fra breve. Vorrei prima indica­ re alcune conclusioni provvisorie circa il rapporto ragione-verità in una dinamica di “fenomenologia della ragione”. La ragione che cerca la propria verità e la verità che cerca la propria manifestazione sono così intimamente correlate che non si dà l’una senza l’altra. Si potrebbe dire che la verità della ragione è la ragione della verità, nel senso che una fenomenologia della ragione scopre una teleologia che ha la sua

13. Erste Philosophie, Husserliana, voi. Vili, pp. 505-506.

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“guida trascendentale noematica” in una verità teleologica che di quel­ la è la verificazione continua. Possiamo a questo punto inoltrarci in quegli aspetti che credo co­ stituiscano l’impensato di Husserl, la sua eredità fenomenologica più feconda.

2. Immer wieder - Evidenza - Teleologia

Al par. 74 di Logica formale e trascendentale leggiamo: La tematica intenzionale soggettiva di un’analitica che voglia essere una vera epistemologia, voglia fondare seriamente la possibilità di una scienza vera e mettere seriamente a disposizione degli scienziati i princìpi di giustificazione dell’autenticità, conduce, come possiamo vedere, a delle profondità e vastità fenomenologiche insospettate... Ricordo ancora sol­ tanto la forma fondamentale (che non è mai stata rilevata dai logici) del « E così via », dell’« infinità » iterativa che ha il suo correlato soggettivo nel « si può sempre di nuovo ». È chiaro che si tratta di un’idealizzazione, dal momento che de facto nessuno può sempre di nuovo. Pure essa eser­ cita dappertutto, nella logica, la sua funzione nella determinazione del senso. Si può ritornare sempre di nuovo ad una unità di significato ideale, e così a una unità ideale in generale... Nella morfologia del senso analìtico abbiamo delle legalità palesemente iterabili: in tutte è radicata l’infinità il « sempre di nuovo », 1’« E così via »'4. L’evidenza ha costituito una sorte di ossessione in tutta l’evolu­ zione del pensiero husserliano e ciò è facilmente comprensibile se si tiene conto che questa nozione è strutturalmente legata all’idea di fon­ dazione e di giustificazione assoluta di una filosofia come scienza rigo­ rosa che, in quanto tale non può avere fondamenti opinabili. A più riprese comunque e in prospettive sempre nuove Husserl ha tematiz­ zato esplicitamente questo problema che non possiamo ricostruire in questa sede. La ricerca di una Letztbegründung ha innescato una pro­ blematicità a ritroso, la Rückfrage in vista di raggiungere il non ulte­ riormente questionabile, il dato elementare fondativo. È dentro que­ sto quadro che si inserisce la struttura à&Wimmer wieder, il sempre di nuovo che può essere considerato su due piani ben distinti e Husserl ha operativamente messo in atto entrambi: un piano logico-fenomeno­ logico percettivo e uno più propriamente fenomenologico-storico. Do per noto il primo, a cui allude il passo della Logica citato, men14. Logica, p. 233.

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tre vorrei fermarmi a considerare il secondo. La possibilità di questo immer wieder, Husserl l’ha esplicitamente evidenziata in Vom Ur­ sprung der Geometrie, là ove viene colta e tematicamente riflessa la struttura originaria precategoriale, dimenticata od oscurata dalle suc­ cessive produzioni scientifiche, attraverso un processo di idealizzazio­ ne e di oggettivazione. Uimmer wieder allora apre la possibilità di una riflessione filogenetica ed ontogenetica della ragione e sulla verità che si fa tema appunto di una fenomenologia della ragione e della verità. La scoperta o la riscoperta come residuo della riduzione trascendentale, l’evidenza come Letztbegründung della Lebenswelt sposta completamen­ te gli orizzonti della Intentiönalitätsanalyse e per essa di ragione e ve­ rità. La ragione si pone ora, per brevità do per noti i testi husserliani della Krisis, come compito infinito dell’umanità, della sua Leistung in­ tenzionale costituitiva come soggettività assoluta. La verità, a sua vol­ ta, come evidenza è il risultato di un’attività costituente che vede per­ ciò spostate all’infinito le possibilità costitutive. Si fa luce qui il senso pregnante di teleologia che, come già accennavo, caratterizza l’ultima parte della riflessione husserliana, anche se è ben presente fin dal I volume della Ideen. A questo punto proviamoci a correlare alcuni risultati. La ragione come “compito infinito”, l’evidenza come operazione costitutiva teleo­ logica e l’affermazione di Husserl, « la storia è il grosso fatto dell’essere assoluto ». Riflettendo fenomenologicamente possiamo dire che la sto­ ria è l’autoesplicitazione della ragione, ma insieme è il momento opera­ tivo in cui viene a costituzione in un processo teleologico infinito, la verità. Ciò porta a una conclusione che ha il sapore hegeliano, ma il cui senso è, a mio avviso, agli antipodi di Hegel, e cioè che la storia della verità è la verità della storia, come pure la ragione della storia è la storia della ragione. « La verità è l’intiero » aveva detto Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. La novità di Husserl sta nella rottura del­ la chiusura circolare del processo dialettico, attraverso l’attività costi­ tuente operata dalla “soggettività assoluta”, cioè dalla comunità comu­ nicativa delle monadi. La ragione di Husserl è una ragione che si cer­ ca e l’idea di verità che egli operativamente pone in essere è un “ideale teleologico” che invera la ragione in quanto fungente da sempre nella attività intenzionale presuntiva e protensiva. A conclusione, cercando di raccogliere la provocazione sollecitata dagli organizzatori di queste giornate di studio, si potrebbe dire che Husserl, per la sua fiducia o fede nella ragione è l’ultimo erede dei gran­ di filosofi moderni, ma insieme che il suo itinerario e i suoi risultati ne fanno il primo dei postmoderni. L’identità della ragione occidentale è una non identità, ma un dinamismo teleologico che attraverso la Selb-

210 stbesinnung costituisce la storia nella sua verità facendosene carico co­ me Selbstverantwortung. « La storia è il grosso fatto dell’essere asso­ luto » cioè è affare, fatto, interesse umano che la storia sia umana, ma potrebbe non esserlo e sarebbe l’abbruttimento dell’umanità. Si può considerare questa la sfida lanciata e lasciata da Husserl alla ra­ gione occidentale troppo ingenuamente sicura di sé e della propria sta­ tica identità identificante?

7. ERMENEUTICA E MONDO DELLA VITA di Pietro De Vitiis

Nell’elaborare una teoria ermeneutica che superi sia l’interpretazio­ ne psicologica dell’ermeneutica romantica, sia l’oggettivismo storiogra­ fico della fondazione diltheyana delle scienze dello spirito, Gadamer mette a frutto l’esistenziale heideggeriano della effettività (Faktizität), che egli sviluppa traendone sia l’ineliminabilità dei pregiudizi nel co­ noscere storiografico, con la connessa impossibilità di una conoscenza storica priva di presupposti, voraussetzungslos, sia quel concetto di co­ scienza della determinazione storica (wirkungsgeschichtliches Bewus­ stsein) che rende impossibile l'oggettivazione della tradizione. Egli non tralascia però anche di richiamarsi al concetto husserliano di Leben­ swelt, di cui la Faktizität heideggeriana costituirebbe una radicalizza­ zione. « Husserl — egli scrive — fece del ritorno alla dimensione della vita vissuta un tema di ricerca assolutamente universale e superò così il punto di vista che si limitava alla problematica puramente metodolo­ gica delle scienze umane. Le sue analisi del mondo della vita e di quel­ la costituzione autonoma di ogni senso e di ogni significato, la quale forma il terreno e il tessuto dell’esperienza, hanno mostrato definitiva­ mente che quel concetto di oggettività, il quale è rappresentato dalle scienze esprime solo un caso particolare. L’opposizione fra la natura e lo spirito è da rivedere: scienze umane e scienze naturali devono es­ sere comprese a partire dall’intenzionalità della vita universale »'. An­ che in un’opera assai recente Gadamer ha accennato al contributo dato da Husserl al superamento di un’ermeneutica idealistica, ponendo così il filosofo della Lebenswelt accanto a Heidegger: « Al contrario, la svolta che il XX secolo ha prodotto, e per la quale, come credo, Husserl e Heidegger hanno compiuto le prestazioni decisive, significò la sco­ perta dei limiti di una tale identità idealistica o storico-spirituale fra 1. H.G. Gadamer, Le problème de la conscience historique, Paris, 1963, p. 39; Il problema della coscienza storica, tr. it. di G. Bartolomei, Napoli, 1969, p. 53.

212

spirito e storia. Nei lavori dell’ultimo Husserl ciò è legato alla parola magica del mondo della vita — una di queste rare e sorprendenti for­ mazioni linguistiche artificiali (la parola non appare prima di Husserl) che hanno trovato accesso nella comune coscienza linguistica, e pertan­ to attestano di portare ad espressione una verità misconosciuta o di­ menticata. Così la parola “mondo della vita” ha ricordato presupposti, che precedono ogni conoscenza scientifica »2. Col concetto di mondo della vita Husserl scopre un campo di datità che non è riconducibile all'oggettività della scienza fisico-matematica, e quindi egli si distacca decisamente non solo dal positivismo, ma anche dal neokantismo, per il quale il punto di partenza della riflessione filosofica è la scienza. Pro­ prio in quanto ha messo tra parentesi, con la riduzione trascendentale, gli oggetti delle scienze, Husserl può giungere alla scoperta del mondo della vita, compiendo così un passo importante verso il superamento del pregiudizio che restringe l’ambito della verità a ciò che è conoscibile metodicamente, vale a dire secondo i procedimenti oggettivanti della scienza moderna che sorge con Galilei. E infatti la scienza rigorosa di Husserl — come Gadamer afferma nel saggio Die Wissenschaft von der Lebenswelt — è una scienza di nuovo tipo, che non viene ricavata tanto dalla conoscenza scientifica del mondo, « quanto dal sapere situa­ zionale dell’esistere (Dahinleben) nel mondo della vita »3. Anche il concetto di implicazioni anonime che accompagnano l’oggetto esplicito e tematico formando l’orizzonte di esso che va a confluire nell’orizzon­ te universale del mondo, e il connesso concetto della struttura di oriz­ zonte della coscienza, spingono Husserl nella direzione del superamento dell’atteggiamento oggettivante della coscienza; e la tematizzazione del mondo della vita può esser considerata come un « tentativo di grande respiro di contrapporre la fenomenologia trascendentale all’oggettivismo, interpretato come un tutto, della precedente filosofia »4. Heideg­ ger si muove quindi nella direzione aperta da Husserl, allorché pone il compito di pensare l’essere che non è oggetto: « Che però con ciò — scrive Gadamer — veniva posto un compito ontologico di pensare l’“essere”, che non sarebbe essere-“oggetto”, diventò chiaro alla coscienza filosofica comune soltanto mediante la critica heideggeriana al concet­ to di sussistenza (Vorhandenheif) in Sein und Zeit »5. 2. H.G. Gadamer, Lob der Theorie. Reden und Aufsätze, Frankfurt a.M., 1983, p. 71. 3. H.G. Gadamer, Die Wissenschaft von der Lebenswelt, in Kleine Schrif­ ten, Tübingen, 1972, Bd. III, p. 199. 4. H.G. Gadamer, Die phänomenologische Bewegung, in Kleine Schriften, cit., Bd. III, p. 172. 5. Ivi, p. 171.

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Oltre che un importante contributo alla scoperta dei presupposti dell'oggettivazione scientifica, la Krisis husserliana è anche un confron­ to con lo storicismo e col mondo storico, l’attuazione di un collegamen­ to fra riduzione trascendentale e riflessione storica. Questo collega­ mento fu provocato anche dalla situazione culturale del tempo, che in­ duceva Husserl ad affrontare il problema della storicità, incontrando così « lo spirito del tempo e la sua immanente scepsi storicistica »6. « Gli spiriti dello storicismo, e la scepsi ad esso immanente, non cessa­ vano di inquietare Husserl »7, che solo col concetto di mondo della vita raggiunse la chiarezza nella giustificazione del proprio pensiero, e vide aprirsi una nuova razionalità per il futuro dell’umanità. Inoltre, la tematizzazione del mondo della vita si inserisce nel quadro dello scuotimento spirituale che la prima guerra mondiale lasciò dietro di sé, e che provocò il crollo di quel Bildungsidealismus che aveva trovato nel neokantismo la sua formulazione filosofica. « Le gravi convulsioni — scrive Gadamer — della prima guerra mondiale — per Husserl non solo la perdita di uno dei suoi figli, ma alla fine anche la dissoluzione dell’unione statale della monarchia asburgica, che coinvolse la sua patria morava — ebbero certo effetto anche su di lui, come poco dopo trovarono espressione in modo simile nel crollo dell’idealismo, nell’ap­ parizione di Scheier, Jaspers, Heidegger »8. Infine, anche la nuova impostazione che Heidegger aveva dato ai problemi della fenomenolo­ gia in Sein und Zeit, la cui risonanza era un sintomo della situazione culturale, indusse Husserl a prender posizione: « Il successo di Sein und Zeit costrinse Husserl ad una nuova meditazione, e così apparve — in conseguenza delle circostanze del tempo non più in Germania, ben­ sì a Belgrado! — la Krisis-Abhandlung »9. Questa « tenta una risposta implicita a Sein und Zeit »10. L’analisi della struttura essenziale del mondo della vita consente di chiarire i problemi dello storicismo e del­ la conoscenza storica. Il concetto di mondo della vita implica quello di relatività che rende ragione della molteplicità dei mondi storici, del­ le possibili immagini del mondo; ogni singola conoscenza storica presup­ pone uno dei molti mondi storici come suo a priori, che è dato previa­ mente nello stesso modo in cui è dato l’orizzonte universale del mondo nella nostra esperienza attuale. 6. H.G. Gadamer, Die Wissenschaft von der Lebenswelt, in Kleine Schrif­ ten, cit., p. 199. 7. Ivi, p. 194. 8. Ivi. 9. H.G. Gadamer, Die phänomenologische Bewegung, in Kleine Schriften, cit., p. 172. 10. Ivi, p. 175.

214 Nella tematica husserliana del mondo della vita Gadamer ritrova uno degli aspetti fondamentali di una filosofia ermeneutica, e precisamente l’affermazione che l’oggettivazione scientifica presuppone la vita storica, il che poi implica la problematizzazione della pretesa di validi­ tà della scienza oggettiva, che come costruzione logico-simbolica ha un carattere derivato rispetto alla datità intuitiva del mondo della vita. Nella sua struttura il mondo della vita è un mondo « finito, relativosoggettivo, con orizzonti indefinitamente aperti »’*, e quindi presenta molti punti di contatto con l’effettività dell’esistenza storica quale è stata analizzata da Heidegger in Sein und Zeit11 1213 . Però, in Husserl è presente anche la pretesa di trascendere la vita storica nella apoditticità di un ego trascendentale, ed è su questo aspet­ to del suo pensiero che si sofferma l’esame critico di Gadamer, il quale si pone il problema se l’orizzonte universale del mondo della vita non debba includere in sé anche la soggettività trascendentale. Come può essa costituire il mondo se è essa stessa inserita nel mondo? « La sog­ gettività che costituisce il mondo — egli fa osservare — per quanto possa pur essere una molteplicità di tali soggettività costituenti, appar­ tiene essa stessa al mondo così costituito, fa entrare essa stessa in gioco, quindi, tutte quelle peculiarità specifiche dell’orizzonte relativo-al-soggetto, che distinguono il negro del Congo o il contadino cinese dal pro­ fessor Husserl »”. Nonostante la problematica del mondo della vita e dell’intersoggettività, Husserl non ha rivisto il suo punto di partenza trascendentale-cartesiano . Non è che Gadamer voglia accusare Husserl di incoerenza, o la po­ sizione di pensiero sostenuta nella Krisis di una scissione interna. Hus­ serl stesso nei parr. 53 e 54 della Krisis ha affrontato il paradosso del­ la soggettività umana che è soggetto per il mondo e insieme oggetto nel mondo, ed ha prospettato una soluzione di esso, e Gadamer sa bene che la risposta di Husserl sta nel distinguere la soggettività trascendental11. H.G. Gadamer, Die Wissenschaft von der Lebenswelt, in Kleine Schrif­ ten, cit., p. 198. 12. Si noti che G. Brand, che è mosso dall’intenzione di riavvicinare Hus­ serl e Heidegger, richiama l’attenzione sulla presenza, nei manoscritti husser­ liani, del concetto di (atticità, secondo il quale nella vita egologica la possibilità, che richiede la decisione, non è mai disgiunta dall’esser già determinato (cfr. G. Brand, Mondo, io e tempo nei manoscritti inediti di Husserl, tr. it. di E. Filippini, Milano, 1960, p. 220). Anche K. Held si richiama alle asserzioni di Husserl sul « carattere di fatto (Faktumcharakter) dell’assoluto Io » (K. Held, Lebendige Gegenwart. Die Frage nach der Seinsweise des transzendentalen Ich bei Edmund Husserl, entwickelt am Leitfaden der Zeitproblematik, Den Haag, 1966, p. 176). 13. H.G. Gadamer, Die Wissenschaft von der Lebenwelt, in Kleine Schrif­ ten, cit., p. 198.

215 mente fungente dall’io che s’incontra all’interno del mondo. « L’ "Ego” non è inteso come “un io”, accanto al quale ce ne sono altri, come es­ sente nel mondo, bensì è l’Ego meramente fungente e ultimamente fun­ gente nella sua assoluta apoditticità » 14. I paradossi, però, secondo Ga­ damer, si riproducono al livello dell’io originario: « I veri problemi aperti, in cui sfocia la fenomenologia di Husserl, non stanno, dunque, come insegna la Krisis-Abhandlung, nelle “difficoltà” che risultano dal mantenimento del corso della riduzione trascendentale. Di queste diffi­ coltà Husserl ritiene di essere completamente padrone. La dottrina del "mondo della vita” è al contrario predisposta per render priva di difet­ ti la riduzione trascendentale. Dove i problemi sono aperti, e ciò che costituisce il vero oggetto di contesa, è il livello del problema della co­ stituzione fondamentale, il problema dell’io originario stesso, dell’autocostituzione della temporalità »1S. Così costituzione non significa in Husserl produzione reale. Però nel caso dell’autocostituzione dell’io originario, costituzione non dovrà significare creazione? E ancora: Husserl attribuisce al presente originario, in cui si autocostituisce l’io trascendentale, l’autodatità adeguata. Ma che cosa significa autodatità? « Non è ogni dato dato a qualcuno, cosicché questi è ciò che riceve e non ciò che è dato? »'6. Insomma, per Gadamer risulta non chiarito il modo di essere della vita originaria, o dell’io originario 17. Di fronte a queste difficoltà ontologiche, Gadamer ritiene che sia superiore, da un punto di vista speculativo, il concetto di vita del­ l’idealismo tedesco — e soprattutto di Hegel —, come ambito in cui si attua quella coordinazione di soggetto e oggetto cui Husserl aspi­ rava col superamento della contrapposizione di idealismo e realismo. Tale concetto di vita è stato riscoperto dal conte Yorck: « In verità, nelle audaci riflessioni del conte Yorck, che vanno consapevolmente allo scopo, non diventa soltanto assai chiara la comune tendenza di 14. Ivi, p. 197. 15. H.G. Gadamer, Die Phänomenologische Bewegung, in Kleine Schriften, cit., p. 178. 16. Ivi, p. 180. 17. Al problema del modo di essere della soggettività trascendentale è dedi­ cato il volume di K. Held, Lebendige Gegenwart, che prende in esame « l’espo­ sizione husserliana del problema nei suoi scritti pubblicati e nelle sue analisi nei manoscritti tardi... » (K. Held, Lebendige Gegenwart, cit., p. Vili). Held ri­ chiama lo scritto Die Phänomenologische Bewegung di Gadamer come un im­ portante contributo alla discussione (ivi, p. VII). La soluzione di Held, che ac­ centua il momento della intersoggettività nella soggettività trascendentale, così che il presente vivente nel suo stare e fluire viene ad avere il modo di essere della Vergemeinschaftung, vuol essere uno sviluppo del pensiero di Husserl che conserva la continuità con esso, un andar oltre che è un approfondire (ivi, pp. 136-137).

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Dilthey e di Husserl. Qui, infatti, si continua veramente a pensare al livello della filosofia dell’identità dell’idealismo speculativo, cosicché diventa visibile l’origine nascosta del concetto di vita, al quale ten­ dono Dilthey e Husserl »1S. Sulla questione dei rapporti fra Husserl e la filosofia dell’identità dell’idealismo tedesco la posizione di Ga­ damer è oscillante, poiché in uno scritto successivo afferma che non si può criticare Husserl dal punto di vista della totalità non oggettiva della filosofia dell’identità: forse queste oscillazioni sono una spia dell’ambivalenza interna al pensiero di Gadamer stesso, che è in bilico fra una filosofia dell’identità di stampo hegeliano e l’ontologia di Hei­ degger, nella quale il nascondimento che sempre accompagna l’illu­ minazione (Lichtung) dell’essere non è solo espressione di un limite immanente al pensiero della verità assoluta 18 19. Secondo Gadamer, la tematica husserliana del mondo della vita va sviluppata in due direzioni. In primo luogo, si tratta di accedere alla problematica filosofica del linguaggio che è stata trascurata da Husserl. Il linguaggio è un orizzonte universale che condiziona l’in­ tera nostra esperienza del mondo, e quindi ha una rilevanza ontologica. E poi il linguaggio ha la caratteristica di fungere in modo non tema­ tico, in quanto anche la riflessione su di esso accade sempre nel lin­ guaggio, e quindi non può essere totale. L’altra direzione è quella dell’elaborazione di una filosofia pratica che difenda, sul modello della phronesis aristotelica, la peculiarità del sapere pratico, che in quanto sapere in situazione e quindi sulla base di presupposti, è irriducibile all’oggettivazione delle scienze. Questi sviluppi però presuppongono che si sia chiarito che il mondo della vita non è l’ambito del soggettivo, contrapposto all’oggettività della scienza, bensì un ambito che si radica in una dimensione ontologica che è al di là della contrapposizione di soggettività e oggettività, e che è stata aperta dalla radicalità dell’interrogare heideggeriano sull’essere.

18. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen, p. 238. 19. H.G. Gadamer, Die Phänomenologische Bewegung, in Kleine Schriften, cit., pp. 181 e 183.

8. HUSSERL E L’EPISTEMOLOGIA FRANCESE di Mario Castellana

C’è un singolare e interessante capitolo della storia dell’epistemo­ logia francese con temporanea, caratterizzato dall'incontro-scontro con la fenomenologia husserliana su certi problemi di filosofia della mate­ matica e sulla struttura della scienza, tanto che si può parlare di epi­ stemologia fenomenologica dovuta essenzialmente a Jean Cavaillès prima negli anni ’40, a Suzanne Bachelard e Jean Desanti poi negli anni ’60 L’interesse per Husserl da parte di questi epistemologi e storici della scienza, e soprattutto di Cavaillès, si spiega per il loro approccio « fenomenologico » ai problemi inerenti alla soluzione dei paradossi logico-matematici, sollevati dalla teoria degli insiemi per evitare da una parte la caduta nello psicologismo e dall’altra la solu­ zione logicista del programma del Circolo di Vienna. Rifiutata la scelta intuizionista, Cavaillès accetta la soluzione formalista-assioma­ tica nel senso proposto da Hilbert12*S. : ogni teoria scientifica è un in­ sieme di concetti che si basano su un ristretto numero di proposi­

1. Jean Cavaillès (1903-1944), laureatosi con Brunschvicg con un lavoro sulle applicazioni del calcolo delle probabilità del Bernoulli, si recò in Ger­ mania nel 1931, ove frequentò Husserl. L’analisi delle opere husserliane è con­ tenuta nell’opera Sur la logique et la théorie de la Science, Paris, 1963. Suzanne Bachelard, figlia di Gaston Bachelard (1884-1962), traduttrice in francese di For­ male und transzendentale Logik e autrice di La logique de Husserl, Paris, 1958, ha scritto La conscience de rationalité, Paris, 1963. Jean Desanti è autore di Phénoménologie et Praxis, Paris, 1963 (tr. it. Milano, 1971), Les idéalités mathématiques, Paris, 1968 e La philosophie silencieuse ou critique des philosophies de la science, Paris, 1975. 2. Cfr. J. Cavaillès, Méthode axiomatique et formalisme. Essai sur les problèmes des fondements des mathématiques, Paris, 1938; Sur la deuxième définition des ensembles finis donnée par Dedekind (1932) e Remarques sur la formation de la théorie abstraite des ensembles (1938) ristampati in Philosophie mathématique, Paris, 1962. Sull’epistemologia fenomenologica di Cavaillès, cfr. S. Zecchi, La fenomenologia dopo Husserl nella cultura contemporanea, Fi­ renze, 1978, II, pp. 62-71.

218 zioni sottoposte alle regole di indipendenza degli assiomi e della loro non-contraddizione 3. Cavaillès analizza dettagliatamente i processi assiomatici, cerca di chiarire e di salvaguardare lo specifico dell’elemento matematico nei confronti della logica; il formalismo per Cavaillès chiarisce i fonda­ menti della teoria della scienza, ma non esaurisce il suo processo di fondazione: « la théorie de la Science peut étre clarifiée et précisée gràce aux formalisations, elle n’est pas constituée par elles »4. Rifa­ cendosi alla dottrina della scienza di Bolzano, Cavaillès, come gran parte degli epistemologi francesi contemporanei interessati a chiarire Voperari effettivo delle matematiche, insiste sui processi interni im­ pliciti nella struttura della scienza che utilizza definizioni, enunciati e proposizioni sempre emergenti e più articolate rispetto ai quadri con­ cettuali delle teorie precedenti:

La structure de la Science, non seulement est démonstration, mais se confond avec la démonstration... Le problème qui se pose alors est d’appréhender ce principe dans son mouvement générateur, de rétrouver eette structure non par descrip^pn mais apodictiquement en tant qu’elle se déroule et se démontre elle'-ihéme... Autrement dit, la théorie de la Science est un a priori, non antérieur à la Science mais àme de la Science, n’ayant pas de réquisits extérieurs mais exigeant à son tour la Science 5.

Questa coscienza' « storica » dell’impresa scientifica, il cogliere cioè la genesi interna degli enunciati e degli assiomi delle teorie, giu­ stifica per Cavaillès l’approccio « fenomenologico » per alcuni pro­ blemi di filosofia della matematica; l’identità fra il « dimostrato » e la « dimostrazione », che è il « momento d’unità della scienza », fa emer­ gere due elementi importanti, per chiarire la natura della matematica, quali il paradigma e la tematica. Nel paradigma, infatti, è implicito il processo di formalizzazione, mentre nella tematica emerge un nuovo sistema che garantisce il cambiamento e l’articolazione di nuovi as­ siomi; dovere e compito dell'epistemologo delle matematiche per Ca­ vaillès è cogliere il momento « genetico » all’interno della teoria della 3. Cfr. D. Hilbert, Axiomatisches Denken, in Gesammelte Abhandlungen, voi. Ili, Julius Springer, Berlin, 1935, pp. 146-156. Hilbert nell’epistemologia francese contemporanea è stato diversamente interpretato, lontano dal punto di vista logico-formale del programma del Circolo di Vienna; ad esempio è da tenere presente l’opera di Albert Lautman negli anni ’40. Cfr. A. Lautman, Essai sur l’unité des mathématiques et divers écrits, Paris, 1977 e su Lautman, cfr. il ns. articolo La filosofia della matematica in A. Lautman, « 11 Protagora », 1978, n. 115. 4. J. Cavaillès, Sur la logique et la théorie de la science, cit., p. 40. 5. Ivi, pp. 25-26.

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struttura della scienza, perché garantisce il processo di formalizzazione nella sua globalità. Logica formale e trascendentale e la parte della Crisi delle scienze europee pubblicata nel ’36 sono i punti di riferimento per la rifles­ sione storico-epistemologica di Cavaillès che riprende la husserliana « teoria dei sistemi deduttivi o teoria delle teorie, e il concetto di nomologia »6, ritenendo importante e necessario il rapporto fra logica formale e ontologia formale:

entre l’évidence rationnelle d’une démonstration mathématique et l’évidence sensible de la perception historique d’un objet il y a l’homogénéité profonde qu’elles sont Fune et l’autre pleine lumière de la méme conscience... C’est ici le ròle de l’analyse transcendentale de reconnaitre les diversités authéntiques et d’établir leurs rapports 7.

Cavaillès è d’accordo con Husserl sulla necessità per l’epistemolo­ gia di trattare tematiche come i rapporti fra categoriale e precatego­ riale, i rapporti fra soggetto e oggetto e l’unico metodo « fenomeno­ logico » più adeguato è quello storico per chiarire in profondità gli stessi problemi logici e il « problema della costituzione trascenden­ tale delle entità oggettive »89. Così Cavaillès, per la sua epistemologia già orientata verso una prospettiva storica, ha saputo coniugare l’as­ siomatica di Hilbert con un approccio fenomenologico, e nello stesso tempo non ha respinto in toto la soluzione logicista del programma del Circolo di Vienna, ma ha ritenuto più opportuno insistere sul mo­ mento storico-genetico nell’analisi della produttività delle matemati­ che, salvaguardando così la loro autonomia conoscitiva e concettuale rispetto alla logica In tal senso, Cavaillès, pur non avendo potuto conoscere tutta la Crisi, ha capito l’importanza della prospettiva sto­ rica implicita nel metodo fenomenologico per quanto riguarda il pro­ blema della teoria della conoscenza; ma « l’epistemologia fenomeno­ logica » di Cavaillès non poteva seguire l’itinerario speculativo husser­ liano, perché rifiuta soprattutto la priorità ontologica assegnata alla logica trascendentale; « questo è il punto debole che Cavaillès rico­ nosce nella fenomenologia, che è proprio di porre tale priorità »10. In questo modo sono già presenti in Cavaillès i primi segni di una 6. S. Zecchi, op. cit., p. 66. 7. J. Cavaillès, Sur la logique.... cit., p. 57. 8. Ivi, p. 59. 9. Su Cavaillès, cfr. anche G. Polizzi, Scienza e epistemologia in Francia 1900-1970), Torino, 1979 e C. Vinti, a cura di, L’epistemologia francese contem­ poranea, Roma, 1977. 10. S. Zecchi, op. cit., p. 70.

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« epistemologia non-fenomenologica », anticipata in Francia negli anni ’40 da Gaston Bachelard e proseguita poi da Desanti. In verità, Bachelard ha criticato aspramente non tanto Husserl, quanto alcune tendenze della fenomenologia francese che « ha perduto la purezza husserliana 11 per l’incapacità di cogliere i valori e la specificità della conoscenza scientifica. La figlia di Bachelard, Suzanne, ha analizzato la logica husserliana per definire « il logico » e il concetto di « for­ male » come idea regolativa contro qualsiasi interpretazione naturalistico-psicologica della conoscenza scientifica. Ma la Crisi in particolar mondo e molta letteratura fenomenologico-esistenzialistica hanno codificato una teoria gnoseologica del « primitivo », dell’originario, del percepito opposta e alternativa alla conoscenza scientifica, per­ dendo così di vista la complessità teorica della scienza contemporanea e addebitando ad essa una « crisi » che è invece della filosofia e dei suoi apparati gnoseologici. Bachelard coinvolge quindi la fenomeno­ logia nell’accusa di « oziosità » e di « contemplativismo »; e, come Cavaillès, avanza una delle critiche più radicali all’intero progetto filo­ sofico di Husserl, pur riconoscendogli una sensibilità non comune verso i temi della razionalità scientifica. Cavaillès, da parte sua, segue Husserl solo fino a quando la solu­ zione trascendentale da lui proposta serve a chiarire alcuni problemi logici circa la struttura della scienza, ma rifiuta decisamente il « ri­ torno all’originario », al precategoriale come fondamento della stessa ricerca scientifica e base dei processi categoriali impliciti nelle varie scienze. I processi logici di implicazione, deduzione, contraddizione, formalizzazione per Cavaillès e i processi fisico-matematici di rettifica e di ristrutturazione impressi alla ricerca fisica da Boltzmann in poi con la svolta statistico-probabilistica, per Bachelard, rimangono ele­ menti estranei e quasi assenti dalla problematica husserliana che non riesce così a comprendere le diverse articolazioni del pensiero scien­ tifico e le varie trasformazioni teoriche in esso avvenute soprattutto dall’800 in poi. Scrive a tal proposito Cavaillès, mettendo in evi­ denza lo scacco epistemologico a cui conduce il progetto trascendentale husserliano:

Or l’un des problèmes essentiels de la doctrine de la Science est que justement le progrès ne soit pas augmentation de volume par juxtaposition, 11. G. Bachelard, L’activité rationaliste de la physique contemporaine, Pa­ ris, 1965, p. 2 e S. Bachelard, La logique de Husserl, cit., cap. I. Su Suzanne Bachelard, cfr. il ns. Epistemologia e storia della scienza in Suzanne Bachelard, « Bollettino di storia della filosofia dell’università agli studi di Lecce », IV, 1976, pp. 309-330.

221 l’antérieur subsistant avec le nouveau, mais révision perpétuelle des contenus par approfondissement et rature... Le progrès est matériel ou entre essences singulières, son moteur l’exigence de dépassement de chacune d’elles. Ce n’est pas un philosophie de la conscience, mais une philosophie du concept qui peut donner une doctrine de la Science. La nécessité géneratrice n’est pas celle d’une activité, mais d’une dialectique »12.

Cavaillès e Bachelard ritengono inadeguata la filosofia della co­ scienza e dell’intenzionalità per la comprensione del divenire storico della razionalità scientifica e, contro la fondazione di una « nuova estetica trascendentale » da parte di Husserl implicita nella Crisi e più evidente in alcuni manoscritti inediti13, propongono una « filosofia del concetto » per l’analisi della struttura della scienza e una nuova analitica non-kantiana 14 che delimiti ulteriormente il precategoriale per i processi sempre più astratti delle teorie matematiche e fisico-mate­ matiche contemporanee. È la nozione husserliana di razionalità legata al mondo della vita e di « ritorno all’originario » che Bachelard e Ca­ vaillès negano in nome dei processi dialettici e concettuali impliciti nella produttività scientifica, che una epistemologia metakantiana in­ vece consente di chiarire senza ricorrere a discorsi di tipo fondazionale. Husserl per Bachelard e Cavaillès ha presente solo un modello di razionalità scientifica, non penetra nella struttura della scienza sia moderna che contemporanea, non analizza mai i reali processi in atto nelle singole teorie, cadendo così in una immagine descrittivistica della conoscenza scientifica. L’accusa di Bachelard alla fenomenologia di « contemplativismo » si spiega per la sua concezione dell’impresa scien­ tifica non strumentalistica e non convenzionalistica, contro cui lo stesso Husserl si era pronunciato dalla Filosofia dell’aritmetica alle Ricerche logiche, ma progettualistica e costruttivistica, lontana anche dagli esiti formalisti del programma del Circolo di Vienna. Sia Cavaillès che Bachelard si sono confrontati col metodo fenome­ nologico proprio in funzione antineopositivistica, ma hanno rigettato in pieno il progetto trascendentale di fondo della fenomenologia hus­ serliana, ritenuta estranea da un punto di vista epistemologico alle istanze conoscitive implicite nella razionalità scientifica 15. Tale radi­

12. J. Cavaillès, Sur la logique..., cit., p. 78. 13. Sul tentativo da parte di Husserl di fondare una nuova « estetica tra­ scendentale », cfr. A. Ales Bello, L’oggettività come pregiudizio. Analisi di ine­ diti husserliani sulla scienza, Roma, 1982, pp. 97-101. 14. Cfr. G. Bachelard, La philosophie du non, Paris, 19704, cap. V; su questo, cfr. il ns. Il surrazionalismo di Gaston Bachelard, Napoli, 1974, cap. III. 15. La stessa critica a Husserl è presente in L. Geymonat, La «crisi delle

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calismo antifenomenologico viene ereditato sia da Suzanne Bachelard che da Jean Desanti che orientano le loro ricerche storico-epistemo­ logiche rispettivamente sulla fisica-matematica e sulla matematica, uti­ lizzando i criteri della « descrizione fenomenologica », ritenuti idonei ad esaminare gli elementi oggettivi e soggettivi della ricerca scientifica e i caratteri della conoscenza apodittica per ben distinguerla dal pen­ siero naturale. La loro « epistemologia fenomenologica » è tale solo nella misura in cui essi ritengono possibile interpretare fenomenologicamente alcuni problemi specifici della matematica e della fisica-matematica, per se­ guirne la implicita conscience de rationalité e conscience d’historicité16. Ma è soprattutto Jean Desanti che delinea una epistemologia non-feno­ menologica sulla scia delle critiche a Husserl e alla letteratura fenome­ nologica da parte di Cavaillès e Bachelard e dei loro risultati epistemo­ logici sullo status della matematica, anche se ritiene necessario con­ frontarsi con le proposte della fenomenologia e « non sorvolare Hus­ serl »17. Nell’opera di maggiore spessore storico-epistemologico Les idéalités mathématiques, Desanti utilizza concetti husserliani come « descrizione », nucleo intenzionale », costituzione, trascendentale per analizzare i problemi di carattere teorico emersi con la teoria delle fun­ zioni variabili; ma tiene subito a precisare che la sua ricerca storio­ grafica non mira affatto a delineare una storia e una epistemologia « fenomenologica » delle matematiche, che sfuggono a qualsiasi appa­ rato gnoseologico precostituito a priori. Ma è nell’opera La philosophie silencieuse18 che Desanti riprende le tesi di Cavaillès verificandole nelle singole opere husserliane dalla Filosofia dell’aritmetica all’Origine della geometria, sottolineando come il tema fondamentale che le percorre è il problema della fondazione dello statuto delle scienze logico-matematiche, secondo uno schema metodologico « fenomeno­ logico » di natura essenzialmente filosofica: dessiner la structure du champ où se manifestent en premier les actes instaurateurs de vérités, où s’élaborent les positions d’objects et les espèces

scienze europee » secondo Husserl, in Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, 1972, voi. VI, cap. II. 16. Cfr. S. Bachelard, La logique de Husserl, cit., cap. I e III e La con­ science de rationalité, cit., pp. 1 e 7; J. Desanti, Les idéalités mathématiques, cit., p. 30. 17. Cfr. B. Barret-Kriegel, Le silence de f.T. Desanti, App. a J. Desanti, Le philosophe et les pouvoirs, Paris, 1976 (tr. it. Milano, 1981) e su Desanti, cfr. il ns. Scienza, epistemologia, filosofia in /. Desanti, « Nuova Corrente », 1983. 18. J. Desanti, La philosophie silencieuse, cit., pp. 69-107.

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de relations..., la clarification fondamentale qui devrait conduire toute Science vers l’auto-conscience de ses fondations les plus cachées19. Per Desanti la fenomenologia husserliana nel suo complesso e so­ prattutto la Crisi, come qualsiasi altra filosofia totalizzante di natura sistematica, nega l’autonomia concettuale delle singole scienze e della logica formale in particolare; riprendendo un passo di Logica formale e trascendentale, dove si afferma che le scienze particolari non sono autonome e dipendono dalla « scienza unica e vera » che è la filosofia, depositaria della soggettività trascendentale, Desanti può concludere che per Husserl « aucune Science ne peut, à ses yeux, produire d’elleméme sa propre épistémologie »20. La stessa apofantica formale per Husserl è una disciplina più pura e più ricca della logica formale che deve inoltre conformarsi ai suoi princìpi ritenuti « universali » e fon­ datori; per Desanti, invece, la stessa attività matematica è orientata dal punto di vista tematico verso le proprietà degli oggetti (insiemi, relazioni, funzioni) da cogliere secondo l’indicazione hilbertiana espres­ sa in Grundlagen der Geometrie: sia la matematica che la logica for­ male nelle loro articolazioni e procedure tecniche non richiedono af­ fatto il concetto di ontologia formale e di apofantica formale che per Husserl, invece, costituiscono l’unità delle strutture teleologiche imma­ nenti nel loro sviluppo. Le scienze per Desanti producono da sole le loro implicità episte­ mologie particolari e regionali secondo le tesi bachelardiane, ed è la filosofia e nel ’900 quella husserliana, in particolare, che impongono alla ricerca scientifica temi e problemi completamente estranei negan­ dole i propri valori teorici e conoscitivi. Ma la stessa fenomenologia trascendentale, per costituirsi come tale, come progetto di fondazione dello statuto anche epistemico delle scienze, per Desanti si è basata sulle regioni formalizzate della matematica, ne ha delimitato il campo e ristretto i processi assiomatici:

le souci de Husserl était ici de disposer, sous le nome de « multiplicité bien définie », de l’invariant eidétique formel auquel toute théorie mathématique se conforme... En tant que phénoménologue, il travaillera sur le substitut degagé en sa « pureté »2I. Anche e soprattutto la fenomenologia husserliana ha operato per Desanti quel « processo di interiorizzazione » tipico della filosofia clas­ 19. Ivi, pp. 70-71. 20. Ivi, p. 72. 21. Ivi, p. 95.

224 sica e delle Erkenntnistheorien normative e assolute nei confronti delle scienze, consistente nel « mettre en oeuvre un discours essentiel et premier, capable de déployer toutes les possibilités du savoir, d’en dévoiler du méme mouvement le contenu et le fondement »22. L’intériorisation à la conscience è quindi tipica della fenomenologia husser­ liana che ha inglobato certi temi scientifici particolari, ne ha interio­ rizzato e riprodotto i contenuti all’interno di un discorso filosofico di tipo fondazionale, con la pretesa di giudicarne i valori conoscitivi, fal­ sificando e deformando così l’effettiva pratica matematica; Husserl per Desanti, inoltre, cade in una situazione epistemologica prekantiana in quanto non tiene conto della rottura operata dalla rivoluzione coper­ nicana, consistente nel considerare la filosofia non più scienza, cioè produttrice di conoscenze, ma atteggiamento riflessivo su contenuti sorti in altri campi ad essa estranei. Fare della filosofia una scienza rigorosa del mondo della vita e della soggettività trascendentale dopo Kant è per Desanti un’impresa teoretica condannata ad un sicuro fallimento:

pour Husserl, la « Science » philosophique, prise en ses stricts canons de riguer, ne produit rien sinon des procédures jugées fondamentales, de reproduction de ce qui, déjà, s’est produit... Cela tient sans doute à ce que Husserl a totalement élidé la technique mathématique. A vrai dire, il n’a pas travaillé dans les textes et les contextes mathématiques. Récusant la naiveté du technicien il a biffe toute la richesse des édifices théoriques. Il a travaillé plutót à construire un substitut de la mathématique effective, une sorte de « petit objet » aisément maniable, je veux dire phénoménologiquement apprivoisé23. Per Desanti la scienza matematica non ha bisogno di un campo costitutivo fondamentale, né vuole essere legittimata in sede epistemica da discorsi filosofici, d’altronde sempre in ritardo nei confronti della ricerca scientifica; la fenomenologia husserliana, soprattutto quel­ la espressa dalla Crisi, per Desanti è la forma più insidiosa di interio­ rizzazione, cioè di riproduzione e di deformazione della pratica scien­ tifica, operata dal discorso filosofico contemporaneo proprio perché nega decisamente alle scienze la capacità di costruire la loro implicita epistemologia, d’accordo in questo con la filosofia neoidealistica che ha negato valore teoretico-conoscitivo alla conoscenza scientifica. L’epistemologia francese contemporanea perviene quindi ad un ra­ dicalismo epistemologico antifilosofico e antifenomenologico in particolar modo; anche se inizialmente c’è stato un incontro con alcune

22. Ivi, p. 8. 23. Ivi, p. 108 e pp. 160-107.

225 tematiche fenomenologiche, esso è stato reso possibile da una situa­ zione congiunturale teorica di rifiuto da parte dell’epistemologia fran­ cese dei risultati logico-formali del programma del Circolo di Vienna, ritenuto inadeguato per la comprensione storica dei mutamenti scien­ tifici. Il metodo fenomenologico per la sua intrinseca storicità è stato considerato solo più pertinente nell’analisi delle strutture della scienza dall’epistemologia storica francese, prima con Bachelard e poi con Desanti; ma il progetto filosofico di fondo, che sorregge l’intero impian­ to della fenomenologia husserliana, la fondazione cioè del significato anche epistemico della scienza, riceve una critica radicale, con i cui esiti occorre confrontarsi quando si vogliono affrontare i controversi rapporti tra scienze e filosofia.

Parte terza

«

LE CONCRETIZZAZIONI STORICHE « DETERMINATE » DELLA « KRISIS » E POSSIBILITÀ DEL LORO SUPERAMENTO

1. FENOMENOLOGIA E NICHILISMO: LA RAGIONE COME ASCESI E LA RAZIONALIZZAZIONE COME TECNICA

di Aldo Masullo

1. Incunabolo della Crisi delle scienze europee è, come si sa, la conferenza tenuta da Husserl a Vienna il 7 e il 10 maggio 1935 con il titolo La filosofia nella crisi dell’umanità europea. Poco più di due an­ ni prima, la repubblica di Weimar e la sua cultura, incandescente di an­ ticonformistiche sperimentazioni e impregnata, com’è stato detto, di « irrazionalismo e disprezzo per gli antichi valori dell’umanismo », ave­ vano consumato la loro « fine nell’orrore », annientate dal nazismo, dall'antiumana irrazionalità di un assoluto potere razionalizzantesi nel­ l’organizzazione violenta del conformismo. Nella prima parte della conferenza Husserl con particolare insisten­ za volle caratterizzare la forma storica della filosofia come Beruf, « vo­ cazione professionale », mettendo trasparentemente in gioco l’elabora­ zione che di questa categoria, in chiave sociologica di razionalizzazione etica, aveva compiuta Max Weber, all’inizio del secolo. Così, secondo l’indicazione dello stesso Husserl nella lettera del 10 luglio 1935 a Ingarden, una volta « chiarita in base alle sue origini storico-teleologi­ che » « l’idea filosofica dell’umanità europea », diventava possibile mo­ strare, nella seconda parte, come « le crisi insorte a partire dalla fine del XIX secolo », « il fallimento della filosofia, cioè delle sue ramifi­ cazioni, delle scienze particolari moderne », consistessero nel « falli­ mento del loro Beruf », nel tradimento della loro « vocazione », nel de­ cadere del razionalismo intrinseco della filosofia a « naturalismo » e « obiettivismo », e come pertanto alla fine, a meno di una « rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia », non restasse che « la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie ». La singolarità della filosofia, così com’essa nasce in' Grecia, sta, secondo l’impostazione della conferenza, nel fatto che « soltanto pres­ so i Greci » « l’interesse vitale di tipo professionale » per « il cosmo co­ me totalità di tutto ciò che è », assume la forma di un atteggiamento pu­ ramente « teoretico » e si manifesta, per motivi intrinseci, in una forma comunitaria », caratterizzandosi come « rivolgimento non tempora­

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neo ». « L’atteggiamento teoretico », non inerente cioè ad alcun obiet­ tivo pratico-naturale, « fondato su un’epoché volontaria da qualsiasi prassi al servizio della dimensione naturale », è pur sempre « un atteg­ giamento professionale [Berufeinstellung] ». Si tratta di « una prassi di genere nuovo », « che mira, attraverso la ragione scientifica univer­ sale, ad innalzare l’umanità [...], a trasformarla in un’umanità radical­ mente diversa ». « A ciò la teoria (la scienza universale) è chiamata [berufen] (e nel vedere teoretico testimonia la propria vocazione [Beruf]) ». Con la « decisione di dedicare costantemente d’ora in poi la vita, la vita nel senso universale, a costruire gradualmente la conoscenza teo­ retica infinita », « sorge una nuova umanità, uomini che, attraverso la filosofia, creano professionalmente [Berufsmässig] una nuova forma culturale ». « Sorge una particolare umanità ed una particolare profes­ sione di vita [ein besonderer Lebensberuf], correlativamente alla pro­ duzione di una nuova cultura ». Quando poi « la diffusione della filo­ sofia non avviene nei limiti della ricerca scientifica professionale[der berufsmässigen wissenschaftlichen Forschung], ma al di là della cer­ chia professionale [über den berufsmässigen Kreis hinaus], come mo­ vimento dell’educazione », allora « quelli che in modo conservatore si tengono nella tradizione entreranno in conflitto con la cerchia dei filo­ sofi, e sicuramente la lotta si svolgerà nella sfera politica del potere ». A questo punto, Husserl pronuncia la battuta più drammatica, allusi­ va di un presente dolorosamente vissuto: « già con gli inizi della filo­ sofia comincia la persecuzione »’. . Diventa ormai inevitabile chiedersi in qual modo la filosofia, inte­ sa come attività intellettuale aliena da qualsiasi interesse naturalmen­ te pratico e dunque particolare, sicché contro « il pericolo della specia­ lizzazione » il filosofo deve compiere « l’intero infinito compito di co­ noscere teoreticamente la totalità di ciò che è [die Allheit der Seien­ den] »1 2, possa essere considerata come una « vocazione professionale », una « particolare professione di vita ». Conviene qui confrontare la posizione di Husserl con la nozione weberiana di Beruf. 2. Weber nel celebre lavoro del 1804-5 muove da una concezione francamente relativistica della ragione e dalla conseguente convinzione 1. Tutti i passi della conferenza fin qui citati si trovano in E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Ed. Biemel, Nijoff, Haag, 1954, pp. 325-334, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1961, pp. 338-346. 2. E. Husserl, Krisis, p. 339; tr. it., p. 350.

231 che essa si riduca alla commisurazione che il soggetto agente fa dei com­ portamenti altrui ai valori suoi propri e dei mezzi ai fini prescelti. Il suo « studio vorrebbe contribuire a scoprire la molteplice varietà che si cela nel concetto solo apparentemente univoco di “razionalità” »: « una cosa non è “irrazionale” in se stessa, ma da un dato punto di vi­ sta razionale. Per l’irreligioso è “irrazionale” ogni condotta religiosa della vita, per l’edonista lo è ogni condotta ascetica, anche se, misura­ te secondo il loro fine ultimo, costituiscano una “razionalizzazione” »3. Se nella valutazione di uno scopo, ovvero di un senso, della vita, la ra­ gione si riduce alla relatività del punto di vista soggettivo e non è per­ ciò suscettibile di alcun giudizio scientifico, è invece possibile valutare oggettivamente la congruità dei mezzi in rapporto con un fine comun­ que adottato, ossia la « razionalizzazione [Rationalisierung] ». « Si possono prendere praticamente diverse posizioni. Se si prende l’una o l’altra, bisogna applicare, secondo i risultati della scienza, certi mezzi o certi altri per “attuarla praticamente” »4. L’adeguamento dei mezzi al fine non è soltanto l’opera consapevole dell’individuo, ma ben più spesso l’inconsapevole effetto di autoregolazione di un sistema socio-e­ conomico: così il capitalismo non potrebbe svilupparsi se gl’individui, attraverso i cui comportamenti esso funziona, non fossero liberati dal­ l’immediatezza del problema di guadagnare comunque sempre più con sempre maggior comodità e con sempre minore fatica, e non si formas­ sero in loro « un senso di responsabilità assai elevato » ed « una co­ scienza del lavoro come “assoluto scopo a se stesso” e così come “pro­ fessione” »5. La coscienza « professionale » è chiaramente concepita come una tipica « razionalizzazione » sociale. Attraverso di essa, l’in­ dividuo viene reso perfettamente adeguato come mezzo allo scopo del­ lo sviluppo conservativo del sistema. « Un elemento così irrazionale qua­ le dal punto di vista degl’interessi puramente eudemonistici è la dedi­ zione al lavoro professionale », nel meccanismo dello sviluppo del ca­ pitalismo viene « razionalizzato », reso « razionale » e come tale fatto vivere dagl’individui, attraverso il condizionamento ideologico della re­ ligiosità protestantica, « che riconosce come solo mezzo per vivere in maniera grata a Dio [...] l’adempimento dei propri doveri mondani, qua­ li essi risultano dalla posizione di ciascuno nella vita, funzione che con ciò appunto diventa la sua “vocazione professionale” »6. All’ascesi del3. M. Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo, tr. it. di P. Burresi, con introduzione di E. Sestan, Sansoni, Firenze, 1965, p. 105 nota. 4. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. di A. Giolitti, con introduzione di D. Cantimori, Einaudi, Torino, 1983, p. 36. 5. M. Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo, cit., pp. 117-118. 6. Ivi, pp. 137 e 145.

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la fuga dal mondo si sostituisce, nella modernità capitalistica, l’ascesi dell’impegno produttivo nel mondo, la quale peraltro non comporta ri­ spetto alla prima una minore carica di « rinuncia ». L’insegnamento di Goethe è che « nel mondo moderno il presupposto di ogni azione degna di stima è la rinuncia all’universalità faustiana per limitarsi al lavoro professionale » e che quindi « azione e rinuncia si condizionano inevi­ tabilmente a vicenda »7. La « vocazione professionale » è segnata es­ senzialmente da una forte decisione autodeterminatrice, e come tale autolimitatrice. Finora però non è stato chiarito perché mai l’individuo si lasci così docilmente sospingere dalla pressione sociale all’autodeter­ minazione e alla complementare rinuncia. Evidentemente la spinta so­ ciale deve dare risposta a qualche bisogno vitale dell’individuo, il qua­ le perciò è disposto ad assecondarla. In effetti, l’obbligazione della norma interiorizzata, ossia la « razio­ nalizzazione » propria della forma etica, viene a rassicurare e a met­ tere in fuga l’angoscia dell’uomo, conflittualmente avvertito della pro­ pria naturale non-innocenza nei riguardi dell’altro e, insieme, dell’in­ trinseca costitutiva necessità dell’altro per lui. La funzione tranquilliz­ zante della norma interiorizzata è talmente radicata nel più profondo bisogno del modo culturale di esistere, che l’uomo preferisce sentirsi in colpa di fronte ad una norma determinata piuttosto che restare privo di qualsiasi vincolo normativo. Ora, la naturale non-innocenza non solo si scontra sempre con la coscienziosità costitutiva della cultura, suscitando angoscia e, per ri­ durla, bisogno di normatività, ma pure, in quanto prassi mondana, sto­ ricamente situata, entra in collisione con le esigenze organizzative del­ la particolare società, e quindi con le esigenze di regolamentazione della conflittualità imposta dalla divisione del lavoro. Nascono spesso, in queste situazioni, Pflichtkollisionen, « conflitti di doveri », urti d’im­ perativi, lacerazioni insanabili della coscienza coscienziosa. Max Weber propone questo tema inquietante in vari scritti degli anni 1916-1917. Una volta egli osserva: « Il vecchio e lucido John Stuart Mill ha detto che dal terreno della pura esperienza non si giunge a un dio; a me sembra: meno dì tutto a un dìo della bontà, bensì al politeismo. In realtà, chi vive in questo mondo non può esperire in sé nient’altro che la lotta tra una pluralità di sequenze di valori, ognuna delle quali, con­ siderata per sé, appare vincolante. Egli deve scegliere quale di questi dèi vuole e deve servire, quando uno e quando l’altro. Allora finirà per ritrovarsi sempre in lotta con qualcuno degli altri dèi, e innanzitutto sa­ 7. Ivi, p. 304.

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rà sempre lontano dal dio del cristianesimo »89. Il « politeismo » delle norme, cioè la proliferazione dei codici di condotta e delle rispettive tavole di « valori » in una medesima area di cultura del gruppo o del singolo, anziché rassicurare, com’è proprio della funzione normativa, disorienta il soggetto, anzi introduce nella sua vita nuove e più gravi spinte all’insicurezza e all’angoscia. Perciò il soggetto se ne difende, decidendosi per il codice, spesso al livello più basso della positività, cioè al livello dell’affettività più immediata: il codice, per esempio, della professione, o del corpo istituzionale, della concorrenza, della ge­ rarchia, della carriera (Weber sarcasticamente parla dello spirito del « posticino »). Ci si rassicura insomma, diventando « uomini che ser­ vono 1’ “ordine” e nient’altro che l’ordine, che diventano nervosi e vi­ gliacchi non appena questo ordine vacilla per un attimo, e che si riduco­ no privi d’aiuto non appena vengono sradicati dalla loro completa in­ corporazione in quest’ordine »’. Nella situazione « politeistica », la ras­ sicurazione che il soggetto persegue con la scelta bassa è, oggettivamen­ te, la meno sicura. Tuttavia, a questo prezzo di una sicurezza di coscien­ za che in realtà è pericolosamente precaria, i più si mantengono nella « ragione », intesa come controllo conservativo della propria identità nella docile conformazione alla richiesta della cerchia sociale più vici­ na, e sfuggono alla « follia ». Mentre nel classico lavoro del 1904-1905 la « professione » è pre­ sentata come la « razionalizzazione » che, in un determinato momento storico, nella modernità capitalistica, l’ideologia protestantica rende pos­ sibile, e che è capace di conciliare nell’atteggiamento dell’individuo la tensione religiosa dell’idealità etica, interiormente trascendente, e la positiva moralità localistica, negli scritti degli anni 1916-1917 essa sem­ bra scaduta a rifugio rassicurante per un particolarismo, pauroso di ogni dialettica tensione, viene ricondotta cioè ad un fenomeno di con­ formismo etico di ruolo, tipicamente piccolo-borghese, in una società di massa e « politeistica ». Infine, in alcune celebri pagine del 1919, la « professione » è da Weber considerata da un terzo punto di vista. Se « il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razionalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disincantamento del mondo, è che proprio i valori supremi siano divenuti estranei al gran pubblico », cioè non siano più generali e collettivi, bisogna « affrontare virilmente questo destino » e 8. M. Weber, Scritti politici, tr. di P. Manganare, con introduzione di A. Bruno, Giannetta, Catania, 1970, p. 124; il medesimo tema è ripreso nel saggio sul Significato dell’« avalutatività » ..., tr. it. di P. Rossi, in II metodo delle scienze storico-sociali, Mondadori, Milano, 1974, p. 332. 9. Ivi, p. 115.

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coltivare « la semplice probità intellettuale », il coraggio della Wert­ freiheit, dell’« indipendenza dal valore » come essenza della scienza, l’onestà di non gabellare per scientificamente fondata la scelta di valo­ ri, ossia di supremi fini e sensi-di-vita, la quale strutturalmente non ha in se stessa alcun valore scientificamente fondato, logicamente dimostra­ bile. Perciò, « che la scienza sia oggi una “professione” specializzata, posta al servizio della coscienza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensatrice di mezzi di salvazione e di rivelazioni, o un elemento della meditazione di saggi e filosofi sul significato del mondo, — è certamente il dato della nostra situazione storica, al quale, se vogliamo restar fedeli a noi stessi, non possiamo sfuggire ». A noi, cui « il destino impone di vivere in un’epo­ ca senza Dio e senza profeti », non resta che « metterci al nostro lavo­ ro e adempiere al “compito quotidiano” — nella nostra qualità di uo­ mini e nella nostra attività professionale »1011 . Qui la « professione » non è né la « razionalizzazione » etica alta, che una civiltà esercita nel pro­ prio interesse di conservazione e di sviluppo, né la « razionalizzazione » etica bassa, la fuga dalla drammaticità dell’interna tensione morale nel comodo conformismo delle regole di ruolo; ma, specialisticamente, co­ me « professione » della ricerca scientifica, è il rifiuto critico di ogni rassicurante quanto ingannevole illusione sulle capacità della ragione di legittimare le nostre scelte di fini-di-vita; e genericamente, come « professione », è l’impegno nel reggere al « disincantamento », tenen­ dosi stretti con rigore al « compito quotidiano » che la concreta situa­ zione di ciascuno nel mondo gli ha assegnato. La « professione » come rigoroso attaccarsi al « compito quotidiano » non si riduce però ancora una volta ad una forma di « razionalizzazione » sia pure estremamente scaltrita, ad una tranquillizzante chiusura nell’autocompiacimento, poi­ ché al chiuso di questo rigore particolaristico, anzi reso possibile pro­ prio dalla riservatezza della sua cura, corrisponde l’aprirsi dello spazio interiore alla problematica universalità morale: « non è un caso... che oggi, soltanto in seno alla più ristretta comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, palpiti quell’indefinibile che un tempo perva­ deva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma impetuosa le grandi comunità »’*. 3. È appropriato a questo punto chiedersi se Husserl nel presentare la filosofia come « professione » si muova in qualche modo sulla falsa­ riga di questo terzo concetto weberiano di Beruf. Nel qual concetto, a 10. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, cit., pp. 41-43. 11. Ivi, p. 41.

235 voler continuare nella logica della metafora di Weber, non si può non intravvedere un « monoteismo » dell’etica, purché naturalmente si fac­ cia consistere l’idea dell’unicità del divino non nel riconoscimento di un positivo dio unico ma nella negazione di tutti gli dèi positivi, qua­ lunque di essi ci si trovi caso per caso chiamati a venerare, anche se presentato come l’unico. Ebbene, nella conferenza di Vienna, Husserl esclude dal rapporto tra religione e filosofia le « religioni politeistiche », e afferma invece la sostanziale omogeneità ideale del « monoteismo » con la filosofia. Egli scrive: « Al concetto di dio inerisce per essenza il singolare. Ma al concetto di dio inerisce anche il fatto che la sua validi­ tà d’essere e di valore è esperita dall’uomo come un vincolo esteriore assoluto. A questo punto avviene la fusione della sua assolutezza con quella dell’idealità filosofica. Nel processo generale di idealizzazione che procede dalla filosofia, dio viene per così dire logicizzato [logifiziert} e diventa rappresentante dell’assoluto logos »I213 . L’impressione che l’idea della filosofia come « professione » sia, in Husserl, conso­ nante con la terza versione weberiana del Beruf, sembrerebbe rafforzata dall’energica rivendicazione che Husserl fa della razionalità intrinseca del filosofare come di qualcosa che non si esaurisce nella coincidenza con una particolare determinatezza storica della filosofia, anzi al con­ trario sempre la trascende in un continuo « tentativo di realizzare l’idea deH’infinità o addirittura la totalità della verità ». Certamente nulla, neppure la filosofia, esiste se non nella determinatezza e quindi nella universalità che, nella « professione », si esprime come « specializza­ zione ». Tuttavia, se della determinatezza e dell’unilateralità, e quindi della « specializzazione » professionale, è propria la « necessità [.Not­ wendigkeit'} », ciò non vuol dire che di esse non sia altrettanto propria la « pericolosità [Gefährlichkeit} »”. La razionalità, appunto in quan­ to rimanga « unilaterale [einseitige} », « può diventare un pericolo »! La filosofia invece è essenzialmente razionalità non unilaterale. Per il filosofo, « nessuna luce conoscitiva, nessuna verità singola deve essere assolutizzata e isolata. Soltanto in questa estrema auto-coscienza, che diventa a sua volta una delle componenti del compito infinito, la filosofia può esercitare la sua funzione, la funzione di realizzare se stessi e perciò un’autentica umanità ». Questo compito della filosofia è « l’essenza stessa della ragione [Wesen der Vernunft} », e « per que­ sta costante riflessività [Reflexivität} una filosofia è conoscenza uni­ versale [universale Erkenntnis} ». Quest’ultimo giro di considerazioni lascia vistosamente manifestar­ 12. E. Husserl, Krisis, p. 335; tr. it., p. 347. 13. Ivi, p. 338; tr. it., p. 350.

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si l’impossibilità d’intendere l’idea husserliana della filosofia come « professione » scientifica mediante il rinvio al terzo significato della « professione » elaborato da Weber. Come, per esempio, potrebbe la filosofia essere « professione » di scienza, e dunque con Weber « specializzazione », e al tempo stesso es­ ser con Husserl « non unilaterale »? Ma, soprattutto, come potrebbe es­ sere « professione » di scienza in quanto wertfrei, indipendente da va­ lori e incompetente a pronunciarsi su di essi, conoscenza rigorosa esclu­ sivamente di mezzi, tecnologia nella più lata accezione, eppure trascen­ dere ogni sua storica determinatezza, adottare un valore, impegnarsi « a conferire un senso razionale all’esistenza umana individuale e gene­ rale », lottare per il « vero essere dell’uomo » sapendo che « il vero essere è sempre un fine ideale, un compito dell’episteme, della “ra­ gione” »?14. In effetti, il « monoteismo » weberiano è soltanto il rifiuto di qual­ siasi positività di senso o valore, un continuo trapassare tutti gl’incon­ sistenti simulacri del divino, un assicurare all’intelligenza di Ulisse la sordità al canto delle Sirene, un impedire la compromissione della ra­ zionalità scientifica con le scelte di vita, un mantenere libero al di là dei mutevoli simulacri un immutabile spazio di assenza. L’avvertimento di questa assenza, mai più che sussurrato a se stessi, un « pianissimo », esso solo sottilissimamente separa il relativismo di Weber dal nichilismo. Il « monoteismo » husserliano, invece, consiste nel sapere che ogni verità è unilaterale e la ragione come verità non unilaterale, verità del­ l’essere totale, è infinita, sicché in nessuna delle verità particolari biso­ gna fermarsi ma procedere, razionalmente, verso la ragione, per mirar­ ne, al di là di tutte le verità unilaterali e al di qua della verità totale, il continuo scaturire, l’originaria potenza, la veritatività. La consapevolez­ za critica della relatività del relativo è qui la condizione della ricerca dell’unico irrelativo che non può essere contraffatto. « Il mondo, che è per noi, è una nostra formazione storica, come noi stessi, nel nostro essere, siamo una formazione storica. Cos’è, in questa relatività, l’irrelativo che ne è presupposto? La soggettività in quanto trascendentale »15. Resta insomma ancora non chiarito perché Husserl, nella conferen­ za di Vienna, insista a parlare della filosofia come « professione », os­ sia « vocazione » ad un impegno particolare, dunque con le sue tecni­ che, « specializzato », nel momento stesso in cui ne rivendica la pura « teoreticità », l’indifferenza a qualsiasi interesse pratico-naturale, e 14. Ivi, p. 11; tr. it., p. 42. 15. Ivi, p. 313; tr. it, pp. 326-327.

237 mentre denuncia « il pericolo della specializzazione ». Si tratta, in altri termini, di capire in qual modo e con quale significato si accordi l’idea della filosofia come « forma culturale [Kulturgestalt] » specifica, « pro­ fessionalmente prodotta », quindi storicamente determinata e speciali­ stica, con la filosofia come « idea di un compito infinito e universal­ mente umano »16.

4. A questo punto apparentemente morto della ricerca, non si può non ricordare che la nozione weberiana di Beruf è principalmente una interpretazione sociologica dell’etica in termini di effetto di « raziona­ lizzazione » (accanto a cui, marginalmente, soltanto in ultimo riaffiora, chiuso nel più geloso ambito di privatezza, uno specifico livello di au­ tonoma eticità ovvero, attraverso la consapevolezza critica della relati­ vità di ogni positivo valore o senso, l’inquietante avvertimento di uno spazio d’assenza). L’interpretazione sociologica dell’etica nei termini di effetto di « ra­ zionalizzazione » suppone l’avvenuta liquidazione di qualsiasi forma, metafisica o trascendentalistica, di etica della razionalità. La « razionalizzazione » è la funzione in cui consiste la cosiddetta « ragione ». Si tratta di un dispositivo naturale diretto dall’interesse naturale-pratico: perciò il suo concetto appare dove scompare il con­ cetto della ragione come verità dell’essere ed essere della verità, atto « teoretico » che in sé non dipenderebbe da alcun interesse pratico-na­ turale, mentre sarebbero invece gl’interessi pratici soggetti al suo orien­ tamento, essi medesimi non più semplicemente naturali ma appunto « razionali ». Il concetto e il termine stesso di « razionalizzazione » hanno il lo­ ro testo esemplare in un frammento postumo di Nietzsche: « In termi­ ni morali, il mondo è falso. Ma in quanto la morale stessa è un pezzo di questo mondo, la morale stessa è falsa. La volontà di verità è un render-fermo, un render-vero, un render-durevole [...] quel falso carattere, un’interpretazione d’esso come essente. “Verità” perciò non è qualcosa che ci sarebbe, e che sarebbe da scoprire — ma qualcosa che è da crea­ re e che dà il nome ad un processo, ancor più ad una volontà di sopraf­ fazione che in sé non ha termine: in-porre [hinein-legen] verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare — non un diventar cosciente di qualcosa, che in sé sarebbe fermo e determinato. È una parola per “volontà di potenza”. La vita è fondata sul presupposto del credere in un che di durevole e di regolarmente-ritornante; più la vita è potente, e più ampio deve essere il mondo reso prevedibile o per così

16. Ivi, pp. 333-334 e 338; tr. it., pp. 344-345 e 348.

238 dire essente [seiend], Logicizzare, razionalizzare [Rationalisierung], sistematizzare come strumenti ausiliari della vita »I718 . L’espressione « in termini morali [moralisch ausgedrückt] », nel­ l’uso di Nietzsche, segnala che nel parlare della « falsità » del mondo non s’intende negare certo che dei fatti avvengano e delle « verità » siano concepibili come funzioni di sistemi operativi convenzionali (co­ dici simbolici e giochi linguistici), cioè come identità, quindi come es­ senza, e della vita come totalità, quindi come scopo, in una parola di « sensi » metafisicamente supposti attraverso la « proiezione » assolu­ tizzare di forme proprie del nostro vivente esperire, che è identifica­ re, unificare, progettare. Perciò, « in termini morali », neppure la ra­ gione come verità dell’essere è veramente concepibile. Se il mondo è mera contingenza di eventi (e la verità quindi è solo di tipo convenzionale, e la ragione è nient’altro che un così altamente complesso « stato di relazione tra diverse passioni e desideri », raggiun­ to dall’organizzazione del corpo vivente umano, da poter funzionare come sistema autoequilibrantesi e macchina di calcolo), allora la ge­ nerale instabilità mantiene l’uomo nella continua paura di non riuscire ad autoequilibrarsi, cioè nell’angoscia. Si pone dunque il problema di « ridurre la contingenza ». Il nichi­ lismo è l’inevitabile punto d’approdo del processo moderno di estinzio­ ne dell’impostazione « teoretica » del problema della « riduzione della contingenza ». Un « teorico della società » come Luhmann ha definito questo problema nei termini di « selettività dell’esperire e dell’agire »: tale « selettività », egli scrive, « vestita dapprima, teleologicamente, co­ me contingenza del mondo, che Dio avrebbe potuto anche creare diver­ samente (e qui considerata ancora e solo come contingenza dell’agire, che in Dio fa tutt’uno con l’esperire), è divenuta poi, cosciente e offer­ ta alla scelta, una molteplicità di possibili costruzioni del mondo [...] La problematica delle eccedenze di possibilità, del possibile logicum, si sposta dal passato (ridotto tramite la creazione) verso il futuro (da ri­ durre tramite la pianificazione), dalle possibilità di altri mondi in altre possibilità di questo mondo »1S. Il modo « teoretico » di « ridurre la contingenza » ha nella metafisica leibniziana la sua massima ed ultima, e forse ironica, formulazione: questo mondo è contingente, poteva non essere scelto; ma, una volta scelto, è stata scelta l’intera connessione si­ stematica delle sue parti, secondo le sue leggi proprie, e dunque la sua interna necessità. 17. F. Nietzsche, Aus dem Nachlass der Achtzigjahre, in Werke, III, ed. Schlechta, Hansen, München, 19696, p. 541. 18. Habermas, Luhmann, Teoria della società e tecnologia sociale, tr. it. di R. Di Corato, Etas Kompass, Milano, 1973, p. 266.

239 Con la crisi storicistica della metafisica, il mondo non viene più pensato come sempre-già-tutto-fatto, e dunque inconoscibile non per principio ma semplicemente per la limitatezza della mente umana, ben­ sì come sempre-in-via-di-farsi, non un essere essenziale ma un puro e accidentale divenire-, lo si deve pertanto concepire, per principio, in quanto esso non è, come inconoscibile, privo di verità. « Conoscenza e divenire si escludono [Erkenntnis und Werden schliessen sich aus} », enuncia lapidariamente Nietzsche Il problema della « riduzione del­ la contingenza » non è più possibile in termini « teoretici », ma solo e radicalmente in termini « pratici »: non è più un problema metafisico, ma un problema politico. Detto ancora diversamente, non si può « ridurre la contingenza » interrogando la « ragione » come « verità » dell’essere, ma soltanto esco­ gitando « razionalizzazioni », cioè producendo condizioni di governa­ bilità del divenire e « razionalizzando » la funzione di autoequilibrazione dell’uomo. Così la « riduzione della contingenza », attraverso le pro­ cedure di « razionalizzazione » della scienza-tecnica, tende a scaricare l’uomo dell’angoscia. L’idea che il mondo sia « falso », per il fatto che esso non è ma di­ viene, dunque è senza ragione, privo di « verità », comporta che non soltanto le cose del mondo non sono, ma il soggetto stesso non è. « Il corpo, la cosa, 1’ “intero” costruito dall’occhio suscita la distinzione di un agire [Tun] e di un agente [Tuende]; l’agente, la causa dell’agire, sempre più sottilmente compreso, alla fine ha reso superfluo [übrigge­ lassen] il “soggetto” », scrive Nietzsche19 20. E altrove chiarisce: « [...] il “soggetto” non è per nulla un dato, un qualcosa di inventato-in-sovrappiù [Hinzu-Erdichtetes] un qualcosa di introdotto-di-soppiatto [Dahinter-Gestecktes]. — È, alla fine, necessario porre ancora dietro l’inter­ pretazione l’interprete? »21. Dinanzi all’inessenzialità del mondo estesa anche al soggetto, l’an­ goscia diventa intollerabile. Il nichilismo, facendo saltare tutte le co­ perture protettive elaborate da antiche « razionalizzazioni », non fa che mettere a nudo in tutta la sua forza distruttiva il primigenio motivo dell’angoscia, nato insieme con quella coscienza del sé come essere del­ l’io, che è insopprimibilmente costellata dalla paura di perderlo, e addi­ rittura dall’oscuro dubbio sulla sua consistenza. A questo livello così profondo, l’angoscia non è più fronteggiabile con la « riduzione della contingenza » operata attraverso la « raziona19. F. Nietzsche, Werke, III, cit., p. 543. 20. Ivi, p. 485. 21. Ivi, p. 903; anche: p. 548.

240 lizzazione » di tipo scientifico-tecnico. La « riduzione della contingen­ za » va allora ottenuta con la ben più penetrante « razionalizzazione » di tipo etico. Il nichilismo, in quanto radicale dissolvitore di tutte le « razionaliz­ zazioni » etiche tradizionali, è essenzialmente l’imporsi di un compito etico. Nietzsche, movendo dalle premesse che « fatti non ce ne sono, ma solo interpretazioni », e che « sono i nostri bisogni che interpretano il mondo »2223 , avverte che « non esistono affatto fenomeni morali, ma sol­ tanto un’interpretazione morale di fenomeni »M. Ora, l’interpretazione morale è l’espressione della « volontà di verità » dell’uomo, della sua « volontà di non ingannare neppure se stesso », laddove la vita sembra al contrario esser « contesta di apparenze, voglio dire d’errore, d’ingan­ no, d’ipocrisia, di accecamento, di autoaccecamento »24. L’uomo, quanto più sperimenta la « falsità » del mondo, quanto più prova la precarietà e l’inconsistenza del suo sé, quanto più dunque pre­ cipita nell’abisso dell’angoscia, e sente, come si dice, « mancargli la ter­ ra sotto i piedi », e avverte di restare privo di fondamento o ragione, tanto più, per poter vivere, per non impazzire, ha bisogno d’identità, di senso, di verità. Quanto più il mondo e lui stesso gli si scoprono instabi­ li, tanto più fortemente vuole la stabilità del mondo e innanzitutto di sé. Nietzsche lo riconosce chiaramente: « la volontà di verità è solo il desiderio di un mondo del permanente »25. Non meno significativo è che, nell’ambito della psicologia del pro­ fondo, Adler abbia presentato l’eros freudiano come volontà di poten­ za e che questa, secondo l’indicazione di Jung, vada intesa come volon­ tà dell’identità dell’io26. Il « fenomeno morale » non è che « un’interpretazione morale di fenomeni ». Se il mondo e l’io stesso non sono, ma divengono, accadono, e sono del tutto instabili, senza « verità », allora quella « volontà di ve­ rità », di « non ingannare neppure se stessi », in cui consiste l’etica, esprime il bisogno vitale di salvezza dall’angoscia dell’instabilità. Que­ sto bisogno può essere soddisfatto soltanto mediante « l’in-pressione del carattere dell’essere sul divenire »2728 , « l’in-posizione del senso \_Sinn-hineinlegen] »a al senza-senso, in una parola mediante l’autoinganno. 22. Ivi, p. 903. 23. F. Nietzsche, Werke, II, cit., p. 631. 24. F. Nietzsche, La gaia scienza, afor. 344. 25. F. Nietzsche, Werke, III, cit., p. 458. 26. C.G. Jung, Due testi di psicologia analitica, tr. it. di S. Daniele ed E. Sagittario, Torino, 1983, p. 35. 27. F. Nietzsche, Werke, cit., p. 895. 28. Ivi, p. 503.

241 Allora l’etica si rivela funzione non di un principio della « ragione » come « verità » dell’essere, ma di un’iniziativa di « razionalizzazione ». L’« interpretazione morale » è l’escogitazione scaturita dal raffinato calcolo di una ragione, concepita non come sistema ed organo della « verità », ma come naturale dispositivo, capace di affrontare i diffi­ cili problemi di autoequilibrazione di un organismo ad alta complica­ zione qual è l’uomo. L’etica, come alleviamento dell’angoscia attraverso la « riduzione della contingenza » è, nella conclusione di Nietzsche, il destino trascen­ dentale dell’errore, esso solo capace di consentire all’uomo di farsi so­ praffattore del divenire e così riuscire a non essere lui distrutto dalla sua sopraffazione. « Il più grande errore, che si sia dato, è il destino pro­ prio dell’errore sulla terra: si è creduto di avere un criterio della real­ tà nelle forme della ragione — mentre si disponeva di queste per diven­ tare padroni della realtà, per fraintendere intelligentemente la real­ tà »2930 . L’etica è la salvezza non nella verità, ma nell’« intelligente frain­ tendimento », nell’ingegnosità della menzogna. Essa non è attesa del manifestarsi del vero, « teoresi », ma tecnica del nascondere il falso, tecnica dunque essa medesima della falsità, « prassi ». Così il nichilismo ha consumato fino in fondo il paradosso dello spirito, cioè di quell’impulso razionale che fa di ogni ordine umano un ordine magari naturalizzato, ma giammai naturale. L’impulso razionale si esprime nel fatto che l’uomo « sente il suo vivere » ('Tratr/et, dice Aristotele) come un identificare, unificare, pro­ gettare, e che questi dunque sono i sensi di fondo della sua vita, della sua soggettività; e che egli li proietta fuori di sé, come valori oggettivi, facendo degli eventi un mondo, il cui essere è essenziale e perciò vero (identità), sistematico e perciò intero (unità), scopo delle sue parti (pro­ getto), come se il mondo dunque nella sua « totalità » avesse un senso. Ma quanto più cresce la potenza della razionalità, tanto più si è co­ stretti a scoprire il mondo nella sua « falsità »: non identico, non uno, non finalizzato, non pensabile come totalità, insomma senza senso. Os­ serva Nietzsche: « Le categorie “fine”, “unità”, “essere”, con cui ave­ vamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente astratte — e ora il mondo appare senza valore »M. Il significato del nichilismo si concentra nella « parodia » che Nietz­ sche fa della parodia goethiana del versetto dell’evangelista Giovanni: « All’inizio era il non senso [/m Anfang war der Unsinn] »31. 29. Ivi, p. 727. 30. Ivi, p. 270. 31. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, 22.

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Il paradosso dello spirito, come ragione vivente, viene dal nichili­ smo ridotto al suo esito tragico: se, da un lato, la vivente ragione, proiet­ tando i suoi sensi sul mondo, s’inganna, ma questo inganno è necessa­ rio per fronteggiare l’angoscia dell’uomo, allorché poi la ragione scopre il suo stesso inganno ma si rende anche conto che, appunto per fronteg­ giare l’angoscia, è necessario intelligentemente auto-ingannarsi, il vitale inganno non riesce più. È impossibile ingannarsi, sapendo d’ingan­ narsi! In conclusione, l’etica come « razionalizzazione », tecnica di ma­ scheramento del falso, subisce lo scacco più disastroso; pericolosamente fallisce il suo compito di « ridurre la contingenza » per alleviare l’an­ goscia. E in fondo la tesi sostenuta, sia pure obliquamente, da Simmel in uno dei suoi ultimi scritti, all’inizio degli anni venti, allorché egli no­ ta che, mentre la vita culturale sempre si concreta in ben determinate forme, ma sempre « lotta contro questi suoi prodotti diventati rigidi e non moventisi insieme con essa », e si prepara così a produrre nuove for­ me nell’insopprimibile intento di « razionalizzare la vita », senza pre­ cedenti è « il malessere della civiltà che conosciamo noi », perché ora « non si tratta di una nuova forma che intraprende la lotta contro la vec­ chia », ma della stessa « vita che in ogni possibile sfera si ribella con­ tro questo suo esser costretto a scorrere in forma fissa di una qualche specie »32. La filosofia, insomma, pervenuta a quella conclusione, anti-teoreti­ ca, anti-sistematica, anti-formalistica, e perfino anti-storicistica, che Simmel raccoglie sotto la denominazione di comodo di « pragmatismo » e che, sia pure in modi vari, esprime un’ispirazione di fondo nichilisti­ ca, non sopprime con la sua critica la potenza creativa della vita e il continuo fiorire di nuove forme sulle rovine delle vecchie, ma certa­ mente non può più essere, come finora era stata, docile funzione della vita, legittimazione ideale delle forme emergenti, sia pure storicistica­ mente in rapporto con una ben definita situazione.

5. Risulta comunque ormai chiarito che, se nei termini sociologici di Weber l’etica è un effetto di « razionalizzazione », il risultato di una tecnica anonima nascosta nei meccanismi storicamente determinati del­ la psiche collettiva e dei processi sociali di manipolazione della psiche individuale, nei termini invece filosofici di Nietzsche l’etica è la tec­ nica stessa della «razionalizzazione», riduttrice della contingenza e alleviatrice dell’angoscia, come strutturale ermeneuticità dell’esistenza. 32. G. Simmel, Il conflitto della civiltà moderna [da Fragmente und Auf­ sätze, München, 1923], tr. it. di G. Rensi, Bocca, Torino, 1923, pp. 27-31.

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Sicché, mentre la difficoltà rilevata da Weber nella situazione cultura­ le presente, « senza dio e senza profeti », trova la sua ragione e si ri­ scatta per la sua verità relativa, accanto alle altre, nel vario svolgersi del processo storico, per Nietzsche invece, come per Simmel, l’attuale momento distrugge la possibilità stessa della tutto sommato tranquilliz­ zante relatività storicistica. La consapevolezza, a cui, per Nietzsche co­ me per Simmel, la filosofia è pervenuta, non lascia la filosofia come pri­ ma: sopprime la sua funzione « razionalizzatrice », e in tal modo impe­ disce per sempre all’esistenza di intelligentemente ingannarsi, rimette fino in fondo in gioco la sua possibilità. Or non ha forse detto Husserl, lo si è ricordato all’inizio, che la fi­ losofia presso i Greci nasce come « rivolgimento non temporaneo »? Il punto d’approdo della filosofia, concepito da Nietzsche, o anche da Simmel, potrebbe non esser altro che la sua stessa originaria e sconvol­ gente originalità, finalmente riapparsa sulla terra degli uomini dopo in­ numerevoli latenze catactonie? Certamente per Husserl come per Nietzsche, la ragione è conferi­ mento di senso; è un Sinn-hineinlegen, dice Nietzsche; è un Sinn-geben, dice Husserl. Per Nietzsche però il mondo resta « falso » anche dopo che la ragione gli ha conferito senso, perché secondo lui la ragione stes­ sa è « falsa », è un mero evento interpretativo. Al contrario, per Hus­ serl il mondo, appena investito di senso dalla ragione, è « vero » della verità della ragione, la quale è originariamente « vera », cioè in se stes­ sa « essere » della verità, prima che, in altro, « verità » dell’essere di quest’altro. In modo lapidario e pregnante, Husserl nel paragrafo 5 di Krisis de­ finisce la ragione « come ciò che, a partire propriamente da sé, conferi­ sce senso al mondo che è; e, guardato dall’altra parte, è il mondo stesso [Vernunft — als die der seienden Welt von sich aus Sinn gebende, und, von der Gegenseite gesehen, Welt] »33. Irrompe qui quel « soggettivismo radicale », su cui ci s’interroga particolarmente nei paragrafi 25 e 26. L’impostazione kantiana del « trascendentale » è considerata da Husserl come la prima risposta sistematica alla domanda che appunto nasce con Cartesio e giunge al culmine della sua tensione teorica con Hume: « come afferrare questo soggettivismo radicale, che rende sog­ gettivo il mondo stesso? ». È « l’enigma del mondo nel senso ultimo e più profondo, l’enigma di un mondo il cui essere è essere in virtù di un’o­ perazione soggettiva, e che lo è in un’evidenza tale che non è possibile

33. E. Husserl, Krisis, pp. 11-12; tr. it., p. 43.

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pensarne un’altra »M. Perciò la filosofia di Kant « dev’essere definita un soggettivismo trascendentale »34 35. « Io personalmente — aggiunge Husserl — uso il termine “trascendentale” in un senso più ampio »: si tratta infatti del « motivo del ritorno alle fonti ultime di tutte le for­ mazioni conoscitive, della riflessione da parte del soggetto conoscitivo su se stesso e sulla sua vita conoscitiva, in cui si definiscono conforme­ mente a uno scopo tutte le formazioni scientifiche che valgono per lui, in cui si attuano come risultati, in cui sono disponibili e costantemen­ te lo divengono [...] Questa sorgente va sotto il titolo io-stesso, con tutta la mia vita conoscitiva reale e possibile, e infine con la mia vita con­ creta in generale. Tutta la problematica trascendentale si aggira intor­ no al rapporto di questo mio io — dell’ “Ego” — con ciò che dappri­ ma viene posto come ovvio in vece sua: la mia anima; poi attorno al rapporto di questo io e della sua vita di coscienza con il mondo di cui l’io è cosciente, e di cui conosce il vero essere, nelle proprie formazioni conoscitive »36. Il ritorno stesso, tipicamente « trascendentale », all’azione della soggettività come istituzione del mondo degli oggetti e della significati­ vità del mondo, è una azione della soggettività con cui si istituisce il si­ gnificato della soggettività stessa. Scoprire il significato della « filosofia trascendentale » non è un mero accertamento della sua realtà, storica­ mente oggettiva, data, ma è ancora una volta un’interpretazione, cioè uno sforzo di comprensione che la soggettività fa, appunto, non di ciò che essa è, ma di ciò che essa vuole da se stessa: si tratta insomma del­ l’elaborazione di un compito. Non importa contemplare un passato, così come esso filologicamente risulterebbe essere stato, ma progettare il futuro, così come la soggettività vuole che esso sia, per essere se stessa, per attuarsi. Perciò, dice Husserl, « questo concetto generalissimo del “trascendentale” non può mai essere illustrato con i documenti alla ma­ no, non può essere attinto mediante un’illustrazione immanente dei sin­ goli sistemi e mediante la loro comparazione. Piuttosto è un concetto che può essere attinto attraverso un approfondimento della storia unitaria di tutta l’epoca filosofica moderna: è il concetto del suo compito, che solo così può essere provato e che agisce in essa, come forza di propulsione del suo sviluppo, e che tende a trasformarsi da vaga dynamis in “energeia” »37. La filosofia fenomenologica, come ricerca fenomenologicamente « trascendentale », è un’etica. 34. 35. 36. 37.

Ivi, p. 99; tr. it, p. 124. Ivi, p. 100; tr. it., p. 125. Ivi. Ivi, p. 101; tr. it., p. 125.

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È assai significativo che ci si muova qui nello stesso orizzonte men­ tale, degli ultimi anni della vita di Husserl, in cui egli confessa: « La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apoditti­ ca — il sogno è finito »38. La ricerca husserliana, nel suo tormentato itinerario, perviene in conclusione a scoprire che la filosofia non è un modo di pensare essen­ zialmente teoretico, una logica come scienza di leggi universali della soggettività, ma un modo di pensare essenzialmente etico, l’esercizio (Übung) della soggettività nella costante tensione per appropriarsi di sé e per mantenersi verso di sé come compito ultimo che dà senso alla vita dell’uomo in quanto vita razionale che conferisce senso universale (in­ tersoggettivo) alle cose. È « un’auto-comprensione quale essere nell’esser-chiamato a una vita nell’apoditticità — in quanto uomo che eser­ cita la scienza non soltanto astrattamente, nel senso usuale, bensì in un’apoditticità che realizza il suo essere concreto complessivo in un’a­ podittica libertà, nell’apoditticità apodittica che anima la ragione — at­ traverso cui l’umanità è tale — in tutta la sua vita attiva; come abbia­ mo detto, un’umanità che si concepisce come un’umanità razionale, un’umanità che comprende di essere razionale nel voler-essere-razionale »39. L’apoditticità che la filosofia ricerca non è quella di una conoscen­ za dell’essere, neppure, si badi bene, dell’essere della soggettività come sistema di leggi trascendentali nel significato che Kant dà alla versione secondo lui « critica » e quindi razionalmente accettabile della metafi­ sica, ma è quella della comprensione del dover-essere, del dover vole­ re se stessi come ragione. L’ultimo Husserl sembra così riavvicinarsi al tardo Fichte: la filo­ sofia come « esercizio », « attenzione », concreta eticità, vita nel noi, al qual proposito appunto nella Wissenschaftslehre del 1804 si legge: « Noi sappiamo bene che non si tratta di un noi in sé [Wir an sich], di quel noi di cui parliamo, ma soltanto di un noi interiore a sé [Wir in sich], vivente in se stesso, che noi non possiamo concepire se non con l’atto energico con il quale annientiamo la nostra propria concezione [...] Questo “noi” non ha realtà che nella vita immediata stessa; esso non è né determinato né caratterizzabile con qualcosa che possa venire in mente a chiunque [cioè, la sua universalità non è oggettiva] ; esso non può essere caratterizzato se non mediante l’attualità stessa della vita immediata »40. 38. Ivi, p. 508; tr. it., p. 535. 39. Ivi, p. 275; tr. it., p. 289. 40. J.G. Fichte, Werke, ed. di I.H. Fichte, X, pp. 206-207; Wissenschaftslehre 1804, ed. di F. Medicus, Leipzig, 1908-1909, pp. 284-285.

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Il pensiero di Fichte si poneva in ultimo allo stesso grado di arre­ tramento riflessivo a cui in ultimo si pone il pensiero di Husserl: la fi­ losofia non è un discorso di etica, ma è l’etica del discorrere; solo autocomprendendosi, discorrendo instancabilmente, la volontà di conferi­ re senso e di esser soggetto può mantenersi in atto e, sempre risalendo al proprio vivo originarsi, veramente volere. Ora, se la filosofia è l’esercizio che mantiene gli uomini nella loro possibilità più propria, la tensione etica fondamentale, perché Husserl negli stessi anni in cui riconosce chiaramente ciò, insiste nel parlare della filosofia come di una « professione »? Io credo che la risposta vada cercata nella direzione del drammati­ co problema su cui la cultura europea intorno a Husserl, da Nietzsche a Weber, da Simmel a Freud, si va interrogando, e che è la sua stessa situazione di « crisi », « conflitto », « disagio ». Il problema si pone dilemmaticamente nell’alternativa tra due linee di possibile interpreta­ zione: si potrebbe affrontare con storicistico realismo l’analisi dei modi e delle cause della crisi attuale, alla stregua di altre crisi del divenire socio-culturale, pur se particolarmente considerata perché ci coinvolge in modo diretto; oppure si potrebbe tentare di comprendere la crisi culturale non in quanto attuale ma in quanto caso particolare di una struttura intrinseca delia esistenza culturale. Mi sembra interessante, per tentar di cominciare ad abbozzare una risposta alla domanda iniziale della presente ricerca, mettere a con­ fronto tre testi curiosamente paralleli. Il primo è di Husserl, il quale in una celebre pagina del 1906 scri­ veva: « la mia personalità purtroppo non può più divenire una cosa piena ed intera; l’unità della Weltanschauung, l’unità di una cultura che si sviluppa liberamente, di una bella cultura organica naturale, essa non può più acquistarla... Per difficile che sia sacrificare la gioia di un’unità armonica e la libertà di una cultura naturalmente bella, tut­ tavia bisogna che io lo faccia... Io debbo comunque vivere il mio dove­ re e cercare nel suo adempimento il mio volere e la mia interiore ras­ sicurazione »41. Il secondo testo, di pochi anni precedente, è di Weber: « Per Goe­ the il riconoscimento [del motivo ascetico fondamentale dello stile del­ la vita borghese, cioè del dovere di rinuncia alle universalità faustiane, per impegnarsi nell’azione del lavoro come “professione”] significava rinuncia ed un addio ad un tempo di piena e bella umanità, che non si 41. Citato da P. Lauer, comm. alla tr. fr. di E. Husserl [Philosophie als strenge Wissenschaft], La Philosophie comme Science rigoureuse, Puf, Paris, 1955, p. 226.

247 rinnoverà più, nel corso della nostra civiltà, come nell’antichità non si rinnovò il fiorire di Atene »42. Il terzo testo, infine, comporta un balzo all’indietro di circa un se­ colo, ed è un montaggio di ritagli da Hegel: il mondo greco è « il regno della bella libertà », unione « naturale, ingenua » di « libertà soggetti­ va » e « sostanzialità », tale dunque che « non può persistere »43; infat­ ti, « la ragione è costretta a uscire da questa felicità ä44; del resto, « lo spirito, se vuole filosofare, deve separarsi dalla sua volontà naturale »45; così, « nel momento stesso, in cui questo mondo di bellezza [la civiltà ionica], che per forza propria s’era elevato ad alto grado di civiltà [VI a.C.], cadeva in rovina, compariva la filosofia »46. Husserl, Weber, Hegel si affiancano, sia pure con varia intonazione e diversi obiettivi, nel rilevare un contrasto insanabile. Da un lato, la cultura è perfettamente funzionante, come coerenza di sistema sociale e di ideologia, di meccanismi e di soggettività, quando la sua relativa in­ dipendenza rispetto al mondo circostante si regge sulla necessità degli individui vissuta da loro come libertà: sicché si può parlare di unità armonica e di bella libertà, come si parlerebbe dell’armonia e della li­ bertà di un animale selvaggio, la cultura appunto essendosi stabilizza­ ta nella sua ripetitività, naturalizzata. Dall’altro lato, cultura è rottura con la stabilizzazione naturale, irruzione della soggettività come inven­ zione di forme, vissute secondo sensi, dunque dall’interno di loro stes­ se, e come mantenimento della soggettività attraverso la negazione di sé e la sperimentazione di nuove forme di sé. Se dunque la cultura si stabilizza, essa si naturalizza e, con l’inaridire della soggettività, la cul­ tura cessa di essere cultura. Se invece la soggettività si mantiene viva, allora la cultura non può che essere messa in crisi, subire rotture e se­ cessioni, essere messa contro se stessa. L’iniziativa della messa in que­ stione, di contestare l’ordine della « bella libertà naturale » è appunto il filosofare, secessione intellettuale, ma anche specializzazione profes­ sionale perché è strettamente funzionale alla vita della cultura. La cul­ tura infatti si mantiene come cultura, evita di riaffondare nella natura, soltanto lacerandosi, negando la propria identità, criticamente differen­ ziandosi, cioè — secondo il detto di Hegel — curando il sapere con il pensiero. 42. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [1903-1904, anche se pubblicato in volume nel 1922], cit., p. 304. 43. G.W.F. Hegel, Filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze, I, pp. 280-281. 44. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1960, I, p. 296. 45. G.W.F. Hegel, Storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze, I, p. 112. 46. Ivi, p. 173.

2. FENOMENOLOGIA E POLITICA. LE IMPLICANZE POLITICHE DEI CONCETTI HUSSERLIANI DTNTERSOGGETTIVITÀ E DI « LEIB »

di Antonio Ponsetto

1. Verità e storia

Nell’articolo Entwurf einer Vorrede zu den Logischen Untersu­ chungen (1913), in cui si propone di illustrare gli elementi di novità presenti nella seconda edizione delle Logische Untersuchungen ri­ spetto alla prima, Husserl dichiara esplicitamente che l’approfondi­ mento della correlazione soggetto-oggetto deve condurre a superare la concezione della verità atemporale: in quanto prodotto della ragione, la conoscenza soggiace infatti alla stessa storia della ragione che la produce ed è quindi necessariamente contrassegnata, come questa, dal carattere della storicità. Come conciliare però l’esigenza di apoditticità, richiesta dalla scien­ za rigorosa, con la storicità? Se la verità viene vincolata al contingente e al fattuale intrinseco a ogni storia, come può ancora pretendere di possedere valore assoluto? In che modo diventa allora possibile rico­ noscere alla verità il carattere storico, mantenendola insieme svinco­ lata da « ogni pregiudizio storicamente tramandato »? La contraddizione tra storicità e apoditticità della conoscenza, che sul piano di un puro formalismo concettuale appare insolubile, si dissolve alla luce dell’analisi fenomenologica. Assumendo l’oggetto come « filo conduttore », la fenomenologia interroga l’esperienza sullo statuto della coscienza che forma il proprio oggetto e osserva come, nel modo stesso con cui l’uno si dà all’altra, emerga la fondamentale distinzione tra l’essere come coscienza e l’essere come fattualità. Che cos’è infatti per me, prima di ogni teoria, la realtà percepita, questo tavolo, se non le molteplici percezioni che io ho di essa, le innume­ revoli qualità percettibili che essa offre al mio sguardo, gli aspetti sotto cui mi appare, i profili sotto cui si presenta? La cosa percepita non è altro che quel « sistema di molteplici apparizioni e adombra­ menti » che il soggetto afferra nella realtà. Sarebbe tuttavia assurdo credere che dietro a tutte queste appa­

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renze si nasconda la « cosa vera e reale ». Essa altro non è che il polo identico di quelle « intenzionalità », mediante cui il soggetto apprende quel percepito che egli chiama tavolo; è l’unità « in-tesa » attraverso veri adombramenti che in qualche modo la realtà disegna nella co­ scienza del soggetto conoscente. Dietro questi adombramenti o profili non vi è una realtà nascosta, inconoscibile come la « cosa in sé » di Kant; ciò che la percezione offre non è né un’immagine né un segno, bensì è la cosa stessa « in carne ed ossa ». La cosa è esattamente ciò che appare « mediante » le sue apparizioni: l’essere del fenomeno è il suo apparire. Dal momento che la realtà percepita si dà, nei singoli momenti, di volta in volta soltanto « sotto una faccia », in una prospettiva de­ terminata, essa si presenta necessariamente in modo sempre incom­ pleto. L’esperienza dell’uomo è infatti per natura sua inadeguata e quindi mai abbastanza perfetta da permettere alla realtà percepita di presentarsi nella completezza delle sue possibilità; soltanto attraverso il moltiplicarsi delle prospettive, che lungo il procedere del suo espe­ rire il soggetto si dischiude, la verità della conoscenza si viene ade­ guando alla ricchezza di senso contenuto nella realtà. Queste riflessioni, sviluppate in modo sistematico da Husserl nelle Meditazioni cartesiane (1929), gli permettono di chiarire definitiva­ mente il primato dell’esperienza sull’idea di mondo in sé e il soste­ nere perciò la tesi della storicità della verità. Che cosa il tale oggetto o il mondo siano per il soggetto, soltanto l’esperienza è in grado di insegnarglielo, poiché è essa a prescrivere il senso che assumeranno per lui le cose del mondo. La coscienza è dunque « donatrice di senso », mentre la realtà naturale è il semplice « correlato intenzionale » relativo alle operazioni del soggetto conoscente. Di conseguenza, la fenomeno­ logia si pone come la scienza che esplicita il senso nuovo con cui tutto ciò che è altro dall’io è incluso nella soggettività trascendentale: l’io cessa di essere semplice coscienza immanente e assume la funzione di luogo di ogni donazione di senso; esso racchiude in sé l’oggetto come quel senso che egli « intende » nella pluralità dei suoi atti di coscienza. L’unità dell’oggetto intenzionale è assicurata attraverso il flusso ininterrotto delle apparizioni dell’oggetto stesso e dei suoi adombra­ menti ed è “perciò” frutto di un atto sintentico di coscienza che unifica le diverse modalità, secondo cui il medesimo oggetto si dà. Dal mo­ mento, però, che l’identità è garantita unicamente nella vita di coscien­ za del soggetto, questa sintesi non può mai considerarsi definitiva e, di conseguenza, l’essere vero dell’oggetto diventa il suo essere verifi­ cato e legittimato in una esperienza evidente e concordante, che si

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profila come un ideale all’orizzonte infinito dell’esperire storico del­ l’uomo. Se dunque questa sintesi di identità non può mai essere realmente data per nessun oggetto ed è destinata a rimanere ideale, anche la verità di ogni oggetto viene a prospettarsi come un’unità ideale di senso, costituita da un sistema incompiuto di sintesi conoscitive. L’es­ sere della cosa implica quindi la possibilità ideale di uno sviluppo infinito, giacché nessuna sintesi intuitiva può mai giungere ad esau­ rirne il senso; a sua volta, la verità si pone come telos verso cui il processo conoscitivo tende all’indefinito e si prospetta alla ragione come un compito da perseguire mediante la continua lettura delle ap­ parizioni della realtà lungo il procedere della storia.

2. Fenomenologia e politica In prima istanza, la storia è avvertita dal soggetto come esistenza di quel passato, su cui egli poggia. Essa costituisce perciò 1’« orizzonte di intelligibilità e di cultura dell’uomo; non si sovrappone a lui, ma piuttosto è egli ad appartenere ad essa in virtù della temporalità stessa della sua vita. Nell’orizzonte storico si costituiscono la storia e le storie, frammenti di storie oggettive, accessibili agli uomini e comu­ nicabili unicamente in funzione della vivente unità dell’umanità, di cui essi raccolgono di continuo l’eredità. Come viene dimostrato nella Crisi delle scienze europee (1935-1938), quest’orizzonte vivente è co­ stantemente presente alla coscienza di ognuno; esso è implicito, in quanto orizzonte temporale, in ogni nostro orizzonte presente. In conformità al metodo che guida la ricerca fenomenologica, la storia non si riduce tuttavia al semplice studio empirico della succes­ sione temporale degli avvenimenti, poiché da esso non si ricaverebbe nessun modello intelligibile. La fenomenologia è invece chiamata a svelare la « struttura universale di essenza » in base alla quale, pur essendo nella storia e nel mondo, gli uomini si scoprono soggetti che pensano sia la storia sia il mondo. Il filo conduttore di questa rifles­ sione è fornito dal fatto che la storia è tradizione e trasmissione: ciò che per gli uomini è storico, è dunque un senso sedimentato, è quel senso che li guida ad affermare l’essenza della storia; e poiché, dal punto di vista della fenomenologia, l’essenza si rende accessibile nella misura in cui il soggetto coglie la continuità dei sensi della realtà, i quali si rivelano lungo il divenire temporale, storia e comprensione della storia si mostrano tra loro inseparabili. Capire il senso della storia significa perciò recepire il vivo movimento della mutua solida­

251 rietà e implicazione della formazione e della sedimentazione di senso originario. La struttura universale di ciò che è storico diventa quindi perce­ pibile solamente mediante la riflessione trascendentale; attraverso essa possiamo comprendere il motivo per cui il passato non è morto, ma si perpetua nella coscienza attuale; nella storia, infatti, « il primor­ diale in sé è il nostro presente ». Nella riflessione fenomenologica, la storia cessa di essere lo svolgimento, di « fatticità » storiche e si costi­ tuisce in divenire storico autentico, nel quale viene elaborandosi la storia dell’uomo: « è così additata una problematica generale, che si riferisce alla totalità della storia e al senso totale che, in ultima istanza, conferisce ad essa la sua unità ». La soggettività è allora chiamata a trasformarsi in ragione che agisce, in modo da impedire che il divenire della storia si riduca a « null’altro che a una catena di slanci illusori e di amare delusioni ». Per assolvere a questo compito, essa è costretta ad assumere una di­ mensione politica: opporre ragione e storia, ragione e politica, signi­ ficherebbe infatti restare ancora prigionieri di un atteggiamento in­ genuo, naturale, poiché come sarebbe possibile separare la ragione e l’essente, se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, deter­ mina ciò che l’essere storico è? La totalizzazione dei momenti della propria esperienza permette alla coscienza di afferrarsi nella sua concreta pienezza, per cui com­ prendersi storicamente diventa la fase ultima di un’auto-comprensione, nella quale il soggetto recepisce l’inscindibilità della propria realizza­ zione con l’adempimento del compito a cui la sua presenza nel mondo attuale lo destina. Se l’origine della riflessione permane nella coscienza che egli ha di se stesso, essa è per lui apertura su una soggettività originaria (UrIch), che è anche intersoggettività spaziale e temporale. In questa presa di coscienza di sé, la storia si trasforma per l’uomo, da semplice fatto presente nella sua oggettività, in movimento dell’umanità che, attraverso l’incessante processo di autochiarificazione della ragione, lotta per la propria autocomprensione. La storia è dunque, per Hus­ serl, eminentemente storia della ricerca del senso razionale dell’esi­ stenza nel mondo vissuto dall’uomo, affinché l’umanità possa giun­ gere a riconoscersi in essa come soggetto. Finché tuttavia l’uomo ri­ mane rinchiuso entro l’atteggiamento naturale, limitandosi a registrare i fatti e a connetterli causalmente tra loro, la ragione della storia ri­ mane occultata, perché egli si lascia dominare dalle cose, in quanto le subisce come eventi che a lui si sovrappongono. Le scienze contem­ poranee che, nonostante i loro indubbi successi, si rivelano impotenti

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a restituire l’uomo al ruolo di protagonista che gli compete, costitui­ scono la dimostrazione più eloquente dell’alienazione dell’individuo dal suo mondo. Il superamento di questa crisi diventa possibile soltanto se gli uomini cominciano a interrogare se stessi, tornando alle fonti della loro umanità: « potremmo giungere a comprendere noi stessi, a tro­ vare perciò un intimo punto di riferimento soltanto chiarendo quel senso unitario della storia della nostra attuale umanità ». Il raggiun­ gimento di questo obiettivo comporta, però, che al dominio della realtà sull’uomo o dell’uomo sulla realtà venga a sostituirsi l’armo­ nizzazione dell’uno con l’altra, in modo che io e natura, individuo e società incomincino ad operare all’attuazione di quel comune destino che li coinvolge. Pur nelle molteplici contraddizioni, in cui permangono avviluppati, i progetti scientifici esprimono tuttavia pur sempre, anche se in modo latente, il tentativo da parte dell’uomo di realizzare un senso più com­ piuto della sua esistenza. Affermare che la « ragione latente » giunge alla « ragione evidente » in virtù della presa di coscienza da parte della soggettività, significa però ammettere che nella ragione funge un fine, una teleologia. Senza di essa la storia non può comprendersi, manche­ rebbe quindi il compimento; con questa teleologia, la libertà della riflessione viene invece ad essere guidata da una necessità immanente. In quanto compimento di un movimento storico latente, la scoperta della teleologia permette di porre in luce ciò che era presente sin dal­ l’origine sotto forma dell’ideale di comprensione universale dell’uomo: l’umanità era da sempre soggetto, ma non ne era conscia. Riconoscersi come soggetto di un mondo storico, nel quale resi­ stenza realizza il proprio senso, non significa tuttavia fermarsi alla pura constatazione di questo fatto, ma comporta invece per l’uomo orientare la propria vita in accordo con questa comprensione, poiché sapere essere soggetto significa voler essere soggetto. Se infatti c’è un fine o senso ultimo nella storia, ne consegue che la totalità dell’esi­ stenza, sia nella sua dimensione teoretica che in quella pratica, è da esso chiamata in causa, affinché l’uomo affermi la sua responsabilità totale. La riflessione fenomenologica raggiunge quindi il suo comple­ tamento soltanto quando si evolve in impegno politico animato da una istanza etica: essere-uomo implica un essere-teleologico e un doveressere. Mediante il richiamo della teoria a rendersi attiva proposta per la realizzazione di un’umanità razionale, la riflessione fenomenologica conduce quindi l’uomo a ritornare a essere protagonista della sua sto­ ria, perché gli permette di interrogarla dal punto di vista del soggetto che la vive.

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Il passaggio dalla storia dei fatti alla storia compresa non significa tuttavia sostituire ai soggetti reali un altro essere che agisce, sdoppiare la storia in qualche modo, ricorrendo a una logica assoluta o al dive­ nire di uno spirito, bensì strapparla al non-senso. Il contenuto reale della soggettività trascendentale è l’umanità in carne ed ossa, unico soggetto storico. Ciò che la fenomenologia trascendentale vuole è sola­ mente far prendere coscienza all’umanità del fatto di essere soggetto, di esserlo sempre stata, anche attraverso i progetti falliti e le confu­ sioni. Può allora il filosofo esimersi dal compito di inverare storica­ mente questo ideale che egli viene scoprendo e sul quale indirizza la propria vita personale? Nelle parole di Husserl, il filosofo è « il fun­ zionario dell’umanità » ed è perciò chiamato a servirla nei tempi e nei modi richiesti dalla storia di cui quest’umanità vive, senza sostituirsi ad essa. In tale prospettiva, la « filosofia della storia » di Husserl, pur aprendosi alla dimensione politica come elemento ad essa comple­ mentare, non intende invadere né la funzione del politico né quella del tecnico sociale, ma mira soltanto a indicare al nostro tempo un avvenire, la costruzione di un’umanità fondata in « questa vita feno­ menologica », e che altro non è che la libertà.

3. Il costituirsi dell’intersoggettività in un mondo accomunato La fondazione fenomenologica del senso del mondo e dell’io 1 ap­ proda dunque alla dimensione politica. Essa è la risultante che neces­ sariamente emerge dallo sviluppo del principio stesso su cui poggia la fenomenologia trascendentale e che suona così: « Se tutto ciò che può avere per me valore di essere è costituito nel mio ego, allora di fatto ogni esistente appare di certo essere un semplice momento del mio proprio essere trascendentale »12. Affinché questo principio non divenga però l’avallo di una nuova e rinnovata forma di solipsismo, è necessario che la fenomenologia trascendentale si mostri in grado di fondare l’esistenza dell’altro e, di conseguenza, l’esistenza di un mondo accomunato. All’interno del me­ todo fenomenologico, tuttavia, sia l’altro sia il mondo accomunato devono essere incontrati dal soggetto nel momento in cui esso inter­ roga la propria esperienza. L’altro viene dunque a darsi come oggetto 1. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die trans­ zendentale Phänomenologie, a cura di W. Biemel, Den Haag, 19622, par. 51 e 55. 2. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik. Versuch einer Kritik der logischen Vernunft, Halle, 1929, p. 86.

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nell’esperienza del mondo da parte del soggetto esperiente e come oggetto che al contempo annuncia se stesso come soggetto di questo mondo. L’altro si presenta cioè come un "ego” come me, che possiede il suo mondo, che esiste in quanto soggetto assoluto; il suo emergere ha poi il compito di far apparire una regione del mondo che mi è estranea e di trasformare questo mondo mio in un "mondo per noi”. D’altro lato, l’oggetto per me non rimane se non un’esistenza incom­ pleta, fintantoché non è anche un oggetto per gli altri. Di conseguenza, l’oggettività in quanto tale esige l’intersoggettività. Siccome nella riduzione trascendentale il mondo ridotto viene ad appartenere alVego costituente come una determinazione intermonadica, interna, nel momento stesso in cui l’ego si scopre come io umano, membro del mondo esterno, anche i rapporti tra l’io e l’altro si pre­ sentano allo stesso titolo che nei rapporti intercorrenti tra io come ego trascendentale e io come essere psicofisico, dove io sono soggetto per­ sonale nel mondo e soggetto per questo stesso mondo in cui mi obiet­ tivo. L’ego si sdoppia in se stesso, grazie all’autocostituzione dell’ego trascendentale, in io umano obiettivo e, in qualche modo, al di fuori di se stesso, grazie alla costituzione di un io realmente altro. Dal momento che la prima caratterizzazione dell’ego avviene come monade, l’altro si caratterizza dapprima come il trascendimento del­ l’essere proprio dell’ego, e solo in seguito come un ego che si costi­ tuisce in quanto non-io, a partire dal suo rispecchiamento in me. Nell’a/ter-ego non scorgo innanzitutto se non un altro io, un rispec­ chiamento o un analogon del mio essere proprio. L’altro irrompe cioè nel senso stesso del mio sistema di esperienze, annunciandosi come un sistema di esperienze estraneo. La motivazione della posizione in me di un alter-ego si pone per­ tanto all’interno dell’esperienza originaria che io ho dell’altro. Sicché, per quel che riguarda la costituzione dell’altro, io non esco dall’imma­ nenza del mio ego, poiché non vivo gli Erlebnisse degli altri come se divenissero per me immanenti. L’altro rimane di fronte a me e non mi è dato nella sua vita intenzionale, bensì in carne ed ossa. Diversamente, io e l’altro dovremmo essere una cosa sola. Il motivo, che mi permette di leggere su questo corpo presente nel mio campo percettivo la presenza di un altro soggetto, è la sua rasso­ miglianza con il mio proprio corpo vivente; sicché io riconosco esso pure in base a un appaiamento analogico anteriore a ogni giudizio, come soggetto del mondo. A fianco dell’esperienza originaria, in cui sono dato a me stesso, vi è dunque un’esperienza mediata del corpo dell’altro, che tuttavia nel momento in cui è percepito, pone in chiaro ugualmente l’irriducibile differenza fra il mio “essere qui” e il suo

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“essere là”. In questa esperienza immediata emergono dunque i mo­ tivi per cui attribuisco una soggettività a un corpo altrui. A questo punto viene a porsi il problema: se l’altro è soggetto, con il suo proprio universo monadico, non vi sarebbero in questo caso tanti mondi quante sono le esperienze costituenti? Come è possibile giun­ gere quindi, nell’ambito dell’intersoggettività, a un mondo comune? Anche qui il procedimento per la costituzione di un mondo intersog­ gettivo accomunato si presenta analogo a quello che conferisce, nella mia sfera egologica propria, l’unità di senso all’oggetto percepito per adombramenti. La mia esperienza passata si pone, rispetto al mio io presente, sì come trascendenza, che però è trascendenza immanente, mia: nello stesso tempo in cui io mi costituisco per me come identico, effettuo anche l’identificazione di quel medesimo mondo. Lo stesso avviene per la presenza dell’altro: con essa mi viene infatti data, da una parte, la conferma dell’esperienza estranea, ossia percepisco che l’altro dalla sua localizzazione percepisce me; ma, poiché non vi sono da una parte una mia natura in sé e dall’altra degli spettatori isolati, bensì in seno alla mia monade completa l’altro mi è appresentato dal suo corpo, io percepisco l’altro come il medesimo a me, come comune a me. Su questa base si fondano la coesistenza del mio io con l’io del­ l’altro e, mediante l’inserimento intenzionale dell’altro nella mia sfera primordiale, la comunicazione effettiva tra i due universi monadici; il che rende possibile l’instaurarsi di tutte le forme superiori di comu­ nità spazio-temporali e culturali. Questa oggettività non si risolve in una semplice giustapposizione di esperienze, poiché l’inserimento intenzionale fa emergere un noisoggetto, una nuova sfera di intenzionalità, quella cioè dell’intersoggettività trascendentale. Il mondo si costituisce come unico e oggettivo, in quanto inteso attraverso l’infinità delle esperienze costitutive concor­ danti, ossia in quanto non è — come se esistesse in se stesso indipen­ dentemente da esse — ciò riguardo al quale i soggetti comunicano; esso è infatti il correlato oggettivo della loro comunicazione. In un costante movimento di reciproca relazione, la costituzione intersog­ gettiva rinvia pertanto al mondo comune e questo alla costituzione dell’“altro”. Il linguaggio è di questo processo la rivelazione più espressiva. La fenomenologia trascendentale si presenta allora come compito da assolvere continuamente, poiché in ultima analisi essa si presenta come la progressiva costituzione del mondo per opera dell’intersoggettività trascendentale che, proprio sulla base di questo costituirsi del mondo, viene a sua volta costituendosi. Come il mondo, così pure

256 l’umanità si presenta perciò come idea infinita: costituita come og­ getto della nostra conoscenza e al contempo costituenda, in quanto in ogni soggetto trascendentale essa perviene alla coscienza di sé.

4. Il ruolo del « Leib » nella costituzione dell’intersoggettività L’interdipendenza tra costituzione del mondo e costituzione del­ l’umanità ha nel Leib il suo momento referenziale. Esso è infatti il punto di incontro e di reciproco inserimento (Umschlagspunkt)3 del­ l’interno e dell’esterno, del passivo e dell’attivo, dell’io e dell’altro. È dunque a partire dal Leib che si rende possibile la progressiva messa in chiaro delle implicazioni e delle connessioni contenute in questo Umschlagspunkt e, di conseguenza, il telos nascosto della storia. Il principio ultimo della costituzione dell’io, dell’altro e del mondo è pertanto un principio storico; in altri termini, la costituzione dell’io e dell’altro conduce alla teleologia universale e alla storicità trascen­ dentale, in cui il Leib si rivela organo dello spirito, del Geist. Nella relazione io-mondo, che il Leib rende possibile, la persona si presenta « Mitglied der sozialen Welt »4, della comunità sociale, delle culture e, di conseguenza, organo dello spirito oggettivo, delle forme di pro­ gressiva realizzazione del telos di quella storia, in cui si rivela l’unità dell’esistente. La realizzazione di questo telos avviene attraverso l’esplicitazione dell’esperienza che l’ego vivente, e quindi l’ego in quanto Leib, compie sul mondo-della-vita o Lebenswelt. In tutti i contenuti della relazione io-mondo vive e funge dunque sempre l’Ur-Ich e perciò, mentre da un lato la riflessione dell’io sul proprio fungere conduce al disvela­ mento della Lebenswelt come insieme dei mondi di datità e come articolazione delle modalità soggettive con le quali sono intenzionati ed esperiti gli oggetti nelle forme della loro correlazione universale, dal­ l’altro, siccome attraverso il Leib viene fondandosi l’intersoggettività, ne deriva che le scienze, in quanto oggettivazioni della Lebenswelt esperimentata da parte della soggettività, si rivelano intersoggettive, come pure intersoggettive si rivelano tutte le forme dello spirito, ossia le culture: esse sono prodotto delle varie comunità umane. 5. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophie, erstes Buch, Allgemeine Einführung in die reine Phänome­ nologie, a cura di W. Biemel, Den Haag, 1950, p. 45. 4. E. Husserl, Idee zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophie, zweites Buch, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, a cura di W. Biemel, Den Haag, 1952, p. 175.

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In quest’ottica, la stessa oggettività scientifica si dimostra perciò condizionata dal lavoro comune degli scienziati, in quanto viventi lo stesso mondo e in quanto persone di determinate società storiche e di culture ben definite. L’idea teleologica della storia si delinea allora come l’idea dell’accordo di tutte le ontologie e, quindi, di tutte le scienze fondate trascendentalmente5. Essa si presenta come il sistema ideale di tutte le essenze e delle loro regioni. Da un lato è quindi il sistema ideale che guida la Lebenswelt nella sua temporalità storica; dall’altro, è l’idea teleologica della ragione che attua la Selbstbesinnung dell’umanità e, così facendo, la costituisce come umanità razionale. Nella fenomenologia si sviluppa dunque una continua tensione che si dirige dal mondano verso la soggettività e l’intersoggettività. Si tratta sempre, come si vede, di un processo di soggettivizzazione, di autoconsapevolezza razionale che realizza il disoccultamento della Lebenswelt-, disoccultamento reso possibile dal fatto che l’ego è già da sempre Leib o corpo vivente. La storia, come storia della progressiva soggettivizzazione, ci per­ mette in tal modo di rivivere la procreazione della quale tutti, in una intersoggettività di concatenazioni genetiche e storiche, siamo nati. La rimemorazione storica ripresentifica il senso del presente passato nel presente attuale, nella lebendige Gegenwart, per il telos dell’avvenire, per l’ideale teleologico della storia, per l’orizzonte intenzionale della natura, dei corpi viventi, delle persone, delle civiltà, dell’umanità. La riscoperta della soggettività e dell'intersoggettività ci conduce, a sua volta, a relativizzare la Lebenswelt nei suoi modi di datità e, di con­ seguenza, a superare ogni oggettivismo.

5.

L’unità delle scienze e il rapporto con la « Lebenswelt »

Dal momento che la soggettività si riconosce nell’intersoggettività sulla base della relativizzazione dei diversi modi di datità della Leben­ swelt, l’esterno si presenta come una modalità dell’interno, il materiale­ fisico appare come una modalità della soggettività fungente preindivi­ duale, immanente in ogni Leib individuale. Le diverse monadi ven­ gono poste in grado di scoprire la natura materiale come una modalità comune anteriore alla propria individualità, alla propria personalità, costituita dall’unità Leib-Seele e dall’ambiente circostante; le varie 5. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenolo­ gischen Philosophie, drittes Buch, Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissenschaften, a cura di W. Biemel, Den Haag, 1952, p. 29.

258 monadi, nella propria intersoggettività, scoprono un modo comune di sperimentare, nella Lebenswelt, la natura materiale. In tal modo è resa possibile un’ontologia della natura materiale valida per tutte le monadi, per tutte le persone. L’oggettività della scienza, come Husserl spiega nelle Meditazioni cartesiane, si costituisce sul piano intersog­ gettivo e ha quindi a suo fondamento le modalità secondo le quali ogni monade esperisce la Lebenswelt. Scienza della natura e scienza dello spirito si danno allora come due articolazioni della stessa esperienza trascendentale, nella quale l’esterno e l’interno sono due modalità dell’esperire corrispondenti a due diversi modi di operare della soggettività. Le Geisteswissenschaften e le Naturwissenschaften si rivelano perciò unite nella stessa origine alla vita trascendentale nel fondamento intuitivo della Lebenswelt. Alla base dei due tipi di scienza c’è una rigorosità unica precategoriale e non si può quindi trasporre l’esattezza categoriale delle scienze della na­ tura sul piano delle scienze dello spirito. La fenomenologia si articola quindi come problema della Lebenswelt e della soggettività trascen­ dentale per una fondazione delle scienze della natura e delle scienze dello spirito che sia fondazione insieme precategoriale e trascenden­ tale, ossia basata sulla rigorosità dell’evidenza. Nella Krisis Husserl osserva: « Se io rifletto su di me, nella mia autocoscienza, mi ritrovo vivente nel mondo »6: cioè, anche la mia riflessione mi dice che vivo nel mondo e diventa essa stessa, cóme atto psichico, un modo di comportarsi nel mondo. Se il soggetto è nel mondo, ogni suo atto psichico è anche un suo modo di comportarsi nel mondo e rispetto agli altri. La vita, in quanto vita intersoggettiva basata sulla esperienza della Lebenswelt, implica in ogni passo e in ogni soggetto una totalità aperta, che continuamente si fa valere in ogni parte. La dialettica tra le parti è possibile, in quanto in ogni parte, sia pure nella limitazione sua e anche nel suo mancare, è implicito potenzialmente un significato del mondo e della storia, una totalizzazione sempre in corso della dialettica tra le parti, per cui ciascuna di esse è, anche nella negazione e nella chiusura dogmatica, per assurdo e indirettamente, un indice del senso logico del mondo e della storia. Tutti i soggetti animati sperimentano il mondo, vivono in un ambiente naturale e hanno con l’ambiente, con lo stesso ambiente mondano, dei rapporti. Gli uomini, servendosi di strumenti, lavorano la materia e diventano passivi7, per date necessità, come la materia, per poterla foggiare. Sicché il rapporto col mondo materiale 6. E. Husserl, Die Krisis, cit., p. 341. 7. H. Blumenberg, Lebenswelt und Technisierung, Torino, 1963.

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assume una forma speciale che deve essere al contempo di adatta­ mento e di dominio: io devo fare tutta una serie di operazioni per adattarmi alle cose materiali. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, va osservato, in que­ sto contesto, che il rapporto con la materialità del mondo non è mai un rapporto isolato di un individuo isolato: il suo lavoro si inserisce in un insieme complesso di rapporti intersoggettivi, genetici, psicologici, sociali. Inoltre, il reciproco inserimento tra l’interno e l’esterno, se da una parte fa emergere l’unità dell’uomo e del mondo, dall’altra mette in evidenza la struttura precategoriale del consumo, del bisogno e della soddisfazione, struttura che mi lega alla natura causale precategoriale e al suo determinismo. Che tutto questo condizioni l’uomo, non c’è dubbio. E proprio perché la natura dell’uomo ammette il bisogno, può accadere che un altro uomo o un gruppo di uomini approfitti del fatto che per vivere io mi consumo e devo soddisfare dei bisogni, e si serva quindi di me come uomo il più possibile degradato, per scopi che sono i suoi ma non i miei. Viene in tal modo a rompersi il rapporto di totalità tra soggettività e Lebenswelt come mondo accomunato: il mondo si riduce a sfera economica e, di conseguenza, anche l’uomo viene ridotto a merce, alienato quindi nel suo rapporto tra esterno e interno. È quello che Marx chiama « mercificazione ».

6.

Dalla relazione distorta con la « Lebenswelt », il rapporto intersog­ gettivo si trasforma in rapporto di classe

La mercificazione, quale forma alienata del rapporto interno-ester­ no, su cui sia il soggetto sia il mondo si costituiscono, è alienazione di tutto l’uomo e, di conseguenza, provoca da parte di tutto l’uomo una risposta che si esprime in comportamenti alienanti della sua prassi. Invece di avere come punto di riferimento il mondo vissuto, l’agire si regola infatti sul mondo interpretato, le cui categorie, connesse tra loro in una struttura logica coerente, pretendono di. restituire al­ l’uomo la natura secondo una verità scientifica e inviolabile. Perduta la relazione col mondo concreto, l’uomo finisce per organizzare il proprio comportamento mediante leggi astratte, le quali però sono di fatto costruzioni concettuali da lui elaborate sulla base del suo modo di vedere la realtà e, quindi, riflesso dei suoi interessi particolari o degli interessi del gruppo a cui egli appartiene. Viene così a formarsi una società regolata dagli interessi dei gruppi

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di individui in grado di far prevalere la loro visione del mondo. L’at­ teggiamento che guida il comportamento sociale diventa allora quello dello sfruttamento della natura, che ha come suo corollario la ten­ denza a mercificare gli altri uomini, affinché questo sfruttamento abbia ad essere il più possibile redditizio. All’intersoggettività subentra al­ lora la divisione degli individui in classi e, in tal modo, il rapporto col mondo e con gli uomini diventa conflittuale. Di questo atteggiamento mentale la ragione strumentale e il capitalismo costituiscono la con­ cretizzazione storica. Nel distruggere la soggettività e il mondo accomunato, il capita­ lismo fa suo il punto di vista dell’oggettivismo e della ragione strumen­ tale, nella quale peraltro esso affonda le sue radici e in cui, secondo Husserl, ha origine la crisi delle scienze europee. Di questa crisi il capitalismo sposa le strutture. Ignorando che il mondo umano è costituito da soggetti concreti e dalle relazioni tra i soggetti, relazioni che sono, a loro volta, operazioni dei soggetti, il capitalismo realizza infatti una società che si pone come astrazione di fronte all’individuo. Nell’occultare le operazioni umane, in quanto le considera solo come funzionali allo scopo (Weber), esso viene a occul­ tare il fatto che, attraverso lo stato, una classe di individui opera contro un’altra classe di individui. Allo stesso modo viene occultato il fatto che il capitale è prodotto del lavoro, e cioè delle operazioni di individui concreti, per cui il capitale diventa lo strumento con cui una classe di individui sottrae a un’altra classe il prodotto del suo lavoro. Parafrasando quanto Husserl dice al riguardo della scienza alie­ nata, si può pertanto ripetere con Marx, che « anzitutto bisogna evi­ tare di fissare la società come astrazione di fronte all’individuo »8. Il ritorno alla soggettività pone quindi anzitutto come esigenza la rifondazione su altre basi dello stato; basi che portino all’afferma­ zione dell'intersoggettività al posto delle classi. Nel ritorno al sog­ getto, ottenibile con l’opporre al feticismo mondano e alla società di fatto l’esigenza dell’intersoggettività, la fenomenologia restituisce al­ l’uomo le proprie operazioni e permette nuove operazioni che, invece di produrre la strumentalizzazione degli individui, ne promuove la cre­ scita. In ciò si attua il processo di liberazione dall’ideologia, che Husserl ha indicato nella Krisis come occultante, e si realizza il recupero della Lebenswelt. La liberazione dall’occultamento conduce, secondo Husserl, alla costituzione di una società razionale, ossia basata sulla soggettività e 8. K. Marx, Opere filosofiche, a cura di G. Dalla Volpe, Roma, 1950, p. 260.

261 sull’intersoggettività trascendentali; ma tutto questo si realizza, ci in­ segna Marx, quando la società giunge a essere una società senza classi. L’affermarsi dell’umanità procede dunque attraverso la realizza­ zione del disoccultamento. Gli assolutismi ideologici della razionalità strumentale, in quanto espressione dell’alienazione, vogliono invece il proprio segreto, che è il tenere segreta la teleologia della ragione in quanto umana perché soltanto attraverso l’occultamento, ottenuto con le proprie mistificazioni, riesce a costruire il proprio dominio. Che cosa nasconde dietro di sé 1’Ideenkleid proprio di ogni ragione strumentale? La totalità nei problemi particolari. Togliendo il parti­ colare dalla sua connessione con la realtà totale, il particolare viene ad essere privato della sua funzione e, di conseguenza, della propria intenzionalità. L’alienazione tecnicista della realtà, intrinseca a ogni oggettivismo e che ha la sua espressione sociologica nel capitalismo, significa caduta dell’intenzionalità, per cui l’uomo è ridotto a oggetto che non può avere presa di coscienza, non può riflettere e non può riconsiderare. L’uomo viene ridotto a oggetto-merce e quindi feticizzato come merce. Si rivela qui, con la feticizzazione della merce, la connessione tra la perdita dell’intenzionalità e della funzione delle scienze. Nel pro­ blema strutturale del rapporto tra le merci si può scoprire infatti il prototipo di tutte le forme di oggettività e delle corrispondenti forme di soggettività nella società borghese. L’oggettivazione della merce, e quindi l’occultamento, nello scambio, del fatto che la merce è lavoro umano, significa alienazione dell’uomo. L’oggettivazione è la ridu­ zione al quantitativo e l’occultamento del qualitativo. Per questo, il capitalismo si serve della scienza esatta, anzi, questa è la scienza che gli si addice, perché obliando la sua funzione vera, essa riduce i sog­ getti a oggetto e quindi a oggetti di calcoli. Le categorie scientifiche esatte, spostate dal loro uso legittimo, occultano il precategoriale. Ciò avviene in modo chiaro attraverso lo scambio delle merci e il for­ malismo quantitativo richiesto dallo scambio stesso. La forma mercan­ tile, infatti, se obiettivamente considerata, non è possibile come forma di eguaglianza della permutabilità di oggetti qualitativamente diffe­ renti, se non quando tali oggetti sono considerati come formalmente eguali. Soltanto in tale rapporto essi acquisiscono infatti la loro obiet­ tività di merci. Siccome il capitalismo ha bisogno non di una scienza personaliz­ zata, ma di una scienza neutrale, esso oblia che l’esattezza è una ope­ razione dell’uomo. Il lavoro cessa di essere un’operazione e una fatica del soggetto, per diventare lavoro astratto, eguale, comparabile, misu­ rabile con una precisione di tempo sempre crescente. A sua volta, la

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razionalizzazione così intesa esige la specializzazione e questa significa rottura della totalità; inoltre, l’oggetto separato implica l'oggettivazio­ ne del soggetto, del lavoratore. Pertanto, le qualità e le particolarità umane del lavoratore appaiono sempre di più come delle pure sor­ genti di errore in confronto del funzionamento anticipatamente calco­ lato e delle sue leggi astratte e parziali. Nel processo del lavoro, l’uomo non appare più come il portatore di tale processo, ma viene invece incorporato come una parte meccanizzata in un processo meccanico. La storia dell’uomo perde allora il suo senso, in quanto la con­ nessione tra soggettività e Lebenswelt viene sclerotizzata in una ideo­ logia. Di conseguenza, il tempo perde il suo carattere qualitativo, flui­ do, e si fissa in un continuum esattamente delimitabile e quantitativa­ mente misurabile; diventa cioè il tempo della fisica galileiana e new­ toniana. Esso rispecchia in sé il modello della produzione specializ­ zata e decomposta in forma scientificamente meccanica dell’oggetto del lavoro, per cui i soggetti devono essi stessi essere razionalmente decomposti in modo corrispondente e diventano oggettivazioni della loro forza di lavoro che si contrappone all’insieme della loro perso­ nalità, mentre d’altro canto la decomposizione meccanica rompe i le­ gami stessi che in una produzione organica legano i soggetti alla comunità. Questo oblìo significa appunto oblìo delle origini, delle radici uma­ ne, che è poi oblìo della soggettività e che per Husserl porta il nome di Crisi.

7.

Conclusione

L’istanza portata avanti dalla fenomenologia husserliana, di co­ minciare dal soggetto, vuole pertanto essere l’istanza indispensabile per il superamento della « crisi ». E questo significa che bisogna comin­ ciare da quel nucleo sia pur minimo di verità, che il soggetto porta con sé, perché solo in tal modo ci si radica nell’evidenza di ciò che viene realmente esperito in modo diretto, in prima persona. Certo, l’uomo può anche perdersi per strada: già Descartes riconosceva nella Quarta Meditazione, che « mi trovo esposto a un’infinità di man­ canze, per cui non devo stupirmi se mi sbaglio »; e osservava che « la fallibilità designa una caratteristica dell’essere dell’uomo ». Ma in­ sieme a questa, l’uomo ha anche un’altra caratteristica, quella di rico­ noscere la propria fallibilità a partire dall’intenzionalità che vive in lui e che mai s’identifica con la verità raggiunta.

263 La fenomenologia husserliana propugna appunto che l’uomo è auto­ rivelazione originaria a se stesso: pur sapendo di non poter mai co­ incidere con la verità, egli trova tuttavia in sé la verità e si muove verso di essa, dando senso al mondo che è in lui e alla storia che, nel recupero del senso del mondo, si viene costituendo. Ma tutto questo a una condizione: che nel processo non venga mai persa di vista la soggettività e che i risultati del processo stesso siano afferma­ zione della soggettività umana come soggettività che vive nella concre­ tezza della Lebenswelt. Gli individui cessano allora di essere consi­ derati sulla base di premesse ideologiche e incominciano invece a es­ serlo in riferimento alla realtà concreta da essi vissuta quotidiana­ mente in prima persona e ai bisogni che da questa nascono. Ogni indi­ viduo, pur mantenendo la sua peculiarità di singolo e venendo quindi riconosciuto nelle esigenze peculiari dei suoi bisogni, si riconosce per­ ciò anche, in forza del recupero della dimensione della Lebenswelt, indiviso dagli altri. Il riferimento alla Lebenswelt husserliana permette dunque di ar­ monizzare tra loro interessi particolari e interessi generali, senza sacri­ ficare gli uni a vantaggio degli altri. In alternativa a una società fon­ data sul conflitto di classe oppure sul progressivo affogare delle li­ bertà individuali nell’egualitarismo anonimo della ragione strumentale, diventa allora possibile incominciare a progettare una convivenza di uomini in grado di lavorare simultaneamente per il loro progresso indi­ viduale e sociale e di realizzare perciò un’armonica convivenza tra loro.

3. MONDO DELLA VITA E PATOLOGIE DEL MODERNO: ATTUALITÀ DELLE RIFLESSIONI HUSSERLIANE * di Franco Volpi

Benché l’impiego del termine “mondo della vita” (Lebensweit') o di determinazioni ad esso analoghe sia rintracciabile già in altri pensa­ tori *, spetta senza dubbio a Edmund Husserl il merito di avere intro­ dotto e trattato sistematicamente per la prima volta in filosofia tale concetto. E per quanto il suo pensiero venga oggi spesso considerato co­ me una prospettiva filosofica arcaica e superata, mi pare che le sue ri­ flessioni sul mondo della vita possano esibire ancora validi motivi d’at­ tualità e di interesse. Nelle considerazioni che farò, vorrei appunto mettere in evidenza questi motivi da una prospettiva determinata, e cioè rilevando il significato e l’importanza di tali riflessioni per una diagno­ si delle patologie moderne della ragione. A tal fine evidenzierò quelli che in tale prospettiva risultano essere i tratti salienti della determina­ zione husserliana del mondo della vita e considererò successivamente il rilievo che assumono, nell’orizzonte del problema indicato, alcuni si­ gnificativi momenti della recezione contemporanea di tale categoria.

* Gli scritti di Husserl vengono citati secondo l’edizione curata presso l’Ar­ chivio Husserl di Lovanio (Nijhoff, Den Haag, 1950 ss.) con la siglia Hua, indi­ cando il volume in numeri romani e le pagine in numeri arabi. 1. In particolare in Richard Avenarius, che nella sua ultima grande opera (Der menschliche Weltbegriff, 1891) distingue chiaramente dai concetti di mondo storicamente e culturalmente differenziati il concetto naturale di mondo come concetto originario, universale, precedente la distinzione di « interno » ed « ester­ no », predualistico, tema di « esperienza pura ». Husserl aveva letto quest’opera di Avenarius già a partire dal 1922 (cfr. K. Schuhmann, Husserl-Chronik. Denkund Lebensweg Edmund Husserls, Nijhoff, Den Haag, 1977, p. 70), ritornan­ dovi sopra più volte (come risulta dalle numerose annotazioni a mano nella copia personale di Husserl, conservata a Lovanio) e discutendola criticamente soprattutto nel corso del 1910-1911 sui Grundprobleme der Phänomenologie (parzialmente edito in Hua, XIII, Beilage XX; cfr. anche Beilage XXII), da Husserl stesso citato anche come « Vorlesungen über den natürlichen Welt­ begriff » (Hua, XIII, 245 nota). Determinazioni analoghe a quelle di «mondo vitale » e « mondo naturale » si trovano anche in Georg Simmel (Die Religion, 1906, 19122) o in Max Scheier, che parla di « relativ natürliche Weltanschauung » (Die Wissensformen und die Gesellschaft, 1929).

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Husserl ha fatto del mondo della vita il tema centrale della propria ricerca filosofica soprattutto nell’ultima fase della sua speculazione, nel contesto delle riflessioni su La crisi delle scienze europee e la fenome­ nologia trascendentale. In quest’opera la tematizzazione del mondo del­ la vita è essenzialmente connessa a una radicale presa di coscienza filo­ sofica della crisi moderna del sapere scientifico e delle patologie che essa ha ingenerato. Diagnosticando tale crisi come una perdita di senso che il sapere scientifico ha subito nei confronti della vita, come un’ero­ sione della sua Lebensbedeutsamkeit, Husserl crede al tempo stesso di poter indicare la via per superare questa crisi. Egli la indicherà, come vedremo, nel recupero della razionalità quale criterio determinante nel­ l’orientamento della vita umana, e tale recupero verrà intrapreso dalla fenomenologia attraverso la tematizzazione della connessione tra sape­ re scientifico e mondo della vita, cioè facendo vedere come le strutture della razionalità siano profondamente radicate nel mondo delle forme vitali che ne costituisce il fondamento di senso. L’incidenza di queste riflessioni husserliane, soprattutto dopo che la grandiosità del disegno di Husserl è venuta alla luce nel suo insieme, è stata assai larga. Essa sembra tuttavia essersi esaurita nel breve spa­ zio di quella stagione che fu favorevole alla moda fenomenologica e — almeno a prima vista — non sembra avere lasciato tracce consistenti del suo passaggio. Ebbene, a dispetto della rapidità con la quale la fenome­ nologia è scivolata in secondo piano, mi pare che la fruttuosità delle ri­ flessioni da essa svolte sul mondo della vita si lasci riconoscere in alcuni importanti momenti del pensiero con temporaneo. Due di essi mi sem­ brano particolarmente significativi: la sociologia fenomenologica di Al­ fred Schütz e la teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas. In entrambi questi due sviluppi, infatti, la categoria di mondo del­ la vita assume un ruolo portante sia nell’impianto teorico generale sia come tema d’indagine particolare. Si tratterà allora di vedere come per Schütz, sia pure in una comprensione profondamente modificata e tra­ sformata rispetto all’originaria definizione husserliana, il mondo della vita diventi la categoria sociologica centrale e il tema d’analisi princi­ pale della sua ricerca. Analogamente, bisognerà considerare come an­ che Habermas, un autore di provenienza tutt’altro che fenomenologica, pervenga — nel quadro di una teoria complessiva dell’agire comunica­ tivo — ad assegnare al mondo della vita il ruolo di categoria centrale, assieme a quella di “sistema”, al fine di comprendere la società nel suo insieme (cioè appunto nel suo duplice aspetto di mondo della vita e di sistema), di capirne i meccanismi riproduttivi e di analizzarne le pa­ tologie. Procederò allora nel seguente modo: ricostruirò innanzitutto molto

266 concisamente il contesto nel quale Husserl coglie la connessione tra la crisi del sapere scientifico moderno e l’oblio del fondamento di senso rappresentato dal mondo della vita (par. 1). Alla luce di questo richia­ mo esaminerò come l’utilizzazione sociologica della categoria di “mon­ do della vita” in Schütz e in Habermas venga attuata con particolare profitto, ma cercherò al tempo stesso di mostrare come essa comporti profonde modificazioni strutturali, e precisamente in Schütz una ricon­ duzione del mondo della vita al mondo sociale quotidiano e in Haber­ mas una sua assimilazione all’orizzonte culturale linguisticamente strut­ turato (par. 2). Infine, ritornando sulle riflessioni husserliane, ne evi­ denzierò e valuterò l’importanza e l’attualità in relazione all’idea del mantenimento di un livello di razionalità in grado di controbilanciare le patologie irrazionalistiche e nichilistiche del pensiero contempora­ neo (par. 3).

1. Crisi della ragione e mondo della vita nella prospettiva fenomenologico-trascendentale di Husserl

Com’è noto, il concetto di mondo della vita fa il suo ingresso nella speculazione di Husserl nel contesto dei tentativi, intrapresi già dai primi anni ’20, di aprire nuove vie d’accesso all’analisi del trascenden­ tale, dopo che la “via cartesiana” sino allora percorsa era apparsa nel­ la sua insufficienza e nella sua incompletezza. Una di queste nuove vie d’accesso alla fenomenologia trascendentale passa appunto attra­ verso l’indagine del mondo della vita predato. Il suo emergere si collo­ ca in un significativo mutamento di quadro, segnato sostanzialmente dalla trasformazione della concezione statica della fenomenologia in una concezione genetica e dall’abbandono dello schema “apprensione­ contenuto apprensionale” in precedenza impiegato2.

2. Per questo mutamento di quadro cfr. specialmente i testi raccolti e editi da M. Fleischer col titolo Analysen zur passiven Synthesis (Hua, XI), risalenti agli anni tra il 1918 e il 1926. Quanto allo schema «apprensione - contenuto apprensionale » — come M. Merleau-Ponty per primo ha fatto notare (Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945, tr. it. a cura di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il Saggiatore, Milano, 1965, p. 219, nota 9) — esso sembra essere stato messo in crisi ben presto; lo testimonierebbe una nota delle lezioni Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (Hua, X, 7, tr. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano, 1981, p. 46), nella quale Husserl osserva che non ogni costitu­ zione ha lo schema Auffassungsinhalt-Aufjassung. Cfr. R. Boehm, Vom Gesichts­ punkt der Phänomenologie. Husserl-Studien, Nijhoff (Phaenomenologica, 26), Den Haag, 1968, pp. 111-117, 225-227, secondo il quale il passo decisivo in dire-

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Questo mutamento di quadro matura dunque in Husserl con l’af­ fermarsi di una duplice convinzione. In primo luogo, la convinzione che la fenomenologia non debba essere soltanto una teoria della costituzio­ ne di oggettualità isolate3, ma piuttosto una teoria della costituzione di oggettualità in relazione ai loro rispettivi orizzonti e, in ultima istanza, in riferimento al mondo quale orizzonte universale. Questo allargamen­ to caratterizza per l’appunto il passaggio dalla comprensione statica alla comprensione genetica della fenomenologia. In secondo luogo, la convinzione che la teoria della costituzione sviluppata nel primo libro delle Idee sia ancora inficiata da un persistente residuo di cartesiani­ smo. Esso si anniderebbe nel mantenimento della distinzione tra la co­ scienza immanente e le sue datità reali (cioè omogenee rispetto al modo d’essere della coscienza), da un lato, e le datità trascendenti del mondo esterno (con un carattere d’essere diverso rispetto a quello della co­ scienza), dall’altro. Ma vediamo più da vicino in che cosa consista que­ sto mutamento di quadro. Nel primo libro delle Idee4, esaminando le operazioni coscienziali attraverso le quali vengono costituite oggettualità, Husserl sostiene che nella sua funzione noetica la coscienza coglie i dati iletici — di cui essa dispone come dati immanenti — come dati noematici, assegnando loro mediante operazioni di apprensione una forma oggettuale. Nell’analisi di queste funzioni il modello di riferimento tenuto presente da Husserl è, come si sa, quello fornito dalla percezione. In quest’ultima, secondo l’interpretazione proposta da Husserl, i dati iletici offerti dalle sensa­ zioni producono nella coscienza delle impressioni che in sé non sono ancora costituite come oggettualità, ossia non sono ancora riferite a un oggetto. Quest’operazione di riferimento e di costituzione è attuata so­ lo mediante le funzioni della noesi, attraverso le quali i dati iletici ven­ gono colti come dati noematici e costituiti oggettualmente. (L’esempio che Husserl porta è quello della mera percezione di un rosso che di­ venta la percezione del rosso come qualità di un oggetto). Ora, mentre i dati iletici e le funzioni noetiche sono immanenti alla coscienza, cioè zione di questa trasformazione fu compiuto da Husserl intorno al 1907-1908 (ivi, p. 227, nota 1). 3. Sul problema della costituzione cfr. R. Sokolowski, The Formation of Husserl’s Concept of Constitution, Nijhoff (Phaenomenologica, 18), Den Haag, 1964. 4. Ora in Hua, IH. L’edizione curata da W. Biemel, nella quale, sulla base delle carte manoscritte di Husserl, si era tentato di modificare il testo del 1913 tenendo conto dei successivi mutamenti, è stata ora rimpiazzata da una nuova edizione curata da K. Schuhmann in due tomi (1976), il primo dei quali ripro­ duce il testo originale, il secondo invece, separatamente, le note marginali e le varie elaborazioni manoscritte di Husserl.

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hanno lo stesso modo d’essere, la stessa costituzione ontologica della co­ scienza, l’oggettuale è invece trascendente rispetto ad essa, ha cioè uno status ontologico diverso. Ma questa distinzione tra ciò che è immanen­ te e ciò che è trascendente rispetto alla coscienza non può non apparire che come un residuo insoluto della vecchia dicotomia cartesiana tra realtà pensante e realtà estesa. Per evitare questa dicotomia in cui inevitabilmente ci si imbatte seguendo la “via cartesiana”, Husserl modifica la propria teoria dei dati sensibili in relazione alla nuova prospettiva genetica. Infatti, men­ tre in precedenza il riferimento al mondo era attuato solo a livello del­ la costituzione oggettuale, Husserl giunge ora alla convinzione che un riferimento al mondo sia presente già ai livelli più elementari dell’atti­ vità coscienziale e del vissuto. Ciò lo porta contemporaneamente ad ab­ bandonare l’idea tradizionale, di cui Kant è l’esponente per eccellenza e di cui egli stesso era stato sostenitore, secondo la quale da un lato, nell’ambito della sensibilità, vi sarebbe soltanto mera passività, mentre dall’altro, nell’ambito delle operazioni categoriali e intellettive supe­ riori, verrebbero svolte soltanto funzioni attive e costituenti. Rompen­ do con quest’idea tradizionale, Husserl giunge progressivamente a so­ stenere che già per spiegare le impressioni sensitive elementari è neces­ sario ammettere che sia presente in esse un momento di attività, e che dunque già a questo livello si costituisca una relazione col mondo. D’altra parte, a questa ipotesi ne corrisponde quasi specularmente un’altra, vale a dire l’ipotesi che anche le funzioni attive della costituzio­ ne non siano dal canto loro funzioni pure, ma siano sempre intrise di un momento di passività. Queste due ipotesi vengono approfondite e svi­ luppate da Husserl nella cosiddetta teoria della genesi passiva e nella teoria della genesi attiva, teorie che stanno alla base della trattazione husserliana del mondo della vita. Da un lato, la teoria della genesi passiva illustra come quello che tradizionalmente veniva considerato come il “momento passivo” del conoscere non sia meramente e interamente passivo, ma implichi già dei momenti di attività. Questa illustrazione viene condotta da Hus­ serl esaminando i tre momenti fondamentali della genesi passiva in al­ trettante direzioni di ricerca, e cioè: a) la teoria della costituzione tem­ porale originaria nel presente vivente, nella quale si mostra come la sin­ tesi temporale rappresenti la struttura basilare della soggettività; b) la teoria dell’associazione, che è la seconda funzione sintetica fondamen­ tale, nella quale momenti genetico-passivi e momenti motivazionali-intenzionali sono strettamente connessi; c) infine l’analisi dei processi ci­ nestetici, nella quale si mostra come anche la percezione più semplice

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sia legata a movimenti corporei (ad esempio la percezione tattile a mo­ vimenti della mano, la percezione visiva a spostamenti oculari ecc.)5. Dall’altro lato, la teoria della genesi attiva — genesi questa che presuppone quella precedente — illustra come le funzioni costituenti fondamentali che Husserl chiama Urstiftungen, e la cui natura è essen­ zialmente quella della spontaneità e della produttività, siano in realtà intrise di passività. Lasciando qui da parte la difficile questione rap­ presentata dal fatto che la coscienza operante le Urstiftungen non è la coscienza individuale, bensì la coscienza intersoggettivamente struttu­ rata di una comunità linguistico-culturale, si può dire in generale che venga operata una Urstiftung allorquando una tale comunità allarga l’orizzonte oggettuale predato (e presupposto come ovvio e familiare), ad esempio mediante l’invenzione di un nuovo strumento tecnico. La pecu­ liarità della Urstiftung, che apre un nuovo orizzonte, è quella di venire successivamente “abitualizzata” mediante un processo passivo di sedi­ mentazione, nel corso del quale la novità scoperta nell’atto originario della Urstiftung viene progressivamente dimenticata come tale, cioè in quanto novità, e riassorbita nell’orizzonte preesistente. Quest’ultimo, d’altra parte, viene modificato attraverso tale riassorbimento e di­ venta così un nuovo orizzonte. L’invenzione di un nuovo strumento tec­ nico, come, ad esempio, l’automobile, rappresenta una novità rispetto all’orizzonte oggettuale preesistente; attraverso l’abitualizzazione pro­ dotta dall’impiego di questo nuovo oggetto-strumento, il suo carattere di novità (rispetto al preesistente orizzonte oggettuale) viene eroso e se­ dimentato e, contemporaneamente, il vecchio orizzonte oggettuale — assorbendo in sé la novità dell’oggetto-strumento creato — si allarga in un nuovo orizzonte oggettuale. In altre parole; l’abitualizzazione e la sedimentazione passiva che seguono alla UrStiftung producono fami­ liarità con la nuova oggettualità aperta, assorbendola nell’orizzonte predato e modificando al tempo stesso quest’ultimo in ragione di quel­ l’assorbimento. La Urstiftung e la sua sedimentazione passiva modifi­ cano dunque l’orizzonte preesistente in un nuovo orizzonte, entro il

5. La teoria della costituzione temporale originaria è stata ricostruita da K. Held, Lebendige Gegenwart. Die Frage nach der Seinsweise des transzenden­ talen Ich bei Edmund Husserl, entwickelt am • Leitfaden der Zeitproblematik, Nijhoff (Phaenomenologica, 23), Den Haag, 1966 (dello stesso autore cfr. inoltre Phänomenologie der Zeit nach Husserl, « Perspektiven der Philosophie », 7, 1981, pp. 185-221). Sulla trattazione husserliana dell’associazione cfr. E. Holenstein, Phänomenologie der Assoziation. Zu Struktur und Funktion eines Grundprinzips der passiven Genesis bei E. Husserl, Nijhoff (Phaenomenologica, 40), Den Haag, 1972. L’analisi fenomenologica dei processi cinestetici è stata sviluppata soprat­ tutto da M. Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione (1945).

270 quale non è più necessario, anche se ognora possìbile, richiamare e ri­ produrre l’attività originaria della Urstiftung. È in questo quadro della teoria fenomenologica della genesi passiva e della genesi attiva, dunque nel quadro di una teoria genetica della co­ stituzione, che Husserl matura nell’ultima fase della sua speculazione quelle riflessioni su La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, nelle quali il concetto di mondo della vita funge da chiave di volta nella comprensione e nella spiegazione della crisi di sen­ so che travaglia gli sviluppi moderni della razionalità del sapere scien­ tifico e filosofico6. Gli sviluppi del moderno sistema del sapere scientifico sono infatti considerati da Husserl come il prodotto di una serie di Urstiftungen, tra le quali fu determinante quella rappresentata dalla maternatizzazio­ ne introdotta nella considerazione della natura ad opera di Galilei. Se­ condo Husserl, con questa Urstiftung fu ripreso in epoca moderna l’an­ tico ideale di una scienza rigorosa dell’essere nella sua totalità, ma al tempo stesso tale ideale fu realizzato unilateralmente secondo il model­ lo di sapere e l’ideale di obiettività scientifica affermatisi con la mate­ rnatizzazione delle scienze fisico-naturali7. Ora, come in ogni Urstiftung l’orizzonte oggettuale predato, dun­ que non tematizzato e presupposto come ovvio e familiare, viene supe­ rato e trasceso nella costituzione attiva di una nuova oggettualità, ana­ logamente nella UrStiftung operata dalla scienza moderna le obiettivazioni del sapere scientifico, cioè l’in-sé prodotto dalle idealizzazioni scientifiche, si costituiscono superando e trascendendo l’orizzonte sog­ gettivo dell’esperienza comune precedente. In quanto poi la Urstiftung della scienza moderna investe l’intera sfera dell’essere, essa produce l’idea di un mondo obicttivato, idealizzato, in sé, che in quanto mondo delle forme oggettive viene contrapposto come mondo vero al mondo delle forme meramente soggettive e prospettiche dell’esperienza co­ mune. L’ideale dell’oggettività scientifica che così si produce si con­ trappone pertanto alla soggettività del mondo dell’esperienza comune, cioè al mondo della vita8. 6. E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die tran­ szendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philo­ sophie, hg. von W. Biemel, Nijhoff, Den Haag, 1954 (= Hua, VI), tr. it. a cura di E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Introduzione alla filosofia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano, 1961. 7. All’analisi di questa dinamica storico-speculativa è dedicata, com’è noto, la seconda parte della Krisis. 8. Sinora il problema del mondo della vita è stato studiato soprattutto da L. Landgrebe e dalla sua scuola. Cfr. L. Landgrebe, Der Weg der Phänomeno­ logie, Mohn, Gütersloh, 1963 (tr. it. di G. Piacenti, Itinerari della fenomenologia,

271 Il mondo della vita (Lebenswelt) viene dunque inteso da Husserl innanzitutto, in antitesi alle oggettivazioni e alle idealizzazioni del sa­ pere scientifico, come quel mondo ovvio e familiare di forme prospet­ tiche e soggettive rispetto alle quali le obiettivazioni e idealizzazioni scientifiche rappresentano un’istanza di desoggettivizzazione e deprospettivizzazione, cioè un’istanza di universalizzazione. Poiché però mediante il processo della sedimentazione passiva ^universalizzazione operata nelle Urstiftungen della scienza moderna viene abitualizzata, andando così dimenticato l’originario fondamento di senso di essa, che è appunto il mondo della vita con le sue forme soggettive e prospetti­ che, l’ideale dell’oggettività — non più visto nell’originaria contrap­ posizione e connessione con tale mondo — diventa qualcosa di ovvio e di tacitamente presupposto in quello che è d’ora in poi l’atteggiamento dell’obiettivismo. In questo atteggiamento, che caratterizza e contrad­ distingue la modernità, si produce una cesura tra il mondo obiettivo in sé della scienza, che nella sua stessa essenza si costituisce come irrela­ to e indipendente rispetto alla vita soggettiva e prospettica dell’espe­ rienza comune, e l’orizzonte complessivo della vita soggettiva. Le cau­ se di questa cesura, che nella Crisi Husserl esamina sia da un punto di vista storico che da un punto di vista sistematico, sono fondamentalmen­ te originate da quella dinamica or ora descritta, in ragione della quale,

Marietti, Torino, 1974); Id., Phänomenologie und Geschichte, Mohn, Gütersloh, 1968 (tr. it. di M. von Stein a cura di G. Forni, Fenomenologìa e storia, Il Mu­ lino, Bologna, 1972); Id., Lebenswelt und Geschichtlichkeit des menschlichen Daseins, in B. Waidenfels, J.M. Broekman, A. Pazanin, Phänomenologie und Marxismus. 2: Praktische Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1977, pp. 13-57; Id., Faktizität und Individuation, Meiner, Hamburg, 1982; P. Janssen, Lebens­ welt und Geschichte, Nijhoff (Phaenomenologica, 35), Den Haag, 1970; U. Claesges, K. Held (Hg.), Perspektiven transzendentalphänomenologischer For­ schung, Nijhoff (Phaenomenologica, 49), Den Haag, 1972. Si vedano anche i con­ tributi di W. Biemel, R. Boehm, D. Carr, G. Funke, P. Janssen, I. Kern, K. Schuhmann, R. Sokolowki, E. Ströker, B. Waldenfels raccolti in E. Ströker (Hg.), Lebenswelt und Wissenschaft in der Philosophie Edmund Husserls, Klostermann, Frankfurt a.M., 1979. Originale, anche se discutibile, è la tesi sostenuta da M. Sommer nel saggio Husserls Göttinger Lebenswelt, premesso come introduzione a E. Husserl, Die Konstitution der geistigen Welt, Meiner, Hamburg, 1984. Som­ mer si sforza di mostrare la presenza della tematica del mondo della vita già nel periodo di Gottinga, assimilando la tematica del mondo spirituale trattata in quel periodo (Idee, II) a quella del mondo della vita del periodo di Friburgo (Krisis). Spostando all’indietro l’emergere della problematica del mondo della vita, Sommer intende affermare — contro la tesi sostenuta da Landgrebe — che tale emergenza non equivale a un « congedo dal cartesianismo » da parte di Husserl, bensì a una sua radicalizzazione. A Gottinga, infatti, la problematica del mondo della vita sarebbe radicata nel cartesianismo e ad esso complementare. Sempre sul concetto di mondo della vita vale la pena di ricordare anche il sag­ gio di H. Blumenberg, Lebenswelt und Technisierung unter Aspekten der Phä­ nomenologie, « Filosofia », 14, 1963, pp. 855-884.

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una volta operate e affermate le Urstiftungen che costituiscono le obiettivazioni della scienza moderna, ci si dimentica che esse sono state pos­ sibili sul fondamento del mondo della vita, che ne costituisce dunque la base di senso. Inoltre, si può anche aggiungere che questa separazio­ ne di scienza e mondo della vita, che per Husserl è causa del fatto che la scienza perde il suo significato per la vita, la sua Lebensbedeutsam­ keit, si fonda su una tendenza insita nell’atteggiamento naturale della vita stessa, la quale si rivolge direttamente agli oggetti e tende natural­ mente a dimenticare le funzioni costituenti proprie della soggettività. Al tempo stesso, tuttavia, la spaccatura tra mondo della vita e sa­ pere scientifico pone, con l’acuirsi della crisi di senso che essa produce, anche le condizioni preliminari per la riscoperta del mondo della vita come ambito originario del costituirsi di ogni oggettività, vale a dire come orizzonte universale nel quale ogni costituzione e obiettivazione di senso appare riferita a un soggetto costituente. La tematizzazione di questo riferimento al mondo della vita quale orizzonte universale — tematizzazione nella quale anche l’obiettivismo e l’ideale dell’universa­ lità scientifica si rivelano come un punto di vista particolare e soggetti­ vo (riconducibile a una Urstiftung) — è la via che sola, per Husserl, può condurre fuori dalla crisi di senso della modernità, cioè la via che sola permette di ristabilire una conoscenza dell’essere nella sua totalità, veramente libera da pregiudizi. Si può allora concludere, sulla base di questa concisa ricostruzione dell’argomentazione husserliana, che l’uscita dalla crisi moderna della razionalità scientifica attraverso la tematizzazione del mondo della vita come suo fondamento di senso si configura per Husserl come il recu­ pero della motivazione originaria della filosofia e dell’episteme greche; egli vede cioè la possibilità di superare l’unilateralità dello sviluppo moderno della ragione nel riattingere all’ideale di un sapere veramente universale, ossia nel riconquistare quel “punto di vista” ehe non è a sua volta un punto di vista particolare, ma è liberazione da ogni presupposto e pregiudizio particolare, e sulla base del quale soltanto è possibile orientare la vita — come conoscere e come agire — in maniera rigoro­ samente razionale. Questo “punto di vista” viene espresso per la prima volta come esigenza appunto nell’ideale greco della filosofia e dell’epi­ steme. Secondo la diagnosi husserliana, la crisi di senso della modernità è dovuta al tradimento e allo smarrimento di questo ideale e non è, co­ me sosterrà invece Heidegger, il frutto dell’inveramento e del compi­ mento di esso nell’essenza della tecnica moderna.

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2. La fortuna sociologica del concetto di « mondo della vita » Il concetto di mondo della vitä — introdotto e definito da Husserl nel modo che è stato ricordato — ha goduto in seno al movimento feno­ menologico di una recezione ampia e diffusa, specialmente in seguito alla pubblicazione dei testi sulla Crisi (1954). Tuttavia, più che in am­ bito strettamente filosofico — dove in realtà manca a tutt’oggi una ri­ presa sistematica delle analisi husserliane del mondo della vita — le riflessioni husserliane hanno avuto una fortuna notevole soprattutto in ambito sociologico. Due figure, in particolare, emergono nella storia di questa fortuna: la prima è quella di Alfred Schütz, che attraverso un connubio tra metodo d’indagine fenomenologico e ricerca sociologica, destinato ad avere un considerevole successo nel pensiero sociologico americano, ha mostrato con la propria opera la fruttuosità del concetto di mondo della vita; l’altra figura è quella di Jürgen Habermas, il qua­ le, mentre nella Logica delle scienze sociali (1967) aveva criticato l’ap­ proccio fenomenologico in sociologia e il corrispondente impiego del concetto di mondo della vita, più recentemente, nella sua opera mag­ giore Teoria dell’agire comunicativo (1981), ha riabilitato la categoria di mondo della vita quale chiave di volta nella comprensione della società. Sia dall’opera di Schütz che da quella di Habermas ci viene dunque un richiamo a riconsiderare il concetto di mondo della vita. Il connu­ bio di indagine sociologica e riflessione filosofica da entrambi praticato ridà infatti credito e attualità a tale concetto, soprattutto al fine del­ l’analisi della società e della comprensione delle patologie che in epoca moderna ne caratterizzano la riproduzione e lo sviluppo. Si tratta allora di considerare l’utilizzazione sociologica di tale ca­ tegoria — nata in seno alla filosofia, ma successivamente dimenticata dagli sviluppi più recenti di essa — sia per misurarne l’efficacia e la portata effettive, sia per richiamare l’attenzione sui problemi filosofici che l’impiego di tale categoria presenta. Come termine di riferimento quest’ultimo richiamo non potrà avere che le riflessioni di Husserl, il quale per primo ha colto e tematizzato la fondamentalità del mondo della vita come categoria filosofica.

2.1. La prospettiva di Alfred Schütz Si è accennato che nella prospettiva aperta da Schütz l’analisi del mondo della vita cessa di essere un problema eminentemente filosofico

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per diventare il tema centrale di una considerazione sociologica. Que­ sto accenno necessita ora di una precisazione, al fine di appurare come Schütz determini il rapporto tra sociologia e filosofia e come, nel qua­ dro teorico che ne risulta, egli tematizzi poi il mondo della vita. Si sa che Schütz orientò ben presto i propri interessi scientifici ver­ so la sociologia e specialmente verso l’opera di Max Weber, probabil­ mente per l’influenza di Ludwig von Mises e di Hans Kelsen, che era­ no stati suoi insegnanti universitari ’. Con una risoluta semplificazio­ ne, che deve forzatamente lasciare in disparte la complessità tematica del confronto di Schütz con Weber, si può dire che della sociologia weberiana Schütz affronti, prima e più di ogni altro, un problema, vale a dire il problema della comprensione dell’agire sociale dotato di sen­ so e della costituzione di una teoria sociologica ad esso adeguata. A questo scopo egli segue innanzitutto la via di una chiarificazione filoso­ fica dei concetti fondamentali impiegati e degli assunti capitali presup­ posti dalla sociologia weberiana. Soprattutto due sono, lungo questa via, i punti di riferimento filosofici. Inizialmente il pensiero di Berg­ son, al quale Schütz si dedica probabilmente su suggerimento dell’ami­ co Eric Voegelin e dal quale egli trae alcune categorie portanti (prima fra tutte quella di “durata”) per spiegare l’agire sociale dotato di senso; nei testi ora pubblicati col titolo Theorie der Lebensformen w, com­ prendenti appunto manoscritti del cosiddetto “periodo bergsoniano” (1924-1928), si possono leggere i risultati di questo primo approccio. Successivamente, probabilmente in virtù della mediazione dell’amico Felix Kaufmann, Schütz si interessa sempre più intensamente all’opera di Husserl e, pur mantendo il riferimento a Bergson, si appropria deci­ samente della metodologia e del quadro fondativo della fenomenologia husserliana. Su questa via, imboccata alla fine degli anni ’20, procederà sostanzialmente tutta la successiva riflessione di Schütz, sia pure fa­ cendovi confluire — in particolare dopo l’emigrazione in America — 9. Per informazioni sulla biografia intellettuale di Schütz si veda il testo edito a cura di L. Embree: A. Schütz, Husserl and his Influence on me, « The Annals of Phenomenological Sociology », 2, 1977, pp. 41-44. Studi sulla biografia intellettuale di Schütz sono stati condotti da H.R. Wagner, Agreement in Di­ scord: Alfred Schütz and Eric Voegelin, in The Philosophy of Order. Essay on History, Consciousness and Politics, ed. by P.J. Opitz and G. Sebba, Klett-Cotta, Stuttgart, 1981, pp. 74-90 (cfr. anche ivi, pp. 431-465, l’appendice documentaria con il carteggio Schütz-Voegelin); Id., The Limitations of Phenomenology: Al­ fred Schütz's Criticai Dialogue with Edmund Husserl, «Husserl Studies », 1, 1984, pp. 179-199. Di Wagner è pure annunciato come imminente Alfred Schütz. An Intellectual Biography (The University of Chicago Press). 10. A. Schütz, Theorie der Lebensformen. (Frühe Manuskripte aus der Bergson-Periode), hg. und eingeleitet von I. Srubar, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1981.

275 anche altri spunti teorici di provenienze diverse. I testi nei quali que­ sto lavoro si condensa sono Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt n, i Collected Papers l2, le opere postume Das Problem der Relevanz 13 e Strukturen der LebensweltI4. Prendendo appunto come tema e come problema la costituzione weberiana della sociologia come scienza comprendente, sino dalla sua prima opera Schütz introduce in questa disciplina l’esigenza filosofica di una « fondazione dei risultati su principi filosofici garantiti » e la « delucidazione dei significati impliciti nei concetti primitivi di tale disciplina »'5. Rispetto a Weber, nel quale quest’esigenza sembrava ri­ manere in secondo piano, Schütz si impegna esplicitamente in un chia­ rimento filosofico dei concetti sociologici fondamentali, in una deter­ minazione preliminare della metodologia d’approccio all’oggetto socio­ logico (l’agire sociale dotato di senso) e, infine, in una tematizzazione degli assunti e degli orizzonti accettati come determinanti. Rispetto a Husserl, concentrato in una riflessione rigorosamente filosofico-trascendentale, Schütz si impegna in un’applicazione disciplinare concre­ ta e specifica dell’analisi fenomenologica, e precisamente in un campo, quello dell’agire e della prassi sociale, che era rimasto sostanzialmente al di fuori dell’interesse e dell’orizzonte husserliano. Risultato di questo connubio di Weber e Husserl è stata la fonda­ zione di una sociologia fenomenologica, che ha avuto una notevole in­ fluenza sul pensiero sociologico americano *6. Ora, nell’impossibilità di addentrarci qui in un’analisi ancorché sommaria dell’opera di Schütz, 11. A. Schütz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Springer, Wien, 1932 (tr. it. di F. Bassani a cura di E. Melandri, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna, 1974). 12. A. Schütz, Collected Papers, 3 voll., Nijhoff (Phaenomenologica, 11-1522), The Hague, 1962-1964-1966 (tr. it. parziale a cura di A. Izzo, Saggi socio­ logici, Utet, Torino, 1979). È prevista la pubblicazione di un quarto volume. 13. A. Schütz, Das Problem der Relevanz, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1971 (tr. it. a cura di G. Riconda, Il problema della rilevanza, Rosenberg & Sellier, Torino, 1975; la tr. it. è condotta sull’edizione americana). 14. A. Schütz, Th. Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, 2 voll., Suhr­ kamp, Frankfurt a.M., 1979-1984. Oltre alle opere qui citate, è da tenere pre­ sente anche il carteggio di Schütz. Quello con Parsons è stato pubblicato a cura di W.M. Sprondel col titolo Zur Theorie des sozialen Handelns. Ein Briefwech­ sel, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1977. Quello con A. Gurwitsch è in prepara­ zione a cura di R. Grathoff (Fink, München). 15. A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, p. 12. 16. Cfr. H.R. Wagner, The Influence of German Phenomenology upon Ame­ rican Sociology, « The Annals of Phenomenological Sociology », 1, 1976, pp. 1-29; W.M. Sprondel, Erzwungene Diffusion. Die «University in Exile» und Aspekte ihrer Wirkung, in W. Lepenies (Hg.), Geschichte der Soziologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1981, voi. 4, pp. 176-201. Inoltre: M. Natanson (ed.), Phenome­ nology and Social Reality: Essays in Memory of Alfred Schütz, Nijhoff, Den Haag, 1970.

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si dovranno almeno elencare i contributi fondamentali che tale svilup­ po sociologico del pensiero husserliano ha fornito. Essi sono almeno tre. a. Una teoria dell’agire sociale dotato di senso, nella quale Schütz offre una delucidazione e una fondazione fenomenologica dei concetti sociologici fondamentali, primo fra tutti quello di agire e di senso dell’agire. Giusto in merito alla chiarificazione di questo concetto, emer­ gono le peculiarità dell’approccio sociologico schütziano. Facendo pro­ prio l’orizzonte fenomenologico, Schütz assume in effetti come determi­ nante la prospettiva del soggetto agente e, dunque, l’analisi della sua struttura, che, sempre sulla scorta di Husserl, viene determinata essen­ zialmente come intenzionalità e come temporalità. Di qui viene afferma­ ta la necessità di una serie di precisazioni: bisognerà distinguere, ad esempio, l’agire dal comportamento; inoltre si dovrà tenere separato l’a­ gire inteso come attività dell’agire inteso come prodotto di attività; il sen­ so inteso come attribuzione di senso dal senso inteso come senso oggettivato e istituzionalizzato; analogamente, si renderanno necessarie nume­ rose altre distinzioni che in Weber non vengono messe a fuoco. Esse ven­ gono delucidate ricorrendo appunto al metodo d’analisi fenomenologico. Per spiegare ad esempio la differenza tra l’agire come attività e l’agire come prodotto dell’attività, Schütz utilizza il concetto fenomenologico d’intenzionalità (in virtù del quale si distingue il soggetto intenzionante da ciò che è intenzionato) e quello di temporalità (alla luce del quale, conformemente alla teoria husserliana, si distingue tra la ritenzione e la riproduzione). L’analisi fenomenologica della struttura temporale del soggetto agente è poi chiamata in causa anche per differenziare i motivi finali dai motivi causali, ^affinché dal poiché dell’agire, facendo notare che i primi sono legati alla modalità temporale del futuro, i secondi a quella del passato. Mediante un analogo ricorso a teorie fenomenologi­ che (ad esempio alla teoria delle modificazioni attenzionali) Schütz spie­ ga infine molte altre determinazioni sociologiche, come quella di senso e di attribuzione di senso, quella di relazione, di rilevanza, di mondo so­ ciale ecc.17. b. Il secondo contributo fondamentale è una teoria dell’intersogget­ tività, nella quale Schütz si fa carico dei difficili problemi e delle apo­ rie che l’esperienza dell’altro e la costituzione del sociale pongono a 17. Sulla fondazione fenomenologica della teoria dell’agire sociale in Schütz cfr. H.R. Wagner, Alfred Schütz on Phenomenology and Social Relations, The University of Chicago Press, Chicago, 1970; R. Williame, Les fondements phénoménologiques de la sociologie compréhensive: Alfred Schütz et Max Weber, Nijhoff (Phaenomenologica, 58), La Haye, 1973.

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partire da una prospettiva di tipo monologico come quella coscienzialetrascendentale di Husserl. Per la proficuità mostrata nella fondazione della teoria dell’agire sociale dotato di senso, Schütz si mantiene fedele all’approccio fenomenologico anche nell’affrontare il problema dell’intersoggettività. Tuttavia, rispetto a Husserl, egli è costretto — come ve­ dremo — a una decisiva correzione d’assetto, introdotta per aggirare le difficoltà che il coscienzialismo trascendentale husserliano presentava. (Una riprova della consapevolezza da parte di Schütz per problemi della teoria husserliana dell’intersoggettività può forse essere vista nel fatto che Schütz, a differenza di Husserl, mostra un’attenzione particolare per il linguaggio quale ambito privilegiato del costituirsi dell’intersoggettivi­ tà). Il risultato di questa correzione d’assetto è che alla problematica hus­ serliana della costituzione trascendentale dell’intersoggettività si sosti­ tuisce in Schütz l’analisi degli aspetti intersoggettivi del mondo della vita, analisi che culmina nella tesi generale dell’interscambiabilità reci­ proca delle prospettive, dell’idealizzazione di tale interscambiabilità e della congruenza dei sistemi di rilevanza ’8. c. Il terzo contributo fondamentale è l’analisi del mondo della vita, per la quale viene assunta come determinante la prospettiva del singolo agente entro tale mondo. Da questa prospettiva, guardando cioè essen­ zialmente al rapporto tra il singolo agente e le realtà di senso alla cui costituzione esso partecipa, vengono esaminati i processi di struttura­ zione del mondo della vita (tipificazioni, sistemi di rilevanza ecc.) e quelli della sua riproduzione. L’attenzione per il concetto di mondo, già presente in Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (dove si distin­ guono e si tematizzano i concetti di Umwelt, Mitwelt e Vorwelt in ma­ niera ancora indipendente rispetto alla trattazione husserliana del con­ cetto di Lebenswelt, che è posteriore), diviene sempre più centrale nella riflessione di Schütz, come mostrano i Collected Papers e soprat­ tutto l’opera rimasta incompiuta Strukturen der Lebenswelt. Enumerati così i contributi fondamentali portati dal pensiero schütziano, si tratta ora di considerare alcuni problemi che l’applicazione del metodo fenomenologico in sociologia ingenera. In relazione ad es­ si, infatti, Schütz opera una serie di modificazioni e di trasformazioni18 18. Sul problema dell’intersoggettività in Schütz cfr. gli studi raccolti in R. Grathoff, B. Waidenfels (Hg.), Sozialität und Intersubjektivität. Phänomenolo­ gische Perspektiven der Sozialwissenschalten im Umkreis von Aron Gurwitsch und Alfred Schütz, Fink, München, 1983, soprattutto quelli di B. Waidenfels, I. Srubar, R. Grathoff, H.R. Wagner, R.J. de Folter e B. Luckmann. Sul pro­ blema della rilevanza: R.R. Cox, Schütz’s Theory of Relevance: A Phenomenological Critique, Nijhoff (Phaenomenologica, 77), The Hague, 1978.

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che, da un punto di vista filosofico, finiscono per sbilanciare l’assetto metodologico e tematico della sua adesione alla fenomenologia. Quest’osservazione riguarda innanzitutto la trasformazione che il concetto di mondo della vita subisce nella prospettiva di Schütz. Esso non è più come in Husserl il concetto antitetico rispetto alle obiettivazioni del sapere scientifico, ma viene concretamente identificato col mondo sociale quotidiano colto nella disposizione naturale dell’espe­ rienza comune. Ora, se questa identificazione spiana la via — in Hus­ serl ancora difficoltosa — verso una “scienza del mondo della vita”, cioè verso l’analisi e la descrizione delle strutture del mondo della vita, essa tuttavia priva il concetto di mondo della vita di quelle funzioni fi­ losofiche chiave che esso aveva in Husserl. Per quest’ultimo, infatti, s’è visto che il mondo della vita non è soltanto il mondo della disposizio­ ne naturale assunto come tema di ricerca, ma anche e soprattutto il con­ cetto antitetico alle obiettivazioni delle scienze e il fondamento di senso da esse dimenticato. È in quanto tale che esso funge da chiave di volta nella diagnosi delle patologie moderne della ragione; e in quanto tale esso viene rivendicato, come universo di intuibilità soggettivo-relativa pura, quale tema di una scienza filosofica veramente universale in gra­ do di superare l’obiettivismo che quelle patologie ha ingenerato. Per Schütz, invece, non si tratta più di un’ontologia naturale del mondo del­ la vita, né della sua costituzione nella genesi passiva come orizzonte universale di intuibilità e tematizzabilità pura, né del suo formarsi attra­ verso la genesi attiva delle Urstiftungen, bensì di un’ontologia sociale del mondo della vita quotidiano. Così, pur mantenendo da un punto di vista generale l’atteggiamento fenomenologico, Schütz non intende met­ tere in questione l’ovvietà e la familiarità delle strutture del mondo del­ la vita, ma intende invece descriverle nel loro formarsi, nel loro svilup­ parsi e nel loro riprodursi. Nel fare questo il suo interesse è rivolto so­ prattutto a cogliere i due poli determinanti del mondo della vita, vale a dire l’agente individuale e l’orizzonte, il contesto del suo agire, mi­ rando a comprendere le connessioni interne al mondo della vita nel loro duplice senso di connessioni causali e connessioni di senso. In questo quadro trasformato subisce un significativo mutamento — come s’è detto — anche la considerazione del problema dell’intersoggettività. Nella prospettiva di Schütz l’intersoggettività non è più un problema della costituzione trascendentale, ma diventa un dato ov­ vio e familiare interno al mondo della vita, che si tratta di cogliere e di descrivere. Anche qui Schütz non è interessato a una messa in questio­ ne fenomenologica dell’atteggiamento naturale che viene praticato come ovvio entro il mondo della vita, bensì a una sua descrizione sociologica. Quanto nella disposizione trascendentale husserliana costituiva un pro-

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blema, viene aggirato con l’assumerlo nella sua ovvietà. Relativamente all’intersoggettività, infatti, l’analisi delle strutture del mondo della vita deve infatti presupporre, come Schütz (-Luckmann) dichiara: a. 1’esistenza corporea di altri uomini; b. il fatto che questi corpi siano dotati di una coscienza sostanzialmente simile alla mia; c. il fatto che nel mio mondo circostante e in quello degli altri le cose esterne siano per noi le stesse e abbiano fondamentalmente lo stesso significato; d. il fatto che io posso entrare in rapporto e in influenza reciproca con i miei simili; e. il fatto che io posso comunicare con essi; f. il fatto che è storicamente predata una struttura culturale e sociale articolata come quadro di riferimento per me e per i miei simili, e precisamente in un modo altrettanto improblematico quanto quello del « mondo naturale »; g. il fatto che, dunque, la situazione in cui mi trovo è creata da me sol­ tanto in minima parte ,9.

L’ambiguità filosofica nella trattazione schütziana dell’intersoggettività potrebbe essere allora individuata nel modo seguente: Schütz si rende conto che la costituzione trascendentale dell’intersoggettività in Husserl rappresenta un problema insoluto; ma anziché cercare una so­ luzione diversa, rinunciando al metodo dell’intuizione fenomenologicocoscienziale, egli dichiara tout court di presupporre l’intersoggettività come connessione strutturale ovvia e predata del mondo della vita. Scartato così il problema, egli può mantenere per la descrizione delle determinazioni intersoggettive del mondo della vita la prospettiva de­ gli stati coscienziali vissuti del singolo agente, in conformità con la sua adesione di principio alla fenomenologia husserliana. Inoltre, in ragione dell’assunzione di principio e del mantenimento da parte di Schütz dell’orizzonte fenomenologico-coscienziale husser­ liano, anche la sua analisi degli altri momenti e delle altre strutture del mondo della vita avrà come termine fondamentale di riferimento il pun­ to di vista del singolo soggetto agente. Ciò concerne specialmente l’esa­ me schütziano dell’agire sociale. Se rispetto a Weber la prospettiva fe­ nomenologica aveva permesso a Schütz di introdurre in merito all'agi­ re sociale le precisazioni che sono state ricordate, essa lo porta ora, fa­ cendogli assumere la prospettiva dei vissuti coscienziali del singolo agente, a trascurare quegli aspetti “oggettivi” e istituzionali dell’agire 19. Schütz, Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, voi. 1, p. 27.

280 sociale già considerati da Weber e messi in evidenza dalla lettura funzionalistico-sistemica del pensiero di quest’ultimo ad opera di Parsons. L’interpretazione schiitziana di Weber, che mira a comprendere l’agire sociale in termini di spontaneità e di libertà, si contrappone così diametralmente all’interpretazione funzionalistica di Parsons, che lo comprende invece in riferimento all’orizzonte “oggettivo” del sistema20. In questa contrapposizione antinomica si profila nitidamente il senso generale dell’adesione di Schütz alla fenomenologia e della sua utilizza­ zione sociologica della categoria di mondo della vita. Al tempo stesso, tuttavia, ne vengono messi in evidenza anche gli aspetti problematici e le insufficienze.

2.2. La prospettiva di Jürgen Habermas

Considerando appunto le difficoltà che rimangono insolute nella prospettiva fenomenologico-coscienziale di Schütz, nella Logica delle scienze sociali (1967) Habermas aveva criticato il concetto fenomenolo­ gico di mondo della vita, quanto meno nel suo impiego sociologico21. Più recentemente, soprattutto per controbattere alla comprensione si­ stemica della società, Habermas ha invece rivalutato la categoria di mondo della vita, sia pure ricomprendendola e riformulandola in mo­ do profondamente trasformato rispetto a Husserl e a Schütz. I tratti salienti di questa ricomprensione, enunciata soprattutto nella Teoria dell’agire comunicativo (1981)22 sono almeno quattro: a) il mondo della vita viene introdotto come determinazione pratica, e pre­ cisamente come concetto complementare rispetto al concetto di agire situazionalmente determinato; b) al mondo della vita, che funge così da contesto dell’interazione tra agenti, viene assegnata una duplice funzione, e cioè la funzione di orizzonte e la funzione di serbatoio; c) 20. Cfr. Schütz, Parsons, Zur Theorie des sozialen Handelns. Ein Brief­ wechsel. 21. J. Habermas, Zur Logik der Sozialwissenschaften, 5. erweiterte Auflage, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1982, pp. 207-240 (dove bersaglio della critica haber­ masiana è soprattutto l’utilizzazione sociologica del concetto di mondo della vita in Schütz e nella sociologia che a quest’ultimo si ispira). Cfr. Inoltre il confronto critico diretto di Habermas con i testi husserliani nelle Vorlesungen zu einer sprachtheoretischen Grundlegung der Soziologie (1970-71), in J. Habermas, Vor­ studien und Ergänzungen zur Theorie des kommunikativen Handelns, Suhr­ kamp, Frankfurt a.M., 1983, pp. 11-126, sp. 35-59. Sulla critica di Habermas a Husserl cfr. il già menzionato studio di Landgrebe, Lebenswelt und Geschicht­ lichkeit des menschlichen Daseins. 22. J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, 2 voll., Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1981 (= TKH).

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il mondo della vita viene concepito come linguisticamente strutturato e come organizzato originariamente secondo le regole della razionalità comunicativa (distinta da quella strategica e da quella tecnico-strumen­ tale); d) il mondo della vita rappresenta il fondamento di senso del si­ stema ed è assieme a quella di sistema la categoria fondamentale per la comprensione della società. (Questa connessione e questa complemen­ tarità di mondo della vita e sistema sono determinanti per la critica alla teoria della reificazione, per il distacco di Habermas dalla critica della ragione strumentale e per la ricomprensione delle deformazioni patolo­ giche del mondo della vita nel quadro di una teoria della modernità). Ma vediamo ora, innanzitutto, come l’introduzione del concetto di mondo della vita trasformi e innovi il precedente orizzonte della teoria habermasiana dell’agire. Nella teoria della competenza comunicativa, analizzando gli atti linguistici standard, Habermas aveva messo in evi­ denza come nell’uso del linguaggio si costituisca una triplice relazione col mondo, e precisamente una relazione col mondo esterno degli og­ getti, una relazione col mondo sociale e una relazione col mondo sogget­ tivo del parlante. Inoltre, egli aveva mostrato che in ciascuna di queste relazioni viene fatta valere un’istanza specifica, e cioè un’istanza di ve­ rità in relazioni a enunciati sul mondo degli oggetti, un’istanza di giu­ stezza in relazioni a norme del mondo sociale e infine un’istanza di ve­ ridicità in relazione all’espressione di vissuti soggettivi. Queste tre istanze di validità ne presuppongono e ne implicano poi una quarta, cioè l’istanza della comprensibilità degli enunciati secondo le regole della correttezza grammaticale. La soddisfazione di queste istanze (e di alcune altre condizioni che qui non è possibile esaminare) definisce per Habermas quella situazione discorsiva ideale che costituisce la rap­ presentazione controfattuale (cioè appunto ideale) di una situazione di­ scorsiva non distorta. Nelle situazioni discorsive reali essa deve essere necessariamente presupposta come condizione dell’argomentare sensa­ to; essa rappresenta per Habermas il telos immanente del linguaggio e ridefinisce in termini pragmatico-formali i contenuti sostanziali delle idee europee di libertà, di giustizia e di uguaglianza33. Ebbene, nella Teoria dell’agire comunicativo questa teoria della competenza comunicativa “pura” viene deidealizzata, introducendo il concetto di mondo della vita come orizzonte situazionale entro il qua­ le è attuato quell’agire di cui l’analisi pragmatica del linguaggio aveva evidenziato la struttura e le funzioni pure. Rispetto alla situazione di­ scorsiva ideale, prospettata nella teoria della competenza comunicativa, 23. Cfr. soprattutto Wahrheitstheorien, ora in J. Habermas, Vorstudien und Ergänzungen, pp. 127-183.

282 il mondo della vita rappresenta in quanto orizzonte dell’agire l’istanza deidealizzante contrapposta. Esso è quel « correlato dei processi d’in­ tesa » che controbilancia il riferimento normativo e idealizzante, è « il contrappeso conservatore contro il rischio del dissenso »24. È lo sfon­ do opaco in cui pescano e sono ancorati i processi dell’agire. Sennon­ ché il mondo della vita non sta all’azione soltanto come contesto a te­ sto, come orizzonte a situazione, passività ad attività, opacità a focalizzazione; vi è tra i due momenti anche un rapporto nella direzione oppo­ sta, vi è cioè un’incidenza dell’agire sul mondo della vita, nel senso che il mondo della vita si riproduce attraverso l’agire e funge da serbatoio nel quale è accumulato il risultato dell’agire di generazioni. Così, da un lato, le strutture del mondo della vita sono condizioni quasi-trascendentali — cioè intrascendibili — dell’agire (funzione orizzonte), dal­ l’altro esse vengono continuamente riprodotte nei processi dell’agire del quale esse sono condizioni (funzione serbatoio). Ora, nei processi interni di razionalizzazione cui il mondo della vi­ ta è sottoposto per la dinamica propria dell’agire (nella sua struttura razionale e nel suo telos alla razionalità) le due funzioni d’orizzonte e di serbatoio tendono a livellarsi l’una sull’altra, giacché il mondo della vita, in quanto linguisticamente e culturalmente strutturato, risulta di principio tematizzabile e razionalizzabile. Lo si può notare consideran­ do i modi della sua riproduzione. Il mondo della vita si articola per Habermas in tre componenti strut­ turali, cioè la cultura, la società e la persona. Nei processi dell’agire queste tre componenti vengono continuamente rinnovate e riprodotte: la cultura si rinnova attraverso la riproduzione culturale che permette la tradizione, la critica e l’accrescimento del sapere; la società si ri­ produce attraverso l’integrazione sociale, cioè il coordinamento dell’agire secondo regole riconosciute intersoggettivamente e la stabilizza­ zione della solidarietà dei gruppi sociali. La persona si riproduce nella socializzazione, cioè mediante il processo della formazione dell’identi­ tà personale e l’educazione di soggetti socialmente responsabili25. Ora, la riproduzione delle tre componenti strutturali della cultura, della so­ cietà e della persona nella riproduzione culturale, nell’integrazione so­ ciale e nella socializzazione si riferisce al mondo della vita sia come a un orizzonte assunto nella sua ovvietà, sia come a un serbatoio di risor­ se ognora ripescate e sottoposte alla tematizzazione razionale. L’antici­ 24. TKH, 107. Sul concetto di mondo della vita in Habermas, cfr. U. Matthiesen, Das Dickicht der Lebenswelt und die Theorie des kommunikativen Han­ delns, Fink, München, 1,983. 25. Cfr. lo schema riassuntivo relativo ai processi riproduttivi del mondo della vita in TKH, II, 214.

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pazione di consenso che viene attuata nell’assumere come ovviamente dati determinati contenuti di una tradizione culturale, determinate re­ gole d’integrazione sociale e determinati criteri di socializzazione, vie­ ne sottoposta a una verifica razionale che tendenzialmente dissolve la funzione d’orizzonte, opaco e presupposto, del mondo della vita. Si può allora osservare che in quanto, a differenza di quello husser­ liano, il concetto habermasiano di mondo della vita è introdotto come linguisticamente strutturato e in quanto il linguaggio è intrinsecamente portatore di un’istanza di universalità e di razionalità, non vi sarà ele­ mento o momento del mondo della vita che non potrà essere tematizza­ to e razionalizzato, cioè tolto come opacità predata e come ovvietà pre­ supposta. Identificato sostanzialmente con le strutture della riprodu­ zione culturale, dell’integrazione sociale e della socializzazione, il mon­ do della vita risulterà integralmente permeabile ai processi di raziona­ lizzazione, sia interni, sia di tipo sistemico. Ciò comporta conseguenze decisive per la genesi di quelle patologie del mondo della vita che accompagnano storicamente il processo della modernizzazione e della razionalizzazione. La razionalizzazione moder­ na del mondo della vita, che dovrebbe regolare il funzionamento dei pro­ cessi riproduttivi e la loro differenziazione in relazione ai momenti del­ la cultura, della società e della persona, ingenera invece — per l’inter­ ferenza di imperativi funzionalistici della razionalizzazione del sistema — una serie di deformazioni patologiche. Sul piano della riproduzione culturale la deformazione patologica del mondo della vita si manife­ sta nella forma di una perdita di senso (con una corrispondente perdita di legittimazione sul piano sociale e una crisi d’orientamento e dei mo­ delli educativi sul piano della persona). Sul piano dell’integrazione sociale si produce la situazione patologica dell’anomia (e parallelamen­ te ad essa subentrano una crisi dell’identità sociale sul piano della cul­ tura e l’alienazione sul piano della persona). Sul piano della socializza­ zione si ingenerano deformazioni psicopatologiche (cui corrispondono sul piano della cultura la rottura con la tradizione e su quello della so­ cietà la perdita di motivazione)26. Senza soffermarsi sulle complesse indagini del processo moderno della razionalizzazione che Habermas sviluppa sulla falsariga di We­ ber (e di Parsons), ciò che qui interessa è l’interpretazione che Haber­ mas ne propone27. Egli non accetta la spiegazione delle patologie inge­ nerate dalla razionalizzazione moderna nei termini di una critica della 26. Cfr. TKH, II, 212-228, 565-583. 27. Cfr. TKH, II, cap. 6-2 (« Entkoppelung von System und Lebenswelt »), cap. 8 (« Schlussbetrachtung »).

284 reificazione (Lukàcs) o di una critica della ragione strumentale (Hork­ heimer e Adorno), perché questo tipo di spiegazioni, rimanendo entro l’orizzonte coscienzialistico, identifica implicitamente la totalità della società col mondo della vita e in questo modo assolutizza il punto di vista dell’agente individuale. Habermas concepisce invece la comples­ sità sociale sia come mondo della vita, sia come sistema, vale a dire in entrambi i due aspetti essenziali che caratterizzano la società nel suo in­ sieme. Ed è importante fare notare che per Habermas il sistema è sem­ pre ancorato al mondo della vita, nel quale esso ha il proprio fonda­ mento di senso (in maniera analoga a come per Husserl il mondo della vita rappresenta il terreno originario dal quale nascono le oggettivazio­ ni del sapere scientifico). La comprensione di tale connessione tra siste­ ma e mondo.della vita è determinante nella spiegazione delle patologie del moderno, in quanto l’origine di esso viene individuata da Habermas in uno sganciamento (Entkoppelung) del sistema dal mondo della vita. Habermas ricomprende infatti le patologie moderne del mondo della vita, che tradizionalmente erano state interpretate come reifica­ zione o come un paradosso della razionalizzazione, come deformazioni indotte sistemicamente. Infatti, la riproduzione del mondo della vita sotto la spinta dei processi di razionalizzazione non avviene in manie­ ra indipendente dal sistema, ma è condizionata dagli imperativi di que­ st’ultimo. La razionalizzazione del mondo della vita permette anzi una crescita ipertrofica della complessità del sistema. Si ha così uno sgan­ ciamento del sistema dal mondo della vita, che innesca una dinamica di sviluppo in ragione della quale le istanze della razionalizzazione siste­ mica si autonomizzano nei processi dell’economia (monetarizzazione) e dell’amministrazione del potere (burocratizzazione). Originariamente, lo sganciamento del sistema dal mondo della vita rappresenta da un punto di vista storico la condizione necessaria del progresso. È infatti la condizione che all’inizio dell’epoca moderna permette il passaggio dalla società feudale alla società della borghesia. Successivamente, invece, il modello capitalistico della razionalizzazione sistemica (attraverso i mezzi del denaro e del potere) ingenera secondo Habermas delle istanze funzionalistiche (nei sottosistemi differenziati dell’economia e deH’amministrazione) che penetrano nel mondo della vita, deformandone la struttura comunicativa e la riproduzione28. Questa penetrazione, definita da Habermas come una “mediatizzazione” (Mediatisierung), è determinata dal fatto che gli imperativi sistemi­ ci valgono in riferimento al mondo della vita, al quale il sistema rimane 28. Queste tesi sono sviluppate da Habermas sulla falsariga di un’inter­ pretazione di Parsons (TKH, II, cap. 7).

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ancorato in un riaggancio (Rückkoppelung) che corregge lo sganciamen­ to precedente. La mediatizzazione del mondo della vita ad opera dei sottosistemi dell’economia e dell’amministrazione prepara infine il ter­ reno all’ultima deformazione patologica del mondo moderno della vita, e cioè la sua colonizzazione tecnologica. Nell’orizzonte coscienzialistico, al quale rimane legata la sociolo­ gia fenomenologica di Schütz, ma anche la stessa critica francofortese della ragione strumentale 29, tutti questi processi erano visti e interpre­ tati dal punto di vista del soggetto agente entro il mondo della vita, sen­ za distinguere appropriatamente tra la razionalizzazione del mondo della vita e quella del sistema. Recuperando invece la categoria di mon­ do della vita e differenziandola rispetto a quella di sistema, Habermas può allargare la critica della ragione strumentale (condotta dal punto di vista dell’agente entro il mondo della vita) in una critica della ragio­ ne funzionalistica (condotta dal punto di vista dell’osservatore del siste­ ma). Egli interpreta così la reificazione prodotta dalla razionalizzazio­ ne moderna come la genesi di patologie interne al mondo della vita, indotte però da istanze sistemiche in esso penetrate attraverso la media­ tizzazione e la colonizzazione tecnologica. Nel mondo della vita così deformato si produce poi una segmentazione dei suoi momenti struttu­ rali (cultura, società, persona) che ingenera l’impoverimento culturale e la segmentazione della coscienza, la perdita d’orientamento e la crisi di legittimazione. Tuttavia, proprio la complessità dei processi sistemici di razionaliz­ zazione funzionalistica — in origine innescati dal potenziale di raziona­ lità interno al mondo della vita — finiscono per sovraccaricare le ca­ pacità di assorbimento del mondo della vita e sollecitano in esso quei processi di reazione e di critica che si rispecchiano nell’autocoscienza critica della modernità. Sono per Habermas proprio le infrastrutture comunicative del mondo della vita, deformate patologicamente per in­ duzione sistemica, a riverberare in tale coscienza critica la razionalità comunicativa in essa conservata. Pertanto, Habermas auspica che al posto della teoria della falsa coscienza subentri una teoria della coscien­ za segmentata, e al posto della teoria della coscienza di classe una teo­ ria della modernità30. Di fronte a quest’ipotesi ricostruttiva, che permette di cogliere la 29. TKH, II, 548-593. Sul distacco di Habermas dalla vecchia teoria critica vedi soprattutto il saggio J. Habermas, Dìe Verschlingung von Mythos und Auf­ klärung. Bemerkungen zur « Dialektik der Aufklärung » - nach einer erneuten Lektüre, in K.H. Bohrer (hg.), Mythos und Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1983, pp. 405-431. 30. TKH, II, 548-593.

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complementarità dell 'interpretazione fenomenologico-coscienzialistica del mondo della vita e della comprensione sistemico-funzionalistica del­ la società, rimane un interrogativo. C’è da chiedersi, infatti, se e come — dopo che il mondo della vita è stato introdotto come orizzonte fat­ tuale dell’agire — sia possibile attribuire ad esso funzioni controfattua­ li (rispetto ai processi di razionalizzazione sistemica) in grado di fun­ gere da punto di riferimento nel criticare e nel superare le patologie della modernità. Habermas lo ritiene possibile, evidentemente perché egli attribuisce al mondo della vita anche la funzione di custodire mo­ menti integri di razionalità comunicativa; e questo, daccapo, perché egli sostiene che in origine l’agire entro il mondo della vita è struttura­ to appunto secondo quella razionalità comunicativa che egli evince dal­ l’analisi pragmatica del linguaggio. Ma qui sta la difficoltà fondamen­ tale: se l’agire entro il mondo della vita è comunicativo perché è lingui­ sticamente strutturato e perché, a sua volta, il linguaggio implica intrin­ secamente la razionalità comunicativa, c’è da chiedersi se l’agire pos­ sa effettivamente essere ri(con)dotto al linguaggio. È vero, certo, che il linguaggio ha una dimensione pragmatica, è atto linguistico, dunque azione; ma non ogni agire è atto linguistico e, dunque, esso non può essere ri(con)dotto interamente al linguaggio. Ci si può allora chiedere, per concludere, se l’agire degli individui, dei gruppi e delle formazioni sociali, dei nuclei densi del mondo della vita, non sia in fondo descrivibile e rappresentabile, anziché come ser­ batoio di razionalità comunicativa, come l’agire di sistemi di autocon­ servazione e di autoaffermazione, i quali — come soprattutto le situa­ zioni limite mettono in evidenza — non agiscono comunicativamente, ma strategicamente, cioè secondo la logica della sopravvivenza, della conservazione, del potenziamento del potere. E mi pare che soprattutto dopo l’opera di Nietzsche non si possa più ignorare che questa tesi è penetrata in tutti i pori della modernità. Una critica di Nietzsche e del­ la modernità in questo senso, cioè una critica che mostri la possibilità di una razionalità più ampia rispetto a quella della semplice conserva­ zione e autoaffermazione della vita, mi pare essere uno dei compiti più urgenti del pensiero postnichilistico e postmoderno.

3. Conclusioni Alla luce di queste considerazioni critiche, maturate dall’analisi dell’interpretazione habermasiana del mondo della vita, è possibile ora, per concludere, riconsiderare la diagnosi husserliana della crisi della modernità e vederne i motivi d’attualità.

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Ebbene, mi sembra che un primo motivo d’attualità consista nel fatto che Husserl ha individuato per la prima volta come un problema filosofico la crisi della modernità, cioè la crisi che accompagna quella realizzazione del regnum hominis che nei processi di razionalizzazione tecnologica pare attuarsi in assenza del legittimo monarca. Ma oltre che nell’individuazione del problema, l’attualità delle riflessioni husserlia­ ne mi pare consistere anche nel fatto che in esse sono indicate le condizioni della possibilità di superare la situazione problematica della crisi. Con ciò intendo non solo le analisi husserliane della connessione dimenticata di scienza e mondo della vita, ma anche la prospettiva dal­ la quale tali analisi sono condotte; intendo cioè il fatto che nella sua dia­ gnosi Husserl ha saputo tener fermo l’aggancio a quel punto archime­ dico che solo sembra poter permettere di mantenere l’equilibrio nella vertigine della crisi di senso nichilistica, vale a dire l’aggancio con una comprensione integrale di razionalità, di cui l’ideale greco del logos è stata la prima affermazione storica. Al di là del problema, peraltro decisivo, se la determinazione di tale logos possa essere intesa nel senso di una razionalità che si evidenzia nell’orizzonte coscienziale-trascendentale (questa è la via battuta da Husserl) o invece nel senso delle strutture del linguaggio (è questa la soluzione più diffusa dopo la svolta linguistica in filosofia), mi pare che l’avere tenuto ben saldo questo punto archimedico contraddistin­ gua da un punto di vista filosofico la diagnosi husserliana rispetto alle numerose altre analisi contemporanee e in particolare rispetto alle pur interessanti filosofie della crisi che pullulano nella Germania tra le due guerre (O. Spengler, L. Klages, L. Ziegler). Specialmente nei confronti del Kulturpessimismus di queste filosofie nella sua analisi della crisi delle scienze europee e nella sua tematizzazione del mondo della vita, Husserl non abbandona l’ideale europeo della razionalità, ma proclama anzi la necessità di ripristinarlo nella sua originarietà e nella sua integralità, cioè nel suo dispiegarsi rispetto a tutto l’essere e nel suo radicarsi nella vita quale fondamento molteplice di senso. Ciò permette a Husserl di evitare il presupposto che sta a fonda­ mento delle filosofie della crisi a lui contemporanee, e cioè l’idea di de­ rivazione nietzscheana che vi sia un’antitesi e una contrapposizione fa­ tale tra cultura e natura, tra spirito e vita, tra ragione e sensibilità, e che la crisi del mondo occidentale sia dovuta all’ipertrofia dell’uno e all’oblio dell’altro momento. Così, ad esempio, ne II tramonto dell’occidente (1918/1922) Spen­ gler crede di poter vedere le cause della crisi dell’occidente nel soffo­ camento delle esigenze originarie della vita ad opera di uno spirito sviluppatosi nelle forme della civiltà, della scienza e della tecnica. Ne

288 Lo spirito come antagonista dell’anima (1929) Klages vede nello “spi­ rito” una malattia da cui l’anima (cioè la vita) deve ristabilirsi e libe­ rarsi31. Ne Lo spirito europeo (1929) Ziegler annuncia un medioevo prossimo venturo, alla fine del quale soltanto potrà essere superata l’an­ titesi di civiltà e natura. Anche l’ultimo Scheier (La posizione dell’uomo nel cosmo, 1928; La visione filosofica del mondo, 1929) concepisce la crisi moderna come una conseguenza dell’antitesi di spirito e vita, e intravede un suo possibile superamento nel raggiungimento di un nuo­ vo equilibrio tra i due opposti. Serpeggia dunque in tutte queste filosofie della crisi, che contrap­ pongono ragione e vita, una rassegnata sfiducia nella razionalità occi­ dentale e la corrispondente esigenza di affermare i valori della vita con­ tro quelli esanimi e dissanguati della cultura; in esse la ragione finisce spesso per essere equiparata a uno strumento organico per la sopravvi­ venza di cui l’uomo dispone in sostituzione dell’istinto. Contro questa sfiducia e contro questa esigenza, la posizione husserliana rappresenta un baluardo a difesa di un’idea integra di ragione e di vita. Infatti, la scienza e la tecnica moderne, e la civiltà che esse caratterizzano, non sono per Husserl la conseguenza della realizzazione dell’ideale del lo­ gos e della razionalità occidentali — come queste filosofie della crisi sostengono e come sosterrà soprattutto Heidegger — bensì la conse­ guenza del suo smarrimento in un’idea unilaterale di sapere. Certo, non si può non concedere che l’arroccarsi di Husserl su una posizione rigorosamente monolitica e fondamentalistica ha probabilmen­ te accelerato il processo di rimozione col quale la fenomenologia trascen­ dentale è stata progressivamente abbandonata, in concomitanza col dif­ fondersi sulla scena filosofico-culturale contemporanea della sfiducia nichilistica nella ragione occidentale e col convergere su questo atteg­ giamento di sfiducia o di rinuncia di molte voci del dibattito contem­ poraneo. Né si può ignorare che queste voci hanno trovato la loro espres­ sione contemporanea più radicale proprio in un pensiero che è nato da una trasformazione della fenomenologia husserliana, e cioè il pen­ siero di Heidegger. In effetti, la penetrazione nei pori della modernità di alcune tesi heideggeriane (in particolare del secondo Heidegger) sembra avere eroso alle fondamenta la prospettiva di Husserl. La prima di queste tesi mi pare consistere nel rovesciamento del rapporto tra logos e tempo che Heidegger ha operato. Se per i Greci la struttura del logos rappre­ senta il punto archimedico facendo leva sul quale è possibile liberarsi 31. Ispirata a Klages è la critica pessimistica della civiltà di Theodor Les­ sing, che si può leggere tra l’altro nel suo Europa und Asien (1918), più volte riedito (1924, 1930) col significativo titolo Der Untergang der Erde am Geist.

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delle scorie della temporalità, cioè dalle forme della finitezza e della particolarità, per Heidegger invece il logos, nonché elevare al di sopra del tempo, è ognora condizionato nel suo attuarsi dalle forme del tem­ po e della sua epocalità. La seconda tesi è rappresentata dalla convinzio­ ne che la civiltà organizzata nelle forme della scienza e della tecnica costituisca l’inveramento essenziale della metafisica intesa come logos dell’ente, come ontoteologia, vale a dire come il compimento di quel progetto di padroneggiamento razionale, conoscitivo e pratico, dell’ente che inizia col pensiero di Platone e di Aristotele. Di qui deriva una terza tesi: il logos nel senso della ragione occidentale non può più es­ sere mantenuto come istanza di universalità, né come istanza di eman­ cipazione per uscire dalla crisi della modernità, dato che questa è dia­ gnosticata come conseguenza di quello. Poiché la diagnosi delle pato­ logie del moderno conduce Heidegger a una critica della razionalità oc­ cidentale e all’abbandono delle sue cogenze tradizionali, il superamen­ to di tale crisi non potrà essere affidato che a un momento diverso dalla ragione, che Heidegger pensa di poter trovare in quella forma di pen­ siero che sta prima della metafisica e può essere evocata nel pensiero poetante. Nonostante il tacito e diffuso espandersi di queste tesi, nonostante il consumarsi del pathos razionalistico che pervade le riflessioni husserlia­ ne, la diagnosi delle patologie del moderno e la tematizzazione del mon­ do della vita proposte nella Crisi potrebbero fornirci ancora dei punti di riferimento affidabili. Nelle riflessioni del vecchio Husserl si potrebbe­ ro cioè trovare motivi per tentare una risposta a quei fondamentali inter­ rogativi sulla crisi della ragione occidentale, ai quali il pensiero hei­ deggeriano ci ha posti di fronte. Questo soprattutto perché la ragione che Husserl propone e difende come ethos non è una ragione afferma­ ta astrattamente, ma una ragione che diversifica le sue istanze di va­ lidità in relazione alla plurivocità dei sensi della vita. Una ragione, cioè, incarnata nel senso. Questo atteggiamento husserliano potrebbe poi fornirci un’indica­ zione e un orientamento di massima per attuare ciò di cui da tempo avvertiamo il bisogno, e cioè una critica della modernità a partire dal punto di vista della modernità. Ossia: una critica della modernità che non sia né una contrapposizione utopica, cieca e totalizzante, alla ra­ gione strumentale e tecnologica (Horkheimer, Adorno, Marcuse), né una reazione restauratrice (Gehlen, Schmitt, forse Heidegger), bensì una critica che si faccia carico dell’orizzonte della modernità. E l’o­ rizzonte della modernità sembra essere quello di una crisi d'autodescrizione, nella quale non si danno più punti privilegiati in grado di rappresentare il tutto e di parlare a nome del tutto; né mito né arte, né

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religione né metafisica possono più fungere da punto archimedico a partire dal quale la totalità si lasci cogliere. In questa crisi d’autodescrizione della modernità, di cui il diffon­ dersi della terminologia negativa (crisi dei valori, crisi di senso, pen­ siero negativo, nichilismo) rende testimonianza, le riflessioni di Hus­ serl rappresentano un coraggioso appello a ricercare nel logos, fonda­ to e incarnato nella plurivocità dei sensi del mondo della vita, un nuovo punto archimedico che ci permetta di mantenere l’equilibrio nel vortice del nichilismo. Un appello, che ci invita a pensare il ni­ chilismo e la tecnica non come l’estrema conseguenza e l’inveramento dell’ideale originario del logos, della filosofia e dell’episteme greca, ma come lo smarrimento di esso. Dando ascolto a questo appello, reinterpretando liberamente quel sogno che Husserl credette fosse stato sognato fino in fondo, potrem­ mo forse, senza regredire dal punto di vista della modernità, ritrovare quell’ideale e riconciliarci con esso.

4. FENOMENOLOGIA E SOCIOLOGIA. IL DESTINO AMERICANO DI ALFRED SCHUTZ

di Gianni Giannotti

Scopo veramente e volutamente molto limitato della mia comuni­ cazione è lo svolgimento di alcune considerazioni a commento della specifica influenza che la fenomenologia husserliana ha esercitato su taluni recenti sviluppi della teoria e della ricerca sociale negli Stati Uniti. L’ambito d’interesse è molto circoscritto, in questo caso. A li­ vello europeo, probabilmente, sarebbe piuttosto complicato anche sol­ tanto rintracciare e precisare le influenze, spesso molteplici e, per così dire, più volte ritornanti, della fenomenologia — ma non avrebbe senso limitarsi ad Husserl — sulla sociologia tedesca o francese. Il caso americano, invece, è molto lineare. Tutto è passato soltanto attraverso l’opera di Alfred Schütz. Solo negli anni più recenti qualcuno ha guar­ dato oltre Schütz, sia per leggere direttamente Husserl, sia per familia­ rizzarsi con autori europei che avevano elaborato autonomamente il rapporto fra fenomenologia e altre scuole e discipline. Ma si tratta di casi ancora oggi individuali. La « professione » — come si esprimono ancora i sociologi americani — ha « incorporato » la fenomenologia attraverso alcune particolari assimilazioni e successivi sviluppi del­ l’opera di Schütz. In principio, dunque, era Schütz. Poi vennero gli « erasmiani » ed i « calvinisti », che hanno conquistato una larga udienza e che hanno fatto, soprattutto questi ultimi, un grandissimo rumore. E non è man­ cato neppure il solito « maverick », come si dice in America, che per coerenza di metafora possiamo definire rabelaisiano; anzi, forse, è proprio quello che ci ha lasciato l’eredità più difficile da catalogare, ma più ricca da coltivare. Fuor di metafora, gli « erasmiani » sono autori « ecumenici » come Berger e Luckmann; i « calvinisti » più arrabbiati si raggruppano nelle cittadelle, sempre più numerose, dell’etnometodologia; il « maverick » rabelaisiano è il compianto Ervin Goffman *. 1. Per l’etnometodologia, cfr. Etnometodologia, a cura di P.P. Giglioli e A. Dal Lago, Il Mulino, Bologna, 1983; per Berger e Luckman, cfr. La realtà

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Schütz, dice il Melandri nell’introduzione all’edizione italiana della sua opera maggiore2, in Italia era noto solo agli studiosi di Husserl e, nel grande mare della letteratura fenomenologica, « compariva al mas­ simo come un radicale “di sinistra” nella prevalente interpretazione spiritualistica di Husserl ». Sarà senz’altro così. Quello che conta, per comprendere la sua vicenda americana, consiste essenzialmente in due punti fondamentali. Il primo, la sua differente impostazione del pro­ blema della soggettività-intersoggettività, può essere richiamato con la stessa breve formulazione del Melandri medesimo: Del problema della soggettività in quanto intersoggettività Husserl dava una spiegazione in ultima analisi psicologica, sebbene depurata da pre­ supposti naturalistici. ... Schütz inverte il fondamento, e intende il trascen­ dentale — cioè il momento fondante — dell’intersoggettività come qual­ cosa di autonomo, di non-egocentrico, di alio-relativo: è la sociologia e non la psicologia a fondare la comprensione pura, non naturalistica, cioè feno­ menologica dell’intersoggettività. E anche qui si tratta di una sociologia pura, cioè priva di presupposti naturalistici3.

Ho premesso di voler essere breve e quindi lascio ai colleghi filo­ sofi, molto più competenti, di valutare se questa differenza sia una variante secondaria o strategica rispetto al disegno husserliano. Sarei propenso a ritenere che, nelle sue conseguenze, essa conduce alla de­ legittimazione sia dell’ego sia della purezza autoriflessiva della co­ scienza. Per quello che qui interessa, basterà dimostrare che Schütz aveva piena consapevolezza del fatto che proprio questa differenza era essenziale per saldare un vero rapporto fra fenomenologia e scienze sociali empiriche. C’è un brano di uno degli ultimi saggi di Schütz in argomento (« L’importanza di Husserl per le scienze sociali », 1959)4, che riassume in modo tanto conciso quanto completo la sua posizione: In conclusione — egli scrive — si può dire che le scienze sociali empi­ riche troveranno la loro vera fondazione non nella fenomenologia tra­ scendentale, ma nella fenomenologia costitutiva dell’atteggiamento natu-

come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1969; per E. Goffman, cfr., soprat­ tutto, La vita quotidiana come rappresentazione, II Mulino, Bologna, 1969. Più in generale, cfr. A. Giddens, Nuove regole del metodo sociologico, Il Mulino, Bologna, 1979; il capitolo primo, pp. 27-98, è dedicato ad una discussione delle correnti contemporanee della « sociologia comprendente ». 2. Significato e verità nelle scienze sociali, introduzione di E. Melandri a A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna, 1974, p. IX. 3. Ibid. 4. Husserl’s importance for thè Social Sciences (1959), in Collected Papers, voi. I, «The Problem of Social Reality», The Hague, 1967, p. 149.

293 rale o del senso comune. Il rimarchevole contributo di Husserl alle scienze sociali non consiste né nel suo sfortunato tentativo di risolvere il pro­ blema della costituzione dell'intersoggettività trascendentale all’interno del­ la ridotta sfera egologica, né nella sua non chiarita nozione dell’empatia quale fondamento del comprendere, né, infine, nella sua interpretazione di comunità e società come soggettività di un ordine più elevato la cui natura può essere descritta eideticamente; ma piuttosto nella ricchezza delle sue analisi relative ai problemi della Lebenswelt e concepite come da sviluppare nella direzione di un’antropologia filosofica.

Ripeto, non so quanti eredi husserliani potrebbero accettare que­ sto riconoscimento dei meriti di Husserl verso le scienze sociali; qual­ cuno potrebbe avere l’impressione che in questo giudizio il « nocciolo » del pensiero husserliano viene praticamente archiviato e di Husserl resta, per l’appunto, la « novella » di Schütz. Quando ho chiamato « erasmiani ecumenici » Berger e Luckman, avevo ben presente que­ sta posizione di Schütz; mi pare che il loro ambizioso tentativo, di gettare le fondamenta di una « nuova sociologia della conoscenza »5, rispetti proprio le indicazioni programmatiche sopra ricordate: svilup­ pare le analisi dell’atteggiamento « normale » del mondo della vita quotidiana nella direzione di un'antropologia filosofica. E non a caso, per questa via e con baldanzoso eclettismo, Berger e Luckman riesco­ no a recuperare ed a versare e agitare nello stesso shaker del cosid­ detto « approccio fenomenologico », il giovane Marx « umanista » ed il Gehlen ed il Plessner; il tutto amareggiato, se non amalgamato, con qualche spruzzatina di Sartre. Tornerò tra poco su questo primo punto. È giunto il momento, però, di accennare anche al secondo punto che mi sembra importante per comprendere la vicenda americana di Schütz. La formulazione più breve e tuttavia sufficientemente chiara di questo punto, secondo le mie capacità, è la seguente; in ultima analisi, tutta l’opera maggiore di Schütz, quella del 1932 intendo, si risolve nell’impresa di « buscar el Weber par el Husserl ». Ed ancora una volta debbo riconoscere che il Melandri ha colto perfettamente anche questo punto. Egli os­ serva che l’autore più importante per Schütz è Max Weber; che il problema posto dal Weber, quello del Verstehen, è anche il problema centrale di Schütz e che Husserl serve per affrontare questo problema. Weber, infatti, lo aveva formulato male e risolto ancora peggio, a causa del suo « neokantismo ». Detto altrimenti, Weber era rimasto abbastanza « non-positivista » da cogliere il vero problema, ma era

5. P.L. Berger, T. Luckman, La realtà come costruzione sociale, cit.

294 già troppo « neo-positivista » ante-litteram da lasciarsi indurre alla risoluzione della scienza a metodologia e da farsi sfuggire di tra le mani proprio l’irriducibilità del concetto di azione al metro empirista della percezione. Questo è ciò che in parte dice il Melandri6 ed in parte aggiungo io e spero che, per ora, possa bastare a chiarire il punto. Anche qui dovremo tornarci. Ora, sempre brevissimamente, cercherò di spiegare perché questi due punti sono fondamentali per la vicenda americana del Nostro. Il primo punto è importante perché proprio la sua differente for­ mulazione del problema della soggettività-intersoggettività aveva pre­ disposto Schütz nel modo migliore ad un incontro molto coinvolgente con la tradizione filosofica e scientifica dell’università di Chicago. È evidentissimo, fin dal saggio Sulle realtà multiple (che è quello decisivo per segnare il contributo più originale di Schütz nella sociologia ame­ ricana), che l’influenza di W. James e di G.H. Mead non è affatto secondaria, ma neppure veramente problematica rispetto alle fondamenta viennesi. Schütz si trova, piuttosto, perfettamente a suo agio con Vinterazionismo simbolico. Diciamo che si sente più a casa pro­ pria con la psicologia sociale dell’università di Chicago che non con la vecchia psicologia sperimentale, o con la nuova psicologia clinica, che aveva conosciuto a Vienna. Anche la centralità che l’interazionismo assegna alla pratica del linguaggio ed al problema fondamen­ tale della comunicazione, come costitutiva essa stessa d’ogni sogget­ tività sociale, individuale, di gruppo o collettiva, conviene per così dire « provvidenzialmente » con l’originale soluzione alla quale era approdata la riflessione fenomenologico-trascendentale del 1932. In un certo senso, Schütz trova una conferma della sua posizione filosofica e non a caso questa non viene più messa in discussione; al contrario, alcuni fra i più importanti saggi raccolti oggi nei Collected Papers, sembrano, fra l’altro, un’insistita rivelazione dell’armonia prestabilita grazie alla quale alcuni autori che non si erano mai neppure sognati di star praticando la disciplina husserliana della riflessione trascen­ dentale, essendo dediti piuttosto a quella, tutta americana, dell’inter­ minabile slalom fra realismo e nominalismo — e che cos’è altrimenti la cosiddetta tradizione pragmatista? — vengono agevolmente a collo­ carsi nelle nuove caselle magiche dell’approccio alla sociologia in ter­ mini della fenomenologia costitutiva dell’atteggiamento naturale. Negli stessi anni in cui T. Parsons riteneva di aver dimostrato che tutte le vie principali della sociologia europea conducevano allo struttural-funzionalismo, Schütz insegnava ad una futura generazione di 6. Op. cit., p. XIH.

295 sociologi della sociologia che tutte le vie maestre dell’originale social Science americana riconducevano alla necessità di assumere proprio l’ovvio come il problema, si conciliavano cioè proprio con quella inge­ nuità fenomenologica che era il prodotto del più sofisticato laboratorio della critica filosofica europea. Questo, adesso, può bastare per il primo punto. Per il secondo punto, è ancora più difficile essere veramente brevi. Certo, potrei limi­ tarmi a ricordare che Max Weber ha avuto un’enorme fortuna nella scienza sociale americana a partire dalla fine degli anni '30. Grazie al Parsons, grazie a Gerth e Mills, grazie a Merton e, perché no? anche grazie alla sua fama di « Marx della borghesia ». Eppure, la fortuna americana di Max Weber — con l’eccezione importante, ma a lungo minoritaria, di Gerth e Mills — va in tutt’altro senso, almeno fino alla fine degli anni ’50, rispetto al senso dell’interesse di Schütz. Sebbene fra Schütz e Parsons vi sia stato anche un interessante e colto scambio epistolare, c’è una distanza incolmabile fra la teoria parsonsiana e l’approccio fenomenologico, soprattutto dalla parte di quest’ul­ timo. Voglio dire: è comprensibile che uno possa partire da Parsons ed arrivare a Schütz e oltre. È proprio il caso del « carismatico » fon­ datore dell’etnometodologia, Harold Garfinkel. È molto improbabile che possa accadere il contrario. E questo dipende in buona misura proprio dal diverso rapporto con Max Weber, dal diverso modo di intendere lo statuto epistemologico della sociologia del Verstehen, il concetto stesso di azione e la sua problematicità. Parsons e lo strutturalfunzionalismo, a ben vedere, hanno lavorato nella direzione di un accrescimento della distanza fra Weber e Dilthey; hanno accentuato una tendenza che in Weber certo esisteva. È questo il senso di tutta l’operazione condotta mirabilmente a termine fin dalla Struttura del­ l’azione sociale e cioè la puntigliosa « deduzione » di una tendenziale convergenza sistematica di Weber e Durkheim, a conferma del pre­ sunto « processo immanente » di graduale costituzione, o « emergen­ za », di una teoria volontaristica dell’azione. Alla fine, sappiamo che ciò che resterà di Max Weber nella « formula » struttural-funzionalista non è più l’azione, ma semplicemente i valori, peraltro trasformati in una sorta di « codice genetico » del sistema sociale. Ebbene, Schütz si muove nella direzione opposta, lungo una linea ideale Dilthey-BergsonHusserl. Insomma, mentre Parsons tende a portare a fondo lo « slitta­ mento » di Weber verso il positivismo, Schütz, nella sua critica al modo weberiano d’impostare il problema del significato, era »tato fin dal principio su di una posizione che negava ogni rivendicazione posi­ tivista. Weber aveva avuto ragione di sostenere che la sociologia non

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studia fatti o cose e neppure valori, ma azioni. È una scienza del com­ portamento umano, dell’azione umana in quanto dotata di senso e, dunque, deve distinguere nel modo più netto e rigoroso fra analisi motivazionale ed analisi causale. Weber non era stato all’altezza della sua giusta rivendicazione della specificità dell’azione sociale e delle sue implicazioni metodologiche per la sociologia. Il modello positivi­ stico della scienza lo aveva indotto, nonostante tutto, a costringere sul letto di Procuste dell’agire razionale secondo lo scopo il problema del Verstehen ed a privilegiare una costruzione tutta intellettuale dei « tipi di azione » rispetto alla concretezza di un « comprendere » che è fun­ zione stessa della pratica sociale, abituale, della vita quotidiana. La diversità dell’approccio fenomenologico di Schütz, il signifi­ cato del suo deciso sforzo di sottrarre il problema weberiano del­ l’azione alla deriva positivista, già presente in Weber stesso e prepo­ tente nell’interpretazione parsonsiana, può essere chiarito da un brano veramente cospicuo dell’introduzione del Natanson al primo volume dei Collected Papers: Tradizionalmente, la percezione è stata considerata come il tema de­ cisivo della scelta di una posizione filosofica. Il più maturo effetto del­ l’opera del professor Schütz conduce alla negazione della validità di que­ sto punto di partenza per qualunque filosofia concernente la realtà sociale. È l’azione, invece, che diviene il tema dominante. Le conseguenze di que­ sta trasformazione per l’epistemologia arrivano lontano, ma qui ci inte­ ressano maggiormente i suoi effetti sulla metodologia delle scienze sociali. In sostanza, le filosofie della scienza positiviste e naturaliste hanno sup­ posto che dal momento che la percezione o la sensazione è generalmente paradigmatica come punto di partenza per una metodologia delle scienze naturali, lo stesso necessariamente avvenga per una metodologia delle scienze sociali. Si suppone che l’ideale per le scienze sociali sarebbe una scienza della società modellata, ovviamente, sugli esempi così ben riu­ sciti della fisica e della matematica. Sfidare lo status della percezione, in questo contesto, è sfidare il presupposto che condiziona così gran parte dell’odierna metodologia.... Insistere sull’azione come punto di partenza per una metodologia delle scienze sociali, non è difendere un genere nuovo di conoscenza; è piuttosto insistere sulla differenza qualitativa fra i tipi di realtà indagati dagli scienziati naturali e da quelli sociali. È un’argomen­ tazione rivolta a chiarire che gli uomini non sono soltanto elementi del campo di osservazione dello scienziato ma anche pre-interpreti del loro proprio campo d’azione; che la loro condotta osservabile è solo una fra­ zione del loro comportamento totale; che il primo compito di quanti cer­ cano di capire la realtà sociale è quello di comprendere la soggettività

297 dell'attore afferrando il significato che un atto ha per lui, l’asse del mondo sociale7.

Adesso, possiamo anche congiungere fra loro il primo ed il se­ condo punto. La vicenda americana di Schütz si spiega come conse­ guenza, principalmente, del perfetto incastro fra la sua critica alla insufficiente soluzione weberiana del problema della sociologia com­ prendente (dell’azione sociale) e la sua compatibilità con la concezione pragmatista del comportamento, l’interazionismo meadiano ed, in ge­ nerale, la sociologia e psicologia sociale della scuola di Chicago. L’Uni­ versità di Chicago è rimasta piuttosto estranea al trionfo della teoria generale del Parsons ed uno dei suoi maggiori esponenti pronunciò al riguardo un giudizio assai significativo proprio nel momento della massima fortuna del grande teorico di Harvard. Parsons — disse in sostanza William Foote Whyte — ritiene di aver costruito una teoria generale dell’azione; ma quando io leggo centinaia e centinaia delle sue pagine, ebbene, tutto vi trovo fuorché l’azione sociale concreta. Vi sono ruoli, strutture, valori, aspettative, motivazioni, bisogni, si­ stemi culturali e sistemi della personalità, alternative e gerarchie fra modelli culturali e orientamenti di valore... c’è proprio tutto; ma non c’è mai nessuno che si muova, nessuna azione. L’azione è sempre o già da tempo immemorabile avvenuta, o in preparazione intermi­ nabile 8. Era una forzatura polemica; ma anticipava il senso più profondo della futura disaffezione verso il paradigma funzionalista del sistema sociale. Schütz, nel suo volgersi dalla fenomenologia trascendentale alla fenomenologia del sociale quotidiano, si integrò con la tradizione di Chicago, la tradizione classica della scienza sociale americana, proprio nel periodo in cui questa sembrava piuttosto soccombente rispetto alle novità di Harvard e della Columbia. Quando Mills era messo all’indice dalla « professione » per vilipendio della Grande teorizzazione e dell’Empirismo astratto 9, Schütz contribuiva silenziosamente alla prepa­ razione di una nuova generazione di sociologi americani che qualche anno dopo avrebbero esplosivamente rivendicato i caratteri originali, se così posso esprimermi, della sociologia americana. Negli anni ’70, 7. Cfr. M. Natanson. Introduzione al primo volume dei Collected Papers di A. Schütz, op. cit., pp. XLV-XLVI. 8. W. Foote Whyte, Parsons' Theory Applied to Organizations, sta in The Social Theories of Talcott Parsons, edited by Max Black, Prentice-Hall, Ine., 1961, pp. 250-267. 9. C.W. Mills. L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore. Milano, 1962.

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l’Università di Chicago si è presa tutta la sua rivincita nei confronti della « teoria » di Harvard e del « metodo » della Columbia. In un certo senso, si è trattato di una seconda « rivolta contro il forma­ lismo »10 ed anche di una ripresa di elementi che erano stati protago­ nisti della prima; penso al prepotente ritorno di Mead e dello stesso Cooley; ma penso anche alla riscoperta, non solo per la logica e per la semiotica, dello stesso Peirce. Tutto questo è stato possibile anche per la tenuta, nel lungo intervallo, di una tradizione di ricerca sul campo veramente originale e di alcune figure di primo piano della « resistenza » anti-funzionalista, fra le quali si debbono assolutamente ricordare Herbert Blumer, il « patriarca » d&Winterazionismo simbo­ lico, ed E.C. Hughes, che è stato forse il più autentico continuatore della scuola del Park e che ha esercitato, come suo insegnante, l’in­ fluenza di gran lunga più significativa sullo stesso Goffman, anche se quest’ultimo rimane sempre il vero « maverick » della sua genera­ zione. Eppure, mi sembra che si possa dire che la seconda « rivolta contro il formalismo » non sarebbe stata la stessa e non avrebbe avuto un paragonabile impatto senza l’opera preliminare di Schütz. Infatti, quale che debba essere il giudizio futuro svAVetnometodologia — si tratta di una tendenza che sarebbe ancora prematuro pretendere di poter giudicare storicamente — appare evidente che essa ha avuto una diffusione così rapida e così estesa (ormai ha varcato in forze l’Atlantico ed infiltrato i suoi rampicanti anche fra le scienze sociali europee) da poter essere considerata l’elemento più caratterizzante della fase post-parsonsiana della sociologia americana. Si potrà osser­ vare che l’etnometodologia deve molto, anzi moltissimo, alla filosofia del linguaggio inglese ed alla sociolinguistica, al dibattito sull’episte­ mologia delle scienze inesatte ed alla psicologia cognitiva ". Veris­ simo. Ma tutte queste influenze si spiegano e sono state possibili solo sulla base di un impianto di fondo, che è quello della fenomenologia dell’atteggiamento naturale della vita quotidiana di Schütz, e grazie alla particolare sutura che Schütz aveva pazientemente operato fra questo approccio fenomenologico e la tradizione del comportamenti­ smo pragmatista. Il punto centrale del contributo effettivo della riflessione di Schütz alla teoria e metodologia sociologica consiste in una fondamentale autocomprensione critica delle implicazioni del Verstehen. Se la socio­ logia è scienza dell’azione significante, la sociologia non può mai trat­ to. M. White, La rivolta contro il formalismo, Il Mulino, Bologna, 1956. 11. Cfr. L’etnometodologia e i nuovi stili sociologici, di A. Dal Lago e P.P. Giglioli; sta in Etnometodologia, cit.; ma vedi anche Linguaggio e società, testi a cura di P.P. Giglioli, Il Mulino, Bologna, 1973.

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tare il suo oggetto come un oggetto, ma deve sempre ricordarsi che si tratta di soggetti * e pertanto, potendo fare ricorso solo a delle tipiz­ zazioni, per poterne ragionare obiettivamente, deve ricordarsi sempre che i tipi ideali sono solo ipotesi di lavoro. Non c’è dubbio che su questo punto, l’approccio di Schütz è assai più fedele, persino filolo­ gicamente, alla lettera di Weber di quanto non lo sia la pretesa cor­ rezione e messa a punto di Talcott Parsons, che proprio in tema di status dei tipi ideali weberiani ha compiuto una pesante forzatura nell’ultima parte della Struttura dell’azione sociale. Ma Schütz si era reso conto, molto più rigorosamente del Weber, di tutte le implica­ zioni della posizione weberiana. Solo l’azione dell’individuo e il signi­ ficato che questi le attribuisce può essere comprensibile. La sociologia può essere soltanto l’interpretazione del senso soggettivo (inteso dal­ l’attore) dei modi di comportamento sociale. Questo enunciato — ra­ dicalmente antipositivista — implica che « ogni scienza sociale criti­ camente consapevole è costretta a fare i conti con un materiale, il quale possiede la peculiarità di contenere già al livello pre-scientifico quegli elementi di significato e di comprensione del medesimo, che poi, all’interno della scienza interpretativa stessa, riemergono più o meno esplicitamente pretendendo a validità categoriale »12. Già nel 1932, Schütz aveva detto con chiarezza: « Tutti gli oggetti culturali (ideali) sono prodotti: rinviano ad operazioni produttive compiute dai nostri simili e sono testimonianza di decorsi di coscienza di costoro ». Uno dei padri fondatori della scuola di Chicago — e della tradizione sociologica americana — W.I. Thomas, intorno alla stessa epoca e del tutto indipendentemente (sulla base della sua espe­ rienza di ricercatore, ma anche profondamente influenzato dal clima pragmatista allora assolutamente dominante all’università di Chicago) aveva formulato il celebre teorema della « definizione della situazione sociale »: per il soggetto reale (e dunque per lo scienziato sociale che vuole comprenderne il comportamento), ciò che determina la realtà è la definizione della situazione; « se gli uomini definiscono le situa­ zioni come reali -t- disse Thomas nel 1938, enunciando il teorema in una versione che Blumer ha reso celebre come « il principio della profezia autoadempientesi » — esse sono reali nelle loro conseguen­ ze »n. Ebbene, non è punto esagerato affermare che Schütz ha for­ * Anzi, si potrebbe dire più esattamente, che si tratta di relazioni (e con­ testi) intersoggettuali. 12. Cfr. A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, cit., p. 15. 13. Cfr. H. Blumer, An Appraisal of Thomas and Znaniecki’s « The Polish Peasant in Europe and America », New York, « Social Science Research Coun­ cil », Bulletin 44, 1939, p. 85.

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nito la dimostrazione teorica del teorema di Thomas, la sua « solu­ zione » fondante. Questo è il punto cruciale dell’innesto fra la scuola interazionista di Chicago e l’approccio fenomenologico nelle scienze sociali. Non sono in grado di giudicare come giudichino, eventual­ mente, i colleghi filosofi questa ibridazione, necessariamente bastarda, fra pragmatismo comportamentista e fenomenologia del mondo socia­ le. Posso assicurare che essa ha, seppure con uno scoppio ritardato, un impatto notevole sulle scienze sociali contemporanee. Siamo in piena attualità. Di questi tempi, è più facile sentire ripetere « analisi fenomenologica » nei dibattiti degli scienziati sociali che nei convegni dei filosofi. Se facessimo, un po’ all’americana, il conto delle citazioni del nome di Husserl sulle riviste di sociologia e di antropologia e psi­ cologia sociale di tutto il mondo, ci accorgeremmo che negli ultimi dieci anni si registra una progressione vertiginosa. Al di là degli eccessi ecumenici di Berger e Luckman e degli « eroici furori epistemologici » di Garfinkel e associati, si può considerare fon­ damentalmente acquisito, per l’odierna sociologia dell’azione e del Verstehen, quanto Schütz, appena giunto in America, così formulò: « gli oggetti-di-pensiero costruiti dallo scienziato sociale si riferiscono agli e sono fondati sugli oggetti-di-pensiero costruiti dal common-sense thought di un uomo che vive la sua vita quotidiana fra i suoi simili. Così, i costrutti usati dallo scienziato sociale sono, per così dire, co­ strutti di secondo grado, cioè costrutti di costrutti prodotti dagli attori sulla scena sociale, il comportamento dei quali attori lo scienziato osserva e cerca di spiegare in conformità con le regole procedurali della propria scienza »14. Per quanto formulato in forma quasi dimessa, questo enunciato aveva implicazioni veramente devastanti nei con­ fronti della tradizione durkheimiana della metodologia sociologica, alla quale, in ultima analisi, Talcott Parsons aveva ricondotto anche l’ere­ dità weberiana. Il lungo saggio del ’55, « Symbol, Reality and Society », che rappresenta forse il più completo punto d’arrivo sociologico dello Schütz, almeno per quanto riguarda la sua integrazione con la tradi­ zione di Chicago, riaffermerà il carattere di « costrutti di secondo grado » delle scienze sociali, ma giungerà anche a porre in tutta evi­ denza come sia proprio il rapporto fra il mondo della vita della con­ percezione fenomenologica ed il linguaggio a costituire il nodo più problematico di questo tipo di analisi dell’autocostruzione simbolica della realtà sociale d’interazione 15. Il linguaggio come interazione sim­ 14. Cfr. A. Schütz, Common-Sense and Scientific Interpretation of Human Action (1935), in Collected Papers, I, cit., p. 6. 15. Sta in Collected Papers, I, cit., pp. 287-356.

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bolica è la matrice prima del meccanismo essenziale dell’istituzionaliz­ zazione; il linguaggio è alla base, cioè, sia d’ogni definizione della situazione — che è sempre un momento necessario per l’interazione autointendentesi — sia di quella abitualizzazione che elimina provvi­ denzialmente la necessità altrimenti fatale di ridefinire da zero ogni situazione, volta per volta, consentendo così la formazione di aspet­ tative e dunque anche la predeterminazione valutativa di alternative di condotta. Come osserva in proposito l’Habermas: « Senza ricorso alle norme sociali non potrebbero essere spiegate né la nascita né l’evo­ luzione dell’ “ordine costitutivo” di un mondo della vita, e tuttavia è questo mondo la base per la trasposizione individuale di norme in azioni, dalle quali poi ricaviamo che cosa deve valere come norma »16. Per dirla nel modo più conciso ed al tempo stesso più generale pos­ sibile: la comunicazione implica la socializzazione e la socializzazione la comunicazione; le regole fondamentali secondo cui si struttura signi­ ficativamente il mondo sociale della vita presuppongono quelle stesse regole della comunicazione linguistica che servono per interpretarle. A ben vedere, l’etnometodologia ha soltanto radicalizzato, con una serie di corollari, alcuni anche molto felici, ma altri a mio parere francamente eccessivi e dispersivi, quegli argomenti con i quali Schütz era già perfettamente riuscito a rovesciare le fondamenta della socio­ logia positivista ed a riproporre un’autentica sociologia del Verstehen, ben più conseguente di quella « troppo complessata » di Max Weber. Una sociologia che è ben consapevole, proprio come la filosofia di Hegel, di poter spiccare il suo volo sempre soltanto al calar del sole, post festum ogni giorno addirittura. Paradossalmente — e questo sarà lo « scandalo » fenomenologico sul quale fonderà la sua predicazione radicale Garfinkel — l’autocomprensione di questa sociologia rovescerà i termini tradizionali del rapporto fra il sociologo e l’uomo della strada. D’ora innanzi, non sarà più lo scienziato sociale ad essere il vero competente del signifi­ cato dell’interazione sociale. Sono gli attori sociali in carne ed ossa, è l’uomo della strada, l’unico vero competente; vichianamente, verum et factum, azione e senso, appartengono ai soggetti reali della vita. Sono loro i ministri autorizzati di quel « sacramento » che è l’autoproduzione del sociale, come struttura e come valore, come senso co­ mune, appunto. Questa è proprio la « Riforma », rispetto alla tradi­ zione « cattolica » della sociologia secondo le Regole e secondo le For­ me elementari di Durkheim. 16. J. Habermas, Logica delle scienze sociali. Il Mulino, Bologna, 1970, pp. 177-178.

302 L’uomo della strada è il vero sociologo perché è il protagonista della produzione del senso comune, della società — che non è più una totalità immanente od attuale, ma che è l’orizzonte inesauribile che consente la ricomposizione e riscomposizione incessante di frammenti innumerevoli che non sono mai il discorso, ma che consentono sempre al discorso di proseguire, al senso di ritrovarsi e di perdersi, ma di continuare a prodursi, pur senza lasciarsi mai « chiudere », pur senza non recuperarsi sempre, fin nell’estrema domanda « perché? », anche se continuamente al cospetto dell’assurdo. Lo scienziato sociale è adesso lui il profano eventualmente ammesso ad assistere, oppure spiante i riti sacri della plurima autogenesi del sociale, del suo continuo ma discontinuo prodursi intersoggettivo come senso comune. L’approccio fenomenologico ha riportato al centro del­ l’attenzione lo strumento dell’osservazione partecipante, che fu il me­ todo per eccellenza della scuola di Chicago. Ma quanto lo ha reso più consapevole e necessariamente più problematico! Quando il sociologo accetta il resoconto del profano, seppure in parte, lo equipara di fatto ad un collega, per quanto lo consideri in­ competente. Ma quando — come avviene continuamente nel corso di ogni indagine sul campo — l’oggetto dell’indagine diventa la risorsa principale per l’indagine? Non si pretende, allora, che l’informatore sia anche lui uno scienziato, uno scienziato di se stesso? Quando gli etnometodologi insistono che « la pratica (sociologica) corrente del lavoro sul campo confonde oggetto e risorsa della ricerca », è vera­ mente molto difficile non essere d’accordo con loro 17. Il problema è aperto. Ancora non mi pare se ne sia misurato tutto il fondo. Non è un enunciato senza conseguenze l’affermazione programmatica sempre più ripetuta: « la realtà oggettiva dei fatti sociali deve cessare d’essere un principio e divenire invece un oggetto d’indagine ». Se mi è con­ sentito un paragone audace, questo enunciato è almeno altrettanto rivo­ luzionario, nelle implicazioni, di quello fin troppo abusato che inau­ gura la critica marxiana della filosofia come « interpretazione del mondo » ed è, probabilmente, molto più argomentato sul piano episte­ mologico e corroborato empiricamente, per quello che possano valere i tentativi di verificare empiricamente i significati delle nostre pratiche sociali contingenti. Credo che saremmo in molti a condividere l’opi­ nione che le caratteristiche di un contesto sociale non sono un dato naturale, ma un particolare prodotto storico-sociale, e che, di conse­ guenza, esse costituiscono quello che Zimmerman e Pollner hanno 17. Cfr. Don H. Zimmerman e Melvin Pollner, Il mondo quotidiano come fenomeno, sta in Etnometodologia, cit., p. 104.

303 definito un « corpus contingente », cioè « realizzazioni particolari del lavoro di produzione e riconoscimento di un certo numero di indi­ vidui »‘8. Può bastare qui ricordare che questa opinione non è più una tesi condannata dell’eresia etnometodologica, ma una delle tesi fonda­ mentali accolte da un sociologo così ufficiale e così conservatore, così intelligente e così professionale, come Michel Crozier ”, non a torto considerato il più credibile candidato alla successione nel ruolo che aveva, non solo nella sociologia francese, R. Aron. Abbiamo una sociologia della sociologia dal punto di vista del­ l’uomo della strada. È cresciuta l’autocomprensione della disciplina e forse questo può essere anche un labile indizio di un altro progresso dell’autocomprensione sociale medesima, più in generale. Schütz ha avuto un ruolo determinante in questo sviluppo e Schütz è stato sempre convinto che il merito maggiore dei suoi possibili meriti era di Husserl e di Weber. Come insegnante di sociologia non potrei recare migliore testimonianza di questa — di Schütz e della sua vicenda americana — a questo Convegno di studio per i 50 anni della Krisis.

18. Ivi, pp. 106-113. In particolare, per chiarire meglio il concetto: «Il corpus contingente consiste nei metodi con cui i membri esibiscono l’intercon­ nessione, l’oggettività, la regolarità e l’importanza delle caratteristiche di ogni contesto sociale particolare come caratteristiche appartenenti, relative o colle­ gate a un contesto più ampio, comprensivo e permanente, cui ci si riferisce nor­ malmente come alla società», ivi, pp. 111-112. 19. Cfr. M. Crozier, E. Friedberg, Attore sociale e sistema, Etas Libri, Mi­ lano, 1978. Crozier riconosce a quelle che chiama « le diverse correnti interazioniste, dei goffmaniani e degli etnometodologi » di aver scoperto il gioco com­ plesso delle strategie interpersonali degli attori in situazione; ma li accusa di essere rimasti « prigionieri di una visione troppo esclusivamente fenomenolo­ gica ». Egli ammette che gli etnometodologi « detengono uno strumento per comprendere le interazioni », ma poi resta fedele al « procedimento strategico ». Sembra non rendersi conto che non si può spiegare le interazioni con la stra­ tegia perché è semmai la strategia che può essere compresa solo comprendendo le interazioni. Crozier vorrebbe limitare la validità dell’approccio fenomeno­ logico alla microsociologia o psicologia sociale, perché non vuole che il carat­ tere contingente delle istituzioni, che pure ammette, venga riconosciuto nella sua radicalità rispetto alla formazione storico-sociale capitalista. Crozier, coscien­ temente o meno, vuole teorizzare la contingenza solo come possibilità-necessità dell’aggiornamento continuo della « società industriale » e, quindi, in ultima ana­ lisi, confermare che «la rivoluzione è già avvenuta», anzi continua; è la forma capitalista stessa ad essere permanentemente rivoluzionaria e progressiva. Insomma, Crozier è un conservatore molto intelligente, forse oggi il più lucido «cervello» della Trilateral Commission. Ma questo è un altro discorso.

5. LA CRISI FENOMENOLOGICA DELLE SCIENZE E LA CRISI DELLA PSICOLOGIA CONTEMPORANEA

di Maria Sinatra

Perché Husserl, ne La crisi delle scienze europee, in cui constata il fallimento di un particolare modello e di una particolare esperien­ za storica di scientificità, si occupa anche della Psicologia, assumen­ dola, insieme con il mondo-della-vita ILebenswelf), come via privi­ legiata di accesso alla filosofia trascendentale fenomenologica? È im­ portante ricordare che il titolo originario delle conferenze di Praga, che poi costituirono il testo de La crisi, era: La crisi delle scienze eu­ ropee e la psicologia '. Qual è, dunque, il significato di questo richia­ mo alla psicologia? Qual è il rapporto tra crisi della psicologia e crisi delle altre scienze? Se c’è una crisi generale delle scienze europee, co­ me si atteggia questa crisi nello specifico della psicologia? Per dare risposta a questi interrogativi, occorre rintracciarne la comune radice nella discussione sulla psicologia naturalistica, che è il modello vincente della psicologia moderna e contemporanea e che, agli occhi di Husserl, sotto l’influenza dei risultati raggiunti nel cam­ po delle Naturwissenschaften, si limita a considerare gli eventi psi­ chici come eventi fisici, cioè scomponibili in una catena di processi di cui vengono indagati meccanismi e leggi di funzionamento, espressi nei termini della esattezza del linguaggio simbolico matematico fatto risalire alla fondazione della fisica galileiana1 2. Le intrinseche impli­ cazioni filosofiche di tale fisica e i suoi riflessi e condizionamenti sul­ lo sviluppo del pensiero moderno Husserl sottopone, com’è noto, a critica nella seconda parte de La crisi. Al modello della psicologia naturalistica, che si delinea come scienza dei fatti psichici, Husserl oppone, a partire dalle lezioni del 1925 — Phänomenologische Psychologie — e dagli Amsterdamer Vorträge del 1928, l’alternativa della psicologia fenomenologica, che ha struttura eidetico-intuitiva e, come tale, è contraria tanto alla psi1. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascenden­ tale, Il Saggiatore, Milano, 19755, p. 33. 2. Ivi, pp. 53 ss.

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oologia associazionista e sperimentale quale, ad es., quella di Wundt, quanto pure alle due principali forme di superamento della psicolo­ gia naturalistica — la teoria di Brentano, da una parte, che fa uso ristretto del principio d’intenzionalità esteso, invece, nel progetto hus­ serliano, a carattere generale della coscienza, e la teoria di Dilthey, dall’altra, che, malgrado l’atteggiamento radicalmente antiassociazionistico legato alla tesi della connessione unitaria della psiche, riesce a realizzare solo una scienza di fatti (psichici) e non anche di essenze. Dal punto di vista da Husserl raggiunto ne La crisi, la psicologia naturalistica è una forma altamente espressiva della più generale crisi delle scienze europee, dal momento che questa è soprattutto l’oblio della soggettività, che è fonte e produttrice delle scienze. La crisi del­ le scienze è crisi dell’uomo e della sua ragione, in quanto l’uomo con­ temporaneo rinuncia a porsi il problema del « vero essere che gli è proprio »3, perde di vista la differenza tra fatto e valore e si limita alla ratifica dei fatti e alla rappresentazione dell’accaduto. L’attrazione, che la fenomenologia husserliana avverte per la psi­ cologia, e, insieme, il rigetto totale della psicologia moderna perché naturalistica, si spiegano col fatto che, da un lato, la psicologia, fra tutte le scienze, è la più vicina alla tematica dell’uomo nella sua spe­ cifica essenza soggettiva e, dall’altro, la riduzione naturalistica fa perdere di vista proprio quella specifica essenza soggettiva. Per que­ sto la terza parte de La crisi — ma questo orientamento è già mani­ festo nelle lezioni del 1925 — istituisce un rapporto assolutamente preferenziale tra il trascendentalismo fenomenologico e la psicologia, la psicologia, s’intende, che si sia affrancata dal riduzionismo natura­ listico. Dice Husserl all’inizio del par. 72 de La crisi: non esiste una psicologia pura come scienza positiva, una psicologia che si proponga di indagare universalmente come fatti reali gli uomini che vivono nel mondo, come fanno invece le altre scienze positive, le scienze della natura e le scienze dello spirito. Esiste soltanto una psico­ logia trascendentale che si identifica con la filosofia trascendentale 4.

Il senso della reimpostazione fenomenologica del problema psico­ logico è stato colto benissimo da Eugen Fink nell’Appendice XXIX de La crisi, ove presenta un abbozzo per un possibile proseguimento de La crisi. Secondo Fink,

3. Ivi, p. 42. 4. Ivi, p. 276.

306 non esiste nessuna psicologia che possa restare psicologia. Una volta trovato il metodo per dischiudere Vintenzionalità, la « conseguenzialità stes­ sa della cosa » induce sulla via analitica che procede dalle unità già date alle profondità propriamente costitutive e perciò verso la dimensione tra­ scendentale. La psicologia deve sfociare nella filosofia trascendentale. Tut­ tavia resta sempre una differenza tra la psicologia e la fenomenologia ... La psicologia non è un « mero stadio preliminare » della fenomenologia tutta presa dalla riflessione sui propri inizi: lo è soltanto in quanto studio della via verso la fenomenologia 5.

Ma l’alternativa psicologico-fenomenologica husserliana è valida ancor oggi, a cinquant’anni di distanza dalla sua formulazione ne La crisi? A tutta prima, si direbbe di no. Le scienze in generale hanno su­ bito tali trasformazioni da far supporre che la diversificata modalità di tecniche sia in grado di rispondere a qualunque domanda/bisogno ponga il singolo, possa aiutarlo ad esprimersi nelle dimensioni volute o solo desiderate, a esplicitare le sue potenzialità. E, allora, come mai si parla tanto di crisi, crisi esistenziale, crisi d’identità, crisi dei rap­ porti interpersonali? È forse possibile attribuire la crisi attuale, per la sua configurazione, ad avvenimenti, scelte, costrizioni temporalmente precedenti? E se è ipotizzabile un legame tra crisi degli anni ’80 e crisi degli anni ’30-’40, si può individuare la matrice, il vizio d’origine, che renda conto della persistenza del fenomeno di crisi? O forse l'uni­ versalizzazione del termine “crisi” ha fatto perdere senso e portata della crisi? Dove tutto è crisi, niente è in crisi. Ma, dal momento che di crisi — evidente o latente che sia — ce n’è tanta, bisogna riflettere sulla situazione attuale che, a ben vedere, non è poi molto diversa da quella dei tempi di Husserl: il vizio, che è, sì, d’origine, ma che si perpetua, lo si intravvede proprio nell’apparato scientifico-tecnologi­ co, il quale, ora come allora, imponendo accelerate capacità trasforma­ ti vo-adattive, da una parte, e postulando mistificanti materiali sosti­ tutivi dei reali bisogni soggettivi — si pensi al consumismo —, dall’altra, non lascia all’uomo contemporaneo il tempo di chiedersi quale sia il valore di tale apparato al di là della sua mera strumentalità, quale la sua “essenza”, che non è un fatto tecnico. Ciò che pare prevalere è una sorta di ideologia del dominio del dominabile, della manipolazione del mondo delle cose, manipolazione che si estende anche all’uomo, manipolazione dell’uomo da parte dell’uomo, col connesso discono­ scimento o soffocamento dell’alterità, ossia con la riduzione a cosa della specifica, essenziale soggettività degli altri.

5. Ivi, p. 543.

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Nello sfondo di questa situazione contemporanea, che è la stessa — lo si è detto — vissuta e meditata da Husserl con in più l’esaspera­ zione e l’estremizzazione di determinati processi, ci sembra che la scienza psicologica odierna, a onta degli intervenuti raffinamenti me­ todologici e della sofisticatezza di tecniche certamente inesistenti al tempo di Husserl, non abbia sostanzialmente abbandonato la vecchia impostazione naturalistica e sia restata ancora al di qua di quella ri­ fondazione che Husserl ha reclamato dalla Phänomenologische Psy­ chologie agli Amsterdamer Vorträge e, finalmente, a La crisi. Infatti, ogniqualvolta un soggetto umano — bambino, adolescen­ te o adulto che sia — cominci a prendere coscienza della propria estra­ neazione nel sistema a cui appartiene e manifesti un bisogno di liber­ tà, di particolare affettività, di rapporti “altri” con gli altri, in que­ sto stesso momento diventa un soggetto da “curare”, in questo stesso momento inizia la sua progressiva perdita di potere a tutto vantaggio della funzione del curatore psicologo/psichiatra, il cui compito è ap­ punto quello di “guarire”, cioè normalizzare, rendere consapevole il “diverso” della infondatezza del proprio stato, aiutarlo a ridiventare efficiente secondo le regole del sistema, senza bisogni che siano suoi propri. Il tanto auspicato “cambiamento” si traduce, così, spesso in adattamento/riadattamento a ciò che, di volta in volta, la società — ma quale società? — esige dal singolo. È evidente come si possa, così, neutralizzare cariche di energia contrarie al mantenimento del sistema spiegandole, per un verso, come componenti devianti, ma pur sempre elementi del sistema in equilibrio, dall’altro, come devianza indivi­ duale, come anormalità individuale, come “colpa” individuale da eli­ minare, superare con mezzi di controllo indiretti (vedi, ad es., la psicologizzazione delle contraddizioni di una istituzione attraverso l’in­ tervento psicologico su coloro che risultano disadattati rispetto al­ l’istituzione così come essa è: è il caso dello scolaro difficile, “carat­ teriale”, refrattario a una certa disciplina e organizzazione scolastica) o diretti (vedi, ad es., l’esclusione di chi è portatore, in modo più evi­ dente, delle contraddizioni insite nel sistema, e suo confinamento in una classe differenziale o in un manicomio). La scientificità della scienza psicologica è, allora, la misura della sua funzionalità al per­ petuamente di determinati equilibri formali che, alla prova dei fatti, risultano essere reali squilibri e sociali e individuali. Se questa è la situazione, oggi, della scienza psicologica, si vede subito quale e quanto significato abbiano, per essa, la denuncia, da Husserl fatta ne La crisi, della riduzione positivistico-naturalistica del concetto di scienza, l’interrogarsi de La crisi circa il senso dell’essere scientifico e, infine, l’interpretazione fenomenologica della crisi

308 della scienza come « perdita del suo significato per la vita », Del resto, la lezione fenomenologica husserliana ha già trovato larga eco nella psicologia umanistica e in una certa corrente psichiatrica (Bins­ wanger, Laing, ecc.) e il rilevante saggio di F.JJ. Buytendijk, Die Bedeutung der Phänomenologie Husserls für die Psychologie der Ge­ genwart documentò, un quarto di secolo addietro, la profonda inci­ denza della fenomenologia husserliana nel contesto della psicologia contemporanea 6. Tra una visione dell’uomo — qual è quella behaviorista — che fa dell’uomo una « macchina organica », da un lato, e l’impostazione psi­ coanalitica, che pone l’uomo a vittima inerme di forze istintuali in­ consce, dall’altro, emerge l’esigenza di un intervento che sappia co­ gliere l’essenziale individualità dell’uomo — bambino, adolescente, adulto —, la sua differenza personale, e tenga conto della molteplicità e “diversità” dei modi soggettivi di essere-nel-mondo. È questo il problema fondamentale del rapporto con gli altri, del capire ed essere capiti. C’è un passo, ne La crisi, sul quale bisogna riflettere: ... l’autocoscienza e la coscienza dell’estraneo sono inseparabili a priori. È impensabile ... che io sia Un uomo nel mondo senza essere un uomo. Anche se nel mio campo percettivo non c’è nessuno, esistono altri uomini reali, che noi conosciamo, oppure che, in quanto costituiscono un oriz­ zonte aperto, possiamo incontrare7.

L’inseparabilità, dichiarata da Husserl ne La crisi, dell'auto-co­ scienza e della coscienza dell’estraneo, già tema della V Meditazione cartesiana, fa sì che, nel corso della riduzione trascendentale, il sog­ getto, ritrovando se stesso, incontra anche l’altro-da-sé, il suo alter-ego. Ma lungo questa via e proprio grazie alla riduzione trascendentale av­ viene anche che — e qui sta il paradosso e il suo superamento 8 — gli uomini sono soggetti per il mondo (del mondo che è il loro mondo di coscienza) e insieme oggetti in questo mondo9.

Il paradosso è superato allorché si tenga conto del fatto che il re­ ticolo dei rapporti intersoggettivi, che formano il « mondo-della-vita », 6. F.JJ. Buytendijk, Die Bedeutung der Phänomenologie Husserls für die Psychologie der Gegenwart, in Husserl et la pensée moderne, Nijhoff, Den Haag,

1959, pp. 78-98. 7. E. Husserl, La crisi, cit., p. 272. 8. Ivi, parr. 53-54. 9. Ivi, p. 207.

309 si collega sempre alla dimensione della coscienza pura trascendentale, la quale costituisce, a sua volta, il mondo « naturale », nei termini di quella intersoggettività trascendentale che rende possibile il dive­ nire soggetti per il mondo, soggetti che « compiono l’operazione di senso e di validità della costituzione universale »1011 . Questo processo di costituzione del mondo, dunque, è regolato dal­ la correlazione intenzionale tra coscienza e mondo, correlazione nella quale il mondo « attinge il suo senso e il suo essere esclusivamente alla nostra vita intenzionale »’*. Il mondo, cioè, che nell’atteggiamento naturale è mondo reale « in sé », diviene il « fenomeno » mondo, il mondo che assume un senso dall’attività costitutiva dell’io. E l’io, da parte sua, non è più l’io psi­ co-fisico della scienza psicologica « obbiettiva », bensì diviene, sempre in virtù della riduzione trascendentale, il « fenomeno » Io trascenden­ tale 1213 . 14 Solo percorrendo questa strada Husserl può affermare che « l’io — appena dico “io” si trasforma in “io altro”, in “noi tutti”, nel noi con molti “io”, nel noi entro cui io sono soltanto “un” io »”. Nell’in­ contro con l’altro, allora, l’altro non è più un Fremder, un estraneo, ma, come lo definisce significativamente Hermann Zehner sulla scia di Alfred Schutz un Vertrauter, cioè un intimo, un familiare, giac­ ché « ursprüngliche Zugewandtheit des Ich zu Du » è

ein unentbehrliches Costituens aller “Fremd”-Erfahrung. Gewiss: diese Zugewandtheit setzt die Selbstunterscheidung des Ich vom Du « in gewisser Weise » immer schon voraus - aber doch eben nur im Rahmen, innerhalb der Ganzheit eines vorgängigen Wir 15.

10. Ivi, p. 209. 11. Ivi, p. 207. 12. Vorremmo, in proposito, ricordare la ripresa del concetto di intenzio­ nalità in psicologia da parte di K. Bühler nella sua analisi della natura del pen­ siero. Nell’articolo del 1907, Tatsachen und Probleme zu einer Psychologie der Denkvorgänge (« Archiv für die geschichtliche Psychologie », 1907, 9, pp. 297365), Bühler accetta di Husserl, di cui ha già letto le Logische Untersuchungen, la distinzione tra atto rappresentativo c atto di rappresentare, il setzender, jürwahrhaltender Akt, ma la critica quando assume la intenzionalità husserliana come riferita solo a oggetti « reali ». .- lerni e tale, quindi, da non poter rendere conto del processo psichico qua talis. Ne segue una caratterizzazione dell’« inten­ zione » come « rapporto dell’io all’oggetto » (p. 350), mentre per i rapporti tra oggetti vale un altro tipo di pensiero, il Beziehungsbewusstsein. 13. E. Husserl, La crisi, cit., p. 208. 14. Cfr. A. Schütz, Das Problem der transzendentalen Intersubjektivität bei Husserl, « Philosophische Rundschau », 1957, 5, pp. 81-107. 15. H. Zehner, Das Ich und die Andern, «Zeitschrift für philosophische Forschung », 1959, 2, p. 314.

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L’intersoggettività, insomma, è il presupposto della soggettività, la quale offre il fondamento della oggettività del mondo. Nella plura­ lità delle esistenze viene, così, garantita la visione di un mondo espe­ rito da un Io e, al contempo, da quella totalità degli Io (intersoggettivi) a cui ciascun Io rinvia e alla quale l’umanità intera si « riduce » in quanto realizzazione della soggettività trascendentale costitutiva. È per questo che tale soggettività/intersoggettività trascendentale costi­ tutiva del senso e dell’essere del mondo sta a indicare la storia dell’u­ manità, che è pure storia delle scienze perché storia delle modalità con cui il mondo si è manifestato al soggetto conoscente, e storia, in particolare, delle « scienze europee », che hanno fallito proprio lad­ dove non hanno voluto riconoscere l’uomo — e con lui, l’umanità — come « animal rationale »16, anzi Io hanno arbitrariamente isolato, al fine di studiarlo come un “oggetto”, collocandolo al di fuori del con­ testo relazionale e rendendolo, così, astratto e ponendo tale astratto come concreto. È questo il limite della scienza psicologica dei tempi di Husserl, ma lo è anche della scienza psicologica odierna più diffu­ sa e dominante, che fallisce proprio nel momento in cui perde di vista l’evento globale della correlazione strutturale dell’uomo con l’altro uomo nell’unità del loro mondo. Nei confronti di tale psicologia non è inutile, forse, rileggere quanto scrive Husserl nel par. 60 de La crisi:

... la psicologia si assunse fin dagli inizi l’onere dei compiti propri di una scienza parallela (a quella fisica) e concepì l’anima — cioè il suo tema — come un che di reale nello stesso senso della natura corporea, chC era il tema delle scienze della natura. Fintanto che non sarà esplicitato il controsenso di questo pregiudizio secolare, non esisterà una psicologia che sia scienza dello psichico 17.

16. E. Husserl, La crisi, cit., p. 44. 17. Ivi, p. 236. Al riguardo è da vedere il cap. V del libro di G. Thines, La problématique de la Psychologie (Nijhoff, Den Haag, 1968), che è dedicato a La dimension trascendentale de la Psychologie scientifique, con diretto richiamo all’opera di Husserl.

6. LA FENOMENOLOGIA COME CRITICA DELLA « RAGIONE PIGRA »

di Ferruccio De Natale

Accade, talvolta, che una tradizionale espressione del linguaggio filosofico, dal significato in apparenza consolidato, divenga, se inse­ rita in un particolare contesto, il veicolo di contenuti teoretici e critici estremamente puntuali e specifici. Così a noi sembra succeda per la figura della « ragione pigra » (faule Vernunft) nel testo husserliano della Krisis: una riflessione sul significato — o, meglio, sui possibili significati —, che essa assume nell’ambito del discorso di Husserl, riteniamo possa fornire un contributo non del tutto marginale alla definizione del rifiuto fenomenologico dell’irrazionalismo filosofico e a Husserl e, in parte, a noi contemporaneo.

1. La « ragione pigra » quale modello di irrazionalismo

Che l’indagine sul significato attribuito da Husserl alla « ragione pigra » non sia motivata solo da mera acribia filologica, ma riguardi un tema centrale della fenomenologia della Krisis, è cosa che emerge allorché si consideri il luogo in cui l’autore a tale espressione ricorre. Questo luogo è situato in un contesto — sul finire del par. 6 della Krisis 1 — che meriterebbe un’attenta analisi e può, qui, essere sche­ matizzato in quattro momenti: 1. Il passo cui qui ci si riferisce è compreso fra il penultimo e l’ultimo capo­ verso di Krisis: si ritiene opportuno riprodurne per intero il testo, poiché il presente lavoro ne costituisce, per larga parte un’interpretazione. « Noi, ora, siamo ben certi che il razionalismo del XVIII secolo, il suo modo di cercare un terreno su cui l’umanità europea potesse radicarsi, era un’ingenuità. Ma con la rinuncia a questo razionalismo ingenuo, il quale, sviluppato conseguentemente, risulta addirittura controsenso, occorre forse rinunciare anche al senso autentico del razionalismo? E che dire di un serio chiarimento di quell’ingenuità, del suo controsenso, e che dire della razionalità di quell’irrazionalismo che è tanto cele­ brato e che oltretutto si vuole da noi? Non è forse chiamato, se gli prestiamo orecchio, a convincerci a procedere razionalmente e a perseguire una fonda­ zione razionale? O la sua irrazionalità non è per caso, in definitiva, un’angusta

312 a. vi è, innanzitutto, la chiara formulazione del giudizio di Husserl sul razionalismo illuministico: un razionalismo che fu, certo, una « ingenuità » (Naivität) e si rivelò, coerentemente sviluppato, un « controsenso » (Widersinn), ma il cui fallimento non autorizza né una « demonizzazione » deH’Illuminismo — epoca, che è « tanto diffamata » quanto, per Husserl, è « degna di venerazione »2 — né una abdicazione dallo sforzo verso 1’« autentico » (echt) razio­ nalismo; b. si delinea, quindi, la lotta per il razionalismo come praticabile pro­ prio a partire dal « chiarimento » sia della « ingenuità » del « con­ trosenso » dell’antico razionalismo, sia della « razionalità di quel­ l’irrazionalismo che è tanto celebrato (gepriesen) e che oltretutto — scrive Husserl — si vuole da noi (uns zugemuteten) »; c. si precisa, ancora, che questa razionalità dell’irrazionalismo è non solo « angusta e cattiva razionalità », ma anche « peggiore (schlim­ mere) di quella del vecchio razionalismo »; d. infine, nella forma di un’interrogazione retorica, ci si chiede se tale razionalità non sia « ... la cattiva razionalità della “ragione prigra”, che si sottrae alla lotta per il chiarimento dei dati ultimi e dei fini ' e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veramente razionale ».

È, dunque, lecito dire che, per Husserl, l’immagine della « faule Vernunft » è ben più che una citazione dotta — che, d’altronde, sa­ rebbe così eccentrica rispetto allo stile husserliano —, essendo piut­ tosto chiamata ad esprimere l’essenza o, se si preferisce, il modello stesso della « cattiva ed angusta » razionalità dell’irrazionalismo. La « ragione pigra » pare racchiudere e condensare il meccanismo che regge l’irrazionalismo non in quanto conseguenza di un razionalismo auto-contraddittorio o controsenso, ma in quanto deliberata rinuncia all’originaria tensione dell’umanità verso la ragione, cioè in quanto rinuncia all’essenza umana dell’uomo, se la ragione, per Husserl, « sta e cattiva razionalità, peggiore di quella del vecchio razionalismo? Non è forse addirittura la cattiva razionalità della “ragione pigra”, che si sottrae alla lotta per il chiarimento dei dati ultimi e dei fini e dei mezzi che essi suggeriscono in un modo definitivamente e veramente razionale? ». E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Sag­ giatore, Milano, 1968 (abbrev. La crisi), p. 45; cfr. Id., Die Krisis der europäi­ schen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in Husserliana, Bd. VI, herausg. von W. Biemel, Nijoff, Den Haag, 1954 (abbrev. Die Krisis), p. 14. 2. Ivi, p. 39; cfr. E. Husserl, Die Krisis, cit., p. 8; « ... welcher dieses viel­ geschmähte Zeitalter der Aufklärung so verenhrungswürdig macht ».

313 ad indicare proprio ciò verso cui l’uomo, in quanto uomo tende nel suo intimo, ciò che soltanto lo può “pacificare”, che può renderlo “felice” »3. In questo senso, l’irrazionalismo circoscritto nella « ragione pigra » è altro ed è « peggiore » di quegli stessi deteriori sviluppi del vecchio razionalismo, che possono essere intesi, fenomenologicamente, sotto il titolo di « obiettivismo fisicalistico ». In questo senso, allora, l’esplicitazione del meccanismo implicito nella « ragione pigra » può consen­ tire di individuare un obiettivo polemico, che percorre tutt’intera la fenomenologia della Krisis e che proprio nel par. 6 affiora in modo, per noi, ineludibile.

2. La « ragione pigra » come inerzia della ragione Se tentiamo di guardare dentro i significati che l’espressione « ra­ gione pigra » ha via via assunto dal suo primo apparire (come apyo^ Xófo