Henri Bergson educatore. Virtù intellettuali insegnamento saperi umanistici 9788869929861

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CULTURA E SOCIETÀ

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Maria Teresa Russo

HENRI BERGSON EDUCATORE Virtù intellettuali, insegnamento, saperi umanistici

ARMANDO EDITORE

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ISBN: 978-88-6992-986-1 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2021 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

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Sommario

Introduzione

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Capitolo primo

Bergson professore di liceo

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Gli anni di Angers (1881-1883): le doti oratorie dell’enchanteur. Il discorso sulla specializzazione. Iniziare dai classici: la traduzione di Lucrezio. Clermont-Ferrand, “culla del bergsonismo” (18831888). La conferenza sul riso. Insegnante in tre licei di Parigi

Capitolo secondo Ritratto di un educatore “che insegna da pensatore e pensa 22 da insegnante” Lo stile d’insegnamento: sistematicità e realismo. L’armonia tra i saperi. Spirito filosofico e spirito scientifico, analisi e sintesi. Il “positivismo bergsoniano”. Consigli per preparare le lezioni. Il rapporto con gli allievi

Capitolo terzo Specializzazione e unità del sapere

38

Conoscenza intellettuale e conoscenza intuitiva. Zenone e il rischio del riduzionismo. Insegnare latino e geometria. L’Homo faber non meno degno dell’Homo sapiens

Capitolo quarto La politesse come sintesi di cortesia, amabilità e benevolenza 47 I tre gradini di politesse. Buona educazione ed educazione buona. La virtù come elasticità dello spirito

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Capitolo quinto

Il buon senso, virtù intellettuale e morale

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Sintesi di intelligenza e intuizione. Spirito di routine, spirito chimerico e realismo. Buon senso e virtù della giustizia

Capitolo sesto

Il valore formativo della filosofia nella riforma della scuola secondaria

62

Bergson docente al Collège de France. La discussione sul vocabolario filosofico nella Societé Française de Philosophie (1901). L’inchiesta del 1907 sull’insegnamento della filosofia

Capitolo settimo

Saperi umanistici e saperi scientifici

80

Cos’è un classico. Gli studi classici: la precisione contro il pressappoco. Linguaggio e pensiero. Le virtù intellettuali nell’esercizio di traduzione. Rigore e passione

Capitolo ottavo

Bergson membro del Conseil supérieur de l’instruction 89 publique (1919-1925) La proposta di Léon Bérard sulla riforma dell’insegnamento secondario e l’autorità di Bergson nei dibattiti parlamentari (1923). Il valore formativo degli studi greco-latini e la difesa del liceo classico

Capitolo nono

Metafisica greca e metafisica positiva: cercare la concretezza del pensiero

101

Formazione filosofica e “cultura dello stupore”. L’inutilità delle controversie filosofiche. Due modi di intendere la storia della filosofia. Come dovrebbero scrivere i filosofi: la lettera a Constant Bourquin (15 dicembre 1922)

Capitolo decimo

Volontà e intelligenza nello sviluppo delle virtù intellettuali 116 L’attenzione come virtù intellettuale e morale. Attenzione spontanea e attenzione volontaria. La “pedagogia dello sforzo”: una pedagogia eroica?

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Conclusione

L’arte di pensare e lo sviluppo morale: la responsabilità 125 dell’educatore Testi di Henri Bergson Discorsi agli studenti La specializzazione (3 agosto 1882) La politesse (5 agosto del 1885) Il buon senso e gli studi classici (30 luglio 1895) L’intelligenza (31 luglio 1902)

132 132 132 138 145 156

Comunicazione all’Académie des Sciences Morales 163 et Politiques Gli studi greco-latini e la riforma dell’insegnamento secondario (4 novembre 1922)

Indice dei nomi

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Introduzione

Si può apportare qualcosa di nuovo alla lettura del pensiero di Bergson, vista la sterminata letteratura critica? La risposta è affermativa, se da un lato si tiene conto delle recenti edizioni critiche delle sue opere, compresa la fitta corrispondenza, dall’altro si riflette su un aspetto forse meno esplorato, che ha ricevuto nuova luce con la pubblicazione dei Corsi tenuti negli anni di insegnamento al liceo. Scarsa attenzione è stata infatti dedicata a quella che Jean Guitton definisce come la “vocazione” di Bergson: la duplice attitudine di professore e di filosofo1. Professore di filosofia, certo, ma non solo: anche educatore o, se si preferisce filosofo dell’educazione, se si intende con questo termine non tanto chi elabora un’articolata e forse astratta teoria educativa, ma chi dalla sua personale esperienza professionale di docente trae una proposta teorica e pratica sull’efficacia dell’insegnamento e sulla concezione stessa di formazione. Sono molti e ben noti gli scritti di Bergson dedicati al metodo del ragionamento filosofico, al rapporto tra intelligenza e intuizione e, più in generale, all’arte di pensare. Meno noti sono invece i testi frutto dell’insegnamento di Filosofia nella scuola secondaria, esercitato per ben sedici anni, vale a dire i discorsi di fine anno indirizzati agli studenti e gli appunti dei corsi tenuti nei licei, a Clermont-Ferrand e a Parigi. L’analisi di questi testi, messi a confronto con alcune lettere sugli stessi temi, ci offre un chiaro profilo del suo stile d’insegnamento e della sua idea di educazione. La prima caratteristica è quella della ricerca 1 Il saggio più ampio dedicato all’attività docente di Henri Bergson e al suo pensiero di educatore, resta ancora quello di Rose Marie Mossé-Bastide, Puf, Paris 1955, che assume come punto centrale il discorso pronunciato dal filosofo nel 1895, Le bon sens et les études classiques, in occasione della distribuzione dei premi del Concorso generale.

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di una sistematicità che non è né la tendenza a semplificare in modo riduttivo il ragionamento, né il tentativo di introdurre gli allievi a una logica rigidamente deduttiva. È piuttosto la risposta a una convinzione profonda: che la possibilità di dare un ordine al pensiero sia un criterio di verità e che si possano conciliare evidenza razionale e certezza morale. Da qui la preoccupazione di educare a un lavoro intellettuale inteso come armonia di virtù morali e intellettuali, dove la modalità stessa di esporre i contenuti da parte del docente o la valutazione degli elaborati assumono una valenza direttamente formativa. Per Bergson, vi è un’etica dell’intelligenza che consiste nel rifiuto della passività e del pressapochismo, per orientarsi al rispetto e alla scoperta del reale in tutta la sua ricchezza. Per lui la filosofia è “lo studio della realtà concreta” a cui accostarsi con l’aristotelico stupore e non con l’idea di distogliere l’attenzione dalla vita. Da qui che insegnarla non consiste né in una esposizione neutra di idee, né in una prematura iniziazione al senso critico, bruciando le tappe dello sviluppo intellettuale dell’allievo, ma nell’avviare a un progressivo approfondimento di percorsi di pensiero, da cui scoprire come condurre l’intelligenza a cogliere la realtà in tutte le sue sfumature. Per il Bergson professore, la distinzione kantiana tra “imparare la filosofia” ed “imparare a filosofare” non ha pertanto valore, perché nell’insegnamento della filosofia non si può separare lo studio della disciplina da ciò che quello studio porta con sé. Non c’è alcuna dicotomia tra “insegnare a pensare” e “insegnare pensieri altrui”, per il semplice motivo che la storia della filosofia non è la presentazione asettica di “pensieri altrui”, ma il simpatizzare con il lavoro speculativo compiuto in passato, per poter trarre da questo sforzo un incoraggiamento alla libertà di spirito, per appassionarsi alla ricchezza del reale e, allo stesso tempo, per dotarsi di un metodo preciso. Accanto alla filosofia, per Bergson hanno una importanza formativa fondamentale le lingue classiche, il greco e il latino. Il valore della traduzione per la formazione intellettuale è insostituibile, perché l’impegno di attenzione e di precisione che richiede, oltre ad essere un ulteriore esercizio di rispetto del reale, favorisce l’attitudine alla ricostruzione di un senso che si trova al di sotto delle parole e al di là delle idee, ma che non è costituito in senso stretto né dalle une né dalle altre. Meritano anche attenzione i contributi, diretti o indiretti, offerti da Bergson al dibattito culturale e politico sulle riforme dell’istruzione, 10

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sia nelle istituzioni accademiche che nello stesso parlamento francese. Allora, come anche oggi, le proposte di riforma della scuola hanno il potere di suscitare accese discussioni. Gli interventi del filosofo, pur in una concezione di educazione piuttosto elitaria, del resto in linea con i sistemi di istruzione dell’epoca, sono stati sempre ispirati alla difesa del valore formativo della filosofia e degli studi classici. Attento interprete del progresso scientifico, mai egli ha visto gli studi umanistici in contrapposizione alle scienze, ma come quell’elemento irrinunciabile – secondo l’immagine ben nota – per infondere e preservare l’anima di un corpo che la tecnica rischia di rendere smisurato.

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Capitolo primo

Bergson professore di liceo

Gli anni di Angers (1881-1883): le doti oratorie dell’enchanteur. Il discorso sulla specializzazione. Iniziare dai classici: la traduzione di Lucrezio. Clermont-Ferrand, “culla del bergsonismo” (1883-1888). La conferenza sul riso. Insegnante in tre licei di Parigi Come afferma Henri Hude, “è impossibile dissociare Bergson pensatore da Bergson professore”1, giacché si tratta di due espressioni complementari di uno stesso pensiero. La pubblicazione dei corsi liceali, desunti dagli appunti dei suoi allievi2 e l’edizione della maggior parte della corrispondenza, ci hanno permesso di ricostruire in modo più completo il suo stile di insegnamento, gettando anche più luce sul periodo iniziale del suo percorso intellettuale. I primi passi sono noti, ma li accenniamo servendoci di alcune sue lettere, dove non esita a mostrarsi debitore nei confronti dei suoi maestri. Tra questi, figura senz’altro Jules Lachelier, che definisce: “uno dei nostri grandi filosofi, che aveva una rettitudine di pensiero che sembrava fare tutt’uno con la dirittura del suo carattere”: io gli devo molto, perché sui banchi di scuola, dove ci si insegnava un Cousinismo all’acqua di rose, la lettura del Fondamento dell’induzione venne inaspettatamente a rivelarmi cos’era la filosofia”3. Pur non essendo mai stato 1 J. Bardy-B. Bourgeois – J.L. Chédin – H. Hude, et al., Bergson. Naissance d’une philosophie: Actes du Colloque de Clermont-Ferrand, 17 et 18 novembre 1989, Puf, Paris 1990, p. 23. 2 Si tratta di Désiré Rostand, Charles Blondel, Arnaud Vacher, Alfred Jarry, Eugène Estival. 3 Lettre a Joseph Baruzi, 5 marzo 1937, in H. Bergson, Correspondances, a cura di A. Robinet, Puf, Paris 2002, p. 1565.

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allievo di Lachelier, Bergson lo considera un suo maestro, conservando nei suoi confronti una “fervente ammirazione e allo stesso tempo una profonda riconoscenza”4. Per una ricostruzione in prima persona della svolta del suo percorso speculativo, è interessante una lettera indirizzata a H. Höffding, il quale gli aveva scritto chiedendogli ragguagli sull’origine dell’Essai sur les données, scelto come testo di studio per i suoi allievi: Mi fa piacere darle le informazioni che vuole chiedermi sull’origine di questo libro. L’idea prima è venuta da una riflessione su alcuni principi delle scienze esatte. Avevo sempre creduto, quando ero studente di filosofia, che mi sarei consacrato in particolare alla filosofia delle scienze. È questa che mi attirava, sebbene i miei studi propriamente detti, in vista dell’agrégation5 in filosofia, avessero riguardato soprattutto i testi dei filosofi antichi e moderni. Se, alla fine dei miei studi, avessi dovuto optare per qualche “Weltanschauung” mi sarei senza dubbio orientato verso Spencer: perlomeno non avrei rimproverato alla sua filosofia di non essere schiettamente meccanicista. Avevo queste disposizioni quando fui condotto, da un progetto di tesi, ad esaminare da vicino il significato di alcuni principi della meccanica, in particolare a studiare il ruolo che vi giocano le considerazioni del tempo. Mi resi allora conto che il tempo di cui si parla in dinamica, e di conseguenza anche in fisica, non è mai altro che un determinato numero di simultaneità, che il flusso della durata non è e non può essere preso in considerazione, che infine il tempo scientifico non è altro che spazio. Questo mi portò a domandarmi cosa potesse essere il tempo reale quando lo si andava a cercare sotto un simbolo spaziale. Mi resi conto a poco a poco della natura psicologica di questa durata e mi stupii che psicologi e filosofi ne avessero parlato così poco, considerando generalmente spazio e tempo come cose dello stesso genere. Questo mi portò ad attribuire alla psicologia –in particolare alla psicologia d’introspezione – una importanza che fino ad allora non le era stata attribuita. L’oggetto della mia ricerca finì così per spostarsi completamente. La questione che mi 4 Cfr. Lettera a Xavier Léon, 28 maggio 1932, in H. Bergson, Mélanges, a cura di A. Robinet, Puf, Paris 1972, p. 1503. A Jules Lachelier, Bergson dedicherà la sua tesi di dottorato, l’Essai sur les données immédiates de la conscience (1889). 5 Con il termine Agrégation si intende il titolo necessario per l’abilitazione all’insegnamento.

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ponevo in quel momento era di sapere come ci appare la realtà interiore immediata quando facciamo astrazione dal simbolismo che la scienza e il linguaggio ci hanno trasmesso, in particolare da quel simbolismo spaziale che ha finito per nascondere ai nostri occhi la durata reale. In sintesi, il punto di partenza del mio Essai sur les données immédiates è nelle pagine 88-91 e 147-149 relative al tempo omogeneo e posso dire che è stata la considerazione del tempo a separarmi dalla filosofia meccanicista per condurmi a uno “psicologismo” a cui mi sono sempre più dedicato, prima nei Données immédiates, poi in Matière et Mémoire6.

Henri Bergson diviene professore nel 1881 ad appena 22 anni7 e trascorrerà 16 anni nell’insegnamento secondario, fino al 18978. La sua prima destinazione è al liceo Saint-Brieuc di Côtes-du-Nord, in Bretagna, regione allora ben poco attraente, sia per il clima che per l’isolamento culturale. In una lettera diretta a Charles Salomon9, egli allude alla reazione dei suoi familiari, che lo credono “inviato a diventare maestro in un villaggio della Bretagna” e del suo sforzo per “far loro cogliere le sfumature”. Traspare la preoccupazione che il soggiorno in un luogo così inospitale e poco stimolante sia il preludio a un periodo di noia10. Di fatto, Bergson rifiuterà questa destinazione, per ottenere il 5 ottobre la nomina a professore di Filosofia al liceo maschile e di Letteratura all’École Supérieure des jeunes filles, entrambi ad Angers, dove resterà due anni. Le testimonianze di questi primi anni di insegnamento ne evidenziano la scrupolosità nel preparare le lezioni, nonché un incipiente prestigio per le capacità oratorie, nonostante la giovane età e una certa timidezza di carattere11. Così scrive sempre a Salomon, il 12 ottobre 1881: “Figurati che mi si incarica di tenere, davanti alle ragazze della 6 Lettre a H. Höffding, 9 gennaio 1906, in Correspondances, cit., pp. 145-146. Analoghe riflessioni sugli inizi del suo percorso intellettuale le troviamo in una lettera a Giovanni Papini, del 21 ottobre 1903, in Ivi, pp. 90-91. 7 La commissione d’esame per conseguire il titolo di “agregé à l’enseignement” era presieduta da F. Ravaisson. 8 Cfr. R.M. Mossé-Bastide, Bergson éducateur, Puf, Paris 1955, pp. 25-32. 9 Suo collega e amico all’École Normale, divenuto professore all’École française di Roma. Cfr. Lettera a Ch. Salomon, estate 1881, in Correspondances, cit., pp. 5-6. 10 “Tu mi chiedi, mio caro Salomon, a cosa intendo consacrare la mia vita. Ti dirò, tra noi, che vorrei consacrarla ad annoiarmi il meno possibile. Come risolvere il problema? Non oserei decidermi, in una questione così importante senza aver fatto appello alle luci dei migliori tra i miei piccoli colleghi. Michel mi ha già promesso il suo aiuto; conto sul tuo”. Ivi, p. 6. 11 Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 25.

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città di Angers, un corso intitolato così: ‘Miscellanea di letteratura francese, morale e pedagogia’. Per la morale e la pedagogia me la potrei cavare bene, basta che non rida troppo. Ma per la letteratura francese l’influenza di Coulonche12 non può essere che salutare”13. Dell’ambiente di Angers il Bergson schivo e discreto, mentre elogia l’intelligenza degli allievi, trova amabili ma eccessivamente invadenti i colleghi, tanto da rimpiangere Saint-Brieuc, “dove – confida a Salomon – probabilmente sarei stato solo”14. Del temperamento singolare degli abitanti di Angers avrà modo di avere un assaggio pittoresco, in un episodio raccontato con fine ironia all’amico Salomon, accaduto con un gruppo di signore piuttosto saccenti, divenute sue fedelissime ammiratrici, ma anche concorrenti per l’esibizione della loro cultura15. L’impressione esercitata dal suo eloquio fluido ed elegante unito a un certo riserbo è tale, che gli varrà l’appellativo di “l’enchanteur”16. Il 3 agosto 1882 pronuncia il suo primo discorso al liceo, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno, intitolato La specialité, in cui prende posizione a favore di un insegnamento e di uno studio che conservino la prospettiva d’insieme e il carattere generale. In questo periodo, Bergson traduce anonimamente Les illusions des sens et de l’esprit di James Sully17, opera a cui è interessato per il tema del sogno e che attesta la sua attenzione per le questioni di psicologia. 12 Alfred Joseph de la Coulonche aveva insegnato letteratura dal 1867 al 1896 all’École Normale Supérieure. Cfr. F.e Huguet- B. Noguès, Les professeurs des facultés des lettres et des sciences en France au XIXe siècle (1808-1880), juin 2011: http://facultes19.ish-lyon.cnrs. fr/ (consultato il 9-07-2019) 13 Lettera a Ch. Salomon, 12 ottobre 1881, in Correspondances, cit., p. 6. 14Ivi, p. 7. 15 “Bisogna dire che le abitanti di Angers meritano di essere studiate da vicino; sono delle pedanti (bas-bleus) come non se ne trovano più se non in Molière. […] La mia migliore amica è Madame Laboulais, autrice di molte opere di economia politica, laureata nella Società Nazionale d’incoraggiamento al Bene. I nostri due spiriti erano fatti l’uno per l’altra e si cercavano da tempo. Mi avvistava fin dal mio arrivo e io, da parte mia, la notavo immediatamente nel numero delle dame che seguivano i miei corsi. Tutto andò bene tra noi per sei settimane: ma una sera, dopo una festa di beneficenza che lei aveva appena dato e dove l’avevo invitata a fare un discorso, fu così contenta di sé stessa, e di conseguenza di me, che mi porse la guancia. Il marito era in un angolo, lanciando su di me uno sguardo che credevo minaccioso: indietreggiai. Lei ce l’ha avuta a morte con me e anche il marito, convinto che trovassi brutta sua moglie. Comunque, in seguito ci siamo riappacificati”. Lettera a Ch. Salomon, 31 dicembre 1881, in Correspondances, cit., pp. 8-9. 16 Cfr. G. Maire, Les années de Bergson à Clermont-Ferrand, in “Glanes. Cahiers de l’Amitié franco-néerlandaise”, n. 5, marzo-aprile 1949, p. 20. 17 J. Sully, Les illusions des sens et de l’esprit, Baillière & Cie, Paris 1883.

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Come osserva Joseph Desaymard, suo allievo al liceo Henri IV, in questo periodo risulta evidente che a sollecitare le ricerche di Bergson è la filosofia della scienza, sebbene già avverta l’insufficienza di talune posizioni scientifiche18. Anche il commento agli Estratti di Lucrezio, che risale a questo periodo, dimostra lo stesso interesse per una filosofia della natura fondata sulle conoscenze scientifiche dell’epoca19. La premessa mostra come l’intenzione del filosofo fosse quella di offrire un metodo di lettura ai suoi allievi, per appassionarli: “osiamo sperare che gli allievi prendano gusto alla lettura di Lucrezio così facilitata e che nasca in loro il desiderio di conoscere il poema in modo diverso che dagli estratti”20. Per questo Bergson dichiara di aver cercato con i suoi commenti di far comprendere l’intenzione filosofica del poeta e ciò che ha voluto provare, astenendosi dal criticarne le idee, perché – osserva – “non c’è sistema filosofico che non si confuti facilmente. L’essenziale è comprenderlo bene”21. Richiesto un cambiamento di sede e rifiutato Carcassonne, perché considerata troppo lontana, Bergson ottiene, con decreto del 28 settembre 1883, la nomina al liceo “Blaise Pascal” di Clermont-Ferrand, dove resterà fino a ottobre 188822. Scrivendo a Jean Guitton, il 16 giugno 1934, ricorderà con affetto gli anni trascorsi in Alvernia, rimpiangendo di non esservi rimasto più a lungo, pur riconoscendo che l’ambiente di provincia impedisce agli spiriti migliori di rendere per quello che 18 Cfr. J. Desaymard, La pensée d’Henri Bergson, Mercure de France, Paris 1912, pp. 9-10. 19 Cfr. J. L. Vieillard-Baron, Bergson, Puf, Paris 2018, p. 26. Secondo Guitton, Bergson “si sentiva attirato verso Lucrezio, ma allo stesso tempo distante da lui per quell’universo meccanico e senza destinazione, ibrida miscela di slancio e di caso. […] Si può pensare che Bergson, editore e commentatore molto coscienzioso, nella sua camera di Angers, scrivesse su Lucrezio come si fa un utile esercizio, ma con l’idea che Lucrezio e Spencer non fossero che l’inverso di ciò che voleva fare ed essere”. J. Guitton, La vocation de Bergson, Gallimard, Paris 1960, p. 70. 20 H. Bergson, Extraits de Lucrèce avec commentaires, études et notes, 1883, in Mélanges, cit., p. 267. 21 Ivi, p. 266. 22 Cfr. G. Maire, Les années de Bergson à Clermont-Ferrand, cit., pp. 12-21. J. Desaymard, Bergson à Clermont-Ferrand, Bellet, Clermont 1910. Per i corsi impartiti negli anni di Clermont-Ferrand, si veda: H. Bergson, Cours, vol. I: Leçons de psychologie et de métaphysique, a cura di H. Hude e J.-L. Dumas, introd. di H. Gouhier, Puf, Paris 1990. Si tratta di appunti depositati presso la Bibliothèque Jacques-Doucet da Jean Guitton, che li aveva acquisiti da Joseph Désaymard. Sono più o meno contemporanei alla preparazione della tesi di dottorato di Bergson. Cfr. anche J. Bardy, Bergson professeur. Au Lycée Blaise Pascal de Clermont-Ferrand (1883-1888). Cours 1885-1886, L’Harmattan, Paris 1998. Anche questo volume riporta gli appunti presi da Eugène Estival durante i corsi di Bergson.

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valgono23. Sicuramente, come osserva lo stesso Guitton, in questa considerazione affiora il ricordo di intellettuali di grande calibro, che il filosofo frequentò a Clermont e che non ebbero il meritato riconoscimento, come il pittore e musicista Gilbert Rouchon24. Sono, in effetti, anni fecondi per la maturazione del suo pensiero, tanto che Clermont è stata definita “la culla del bergsonismo”25. Bergson ha 24 anni ed è soltanto agli inizi del suo percorso filosofico26, ma in lui si fa sempre più chiaro il proposito di esplorare i rapporti tra le categorie della scienza e la prospettiva filosofica, per rilevare i limiti dell’una, quando è priva del contributo e del respiro dell’altra e la necessità per la seconda di un metodo altrettanto rigoroso. Come è stato osservato, la principale preoccupazione degli anni di Clermont sembra 23 “Quando ricordo l’ambiente universitario di Clermont, ce l’ho un po’ con la provincia (che comunque ho sempre amato e dove ho sempre rimpianto di non essere rimasto di più); ce l’ho con la provincia di aver reso troppo modesti uomini come quelli, di averli privati di quella fiducia in sé stessi senza la quale gli spiriti migliori non danno il loro pieno rendimento”. Correspondances, cit., p. 1458. E in una intervista rilasciata a M. Gremil, il 14 febbraio 1914, osserva: “Ricordo con piacere il mio soggiorno al liceo d’Angers, in quel paese del prospero Ovest, dove ci si lascia vivere con così tanta voluttà. Si faceva molta musica ad Angers. È una città veramente artista. Poi, eccomi nominato a Clermont-Ferrand. Il passaggio era brusco, dal decoro opulento della Loira al decoro severo dell’Alvernia. Ebbene! Ciononostante, lì, tra le montagne dei Puys, i vulcani spenti, i paesaggi verdeggianti popolati di villaggi di case nere, è lì che il mio pensiero è divenuto conciso, raccolto, concentrato. Le mie prime meditazioni ebbero per oggetto definire la nozione di tempo che mi sembrava incompleta e lacunosa. E poi ho semplicemente lavorato. Ho lavorato con tutte le mie forze, senza interruzioni, senza essere obbligato a modificare il metodo rigoroso che mi sono imposto fin dall’inizio”. La Dépêche du Midi, in “Le Moniteur du Puy-de-Dôme”, 18 febbraio 1914, p. 2. Cfr. H. Bergson, Mélanges, cit., p. 1039. Ancora, in una lettera a André Billy, del 24 luglio 1940, confida: “I ricordi di Clermont che evocate con humour, in modo così vivace, mi sono rimasti molto cari. In nessun posto ho lavorato con altrettanta facilità come a Clermont e più di una volta mi sono chiesto se non avessi fatto meglio a rimanervi”. Correspondances, cit., p. 1664. Parziale in Mélanges, cit., p. 1593. 24 Cfr. J. Guitton, op. cit., pp. 80-81. 25 Cfr. J. Bardy, Bergson à Clermont-Ferrand. Lieux et atmosphère autour d’une pensée que se cherche et s’affirme, in J. Bardy- B. Bourgeois – J. L. Chédin – H. Hude, et al., Bergson. Naissance d’une philosophie, cit., p. 14. 26 Il fatto che sembrasse molto più giovane è anche causa di un simpatico equivoco, ricordato anni più tardi nel giornale locale: “Il giorno in cui venne per la prima volta a tenere il suo corso Bergson arrivò in ritardo ed ebbe luogo questo breve dialogo tra lui e il sorvegliante generale: ‘A quale lezione sta andando?’. ‘Ma…a filosofia’. ‘Perché è in ritardo? Non poteva svegliarsi prima?’ ‘Monsieur, non ho ancora l’abitudine… Ma ci arriverò’. ‘Bene, avrà due divieti di passeggiata: uno per essere arrivato in ritardo e l’altro per impertinenza! Vediamo… come si chiama?’ ‘Bergson’. Un’ora e mezza più tardi, Bergson apprese direttamente dal preside, al quale il sorvegliante aveva indirizzato un virulento rapporto, di avere ‘uno spirito pigro e una natura indisciplinata’ ”. La Dépêche du Midi, in “Le Moniteur du Puy-de-Dôme”, 18 febbraio 1914, p. 2.

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essere per Bergson quella di dotarsi di una robusta cultura scientifica, aggiornandosi di prima mano sulle indagini e scoperte del momento27. A febbraio pronuncia al Palais des Facultés la conferenza Le rire. De quoi rit-on? Pourquoi rit-on?, di cui il “Le Moniteur de Puy-deDôme” riporterà una dettagliata informazione28. Tra luglio 1884 e giugno 188829, è “chargé de conférences” all’Università di Clermont30, scegliendo come temi delle sue lezioni, per la parte storica, la fisica e la metafisica di Aristotele, il pensiero di Malebranche e l’Etica di Spinoza; per la parte teoretica, la nozione di materia, quella di spirito, le prove dell’esistenza di Dio, il bene e il dovere. Trattandosi in assoluto delle prime lezioni tenute da Bergson, il contenuto di questi corsi sarebbe di estrema importanza per ricostruire i primi passi del percorso intellettuale del filosofo, ma gli appunti posseduti sono solo ipoteticamente attribuibili a questo periodo31. Il 5 agosto del 1885 pronuncia, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno ai liceali, il discorso La politesse32, in cui affiora quell’allusione alla grazia, che si ritroverà qualche anno più tardi nell’Essai sur les données immédiates de la conscience. A casa del bibliotecario Albert Maire prende parte, assieme al collega Robinet, alle sedute di ipnosi a cura del Dott. Moutin. Nel novembre 1886, dopo aver presenziato alcune sedute di ipnotismo, pubblica un curioso articolo sulla “Revue philosophique”: De la simulation incosciente dans l’état d’hypnotisme33, in cui mostra che ciò che si considerava telepatia non era altro che la 27 Ad esempio, nell’Essai, Bergson fa riferimento alla teoria cinetica dei gas di Hirn, pubblicata solo pochi anni prima. Cfr. H. Hude, Introduction, in H. Bergson, Cours I, cit., p. 18. 28 Cfr. “Le Moniteur du Puy-de-Dôme”, 21 febbraio 1884. Cfr. Mélanges, cit., pp. 313-315. 29 Cfr. Mélanges, cit., p. 332; 342-343. 30 Nel n. 74 del “Bulletin Mensuel de l’Académie de Clermont”, settembre 1885, p. 33, alla data del 31 luglio 1885, si legge: “Bergson, professore aggregato al liceo di Clermont, è incaricato inoltre di tenere due conferenze di filosofia a settimana nella Facoltà di Lettere di questa città”. Ivi, p. 1606. 31 Secondo H. Hude, il contenuto di questi corsi, a giudicare dall’analisi dello stile e del livello tecnico, potrebbe essere identificato nel cosiddetto “Cahier Noir”. Si tratta di una raccolta di appunti anonimi di testi di Bergson, donatagli da Jean Guitton, il quale a sua volta l’aveva ricevuta nel 1923 dal filosofo André Ombredane, morto prematuramente nel 1934. Cfr. H. Hude, Introduction, in H. Bergson, Cours IV. Cours sur la philosophie grecque, a cura di H. Hude e F. Vinel, Puf, Paris 2000, pp. 11-13. Cfr. H. Hude, Bergson, vol. 2, Editions Universitaires, Paris 1990, pp. 108 e ss. 32 Cfr. “Le Moniteur du Puy-de-Dôme”, 6 agosto 1885, pp. 3-4. 33 “Revue philosophique”, XXII, novembre 1886, pp. 525-531, in Mélanges, pp. 333341. L’articolo è datato 9 luglio 1886.

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lettura, nella cornea dell’ipnotizzatore, del riflesso del testo che i soggetti, una volta suggestionati, erano convinti di aver indovinato34. Nel suo articolo, il filosofo, concludendo che la responsabilità della simulazione incosciente ricade sullo sperimentatore e non sul soggetto ipnotizzato, sottolinea indirettamente la necessità della precauzione e dell’onestà intellettuale che sempre è necessaria nelle ricerche sperimentali. Inoltre, come osserva Guitton, questo interesse rivela in Bergson, “un dono singolare per l’analisi interiore”, per quelle zone così vicine eppure così distanti, come la coscienza e l’inconscio, il volontario e l’involontario35. Un’attestazione ufficiale delle capacità didattiche di Bergson la troviamo nel rapporto redatto il 24 marzo 1886 da Jules Lachelier, allora Ispettore generale, dopo aver assistito alle sue lezioni: “Dopo aver ascoltato Bergson per la terza volta, non posso che confermare tutto il bene che ho già detto di lui. Questa volta ha trattato della filosofia di Spinoza: mi sembra difficile comprenderla meglio e farla comprendere meglio, comporre più abilmente la lezione, parlare più precisamente, con maggiore naturalezza e grazia. Il signor Bergson desidera rimanere nell’insegnamento secondario ed essere nominato a Parigi. Sarebbe forse il primo a passare, se si considerasse solo il talento, ed è certamente uno dei primi se si tiene conto allo stesso tempo del talento e dei servizi”36. Nel settembre 1888 è infatti nominato professore di filosofia a Parigi, al Liceo “Louis-le-Grand”. Intanto, la tesi di dottorato diretta da Paul Janet, terminata il 16 maggio 1888, riceve il permesso di pubblicazione con il titolo Essai sur les données immédiates de la conscience37: sarà discussa il 27 dicembre 1889, presso la Facoltà di lettere della Sorbona assieme alla tesi latina Quid Aristoteles de loco senserit38. Entrambe le opere riflettono l’interesse di Bergson per le questioni dello spazio e del tempo, frutto di una lenta maturazione, come egli stesso confiderà in una conversazione con Charles Du Bos39. Breve è l’esperienza al “Collège Rollin”, iniziata nell’agosto del 1889, dove gli vengono affidati un corso di filosofia e uno di matematica 34

Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 27. Cfr. J. Guitton, La vocation de Bergson, cit., p. 99. 36 Lycée Jacques Decour (a cura di), À Montmartre, du collège Rollin au lycée Jacques Decour: 1690-1867-1967, Lycée Jacques Decour, Paris 1967, p. 115.   37 Alcan, Paris 1889. 38 Terminata il 29 giugno 1889 e pubblicata lo stesso anno da Alcan. 39 Cfr. C. Du Bos, Journal 1921-1923, Corréa, Paris 1946, pp. 63-64. 35

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elementare, con esiti poco brillanti da parte degli allievi, a quanto riporta Mossé-Bastide40. Ci resta, invece, una lettera di Bergson indirizzata al direttore del liceo dove i motivi addotti per la richiesta di trasferimento sono altri, presentati con grande onestà: “La mia nomina, che mi hanno appena consegnato, riporta che ero in classe 4a ai licei Louis-Le-Grand et Henri-IV e che sono nominato nella stessa classe al liceo Rollin. Ora, io ero in classe 6a solo l’anno scorso. Ci tengo a segnalarvi subito questo errore, che potrebbe farmi attribuire un trattamento a cui non ho diritto”41. Rousselot, direttore del liceo Rollin, ne elogerà la franchezza e la bravura, aggiungendo però anche: “è forse un po’ severo con i voti, il che spiega alcune difficoltà di disciplina che ha trovato nel corso di matematica elementare”42. Il 14 ottobre 1890, Bergson ottiene il trasferimento al liceo Henri-IV, dove insegnerà per otto anni43. Per comprendere lo stile di insegnamento e la struttura dei contenuti di Bergson professore, va tenuto conto dell’organizzazione del liceo di quegli anni. Per quanto riguarda i corsi di retorica e di filosofia, non era prevista una separazione tra gli allievi dei primi anni e quelli dei successivi. Solo in un secondo momento, di fronte all’insoddisfazione degli allievi più grandi, l’amministrazione deciderà di creare delle classi di retorica superiore, definite successivamente “prime superiori”. Bergson si trova dunque di fronte un uditorio molto eterogeneo, per quanto selezionato, che gli impone di conciliare la semplicità per i meno iniziati con la profondità e la precisione richieste dagli allievi più avanzati. Per rispetto a questi ultimi, appare evidente il suo sforzo di evitare ripetizioni e di rinnovare ogni anno le spiegazioni44. Nel 1892 tiene il terzo discorso per la consegna dei premi al Liceo Henri IV, pronunciando una versione integrata e leggermente differente de La politesse. La sua aspirazione è l’insegnamento universitario, che 40

Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 34. Cfr. Lycée Jacques Decour (a cura di), op. cit., p. 116. 42 Ibidem. 43 Si vedano i corsi tenuti in questi anni, sempre frutto degli appunti degli allievi. H. Bergson, Cours, II: Leçons d’esthétique à Clermont-Ferrand. Leçons de morale, psychologie et métaphysique au lycée Henri-IV, a cura di H. Hude e J.-L. Dumas, Puf, Paris 1992; Henri Bergson, Cours, III: Leçons d’histoire de la philosophie moderne, Théories de l’âme. Quelques leçons complémentaires de philosophie et d’histoire de la philosophie à ClermontFerrand. Leçons d’histoire de la philosophie moderne et contemporaine, Leçons sur la “Critique de la raison pure”, Les Théories de l’âme au Lycée Henri-IV, a cura di H. Hude e J.-L. Dumas, Puf, Paris 1995. 44 Cfr. H. Hude, Introduction, in Cours II, cit., p. 9. 41

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sembra realizzarsi quando, nel 1894, Charles Waddington lascia vacante la cattedra di filosofia antica alla Sorbona: tuttavia, la candidatura di Bergson non viene presa in considerazione. Il 30 luglio 1895 pronuncia un quarto discorso alla consegna dei premi del Concorso generale, questa volta nel grande anfiteatro della Sorbona, alla presenza del ministro della Pubblica Istruzione Raymond Poincaré e del rettore Octave Gréard, Le bon sens et les études classiques. Nei primi mesi del 1896 appaiono sulla “Revue philosophique” e sulla “Revue de métaphysique et de morale” due articoli che sarebbero poi confluiti nel saggio Matière et Mémoire, frutto di sette anni di lavoro da parte del filosofo, partito dall’indagine sul fenomeno dell’afasia45. Il saggio completo susciterà pochissimo interesse, tranne che in ambito medico, come attesta Albert Thibaudet46. Per questo motivo, G. Léchalas vi dedicherà un articolo con alcuni chiarimenti dello stesso Bergson sui punti meno compresi47. Secondo molti filosofi, tra cui Couturat e Jacob, con la “philosophie nouvelle” espressa in quello scritto si sarebbe aperta la strada all’irrazionalismo, mentre più tardi altri, tra i quali Édouard Le Roy, saluteranno con favore quel nuovo movimento filosofico destinato a modificare profondamente le posizioni tradizionali48.

45 Si tratta di Mémoire et reconnaissance. I. Les deux formes de la mémoire, in “Revue philosophique”, XLI, marzo 1896, pp. 225-248; La reconnaissance et l’attention, in “Revue philosophique”, XLI, aprile 1896, pp. 380-399 e di Perception et Matière, in “Revue de métaphysique et de morale”, IV, maggio 1986, pp. 257-279. 46 “Nessuno lo capì. Vi si vide una mescolanza confusa di esperienze precise e di speculazione metafisica. Tuttavia, i medici furono colpiti dalla discussione sulle localizzazioni e sull’afasia […] È evidente che Matière et Mémoire non poteva che sembrare oscuro al pubblico colto, ma non specializzato nelle questioni filosofiche”. A. Thibaudet, Le bergsonisme, vol. 2, Gallimard, Paris 1923, pp. 224-225. Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 61. 47 Cfr. G. Léchalas, Compte rendu de Matière et mémoire, in “Annales de philosophie chrétienne”, XXXVI, 1897, pp. 154, 328, 333. Cfr. Mélanges, pp. 410- 413. 48 Cfr. E. Le Roy, Science et philosophie, in “Revue de metaphysique et de morale”, n. 4, luglio 1899, pp. 375-425 ; n. 5, settembre 1899, pp. 503-562; n. 1, gennaio 1900, pp. 37-72.

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Capitolo secondo

Ritratto di un educatore “che insegna da pensatore e pensa da insegnante”

Lo stile d’insegnamento: sistematicità e realismo. L’armonia tra i saperi. Spirito filosofico e spirito scientifico, analisi e sintesi. Il “positivismo bergsoniano”. Consigli per preparare le lezioni. Il rapporto con gli allievi Il pensiero pedagogico di Bergson non nasce da una semplice riflessione teoretica, ma della sua personale esperienza professionale e umana di docente di Filosofia per ben sedici anni nella scuola secondaria, prima di cominciare l’insegnamento al Collège de France, che manterrà fino al 1914. È interessante notare come i suoi scritti a carattere pedagogico nascano direttamente da questa attività didattica e dalla pratica pedagogica: si tratta di discorsi dal tono esortativo pronunciati in particolari occasioni, rivolti a destinatari reali, dove la scelta del soggetto é motivata da un’esigenza pratica, non provocata artificiosamente. Vi si possono rintracciare in embrione molti elementi che saranno sviluppati negli scritti maggiori. Essi forniscono indirettamente il profilo di un pensatore con un’autentica passione non soltanto per l’insegnamento ma per l’educazione nel suo significato più completo. Del resto, nel Discorso al Congrès Descartes del 1937, Bergson, commemorando lo stile del filosofo, sottolineerà come Descartes “ha creato un ideale di educazione che non dovremmo mai perdere di vista e che consisterebbe nella sostituzione completa della ragione alla memoria, con l’idea implicita che la vera conoscenza non è tanto in rapporto con una informazione superficialmente enciclopedica, quanto 22

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con un’ignoranza consapevole di sé stessa, accompagnata dalla risoluzione di sapere”1. “Non era uno di quei maestri calorosi e familiari, che esercitano sugli allievi la presa diretta e personale. Egli volava alto sopra di noi. Ma noi rimanevamo a bocca aperta per l’ammirazione”: così uno degli allievi ricorda il fascino che il professor Henri Bergson esercitava su di loro, suggestione compatibile con una certa riservatezza, da alcuni addirittura ritenuta timidezza 2. Secondo Jean Guitton, se di vocazione si può parlare in Bergson, allora si deve innanzitutto parlare della vocazione ad essere professore di filosofia. In lui si uniscono chiarezza e profondità, certezza e ricerca, sollecitudine e fascino, facendone un educatore nel vero senso della parola. “Bergson – nota Guitton – si riteneva in dovere di elevare, ossia di far risalire ogni coscienza d’uomo fino alla sua sorgente, perché raggiungesse la sua pienezza, sia grazie alle regole sia al di fuori delle regole, o piuttosto grazie a quella regola superiore alla regola che è l’ispirazione”3. L’atteggiamento è di chiaro sapore socratico, di chi concepisce il compito dell’educatore come una provocazione, risvegliando alla ricerca della verità per innescare un processo di progressiva interiorizzazione. Per questo un allievo commenterà a proposito dell’attività di Bergson: “non era un insegnamento ma una iniziazione”4. D’altra parte, quando al liceo di Clermont-Ferrand terrà le sue lezioni di storia della filosofia greca, Bergson sembra quasi identificarsi con la descrizione dello stile pedagogico di Socrate: “Egli cercava di eccitare gli spiriti, di farli diffidare di sé stessi, di ispirare in loro il disprezzo per la falsa scienza, quella che consiste in formule belle e fatte. Voleva condurre le intelligenze a quella convinzione che una opinione che non è accompagnata dalle sue ragioni non è valida, non ha valore. Socrate era dunque nemico della routine, del bell’e fatto”5. Anche Raïssa Maritain, allieva di Bergson al Collège de France, ci ha lasciato un ritratto pedagogico e umano del suo professore, il primo a 1 Il faut agir en homme de pensée et penser en homme d’action, Message au Congrès Descartes, 31 luglio-7 agosto 1937, in Mélanges, cit., p. 1576. 2 Citato da R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 33. 3 J. Guitton, op. cit., p. 20. 4 R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 35. 5 H. Bergson, Histoire de la philosophie. Cours du Lycée de Clermont, in Cours IV, cit., p. 223.

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dare risposta all’inquietudine spirituale sua e del fidanzato Jacques, delusi dal clima positivistico, spalancando loro un orizzonte insospettato: “Bergson ci assicurava che siamo capaci di conoscere veramente il reale, che per mezzo dell’intuizione raggiungiamo l’assoluto. E noi traducevamo che potevano veramente, assolutamente conoscere ciò che è”6. Ella ricorderà con riconoscenza il prezioso consiglio ricevuto in un momento di dubbio dal suo professore: “Segua sempre la sua ispirazione”. Non si trattava del suggerimento semplicistico a lasciarsi trasportare passivamente dal proprio stato d’animo, bensì dell’invito a guardare dentro di sé per conoscersi più in profondità e scoprire le proprie inclinazioni e risorse. Sarà la stessa Raissa a chiarirlo: Era come dirmi: sia sempre sé stessa, agisca sempre con libertà. Molto più tardi gli ricordai quel consiglio che avevo cercato effettivamente di seguire. E Bergson sorridendo della sua imprudenza mi rispose amabilmente: “Non è un consiglio che avrei potuto dare a molte persone…”. Tuttavia, ciò sarebbe stato del tutto nello spirito bergsoniano della libertà. Per Bergson seguire la propria ispirazione – se si tratta veramente di un’ispirazione, cioè del consiglio personale o divino che sale dalle profondità del nostro io – è agire secondo ciò che noi siamo realmente o secondo la parte migliore di noi, è agire liberamente. Il pericolo consiste nel prendere per un’ispirazione dal profondo, per questo grande soffio dell’anima, un’insignificante brezza capricciosa che viene dal di fuori e che sfiora soltanto la nostra coscienza. Ad ogni modo, Bergson mi aveva dato fiducia nelle mie tendenze essenziali, aveva aperto il mio spirito all’interiorità della vita, mi aveva liberata dalla paura di non agire secondo i più puri ideali del positivismo scientifico7.

Questa pedagogia si configura come un autentico scambio tra docente e allievo, in un dare e ricevere reciproco, nel quale le nozioni di psicologia saranno di grande aiuto al docente per conoscere meglio non solo gli allievi ma anche sé stesso, come osserva lo stesso Bergson, a proposito dell’istruzione primaria:

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R. Maritain, I grandi amici (1941), Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 79-80. Ibidem, pp. 83-84.

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L’istitutore che prenderà gusto a questa scienza [la psicologia] farà della sua classe un campo di osservazione nel quale troverà che ha tanto da imparare dai suoi allievi quanto da insegnare loro. Egli si eserciterà a studiare i giovani spiriti che gli vengono affidati. Li farà beneficiare, essi per primi, di quanto ha imparato da loro. Si abituerà a modellare e a rimodellare senza posa su di essi i suoi procedimenti di insegnamento. Punterà ad adottare per sé stesso un metodo flessibile, personale, vivo, l’unico che possa assicurare al maestro un’azione profonda sullo studente8.

Il saggio di Mossé-Bastide e la presentazione di Hude all’edizione dei Corsi di Bergson, ci offrono un ritratto efficace del Bergson professore, che non è separabile dal Bergson pensatore e filosofo. Non è possibile, infatti, considerarlo inquadrato in una doppia vita: quella impersonale e scolastica e quella del pensatore ritirato nell’isolamento delle sue meditazioni. Tutto il suo insegnamento appare, invece, molto personale e vivo, sebbene rigorosamente modellato sui programmi previsti, centrato sobriamente sugli snodi essenziali dell’evoluzione del pensiero e poco incline a disperdersi in dibattiti e ipotesi speculative ancora incerte9. Inoltre, appaiono con chiarezza i tratti del suo stile d’insegnamento. La prima caratteristica è quella di una sistematicità che è per Bergson una esigenza dello spirito. Non è la tendenza a semplificare in modo riduttivo il ragionamento, ma la risposta a una convinzione profonda: che la possibilità di unire sistematicamente i propri pensieri sia il primo criterio della loro verità e che si possano conciliare evidenza razionale e certezza morale. Il che significa unità tra teoria della verità e pratica della libertà, tra sapere e personalità. La seconda caratteristica è quella del realismo filosofico, che sottolinea la solidarietà di tutti gli esseri nel cosmo, unitamente all’affermazione 8 H. Bergson, Rapport sur le prix Halphen, 4 luglio 1903, in Mélanges, cit., pp. 591-592. Il discorso prende spunto dall’assegnazione del premio al saggio di E. Boirac-A. Magendie, Leçons de psychologie appliquées à l’éducation, Alcan, Paris 1902. 9 H. Hude, a proposito del contenuto degli appunti dei corsi tenuti da Bergson, utilizza questi aggettivi: “une pensée bien liée, fondée radicalement, clairement formulée, fermement argumentée, richement informée”. Introduction, in Cours I, cit., p. 22. E ritiene che, sebbene i Corsi non forniscano un modello di pedagogia filosofica, tuttavia offrono un esempio significativo di un insegnamento filosofico tanto ricco e profondo nel contenuto, quanto modesto e accessibile nella presentazione.

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dell’individualità. Tutto ciò unito a una modalità d’insegnamento ispirato alla chiarezza, all’accessibilità e quasi alla modestia. Il suo pensiero è anche connotato dallo spiritualismo, purché con questo termine non si intenda la tendenza eclettica che ha in Victor Cousin10 il maggiore rappresentante, ma piuttosto la corrente di pensiero che rimonta a Maine de Biran: una metafisica fondata sulla capacità dello spirito di conoscere il vero, l’essere e Dio, nel rifiuto di ogni forma di ateismo, panteismo e agnosticismo. Il metodo, però, è quello positivo dell’osservazione dei fatti psicologici, del loro presentarsi come dati di esperienza suscettibili di analisi. Un metodo che rispecchia la convinzione bergsoniana dell’armonia tra i saperi, in particolare tra quello scientifico e filosofico11. Lo spirito di sintesi, che considera caratteristico non soltanto dello spirito filosofico, ma anche di quello scientifico, come illustra ai suoi allievi di Clermont: Lo spirito filosofico si confonde con lo spirito scientifico e se a volte li si distingue l’uno dall’altro, è perché la scienza, soprattutto nei tempi moderni, è stata obbligata spesso a dividere invece che unire, a moltiplicare i capitoli invece di ridurli a uno solo. Questo è in effetti un lavoro provvisorio al quale ogni scienza deve consacrarsi. È necessario cominciare con lo studio preciso dei fatti particolari. Molti studiosi tuttavia si fermano qui e si contentano di essere arrivati a un gran numero di verità di dettaglio. Chiamiamo questa tendenza lo spirito di analisi, e si riserva il nome di spirito sintetico o filosofico alla tendenza contraria, che consiste nel raggruppare, nel semplificare, nell’unire, nel generalizzare e che è la tendenza scientifica per eccellenza12.

10 Victor Cousin (1792-1867), professore di filosofia all’École Normale, poi alla Sorbonne, sarà ministro dell’Instruction publique, mantenendo per molti anni un ruolo di primo piano nel panorama culturale francese. La sua opera principale è Du vrai, du beau, du bien (1845). 11 Così scrive al termine del suo corso di Metafisica a Clermont: “la storia ci insegna che tra le grandi scoperte scientifiche, perlomeno quelle che riguardano la sostanza delle cose e che rinnovano la scienza nella sua totalità, non ce n’è una che non abbia avuto origine da una idea metafisica pur falsa”. Cours I, cit., p. 395. 12 H. Bergson, Introduction générale du Cours de philosophie à Clermont-Ferrand 18871888. Leçon 4, La philosophie. Son objet, in Cours II, cit., 1992, pp. 28-29. Cfr. anche quanto affermerà in La pensée et le mouvant: “L’essence de la philosophie est l’esprit de simplicité”. H. Bergson, Oeuvres, a cura di A. Robinet, Puf, Paris 1959, p. 1362.

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Nelle sue lezioni a Clermont-Ferrand, il giovane professore Bergson dunque non solo non respinge l’utilità dell’analisi, ma la considera indispensabile, pur inseparabilmente unita alla verifica costituita dalla sintesi. “Il ruolo dell’analisi, quando verte su cose reali è quello di semplificare enormemente lo studio facendoci scoprire sotto forme in apparenza ben diverse, la cui molteplicità non ha limiti, alcuni elementi sempre uguali che si combinano in proporzioni differenti. Pur scomponendo, essa riconduce il molteplice all’unità”13. H. Hude commenta che non ci si aspetterebbe da Bergson questo elogio dell’analisi, dalla quale si evince come il filosofo, all’inizio della sua carriera, ritenga la scienza, pur orientata all’analisi di una molteplicità indefinita, capace tuttavia di condurre a sintesi sempre più elevate, ossia alle grandi teorie. In questo modo, la scienza, procedendo dall’analisi alla sintesi, si muove nella medesima direzione della filosofia, che rappresenta lo spirito di sintesi al più alto grado14. Bergson fin dagli inizi non ha mai isolato l’analisi dalla sintesi, quindi la scienza dalla filosofia, ritenendo però che solo grazie alla seconda sia possibile giungere alla conoscenza più completa della realtà. Non bisognerebbe farsi illusioni sui rapporti tra queste due operazioni, come accade quando si sono trascurati gli alti studi filosofici. La proposizione seguente, a quanto pare, è un assioma: non c’è altra cosa nel tutto che le sue parti. Questo è il motivo per cui si afferma che l’acqua è solo la somma di un certo volume di idrogeno e metà del volume di ossigeno. Tuttavia, se l’acqua fosse solo O+H, come potrebbe questo corpo esibire proprietà che né l’ossigeno né l’idrogeno possiedono? Come offrirebbe ai nostri sensi un aspetto completamente diverso? È la combinazione di qualcosa di diverso dagli elementi componenti, un je ne sais quoi, dicono i filosofi, a far sì che gli elementi si incastrino in un certo modo, […] Orbene, è per non aver fatto questa osservazione così semplice che molti scienziati si sono sbagliati sul ruolo e sulla portata dell’analisi. Non è vero che essa ci informa su tutto ciò che entra nel composto; trascura necessariamente il legame che univa gli elementi insieme, ciò che spiegava l’ordine degli elementi e il posto che ciascuno

13 H. Bergson, L’analyse et la synthèse. Quelques leçons complémentaires de philosophie et histoire de la philosophie à Clermont-Ferrand, 1885-1886, in Cours III, cit., pp. 44-45. 14 H. Hude, Notes sur quelques leçons complémentaires, Ivi, p. 266.

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di essi occupava all’interno del tutto. Lo scopo della sintesi non è quindi solo quello di verificare l’analisi, come un esame superficiale potrebbe farci credere in un primo momento, ma anche di farci conoscere il coordinamento degli elementi tra loro e la relazione che ciascuno di essi mantiene con tutti gli altri15.

Successivamente, Bergson distinguerà ancora più nettamente la filosofia dalla scienza, assegnando alla metafisica lo spirito come oggetto e l’intuizione come metodo, mentre alla scienza positiva spettano l’oggetto della materia e il metodo della conoscenza sensibile e delle operazioni dell’intelligenza. Tuttavia, sarà sempre ben convinto della necessità di un coordinamento tra le due: “Per questo attribuiamo ad esse uguale valore. Crediamo che possono, l’una e l’altra, toccare la sostanza della realtà. Respingiamo le tesi sostenute dai filosofi, accettate dagli scienziati, sulla relatività della conoscenza e sull’impossibilità di giungere all’assoluto”16. Per questo si può parlare di un “positivismo bergsoniano” o di una “metafisica positiva dello spirito”17, sempre che con questi termini si indichi un metodo che promuove l’osservazione anche dei fenomeni ritenuti non misurabili, come quelli della coscienza, quindi scartati a priori dalla scienza o ridotti alla dimensione neurologica, per renderli invece accessibili e fondare così una nuova scienza dei fenomeni psicologici. Commenta H. Hude che questa impostazione differenzia nettamente il pensiero bergsoniano dalle due correnti filosofiche predominanti a fine ’800: il positivismo e l’idealismo. Per lui la filosofia non è una semplice critica, ma un sapere, che unisce assieme e completa le diverse scienze, superandole, “come le colonne di un tempio si innalzano fino al frontone”18. Si tratta di mostrare da un lato che la metafisica “non persegue vane chimere”19, giacché, in quanto scienza dei principi primi e delle cause prime, è in grado di mostrare l’esistenza di un’essenza delle cose al di là del fenomeno, dall’altro richiede quegli studi preliminari 15 H. Bergson, Quelques leçons complémentaires de philosophie et d’histoire de la philosophie à Clermont-Ferrand. L’analyse et la synthèse, in Ivi, p. 46. 16 Cfr. Métaphysique et science, in La pensée et le mouvant, in Oeuvres, cit., pp. 12771278. 17 Cfr. H. Hude, Postface, in H. Bergson, Cours I, cit., pp. 432-435. 18 Cfr. Ivi, p. 426. 19 H. Bergson, Introduction générale du Cours de philosophie à Clermont-Ferrand, 1887-1888, in Cours II, cit., p. 30.

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costituiti dalla fisica e dalla psicologia, “perché non è a prima vista che si può penetrare nei principi essenziali di una cosa. Bisogna prima studiarne le proprietà. Quindi, prima di porsi queste due domande – cos’è la materia? cos’è lo spirito? – sarebbe molto opportuno, a quanto pare, dedicarsi a uno studio speciale e scientifico delle proprietà della materia e delle proprietà dello spirito” 20. Fisica e psicologia sono dunque strettamente unite per consentire l’approdo alla metafisica. In particolare, la psicologia, definita da Bergson “lo studio dell’intelligenza e dell’anima”, è considerata il preludio necessario all’indagine metafisica, pur avendo solo una funzione preparatoria21. D’altra parte, affinché la filosofia non sia ridotta a una scienza puramente speculativa senza alcuna utilità pratica, la stessa psicologia – osserva il filosofo – è inseparabile dalla riflessione morale22. C’è anche un altro motivo che per Bergson rende necessaria l’integrazione tra scienza e filosofia ed è la direzione da imprimere allo stesso progresso tecnico. Lo espone nel discorso tenuto all’Académie Française, il 10 gennaio del 1914, dove già appare la suggestiva immagine della tecnica come corpo e del sapere umanistico come “anima”, che quasi vent’anni dopo sarà centrale nell’epilogo de Les deux sources de la morale et de la religion. Lo sforzo principale della scienza moderna, fin dalle origini, ha riguardato le matematiche, la meccanica, l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia: durante tre secoli si sono succedute le scoperte teoriche 20

Ivi, p. 32. Va tuttavia osservato che il suo interesse per la psicologia risulta ben lontano da qualsiasi atteggiamento psicologista o dalla tentazione di leggere le dinamiche della psiche come semplici epifenomeni della materia, riducendo la psicologia a fisiologia. Scrive a Guillaume Léonce Duprat (1872-1956), il 9 maggio 1899, dopo aver ricevuto il suo saggio sulla psicopatologia (L’instabilité mentale. Essai sur les données de la psychopatologie, Alcan, Paris 1898): “Credo, come lei, che la psicopatologia attuale sia troppo spesso vittima di una specie di metafisica inconsapevole, che è d’altronde la metafisica dell’associazionismo. E credo anche, come lei, che occorre cercare in generale una spiegazione psicologica delle turbe psichiche, giacché la spiegazione fisiologica il più delle volte non è che una trasposizione molto incerta dell’altra”. Correspondances, cit., p. 45. Ugualmente, in una lettera indirizzata a Charles Augustus Strong (1862 -1940), dell’8 aprile 1904, ringraziando del saggio sul rapporto tra mente e corpo (Why the Mind as a Body, MacMillan, New York 1903), critica il riduzionismo fisicalista di certa psicologia: “Niente di più arbitrario della teoria che fa della coscienza un epifenomeno del cervello; piuttosto è il cervello che sarebbe un epifenomeno della coscienza”. Correspondances, cit., p. 98. 22 Cfr. Cours II, cit., p. 33. 21

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che ci hanno fatto penetrare i segreti della materia. Poi sono venute le applicazioni: alle scoperte si sono aggiunte le invenzioni; in meno di cento anni, l’umanità ha fatto più strada in questa direzione di quanta ne aveva percorsa dalle sue origini. Ha perfezionato i suoi strumenti, nel corso dell’ultimo secolo, più di quanto aveva fatto in migliaia di anni. Se si considera che ogni nuovo strumento, ogni nuovo macchinario è per noi un nuovo organo (un «organo» non è forse effettivamente, anche etimologicamente, uno strumento?), ci si rende conto che è proprio il corpo dell’uomo ad essersi ingrandito in questo breve intervallo. Ma la sua anima – parlo dell’anima individuale e sociale – ha acquisito nello stesso tempo il supplemento di forza che occorrerebbe per governare questo corpo rapidamente e prodigiosamente ingrandito? E i gravi problemi davanti ai quali oggi ci troviamo non sono nati, in gran parte, da questa sproporzione? Alle nostre scienze, alle scienze morali, incombe il compito di ristabilire l’equilibrio. Il compito è grande e bello e l’avvenire dell’umanità dipende senza dubbio dal modo in cui si compirà23.

H. Hude, a proposito dello stile d’insegnamento della storia della filosofia, osserva come Bergson presentasse ogni dottrina non alla stregua di un oggetto storico, un oggetto morto, ma come un pensiero sempre possibile e vivo, a patto che si sappia farlo rivivere. “L’esposizione di Bergson è molto spesso ‘oggettiva’, ma quando egli si colloca dal punto di vista dell’autore studiato (ad esempio Plotino), non è come se si trattasse per Bergson di coincidere con un processo di pensiero che sarebbe costitutivo del suo oggetto. Bergson infatti è realista. Egli adotta pertanto nelle sue lezioni il comportamento di un amico dell’autore che vorrebbe coincidere con la visione e con la certezza che l’autore stesso aveva di determinate cose esistenti di per sé e che l’amico vorrebbe riuscire a vedere come l’autore stesso dice di averle viste. Alla fine, potrà quindi esserci un accordo e una intesa nella comunanza di visione. L’interpretazione è così uno sforzo per rivedere ciò che è stato visto e per assicurarsi criticamente dell’identità effettiva tra ciò che è stato rivisto dall’amico e ciò che è stato visto dall’autore”24. Evidentemente, l’interpretazione non prescinde da un giudizio filosofico sulla verità o sulla falsità delle idee esposte, purché questo non 23 24

Discours à l’Académie Française,10 gennaio 1914, in Mélanges, cit., p. 1036. H. Hude, Introduction, in H. Bergson, Cours IV, cit., pp. 15-16.

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sia l’effetto di una ricostruzione a priori. Anche se una corretta spiegazione delle dottrine esige che l’amico dell’autore non esprima sempre il proprio giudizio, ma piuttosto scompaia dietro il pensiero dell’autore, tuttavia il suo giudizio finisce per trasparire nel modo stesso in cui espone quel pensiero. Osserva, pertanto, Hude: “Per comprendere il realismo bergsoniano, occorre una ermeneutica anch’essa realista”. E conclude poeticamente: Siamo con Bergson alla presenza di un pensatore che insegna da pensatore e pensa da insegnante, libertà sovrana, creatività ammirevole e debordante, dotato della pienezza inseparabile del suo potere di vedere e di giudicare. Le parti banali delle sue lezioni sono lì solo per far risaltare le più rivelatrici, così come occorre il legno per far risuonare le corde. L’influenza del suo insegnamento non ha altra spiegazione che la manifestazione del suo genio. Bergson ci ricorda che un funzionario che aiuta uno studente ad acquisire un diploma può anche essere un maestro che aiuta un discepolo a camminare verso la verità. Ricorda a tutti gli insegnanti la nobiltà del loro lavoro. Tutto quello che si dice è dimenticato, la polvere si deposita, restano soltanto il fuoco sacro e la Vita25.

Anche il suo modo di condurre la lezione manifesta il desiderio non solo di proporre un sapere, ma soprattutto di favorirne un approccio naturale e non gravoso. Con la sua cura nel preparare le lezioni e la semplicità nell’esporre i contenuti dimostra allo stesso tempo competenza e accessibilità. Così racconta Thibaudet: “cercava poco di convincere, ancor meno di confutare e… si contentava di pensare a voce alta davanti a noi”26. Bergson stesso confiderà a Guitton com’era nata l’abitudine di fare lezione passeggiando avanti e indietro per l’aula, senza avere davanti nulla di scritto: “Mi sono esercitato agli inizi davanti ad allievi molto giovani a dettare senza portare appunti. Gli allievi non se ne accorgevano. E parlare in questo modo dà un certo facile prestigio. Passeggiavo in lungo e in largo col cappello in testa (Bergson ha sempre detestato le correnti d’aria), cosa che scandalizzava il preside”27. 25

Ivi, p. 16. Cfr. H. Gouhier, Bergson dans l’histoire de la pensée occidentale, Vrin, Paris

1989. 26 27

R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 36. J. Guitton, op. cit., p. 66.

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Sempre a Guitton giovane professore, dà un consiglio apparentemente sconcertante: quello di non dedicare un tempo eccessivo alla preparazione delle lezioni. Non deve esaurirsi nel fare il suo corso, per tentare di dare ai suoi allievi delle piccole lezioni magistrali. Si stancherebbe senza motivo e sarebbe loro dannoso. Si insegnano bene solo le materie sulle quali non si è fatto un lavoro personale di indagine e di ricerca e dove si consegnano solo le verità tradizionali, quelle sulle quali, come dice Descartes, si accorda la maggioranza dei saggi. Avevo come regola, anche al Collège, di non ricavare dalle mie ricerche presenti l’argomento diretto dei miei corsi. A maggior ragione per dei ragazzi di sedici anni28.

Questa confidenza non è certo l’invito a un insegnamento superficiale e approssimativo, bensì nasce dalla convinzione che la formazione dell’intelligenza richieda una paziente edificazione di basi solide, senza bruciare le tappe. Per questo aggiunge: “Il mio corso di morale non annunciava la mia morale; perché il mio metodo consisteva nel dire agli allievi ciò che conoscevo come perfettamente sicuro e nel lasciare nell’ipotesi ciò che era ancora ipotetico per me. Insomma, occorre combinare il dogmatismo necessario all’insegnamento con dei suggerimenti al margine”29. Si tratta di un insegnamento il più possibile spontaneo, quasi confidenziale, orientato a schiudere orizzonti e ad aprire gli occhi degli allievi, non a somministrare ricette belle e fatte, già chiare nelle premesse ed evidenti nelle conclusioni. Ben lontano, tuttavia, anche dall’insegnamento concepito come invito al dubbio, alla formazione di un’aprioristica mentalità critica: tale sarebbe l’effetto di avviare troppo precocemente gli allievi sulla strada della ricerca, presentando loro i risultati delle proprie indagini, senza prima averli dotati di un filtro, del criterio di discernimento rappresentato dalla conoscenza di quelle che definisce verità tradizionali. In questa luce è da intendere il dogmatismo che Bergson considera necessario all’insegnamento, se lo si intende come la segnalazione del binario giusto sul quale collocarsi per poter poi partire autonomamente. 28 29

Ivi, p. 67. Ibidem, p. 68.

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Ad esempio, Guitton riferisce che Bergson, nello spiegare le prove dell’esistenza di Dio, non aveva mai messo a parte i suoi allievi delle proprie inquietudini religiose, ancora in attesa di soluzione: Egli tiene parecchie lezioni sugli attributi di Dio e sulla provvidenza, sia per rispetto del programma, sia per la sua idea che si dovesse insegnare ciò che era acquisito, sia per la convinzione che un ragazzo di sedici anni non può dissociare il dubbio metafisico dall’osservanza morale, per cui un professore non deve mai rendere partecipe la gioventù dei suoi dubbi. […] Bergson provava attrazione a quell’epoca per Spinoza, al quale si avvicinava per molti aspetti. Eppure, mai in quel corso l’ateismo mistico di Spinoza è proposto agli spiriti: è esposto nella parte storica del corso30.

L’aspetto più decisivo per l’efficacia dell’insegnamento è in fin dei conti l’insegnante stesso. Consiglia ancora Bergson a Guitton: “Si riservi più tempo possibile per la sua vita interiore, le sue letture, le sue riflessioni personali. I suoi allievi se ne gioveranno senza che glielo dica, per tutto quello che emanerà da lei”31. Se l’insegnante educa più per ciò che è che per ciò che sa, ciò è ancora più vero per l’insegnante di filosofia. Il discorso che Bergson terrà agli studenti di Madrid, nel 1916, sarà quasi interamente dedicato alla descrizione del filosofo come colui che “deve essere sempre pronto, in qualunque momento della sua carriera, a ridiventare studente”32. Egli deve mantenersi – osserva Bergson – nella disposizione di spirito dello studente universitario, che non respinge lo studio di un argomento nuovo e, allo stesso tempo, consapevole dell’ampiezza e del costante rinnovamento dei campi di ricerca, sa limitarsi a studiare un numero determinato di problemi, sapendo che altri continueranno il suo lavoro. A queste condizioni, la filosofia possiede lo stesso rigore e la stessa precisione delle scienze positive, ma, come le scienze, è una ricerca in divenire, che tuttavia si caratterizza per “l’unità di una continuità”33. Per questo motivo, il lavoro filosofico pone chi lo intraprende di fronte a una incognita: non è possibile conoscere in anticipo quali problemi si 30

Ibidem, pp. 147-148. Ivi, p. 67. 32 Cfr. Discorso agli studenti di Madrid, 1° maggio 1916, in Mélanges, cit., p. 1197. 33 Ivi, p. 1197. 31

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presenteranno durante il percorso, da qui la necessità di restare sempre studenti, consacrando anche anni interi allo studio del nuovo. E nella conclusione della prima parte del discorso, Bergson si riferisce a “un nuovo problema” al quale lo hanno condotto le sue ricerche, con la necessità di compiere ulteriori studi per ottenere una soluzione e termina con una professione di onestà intellettuale: “sui nuovi problemi non scriverò nulla; non si è mai obbligati a fare un libro”34. Pensatore, insegnante, studente sono dunque tre tratti inseparabili che compongono l’immagine di Bergson professore, animato da una chiara preoccupazione pedagogica. “L’insegnamento che mi ha insegnato di più – confida a Guitton – è quello della Filosofia, perché vi si può impregnare l’anima intera di un giovane. Ma non preparavo a lungo i miei corsi. Semplicemente dieci minuti prima della lezione. Questo perché avevo sufficienti letture per animare i miei corsi. Inoltre, perché avevo notato che questa conversazione un po’ libera interessava gli alunni più di una lezione lungamente preparata”35. L’idea di fondo è che il professore debba soltanto fornire spunti, per risvegliare un interesse e soprattutto stimolare il lavoro personale degli allievi, l’attivo coinvolgimento nelle lezioni. Lo studio dunque concepito non come una passiva ripetizione di quanto ascoltato dal docente o letto in un libro. Proprio per questo, in varie occasioni esprimerà il suo rammarico nel vedere gli studenti, in vista dell’esame finale, preferire studiare utilitaristicamente un manuale stereotipato per il timore di non essere promossi36. In filosofia, l’obiettivo delle prove, siano esse esercitazioni o esami finali, è sempre l’elaborazione personale di quanto studiato. “Certi allievi mi consegnavano trentadue pagine e per giunta con un titolo: Primo fascicolo!…Dio mio! […] Far parlare gli allievi era difficile, perché gli allievi erano sempre della mia opinione! Dicevo loro: ‘Forse potreste darmi delle indicazioni a sostegno di questo?’ Ci crederà? Questo non faceva loro aprir bocca”37. Secondo alcuni, il professor Bergson sembra addirittura mostrare preferenza per gli allievi meno brillanti, come per una compenetrazione nelle loro difficoltà che richiedevano un aiuto positivo e stimolante. 34

Ivi, pp. 1197-1198. J. Guitton, op. cit., pp. 67-68. 36 Cfr. Discussion à la Société française de philosophie, 28 novembre 1907, in Mélanges, cit., p. 746. 37 J. Guitton, op. cit., p. 68. 35

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Ricorda Guitton: “Quando restituiva un lavoro, cominciava dagli ultimi compiti e pur riconoscendo che erano comparativamente i più bassi, ne faceva le lodi, mostrando i germogli e i punti di speranza. Si risaliva così fino agli ottimi. E più si andava su, più la lode diminuiva. Il primo allievo era giudicato severamente, richiamato da giuste critiche a non accontentarsi, a salire più in alto”38. Mossé-Bastide cita la testimonianza di Louis Aubert, allievo al liceo “Henri IV”, che ricorda soprattutto la “giustizia incoraggiante” del professor Bergson, nella larghezza in entrambe le direzioni con cui assegna le votazioni, capace di riconoscere tanto l’eccellenza quanto l’inadeguatezza; nonché il suo atteggiamento positivo nel comunicare la valutazione nelle correzioni dei lavori scritti. “Peccato che per mancanza di tempo lei non abbia sviluppato questa idea indicata da questo giro di frase. Poco male! Sarà per la prossima volta. Ancora uno sforzo e la riuscita sarà assicurata”39. Guitton riferisce che nei compiti i passaggi corretti erano sottolineati come punti promettenti, in modo che l’allievo “conoscesse il suo migliore momento per imitare sé stesso”40. Ogni valutazione dovrebbe dunque rappresentare, più che una correzione, un rinforzo positivo, un incentivo a far leva sulle proprie risorse piuttosto che un divieto a ricadere negli stessi errori, un contributo alla costruzione di una salda autostima, pur nella consapevolezza degli aspetti da migliorare. Carattere timido e riservato, forse Bergson aveva in passato sperimentato su sé stesso l’efficacia di un elogio fatto al momento opportuno e invece l’effetto negativo di una pura e semplice disapprovazione. Può darsi che contengano un riferimento autobiografico e senz’altro sono frutto dell’esperienza pedagogica gli accenni contenuti nel discorso su La politesse, che si riferiscono a quegli “animi timidi, avidi di approvazione perché non si fidano di sé stessi”, sui quali un elogio meritato, una parola amabile, ha l’effetto di un raggio di sole che fa riprendere vita a una campagna desolata. Al contrario, prosegue il filosofo, “un’allusione involontaria, una parola di biasimo uscita da labbra autorevoli, possono gettarci in quella tristezza in cui scontenti di noi, disperando del futuro, crediamo di veder chiudersi davanti a noi tutte le strade della vita”41. 38

Ivi, p. 69. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 34. 40 J. Guitton, op. cit., p. 69. 41 La politesse, 30 luglio 1892, in Mélanges, cit., pp. 324-325. 39

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Del resto, in una lettera del 6 agosto 1936 diretta a Minkowski, invitando sua figlia a non affliggersi per l’insuccesso al baccellierato, egli aggiunge: “Ne posso parlare a ragion veduta, perché sono stato esaminatore. Si tratta, credo, di riformare profondamente il modo di correggere gli elaborati. La riforma dovrebbe essere fatta da molto tempo”42. Ottimo sportivo da giovane, Bergson vede anche nella pratica sportiva, più che la ricaduta sulla forma fisica, un’occasione di crescita in autostima: “Quel che apprezzo in modo particolare negli sport é la fiducia in sé stessi che fanno nascere nell’uomo che li coltiva”43. Particolarmente significativa la testimonianza di Gilbert Maire, allievo di Bergson prima a Clermont, poi al liceo “Henri-IV” di Parigi e minacciato di espulsione per la cattiva condotta, tanto da essere considerato, come riferirà egli stesso, “un somaro”. Bergson riuscirà a conquistarsi l’allievo, manifestando interesse per un suo lavoro letterario ed invitandolo a pranzo per commentarlo insieme. È lo stesso Maire a riferire le parole di Bergson in merito al suo scritto, parole che avranno così un effetto positivo sul suo futuro scolastico: Le segnalo i passaggi che mi sembrano migliori. Paragonandoli agli altri, scoprirà da solo le sue insufficienze. Le correzioni più utili sono, credo, quelle che sottolineano le qualità piuttosto che i difetti. Si arriva più in fretta a rimediare ai propri difetti prendendo le proprie qualità come punto di appoggio, piuttosto che contemplando così come sono i difetti che ci vengono semplicemente rilevati. Non so se addirittura, nel secondo caso, non si alimenti in noi una certa compiacenza, che ci spinga a dichiararli incorreggibili44.

Le osservazioni contenute in una lettera del 9 luglio 1896, indirizzata a L. Lévy-Bruhl, che gli aveva chiesto un elenco dei suoi migliori allievi, sono un esempio di come riuscisse a conoscere con profondità i punti deboli e le risorse per il lavoro intellettuale da parte dei suoi studenti: Albert Monod: spirito pienamente distinto; Roussel, spirito riflessivo, ben dotato per la filosofia; […] Cazamian, molto intelligente, molta 42

Lettera a E. Minkowski, 6 agosto 1936, in Correspondances, cit., p. 1547. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 46. 44 G. Maire, Bergson mon maître, Bernard Grasset, Paris 1935, p. 107. 43

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facilità: assimila presto e bene; Girardin, spirito serio, solido, molto perfettibile; Merlant: ha qualità di finezza e una certa originalità; […] Bériel: grossolano, mal riuscito: ma serio. Non dà il meglio di sé perché cerca le difficoltà. Braunschvicg: eminentemente perfettibile; non ha smesso di fare progressi, dopo 2 anni che è nella classe45.

Fino alla fine della sua vita rimane viva la sua vocazione di insegnante. In una intervista apparsa su Le Figaro il 6 gennaio 1945, Madame Bergson riferisce che il marito, poco prima di spirare, ormai privo di conoscenza, immaginava di star concludendo ancora una volta le sue lezioni: “Nel suo delirio, credo che le questioni filosofiche e anche il suo corso al Collège de France gli ritornavano in mente, perché pronunciava delle frasi che si riferivano a Matière et mémoire e all’ora del suo corso, che non teneva più dal 1914”46.

45 Correspondances, pp. 31-32. In una lettera del 30 luglio 1926, a Étienne Burnet (Joigny, 1873-Tunisi, 1960), suo allievo al liceo Henri IV, poi divenuto medico, scrive: “Anch’io conservo un vivo ricordo degli anni che ha trascorso al liceo Henri IV. Ho avuto in questo liceo, e più tardi all’École Normale, allievi di eccellenza: in nessun altro ho trovato insieme qualità più complete, brillanti e solide. Lei si è rivolto alla scienza e non ha dovuto pentirsi, perché la scienza non delude mai. Ma sono ben certo che è rimasto affezionato alla filosofia e che presto o tardi la farà beneficiare della sua riflessione sulla scienza”. Correspondances, cit., p. 1207. 46 Les derniers moments de Bergson, in “ Le Figaro Littéraire”, 119, n. 121, 6 gennaio 1945, p. 2. 

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Capitolo terzo

Specializzazione e unità del sapere

Conoscenza intellettuale e conoscenza intuitiva. Zenone e il rischio del riduzionismo. Insegnare latino e geometria. L’Homo faber non meno degno dell’Homo sapiens Il discorso La specialité risale al 3 agosto del 1882, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno al liceo di Angers. Come già osservato, il giovane professore appena uscito dall’École Normale, imbevuto di positivismo e diffidente verso la psicologia, proprio nel biennio 1881-1883 trascorso ad Angers, realizza una svolta nel modo di pensare e nel lavoro d’indagine. Sarà lo stesso Bergson, più tardi, a raccontarlo per lettera a W. James, che gli aveva richiesto il curriculum dopo averlo invitato a tenere una conferenza a Oxford: Per quanto riguarda avvenimenti notevoli, non c’è stato nel corso della mia carriera niente di oggettivamente notevole. Ma, soggettivamente, non posso impedirmi di attribuire una grande importanza al cambiamento sopraggiunto nel mio modo di pensare nel corso dei due anni successivi alla mia uscita dalla École Normale, dal 1881 al 1883. Fino ad allora ero rimasto totalmente imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto grazie alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo pressoché senza riserve. Mia intenzione era di consacrarmi a ciò che allora si chiamava “la filosofia delle scienze”; a tal fine avevo intrapreso, dall’uscita dalla Normale, l’esame di qualche nozione scientifica fondamentale. Fu l’analisi della nozione di tempo, così come interviene in meccanica o in fisica che sconvolse tutte le mie idee. Mi accorsi con mio grande stupore che il tempo scientifico

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non dura, che non ci sarebbe nulla da cambiare nella nostra conoscenza scientifica delle cose fosse dispiegata d’un tratto nell’istantaneità e che la scienza positiva consiste essenzialmente nell’eliminazione della durata. Questo fu il punto di partenza di una serie di riflessioni che mi condussero progressivamente a respingere tutto ciò che avevo accettato fino ad allora e a mutare totalmente il mio punto di vista1.

Delle implicazioni di tale svolta, Bergson sarebbe divenuto consapevole in modo graduale e progressivo, fino a maturare le riflessioni dell’Essai sur les données immediates de la conscience, del 1889. Alcune tracce del percorso intellettuale che il filosofo realizzerà in seguito sono già riconoscibili in questo discorso e in quello pronunciato il 31 luglio del 1902, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno al liceo Voltaire di Parigi2. Entrambi, infatti, si concentrano sul tema del rapporto tra analisi e sintesi e sulla funzione dell’intelligenza. Il tema affrontato è quello dei rischi che la preparazione specialistica, spesso frutto di pigrizia intellettuale o di un’errata concezione dell’intelligenza, comporta sia per la filosofia che per la scienza e la letteratura. Lo specialista al lavoro viene presentato in efficaci “quadretti espressionistici”: se filosofo, sarà monotematico, capace di affrontare in pubblico unicamente l’argomento che conosce. In privato, manterrà nelle conversazioni un comportamento amabile finché queste non riguardino la sua specializzazione, perché, in tal caso, da amabile diverrà impertinente, desideroso di mostrare quanto prima il suo sapere nei confronti dell’altrui ignoranza. Se lo specialista è scienziato, ridurrà la sua scienza, fisica o chimica che sia, a un catalogo di fenomeni o ad una raccolta di formule. Sfornito delle idee generali, le uniche capaci di unificare i dati, si dedicherà a collezionare fatti, ma senza poterli integrare, come un cuoco che invece di un piatto ben cucinato servisse in tavola i singoli ingredienti. La scienza si trasforma così in pettegolezzo scientifico, dove lo specialista si atteggia a divulgatore, presentando il dato così com’è, senza preoccuparsi di interpretarlo e di riferirlo a dei principi. 1

Lettera a W. James, 9 maggio 1908, in Mélanges, cit., pp. 766-767. Inizialmente pubblicato senza titolo, sarà ristampato successivamente nel 1914 con il titolo De l’intelligence. Cfr. Mélanges, cit., pp. 554-560. 2

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Se invece la specializzazione riguarda la critica letteraria, questa si trasformerà in collezionismo aneddotico, nella ricerca a tutti i costi dell’inedito anche se insignificante. Lo stesso avverrà per la letteratura greca e latina: in tal caso, la critica letteraria diviene “psicologia della trascrizione”, perché lo specialista si preoccuperà non tanto degli insegnamenti che può darci il pensiero dell’autore quanto degli eventuali errori del manoscritto, delle varianti e delle edizioni. Una conoscenza specialistica, dunque, in quanto settoriale e analitica, mai potrà svelare il senso della realtà che studia, che si coglie soltanto alla luce dei principi e delle conoscenze generali. Anche se conoscessimo tutte le pietre di un edificio, afferma il filosofo, ci sfuggirebbe ancora la conoscenza dell’edificio, giacché questa presuppone una visione d’insieme, ossia percepire i rapporti tra le parti e le reciproche implicazioni. La semplice conoscenza di una parte, per quanto dettagliatissima e accurata, mai fornirà la visione dell’insieme, se non si ricorre a un altro tipo di approccio e a un altro ordine di considerazioni; così come, ingrandendo smisuratamente un oggetto al microscopio, ne vedremo certamente tutti i particolari più minuti, ma per capire cosa sia dovremo guardarlo a occhio nudo nel suo insieme. La critica alla specializzazione è allora la premessa a quelle riflessioni sulla conoscenza immediatamente successive all’Essai nelle quali Bergson assegnerà una priorità alla sintesi piuttosto che all’analisi, all’intuizione anziché all’intelligenza discorsiva: unificare diventa per lui più importante che suddividere. L’analisi potrà, nella maggior parte dei casi, esaurire tutto il contenuto dell’oggetto analizzato; ma allora l’oggetto non possiede più carattere in sé stesso: non abbiamo più a che fare con un oggetto speciale, ma con un insieme di svariati oggetti. Se l’oggetto ha un’essenza propria, si cercherà invano di liberare questo elemento essenziale attraverso un’analisi, ossia con un’operazione che non può e non vuole essere altro che un’enumerazione di somiglianze: l’impossibilità stessa di esaurire una simile enumerazione, l’obbligo di spingerla sempre più lontano per circoscrivere sempre più da vicino il carattere proprio che sfugge continuamente, ci avverte che per cogliere questo carattere sarebbe necessaria un’operazione di altro genere, sarebbe necessaria un’intuizione3. 3 Préface a l’«Esquisse d’un système de psychologie rationelle» de E. Lubac, 1903, in Mélanges, cit., p. 611.

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E in Introduction à la métaphysique, che si può considerare il manifesto metodologico della filosofia bergsoniana, viene messa in chiaro la portata dell’intuizione, definita “la simpatia mediante la quale ci si colloca all’interno di un oggetto per coincidere con ciò che in esso vi è di unico”4. Così scrive in una lettera del 1908: “Ha ragione nel dire che l’intelligenza non è tutto, neppure per la conoscenza e plaudo di tutto cuore alle parole che citate: ‘il fuoco della conoscenza è l’istinto’ –istinto purificato, è vero, in intuizione. L’istinto così inteso non è altro che la Vita che si rischiara interiormente essa stessa con la sua luce interiore e propria, anziché riflettere semplicemente la luce interiore e artificiale che le invia l’intelligenza”5. Condividendo la critica a quello che qualifica come l’ultra-intellettualismo di Renan, aggiunge: “Una intera generazione si è lasciata ipnotizzare da una presunta ‘Scienza’ che non è altro che una metafisica ignara di sé stessa e di conseguenza superficiale. Occorrerà indubbiamente molto tempo per ottenere che si risvegli e che si ritorni al sentimento della realtà”6. E, scrivendo a Victor Delbos nel 1909: Chiamo intelligenza la facoltà di formare i concetti, d’indurre e di dedurre secondo regole fisse. È questa facoltà che mi sembra essersi modellata, in tutti i suoi procedimenti, sulla configurazione della materia. Orbene, riconosco che il termine intelligenza è preso il più delle volte nel suo significato più ampio e che si chiama pure intelligenza la facoltà dello spirito che si esercita nell’ambito delle cose morali. Ma quest’ultima facoltà mi sembra scomporsi in due, l’una che è l’intelligenza propriamente detta, l’altra che chiamo intuizione, il cui ruolo è quello di correggere la prima, anzi spesso di sostituirla. Senza dubbio si può dare ai termini il significato che si vuole e prendere il termine intelligenza in senso ampio, come si fa generalmente. Ma occorrerà allora sottolineare che questa intelligenza comprende due movimenti dalla direzione 4 Introduction

à la métaphysique, gennaio 1903, in Oeuvres, cit., p. 1395. Lettera alla Comtesse Thérèse Murat, 3 agosto 1908, in Correspondances, cit., p. 215. Vedova del conte Joachim Murat, Thérèse Bianchi (1870-1940) teneva a Parigi un celebre salotto frequentato da numerosi intellettuali e artisti, tra i quali Charles Maurras, Henri Bergson, Abel Bonnard. 6 Ibidem. 5

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differente (e persino opposta). E una volta fatta questa precisazione, ci si accorgerà, credo, che è solamente al primo di questi movimenti che si pensava quando si parlava di intelligenza, che si trascurava il secondo e che sia meglio, pertanto, riservare il nome di intelligenza al primo7.

Scrivendo nello stesso anno a Maurice Pradines, che era stato suo allievo al liceo Henri-IV, chiarisce ancora una volta la sua idea di conoscenza: La conoscenza, sia essa intellettuale o intuitiva, è sempre una coincidenza più o meno completa con il reale; ma il grande errore è trasferire alla conoscenza intuitiva, che è una coincidenza con l’attività creatrice, le regole e le forme della conoscenza intellettuale, che è un’adozione completa o parziale del modo di essere della materia in vista dell’utilità pratica. Che d’altronde sia necessario riservare a quest’ultima il nome di conoscenza intellettuale, è cosa che tutti ammetterebbero se si riconoscesse chiaramente che l’intelligenza ha per funzione essenziale ragionare, ossia indurre e dedurre e che induzione e deduzione vanno nella direzione della materialità. È naturale, senza dubbio, che il senso comune confonda con questa conoscenza intellettuale propriamente detta un’altra conoscenza che vi si mescola senza sosta, sebbene in debole quantità, quella che io chiamo intuizione; ma spetta proprio alla filosofia di dissociarle e di mostrare che vanno in direzione contraria. L’intelligenza, così intesa, è senz’altro coestensiva alla materia, ma non, come lei dice, alla nostra percezione, giacché questa non ci offre della materia che alcuni frammenti, soltanto quello che sollecita il nostro corpo ad agire8.

Per Bergson, dunque, la conoscenza autentica di una realtà, non può esaurirsi nello sguardo analitico, che coglie le parti della complessità, ma non la complessità in quanto tale e introduce artificiosamente delle divisioni in ciò che è un’unità originaria. Si tratta invece di individuare, mediante l’intuizione, l’idea fondamentale che costituisce il centro unificatore, colto il quale si comprende l’insieme. Ogni sforzo deve dunque 7

Lettera a V. Delbos, 27 maggio 1909, in Ivi, pp. 264-265. Lettera a M. Pradines, 15 dicembre 1909, in Ivi, pp. 314-316. Maurice Pradines (18741958) aveva inviato a Bergson il suo saggio Critique des conditions de l’action. I. L’erreur morale. II. Principes de toute philosophie de l’action, Alcan, Paris 1909. 8

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mirare a ottenere una visione semplice di questa unica idea nella quale tutte le analisi convergeranno, in quanto da essa sono originate tutte le altre idee. La critica alla specializzazione non è dunque motivata né da una condanna tout court dell’analisi, che, come si è visto, è considerata una tappa indispensabile della conoscenza. Non è neppure la difesa di una superficiale infarinatura su tutti i campi dello scibile, perché anzi Bergson in varie occasioni condanna il pressappochismo. È piuttosto, in nome dell’unità del sapere che è un riflesso dell’unità del reale, il rifiuto di ogni forma di riduzionismo, come pretesa di identificazione del tutto con le sue parti o come intento di applicare un unico metodo a oggetti differenti9. Si tratta pertanto di considerazioni non semplicemente metodologiche, ma originate da una chiara consapevolezza dell’unità dell’intelligenza, che rimandano a una idea precisa del percorso da seguire nella formazione intellettuale: “Bergson pensava – nota Guitton – che le facoltà che permettono di creare nelle Lettere sono le stesse che fanno inventare nelle Scienze. […] Voleva che, nell’istruzione dei ragazzi, si insegnasse allo stesso tempo ‘il latino e la geometria’, come aveva deciso Napoleone. Voleva radicare lo spirito adolescente, prima di qualsiasi scelta prematura, a queste due fonti, equivalenti nel fondo, la cui dissociazione deve farsi il più tardi possibile”10. A Bergson sta sempre a cuore l’unità dell’essere, che va ricostruita attraverso uno sguardo d’insieme, e che non risulta dalla semplice somma dei significati delle sue parti: “mille fotogrammi di Parigi non fanno Parigi”, dirà efficacemente il filosofo in Introduction à la métaphysique. Una conoscenza frammentaria o puramente quantitativa non ci consente di cogliere la realtà nella sua pienezza. sarà sempre una conoscenza zenonizzante, per riferirci all’operazione compiuta da Zenone di Elea, che ha mostrato con i suoi paradossi come, scomponendo il movimento in infinite parti, si arriva a negarne l’esistenza. 9 Osserverà nel 1913, a proposito del diverso metodo che richiedono lo studio dei fenomeni naturali e quello dei fenomeni di coscienza: “Niente è più sgradevole allo scienziato di professione che il veder applicare a una scienza dello stesso ordine della sua un metodo riservato ordinariamente a oggetti totalmente differenti. Egli tiene ai suoi oggetti come un operaio ai suoi strumenti”. E, più avanti: “È proprio dell’essenza delle cose dello spirito il non prestarsi alla misura”. Fantômes de vivants, conferenza alla “Society for Psychical Research”, 28 maggio 1913, in Mélanges, p. 1004, 1010; raccolto poi, con alcune modifiche, in L’énergie spirituelle, 1919, in Oeuvres, cit., pp. 862 e ss. 10 J. Guitton, La vocation de Bergson, cit., pp. 56-57.

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Questa considerazione del discorso sulla specializzazione potrebbe pertanto preludere alle riflessioni sulla distinzione tra tempo e durata dell’Essai, percepiti rispettivamente dall’intelligenza e dall’intuizione. L’intelligenza, trascurando le differenze qualitative per considerare solo quelle quantitative, rischia di ridurre la realtà solo a quegli aspetti. L’intelligenza divide, scompone, istituisce separazioni, analizza: ma per conoscere veramente la realtà occorre ricomporre, ricondurre ogni parte al tutto, riconoscere il posto che ciascuna di esse occupa nell’insieme, comprendere che il tutto è qualcosa di più della semplice somma delle parti. Su questo punto, scienza e filosofia divergono, come ribadirà in una conferenza del 1911: Il dominio della scienza è quello della misura. Essa mira a stabilire delle leggi. Ora la legge, nella sua forma perfetta, è una relazione stabile tra due o più grandezze variabili: è dunque sulle grandezze che la scienza verte. Essa aspira innanzitutto a misurare; e lì dove non vi riesce ancora (come avviene in genere nelle scienze biologiche), lì dove deve accontentarsi di descrivere e di analizzare, tutto ciò che fa è ispirato, consapevolmente o inconsapevolmente, dalla preoccupazione di preparare l’oggetto in vista di una misura, che – non può impedirsi di sperarlo – si effettuerà un bel giorno. […] Il dominio della filosofia è ciò che non si misura. Il suo dominio è quello della libertà e della creazione. È dunque il dominio dello spirito, perché non vedo come lo spirito potrebbe definirsi altrimenti11.

D’altra parte, scienza e filosofia “sono discipline differenti, ma fatte per completarsi”12. L’esempio che la storia del pensiero ci offre è lampante: molti studiosi sono giunti a grandi scoperte e intuizioni scientifiche proprio grazie all’aiuto delle idee filosofiche. Occorre dunque, pur nella distinzione dei diversi ambiti, recuperare una dimensione umanistica della scienza, dove si risolva l’apparente contrapposizione tra conoscenza quantitativa e qualitativa, in un’integrazione del sapere che consenta di conoscere la realtà nella sua pienezza. Per il filosofo, la formazione intellettuale comincia nella fase dell’infanzia, grazie all’importanza da assegnare alla manualità. In uno scritto 11 Allocution à une conférence du pasteur Hollard, 14 maggio 1911, in Mélanges, cit., pp. 886-887. 12 Préface a Durée et simultaneité, 1922, in Ivi, p. 59.

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del 1922, egli porrà sullo stesso piano l’Homo faber e l’Homo sapiens, in quanto meritevoli di uguale ammirazione, giacché “è proprio dell’essenza dell’uomo creare materialmente e moralmente, produrre cose e produrre sé stesso”13. Se l’intelligenza è, perlomeno in fase iniziale, la facoltà di manipolare la materia, l’educazione della mano è per Bergson estremamente importante per lo sviluppo intellettuale. Favorendo la naturale attitudine a costruire, si promuovono nel bambino la creatività e la capacità d’invenzione, mentre, al contrario, un sapere essenzialmente “libresco” priverebbe di slancio queste abilità. Tra l’altro, secondo il filosofo, per trasformare il semplice “toccare” in “tatto”, in modo da favorire lo sviluppo dell’intelligenza dalla mano alla testa, occorre un autentico maestro. La critica è rivolta a un tipo di insegnamento eccessivamente verbale, ormai inadeguato, che nell’ambito dell’insegnamento delle scienze punta più ai risultati che ai metodi, più alle teorie che all’osservazione e all’esperienza, senza tener conto che il bambino è innanzitutto un inventore e un esploratore, amante del nuovo e “molto più vicino alla natura dell’adulto”14. Partendo da questi presupposti, la formazione intellettuale prosegue nella fase dello studio liceale, il cui valore risiede proprio nella sua apparente inutilità, dovuta all’assenza di specializzazione. È proprio questa ampiezza, unitamente alla presenza degli studi classici, a favorire lo sviluppo delle virtù intellettuali: lo scopo è quello di far maturare un’intelligenza a tutto campo, capace di cogliere, grazie al rigore logico delle scienze e alla chiarezza dei principi della filosofia, la realtà da diversi punti di vista. Nelle prime tappe del lavoro intellettuale, infatti, a differenza del lavoro manuale, non giova coltivare un’unica abitudine in una sola direzione, quanto piuttosto sviluppare una serie di capacità e di competenze che valgano per diversi ambiti. Più tardi, ovviamente, sarà 13 Sur la position des problèmes, 22 gennaio 1922, in La pensée et le mouvant, in Oeuvres, cit., pp. 1325. Per Bergson, cultura è armonia tra lavoro intellettuale e produzione materiale. In una intervista concessa ad Albert Jeremiah Beveridge, il 4 marzo del 1915, egli respinge la distinzione tedesca tra Kultur, relativa alla coltivazione dello spirito e dell’anima e Civilization, concernente le cose materiali: “Noi non facciamo una tale distinzione. Da noi, civilizzazione e cultura sono uno. Si fondono. Questa distinzione illustra l’abito mentale tedesco di separare le cose, che realmente non sono separabili. Essi pensano con due menti, agiscono con due anime”. Correspondances, cit., p. 622. Albert Jeremiah Beveridge (1862-1927) pubblicò l’intervista in What is Back in the War?, The Bobbs Merrill, Indianapolis 1916, pp. 286-295. 14 Sur la position des problèmes, cit., pp. 1235-1236.

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necessario delimitare il campo e restringere l’area dei propri interessi, ma farlo prematuramente, bruciando le tappe in nome della concretezza e dell’attenzione specifica a un aspetto determinato del sapere, produrrebbe un’intelligenza asfittica, incapace di cogliere il senso e la portata di quello stesso sapere a cui si è dedicata. Ogni precoce specializzazione comporta, in fin dei conti, un impoverimento in umanità o, per dirla con termini bergsoniani, una riduzione della capacità di aderire alla vita e alla realtà. Sarebbe come, in nome della vita, perdere i motivi per vivere, conclude Bergson, citando, non a caso, una satira di Giovenale.

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Capitolo quarto

La politesse come sintesi di cortesia, amabilità e benevolenza

I tre gradini di politesse. Buona educazione ed educazione buona. La virtù come elasticità dello spirito Il discorso La politesse viene pronunciato per la prima volta da Bergson il 30 luglio del 1885, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno, al liceo Pascal di Clermont-Ferrand e nuovamente, con varie correzioni e integrazioni, il 30 luglio 1892, al liceo Henri-IV di Parigi. Tra le due versioni, si colloca l’Essai sur les données immédiates de la conscience, che attesta il distacco definitivo da Spencer e in generale dal positivismo, con l’approdo alle considerazioni sulla durata e la libertà, maturato nel periodo di Clermont-Ferrand, decisivo per la formazione di Bergson. Come si vedrà, più avanti, nella prospettiva adottata dal filosofo, la traduzione del termine politesse nel suo significato più profondo non corrisponde alla semplice cortesia, ma è la sintesi di un insieme di virtù relazionali1. Per questo, inizialmente, si userà il termine francese. Riportiamo la sintesi che del discorso ci offre J. Guitton, il quale mette in evidenza le tre forme di politesse presentate da Bergson: Il discorso su La Politesse obbedisce ad un ordine segreto, a un ritmo di pensiero che mi sembra pascaliano. Bergson considera innanzitutto una politesse secondo la carne, quella che si trova presso i popoli mezzo 1 Il Dictionnaire Larousse ne presenta la seguente definizione: “Ensemble des usages sociaux régissant les comportements des gens les uns envers les autres; observation de ces règles”: https://www.larousse.fr/dictionnaires/francais/politesse/62182

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selvaggi con le loro lunghe cerimonie, presso le persone di mondo e le loro convenzioni complicate: non esita a mostrare che si tratta di una politesse statica e che non va lontano. Perché le precauzioni delle persone molto educate sembrano calcolate per tenervi a distanza. Se vi danno ragione, vi chiedete se non è per essere più in fretta liberati di voi. Se vi riconducono fino alla porta, è per bene assicurarsi che siete partiti. Poi Bergson tratta di una politesse di talento che è quella dell’uomo onesto, che consiste nel mettersi nei panni degli altri, nell’interessarsi alle loro occupazioni, nel pensare i loro pensieri. È la politesse del perfetto uomo di mondo. […] Ma questa politesse dello spirito, che è una scioltezza senza limiti e di secondo genere, altro non è forse se non una sublimazione della politesse sociale, poiché chi l’esercita fa ancora con voi una sorta di gioco serio, nel quale l’amore è imitato dall’esterno. Essa appartiene a quel genere ambiguo delle essenze instabili che, per un nonnulla, possono ribaltarsi, passare bruscamente allo stato contrario. Da politesse raffinata, essa può diventare ipocrisia ossequiosa in un batter d’occhio. Bergson definisce un terzo tipo di politesse, la politesse di carità, che deriva in definitiva dal fatto che si compara l’altro con sé stessi, che lo si riconosce uguale a sé e che davvero lo si ama2.

Il discorso affronta dunque un tema che non riguarda più soltanto l’educazione intellettuale in senso stretto, ma si estende all’ambito morale, facendo appello alla formazione della volontà e all’educazione sentimentale. In cosa consiste la politesse? È scienza, arte o virtù? In altri termini, rimanda solo a una capacità conoscitiva o chiama in causa anche altre facoltà? Come sappiamo, se si escludono le lezioni di storia della filosofia tenute al liceo, Bergson approderà piuttosto tardi alla trattazione dei temi morali3, ma in questo discorso, come anche in quello successivo sul bon sens, possiamo intravvedere un primo interesse per tali questioni e addirittura in embrione quella che poi sarà la nota distinzione tra morale statica e morale dinamica esposta in Les deux sources de la morale et de la religion4. 2

Cfr. J. Guitton, La vocation de Bergson, cit., pp. 89-91. Il primo scritto che tratta esplicitamente questi temi è la conferenza Life and Consciousness, pronunciata in inglese a Birmingham il 29 maggio 1911 e poi ampliata in francese nel 1919. 4 L’opera, pubblicata nel 1932, propone due “fonti” per la morale, la pressione da una parte e l’aspirazione dall’altra, che danno vita l’una ad una società chiusa, basata sull’osservanza formale dei doveri, l’altra ad una società aperta, animata dall’amore. 3

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Tra politesse dei modi, politesse dello spirito o di talento e politesse del cuore c’è una chiara progressione nella direzione di una condotta sempre più autentica. Il punto di partenza è la superficiale osservanza di una serie di norme, il semplice codice di comportamento o galateo, dove si assiste al paradosso dell’utilizzo di una serie di formule delle quali la maggior parte delle volte si è completamente perso il senso e la portata. Il secondo gradino è quello dell’atteggiamento dell’“uomo di mondo”, che riesce a mettersi nei panni degli altri, che possiede l’arte della conversazione e della cortesia nelle relazioni. Egli mostra una politesse che è insieme elasticità intellettuale e libertà dell’intelligenza, un complesso di “qualità del cuore e qualità dello spirito”. Questa politesse, più dono naturale che effetto di un’educazione raffinata, conferisce un modo di agire che affascina per la facilità e l’agilità dei movimenti, come una danza che viene ammirata anche perché dà a chi la guarda l’illusione di disfarsi della sua pesantezza, per il solo fatto di guardarla, anche senza praticarla egli stesso. Scrivendo a Ossip-Lourié, a proposito dell’uso della parola, Bergson osserva: Dovremmo far nostra questa idea: che non c’è bisogno di parlare quando non si ha nulla da dire. E bisognerebbe che si capisse che è permesso tacere, tra persone ben educate, senza mancare per questo alle regole della politesse. Non ci si dovrebbe mai annoiare, anche quando non c’è nessuno con cui parlare; la noia è sempre segno di una insufficiente educazione dell’intelligenza e della volontà5.

L’uomo di mondo è l’uomo giusto, cioè colui che manifesta nel suo comportamento un reale amore per l’uguaglianza, che viene inteso da Bergson nel contesto del suo realismo. Amare l’uguaglianza, infatti, è per il filosofo innanzitutto una questione intellettuale: si tratta in primo luogo di riconoscere un valore, una superiorità, e di conseguenza accordargli nella pratica la corrispondente stima e considerazione. E l’uomo di mondo è capace di farlo anche rinunciando ai suoi punti di vista, alla sua forma mentis, grazie ad una speciale adattabilità alla vita e agli altri in tutte le loro diversità e sfumature. 5 Lettera a Ossip-Lourié, 1° settembre 1912, in Correspondances, cit., pp. 481-482, dopo aver ricevuto il suo saggio Le language et la Verbomanie, Alcan, Parigi 1912. Ossip Davidovitch Lourié (1868-1955) scrittore russo, naturalizzato francese.

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Eppure, anche questa seconda forma di politesse rimane in superficie: bisogna giungere ad un livello ancora più profondo, che è virtù e non talento. Potremmo definire il terzo gradino come il frutto di una educazione buona e non semplicemente della buona educazione, in quanto, pur radicando in una certa bontà naturale, che ne costituisce il fondo, solo grazie a un’acuta penetrazione dello spirito, a una grande finezza e a una profonda conoscenza del cuore umano può divenire carità autentica, reale amore del prossimo. Essa “reclama il concorso dello spirito e del cuore” e consente di guardare alla sensibilità dell’altro non più semplicemente per il desiderio di piacergli, ma perché egli sia contento di sé stesso e di noi. Questa terza forma di politesse chiama dunque in causa non soltanto delle disposizioni intellettuali, ma morali e pertanto non si acquista solo tramite l’insegnamento. Per Bergson, il ruolo che in questa maturazione hanno le esperienze della vita, in particolare quella della sofferenza, è insostituibile: “esse sole ci conducono poco a poco alla dolcezza, alla benevolenza, alla pietà”6. Tuttavia, egli ritiene che un certo tipo di studi possa costituire una sorta di preparazione all’acquisizione e alla pratica di questa virtù. In concreto, l’insegnamento del liceo, con il suo bagaglio di sapere umanistico e scientifico può contribuire in modo determinante all’educazione buona. In alcuni passi del discorso pronunciato nel 1885, poi omessi nella stesura del 1892, il filosofo mette in evidenza come gli studi scientifici sviluppino l’elasticità dello spirito e l’intelligenza della vita in generale e gli studi umanistici la conoscenza dell’uomo, due condizioni che “potranno un giorno essere il fermento che trasforma la semplice benevolenza in grazia e la bontà in politesse”7. Il sapere, dunque non è fine a sé stesso; tanto lontano è Bergson dal concepire lo studio del liceo come sterile erudizione, quanto dal finalizzarlo a pure utilità pratiche. Gli sta a cuore l’autentico lavoro intellettuale che mira allo sviluppo di capacità da trasferire poi in tutti i campi. Lo studio delle matematiche che rende lo spirito distratto e insieme astratto quando ne viene assorbito, gli conferisce, se si contempera con altre cure, un non so che di sottile e penetrante. Questa è l’idea dominante dell’insegnamento scientifico che vi offre il liceo; si tratta meno 6 Cfr. 7

La politesse, testo del 1885, in Mélanges, cit., p. 326. Cfr. Ibidem.

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di conoscere le proprietà delle linee e dei polinomi, che di abituarsi a ragionare sugli oggetti più semplici e più astratti, a fare delle distinzioni fini e a ricavare da un dato tutto ciò che esso contiene. Non vi è in tutto ciò una preparazione forte all’intelligenza della vita in generale e dell’uomo in particolare?8.

D’altra parte, le capacità di analisi che gli studi scientifici sviluppano ricevono solo nell’educazione umanistica l’applicazione più interessante, quella che li orienta alla conoscenza dell’uomo. L’insegnamento delle lettere è allora l’insegnamento pratico per eccellenza; non ce n’è di migliore per prepararci a conoscere coloro che ci circondano, a giudicare su ciò che valgono, a discernere se meritano che ci si faccia amare da essi e come vi si potrà giungere. E, tra gli scrittori, sono più adatti alle scuole coloro che non hanno mai sacrificato l’idea alla frase e che hanno mirato a presentarci un’immagine fedele della vita piuttosto che a farsi ammirare: li si chiama anche classici, e si scelgono preferibilmente tra gli stessi classici quelli che, trascurando i dettagli di costume, hanno osservato l’uomo in se stesso, quelli che ne sono stati i pittori più scrupolosi, i più esatti, i più realisti: gli antichi9.

Per Bergson, dunque, il contatto con i classici è un’autentica esperienza di vita, perché in essi traspare una vita interiore più intensa e più piena. Questo è il motivo per cui essi ci hanno lasciato descrizioni immortali delle passioni e dei sentimenti del cuore umano, tali da avviare ad una conoscenza dell’uomo profonda quanto o meglio della vita stessa. Grazie ad essa, si creano le condizioni perché la bontà possa raffinarsi e divenire politesse del cuore. Quella che gli antichi chiamavano humanitas è, per Bergson, una sorta di “grazia che si ricava da una lunga consuetudine con i migliori spiriti di ogni tempo”, una “scienza approfondita del cuore umano che si attinge durante la lettura attenta dei classici”10, che ha insieme le caratteristiche della penetrazione, dell’elasticità e della moderazione. Anche la tolleranza, meta tanto auspicata nel dialogo tra gli uomini, secondo il filosofo sarebbe possibile e autentica solo grazie a questa 8

Ibidem, p. 327. Ibidem. 10 Cfr. Ivi, p. 328. 9

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coltivazione di sé, favorita dal contatto con i classici e dalla formazione filosofica. Mentre le passioni creano divisioni, l’apertura dell’intelligenza e il gusto per il confronto delle idee, effetti degli studi filosofici, producono invece il rispetto reciproco pur nella diversità delle posizioni. In conclusione, al di là di una certa retorica d’occasione e senza voler forzare il testo, si possono rintracciare in questo discorso, considerato nelle due stesure, vari elementi d’interesse. In primo luogo, viene messa in luce l’importanza della virtù, che conferisce uno spessore ben diverso e un’ampiezza maggiore alle disposizioni naturali; tra l’agire secondo virtù e l’agire secondo forme puramente esteriori c’è una differenza non solo di grado, ma qualitativa. La buona educazione non necessariamente si identifica con l’educazione buona: quella è una vernice esteriore, è formalismo, saper vivere; questa è signorilità d’animo, grazia, simpatia, tatto, delicatezza. È disposizione interiore e non semplice comportamento o atteggiamento. C’è dunque sempre una gradualità nella formazione, che corrisponde a una sorta di stratificazione dell’io. C’è un io profondo, soggetto valorizzato e potenziato dall’educazione buona e un io superficiale, che si esprime nelle buone maniere, nel rispetto formale delle convenzioni. È chiaro che Bergson non intende disfarsi di queste ultime perché negative o dannose, ma soltanto mettere in evidenza che non esauriscono l’orizzonte dell’educazione morale e anzi irrigidiscono, se assolutizzate. D’altra parte, agire secondo virtù non significa agire contro una inclinazione, ma soprattutto orientare una inclinazione naturale. Ciò si inserisce nella direzione tutta bergsoniana di identificare la vita virtuosa non tanto come uno sforzo volontaristico, ma come una elasticità dello spirito, per quanto frutto del lavoro su di sé. Interessante è anche la nozione di maturità personale come integrazione di abiti intellettuali e affettivi: se è necessaria l’elasticità dell’intelligenza per percepire la realtà degli altri, si richiede anche la sensibilità del cuore per esserne toccati. In ultimo, appaiono molto valide e attuali le considerazioni a proposito della funzione della letteratura e del significato della lettura come esperienza etica, nel loro implicito riferimento alla valenza e alla necessità della testimonianza per la trasmissione dei valori morali.

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Capitolo quinto

Il buon senso, virtù intellettuale e morale

Sintesi di intelligenza e intuizione. Spirito di routine, spirito chimerico e realismo. Buon senso e virtù della giustizia Il discorso Le bon sens et les études classiques viene pronunciato da Bergson in occasione della distribuzione dei premi di fine anno, nell’aula magna della Sorbona, il 30 luglio del 1895. Jean Guitton ci racconta di come l’accoglienza al discorso fu piuttosto fredda e quasi sconcertata: “Nel 1895 gli si chiese di pronunciare il discorso dei premi al Concorso Generale nel grande anfiteatro della Sorbona. Egli fece ancora una volta l’elogio del bon sens. Raymond Poincaré, che presiedeva, rispose che Voltaire aveva chiamato il bon sens uno stato intermedio tra la stupidità e lo spirito e che era offensivo vederlo riabilitare da un filosofo così sottile”1. In realtà, si tratta di uno dei testi pedagogici di Bergson più interessanti, perché la nozione di buon senso è molto ricca e articolata e sarà feconda di sviluppi. È Bergson stesso, in una nota precedente al discorso, indirizzata al vicerettore dell’Insegnamento Superiore, Octave Gréard, a offrirci una pista interpretativa per la nozione di buon senso:

1 J. Guitton, op. cit., p. 110. Anche Mossé-Bastide, op. cit., pp. 30-31, cita l’osservazione critica di Poincaré, allora Ministro della Pubblica Istruzione. In realtà, Poincaré, nel discorso tenuto durante la cerimonia, avrà parole di elogio nei confronti di Bergson, affermando che con il suo intervento aveva cancellato il giudizio sommario di Voltaire. Cfr. Discours prononcé par M.R. Poincaré, ministre de l’instruction publique, des Beaux-Arts et des cultes, à la distribution des prix du concours général des lycées et collèges, le mardi 30 juillet 1895, in “La Revue Pédagogique”, tomo 27, luglio-dicembre 1895, pp. 97-102.

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Per buon senso intendo la facoltà di orientarsi nella vita pratica, di vedere e di ragionare giustamente, non soltanto sui propri affari, ma ancora e soprattutto su quelli del paese. È più dell’istinto e meno della scienza; vi vedo soprattutto una certa piega acquisita dallo spirito, una certa abitudine di rimanere in contatto con la realtà, pur sapendo guardare più in alto. Ma se si tratta di un’abitudine, l’educazione deve avere presa su di essa. Fin dove si estende questa influenza dell’educazione? In quale misura gli studi letterari da una parte, gli studi scientifici dall’altra, infine la riflessione filosofica, possono sviluppare il senso del reale unitamente alla preoccupazione per l’ideale? Queste sono, se vi sembra bene, Signor Rettore, le questioni a cui tenterò di rispondere2.

L’intento di Bergson è dunque quello di cercare una definizione il più possibile precisa del bon sens, che ha un ruolo notevole nella condotta dell’uomo, di tentare di chiarirne i rapporti e le affinità con l’intelligenza e l’intuizione e, di conseguenza, di individuarne il principio, sia esso l’esperienza, il ragionamento o l’abitudine, in modo da fornire una pista per l’educatore. Come in altri testi successivi in cui il filosofo intende delimitare sempre meglio una nozione, la riflessione sul bon sens procede quasi circolarmente, per progressive approssimazioni, nel corso delle quali Bergson giunge a definirlo in modo sempre più preciso e completo. Ne risulta un’analisi che coglie tutte le sfumature di questa disposizione, nelle sue analogie e differenze con le altre e nelle sue implicazioni. Sintetizzandone le diverse definizioni offerte nel discorso, il bon sens si definisce come “una disposizione attiva dell’intelligenza”; la facoltà che ci consente “di distinguere in materia di condotta l’essenziale dall’accessorio”; l’autorità che invochiamo quando occorre prendere una decisione senza esitazioni, comprendendo l’insieme senza prevedere tutti i dettagli; “un adattarsi sempre rinnovato a situazioni sempre nuove”; “l’attenzione stessa, orientata nel senso della vita”; “l’energia interiore di un’intelligenza che si riconquista ogni momento su se stessa”; “l’irradiarsi di un ardore morale intenso”3. Come si vede, emerge un bon sens configurato come “nozione mista”, sintesi di intelligenza e intuizione, né esclusivamente intellettuale

2

Mélanges, cit., p. 359. Ivi, pp. 360-365.

3 Cfr.

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né puramente morale4. È una disposizione dell’intelligenza, ma allo stesso tempo non si limita alle operazioni dell’intelligenza; infatti, ha per oggetto la verità, ma anche la vita, e anzi realizza quella sintesi tra vero e pratico che Bergson riteneva indispensabile per una condotta autentica. L’intelligenza, infatti, abbandonata a sé stessa, semplicemente autoreferenziale, può soltanto trasformarsi in una struttura rigida, incapace di modellarsi sulle esigenze di volta in volta diverse che la vita le presenta. Il bon sens, in un certo senso, impedisce questa sclerosi; favorisce l’adattabilità dell’intelligenza alla realtà, alimenta quel sano realismo che ha delle innegabili ricadute positive anche sulla condotta morale, la quale, secondo una felice espressione bergsoniana, dovrebbe sempre ispirarsi ad “agire da uomo di pensiero e a pensare da uomo d’azione”5. Il bon sens ha dunque delle affinità con l’intelligenza, ma non coincide con l’intelligenza. Vi sono infatti due modi di adattarsi alla realtà: il primo è quello proprio della pura intelligenza, schematico, generalizzante, che economizza lo sforzo, perché si basa sulla ripetitiva applicazione di formule, sul déja vu; potremmo quasi definirlo come caratteristico del pensiero convergente. Esso possiede il tipico vantaggio degli automatismi: assicura la rapidità e la regolarità delle risposte. Ma dà luogo ad una condotta stereotipata, tutto sommato prevedibile, che si ispira al rispetto delle regole e delle convenzioni, quella che più tardi Bergson definirà come “morale della pressione”, che punta innanzitutto alla coesione del gruppo. Il secondo modo è quello proprio dell’intuizione e del bon sens: esso è creativo, attento al cambiamento, più che di formule si serve di “schemi dinamici”, perché capace di inventare una risposta originale ad ogni situazione che venga percepita come unica. Il comportamento che ne deriva è dettato soprattutto dalla capacità di realizzare i valori in modo coerente e insieme adeguato alle situazioni che di volta in volta si presentano, nel rispetto delle esigenze degli altri. È la “morale dell’aspirazione” de Les deux sources, caratterizzata non dall’anarchica imprevedibilità dell’agire, come vorrebbe una certa interpretazione, quanto piuttosto dall’autentica libertà, cioè da un’adesione ai valori così personale e profonda, da consentire una fedeltà creativa nelle varie situazioni. 4 “Quanto al bon sens, è una nozione mista, vicina all’intuizione per la sua simpatia con il reale e la sua esigenza di creazione, ma d’altronde analoga all’intelligenza per la sua preoccupazione di adattarsi alla situazione presente e sociale”. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 2. 5 Cfr. Message au Congrés Descartes, giugno 1937, in Mélanges, cit., p. 1579.

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Così Édouard Le Roy, succeduto a Bergson nella direzione dell’Académie Française, ripercorrendo il pensiero del suo predecessore, definisce il bon sens bergsoniano: “Un’immagine e anche una prima approssimazione dell’atteggiamento intuitivo è data dal bon sens: quasi l’inverso del senso comune, una sorta di tatto delle complessità, un’arte di equilibrio e di giustezza, attenta a conservare un costante contatto e ad adattarsi nuovamente ogni volta che appare una circostanza originale”6. Questo spiega perché Bergson, pur definendo il bon sens “una disposizione attiva dell’intelligenza”, allo stesso tempo lo consideri una “diffidenza dell’intelligenza nei confronti di sé stessa”. Esso, dunque, non coincide esattamente con quella facoltà che Descartes indicava con lo stesso nome. Per Descartes, infatti, si trattava della semplice capacità, “la cosa al mondo meglio distribuita”, di distinguere il vero dal falso, sicché postulava anche necessariamente un metodo per porre correttamente i problemi e risolverli ordinatamente, nonché l’ingenium, o facoltà di inventare, che invece era prerogativa solo di pochi.7 Per Bergson, come osserva Mossé-Bastide, “il bon sens non è distinto da un metodo per trovare il vero, ma lo comprende. È l’arte, non soltanto di utilizzare, ma anche di inventare i metodi necessari alla scoperta e coincide con l’ingenium cartesiano, del quale d’altronde supera il significato”8. Lo oltrepassa, in quanto è insieme attenzione, sforzo di adattamento, giudizio pratico. Per questo, svolge un’opera di mediazione, riesce a conciliare l’azione col pensiero, dando alla prima carattere ragionevole e al secondo carattere pratico; è grazie al bon sens che la persona viene preservata da pericolosi sdoppiamenti, perché impedisce alla ragione di degenerare in astratto proceduralismo e all’azione di cadere nel vitalismo istintuale. Si può dire che realizzi quella sintesi tra rigore e passione, che conferisce concretezza alla verità scoperta e ragionevolezza alla condotta pratica. Così scrive a Mme M. Raffalovich, il 15 agosto 1895, promettendo di inviarle il discorso sul bon sens:

6 E. Le Roy, Discours de réception à l’Académie Française, 18 octobre 1945: http://www.academie-francaise.fr/discours-de-reception-et-reponse-de-andre-chaumeix-1 7 Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 181. 8 Ivi, p. 182.

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La definizione che propone di bon sens vi farebbe entrare il senso estetico e anche lo spirito scientifico; sarebbe, come lei dice così bene, un cerchio magico che racchiuderebbe le qualità più elevate dello spirito. Da parte mia, non andrei davvero così lontano; – vedrei soprattutto nel buon senso una certa intelligenza della vita pratica, o, se vuole, il senso dell’azione. I metodi rigorosi della scienza, le creazioni dell’arte, sono cose di cui l’umanità avrebbe potuto a rigore fare a meno; ma la vita sociale non sarebbe possibile senza un certo senso della vita, che è più e meglio dell’istinto e che mi sembrerebbe tuttavia essere per l’umanità ciò che l’istinto sociale è per certe specie animali. In questo consisterebbe soprattutto ciò che si chiama ordinariamente bon sens9.

Bon sens è, allora, per la sua capacità di penetrazione nel reale e le sue esigenze creative, una sorta di esprit de finesse, quasi sinonimo di intuizione10, ma da questa differente in quanto ordinato all’azione, nel suo carattere di “senso sociale”, laddove l’intuizione, propria dell’arte e della metafisica, conosce in modo disinteressato. Si avvicina al genio per la capacità di divinazione, ma non è, come questo, una rara dote naturale, perché si esprime con uno sforzo sempre nuovo; ha qualcosa dell’istinto, per la rapidità e spontaneità, ma vi si oppone per la varietà delle risposte e l’elasticità della forma. Assomiglia alla scienza per l’attenzione alla realtà dei fatti, ma se ne discosta in quanto capace di utilizzare l’analogia oltre che la logica, in modo da riuscire a coglierne tutte le sfumature. Fatte queste distinzioni, è chiaro che nemici del bon sens saranno soprattutto due atteggiamenti: quelli che Bergson definisce lo “spirito di routine” e lo “spirito chimerico”11. Solo apparentemente contrapposti, in realtà essi coincidono nel distacco dalla realtà, in quanto il primo “vuole solo dormire”, mentre il secondo “vuole solo sognare”. Nel primo, le cause sono la pigrizia intellettuale, l’automatismo, la resistenza al cambiamento; nel secondo la distrazione dello spirito. Quando Bergson scriverà a proposito del significato del comico, includerà il tipo distratto proprio tra le figure che suscitano ilarità, a motivo 9

È la prima delle ben 61 lettere che Bergson le scriverà. Correspondances, cit., p. 39. Così Bergson chiariva, nel corso di una discussione alla Société Française de Philosophie, il 1° luglio del 1909, la sua nozione di “intuizione”: “un’operazione originale dello spirito, irriducibile alla conoscenza frammentaria ed esteriore con la quale la nostra intelligenza, nel suo uso ordinario, assume dal di fuori una serie di dati sulle cose”. Mélanges, cit., p. 796. 11 Cfr. Ivi, p. 363. 10

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della mancata adesione alla realtà. Anche in questo caso, la reazione è dettata dal bon sens, che con il riso addita dove è mancata elasticità allo spirito, giacché esso costituisce “la mobile continuità della nostra attenzione alla vita”12. Anche in Matière et Mémoire, il filosofo definendo il bon sens come senso pratico, lo considera l’atteggiamento di chi, né impulsivo né svagato, è capace di attenersi alla realtà presente, senza tuttavia farsene catturare. Ciò che caratterizza l’uomo d’azione è la prontezza con cui chiama in soccorso di una data situazione tutti i ricordi che vi fanno riferimento; ma è anche la barriera insormontabile che trovano in lui, presentandosi alla soglia della coscienza, i ricordi inutili o indifferenti. Vivere nel più puro presente, rispondere a uno stimolo con una reazione immediata che lo prolunga è proprio di un animale inferiore: l’uomo che procede così è un impulsivo. Ma non è certo meglio idoneo all’azione colui che vive nel passato per il piacere di viverci, nel quale i ricordi emergono alla luce della coscienza senza utilità per la situazione attuale: non è più un impulsivo, ma un sognatore. Tra i due estremi si colloca la felice disposizione di una memoria abbastanza docile da seguire con precisione i contorni della situazione presente, ma abbastanza energica da resistere a ogni altro richiamo. Il buon senso, o senso pratico, non è realmente altro che questo13.

Se l’adesione alla realtà tende a ridurre al minimo lo sforzo, divenendo schematica e generalizzante, il risultato è una risposta rigida e ripetitiva. Solo se si aderisce alle diverse situazioni considerandole uniche, la condotta si configura come originale e creativa. Entrambi gli atteggiamenti, lo “spirito di routine”, ossia l’abitudine e lo “spirito chimerico”, ossia la distrazione, sono un impedimento alla piena adesione dello spirito alle azioni compiute, cioè all’esercizio della libertà: da qui il legame profondo tra educazione al bon sens ed educazione alla 12 Scrive nel 1924: “Il buon senso è lo sforzo di uno spirito che si adatta e si riadatta senza posa, cambiando idea quando cambia oggetto. È una mobilità dell’intelligenza che si regola esattamente sulla mobilità delle cose. È la continuità mobile della nostra attenzione alla vita”. Le rire. Essai sur la signification du comique, in Oeuvres, cit., p. 475. 13 Matière et Mémoire. Essai sur la relation du corps à l’esprit (1896), in Oeuvres, cit., p. 294.

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libertà autentica, tra realismo e possibilità di realizzare la scelta di volta in volta migliore. L’attenzione ne è dunque uno degli elementi essenziali. In una conferenza del 1901, egli paragona questa “tensione simultanea tra la sensazione e la memoria” all’atteggiamento del sarto quando prova un vestito ancora imbastito, che punta gli spilli e stringe la stoffa perché si adatti perfettamente al corpo14. Occorrono precisione e delicatezza, per scegliere adeguatamente tra ricordi e percezioni, in modo da conservare l’attenzione alla realtà: “questa scelta che realizzi senza sosta, questo adattamento costantemente rinnovato, è la prima e più essenziale condizione di ciò che chiamiamo bon sens”15. Si tratta di una tensione che comporta un continuo lavorio: per questo, conclude il filosofo, “avere bon sens è molto faticoso”16. Se, dunque, scopo principale dell’educazione è educare uomini di bon sens, sarà di importanza fondamentale stabilire quale ne sia il principio. Bergson nega che esso derivi da un semplice accumulo di esperienza e neppure da una maggiore capacità di ragionamento puro, in una logica più rigorosa. Indica, invece, come principio del bon sens lo “spirito di giustizia”, che concilia in sé il rispetto della realtà, la misura e la rettitudine sia del giudizio che dell’azione. Ritorna dunque la nozione di giustizia, già centrale nel discorso sulla politesse: di fatto, secondo la concezione aristotelica, essa comprende e abbraccia in sé tutte le virtù, perché è la misura, l’equilibrio che si ritrova in ciascuna di esse; in Bergson, essa si configura anche come riconoscimento teorico e pratico del valore adeguato da riconoscere alle cose e alle persone. D’altra parte, Bergson, a proposito della radice del bon sens, non sta pensando alla giustizia intesa in modo astratto e teorico, incapace di confrontarsi con i fatti, quanto alla “giustizia incarnata nell’uomo giusto”, ossia a quella che egli definisce “un senso delicato o piuttosto un tatto della verità pratica”, una sorta di rettitudine del giudizio che conferisce sicurezza all’agire. E se in grado più elevato essa si trova soltanto in alcuni, nei migliori, l’esempio di costoro sarà sempre una dimostra14 Le rêve, Conferenza all’Institut Psychologique, 26 marzo 1901, in Mélanges, cit., p. 458. Nel 1919 confluita in L’énergie spirituelle, in Oeuvres, cit., pp. 878-897. 15 Ibidem. 16 Ibidem.

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zione di quella pienezza di umanità che tutti sono chiamati a tentare di raggiungere. Il filosofo sottolinea, dunque, implicitamente, l’importanza dei modelli nell’educazione, degli “eroi morali” potremmo dire, che mostrando i valori realizzati sono convincenti più dei discorsi teorici17. Questa centralità della giustizia, che per il filosofo è principio della vita sociale, riapparirà ne Les deux sources, come punto nevralgico del passaggio dalla società chiusa alla società aperta. Egli ritiene che sia proprio una nuova e superiore idea di giustizia a riuscire a produrre la trasformazione dei rapporti sociali, quando da relativa diviene assoluta, per la forma categorica trascendente assunta grazie al messaggio cristiano. In questa prospettiva, Mossé Bastide con ragione vede nel bon sens una “nozione mista”, che potrebbe essere accostata a una sorta di combinazione tra la “morale chiusa” e “aperta” de Les deux sources. Risulta invece molto meno convincente la sua affermazione che questa forma di morale “mista” sarebbe l’essenza della morale bergsoniana prima della svolta del 1932, ma ancora meno condivisibile la sua tesi che la spinta morale dell’esempio dei mistici, celebrata da Bergson nel saggio del 1932, costituirebbe, in fin dei conti, un ideale irrealizzabile nell’educazione, che dovrebbe invece limitarsi a promuovere negli studenti una sorta di conformismo sociale elevato da uno sforzo di riflessione e d’intuizione18. Non è così. Ne Les deux sources, Bergson assegna ai mistici il compito di guidare verso la società aperta, proprio in quanto riconoscerà come tratti distintivi del misticismo completo “le goût de l’action, la faculté de s’adapter et de se réadapter aux circonstances, la fermeté jointe à la souplesse, le discernement prophétique du possible et de l’impossible, un esprit de simplicité qui triomphe des complications, enfin un 17 Ritroveremo, in modo più esplicito, il riferimento agli “eroi morali” nel testo francese della conferenza Life and Consciousness: “Solo nell’uomo, soprattutto nei migliori tra noi, il movimento vitale procede senza ostacolo, lanciando attraverso quell’opera d’arte che è il corpo umano e che esso ha creato, la corrente indefinitamente creatrice della vita morale. […] Creatore per eccellenza è colui la cui azione, intensa essa stessa, è capace di intensificare inoltre l’azione degli altri uomini, e di accendere, generosa, dei focolai di generosità”. L’énergie spirituelle, in Oeuvres, cit., pp. 833-834. L’importanza dell’esemplarità verrà successivamente pienamente teorizzata con il ruolo dei mistici presentato ne Les deux sources de la morale et de la religion. 18 Cfr. Mossé-Bastide, op. cit., pp. 3-4. La seguente affermazione è piuttosto sorprendente e rivela una conoscenza inadeguata del saggio del 1932: “Les deux sources, invece, sembra che accordino solo un posto limitato alla riflessione e alla volontà personale e riducano la morale a une passiva docilità sia alle regole sociali precostituite, sia alla mozione divina”.

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bon sens supérieur»19. È l’aggettivo “superiore” a mostrare il passaggio a un piano diverso e trascendente rispetto a quello della semplice adesione alla realtà dei fatti. Un ulteriore chiarimento ci giunge dalla minuta di una lettera del 23 dicembre 1936, indirizzata al domenicano padre Martin Stanislas Gillet, dove il filosofo attribuisce al bon sens la funzione di porre rimedio ai danni del progresso, purché mantenga il riferimento alla morale e alla religione20. L’educazione al bon sens deve dunque puntare a tutta la persona, nella sua completezza, ed avvalersi soprattutto degli esempi pratici, ma Bergson ritiene che non sia trascurabile la funzione che vi può svolgere una certa formazione intellettuale, in particolare quella fornita dagli studi classici. Ed è proprio all’importanza degli studi classici e al loro significato che è dedicata la seconda parte del discorso.

19 Les

deux sources de la morale et de la religion, in Oeuvres, cit., p. 1169. Della lettera, scritta dopo aver ricevuto il saggio di Gillet, Appel au bon sens (Spes, Parigi 1936), resta una minuta a matita. In corsivo, le parole cancellate: “Solo, il ritorno al / puro e/semplice buon senso ci salverà dalle complicazioni /dove la civiltà rischia di perire/ per le quali rischiamo di morire. Ma il bon sens come lei lo intende, è altro rispetto a una logica superficiale. /È meglio della logica che s’impara/È una sicurezza di giudizio che esprime la salute dell’anima e di conseguenza la forza /Pur essendo intellettuale, prende in prestito la sua forza e la sua vita dalla morale e dalla religione, di cui è in qualche modo la sintesi/ Là dove vacilla, la morale e la religione lo rimettono in piedi”. Correspondances, cit., pp. 1560-1561. 20

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Capitolo sesto

Il valore formativo della filosofia nella riforma della scuola secondaria

Bergson docente al Collège de France. La discussione sul vocabolario filosofico nella Societé Française de Philosophie (1901). L’inchiesta del 1907 sull’insegnamento della filosofia Nel primo semestre 1897-1898, Bergson tiene al Collège de France due corsi sulla psicologia di Plotino e sulla IV Enneade, in sostituzione di Charles Lévêque, professore di filosofia greca e latina, impossibilitato per motivi di salute1. Divenuta vacante la cattedra di filosofia moderna al Collège de France, Bergson presenta la sua candidatura, sostenuta da Charles Lévêque e da Theodule Ribot. Gli viene preferito Gabriel Tarde, ma due mesi più tardi, nel 1899, con la morte di Lévêque, ottiene la cattedra di filosofia antica. Ascolteranno le sue lezioni Charles Péguy, Charles Blondel, Jean Laporte, Jean Baruzi, Jacques e Raïssa Maritain2. 1 Sempre nel 1898, con il pensionamento di Paul Janet, Bergson presenta nuovamente la sua candidatura alla Sorbona, ma anche in questa occasione, il 28 novembre, gli viene preferito un altro candidato: Gabriel Séailles. Nel frattempo, il 24 febbraio 1898 è nominato “maître de conférences” all’École Normale Supérieure, incarico che lo impegnerà per due anni. 2 Il 1° e il 5 febbraio, il 1° marzo del 1900 appaiono sulla “Revue de Paris” tre articoli sul riso e il significato del comico: “Revue de Paris”, 1° febbraio 1900, pp. 512-544; 15 febbraio, pp. 759-790; 1° marzo, pp. 146-179. In una lettera a Mme M. Raffalovich del 12 gennaio 1987, Bergson scrive: “Ora sto per dedicarmi a un lavoro di estetica, in particolare a uno studio sulla natura del comico e sulle cause per cui si ride”. Correspondances, cit., p. 39. Gli articoli verranno poi raccolti nel saggio Le rire. Essai sur la signification du comique, Alcan, Paris 1900.

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In questo periodo, in Francia al centro dei dibattiti vi è la riforma della scuola secondaria, che si riflette anche sulla questione dell’accesso all’università. Nel 18633, al liceo denominato “classico”, della durata di 7 anni, era stato affiancato un altro insegnamento, senza latino e greco, denominato École spéciale, che non terminava con il baccellierato, ma con un diploma, senza consentire l’accesso all’università. Successivamente4, questo era stato trasformato in un baccellierato, denominato “moderno”, che apriva alla sola facoltà di Scienze. La riforma del 19025 opera un cambiamento radicale: il liceo “classico” e quello “moderno” vengono equiparati quanto a durata e sbocchi universitari. Inoltre, vengono istituite altre tre sezioni: la B, di latino e lingue moderne; la C, di latino e scienze; la D, di lingue e scienze, detta “moderna”. Viene anche riformato l’esame finale, non più costituito da una prova di cultura generale, ma da una serie di prove specializzate, sulla base delle scelte dei candidati, con la soppressione della dissertazione latina e di quella francese, prima comuni alle quattro sezioni. La riforma è oggetto di aspre polemiche che si protrarranno per anni. Molti studiosi eleveranno un corso di proteste in difesa degli studi umanistici, per scongiurare ciò che consideravano la fine dell’antico ideale della cultura generale6. Al centro del dibattito vi è sia il valore degli studi classici, sia il ruolo della filosofia in rapporto al sapere scientifico. Nel dibattito creatosi su tali questioni, una funzione importante sarà quella esercitata dalla Société Française de Philosophie, che si riunirà per la prima volta il 7 febbraio del 1901, fondata sulla scia degli intenti che avevano animato l’anno precedente il primo congresso mondiale di Filosofia, celebrato a Parigi. Con parole di Xavier Léon, che ne 3 Si tratta della riforma voluta da Victor Duruy, ministro dell’Instruction publique dal 1863 al 1869. Le écoles spéciales erano destinate a formare industriali, agricoltori, commercianti : per questo il latino era sostituito da discipline come l’economia, le lingue vive, la contabilità, il disegno industriale. Si potrebbero equiparare ai nostri istituti professionali. 4 Con la riforma del 1881 voluta da Jules Ferry e con quella di Léon Bourgeois del 1891. 5 È la riforma ideata da George Leygues, ministro dell’Éducation Nationale, da novembre 1898 a giugno 1902. Cfr. Mossé-Bastide, op. cit., pp. 153-155. Cfr. H. Gispert, N. Hulin, M.C. Robic (a cura di), Science et enseignement. L’exemple de la grande réforme des programmes du lycée au début du XXe siècle, INRP/Vuibert, Paris 2007. 6 L’università della Sorbona veniva accusata di favorire il declino della cultura classica e della lingua nazionale. Cfr. Agathon (pseudonimo di Henri Massis e Alfred de Tarde), L’esprit de la nouvelle Sorbonne. La crise de la culture classique. La crise du français, Mercure de France, Paris 1911.

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sarà l’amministratore fino al 1931, la Société si propone di favorire un rapporto di scambio e una collaborazione tra intellettuali e filosofi, senza il quale la filosofia avrebbe rischiato di esaurirsi nella dialettica e la scienza sarebbe stata in pericolo di perdere le idee guida indispensabili per il suo arricchimento7. Per raggiungere questi obiettivi, due compiti pertanto sono considerati essenziali nella Societé: la discussione di posizioni e proposizioni filosofiche e la definizione dei termini filosofici. A sostenere quest’ultimo compito è soprattutto André Lalande, convinto che le difficoltà riscontrate durante il Congresso mondiale di filosofia fossero dovute alla mancanza di un vocabolario filosofico condiviso che rendesse più agevole lo scambio intellettuale. L’impresa, tuttavia, sembra destinata a fallire senza neppure essere iniziata, con il rischio di compromettere l’esistenza stessa della società. Il 23 maggio 1901, in una riunione piuttosto vivace, quando Lalande espone e precisa il suo progetto originale, si genera una tempesta di proteste. Halévy ironizza sulla pretesa di fare “il professore di grammatica degli scienziati”8, mentre Brunschvicg, osservando che non ci si può mettere d’accordo sulle parole se non si è d’accordo sulle idee, aggiunge che, prima di ammettere di aver torto, un socialista e un conservatore, non partendo dagli stessi principi, non riuscirebbero a concordare una definizione della parola “proprietà”9. Dal canto suo, Bergson giudica che in metafisica e in morale la fissazione dei concetti sia più difficile, giacché le idee sono ancora fluide e il loro mutamento fa saltare i semplici rapporti esteriori tra termini il cui significato si vorrebbe fissare una volta per tutte. Ne è un esempio la polisemia di tanti termini, uno tra tutti quello di “natura”. “Voler definire, una volta per tutte, il significato possibile di una parola come questa, significa procedere come se il pensiero filosofico fosse fissato, come se filosofare consistesse nello scegliere tra concetti già fatti. Invece filosofare consiste il più delle volte non nell’optare tra concetti, 7 Cfr. X. Léon, Allocution lors de la première séance de la Société française de philosophie, le 7 février 1901, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, vol. 1, 1901, p. 3. Cfr. B. Bourgeois, Jeunesse d’une société (1901-1939), in “Bulletin de la Société française de philosophie”, vol. 95, 2001, p. 9. 8 E. Halévy, Débat du 23 mai 1901, sur le “Vocabulaire et dictionnaire philosophique”, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, vol. 1, 1901, pp. 82-83. 9 Ibidem.

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ma nel crearli”10. Lalande difende il suo progetto sostenendo che è la stessa divisione delle scienze, i cui termini sono stati spesso fissati dalle società scientifiche, a reclamare un organo di comunicazione che spetta ai filosofi elaborare, come un compito irrinunciabile del loro magistero socioeducativo, facilitato dall’esistenza di un fondo linguistico comune. Nella seduta della Société del 18 dicembre 1902, all’ordine del giorno vi è la discussione sul posto e il carattere che la filosofia deve avere nell’insegnamento secondario11. Bergson vi partecipa e i suoi interventi, come appare dal resoconto seguente, da un lato intendono ribadire la centralità della filosofia e difenderla dalla riduzione a semplice metodologia, dall’altro propongono di evitare di insegnarla troppo precocemente, con il rischio di distoglierne gli studenti, anziché appassionarli. Inoltre, egli assegna una fondamentale importanza alla storia della scienza, per una preoccupazione di carattere epistemologico: introducendo la prospettiva storica, è più evidente che la scienza non costituisce un sapere assoluto di cui l’uomo si impossessa di colpo, quanto piuttosto un sapere contingente, suscettibile di progressivi arricchimenti. Il filosofo non considera la storicità della scienza come un’affermazione di provvisorietà e di fallibilismo, ma come un fattore indispensabile di criticità, giacché la consapevolezza dell’evoluzione graduale del sapere, nella quale assumono un’importanza determinante persino gli eventuali errori, il confronto tra le ipotesi, l’influenza delle idee e dei modelli filosofici, è una dimostrazione della costante novità del processo conoscitivo di fronte all’inesauribilità del reale. Si riportano di seguito gli interventi più significativi della seduta. Bergson – Le Roy ha insistito sull’inconveniente che c’è a insegnare le scienze senza farne conoscere la storia. Questa assenza di qualsiasi insegnamento storico non atterrebbe a una certa concezione della scienza stessa? Se si considera la scienza immanente alla natura, preformulata in essa, che aspetta solo l’occasione per rivelare allo scienziato tale o talaltra parte di se stessa, poco importa che sia questo o quello chi 10 Cfr. Discussion a la société française de philosophie, 23 maggio 1901, in “Bulletin de la Société française de philosophie”, vol.1, 1901, pp. 98-103. Cfr. Mélanges, p. 503. 11 La place et le caractère de la philosophie dans l’enseignement secondaire, in Mélanges, cit., pp. 568-571; “Bulletin de la Société Française de Philosophie”, 2 febbraio 1903, pp. 44-46.

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ottiene la rivelazione e poco importa l’ordine nel quale saranno fatte le scoperte successive: la nostra scienza, si dirà, è sempre stata la stessa chiunque siano stati gli scienziati, così come un’illuminazione i cui cavi disegnino in anticipo le linee di un monumento, sarà sempre la stessa illuminazione, qualunque sia l’ordine in cui si saranno accesi i lampioni. Resta da sapere, è vero, se questa concezione della scienza sia esatta e se non sia il caso, invece, di attribuire una certa importanza all’ordine (spesso contingente) in cui i problemi vengono posti. In questo caso, la nostra scienza sarebbe, almeno in parte, contingente, e la storia della scienza farebbe parte della scienza stessa. Le Roy – Non c’è affatto bisogno di ammettere questa concezione della scienza per introdurre nell’insegnamento la storia delle scienze. Galileo e Newton definiscono la massa in modo differente perché non considerano gli stessi fenomeni. E, senza neppure dover supporre che i principi della meccanica siano contingenti, bisogna sottolineare la necessità della storia, per mostrare come si può, in questo o quel caso, definire in questo o quel modo la massa, in rapporto a questo o quel fenomeno. Tannery – I matematici sono completamente ignoranti della storia delle matematiche. Non conoscono la concezione della scienza di Bergson e per loro fare storia delle scienze è una perdita di tempo. Belot – Riconosco volentieri una parte importante di verità in quanto hanno appena indicato Bergson e Le Roy, a proposito dell’utilità della storia delle scienze. Non credo tuttavia che sia necessario sovraccaricare ulteriormente l’insegnamento, con uno studio storico in più. C’è già abbastanza storia di tutti i generi. La sola cosa essenziale da ricavare dalla storia delle scienze è far comprendere la posizione dei problemi, e, la maggior parte delle volte, questo risultato può essere direttamente ottenuto con l’esame critico diretto dei concetti scientifici e delle teorie. La storia della genesi di questi concetti e di queste teorie può essere considerata solamente come un procedimento ausiliare di questa critica. C’è un problema pedagogico che oltrepassa la questione di sapere quale valore si attribuirà a questa o quella teoria della scienza. Si tratta di evitare all’insegnamento e al sapere stesso di cadere nel formalismo. Le Roy criticava questo formalismo da parte dei matematici. Ma non riteniamo forse che l’assenza di cultura filosofica farebbe correre un pericolo analogo ai giuristi e ai medici che vogliono essere dispensati dal passare per la filosofia? Il diritto non rischia di cadere in una sorta di scolasticismo e di essere ben asservito alle formule e alle tradizioni,

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se tende a ridursi ad una sorta di tecnica speciale, se si isola dalla psicologia, dalla morale, dalla sociologia? E si potrebbe dire più o meno dire altrettanto per la medicina. Bergson – Sarebbe il caso, adesso, di ritornare su di un altro punto dell’esposizione di Belot. Non voglio insistere sul pericolo che sembra minacciare in questo momento la filosofia. Per legge, il corso di filosofia dovrebbe includere più allievi rispetto al passato, giacché le spiegazioni greche e latine vi sono divenute facoltative, e questo corso si trova così aperto agli allievi provenienti da qualsiasi sezione. Di fatto, c’è da temere che solo gli allievi che escono dalla sezione A (greco-latino) entrino a filosofia. Vada come vada, dobbiamo fin da ora preoccuparci dei mezzi per attirare in questo corso il maggior numero possibile di allievi provenienti dalle diverse sezioni. Bisognerebbe far loro presentire, nel corso degli studi, l’interesse che la filosofia presenta. Converrebbe, per questo motivo, insegnar loro già la filosofia? Belot ha mostrato che questa soluzione presenterebbe degli inconvenienti e io sono pienamente d’accordo. Mi permetterei anche di aggiungere una ragione a tutte quelle che egli ha dato. Si rischia, insegnando troppo presto la filosofia, di distoglierne gli allievi piuttosto che di attirarveli. Uno dei motivi del grande successo che la filosofia ottiene presso i giovani è che viene presentata tutta in una volta, in blocco, nell’ultimo anno di studi, quando sono sufficientemente grandi per comprenderne la portata e per interessarvisi attivamente. Essa non è stata usurata da studi precedenti, condotti prematuramente e passivamente. Ha questo grandissimo vantaggio sulle altre materie di insegnamento; bisogna che lo conservi. Nondimeno, senza insegnare la filosofia ai ragazzi, non bisognerebbe condurli a porsi da soli, fosse pure in una forma molto vaga, qualcuno dei problemi di cui la filosofia cerca la soluzione? Questi problemi sorgono del tutto naturalmente in biologia, in fisica, anche nelle matematiche. Per prendere l’esempio più semplice, non si potrebbe insegnare la storia naturale in modo da attirare l’attenzione su ciò che la vita ha di misterioso? Ho osservato che i ragazzi studiano i primi elementi dell’anatomia e della fisiologia, senza essere colpiti né stupiti in alcun modo da ciò che vi è di straordinariamente complesso e pertanto di così semplice, nella struttura di un essere vivente. La cultura dello stupore sarebbe il modo migliore di risvegliare progressivamente il desiderio e il bisogno di una istruzione filosofica […].

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La discussione si interrompe per passare alla messa ai voti delle seguenti proposizioni: 1. Che la lezione di filosofia, mantenuta alla fine degli studi di cui è il coronamento indispensabile, sia comune a tutte le sezioni dell’insegnamento secondario; 2. Che l’insegnamento secondario sia animato nel suo insieme dallo spirito filosofico, almeno da considerazioni metodologiche e storiche; e per questo che, nella preparazione dei professori dell’insegnamento secondario, una parte sia dedicata all’insegnamento della filosofia e della storia delle scienze; 3. Che l’insegnamento della stessa filosofia sia accostato per quanto possibile alle conoscenze positive che ne sono la materia. Belot trova il termine metodologico troppo specialistico e limitato: propone di sostituirvi il termine critico. Bergson dichiara di non potersi associare ai consideranda con i quali Couturat ha fatto precedere il suo voto. Non può ammettere che la filosofia sia ridotta a metodologia. La filosofia è sempre stata, prima di tutto, lo studio della realtà concreta, sulla quale le diverse scienze sono altrettanti punti di vista astratti. Fare la teoria di questi punti di vista è uno dei compiti importanti della filosofia, ma non è l’unico. La psicologia, che ci mette in contatto diretto con una realtà, la metafisica, che cerca di generalizzare questo contatto (e che, del resto, vi può riuscire soltanto con un approfondimento dei fatti collezionati dalla scienza positiva), sono state e devono rimanere le scienze filosofiche per eccellenza. D’altra parte, si avrebbe torto a credere che la filosofia così concepita interessi meno gli allievi. Al contrario, la psicologia e la metafisica (purché abbiano una precisione e una positività sufficienti) sono la parte più viva di un corso di filosofia. Infine, la psicologia, in quanto scienza di introspezione, continua e completa naturalmente gli studi letterari. E non bisogna credere che questa psicologia introspettiva abbia cessato di essere qualcosa di scientifico. Mai gli psicologi l’hanno praticata con maggiore acume di oggi. La psicologia patologica stessa, che ha dato risultati così brillanti, li deve, in un certo senso, all’introspezione. Essa raccoglie o provoca le auto-osservazioni dei malati. Utilizza dunque, prima di tutto, l’osservazione attraverso la coscienza, sebbene attraverso la coscienza altrui12. 12 Da questo punto in poi, il testo di Mélanges (p. 571) si interrompe. Prosegue il testo del dibattito tratto dal “Bulletin de la Societé Française de Philosophie”, 2 febbraio 1903, pp. 51-55.

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Belot si associa alle riserve presentate da Bergson a favore della Psicologia e della Metafisica. Senza accettare così com’è la concezione che Bergson ha della Metafisica, anch’egli crede che possa essere insegnata in modo molto vivo e senza mai perdere il contatto con la realtà concreta ed ha potuto constatare che, insegnata così, è di estremo interesse per gli allievi e li fa riflettere. Couturat – Ho solo una cosa in risposta a Bergson: ciò che critica sono i motivi personali per i quali si giustificano, a mio avviso, i tre voti proposti, in particolare il terzo. Ma gli farei notare che non ne resta traccia nella formulazione di questi voti: non vi si trova neppure una parola che implichi una concezione personale della filosofia; inoltre non si fa allusione ad alcune riforma del programma. A queste condizioni credo che il testo proposto possa raccogliere tutti i voti favorevoli. Hadamard – Temo che Bergson non si faccia illusioni sull’efficacia e il prestigio dell’insegnamento filosofico tradizionale. Se mi è permesso citare la mia esperienza personale, confesserò che, nel corso di filosofia, la psicologia e la metafisica sono state per me una grande delusione e un motivo di scandalo. Sicché, approvo interamente la proposizione di Couturat, che mi sembra di grande buon senso. Bazaillas dichiara che, contrariamente a quanto pensa Hadamard, la psicologia è quella che più interessa gli allievi e nella logica ciò che è psicologico. Lachelier – Proporrei la divisione del primo voto, che comprende due punti distinti: 1. mantenere il corso di filosofia come un corso distinto; 2 l’estensione dell’insegnamento filosofico a tutte le sezioni dell’insegnamento secondario. Voterei per mantenere il corso di filosofia come corso distinto, alla fine degli studi secondari. Lalande – Sì, è qui il punto essenziale. Belot – È in questo senso che noi abbiamo creduto di dover dirigere la nostra azione al Consiglio superiore, ottenendo che, all’uscire da tutte le sezioni del livello di primaria, la filosofia fosse, se non obbligatoria, cosa che sarebbe stato ben difficile sperare attualmente, almeno accessibile a tutti gli allievi. Lachelier – Bergson ha definito la filosofia: lo studio della realtà concreta. Io direi più volentieri, e in un senso forse un po’ diverso, che è lo studio del soggetto. Ma sono d’accordo con lui nel pensare che la filosofia – composta, per me come per lui, dalla psicologia e dalla metafisica – è una scienza profondamente diversa da tutte le altre –

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aggiungerei persino opposta a tutte le altre – come il soggetto, che essa studia si oppone all’oggetto, che studiano tutte le altre scienze senza eccezione. Ritengo, pertanto, di dover fare alcune riserve sulla solidarietà che molti tra noi si sforzano di stabilire tra la filosofia e le scienze propriamente dette. X. Léon fa osservare che l’accostamento della filosofia alle scienze e la concezione di filosofia che implica sono state le idee direttrici della Revue de Métaphysique et de Morale, del Congrès de philosophie e sono previste testualmente negli statuti della Societé de philosophie. Evellin è colpito dalla necessità di coordinare i nostri pareri perché i nostri giovani portino con sé un bagaglio. Senza questo coordinamento manchiamo allo scopo principale dell’insegnamento che è offrire questo viatico. Couturat – Prego Lachelier di notare che siamo tutti d’accordo con lui sulla concezione della filosofia. Belot la ha definita: la scienza dell’uomo in quanto pensante e agente, dunque in quanto soggetto della storia e delle scienze. Lachelier la definisce: la scienza del soggetto. Io direi, modificando leggermente la sua formula, che è la scienza dello spirito: è la riflessione dello spirito su sé stesso, sulle sue operazioni e sui suoi “prodotti” (secondo l’espressione stessa di Belot). È in questo senso che essa comprende la critica delle scienze e di conseguenza ne presuppone la conoscenza. È per questo stesso motivo che essa esclude la psicologia, che è la scienza dell’uomo in quanto oggetto, dell’uomo animale, del sistema nervoso, che rientra così nell’antropologia. Ma, beninteso, essa comprende essenzialmente la teoria della conoscenza, vale a dire tutto ciò che oggi si insegna sotto il titolo ingannevole di psicologia dell’intelligenza. Brunschwicg propone, per evitare tutte le difficoltà amministrative, di modificare così la formula del voto: La Societé auspica che il corso di filosofia sia la conclusione necessaria dell’insegnamento, sia scientifico che letterario. Le Roy insiste sulla necessità preliminare di una riforma dell’insegnamento delle matematiche e di una cultura filosofica per i futuri professori di scienze. Brunschwicg – Si parla di condizioni pedagogiche da imporre ai futuri professori. È tra queste condizioni che converrebbe inserire la preparazione filosofica e storica che chiediamo. Belot, rispondendo alla preoccupazione di Le Roy, ritiene che l’università dovrebbe senz’altro avere il sopravvento sui programmi delle Écoles

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speciales. Ma per ciò che attiene al presente e per dare sanzione a questa seduta, chiede che si passi al voto dell’auspicio proposto da Couturat. A proposito dell’articolo terzo, Bergson chiede che sia formulato in modo da non implicare una critica dell’insegnamento filosofico attualmente impartito nei licei, insegnamento che i professori cercano di rendere scientifico nella misura del possibile. Couturat – Ho forse bisogno di dire che l’auspicio non implica nel mio pensiero biasimo alcuno nei confronti dei professori di filosofia? So troppo bene che fanno del loro meglio per acquisire delle conoscenze scientifiche con le quali alimentare il loro insegnamento. Ma so anche a prezzo di quali pene vi giungono. Rendo omaggio ai loro sforzi molto meritori; ma credo che resti ancora molto da fare, perché questi studi straordinari che impongono a sé stessi non siano più l’eccezione, ma la regola. Si dice: liberi di acquisire individualmente, seguendo le loro facoltà e i loro gusti, le conoscenze positive di cui sentono il bisogno. Ma per questo occorrerebbe del tempo libero, che i programmi della licenza e dell’agrégation non permettono affatto. Dove e come gli studenti in filosofia e gli allievi dell’École Normale troveranno il tempo e anche la possibilità di seguire dei corsi scientifici? È necessario che ciò che finora è stato un lusso (pagato caro) per alcuni divenga possibile, se non obbligatorio, per tutti. Ciò richiede una riforma radicale di tutti i nostri programmi, orientati finora verso una preparazione esclusivamente letteraria e scolastica. Aggiungo ancora a questo punto: i nostri colleghi dell’insegnamento secondario potrebbero, interpretando male il nostro auspicio, credere che noi vogliamo appropriarci o assorbire i loro insegnamenti diversi. È bene che vedano che, quando domandiamo loro di rendere l’insegnamento più filosofico, desideriamo così avvicinare il nostro insegnamento al loro: e che in questo avvicinamento, imposto dall’interesse superiore dell’insegnamento, dalla sua unità ed efficacia, noi facciamo la metà della strada. Non si tratta semplicemente, mi preme di aggiungere, di una ragione di cortesia o di diplomazia, ma di una ragione teorica: non possiamo che guadagnare, da un lato come dall’altro, da questo avvicinamento. Rauh chiede di abbandonare la discussione sull’articolo per ritornare al primo, sul quale tutti sono d’accordo. E l’articolo primo, messo ai voti, è adottato. Lalande fa osservare che è un ideale totalmente platonico. Rauh risponde di sapere bene che è un ideale e di non farsi illusione sulla sua realizzazione: ma è necessario affermare l’ideale, pur sapendolo

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inaccessibile; ci sono forse misure transitorie che sarebbero un avvio verso questo ideale, ad esempio l’aumento delle ore del corso di filosofia nelle sezioni C e D, l’elevazione del limite di età all’ingresso delle écoles du gouvernement13, ecc. Lalande propone di riprendere come considerando e come asserzione di fatto l’articolo terzo, che ha alcuni inconvenienti in quanto auspicio. Questa proposizione è adottata e l’ufficio è incaricato della redazione definitiva del voto14.

Un nuovo intervento di Bergson sulla stessa questione avrà luogo nella seduta della Societé del 28 novembre 1907. Oggetto della discussione sono i risultati dell’inchiesta sull’evoluzione dell’insegnamento della filosofia, promossa da Alfred Binet, allora direttore del Laboratorio di Psicologia della Sorbona. Gli esiti dell’indagine, svolta attraverso un questionario proposto che otterrà un centinaio di risposte da parte di professori di liceo, saranno pubblicati integralmente l’anno successivo15. È lo stesso Binet a chiarire quali erano i due obiettivi iniziali dell’inchiesta: “Ho voluto molto semplicemente sapere quale ripercussione hanno avuto nell’insegnamento del liceo le ricerche originali che alcuni di noi svolgono in psicologia. Inoltre, avendo avuto casualmente tra le mani alcuni manuali di filosofia, mi sono chiesto se quei libri erano una rappresentazione esatta dell’insegnamento filosofico attuale”16. A questi si erano poi aggiunti altri punti, dietro suggerimento di colleghi: “gli effetti del piano di studi del 1902; le tendenze filosofiche dei professori; uno sguardo psicologico sul giovane allievo di filosofia; le conseguenze delle ultime riforme; l’indicazione delle questioni filosofiche che interessano di più insegnanti e allievi; la natura e la profondità dell’influenza che un professore di filosofia esercita sui suoi allievi, ecc. Erano i temi previsti; occorre aggiungere alcune questioni speciali che si sono poste da sole nel corso dell’inchiesta: come il valore intellettuale e morale delle nuove generazioni di allievi a confronto con le vecchie – e anche la preparazione scientifica degli insegnanti”17. 13 14

Potremmo definirle “scuole della pubblica amministrazione”. “Bulletin de la Societé Française de Philosophie”, cit., pp. 51-55.

15 A. Binet, Une enquête sur l’évolution de l’enseignement de la philosophie, in “L’Année

Psychologique”, XIV, Masson et Cie Editeurs., Paris 1908, pp. 152-231. 16 L’Année, p. 153. 17 Ibidem, p. 153.

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Nella seduta del 28 novembre 190718 verranno discussi soltanto gli esiti delle prime tre domande rivolte ai professori e cioè: 1. Può indicare la principale differenza che riscontra tra l’insegnamento della filosofia come si impartiva dieci o quindici anni fa e l’insegnamento attuale? 2. Orienta il suo insegnamento basandosi su un sistema filosofico conosciuto? A quale vanno le sue preferenze? A quale andrebbero le preferenze degli allievi? 3. In che misura le ricerche scientifiche, le idee morali del tempo presente esercitano una influenza sul suo insegnamento?19 La seduta ha in ogni caso al centro dell’attenzione anche le ripercussioni delle recenti riforme dell’istruzione secondaria, che avevano reso opzionale il corso di filosofia rispetto alle scienze e alle matematiche. La discussione prende l’avvio dalle risposte raccolte dagli insegnanti al primo quesito posto all’ordine del giorno. Per quanto riguarda le differenze tra l’insegnamento della filosofia del passato e quello attuale, Binet riassume le posizioni emerse: i professori sperimenatno una maggiore libertà, considerano i metodi d’insegnamento meno dogmatici, in quanto è venuta meno la fiducia nei sistemi filosofici generali, la filosofia è diventata meno scientifica e più orientata allo scopo educativo di preparazione alla vita; infine, la parte della metafisica è meno consistente. Binet inizia la discussione proprio da quest’ultimo punto, avanzando delle riserve nei confronti del discredito della metafisica che, a giudicare dalle opinioni espresse, sembrerebbe dogmatica e opposta allo spirito scientifico. L’interrogativo che propone ai partecipanti alla seduta è dunque il seguente: Non sarebbe piuttosto più giusto supporre che esistono varie specie di metafisica, alcune antiche e obsolete, altre più interessanti e più moderne? Confesso di preferire questa distinzione a una condanna semplicistica e brutale di tutta la metafisica. Ma la distinzione è giusta? E quali sono precisamente i caratteri sui quali la si può fondare? Mi permetto di 18 Presenti alla seduta: Bazaillas, Beaulavon, Belot, Bergson, Bernès, .Berthelot, Binet, Borel, Brunschivcg, Cantecor, Challaye, Colonna D’Istria, Darlu, Dauriac, Delbos, Drouin, Dunan, Dwelshauvers, Fauconnet, Hadamard, Laberthonnière, J. Lachelier, H. Lachelier, Lalande, Léon, Pacaut, Parodi, Pécaut, Ogereau, Rauh, Sorel, Tannery. Il resoconto della seduta è riportato in “Bulletin de la Societé française de philosophie”, t. VIII, gennaio 1908, pp. 1-30. In Mélanges, cit., pp. 746-748, sono riportati solo i due interventi di Bergson nel dibattito. 19 Cfr. “L’Année Psychologique”, cit., pp. 157, 167, 174.

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rivolgervi un’ultima domanda. Quali sono le cause profonde, a vostro avviso, di questo movimento che coinvolge gli spiriti? I nuovi programmi ne hanno decisamente una parte? O invece i programmi ne sono un effetto anziché una causa?20.

Belot esprime il suo disaccordo sulla tesi che nei nuovi programmi sia presente un’ostilità nei confronti della metafisica. A suo parere, non vi si può ravvisare un reale rinnovamento, visto che anzi essi risultano molto conservatori dal punto di vista della forma e non molto differenti da quelli ad essi precedenti. Dello stesso parere è anche Brunschivcg: se di cambiamento si può parlare, allora questo va fatto risalire indietro di almeno un ventennio. Cantecor e Dauriac rispondono di non avere gli elementi per commentare ciò che fanno i colleghi, giacché ciascuno tende e interpretare l’insegnamento sulla base delle preferenze e della preparazione personale. Dauriac ritiene che bisognerebbe soprattutto tener conto dell’esperienza di quei docenti che presiedono agli esami finali, spostando la discussione sulla questione della qualità delle dissertazioni e sull’importanza che rivestono i manuali utilizzati nei corsi. È su questo punto che interviene Bergson: È molto difficile giudicare l’insegnamento dei professori sulla base degli elaborati del baccellierato. Quando ero professore al liceo Henri-IV, ho avuto l’onore di far parte delle commissioni di baccellierato. Ho constatato il fatto seguente: alcuni dei miei migliori allievi, il giorno dell’esame, mi consegnavano una dissertazione in cui non ritrovavo più nulla del mio corso: era la riproduzione più o meno fedele di un manuale di baccellierato. L’allievo era convinto che se non consegnava una dissertazione da manuale, una dissertazione già fatta, correva il rischio di un insuccesso e preferiva ottenere un voto mediocre piuttosto che esporre le sue idee o quelle del suo professore21.

Belot dichiara di aver avuto la stessa esperienza di Bergson agli inizi della sua carriera, circa venticinque anni addietro. Gli allievi erano convinti che esistesse una dottrina ufficiale, che andava presentata nelle 20

Cfr. “Bulletin de la Societé française de philosophie”, t. VIII, gennaio 1908, p. 8. Discussion à la Societé Française de Philosophie, 28 novembre 1907, in Mélanges, cit., pp. 746-748. Cfr. “Bulletin de la Societé française de philosophie”, cit., p. 12. 21

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dissertazioni finali per ottenere la promozione. Ma più tardi, al timore da parte degli allievi di non essere abbastanza ortodossi e di formulare dottrine considerate pericolose, si è sostituito un altro timore: quello di non riuscire a esprimersi correttamente e di non trasmettere con chiarezza idee che forse non hanno neppure compreso adeguatamente. Così, la fedeltà a una pretesa dottrina ufficiale è stata a poco a poco sostituita dalla fedeltà al manuale, considerato più affidabile. Tuttavia, la conclusione di Belot esprime un disaccordo con Bergson: Ma sono convinto che la fiducia degli allievi nei loro professori oggi sia in aumento, proprio perché non c’è più una dottrina ufficiale e non si possono presupporre in chi corregge delle idee preconcette, con i commissari d’esame così vari, soprattutto a Parigi. Se il professore ha idee chiare, gli allievi non hanno dunque più alcun motivo di diffidare di lui. Da parte mia, ho dovuto per molto tempo lottare contro il manuale, perché il mio insegnamento sembrava troppo distante dalle forme vane e classiche e lasciava i miei allievi inquieti. A Tours, vent’anni fa, ho visto i miei allievi disertare moralmente la mia lezione, alcuni mesi prima dell’esame, per tuffarsi nello studio dei manuali. Nel giro di due anni, la fiducia è tornata assieme al successo. Non ho più trovato simili difficoltà a Parigi. Bergson – In effetti, la mia esperienza risale a quindici anni fa22.

A proposito del secondo quesito –“Orienta il suo insegnamento basandosi su di un sistema filosofico conosciuto? A quale vanno le sue preferenze? A quale andrebbero le preferenze degli allievi ?” – il nome di Bergson è il più citato nelle risposte dei docenti23. Mentre per alcuni le idee del filosofo risultano le più presenti e maggiormente conosciute, altri dichiarano di adottarle senza riserve, facendone il nucleo del loro insegnamento, altri ancora evidenziano il fascino che un pensiero così ricco esercita sui migliori allievi. Non manca, tuttavia, chi esprime una serie di perplessità proprio a motivo dell’attrattiva stessa della filosofia bergsoniana sulle giovani menti, che provoca però in esse uno strano stato di indecisione.

22 23

“Bulletin de la Societé française de philosophie”, cit., pp. 13-14. “L’Année Psychologique”, cit., pp. 169-170.

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Un certo numero di giovani è conquistato dal fascino dello stile e dall’ingegnosità del pensiero, al punto di diventarne ferventi discepoli. Essi hanno generalmente un certo disprezzo per la scienza positiva. Per loro, come per il loro Maestro, la filosofia inizia là dove si arresta la scienza. La scienza ha un dominio molto limitato, si limita a ottenere dal dato ciò che è geometricamente e meccanicamente rappresentabile, sostituisce al reale una costruzione astratta e fittizia, che ha un grande interesse pratico, ma che non è, a nessun titolo, la conoscenza del reale. Essi se ne disinteressano. Va bene per gli industriali, i medici e gli ingegneri, ma è indifferente ai filosofi. Il mondo della coscienza sfugge totalmente alla scienza. I fatti psicologici devono essere vissuti, ma non possono essere scientificamente conosciuti […]. È inutile far loro notare l’immensa erudizione scientifica di Bergson. La scienza per loro ha valore solo se viene oltrepassata e sono troppo impazienti di oltrepassarla per fermarvisi. Se si cerca di renderli attenti a qualche ricerca psicologica, dicono con aria distaccata: «Forse…sì, certamente”. Tutto ciò che è scientificamente accertato si colloca per ciò stesso in quella regione dell’intellegibile che è l’opposto del reale. Ho incontrato diversi giovani molto intelligenti che si trovavano in questa situazione paradossale e che lavoravano e riflettevano molto senza giungere a nessun risultato24.

Altri docenti dichiarano il fallimento del tentativo di introdurre alcune idee della filosofia bergsoniana nell’insegnamento, affermando che gli allievi non sono sufficientemente preparati per comprenderne la sottigliezza e totalmente incapaci, nel corso del primo anno, di farne seriamente la critica che sarebbe richiesta. D’altra parte, i più dotati, pur riuscendo a comprendere in parte il pensiero bergsoniano, si limitavano ad inserire acriticamente negli elaborati alcune formule imprecise, dispensandosi da un serio sforzo di pensiero: ne risultava una falsa aria di profondità, segno di una certa insincerità filosofica. La difficoltà, però, non è soltanto degli allievi, ma anche degli insegnanti. “Ho notato – osserva uno di loro – che non riuscivo ad esporre questa dottrina in modo semplice e facile. Quando riflettevo su ciò che avevo detto ai miei allievi, constatavo, con sorpresa, che la mia esposizione si riduceva a una serie di truismi che sembravano infantili e irrilevanti”25. 24 25

Ivi, pp. 169-171; “Bulletin de la Societé française de philosophie”, cit., pp. 13 e ss. “L’Année Psychologique”, cit., p. 171.

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Nella seduta, Binet sollecita Bergson a formulare una risposta rispetto a queste difficoltà sollevate dagli insegnanti: La mia seconda domanda si rivolge soprattutto al nostro sapiente collega Bergson, che abbiamo la fortuna di contare oggi tra noi. Egli ha visto quale influenza la sua filosofia esercita sull’insegnamento secondario. Ha anche visto i dubbi, le esitazioni di alcuni maestri, che ammettono molto francamente di non essere ancora arrivati a trovare la formula per adattare le sue idee allo stato dell’intelligenza dei loro allievi. Ci sembra bene che Bergson debba essere interessato dall’informazione così curiosa e sincera che i nostri corrispondenti gli forniscono. Saremmo felici di conoscere innanzitutto, se non è indiscreto, la sua impressione della seduta. Auspichiamo inoltre che dopo aver riflettuto possa trovare le indicazioni e i consigli che appianino le difficoltà che talvolta incontra la diffusione delle sue idee26.

La risposta del filosofo è piuttosto decisa, quasi irritata: Confesso di non comprendere alcune osservazioni di cui Binet ci ha appena dato lettura. Mi sembra che Binet desideri che io mi spieghi sulle questioni che vengono sollevate. Ma è da lui o dai suoi corrispondenti che reclamo questa spiegazione. Nelle teorie che essi mi attribuiscono non riconosco nulla di me, nulla che io abbia mai pensato, insegnato, scritto. Si parla di una condanna della scienza, di non so quale subordinazione della scienza alla metafisica. Dove, quando, sotto quale forma, ho mai detto qualcosa di tutto ciò? Che mi venga mostrata, in ciò che ho scritto, una frase, una parola che si possa interpretare in questo modo! Lasciamo da parte le considerazioni generali. Parliamo, se volete, delle scienze e non della scienza. Vi sono scienze matematiche, scienze fisiche, scienze biologiche, ecc. Cosa ho detto delle matematiche? Che, per grande che sia la parte dell’immaginazione creatrice, esse non perdono mai di vista lo spazio e la materia, che la materia e lo spazio sono d’altronde delle realtà, che la materia è «carica di geometria», che le matematiche, di conseguenza, non sono affatto un gioco, ma un’autentica presa di contatto con l’assoluto. D’altra parte, attribuisco lo stesso valore assoluto alle scienze fisiche. Infatti, esse enunciano delle leggi la 26

“Bulletin de la Societé française de philosophie”, cit., p. 20.

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cui forma avrebbe potuto essere differente se si fossero scelte altre variabili, altre unità di misura e soprattutto se i problemi fossero stati posti, cronologicamente, in un ordine differente. Ma tutto ciò dipende dal fatto che siamo obbligati a frammentare la natura e a esaminare uno ad uno i problemi che essa ci pone. Di diritto, la fisica punta all’assoluto e si avvicina sempre più, nella misura in cui avanza, a questo limite ideale. Vorrei sapere se esiste, tra le concezioni moderne della scienza, una teoria che pone più in alto la scienza positiva. La maggior parte ci presenta l’intera scienza come relativa all’intelligenza umana. Ritengo, invece, che è la realtà in sé, la realtà assoluta, che le scienze matematiche e fisiche tendono a rivelarci. La scienza comincia a diventare relativa, o piuttosto simbolica, solo quando affronta dal lato psico-chimico i problemi della vita e della coscienza. Ma, anche qui, conserva tutta la sua legittimità. Ha soltanto bisogno di essere completata da uno studio di altro genere, che è la metafisica. Insomma, tutte le mie ricerche non hanno altro oggetto che quello di portare a un avvicinamento tra la metafisica e la scienza e di consolidare l’una con l’altra senza sacrificare nessuna delle due, dopo averle d’altronde nettamente distinte l’una dall’altra27.

E a proposito di chi aveva dichiarato di non riuscire a insegnare con frutto le tesi di Bergson, il filosofo indirizzerà una successiva lettera a Binet, datata 30 marzo 1908: Mio caro collega, non vedo assolutamente alcun modo di risolvere la questione che lei solleva a proposito della lettera del suo corrispondente; ma mi domando se la questione si ponga realmente in questi termini e se sia necessario cercare, per gli allievi, una modalità espositiva diversa da quella che ho adottato nei mie vari lavori. Come le scrivevo tempo fa, non ho mai trovato che i miei allievi avessero la minima difficoltà ad entrare nelle mie idee. Non li ho mai visti prendere lo strano atteggiamento che descrive il vostro corrispondente. Non posso spiegarmi l’insuccesso del suo tentativo che in un solo modo: egli avrà dimenticato che lo sforzo positivo di osservazione e di riflessione che richiedo implica il previo rifiuto di un certo numero di idee preconcette e che queste idee, molto naturali al nostro spirito, devono dapprima essere esposte nella forma più precisa che hanno assunto nella storia della 27

Ivi, pp. 21-22; “L’Année Psychologique”, cit., pp. 229-230; Mélanges, pp. 746-747.

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filosofia. Pertanto, dubito che si possa arrivare alla coscienza chiara della libertà, così come la intendo o piuttosto come la intravedo, se non si è fatto seriamente lo sforzo per respingere l’illusione determinista, che è innata nella nostra facoltà di ragionare. Come rendersi conto di questa illusione, se non la si è prima isolata? E come isolarla, se non approfondendone le diverse forme del determinismo, così come ce le presenta la storia della filosofia? Non cito che questo esempio, ma non credo che una sola delle mie tesi possa essere esposta senza una preparazione di questo genere. Mancando questa preparazione, si invita l’allievo a un determinato lavoro sui generis senza fornirgli i mezzi per venirne a capo: necessariamente l’allievo si atterrà a delle formule superficiali e vuote, che lo dispenseranno da questo lavoro. Ma, ancora una volta, non vi è qui un metodo di esposizione speciale e nuovo: è lo stesso che ho usato nei miei differenti libri. In un libro solamente ci si limita a citare le dottrine; non le si sviluppa, perché ci si rivolge a lettori già istruiti sui sistemi filosofici. Ovviamente, in una classe, non si può procedere per semplice allusione a delle dottrine che l’allievo non conosce ancora: occorre cominciare con lo svilupparle. O mi sbaglio di grosso, o il suo corrispondente avrà trascurato questo punto28.

28

“L’Année Psychologique”, cit., pp. 230-231; Mélanges, p. 762.

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Capitolo settimo

Saperi umanistici e saperi scientifici

Cos’è un classico. Gli studi classici: la precisione contro il pressappoco. Linguaggio e pensiero. Le virtù intellettuali nell’esercizio di traduzione. Rigore e passione Il rapporto tra studi umanistici e scientifici è sempre stato al centro della riflessione di Bergson, costantemente alla ricerca di un dialogo tra le due modalità di saperi, ma anche convinto della funzione direttiva dei primi rispetto ai secondi. Nel discorso già citato, tenuto all’indomani dell’elezione a Presidente dell’Académie des Sciences Morales et Politiques, il 10 gennaio 1914, mettendo in luce quanto sia importante la collaborazione tra le discipline umanistiche, ne sottolinea la funzione imprescindibile rispetto alle scienze: Gli studi che si conducono nelle nostre differenti sezioni presentano, senza dubbio, una ben grande diversità; ma sono diversi proprio perché sono complementari. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Storici, economisti, giuristi, moralisti, filosofi, tutti lavoriamo allo stesso compito, allo studio dell’uomo, nella vita individuale e nella vita sociale. Per questo ci comprendiamo così bene tra noi; per questo, inoltre, ci sentiamo tanto più vicini a incontrarci quanto più andiamo a fondo delle nostre scienze particolari. Mentre, nelle scienze della materia, l’intelligenza è esterna al suo oggetto, obbligata a prendere su di sé, dal di fuori, dei punti di vista separati da intervalli più o meno considerevoli, al contrario, quando si tratta dell’uomo morale, o anche sociale, la coscienza ci colloca immediatamente al centro, che è nei due casi l’anima umana. Le diverse scienze morali partono da questo centro, come

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altrettante strade. L’unità è dunque qui una realtà data in partenza e non, come nelle scienze della materia, un ideale posto in un futuro indefinitamente lontano, come punto di arrivo1.

La nozione di precisione è un punto chiave per comprendere la finalità che Bergson assegna agli studi classici. È interessante osservare, comunque, come si vedrà in dettaglio più avanti, che il filosofo, soprattutto nel suo periodo più maturo, la riconosce come un contributo dato dalla grecità, non tanto da parte del pensiero filosofico, quanto da quello matematico. Così scrive nel 1913 alla contessa Murat, in risposta al suo apprezzamento per la conferenza tenuta il 28 maggio 1913, presso la Society for Psychical Research: “Vedo nella precisione una qualità acquisita, che è d’altronde propria alla civiltà occidentale. Gli orientali non vi sono mai giunti (perlomeno da soli): ancora oggi il loro pensiero non fa distinzione tra ciò che è semplicemente plausibile e ciò che è certo. La precisione ha pertanto una data nella storia; sono i Greci che l’hanno inventata, in particolare grazie alla creazione delle matematiche”2. Ancora su questo tema e, in particolare, sulla nozione di classico è significativa la risposta all’amico Jacques Chevalier, nella lettera del 19 novembre del 19343. Per rispondere al suo quesito, vedo tra il classico e il non-classico una differenza che concerne soprattutto l’arte. L’essenza della classicità è la precisione. Gli scrittori che sono divenuti classici sono coloro che hanno detto quel che volevano dire, niente di meno, ma soprattutto niente di più. Nella conversazione non succede quasi mai che si dica quel che si voleva dire. Non c’è adeguamento tra il fondo e la forma, tra la concezione e la realizzazione. Proprio per questo motivo, l’opera [che si presenta retrospettivamente]4 diviene classica con un’aria di fatalità: 1 Discours à l’Académie des Sciences Morales et Politiques, 10 gennaio 1914, in Mélanges, cit., pp. 1035-1036. 2 Lettre à Comtesse Murat, 9 ottobre 1913, in Correspondances, cit., p. 535. 3 Chevalier il 3 dicembre avrebbe tenuto una conferenza al “Centre universitaire méditerranée” di Nizza sul pensiero di Bergson, come erede e rinnovatore della tradizione classica, dal titolo Le changement d’Héraclite à Bergson. Cfr. J. Chevalier, Entretiens avec Bergson, Plon, Paris 1959, pp. 218-219. 4 Cancellato nel testo.

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nessun particolare avrebbe potuto, a quanto sembra, essere diverso da quel che è, perché tutto è presente in ciascuna delle sue parti. Questa apparenza di fatalità dà all’opera, da così personale che era, un aspetto impersonale. Pertanto, è una nota negativa per un’opera, a mio avviso, – o in ogni caso un segno di non-classicità – aver bisogno che sia commentata con la vita dell’autore, l’ambiente, le circostanze, ecc. Non essendo legata alle cose del suo tempo, essa appartiene a tutti i tempi. Ne consegue che solo per estensione si parlerà di “pensiero classico”. Si può dare alle parole il senso che si vuole, purché si cominci col definirle. Da parte mia, chiamerei classica ogni filosofia che fa passare in prima linea la preoccupazione per la precisione. La precisione mi sembra essere stata una invenzione dei Greci che l’hanno trasmessa ai Latini; manca al pensiero orientale, o perlomeno a quello che conosco. Orbene, lei mi domanda in che misura il cristianesimo è classico? Credo che rischiamo di sminuirlo collegandolo all’una o all’altra tradizione letteraria o artistica. Esso trasfigura ciò che tocca, non rendendolo né classico né romantico, ma semplicemente cristiano. Bisognerebbe cercare, è vero, perché proprio l’anima [preparata]5 formata dalla civiltà greco-latina si è trovata ad essere la meglio preparata a riceverlo. È un problema che non ho approfondito e che meriterebbe, certo, un completo approfondimento6.

In che misura questa precisione è in relazione con il bon sens e si può ricondurre ad altri aspetti del pensiero di Bergson? Una costante della sua filosofia è, insieme alla denuncia del pericolo di partire dai concetti già fatti invece che dall’esperienza del reale, la preoccupazione che il linguaggio non esprima adeguatamente il pensiero. Se infatti il pensiero deve modellarsi sulla realtà e non viceversa, la parola a sua volta deve mantenersi al servizio dell’intelligenza e non impedirne il lavoro, sovrapponendosi ad essa. Le parole belle e fatte esprimono idee belle e fatte, che non comportano alcuna conoscenza profonda del reale, ma costituiscono pregiudizi stereotipati, autentica zavorra del lavoro 5 Cancellato

nel testo. J. Chevalier, Comment Bergson a trouvé Dieu, in H. Bergson, Essais et témoignages inédits, a cura di A. Béguin-P. Thévenaz, La Baconnière, Neuchâtel 1943, p. 92. Ora il testo completo della lettera è in Correspondances, cit., pp. 1478-1480. Bergson aggiunge una postilla alla lettera, ricordando di aver trattato largamente il tema dello spirito classico e degli studi classici nel testo Les études gréco-latines et l’enseignement secondaire, del 1922. 6

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intellettuale. Occorre dunque compiere due generi di operazioni inscindibilmente connesse: liberare, in un certo senso, le idee dalle parole e guarire il pensiero dalla malattia del formalismo. Entrambe sono rese più facili dagli studi classici: vediamo come. Come già osservato, il bon sens è il grande antidoto contro quegli automatismi, quella pigrizia intellettuale che impediscono una piena attività dello spirito, giacché è attenzione alla vita e capacità di conciliare il vero con il pratico. Uno dei più grandi ostacoli alla libertà dello spirito – osserva Bergson nel discorso sul bon sens – sono le idee che il linguaggio ci presenta belle e fatte e che noi respiriamo, per così dire, nell’ambiente che ci circonda. Esse non si assimilano mai alla nostra sostanza: incapaci di partecipare alla vita dello spirito, esse perseverano, autentiche idee morte, nella loro rigidità e immobilità. Perché allora le preferiamo così spesso a quelle che vivono e che vibrano? Perché il nostro pensiero, invece di lavorare a rendersi padrone di sè, preferisce esiliarsi da sé stesso? È innanzitutto per distrazione e perché, a forza di divertirci lungo la strada, non sappiamo più dove volevamo andare7.

È l’incertezza della libertà che spesso sperimentiamo, la difficoltà di adeguare la superficie con il fondo, la forma con il contenuto. Lo sforzo di precisione punterà, allora, allo stesso tempo all’attenzione e alla concentrazione; esso è paragonabile, fatte le dovute differenze, al dubbio metodico cartesiano, ma esprime la sua criticità non tanto affermando la chiarezza del pensiero a sé stesso, quanto mostrando la forza attrattiva della vita reale come terapia alle stravaganze del pensiero. Se questo, infatti, perde il contatto con la realtà, tende inevitabilmente a cristallizzarsi nella formula che lo esprime, con la conseguenza che la parola finisce per sganciarsi dall’idea, viaggiando quasi autonomamente, per volgersi poi contro l’idea stessa, tradendola e alterandola. Il valore degli studi classici e in particolare dell’apprendimento delle lingue classiche, si inserisce, allora, nell’ambito di una interessante riflessione critica sul linguaggio, che è ben lontano dall’esprimere integralmente il nostro pensiero. Nota Bergson nell’Essai: “La parola dai contorni ben fissati, la parola brutale che immagazzina ciò che c’è di 7

Mélanges, cit., pp. 366-367.

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stabile, di comune e, di conseguenza, d’impersonale nelle impressioni dell’umanità, reprime o perlomeno ricopre le impressioni delicate e sfuggenti della nostra coscienza individuale”8. Scrive nel 1896: “Raffinata o grossolana, una lingua sottintende molte più cose di quelle che riesce ad esprimere. Essenzialmente discontinua in quanto procede per sillabe giustapposte, la parola non fa che delimitare di tanto in tanto le principali tappe del movimento del pensiero”9. Non c’è, dunque, sempre una corrispondenza esatta tra il linguaggio e il pensiero. Da qui “il carattere estraneo che assume una parola quando si fissa su di essa la propria attenzione. La parola appare allora come nuova e in effetti lo è: mai fino a quel momento la nostra coscienza ne aveva fatto un punto d’arresto, essa la attraversava per arrivare alla fine di una frase”10 . Le lingue classiche, allora, costringendo, in un certo senso, a un’analisi attenta delle parole, svolgono un servizio preziosissimo sia per lo sviluppo del pensiero che per la sua espressione, perché fanno sì che le parole sprigionino le idee che racchiudono: Riconosco proprio nell’educazione classica – osserva Bergson nel discorso sul bon sens – innanzitutto uno sforzo per rompere il ghiaccio delle parole e ritrovare sotto di esse la libera corrente del pensiero. Esercitandovi, giovani allievi, a tradurre le idee da una lingua all’altra, essa vi abitua a farle cristallizzare, per così dire, in più sistemi differenti; in tal modo le libera da ogni forma verbale definitivamente chiusa e vi invita a pensare le idee stesse, indipendentemente dalle parole11.

Il valore della traduzione per la formazione intellettuale è insostituibile, perché favorisce un atteggiamento di riflessione, che mira a cogliere il senso indipendentemente dalle parole usate. La versione scompone l’operazione della comprensione di un testo scritto nelle sue diverse fasi, esaminandole come sotto una lente di ingrandimento: per questo è un ottimo esercizio intellettuale. Però, allora, bisogna evitare che ogni singola parola prenda il sopravvento sull’insieme, perché, in tal caso, si otterrebbe l’effetto contrario: ci si arresterebbe alle forme, senza riuscire a penetrarvi all’interno. 8

Essai sur les données immédiates de la conscience, in Oeuvres, cit., p. 118. Matière et Mémoire, in Ivi, cit., p. 269. 10 La fausse reconaissance, in L’énergie spirituelle, in Ivi, p. 227. 11 Mélanges, cit., p. 368. 9

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Mossé-Bastide cita il consiglio dato da Bergson all’allievo Gilbert Maire: Legga il greco e il latino con la traduzione interlineare. Il metodo migliore, bandito nei licei, non so perché, mi sembra ancora il ricorso diretto al testo con l’aiuto della traduzione interlineare. L’abuso del dizionario fa sì che il vocabolario abbia priorità sulla sintassi, mentre in qualsiasi lingua straniera, morta o viva, è la struttura generale della frase che importa, molto di più dei significati delle parole presi uno ad uno. Si tratta di cogliere un movimento del pensiero, e non tanto di dettagliare i termini che esso attraversa12.

Pretendere di tradurre un testo a colpi di dizionario, dunque, significa non tener conto che ciascuna parola esprime troppo e allo stesso tempo troppo poco: sono troppi i significati che il dizionario fornisce, eppure sono insufficienti e inadeguati a cogliere l’insieme dello sviluppo del pensiero. Scrive nel 1902: Le parole di una frase non hanno un senso assoluto. Ciascuna di esse prende a prestito una sfumatura particolare da quella che la precede e da quella che la segue. Le parole di una frase non sono tutte capaci nemmeno di evocare un’immagine o un’idea indipendenti. Molte di esse esprimono delle relazioni e non le esprimono solo per il loro posto nell’insieme o per il loro legame con le altre parole della frase. Un’intelligenza che andasse senza posa dalla parola all’idea sarebbe senza posa messa in imbarazzo e per così dire errante13 .

Non sono dunque le parole l’oggetto prioritario di una traduzione, ma il senso ad esse sotteso, che dobbiamo divenire capaci di riconoscere sapendo che le parole sono semplici punti di riferimento. Ogni interpretazione, e il tradizionale esercizio della versione è un’interpretazione, è dunque un paziente lavoro di ricostruzione di un senso che si trova al di sotto delle parole e al di là delle idee, ma che non è costituito in senso stretto né dalle une né dalle altre. In L’Effort intellectuel, Bergson 12

R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 225. L’effort intellectuel, in “Revue philosophique”, LIII, gennaio 1902, pp. 1-27. Poi, nel 1919, in L’énergie spirituelle, in Oeuvres, cit., p. 172. 13

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dedicherà ampio spazio a queste riflessioni, trattando specificamente dell’atto di intellezione, anche proprio in relazione alla comprensione delle lingue: “L’intellezione può essere esatta e sicura solo se partiamo dal senso supposto, ricostruito ipoteticamente, se da qui discendiamo ai frammenti di parole realmente percepite, se ci riferiamo di continuo ad esse, e se ce ne serviamo come semplici picchetti per disegnare, in tutte le sue sinuosità, la curva speciale della strada che seguirà l’intelligenza”14. In questo sta la precisione, come la intende Bergson, consapevole peraltro che non sarà mai raggiungibile in modo perfetto. Costituisce “una reazione contro il pressappoco” non naturale ma acquisita, “è stata un’invenzione”, come dirà nel discorso che terrà all’Académie15, precisando che si deve alla civiltà greca, con la quale sono state rese possibili le manifestazioni migliori dell’arte, della letteratura, della scienza. “Senza i Greci l’umanità avrebbe ancora avuto il lirismo, la fantasia, l’umorismo; certamente avremmo avuto la poesia: ma avremmo avuto la prosa? Senza di loro si sarebbe sviluppata una conoscenza empirica del mondo in cui viviamo: ma avremmo avuto la scienza? All’origine della scienza greca e della letteratura greca vi sono qualità identiche e complementari”16. In questo sforzo di precisione, intelligenza e intuizione si integrano reciprocamente, perché mentre l’intelligenza scompone, va dal tutto alle parti, l’intuizione unifica, coglie l’essenziale. Ma per interagire con l’intuizione, è necessario che l’intelligenza sia “flessibile”, si serva cioè non di abitudini stereotipate, ma di schemi dinamici. Ed è in questo lavoro che il bon sens, “l’esperienza continua del reale”, supporta e aiuta l’intelligenza. D’altra parte, la precisione, che potremmo anche chiamare rigore, la quale costituisce l’essenza della classicità e l’obiettivo dello studio delle lingue classiche, non si può ottenere in modo penoso, a furia di sforzi titanici. Questi renderebbero insopportabile il compito e vanificherebbero lo scopo. Bergson su questo punto fornisce delle interessanti osservazioni di carattere didattico e ancor più pedagogico, partendo dalla sua esperienza personale di studente. Egli sottolinea l’importanza di una certa spontaneità, che deve presiedere l’apprendimento delle lingue 14

Ibidem.

15 Les études gréco-latines et la réforme de l’enseignement secondaire, 4 novembre 1922,

in Mélanges, cit., pp. 1366-1379. 16 Ibidem, p. 1369.

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classiche e che, paradossalmente, è un obiettivo che, se non è posto fin dall’inizio, non si ottiene più in un secondo momento. È fondamentale perché nasca quel gusto nell’apprendere che il filosofo rimpiange di non aver provato nei suoi studi liceali: “I miei ricordi di studente sono rimasti molto precisi a questo proposito: non gustavamo abbastanza gli autori, perché vi arrivavamo troppo tardi, dopo un lavoro troppo duro. Il fine era stato sacrificato ai mezzi e ci eravamo dati tanta pena nel raschiare minuziosamente la peluria, che non ci restava affatto più tempo per assaporare il frutto, ammesso che ne avessimo ancora voglia”17. Insegnare le lingue classiche, dunque, cercando di conciliare il rigore con la passione: è il contatto diretto con i testi a favorire, attraverso la conoscenza della lingua, la “simpatia” con il contenuto, condizione indispensabile per riuscire a gustare la bellezza di un pensiero e non soltanto per impossessarsi di un’abilità. D’altra parte, solo chi ha una formazione classica riesce a penetrare il significato della letteratura, in questo caso quella francese, ma il discorso si può applicare più in generale alla letteratura europea. Gustare la letteratura richiede, infatti, partecipare di quello spirito che ha ereditato e di cui è impregnata, comprendere i riferimenti alla tradizione che essa contiene, insomma possedere una chiave per leggere un messaggio che altrimenti resterebbe non del tutto decifrato. “È come se ci si lasciasse scappare le armoniche di un suono: la nota resta la stessa, ma non è più lo stesso timbro”18. Lo stesso discorso vale per la filosofia: se non si conosce la filosofia greca, è pressoché impossibile comprendere fino in fondo la filosofia moderna e contemporanea. Bergson lo sottolinea in un articolo del 1908, in cui tra l’altro osserva: Bisogna passare per la filosofia greca se si pretende di oltrepassarla, così come si studia la geometria di Euclide o qualsiasi altra forma di geometria elementare, per arrivare alla geometria analitica di Descartes. Chi apre un trattato di calcolo differenziale senza conoscere i rudimenti dell’algebra, chiude immediatamente il volume: è avvisato della sua imprudenza dalla vista di certi segni dei quali non comprende nulla. Ma la filosofia nelle sue più profonde analisi e nelle sue più elevate 17 18

Ibidem, p. 1377. Ibidem, p. 1368.

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sintesi, è obbligata a parlare la lingua di tutti. Da qui un’illusione molto diffusa, che consiste nel credere che si possa abbordare di colpo l’opera di un filosofo contemporaneo, entrarvi facilmente e confutarla su due piedi, tagliar corto sui problemi che presenta o scartarli come altrettante futilità, senza tener conto di venticinque secoli di meditazione, di inquietudine e di sforzo che sono come condensati nella forma attuale di questi problemi, e persino nei termini di cui ci serviamo per enunciarli. La verità è che molto difficile comprendere Renouvier, per esempio, se non si è letto Kant, o Kant se non si conoscono Hume e Berkeley, o Hume e Berkeley se non si sa nulla di Locke e di Descartes, o i filosofi moderni in generale se si ignora la filosofia antica19.

Eliminare gli studi classici dalla scuola secondaria è per il filosofo un errore pedagogico di enorme portata, che a suo parere potrebbe persino ripercuotersi sulla considerazione internazionale che la Francia possiede proprio per il suo patrimonio culturale, così impregnato di classicità. D’altra parte, una tradizione, se non alimentata, non sopravvive naturalmente, come per inerzia. Nel discorso del 1922, egli cita l’immagine di Renan, del vaso vuoto da cui si aspira ancora il profumo, ma aggiunge che da un vaso vuoto il profumo non emana indefinitamente20. Le sue proposte nell’ambito della riforma della scuola, volte a restituire agli studi classici un ruolo di primo piano, al di là degli ovvi anacronismi e dei riferimenti più legati alla realtà francese, restano valide per il richiamo forte ed efficace a non rinnegare una tradizione, a riscoprire tutti i valori di cui è portatrice e dunque ad apprezzare il potenziale formativo che essa racchiude.

19 20

Réponse à un article d’E. Borel, gennaio 1908, in Mélanges, cit., pp. 757-758. Cfr. Les études gréco-latines, cit., p. 1370.

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Capitolo ottavo

Bergson membro del Conseil supérieur de l’instruction publique (1919-1925)

La proposta di Léon Bérard sulla riforma dell’insegnamento secondario e l’autorità di Bergson nei dibattiti parlamentari (1923). Il valore formativo degli studi greco-latini e la difesa del liceo classico La partecipazione di Bergson al dibattito sui temi caldi relativi all’organizzazione dell’insegnamento secondario, all’importanza della filosofia e, più in generale delle discipline umanistiche, prosegue e si fa più intenso negli anni in cui è membro del Conseil supérieur de l’Instruction publique1. In questo periodo, infatti, si discute di una ulteriore riforma della scuola secondaria. Il 20 gennaio del 1921, il nuovo ministro dell’Instruction publique, Léon Bérard2, aveva proposto di unificare il primo ciclo di studi secondari, istituendo il latino obbligatorio a partire dalla sesta classe. Questa riforma avrebbe soppresso il sistema creato nel 1902, caratterizzato dall’istituzione di una filiera secondaria “moderna”, allora molto contestata e dalle cosiddette sezioni B, C e D. Il 4 novembre del 1922, nella seduta dell’Académie des Sciences Morales et politiques, Bergson pronuncia il discorso Les études gréco-latines et la réforme de l’enseignement secondaire, dove difende con decisione il valore degli studi greco-latini, sostenendo l’opportunità di unificare 1 Il Conseil supérieur de l’instruction publique, che sarà soppresso nel 1945, aveva una funzione consultiva su tutti i temi relativi all’insegnamento. Bergson ne formerà parte dal 28 novembre 1919 al 1925. 2 Léon Bérard sarà a capo del Ministère dal 7 novembre 1919 al 20 gennaio 1920, poi nuovamente dal 16 gennaio 1921 al 29 marzo 1924. Cfr. L. Bérard, Pour la réforme classique de l’enseignement secondaire, Armand Colin, Paris 1923.

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il baccellierato vero e proprio, finalizzato alla formazione dell’élite intellettuale, rafforzando le discipline classiche e scientifiche e di istituire un percorso di studi più pratico, differente dal baccellierato, orientato a formare imprenditori e commercianti3. Il fondamento filosofico della posizione sostenuta da Bergson è la distinzione tra la formazione dell’“intelligenza teorica” e quella dell’“intelligenza pratica”, distinzione considerata fondamentale. Questo discorso rappresenterà un punto di riferimento per Bérard, sebbene, anche per l’opposizione incontrata, egli dovrà modificare il suo progetto iniziale, conservando le due sezioni d’insegnamento secondario. In diverse sedute della Chambre des députés dedicate alla riforma dell’insegnamento secondario, il nome di Bergson risuonerà più volte, utilizzato come difesa da parte del ministro o, al contrario, attaccato da parte dei sostenitori dell’insegnamento “moderno” e della scuola unica, come il deputato radicale Édouard Herriot4, alle cui critiche nel corso di un dibattito Bérard replicherà in latino. Nella seduta dell’11 maggio del 1923, viene citata espressamente la posizione del filosofo, non senza sarcasmo da parte di alcuni, come appare dal dibattito che segue5. Ducos: – Questa è l’opinione dello stesso signor Bergson, che lei cita così spesso. Lui vuole un’élite d’azione accanto all’élite intellettuale e vuole che entrambe abbiamo una formazione nell’insegnamento secondario. Ministro della Pubblica Istruzione: – Il signor Bergson … Ducos: – È contro di lei. Ministro della Pubblica Istruzione: – Non ho mai cercato in questo dibattito, signor Ducos, la sua approvazione. Può dire quello che preferisce sulla mia divergenza con il signor Bergson. Le mostrerò, sugli scritti, che non sussiste. 3 Il discorso verrà pubblicato ne “La Revue de Paris”, XXX, 9, 1 maggio 1923, pp. 5-18. Ora in Mélanges, cit., pp. 1366-1379. 4 Herriot (1872-1957), presidente del partito radicale-socialista dal 1919 al 1926, ricoprì diverse cariche politiche, tra cui quella di Ministro dei lavori pubblici (1916-1917) e Ministro dell’Istruzione pubblica (1926-1928), nonché presidente della Chambre des députés durante il governo di Raymond Poincaré. 5 Séance du vendredi 11 mai 1923, in “Journal officiel de la République française. Débats parlementaires. Chambre des députés: compte rendu in extenso”, 12 maggio 1923, n. 59, pp. 1842-1845. Fonte: gallica.bnf.fr/Bibliothèque et Archives de l'Assemblée nationale.

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Léon Daudet: – Bergson non è Buddha! Ministro della Pubblica Istruzione: – Non dovremmo, ovviamente, interrompere il discorso del signor Leygues, ma lei mi dice “Bergson è contro di lei”. E io sono obbligato a rispondere: il signor Bergson è, dall’inizio di questa discussione, colui che ha descritto il miglior sistema di istruzione secondaria e le mie preferenze vanno non al mio decreto del 3 maggio scorso, ma al sistema indicato dal signor Bergson. Domando agli onorevoli Ducos e Herriot se sono pronti ad aiutarmi a farlo passare a livello parlamentare. Ma gli onorevoli Ducos e Herriot sono pronti ad aiutarmi a farlo passare in Parlamento? Herriot: – Dato che la domanda mi è stata posta, chiedo al signor Leygues di permettermi di rispondere. Presidente: – Prima che lei prendesse la parola, il signor Leygues chiedeva una sospensione. Herriot: – Il gran nome del signor Bergson è appena stato tirato in ballo. Léon Daudet: – Bergson non è un dio! Bracke: – Probabilmente ha più autorità di altri in questa particolare questione. Léon Daudet: – È un uomo che ha creato un sistema filosofico, un uomo di talento, ne convengo. Charles Baron: – È comunque un gran nome! Léon Daudet: – Sì, ma non è un dio. Herriot: – Il signor ministro, in termini molto legittimi, invoca l’autorità del signor Bergson. La Camera vuole essere informata? Lei mi chiede, signor ministro, se sono d’accordo con il signor Bergson e se voglio seguirlo insieme a voi? Ministro della Pubblica Istruzione: – Io sono pronto a seguirlo. Herriot: – Allora ascoltate questa breve lettura. Il signor Bergson ha pubblicato le sue idee sugli studi classici e la riforma dell’insegnamento in questa rivista che ho in mano, che è datata 1° maggio. Quindi dieci giorni fa. Di questo lungo studio leggerò semplicemente tre frasi. Maurice Barrès: – È troppo o troppo poco. Herriot: – Ecco un primo testo del signor Bergson, citato un po’ ovunque come il grande apostolo degli studi classici e dell’attuale decreto: “L’esperienza ha dimostrato che gli studi greci e latini, per essere efficaci, devono essere piuttosto approfonditi. Non sono destinati a tutti …” Ministro della Pubblica Istruzione: – Bravo! Bracke: – È la tesi aristocratica che noi contrastiamo.

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Herriot: – Secondo testo: “Un’istruzione primaria, anche superiore, non potrebbe essere sufficiente perché, per prima cosa, certe conoscenze che vengono acquisite solo al liceo, le lingue moderne ad esempio, sono indispensabili e, d’altra parte, non è possibile oggi dirigere gli altri e sé stessi se si ha semplicemente immagazzinato il già fatto. Bisogna avere un’idea della scienza che si sta facendo, aver imparato a imparare, ecc. Queste abitudini mentali si contraggono solo nell’istruzione secondaria”. Qui il signor Bergson contrasta la teoria riassunta nel brillantissimo rapporto del Ministro della Pubblica Istruzione al Presidente della Repubblica, la quale dice che i ragazzi che non potranno ricevere un’istruzione secondaria moderna all’interno dell’istruzione classica istituita dal ministro dovranno limitarsi alla primaria superiore. Il signor Bergson vi risponde: No, per questi ragazzi, anche per quelli che non studiano latino e greco, vogliamo un’istruzione secondaria. Vogliamo non solo che imparino, ma che imparino a imparare. Infine, nella stessa data e nello stesso studio, ecco il terzo testo, che dà le conclusioni e riassume tutta la mia idea: “Abbiamo bisogno di un’educazione classica completa, che prepari all’università, alle carriere liberali, alle grandi scuole e di un’istruzione non classica, di cui sia ben inteso dall’inizio lo sbocco verso carriere industriali, commerciali e agricole …” Ministro della Pubblica Istruzione: – Molto bene! Herriot: – “… che resti comunque secondaria.” Credo che sia la condanna formale del decreto attuale. Pierre Dignac: – Vi servite degli scritti di Bergson come le frange socialiste si servono di quelli di Jaurès. Ogni partito vi trova l’approvazione delle sue dottrine. Herriot: – Lei invoca l’autorità di Bergson; il signor Bergson vi dice: voglio due insegnamenti secondari e non uno: uno classico e l’altro moderno. È il sistema del signor Leygues. Lo accetto. On. Moracci: – Due insegnamenti di classe. […] Ministro della Pubblica Istruzione: – Signor Presidente, siamo in disaccordo, il signor Herriot e io, su un punto di fatto, e credo che la mia risposta non sarebbe più di grande interesse se tra la domanda e questa risposta facessimo un’interruzione della seduta. Lei ha parlato del signor Bergson e prima di tutto contesta, signor Herriot, il fatto che io possa invocare la testimonianza dell’illustre filosofo.

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Herriot: – Ho detto, al contrario, che la invoca molto legittimamente. Ministro della Pubblica Istruzione: – Il signor Bergson è un membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione; ha votato a favore del progetto che vi sottopongo, progetto che certo non rappresenta l’ideale che descrive nell’articolo che lei ha appena riassunto. Herriot: – Questo articolo è del 1° maggio. Ministro della Pubblica Istruzione: – Quindi posso dire che sono onorato di avere la sua adesione. Herriot: – No. Ministro della Pubblica Istruzione: – Il signor Bergson mi ha fatto l’onore di venire con me e i miei collaboratori a lavorare alla preparazione dei programmi di scienze e di filosofia che vi sottopongo. Questo non è un rimprovero, non è una disapprovazione. Per comprendere il sistema che il signor Bergson descrive nel suo articolo, è necessario ricordare qual è il sistema del 1902, sistema sostenuto dal signor Leygues. Esso comporta due sistemi d’insegnamento, diversi e paralleli. Con l’uno, l’educazione classica, si intende costituire quello che il signor Leygues chiama nella prefazione alla riforma del 1902, “un’aristocrazia dello spirito”, e con l’altro, l’educazione moderna, si vogliono preparare i giovani a quello che il nostro collega chiama “le carriere attive” e “la vita economica”. Approvo pienamente il punto di partenza della riforma del 1902, ma l’errore è stato quello di riunire questi due sistemi d’insegnamento negli stessi istituti e di averli confusi. Qualunque sia l’insegnamento scelto da questi giovani, porta in ogni caso allo stesso diploma di maturità. In modo che l’“uomo pratico”, che il signor Leygues si compiace di aver formato con la sua educazione moderna, diventerà avvocato, medico, notaio e funzionario statale proprio come il suo compagno “aristocratico dello spirito” che esce dalla sezione classica. Il signor Bergson propone, per evitare la confusione finale causata dalla riforma del 1902 tra ragazzi preparati da discipline molto diverse, di creare due categorie di licei che appartengano entrambe all’istruzione secondaria: licei classici, dove tutti i ragazzi studieranno latino e greco fino alla fine degli studi; licei moderni, dove si prepareranno, come vuole l’onorevole signor Leygues, alla vita economica e alle carriere pratiche. Solo, aggiunge il signor Bergson – e non so se i nostri colleghi di sinistra lo seguiranno – sarà inteso che chi proviene dal liceo moderno non avrà accesso all’università, non potrà sostenere gli esami di maturità classica.

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Riconoscendomi incapace di far approvare alla Camera una simile riforma, ho fatto la transazione dell’insegnamento comune seguito da una sezione classica e una sezione moderna, sistema che avrò l’onore di sostenere davanti a voi. La tesi del signor Bergson, che avrei adottato se mi fosse sembrata attualmente realizzabile, è certamente più vicina al mio progetto che alle idee dei miei avversari. Herriot: – Il testo che ho letto contraddice la sua interpretazione della tesi del signor Bergson. […] Georges Leygues: – Signori, poco fa si è fatto riferimento all’opinione del signor Bergson. Vorrei a mia volta fare qui una citazione per precisare il pensiero del signor Bergson. Ecco cosa ha scritto nello studio da cui il signor Herriot vi ha letto un passaggio prima. “Qualora durante gli studi secondari non classici, o anche gli studi primari prolungati, un giovane abbia mostrato una disposizione eccezionale per il lavoro che si fa all’università, non gli chiuderemo le porte dell’istruzione superiore”. Ministro della Pubblica Istruzione: – Queste sono le deroghe. Georges Leygues: – “Sarebbe privare il Paese di una forza”. Tuttavia, lei chiude le porte dell’istruzione superiore, signor ministro, al giovane che il signor Bergson prende ad esempio. Non può essere d’accordo con Bergson. Ministro della Pubblica Istruzione: – Sì! Georges Leygues: – Perché dà delle deroghe. Ministro della Pubblica Istruzione: – Questo è quello a cui mira il signor Bergson. Herriot: – E delle garanzie. Georges Leygues: – Non si tratta di deroghe. Dev’esserci nell’istruzione, come in qualsiasi altra materia, una regola applicabile a tutti. Non si può, dopo aver adottato un regolamento che interferirà con i desideri e le vocazioni di studenti e famiglie, dire: affronterò la rigidità del regolamento concedendo delle deroghe. Le deroghe sono favori. Questi studenti le diranno: non vogliamo favori. Rivendichiamo il nostro diritto, che è quello di dimostrare col nostro lavoro quello di cui siamo capaci. Pinard: – Molto bene! Georges Leygues: – Ora, questi giovani che, attraverso studi non grecolatini, avranno dimostrato una forza d’animo, una volontà che, come dice il signor Bergson, sarebbe una forza per il Paese, lei li esclude dall’istruzione superiore. Uno dei motivi per cui il signor Léon Bérard

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ha combattuto contro i decreti del 1902, era la divisione dell’insegnamento in sezioni. Trovava odiosa questa divisione. Ma la forza delle cose, signor ministro, è stata più forte della vostra volontà. Dopo aver condannato le sezioni le avete ristabilite. Ha una sezione A, una sezione A’ e una sezione B.

Nella seduta dell’8 giugno 1923, la polemica tra il ministro della Pubblica Istruzione Bérard e i suoi oppositori, come Herriot e Ducos, prosegue sempre avendo come riferimento il nome di Bergson6. Bérard, infatti, cita il filosofo nel dibattito come un’autorità: “su questo punto, non c’è critica più diretta né più penetrante all’opera del 1902 del recente articolo di Henri Bergson, al quale si è accennato più volte durante questo dibattito”. Ducos: – Ha detto esattamente il contrario. Ministro della Pubblica Istruzione: – Bergson scrive: “Se volete preparare, come è assolutamente legittimo, perché hanno gusti diversi e ci sono diverse esigenze sociali da soddisfare, i giovani destinati gli uni a diventare un’élite intellettuale, o come dicevate nel 1902, in una parola che non userò mai, “un’aristocrazia dello spirito”, e gli altri a quelle che avete chiamato carriere attive, non li confondete negli stessi istituti e assicuratevi che andranno verso le professioni per cui li avete preparati”. Herriot: – Bergson non ha detto questo! Ministro della Pubblica Istruzione: – Ha detto esattamente questo! Herriot: – Ma no! Ducos: – Ha detto esattamente il contrario. […] Ministro della Pubblica Istruzione: – Il signor Bergson dice espressamente: se vogliamo avere due insegnamenti che corrispondono per scopo e metodi a oggetti distinti, abbiamo bisogno di due categorie di istituti. Abbiamo bisogno, dice, di un liceo classico per l’élite intellettuale, di cui il signor Leygues si preoccupava nel 1902, e di un liceo senza epiteti che non porterebbe all’università, all’istruzione superiore. Ducos: – È un errore; il signor Bergson non l’ha mai detto. Ministro della Pubblica Istruzione: – Il signor Bergson, in breve, concepisce la riforma dell’istruzione secondaria attraverso la distinzione tra 6 Séance du samedi 8 june 1923, in “Journal officiel de la République française. Débats parlementaires. Chambre des députés: compte rendu in extenso”, 9 giugno 1923, n. 73, pp. 2432-2434.

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i corsi, gli istituti in cui questi corsi vengono impartiti e la disparità dei titoli. La sfido a contraddirmi su questo punto.

Nella seduta del 22 giugno 1923, Bérard riporta l’esito della votazione ai quesiti sottoposti al Conseil Supérieur de l’Instruction publique nel giugno del 19217. Nella seduta del 5 luglio 1923, è ancora Herriot a citare Bergson contro Bérard8: Herriot: – Sarà un tipo di formazione generale tra le tante. Il signor ministro ritiene ovviamente che questa sia la formazione migliore. Sentirete, tra poco, le associazioni dei padri di famiglia protestare contro questa limitazione della loro libertà. Dico al ministro: “se è vero che c’è grande incertezza nella scelta delle vocazioni, non le riconosco il diritto di imporre a tutti i ragazzi un’educazione dello stesso tipo. Ci ha parlato, l’altro giorno, criticando i programmi del 1902, di quello che ha chiamato il sistema del bivio; non le riconosco il diritto di impegnare i ragazzi in un unico corridoio, alla cui uscita ci sarebbe solo questo diploma unico sul quale, presto, dovremo spiegarci”. E, a questo punto del ragionamento in cui sono arrivato, vorrei chiarire una questione che è stata molto discussa in questo dibattito, quando è stata invocata l’autorità di un uomo come il signor Bergson. Il ministro ha fatto molto affidamento sul pensiero di questo filosofo, il quale, infatti, ha meditato particolarmente sul problema della riforma dell’istruzione. Invocherò poche testimonianze personali. Citerò tra poco le deposizioni di gruppi appartenenti al corpo universitario; ma voglio dimostrare, signor ministro, che il signor Bergson non è affatto d’accordo con Lei. Non voglio imporre a quest’assemblea l’analisi 7 “Alla prima delle domande essenziali: ‘Vogliamo, alla distinzione iniziale del regime del 1902 che impone dalla scuola media la scelta tra le sezioni A e B, sostituire un insegnamento prima di tutto unico?’, 21 membri si sono pronunciati a favore, 6 contro. Tra i nomi dei 21 membri favorevoli, osservo quelli di M. Appel, Rettore dell’Accademia di Parigi, Beaulavon, Bergson. […] Alla seconda domanda: ‘Il latino sarà una parte importante o obbligatoria di questo insegnamento unico?’ 18 membri rispondono per iscritto sì e 9 no. Tra i 18 membri che hanno risposto, ritrovo ancora i nomi di Appel, Beaulavon, Bergson […]”. Séance du vendredi 22 June 1923, in “Journal officiel de la République française. Débats parlementaires. Chambre des députés: compte rendu in extenso”, 23 giugno 1923, n. 81, p. 2711. 8 Séance du jeudi 22 juillet 1923, in “Journal officiel de la République française. Débats parlementaires. Chambre des députés: compte rendu in extenso”, 23 luglio 1923, n. 92, pp. 3113-3114.

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dettagliata del testo del signor Bergson, riassumendolo non farei altro che comprometterlo. Ma prima intendo stabilire che, per il signor Bergson, gli studi classici non possono e non devono essere generalizzati. Ce lo dice così: “Un punto mi sembra anzitutto acquisito: l’esperienza ha dimostrato che questi studi, per essere efficaci, devono essere piuttosto approfonditi; non sono destinati a tutti”. Ferdinand Buisson: – È questo! Herriot: – […] Per ora continuo la mia citazione dall’articolo del signor Bergson e la termino subito. Ci è stato detto che il signor Bergson fosse ostile alle discipline umanistiche moderne, per niente! Ascoltatelo, signori: “Abbiamo bisogno”, ha detto, “di una istruzione classica completa che prepari alle università, le carriere liberali, le scuole superiori e una istruzione non classica di cui sia ben chiaro dall’inizio lo sbocco verso carriere industriali, commerciali e agricole, che resti secondaria”. Sentite bene le ultime parole: il signor Bergson, come me, si preoccupa di mantenere nell’insegnamento moderno questa cultura generale di cui ho proclamato la necessità. Ha precisato che le buone abitudini mentali si contraggono solo nell’istruzione secondaria. “I due insegnamenti”, aggiunge, “non dovrebbero essere impartiti nello stesso istituto; l’uno sarebbe necessariamente considerato inferiore all’altro, quando sono dello stesso rango; differiscono soltanto per natura. Chiamiamo “licei classici”, se vogliamo, gli istituti del primo genere e semplicemente “licei” gli altri. Oppure, che gli uni siano licei a altri collegi. Non importa. La parola non rappresenta nulla di definito agli occhi del pubblico”. Quindi, le due scuole secondarie sono dello stesso rango; è l’essenziale. E il signor Bergson continua, presentando nella pagina seguente un mirabile resoconto di questa questione delle vocazioni di cui parlavamo prima. Vuole che i ragazzi possano essere ripartiti tra licei di entrambi i tipi e che tra questi due licei ci siano comunicazioni. Come ho preteso io, mantiene per le famiglie la libertà di scelta. Riesce, come chiedo, a costituire, fianco a fianco, due insegnamenti, insegnamento moderno e insegnamento classico. O, più precisamente, questi sono, nel suo pensiero, due insegnamenti classici, o meno secondari l’un l’altro, su diversi programmi. E, quando si domanda, al termine del suo studio, se verrà negato – problema essenziale che affronteremo tra poco – l’ingresso nelle università ai ragazzi che non abbiano imparato né greco né latino, risolve il problema con una negazione. Non vuole privare il paese di una forza, prevede

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tutto un sistema di garanzie che permetta a questi allievi, senza greco né latino, di accedere anch’essi all’università. Ecco l’encomiabile sistema del signor Bergson.

In una conversazione con Jacques Chevalier, del 20 dicembre 1922, qualche mese prima dell’approvazione della legge9, Bergson confiderà all’amico la sua stima per Bérard, “grande umanista, pieno di buona volontà, ma un po’ disarmato di fronte all’odio settario che professano la Sorbona e i suoi decani”10. E il filosofo, convinto che la Francia sia l’erede della tradizione greco-latina, si rammarica di aver fatto parte di una esigua minoranza nel difendere gli studi classici nella seduta del Conseil supérieur de l’Instruction publique: “che importa? Una causa giusta merita che si combatta per essa, anche senza speranza. Poi, chissà? Può darsi che il fermo parere di quattro o cinque dei membri del Conseil un giorno sia preso in considerazione”11. Di fronte alla tendenza alla frammentazione e alla specializzazione, che si riflette anche sull’insegnamento universitario, è interessante notare come Bergson, pur criticando l’eccesso di specializzazione e valorizzando le discipline umanistiche, non si schieri decisamente con il fronte dei “conservatori”, ma sostenga la validità delle scienze sperimentali, in particolare della psicologia, considerata come una disciplina efficace alleata della filosofia. Una ulteriore conferma della sua posizione in difesa del latino e del greco la troviamo nella lettera che invierà a Édouard Herriot, dopo aver ricevuto il suo discorso, tenuto l’11 maggio 1923 nella sopracitata seduta della Chambre des députés sulla riforma dell’insegnamento secondario. Ci tengo a ringraziarla per l’amabile invio del suo bel discorso. L’avevo già letto, ma, non occorre dirlo, sono felice di riceverlo da lei e in un formato che mi permetterà di leggerlo comodamente. Come scrivevo nell’articolo a cui fa una così benevola allusione12, ritengo che le 9 La riforma Bérard, approvata l’11 luglio del 1923, entrerà in vigore in ottobre, ma già il 3 luglio del 1924, due mesi dopo la fine della legislatura, il nuovo Ministro, François Albert, ne decreterà la soppressione. 10 J. Chevalier, Entretiens avec Bergson, cit., p. 43. 11 Ibidem. 12 Les études gréco-latines et l’enseignement secondaire, in Mélanges, cit., pp. 13661379.

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riforme del 1891 e del 1902 rispondessero a una necessità, che il nostro insegnamento classico di un tempo, molto elevato e molto difficile, si indirizzava ad allievi tra i quali molti non avevano né gusto né disposizioni per studi puramente speculativi. Pertanto, era necessario creare per questa categoria di allievi, nel loro interesse come in quello dei loro compagni, un altro liceo. Che si chiamerebbe soltanto “liceo”, mentre il primo sarebbe il “liceo classico”. Questa dissociazione presenterebbe un duplice vantaggio: nel liceo che sarebbe specializzato nell’indirizzo classico, gli studi greci e latini sarebbero rafforzati; nell’altro indirizzo gli studi, pur conservando il carattere elevato e semi-teorico che distingue il livello secondario dal primario, sarebbe orientato nettamente nella direzione delle carriere che lei ha denominato “attive” – commercio, industria, agricoltura, ecc. Resta da sapere, è vero, se questi due insegnamenti debbano concludersi con la stessa prova d’esame. Ma, se si è d’accordo che preparano a carriere differenti, l’omogeneità della prova d’esame diverrebbe inutile. D’altra parte, sarebbe naturale che gli studi greco-latini, destinati a mantenere il contatto dello spirito francese con l’Antichità classica, fossero richiesti da coloro i quali dovranno rappresentare più specialmente agli occhi del mondo lo spirito francese. Si potrebbe benissimo condurli assieme a uno studio approfondito delle scienze e delle lingue vive; basterebbe usare metodi più pratici. Ecco perché sono dell’avviso di imporre la prova del baccellierato classico (in linea di massima) a coloro che mirano all’università e alle carriere liberali. Occorrerebbe, naturalmente, tutto un sistema di deroghe per i giovani i cui gusti e attitudini si sviluppano tardivamente. A parte la questione degli esami, non c’è nulla in tutto ciò, mi sembra, che sia in opposizione con le idee che hanno diretto le riforme del 1891 e del 1902. Ma è certo che queste riforme non sono state comprese dalle famiglie come avrebbero dovuto essere. Le famiglie hanno continuato a considerare il liceo come l’istituzione che prepara esclusivamente, o quasi, all’università e alle carriere liberali. A queste condizioni, ritengo che si abbia il diritto di richiedere agli allievi qualche conoscenza di greco e di latino ed è per questo che approvo i decreti di Léon Bérard. Non vedo altro modo di risalire la china lungo la quale scivoliamo sempre più rapidamente e che condurrebbe direttamente all’abolizione degli studi greco-latini. Già il greco è quasi abbandonato, almeno in provincia: il latino, sempre più debole, sparirà a sua volta se non si presta attenzione. Tali sono, signor Presidente, le ragioni per cui, partito

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da premesse analoghe alle sue, non sono giunto esattamente alla stessa conclusione. Ci tenevo a darle questa spiegazione, giacché mi ha fatto il grande onore di nominarmi e citarmi alla Camera. La verità è che i programmi degli studi devono modellarsi e rimodellarsi secondo le circostanze e che la necessità, divenuta urgente, di portare l’insegnamento tecnico al più elevato grado possibile di efficacia porterà con sé un rimaneggiamento dei tre insegnamenti primario, secondario e superiore (è a preparare questo rimaneggiamento che mirava la mia proposta di fare due categorie di liceo). In attesa che possa essere realizzato un così grande sforzo (e confesso di non potermene fare, con la mia scarsa competenza, se non un’idea molto confusa) mi sembra che dobbiamo impegnarci a non lasciare perdere nulla di quanto abbiamo di eccellente. Orbene accordiamoci tutti, credo, nel riconoscere il valore della cultura greco-latina e la privazione che risulterebbe per noi, per lo spirito francese in generale, della sua scomparsa. È verso questa scomparsa che ci avviamo, lo temo fortemente, se non facciamo uno sforzo serio per arrestare il movimento13.

Oggi, dopo l’avvento della scolarizzazione di massa, la visione di Bergson verrebbe qualificata piuttosto dispregiativamente come “meritocratica”14. Per collocarla nella giusta luce, oltre a contestualizzarla storicamente, va invece riportata a quella valorizzazione dei talenti personali che richiede necessariamente una individualizzazione dei percorsi. Riferendoci all’attualità, potenziare la cosiddetta “formazione terziaria non accademica”, ossia il sistema di istruzione e formazione professionale, da più parti oggi è riproposto come uno strumento decisivo per evitare la dispersione e la marginalizzazione sociale, spesso aggravata dall’aver privilegiato i licei.

13

Lettre à Édouard Herriot, 16 giugno 1923, in Correspondances, cit., pp. 1030-1031. Quello sul ruolo del merito nell’istruzione è un dibattito annoso, recentemente tornato alla ribalta anche grazie a due saggi. Il primo, riferito soprattutto all’area statunitense, è decisamente critico, mentre il secondo ne auspica una maggiore valorizzazione nel sistema italiano: M. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano 2021; R. Abravanel, Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia, Solferino, Milano 2021. 14

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Capitolo nono

Metafisica greca e metafisica positiva: cercare la concretezza del pensiero

Formazione filosofica e “cultura dello stupore”. L’inutilità delle controversie filosofiche. Due modi di intendere la storia della filosofia. Come dovrebbero scrivere i filosofi: la lettera a Constant Bourquin (15 dicembre 1922) L’idea di filosofia elaborata da Bergson trae ispirazione da Cartesio: “Nous pretendons continuer l’oeuvre des cartesiens”, dichiara egli stesso nel 19011. L’affermazione va interpretata alla luce della sua ricerca di una metafisica scientificamente fondata al pari della fisica, una “metafisica positiva”, come egli la definirà. Tuttavia, come chiarisce Henri Gouhier, la differenza radicale rispetto al contesto cartesiano è il modello di scientificità e di evidenza: nel XVII secolo era quello matematico, all’epoca di Bergson vi si affianca quello della biologia, basato sull’osservazione e l’esperienza2. L’idea che sorregge l’etica della ricerca scientifica del filosofo è dunque non avanzare ipotesi che non si possano giustificare attraverso l’esperienza. Questo è il motivo per cui, pur ammirando la cultura e la lingua greca e dichiarando in più occasioni la necessità di non poter prescindere dai filosofi greci, pur confidando la sua preferenza per Plotino, tema dei suoi corsi al Collège de France, Bergson sarà sempre più esplicito nell’attribuirvi quasi una sorta di “peccato originale”, come emerge dalle sue dichiarazioni: “Sono ben lontano dal credere che i filosofi greci ci 1 Le parallélisme psychophysique et la métaphysique positive, Séance de la Société française de philosophie, 2 maggio 1901, in Mélanges, cit., p. 493. 2 Cfr. H. Gouhier, Avant-propos, in H. Bergson, Cours I, cit., p. 7.

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abbiano lasciato in eredità la verità definitiva” e, d’altra parte, “bisogna passare dalla filosofia greca se si pretende di oltrepassarla”3. Come osserva Henri Gouhier, egli, ritenendo che lo sviluppo delle scienze sperimentali dal secolo XIX in poi abbia costituito una svolta, rompe con la tradizione greco-latina, per mettersi alla ricerca di una strada in grado di impostare in modo nuovo i rapporti tra la filosofia e la scienza4. A suo parere, quasi tutta la filosofia greca fino a Plotino si muove nel solco degli Eleati, Parmenide e Zenone, con la conseguenza di aver trasmesso un modello di metafisica non soltanto totalmente avulso dall’esperienza, ma anche ispirato a una capacità di visione, a una intuizione superiore del tutto estranea alle altre facoltà conoscitive5. Fin dal 1903, egli considera questa metafisica una costruzione ipotetica e una sistemazione artificiale di concetti statici, che non riesce a dare ragione del dinamismo essenziale della vita, attestato dall’esperienza6. Per questo egli attribuisce il declino parziale della metafisica alla difficoltà della filosofia di stabilire il contatto con una scienza sempre più frammentata e settoriale7. Di fronte all’alternativa tra due modelli di evidenza, quello che dimostra la verità e quello che mostra la realtà, Bergson sceglie il secondo, ma per ricongiungerli entrambi, mostrando che tra la scienza e la metafisica esiste una continuità, purché la prima non assolutizzi il suo metodo e l’altra non tradisca la sua ispirazione “positiva”, ossia resti fedele all’esperienza8. Nel 1939 scriverà al filosofo Charles Werner, già rettore dell’università di Ginevra:

3 H.

Bergson, Réponse à un article d’E. Borel, gennaio 1908, in Mélanges, cit., p. 757. H. Gouhier, Bergson dans l’histoire de la pensée occidentale, cit., pp. 23 e ss. 5 Cfr. La perception du changement, Oxford 26-27 maggio 1911, in Mélanges, cit., p. 897. 6 “Che non vi siano due maniere differenti di conoscere le cose, che le diverse scienze abbiano la loro radice nella metafisica, è quanto pensarono in generale i filosofi antichi. Non fu questo il loro errore. Consistette nell’ispirarsi sempre a questa credenza, così naturale allo spirito umano, che una variazione possa esprimere e sviluppare solo delle invariabilità. Da qui risultava che l’Azione fosse una Contemplazione affievolita, che la durata una immagine ingannevole e mobile dell’eternità immobile, l’Anima una caduta dell’Idea. Tutta questa filosofia che comincia da Platone fino ad arrivare a Plotino è lo sviluppo di un principio che formuleremmo così: ‘Vi è di più nell’immutabile che in ciò che è in movimento e si passa dallo stabile all’instabile per semplice diminuzione’. Orbene, è il contrario ad essere la verità”. Introduction à la métaphysique, gennaio 1903, in Oeuvres, cit., pp. 1410. 7 Cfr. Ivi, p. 1432. 8 Cfr. Lettera a H.M. Kallen, 28 ottobre 1915, in Mélanges, cit., pp. 1192-1193. 4 Cfr.

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Ciò che mi ha sempre attirato verso i filosofi greci, è l’atmosfera che hanno creato e che mi sembra sia quella dove la filosofia deve vivere; con loro, mi sento a mio agio. Tuttavia, da essi mi separa la convinzione che la perfezione non è uno stato né una cosa, ma una creazione continua, paragonabile (sebbene infinitamente superiore) allo sforzo di un Beethoven, ad esempio, quando compone una sinfonia. Di questo si può veramente dire, in un senso dinamico e non più statico come in Plotino, che è ἐπέκεινα νοὖ9.

La critica è dunque rivolta a una filosofia intesa come spostamento dell’attenzione dalla vita pratica alla pura teoresi, come se l’attività speculativa fosse il contrario dell’agire10. Del resto, in uno dei suoi ultimi interventi, quello al Congrès Descartes del 1937, egli porrà nuovamente in evidenza il grande compito della filosofia per ristabilire l’equilibrio tra il corpo mostruosamente dilatato del progresso tecnico, che ha aggravato le disuguaglianze e l’anima dell’uomo, alla ricerca di energia morale. E indicherà come motto del filosofo e, più in generale, dell’uomo quella che considerava la nota essenziale del cartesianesimo: “il faut agir en homme de pensée et penser en homme d’action”11. Il valore della filosofia nella formazione di abiti intellettuali è dunque per Bergson sempre inseparabile dalla sensibilità nei confronti dell’esperienza e, pertanto, dall’educazione morale. È quanto aveva sottolineato nella già citata discussione alla Societé française de philosophie del 18 dicembre 1902, su Il posto e il carattere della filosofia nell’insegnamento secondario12. Nel suo intervento emerge innanzitutto la convinzione che un insegnamento troppo precoce della filosofia possa comportare il rischio di distogliere gli allievi da questo studio piuttosto che attirarli. Il successo della filosofia, infatti, si dovrebbe proprio al fatto che essa non venga proposta a scuola prima che sia stata raggiunta una certa maturità intellettuale. D’altra parte, a suo parere, pur senza insegnare ancora filosofia, sia possibile grazie ad altre discipline, come ad esempio le scienze naturali, condurre gli allievi a porsi, seppure in forma vaga, qualche 9 Lettre à Charles Werner, 31 maggio 1939, dopo aver ricevuto il libro La philosophie grecque, Payot, Parigi 1938, in Correspondances, cit., p. 1626. 10 La perception du changement, cit., p. 896. 11 Cfr. Mélanges, cit., p. 1579. 12 Cfr. Ivi, pp. 568-571.

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problema filosofico, favorendo in essi un atteggiamento di stupore: “la cultura dello stupore sarebbe il modo migliore di risvegliare progressivamente il desiderio e il bisogno di un’istruzione filosofica”. Inoltre, viene valorizzata la concretezza della filosofia, che ha come oggetto la realtà, mentre le altre scienze di questa stessa realtà prendono in esame soltanto dei “punti di vista”: sono queste le astrazioni, dunque, perché non hanno consistenza separate dall’intero. Per questo, la filosofia, sostiene ancora Bergson, non può essere ridotta a metodologia, anche se è legittimo considerarla anche come teoria di questi “punti di vista”, ossia come “filosofia di”; ma in verità, nel suo senso forte, essa si configura essenzialmente come metafisica e come psicologia, per cui è così che va insegnata. Se la filosofia va intesa come una disciplina efficace e indispensabile per un’autentica formazione intellettuale, non va mai considerata né come uno sterile collezionismo di tesi contrarie su di uno stesso argomento, né come un sapere rigidamente deduttivo nel quale le conseguenze discendono necessariamente dalle premesse, ma neppure come uno sforzo di definizione di idee e principi, che finisce per limitare piuttosto che conferire ampiezza all’intelligenza del reale13. Sono proprio questi i rischi da evitare nel lavoro intellettuale, gli atteggiamenti che una filosofia autentica dovrebbe contribuire a combattere in vista della formazione ad un’intelligenza flessibile e aperta. Le numerose riflessioni che si rinvengono negli scritti di Bergson sul ruolo e sul compito della filosofia si collocano infatti sempre in quest’ottica. Ad esempio, nel discorso sul bon sens, egli considera il lavoro formativo svolto dalla filosofia in stretta continuità con quell’opera di “liberazione delle idee dalle parole” compiuta dalle lingue classiche: “la filosofia continua nella medesima direzione l’opera incominciata. Essa sottopone a critica i principi ultimi del pensiero e dell’azione. Non attribuisce nessun valore alla verità passivamente ricevuta: vuole che ciascuno di noi riconquisti la verità con la riflessione, il merito con lo sforzo, 13 Scrivendo a N. Söderblom, per declinare l’invito a tenere una serie di conferenze a Uppsala sulla questione religiosa, Bergson osserva: “La filosofia, così come io la concepisco, non costituisce un sistema; non permette di risolvere una questione nuova ricorrendo a soluzioni che sono già state fornite da altri problemi; essa esige, per ogni nuovo problema uno sforzo assolutamente nuovo di ricerca materiale e di approfondimento dei fatti, giacché la riflessione filosofica non può realizzare la sua opera se non dopo che il lavoro preparatorio sia terminato”. Lettera a N. Söderblom, 27 luglio 1909, in Correspondances, cit., p. 286.

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e facendola penetrare profondamente in sé, animandola della sua vita, le imprima tanta forza da fecondare il pensiero e dirigere la volontà”14. In un’altra occasione, egli consiglia a Gilbert Maire di non concepire mai lo studio del pensiero filosofico come un’analisi di strutture argomentative, rimanendo tutto sommato all’esterno di quello che è l’essenza dell’autentico filosofare, cioè l’esperienza di vita15. Scrivendo a Loisy, il 15 marzo 1909, esprime chiaramente la sua concezione di storia della filosofia: La storia delle idee sarebbe la più inutile di tutte le storie, se le idee non avessero, di per sé stesse, un valore. Esponevo proprio recentemente ai miei uditori che ogni filosofia, a dispetto della sua apparente complicazione, è un atteggiamento semplice dello spirito e che il compito dello storico è di rafforzare questo atteggiamento con uno sforzo di simpatia: non vi riuscirà mai se non crede alla filosofia16.

La filosofia costituisce, allora, per Bergson un allenamento al pensiero concreto e insieme attento alla complessità, che rifugga dunque sia dalle astrazioni generalizzanti sia dalle riduzioni semplicistiche. L’affermazione di fondo è sempre che la realtà, nella sua ricchezza, è incommensurabile con il nostro pensiero. Ancora nel discorso sul bon sens, egli segnala come costituiscano un pericolo per l’intelligenza non soltanto le idee belle e fatte, ma anche le idee troppo semplici che inducono a facili generalizzazioni, come se tutto funzionasse per un meccanismo di leggi ineluttabili. Il metodo della filosofia autentica, in questo caso, coincide con l’esercizio del bon sens: Ogni grande dottrina filosofica, infatti, si ricollega a dei principi e si fonda su dei fatti, ma non si può né indurla rigorosamente da quei fatti, né dedurla interamente da quei principi, perché ha saputo renderli flessibili. Voi troverete talvolta, nel migliore discepolo di un grande maestro 14

Mélanges, cit., p. 368. “Di un sistema filosofico non guardi tanto…l’armatura, la costruzione logica, quanto piuttosto certi punti essenziali nei quali si rivela l’intuizione fondamentale di cui il sistema non è mai altro che la messa in forma più o meno arbitraria…Abbia sempre di mira il fondo dei sistemi, le esperienze umane che racchiudono”. R.M. Mossé-Bastide, op. cit., p. 286. 16 Lettera a Loisy, 15 marzo 1909, in Correspondances, cit., pp. 252-253. Scritta per ringraziarlo di avergli fatto conoscere in anticipo la sua Leçon d’ouverture du cours d’Histoire des religions au Collège de France, 24 avril 1909, Nourry, Paris 1909. 15

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un’esposizione più sistematica della dottrina, nonché l’apparenza di una chiarezza superiore. È appunto perché egli ha seguito fino in fondo, con la sua logica più astratta e più semplice, le idee dominanti del sistema. Ma occorre risalire all’opera del maestro per entrare in comunicazione con la sua logica personale e profonda, modellata sul reale, elastica come la vita e capace, come la natura, di presentare elementi sempre nuovi al nostro pensiero che vorrebbe vanamente esaurirne l’analisi. Ebbene, questa facoltà mi sembra che sia effettivamente, in ambito speculativo, ciò che il buon senso è nella vita pratica17.

Del resto, Bergson stesso, nelle sue indagini filosofiche, ci ha fornito un esempio di questo metodo, che egli vuole “rigorosamente modellato sull’esperienza”, tale da conferire alla filosofia “una certezza non meno completa e delle conclusioni non meno solide di quelle della scienza positiva”18. Ma questa positività non mira a ridurre la realtà ai suoi aspetti misurabili per dominarla, come volevano i positivisti, quanto piuttosto a metterne in luce tutta la ricchezza: per questo la filosofia è sempre creativa e mai ripetitiva nella sua ricerca della verità. Trasformarla nel semplice riflesso delle idee dominanti significherebbe snaturarla, come affermerà più tardi, nel 1934: Vorrebbe dire che ogni verità è già virtualmente contenuta, che il suo modello è già depositato nelle cartelle amministrative della città e che la filosofia è un gioco di puzzle in cui si tratta di ricostruire, con dei pezzi che la società ci fornisce, il disegno che essa non vuole mostrarci. Tanto varrebbe assegnare alla filosofia il ruolo e l’attività dello scolaro, che cerca la soluzione sapendo che un colpo d’occhio indiscreto gliela mostrerebbe, annotata sotto l’enunciato, nel quaderno del maestro. Ma la verità è che si tratta, in filosofia e anche altrove, di trovare il problema e conseguentemente di porlo, ancor più che di risolverlo. Perché un problema speculativo è ben risolto non appena è ben posto. Con ciò intendo dire che la soluzione di esso esiste allora da subito, anche se può rimanere nascosta e, per così dire, coperta: non resta altro che scoprirla19. 17

Mélanges, cit., p. 370. Allocution à une conférence du pasteur Hollard, 14 maggio 1911, in Mélanges, cit, p. 887. 19 La pensée et le mouvant, in Oeuvres, cit., pp. 1292-1293. 18

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Questo è il motivo per cui la “cultura dello stupore” è ritenuta propedeutica alla filosofia: lo stupore di fronte alla novità del reale, all’imprevedibilità del corso della vita, al dinamismo sempre diverso della libertà. Ma per educare allo stupore occorre aiutare a rinunciare alla sicurezza di un sapere già pronto, delle idee preconcette, facendo in modo che si corra il rischio appassionante della scoperta della verità: è una buona preparazione alla filosofia e allo stesso tempo è già, in un certo senso, filosofia. Può darsi che in tale sfida non tutti accettino il rischio e, forse con un po’ di rammarico, a questo alludeva Bergson, in uno dei suoi ultimi scritti: “Filosofare sarebbe facile se le idee belle e fatte non venissero continuamente a frapporsi tra il nostro spirito e le cose”20. In due lettere indirizzate a Giuseppe Prezzolini, ha l’occasione ancora una volta di puntualizzare la necessità di precisione nel discorso filosofico e l’intenzione di non trasformarlo in una dialettica tra idee contrapposte. Così scrive al filosofo italiano, il 12 luglio 1909: Ho sempre distinto tra l’arte, che suggerisce e la scienza, che esprime. La prima non distrugge la continuità del suo oggetto […]. In filosofia, il linguaggio ha un triplice ruolo: 1. Scartare gli errori che nascono dall’abuso dei concetti e di conseguenza del linguaggio (occorre infatti servirsi del linguaggio per segnalare gli errori del linguaggio), 2. Suggerire la vera soluzione. Il linguaggio, ancora una volta, non è affatto inadeguato a dare questa suggestione; esprimere tutta la dimensione scientifica della ricerca, tutto ciò che prepara l’intuizione. Espressione e suggestione non sono la stessa cosa. Esprimere significa utilizzare la parola per lo scopo per cui è fatta (essa è fatta per dare al pensiero un comodo sostituto, su cui l’attenzione si possa fissare senza inconveniente pratico per il pensiero stesso). Al contrario, suggerire consiste nel volgere la parola contro lo scopo per cui essa è fatta; è servirsi della parola, che è un simbolo, per condurre lo spirito a pensare indefinitamente senza simboli. Per questo, è necessaria una vera e propria arte e quest’arte forma parte integrante della filosofia21. 20

Une pensée de Bergson, 1939, in Mélanges, cit., p. 1591. Lettera a G. Prezzolini, 12 luglio 1909, in Correspondances, cit., pp. 273-274. È un commento al saggio di Prezzolini Del linguaggio come causa di errore: H. Bergson, Firenze, Spinelli 1904 o anche a La filosofia di Enrico Bergson, “Estratto dalla Rassegna Contemporanea”, a. I, n. 11, Rocca San Casciano, Stabilimento Tipografico Cappelli, 1908. 21

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In un’altra lettera a Prezzolini, del 24 luglio 1909, declinando la proposta di pubblicare una sua lettera, si sofferma sull’inutilità delle controversie filosofiche: In linea generale, non sono favorevole alla controversia pubblica in materia di filosofia pura. Quando un autore ha pubblicato un libro lungamente meditato o espone le sue ragioni e coloro che non pensano come lui hanno indicato, in altri libri o in delle riviste, i motivi che possono avere di pensare diversamente, il dibattito è chiuso: spetta al pubblico farsi un’opinione. Mi sembra che qualsiasi discussione ulteriore rischi di nuocere alla causa della verità, innanzitutto perché mette in scena le persone a detrimento delle idee, inoltre e soprattutto perché forza l’autore a precisare troppo presto il suo pensiero su diversi punti, a precisarlo con uno sforzo puramente dialettico e artificiale, mentre è grazie a un’esperienza graduale e a una maturazione naturale che le idee dovrebbero precisarsi. Alla luce di tutto ciò non ho risposto ai miei contraddittori, salvo quando mi sembrava che avessero commesso errori materiali o controsensi che rischiavano di diffondersi: tuttavia, più di una volta mi è successo, anche in questo caso, di non replicare22.

La necessità di non smarrire in filosofia il legame tra teoria ed esperienza, tra pensiero e azione, la preoccupazione per la precisione sono i motivi che spingono Bergson a una sorveglianza molto attenta sull’uso del linguaggio filosofico, che d’altra parte non deve mai decadere nel tecnicismo. A questo proposito è interessante la sua risposta a un questionario rivolto a una serie di filosofi da parte di Constant Bourquin, sul tema “Comment doivent écrire les philosophes? Ce qu’en pensent…”23. Con questo scritto Bergson concede esplicitamente una 22 Lettera a G. Prezzolini, 24 luglio 1909, in Correspondances, cit., p. 282. Nel 1913, ribadirà la stessa convinzione: “Ritengo che il tempo consacrato alla confutazione in filosofia sia, generalmente, tempo perso. Di tante obiezioni sollevate da altrettanti pensatori, gli uni contro gli altri, cosa resta? Nulla o poca cosa. Ciò che conta e ciò che rimane è quello che abbiamo trasmesso di verità positiva: l’affermazione vera si sostituisce all’idea falsa in virtù della sua forza intrinseca e si trova ad essere, senza che si sia presi la briga di confutare nessuno, la migliore confutazione”. Fantômes de vivants, cit., in Mélanges, pp. 1003-1004. Anche in una lettera a Ralph Tyler Flewelling (1871-1960), del 15 settembre 1937, ribadirà la stessa convinzione: “Ho seri dubbi sull’utilità della controversia in filosofia”. Correspondances, cit., pp. 1576-1577. 23 “Monde Nouveau”, 4 serie, n. 25, 15 dicembre 1922, pp. 228-233. Inchiesta pubblicata successivamente in C. Bourquin (a cura di), Comment doivent écrire les philosophes?: ce

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deroga alla sua norma abituale di non rispondere mai ai questionari: adducendo come motivo il fatto che ci si rende ben poco conto delle condizioni in cui il filosofo è obbligato a lavorare, egli afferma “colgo volentieri l’occasione di dirne una parola”. Riportiamo la lettera quasi integralmente, perché riflette le tesi sostenute da Bergson già nel 1901, all’esordio del dibattito sul dizionario filosofico nella Societé Française de philosophie, quando insisteva sulla ricchezza del lessico filosofico e sull’impossibilità di rinchiudere la novità del pensiero in formule rigide e fisse. Uno stesso termine può dilatarsi ad accogliere molteplici significati, in quanto “non circoscrive tanto una cosa quanto un problema”. Non occorre, pertanto, moltiplicare i termini, ma piuttosto penetrare nella dottrina del filosofo che li utilizza e ricostruirne lo spessore. Allo stesso tempo, occorre fuggire dai tecnicismi che rendono la filosofia materia per iniziati, sebbene molto spesso la pretesa oscurità del linguaggio di un filosofo si debba al fatto che si è rimasti estranei al suo pensiero24. Ci sono problemi generali che interessano tutti. Un filosofo deve essere in grado di trattarli nella lingua di tutti. Ci sarà forse difficoltà a impiegare solo termini consueti; ma se egli ha spinto fino in fondo l’analisi del suo pensiero, se lo ha di conseguenza risolto in elementi semplici, troverà sempre nella lingua comune delle parole da mettere su ciascuno di essi. Talvolta, indubbiamente, dovrà far deviare la parola dal suo senso abituale: la accosterà allora ad altri, capaci di condurla verso un nuovo significato. Dello sforzo che avrà dovuto fare sarà d’altronde il primo a trarre profitto; la lingua stessa, più tardi, ne beneficerà. Questa preoccupazione di rivolgersi a tutti nelle grandi occasioni, parlando naturalmente la lingua di tutti, è caratteristica della filosofia francese. L’esempio di Descartes, Malebranche e molti altri viene a provare che si possono tradurre idee molto sottili, molto profonde in termini di senso comune. Ma vi sono evidentemente altri problemi più vasti: dovere, significato della vita, struttura generale dello spirito, funzioni essenziali del pensiero, posto dell’uomo nella natura, ecc. La soluzione di questi problemi qu’en pensent Henri Bergson, André Lalande, Ernest Seillière, Antoine Albalat, Gustave Belot, Julien Benda [etc.], Editions du Monde Nouveau, Paris 1923. 24 Lettera a Constant Bourquin, 15 dicembre 1922, in Correspondances, cit., pp. 9971004. Cfr. C. Bourquin, Comment doivent écrire les philosophes?, cit., p. 166.

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più generali è subordinata a quella di questioni speciali, che interessano solo i filosofi e gli studiosi. Queste questioni speciali emergono sempre, da qualche parte, nella storia della filosofia, nella logica o nella teoria della conoscenza, nella psicologia, nella patologia dello spirito, nelle scienze biologiche, fisiche, matematiche, ecc. Qui si deve ricorrere a espressioni tecniche, a meno di non entrare in spiegazioni molto lunghe che non importano al lettore, che ne è al corrente. Non conosco l’articolo di Albalat25, ma le espressioni che lei cita come oggetto della sua critica, da me stesso impiegate, sono proprio quelle che devono evocare nello spirito del lettore competente una tesi conosciuta, una teoria più o meno complessa, tutto un insieme di ricerche un tempo approdate a un certo risultato. Aprire ogni volta una parentesi per ritornare su ciascuno di questi punti sarebbe inutile e d’altra parte insopportabile: si romperebbe la continuità dello sviluppo. È sufficiente un’allusione. Il termine tecnico, forgiato all’occorrenza per la circostanza, è questa allusione. Evidentemente, non se ne deve abusare. Ma il limite tra l’uso e l’abuso è facile da tracciare: per quanto i termini tecnici possano pure essere numerosi, ma saranno al loro posto se il lettore sufficientemente istruito, sufficientemente esercitato nella riflessione filosofica, non si accorge della loro presenza. Quelli che nota non dovrebbero esserci. Per la prosa filosofica vale come per ogni altra prosa e per la prosa in generale vale come per tutte le altre arti: l’espressione perfetta è quella venuta in modo così naturale o piuttosto così necessario, in virtù di una così imperiosa destinazione, che non ci fermiamo ad essa e andiamo direttamente a ciò che ha voluto esprimere, come se questa si confondesse con l’idea: diviene invisibile a forza di essere trasparente26. Se dei termini tecnici possono così farci dimenticare la loro tecnicità, viceversa dei termini consueti ci sembreranno inusuali se ci arrestano, se non svaniscono rapidamente davanti all’idea. Ho ascoltato lettori neofiti lamentarsi dell’oscurità di un filosofo e criticare l’astrusità del suo vocabolario. Li sorprendevo molto quando facevo notare, rileggendo con loro la pagina incriminata, che essa era scritta in lingua corrente. Avevano creduto di trovarsi davanti a parole estranee, perché erano 25 Antoine Albalat,

autore di pubblicazioni sull’arte di scrivere. Secondo Bergson l’uso di un linguaggio tecnico, di un argot è abbastanza recente e non ha mai contraddistinto i grandi filosofi, che hanno detto ciò che intendevano dire esprimendosi “con la lingua di tutti”. Discours au Comité France-Amérique, 8 aprile 1913, in Mélanges, pp. 999-1000. 26

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rimasti estranei al pensiero. L’autore avrebbe potuto dire con Ovidio: Barbarus hic ego sum, quia non intelligor illis!27 Ecco il primo punto. Arrivo ora alla domanda circa il sapere se bisogna “regolarizzare il linguaggio filosofico”. C’è evidentemente una quantità di casi da esaminare e di distinzioni da fare. Impossibile passarli in rassegna; s’impone scegliere bene. Si dà il caso che lei citi, nel suo questionario, due specie di parole: 1. i termini in ismo, come realismo, idealismo, intellettualismo, razionalismo, ecc.; 2. quelli che designano funzioni dello spirito o lo spirito stesso (ragione, intuizione, anima, ecc.). Mi atterrò, se volete, a queste due categorie di esempi. Le parole in ismo sono incontestabilmente vaghe. Ha ragione nel dire che si intendono con “idealismo” cose ben differenti, persino opposte su determinati punti. Ma che farci? Il termine in ismo designa una tendenza, una direzione del pensiero seguita da un filosofo, più precisamente un punto di vista sulla sua dottrina. O bisogna rinunciare a nominare le tendenze, le direzioni del pensiero, i punti di vista, o bisogna rassegnarsi a restare nel vago; perché, a seconda che si segua una direzione di pensiero più o meno lontana, si ottengono dottrine differenti; e a seconda che si adotti un punto di vista o un altro, non si vede nello stesso modo la stessa dottrina. Così, per prendere l’esempio che cita, si chiamerà idealista la filosofia di Platone e idealista anche la filosofia di Berkeley, malgrado la distanza che le separa. Come pure si farà della filosofia di Platone un realismo, dopo averla denominata idealismo, quando la si considererà da un altro versante, o meglio quando la si guarderà da un altro punto di vista. Lei chiede se non sarebbe meglio riservare il nome di idealismo ala filosofia di Berkeley e chiamare allora realismo quella di Platone? Non vedrei alcun inconveniente, da parte mia, a che non siano chiamati idealisti né l’uno né l’altro, realisti né l’uno né l’altro. Più si approfondirà Platone, Berkeley e ogni altro vero filosofo, meno si avrà voglia di assegnare loro questi attributi e di farli entrare dentro queste categorie. Ma se si conservano termini come realismo e idealismo e se si intende farne uso nel caso attuale, allora bisognerà necessariamente chiamare idealismo la dottrina di Platone così come quella di Berkeley, giacché queste due filosofie, considerate da un certo punto di vista, segnano una stessa direzione di pensiero. L’idealismo puro di Berkeley, prolungato, può condurre all’idealismo realista di Platone. Ne è prova il 27

Ovidio, Tristia, V, 10, v. 37.

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fatto che ha condotto fin lì Berkeley stesso. Partito dalla prima dottrina, presentata nei Principi della conoscenza umana, nei Dialoghi tra Hylas e Philonous, ecc. Berkeley è arrivato alla seconda, che espone nella Siris. Dall’una all’altra c’è stata continuità di sviluppo, come si è detto più di una volta, come ho mostrato in dettaglio in un corso di due anni, che ho svolto al Collège de France sulla filosofia di Berkeley28. Sono proprio due specie di idealismo. Non vedo dunque granché da fare per i termini in ismo. Lasciamoli come sono, se non vogliamo sopprimerli, il che sarebbe però ugualmente un danno per alcuni di essi: “meccanicismo” e “dinamismo”, per esempio, hanno una relativa precisione e rendono inestimabili servizi (sebbene “dinamismo” già inizi a logorarsi). Ma non dimentichiamo che i migliori tra questi termini sono appena passabili e che occorre sempre diffidare di essi. Esaminiamo “panteismo”, ad esempio. Leggermente peggiorativo, serve il più delle volte –come del resto “misticismo” – a designare ogni filosofia che non si ama e di cui ci si vorrebbe sbarazzare senza doverla discutere. Non gliene voglio abbastanza per chiederne l’esecuzione; ma se morisse di morte naturale, non gli verserei una lacrima di rimpianto. Passo agli esempi del secondo genere. Si tratta questa volta di termini che designano determinate facoltà dello spirito, o lo spirito stesso: ragione, intuizione, anima. Questi mi guarderei dal denigrarli. Non si saprebbe come farne a meno. Riconosco d’altronde che ciascuno di essi è preso dai filosofi in più di un senso. Ma è inevitabile; e il difetto non è nella parola, ma nell’oggetto. Mi attengo all’esempio che ha scelto. “La ragione, lei chiede, è una facoltà rivelatrice di verità necessarie ed eterne, o una forma attraverso cui appare il dato?”. È chiaro che sarà questo o quello o molte altre cose, a seconda del modo in cui si rappresenta la struttura e il meccanismo del pensiero. Ma il filosofo dirà sempre che è la ragione, utilizzerà sempre la stessa parola, perché si tratta sempre, se posso esprimermi così, della stessa faccenda. In tutti i casi, in effetti, il filosofo si trova alla presenza di ciò che c’è di essenziale nel pensiero, di ciò che “condiziona”, come egli dice, l’insieme della conoscenza. Solo che questa funzione essenziale non è vista, compresa, definita in tutti i casi allo stesso modo: le soluzioni differiscono. Esse avranno un bel differire, nondimeno esse 28

Il Corso fu tenuto nel 1907-1908. Cfr. Mélanges, cit., p. 748.

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si riferiranno allo stesso problema ed è perché il filosofo utilizzerà la stessa parola: ai suoi occhi, in effetti, un termine come “ragione” non circoscrive tanto una cosa quanto un problema. Mi dirà forse che non è così per l’uomo comune? Si chiamerà ragione, nel linguaggio corrente, la funzione per eccellenza dello spirito umano, quella che caratterizza l’uomo. È proprio questo ciò che è la ragione per il filosofo stesso, come ho appena ricordato. Solo che, mentre il senso comune si ferma qui e prende come soluzione di un problema ciò che ne è tutt’al più l’enunciato, il filosofo cerca la soluzione, intendo dire una definizione che sia un’analisi; e non c’è analisi possibile, in simile materia, senza la scelta di un punto di vista, senza ipotesi, senza teoria. Ecco perché la parola ragione, che non ha che un solo e identico significato per tutti i filosofi all’inizio della loro ricerca, ne avrà parecchi alla fine, quasi tanti quante saranno le filosofie. Lei vorrebbe, per tutti questi significati, delle parole differenti? Non vedo molto bene a cosa servirebbero, salvo forse a dare una facilità in più agli incompetenti per parlare di ciò che ignorano. Sarà sempre necessario, per comprendere questi significati che sono soluzioni, rivolgersi ai filosofi che li hanno proposti, leggere le loro opere o conoscere almeno una sintesi delle loro dottrine; e colui che si è preso la briga di fare questo lavoro sarà generalmente in condizione di riconoscere, con un semplice colpo d’occhio gettato su una pagina di filosofia, il senso che l’autore vi dà alla parola “ragione”. Oppure vuol dire che la pagina è mal scritta. Una molteplicità di parole non presenterebbe dunque un grande vantaggio; e avrebbe l’inconveniente grave di non mantenere visibile a tutti, saggi e ignoranti, al di là della molteplicità di soluzioni, l’unità del problema. A dire il vero, le difficoltà che si incontrano nel corso di una lettura filosofica raramente riguardano il vocabolario, sebbene, quasi sempre, è al vocabolario che le si attribuisca. È inutile e sarebbe d’altronde spesso impossibile al filosofo cominciare col definire –come alcuni gli chiedono – il nuovo significato che egli attribuirà a un termine usuale, perché ogni suo studio, tutti gli sviluppi che sta per presentarci avranno per oggetto analizzare e ricostituire con esattezza e precisione la cosa che questo termine designa vagamente agli occhi del senso comune; e la definizione, in simile materia, non può essere che questa analisi o questa sintesi; non potrebbe ridursi in una formula semplice. Partito da un significato che non ha bisogno di definire, perché è quello che tutti conoscono, il filosofo giunge a un significato che ha perfettamente

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definito, se è padrone del suo pensiero: la sua esposizione è appunto questa definizione. Altri esempi avrebbero dato luogo a osservazioni differenti, ma a conclusioni analoghe. Così come un’altra domanda avrebbe potuto essere sollevata, alla quale avrei dato la stessa risposta. Lei in effetti parla solo della diversità dei significati nel caso in cui la stessa parola è usata da filosofi differenti: è qui, per molti, una pietra di scandalo. Ma che scandalo ancora più grande di questo: la stessa parola presa in sensi differenti dallo stesso filosofo! Cosa curiosa: i filosofi che hanno maggiormente meritato questo rimprovero sono i maestri, coloro che hanno introdotto concetti nuovi nel mondo del pensiero: un Aristotele, uno Spinoza. La distinzione aristotelica della “potenza” e dell’“atto”, della “materia” e della “forma” ha impregnato il pensiero umano nel corso dei secoli, noi ne siamo ancora penetrati: o l’enumerazione, tanto per fare un esempio, dei significati che Aristotele dà alla sola parola “potenza” riempie quattro colonne in-quarto dell’Index Aristotelicus; si potrebbe fare un’analoga constatazione per gli altri tre termini. L’intero spinozismo riposa sulla distinzione dell’“essenza” e dell’“esistenza”. Orbene, si potrebbe scrivere un libro (effettivamente è stato scritto) sui vari significati, talvolta a stento compatibili tra loro, che Spinoza dà a “essenza” e a “esistenza”. Si dirà che sarebbe stato preferibile rimpiazzare ciascuno di questi termini con un certo numero di altri? Era impossibile, perché laddove c’è la stessa parola, in fondo, si tratta della stessa cosa. Se questa cosa non può rinchiudersi dentro una formula, come un grafico costruito dal nostro spirito e definito da un’equazione, se il pensatore ha dovuto girarvi attorno e attaccarla su un gran numero di punti, scavando di volta in volta nelle varie direzioni e non arrivando necessariamente a un centro, è un inconveniente per una logica troppo semplice, ma non per un pensiero che vuole rendersi flessibile, dilatarsi, modellarsi sulla realtà. Un immenso sforzo è stato tentato, un bell’esempio ci è stato dato: da lontano, nella misura delle nostre forze, cercheremo di seguirlo. Alcuni preferiranno sempre a un’impresa così difficile un lavoro più agevole, che consiste nel costruire un’imitazione artificiale e superficiale delle cose con idee semplici. Essi potranno anche non comprenderne e non ammetterne altri. Invidiamo la loro tranquillità e continuiamo il nostro sforzo. Mi sono limitato alle sue due categorie di esempi. Occorrerebbe, per completezza, passare in rassegna tutte le parole di un lessico filosofico.

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Ma ci si renderà conto allora che i termini propriamente tecnici sul cui significato non si è d’accordo sono molto più numerosi: laddove la parola comporta diverse accezioni, si deve generalmente, come nei casi che abbiamo appena esaminato, a cause profonde. Sono dunque dell’avviso, anche su questo punto, di lasciare le cose come stanno. Questa è la mia conclusione. Ma parlavo di un lessico. Questo conduce alla sua ultima domanda. Lei chiede se “un congresso di filosofia non potrebbe prevedere l’istituzione di un vocabolario filosofico, le cui sentenze fossero di autorità”? A dire il vero, noi possediamo un vocabolario filosofico di tal genere quasi completo (manca soltanto, credo, l’ultimo fascicolo29): è quello che André Lalande ha redatto con il contributo dei membri e corrispondenti della Societé française de philosophie. La società, aumentata con i suoi corrispondenti, costituisce ciò che chiamerei un congresso virtuale, permanente, insediato da circa vent’anni. Lalande le sottopone, di anno in anno, i risultati del suo notevole lavoro: i membri e i corrispondenti gli sottopongono, a loro volta, le loro osservazioni. Così è stato elaborato un dizionario che è giusto ciò che lei chiede. Tuttavia, non proprio esattamente, perché non rilascia sentenze. Ma non credo in verità che ci sia bisogno di rilasciare sentenze in simile materia. È già molto enumerare i significati dati a un termine dai filosofi, classificarli, definirli nella misura del possibile; inoltre la definizione assumerà il suo senso pieno e completo solo per coloro che conoscono le dottrine filosofiche. Niente potrà supplire la lettura dei filosofi. La prego di accogliere i miei più distinti saluti. H. Bergson

29 L’ultimo fascicolo del Lalande, pubblicato nel febbraio del 1922, è il 21°, relativo alla lettere U-Z.

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Capitolo decimo

Volontà e intelligenza nello sviluppo delle virtù intellettuali

L’attenzione come virtù intellettuale e morale. Attenzione spontanea e attenzione volontaria. La “pedagogia dello sforzo”: una pedagogia eroica? Come già accennato, l’ultimo contatto diretto di Bergson con l’insegnamento secondario sarà il discorso agli allievi del liceo Voltaire, pronunciato il 31 luglio 1902, in occasione della distribuzione dei premi di fine anno. Pubblicato inizialmente senza titolo, poi, nella pubblicazione del 1914 identificato come De l’intelligence, è significativo che venisse indicato con le parole iniziali, La puissance créatrice de l’effort, perché quello che sembra, in prima battuta, un discorso sull’intelligenza, è in realtà un discorso sulla forza di volontà o, perlomeno, su come la volontà può agire sull’intelligenza. Nel discorso, compaiono alcuni punti chiave che troveranno ulteriore sviluppo nella successiva riflessione di Bergson. Innanzitutto, la nozione di effort, di sforzo, che è in stretta relazione con la capacità di orientare e usare in un certo modo l’intelligenza. Si è già osservato che la nozione di intelligenza nel pensiero bergsoniano, soprattutto in quello maturo, indica la capacità di scomporre, di andare dal tutto alle parti, di utilizzare le cose in vista delle proprie necessità, di stabilire rapporti tra le cose più che di conoscere le cose in sé stesse, per cui il suo procedimento ha un che di meccanico e rimane esterno, cogliendo solo la forma del reale ed esprimendola attraverso simboli. L’intelligenza deve dunque completarsi con un’altra facoltà, 116

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quella dell’intuizione, che è invece capace di cogliere l’interno delle cose, di andare al fondamento, ai principi, facendo anche a meno del linguaggio simbolico e preferendogli spesso quello delle immagini. Nel discorso De l’intelligence, Bergson utilizza invece il termine intelligenza senza tener conto di questa distinzione, riferendolo all’esercizio puro e semplice del pensare, nei suoi due aspetti del ragionamento e dell’intuizione, come chiarirà egli stesso in una nota esplicativa aggiunta all’edizione del 1914: La parola intelligenza designa, in questo discorso, la facoltà generale di pensare e di conoscere, facoltà che, come ho cercato di dimostrare altrove, doveva scomporsi in intelligenza propriamente detta e intuizione. “Intelligenza” e “intuizione” sono due funzioni che differiscono profondamente, sia per il meccanismo che per l’origine; ma esse collaborano insieme nell’atto di pensiero; ed è nel senso di “pensiero” in generale che si intende la parola intelligenza quando non si mira alla precisione1.

Quando, dunque, egli si riferisce allo sforzo (effort), intende quell’impegno della volontà per liberare l’intelligenza, nella sua duplice valenza, da quegli atteggiamenti che le impediscono un approccio alla realtà nella sua completezza e profondità. Egli vede, dunque, in una scarsa comprensione del reale non tanto, o perlomeno non solo, un difetto dell’intelligenza, quanto piuttosto un effort debole, ossia una insufficiente azione della volontà, che non è riuscita a condurre l’intelligenza ad un tale grado di concentrazione da consentirle di cogliere la realtà in tutte le sue sfumature. Egli cita, a questo proposito un ricordo personale, di un compagno di liceo pessimo studente, ripetutamente bocciato, che invece, una volta intrapresa la facoltà di medicina, si era dedicato a questi studi con tale concentrazione da divenire poi un ottimo medico. Si potrebbe dire, nota Bergson, che “era divenuto intelligente”: in realtà, non aveva fatto altro che finalmente fissare in un solo punto le sue energie intellettuali e soprattutto la sua attenzione, fino ad allora distratta, riuscendo a diventare ciò che voleva essere. Pertanto, dal punto di vista pedagogico, una corretta formazione dell’intelligenza, esige necessariamente un lavoro parallelo sulla 1

Mélanges, cit., p. 553.

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volontà, influendo su quelle che sono state comunemente definite le motivazioni. Richiede tuttavia anche in chi educa una nozione esatta di intelligenza, la quale non solo non va confusa con il possesso superficiale di alcune abilità, come la facilità di parola o una certa agilità intellettuale, ma neanche va ritenuta una dote del tutto naturale, che, come un seme, viene sparso dal capriccio del vento. Con queste premesse, si rischierebbe di formare alla verbosità piuttosto che alla profondità e il risultato sarebbe quell’homo loquax, che Bergson descrive in uno scritto successivo, “il cui pensiero, quando egli pensa, non è che una riflessione sulla sua parola”2. Non è autentica formazione dell’intelligenza neppure l’esasperata attenzione alla formazione di una mentalità critica, prima che si sia messi in grado di cogliere la realtà così com’è, nei suoi diversi aspetti e nelle sue varie sfumature. Magari si sarà stimolata la capacità di confronto, di giudizio, ma il termine di paragone sarà uno schema mentale, un’idea preconcetta, se non addirittura un’opinione corrente o utile dal punto di vista sociale, che non può fornirci una visione autentica delle cose. Questa impostazione pedagogica potrebbe favorire un atteggiamento frequente anche in qualche intellettuale, “abile a parlare, pronto a criticare”, attento non alla realtà in sé, ma alla sua ricostruzione mentale, visto che “il suo ruolo non è di lavorare sulla cosa, ma di apprezzare quello che qualcuno ne ha detto”. Pur limitando la sua competenza a temi ben precisi, si arroga il diritto di opinare e di criticare su tutto. Bergson aggiunge una osservazione che anticipa sorprendentemente la moda tutta recente dei talk-show e dei dibattiti mediatici: è abituale andare a consultare su un punto difficile uomini incompetenti, perché sono giunti alla notorietà per le loro competenze in tutt’altre materie. Si favorisce così in loro e soprattutto si rafforza nello spirito del pubblico, l’idea che esiste una facoltà generale di conoscere le cose senza averle studiate, una ‘intelligenza’ che non è né semplicemente l’abitudine di maneggiare nella conversazione i concetti utili alla vita sociale, né la funzione matematica dello spirito, ma una certa capacità di ottenere dai concetti sociali la conoscenza del reale combinandoli più o meno abilmente tra loro3. 2 3

La pensée et le mouvant. Introduction. De la position des problèmes, 1922, cit., p. 1325. Ibidem.

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Per il filosofo, non si può spacciare per intelligenza la semplice destrezza, in quanto solo un prolungato sforzo di attenzione, concentrato su oggetti ben concreti e definiti, è capace di fornire una “visione diretta, che squarcia il velo delle parole”4. L’intelligenza autentica è “un adattamento preciso dello spirito al suo oggetto, un adeguamento perfetto dell’attenzione, una certa tensione interiore che ci dà al momento desiderato la forza necessaria per cogliere prontamente, stringere vigorosamente, trattenere durevolmente”5. Pertanto, è fondamentale il ruolo della volontà, che deve ottenere dall’intelligenza l’attenzione necessaria per comprendere e dunque combattere i due atteggiamenti a questo contrari, che sono la distrazione e l’abitudine. Mentre nel trattare del bon sens Bergson aveva riferito la distrazione prevalentemente all’automatismo e all’abitudine, in questo discorso pone l’accento sul valore dell’attenzione e della concentrazione. Egli nota come l’uomo a differenza dell’animale, che è “il grande distratto della natura”, sia capace di raccogliersi in sé stesso e di concentrarsi, orientando la sua attenzione alle realtà della vita; che forse ciò che distingue l’uomo mediocre dall’uomo superiore è proprio una maggiore capacità di concentrazione, grazie a uno sforzo che consente un grado maggiore di penetrazione nel reale. Il tema dell’attenzione era già stato oggetto di una trattazione speciale in una lezione del corso di Psicologia tenuto dal filosofo al liceo Henri-IV, durante l’anno scolastico 1892-1893. Opposta alla distrazione e alla dispersione, l’attenzione nel suo processo presenta un duplice aspetto: negativo e inibitorio, in quanto restringe e limita il campo dell’attività intellettuale; positivo, giacché, restringendo quest’ambito, ne aumenta l’intensità e la chiarezza. Ogni impegno intelligente per uno scopo implica uno sforzo di attenzione. Ci si rende conto che maggiore è tale sforzo, più ordinato e più coerente è il risultato. L’attenzione interviene dunque per rendere l’attività intellettuale sistematica. In questo senso lo sforzo di attenzione sarà tanto più evidente quanto più il risultato ottenuto porterà l’impronta dello spirito di sistema. Attenzione significa qui organizzazione. Si potrebbe quindi riassumere questa descrizione dell’attenzione e dei 4 5

Ibidem, p. 1324. Mélanges, cit., p. 557.

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suoi effetti dicendo che l’attenzione ha il ruolo di elevare alla sua più alta potenza l’attività intellettuale, innanzitutto concentrandola su un oggetto, il che dà all’idea unica una maggiore intensità; poi sostituendo al disordine dei molteplici oggetti esaminati di volta in volta come si presentano, un ordine rigoroso retto da una sola idea. L’attenzione assicura alla vita intellettuale una unità superiore6.

Il genio, dunque, non è per il filosofo un dono di natura, ma “è soprattutto attenzione”7. Potremmo definire quest’ultima una virtù intellettuale, ma anche morale, nella quale gioca un ruolo fondamentale la passione o emozione che per Bergson, come sarà evidente anche ne Les deux sources, è una forma di volontà8. D’altra parte, tra genio e attenzione vi è un rapporto circolare. Osserverà più tardi, in una lezione al Collège de France, che “il genio non è che una lunga pazienza, ossia un’attenzione a lungo continuata”, ma anche, citando W. James, che “una maggiore capacità di attenzione è l’effetto del genio”9. Concepita come l’azione della volontà sull’intelligenza, per Bergson, essa ha un ruolo fondamentale non soltanto nella conoscenza, ma anche nella morale e nell’arte, insomma in tutte le manifestazioni dello spirito umano. Ma come può la volontà fecondare l’intelligenza? È la domanda che il filosofo si pone fin dai corsi di Clermont, ma anche in Matière et Mémoire e nelle lezioni al Collège de France, soffermandosi sull’aspetto sensoriale e intellettuale dell’attenzione, in dialogo critico con coloro che avevano trattato il tema: da Condillac a Wundt, Maudsley, Maine de Biran, Ribot e soprattutto James. Per Bergson, tra l’attenzione spontanea e l’attenzione volontaria c’è una differenza non soltanto di grado, ma di natura, che rende l’una quasi l’opposto dell’altra. La prima, infatti, possiede una certa passività rispetto al contenuto della sensazione che si sofferma ad analizzare. Al contrario, l’attenzione volontaria è feconda, implica una concentrazione che è coordinamento e sintesi delle percezioni e delle idee. Altrettanto e ancor più opposta all’attenzione volontaria è la riflessione, che è un ritorno su sé stessi per discernere ciò che si prova e per evocare esperienze 6 Leçon

17, in Cours 2, cit., p. 369. Ivi, p. 233. 8 Cfr. Ivi, p. 374. 9 Théories de la volonté. Cours au Collège de France, 1906-1907, in Mélanges, cit., p. 702. 7

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passate. Per Bergson, questa attività interiore non si può giustificare né con l’evoluzione né con necessità della specie, in quanto non è una operazione utile e, anzi, può persino essere un ostacolo all’azione10. È una manifestazione della libertà con cui ognuno, a parità di condizioni, sceglie come organizzare gli elementi essenziali della propria esperienza, che quindi non sono semplicemente sopraggiunti dal di fuori, ma si elaborano differentemente, contribuendo a formare i diversi caratteri. In Matière et Mémoire, riferendosi al processo della lettura, egli afferma che la percezione attenta o riflessiva non procede secondo una linea retta, dall’oggetto alla sensazione all’idea, allontanandosi sempre più dal punto di partenza. È piuttosto paragonabile a un circuito elettrico, per la tensione reciproca tra gli elementi e per il costante ritorno sull’oggetto, con un effetto di creazione e ricostruzione progressiva. Da questa considerazione il filosofo ricava due concezioni radicalmente differenti di lavoro intellettuale: la prima potremmo definirla “per addizione”, dove gli elementi nuovi sopraggiungono l’uno dopo l’altro al nostro spirito, sommandosi a quelli precedenti senza una modificazione dell’insieme. La seconda, invece è “per trasformazione”, perché la sollecitazione continua tra l’oggetto e ogni atto di attenzione produce una dilatazione di nuove immagini e idee, cerchi sempre più ampi di memoria, che “rispondono a sforzi crescenti di espansione intellettuale” e consentono una conoscenza molto più profonda della realtà11. Opposta alla distrazione, l’attenzione sarà considerata da alcune filosofe, come Edith Stein e Simone Weil, una manifestazione di responsabilità del pensiero, che si genera solo se è il desiderio a guidare l’intelligenza. Simone Weil, nel breve saggio redatto per gli studenti di Montpellier, la considera lo scopo principale degli studi e la associa all’attesa e persino alla preghiera. Pur comportando sforzo, infatti, essa va considerata un atteggiamento di disponibilità più che di conquista, una sospensione del pensiero, che intende rendersi penetrabile all’oggetto in attesa della verità del reale12. Il suo esercizio non è mai inutile: “Ogni volta che un essere umano compie uno sforzo di attenzione con 10

Cfr. Lezione 17, in Cours 2, cit., p. 375. Matière et mémoire, in Oeuvres, cit., pp. 250-251. 12 S. Weil, Dell’attenzione. Riflessione sul buon uso degli studi scolastici in vista dell’amore di Dio (1942), in L’attesa di Dio, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano, 2014, pp. 194 e ss. 11 Cfr.

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il solo desiderio di diventare più capace di afferrare la verità, acquisisce questa maggiore attitudine, anche se il suo sforzo non ha prodotto nessun frutto visibile”13. La scrittrice Cristina Campo, ispirandosi a Simone Weil, ha descritto così chi è capace di questa preoccupazione di “non distrarsi mai, di sottrarre senza riposo all’equivoco dell’immaginazione, alla pigrizia dell’abitudine, all’ipnosi del costume, la sua facoltà di attenzione […], di attuare la sua massima forma”14. L’attenzione è anche al centro della fenomenologia della vita interiore elaborata da Edith Stein, intesa come la capacità di accogliere il reale nella sua individualità e nelle sue esigenze proprie, ma anche di mantenere il contatto con l’esperienza vissuta, con quella qualità dello sguardo che connota lo sguardo clinico rispetto a quello di un profano15. L’obiettivo della formazione intellettuale non è soltanto quello di favorire la concentrazione dell’intelligenza e di aiutarla a selezionare il suo oggetto, ma anche di far sì che non perda la prospettiva realistica dell’adesione al concreto. In questo compito, l’arte, ma soprattutto la filosofia giocano un ruolo di primo piano. Non è, dunque, lo sforzo in quanto tale ad avere importanza, ma quello finalizzato ad una comprensione della realtà meno settoriale, meno utilitaristica, meno semplicistica, che consenta di riconoscere come i tentativi di facilitare il lavoro comportino spesso arbitrari riduzionismi, frequenti sia negli educatori che esitano a presentare qualcosa di arduo, sia negli allievi timorosi di affrontare la fatica che questo lavoro porta con sé. D’altra parte, spesso il più grande difetto dell’attenzione non è tanto quello di non arrivare al punto, quanto di oltrepassarlo senza rendersene conto: si tratta di una massima di La Rochefoucauld, che Bergson aveva commentato in uno scritto giovanile riportatoci da Guitton. “Spesso noi guardiamo troppo lontano o troppo in alto e, mentre la verità è sotto i nostri occhi, passiamo senza accorgercene”16. La vera penetrazione nasce da uno sforzo che tiene sì conto della complessità del reale, ma che elimina le complicazioni ulteriori che nascono dal nostro modo imperfetto di conoscerlo: “sa ragionare quando occorre, e quando occorre, 13

Ibidem. C. Campo, Attenzione e poesia, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987, p. 170. 15 Cfr. E. Stein, Il problema dell’empatia (1917), a cura di E. Costantini e di E. Schulze Costantini, Studium, Roma, 2009, pp. 166-167. 16 J. Guitton, op. cit., p. 242. 14

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fare a meno del ragionamento”17. Altrimenti, si corre il rischio di conoscere a fondo le proprie interpretazioni piuttosto che la verità delle cose. L’importanza assegnata allo sforzo di volontà imprime alla pedagogia di Bergson un carattere marcatamente antintellettualistico, nel quale, come già osservato, si nota, seppure con ovvi distinguo, l’influenza di Maine de Biran18. La sua è quasi una pedagogia eroica19, come è stata definita, per il valore assegnato a un metodo di lavoro intellettuale che non attenua, anzi esalta le difficoltà: “Noi ripudiamo la facilità. Raccomandiamo una certa maniera difficoltosa di pensare. Apprezziamo lo sforzo al di sopra di tutto”20; e ancora: “tensione, concentrazione, sforzo, queste sono le parole con le quali caratterizziamo un metodo che richiede dallo spirito, per ogni nuovo problema, uno sforzo interamente nuovo”21. Non è un caso che al tema dell’effort, Bergson abbia dedicato l’intero corso del venerdì al Collège de France, tra il 1906 e il 190722. Secondo J. Guitton, in Bergson il valore dello sforzo ha anche un significato morale, perché è da mettere in relazione con l’esercizio della libertà, che è in stretto rapporto con il tempo: Per Bergson non c’è sforzo senza un andirivieni tra due piani che non coincidono completamente e che quindi bisogna unire. Nell’esperienza della vita e del destino questi due piani sono il progetto e il risultato: ciò che si vuol fare e ciò che si è fatto. Si tratta ancora una volta di riprendere gli scarti, questa ricaduta del passato per fecondarla con un’idea più esatta del possibile. E l’atto di inventare, che è la libertà stessa, si incarna in questo sforzo di aggiustamento, che rasenta la sofferenza e che è il fondo del lavoro. Nessuna creazione è più entusiasmante e insieme più mortificante di quella la cui materia è il nostro essere nel tempo. Non sarà che tutte le altre sono soltanto immagini di questa?23 17

Ibidem, p. 244. Per Maine de Biran, la coscienza si rivela innanzitutto come forza che muove il corpo e che costituisce la volontà. La vita della coscienza è, pertanto, attività e libertà, effort, sforzo di combattere la minaccia dell’abitudine, l’automatismo generato dalla ripetizione poco consapevole di atti. Non è il pensiero, dunque, l’attività originaria dell’io, come voleva Descartes, ma la forza di volontà che ci consente di passare dalla virtualità all’attualità grazie alla sua autodeterminazione. L’esperienza dell’io è esperienza dell’effort, che è strettamente connessa a quella di intelligenza e di attenzione. 19 Cfr. R.M. Mossé-Bastide, op. cit. p. 218. 20 La pensée et le mouvant, 1922, in Oeuvres, cit., p. 1328. 21 Ibidem, p. 1329. 22 Cfr. Mélanges, cit., pp. 685-722. 23 J. Guitton, La vocation de Bergson, cit., pp. 18-19. 18

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Lo sforzo è indispensabile perché un progetto divenga risultato e, per ciò che comporta, vale quasi di più del risultato stesso. È significativo quanto esprime nella conferenza, tenuta all’università di Birmingham, il 29 maggio 1911: Il pensiero che è soltanto pensiero, l’opera d’arte che è soltanto concepita, il poema che è soltanto sognato, non costano ancora fatica: è la realizzazione materiale del poema in parole, della concezione artistica in quadro o in statua, che richiede uno sforzo. Questo sforzo è faticoso; eppure, finché lo si realizza, si ha il sentimento che è altrettanto prezioso, più prezioso forse dell’opera alla quale approda, perché, grazie ad esso, si è ricavato da sé più di quanto ci fosse: ci si è elevati al di sopra di sé stessi24.

La “pedagogia dello sforzo” non ha però un carattere di titanismo volontaristico; per Bergson, essa deve mirare non a una tensione che irrigidisce, con la quale non si raggiungerebbe lo scopo, ma a una elasticità che si presenti come uno “sforzo senza sforzo”. Così la definisce Guitton, facendo tesoro di questa idea del suo maestro e applicandola sia al lavoro intellettuale che alla pratica delle virtù: Bergson raccontava ai suoi amici che esistono come due modi di montare a cavallo. Il primo è il tipico modo dell’attendente: dolore, contratture, imprecazioni, sforzi e ferite, non vi manca nulla; in generale non mi sembra male, soprattutto per la maggior parte delle persone. L’altro modo consiste nel simpatizzare con il movimento dell’animale, rendendosi agile ed elastico il più possibile, evitando di agitare quel docile animale e abbandonandosi, diceva Bergson, alla “grazia dell’equitazione”, come se vi fosse già stata data. È probabile che il primo metodo vi conduca un giorno al secondo, come avviene nell’apprendimento del valzer o in quello di una lingua straniera. Certo è che per meritare di fare, un giorno, qualche movimento (e quello della virtù) senza sforzo, bisogna aver fatto molti sforzi […] Questo sforzo per non “fare sforzo” è di una difficoltà rara, come lo sforzo d’abbandono in rapporto a quello delle altre virtù25.

24 La conferenza fu pronunciata in inglese e pubblicata nell’“Hibbert Journal”, n. 1, 1° ottobre 1914, pp. 24-44. Poi confluita nella versione francese La Conscience et la Vie, in L’énergie spirituelle, in Oeuvres, cit., p. 831. 25 J. Guitton, Il lavoro intellettuale (1951), Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 137-138.

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Conclusione

L’arte di pensare e lo sviluppo morale: la responsabilità dell’educatore

Dagli scritti bergsoniani che potremmo definire di carattere pedagogico e dalla sua esperienza di docente, emerge un profondo realismo e la convinzione della diretta relazione tra formazione intellettuale e sviluppo morale. Egli è realista innanzitutto nel modo stesso di concepire l’educazione, che dovrebbe partire sempre dal definire la sua finalità non in modo astratto, ma in relazione all’uomo che si propone di educare: “Disgraziatamente, la domanda essenziale, in materia di educazione, è proprio quella che ci si dimentica di porsi la maggior parte delle volte prima di tracciare un programma: “Qual è il nostro scopo? Cosa vogliamo ottenere? Che tipo di uomo intendiamo formare?”1. Il compito educativo richiede pertanto una corretta antropologia, che non può essere soltanto implicita, ma va definita nei dettagli, altrimenti si intraprenderebbe una strada senza aver chiara la meta e quindi neppure il metodo. Con questa consapevolezza, pur senza elaborare una vera e propria teoria educativa, Bergson assume come premessa una visione integrale dell’uomo e di ciò che contribuisce a perfezionarlo. I tratti che ne definiscono il ritratto appaiono chiari: una grande capacità di adattamento, di apprendimento e di invenzione, manifestazioni di quella libertà, che rende l’essere umano capace di ricavare dalla sua personalità più di quanto essa contenga. “Per un essere cosciente – nota Bergson ne L’Évolution créatrice – esistere significa mutare, mutare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente sé stesso”2. 1 2

Les études gréco-latines, cit., p. 1378. L’Évolution créatrice, in Oeuvres, cit., p. 500.

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Se la libertà si manifesta in quegli atti che esprimono l’io tutto intero, va anche detto che essa ammette dei gradi, giacché vi sono decisioni che talvolta non riusciamo a motivare adeguatamente, reazioni e azioni più o meno superficiali e più o meno profonde. D’altra parte, può anche avvenire che nessuna azione entri a far parte di noi stessi, contribuendo alla strutturazione dell’io. Per Bergson, questo è il risultato di un’educazione male impostata, indirizzata solo alla memoria e non al giudizio. In questo caso, si forma un “io parassita” che fagocita l’altro, rendendo impossibile realizzare la libertà autentica. Eppure, persino con l’educazione più autoritaria, resta sempre la possibilità di reagire, incorporando nella propria storia personale le suggestioni e le prescrizioni, facendo sì che si trasformino in esperienze3. Educare significare allora orientare questo dinamismo della personalità, questo andirivieni tra l’io profondo e l’io superficiale, favorendo un esercizio della libertà più consapevole. Ancora più specificamente, educare attraverso il lavoro intellettuale significa potenziare la determinazione della volontà e contemporaneamente la flessibilità dell’intelligenza. Solo con una volontà fortemente determinata verso un obiettivo chiaro e con un’intelligenza capace di concretezza e insieme di rigore, il mutare nel tempo che caratterizza l’esistere in generale, costituirà per l’uomo una maturazione e un perfezionamento. La finalità dell’educazione per Bergson è allora in vista di tutto ciò: “Vogliamo formare un uomo dallo spirito aperto, capace di svilupparsi in più di una direzione. Vogliamo che sia fornito delle conoscenze indispensabili e che possa acquisire le altre, che abbia imparato ad apprendere”4. Ciò comporta sia il rifiuto del bello e fatto che del pressappochismo, ossia tanto delle formule preconfezionate che impediscono di cogliere la concretezza della realtà quanto delle abitudini che privano la nostra condotta di elasticità e di creatività, che ci rendono automi coscienti, per usare un termine bergsoniano. Attenzione e penetrazione sono allora qualità intellettuali indispensabili, ma non bastano se non sono armonizzate con la giustizia e la gentilezza di cuore. Bisogna formare “uomini di buon senso”, capaci di quel pensiero concreto che coglie sia il vero che il pratico. 3 Queste considerazioni, espresse già nel 1889 nell’Essai sur les données, troveranno piena elaborazione ne Les deux sources de la morale et de la religion, dove però si intravede una cesura più netta tra una condotta tutta esteriore fondata sull’obbligazione e un’altra, ispirata dall’amore. 4 Les études gréco-latines, cit., p. 1378.

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Non c’è, pertanto, separazione tra didattica e cultura, giacché i contenuti disciplinari non sono soltanto in funzione della conoscenza, ma vanno vagliati in vista della possibile valenza formativa. È significativa, a questo riguardo, la posizione di Bergson nel dibattito sulla presenza del corso di sociologia nelle scuole primarie. Nel 1920, dietro iniziativa di Paul Lapie, direttore dell’insegnamento primario, era stato introdotto un corso di “nozioni di sociologia applicate alla morale e all’educazione” con l’intenzione, più o meno dichiarata ma certa, di sostituire alla morale una enumerazione di dottrine e costumi morali nelle diverse società, ispirandosi alle tesi di Durkheim. Léon Bérard, contrario a quell’insegnamento, nel gennaio del 1924 propone al Conseil Supérieur de l’Instruction Publique di studiare l’opportunità di mantenerlo o di sopprimerlo. È proprio Bergson tra i più accesi oppositori del corso che a suo parere avrebbe avuto un effetto nefasto su spiriti ancora privi di formazione filosofica, comportando un relativismo distruttivo della nozione di dovere e di legge morale5. Ma il dibattito, inizialmente abbastanza favorevole alla proposta di Bérard e Bergson, dietro la spinta di altre urgenze e anche per motivi politici, finirà per arenarsi. Il Conseil voterà giudicando impossibile studiare la proposta di soppressione prima di aver studiato la questione nel suo insieme (29 voti contro 9), decidendo così di lasciare immutata l’organizzazione (28 voti contro 1)6. Bergson confiderà all’amico Chevalier il suo rammarico, sottolineando nuovamente la netta critica nei confronti di un insegnamento strutturato attorno a una rassegna di posizioni che non avrebbero fornito agli allievi un fondamento alla morale. La loro sociologia si fonda sul totem. Ho quindi cercato e scoperto del totemismo quarantuno dichiarazioni. Quale adottereste? Dissi ai protagonisti della riforma. E come vi si potrebbe fondare la morale? Senza contare che la sociologia riduce l’obbligazione a un semplice vincolo, il che la deforma completamente. Ma al Conseil Supérieur il mio parere non ha prevalso: si votava pro o contro Lapie e questo ha rovinato tutto7.

5 Cfr. R. Geiger, La sociologie dans les écoles normales primaires. Histoire d’une controverse, in “Revue française de sociologie”, Gennaio-Marzo, 1979, vol. 20, n. 1, pp. 257-267. 6 Cfr. Ivi, p. 262. 7 J. Chevalier, Entretiens avec Bergson, 26 marzo 1924, cit., pp. 59-60.

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Un lavoro intellettuale ben impostato e orientato allo sviluppo di virtù intellettuali sarà in continuità con lo sviluppo morale. Tra giudizio ed esperienza, tra idee e fatti, tra osservazione e generalizzazione, tra analisi e sintesi, non può darsi una netta separazione. Nel discorso pronunciato nel 1913, per il centenario della nascita di Claude Bernard8, Bergson respinge la tesi che nel lavoro di ricerca l’esperienza si possa ridurre alla ricezione passiva di fatti bruti, in attesa che lo spirito li penetri per ricavarne delle leggi. L’osservazione è già di per sé la risposta a una domanda e la generalizzazione non consiste nel trovare un significato plausibile in un assemblaggio incoerente e casuale di dati. “Lo spirito di sintesi non è altro che una potenza più elevata dello spirito di analisi”9: da questa considerazione, Bergson riconosce nel metodo di Bernard una lezione dalla preziosa valenza pedagogica. Anche nell’esperienza più semplice, se condotta con spirito di ricerca, si racchiude la possibilità di invenzione. Così come non c’è differenza tra lo studente e il filosofo, se entrambi sono animati dallo stesso spirito di scoperta del nuovo, altrettanto inesistente è la distanza tra l’apprendista e il maestro, perché né il primo è il semplice raccoglitore di fatti, né il secondo solo l’inventore e lo scopritore di leggi. “Dove non c’è uno sforzo personale e originale, non c’è neppure un inizio di scienza”10. La ricerca scientifica è infatti un dialogo tra l’uomo che interroga tramite ipotesi teoriche e la natura che risponde imprimendo una direzione inattesa, il che può provocare ulteriori domande e successive nuove repliche. Le leggi scientifiche, dunque, non sono precostituite, già interne ai fenomeni, come se lo sforzo dello scienziato o del filosofo consistesse semplicemente nel liberarle dai fatti che le ricoprono “raschiando, come si mette a nudo un monumento egizio togliendo via a palate la sabbia del deserto”11. Il lavoro scientifico e quello filosofico sono accomunati da un lato da questa professione di umiltà intellettuale, che conduce alla presa d’atto della complessità del reale e dal rifiuto dello spirito di sistema, dall’altro, dalla curiosità e dall’inesauribilità della ricerca, che non può essere ridotta alle idee e alle dottrine di volta in volta formulate. Siamo 8 La philosophie de Claude Bernard, discorso pronunciato al Collège de France il 30 dicembre 1913, in Oeuvres, cit., pp. 1435-1440. 9 Cfr. Ivi, p. 1425. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 1438.

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ben lontani comunque da una professione di relativismo, perché la passione che governa il ricercatore, secondo Bergson è sempre quella per la verità, nella quale si penetra poco a poco, grazie a una filosofia “capace di seguire la realtà concreta in tutte le sue sinuosità”12. Si può pertanto affermare che la chiave interpretativa della filosofia dell’educazione solo implicitamente elaborata da Bergson sia la preoccupazione di “distinguere per unire”, secondo la nota espressione del filosofo Maritain. Nonostante la struttura in termini dicotomici (intelligenza/intuizione; società chiusa/aperta; religione statica/dinamica; io superficiale/io profondo) spesso rilevata nel suo pensiero, in realtà il filosofo è mosso da una profonda preoccupazione di superare i dualismi e di recuperare l’intellegibilità e l’unità del reale, quindi l’unità del sapere e della formazione personale. Oggi la formazione intellettuale sembra occupare un posto marginale nel lavoro educativo, poiché la priorità è assegnata alle competenze emotive e relazionali, d’altra parte per lungo tempo scarsamente considerate. Per di più, la modernità ha prodotto una progressiva riduzione della nozione di intelligenza, trasformata in ragione strumentale, ben diversa dall’accezione classica, di capacità conoscitiva del reale e argomentativa pratica13. La tradizione classica, infatti, ha sempre messo in evidenza l’unità delle virtù intellettuali e morali come una condizione indispensabile per la maturità umana. Aristotele ritiene inseparabili l’eccellenza del carattere e quella dell’intelligenza e afferma che è impossibile che sia saggio chi non è buono14. Per questo si può parlare di una dimensione morale del lavoro intellettuale, di una responsabilità del pensiero15, che chiama in causa non soltanto l’insieme delle virtù intellettuali, ma anche 12 Ivi, p. 1439. Negli appunti della prima lezione dell’Introduction générale du cours de philosophie tenuto a Clermont-Ferrand (1887) si legge: “L’uomo può essere considerato tanto più coltivato e più degno del nome che porta quanto più cerca di rendersi conto, quanto più prova un desiderio intenso di penetrare le cause; e gli uomini di genio nelle scienze sono, ordinariamente, uomini che hanno sentito il bisogno di trovare cause e ragioni laddove era sembrato fino ad essi che non ci fossero ragioni da cercare o cause da scoprire”. Cours 2, cit., p. 19.  13 Cfr. C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza Roma-Bari, 2000. 14 Aristotele, Etica Nicomachea, libro VI, 1144 b30: “Socrate pensava che le virtù fossero ragionamenti (infatti diceva che sono tutte delle scienze); noi, invece, riteniamo che esse siano congiunte con la ragione. È chiaro, dunque, da quanto si è detto che non è possibile essere buono in senso proprio senza saggezza, né essere saggio senza la virtù etica”. 15 Si vedano le considerazioni analoghe sulla valenza morale del pensare in H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna, 1987, pp. 84 e ss.

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la dimensione della vita pratica. Nella prospettiva di un’etica dell’attività intellettuale, non dovrebbe esserci opposizione o separazione tra ciò che si sa e ciò che si fa, tra il sapere e le virtù morali: in altri termini, tra le conoscenze, le competenze e la volontà buona. Da un lato, l’incompetenza rende impossibile un’azione buona, in quanto dà luogo a errori teorici e pratici, finendo, pertanto, per privare di qualità morale lo stesso agire motivato dal bene. D’altra parte, la competenza, ossia l’insieme di quelle conoscenze e abilità necessarie per realizzare il bene nel proprio concreto ambito professionale, di per sé non è una virtù, in quanto può essere finalizzata anche a un’azione malvagia. Come osserva MacIntyre: “L’esercizio dell’intelligenza pratica richiede la presenza delle virtù del carattere; altrimenti degenera, o si riduce, fin dall’inizio, in una mera capacità astuta di collegare i mezzi a un fine qualsiasi, anziché a quei fini che sono autentici beni per l’uomo”16. Bergson, più vicino a questa idea classica di unità tra virtù intellettuali e morali, non ci ha lasciato un’articolata trattazione teorica su questi temi, ma, come sin qui si è tentato di mettere in luce, la sua vocazione professionale di filosofo e insieme di professore di filosofia lo ha reso, sin dall’inizio del suo percorso speculativo, particolarmente attento al tema della formazione della personalità attraverso il lavoro intellettuale, frutto dello sforzo congiunto di intelligenza, intuizione e volontà, che assume un carattere morale17. Con la sua partecipazione alla vita culturale dell’epoca, egli ha anche fornito un contributo importante in difesa del valore formativo della filosofia e degli studi classici nei dibattiti politici sulle riforme dell’istruzione. L’ispirazione alla base del suo pensiero pedagogico, pur in una concezione di educazione piuttosto elitaria, è la promozione di una personalità completa, comunque sempre in divenire. “Il principio del nostro sistema educativo – afferma nel 1919, in un discorso rivolto a studenti e professori di università americane – è che bisogna trattare ogni studente, e persino ogni scolaro, come se ci fosse in lui la stoffa di un maestro”18. Il riferimento è al sistema 16 A.

MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 187. Così negli appunti del suo corso a Clermont: “La virtù esclude l’automatismo. È uno sforzo dalla direzione costante perché è uno sforzo verso il bene, ma questo sforzo deve essere sempre rinnovato, manifestarsi con manifestazioni diverse. In questo consiste il progresso morale. La virtù è creativa. Non c’è virtù completa senza una certa ingegnosità nel fare il bene. La pratica della virtù rende la virtù più intelligente”. 16° Leçon. La vertu, in Cours II, p. 193. 18 L’amitié indestructible, 2 marzo 1919, in Mélanges, cit., p. 1315. 17

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educativo francese, ma in filigrana si legge l’idea tutta bergsoniana di educazione, esposta fin dai primi discorsi agli studenti, ai corsi liceali e nell’Essai: se all’interno di ogni presente c’è la prefigurazione del futuro, che avrà comunque carattere di novità, formare non consiste nel passare una forma, ma nel dare slancio allo sviluppo di una figura unica, originale e imprevedibile, in definitiva in un atto di speranza. Significativo quanto dichiara Albert Thibaudet, uno dei migliori allievi di Bergson al liceo Henri-IV, riconoscendo il debito intellettuale e morale nei confronti del suo maestro: “Resistere agli entusiasmi e alle antipatie spontanee, reagire contro tutti gli automatismi e soprattutto contro il più rischioso, quello del meccanismo intellettuale che ci siamo dati a noi stessi, inquadrare ogni problema nel suo aspetto particolare, con un corpo individuale che non saprebbe vestirsi con un abito fatto in serie, tenere all’unità reale di questo atteggiamento più che all’unità fittizia dei risultati, ecco un insieme di direttive che vorrei aver seguito meglio in materia di critica e di storia, ma che mi appaiono come il migliore beneficio del pensiero bergsoniano”19.

19 A.

Thibaudet, Le bergsonisme, vol. 1, p. 8.

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Testi di Henri Bergson

Discorsi agli studenti La specializzazione1 Credo di interpretare semplicemente i sentimenti di tutti voi, giovani allievi, ringraziando innanzitutto i personaggi eminenti che hanno voluto assistere a questa festa e in particolare colui che la presiede. Egli ha tenuto a darci una nuova dimostrazione della sua simpatia e quello che la sua prima visita era stata per il nostro Liceo, il suo primo discorso sarà per noi. Non so se vi sarò altrettanto gradito annunciandovi, per terminare l’anno, una lezione di filosofia. Tuttavia, me la perdonerete, ne sono sicuro: è l’ultima. D’altronde, mi punirò da solo e poiché è un eccesso di studio specialistico che mi dovrà far essere, anche in un giorno di festa, moralista e noioso, mi condanno, a mo’ di penitenza, a ricercare con voi i gravi inconvenienti di ciò che viene chiamata “la Specializzazione”. Il più triste è quello che costatate oggigiorno. L’uomo di una sola occupazione somiglia molto all’uomo di un solo libro: non saprebbe parlarvi di altro. Se è filosofo, e una fortuna immeritata lo chiama a prendere la parola, si perderà in vani sforzi per trovare un soggetto di conversazione attraente, si deciderà per la letteratura, la abbandonerà per la storia e approderà infine, dopo un lungo travaglio e penose ricerche, ad una lezione di morale. 1 Discorso pronunciato alla consegna dei premi di fine anno al Liceo di Angers, il 3 agosto 1882, in Mélanges, cit., pp. 256-261.

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Che sarebbe se, invece di ascoltarlo in pubblico, andaste a vederlo a casa sua? Lo specialista ha un cattivo carattere. Intavolate con lui una conversazione banale, parlate di ciò che conosce male o mediocremente, egli vi risponderà, sicché potrete lasciarlo con la convinzione che è un uomo di mondo. Ma se il caso o il desiderio di piacergli vi porta su ciò che egli definisce la sua “specializzazione”, lui tace, sorride, vi lascia dire. Tranquillo e impertinente, attende che abbiate finito: Rusticus exspectat dum defluat amnis… Si guarderà bene dall’interrompervi, perché dai vostri errori accumulati si sprigiona per lui una grande verità: egli sa. In effetti, ha praticato la sua scienza abbastanza per avere pietà di voi; non ha coltivato le altre scienze abbastanza per rendersi conto di quanto ha ancora da imparare e per evitare, rimanendo modesto, che ci si burli di lui. Ma ecco l’inconveniente più grave. La specializzazione, che rende tedioso il sapiente, rende la scienza sterile. Certo, la divisione delle scienze è cosa naturale. In un’epoca in cui l’intelligenza umana era ancora nell’infanzia, si poteva, senza troppa ambizione, aspirare a conoscere tutto. Tale fu l’illusione generosa della filosofia dei primi tempi: essa si definiva la scienza delle cose divine e umane. Non ci è voluto molto per fare questa sconfortante scoperta: l’universo è più vasto del nostro spirito; la vita è breve, l’educazione lunga, la verità infinita; bisogna consumarsi in sforzi penosi, brancolare a lungo per mettere le mani su di una piccolissima briciola di verità: si muore addirittura senza averla trovata o nemmeno intravista. Da qui un gran numero di scienze particolari, ciascuna col suo oggetto proprio e il suo metodo speciale, tutte che sembrano bastare a se stesse e che proseguiranno isolatamente il cammino fino al giorno in cui, riunendo in una vasta sintesi l’immensa moltitudine dei fatti raccolti poco a poco e delle idee da lungo tempo accumulate, qualche genio privilegiato unirà forse questi frammenti e riprodurrà, nell’ordine delle sue concezioni, l’ordine stesso che ha presieduto alla costruzione dell’universo. Che ci siano scienze speciali e che occorra scegliere, è una dura necessità. Dobbiamo rassegnarci a conoscere poco, se non vogliamo ignorare tutto. Ma non si sa se rinunciarvi troppo tardi. Ciascuno di noi dovrebbe cominciare, come ha fatto l’umanità, con la nobile e ingenua ambizione di conoscere tutto. Non ci si dovrebbe calare in una scienza speciale, se non dopo aver considerato dall’alto, nei loro contorni generali, tutte le altre. La verità è una: le scienze particolari ne esaminano i frammenti, ma 133

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conoscerete la natura di ciascuno di essi solo se vi rendete conto del posto che occupa nell’insieme. Non si comprende una verità particolare se non si sono individuati i rapporti che può avere con le altre. Conoscete forse un edificio quando vi abbiano mostrato prima tutte le pietre? Eppure, non ci sono che pietre nell’edificio. Tutta l’arte sta nella disposizione e ciò che importa non è conoscere la pietra, ma il posto che essa occuperà. Tutti avete maneggiato un microscopio e avete potuto vedere, nella scatola che lo contiene, quei vetrini che racchiudono una preparazione anatomica. Prendetene uno, collocatelo sotto l’obiettivo e guardate attraverso lo strumento. Distinguerete un tubo, diviso in compartimenti; fate scorrere il vetrino: alle cellule succedono le cellule; avete distinto mirabilmente ognuna di esse. Ma qual era l’oggetto e cosa avete visto? Sarete obbligati, se volete saperlo, a lasciare là il vostro strumento e a contemplare a occhio nudo, nella sua totalità ripugnante, la zampa del ragno. È per guardare la verità al microscopio che la si è, anch’essa, decomposta; se non si comincia col gettare un colpo d’occhio sull’insieme, se ci si trasporta immediatamente alle parti, per non considerare che quelle, si vedrà forse molto bene, ma non si saprà neanche cosa si è guardato. È per una specie di pigrizia intellettuale e per non aver bisogno di studiare il resto, che ci si rinchiude oggi nei limiti di una scienza particolare. Vorrei che si modificasse un po’ questa formula e che ci si dedicasse ad una scienza speciale solamente quando non ci sia più bisogno di studiare tutte le altre. Impiegheremmo così più tempo ad acquistare una scienza: ne impiegheremmo forse meno a farla procedere. Non parlerò male della scienza del nostro tempo. Essa ha fatto molto per la nostra comodità. L’industria e le arti le devono eterna riconoscenza. Se non ci sorprende più con le sue invenzioni meravigliose è perché ha stancato la nostra ammirazione. Eppure, molti spiriti ingegnosi si meravigliano che la scienza sembri abbandonare sempre più la teoria per la pratica, che ci si occupi delle conseguenze piuttosto che dei principi e che, in mezzo ad una così grande abbondanza di invenzioni, ci siano così poche scoperte. D’altronde, essi sono abbastanza difficili da non accontentarsi di questa risposta, già data a Newton e a Galileo: “I principi sono noti”. Non so se sbaglio, ma credo che il gusto di queste speculazioni elevate non si sia affatto perduto. Quel che manca forse allo studioso è l’insieme delle conoscenze generali di cui servirsi come punto d’appoggio per elevarsi al di sopra di una scienza speciale, per dominarla e per arrivare ai principi. 134

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Se si ascoltasse lo specialista, la fisica rischierebbe sicuramente di diventare un semplice catalogo di fenomeni e la chimica una raccolta di formule farmaceutiche. Nel grande giornale della scienza, egli riempie soltanto la colonna dei fatti spiccioli. Dimentica che i fatti sono i materiali della scienza, non la scienza stessa; che questa comincia con la scoperta delle leggi, e che il semplice collezionista di fatti assomiglia molto al cuoco che, al posto di un buon piatto, ci servisse gli ingredienti. Questa impossibilità di coordinare i fatti, di ridurli in sistema, non deriverà forse dal fatto che gli mancano le idee generali? Lo stomaco a digiuno, quando viene riempito, digerisce male; uno spirito del tutto vuoto potrà soltanto ricevere e rigettare quel che vi si metterà. Ne consegue che lo specialista restituisce i fatti tali e quali li ha ricevuti; e poiché si preoccupa della scienza solo per parlarne, rischia fortemente di farla degenerare poco a poco in semplice pettegolezzo scientifico. Non è così che procedeva Descartes, il più grande dei nostri fisici.Egli riteneva opportuno studiare tutte le scienze per approfondire una di esse. E nella sua vasta intelligenza le più diverse conoscenze, geometria e metafisica, si erano unite e quasi confuse. Così, la sua concezione filosofica dello spazio gli suggerì la scoperta della geometria analitica e fu grazie alla considerazione degli attributi di Dio che arrivò alla teoria delle ondulazioni. Nel nostro tempo, non è forse la questione squisitamente filosofica delle generazioni spontanee ad aver messo un nostro grande chimico sulla strada delle sue scoperte più straordinarie? È forse per un semplice caso che l’autore delle più belle concezioni della scienza contemporanea si trovi ad essere allo stesso tempo un filosofo e un letterato? Ci si può, a rigore, limitare ad una scienza particolare se si punta a considerare soltanto fatti particolari o verità di dettaglio; ma per presentare a questa scienza dei problemi nuovi, per rinnovarne i metodi, bisogna elevarsi al di sopra di essa. La storia della letteratura è diventata, anch’essa, una specializzazione. Considerate se ne ha guadagnato. Lo specialista disdegna i lavori letterari e la critica originale. Prenderà uno dei nostri scrittori, lo esaminerà nei particolari, non studierà che quello. Ma siccome non si può affatto comprendere e giudicare il pensiero di un autore, se non a condizione di paragonarlo a molti altri, non è del pensiero che si preoccuperà, siatene certi. Cosa gli resta? La persona e gli aneddoti che potrà raccogliere su di essa. Citerà dei fatti insignificanti, ma inediti; egli è il primo a raccontarli, per questo sono importanti. Collezionerà le carte e i 135

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documenti, dimenticando che l’inedito deve essere trovato nello spirito, non nelle vecchie pergamene. Dello stile e della maniera di un autore non si curerà affatto: parlatemi del suo atto di nascita. La storia della nostra letteratura nazionale, dopo aver formato degli scrittori, non ci dà ormai che degli scribacchini. La critica degli autori greci e latini, se lo specialista rimane padrone della situazione, diverrà ancora più meschina. Ci fu un tempo in cui si leggevano gli autori antichi per conoscerli, in cui ad essi si richiedevano grandi insegnamenti filosofici e morali. Lo specialista oggi li legge soltanto per correggerli. Matita alla mano, sguardo febbrile, aspetta al varco gli errori del manoscritto. Rimarrebbe deluso, se il testo degli autori antichi fosse pervenuto intatto, o se un manoscritto corretto ci dispensasse dalle sue congetture. Non si chiede cosa pensasse l’autore scrivendo la sua frase, ma a cosa pensava il copista trascrivendola. Così ha fondato una scienza nuova, che si potrebbe chiamare la psicologia della trascrizione, che minaccia di prendere il posto della critica letteraria. In verità, per cogliere le sfumature delicate di un pensiero, sono necessarie delle conoscenze generali che troppo spesso mancano allo specialista. La letteratura è tanto vasta quanto la verità della quale è l’espressione. Chi ne affronta la critica senza essersi preparato con degli studi profondi, chi ignora la scienza e la filosofia, sarà fatalmente indotto a trascurare il contenuto per la forma, l’idea per la parola. Se lo spirito matematico consiste nel pensare con esattezza e nell’esprimere precisamente quel che si pensa, quale letterato potrebbe dispensarsi dall’essere un po’ matematico? Se la filosofia è la scienza delle idee generali, è un critico scadente chi non vi fa affatto caso. La letteratura è forse qualcosa di diverso da una geometria senza figure, o da una metafisica senza barbarismi? Così, a contatto con lo specialista, tutto diventa arido e sterile. Sembra che la scienza perda poco a poco la vita decomponendosi. Per quale motivo lo lasciamo fare? Perché siamo vittime, se non vado errato, di una grande illusione. Senza rendercene conto, assimiliamo il lavoro dello spirito al lavoro manuale. 105 anni or sono, il fondatore dell’economia politica, Adam Smith, faceva già la seguente osservazione: se, in una fabbrica di spilli, un solo operaio è incaricato di raddrizzare il filo, di tagliarlo, di lavorarlo, di fargli la punta e la capocchia, egli arriverà a stento a fabbricare 20 spilli 136

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al giorno. Ma se si suddivide il lavoro tra 10 operai e si incarica ciascuno di una sola operazione, essi produrranno agevolmente 48.000 spilli al giorno, il che significa 4800 a testa. L’industria arriva a dei risultati meravigliosi attraverso la divisione del lavoro. È necessario che ciascun operaio abbia una “specializzazione” e sarà tanto più abile quanto più presto l’abbia scelta. In effetti, al lavoro manuale si richiede di essere, innanzitutto, rapido e non è rapido se non è meccanico. Perché la macchina lavora più velocemente dell’uomo? perché divide il lavoro, perché un meccanismo speciale corrisponde ad ogni fase della produzione. Noi, che prendiamo a modello la macchina quando lavoriamo con le mani, non possiamo fare di meglio che dividere il lavoro come essa lo divide: e lavoreremo altrettanto velocemente e altrettanto bene quando, a nostra volta, saremo macchine. Nel mondo dell’intelligenza accade l’esatto contrario. Mentre non acquisteremo l’abilità manuale che a condizione di scegliere un mestiere speciale e di far acquistare ai nostri muscoli un’unica abitudine, al contrario, non perfezioniamo una delle nostre facoltà che a condizione di sviluppare tutte le altre. Essa non può nulla da sola; separatela dal suo ambiente, non tarderà a svanire, simile a quelle sostanze chimiche che evaporano appena le si isola. Senza dubbio ce n’è sempre una che predomina e che si mette in evidenza; ma questa non si regge così in alto se non perché le altre la sostengono. La paragonerei a quel buon musicista che si incontra talvolta in un’orchestra mediocre: egli la domina e fa sì che non si senta che lui solo. Forse sbaglierà in un a solo, perché ha bisogno di essere sostenuto dall’insieme. È proprio questo, giovani allievi, ciò che distingue l’intelligenza dall’istinto e l’uomo dalla bestia. L’inferiorità dell’animale è tutta qui: è uno specialista. Fa molto bene ciò che fa, ma non saprebbe fare altro. L’ape ha risolto, per costruire il suo alveare, un problema di trigonometria difficile: ne risolverà forse altri? Chi ammette, come osa sostenere un naturalista contemporaneo, che discendiamo, l’animale e noi, da un antenato comune, non potrà dire che la nostra intelligenza sia divenuta quello che è per le diverse abitudini che ha contratto successivamente, mentre quella dell’animale si è poco a poco ridotta e atrofizzata entro i ristretti limiti di una specializzazione? Conserviamo la nostra superiorità e, poiché la varietà delle attitudini è ciò che ci distingue, restiamo uomini. Per questo, giovani allievi, voi 137

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siete a una buona scuola. Ciò che fa il merito e la forza dell’Università è l’escludere studi specialistici al liceo, che si preoccupa semplicemente di elevare lo spirito fortificandolo. Siamogli grati di questo disinteresse; e a coloro che rimproverano al liceo di non essere affatto pratico, di insegnare tutto e di non preparare a nulla, rispondiamo che il miglior modo per riuscire non sta nel puntare troppo presto al successo, che i grandi studi classici, sviluppando l’intelligenza intera, le conferiscono un’ampiezza sufficiente a contenere tutto, una forza sufficiente a intraprendere tutto; che sarebbe in ogni caso puerile, per prepararsi più facilmente alla vita, privare in anticipo la vita di ciò che ne fa la grandezza e il valore: Et propter vitam, vivendi perdere causas.

La politesse2 Verrei meno ad una tradizione consacrata se fin dall’inizio non mi scusassi di infierire sulle vacanze che avete così ben meritato; mancherei soprattutto alla politesse, che è giustappunto il tema sul quale voglio intrattenervi. Ho qualche scrupolo, vi avviso, a perseguitarvi con una lezione di morale persino in questo giorno di festa; ma, in fin dei conti, credo che mi perdonerete, innanzitutto perché la lezione sarà breve, poi perché è l’ultima, infine forse anche perché non dovrete impararla. Vorrei dunque cercare con voi in cosa consista l’autentica politesse: è una scienza, un’arte o una virtù? Alcuni immaginano che la politesse consista nel saper salutare, entrare, uscire, sistemarsi, e nell’osservare, in ogni circostanza, i precetti enumerati con tanta condiscendenza nei codici di buone maniere. Se la politesse fosse tutta qui, molti selvaggi potrebbero credersi più educati di noi, perché la complicazione del loro cerimoniale provoca lo stupore dei visitatori. Noi ci limitiamo a sollevare 2 Discorso pronunciato il 30 luglio 1885 alla consegna dei premi di fine anno al liceo di Clermont-Ferrand. Poi ripreso con alcune varianti, il 30 luglio 1892, alla consegna dei premi di fine anno al liceo Henri-IV. Mélanges, cit., pp. 317-332. Come si è osservato, si è preferito lasciare il termine francese politesse, che nelle intenzioni di Bergson è ben più della semplice “cortesia” o “gentilezza”, come si evince dal discorso. Nella versione del 1885, il filosofo la paragona all’humanitas: “questa scienza profonda del cuore umano che si attinge dalla lettura attenta dei classici, e che fa sì che la carità, unita alla penetrazione, si destreggi senza fatica attraverso le mille deviazioni delle suscettibilità e dell’amor proprio”. Texte du 1885, in Mélanges, cit., p. 328.

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il cappello; essi si tolgono i sandali e persino parte degli abiti per meglio sottolineare la loro considerazione. Il tono con cui diciamo al primo venuto: “Come sta?” è sufficiente a fargli comprendere che la sua salute è l’ultimo dei nostri pensieri. Non credete che simili comportamenti sarebbero tollerati presso gli Indiani dell’Araucanía: lì, un uomo non si avvicina a un altro senza scambiare con lui, per circa un quarto d’ora, delle formule convenzionali di gentilezza la cui omissione sarebbe considerata come un’offesa mortale. I popoli più civili non sono dunque i più civilizzati. Resta da sapere, è vero, se la civiltà si confonda con la politesse e se l’autentica politesse sia cerimoniosa. Le precauzioni infinite di cui certi personaggi si circondano per parlarvi sembrano calcolate apposta per tenervi a distanza; la loro gentilezza è senz’altro una vernice, ma una di quelle vernici troppo fresche alle quali si ha paura di avvicinarsi. Non vi sentite a vostro agio quando vi capita di stargli vicino; li intuite egoisti, orgogliosi o indifferenti; ben presto, in torto anche voi, finite per interpretare negativamente tutto ciò che dicono e fanno: se sorridono, credete che è per pietà; se vi danno pienamente ragione, è per sbarazzarsi di voi più in fretta; se vi accompagnano alla porta, è per meglio assicurarsi che siete andati via. Non voglio dire che occorra rompere con le forme e le formule della civiltà; non tenerne conto è segno di cattiva educazione. Ma non posso credere che delle formule belle e fatte, che si imparano a memoria e senza la minima fatica, che si adattano in egual misura al più stupido e al più saggio, che le razze inferiori rispettano quanto e più di noi, siano l’ultima parola della politesse. Cos’è essa allora, e come la potremmo definire? Nel fondo dell’autentica politesse troverete un sentimento, che è l’amore per l’uguaglianza. Ma ci sono molte maniere di amare l’uguaglianza e di comprenderla. La peggiore di tutte consiste nel non tenere affatto conto della superiorità di talento o di valore morale. È una forma d’ingiustizia, generata dalla gelosia, dall’invidia, o da un incosciente desiderio di dominio. L’uguaglianza che la giustizia reclama è un’uguaglianza di rapporto, e di conseguenza una proporzione, tra il merito e la ricompensa. Chiamiamo educazione di modi, se volete, una certa arte di testimoniare a qualcuno, con l’atteggiamento e le parole, la stima e la considerazione alle quali ha diritto. Non diremmo che questa educazione esprime a suo modo l’amore per l’uguaglianza? La politesse dello spirito è un’altra cosa. Ogni uomo ha delle disposizioni particolari, che ricava dalla natura, e delle abitudini che deve 139

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all’educazione ricevuta, alla professione che esercita, al posto che occupa nel mondo. Queste abitudini e queste disposizioni sono, la maggior parte delle volte, appropriate alle circostanze che le hanno prodotte; esse conferiscono alla nostra personalità la sua forma e il suo colore. Ma proprio perché variano all’infinito da un individuo all’altro, non vi sono due uomini che si somiglino; e la diversità dei caratteri, delle tendenze, delle abitudini acquisite si accentua man mano che si succede un sempre maggior numero di generazioni umane, man mano che la civilizzazione crescente divide ulteriormente il lavoro sociale e rinchiude ciascuno di noi entro i limiti sempre più ristretti di ciò che si chiama un mestiere o una professione. Questa diversità infinita delle abitudini e delle disposizioni deve essere considerata come un beneficio, giacché è il risultato necessario di un progresso compiuto dalla società; ma non è senza inconvenienti. Fa sì che ci sentiamo spaesati quando usciamo dalle nostre occupazioni abituali, che ci comprendiamo meno gli uni gli altri: in una parola, questa divisione del lavoro sociale, che restringe l’unione degli uomini su tutti i punti importanti rendendoli solidali gli uni con gli altri rischia di compromettere le relazioni puramente intellettuali, che dovrebbero essere il lusso e l’attrattiva della vita civilizzata. Sembra dunque che la capacità di contrarre abitudini stabili, appropriate alle circostanze in cui ci si trova e al posto che si pretende di occupare nel mondo, richiami a sua volta un’altra facoltà che ne corregge o ne attenua gli effetti, la facoltà di rinunciare, all’occorrenza, alle abitudini che si sono contratte o persino alle disposizioni naturali che si è riusciti a sviluppare in se stessi, la facoltà di mettersi nei panni degli altri, di interessarsi alle loro occupazioni, di pensare con la loro testa, di rivivere la loro vita, in una parola e di dimenticarsi di sé stessi. In questo consiste la politesse dello spirito, che non è altro, a quanto sembra, se non una specie di elasticità intellettuale. Il perfetto uomo di mondo sa parlare a ciascuno di ciò che gli interessa; entra nei punti di vista altrui senza farli sempre suoi; comprende tutto senza per questo scusare tutto. Ciò che ci piace di lui è la facilità con cui circola tra i sentimenti e le idee; è forse anche l’arte che possiede, quando ci parla, di lasciarci credere che non sarebbe il medesimo con tutti; perché la caratteristica di quest’uomo così bene educato è quella di preferire ciascuno dei suoi amici agli altri e di riuscire così ad amarli tutti in ugual misura. Eppure, un giudice troppo severo potrebbe mettere in dubbio la sua sincerità e la sua franchezza. Ma non ingannatevi; ci sarà sempre 140

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tra questa politesse raffinata e l’ipocrisia ossequiosa la stessa distanza che c’è tra il desiderio di servire le persone e l’arte di servirsi di loro. Essa è fatta, innanzitutto, lo so bene, del desiderio di piacere; ma il desiderio di piacere non si ritrova forse anche nel fondo della grazia? Non so se avete mai provato ad analizzare il sentimento che lo spettacolo di una danza graziosa, per esempio, fa nascere nell’animo. È innanzitutto l’ammirazione per coloro che eseguono con agilità e come per gioco dei movimenti variati e rapidi, senza arresti e senza scosse, senza soluzione di continuità, essendo ogni figura indicata in quelle che la precedono, mentre annuncia quelle che la seguiranno. Ma c’è qualcosa di più: rientra nel nostro sentimento della grazia, contemporaneamente alla simpatia per la leggerezza dell’artista, l’idea di liberare noi stessi della nostra pesantezza e materialità. Coinvolti nel ritmo della sua danza, adottiamo la finezza del suo movimento senza prender parte al suo sforzo e ritroviamo così la squisita sensazione di quei sogni nei quali il nostro corpo ci sembra aver abbandonato il suo peso, l’estensione la sua resistenza, la forma la sua materia. Ebbene, tutti gli elementi della grazia fisica li ritroverete in questa politesse che è la grazia dello spirito. Come la grazia, essa suscita l’idea di un’agilità senza limiti; come la grazia, essa fa propagare tra gli animi una simpatia mobile e leggera; come la grazia, infine, ci trasporta da questo mondo nel quale la parola è in funzione dell’azione e l’azione stessa è in funzione dell’interesse, ad un altro, totalmente ideale, ove parole e movimenti si liberano della loro utilità e non hanno altro scopo che quello di piacere. Non diremo forse che questa educazione dai mille aspetti diversi, che presuppone certe qualità del cuore e molte qualità dello spirito, che consiste, in fondo, nella perfetta libertà dell’intelligenza, sia l’educazione ideale e che il moralista più severo avrebbe torto ad esigere qualcosa di più o di meglio? Ebbene no, amici miei. Al di sotto di questa politesse, che è solo un talento, ne concepisco un’altra, che sarebbe quasi una virtù. Vi sono animi timidi, avidi di approvazione perché non si fidano di sé stessi, che uniscono, ad una vaga consapevolezza del proprio valore, il desiderio e il bisogno di sentirlo lodare dagli altri. È vanità, è modestia? Non lo so; ma mentre il vanitoso ci ripugna con la sua pretesa di imporre agli altri la buona opinione che ha di sé, invece ci sentiamo attirati verso coloro che attendono ansiosamente di avere del proprio valore quello stesso riconoscimento favorevole che volentieri vogliamo dargli. Un elogio 141

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meritato, una parola amabile, potrà produrre su questi animi l’effetto di un raggio di sole che cade improvvisamente su di una campagna desolata; come questo, essa li farà riprendere vita e persino, più efficace, trasformerà talvolta in frutti dei fiori che si sarebbero seccati senza di esso. Al contrario, un’allusione involontaria, una parola di biasimo uscita da labbra autorevoli, possono gettarci in quella tristezza in cui, scontenti di noi, disperando del futuro, crediamo di veder chiudersi davanti a noi tutte le strade della vita. Allo stesso modo in cui il cristallo infinitamente piccolo, cadendo in una soluzione sovrasatura, richiama a sé l’immensa moltitudine delle molecole sparse e fa sì che il liquido trasparente si trasformi di colpo in una massa opaca e solida, così, al leggero suono di quel rimprovero appena caduto in mezzo ad esse, accorrono, di qua o di là, da mille punti diversi e attraverso tutte le vie che vanno in fondo al cuore, le timidezze in apparenza vinte, le delusioni per un istante consolate, tutte quelle tristezze fluttuanti che aspettavano solo un’occasione per cristallizzare in massa compatta e gravare con tutto il loro peso su di un animo ormai inerte e scoraggiato. Questa sensibilità un po’ morbosa è cosa rara, fortunatamente; ma chi è che non si è sentito, in certi momenti, dolorosamente colpito nel suo amor proprio e d’un tratto frenato nello slancio che avrebbe potuto prendere, mentre invece in altri momenti un’armonia deliziosa lo invade, perché una parola scivolata all’orecchio, insinuandosi nell’animo e frugandolo fin nelle pieghe più segrete, è venuta a toccare questa fibra nascosta che non può risuonare senza che tutte le potenze dell’essere si scuotano con essa e e vibrino all’unisono? Non sarà forse questo punto, giovani allievi, la politesse più elevata, la politesse del cuore, quella che chiameremmo una virtù? È la carità che si esercita nella regione dell’amor proprio, laddove talvolta conoscere il male è così difficile quanto desiderare guarirlo. Una grande bontà naturale ne è il fondo; ma questa bontà resterebbe forse inefficace se la penetrazione dello spirito non vi unisse la finezza e una conoscenza profonda del cuore umano. Sembra dunque che la politesse in tutte queste forme, politesse dello spirito, politesse dei modi e politesse del cuore, ci introduca in una repubblica ideale, vera città dello spirito, dove la libertà sarebbe la liberazione delle intelligenze, l’uguaglianza un’attribuzione equa della considerazione e la fraternità una simpatia delicata per le sofferenze della sensibilità. Essa prolungherebbe la giustizia e la carità al di là del mondo tangibile; aggiungerebbe alla vita di tutti i giorni, nella quale si 142

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stabiliscono relazioni utili tra gli uomini, l’attrattiva sottile di un’opera d’arte. La politesse così intesa reclama il concorso dello spirito e del cuore; ciò significa che non s’insegna affatto; ma se qualcosa potesse predisporvi ad essa, sarebbero gli studi disinteressati, e in particolare quelli che fate qui, giovani allievi, gli studi classici. L’eminente maestro che ci fa l’onore di presiedere questa manifestazione3 ha parlato in qualche parte della simpatia che il culto dell’antichità classica alimentava un tempo tra i letterati di tutti i paesi. C’erano allora delle bellezze indiscusse e si era d’accordo nell’ammirarle. Si metteva qualcosa di sé negli autori preferiti, li si amava e persino ci si inorgogliva un po’ della loro gloria, come quando si crede di compartire, soltanto pensandovi, la reputazione di un antico compagno giunto alla celebrità. Non è forse vero che gli studi fatti in comune e il ricordo che se ne conserva possono creare tra gli spiriti una società dello stesso genere? Alla vostra età, giovani allievi, i ricordi si imprimono più rapidi e più profondamente nella memoria, e se i nostri più cari amici sono nostri amici d’infanzia è forse perché i ricordi d’infanzia sono i più duraturi, dato che l’amicizia vive di ricordi e le gioie stesse dell’uomo adulto, quali che siano, devono la parte migliore del loro fascino a un passato lontano di cui gli ridanno per qualche istante la freschezza. Questi ricordi d’infanzia, che fondano l’amicizia e che sono essi stessi degli amici, non diverrebbero forse i grandi conciliatori degli spiriti e dei cuori, il giorno in cui un’educazione realmente nazionale riunisse il maggior numero di cittadini in simpatie comuni? Allora si diffonderebbe, allora si generalizzerebbe la politesse dello spirito, non quella politesse artificiosa data dalla semplice frequentazione del mondo, ma quella che nasce naturalmente dall’accordo e dal sodalizio delle intelligenze. Senza andare così lontano, non si potrebbe dire che la migliore preparazione a questa politesse dello spirito sia ancora la lettura degli autori antichi? Gli antichi avevano consacrato alle idee un amore più puro del nostro, perché le amavano per sé stesse, mentre noi le amiamo per ciò che ci danno. L’idea è per noi soprattutto un principio di azione; per gli antichi era oggetto di contemplazione. Ricordatevi certe pagine dei dialoghi di Platone, e la deliziosa inutilità di quelle conversazioni 3 Si tratta del latinista Marie Louis Antoine Gaston Boissier, allora professore al Collège de France. Il saggio a cui Bergson si riferisce è Les théories nouvelles du poéme épique, in «Revue des Deux-Mondes», 15 febbraio 1867, pp. 848-879.

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in cui Socrate e i suoi discepoli sembravano meno preoccupati di affermare il loro pensiero che di darne spettacolo e persino di giocare con esso. Noi siamo preoccupati di arrivare alla meta, e il nostro inseguimento delle idee assomiglia ad una corsa; quello degli antichi era una passeggiata, ed essi si attardavano volentieri lungo la strada perché la trovavano bella. Insomma, se la nostra morale è più profonda della morale antica, se la nostra giustizia è più stretta e la nostra carità più larga, se noi comprendiamo meglio ciò che forma la serietà, la gravità e, in definitiva, l’importanza della vita, gli antichi però ne hanno meglio gustato il fascino. E amando la vita che si sono resi amabili, ed essi l’amavano perché vi sapevano scoprire la bellezza, e, come direbbe Platone, risolvere le cose in idee. Seguiamo il loro esempio, e se non abbiamo più lo stesso tempo libero per abbandonarci alla contemplazione della bellezza, almeno impariamo alla loro scuola l’educazione dello spirito e l’arte di trovare la vita amabile. Posso aggiungere che la filosofia completa felicemente su questo punto gli studi letterari? Un antico4 ha detto che, in una repubblica in cui tutti i cittadini fossero amici della scienza e della speculazione filosofica, tutti i cittadini sarebbero amici gli uni degli altri. Certamente con questo non intendeva dire che la scienza metta fine alle discussioni e alle lotte, quanto piuttosto che la discussione divenga meno aspra e la lotta meno violenta nel momento in cui queste si impegnino tra idee pure. Perché l’idea, in fondo, è amica dell’idea, anche dell’idea contraria, e i gravi dissensi derivano sempre dal fatto che mescoliamo le nostre passioni grossolane e umane alle idee, che sono ciò che c’è di divino in noi. L’intolleranza forse è soltanto una certa incapacità di isolare il pensiero dall’azione; consiste nel far comparire le idee altrui non davanti alla nostra sola ragione, ma davanti agli appetiti e ai desideri che le fanno da rumoroso corteo. Ora, per distaccare la nostra intelligenza dalla passione e insegnarle a ritrovarsi negli altri, occorre mostrarle chiaramente che le dottrine più opposte hanno un principio comune, che esse derivano le une dalle altre per una lenta evoluzione, che la maggior parte delle volte, adirandoci contro ciò che si crede essere l’opinione altrui, si condanna anche la propria, e che l’errore stesso è fonte di verità. È questo che l’insegnamento della filosofia mette in piena luce. Sì, questa disposizione di spirito molto frequente in coloro 4 Aristotele.

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che hanno approfondito la filosofia, e che si finge sempre di confondere con lo scetticismo, bisognerebbe chiamarla tolleranza, imparzialità, cortesia, politesse. La politesse è dunque tutt’altro che un lusso; non è soltanto un’eleganza della virtù. Alla grazia essa unirà la forza, il giorno in cui, propagandosi progressivamente, sostituirà dappertutto la discussione alla disputa, attutirà l’urto delle opinioni contrarie e condurrà i cittadini a conoscersi meglio e ad amarsi meglio gli uni gli altri. È con questo consiglio, giovani allievi, che concludo. Sappiate che coltivando la vostra intelligenza, ampliando il vostro pensiero, esercitandovi, in una parola, alla politesse superiore dello spirito, lavorate a saldare questi legami e a rafforzare questa unione dalla quale dipendono l’avvenire e la grandezza della Patria.

Il buon senso e gli studi classici5 L’onore è sempre stato grande e il compito difficile, di dover prendere la parola in questa imponente solennità universitaria; mi sembra tuttavia che la responsabilità divenga ogni anno più gravosa, poiché il problema dell’educazione, sul quale non vorremo ritornare continuamente, sta assumendo un aspetto sempre più serio e si pone in termini sempre più pressanti. Tutti sono d’accordo sul fatto che gli studi classici hanno ben altro scopo che adornare lo spirito e che incombe su di noi il compito di formare cittadini coscienti del proprio dovere e preparati a compierlo: ciò che la società offre in istruzione vorrebbe vederselo restituire in saggezza. Ma ci si chiede con crescente inquietudine se gli studi disinteressati possiedano questa efficacia pratica e in particolare se il buon senso, che è una virtù civica nei paesi liberi, dipenda o meno dal grado di cultura intellettuale. D’altronde, comunque si risolva la questione, sia in caso affermativo che negativo, nessuno potrà ritenersi soddisfatto; infatti, se il buon senso non dipende dall’istruzione, la società dovrà dichiararsi senza alcuna influenza su ciò di cui ha più bisogno; e se dipende soprattutto da essa, se la saggezza va aumentando con questa cultura superiore dello spirito che resterà sempre un privilegio, 5 Discorso pronunciato il 30 luglio 1895, in occasione della consegna dei premi del concorso generale, nell’anfiteatro della Sorbona, con la Presidenza di R. Poincaré, ministro dell’Istruzione Pubblica. Mélanges, cit., pp. 359-372.

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si dovrà guardare con occhio mesto l’irresistibile corrente che porta il potere nelle mani della massa. Per fortuna, non è affatto necessario fermarsi all’uno o all’altro di questi due estremi. Vorrei mostrare che il buon senso consiste in parte in una disposizione attiva dell’intelligenza, ma in parte anche in una certa diffidenza tutta particolare dell’intelligenza nei confronti di se stessa; che l’istruzione gli fornisce un sostegno, ma che esso spinge le radici a delle profondità dove l’istruzione non penetra affatto; e che gli studi classici gli giovano molto, ma grazie ad esercizi comuni ad ogni indirizzo di studi, che si possono praticare senza maestro; che anche il compito dell’educatore consiste soprattutto, in simile materia, nel condurre tramite un artificio gli uni laddove altri sono collocati immediatamente dalla natura. Ma cos’è veramente il buon senso e a quali potenze, a quali disposizioni generali dell’anima si ricollega questo atteggiamento intellettuale? La funzione dei nostri sensi, in generale, non è tanto di farci conoscere gli oggetti materiali quanto piuttosto di indicarcene l’utilità. Noi gustiamo i sapori, respiriamo gli odori, distinguiamo il caldo e il freddo, l’ombra e la luce. Ma la scienza ci insegna che nessuna di queste qualità appartiene agli oggetti nella forma in cui le percepiamo; esse ci indicano soltanto, nel loro pittoresco linguaggio, l’inconveniente o il vantaggio che le cose hanno per noi, i servizi che potranno renderci, i pericoli che ci faranno correre. I nostri sensi, dunque, ci servono innanzitutto per orientarci nello spazio; non sono volti verso la scienza, ma verso la vita. Orbene, noi non viviamo soltanto in un ambiente materiale, ma anche in un ambiente sociale. Se tutti i nostri movimenti si trasmettono nello spazio e scuotono così una parte dell’universo fisico, al contrario, la maggior parte delle nostre azioni ha delle conseguenze immediate o lontane, buone o cattive prima per noi, poi per la società che ci circonda. Prevedere queste conseguenze, o piuttosto prevenirle; distinguere in materia di condotta l’essenziale dall’accessorio, o dall’indifferente; scegliere tra le diverse opzioni possibili quella che comporterà un bene maggiore, non immaginabile ma realizzabile: ecco, a quanto sembra, la funzione del buon senso. Si tratta, dunque, di un senso sui generis, ma mentre gli altri sensi ci mettono in rapporto con le cose, il buon senso presiede alle nostre relazioni con le persone. C’è un sottile presentimento del vero e del falso, che ha potuto scoprire tra le cose, molto prima della prova rigorosa o dell’esperienza decisiva, segrete incompatibilità o insospettate affinità. Viene chiamato 146

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genio questa intuizione di ordine superiore, intuizione necessariamente rara, giacché l’umanità potrebbe a rigore farne a meno. Ma la vita di tutti i giorni richiede a ciascuno di noi soluzioni molto nette e decisioni molto rapide. Ogni azione importante viene a chiudere una lunga serie di ragioni e di condizioni, per dispiegarsi immediatamente in conseguenze tali per cui, se essa dipendeva da noi, a nostra volta noi dipendiamo da essa. Pertanto, essa non ammette generalmente né esitazioni né ritardi; occorre prendere una decisione e, senza prevedere tutti i dettagli, comprendere l’insieme. L’autorità che invochiamo allora, quella che elimina le nostre esitazioni e risolve la difficoltà, è il buon senso. Sembra dunque che il buon senso sia nella vita pratica ciò che il genio è nelle scienze e nelle arti. Ma guardiamo più da vicino: il buon senso non è, così come non lo è il genio, un atteggiamento passivo dello spirito che attende, in mezzo alla notte, che il lampo brilli e si faccia la luce. Se il genio indovina la natura, è perché ha vissuto con essa in stretta familiarità. Anche il buon senso, allora, esige un’attività incessantemente in veglia, un adattarsi sempre rinnovato a situazioni sempre nuove. Nulla teme di più dell’idea bella e fatta, senz’altro frutto maturo dello spirito, ma frutto staccato dall’albero, ben presto disseccato, che non presenta più, nella sua rigidità, che il residuo inerte del lavoro intellettuale. Il buon senso è questo stesso lavoro. Vuole che consideriamo ogni problema come nuovo e gli rendiamo l’onore di un nuovo sforzo. Esige da noi il sacrificio, talvolta penoso, delle opinioni che ci eravamo fatte e delle soluzioni che tenevamo pronte. Insomma, sembra che non sia tanto in rapporto con una scienza superficialmente enciclopedica quanto con un’ignoranza cosciente di sé stessa, accompagnata dal coraggio di apprendere. Se si avvicina all’istinto per la rapidità delle decisioni e la spontaneità della natura, vi si oppone profondamente per la varietà dei mezzi, l’elasticità della forma, e la sorveglianza gelosa di cui ci circonda per preservarci dall’automatismo intellettuale. Se assomiglia alla scienza per la preoccupazione del reale e l’ostinazione a restare in contatto con i fatti, se ne distingue per il genere di verità che persegue; giacché non punta, come la scienza, alla verità universale, ma a quella dell’ora presente, e non mira tanto ad avere ragione una volta per tutte, quanto a ricominciare sempre ad avere ragione. D’altra parte, la scienza non trascura alcun fatto d’esperienza, nessuna conseguenza del ragionamento: essa calcola la parte di tutte le influenze e spinge fino in fondo 147

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la deduzione dei suoi principi. Il buon senso sceglie. Certe influenze le ritiene praticamente trascurabili e si ferma nello sviluppo di un principio al punto preciso in cui una logica troppo brutale offenderebbe la delicatezza del reale. Tra i fatti e le ragioni che lottano, si urtano e si spingono, esso fa in modo che si operi una selezione. Insomma, esso è più dell’istinto e meno della scienza; bisognerebbe piuttosto vedervi una certa piega dello spirito, una certa inclinazione dell’attenzione. Si potrebbe quasi dire che il buon senso è l’attenzione stessa, orientata nel senso della vita. Per questo motivo, esso non ha nemici maggiori, nella città, dello spirito di “routine” e dello spirito chimerico. Ostinarsi in abitudini che si erigono a leggi, resistere al cambiamento, significa lasciar distrarre il proprio sguardo dal movimento che è la condizione della vita. Ma non è anche per debolezza di volontà o distrazione di spirito che ci si abbandona alla speranza di trasformazioni miracolose? Tra questi due generi di spiriti, la distanza è meno grande di quanto non si crederebbe inizialmente: egualmente lontani dall’azione efficace, essi differiscono soprattutto per il fatto che l’uno pretende semplicemente di dormire, mentre l’altro vuole anche sognare. Ma il buon senso non dorme né sogna. Simile al principio della vita, veglia e lavora senza sosta, appesantito senza dubbio dalla materia che esso anima, ma reso consapevole della realtà della sua azione dalla materialità stessa del suo sforzo. La sua moderazione non assomiglia a quella dei timidi, che ritengono l’azione pericolosa e cercano di cautelarsi contro di essa; al contrario, esso ama l’azione, non procede per gradi se non per ottenere la trasformazione, con un progresso più naturale, e si avvicina ancora in tal modo alla vita, di cui non si sa se si debbano ammirare di più le sfumature armoniosamente fuse delle transizioni o il contrasto splendente delle metamorfosi. Insomma, più lo si esamina da vicino, più esso tende a confondersi con lo spirito di progresso, purché si comprenda in questa espressione, allo stesso tempo, un’aspirazione energica al meglio e un esatto apprezzamento del grado di elasticità delle cose umane. Qual è dunque il principio del buon senso? Come toccarne il fondo? Dove scoprirne l’anima? Deriva forse, come è stato detto, dall’esperienza? Rappresenta, riuniti e condensati, i risultati delle osservazioni passate? Ma il tempo, man mano che avanza, srotola situazioni sempre nuove, che esigono da noi uno sforzo sempre originale. Consiste forse in una maggiore sicurezza di ragionamento, esercitata, da un lavoro 148

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logico, a dedurre da un principio generale delle conseguenze sempre più lontane? Ma la nostra deduzione è molto rigida, e molto flessibile è la vita. Per quanto rendessimo stringenti i nostri ragionamenti, essi seguirebbero male i contorni delicati e sfuggenti della realtà diveniente. Il buon senso ragiona, ne convengo, e talvolta su principi generali; ma comincia col piegarli nella direzione della realtà presente; ma questo lavoro di adattamento, che non si eleva al di sopra del ragionamento puro, non è appunto il compito più specifico del buon senso? No, il buon senso non risiede né in un’esperienza più vasta, né in ricordi meglio classificati, né in una deduzione più esatta, neanche, più in generale, in una logica più rigorosa. Strumento innanzitutto di progresso sociale, esso non può ricavare la sua forza se non dal principio stesso della vita sociale, dallo spirito di giustizia. Oh! Non voglio parlare di quella giustizia teorica e astratta che, incurante del reale, traccia nello spazio vuoto un piano geometrico e pone la forma senza darci la materia. Il più delle volte, essa risulta incapace di trovare un punto di contatto con i fatti, e se vi riesce, è condotta dalla loro resistenza, della quale non aveva tenuto conto nei suoi calcoli, a dubitare della sua stessa virtù e a disperare di sé stessa. Parlo della giustizia incarnata nell’uomo giusto, della giustizia vivente e attiva, attenta a inserirsi negli avvenimenti, ma che pesa sulla sua bilancia l’atto e la conseguenza, e che non teme che una cosa sola: acquistare il bene a prezzo di un male più grande. La giustizia, quando si realizza così in un uomo dabbene, diventa un senso delicato, una visione o piuttosto un tatto della verità pratica. Gli dà l’esatta misura di ciò che deve esigere da sé e di ciò che può aspettarsi dagli altri. Lo conduce direttamente, come farebbe l’istinto più sicuro, a ciò che è desiderabile e realizzabile. Gli mostra le ingiustizie da correggere e di conseguenza il bene da fare, le precauzioni da prendere, vale a dire l’ingiustizia da non commettere. Lo salvaguarda dagli errori e dalle mancanze di accortezza, grazie a quella rettitudine del giudizio che deriva dalla dirittura dell’animo. Semplice e chiara, equivale ai ragionamenti seguiti ed alle esperienze moltiplicate, come alla moneta, l’oro puro. Se essa porta in tal modo con sé l’intelligenza della vita, significa che certamente ne ha toccato il principio e, benché brilli di tutto il suo splendore solo nei migliori tra noi, nondimeno essa manifesta ciò che vi è di essenziale e di più intimo nell’umanità. Allo stesso modo, per scoprire gli strati profondi della crosta terrestre, quelli che i grandi 149

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sollevamenti hanno tratto fuori dall’anima stessa della terra, occorre salire sulle cime. Vedo, dunque, nel buon senso l’energia interiore di un’intelligenza che si riconquista ogni momento su sé stessa, eliminando le idee già fatte per lasciare il posto libero alle idee che si fanno e si modellano sul reale, grazie allo sforzo continuo di un’attenzione perseverante. E vi vedo anche l’irradiamento intellettuale di un ardore morale intenso, la giustezza delle idee che si modellano sul sentimento della giustizia, insomma lo spirito raddrizzato dal carattere. La nostra filosofia, tutta presa dalle distinzioni precise, traccia una linea di demarcazione molto netta tra l’intelligenza e la volontà, tra la moralità e la conoscenza, tra il pensiero e l’azione. Si tratta, effettivamente, di due direzioni differenti che intraprende, nel suo svilupparsi, la natura umana. Ma l’azione e il pensiero mi sembra che abbiano una fonte comune, che non è né pura volontà né pura intelligenza, e questa fonte è il buon senso. Infatti, non è forse il buon senso a dare all’azione il suo carattere ragionevole e al pensiero il suo carattere pratico? Esaminate, nei grandi problemi filosofici, la soluzione del buon senso: troverete, credo, che è la soluzione socialmente utile, quella che facilita il linguaggio e favorisce l’azione. Studiate, d’altra parte, i comportamenti e gli atti che il buon senso consiglia: vedrete che esso ha parlato, senza riflessione approfondita, come avrebbe fatto la perfetta ragione. Sembra dunque che il buon senso proceda in materia speculativa appellandosi al volere, e in materia pratica ricorrendo alla ragione. Di modo che si potrebbe essere tentati di vedere in esso un effetto misto, frutto di un accordo intimo tra le esigenze del pensiero e quelle dell’azione. Ed è proprio così che occorre parlare per essere chiari, ma tenderei, per la verità, a inquadrare le cose in modo del tutto diverso, a vedere nel buon senso la disposizione originale, e invece, nelle abitudini del pensiero e nelle leggi della volontà, due emanazioni, due sviluppi divergenti di questa facoltà primitiva di orientamento. Infatti, non posso rappresentarmi né il gioco delle volontà associate senza un fine ultimo ragionevole, né il funzionamento naturale del pensiero senza una destinazione pratica. Bisogna allora che queste due forme dell’agire si possano far derivare da un’unica e medesima potenza, che risponde alle necessità fondamentali della vita in società; ed è proprio questa specie di senso sociale a ricevere il nome di buon senso. Se esso è anche il fondo, l’essenza stessa dello spirito, non lo si dovrebbe trovare, come 150

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diceva Descartes, “tutto intero in ciascuno”, innato e universale, indipendente dall’educazione? sarebbe così, credo, se non ci fossero altro che elementi vivi nell’anima e nella società, se non fossimo condannati a trascinare con noi i pesi morti dei vizi e dei pregiudizi, se per di più non ci succedesse, a causa di una distrazione momentanea o durevole, di vivere e di pensare esteriormente a noi stessi, insomma, se non lasciassimo che la nostra intelligenza prenda delle decisioni, per così dire, astratte, invece di mantenerla fermamente in contatto con l’energia tesa del volere. Ma è raro che la natura produca spontaneamente un animo libero e padrone di sé stesso, un animo accordato all’unisono con la vita. L’educazione deve intervenire il più spesso possibile, non tanto per imprimere uno slancio quanto per scartare gli ostacoli, anzi meglio, per togliere un velo piuttosto che per apportare la luce. Fin dove si estende questa influenza dell’educazione e in particolare degli studi classici? Cosa possono fare e cosa dobbiamo chiedere loro? Sulle diverse forze che ho appena enumerato, tutte capaci di far deviare il buon senso, essi non hanno senz’altro la medesima influenza. Uno dei più grandi ostacoli, dicevamo, alla libertà dello spirito, sono le idee che il linguaggio ci presenta belle e fatte, e che noi respiriamo, per così dire, nell’ambiente che ci circonda. Esse non si assimilano mai alla nostra sostanza: incapaci di partecipare alla vita dello spirito, esse perseverano, autentiche idee morte, nella loro rigidità e immobilità. Perché allora le preferiamo così spesso a quelle che vivono e che vibrano? Perché il nostro pensiero, invece di lavorare a rendersi padrone di sé, preferisce esiliarsi da sé stesso? È innanzitutto per distrazione e perché, a forza di divertirci lungo la strada, non sappiamo più dove volevamo andare. Forse avrete notato, davanti ai nostri monumenti e nei nostri musei, degli stranieri che tengono in mano un libro aperto, in cui trovano descritte, senza dubbio, le meraviglie che li circondano. Assorbiti in quella lettura, non sembrano talvolta dimenticare per essa le bellezze che erano venuti a vedere? È così che molti di noi viaggiano attraverso l’esistenza, gli occhi fissi su delle formule che leggono come in una specie di guida interiore, trascurando di guardare la vita per regolarsi semplicemente su ciò che se ne dice, e pensando solitamente a delle parole, piuttosto che alle cose. Ma forse in questo caso c’è qualcosa di più e di meglio che una distrazione accidentale dello spirito. Forse una legge naturale e necessaria vuole che il nostro spirito cominci con 151

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l’accettare le idee già fatte e viva sotto una specie di tutela, in attesa dell’atto di volontà, sempre aggiornato in alcuni, grazie al quale egli riafferrerà sé stesso. Il fanciullo non percepisce nella natura esteriore che quelle forme grossolane e convenzionali che disegna di getto sulla carta fin da quando ha una matita in mano: esse si interpongono, in lui, tra l’occhio e l’oggetto, gli presentano una semplificazione comoda, e in molti di noi continueranno a interporsi in tal modo, fino al giorno in cui l’arte verrà ad aprirci gli occhi sulla natura. Paragonerei volentieri a questi disegni del fanciullo le idee che troviamo rinchiuse nelle parole. Ogni parola sicuramente rappresenta una porzione della realtà, ma una porzione grossolanamente ritagliata, come se l’umanità avesse troncato secondo la sua comodità e i suoi bisogni, invece di seguire le articolazioni del reale. Per molti di noi è bene adottare provvisoriamente questa filosofia e questa scienza già fatte; ma non sono che dei punti di appoggio per salire più in alto. Attraverso le idee che si sono raffreddate e cristallizzate nel linguaggio, dobbiamo cercare il calore e la mobilità della vita. Riconosco proprio nell’educazione classica, innanzitutto, uno sforzo per rompere il ghiaccio delle parole e ritrovare al di sotto di esse la libera corrente del pensiero. Esercitandovi, giovani allievi, a tradurre le idee da una lingua ad un’altra, essa vi abitua a farle cristallizzare, per così dire, in più sistemi differenti; in tal modo, le libera da ogni forma verbale definitivamente chiusa e vi invita a pensare le idee stesse, indipendentemente dalle parole. Nella preferenza accordata all’antichità non c’era soltanto una grandissima ammirazione per i modelli puri; si riteneva senza dubbio che le lingue antiche, ritagliando secondo linee ben differenti dalle nostre la continuità delle cose, conducessero, con un esercizio più violento e più rapidamente efficace, alla liberazione dell’idea. E poi, fu mai tentato uno sforzo paragonabile a quello degli antichi Greci, per dare alle parole la fluidità del pensiero? Ma, in qualunque lingua si esprimano i grandi scrittori possono rendere il medesimo servizio alla nostra intelligenza; poiché tutti hanno avuto e tutti hanno cercato di darci la visione diretta del reale, nel caso in cui percepissimo le cose solo attraverso le nostre convinzioni, le nostre abitudini e i nostri simboli. In questo senso, l’educazione classica, anche quando sembrerebbe attribuire maggiore importanza alle parole, ci insegna soprattutto a non esserne ingannati. Essa 152

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potrà mutare di oggetto particolare; ma conserverà sempre il medesimo fine generale, che è quello di sottrarre il nostro pensiero all’automatismo, di liberarlo dalle forme e dalle formule, in definitiva, di ristabilirvi la libera circolazione della vita. La filosofia continua nella medesima direzione l’opera cominciata. Essa sottomette a critica i principi ultimi del pensiero e dell’azione. Non attribuisce nessun valore alla verità passivamente ricevuta: vuole che ciascuno di noi riconquisti la verità con la riflessione, il merito con lo sforzo, e facendola penetrare profondamente in sé, animandola della sua vita, le imprime una forza tale da fecondare il pensiero e dirigere la volontà. Il buon senso può, senza dubbio, fare a meno di essa; ma se esso consiste nello sforzo e tende innanzitutto alla libertà, non vedo dove potrebbe fare un tirocinio migliore. Ma non basta scartare i simboli e abituarsi a vedere. Occorre ancora, come dicevamo, disabituarsi da una certa maniera troppo astratta di giudicare e coltivare una modalità di attenzione molto particolare. Alcune scienze hanno il vantaggio di farci rasentare più da vicino la vita. È così che lo studio approfondito del passato ci aiuterà a comprendere il presente, a condizione tuttavia di stare in guardia contro le analogie ingannevoli e di cercare nella storia, secondo la parola profonda di uno storico contemporaneo6, le cause piuttosto che le leggi. Le scienze fisiche e matematiche hanno un oggetto meno concreto, ma ci fanno comprendere mirabilmente la virtù propria, e la finalità speciale, dei metodi che impieghiamo un po’ alla leggera tutti i giorni. Giacché, infatti, esse non generalizzano se non dove ci sono leggi stabili e non deducono che là dove possiamo creare le nostre definizioni, ci rivelano chiaramente, per un vero “passaggio al limite”, le condizioni ideali della deduzione rigorosa e della generalizzazione legittima. Più le approfondite, di conseguenza, e meno sarete tentati di trasporne i procedimenti, tali e quali, alle cose della vita pratica. Non solo perché la troppo grande precisione di questi procedimenti si tradurrebbe, al momento di agire, in troppo lunghe oscillazioni – un po’ come se si volesse utilizzare in cucina una bilancia da laboratorio – e ancora e soprattutto perché il buon senso correrebbe, credo, qualche grosso rischio in questa trasposizione. C’è un grave errore, che consiste nel ragionare sulla società come sulla natura, nello scoprirvi chissà quale meccanismo di leggi ineluttabili, insomma 6

Hippolyte Taine, Essai de critique et de l’histoire, Librairie de L. Hachette et Cie, Paris

1858.

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nel misconoscere l’efficacia del volere e la forza creatrice della libertà. Ce n’è un altro, quello degli spiriti chimerici, che pongono la formula di un ideale semplice, e ne deducono geometricamente le conseguenze per l’organizzazione della società, come se le definizioni in quest’ambito dipendessero da noi, come se la nostra libertà non incontrasse un limite nelle condizioni stesse della natura umana e della vita sociale. Il buon senso sta nel mezzo tra queste due maldestre imitazioni della fisica e della geometria. Forse, in senso stretto, esso non ha un vero e proprio metodo, quanto piuttosto un certo modo di fare. A rischio di urtare contro un’opinione diffusa, direi che il modo di procedere dei filosofi è quello che mi sembra più vicino al suo: ogni grande dottrina filosofica, infatti, si ricollega a dei principi e si fonda su dei fatti, ma non si può né indurla rigorosamente da quei fatti, giacché li supera, né dedurla interamente da quei principi, perché ha saputo renderli flessibili. Voi troverete talvolta, nel migliore discepolo di un grande maestro, una esposizione più sistematica della dottrina, nonché l’apparenza di una chiarezza superiore. È appunto perché egli ha seguito fino in fondo, con la sua logica più astratta e più semplice, le idee dominanti del sistema. Ma occorre risalire all’opera del maestro per entrare in comunicazione con la sua logica personale e profonda, modellata sul reale, elastica come la vita e capace, come la natura, di presentare elementi sempre nuovi al nostro pensiero che vorrebbe vanamente esaurirne l’analisi. Ebbene, questa facoltà mi sembra che sia effettivamente, in ambito speculativo, ciò che il buon senso è nella vita pratica. L’educazione del buon senso non consisterà, allora, soltanto nel liberare l’intelligenza dalle idee belle e fatte, ma nell’allontanarla anche dalle idee troppo semplici, nel trattenerla sulla china scivolosa delle deduzioni e delle generalizzazioni e, infine, nel preservarla da una troppo grande fiducia in sé stessa. Andiamo oltre: il più grande pericolo che l’istruzione può far correre al buon senso sarebbe di incoraggiare la nostra tendenza a giudicare uomini e cose da un punto di vista puramente intellettuale, di misurare il nostro valore e quello degli altri esclusivamente in merito allo spirito, di estendere questo principio alle società stesse, di non approvare delle istituzioni, delle leggi e dei costumi solo ciò che reca il marchio esterno e superficiale della chiarezza logica e dell’organizzazione semplice. Questa regola converrebbe forse ad una società di puri spiriti, dediti ad un’esistenza tutta speculativa; ma la vita reale è volta verso l’azione. L’intelligenza 154

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ne è una forza, ne convengo, e senz’altro la più appariscente di tutte, poiché la sua funzione è apportare la luce: ma non ne è la sola. Perché i doni dello spirito ci servono meno nella vita che le qualità del carattere? Come mai tanti spiriti brillanti e penetranti rimangono incapaci, malgrado i più grandi sforzi, di produrre un’opera o di esercitare un’azione? E perché le più belle parole restano senza eco, se sono state dette senza accento? Non sarà che l’intelligenza agisce per chissà quale potenza nascosta, della quale essa simbolizza lo sforzo, e che laddove questa forza manca, lo spirito non ha lo slancio sufficiente per andare lontano, né sufficiente peso per addentrarsi profondamente in ciò che tocca? Si è visto qui che la funzione crea l’organo, e che delle facoltà intellettuali inattese scaturiscono sotto la pressione di una forza morale intensa. Anche la storia ci insegna che la grandezza di una nazione dipenda meno dal suo appariscente sviluppo intellettuale che da certe riserve invisibili di energia di cui l’intelligenza si alimenta, vale a dire la forza del volere e la passione delle grandi cose. Ebbene, è questa idea che l’educazione può imprimere profondamente in noi, non con una dimostrazione speciale, ma con mille lezioni ricavate dalla storia e dalla vita. Essa non ci eviterà soltanto molte illusioni e sorprese, ma lancerà, grazie alla mediazione di questa intelligenza alla quale si orienta necessariamente, un appello energico alla potenza di sentire e di volere. E in tal modo collocherà nuovamente l’animo nella sua direzione naturale, che è appunto il buon senso. Ecco, mi sembra, i differenti punti sui quali il buon senso offre presa all’educazione in generale, agli studi classici in particolare. Richiamando la vostra attenzione, Signori, sull’ultimo e più importante di essi, non ho fatto altro che commentare delle parole che non avete affatto dimenticato, quelle che pronunciò qui stesso, due anni fa, il rettore dell’Università7: “Vorrei – diceva – che mettessimo nel ricercare il giusto e nel propagarlo un po’ di ardore e di immaginazione. Ricordatevi bene che, anche in un secolo di scienza e di pensiero, l’avvenire resterà sorridente e propizio per coloro soprattutto che avranno saputo conservare intatta la forza del sentire”. 7 Il riferimento, secondo Robinet, è a Raymond Poincaré. Cfr. Mélanges, cit., p. 1606. Non è da escludere, invece, che si tratti di Octave Gréard, vicerettore della Sorbona dal 1879 al 1902, anch’egli presente alla cerimonia.

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È questa forza del sentire che ho creduto di vedere alla radice del buon senso. Senza questa stretta parentela, senza questa armonia tra il senso del reale e la facoltà di emozionarsi profondamente per il bene, non si comprenderebbe come la Francia, questa terra classica del buon senso, si sia sentita sollevata attraverso l’intero corso della sua storia dalla spinta interiore dei grandi entusiasmi e delle passioni generose. La tolleranza che ha inscritta nelle sue leggi e che ha insegnato alle nazioni, la deve alla rivelazione di una fede giovane e ardente: le formule più sagge, più misurate, più ragionevoli del diritto e dell’uguaglianza, è in un momento di entusiasmo che le sono salite dal cuore alle labbra. Nei suoi scrittori maggiormente ispirati dal buon senso, in quegli stessi che hanno affinato il buon senso in spirito, si scorge, dietro le qualità di ordine, di metodo, di chiarezza, un calore intenso che è diventato luce. E la trasparenza stessa della lingua, la leggerezza alata della frase, fatta per portare lontano le idee generali, non rispondono forse allo slancio di un animo che cerca, per i sentimenti potenti che lo travagliano, l’aria libera e i grandi spazi? Credetelo, giovani allievi, la chiarezza delle idee, la fermezza dell’attenzione, la libertà e la moderazione del giudizio, tutto ciò forma l’involucro materiale del buon senso; ma è la passione della giustizia che ne è l’anima.

L’intelligenza8 Cari allievi, permettetemi innanzitutto di ringraziare il vostro amatissimo e distintissimo Preside del grande onore che mi ha concesso, proponendomi per la presidenza di questa solennità alla scelta benevola del Sig. Ministro. In secondo luogo, permettete che vi esprima il piacere che provo nel venire da voi. La vostra casa è quasi nuova, la vostra famiglia è di fondazione recente, non avete antenati. Ma se è rispettabile continuare una tradizione, c’è spesso maggiore difficoltà e talvolta più merito a crearne una. Quella che vi dedicate a creare qui è eccellente, lo so; 8 Discorso pronunciato il 31 luglio 1902, in occasione della consegna dei premi di fine anno al liceo Voltaire di Parigi. Presenti, tra le altre autorità, il Preside, Etienne Déprez. Bergson fa riferimento alla recente inaugurazione del liceo, nel 1891. Inizialmente pubblicato senza titolo e ristampato successivamente nel 1914, il discorso reca il titolo De l’intelligence. Mélanges, cit., pp. 554-560. Per la nota esplicativa del termine “intelligenza” cfr. supra, p. 117.

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e sono felice, oltre che lusingato, di dover presiedere la festa nella quale riceverete dei premi così ben guadagnati. Voi avete or ora ascoltato una bella e profonda lezione sull’indipendenza dello spirito e sull’indipendenza della volontà. Né l’una né l’altra di queste due indipendenze vengono da noi, occorre che noi andiamo da loro: dobbiamo conquistarle con lo sforzo. È lo sforzo a liberarci dalle schiavitù interiori; solo allo sforzo appartiene la potenza liberatrice. Vorrei ora dirvi qualche parola su ciò che chiamerò la potenza creatrice dello sforzo; è una potenza meravigliosa. Essa trasforma tutto ciò che tocca. Fa sì che il piombo più vile si cambi nell’oro più puro. Dal poco ricava molto e dal nulla qualcosa. Non è una qualità così preziosa, un talento così raro da non poterne dotare noi stessi, basta portare la nostra volontà al grado di concentrazione necessaria; per quel che mi riguarda, se fossi sicuro di aver condotto la mia fino a quel punto, rifiuterei come doni inutili la lampada di Aladino e la bacchetta magica che si attribuisce alle fate. Ho avuto come compagno, sui banchi del liceo, un ragazzo che non vi proporrei come modello, perché non era, a giudizio di tutti i suoi professori, né molto laborioso, né molto intelligente. Superò classe dopo classe con questa reputazione, e fece quanto era necessario per conservarla. Senza scendere a livello dei peggiori, restò sempre così lontano dai migliori, come se gli fosse stato detto che bisogna diffidare degli eccessi e che la virtù sta nel mezzo. Poiché la sua mediocrità si accompagnava alla mala sorte, fu bocciato due o tre volte all’esame di baccellierato: lo persi di vista nel momento in cui si poneva il problema di sapere chi si sarebbe stancato prima, se lui di presentarsi alla Sorbona o i suoi giudici di vederlo ritornare… L’ho ritrovato vent’anni dopo, non dirò un grande medico, ma un medico di spicco, molto stimato, molto consultato; si era innalzato alla considerazione, quasi alla notorietà e, cosa ancor più mirabile e ben più desiderabile, era diventato intelligente. Ho saputo dopo che, sedotto e assorbito dallo studio e soprattutto dalla pratica della medicina, egli si era come raccolto in sé stesso, aveva concentrato tutte le sue energie dell’animo, fissata su di un solo punto la sua attenzione fino ad allora distratta, aveva lanciato un appello a tutto ciò che era in lui capacità di volere e di emozionarsi e che, grazie a uno di quei transfert interiori di forza, più frequenti che non si creda, avendo per così dire fatto salire dal cuore alla testa la massa di energia così accumulata, era divenuto quel che aveva voluto essere, un uomo intelligente. 157

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L’intelligenza, miei cari amici (parlo soprattutto dell’intelligenza adulta, quella che l’uomo utilizza nelle scienze, nelle arti e nel corso ordinario della vita), non è ciò che qualcuno di voi s’immagina forse, un dono ripartito una volta per tutte tra tutti gli uomini, un seme caduto dall’alto, che il capriccio del vento porta dove gli piaccia soffiare. Guardiamoci dal confondere l’intelligenza stessa con i fiori, talvolta splendidi, che vediamo sbocciare su di essa. Di un compagno che ha memoria e una certa facilità, delle arguzie frizzanti, delle trovate piacevoli, vi piace dire che è un compagno intelligente. Senz’altro, questa facilità è spesso il segno esterno dell’intelligenza e questa vivacità dona all’intelligenza un grandissimo fascino. Ma l’intelligenza è un’altra cosa. Di un uomo che parla bene e che ascolta ancora meglio, che coglie immediatamente qualcuna delle grandi linee dell’argomento che gli si espone e che, spesso incapace di andare al di là di questa visione incompleta, se ne accontenta, ne ricava anche delle idee semplici destinate a sembrare chiare, che apprende così molto rapidamente, su ogni specie di problema, giusto quanto basta conoscere per discorrere verosimilmente su di esso, infine che ha l’abilità di non parlare e di non scrivere su uno stesso argomento se non per un tempo ben determinato, abbastanza lungo perché faccia valere ciò che sa, abbastanza breve perché possa tacere ciò che ignora, voi sentirete ancora dire che è un uomo intelligente. Riconosco che questa agilità intellettuale non si dà senza una qualche intelligenza, che può rendere grandi servigi quando è moderata dalla preoccupazione della verità, che è anche indispensabile a tutti arrivare a cogliere così all’ingrosso, dal di fuori, un mucchio di cose il cui interno ci sfuggirà sempre. Certo, nel grande concerto che i membri della società eseguono insieme, ciascuno deve senza dubbio conoscere a fondo la sua parte e il meccanismo del suo strumento, ma suonerebbe fuori tempo se ignorasse gli altri strumenti al punto da non poterli accompagnare, o se non avesse imparato a seguire da lontano, sui movimenti del direttore d’orchestra, il disegno esteriore dell’intera partitura. Riconosco tutto questo e aggiungo che l’istruzione che ricevete al liceo deve servire in gran parte a sviluppare in voi, e anche a orientare bene, questa capacità di comprensione molto generale, infinitamente estensibile, che è una specie di elasticità molto particolare dell’intelligenza. Ma l’intelligenza è un’altra cosa. La vera intelligenza è quella che ci fa penetrare all’interno di ciò che studiamo, ce ne fa toccare il fondo, aspirare lo spirito e sentire palpitare l’anima. 158

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Che sia l’intelligenza dell’avvocato o quella del medico, l’intelligenza dell’industriale o quella del commerciante, sempre l’intelligenza è quella corrente di simpatia che si stabilisce tra l’uomo e la cosa, come tra due amici che si intendono con mezza parola e che non hanno segreti l’uno per l’altro. Vedete come il critico esperto indovina le intenzioni più recondite dell’autore che commenta, come lo storico sagace legge tra le righe dei documenti che compulsa, come il chimico abile prevede le reazioni del corpo che manipola per la prima volta, come il buon medico previene i sintomi visibili della malattia, come il buon avvocato comprende il vostro affare meglio di quanto non lo comprendiate voi stesso. Tutti questi uomini manifestano, in questi campi differenti, una stessa capacità dello spirito, la capacità di accordarsi sulle cose, di seguirle nei loro movimenti più sottili e di vibrare simpateticamente con esse. Qual è questa capacità? La confonderemo forse con l’insieme delle conoscenze acquisite e immagazzinate? Niente affatto, giacché essa si applica senza sosta e con successo a dei casi totalmente nuovi. È la capacità di ragionare pura e semplice? Neanche questo, poiché il ragionamento da solo non ci conduce che a delle conclusioni generali, rivestimenti già fatti e rigidi che giungono raramente a contenere le forme impreviste e ondeggianti dei casi particolari: ora, questa facoltà dello spirito si modella esattamente sulla forma propria di ciascun problema e lavora soltanto su misura. No, non è nè la scienza allo stato puro, né il solo ragionamento, nulla di ciò che si impara a memoria o che si esprima in formule. È un adattamento preciso dello spirito al suo oggetto, un adeguamento perfetto dell’attenzione, una certa tensione interiore, che ci dà al momento desiderato la forza necessaria per cogliere prontamente, stringere vigorosamente, trattenere durevolmente. È in definitiva l’intelligenza, nel senso proprio del termine. Ne segue che l’intelligenza offre sempre il suo sostegno, nell’uomo adulto, nella direzione che preferisce a tutte le altre. Ha un campo d’azione preferenziale dove si sente a casa sua. Ha il suo ambiente familiare di oggetti con i quali si mantiene in comunicazione simpatetica. L’ambiente può essere più o meno vario, il campo d’azione più o meno vasto, ma questo non comporta un limite: non c’è, non può esserci un uomo universalmente intelligente. Ma la meraviglia delle meraviglie è che più la nostra intelligenza è a suo agio su di un terreno determinato (purché non sia troppo angusto) meno si sente spaesata su tutti gli altri. La natura ha sistemato così le cose. Ha predisposto tra i campi 159

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intellettuali più lontani delle comunicazioni sotterranee. Ha disposto tra gli ordini delle cose più diverse, come altrettanti fili invisibili, le leggi misteriose dell’analogia. Sarete sorpresi di vedere come un uomo che ha toccato il fondo della sua scienza, della sua arte o della sua professione, possa ulteriormente evolversi con relativa facilità in ambiti assai differenti. Lo potrà fare soprattutto se ha avuto la fortuna di ricevere un’istruzione come quella che vi si dà qui; perché uno dei principali obiettivi degli studi classici antichi e moderni, letterari o scientifici, è di procurare allo spirito, grazie ad una ginnastica appropriata, l’elasticità che gli permetterà di passare facilmente da ciò che sa a ciò che ignora, e di utilizzare un po’ dovunque la misura di cui si sarà assicurato su qualche punto. Ma è necessario ancora che egli pervenga a questa misura. L’essenziale dell’intelligenza è tutto qui. Ecco la corda tesa da un peso. Se date accanto ad essa, su di uno strumento musicale, la nota che è capace di rendere da se stessa, vibrerà all’unisono; ma, attraverso lo stesso mezzo, essa risponderà anche a tutte le note dette armoniche della prima. Così per la nostra intelligenza. La tensione particolare che avremo saputo imprimere al nostro spirito, lo metterà soprattutto nello stato di vibrare all’unisono con una certa nota, ma se la dà giusta, se è teso nel modo necessario, esso potrà dare altrettanto bene, seppure più discretamente, mille e mille variazioni armoniche di questo suono fondamentale. Ora, questo adattamento perfetto dello spirito agli oggetti di cui si occupa, adattamento che è l’intelligenza stessa, l’osservazione ci mostra che si può acquistare in larga misura. Esso si acquista grazie ad uno sforzo di volontà. Malgrado le apparenze, non è altro che una concentrazione dell’attenzione, ossia una forma dello sforzo volontario. Più potente è questo sforzo di concentrazione, più profonda e più completa è l’intelligenza. Forse sapete che si stanno cominciando a studiare in modo scientifico, con il metodo sperimentale, quei problemi così delicati che riguardano l’educazione. Quel che l’esperienza metodicamente condotta ci lascia già intravvedere è che in ogni specie di materia, ovunque ci sia un lavoro effettuato per comprendere, il progresso non si compie gradualmente, per transizioni insensibili, come un’osservazione superficiale potrebbe far credere. Esso procede, in certo modo, per scosse brusche. Così, per prendere l’esempio più semplice, quando in un paese straniero facciamo pratica di una lingua che non conosciamo, non sentiamo per molto tempo che dei suoni confusi, tutti simili 160

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tra di loro: giunge un momento in cui distinguiamo più o meno alcune parole differenti e ciò avviene un bel giorno, quasi grazie ad un’illuminazione improvvisa. Lì poi ci fermiamo, ed è grazie a nuovi scatti che si compiranno nuovi progressi. La stessa legge si applica d’altronde a ogni specie di intelligenza, all’intelligenza della geometria, a quella dell’algebra, a quella di tutte le scienze, di tutte le arti, di tutte le professioni. Ora, se si esamina ancor più da vicino quel che accade, se si guarda, per così dire, dietro questi scatti, ci si accorge che ciascuno di essi corrisponde ad un impulso della volontà, a una tensione più elevata di energia interiore, alla risoluzione fermissimamente presa di oltrepassare il punto in cui ci si era fermati e – permettetemi questa espressione familiare – di sollevarsi una tacca in più sopra sé stessi. Oh! È uno sforzo penoso, che esige un dispendio crescente di energia, come se la molla interiore divenisse sempre più dura man mano che la si comprima di più. È uno sforzo che può diventare doloroso, così doloroso che molti di noi rimandano indefinitamente il momento di farlo. Ecco perché vedete tanti spiriti fermarsi a metà strada, accontentarsi di un’abilità mediocre e aspettarsi che l’abitudine la perfezioni. Ma l’abitudine non la perfezionerà. L’abitudine ricava dallo sforzo fatto tutto ciò che esso conteneva, cambia onestamente in moneta il pezzo d’oro, ma non fa altro che cambiarlo in moneta, non mette un soldo di più nella cassa. Ogni progresso reale dell’intelligenza, ogni accrescimento in portata o in penetrazione, rappresenta uno sforzo grazie al quale la volontà ha condotto lo spirito ad un grado di concentrazione superiore. La concentrazione, ecco, miei cari amici, tutto il segreto della superiorità intellettuale. È la concentrazione a distinguere l’uomo dall’animale, poiché l’animale è il grande distratto della natura, sempre in balia delle impressioni che gli vengono dal di fuori, sempre estraneo a se stesso, mentre l’uomo si raccoglie e si concentra. È la concentrazione a distinguere l’uomo sveglio e sensato dall’uomo che divaga e dall’uomo che sogna, poiché questi abbandonano lo spirito a tutte le idee che lo attraversano, quello si raccoglie costantemente in sé stesso, dirigendo senza sosta l’attenzione sulle realtà della vita. È la concentrazione a distinguere l’uomo superiore dall’uomo ordinario, questo soddisfatto di un’abilità mediocre nella quale riposa e si lascia andare, l’altro teso in un’aspirazione a superare sé stesso. È forse proprio la concentrazione l’essenza del genio, se è vero che il genio è una visione di un istante meritata da anni di lavoro, di raccoglimento e di attesa. Sì, fermiamo il 161

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più delle volte il nostro sguardo sulle qualità intellettuali, perché sono ciò che brilla alla superficie; non sappiamo abbastanza che la fonte profonda di ogni energia, anche intellettuale, è la volontà. Grazia, delicatezza, ingegnosità di spirito, fantasie di poeta, invenzioni di scienziato, creazioni d’artista, ecco ciò che si vede: ciò che non si vede, è il lavoro della volontà che si contrae e comprime sé stessa, per spremere dalla sua sostanza queste splendide manifestazioni. Così la rotazione potente della macchina che gira ostinatamente nell’oscuro sottosuolo del teatro si traduce in alto, nella sala, agli occhi degli spettatori abbagliati, in una cascata di luce. Lavorate dunque, miei cari amici, ad alimentare in voi questa sorgente di energia. Raccogliete il vostro sforzo, concentrate la vostra attenzione, date alla vostra volontà la maggior forza possibile perché la vostra intelligenza giunga al massimo punto di irradiazione. Discendete nel più profondo di voi stessi per portare alla superficie tutto ciò che c’è – che dico? – più di quanto c’è in voi. Sappiate che la vostra volontà può fare questo miracolo. Esigete che essa lo compia. Ricordatevi che siete qui per questo, che gli studi che fate valgono senz’altro molto per sé stessi, ma che valgono ancora di più per l’abitudine che vi danno di fissare l’attenzione e di esercitare la volontà. Profittate di questi studi più che potete, prendete la ferma risoluzione di diventare, grazie ad essi, cittadini capaci di mettere un concentrato di energia intellettuale sempre crescente al servizio del proprio paese, tendete sempre di più le molle interiori, non esitate a forzarle quando occorrerà, e dite a voi stessi, benché il superlavoro non sia di moda, che il futuro è di coloro che lavorano al di sopra delle proprie forze.

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Comunicazione all’Académie des Sciences Morales et Politiques

Gli studi greco-latini e la riforma dell’insegnamento secondario1 Non dobbiamo pronunciarci collettivamente sulle riforme da introdurre nell’insegnamento secondario; non ci sarà voto. Ma la nostra Accademia non saprebbe disinteressarsi della questione che un ministro illuminato2 porta in questo momento davanti al Consiglio superiore, davanti alle Camere, davanti al paese, e dalla quale forse dipende il futuro della cultura superiore in Francia. Parecchi membri di questa Accademia hanno pensato che a quelli di noi che vorrebbero dare un parere o emettere un voto doveva essere fornita un’occasione di farlo. Così verrebbe, d’altronde, rinnovata una tradizione, ripresa un’abitudine, alla quale avevamo da qualche tempo rinunciato: quella di discutere tra noi un problema o almeno di passarlo in rassegna, di esaminarne successivamente i diversi aspetti. Tutto è stato detto sull’utilità degli studi greci e latini. Ma vorrei insistere sui vantaggi particolari che essi presentano per l’intelligenza francese, come pure su ciò che da essi può derivare per l’accrescimento della nostra influenza all’estero. Il declino, a maggior ragione la scomparsa di questi studi, ci farebbe nel mondo un torto irreparabile. È questo quello che mi colpisce di più e che mi ha convinto a prendere la parola. 1 Comunicazione presentata all’Académie des Sciences Morales et politiques, nella seduta del 4 novembre 1922, in “Revue de Paris”, XXX, 9, 1° maggio 1923, pp. 5-18; Mélanges, cit., pp. 1366-1379. È interessante notare come in Italia, più o meno negli stessi anni, fosse in corso un dibattito analogo, dopo la riforma Gentile (1923) che aveva istituito il liceo classico come unico istituto superiore che consentiva l’iscrizione a tutti i corsi di laurea. 2 Léon Bérard.

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Sono stato professore di liceo per lunghi anni, in provincia e a Parigi. In provincia avevo a che fare da un lato con ragazzi che uscivano da “retorica” e, dall’altro, con gli allievi più avanzati dell’insegnamento moderno o “speciale”. Tenevo anche corsi alla scuola secondaria femminile, che non si chiamava ancora liceo, e dove non era penetrato il latino. In breve, avevo due categorie di allievi: gli uni ricevevano la cultura greco-latina, gli altri non l’avevano. D’altra parte, essi erano più o meno della stessa età; su certi punti del programma facevo le stesse lezioni, talvolta davo loro gli stessi argomenti da svolgere. Ho potuto così confrontarli tra loro. Il risultato di questo confronto è stato molto netto: la superiorità degli allievi dell’insegnamento classico era sorprendente. Essi avevano seguito, lo riconosco, un corso di studi più lungo, più regolare. Ma questo non bastava a spiegare la differenza, che era non tanto una differenza di grado, se posso dir così, quanto di natura. Per me è risultato evidente che c’è una stretta connessione tra la cultura greco-latina e l’arte di comporre e di scrivere, come pure tra la conoscenza del latino e il sentimento del francese. Su quest’ultimo punto, innanzitutto ciascuno ha potuto convincersi da sé stesso. Ci si sente più forti e più sicuri di sé quando si può risalire al significato originale delle parole. Chi non ne è capace rischierà di usare i termini impropriamente, oppure li maneggerà con certa timidezza, non sapendo fino a che punto preciso giungano le libertà, ossia le licenze, che ci si può permettere con essi. Infatti, una cosa è ricevere belli e fatti i diversi significati della parola, altra cosa è assistere alla loro generazione. La conoscenza, da puramente superficiale, diviene allora interiore e profonda. Ma, dice qualcuno, abbiamo avuto grandi scrittori che ignoravano il latino. È possibile, ma i due o tre che si citano (a torto o a ragione) erano scrittori di genio e il genio è divinazione. I metodi pedagogici sono fatti per la media, per coloro che hanno bisogno di imparare e non per coloro che hanno il dono dell’intuizione. Classifichiamoci sempre nella prima categoria, sarà più prudente. Dovremo studiare il latino se vogliamo maneggiare con assoluta sicurezza il francese. E questo per la lingua. Cosa dire della letteratura? Per regola generale, dubito che si possa comprendere e sentire perfettamente la letteratura francese se si ignora la letteratura latina, se non si è stati iniziati alla letteratura greca, e anche un po’ all’arte greca. Non soltanto perché la letteratura francese è satura di antichità, piena di allusioni a ciò che 164

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fu detto e fatto dagli antichi, ma ancora e soprattutto perché ha ereditato da essi un certo spirito, perché continua la loro tradizione. Se non si afferrano queste allusioni, se non si segue il filo di questa tradizione, si perde molto: non dico che allora non si gusti più la nostra letteratura, ma mi domando se la si comprenda ancora pienamente. È come se ci si lasciasse scappare le armoniche di un suono: la nota resta la stessa, ma non è più lo stesso timbro. Anche qui, d’altronde, ci sono eccezioni. Alcuni, lo ripeto, intuiscono quel che la maggior parte ha bisogno di imparare: un’allusione colta al volo, un’indicazione leggera, per loro è sufficiente. Che volete? Per il sentimento letterario succede come per il gusto musicale. Alcuni nascono musicisti ed entrano immediatamente nel pensiero dei maestri; non è per loro che sono fatti i metodi di educazione musicale. Così per la letteratura. Si può, in certa misura, comprenderla e gustarla naturalmente; ma se occorre una preparazione, nulla varrà di più dello studio degli autori antichi. Andiamo avanti. Questo studio non ci aiuta soltanto ad imparare la nostra lingua e a comprendere la nostra letteratura. In modo generale, esso forma e sviluppa la nostra intelligenza. È stato già detto molte volte. Ma non è inutile ripeterlo e soprattutto indicare in che modo esso formi l’intelligenza, in quale senso la sviluppi. È nella stesso senso in cui si sviluppò un tempo il pensiero greco. Ordine, proporzione, misura, esattezza ed elasticità di una forma che si adatta esattamente a ciò che vuole esprimere, pienezza e rigore di una composizione che rende il tutto immanente a ciascuna delle parti, ma disegna nettamente ogni parte nel tutto, questi sono i tratti che colpiscono subito in ciò che i Greci hanno fatto. Essi caratterizzano quello che chiamerei lo spirito di precisione. È un grande errore vedere nella precisione una qualità naturale o naturalmente acquisita, voglio dire un grado di perfezione al quale l’intelligenza umana si fosse elevata in qualche modo, seguendo semplicemente le indicazioni della natura. Un’analisi attenta delle facoltà intellettuali ci mostra che esse sono state fatte, innanzitutto, per le ordinarie necessità della vita; orbene, per queste necessità, un pressappoco è sufficiente. La precisione è stata un’invenzione. Come ogni invenzione, è nata in un certo luogo, in una certa data; e avrebbe potuto non essere. Forse non sarebbe mai comparsa nel mondo se i Greci non fossero esistiti. Ancor oggi, è il privilegio di una certa parte dell’umanità; si afferma che l’intelligenza orientale, per brillante che sia, è rimasta imprecisa fintanto che non è entrata in contatto con la nostra: anche in 165

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Occidente, le qualità di ordine, di composizione, insomma di precisione, sono generalmente dette “latine”; con ciò si intende che un popolo le possiede nella misura in cui ha conservato per tradizione ed ha alimentato con la cultura, lo spirito latino che continua lo spirito greco. A questo spirito greco-latino dobbiamo ciò che vi è di essenziale nella letteratura, nell’arte, nella scienza. Senza i Greci, l’umanità avrebbe ancora avuto il lirismo, la fantasia, l’umorismo; certamente avremmo avuto la poesia: ma avremmo avuto la prosa? Senza di loro si sarebbe sviluppata una conoscenza empirica del mondo in cui viviamo: ma avremmo avuto la scienza? All’origine della scienza greca e della letteratura greca vi sono qualità identiche o complementari. Riunite, esse costituiscono lo spirito classico. Con esse, in gran parte del mondo, si definisce lo spirito francese. Nessuno dubita che non siamo i principali eredi, o meglio i continuatori, della tradizione greco-latina. Ma la continuiamo solo perché ad essa siamo rimasti attaccati. Tutte le qualità di cui è fatto lo spirito di precisione, le abbiamo conservate grazie a un contatto con l’antichità rinnovato senza posa. Cosa avverrebbe se il contatto fosse rotto? Ricordiamoci del bel paragone di Renan: il vaso vuoto del quale si respira ancora il profumo. D’accordo! Ma non si respira indefinitamente il profumo di un vaso vuoto. Un professore tedesco diceva una volta a Emile Boutroux: “Noi potremmo, a rigore, non insegnare più il greco e il latino; sarebbe a condizione di fare più posto al francese nelle nostre scuole, e a condizione che anche voi, Francesi, foste più che mai attaccati allo studio del greco e del latino”. Parecchie volte ho constatato all’estero che il nome della Francia rimaneva indissolubilmente legato a quelli di Atene e di Roma. Ero in America agli inizi del 19173; ho potuto seguire di giorno in giorno il progresso continuo di sentimento e di idee che condusse questo grande popolo a battersi al nostro fianco. La simpatia per la Francia vi contribuì molto. Questa simpatia era d’altronde di vecchia data; risaliva all’epoca di La Fayette, e anche prima. Si ispirava a una comunanza di aspirazioni, di convinzioni, di ideale. Ma si era accresciuta di elementi nuovi, e in ciò che si provava ora per il nostro paese, c’era accanto a un’ammirazione profonda per i nostri soldati, un’emozione che si era provata alla fine dell’agosto 1914 e che 3 Bergson fu inviato negli Stati Uniti in missione diplomatica dal 24 aprile al 13 maggio del 1917, per discutere dell’intervento degli Usa nel primo conflitto mondiale.

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era sopravvissuta alla sua causa, un timore, un’angoscia: quando il nemico marciava su Parigi e gli Americani non potevano avere, come noi, una fede incrollabile nei destini della Francia, ci si era chiesti laggiù se qualche cosa di incomparabile e di unico, e di cui eravamo i depositari, non corresse un pericolo mortale. Diciamo pure che una Francia meno penetrata di classicismo (di un classicismo che ha fatto la purezza del suo romanticismo) sarebbe una Francia meno ammirata, meno amata; e giacché si fanno valere contro gli studi greci e latini delle ragioni di utilità pratica, consideriamo che un popolo ha un interesse politico di prim’ordine, un interesse vitale, di ottenere la simpatia ammirativa del resto del mondo. Non vorrei essere accusato di esagerazione; non credo quindi di oltrepassare la verità aggiungendo che abbiamo anche un interesse economico nel restare ciò che siamo. È nelle industrie di lusso che noi eccelliamo, laddove occorre eleganza e gusto. Più in generale, i nostri prodotti si riconoscono per la precisione e la rifinitura dell’esecuzione. Il pressappoco di cui altrove ci si accontenta ci ha sempre ripugnato fino a oggi: orbene, lo spirito classico è proprio una reazione contro il pressappoco. Certo, riconosco che i nostri operai non hanno imparato il greco e il latino. Nondimeno, essi lavorano in una società che ha ricevuto l’impronta greco-latina e che l’ha conservata, chiara e ferma, grazie ad un contatto ininterrotto col pensiero antico. Questo contatto è stato assicurato, senza dubbio, soltanto da un piccolo numero. Ma gradualmente, dall’alto verso il basso, si sono sempre trasmesse alla parte meno colta della nazione le qualità, abitudini, esigenze intellettuali che si manifestano per l’ordine, la proporzione, la misura, e che si riassumono nello spirito di precisione o spirito classico. Non vorrei insistere. Gli studi greci e latini hanno fortemente contribuito a fare di noi quello che siamo. Non potremmo rinunciarvi senza cessare un po’ di essere quello che siamo. Come li conserveremo? O piuttosto – poiché occorre vedere le cose così come stanno – come li faremo risollevare? Un punto mi sembra già acquisito. L’esperienza ha mostrato che questi studi, per essere efficaci, devono essere molto approfonditi. Non sono destinati a tutti. Forse mi sbaglio (il nostro amatissimo e ammiratissimo collega Ribot me lo dirà), ma mi sembra che questo fosse il motivo della duplice riforma del 1891 e del 1902. Per condannarla puramente e semplicemente bisognerebbe non sapere cos’era un tempo 167

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una buona classe di liceo (non dico nulla delle altre). Bisognerebbe non aver visto quella coda di “cattivi alunni”, come li si chiamava, che ritardava il progresso dei buoni (la maggior parte, d’altronde, non era e non rimaneva cattiva se non perché non si trovava lì dove avrebbe potuto diventare buona). Si lavorava il più delle volte invita Minerva. Il latino e il greco debbono invece essere studiati con facilità, con gusto, vale a dire con amore. In breve, si imponeva una riforma. Ma una riforma pedagogica è allo stesso tempo un’esperienza pedagogica. Si fa con l’intenzione di domandare ai risultati che essa darà delle indicazioni sulla direzione in cui dovrà proseguire. Risponde, d’altra parte, a certe necessità e le necessità cambiano con le circostanze. Orbene, la guerra ha creato una situazione nuova; oggi è necessario che l’intelligenza francese si tenda fino all’estremo limite delle sue forze, e che otteniamo da essa, in tutti i campi, il massimo di rendimento. D’altra parte, i programmi del 1902 non sono stati compresi dalle famiglie come avrebbero dovuto essere. In un insegnamento senza greco né latino, si vede spesso soltanto un insegnamento più facile, che prepara alle stesse carriere dell’altro e che assicura, con un minore dispendio di sforzo, dei vantaggi equivalenti. Non sarebbe più questa la situazione, se questo insegnamento fosse orientato, fin dall’inizio, in un’altra direzione. Resterebbe letterario per una buona parte. Sarebbe impartito, per quanto concerne le lettere, da insegnanti che avrebbero ricevuto la cultura greco-latina. Ma non preparerebbe più all’università. Non aprirebbe più – almeno all’inizio – l’accesso alle carriere liberali. Si proporrebbe un obiettivo nuovo. Il suo ruolo sarebbe quello di fornire degli “ufficiali” come si è detto, all’industria, al commercio e all’agricoltura. Dal numero e dal valore di questi “ufficiali” dipende il futuro economico del paese, pertanto non abbiamo un insegnamento secondario per formarne lo spirito, né una cultura che sia ad essi realmente adeguata. Un insegnamento primario anche “superiore” non sarebbe loro sufficiente, perché fin dall’inizio certe conoscenze che non si acquistano al liceo – le lingue vive, per esempio – sono loro indispensabili e d’altra parte oggi non è possibile dirigere gli altri e dirigere se stessi tra le difficoltà sempre riemergenti che incontra un’impresa industriale o commerciale, se si è semplicemente immagazzinato un sapere bell’e fatto: occorre avere qualche idea della scienza che si fa, aver imparato ad apprendere, essere pronti a rifarsi studenti per acquisire le conoscenze nuove di cui ci si troverà un bel giorno ad aver bisogno. Queste abitudini di spirito non 168

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si acquistano che nell’insegnamento secondario. Ma allora abbiamo bisogno di un insegnamento secondario che si orienti essenzialmente, fin da principio, a futuri industriali, futuri agricoltori, futuri commercianti, invece di volgere accidentalmente a queste professioni dei giovani che non vi erano destinati, che perciò entreranno senza voglia e senza ambizione, come anche senza una preparazione adeguata, nelle carriere dove la fiducia e lo slancio sono indispensabili per il successo. Questo insegnamento secondario non potrebbe essere né l’insegnamento “speciale” di Victor Duruy, né l’insegnamento “moderno” che hanno inaugurato i programmi del 1891, che ha modificarono, assorbirono e incorporarono all’insegnamento classico la riforma del 1902. L’insegnamento speciale aveva il duplice torto di rimanere primario e di abitare nel liceo, mentre avrebbe dovuto essere secondario e avere una sede sua propria. Era d’altronde troppo breve. Alla parte letteraria erano preposti degli insegnanti che non avevano ricevuto la cultura classica, o che non l’avrebbero più avuta il giorno in cui il personale insegnante che si voleva formare fosse stato completo: come se non occorresse essere ben imbevuti di antichità greca e latina per insegnare le lettere senza greco e latino! Infine, la parte scientifica era troppo limitata: non era chiaro che c’era bisogno di un insegnamento elevato e teorico, per quanto volto all’applicazione e adatto a convertire la teoria in pratica. In breve, l’insegnamento speciale era incapace di formare i commercianti, gli industriali, gli agricoltori di cui abbiamo bisogno; e non poteva rendere alcun servizio all’insegnamento classico avviandovi gli allievi poco adatti ad uno studio approfondito dell’antichità, giacché non si trattava di un insegnamento secondario. Quanto all’insegnamento moderno del 1891 e all’insegnamento senza greco né latino del 1902, essi furono concepiti con tutt’altro scopo. Non si trattava più in questo caso di preparare alle carriere industriali o commerciali. Si istituiva, accanto all’insegnamento classico a base di latino e di greco, un altro insegnamento classico nel quale l’inglese e il tedesco prendevano puramente e semplicemente il posto del greco e del latino. Non so se si intese fin dall’inizio che questo nuovo insegnamento classico avrebbe preparato, come il vecchio, all’università e alle carriere liberali, ma l’assimilazione doveva venire presto o tardi: dal momento che non era rivolto verso la pratica più dell’altro, avrebbe forse preparato a delle professioni differenti? e come si poteva, fin da allora, proibire l’accesso delle carriere liberali a coloro che lo seguivano? Ma allora, gli studi propriamente 169

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classici perdevano terreno, senza che gli studi tecnici ne avessero guadagnato minimamente. A questi ultimi, non si era avviati dall’insegnamento senza greco né latino più che dall’altro; e d’altra parte gli studi greci e latini erano condannati a indebolirsi, probabilmente anche a sparire, giacché sottomettevano lo spirito ad una disciplina più rude ed esigevano più sforzo per assicurare, in fin dei conti, il medesimo titolo. Senza dubbio si ritardò questa scomparsa introducendo, a metà strada tra i due, un insegnamento senza greco, che conservava, in certa misura, il latino: era, tra il classico e il simil-classico, un semi-classico. Ma, d’altra parte, si accelerava questo declino, perché si era dimenticato che dei buoni studi greco-latini richiedono, come complemento necessario, una forte cultura scientifica: sminuito dal versante delle scienze, non preparando più a tutte le carriere liberali, l’insegnamento a base di greco e di latino doveva necessariamente perdere poco a poco gli allievi che hanno più gusto e più facilità per ogni tipo di studi. Sembrava voler escludere quelli per i quali era istituito. Abbiamo bisogno, Signori, di un insegnamento classico completo, che prepari alle Università, alle carriere liberali, alle grandi scuole, e un insegnamento non classico di cui sia chiaro fin dall’inizio che avvia alle carriere industriali, commerciali, agricole, rimanendo sempre secondario. Quest’ultimo potrebbe d’altronde variare secondo le regioni. I due insegnamenti non si dovranno impartire nello stesso istituto: uno dei due sarebbe necessariamente considerato inferiore all’altro, mentre sono del medesimo rango; essi differiscono semplicemente per natura. Chiamiamo “licei classici”, se volete, gli istituti del primo tipo e semplicemente “licei” gli altri. Oppure gli uni potrebbero essere “licei” e gli altri “collèges”. Nel primo caso, la parola collège sparirà; nel secondo, cambierà significato. Poco importa. La parola non rappresenta nulla di ben definito agli occhi della gente. Come si suddivideranno gli allievi tra questi due tipi di istituti? È impossibile indovinare la vocazione di un ragazzo di dieci o dodici anni. Ma si trova forse di più, nella maggior parte dei casi, una vocazione nell’adolescente o nell’uomo adulto? La vocazione è cosa rara, eccezionale. In compenso, si riconosce precocemente i ragazzi che hanno il gusto dello studio e che studiano con facilità. Gli altri sono necessariamente meno intelligenti; possono esserlo in altro modo. Intelligenza significa, innanzitutto, attenzione. Si è tanto più intelligenti quanto più si è capaci di tenere il proprio spirito a lungo 170

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e fermamente attaccato allo stesso oggetto. La superiorità intellettuale non è che una più grande potenza di concentrazione. Ma tutti gli spiriti non sono suscettibili di fissarsi sulle stesse cose, o piuttosto di essere fissati dalle stesse cose. Ci sono di quelli la cui attenzione potrà essere catturata da oggetti puramente teorici e che ameranno lo studio per lo studio. Altri hanno piuttosto il gusto per l’azione. Non si interesseranno alla teoria se non nella misura in cui ne percepiranno l’applicazione pratica. Fate loro intravvedere questa applicazione, trasportateli, con il pensiero, sul terreno dell’azione; farete su di essi una presa inaspettata. Tutti abbiamo conosciuto al liceo dei mediocri, dei pigri, che abbiamo ritrovato più tardi attivi e intelligenti. La vita aveva semplicemente fatto per loro ciò che non aveva saputo fare il liceo: aveva loro fornito l’oggetto capace di interessarli, ossia di catturarne l’attenzione. Il semplice buon senso dice che se abbiamo due categorie di istituti, i ragazzi dovranno suddividersi tra essi secondo i gusti. Beninteso, bisognerà predisporre una comunicazione tra il liceo classico e l’altro. L’allievo che avrà sbagliato strada e che vorrà cambiare, troverà nel nuovo istituto dei corsi speciali che lo metteranno in condizione di raggiungere i suoi compagni. Aggiungo che non è con un esame d’accesso che si farà la selezione degli allievi, la loro suddivisione tra i due tipi di istituto. Un esame forzatamente elementare, superato così precocemente, non proverebbe granché. E d’altronde si avrebbe torto a privare le famiglie della libertà di scegliere. Si provi a rendere il baccellierato classico un esame molto difficile, del tutto diverso dal baccellierato attuale, che non comportasse più un programma superficialmente enciclopedico (questo esame serio, approfondito, diverrà possibile il giorno in cui ci saranno meno candidati): le famiglie esiteranno a far imboccare una strada senza uscita a dei ragazzi che non avessero un gusto preciso e una facilità speciale per lo studio. Il baccalaureato classico sarà naturalmente esigibile per l’accesso all’Università e alle scuole superiori, per tutte le carriere alle quali l’insegnamento classico preparerà. Ma qui come altrove, non alzeremo barriere invalicabili. Ci sono gusti e attitudini che si svilupperanno tardivamente. Se, nel corso di studi secondari non classici o anche di studi primari prolungati, un giovane ha mostrato disposizioni eccezionali per il lavoro che si fa all’Università, non gli chiuderemo le porte dell’insegnamento superiore: sarebbe privare il paese di una forza. Ma chiederemo delle garanzie. Per esempio, i maestri che credessero di aver riconosciuto in lui delle attitudini speciali 171

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sarebbero tenuti ad assumersi, per iscritto, la responsabilità della loro raccomandazione. Successivamente, la Facoltà interessata lo sottoporrà ad un esame. Agli allievi scelti, una parte dei quali, d’altronde, sarebbe stata reclutata nelle scuole primarie con una ampia distribuzione di borse di studio, il liceo classico darebbe, dalla sesta classe fino alla prima, un insegnamento greco e latino e allo stesso tempo francese. Le lingue vive conserverebbero il loro posto attuale. Si spingerebbero gli studi scientifici tanto lontano quanto lo si fa attualmente nella sezione latinoscienze; si potrebbe anche andare oltre in profondità, se ci si estendesse meno in superficie. Non più sezioni, non più la distinzione tra “allievi di lettere” e “allievi di scienze”, finché non giunga il momento di prepararsi ad una scuola speciale. Lettere e scienze dipendono strettamente, si completano reciprocamente: lo spirito classico è géometrie tanto quanto esprit de finesse. Questo sarebbe il programma in linee generali. Che non ci si venga a dire che è troppo oneroso! Lo sarà per classi mediocri nelle quali si applicassero dei metodi antiquati. Ma si può camminare in fretta e bene con allievi di qualità e con dei metodi pratici. Ricordiamoci del tempo che il nostro vecchio insegnamento classico dedicava ai versi latini, al discorso latino, ecc, e di quello che si perdeva a trascinarsi dietro tanti allievi indolenti e sonnolenti. Quando ne avremmo fatto economia, non è più il tempo che mancherà a un insegnamento classico ringiovanito e vivificato. I vecchi metodi erano lenti ed era un male, perché occorre coltivare anche la spontaneità. La si deve ottenere immediatamente, altrimenti si rischia di non averla mai più. I miei ricordi di studente sono rimasti molto precisi a questo proposito: non gustavamo abbastanza gli autori, perché vi arrivavamo troppo tardi, dopo un lavoro troppo duro. Il fine era stato sacrificato ai mezzi e ci eravamo presa tanta pena a raschiare la peluria, che non ci restava affatto più tempo per assaporare il frutto, supponendo che ne avessimo ancora voglia. Perché non si farebbe largamente appello alle traduzioni, soprattutto nei primi anni? Non le raccomanderei a coloro che non leggeranno mai i testi: ne fanno evaporare il fascino e sono sempre un pressappoco; orbene, l’avversione per il pressappoco è proprio quello che cerchiamo prima di ogni cosa negli autori greci e latini. Ma all’allievo che seguirà poi il testo passo passo, in tutti i suoi dettagli, la traduzione dà subito un’’idea dell’insieme. Si rinuncerà a questo metodo appena ci si sarà assicurata grazie ad esso la spontaneità. 172

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Più precisamente, si farà a meno delle traduzioni quando si possiederà il vocabolario. Voi mi scuserete se citerò il mio stesso esempio: è quello che conosco meglio. Avevo fatto delle versioni greche penosamente, a colpi di dizionario, in tutte le mie classi. Arrivato alla filosofia, presi tanto gusto alla lettura del Fedone, cominciata in una traduzione, che mi rivolsi al testo, tenendo comunque presente la traduzione a fronte. Mi accorsi alla fine di una cinquantina di pagine che potevo quasi fare a meno della traduzione; leggevo quasi correntemente l’originale. Sapevo, dunque, entrando nella classe, molto più greco di quanto credessi di saperne. Pertanto, ne sapevo esattamente quanto i miei compagni che forse avevano sempre creduto che non si era insegnato loro il greco. Che cosa non si sarebbe ottenuto da loro e da me, applicando fin da subito il metodo al quale fui indotto per puro caso! Una solida educazione classica, greca e latina, per coloro che rappresenteranno in modo speciale lo spirito francese; un’educazione secondaria senza greco né latino, molto elevata ma di carattere pratico per coloro che dovranno sviluppare la ricchezza del paese: ecco, a mio avviso, quel che devono dare i nostri licei. Tutto ciò non ha niente di chimerico. Non c’è nulla in esso che non sia stato già sperimentato e di cui non si conosca in anticipo l’effetto. Noi abbiamo visto all’opera il nostro vecchio insegnamento classico: sappiamo quali frutti eccellenti poteva dare e sappiamo anche quali ne fossero le pecche, a cosa si dovesse l’insufficienza del rendimento. Abbiamo visto funzionare presso di noi l’insegnamento “speciale” e sappiamo perché non è durato: i risultati ottenuti all’estero nelle scuole dette “reali” ci lasciano d’altra parte intravvedere quel che potremmo fare, lavorando nella stessa direzione a modo nostro, ossia ad un altro livello, su di un piano intellettuale più elevato. Queste sono esperienze già vecchie, che si tratta semplicemente di far servire al nostro scopo presente. Sfortunatamente, la domanda essenziale, in materia di educazione, è proprio quella che ci si dimentica di farsi la maggior parte delle volte prima di tracciare un programma: “Qual è il nostro scopo? Cosa vogliamo ottenere? Che tipo di uomo intendiamo formare?”. Questa domanda comporta senza dubbio una risposta che è di tutti i tempi e di tutti i luoghi: “Noi vogliamo formare un uomo dallo spirito aperto, capace di svilupparsi in più di una direzione. Vogliamo che sia fornito di conoscenze indispensabili e che possa acquistare le altre, che abbia imparato ad apprendere”. Ma questa risposta generica e necessariamente 173

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vaga richiede, secondo i tempi e secondo i luoghi, delle determinazioni particolari. Non sono le stesse conoscenze ad essere sempre e ovunque indispensabili. Non è nelle stesse direzioni che conviene sempre e ovunque preparare lo sviluppo dell’intelligenza. Da dove deriveranno le determinazioni? Necessariamente dalle circostanze. Quelle che attraversiamo ci rivolgono delle parole molto precise e incalzanti. Ci dicono che il tempo dello spreco è passato e che dobbiamo utilizzare le nostre forze intellettuali in modo da ottenere da esse il massimo rendimento. Una divisione del lavoro si impone, che non comporti certamente una specializzazione prematura, ma che assicuri presto il reclutamento di una duplice élite, quella del pensiero e quella dell’azione. Dobbiamo portare al livello massimo la potenza produttiva del paese. Dobbiamo ottenere la più grande somma possibile di pura conoscenza scientifica e di ricerca disinteressata. Dobbiamo infine, dobbiamo soprattutto conservare il genio francese e intensificare tutto ciò che porta in sé di luce, per assicurargli, nel mondo, la più splendida possibilità di irradiarsi. Quest’ultimo compito non si realizzerà senza un contatto fermamente ristabilito con l’antichità classica4.

4 Alla comunicazione di Bergson seguiranno a commento gli interventi di Edouard Le Roy, Henry Berthélemy, Léon Brunschvicg, Émile Bourgeois, Clément Colson, Henri Joly, André Lalande, Fernand Laudet, Charles Lyon-Caen, Alexandre Millerand. Cfr. Séances et travaux de l’Académie des sciences morales et politiques: compte rendu, Alcan, Paris 1923, pp. 71-124.

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Indice dei nomi

Abravanel, Roger: 100 Albalat, Antoine: 109, 110 Arendt, Hannah: 129 Aristotele: 18, 19, 114, 129, 129n, 144n Aubert, Louis: 35 Bardy, Jean: 12n,16n,17n Barrès, Maurice: 91 Baruzi, Joseph: 12n, 62 Belot, Gustave: 66-70, 73-75, 109 Benda, Julien: 109n Bérard, Léon: 89, 90, 94-96, 98-99, 127, 163n Bernard, Claude: 128 Berthélemy, Henry: 174n Beveridge, Albert Jeremiah: 45n Binet, Alfred: 72-73, 77-78 Boirac, Émile: 25n Blondel, Charles: 12, 62 Borel, Émile: 73n, 88n, 102n Bourgeois, Bernard: 12n, 17n, 64n Bourgeois, Léon: 63 Bourgeois, Émile: 174n Bourquin, Constant: 101, 108-109 Brunschvicg, Léon: 64, 174n Buisson, Fernand : 97 Burnet, Étienne: 37n Campo, Cristina: 122, 122n Cartesio (Descartes), René: 22, 32, 56, 87, 88, 101, 103, 109, 123n, 135, 151

Chevalier, Jacques: 81, 82n, 98, 127 Colson, Clément: 174 Cousin, Victor: 12, 26, 26n Couturat, Louis: 21, 68-71 Daudet, Léon: 91 De Biran, Marie-François-Pierre Gonthier (Maine de Biran): 26, 120, 123, 123n De la Coulonche, Alfred Joseph: 15, 15n Delbos, Victor: 41, 41n, 73 Desaymard, Joseph: 16, 16n Du Bos, Charles: 19, 19n Ducos, Hippolyte: 90, 91, 95 Dumas, Jean Louis: 16n, 20n Duprat, Guillaume Léonce: 29n Durkheim, Émile: 127 Duruy, Victor: 63, 169 Estival, Eugène: 12n, 16n Gaston Boissier, Marie Louis Antoine: 143 Gillet, Martin Stanislas: 61, 61n Gouhier, Henri:16n, 31n, 101, 102 Gréard, Octave: 21, 53, 155 Guitton, Jean: 9, 16, 16n, 17-19, 23, 31-35, 43, 47, 48, 53, 122-124 Halévy, Élie: 64, 64n Herriot, François Albert: 90-98, 100n Höffding, Herald: 13, 14n Hollard, Roger: 44n, 106n 175

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Hude, Henri: 12, 16n, 17n, 18n, 20n, 25, 25n, 27, 27n, 28, 28n, 30, 31 James, William: 38, 39n, 120 Jacob, Baptiste Marie: 21 Jarry, Alfred: 12 Joly, Henri: 174 Kallen, Horace Meyer: 102n Lachelier, Jules: 12, 13, 13n, 19, 69, 70, 73, Lalande, André: 64, 65, 69, 71-73, 109, 115, 174 Lapie, Paul: 127 Laporte, Jean: 62 Laudet, Fernand: 174n Le Roy, Édouard: 21, 21n, 56, 65, 66, 70, 174n Léchalas, George: 21, 21n Léon, Xavier: 13n, 63, 64n, 70, 73n Lévêque, Charles: 62 Leygues, George: 63n, 91-95 Lévy-Bruhl, Lucien: 36 Loisy, Alfred: 105, 105n Lourié, Ossip Davidovitch: 49, 49n Lucrezio Caro, Tito: 16, 16n Lyon-Caen, Charles: 174n MacIntyre, Alasdair:130, 130n Maire, Gilbert: 15n, 16n, 36, 36n, 85, 105 Maritain, Jacques: 62, 129 Maritain, Raïssa: 23, 24n, 62 Millerand, Alexandre: 174n Minkowski, Eugène: 36, 36n Mossé-Bastide, Rose Marie: 9n, 14n, 19n, 20, 21n, 23n, 25, 31n, 35, 36n, 53, 55n, 56, 60n, 63n, 85, 105n, 123n Murat, Thérèse [Comtesse]: 41n, 81, 81n

Ombredane, André: 18n Parmenide: 102 Péguy, Charles: 62 Poincaré, Raymond: 21, 53, 53n, 90n, 145n, 155n Pradines, Maurice: 42, 42n Prezzolini, Giuseppe: 107, 107n, 108, 108n Raffalovich, Marie: 56, 62n Ravaisson-Mollien, Félix: 14n Robinet, André : 12n, 13n, 18, 26n, 155n Ribot, Théodule: 62, 120, 167 Rostand, Désiré: 12n Rouchon, Gilbert: 17 Salomon, Charles: 14, 14n, 15, 15n Sandel, Michael: 100 Seillière, Ernest: 109n Socrate: 23, 129n, 144 Söderblom, Nathan : 104n Spencer, Herbert: 13, 16n, 38, 47 Stein, Edith: 122, 122n Strong, Charles Augustus: 29n Sully, James: 15, 15n Taine, Hippolyte: 153n Ta nnery, Paul: 66, 73n Tarde, Gabriel: 62 Taylor, Charles: 129n Thibaudet, Albert: 21, 21n, 31, 131, 131n Tyler Flewelling, Ralph: 108n Vacher, Arnaud: 12n Vieillard-Baron, Jean Louis: 16n Waddington, Charles: 21 Weil, Simone: 121,121n, 122 Werner, Charles: 102, 102n Zenone di Elea: 38, 43, 102

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